Una notte ho sognato che parlavi. Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico 9788852035081

Queste pagine narrano la storia quotidianamente e banalmente vera di Tommy, un simpatico e riccioluto adolescente autist

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Una notte ho sognato che parlavi. Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico
 9788852035081

Table of contents :
Indice......Page 136
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 2
L’autore......Page 4
Citazione......Page 6
Premessa......Page 7
Un bambino tranquillo......Page 12
Un rivelatore di umanità grottesca......Page 16
Ipersensibilità......Page 21
In tandem......Page 26
Genitori emotivamente soppressi......Page 31
Un’armonia perduta......Page 36
Oltre l’era della comunicazione......Page 40
Un sostegno poco di sostegno......Page 45
Aiuto!......Page 50
Second Life......Page 54
Coming out......Page 59
La ragazza in bombetta......Page 63
Prepararsi al peggio......Page 68
Un argomento tabù.........Page 72
Un matrimonio combinato......Page 77
Stato: Libero......Page 83
Diritti negati......Page 88
Il cattivismo......Page 92
Sì e no......Page 97
Una presenza relazionalmente trasandata......Page 101
La nostra anfetamina......Page 105
Insettopia......Page 109
In nome del padre......Page 114
Lui, giovane guerriero......Page 119
Ripartire da Tommy......Page 123
E per finire, un’utopia......Page 128

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Il libro Queste pagine narrano la storia quotidianamente e banalmente vera di Tommy, un simpatico e riccioluto adolescente autistico. E del suo straordinario rapporto con il padre, Gianluca Nicoletti. Di un bambino che a tre anni era tanto buono e silenzioso – forse persino troppo – e di suo padre che, quando un neuropsichiatra sentenziò: «Suo figlio è attratto più dagli oggetti che dalle persone», non trovò tutto ciò affatto strano. (In fondo, era stato così anche per lui: aveva cominciato a parlare tardissimo e ora si guadagnava da vivere proprio parlando; quindi, prima o poi, pure Tommy avrebbe iniziato a farsi sentire.) In seguito, con l’arrivo dell’adolescenza, le cose in famiglia improvvisamente cambiarono: quel bambino taciturno diventa un gigante con i peli, forzuto, talvolta aggressivo, spesso incontrollabile, e Gianluca, chiamato in causa dalla moglie sconfortata, si scopre – suo malgrado – un genitore felicemente indispensabile. «Il padre di un autistico di solito fugge. Quando non fugge, nel tempo lui e il figlio diventano gemelli inseparabili. Tommy è la mia ombra silenziosa» scrive Nicoletti. «È un oracolo da ascoltare stando fermi, e senza troppo arrabattarsi a farlo agitare sui nostri passi. Molto più interessante è respirarlo e cercare di rubare qualcosa del suo segreto d’immota serenità.» E allora ecco il racconto dolceamaro, sempre franco e disincantato, di un piccolo universo quotidiano, fatto di impegnative (per il padre che deve pedalare per due) e piacevoli (per il figlio che va a rimorchio) gite in tandem su e giù per Roma, di meno piacevoli visite negli uffici della Asl per ottenere un permesso di parcheggio per disabili irragionevolmente negato, di acrobatiche organizzazioni famigliari per conciliare lavoro–scuola–terapie– svago (districandosi fra deliziose insegnanti di yoga, esperti di ippoterapia, demotivati insegnanti di sostegno, svogliati operatori sociosanitari), e poi di risse verbali per un posto a sedere in autobus, di quesiti su come gestire la nascente (e prorompente) sessualità di Tommy e su come affrontare «un domani» il suo futuro. Perché l’autismo – di cui si sa ancora pochissimo – non è un disturbo infantile: dall’autismo non «si guarisce». Una notte ho sognato che parlavi è dunque un memoir ironico e commovente, talvolta struggente, spesso allegro, e insieme un libro–verità che racconta con grande coraggio una patologia, troppo spesso rappresentata in modo fantasioso e iperbolico, oggi diffusissima. E, cosa che non molti sanno, una vera e propria emergenza sociale, la prima causa di handicap in

Italia.

L’autore Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della radio italiana, conduce la trasmissione «Melog» (Radio 24) e collabora alla «Stampa». È autore di: Ectoplasmi, Golem, Perché la tecnologia ci rende umani e, da Mondadori, Amen e Le vostre miserie, il mio splendore.

Gianluca Nicoletti

UNA NOTTE HO SOGNATO CHE PARLAVI Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico

Una notte ho sognato che parlavi A noi piace giocare con le visioni, con sguardi laterali, con pregiudizi gloriosi e sventatezze ardite

Premessa Quando Tommy nacque io non c’ero. In quei giorni, invece che aspettarlo, m’ingaglioffivo al Festival della canzone di Sanremo. Ero comunque sicuro di tornare, da quella trasferta di lavoro, in tempo per il parto. Mi ero fidato del pronostico dell’ostetrica cinese, ma la signora aveva sbagliato i conti di una settimana. Tommy è il mio secondogenito. Chiunque venga al mondo dopo il primo radioso figliolo deve rassegnarsi: gli restano ben pochi rimasugli della breve fase euforica di ogni paternità. Fortunatamente, però, nessun figlio minore, alla nascita, si fa un gran problema del fisiologico calo dell’attenzione paterna, in quei momenti serve soprattutto una madre. Immagino, fra l’altro, che sia fin troppo occupato a salvarsi la vita dagli attentati di gelosia del fratello maggiore, che si sente spodestato. (Lo sostengo a ragion veduta perché, da parte mia, tentai l’omicidio di mio fratello ben due volte nel suo primo anno di vita. Lo aggredii alla testa con un barattolo di conserva e, qualche tempo dopo, tentai di sgozzarlo con delle forbici da potatore.) Ho sempre pensato, ancora una volta per mia esperienza, che un figlio capisca d’istinto che ogni consapevolezza di avere un padre è circostanza passeggera, mentre è subito chiaro che, al massimo, si può contare su un intrattenitore, un trasportatore, un gregario al maternage dei primi anni di vita. Quando la vacatio patris dovesse essere segnalata come un’assenza lancinante – nel caso di padre in fuga, padre totalmente emasculato, padre professionalmente oberato – il figlio maschio scolpirà nella sua memoria ogni disagio che gli ha procurato l’uomo con cui mitologicamente rivaleggia per un posto al calduccio fra due tette. Con la crescita trarrà da quell’assenza validi elementi di risentimento, saranno i suoi fedeli alleati per diventare adulto; nulla come i ricordi di fanciullesco dolore sono utili risorse all’indipendenza. Io non credo di essermi adoperato molto perché Tommy potesse coltivare riserve di edificante rancore, per alimentare il mito del parricidio necessario. Questo almeno fino a poco fa. Prima che Tommy arrivasse alla soglia dell’adolescenza, ci fossi o non ci fossi era per lui completamente indifferente. Dal giorno del suo primo attacco epilettico, però, quel mio bimbo gigante è stato capace di riprendersi la mia attenzione, come fosse il primo tra i figli. E ora, che ha quattordici anni, sta occupando a tempo pieno ogni mia giornata. Ormai tutti sanno che io sono

disponibile a patto che me lo permetta la mia appendice. Vorrei essere a mia volta un diversamente normale patentato, ancor più di quanto già mi hanno spesso giudicato. Ma so che, per quanto mi sforzerò, al massimo potrò essere visto come un signore originale, con idee curiose, anche spesso paradossali. Essere un soggetto afflitto da «disturbo generalizzato della comunicazione e della relazione», con tanto di carta bollata, sarebbe per me persino tranquillizzante. Purtroppo, però, io sono dipendente dall’attenzione dei miei simili. Quando m’interessa una persona le parlo, la studio, la turlupino, mi sforzo di tirarne fuori il maggior vantaggio possibile. Lo faccio come chiunque normalmente fa, sia che chieda un chilo di zucchine alla vecchia fruttivendola del mercato Trionfale, sia che aneli a un contatto utile, a una relazione per la vita o semplicemente a una fugace intima dazione. L’autistico è una persona che se ne infischia di tutto questo. Al massimo può dedicare al prossimo uno sguardo stralunato, senza grande trasporto e pensando a chissà cosa. Ma può capitare che, nel mucchio degli «stranieri», ne scelga uno; che lanci un filo impalpabile e accalappi il fortunato. Non si sa quale sia il principio della scelta, né quanto tempo durerà la connessione. Forse per tutta la vita, forse solo per una stagione. Io per ora so che sono stato scelto, non riuscirò più a tirarmi indietro. La letteratura che tratta di autistici è oggi vastissima ma, pur avendone uno in casa, non saprei dire se siano assimilabili a ogni altra forma di disabilità. A volte mi viene da pensare che siano individui nati orfani, indipendentemente dall’esistenza di chi li ha messi al mondo. L’autistico è un perenne estraneo, imprigionato tra gente a lui sconosciuta, inconoscibile, e dalla quale ha pochissime speranze di essere realmente capito. Il nostro problema nei loro confronti è invece la cura. Noi ci affanniamo a portarli a una condizione che giudichiamo salutare, quando in realtà potrebbe essere che loro non abbiano alcuna malattia. Sono solamente disinteressati a condividere i propri pensieri con noi. Ma è davvero importante capirsi? Me lo chiedo osservando mio figlio incartarsi in un «comportamento problema». Quando si sbatte su un divano vuol dire che prova disagio, non vede un senso in quello che sta accadendo intorno a lui ed entra in uno stato ansioso. Non pensa che, comunicando il malessere, forse qualcuno potrebbe aiutarlo a risolverlo. No, non comunica, per quanto ognuno di noi cerchi di fargli capire che dalla sua famiglia non otterrebbe che affetto. Lui non trova utile esprimere un desiderio finalizzato

alla risoluzione di un problema. Se le batterie del suo iPad sono scariche, continua a tenerlo in mano, pur sapendo benissimo come si mette in carica – infatti, se me ne accorgo e gli chiedo di farlo, esegue con perizia l’operazione –, ma non sente la necessità di agire come autonomo istinto, tanto meno gli passa per la testa l’idea che qualcuno possa risolvere quel frangente, per lui sicuramente ragione d’infelicità. Di fronte a una difficoltà lui si arrende; da solo non può farcela, ma non può immaginare se non il vuoto attorno a sé. È come se, per una sua filosofia di vita, giudicasse questa emarginazione mentale ineluttabile. Perciò io penso che ogni autistico sia orfano dalla nascita, e che noi siamo al massimo i suoi genitori adottivi, che spesso si arrabattano invano l’intera vita per essere riconosciuti come tali. Posso quindi ritenermi fortunato di essere stato scelto da Tommy per fargli da padre, proprio nell’età in cui, addentati dai furori dell’adolescenza, i figli in genere prendono i padri a pesci in faccia. Noi psico–abili svisceriamo le nostre vite nell’anelito mai saziabile di entrare in comunione con altre persone, di amarle ed esserne a nostra volta amati, di sopraffarle, di divorarle, di capirle, di essere compresi, adulati, stimolati. Per qualcuno, persino mortificati o umiliati. Ogni nostra angustia, la maggior parte delle volte, è influenzata da un’interferenza di comunicazione. Se per un giorno azzerassimo il bisogno di comunicare che ci rende bestie sociali, saremmo anche noi normalmente autistici. Sia chiaro, non voglio giustificare una patologia, illudendomi che sia uno stato di privilegio: c’è tutta una parte di sofferenza che non può essere sottostimata. Ma il cervello dell’uomo a noi sembra funzionare a puntino, con tutti i meccanismi ben lubrificati, unicamente se accettiamo di usarlo nella relazione. Ogni sfioramento, emotivo o concreto, di un nostro simile ci scaricherà nelle sinapsi tonnellate d’informazioni, sicuramente gratificanti, ma per la stessa e identica ragione anche un gran peso da gestire alla nostra felicità e serena esistenza. Proprio grazie a quest’alchimia inconsapevole, fatta di continuo altalenarsi tra attesa e disillusione, noi siamo comunque classificati come individui nella norma. L’anormale autistico, invece, di questo struggimento fa benissimo a meno, non per scelta, ma proprio per costituzione genetica. Lui è nato libero, ma sembra che noi, quasi per invidia, facciamo di tutto per costringerlo a costruirsi gli stessi legami che appesantiscono le nostre esistenze e che, neanche inventandoci la psicoanalisi, siamo riusciti a elaborare. Il padre di un autistico di solito fugge. Quando non fugge, nel tempo lui e

il figlio diventano gemelli inseparabili. Tommy è la mia ombra silenziosa. Se siamo insieme, lui è sereno e io sono tranquillo. Se non altro, sono sicuro che nessuno mi chiamerà per correre a tranquillizzarlo. Ho preso atto da poco di avere un problema davvero grosso per le mani, ma anche ora che lo so con certezza, se devo essere sincero, non è che la cosa mi turbi molto. Certo, mi sento limitato quando mi accorgo che nel mio tempo la sua presenza è diventata costante, ma è una limitazione legata soprattutto alla mia necessità di continuare a gestire relazioni: se fosse per lui, sono sicuro che gli starebbe più che bene trotterellarmi accanto ovunque io vada e qualunque cosa faccia. Vista così, la mia situazione potrebbe sembrare l’apoteosi del desiderio di ogni genitore d’avere i figli eternamente vicini. Chi ne ha esperienza sa che cosa significhi essere ossessionati dalla loro entrata nell’adolescenza, fatale fine dell’epoca in cui ti riconoscono come autorità e inizio di quella in cui affermano la loro autonomia emotiva, che il più delle volte non coinciderà con la tua capacità di staccarti da loro. Un padre che racconta un figlio in un libro, mentre scrive, pensa al figlio che lo leggerà. Nel mio caso, scrivo e basta. Tommy non mi leggerà mai, perché non gliene importerà mai nulla di quello che io possa aver scritto qui, ammesso che un giorno riesca a fare qualcosa di assimilabile al leggere. Non vorrei suscitare commiserazione, anzi vorrei far riflettere su quale fortuna rappresenti per lui tutto questo: totale inconsapevolezza del concetto di morte, di fine, di tempo che si consuma. Nessuna possibilità di addolorarsi, o sentire la menomazione di una perdita. Nessun pensiero ossessivo del genere: «Cosa mai avrà voluto dirmi mio padre? Cosa non gli ho permesso di dirmi, o lui non ha fatto in tempo a dirmi?», idee fisse che, a babbo morto, servono solo ad angustiare i figli con sensi di colpa inestricabili. Conosco vite consumate nell’interpretazione postuma del pensiero di tutti quelli di cui ci portiamo addosso tracce di patrimonio genetico. Vale soprattutto per l’indecifrabile, e mai certa, figura paterna. Ma non è detto che chi ebbe la responsabilità di ingravidare nostra madre abbia, per naturale conseguenza, anche la capacità di indicarci poi i sentieri della saggezza, o di trasferirci un pensiero capace di strapparci dalla profondità dell’abisso. Ho letto storie di bei papà e dei loro figli autistici fantastici giramondo. Beati loro, a me per ora alletta l’immobilismo totale. Tommy è un oracolo da ascoltare stando fermi, e senza troppo arrabattarsi a farlo agitare sui nostri

passi. Molto più interessante è respirarlo e cercare di rubare qualcosa del suo segreto d’immota serenità.

I Un bambino tranquillo Natalia, mia moglie, iniziò il travagliare per Tommy alla mattina. Era il 26 febbraio 1998. Io, a molti chilometri di distanza, conducevo il mio programma alla radio. Lo seppi solo quando finii la trasmissione. Nessuno mi avvertì, per evitare che potessi interrompere la diretta. Al tempo era così, il mio lavoro era ancora il fulcro attorno cui ruotava e si adattava ogni movimento della famiglia. Passai il tempo del parto al telefono con lei dalla stanza d’albergo, mentre continuava la mia giornata di trasferta, senza interrompere nessuno dei miei impegni: così scrivevo dal letto con il telefono all’orecchio e il laptop sulle ginocchia, ero già allora uno che oggi si direbbe normalmente multitask. A un certo punto, entrò in camera pure una collega di «Avvenire», per farmi un’intervista sul Festival. Tommy nacque verso le 13 e senza problemi. L’ostetrica disse che avrebbe fatto impazzire le donne… La solita gag per lusingare le madri sulla straripante virilità del neonato. Residuali arcaismi puerperali, sopravvissuti al tempo dell’epidurale. Io lo vidi un paio di giorni dopo, quando tornai a Roma: era un coso rosso niente di che. Filippo, il primo figliolo, nato trionfalmente due anni e mezzo prima, era venuto fuori bellissimo, ogni giorno di più sagace e sorprendente; questo affarone, invece, si vedeva che avrebbe abbassato lo standard dell’orgoglio ostentatorio. Non riesco a simulare sentimenti che non ho provato, provengo da una famiglia d’origine onorevolmente anaffettiva e mi ero rassegnato più che altro a subire la volontà muliebre di avere figli. Non mi si venga a dire che la paternità è un istinto; magari può maturare una certa riconoscenza per la natura quando i figli cominciano a crescere e si formano carattere e lineamenti, regalandoti quei fantastici baluginii di déjà vu che ti consolano al pensiero che quel quasi clone è il tuo sberleffo alla morte. Tommy, invece, non aveva nulla dei miei caratteri, salvo quella fessura al mento un po’ da paraculo che fa tanta tenerezza alle donne. Lui non mi somiglia per niente, è la fotocopia di mia suocera. Mai conosciuta, fra l’altro, perché quando incontrai la prima volta mia moglie lei era già orfana da anni. Però di quella signora avevo visto qualche foto e Tommy l’aveva in parte fatta resuscitare. (Anche questo trovo sia uno dei magici paradossi che mi legano a lui. Fa una certa impressione che la persona con cui divido la

maggior parte del mio tempo sia la risultante fisiognomica di una suocera. In effetti, potrebbe rappresentare l’apoteosi della sgradevolezza di un legame familiare, ma non è così per me che mai la conobbi e di cui mi resta solo un sorriso stampato e poi riapparso vivo in mio figlio.) Tommy fu un modello di bontà fino ai tre anni: stava sempre tranquillo e zitto, mai particolari problemi da parte di quel bambino, salvo che, a un certo punto, cominciarono tutti a chiedersi come mai non parlasse ancora. Era stato velocissimo e perfetto nell’appropriarsi di molte sue autonomie fisiologiche. Non ricordo di aver mai dovuto accompagnarlo in bagno, andava, eseguiva e usciva lasciando come se non fosse mai passato. Ecco, mi resta come costante questa impressione che avesse una quasi angelica procedura di evacuazione: come una capretta, sfornava le sue cose, inoffensive quasi fossero biglie di terracotta. Certo, è vero che non parlava, ma mia madre, le rare volte che lo vedeva, sdrammatizzava dicendomi che anch’io avevo cominciato tardissimo a esprimermi a parole. Questo in una certa misura mi rassicurava, ma solo per ignoranza. Pensavo che, in fondo, io mi guadagno da vivere proprio parlando, senza nemmeno aver fatto mai nessuno sforzo particolare per sviluppare questa capacità, quindi, prima o poi, avrebbe iniziato anche lui a farsi sentire. Invece no, zitto… Ricordo che un anno passammo il mese di agosto in una spiaggia della Sardegna molto ben frequentata da colleghi giornalisti e belle persone, più o meno vagamente collocabili nell’universo della creatività milanese. Le notabili signore, magre e abbronzate, avevano figli con fantastici capelli biondi e lisci a caschetto, come se derivassero da una stirpe di angeli caduti, o bei moretti crespi e vivaci, molto ciarlieri e persino poliglotti. Una mamma leggeva in spiaggia la Rowling in inglese alle figlie estasiate, soprattutto lo faceva al tempo in cui io non sospettavo nemmeno dell’esistenza di Harry Potter. Tommy già aveva una selva di capelli ricci e amava cavalcare un grosso cane bianco, che transitava in spiaggia. Naturalmente, tutte venivano sempre a chiedermi perché quel mio figlio ancora non parlasse, con aria contrita e quasi di commiserazione. Forse loro già sapevano: a forza di far rubriche su patinati giornali femminili avranno scritto e letto un mucchio di volte di quelli che, magari stronzamente, chiamano «bambini indaco». Per tacitarle e ostentare anche noi qualche forma d’orgoglio, cominciammo a far girare Tommy senza costumino tra i capanni di asfodelo, dove al tempo tutte le signore leggevano un libro sulla meraviglia di essere

mamma e giornalista allo stesso tempo. So che è un bieco riemergere della mia natura fescennina, da figlio di un frate cercatore e una spigolatrice di granturco della piana d’Assisi, ma ebbi anche la mia compassatissima moglie complice di quello sfrontato rituale di mortificazione fallica. Anche lei aveva una genetica e ricambiata diffidenza per quelle famigliole allargate di politicamente correttissimi signori & signore. Come l’ostetrica dall’occhio clinico fatalmente sentenziò quando lo vide apparire alla prima luce della vita, Tommy nature era in grado di far impallidire padri e madri di ogni etnia e status sociale. Quando passava lui, tutti correvano a ricoprire i propri gioielli per non farli annichilire nell’impari confronto. Certo oggi capirei in un nanosecondo quale sia la diagnosi, se qualcuno mi raccontasse la stessa cosa di suo figlio, ma l’autismo è un mondo che ti galleggia invisibile accanto, non te ne accorgeresti mai se per qualche ragione non ci entrassi dentro con qualcosa che appartiene alla tua carne. A differenza di forme più evidenti di disabilità, queste persone votate al silenzio sono silenziose anche come presenza sociale. È da pochissimo che ne leggo con insistenza, persino troppa a volte, ma sempre e solo perché qualche genitore a un certo punto inizia un attacco al resto del mondo. Si scende in campo con le tecniche ninja del piccolo manipolo d’assalto, che ognuno di noi ha imparato a far muovere veloce e spietato. Il nostro gruppo di fuoco ha un organico all’osso: due persone operative, una terza in appoggio logistico, ma non sempre. Molto più spesso in sonno. Non illudiamoci, un figlio autistico fa tracollare le armonie coniugali, prosciuga le passioni, incanutisce ogni vita di coppia. Avviene, in qualche caso, immediatamente: di solito, come ho già scritto, il maschio scappa e molla tutto sulla madre; fino a poco tempo fa aveva pure la giustificazione che la responsabilità dell’anomalia potesse derivare da omissioni affettive di lei. La «mamma frigorifero» ha assolto parecchi sensi di colpa maschili, almeno me lo immagino. Per chi resta, quando il figlio problematico comincia a lambire la condizione d’adulto iniziano alcuni oggettivi problemi di gestione. Occorre, allora, con santa pazienza cercare di farsene carico assieme, mentre scoppia la guerra in famiglia tra chi sia più o meno eroe da prendersi il fardello. (L’autistico diventa il catalizzatore di tensioni sopite, ma sicuramente già esistenti. Spesso fa saltare il tappo del non detto, che potrebbe essere considerata un’altra delle sue innegabili doti di rivelatore di realtà

sommerse.) Non è che poi esista molta scelta: lo si può affidare a un istituto di matti generici, ma ti viene l’angoscia che guarderebbe il soffitto la maggior parte del tempo, o si può ascoltare chi ti consiglia di potenziare la sedazione, ma, almeno per ora, a me darebbe la sensazione ingrata di aver scelto una via facile per sottrarmi all’impegno verso mio figlio. Se però queste scelte non ti sembrano accettabili, ti troverai impegnato per il resto della vita in un lancinante tira e molla alla ricerca dell’equazione impossibile, quella capace di risolvere il problema dell’incastro tra vite convenzionalmente organizzate e lui. La prima volta in cui capii che qualcosa non andava fu quando Tommy, ancora molto piccolo, fu visitato da un neuropsichiatra. Dopo averlo messo a terra tra un mucchio di giocattoli, mi disse: «Vede? È più attratto dagli oggetti che dalle persone…». Non diedi però eccessivo peso alle sue parole e, per un paio d’anni ancora, restai nell’inconsapevolezza. Pensai subito che anche a me accade la stessa cosa: le persone in genere mi interessano se sono interessanti, altrimenti molto meglio osservare oggetti inanimati, e che se, pur in questa particolare attitudine «patologica», io riesco a guadagnarmi da vivere parlando, il problema di Tommy evidentemente non era quello. Fu strano che capitassi con Tommy da uno psichiatra, ma mi ci mandò al volo l’infermiera di un noto ortopedico da cui eravamo andati perché, pur essendo un abile gattonatore, a quindici mesi ancora non si era deciso a camminare. La donna in camice aveva già pronto in mano il biglietto dello specialista, che aveva lo studio in un palazzo accanto, nell’elegante Quartiere Coppedè. Ci avrebbe ricevuto di lì a un’ora. Fu un tempo infinito, in cui mia moglie e io girammo in tondo sul marciapiede attorno a uno di quei deliri primi Novecento costruiti per sembrare case di fate. Spingevamo il passeggino con Tommy e ci chiedevamo cosa mai c’entrasse un neuropsichiatra con i piedi di nostro figlio. Fu la prima soffocante e implacabile sensazione che quella creatura avesse qualcosa che solitamente si pensa possano avere sempre e solo i figli degli altri. Se allora qualcuno mi avesse detto chiaramente di che si trattava, non avrei perso almeno altri tre o quattro anni ad aspettare che chissà chi lo rendesse «normale». Avrei iniziato subito a darmi da fare per il massimo bene di mio figlio, ma anche a esercitarlo perché fosse il mio oracolo segreto.

II Un rivelatore di umanità grottesca Tommy è spesso il mio radar sull’umanità: tengo sempre in osservazione speciale chi a lui sta sulle palle, fidandomi del suo pregiudizio fulminante, perché so che alla fine ha sempre ragione lui, che non si lascia condizionare dall’apparenza, che non osserva la mimica, che non valuta le parole. Un figlio autistico è un fantastico rivelatore di umanità grottesca. Di fronte a Tommy cade la maschera. Portandomelo dietro per uffici mi accorgo subito di chi esiste unicamente per il ruolo che occupa e nonostante la propria inconsistenza. «Scusi se non prendo il foglio in mano, ma mi sono appena messa la crema…» Me lo disse una dottoressa, medico legale dell’Asl, mentre mi rifiutava il permesso di parcheggio per disabile. Tommy è un toro, chiaro che cammina con le sue gambe, ma non può fare un centimetro di strada se non ha qualcuno accanto. Ogni tanto decide di piantarsi e non lo muove nemmeno un’autogrù; idem se prende a correre, è difficile trattenerlo; nel caso malaugurato in cui avesse un attacco epilettico poi… Inutile spiegarlo alla dottoressa che si stava dando la crema, dovrò metterci un avvocato, far casino, ricorrere al Tar. Che stanchezza che per ogni piccolo passo avanti occorra riempire tonnellate di moduli, fare valanghe di verifiche, ricominciare ogni volta da capo per dimostrare quello che dovrebbe essere palese solo con uno sguardo attento. Il cruccio dell’autistico è anche, in fondo, il suo unico riscatto; lui per essere considerato disabile forse dovrebbe avere addosso segni evidenti della sua patologia, e invece la maggior parte delle volte è bello. Tommy non mostra lo stigma evidente della sua diversità e questo, se da una parte è un piccolo ristoro, dall’altra costringe però sempre a spiegazioni. Esempio numero uno: per strada non riesce a resistere alla tentazione di staccare dal muro tutto quello che di carta c’è attaccato. In tempo di elezioni è impossibile passeggiare tranquilli: lui deve fermarsi ogni attimo perché scorge un invisibile lembo di carta sollevato, dal quale pazientemente riesce a staccare l’intero cartello, facendolo tutto in pezzi piccolissimi che spesso è velocissimo a disperdere nell’ambiente, senza che chi lo accompagna riesca a intercettarlo per gettarli negli appositi cestini. Spesso accade, allora, che qualche signore, o signora, molto a modo si senta in diritto di rimproverarlo. Non tenendo minimamente conto di chi gli sta davanti, lo rampogna ad alta

voce: «Ragazzo, non ti hanno insegnato a buttare la carta nel cestino? Non si sporca il marciapiede!». Lui, com’è ovvio, nemmeno lontanamente si pone il problema di replicare, facendo così inviperire ancora di più il solerte educatore non richiesto. È desolante osservare come ci sia un’umanità il cui principale imperio sia quello di salvaguardare il decoro e l’osservanza delle buone maniere. Sono l’espressione più tipica e stantia del classico grafomane da rubrica di giornale. Quello che scrive: «Ma dove arriveremo? Povera Italia!», e invoca ire talebane verso ogni espressione altrui che giudica una caduta di gusto. Che ne sanno codesti paladini del nitore stradale di cosa sia il gusto? Ogni cartello appiccicato con faccioni di candidati, o locandina pubblicitaria, è già uno sfregio orribile anche per la più modesta delle architetture. Tommy non è un devastatore, semmai contribuisce al ripristino di uno stato di armonia che il cartello deturpa… So che lo racconto a me stesso per dare un senso a quello che senso non ha ma, comunque sia, cosa mai potranno insegnare a mio figlio quegli omarelli col cappellino e il giubbotto da pescatore senza maniche? Cosa ne sanno dell’arcano imperativo interiore per cui Tommy non riesce a tollerare lembi di carta sollevati? Che cosa vogliono da noi quelle signore con i ricciolini metallizzati e le scarpe che comperano in farmacia calzate come stivaletti malesi? Oltre agli ignoranti cronici, ci sono pure i sospettosi che ti guardano male perché pensano che in fondo avere un figlio con handicap comporti alcuni ambiti vantaggi, per esempio il permesso per il parcheggio entro gli spazi gialli. A me l’hanno in un primo tempo negato, perché Tommy può deambulare, d’accordo, ma nel mio quartiere è quasi impossibile parcheggiare, sono circondato da mastodontici Suv e leggiadre Smart tutti dotati del tagliando con la carrozzella, e molti parcheggiano la sera davanti alla palestra fighetterrima sotto casa mia dove si tiene il corso di Pilates e di Zumba fitness. Quando chiedevo ai «colleghi» con figli autistici muniti di permesso come avevano fatto a ottenerlo, calava un certo imbarazzo. Qualcuno mi suggeriva di farmi fare un certificato aggiuntivo che diagnosticasse problemi motori. Alla fine il permesso riuscii ad averlo, anche se spesso qualcuno che vede Tommy scendere dall’auto e camminare con le sue gambe fa la faccia disgustata. Io me ne frego e ricordo quando anche camminare per lui sembrava un problema. La sibillina sentenza dello psichiatra sul fatto che era attratto più dagli

oggetti che dai cristiani l’esorcizzammo ampiamente quando, solo un paio di settimane dopo, lui iniziò a camminare spedito. In fondo, era quello il problema che maggiormente ci angustiava e per il quale eravamo di casa dall’ortopedico del Coppedè. Anche i suoi primi passi furono in verità degni di balzana memoria. Tommy iniziò a muoversi da solo tra le botti di vernaccia di una cantina di Cabras, e la persona che gli diede l’avvio a muoversi con le sue gambe fu il caratterista Benito Urgu, noto per fare la macchietta del pastore sardo. Non so come accadde, eravamo in visita in una fantastica azienda vinicola, Tommy restò un attimo in affido all’amico Benito, lui, forte della sua altezza non eccessiva, lo faceva passeggiare tenendolo per le braccia, altrimenti sarebbe tracollato come eravamo abituati a vedere. A un certo punto, mentre eravamo intenti in assaggi, vedemmo Tommy sbucare deciso zampettando in perfetto equilibrio e da solo correr fuori da un camminamento tra file di botti altissime. Io pensavo di aver bevuto troppo, ma fu soltanto per un attimo. E mi convinsi che, se il mio ragazzo poteva camminare, del resto non mi sarebbe importato nulla. Sinceramente, lo penso anche ora che mio figlio ha quattordici anni, mentre mi sto leccando il sangue dopo un piccolo scontro fisico con lui. Gli avevo immobilizzato le braccia e l’avevo messo a terra, ma lui ha imparato a lavorarmi di tallone sul filo della schiena e non ci va giù leggero. Come ho mollato la presa, ha provato a menarmi; colpisce ancora a mano aperta con le grinfie taglienti come quelle di Freddy Krueger, ma aveva ragione, ho cominciato io col dargli uno schiaffetto perché con insistenza mi pizzicava i lobi di entrambe le orecchie fino a infilarmi le unghie nella carne: è chiaro che alla fine un po’ possa incazzarmi… Io conosco i sintomi di un «comportamento problema». Sono rari, ma vanno saputi fronteggiare. Tommy è veramente un gigante. Le mie giacche a vento gli stanno striminzite, mi sovrasta di quasi un palmo e porta già scarpe un paio di numeri più delle mie. È un colosso tenerissimo e mansueto, salvo quando deve assolutamente farti capire che è contrariato da qualcosa, e basta un impercettibile episodio a rompere improvvisamente la sua serena routine. Mi accorgo subito che sale di giri, ha una maniera tutta sua per manifestarlo con la voce e con un’improvvisa raffica di stereotipie che annunciano l’allarme rosso. Non è difficile allora distoglierlo e farlo deviare fino alla riconquista di uno stato meno critico: immagino che sia come per il nocciolo di un reattore atomico, oltre un certo livello però inizia la reazione a

catena. Spesso mi diverto a fare un po’ di combattimento simulato con Tommy. Le arti marziali mi appassionavano da ragazzo ed erano almeno trentacinque anni che non provavo di nuovo la sensazione di un combattimento corpo a corpo. L’arte marziale è disciplina e lui ha bisogno di fare esercizi di coordinamento. (Ha anche una deliziosa insegnante di yoga, che viene per la terapia nel mio studio attrezzato con «area Tommy». Mi piace quando dalla mia scrivania li sento entrambi modulare il mantra d’inizio.) È accaduto anche questa volta che, quando ha cominciato ad annoiarsi, ha preso a strizzarmi le orecchie e siamo finiti a menarci (io naturalmente solo in difesa): mi sono preso un paio di bei calci prima ancora di rendermene conto e di contorno mi ha lasciato uno sfregio su una guancia e un bel taglio su una mano. Tutto scomparirà in qualche giorno, ma le «armi» di Tommy sono imprevedibili e lasciano segni singolari. Come se avesse un’innata capacità di usare con maestria mani e piedi per offendere chi rappresenti la causa di un disagio. È strano, sto provando un senso di fierezza, anche se qualche osso mi fa male. Bisognerà che chieda consiglio agli educatori, se non sia pericoloso dare a Tommy nozioni di combattimento. Pericoloso per me naturalmente, e per chi gli sta accanto. Uno dei motivi per cui la madre da qualche mese lo teme è proprio un comportamento del genere. Lui le ha dato una «spintarella» e lei è caduta facendosi male a una costola. In quel caso è stata una tragedia, con pianti e panico diffuso. Io mi ero fatalmente allontanato da qualche minuto e, come spesso accade, in quel frangente è successo di tutto. Una madre picchiata dal figlio si vede probabilmente crollare addosso tutto un castello emotivo, fatto di tenerezze, allattamenti al seno, culetti profumati al borotalco, primi dentini, riccioli d’oro, morbilli, varicelle e tachipirine. Molte madri di ragazzi come Tommy raccontano di botte vere che quotidianamente si prendono dai loro figli. È la seconda cosa vergognosa di cui non parlano volentieri (della prima, forse, racconterò più avanti…). In quell’occasione ho visto mia moglie veramente traumatizzata: tra me e me pensavo esagerasse, facesse la solita tragedia da donna, magari per farmi crescere il senso di colpa per non essere stato lì… Nessuna scena, era davvero giù. Potrebbe sorprendere qualcuno il leggere le due righe qui sopra: «Come fa un uomo a pensare una cosa simile! O è pazzo o è spietato…». Nessuna delle due, almeno in percentuale elevata. Il fatto è che la gestione di un figlio

del genere diventa la palestra di scontro reale tra due esseri umani che vivono assieme da anni. È un’esperienza logorante per ogni rapporto tra coniugi, credetemi. Nessuna interferenza d’ordine sentimentale, erotico, passionale potrebbe minare così alla base un matrimonio quanto il doversi spartire l’accudimento di simili esserini. Sono cari e fantastici da tenersi accanto nei momenti di relax, ma sono dei condizionatori di esistenza implacabili. Siccome siamo civilizzati a un punto tale da non poter dare loro colpa di tutto questo, ce la prendiamo con i nostri compagni di caserma. L’autistico in casa istiga al nonnismo familiare.

III Ipersensibilità La prima volta che decidemmo di mandare Tommy al nido nulla sospettavamo delle sue difficoltà. Eravamo convinti che fosse un bambino docilissimo, passava intere giornate dentro il suo box, a giocare come un criceto nella gabbietta con anelli e cubetti colorati della Chicco. Amava quelle palestrine attrezzate che dovrebbero stimolare l’infante steso sulla schiena, fino a indurlo a gattonare alla ricerca di animaletti sonori, appesi sopra alla sua testa. Io approfittavo molto di questa sua tranquillità perché mi permetteva di seguire con massimo diletto il figlio maggiore che, a quasi tre anni, iniziavo ai misteri dei videogame. Il mio pomeriggio avanzato/serata tipo era con Tommy nel box sommerso da giocarelli e Filippo che si arrabattava con la tastiera Confy, una rudimentale interfaccia israeliana che permetteva di fare piccoli percorsi didattici interattivi a 8 bit digitando su grossi tasti colorati, rispondendo al telefono, usando a piacere i vari personaggi della storia. L’indicazione sull’asilo nido più adatto a Tommy la ottenemmo dalla più sbagliata delle consigliere. Una nostra amica, molto osservante e in continuo colloquio con ministri del Padreterno, ci suggerì un fantastico asilo di suore. A suo dire efficienti e amorose. Nessun pregiudizio da parte mia sulle suore, ne frequentai io stesso molteplici e, essendo sopravvissuto, pensai non ci fossero problemi a mandarci anche lui. Fra l’altro l’asilo era molto comodo, perché a un passo da casa. Tommy fu quindi ricoperto di un maxigrembiule blu e accompagnato ogni mattina fino alle mani caritatevoli della suora accettatrice. Solo dopo qualche settimana, durante il tragitto d’andata, mi parve di vederlo particolarmente agitato. Fu così che, violando le consegne dell’istituto, quando andai a riprenderlo entrai nel salone dove stavano giocando i bambini. Cercai Tommy con gli occhi in mezzo a quell’agglomerato urlante e lo vidi accucciato faccia a terra con le manine strette sulle orecchie come fosse ferito dal baccano in quello stanzone. Chiesi spiegazioni a una specie di ragazza sessantenne con i capelli tagliati a spazzola e lei mi rispose che Tommy stava tutto il giorno così, ma che col tempo si sarebbe abituato. Da quel giorno capii che qualcosa non funzionava. Non tanto in lui, quanto nella santa scuoletta, così piena di Madonne e mazzi di gladioli. Ogni tanto rivedo Tommy in quella posizione, raggomitolato con la faccia

sul pavimento. Anche ora che è cresciuto, quando vuol segnalare un disagio, come la paura per un evento imminente che non riesce a elaborare, lui si tappa le orecchie. Immagino che sia perché, come tutti i suoi «colleghi», ha un’ipersensibilità all’udito, ed è facile che alcuni suoni su frequenze particolarmente alte gli feriscano i timpani prima che a ogni altro normodotato. Per questa ragione per anni ci sono state interdette tutte le manifestazioni in cui fossero anche solamente visibili degli altoparlanti. Nessuna recita scolastica, nessun concerto, teatro, rappresentazione di strada, persino. Facevo larghi giri per non passare per via Cola di Rienzo dove c’era sempre un artista di strada vestito da pagliaccio con una colomba bianca tra le mani. Il personaggio l’attirava, ma la musica di accompagnamento, emessa da un piccolo registratore sul marciapiede, lo atterriva. Al cinema invece non ha problemi, stranamente, e neppure davanti alla tv, anche a volume alto. Evidentemente molti dei suoi fastidi dipendono dal tipo di propagazione di un suono, come se intercettasse i flussi sonori attraverso un ricevitore dislocato anche a distanza dalle sue orecchie. Gli autistici sono tutti dotati di un apparato radar, non ne ho mai avuto dubbio. La patologia indicherebbe una loro indifferenza all’ambiente esterno, io credo che percepiscano piuttosto i «pieni» nello spazio in maniera sensorialmente alterata rispetto a quella che noi consideriamo la norma. Mi spiego meglio: gli autistici hanno una capacità di zoom sensoriali immediata, e apparentemente immotivata, o meglio non rispondente a un bisogno o senso di utilità. Per questa ragione noi riteniamo che sia solo una delle loro tante manie l’attenzione ad alcune piccole imperfezioni delle superfici lisce. Ho detto che Tommy strappa ogni foglio di carta che vede attaccato a un muro se appena scorge un infinitesimale pezzetto incollato male, che si solleva dalla superficie. Per lui quello è l’invito alla rimozione totale di tutta la materia che non aderisce perfettamente alla parete. Un desiderio profondo di armonia, o di nitore delle superfici, che lo spinge a staccare con le dita ogni imperfezione, ogni incertezza, instabilità, condizione precaria. Questo vale per un filo che sporge da un tessuto o per un bottone che si è allentato, come per la cover di plastica dell’iPad2 che, se percorsa nei bordi con il polpastrello, ha un impercettibile scalino tra la plastica dell’involucro e l’alluminio del corpo del tablet. Giorno dopo giorno, pezzetto dopo pezzetto, quell’asperità viene spazzata via… Naturalmente, alla fine, anche la cover si stacca e va sostituita. Ogni fessura su un cuscino di divano diventa una

voragine con il suo lento, ma implacabile, lavoro di demolitore. In effetti l’autistico dà sfogo concretamente, e senza farsi problemi di eventuali danni alle cose, a un’attitudine che ha ogni bambino, che poi abbandona da adulto. La mia generazione si spalmava l’interno delle mani di Vinavil durante l’ora di educazione artistica; il piacere era di spellarsi in maniera incruenta la colla disseccata, come fosse una muta di serpente. L’autistico fa qualcosa del genere per tutta la vita, ovunque trovi qualcosa da grattar via. La stessa singolarità, ma applicata al senso della vista, porta l’autistico a far caso a particolari minuscoli che sfuggirebbero a chiunque di noi. Non riesco a dimenticare un episodio che sfiora i limiti dell’assurdo. Una volta, a causa di lavori di ristrutturazione, siamo stati costretti a rivolgerci a una ditta di traslochi. Gli addetti hanno sgomberato casa portando via mobili e suppellettili per un paio di mesi circa, il tempo necessario ai lavori. Gli oggetti più piccoli erano stati riposti in alcuni scatoloni bianchi con il logo della ditta e chiusi con del nastro adesivo. Tutti noi assistevamo all’inscatolamento dando indicazioni e sorvegliandone la corretta esecuzione. Per questa ragione anche i giocattoli dei ragazzi finirono negli scatoloni, tutti uguali tra loro e senza che nessuno pensasse di scriverci sopra cosa contenevano. Tommy, al tempo avrà avuto sei–sette anni circa, coltivava una passione, mai scemata, per i cartoon della Disney (anche oggi li divora continuamente navigando su YouTube con il suo inseparabile iPad). Allora poteva guardarli solamente su supporto Vhs. Dunque le sue cassette furono messe negli scatoloni, lasciandone fuori alcune che avremmo portato con noi in vacanza. Quando tornammo, a lavori finiti, tutti gli scatoloni furono riportati a casa e ricordo che erano talmente tanti da formare una muraglia di cartoni bianchi che occupava metà del salotto. Non avevamo fretta di aprirli, per ovvi tempi di adattamento alla nuova casa ristrutturata, Tommy però non poteva aspettare e reclamava una cassetta in particolare, mi pare fosse Il gobbo di Notre Dame o qualcosa di simile. Attaccò a fare la sua richiesta con quella martellante insistenza che lui solo sa applicare con somma maestria, come fosse un massaggio di carta vetrata ai nostri nervi più sensibili. Provai a fargli capire in qualche maniera che quella cassetta era stata messa a caso in uno di quegli scatoloni che avevamo davanti, e avrebbe dovuto aspettare che li aprissimo tutti per averla. Lui sembrava invece molto deciso e ci indicava una scatola, assolutamente identica alle altre, posta a metà della pila di quelle accatastate contro il muro. Siccome la sua insistenza stava diventando insopportabile, decisi di

arrampicarmi con una scaletta e lentamente cercare di estrarre quello scatolone dal mucchio, tanto per accontentarlo e sperare che la finisse. Com’è facile immaginare a questo punto, naturalmente quella scatola conteneva, assieme agli oggetti più disparati, anche la cassetta che Tommy cercava. Ho raccontato per anni questo episodio quasi come un’esperienza paranormale, proprio perché come tale l’avvertii allora. Anche se la spiegazione razionale era semplicissima: Tommy aveva mentalmente fotografato il momento in cui qualcuno aveva messo la cassetta nello scatolone. Ed erano state memorizzate anche le impercettibili differenze che segnalavano quella scatola tra decine e decine di altre, ai miei occhi assolutamente identiche. Ci saranno state magari una piccola piega del nastro adesivo o un’irregolarità del cartone, per noi invisibili, ma per lui capaci di dare un’identità a ognuna di esse. Questa caratteristica mi sorprende ancora molto ogni volta che Tommy compie simili imprese da Mago Silvan. Potrei citare quell’insondabile mattino in cui avevamo deciso di andare a passare qualche giorno nella nostra casa in montagna. Tommy, quando capì l’intenzione, fece il diavolo a quattro per dissuaderci. Lui in questi casi sa essere molto convincente, quindi restammo a Roma per evitare massacranti ritorsioni per tutto il tragitto autostradale: sapevamo bene come l’attività di martellante disturbo fosse una delle sue più efficaci interazioni familiari. Non pago, la stessa notte non si decideva a prendere sonno, fino a che, verso mezzanotte, lo vedemmo entrare in camera e infilarsi a letto con noi. Lasciammo fare, era ancora un bambino e non quel gigante che oggi, quando si mette in testa di far la stessa cosa, obbliga uno dei due genitori, per ragioni di spazio, a emigrare altrove. Poi qualcosa di terrificante ci svegliò improvvisamente nel cuore della notte, per la precisione alle ore 3.32. Si trattava del riverbero che avvertimmo a Roma di quel terremoto che il 6 aprile 2009 sconquassò l’Abruzzo, assieme alla nostra casa di montagna che, a distanza di tre anni, è ancora inagibile. Mi rendo conto che sto alimentando quelle isole dell’illusione tipiche dei genitori di ogni autistico: sarebbe una consolazione l’idea di avere a che fare con una specie di alieno sceso da un altro pianeta… Anche se razionalmente sappiamo che ogni comportamento balzano è tutto merito di una particolare miscela di codice genetico e che nessuna civiltà superiore ha mandato sulla terra le sue avanguardie sotto forma di bambini indaco, cristallo o arcobaleno. Di simili idiozie può anche arricchirsi il palinsesto della tv dei misteri, ma trovo sia criminale illudere i genitori dei ragazzi autistici, iperattivi o

comunque problematici, di avere a che fare con i messaggeri di una nuova umanità o piccoli sciamani stellari che dovrebbero aiutarci a evolvere. Io amo a volte la menzogna perché è assai più divertente della cruda verità, ma tendo sempre a frenare in me ogni tentazione di leggere arcani messaggi nei comportamenti a volte indecifrabili di Tommy. È più utile che io cerchi di capire cosa renderebbe lui meno ansioso e più felice, piuttosto che inginocchiarmi come di fronte a un piccolo Buddha e aspettare di essere illuminato dalle sue tenere e prevedibili follie.

IV In tandem È un periodo che ho l’impressione che tutti in famiglia continuino a fare quello che hanno sempre fatto, o comunque non debbano ogni giorno rinunciare a nessuno dei propri doveri, visto che i piaceri ormai non appartengono nemmeno alle speranze più remote. C’è chi deve andare a scuola, e naturalmente ci va, chi deve fare il suo corso in palestra, e senza dubbio lo fa. Io solo non posso immaginarmi altro che farmi carico di Tommy. Credo sia una psicosi che si alimenta nella paura dell’ineluttabilità di questo tipo di vita. Razionalmente penso non ci siano possibilità che la situazione possa un giorno cambiare, a meno che io non riesca a inventarmi qualcosa di folle e impensabile. L’unico spazio per me insopprimibile è la diretta radio che devo fare ogni giorno dalle dieci alle undici di mattina, in tutto un paio d’ore, comprese le trasferte e il necessario tempo di preparazione. Per il resto «copro». Copro l’accompagnamento e il ritiro da scuola, copro il pomeriggio fino all’ora di andare a letto. Ciò significa che, eccetto qualche rara eccezione, previo accordo con una badante, io devo arrangiarmi facendo parte del mio lavoro (scrivere in primis) da casa, con un occhio e un orecchio su di lui. Nonostante ciò, non mi sembra poi di adoperarmi abbastanza per Tommy. Lui passa varie ore con l’iPad in mano, guarda video su YouTube che seleziona velocissimo, seguendo sue particolarissime e indecifrabili derive. Il resto del tempo disegna, ma si stanca quasi subito. A volte usciamo per una passeggiata, da quando mi sono comprato un tandem e lo porto un po’ in giro per Roma, che è la città più refrattaria ai ciclisti che esista. Premetto che è una fatica immane dover pedalare con un tipo di quasi ottanta chili dietro che, fra l’altro, è pochissimo collaborativo sui pedali. È difficile ripartire a un semaforo, affrontare un tratto in falso piano, muoversi con destrezza nelle piste ciclabili. Mi sono venute delle vesciche sulle piante dei piedi: non ero abituato alla bici e ne ho fatta un’indigestione in un paio di settimane. Poi, necessariamente, ho rallentato. Una mia amica ciclista, saggia e affettuosa, ogni tanto mi spaventa dicendomi che devo stare attento a non farmi venire un infarto, visto che ho una certa età. (Lei è un po’ fissata con le malattie, fa parte di quelle donne che guardano noi maschi come possibili oggetti da accudire, e forse per loro non siamo interessanti se non con le cannule al naso.) Invece penso che l’ultima immersione totale nell’universo di Tommy mi

abbia molto rafforzato nel fisico, non è da tutti i genitori riuscire ad avere un rapporto così paritario con un figlio adolescente. Come ho già detto, è questa l’età in cui di solito i figli maturano un sano e salvifico ribrezzo graduale nei loro confronti. Ho infatti difficoltà ad abbracciare il mio figlio maggiore, Filippo, che nella migliore delle ipotesi cerca di nascondere il suo essere infastidito. Affrancarsi dalla fanciullezza significa anche scrollarsi di dosso ogni legame di «fisicità» con i genitori. Un po’ dispiace, certo, ma alla fine sappiamo tutti che è meglio così. Invece un figlio autistico come Tommy, che abbraccia e si fa abbracciare, ci permette di rimanere per un tempo indeterminato in quella zona dell’affettività filiale che altrimenti non ci sarebbe più concessa. Non è così per tutti. Una cara «collega» mi confessa il suo cruccio per il figlio che nemmeno la guarda: lei non può neppure sfiorarlo tanto si dimostra infastidito. Come molti di noi, lei ha rinunciato a gran parte della sua vita per quel figlio, e non è ripagata neppure da uno sguardo d’intesa. Comunque fa ugualmente tutto per lui, magari spera di cogliere segni impercettibili di gratitudine, forse lei stessa li allucina, e immagina che esistano nuovi codici da decifrare in quello strano rapporto. In questo caso mi ritengo fortunatissimo, ho avuto in dotazione un autistico «modello affettuoso». È veramente una sensazione unica sentirsi dare una carezza disinteressata tra i capelli, magari mentre guidi, da un figliolo gigante con accenno di barba. Tommy ancora mi si accoccola accanto sul divano mentre guardiamo la tv. Il contatto con lui è quanto di più rilassante io conosca. Questo è un punto davvero interessante da osservare, naturalmente parlo per la mia esperienza perché, ripeto, non credo che esistano due casi perfettamente combacianti di ragazzi autistici. C’è un lungo elenco di «stranezze» comportamentali o fisiche che sono distribuite in percentuali diverse da soggetto a soggetto. Capita spesso che, nelle riunioni tra genitori, inconsapevolmente si facciano confronti e valutazioni. Io, per esempio, posso in cuor mio invidiare il «collega» con un figlio capace di articolare un discorso compiuto, che magari legge e scrive. Poi, approfondendo, vengo a sapere che ha crisi di violenza terrificante, che è incapace di stare lontano da casa oltre un giorno, che è impossibile portarlo in automobile con il buio. Così mi sono sentito in colpa quando una madre, in occasione di un convegno nel Nord Italia in cui Tommy mi aveva seguito, mi ha detto scoraggiata: «Beato te, io non potrei mai portare mio figlio in treno, o al ristorante assieme a estranei, o in albergo come stai facendo tu».

In effetti, per me viaggiare con Tommy è un divertimento, almeno è abbastanza facile quando siamo soli io e lui. Con il resto della famiglia presenta qualche problema in più. Questo è un ulteriore punto secondo me fondamentale. L’autistico ha una sorta d’istinto innato nel selezionare e prendere al suo servizio il familiare che meglio può occuparsi di lui. Gli altri inesorabilmente devono soccombere. Il rapporto ideale per un autistico «non isolazionista assoluto» è a due. A volte ho l’impressione che Tommy provi serenità nel vedere la famiglia al completo assieme a lui. O meglio, la sua è una piacevolezza tollerabile fino a che i flussi di comunicazione tra noi altri lo sovrastano al punto da farlo sentire escluso. Insomma, va bene se si sta tutti buoni e zitti e, in qualche maniera, ci si «Tommyzza». Guai a trasformare una serena passeggiata in qualcosa che possa farlo sentire fuori gioco… Per questo, quando andiamo per musei, mostre o gallerie d’arte, io sono costretto a un tour affrettato se voglio tenerlo a bada. Tommy non tollera che ci dedichiamo al fratello spiegando o illustrando quello che visitiamo. Così abbiamo risolto dividendo a metà la famiglia: mia moglie si occupa dell’ammaestramento didattico del maggiore, io a passo di volata provo a vedere il più possibile cercando di guadagnare l’uscita con Tommy che, per rendermi la cosa più complicata, si applica con successo a far suonare ogni allarme che incontra facendo piombare sulle nostre tracce guardie e sorveglianti. La vita quotidiana è un continuo eludere situazioni in cui potrebbe crearsi imbarazzo tra noi e chi non sempre riesce a capire al volo con chi ha a che fare. Ancora molti non realizzano che un autistico, anche ad alto funzionamento, è comunque una persona con problemi seri. Ci sono filmati educational inglesi che mettono perfettamente in luce la questione. In uno si vede un ragazzo assistere a un incidente per la strada. Un ciclista viene investito e giace insanguinato sul marciapiede. L’autistico si avvicina per primo e lo guarda incuriosito. La sua attenzione è catturata dalla ruota della bici che gira per inerzia, e dal sangue che sgorga dalle ferite. Giungono altri passanti e iniziano a soccorrere il ferito, qualcuno comincia a urlare verso il ragazzo autistico che è immobile a guardare. Arriva l’ambulanza a sirene spiegate e lui si tappa le orecchie e scappa spaventato. Sale su un autobus di passaggio e si piega sul sedile con la testa tra le ginocchia. Quella è la sua percezione di un episodio che noi vediamo con occhi diversi. Una ruota che gira, il sangue che esce, poi le urla e la sirena, che equivale a fastidio assoluto

da cui deve scappare. Chi conosce le reazioni balzane di un autistico non si meraviglia che possa restare fatalmente indifferente di fronte a una persona per terra priva di sensi. Quella persona ha i circuiti di trasmissione azzerati in quel momento, non emana nulla, è un oggetto inanimato e, in quanto tale, viene osservato per alcune particolarità che incuriosiscono, come l’affiorare del sangue sull’epidermide. Non trovo così strano che il ragazzo del corto inglese non provi alcun pathos per un umano steso a terra, quello è il suo mondo di riferimenti. Perché mai dovremmo trascinarlo nel nostro, fatto di teatrali manifestazioni di partecipazione ai drammi di nostri simili? Siamo partecipi per altruismo? L’altruismo è una caratteristica positiva della nostra evoluzione? Ne siamo così certi? Non so perché mi pongo queste domande, che io stesso giudico abnormi rispetto al mio grado di civilizzazione: sarà perché il contatto quotidiano con mio figlio mi fa rimettere in discussione ogni principio che qualsiasi persona civile ritiene giustamente metabolizzato. Non voglio porre in dubbio i valori della solidarietà che solo recentemente abbiamo conquistato, ma, osservando Tommy, vorrei farli miei nel profondo, non come una semplice etichetta di civilizzato. Io, nella continua spinta a farmi difensore di mio figlio dalle incomprensioni della folla che attraversiamo assieme ogni giorno, mi sono scoperto singolarmente molto aggressivo. Di solito non lo sono, almeno non in maniera così costante. Ma mi sento come un lupo che deve difendere un suo cucciolo dal branco che ha deciso di farne spezzatino. Non molto tempo fa, mentre ero in tandem con Tommy, stavo per accapigliarmi con un autista trippone di quegli autobus a più piani con sopra scritto «Roma cristiana». Questi, a dispetto del logo evangelico, aveva cominciato a inveire e insultarmi solo perché al semaforo gli avevo urlato di starmi lontano con quel suo transatlantico che mi stringeva contro il marciapiede, mentre Tommy cominciava a dare segni di ansia. Era un omone enorme, con la pancia che copriva abbondantemente lo sterzo del suo mastodonte a due piani. Odio per principio quel tipo di autobus per turisti. Sfrecciano ogni giorno dell’anno rumorosi e puzzolenti in qualsiasi vicolo della città, a volte per trasportare solo due vecchie tedesche con il cappellino di paglia che fanno foto dal piano superiore scoperto, anche sotto la pioggia (in quel caso indossano in genere orrendi impermeabili trasparenti). Insomma, gli facevo segno di stare lontano perché il marciapiede a cui mi stava stringendo era molto alto e temevo di perdere l’equilibrio. Già portarsi

Tommy dietro in un tandem è spesso un’impresa, resta rigido e non appoggia i piedi a terra, a volte nemmeno aiuta a spingere sui pedali, quando poi ci si mettono anche gli autobus diventa una tragedia. Velocemente dai cenni si è passati agli insulti, quello ha inchiodato in mezzo alla strada e ha aperto la portiera per scendere, per nulla animato da buone intenzioni. Si è messo di mezzo un pretino indiano che era seduto accanto, che l’ha trattenuto mentre l’omone urlava e mostrava i pugni. Intanto Tommy si era tappato le orecchie e gridava: «Papà! Papà!». In un nanosecondo avevo già realizzato il set successivo: avrei fatto salire mio figlio sul marciapiede, lo avrei messo a sedere e, con lui alle spalle, avrei affrontato il grassone, usando il tandem come barricata. Sono fisicamente piuttosto scarso, ma mi ci sarei accapigliato volentieri, e stavo pensando a come fargli molto male prima ancora che potesse provare a colpirmi: ficcargli due dita negli occhi alla Bruce Lee e strappargli i bulbi? Troppo coreografico, meglio cercare di rompergli subito il naso, passargli dietro alle spalle mentre perdeva l’equilibrio e finirlo in qualche modo. Immaginavo che mi sarebbe piaciuto vedere il suo sangue. Restò tutto un pensiero concentrato in frammenti d’istante, il pretino indiano riuscì a convincere l’autista a desistere, per mia somma fortuna il semaforo si fece verde e ripartimmo entrambi. Per i cento metri successivi di strada lui cercò di stringermi ancora sterzando bruscamente come nei film di camion assassini. Entrati in via della Conciliazione, chiesi a un vigile di prendergli la targa, ché avrei voluto denunciarlo; ma quello fece il pesce in barile rispondendomi che non poteva… Chissà perché, però meglio così, almeno posso raccontarlo senza farmi scrupolo di beghe legali in corso. Forse dovrei cercare di rasserenarmi. O forse no, tanto cosa cambierebbe? Meglio pensare che, grazie a Tommy, posso vivermi rare occasioni di fantaepica metropolitana.

V Genitori emotivamente soppressi La notte spesso mi accorgo che Tommy muggisce da camera sua. Non c’è diaframma che riesca a schermare quel suo verso insistente, che sembra trapelare da una fessura aperta su qualche altra dimensione. La sua continua pressione sul resto della famiglia non termina certamente quando va a letto. È sempre un’incognita: dormirà o si farà sentire di notte? Non ho cuore di lamentarmi, solo perché conosco situazioni ben peggiori della mia. So di ragazzi che passano la notte urlando come ossessi, o che si mangiano materassi e cuscini trasformandoli in mucchi di gommapiuma che sembrano popcorn. La notte, l’autistico si agita. Posso capirlo… Ognuno di noi, nella peggiore delle situazioni, può esser tenuto insonne dai propri pensieri, ma con essi ha un silenzioso dibattito. L’autistico probabilmente vede i pensieri come oggetti concreti sparsi per la stanza, quindi diventa euforico per questo particolare affollamento del suo spazio. Provo a improvvisare… Per lui i pensieri sono come pupazzi ballerini che saltellano su sedie e tavolini; per lui i pensieri hanno il fruscio di un rubinetto aperto e allagano piano piano il pavimento. Per questo trovo Tommy spesso seduto sul letto, abbracciato ai cuscini come fossero salvagente, che teme di affogare tra i pensieri. Anche se Tommy non affogherà mai comunque. L’acqua è il suo elemento naturale, come se fosse un figlio di Atlantide (questo l’ho scritto apposta per dare un brivido di emozione a tutti coloro che ho già citato e che sognano bambini indaco e avanguardie aliene). Il suo istruttore di piscina una volta ci disse: «Se vi doveste trovare un giorno in alto mare e in difficoltà, attaccatevi tutti e tre a Tommy: di sicuro vi salvereste». Non ho difficoltà a crederlo, Tommy è capace di stare per ore in piscina; in mare ci sta meno volentieri perché teme i pesci e non gradisce il contatto con le alghe o il fondo marino. Ma è straordinario vederlo «camminare» in acqua: in sostanza galleggia in modo spontaneo anche stando fermo e perfettamente verticale. Può incrociare le gambe in posizione yoga e stare sospeso a mezz’acqua, o andare sotto senza difficoltà… Ma non ha voglia di nuotare. Per quanto ci si sia sforzati per anni, non siamo riusciti a farlo muovere con metodo, come tutti gli altri, insomma. Lui ride, sputa acqua come un balenottero, s’inabissa, fa un sonnellino sulla schiena, fa vasche su vasche, ma ancora non ho capito come faccia a muoversi… Solo l’ultima estate, di nuovo in Sardegna (che per lui è probabilmente una terra di

grazia), sono riuscito a farlo nuotare quasi a rana. Proprio io che nuoto come un alpino, alla faccia di veterani istruttori che inutilmente ci hanno tentato per anni in piscina. All’improvviso si è messo a dar bracciate, e l’ho visto allontanarsi velocissimo verso il largo. Se non fosse così matto andrebbe alle Olimpiadi, ne sono sicuro. La notte, dunque, Tommy è l’arbitro del sonno altrui, ma non solo di quello. Ogni lecita forma di affettività coniugale è sempre sottoposta alla crudele incognita: «Tommy ci lascerà in pace?». Non mi devo lamentare, lo so. La maggior parte dei genitori nemmeno si pone questo problema perché il figlio autistico li ha costretti alla solitudine dei sensi. Come ho già detto, ci sono quelli che si separano, e fra quelli che restano assieme molti sono relegati a una castità a vita, perché il vampiro che allevano diventa il rigido carceriere anche della loro felicità sessuale. «Eh, sai quanto mi farei volentieri una scopata…» Me lo confessò candida una «collega» separata con figlio a carico, con cui ho affrontato il problema della castrazione emotiva dei genitori di autistici. Eppure è una donna gradevole, le faccio notare che ha un bel culo e vedo che le piace sentirselo dire, ma ormai per lei, come per tante altre madri, l’accudimento del figlio disabile ha significato indossare il velo monastico della femmina votata a vita unicamente all’amore per il suo signore. Confesso che mi rode tanto questa cosa: i genitori potranno anche separarsi e mollarsi se la coppia non regge all’impatto del succhiasangue, ma perché buttare alle ortiche ogni lecito immaginario che interessi la propria sfera intima? Questo, a parer mio, è il peggior retaggio di un’idea pessima secondo la quale il genitore (soprattutto la madre) di un autistico deve espiare un’ignota colpa per quella generazione venuta fuori così problematica. Tutti abbiamo al momento civilmente e razionalmente metabolizzato che le ragioni per cui i nostri figli sono così strani non sono da attribuirsi a comportamenti deficitari di affetto o attenzione nei primi mesi della loro vita. Si tratta, invece, di una trasmissione genetica: siamo colpevoli dell’autismo come possiamo esserlo di aver dato loro il colore dei nostri occhi o l’espressione del nostro viso. Certo, ci solleverebbe pensare che la responsabilità sia da attribuire all’inquinamento, all’alimentazione, ai vaccini, persino agli ufo o a qualsiasi altra causa indipendente da noi, questo ci assolverebbe da un profondo e innegabile senso di colpa. Non è giusto che le madri debbano sentirsi come le derelitte donne peccatrici che venivano accolte dai pii istituti assieme al frutto del loro

peccato, a patto che barattassero con una scelta di castità la benevolenza di chi si occupava di loro e dell’esito della colpa che avevano commesso. Mi capitava tempo fa di incontrare ogni settimana una madre che accompagnava la figlia allo stesso centro ippico dove andavo con Tommy. (Approfitto per spiegare che un autistico può passare momenti di felicità a cavallo e, se accompagnato da operatori esperti, può acquisire sicurezza in sé e trovare grande giovamento nella conquista di consuetudini che associ a una condizione serena. È chiaro che nessun autistico «guarisce» a cavallo, tanto meno a contatto con un cane, un gatto, un’orca marina o un lemure, per citare animali che mi è capitato di incontrare nelle mie varie sperimentazioni «pet– terapeutiche».) Tornando alla mamma della giovane cavallerizza, mi raccontava con quanta fatica riuscisse a mantenere quell’impegno, cui teneva, però, perché si era accorta che la figlia ne traeva vantaggio, o almeno a lei questo sembrava. La ragazza era robusta e un po’ manesca. Tendeva a strappare ciuffi di criniera del suo paziente destriero ma, tutto sommato, si vedeva che l’attività era di suo gradimento. Un giorno mi accorsi che la signora zoppicava, mi disse che si era fatta male a un piede sbattendolo contro la gamba di ferro del letto, una notte che si era alzata all’improvviso per soccorrere la figlia preda di un attacco di panico. Vedevo il piede bello gonfio, e immaginavo che si sarebbe fatta visitare da un medico quanto prima. La settimana successiva invece zoppicava in maniera ancora più vistosa e il piede era ancora più grosso. Chiesi informazioni e, con una certa vergogna, lei mi confessò che, essendosi fratturata un qualche ossicino, aveva colto l’occasione per mettersi in malattia e stare un po’ più vicino alla figlia, che in genere lasciava tutto il giorno sola con una badante; così si guardava bene dal curarsi perché altrimenti sarebbe guarita subito e sarebbe stata costretta a interrompere quel periodo così raro di vicinanza alla sua giovane autistica. L’episodio mi suggerì varie riflessioni sull’idea di martirio necessario che attraversa la testa di molti genitori, ripeto ancora: soprattutto madri. Una donna, anche piacente, che accetta di trascinarsi un piede fratturato per settimane solo per permanere in una condizione di libero servaggio della figlia non avrà mai più nulla da aspettarsi di gratificante dal proprio corpo. Eppure il corpo del genitore di un soggetto così problematico nei confronti della fisicità secondo me è un fattore importantissimo. Ho osservato, con questo pensiero, molti genitori di autistici che mi capita spesso

di incrociare nel comune viavai tra terapie, palestre e luoghi di verifica. Il segno distintivo della maggior parte di loro è il progressivo abbandono di ogni frivolezza. So che questo scatenerà reazioni e proteste, ma mi metto pure io nel mucchio degli emotivamente soppressi. Da quando l’attenzione verso mio figlio ha iniziato ad assorbire la maggior parte del mio tempo disponibile, mi guardo allo specchio e mi vedo ogni giorno più vecchio. Non è il naturale degenerare del proprio aspetto, quello ineluttabile che ognuno di noi combatte come può, argina, supporta, e di cui riesce anche a farsi una ragione. Non è questo: è uno stato d’animo, un rovello interiore che sale in superficie a segnalare il nostro irrimediabile disfacimento, come la macchia verde putrefattiva che appare nella fossa iliaca destra dopo 18 ore che siamo morti. Azzardo a ipotizzare che, se avessi carta bianca nell’avanzare suggerimenti alle istituzioni, metterei sicuramente, come prima forma d’intervento utile per un figlio particolare, l’attenzione alla felicità del genitore che di lui è costretto a occuparsi. La sensazione che prova il fortunato destinatario del figlio autistico è di essere chiuso nella stessa prigione. Non voglio sembrare ingeneroso, ma viene un momento in cui, dei due genitori, uno riesce a scappare e l’altro resta nella gabbia. Non so perché, la gestione assieme sembra la via più facile, fino a quando uno dei due conclude che da solo può farcela sicuramente meglio. Quel figlio è un affare troppo esclusivo, assorbe troppa vita perché resti spazio emotivo condivisibile in un comune progetto affettivo. La rabbia si mangia tutto, rabbia alimentata dal rovello che alla fine il figlio diventi, nelle mani di un coniuge, anche lo strumento più forte di controllo dell’altro. Vediamo se riesco a spiegare la mia sensazione. Dopo una giornata passata con Tommy, sono consapevole che il mio tempo dedicato a lui ha permesso agli altri di usare il loro come meglio credevano. Nel momento in cui tutti sono rientrati a casa e la famiglia è nuovamente riunita, per me non cambia nulla, io sempre lì sto. Hai voglia che mi si dica: «Ma esci, fai quello che vuoi, divertiti!». Sembra una presa in giro. Dove e con chi si pensa che possa andare un uomo che ha fatto il badante tutta la giornata? Che non ha avuto modo di fare altro che tenere d’occhio un tipo che non dice una parola, che ti segue, se vuoi, ma solo se anche a lui sta bene? Nella maggior parte dei casi, proprio nell’istante in cui arriva una telefonata o devo assolutamente fare qualcosa di utile o piacevole per me,

appare Tommy che si mette di mezzo e lo rende difficile. Per far capire il paradosso di questa idea del carceriere–incarcerato ricordo un fatto di cronaca apparso su qualche giornale l’estate scorsa. Un’insegnante di sostegno precaria, in un istituto tecnico commerciale pubblico, aveva chiesto al provveditore agli studi che le fosse riconosciuto il doppio del punteggio in graduatoria per il servizio prestato, come avveniva in base a una legge del 2006 per chi opera nelle carceri. Quando il provveditore le domandò il motivo della richiesta, la docente spiegò che, per l’intero anno scolastico, era stata costretta a insegnare chiusa a chiave in un’aula speciale con uno studente disabile autistico. Il caso dello studente era particolarmente grave. L’insegnante raccontò di aver dovuto lavorare in tali condizioni per evitare che lui scappasse, ma anche per accudire il suo problema di incontinenza. Ci troviamo in una situazione al limite e non voglio entrare in merito al caso specifico, ma trovo degno di riflessione il fatto che l’insegnante si sentisse, pari a un carceriere, in diritto di chiedere un risarcimento per aver dovuto condividere una reclusione. Ecco, sarebbe bello che nessun genitore si dovesse sentire recluso, ma spesso nella coppia è facile che sopravvenga questa idea/sospetto che la disponibilità verso le esigenze del figlio si possa trasformare da sacrificio amoroso a sopruso insopportabile. Il che purtroppo, molto spesso, scava abissi profondissimi anche nella coppia più collaudata.

VI Un’armonia perduta Le statistiche dicono che l’autismo è nel mondo la prima causa di handicap, ogni sei anni la quantità di bambini autistici raddoppia; al momento, grosso modo, possiamo dire che come Tommy nasce un bambino ogni cento. «Più o meno» come lui, devo specificare: lo spettro è vastissimo ed è ancora difficile stabilire se il numero cresce perché sono più raffinate le tecniche di diagnosi e vengono incluse nello spettro autistico anche patologie che prima erano chiamate con nomi diversi. Non entro nel merito di cifre e statistiche, l’argomento è sin troppo controverso. Sono certo che gli autistici non guariscono, e che se ne vedono sempre di più. Ho pure letto che i fratelli di autistici hanno un mucchio di possibilità di generarne a loro volta (sembra un trenta per cento in più). Non è una bella notizia, quest’ultima, e non lo sarà nemmeno per Filippo, fratello maggiore di Tommy, che già sta vivendo momenti non facili. Pochi considerano i fratelli degli autistici, soprattutto quelli maggiori. Chi ha un figlio autistico di solito ci pensa su prima di farne un altro e, se lo fa, in molti casi anche lui è della stessa banda. Esistono «eroici» genitori che raccontano delle loro vite con due o più soggetti di questo tipo. Io me ne guarderei bene dal provarci ancora, ammesso che non fosse passato il mio tempo di far figli. Uno basta, ve lo assicuro. Il problema vero nasce, anche per i fratelli dell’autistico, con l’adolescenza. Un figlio autistico adolescente assorbe una tale quantità di energie dei genitori, che qualunque altro fratello si sentirà, di conseguenza, messo in secondo piano. In più può accadere che il figlio «normale» inizi ad avvertire l’esplodere sotterraneo di tensioni in famiglia, che prima non c’erano o erano molto rare. Accade quando padre e madre, che hanno resistito fino ad allora all’idea di separarsi, naufragano entrambi nella fase del rinfaccio, che è lo spietato momento in cui l’accudimento è ormai diventato una nube tossica che rende l’aria irrespirabile. A questo punto il figlio «normale» realizza che una sola persona è responsabile di quella perduta armonia familiare, e si tratta naturalmente del fratello autistico, che nel frattempo è cresciuto e ora a sua volta lo guarda con altrettanta rabbia perché comprende che, a differenza di lui, ha piena autonomia di entrare e uscire di casa e avere una sua vita complessa. Tommy se ne accorge alla grande che quel fratello oggi è un nemico.

Prima che questo accadesse era il suo riferimento in famiglia, perché dormivano nella stessa cameretta, perché aprivano assieme i doni sotto l’albero, perché entravano assieme in mare, andavano alle giostre, sedevano nel sedile posteriore dell’auto durante i viaggi. Ora tutto è cambiato. Entrambi hanno barba e baffi, ma uno si è conquistato l’indipendenza e l’altro ha ancora la badante che lo porta a spasso per mano. Chi non s’incazzerebbe al suo posto? Infatti Tommy ce l’ha molto col fratello, che a sua volta vede in lui la ragione di una frattura sempre più profonda che minaccia di dividere in due la famiglia. D’altronde si trovano nel punto in cui, fatalmente, uno dei due inizia ad abbandonare la condizione fanciullesca e si avvia a passi decisi a essere uomo, mentre l’altro vive fisicamente la stessa fase, cresce, muta la voce, scopre la propria sessualità, vorrebbe a modo suo appropriarsi di una sua vita, ma capisce che da solo non ce la fa e deve sempre avere chi sorvegli con attenzione sulla sua libertà. Tommy sta ormai quasi sempre con me perché sono l’unico che lo tratta da adulto, e lui non chiede di meglio. Per strada cammina da solo, niente mano o sottobraccio. La madre invece lo afferra come se fosse un bisonte da tenere al guinzaglio. Del resto, lui si può permettere di lanciarle addosso tutto il repertorio di «comportamenti problema» che tanto la buttano giù. E più lei si abbatte e si angoscia, più lui si carica, come se ne respirasse il disagio e questo fomentasse il suo stress. In qualsiasi coppia di genitori di autistico, ce n’è sempre uno dominante e uno dominato. Le frustrazioni del dominato diventano alimento del dominante per compensare, con il suo iperpresenzialismo, l’ineluttabilità della sua completa dedizione. Così un coniuge rinfaccia all’altro di non essere all’altezza di fare come lui, di non dargli il cambio, di peggiorare le situazioni difficili quando si sta tutti assieme. Anche in questo contrasto il figlio «normale» subisce la sua parte di «quel problema», quando prima per lui si trattava al massimo di convivere con un fratello che non giocava o che lo faceva in maniera ripetitiva per momenti molto brevi. Quand’era piccolo, Tommy aveva due casse colme di pupazzi di plastica che raffiguravano tutti i personaggi della Disney, ma anche di altre serie di cartoon. Tirava fuori tutti i pezzi e ne faceva una lunghissima fila. Questa ossessione di mettere in fila, come dice la letteratura specialistica, fa parte della patologia. Basta leggere un qualsiasi manuale che descriva l’autistico e, tra i primi segni del manifestarsi della malattia, non mancherà «mette in fila oggetti». Il suo inceppamento cerebrale, oltre ad agire sulla comunicazione,

sul linguaggio, sull’apprendimento, gli impone di mettere in fila i suoi giocattoli? Ho provato a pensarci: come può una fila provocargli beneficio? Alla fine, infatti, di questo si tratta: l’autistico opera per calmare le proprie ansie e quindi ribadire a se stesso che nulla cambierà rispetto alle sue abitudini. Il mondo deve girare come le lancette di un orologio, ogni attimo deve sovrapporsi a quello corrispondente del giorno prima, in cui si facciano le stesse identiche cose che si sono sempre fatte ogni giorno a quell’ora. Provo a pensare come mi sentirei io se così fosse. Forse troverei alla lunga noioso ripetere sempre le stesse cose, mangiare gli stessi cibi, fare gli stessi disegni. Sicuramente noioso lo è, e lo sarà sempre… Eppure per mio figlio mi sono ritrovato a farlo. Le stereotipie sono diventate la scansione della mia giornata, faccio le stesse azioni alla stessa ora, mangio le stesse pietanze, guardo gli stessi film. Il mondo si evolve, sovrascrive, diversifica. Io mi sono chiuso in due stanze con Tommy a ripetere sempre lo stesso rito che lui impone. Un anno fa decisi che, per la mia salute mentale, avrei dovuto trovarmi un posto dove rinchiudermi a pensare, lavorare o fare quant’altro non mi era più possibile nella casa d’abitazione, diventata un porto di mare tra educatori, insegnanti di lingue, colf generiche e badanti specializzate. Stanco di essere messo agli angoli da tutte queste frammentazioni di giornata, che mi avevano relegato in camera da letto dove mi ero attrezzato una postazione di lavoro, mi sono finalmente deciso al grande passo. Ho adocchiato un piccolo appartamento vicinissimo a casa, l’ho acquistato e completamente ristrutturato, pensando alle mie esigenze, ma anche – e non meno – a quelle di Tommy. Ho deciso che la famiglia necessariamente si dovesse tagliare in due. Ho realizzato un appartamento confortevole, quasi senza mobili, molto zen per far capire. Non c’è altro che grossi cuscini a terra, su un bel parquet a tavoloni di quercia. Le luci sono morbide ed escono da piccoli led nascosti nel muro o a terra. Possono essere anche colorate, a richiesta. Ho anche fatto murare una rotaia di ferrovia tra una parete e l’altra, pensando di appenderci un’altalena. In questo posto passo la maggior parte del mio tempo, assieme a Tommy. Io scrivo, lui sta stravaccato sui cuscini con il suo iPad in mano. Quando ha voglia, prende carta e colori e disegna un po’. Siccome ho messo degli attrezzi ginnici, ogni tanto lui si stende sulla panca o prova ad alzare qualche piccolo peso.

Qui vengono vari terapisti durante la settimana. Io non seguo quello che fanno, ma sento Tommy parlare, a volte ridere. Insomma, così sto tranquillo, anche se questa non è la vera soluzione. Perché sono comunque costretto per tutto il mio tempo a essere disponibile, e per farlo ho dovuto adattare al massimo le modalità di lavoro a queste esigenze. Ho imparato a scrivere con una fetta di cervello sempre attiva su Tommy; se devo fare lavori che richiedono molta concentrazione e continuità (come scrivere questo libro) posso solamente usufruire del tempo della notte. Dopo aver riconsegnato Tommy alla madre verso le ventidue ed essermi assicurato che stia tranquillo, torno allo studio e scrivo per tutta la notte. Mi appisolo un’oretta, poi, alle sette, faccio una doccia e torno a prendere Tommy per portarlo a scuola e andare alla radio a fare il mio programma. La mia fantastica «casa», a chiunque la visiti, fa l’impressione di essere un lussuoso scannatoio, persino il moschettone che pende dalla trave viene interpretato come inequivocabile supporto per pratiche di Shibari, meglio conosciute come bondage giapponese. Io lascio anche che lo credano, alla fine procura quella sinistra fama di perverso che crea fascino… Se raccontassi che ci attacco una specie di bozzolo altalena per il mio gigante bambino, magari farei pure un po’ pena.

VII Oltre l’era della comunicazione Chi dice che un autistico non comunica non ha mai vissuto assieme a un soggetto simile. Io piuttosto direi che non è interessato a dover continuamente informare il mondo del suo punto di vista, tutto qui. Per il resto ha un repertorio più che sufficiente per soddisfare i suoi bisogni primari di relazione con il prossimo. Sono anzi convinto che l’autistico possa rappresentare l’avanguardia di una società futura. Oggi viviamo il periodo barocco dell’era della comunicazione, siamo in clima di controriforma, celebriamo la sovrabbondanza della confezione come regola principale del mestiere di comunicare, ci esaltiamo del superfluo relazionale, ci smarriamo nella compulsiva ricerca di esistenza che ci assicura il divulgare noi stessi in tempo reale. L’obbligo interiore di lasciare un tracciato individuale è considerato il miglior surrogato all’eternità. Passata quest’ondata euforica, in gran parte indotta dal mercato delle interconnessioni, arriverà fatalmente per tutti una fase di parsimonia verbale e castità connettiva, di cui l’autistico è l’anticipazione più felice. Mi chiedo spesso cosa pensi mio figlio quando è assorto, come intenda lui il tempo, cosa siano per lui «ieri, oggi, domani». Come posso spiegargli che un giorno si muore? Forse è meglio che non glielo dica mai: serve saperlo? Tanto si muore lo stesso. Non ho strumenti nemmeno per spiegargli cosa significhi nascere, o partecipare attivamente alla possibile nascita di qualcuno. Difficile entrare in sintonia quotidiana con una persona che non abbia a fuoco i principi di inizio e di fine. Tommy vive un tempo ciclico, il suo tempo è quello dell’eterna routine. E quando qualcosa mette in crisi questo suo ordine cosmico, si scatena per lui un cataclisma che lo annichilisce, come se fosse l’annuncio della fine del mondo. Oltre questa fase di possibile disordine, non saprei se Tommy avverta di essere cresciuto, o che attorno a lui le persone invecchiano. Da un punto di vista personale, penso che stare tanto accanto a lui faccia dimenticare l’erosione del tempo; la sua eterna routine potrebbe prendere nelle sue spire ogni persona che gli stia accanto per tutta la giornata e, alla fine, sovrapporsi a ogni altro impegno. Per poterselo permettere, però, bisognerebbe vivere di rendita, e non è questo, purtroppo, il mio caso. Tornando al comunicare, Tommy ha un suo linguaggio a intensità

costante. Fantasticamente privo di sfumature, non conosce le tecniche del compromesso che sono alla base di ogni nostra relazione. Tommy m’insegna che tutte le teorie, che ci vorrebbero tanto più civilizzati quanto capaci di mediare, possono essere tranquillamente sovrascritte. Non sono convinto che l’autistico sia infelice, questo di lui si pensa solo perché non si pone un grosso problema di quello che faccia il resto del mondo e sorride poco. Io so che mio figlio è felice quando mi accarezza la nuca senza motivi apparenti. Me ne accorgo quando si stende sui cuscinoni e può guardarsi in pace tutti i video di YouTube che crede, senza il fratello che gli si mette accanto per imporgli quelli che piacciono a lui. Tommy è sereno quando sente affetto che non chiede verifica o risposta. Non mi sembra poco. Potessimo tutti sentirci amati senza dovere necessariamente corrispondere, saremmo visceralmente appagati anche di una carezza… Siamo invece sempre ingabbiati in patti di sangue per cui dobbiamo ricambiare ogni milligrammo di attenzione che un nostro simile ha la generosità di attribuirci. È una vera schiavitù, chiunque ne è condizionato. Si pensi a quanti occhi da cane bastonato abbiamo avuto davanti nella vita, ogni volta che qualcuno ha voluto farci sentire il peso della nostra indifferenza, o della non perfetta corrispondenza con quello che ci veniva contrabbandato come emotivamente speso in nostro favore. Anche la più sublime delle ispirazioni poetiche, più che dell’amore, tratta del ricatto amoroso. Che noia! Viva l’avanguardia di Tommy e dei suoi simili, che non si sentono in dovere di assumere tratti esteriori differenti a seconda del sentimento che noi emaniamo nei loro confronti. Sembrerà che ora cerchi di addomesticare filosoficamente un mio disagio dopo una giornata con lui. Può essere, ma vi assicuro che dare l’anima per chi, al massimo, ti restituisce una carezza guardando dall’altra parte, o quando lo baci si pulisce la guancia con la mano, è altamente istruttivo nella salutare gestione dei propri rapporti con l’umanità normo–relazionata. Voglio cercare di ridurre questo concetto all’essenziale, perché so di essere a volte ampolloso nei miei pensieri. Immaginiamo che a un certo punto ci si renda conto che parte del nostro processo di civilizzazione non è la migliore maniera per sentirci felici. Oggi possiamo permetterci di esprimerci liberamente, anche mettendo in dubbio tutto ciò che abbiamo consolidato riguardo le nostre relazioni, possiamo depotenziare le molle profonde di quelli che chiamiamo sentimenti, dubitare delle strutture sociali che derivano da nostre scelte emotive: vedi famiglie, coppie di fatto, relazioni stabili,

fuggevoli, clandestine; «complicate», come suggerisce una scelta di status su Facebook. Ancora, però, nessuno si sognerebbe di desiderare una relazione non basata sul ricatto emotivo, vale a dire: «Non mi interessa che tu mi corrisponda!». Certo, potrò essere qui ampiamente contraddetto da un esercito di vergini vestali, custodi della fiamma più pura del sommo sacrificio di chi ama e nulla chiede. Si facciano avanti mogli eroiche di uomini che odiano le donne, si levino dalle tombe tutti i martiri dell’indifferenza, dell’incomprensione, del «non riesco a fargli capire come deve amarmi». Marcino a passo di parata le mamme che invecchiano quando i figli crescono, i padri sconsolati, separati, giuridicamente discriminati. Insomma, potrei dilungarmi per pagine e pagine, ma sarebbe difficile trovare rapporti più all’avanguardia di quelli tra un genitore e un figlio autistico per raffigurare chi riesca a elargire così tanta attenzione e profondo affetto ottenendo in cambio una tanto labile segnalazione di gratitudine. Perché alcune mamme si lasciano riempire di lividi e graffi (quando va bene) per tutta la vita? Ma continuano, senza porsi nemmeno la domanda se ne valga la pena, a insaponare la faccia al loro giuggiolone per raderlo, a giocare con lui come quando era bambino, a cercare di compensare ogni suo vuoto, compresa la mancanza di femmina? (In casi estremi, ma nemmeno troppo rari.) Potrei rispondere perché molti autistici riescono a esprimere affettività molto condensata, ma proprio per questo essenziale e terapeutica, come un’iniezione di adrenalina in mezzo al cuore, quelle che fanno nei telefilm ospedalieri quando, per far sopravvivere il paziente, non esistono alternative. Ripeto, io sono fortunato, ma non è per tutti così. Riesco comunque a intuire nel rapporto con mio figlio una fantastica leggerezza nel suo disinteresse, determinata forse proprio dal fatto che non si pone il problema di prodursi a vantaggio del prossimo. L’autistico è disinibito per natura, sin troppo indifferente alle reazioni che ogni suo comportamento potrebbe suscitare in chi gli è accanto. Chi di noi riuscisse a fare altrettanto, e con altrettanta istintiva leggerezza, potrebbe conquistare il mondo, se solo volesse. Tommy mi ha leggiadramente esonerato da tutti i sacri doveri che un padre tacitamente eredita, e che a sua volta deve trasferire sulla propria progenie maschile. Cosa mai dovrò spiegargli della vita? Lui non sa nulla, ma per quello che gli serve sa già tutto. Tommy non ha bisogno che gli spieghi il

valore dell’etica nei rapporti personali, non frequenta persone, le poche che sfiora lo guardano come se fosse un simulacro semianimato, non un essere umano con cui avere un qualsiasi confronto. A Tommy, anche se volessi, non potrei raccontare in maniera convincente che esiste un essere superiore o una realtà trascendente. Tommy ha difficoltà a riconoscere differenze tra esseri umani, animali e forse oggetti, non credo che avrà mai la possibilità di immaginare qualcosa di diverso da ciò che memorizza della sua esperienza quotidiana. Le sue categorie sono basilari, come il pantheon di un aborigeno. Nel suo universo c’è Tommy come soggetto, c’è la sua casa, c’è l’iPad, c’è il tandem con cui esce con suo padre, forse c’è anche suo padre, ma non credo abbia un rango diverso da ogni forma di esistenza che ho appena elencato. Ora, con tutte queste lacune si può vivere serenamente? La risposta che fino a oggi posso dare è: sì. Si può vivere senza regole superiori, si può vivere senza legami di sangue, si può vivere senza essere annichiliti dal mistero della vita. Mi chiedo, quindi: perché non è possibile anche per noi partecipare a questo paradiso in terra? Semplice: perché nella condizione esistenziale di «Tommy» avremmo bisogno di qualcuno che ci segua ogni attimo della nostra vita, che stia attento a che noi non ci buttiamo dalla finestra, non ci mettiamo in bocca qualcosa che possa soffocarci, non ci facciamo del male sbattendo la testa sul muro, mordendoci le mani, tagliandoci con i vetri rotti del tablet che addentiamo quando andiamo fuori di brutto. A proposito, in un mese ho cambiato tre volte il display, il touch e il vetro dell’iPad di Tommy. Tutte le volte, velocissimo, lo aveva sgranocchiato lasciando i segni degli incisivi sull’alluminio del fondo, e scheggiato il vetro come fosse stato preso a sassate. Ma non sono sassi, sono i suoi denti che a un certo punto devono azzannare l’oggetto che maggiormente ama. Se il mondo potesse essere infilato sotto un touch screen, per Tommy non ci sarebbero difficoltà. Semplicemente sfiorandolo, potrebbe selezionare le sue priorità, proprio come ora fa, fulmineo, cercando i video della Pimpa o quelli dei Teletubbies, e cito i suoi più fulgidi punti di riferimento assoluti, anche se ha quattordici anni. Tempo fa sentii un’amica dottoressa chiamare Tommy «ritardato». Non è un bel termine, ma la signora era professionalmente molto seria, con anni di pronto soccorso alle spalle dove aveva visto cose di ogni tipo, compresa una donna stuprata con un frullatore dal convivente. Mi raccontava nei particolari

la storia orrenda del tipo che aveva alzato il gomito prima di dirigere contro la donna il Minipimer. La stessa dottoressa, rotta a tutte le bassezze umane, aveva visto mio figlio e per lei non era un problema discutere di quanto fosse «ritardato». Il termine mi diede molto fastidio: era probabilmente quello giusto, ma non lo sopportai e, da quel giorno, non feci più nulla per vederla o sentirla, anche se eravamo buoni amici. Sono sempre stato in prima fila nel deprecare l’orribile accarezzamento lessicale nel definire persone fuori standard, però la parola «ritardato» mi feriva, era una semplificazione arcaica per indicare chi non ce la fa a correre veloce come gli altri. A chiunque stringerebbe l’anima vedere il proprio figlio arrancare verso un traguardo con tutti gli altri che gli sfrecciano accanto. Tommy non è ritardato: è diversamente orientato. A lui non interessa correre nella direzione che tutti pensano portare alla linea di traguardo. Tommy non ha traguardi da superare; quelli che noi gli costruiamo davanti riesce ad attraversarli con nostra immensa fatica e soprattutto con frustrazione, perché sappiamo che sarà sempre indietro rispetto alla norma. Se ci rifletto, mi sarei già da allora dovuto chiedere cosa significasse «ritardato». Rispetto a quale modello è calcolabile il ritardo? Un suo coetaneo medio? Forse anche io potrei sembrare ritardato rispetto alla maggior parte dei miei coetanei: ho pochissima attitudine alla mediazione, sopporto malissimo il clima competitivo. Ultimamente preferisco sempre di più star solo piuttosto che vedere altre persone. Penso che Tommy sia il mio personal trainer occulto, anche se non ho capito per quale genere di gara mi stia facendo allenare.

VIII Un sostegno poco di sostegno È tardissimo… Mi sono fidato dell’orologio sballato in un computer negli studi della radio e dovrei già essere a scuola per ritirare Tommy. Comincio a correre, mi capita spesso; oggi non posso nemmeno mandarci mia moglie, almeno a prenderlo in consegna per poi magari aspettare che arrivi io per tornare a casa, perché lei ha ancora paura di camminare per strada da sola con lui. Oggi, però, Natalia non può: ha una microfrattura alla caviglia, proprio per una di quelle rincorse dietro al gigante che vuol fare di testa sua. Piazza Indipendenza di corsa, piazza dei Cinquecento, a perdifiato giù per le scale della metro Repubblica. Arrivo all’uscita Cipro in quindici minuti circa, di corsa per piazzale degli Eroi e finalmente a scuola; venti minuti di ritardo, ma non è una tragedia. Tommy avrebbe diritto di stare a scuola assieme agli altri compagni fino a dopo pranzo ma, per non creare problemi, abbiamo acconsentito ad andarlo a prendere tutti i giorni alle 12.45. L’insegnante di sostegno si divide come può, per lui ha due ore, il resto del tempo Tommy lo passa con l’Aec (Assistente educativo culturale) di una cooperativa scelta dal Comune. Quindi dovrebbe occuparsi di lui un operatore specializzato. Facciamo spesso grandi riunioni di gruppo dove si parla di didattica, problemi, progressi ecc. In realtà, con gli Aec non fa quasi nulla: sta seduto, guardato a vista. Una volta sorpresi alle spalle il ragazzo a cui era affidato che gli fumava addosso, era inverno e lo aveva portato nel cortile in maglietta per potersi fumare in pace la sua sigaretta. Presi mio figlio e non dissi nulla, salvo denunciare l’episodio alla scuola. La mattina dopo c’erano tutte le responsabili della cooperativa e l’operatore a scongiurarmi di soprassedere perché altrimenti lui avrebbe perso il lavoro. Lasciai perdere, questo non avrebbe risolto il mio problema. Arrivo quindi alla scuola e vedo Tommy seduto sul solito muretto davanti alla scrivania del bidello. È occupato nella sua attività didattica: strappa a pezzetti la carta nel bidone della raccolta differenziata. Un operatore, mi sembra straniero, lo tiene per un braccio mentre parla al cellulare. Lo prendo in consegna e me ne vado. Non mi ci incazzo nemmeno più, solo mi domando se sia giusto che io tolga del tempo a mio figlio per lasciarlo a scuola a far nulla, tenuto al guinzaglio perché non scappi. Questo è il massimo che posso chiedere, anzi devo star contento perché non è detto che ci siano insegnanti di sostegno e Aec sempre disponibili. (La madre di una ragazza autistica mi ha detto che lei fa accompagnare la figlia a scuola dalla

colf filippina, poi la donna aspetta fuori della porta della classe tutto il tempo. Non si potrebbe, ma è un tacito accordo tra lei e la scuola: se la figlia avesse un attacco epilettico o qualunque altro problema, le insegnanti la chiamerebbero e la filippina interverrebbe.) Pensavo a quell’uomo che prende sei euro l’ora per tenere mio figlio per un braccio, mentre la cooperativa che ha il contratto con il Comune ne prende venti. Esattamente quanto costa a me un operatore specializzato che segue con Tommy un programma terapeutico mirato ed efficace, lui fra l’altro si diverte pure. Perché allora devo tollerare una persona senza alcuna formazione su come si tratti un autistico? Quanta gente deve campare grazie al «problema» di mio figlio? Lo stesso vale per gli operatori che il Comune mi manda a casa come «sostegno familiare». Dopo un anno di domande, valutazioni, esami ecc., finalmente otteniamo sei ore a settimana suddivise in due giornate. Devo però scegliere tra una lista di cooperative che mi vengono indicate. Vorrei poter usare gli stessi operatori che pago privatamente, mi sembrerebbe la cosa più razionale… Invece no, devo far lavorare quelli che dicono loro. Bene, mi adatto. Ma quando, il primo giorno, mia moglie mi dice che sta per arrivare un operatore del Ghana a cui dobbiamo spiegare che cosa fare con Tommy, la prego di telefonare e dirgli che oggi Tommy non si sente bene… Preferisco evitare di vederlo. Mai vorrei, però, che qualcuno pensasse che, magari per bieco razzismo, io l’abbia contestato; per me poteva essere anche verde e con le antenne, ma se non ha competenze e referenze specifiche su soggetti autistici, mio figlio con lui non l’avrei lasciato solo nemmeno un minuto. Almeno questo allora pensai, ma poi dovetti cedere per timore di perdere anche quel servizio e ho cominciato ad abbozzare sul viavai di persone estranee e sempre diverse che mi girano per casa. L’impressione che mi resta è che sia io infine a fornire una giustificazione all’esistenza di una coperativa, piuttosto che questa fornisca a me un servizio veramente utile. Con meraviglia ho dovuto scoprire che, anche in questo campo, gli stranieri tamponano un lavoro che probabilmente gli italiani schifano. Peggio per loro, ma che almeno qualcuno si prenda la briga di formare queste persone! Io ho mandato a fare i corsi, la signora che da anni segue Tommy. Gli faceva il bagnetto anni fa, oggi si limita a passargli l’accappatoio dalla porta del bagno, guardando da un’altra parte per non incrociare con lo sguardo la sua durlindana. Impara in fretta, è bella robusta, e non si spaventa se Tommy fa le bizze. È sinceramente affezionata a lui e mi fa tenerezza

quando li vedo di spalle che si avviano lungo viale Angelico. Mi sembra ieri che lei lo teneva per mano e lui le arrivava a mezza gamba. Ora il testone riccioluto di Tommy la sovrasta di quasi venti centimetri. Ma torniamo agli Aec che girano con il badge attaccato al maglione, come le guide abusive che fermano i turisti davanti al Colosseo, come quelli che bussano alla porta per venderti improbabili servizi, oppure opuscoli paradisiaci sulla vita eterna. Quando anche ha intascato i suoi sei euro, comunque resterà un lavoratore precario al minimo del sostentamento; se decidesse di studiare per quel lavoro potrebbe guadagnare molto di più, in capo a qualche anno potrebbe viverci bene. Persone che abbiano le competenze necessarie per seguire i nostri figli sono richiestissime: sono l’unico farmaco che ci faccia stare tranquilli. Solo saperli assieme a un operatore specializzato in autismo ci permette di sollevarci dal pensiero costante che possano trovarsi a disagio, riprendendoci qualche boccone della nostra vita. Gli stranieri in Italia hanno come giusto obiettivo professionale di aprire attività commerciali (che so, vendite di kebab, frutterie e drogherie), ma molti di loro, oltre che fare i badanti agli anziani, possono sicuramente anche occuparsi di autistici. Qualcuno dei responsabili del servizio forse avrà semplicemente pensato che, siccome i nostri ragazzi non capiscono, sia indifferente affidarli a persone che non conoscono bene la nostra lingua. Eppure quello dell’educatore è un lavoro fantastico: si ha a che fare con persone che non parlano ma che sono capaci di spalancare universi solo stringendoti la mano. Fra l’altro la richiesta è sempre crescente, ma forse l’antica e mesta iconografia dell’operatore per handicappati fa storcere il naso ai disoccupati più cronici. Magari pensano a quelle ragazze dalle caviglie grosse, i capelli tagliati da maschio e dal pallore irreversibile. Chi si occupa con perizia professionale di autistici non deve per forza avere l’aspetto di un seminarista degli anni Cinquanta; spesso, chi mi viene a casa, tra quelli che pago di tasca mia, sembra ritagliato dal set di un reality show. Il mio preferito è ricoperto di tatuaggi come un pirata e porta i capelli con le treccine fino a mezza schiena, è un cuoco vegano e un fotografo. Con lui Tommy fa passi da gigante. Poi c’è una ragazza che insegna yoga. Quando vengono nel mio studio per la terapia, lei mette su il cd con la musichetta indiana e comincia a cantare il suo mantra, mentre Tommy si stende sul materassino. Mi ci metterei io al posto di mio figlio a farmi stiracchiare…

Assorto in questi pensieri, sono sulla strada di casa con Tommy che mi precede tutto allegro. Certi giorni mi accorgo come assapori la vertigine della libertà quando lo lascio andare avanti da solo; immagino che si senta simile al resto della gente che cammina per strada, senza qualcuno che lo tenga per il braccio perché ha paura che possa finire sotto un autobus. Tommy, quando non ha a disposizione manifesti da strappare dal muro, si diverte a staccare le foglie dagli alberi e dalle siepi di sempreverdi dell’arredo cittadino. Nessun danno per il pubblico decoro, tranquilli: toglierà al massimo una fogliolina ogni dieci passi, perché una volta staccata deve spezzettarla un po’. Quasi sotto casa passiamo davanti a una trattoria con i tavolini fuori; è una bella mattina di primavera. Una coppia anziana e molto corpulenta è attovagliata con i grugni affondati nel piatti di tagliatelle. Il cameriere, un piccoletto con alopecia a macchia di leopardo, descrive ai due avventori le delizie dei secondi piatti. «C’ho i porcini freschi…» mi sembra di afferrare, mentre quello, con la coda dell’occhio, si accorge di Tommy intento a staccare le foglie della preziosa siepetta di ligustro che delimita la parte di marciapiede occupata dai suoi quattro tavolini. «Regazzi’, che, stacchi le foglie? Facci a casa tua…» Tommy nemmeno si gira e continua imperterrito. Visto che l’altro alza la voce, mi avvicino, gli dico che sono il padre e di stare tranquillo, l’avrei fermato io. «Ja da insegna’ l’educazzione! Mica ponno fa’ quel che je pare.» I ciccioni affungati annuiscono complici. Sarei tentato di spiegargli educatamente che è un ragazzo con qualche problema; fra l’altro mi sembrerebbe così evidente alla semplice vista che qualcosa in lui non è proprio in linea con «le regole» che il piccoletto invoca. Mi limito a dire un «lo scusi», che sa di vecchia gag di Fantozzi, ma non m’importa, spero solo che la smetta di dar lezioni inveendo contro mio figlio, che non lo guarda, ma ha capito di essere al centro dell’alterco e comincia a chiudersi le orecchie. «Ah, nun ce voi senti’?» continua quello, facendosi forte del mio atteggiamento remissivo. Avevo abbozzato fino a quel momento solo perché volevo riprendere la passeggiata, seguire i miei pensieri, ed essere contento per Tommy che era felice di camminare da solo senza «scorta». Avrei potuto subire e tirar dritto ma, come se non fosse la mia voce, ascolto me stesso dire al cameriere: «Mi piacerebbe sentire che rumore fa la sua faccia mentre la sbatto sul marciapiede». Intanto mi scavallo lo zainetto dalle spalle. I due avventori rituffano il naso nella pastasciutta. Nessuno, cameriere compreso, dice più nulla. Prendo Tommy sottobraccio e proseguo verso casa.

Ormai si è innervosito e comincia a ripetere le cantilene di cui soltanto lui sa il senso, ma forse non vogliono dir nulla neanche per lui.

IX Aiuto! Ho scritto il mio nuovo status su Facebook un sabato sera di maggio: «Qui si consuma ogni modesta epica quotidiana; siamo soci nel saltimbancare leggiadro tra chi occhieggia, chi presume, chi allude, chi attende». Guardavo il profilo di una mia «collega» che aveva taggato la mia foto in tandem con Tommy, nel suo c’erano quelle di lei con il figlio mentre vogavano sul Tevere. La madre canottiera salutava il padre ciclista. Entrambi sportivi coatti per essere appendice attiva di un figlio autistico. Mi sentivo struggere dall’aria profumata che veniva dalla finestra socchiusa sul tramonto e mi sarebbe piaciuto poter uscire a zonzo per Roma, ma sapevo che era impossibile, Tommy al mio fianco, steso sul solito mucchio di cuscinoni della sua tana, ancora rumoreggiava. L’avevo appena ripreso al volo da un inizio di crisi aggressiva. Ormai so vedere subito come comincia, perciò evito che trascenda fino a dovergli saltare addosso per immobilizzarlo e impedire che mi faccia del male, o ne faccia a se stesso. Tommy è di una forza straordinaria, la sera precedente aveva avuto una crisi del genere, sempre da zero a mille, ed ero stato costretto a chiedere l’aiuto del fratello per bloccarlo sul divano. Io gli tenevo le braccia e mi ero seduto sul suo torace, Filippo lo stesso sulle gambe. Non riuscivamo però a contenerlo, e stava per scapparci di mano. Mi fa tanta tenerezza in quei momenti, mi ricorda King Kong sul grattacielo mitragliato dagli aerei nell’istante in cui sta per soccombere, ma è incazzatissimo, più che altro perché non si capacita come quei microbi possano sopraffarlo. Tommy, quando lo immobilizzo, trasfigura: sento che, se fosse libero, mi farebbe veramente male. Alzo un po’ la voce per impormi come posso. Lui grida: «Aiuto! Aiuto!», la parola che in assoluto pronuncia meglio. Ricordo che lui era piccolino e un giorno eravamo andati a fare una gita in montagna. Capitava spesso quando avevamo la casetta in Abruzzo, prima che il terremoto ce la congelasse in uno stato di attesa coatta di contributi pubblici per restaurarla. A me piaceva portare la famiglia in posti dove fosse possibile raccogliere legna e accendere un fuoco per arrostire la carne. Anche quella volta arrancavamo tutti quanti verso una casetta semidiroccata, un tempo rifugio per boy scout. Io avevo preceduto il resto della famiglia per cercare l’angolo più adatto ad accendere il fuoco senza far danni. Scelto il posto, avevo messo tutti al lavoro a raccogliere rami secchi, mentre preparavo il classico muretto di sassi per appoggiare la graticola. Eravamo talmente

assorti da non esserci accorti che Tommy mancava all’appello. Ci saremo distratti tre–quattro minuti, ognuno pensava che fosse con qualcun altro, mentre eravamo sparpagliati per la legna. Fu il panico. Davanti a noi un altopiano smisurato, un sentiero a vista per un chilometro, ma assolutamente deserto. Silenzio totale e nessuna traccia di Tommy a perdita d’occhio. Ricordo che pensai che qualcuno l’avesse rapito. Era un pensiero che a quel tempo mi veniva spesso; forse perché ero molto più visibile al mondo di oggi, pensavo che potessi aver dato nell’occhio in quel piccolo centro di montanari, qualcuno avrebbe anche potuto immaginare che io fossi ricco o qualcosa del genere. Ebbene, tutti questi pensieri mi si accavallarono in un solo istante. Pensieri idioti e del tutto improbabili in quel contesto, ma c’erano. Io sin da bambino ho questa mania di farmi film istantanei e dalla trama improbabile, come immediata reazione istintiva in circostanze di difficoltà. Come se prima di ogni soluzione razionale qualcosa in me volesse propormi il risvolto paradossale e improbabile di quell’evento in qualche dimensione parallela. Dura tutto pochissimi istanti, davvero. Lo ricordo qui solo per confermare teorie ereditarie di eterodosse transumanze elettriche tra le sinapsi. Forse l’autismo di Tommy è l’evoluzione del mio ragionare strambo. Moglie e figlio residuo, invece, avevano cominciato a correre scomposti urlando il nome di Tommy, ma rincorrevano solo la loro eco tra le gole dei monti circostanti. Tommy era scomparso come le ragazzine di Picnic a Hanging Rock, che venivano risucchiate dalla montagna al suono del flauto di Pan. Pensai a quella musica, infatti, e vedevo le rocce attorno a me immaginando Tommy per mano di qualche elfo che si allontanava per sempre. Forse questo è accaduto davvero, ma è durato pochissimo. Dopo una decina di minuti di soffocante panico ecco lieve la vocina di Tommy che diceva quasi timidamente, appunto: «Aiuto!». Era surreale non vederlo e sentire che chiedeva «Aiuto!», ripeto, l’unica parola che lui pronuncia perfettamente, penso da allora. Alla fine, seguendo quell’«Aiuto», intermittente e disperato come l’SOS del Titanic, lo trovai in un groviglio di sterpaglie dove una macchia di bosco si contendeva la sopravvivenza con la roccia del monte Sirente. Noi, a un certo punto, avevamo lasciato il sentiero per andare al rifugio, lui semplicemente aveva continuato a seguirlo fino a che si era impantanato tra gli alberi. In famiglia ricordiamo spesso come un fatto mitologico quel Tommy

bambino che diceva «Aiuto». A chi non conosce l’autismo tutto ciò sembrerà sicuramente banale, ma vi assicuro che sentir chiedere aiuto è uno di quei sintomi di attenzione al mondo che, per noi, rappresentano un’eccezionale momento di apertura. Una «collega», per spiegare ai profani cosa significhi accudire sua figlia autistica, racconta: «Se ha il mal di denti non ti dice nulla, se ha mal di pancia non ti dice nulla, non dice e non mi dirà mai nulla di quello che le succede». Io, per questo, ancora una volta mi sento fortunato: Tommy qualche volta dice «Aiuto». Lo usa spesso anche per rilevare qualcosa che lo infastidisce, in quel caso ripete «Aiuto» a raffiche veloci tappandosi contemporaneamente le orecchie. È un «Aiuto» che assomiglia più a un «Questo non mi piace proprio, levatemelo di torno». Quando, invece, si tratta di una richiesta di aiuto vera e propria, è inequivocabile. Può dire «Aiuto» se infila un dito nel fregio della spalliera di una sedia e resta intrappolato e a rischio che il dito possa spezzarsi se la sedia si rovescia. O se si schianta la rete a doghe del letto perché ci salta sopra con tutto il peso. Chiede «Aiuto» se gli resta il capoccione incastrato in una maglietta o un maglione di cui non ha abbassato la zip prima di sfilarselo. Occorre non perderlo mai d’occhio, il «comportamento problema» nasce spesso da piccole difficoltà di questo tipo, ostacolando il suo lecito desiderio di relax. Con Tommy nei paraggi non si può mai abbassare la guardia, proprio mai. Trascurare un sintomo che annuncia una complicazione può significare dover passare una notte in bianco con lui che smania e ti occupa il letto, costringendoti a emigrare altrove. È strano trovarsi Tommy nel letto. Ormai è tacito che quando decide di trasferirsi nottetempo da noi, è Natalia a lasciargli il posto e lui s’accuccia dalla sua parte del lettone senza nemmeno svegliarmi. Capita a volte che io poi trasalisca sentendo all’improvviso sfiorarmi un piedone gigante dalla caviglia pelosa, tra sonno e veglia può essere che non riesca a elaborare al primo istante quale mostruosa metamorfosi si sia prodotta accanto a me, dove la sera prima era coricata una moglie. Poi osservo Tommy addormentato. È esattamente come era da bambino piccolissimo, lo stesso sonno beato di chi finalmente è tranquillo e sicuro che nulla possa accadergli. Dorme sul fianco dandomi la schiena, la sua apertura di spalle quasi oscura il bagliore dei lampioni che trapela dagli spiragli delle persiane chiuse. Guardo a lungo quel gigante dormiente che è il mio bimbo, espanso soltanto nel corpo. La notte in questo è tenera, quando non permette

che i pensieri cupi ti attanaglino, devo dire che la presenza fisica in stato di quiete dissipa ogni angoscia. Il figlio autistico serenamente addormentato è come una pila che ti ricarica, magari dopo una giornata passata a inseguirlo e a lasciarsi inseguire dalle sue cantilene sconnesse. Ormai ho trovato nella notte acquetata l’unica fessura di tempo che posso dedicare a me, senza condizioni. È tempo talmente prezioso che alla fine ne spreco la maggior parte nell’euforia del morto di fame alla mensa del re. Così, visto che ho la fortuna di avere un mio spazio a un passo da casa, appena sento che tutti sono tranquilli e presumo di avere qualche ora per me fino alla sveglia del giorno dopo, comincio a progettare il da farsi. La maggior parte delle volte abbandono ogni progetto creativo e resto a casa a guardare la tv a oltranza; in altri orari è raro che possa farlo senza dovermi preoccupare di scorrere a loop Zeta la formica, stando attento a mandare avanti veloce la scena delle due formichine attaccate con il chewingum alla suola di un bambino. Una delle tante sequenze dei cartoon preferiti da Tommy che lo fa precipitare in uno stato di ansia. Allora comincia a saltare sul divano e a urlare come se il riso isterico lo soffocasse. Capisco bene che in particolare quella scena metta in agitazione chi, come lui, ha così poca attitudine a interpretare i paradossi di un cartoon. La sequenza è ripresa dal punto di vista delle formichine e quindi il piedone è immenso e genera paura nello spettatore che si immedesima. Per Tommy è peggio ancora perché si vede realmente nelle condizioni di dover affrontare un gigante che potrebbe schiacciarlo. In quel momento lui è Zeta la formica e una scarpa grande come la casa sta per arrivargli sulla testa. Così, spesso mi appisolo come un pensionato disperato, davanti a una puntata di «Malattie imbarazzanti». Quando avrei tanto da scrivere e leggere in quelle ore preziose rubate al mio sorvegliante speciale.

X Second Life La mia casa della fuga, come ho detto, non è lontana dall’abitazione, un paio di minuti a piedi lungo la stessa strada, dove viviamo. Ho deciso di investire ogni mia sostanza, e mettendoci pure su un mutuo, nella mia isola di libertà. Anzi, mia e di Tommy. La notte quando riesco a staccarmi dalla sedazione televisiva ci torno a lavorare (come ora, mentre scrivo queste pagine) ed è una sensazione per me impagabile entrare in quella scatola silenziosa e incolore (ho voluto tutto in scale di grigio fino al nero assoluto, mi piace così, anche se sembra un po’ un obitorio di lusso). Un computer è sempre acceso senza dover temere che qualcuno ci metta su le mani, magari per scovare velocissimo l’accesso a «Second Life», un’altra delle più fantastiche maniere che Tommy conosce per passare il suo tempo. Ho scoperto per caso quanto gli piaccia vagabondare per quel metaverso desolato come un paesaggio post atomico. Qualche anno fa m’impegnai ad approfondire un fenomeno che appassionava molto i media e trascorsi qualche mese in Second Life per studiare le transumanze d’umanità insoddisfatta, fatta di gente comune che pensava di colonizzare quell’utopia tridimensionale interattiva generata da un computer. Per l’occasione mi creai il mio avatar, che si chiamava (e tuttora si chiama) bitser Scarfiotti. Era un signore in frac molto curioso e irascibile che sguinzagliavo ovunque ci fosse gente disposta a raccontare la propria seconda vita. Scarfiotti fece un buon lavoro e insieme scrivemmo un libro reportage (Le vostre miserie, il mio splendore) che m’impegnò molto, ma mi permise anche di riflettere assai su quelle che chiamo «protesi emozionali», vale a dire gli additivi tecnologici– elettronici–digitali che oggi ci permettono di espanderci felicemente in un mondo di relazioni allargate che, vivaiddio, possano trascendere da nostri più antichi condizionamenti sociali, anagrafici, spazio–temporali. Venne poi il momento in cui Second Life si sgonfiò, defunse l’attenzione mediatica e il fenomeno, come spesso accade, venne risucchiato dalla fortuna straordinaria dei social network che, con minore artificio e impegno tecnologico, in fondo fornivano lo stesso risultato di immaginifica fucina di nostre personalità multiple. Il vecchio Scarfiotti restò in sospensione vari anni, non andai più a scovarlo nel suo mondo leggerissimo, salvo qualche rara volta in cui ero preso da attacchi di nostalgia e ritornavo a guardare la mia vecchia casa costruita tra le nuvole, il mio scannatoio rosso con idromassaggio e tutti i

luoghi che furono per mesi teatro delle allegre scorribande di bitser. Dei vecchi amici nessuna traccia, Second Life è stata abbandonata quasi interamente e ora girarla procura la sensazione surreale di visitare un universo evacuato: ogni casa in cui si entra, ogni angolo di città, ogni locale, officina, aeroporto, sala da ballo sembrano essere stati abbandonati d’urgenza per un esodo improvviso verso chissà dove. Ebbene, questo mondo di oggetti senza persone ho scoperto essere l’habitat ideale per Tommy. Cosa fa Tommy quando entra in Second Life? Innanzitutto ama far volare il signor Scarfiotti sopra il mare aperto nella direzione del sole. Altre volte gli piace farlo precipitare da altezze vertiginose e farlo schiantare a terra. Un avatar non si fa male, si rialza e riprende a camminare… Questo a lui diverte, ma a me atterrisce. Non vorrei mai che entrasse in Tommy l’idea che sia possibile lanciarsi magari da una finestra, fare un rimbalzino e rialzarsi come nulla fosse. Per questa ragione ho munito la mia tana di inferriate alle finestre ad altezza scavalco e di serrature a ogni imposta. Il problema di maggior difficoltà nella gestione di un autistico è proprio l’imprevedibilità e la totale irrazionalità dei suoi comportamenti. Non c’è da meravigliarsi di nulla, potrebbe uscire per strada e mettersi a camminare, magari attraversare le rotaie mentre passa il tram, o sedersi per terra a guardare o chissà cos’altro… Con questo pensiero tutto può diventare pericoloso con lui, e penso che non smetterà di esserlo anche quando sarà completamente adulto. Per esempio, ho sempre avuto terrore di cosa potesse mettersi in bocca: palloncini colorati, bottoni, pezzetti piccoli del lego o quelle sferette d’acciaio di un gioco di costruzione con le calamite. So che magari per anni potrebbe sembrare disinteressato a un comportamento del genere, ma poi, all’improvviso, ripeterlo. In questo periodo ciò vale soprattutto per il suo iPad. Senza apparente motivo, inizia a sgranocchiare il suo tablet, che ama come un feticcio sacro, pur sapendo che così lo danneggerà e dovrà restarne privo minimo per una settimana, per la riparazione. A lui, nel momento della «mordacchia» non interessa, o non conserva memoria del disagio che ne consegue. Ha un istinto irrefrenabile di mordere quell’oggetto perché magari non trova il video che vorrebbe vedere o in quel momento manca la rete wireless, o vuol esprimere un disagio a chi sta con lui. Non a caso ho osservato che, statisticamente, l’azzannamento dell’iPad avviene di sabato, quando io per qualche motivo, soprattutto di lavoro, non sono in casa e non mi occupo di lui come di consueto, praticamente da quando è nato. Il sabato è giorno lavorativo per mia moglie e quindi da

sempre dei figli mi sono occupato io, almeno al pomeriggio, quando lei è al giornale. Ho una grande memoria dei miei sabati da balia asciutta, un po’ con nostalgia e rimpianto, ma anche con rabbia. Soprattutto durante le mitologiche gare al rinfaccio con la moglie, immancabili e penso necessarie per rinsaldare il patto di tenere duro assieme. È una delle mie armi preferite sparare il missile della condanna al «sabato badante». Oggi che Filippo è quasi maggiorenne, sempre più spesso restiamo soli Tommy e io. Il sabato è la giornata che più detesto in assoluto, sono sempre stato un fobico delle pause dal lavoro e tollero male la sospensione forzata che questa giornata impone. Il paradosso è che mia moglie, al contrario, darebbe chissà cosa per non dover lavorare e starsene a casa. Sta di fatto che, siccome non si può sempre avere quel che si vuole, ho ricordi remoti dei miei sabati d’impegno paterno, e anche più recenti. Da quando portavo i figli piccolissimi per parchi e giardini. Un periodo li scarrozzavo in due sullo stesso passeggino, il maggiore in piedi sul predellino e Tommy seduto. Al tempo avevo un gilè multitasche, di quelli da pensionato sfaccendato che commenta i cantieri con le mani dietro la schiena. Lo usavo per avere a portata di mano i ricambi di pannolini per entrambi, con assorbenza calibrata sulle diverse età. Un po’ paraculeggiavo quando incontravo mamme con pargoli al seguito, mi piaceva fare il gigione finto imbranato per indurle a soccorrermi. Mentre, in realtà potevo dare a tutte lezione su cambi, salviettine, accudimento ecc. A casa il sabato sera mi divertiva fare il gioco del ristorante: loro si sedevano a tavola e «ordinavano»; alla fine il menu era sempre la solita frittata con il bacon, che a loro piace molto. Ho scritto «ordinavano»: già, ma Tommy come faceva se non parlava? Non ricordo bene, però sono sicuro che riuscisse a farsi capire. Ora mi rendo conto che ho sempre parlato con Tommy, non c’è mai stata una volta che lui non riuscisse a farsi capire da me o che io non riuscissi a comunicare con lui. Com’è stato possibile con una persona che pronuncia solo monosillabi, parole smozzicate e deformi, al massimo due per volta, mai più di due? La verità è che con poche persone al mondo mi capisco senza fraintendimenti come con lui. Il flusso informativo con l’autistico, una volta assimilato il codice d’interscambio, è inequivocabile. Questo parrebbe contraddire ogni racconto sulle difficoltà di comprendere ed essere compresi da loro. Non sono d’accordo, l’autistico non ha segreti se si parte da un presupposto essenziale: la sua realtà non ha complessità.

Io passo per uno che ama spaccare il capello in quattro, ho fatto della sega mentale la mia principale caratteristica di riconoscibilità professionale. Mi piace articolare ogni banalità quotidiana in percorsi fantasmagorici che ne rivelino ogni aspetto nascosto, anche inventando… Sono riuscito a parlare per ore di libri che non avevo mai nemmeno sfogliato, o di film mai visti. Un giorno mi sono accorto che lo scopino per gabinetto Gåsgrud dell’Ikea era stato, secondo me, assemblato erroneamente e aveva un difetto di costruzione. Ne ho fatto un video in cui spiego passaggio dopo passaggio l’errore di fabbricazione del tristerrimo presidio nettatore. Questo per dirvi quanto io sia visceralmente un pedante curioso. Con Tommy ho capito che è molto più comodo, quanto utile alla serenità, azzerare ogni possibilità di biforcazione di un pensiero diretto. È evidente persino a me che predicare la semplificazione non è certo la formula più calzante all’evoluzione dell’umanità; può essere comunque una buona maniera per instillare un po’ di sano realismo, utilissimo a ponderare i troppi paradossi che quotidianamente schiacciano il nostro buonsenso. Faccio un esempio: sono recentemente stato intervistato da un consulente di un’azienda editoriale. Il tema era cercare un’efficace strategia per la declinazione web dei prodotti di quel marchio. Semplici domande su quel che facevo, come lo facevo, su ciò che pensavo del pubblico che mi seguiva ecc. A un certo punto il mio interlocutore, una ragazza, si qualificò professionalmente: «Io faccio parte di un team di ingegneri della reputazione…». Mi misi a ridere. Non potevo pensare che qualcuno pagasse persone che si spacciavano per «ingegneri della reputazione». Risposi che io da sempre mi ritenevo un «ingegnere dello sputtanamento», ma capii presto che la mia era una lacuna grave. Quella su cui avevo ironizzato è una figura di consulente aziendale oggi molto richiesta: deve essere capace di plasmare l’identità digitale del suo cliente, consentendogli un controllo della percezione che il mondo ha di lui sul web. L’autistico non avrà mai bisogno di ricorrere all’ingegneria della reputazione. Se per un’azienda, o un singolo particolarmente noto, è fondamentale tenere sotto controllo i flussi indiscriminati di informazioni e pareri sul suo conto che circolano in rete, per l’autistico non è nemmeno troppo importante il parere che di lui hanno le poche persone che incrocia durante la giornata. A Tommy basta che chi gli sta attorno non lo contrasti o rimproveri, poi non credo che sia per lui importante sforzarsi per strappare un giudizio benevolo. È vero che la reputazione è indispensabile a mantenere

prestigio professionale, a tenere buoni rapporti, a risultare affidabili nel proprio settore… Ed è talvolta necessario ricorrere a un ingegnere reputazionale perché troppo di noi si è sparpagliato in giro, soprattutto nelle nostre estensioni digitali create per guadagnarci attenzione e consenso, i nostri stracci dimenticati, alla fine, possono creare un serio problema di smaltimento. Mi piace però pensare che, se ci limitassimo, come l’autistico, ad azzerare i nostri sforzi per essere graditi, forse vivremmo un po’ meno angosciati.

XI Coming out «Quella mattina di gennaio vi ho incontrati sul bus n. 32. Sono state le parole rivolte a Tommy: “Dai vieni, siediti qui”, a farmi completare l’associazione tra la voce della radio e la foto di te che avevo visto su Facebook. Tu, spronandogli il braccio, l’hai fatto sedere sul posto che si era liberato. Mi sono chiesta se lo facevi per la logistica di un bus affollato o per proteggere tuo figlio nello spazio che avevi delimitato con le tue braccia, tra il sedile e il corrimano. Lui, con la schiena sullo zaino di scuola, pareva osservare tutto e guardare nessuno, con la sensazione che gli occhi gli si fossero un po’ persi nel vuoto, ma più per tirare le fila di un’organizzazione mentale che saltava il passaggio del colpo d’occhio, per andar dritto a livelli di profondità che coinvolgevano il tutto…» Così mi scrisse tramite Facebook una mia ascoltatrice che spesso mi seguiva alla radio, ma quella mattina mi aveva incrociato nell’autobus che prendeva per andare al lavoro, autobus che casualmente era anche il mio. Avrebbe voluto salutarmi e presentarsi, ma si era bloccata perché mi aveva visto molto indaffarato con Tommy e si era fatta degli scrupoli. Sapeva dell’esistenza di Tommy; da quando lui è adolescente e sono iniziati i problemi veri ho fatto il mio coming out pubblico anche alla radio, ma soprattutto attraverso i social media, di cui sono un assiduo frequentatore. So, soprattutto per sentito dire, che non sono pochi i personaggi con una certa notorietà pubblica che mi raccontano di avere un figlio «speciale». Tacerlo, per molti, probabilmente nasce dal lecito desiderio di tenere il loro privato separato dalla sfera pubblica, per altri forse è una questione legata alla propria «immagine». Non so se azzardo ipotesi improbabili ma, se penso a madri e padri vip, constato che hanno sempre figlioli splendidamente fotogenici. Il figliare è diventato, per presentatrici tv, rockstar, politiche e imprenditrici, un evento spendibile come supporto all’immagine. Per questa ragione, forse, il prodotto di lombi così pubblicamente celebrati non può che rasentare la perfezione. Ho sentito parlare di ecografie anticipatorie fatte subito circolare per attestare il miracoloso avvento, panciutissimi scatti, leccati al fotoritocco, che preludono al servizio clou della creatura attaccata al seno, nel bagnetto, con il papà, con l’agente della mamma, con i colleghi, i nonni, le guardie del corpo. In questa apoteosi non c’è posto per figli banalmente normali, figuriamoci se sfiorati dalla «sorte maligna» di una qualsiasi disabilità.

Chiunque potrà scorgere rosicamento in queste righe appena scritte. Sì, forse… Negarlo sarebbe sciocco. Anche io avrei preferito non dovermi occupare di questo problema, pienamente consapevole che avrei potuto però averne di altri, anche peggiori, e tutti statisticamente producibili nello spettro della più assoluta «normalità». Nel fare questi pensieri viene subito la tentazione di elencare mentalmente tutto ciò che potrebbe sembrarci peggio del nostro figlio con problemi. Malattie devastanti, precoce tendenza alla criminalità e al parricidio, tracce di possessione diabolica, vocazione al servilismo, al conformismo, angustia di orizzonti intellettuali… Potrei continuare l’elenco per pagine e pagine, ma lo accenno qui solo per far capire che è un attimo tirarsi su e pensare che poteva andarci anche peggio. Meglio un figlio che parla poco di uno loquace, ma capace solo di dir cazzate. Sono sfoghi futili, ma sarebbe molto utile che i «colleghi» scendessero in campo con i loro figli problematici, se non altro per rafforzare l’idea che un figlio non totalmente abile può capitare a chiunque. Sarebbe non solo utile, ma anche di formidabile aiuto per chi avesse mai l’idea di non fermarsi a considerare soltanto il proprio caso, e si facesse venire in mente qualche idea che possa regalare momenti di felicità anche ad altri compagni di strada. Io, da parte mia, ho sperimentato come sia potente avere una minima notorietà per creare piccoli, ma salutari movimenti di opinione che non possono che giovare al problema in generale. Anche i più illuminati tra noi hanno un’iniziale ritrosia a rendere pubblico il loro segreto familiare. Dapprima ci si autogiustifica con la minore età del ragazzo, diciamo a noi stessi di non volerlo esporre per proteggerlo, per non metterlo a disagio. Io penso che, in realtà, se coltiviamo questa idea finiamo per essere i suoi carcerieri. Conosco troppe storie di famiglie che hanno il loro problema chiuso a chiave, legato stretto con la camicia di forza. Strumento di contenzione quasi immateriale che può chiamarsi come uno qualsiasi di quei salutari farmaci che ti hanno consigliato «per far stare più tranquillo lui e respirare un po’ voi…». Non posso escludere che alla fine anch’io metterò in bocca a mio figlio una pilloletta che lo trasformerà in un agnellino, magari facendolo pure lievitare fino una quindicina di chili, come leggo sul bugiardino, quasi fosse un maxifiloncino di pane prima di essere infornato. Lo farò se umanamente mi troverò davanti un muro e mi renderò conto che è davvero l’unica via percorribile. Al momento ho evitato, anche se già ampiamente consigliato. M’insospettì che per ottenere quella sostanza fosse

necessario un iter complicatissimo con autorizzazioni moltiplicate e grande attenzione. Avevo l’impressione di essermi messo in casa un panetto di esplosivo al plastico. L’ho guardato, ho letto scrupolosamente cosa si scriveva in rete a proposito di quella molecola, e ho deciso che era meglio lasciar perdere. Sono passati vari mesi e sinceramente sono molto contento di averlo fatto, non ho mai avuto un istante di ripensamento né vissuto situazioni in cui sentissi un’ineluttabile necessità di sedare Tommy. Ancora ce la faccio bene a contenerlo; per di più sono convinto che, quando si lascia andare a qualche stramberia, ogni suo «comportamento problema» sia causato da qualcosa di veramente fastidioso per lui, che non riesce a comunicarmi in altro modo. Prendendo nota con attenzione di tutto quello che si è fatto prima di un’esplosione irruenta, sarà facile notare delle coincidenze, anche minime, cui noi non abbiamo fatto caso, ma lui sì, e che per questo si è incazzato come un bufalo. Sembrerà sciocco, ma possono bastare una maglietta di un colore non gradito, o una frase pronunciata con un tono troppo perentorio, o l’interruzione inspiegabile (per lui) di un suo momento piacevole di relax o di osservazione muta del suo pensiero insondabile per farlo esplodere. Nulla mi atterrisce quanto il rendermi conto di come il gigante Tommy sia, in realtà, assai fragile. È sufficiente una telefonata, puntualmente quando sono lontano da casa, che mi avverta che Tommy ha avuto una crisi epilettica. Allora quel ragazzo forzuto diventa un passero implume caduto dal nido, anche se ha due manone grandi come pale, e braccia che sono capaci di farmi scricchiolare le costole se mi abbraccia. Era passato più di un anno e ci eravamo dimenticati di quella cosa. Pensavamo che bastasse una pillolina mattina e sera per allontanare per sempre l’incubo della convulsione. Non è una bella cosa quando accade. Di solito alla sera, magari davanti alla tv. Tommy comincia a emettere un suono dalla bocca che non sembra venire da lui, le pupille scompaiono all’interno e comincia a sbattersi come quei robottini di latta con cui giocavamo negli anni Sessanta. Quando si rovesciavano sulla schiena continuavano a muovere testa, braccia e gambe con tutte le loro lucine e rumorini spaziali. Quando passa molto tempo da un attacco capita che nemmeno ci si porti più dietro il contenitore sigillato del farmaco che, nel caso, occorre somministrargli al volo per via rettale. Li ho tenuti sempre con me per tanto tempo, ogni volta che uscivo con lui, quei cosetti salvavita. Anche se non è

che sia proprio agevole fargli un microclisma quando è a terra, magari su un marciapiede. Adesso che è cresciuto immagino sarebbe ancora più difficile, se dovesse capitarmi in mezzo ai passanti. L’epilessia coglie l’autistico solitamente dalla fase dell’adolescenza. Non è tassativo che accada, dicono, ma io conosco solo gente cui è accaduto e continua ad accadere. È una fase della vita di un autistico che incombe: si legge di un 30 per cento di possibilità e si pensa sempre che sicuramente nostro figlio farà parte di quei due su tre più fortunati, ma di solito non è così. Chissà a quanti altri uno su tre siamo scampati e nemmeno ne siamo felici…

XII La ragazza in bombetta Sul Frecciarossa Milano–Roma ho conosciuto quella ragazza. L’ho incontrata per una serie di combinazioni che in seguito pensai nulla avessero di casuale. Ero arrivato in stazione con anticipo e quindi ero salito al volo, senza prenotazione, sul primo treno in partenza. Ho sempre fretta di tornare a casa, ho sempre una badante che devo liberare, una moglie che deve lavorare, un figlio che non può restare solo. Per questo scappo di corsa, quando potrei prendermela più comoda. Il treno era pieno come un uovo, ma il capotreno mi aveva suggerito la carrozza tre. È quella in cui viaggiano gli invalidi carrozzati, ma appresi che lì ci sono sempre due posti non assegnabili, con il sedile reclinabile per fare spazio alle sedie a rotelle. Anche quella parte di scompartimento, però, era occupata. C’era una bella ragazzona, con lunghi boccoli biondi e una bombetta in testa. Aveva mezzi guanti di pizzo nero e civettuole scarpette a punta. Mi disse che, se volevo, potevo sedermi accanto alla sua carrozzella motorizzata, avrebbe finto che fossi il suo accompagnatore. Aveva un sorriso che mi mise molta allegria, cominciai così a parlarle senza nemmeno prendere fiato. Io spesso uso le parole come una mitragliatrice, soprattutto quando trovo un bersaglio divertente. Era davvero un tipo singolare e l’interrogatorio era giustificabile: se a una persona piace essere oggetto d’attenzione, sa benissimo che poi è cortese soddisfare le curiosità altrui. La ragazza parlava italiano con un accento inglese. Mi raccontò la sua storia di ex atleta, ora desiderosa di andare a studiare in un’università americana, ma in questo suo progetto era bloccata dall’affetto materno. Capii che aveva una madre che l’avrebbe voluta eternamente nel ruolo di amorosa imperfezione da accudire o, forse meglio sarebbe dire, «imprigionare». Mi colpì una sua frase: «È colpa mia se mi sono ammalata. Mia madre avrebbe voluto una figlia completamente sana, non posso ora farla soffrire lasciandola sola. Devo almeno poterle permettere di occuparsi di me». La vidi poco dopo scendere dallo scompartimento caricata su un elevatore, tutta vestita di nero, e davvero elegante; stava attaccata alla sua automobilina nera in modo così indissolubile da sembrare una centauressa tecnologica. Gli inservienti della stazione la baciavano e scherzavano con lei, pensai che ormai fossero abituati a farla salire e scendere dai treni. La seguii con lo sguardo, fino a che mi fu possibile, mentre si allontanava lungo la banchina sgommando tra viaggiatori e valigie, con la sua bombetta nera. Mi

parve un carrarmato all’attacco del fronte nemico. Il suo nemico era forse la madre, ancor più lo avevo pensato quando mi aveva raccontato che per mestiere si occupava di assistenza agli anziani in una casa di riposo, o qualcosa di simile. Mi era venuto un pensiero pessimo, ma non potei fare a meno di immaginare come quella madre si sarebbe potuta sentire massimamente realizzata nell’assistenza perenne alla figlia, già predisposta fin dalla giovane età per essere terreno d’esercizio illimitato della sua gratificazione professionale. La «ragazza in bombetta» mi aveva fulminato su quanto tutti noi genitori rischiamo continuamente di comportarci allo stesso modo con i nostri figli speciali, magari in perfetta buona fede, come accade a sua mamma, che ha probabilmente il solo torto di far coincidere l’affettività con l’attività iperparamedica. Come sempre faccio, per malversazione caratteriale, mi sono immedesimato nella madre di quella ragazza. La sua è una situazione opposta alla mia, lei ha una figliola la cui mente corre velocissima e vorrebbe andare oltre l’immobilità forzata dell’hardware che la contiene. Il Tommy che mi è toccato potrebbe camminare ovunque, essere buttato in acqua, fatto salire su un aereo, nave, treno, deltaplano, bicicletta ecc. Non ci sarebbe per lui alcun problema a fare ciascuna di queste attività, solo l’ansia di chi l’accudisce e, a ragione, reputa che la sua fantastica, quanto radicale, irresponsabilità possa metterlo in pericolo in ogni istante. Così la ragazza cervellona si muove solo per piccole tratte, a fatica, dovendo sempre far capo alla madre infermiera che pretende di accudirla come ragione di vita. E Tommy è il punto fermo che costringe me a tornare sempre dove è lui, come se avessi un guinzaglio che limitasse il raggio dello spazio percorribile. Mi rendo conto che potrei anche prenderla più alla leggera ma, proprio come la mamma infermiera, è venuta anche a me quasi l’ossessione di provare a risolvere il principale dei miei problemi usando la scappatoia di considerarlo uno dei tanti miei target professionali. Questo mi assolve dalla peggiore delle mie angosce: la percezione costante e quotidiana di perdere del tempo che potrei invece impiegare in maniera produttiva. Quando l’impegno diventa totale, non esiste più possibilità di programmare qualunque altra attività che richieda di muoversi fisicamente dall’area di controllo del proprio figlio. Io riesco comunque a scrivere, a leggere e a tenere contatti attraverso la rete, tutto il resto richiede che mi venga dato il cambio e non sempre c’è chi possa farlo. Per molti sarà difficile

immaginare come un lutto costante la sensazione invasiva della perdita del possesso del proprio tempo. Di solito più si avanza nell’età adulta, più si consolida la percezione che il tempo torni gradualmente a essere unicamente a propria disposizione. Tolti gli impegni strettamente professionali e quelli familiari, che sono soprattutto dedicati alla cura concreta di figli minori, ogni individuo in linea di massima dovrebbe sentirsi libero di decidere come passare il proprio tempo; e gli unici fattori limitanti potrebbero essere la salute e la disponibilità economica. Il figlio autistico impedisce che questo pensiero di libertà possa anche solo accennarsi. Nessuno ha più tempo per sé con un figlio del genere, soprattutto perché non può essere abbandonato nemmeno un istante, anche quando è bello grande e gli è spuntato il pelo. Vale quindi la regola che sia lui a decidere per te. Anche se non lo farà mai con misurata consapevolezza, l’autistico ti chiede dedizione perinde ac cadaver, come prescrive la regola dell’obbedienza gesuitica. Nessuna sera potrà essere libera, a meno che ci sia qualcuno che si occupi di lui, disposto a dormire a casa tua (se hai posto) o a cui pagare un taxi notturno oltre l’onorario. Poi, nella maggior parte dei casi, troverai questa persona addormentata sul divano davanti alla tv accesa, quando rientrerai, sempre in anticipo, perché l’ansia di cosa potrebbe accadere in tua assenza ti avrà costantemente divorato e poco ti sarai comunque goduto della serata. Alla fine non si fa più nulla, se non in ragione di quel tiranno balzano che ora ti accarezza, ora ti pesta. E nemmeno vale la pena di illudersi che sia solo una questione di organizzazione. Io mi ero attrezzato al meglio sul far di un’estate che avrei dovuto dedicare alla scrittura. Avevo scelto un albergo con terme in mezzo al verde, a meno di un’ora da Roma. Avevo prenotato camere comode per moglie e figli, avevo dotato la famiglia del miglior assistente che Tommy potesse sperare, ovvero il mitico vegano tatuato. Avevano a disposizione verde in abbondanza, piscine di tutti i tipi, massaggi e delizie varie. Insomma, pensavo di potermene stare, almeno una settimana, bello tranquillo e senza patemi o sensi di colpa, immerso tra i condizionatori del mio studio a occuparmi a tempo pieno del lavoro lasciato indietro. Invece no, dopo solo due giorni Tommy comincia a chiedere di tornare a casa, ogni volta che telefono capisco che è irrequieto; al quarto giorno sembra che inizi a manifestare qualche problema di intolleranza allo zolfo, di cui sono sature quelle acque medicamentose. Ricordo che una sera, appena chiuso il collegamento di Skype sui volti per nulla sereni dei miei familiari,

per i quali pensavo di aver fatto il massimo possibile, mi sono accorto che gridavo da solo: «Ma che cazzo posso fare più di così!!!». La mattina dopo ho mollato quello che stavo facendo, li ho raggiunti e ho trascorso con loro tre giorni durante i quali miracolosamente ogni problema sembrava evaporato. Tommy è scientifico nel suo fracassare le palle. Una volta avevo portato tutti a mangiare in una piccola trattoria alle pendici del Monte Subasio. Era uno di quei posti che restano immutati nello scorrere dei decenni. Fu teatro di mie scorribande giovanili, quando da studente mi ci rifocillavo assieme ad amiche che portavo per fratte con la scusa della visita ai luoghi francescani. Ci portai mia moglie ai tempi in cui la conobbi, la prima volta che da Roma andai con lei a Perugia, e naturalmente già allora (saranno più di venti anni fa) me ne guardavo bene dal passare a casa dai miei, per evitare immancabili contrasti. Quell’ultima volta ero tornato nella mia città natale per necessità ma, come al solito, di soppiatto come un ladro. Era una bella giornata d’estate e mi venne voglia di portare i figli in quel locale. A loro piace la carne alla brace, la torta al testo, la zuppa inglese e in genere tutte le vivande della cucina contadina umbra che associano alle visite che facevamo anni addietro ai nonni. Con mio piacere il cameriere addirittura mi riconobbe e questo mi commosse. Ci sedemmo all’aperto sotto il pergolato, ordinammo da bere, le donne già attizzavano la brace, nell’aria il profumo di salsiccia arrostita tra foglie d’alloro e spruzzate di vino rosso. Dichiarai ufficialmente ai familiari di avere la consapevolezza di un istante di rara felicità, in cui passato e presente potevano convivere senza farsi la guerra. Non avevo però fatto i conti con una gallina ruspante. Nessuno ci aveva fatto caso, come ho detto era un posto alla buona dove si cucinava e mangiava all’aperto, come ricordo si faceva sull’aia per la battitura o la vendemmia. Però c’era una gallina che razzolava tranquilla ai margini della pergola e Tommy di nulla ha maggior terrore che delle galline. Non so perché, ma le galline gli fanno perdere ogni controllo, accade così da quando era piccolo e la sindrome alectorofobica non gli è mai passata. Tommy, non appena si accorse della gallina, si alzò in piedi iniziando a urlare. Inutile tentare di tranquillizzarlo, cambiare tavolo, scacciare la gallina. Mani alle orecchie e urla. Dovemmo andarcene dal pergolato. Solo alla fine Tommy accettò una soluzione di compromesso in una stanza all’interno e senza finestre. Si moriva dal caldo ed eravamo seduti proprio accanto al bagno,

preso d’assalto da un gruppo di giapponesi appena arrivato. Mi tornarono alla mente tutte quelle feroci sacre bestemmie della mia fanciullezza agreste, quelle per cui Malaparte elesse noi umbri buoni cugini di loro maledetti toscani. E a questo si ridusse il nostro istante di felicità.

XIII Prepararsi al peggio «’L peggio ’ncora ha da nì. Come disse quillo ch’eva magnèto ’l falcinello e eva arfatto solo ’l manico.» È un modo di dire arcaico della mia terra natia. Tutto il pessimismo radicale dell’animo agreste dell’umbro si manifesta nella disperazione del povero contadino che, per sublime surrealtà, ha ingoiato un falcetto. Ne espelle solo il manico e quindi comincia a prevedere la iattura di doverlo fare con la lacerante parte affilata e arcuata, che sembra forgiata apposta per rendere impossibile l’evacuazione, salvo devastanti effetti collaterali. Ecco, chi abbia la certezza diagnostica di avere un figlio autistico si trova esattamente nelle condizioni del falcettatore perugino. Quella notizia, per quanto possa avergli provocato dolore, è solo il manico del falcetto… Non prendetela male, solamente serva come consiglio per non esaurire tutto il proprio bagaglio di lamentazioni all’inizio della strada. Tenetene un po’ da parte per dopo, quando vi accorgerete che più andate avanti, più si allontana il punto di arrivo. Soprattutto perché vi renderete conto che fatalmente voi finirete prima di arrivarci… Ma a vostro figlio toccherà comunque andare avanti. So con certezza quali sono le fasi che attraversa una coppia genitrice di soggetti inseribili nello «spettro» autistico. Innanzitutto, viene un giorno in cui questo «spettro» si appalesa: è una visione all’inizio incerta, per lo meno nei casi di gravità intermedia come quello di cui ho esperienza diretta. Un figlio che sembra «normale» in realtà è tutt’altra cosa. Per molti, non sapere significa vivere ancora qualche anno con la speranza che si tratti di un semplice ritardo della parola, che con le terapie tutto si normalizzerà, che gli autistici sono ragazzi che urlano e sbattono la testa al muro e quindi quel figliolo – che è solamente un po’ schivo, ha qualche mania, ma soprattutto non ne vuol sapere di dire tre parole in fila – prima o poi si normalizzerà. Sono convinto, invece, che non bisognerebbe perdere un istante e sarebbe opportuno cominciare a organizzarsi il prima possibile per quella che sarà la vita che ci sarà concesso di vivere. Io ora parlo bene, ma non mi sono ancora mosso, altrimenti non sarei qui ad arrampicarmi sugli specchi. Penso, però, di sapere quello che bisognerebbe fare, quello che avrei dovuto fare prima, quello che forse farò, se ci riuscirò, naturalmente. La prima illusione che si coltiva è di cavarsela da soli, magari assieme se si è ancora una coppia al momento della rivelazione. La gratificazione che si prova nel sentirsi santi o eroi all’inizio devo dire

aiuta, è una specie di endorfina anestetica ed euforizzante allo stesso tempo. Ti senti fortissimo e butti in faccia al mondo il tuo fardello, provando un sottile senso di onnipotenza che proviene dal sentirsi invincibili nella propria giustificabile disinibizione. L’ho già accennato, mi sono trovato in questa fase consapevole del fatto che avrei potuto prendere a calci chiunque se solo mi fosse girata storta… Oh che cazzo, io ho un figlio autistico: dovete lasciarmi fare, voi che non sapete, non capite!!! È una fase infantile, questa, lo riconosco lucidamente. Serve a costruirsi un’immagine di sé abbastanza corazzata verso l’esterno, che ci rassicuri del fatto che siamo indistruttibili e andremo avanti come schiacciasassi per ottenere quello che serve ai nostri figli. Già, ma se poi ci fermiamo un attimo a riflettere, ci rendiamo conto che sappiamo solo vagamente ciò che a loro veramente è utile: a volte presumiamo di saperlo, altre ci fidiamo degli esperti, ma in realtà è difficile avere le idee abbastanza chiare sul da farsi. Quella volta Tommy era tornato dopo una settimana al mare con operatori e ragazzi come lui. Ero andato a prenderlo alla fermata del pulmino. Mentre camminavo, pensavo a cosa era stata per me quella settimana… Brutto dirlo, ma una vera orgia di libertà. Ero talmente affamato che, come sempre capita, avevo passato il tempo a cercare di decidere che cosa fare con tutte quelle ore a disposizione. Mi ero dimenticato che cosa significhi non dover sempre dire di no a chi t’invita a una serata, o anche semplicemente a un aperitivo. Impagabile non dover telefonare a casa per elemosinare una mezz’ora, un’ora al massimo alla mia preziosa badante che, sul far delle 20.30, comincia giustamente a scalpitare e magari il compagno già l’aspetta sotto il portone. Come non capirla d’altronde, un intero pomeriggio passato con Tommy fiaccherebbe chiunque. Inimmaginabile non dover correre a riprendere, a riaccompagnare alla terapia, a scuola, in piscina, a musica, al cavallo ecc. Tutte attività che, più o meno, impegnano la maggior parte delle famiglie, ma per gli altri arriva un momento della giornata in cui i figli possono anche dimenticarseli. Normalmente almeno un giorno a settimana anche il padre più dedito se lo può prendere di libera uscita, chi se lo brucia con il calcetto, chi con attività altrettanto gratificanti, chi semplicemente si fa una passeggiata a veder vetrine. Io ho la nettissima sensazione costante di rubare qualcosa se solo programmo una cenetta, un cinema, una qualsiasi attività che non sia strettamente legata al mio lavoro. Ancor peggiore della sensazione di

trascurare il lavoro per dedicarmi alle questioni legate a Tommy è la sensazione di togliere attenzioni a lui, o a Filippo, per impegni pressanti di lavoro. Alla fine è una gabbia, in cui mi sono rinchiuso da solo, come dice un mio amico neurologo, sicuramente con saggezza. Nella stessa gabbia, però, vedo pure i miei «colleghi» in attesa di quel pulmino, che mi appaiono più rilassati di quanto lo fossero una settimana fa, quando con gli occhi di fuori portavano il loro fardello per mano trascinando trolley e zainetti, sempre pieni di medicine e feticci per rendere meno difficile il lavoro degli educatori. Io nello zainetto di Tommy avevo messo il visore portatile di dvd e una dotazione minima di cartoon della Disney. Naturalmente l’immancabile antiepilettico e il microclisma anticonvulsionante, che ho anche in ogni cassetto di casa e dello studio e che ormai porto nel taschino come fosse un accendisigari. Quando il pulmino arriva, guardo Tommy scendere, sempre con la stessa espressione, nessun segno di piacere nel rivedermi, nessuna emozione. Mi piacerebbe poter raccontare che sento che a lui fa piacere esser tornato a casa e che, anche se non lo comunica esteriormente, mi manda segnali «elettrici» che solo un padre capisce, e che mi trasmette silenziosamente tutto quello che ogni altro padre si sentirebbe dire da un figlio in un’occasione simile. Invece no. Possiamo a volte pure illuderci che questo accada, ma se vogliamo essere lucidi, e se necessario spietati, dobbiamo ammettere che nostro figlio non è come noi, che ci sentiamo sempre in dovere di manifestare al prossimo quello che pensiamo gli faccia piacere. Lo facciamo non per altruismo, ma essenzialmente come un lubrificante per alleviare il disagio che ci provoca l’attrito relazionale. Sono convinto che Tommy, quando sono lontano da lui, mi veda come uno di quei pupazzetti che immagino siano i suoi pensieri. Il pupazzetto papà, che cresce a grandezza naturale solamente quando appaio concretamente. Per il resto, l’autistico, nella sua indifferenza radicale, è una macchina perfetta. Ogni relazione, pur gratificandoci, è sempre un immenso gorgo di ambiguità. Disallineamenti dolorosissimi tra il nostro sentire per quella persona e ciò che lei pensiamo possa provare per noi. Insicurezza che ci trascina spesso in un incubo di sabbie mobili, da cui difficilmente possiamo districarci. Almeno con le nostre sole forze. Ogni nostra relazione emotiva è inconsapevolmente mirata al controllo dell’interlocutore. Certo, ciò non accade per le persone che ci sono

indifferenti, come colleghi di lavoro o protagonisti della nostra sopravvivenza quotidiana (fruttivendolo, droghiere, barbiere, medico di famiglia), tutte persone con le quali sarebbe difficile anche solo ipotizzare un incontro che non sia finalizzato a una semplice transazione tra un servizio e un nostro bisogno. Più articolato e pericoloso è il lavorio che ognuno di noi deve compiere per destreggiarsi nei meandri di un rapporto più esclusivo. Quelle sono le contingenze in cui l’esperienza ci porta a considerare la necessità di strategie da serial killer. Capita per l’innamoramento non corrisposto di un collega/amico, per quello condiviso con una persona non propriamente libera, per l’amore che finisce, che indietreggia, che si esaurisce… Tutte circostanze che mettiamo in conto, per cui siamo attrezzati con presidi d’emergenza, come accade prima della partenza per una vacanza in un paese esotico a rischio gastroenterite. Questo complica enormemente la nostra vita. È vero, giustifica l’esistenza di poeti e letterati, ma oltre costoro, che dalle complessità dei sentimenti trovano alimento, per tutti gli altri esseri umani è un fardello contro natura arrivare a pensare che patire sia vivere. Non è vivere aspettare che arrivi quel falcetto devastatore viscerale, c’è poco da gioire perché ci siamo liberati solo del suo manico. Il peggio deve sempre ancora venire…

XIV Un argomento tabù… Perché non arrivi il peggio a funestarci, al peggio dobbiamo essere preparati. Per me il peggio è già pensare di essere recluso come un ragazzino che deve studiare ma sogna un prato per correre. La mia speranza è che Tommy diventi alla svelta maggiorenne. Paradossalmente lui è già un omone con tutti gli annessi e connessi, ma ha solo quattordici anni e devo considerarlo un bambino a tutti gli effetti. È singolarissimo questo fatto che Tommy non avrà mai una maturità da adulto, per quanti progressi potrà fare non avrà mai una testa molto diversa da quella di ora, di un bambinone che guarda i cartoni animati, a cui bisogna dire ogni volta che va in bagno di fare la pipì seduto per evitare che innaffi ovunque. Il grande salto fisico è avvenuto in pochissimo tempo. In un anno e poco più l’ho visto, nell’ordine, diventare quasi più alto di me, coprirsi di peli sul corpo e ora anche sul viso. È già un nuovo problema: chi gli farà la barba? Toccherà a me tutte le mattine? Userò il rasoio elettrico, che io ho sempre odiato, per essere sicuro di non tagliarlo? Al momento, io mi sto facendo crescere la barba. Se resisto, almeno ogni mattina ne avrò sempre una sola da radere, la sua al posto della mia. Tommy è cresciuto, sta volentieri con altri ragazzi ed è molto meno irrequieto di quando era bambino, ma quando si agita, proprio perché è cresciuto, comincia a farmi paura. L’ultima volta che ho dovuto fronteggiarlo era per strada, si era piantato perché dieci minuti prima l’avevo contraddetto facendogli mettere un paio di sandali che detesta: lui voleva le scarpe con i calzini ma non può dirlo. Avrei dovuto capire da piccoli particolari che il suo problema erano i sandali, ma avevo fretta. Così mi sono trovato a schivar testate da parte di quell’energumeno che cercavo di bloccare con una presa al collo. Esagerato? Per niente. In strada le auto passano veloci accanto a noi e non posso permettermi che scappi. Lui, come spesso accade, ha provato a colpirmi; per fortuna è ancora lento e scomposto, ma ho notato che impara veloce. Ora mi sono pentito di aver fatto con lui qualche allenamento di Karate, nei giorni in cui non sapevo come passare il tempo. Avevo comprato dei guantoni imbottiti e scambiavo con Tommy qualche pugno cercando di insegnargli le posizioni base, qualche parata, e altri semplici movimenti, tanto per abituarlo al contatto fisico. Allora sembrava poco interessato, ma adesso,

all’improvviso, sembra essersi ricordato tutto, a mie spese naturalmente. Tommy è un osso durissimo, a dargli una sculacciata si rischia di rompersi qualche dito, sembra fatto di ferro, indistruttibile da quanto è denso e compatto. Ha braccia e mani potentissime. Ho capito che se quando è incazzato gli permetto di afferrarmi sono fritto. Una volta lo tenevo fermo sul divano perché dava in escandescenze e stava per darle alla madre; adesso, per bloccarlo senza pericolo che si faccia male, quando posso chiedo aiuto a Filippo, che è mingherlino, ma in compenso da quando aveva sette anni pratica Wing Tzun, un micidiale Kung Fu inventato da una monaca cinese. Filippo mi è di buon supporto per prese non nocive, ma efficaci per contenerlo. Ultimamente Tommy non tollera di essere sottomesso e schiuma rabbia da tutti i pori. In queste situazioni è impressionante la sua metamorfosi immediata; quell’adolescente con il faccione da putto cresciuto, che infonderebbe tenerezza anche a un serial killer, diventa all’improvviso un energumeno dallo sguardo allucinato. Il suo volto, che è sempre di un delicato color porcellana, si fa rubizzo. La sua bocca a cuoricino arriva a sembrare quella di Hannibal senza la mordacchia. Quel giorno mi aveva preso con un braccio a tenaglia per il collo e mi aveva rivoltato sulle spalle. Confesso che ho avuto paura, non riuscivo a staccarlo e nemmeno a svincolarmi, o fare una qualsiasi leva per liberarmi. Ero solo e ho avuto per la prima volta paura di mio figlio, la percezione che se avesse continuato a stringere io sarei come minimo svenuto. Quella volta la cosa andò bene ma, quando accadrà di nuovo, sono sicuro che me la vedrò ancora più nera; lui nel frattempo avrà imparato come io potrei liberarmi e sarà certo più efficace nell’attacco. A questo punto qualcuno sarà indotto a pensare che io abbia una specie di mostro per casa. Nemmeno per sogno, ho un ragazzo di una tenerezza disarmante, che è un piacere tenersi accanto. Nel caso io abbia il mal di testa, gli chiedo di metterci le mani e già mi sento meglio. Anche se è grande e grosso, è un piacere averlo abbracciato accanto davanti alla tv, nessuno come lui in famiglia riesce a trasmettere tanta serenità e quiete con un semplice abbraccio. Però quando s’incazza… s’incazza! Verrà il giorno in cui non ce la farò più, o in cui quello che ancora è per me un quasi–gioco diventerà qualcosa di pericolosissimo. Lui cresce e diventa più forte, io invecchio e sarò sempre più fragile, non so come gestirò il conflitto estremo, nemmeno posso mandarlo via di casa come si fa con i

figli scapestrati. Tommy è un ottimo figliolo, ma le volte che dà di matto diventa un pericolo serio. Tornerò in palestra, diventerò coriaceo più che posso, allungherò il più possibile il tempo in cui posso farcela da solo contro di lui. Con l’adolescenza Tommy si è fatto pure parecchio esuberante. Questa è l’età in cui i maschietti si accorgono di avere risposte niente male da quell’attrezzo che usano per far pipì, di conseguenza si ingegnano a interrogarlo con lena e costanza. Lo fa anche Tommy ma, a differenza degli altri, lui non lo fa di nascosto: quando gli va, sfodera e opera. Per fortuna mai fuori di casa, almeno per ora, ma in casa è diventato normale per la famiglia assistere alla sua attività amanuense. Siamo riusciti a insegnargli che il luogo preposto a quell’operazione è la sua camera da letto; quando ha il raptus erotico, tranquillo ci va e inizia. Fa una grande tenerezza vedere un figlio che, come niente fosse, si trastulla il pisello. Penso che l’attività autoerotica sia stata il fulcro di ogni ossessione educativa. Generazioni di ragazzini negli ultimi secoli sono stati mandati da preti, medici e tutori specializzati perché fosse loro insegnato l’orrore del toccarsi. Sono stati inventati all’uopo marchingegni complicatissimi per riuscire a contenere la lussuria, come cinti, borchie, grate e lucchetti che rendessero irraggiungibile con le mani la verga lussuriosa. Oppure fasce per legare al letto, manette, guanti immobilizzanti. Tutti presidi atti a impedire che il giovinetto si procurasse con le sue stesse mani danni irreversibili, che andavano dalla cecità alla dannazione eterna. Ebbene, nulla di tutto questo con il figlio autistico. È scomparsa ogni traccia ancestrale del funereo non detto, il limaccioso sospetto che aleggiava attorno al fantasma della pugnetta filiale, furtivamente consumata all’ombra del focolare domestico. Tommy si spara gran segoni coram populo, ormai mentre lui opera anche la fida tata non ci fa più caso e l’ho vista più volte seduta con una rivista in mano ad aspettare in salotto che lui finisse di maneggiarsi la proboscide (sì, perché, come profeticamente vaticinò l’ostetrica che lo fece nascere, la natura compensò nel pisello ciò che a lui centellinò nel cervello). Ora il problema che si pone è che Tommy non potrà certo farsi solo seghe tutta la vita. Almeno, io me lo domando e ho provato pure a sondare in giro, così, tanto per cominciare a orientarmi, come ci si comporta al riguardo. Il muro dell’omertà è impenetrabile. Pare che di questo sia impossibile parlare con i genitori di altri ragazzi. I padri che incontro mi sembrano così poco interessati da parte loro a quell’universo da non porsi probabilmente il

quesito che loro figlio potrebbe avere, prima o poi, diritto alla sua espressione sessuale, non solamente autarchica. Capitò a mia moglie di seguire un convegno, con luminari dell’autismo convenuti in Italia da tutto il mondo. Nel programma era previsto un workshop che pareva interessante, proprio dedicato alla sessualità degli adolescenti autistici. Alle persone che avevano chiesto di seguirlo, la relatrice, con molto imbarazzo, disse che in Italia di quell’argomento non poteva parlare: avrebbe rischiato una denuncia per qualcosa tipo «istigazione ad atti sessuali su minorenni», o roba simile. Però anche i disabili hanno una sessualità. È forse questo il concetto più difficile da comunicare di tutto l’universo dell’handicap. Ogni normodotato spesso tende a ignorare che anche in un corpo, o in una mente, non perfettamente organizzati, può esserci l’idea di un’affettività erotica, come pure la ricerca dell’emozione di un contatto fisico. L’atteggiamento generale degli autistici meno gravi è di gioiosa e tenera spudoratezza, prova inconfutabile che il corpo «si sente», anche se non è perfettamente in linea con tutti i canoni estetici e funzionali. Questo è duro da mandare giù per chi, già nella sua personale esistenza, consideri il sesso come un’attività peccaminosa se non praticata in un rapporto stabile e finalizzata alla procreazione, solo per citare i casi meno ossessivi di sessuofobia su base religiosa. Nella testa di costoro non passa nemmeno per errore l’idea che forse una forma di sessualità estesa, non necessariamente solo genitale, possa essere un momento gradevole a fronte delle lunghe giornate neghittose dell’adolescente chiuso in casa. Mi è arrivata voce di famiglie che «sequestrano» il sesso dei figli disabili, li imbottiscono di farmaci negando a se stesse e al mondo che questi esistano anche come esseri che hanno diritto di conoscere il piacere del corpo. Più di un educatore accenna a mezza bocca a fosche vicende ricorrenti di mamme «amanuensi», votate al martirio, che si immolano per alleviare le compressioni inguinali di figliuoli disabili. Tutti sanno, ma nessuno ne parla apertamente. Non è però sempre così. In rete, tempo fa, nacque un dibattito attorno alla vicenda, quasi comica, di una madre, anziana insegnante separata dal marito, che accompagnava periodicamente il figlio, adulto e in carrozzella, da una signora «compiacente», perché nessun altro si sarebbe preso carico della sua sessualità. Fino a che, una notte, in quella casa ci fu una retata della polizia, così madre e figlio furono portati in questura, assieme ad altri ospiti e relative accompagnatrici, naturalmente nell’estremo imbarazzo dei tutori dell’ordine.

In quel caso, però, si trattava di un ragazzo capace di esprimersi, disabile solamente nel fisico. Ciò che penso atterrisca solo all’idea è procurare un’occasione di coito a un essere umano che, pur con un corpo da adulto, conserva l’innocenza di un bimbo. Per questo mi serve che Tommy diventi presto un uomo anche per l’anagrafe: ce ne andremo assieme a far bisboccia e troveremo l’operatrice gentile che si occuperà di lui: massaggiatrice orientale? estetista nazionale? rilassatrice specializzata? Ci sarà pure una maniera per far stare bene anche Tommy con una donna accanto, una maniera allegra, senza che nessuno si senta merce sfruttata ma professionista del benessere. Come una pedicure, una visagista, o una fisioterapista, che fa passare il colpo della strega. Insomma, da qui a quattro anni mi potrò inventare un modo per far scopare mio figlio che non ricordi il turpe tempo del casino o le scorribande da tristi puttanieri di provincia all’Alberto Sordi?

XV Un matrimonio combinato L’insegnante di yoga è stata chiara sul punto: «Devi insegnare a Tommy a masturbarsi!». Le ho risposto che secondo me si arrangiava bene da solo, queste sono cose che a noi uomini vengono spontanee. «Ma hai controllato se riesce a finire?» incalza quella. Mettere me in imbarazzo penso sia vicino all’impossibile, ma in effetti non mi ero mai premunito di fare quel tipo di controllo. Anzi, pensandoci, e non mi prendo in giro, mi sorse il pensiero che forse tutto quell’affaticarsi di Tommy, che lo faceva uscire di camera rosso e sudato, poteva essere perché lui era restato in sospeso. Non vorrei soffermarmi troppo su questo tema, ma solo perché alla fine sarebbe monotono, comunque la riflessione un po’ mi mise a disagio. Non per pudore, figuriamoci, ma perché non è proprio spontaneo pensare di dover insegnare a un figlio l’antica arte della manovella, con la stessa leggerezza con cui gli si potrebbe insegnare come si fa il nodo alla cravatta. Eppure, se le cose stanno così, qualcuno deve pur farlo. Già, ma chi se non il padre? Chiederlo a un educatore, come mi è stato consigliato? Non mi sembra una buona idea, non so perché, ma proprio mi pare una forzatura. Tanto che risposi alla leggiadra signora di insegnarglielo lei, dal momento che giudicava indispensabile quel training. Naturalmente era una boutade. Ora molti storceranno la bocca e penseranno che è da depravati parlare di queste cose, ma io non sono d’accordo: è preciso dovere di un genitore affrontare anche questo aspetto dei bisogni del proprio figlio autistico. Penso che chiunque abbia vissuto questa esperienza si sia posto il problema. Sulle risoluzioni possibili non ho formule, so che molti chiedono al medico curante qualcosa che tenga calmo il ragazzo. Può essere che questo sia il miglior ripiego per non affrontare il problema, a me mette ancora più angoscia che organizzare il master delle pugnette. Ricordo la tristezza del bromuro che ci veniva somministrato nel cibo ai vecchi e gloriosi tempi della naia. Anche allora lo scopo era il medesimo, cioè impedire che la recluta consumasse energie da dedicare all’addestramento militare con dispersive attività autoerotiche. Oggi per avere risposte spesso basta cercare in rete, ed è proprio quello che ho fatto mettendo semplici e crude parole nel motore di ricerca. Il primo documento segnalato è la relazione di uno specialista a un convegno, in cui leggo che i soggetti autistici potrebbero avere necessità di aiuto pratico per capire come riuscire a darsi soddisfazione nell’attività autoerotica. Si

specifica però che: «Sia i genitori, quanto gli educatori dovrebbero stare attenti a fornire quell’aiuto. La società non approva nessun contatto sessuale tra genitori/staff e le persone di cui hanno cura. Dove la necessità è reale è necessario discuterne con personale medico e chiedere l’aiuto di un sessuologo». Sono praticamente al punto di partenza. È chiaro che, pur essendomene molto infischiato nella vita delle disapprovazioni della società, sarebbe davvero una forzatura occuparmi personalmente di quel tipo d’istruzione. Potrei delegare la cosa agli educatori, ma anche questo, come ho già detto, mi suona stonato. Forse l’imprinting del ginnasio in un istituto di preti mi ha reso molto sospettoso, diffido d’istinto degli educatori che si caricano di tali incombenze. Eppure ci sarà una strada per uscirne, non è un problema da poco, tutti siamo stati adolescenti e sappiamo che, nell’esplosione ormonale, il naturale sollievo autoindotto è stato sempre uno dei motivi centrali d’interesse, soprattutto per i maschi. Ho allora chiesto aiuto a un caro amico, il valente sessuologo Emmanuele Jannini. È stato molto cortese nel rispondermi, lo conosco bene da quando passai qualche giorno con lui per una lunga intervista al tempo in cui aveva fatto scalpore la sua scoperta del famoso punto «G». Lui, amoroso e tranquillo padre di famiglia, era riuscito senza pregiudizi a immortalare in un’istantanea il misteriosissimo e controverso gadget intimo del piacere interiore della vagina. Marchingegno in miniatura e pietra di volta di tutta l’ingegneria orgasmatica. Ricordavo che aveva iniziato la sua carriera come andrologo e, confidando nella sua assoluta libertà di pensiero e nella sua personale sensibilità al problema dell’handicap, non avevo dubbi che mi avrebbe ben consigliato. «Nessuno può darti consigli in questo, mio caro…» fu il suo esordio, e capii che non poteva dirmi molto altro di più. Il problema è essenzialmente del genitore, almeno fino a che il figlio non ha la maggiore età. Come ci si deve quindi comportare? Inizierei escludendo l’ipotesi di un padre che facesse la propria bibbia del cupo settecentesco libello Onanisme, nato dal delirio di un sommo teorico delle micidiali conseguenze dell’autoerotismo come Samuel–Auguste Tissot. In realtà occorre dare un occhio discreto su quel che succede nei momenti di intimità del figlio, facendo mille attenzioni a non invadere il suo spazio, a non creargli ansie maggiori di quelle che già ha, tentando qualche intervento verbale, soprattutto per fargli capire tempo e luogo più adatti alla pratica autoludica.

L’amico sessuologo approvò la mia diffidenza verso interventi «tecnici» di educatori. Mi suggerì, per quanto possibile, di far capire e mostrare, spiegare, aiutandomi anche con dei disegni, ma con leggerezza e senza farlo sembrare qualcosa di cui lui dovesse vergognarsi. Mi disse che l’unico vero problema potrebbe essere l’insorgere di «pratiche autolesive», cioè che Tommy si faccia male in parti in sé molto delicate. Non mi sembra, al momento, che si arrivi a questo. Sbircio, quando posso e con discrezione, Tommy intento alle sue cose mentre si guarda magari Mulan o la solita Zeta la formica, sua prediletta. Non mi pare si faccia male; forse gli servirebbe qualche consiglio pratico per la migliore presa, ma ho deciso che per ora non mi impiccerò troppo. Già mi sembra un salto abbastanza ardito questa totale sdrammatizzazione della sessualità in famiglia. Tommy ci ha riportato a una tale indifferenza felice verso ogni funzione genitale, che considero già questo un salto di civilizzazione. Penso che non avrei compiuto un passo avanti generazionale così deciso senza di lui. Per quanto mi atteggi a persona spregiudicata, non posso certo soprassedere sul fatto che il mio approccio adolescenziale alla sessualità fu rigidamente autodidattico e vissuto nella più assoluta clandestinità. Mai a casa sentii far cenno a qualcosa che sdrammatizzasse l’epica segaiola che trapelava dai racconti dei miei compagni di scuola, rassicurandomi per esempio sul fatto che non sarei certo morto se me ne fossi fatto anch’io cultore. L’unico accenno che mi venne fatto sul sesso fu terroristico e pronunciato nel clima liturgico di una convocazione, assieme a mio fratello, nella biblioteca del nonno, il padrone incontrastato di ogni emotività di sette figli, parecchie nuore e un numero elevato di nipoti. Immagino su vile richiesta di mio padre, il nonno si prese l’onere di risolvere tutto in pochi minuti, illustrandoci i danni cerebrali irreversibili che ci saremmo provocati toccandoci in zone illecite. Dio abbia tutti in gloria, ma so quanto pesò questa idea della colpa sessuale negli anni successivi, ma anche quante soddisfazioni alla fine diede il trasgredirla. Ora non vedo nel futuro di Tommy alcun problema legato al dover rendere conto agli adulti anche della propria intimità. Questo però non mi assolverà, negli anni a venire, dal dovermene comunque occupare di persona. Qui forse si apre qualche riflessione necessaria, ma che ho ancora tutto il tempo di fare. Alla sua maggiore età mancano quattro anni; per quanto mi sembri crudele pensarlo, temo che dovrà arrangiarsi da solo per tutto questo

tempo, a meno che un’anima benefattrice non se ne prenda a cuore la cura, ma dovrei fingere di non sapere nulla ed essere ipocrita come lo furono i miei genitori e prima ancora i nonni e bisnonni. «Perché quando sono più grandi non li facciamo fidanzare tra loro?» L’idea forse più saggia è venuta a una mamma «collega» mentre aspettavamo i rispettivi figlioli a cavallo. L’ippoterapia è veramente un’ora felice, loro sono gioiosi e sicuri tra cavalli e cavalieri, e i genitori se la spassano sotto agli alberi della fantastica caserma dei Lancieri di Montebello. Io ho fatto il militare come lanciere, anche se in fureria e, forte di quella benemerenza, ho preso contatto con un valoroso e giovane colonnello che si occupa di cavalli e ragazzi con handicap: «La vita mi ha dato tanto,» mi ha detto «ora voglio restituire qualcosa a chi ha bisogno». Così si è industriato e ora, dentro le mura di cinta dove si stagliano ancora le vecchie altane in cui trent’anni prima io feci tante guardie notturne, i nostri figli possono andare a cavallo. Per molti di loro è una delizia indicibile. Tommy teme sì le galline come mostri alieni, ma ha sempre familiarizzato con i cavalli. Da piccolissimo cavalcava a pelo, girato dalla parte della coda. Non so perché, ma mi è rimasta impressa quell’immagine del mio bimbo che sembrava un piccolo centauro col torcicollo su un grande cavallo bianco. Nell’ora di idillio in cui vediamo i figli–cavalieri che sembrano quasi ragazzi come gli altri, noi genitori socializziamo. Una mamma che viene dai Castelli porta cibarie che cucina per tutti, con una generosità illimitata. Una volta si è presentata addirittura con un maialino intero fatto in porchetta. Immagino che voglia così ricambiare chi regala al suo ragazzone un po’ di spensieratezza. È stato proprio durante una di queste scampagnate tra le scuderie della caserma che la mamma di una bella ragazzina, poco più piccola di Tommy, mi propose quella specie di «matrimonio combinato». Ne abbiamo parlato seriamente, anche se ci veniva da ridere. In effetti, a pensarci, è la soluzione meno traumatica, e forse quella che soddisfa la maggior parte delle perplessità che ho espresso qui sopra. Giocando sul paradosso, ma poi nemmeno tanto, ci siamo prefigurati di farli mettere assieme quando saranno più grandicelli, meglio quando avranno la maggiore età. Abbiamo immaginato di portarli in un bel posto, e fare in modo che si sistemino a loro agio, lasciando che la natura faccia il suo corso, naturalmente se a loro andrà. Ora che lo scrivo mi rendo conto della follia del solo immaginarlo. Però mettetevi nei miei panni: io ho la prospettiva che, al massimo delle possibilità, la sessualità/affettività di mio figlio sia

appannaggio di professioniste specializzate, magari recandoci in Svizzera dove pare siano facilmente reperibili «terapiste sessuali». Lo stesso Jannini mi ha indirizzato a una sua dottoranda che ha dedicato la tesi di laurea alla sessualità dei disabili. Posso dire di sapere tutto sulle oniriche risolutrici del nostro problema, compresa la conferma che mai ne incontrerò alla luce del sole nel nostro bigotto paese, che non sarà mai facile sceglierne una con tutti i crismi necessari come potrei fare con un’estetista per la pulizia del viso o una pedicure per un’unghia incarnita. So che l’obiezione beghina a quanto affermo me la menerebbe sul significato profondo della relazione e sull’aspetto meramente fisico a cui ridurrei la sessualità. Che ci lascino in pace! Abbiamo figli con molti problemi ma con gli ormoni in ebollizione esattamente come ogni altro loro coetaneo: per quale ragione dovremmo accettare che debbano per giunta essere condannati, oltre che a star soli, anche alla perenne castità? So sin da ora che, quando verrà il momento della maggiore età, mi metterò in cerca di serie professioniste o, in subordine, di amiche particolarmente disinibite a cui chiedere il favore di farsi una piccola vacanza con un bel ragazzo, ammesso che a quel tempo possa ancora avere l’occasione di conoscerne, disponibili e non proprio al livello di putrefazione in cui io mi troverò. La madre della «promessa sposa» di Tommy è molto graziosa, così pure la figlia, e da parte sua è stata terrorizzata dal medico che le ha consigliato di mettere la spirale alla ragazza non appena sopravverrà il menarca. Non penso sia il massimo per una madre sentirsi dire di rendere sterile la figlia, perché è forte il rischio che qualcuno si approfitti sessualmente di lei, essendo, per sua natura, totalmente priva d’inibizioni. Di fronte a tutto questo, perché dovremmo dunque pensare come un abominio l’idea del «matrimonio combinato», molto arcaica ma, per assurdità, per noi anche molto romantica? I genitori di due giovani che decidano, per il bene dei loro figli, che questi si fidanzino tra loro non fanno ragionamenti poi molto diversi. Immaginano, in buona fede, che quell’unione sarà la cosa migliore. Fino a qualche decennio fa in molte parti d’Italia questa era una prassi consolidata. Noi due non lo faremmo per dare prestigio alle famiglie, per fondere i patrimoni, per sistemare la discendenza. Lo faremmo semplicemente pensando che forse ai ragazzi potrebbe piacere stare abbracciati tra loro, come ora gli piace stare abbracciati a noi. Immaginiamo

che, nonostante tutti i loro problemi e le fisime legate al toccarsi e baciarsi, potrebbero anche scoprire una loro particolare forma di affettività. In verità, ora come idea sembra disperata. Li guardiamo tenersi per mano e passeggiare, Tommy trascina la ragazzina come si fa con un peso morto, ma è protettivo con lei. Lei a volte s’irrita e si tappa le orecchie, e soprattutto non si guardano mai in faccia. Una volta, poi, Tommy le ha dato pure una spinta. Solo allora lei l’ha guardato e gli ha detto: «Tommaso!!!», come per rimproverarlo. Secondo noi è un buon segno. (Proprio la mattina dopo avere scritto queste righe, ho incontrato la madre della ragazza all’ippoterapia. Mi sono subito accorto che era preoccupatissima: «Si è sviluppata,» mi ha detto sottovoce «ora le dovrò mettere le mutande di ferro!».) Ci vorrà ancora qualche anno di pazienza, poi si ameranno e saranno felici. Almeno, a noi piace immaginare che andrà proprio così.

XVI Stato: Libero Un giorno mi è caduto l’occhio sulla carta d’identità di Tommy. Mi ha colpito la scritta «STATO LIBERO». Penso che sia una dicitura di prassi, politicamente corretta, adottata da qualche anno per chi per lo stato civile sia celibe o nubile. Accanto alla foto di Tommy sognante, e alla sua firma strampalata, a me in quell’istante è sembrato un funambolico attestato di libertà assoluta, un premio che mio figlio si era meritato dopo essere stato interrogato dall’impiegato dell’anagrafe municipale. Naturalmente, non aveva risposto a nessuna delle domande di rito, salvo il suo nome, che riesce a pronunciare quasi in forma comprensibile.

Ci siamo arrovellati per millenni sul concetto di libertà, ma lo stesso porsi un problema sul significato di essere liberi ci incatena a formule che valgono unicamente per singole categorie dell’umanità. Si parla di libertà delle donne ad autodeterminarsi, di libertà di pensiero nei paesi con dittature, di libertà di parola, di libertà di professione di fede. Sono tutte forme di libertà per fare qualcosa, per essere qualcosa, per testimoniare qualcosa. Nessuno proclama il diritto di essere libero tout court, di sentirci liberi come unica condizione per essere leggerissimi. Non a caso, nella più clamorosa delle circostanze storiche in cui il termine divenne bandiera, fu necessariamente abbinato alla fraternità e all’eguaglianza, perché la libertà fosse considerata un valore «sociale»,

condivisibile e non espressione di egoismo individuale. Ebbene, Tommy e quelli come lui sono liberi, senza alcun condizionamento a condividere alcunché della loro libertà. A loro non interessa la dimensione sociale della libertà, sono profondamente e geneticamente spiriti liberi; forse proprio per questo hanno difficoltà a convivere con noi, condizionatamente liberi, o meglio, artificiali cultori della libertà. Il nostro concetto di libertà è stantio come la fede di una beghina. Ho fatto una prova. Per me non esiste maniera più rapida per un test immediato sul medio sentire rispetto a un problema che postarlo su Facebook. Ho messo come immagine di copertina la porzione della carta di Tommy in cui era scritto «stato libero» e ho chiesto cosa ne pensassero. Non ho dovuto attendere molto. Due o tre spiritosoni politicamente addivanati hanno subito fatto battute sulla liberalizzazione delle droghe. Una maestrina ha mostrato orrore: «Ma io non ho parole: ci stanno i laureati a spasso e capre a prendere lo stipendio fisso!!!». (Alla mia richiesta di spiegazione, ha aggiunto: «Lo stato civile: celibe/nubile/sposato/divorziato. Uno che lavora in una pubblica amministrazione dovrebbe saperlo. Vorrei essere libera anche da sposata o da divorziata. Io trovo limitante questo “stato libero” riferito solo ai celibi/nubili».) Echeppalle! Nessuno, nella discussione che seguì, riuscì a cogliere la mia associazione tra «stato libero» e la disabilità mentale di mio figlio (su Facebook non ne faccio mistero e i miei frequentatori sanno benissimo chi sia Tommy e quale sia il suo problema). Eppure mi sembra lampante immaginare l’autistico come il prototipo della libertà assoluta. Non mi stancherò mai di ripetere a me stesso che vorrei essere come Tommy rispetto al mio prossimo. Chi è più libero di lui, che non si è mai sentito soffocato dal rimorso per aver detto o fatto qualcosa che ha incrinato un qualsiasi rapporto con un suo simile? Quante volte avremmo preferito che ci fosse cascata la lingua piuttosto che aver pronunciato certe parole fatalmente dirompenti in un rapporto di lavoro, di passione, ma anche di banale conoscenza? Tommy non avrà mai il rimpianto di non aver detto o il bruciante rovello di aver detto troppo: lui non dice e basta, si è già evoluto rispetto a questa imperfetta fase intermedia che ci vede così vulnerabili e indifesi rispetto al turbinare della nostra emotività relazionale. Tuttavia, anche persone così radicalmente libere hanno le loro barriere valicabili a fatica. Per Tommy è difficile comprendere di dover fare qualcosa che vada

contro il suo benessere immediato. Va in bicicletta, ma non pedala quando è stanco. Gli piace molto l’ambiente della palestra, le macchine, i pesi, le panche… Però ci giochicchia appena lo stretto indispensabile, prima che l’attività diventi qualcosa di simile a una fatica. Ogni sua attività è limitata alla soddisfazione di un bisogno, non è mai gratuita. Persino lo spezzettare in piccolissimi coriandoli ogni foglio in cui incappi è un suo metodo per scaricare tensioni nervose, quindi non assimilabile a un’attività scolastica, come lo scrivere o il leggere, che per lui potrebbero essere un traguardo più difficile da raggiungere. Tommy, già nel suo esistere, sovverte alcune categorie di convincimenti comuni su cui si è articolata gran parte della nostra civilizzazione. Chi lo osservasse, avrebbe l’immediata certezza che lui non è pigro o sfaccendato, soltanto non spreca energie in atti controproducenti per il suo equilibrio. Tutta la sua esistenza è una ricerca di punti d’equilibrio. Forse questo accade proprio perché in lui sono inceppati alcuni circuiti che noi giudichiamo indispensabili per mantenerci vigili lungo le linee invalicabili dell’esistenza equilibrata. Tommy è sempre oltre la linea gialla che ossessivamente cartelli e annunci ci ricordano di non oltrepassare, pena la fine della vita. Tommy per tutto il suo tempo non fa che ondeggiare tra la vertigine del binario vuoto e la folata di vento risucchiante del convoglio che passa a folle velocità. Noi siamo stati educati a rispettare le linee gialle e, quando le oltrepassiamo, lo facciamo con la consapevolezza di disprezzare delle regole basilari a cui siamo stati imbullonati sin dal concepimento. Lo stesso vale persino per quelli tra noi nati e allevati in ambienti marginali, in famiglie molto problematiche, se non apertamente delinquenziali. La linea gialla esiste per tutti, c’è chi la vede come salvaguardia, c’è chi fonda la propria autostima sulla capacità di ignorarla e di vivere pericolosamente. Comunque sia, entrambe queste due categorie umane sono condizionate da una linea gialla. Tommy è come un daltonico, per lui la linea gialla non c’è, o meglio, è affogata nel grigio incolore della banchina. Non c’è la linea gialla e quindi non c’è una zona di sicurezza, non c’è una regola che salvaguardi. Non c’è un territorio pericoloso, non c’è un treno in arrivo che potrebbe farci a pezzetti. Di quel treno c’è il rumore, lo sferragliare, il fischio, la folata della velocità… Non esiste però l’idea della materia solida che precipita d’impeto annichilendoci.

Come ho detto, alle finestre del mio rifugio ho fatto mettere le inferriate, anche se è a un piano alto e nessun ladro potrebbe mai entrare da lì. Ho preso a lungo le misure per quelle inferriate, non le volevo grandi come tutta la luce della finestra, ma solo dell’altezza necessaria per cui Tommy non potesse sporgersi dal davanzale e buttarsi giù. Gli infissi sono del tipo antisfondamento e si chiudono a chiave dall’interno. Ho condizionatori in ogni stanza e raramente apro le finestre, se non quando è necessario cambiare l’aria. Anche nell’abitazione di famiglia abbiamo abolito da anni tende e tendaggi. Non vogliamo vedere impiccati per casa. Massima attenzione agli impianti, alle prese, ai rubinetti del gas. Nessun oggetto piccolo e facilmente ingoiabile in giro. Abolite, almeno per Tommy, camicie, polo, pantaloni che non abbiano rivetti belli robusti. Tommy mette tutto in bocca, sbocconcella penne e matite, mastica gli oggetti più disparati e ha i denti di uno squalo. Nessuno potrà mai darmi assicurazione che, tra dieci o venti anni, non occorrerà ancora togliergli di torno le penne biro perché non le decapiti facendo uscire l’inchiostro, o stare attenti a non lasciare incustoditi libri o giornali ancora da leggere, onde evitare che ne faccia in un istante coriandoli piccolissimi che poi mastica. Ultimamente Tommy si è molto evoluto. Posso dire: «Per piacere, vai a prendermi le scarpe?», lui esegue e raramente si sbaglia tra le mie e quelle di Filippo, che più o meno ha il mio stesso piede. Difficile descrivere il senso di soddisfazione profonda, al limite dell’autoesaltazione, quando il figlio autistico conquista un talento, fosse anche quello di portarti le scarpe giuste. Noi genitori sappiamo bene quali sono i passi avanti cui attribuire certa irreversibilità, rispetto a quelli che hanno la caratteristica di durare una stagione. In Tommy, per esempio, è transeunte la passione, proprio come l’avversione, per alcuni tipi di cibo. Il passaggio di una pietanza nella sua personale black list può avvenire all’improvviso, ma soprattutto sempre senza alcuna apparente motivazione. Due sono le tecniche per il rifiuto alimentare, che di solito è un modo per reagire a un disagio procurato da noi, basta a volte un piccolo contrattempo, una rottura nella routine del rientro da qualche attività, un ritardo o persino un clima di tensione e nervosismo, rigorosamente non espresso, tra noi genitori. La prima tecnica, più morbida, consiste nel chiedere di continuo dell’acqua da bere, anziché mangiare. Penso che l’applichi quando non ce l’ha con noi direttamente, ma capisce di non riuscire a controllare il disgusto momentaneo

per il cibo, o meglio quel comando interiore a cui non riesce a opporsi che gli impone di non mangiare. La seconda tecnica è secca, perentoria e incazzata. Come gli si avvicina il piatto, lo allontana con la mano e dice un «No vuoi» che tutti sappiamo inappellabile. D’altra parte è un uomo, o quasi, la cui unica possibilità di decidere qualcosa sta proprio nel rifiutarsi di mangiare e in poche altre trascurabili bazzecole. Anche questo mi piace sperare sia una sua segreta arte da guerriero ninja: non mangiare per essere pronto a saltare altissimo, anche sopra i tetti. È per questa ragione, in fondo, che ho messo inferriate ovunque.

XVII Diritti negati Finalmente un giorno sono riuscito a ottenere il contrassegno per poter parcheggiare sulle strisce gialle, quelle, per capirci, destinate alle persone disabili. Non è stato facilissimo, dopo la signora medico legale che si era appena data la crema sulle mani e perciò aveva difficoltà a scrivermi il verbale di rifiuto che avevo richiesto, avevo fatto qualche passo per capire meglio perché mi fosse stato negato. Non c’erano ragioni razionali: i genitori di tutti gli altri ragazzi che fanno terapie con Tommy ne erano muniti e non capivo perché proprio io no. Fu allora che osservai come, in circostanze simili, possa scattare una molla di odio per le persone che si reputa abbiano dei privilegi a te negati. Forse sarà accaduto qualcosa del genere nei periodi di particolari ristrettezze economiche, di guerra, di prigionia. Quando il possesso di una patata poteva scatenare furie omicide tra chi, su quella patata, si giocava una giornata di sopravvivenza. Fortunatamente viviamo in pace e in un momento di straordinario benessere, almeno non dobbiamo contenderci nulla di vitale, sto solo parlando di un tagliando arancione che, all’occorrenza, mi evita di cercare un parcheggio troppo lontano dal luogo dove devo portare Tommy, palestra, centro di terapia, o qualunque altra destinazione. La dottoressa della cremina mi aveva detto: «Ricorra al Tar». Mentre ci stavo pensando, mi feci fare un certificato più dettagliato da una neuropsichiatra che segue Tommy. Fu una salutare ripassata dei suoi problemi, che spesso io tendo a rimuovere. Tommy è «affetto da Autismo infantile ed Epilessia in trattamento farmacologico. Comunica con poche parole, ha una ridotta comprensione delle situazioni, inoltre presenta crisi d’ansia, legata a una bassa tolleranza per le frustrazioni, o alla negazione dei suoi bisogni/desideri». Quello che era scritto sul certificato mi ricordava anche che: «Talvolta possono emergere comportamenti aggressivi verso persone e oggetti, con perdita di controllo. Inoltre si evidenziano crisi oppositorie gravi, per cui si assiste a un blocco della deambulazione, in situazioni sociali poco prevedibili, di difficile gestione da parte delle figure di riferimento». Già, non capita a tutti di doversi difendere fisicamente da un figlio. Finora Tommy non mi ha mai creato problemi emotivi particolarmente difficili da gestire, o tali da evitare tragitti a piedi che lo esporrebbero a

situazioni sociali sgradite. Tuttavia, per poco che sia, quel tagliando arancione provvisorio un po’ mi ha migliorato la vita: prima Tommy lo portavo in giro con grande fatica, mentre ora lo faccio salire in macchina e la città mi si apre davanti all’improvviso. Entro ovunque, cammino nelle corsie dei taxi, dove mi serve mi fermo e parcheggio senza dover poi andare alla disperata ricerca di un parcometro. Il problema certo rimane, ma il quotidiano, almeno per certi aspetti, mi sembra più sopportabile. Con il tempo che risparmio, posso pianificare meglio la giornata di lavoro, evito quelle fastidiose pause imprevedibili in cui Tommy si pianta per strada e magari restiamo mezz’ora attaccati a un cartello a contare da uno a venti fino a che la crisi passi. Cosa sarebbe costato darmelo subito? Invece no, me lo sono dovuto guadagnare chiedendo aiuto, cercando qualcuno che risolvesse il problema di soddisfare un mio diritto. Ho usato armi di sterminio di massa, confesso, ma l’ho fatto per Tommy e non certo per me, che vado tanto bene in autobus e metro. È stata una mossa vessatoria e prepotente, lo ammetto. Non è stato bello e non ne vado fiero… Ma contro chi mi negava il mio permesso arancione ho sganciato la «bomba M». L’arma letale in questione è Marilena, una madre di autistico particolarmente incazzata, che fa parte della Consulta per l’handicap del comune di Roma. Nessuno è in grado di fermarla e lei riesce sempre a far sentire intimamente verme chiunque faccia il furbetto e cerchi scorciatoie nel concedere i piccoli vantaggi che l’assistenza pubblica potrebbe elargire nei confronti delle famiglie che vivono il disagio di un figlio problematico. La bomba M si è limitata a un paio di telefonate di sollecito al dirigente responsabile della dottoressa della cremina, non credo che abbia fatto altro che ricordargli cosa dice la legge a proposito dei permessi, magari avrà aggiunto che io ero molto incazzato, che ero un giornalista noto, che mi sarei messo sul piede di guerra arrivando a denunciarlo se fosse stato necessario. Sta di fatto che fui chiamato da lui in persona, il quale mi riempì di scuse ammettendo che la dottoressa si era sbagliata nell’interpretare la norma e aggiungendo che sarebbe intervenuto anche nei suoi confronti… Pensai che per sanzione le avrebbe proibito lo spalmamento di crema in orario d’ufficio, ma l’importante fu che, dopo dieci minuti, a mia moglie fu possibile ritirare il nullaosta per il permesso negatoci solo qualche mese prima. Naturalmente il dirigente ossequiosissimo, mentre l’accompagnava alla porta, si premurò di dire: «Sia così gentile da pregare suo marito di avvertire le persone che lui sa

del fatto che il permesso gliel’abbiamo dato…». Guardo Tommy che, inconsapevole di tutto l’iter, sorride spaparanzato accanto a me e guarda dal finestrino. A lui piace da morire viaggiare in auto, si è conquistato da sempre il posto accanto al guidatore, e in famiglia nessuno osa contestargli questo sopruso. Appena sale allaccia la cintura, è sempre stata la sua ossessione sin da piccolo, anche in taxi pretende di poter allacciare la cintura altrimenti non si parte. Pensare che ancora c’è qualche odioso nostalgico dei tempi arcaici che evita per principio di allacciarla. Chissà perché viene considerata un fastidio, roba per poveretti. Nelle auto blu spesso non la mette nemmeno l’autista (sono esonerati anche coloro che guidano le auto pubbliche e i taxi, e possono pure usare il cellulare mentre guidano, il perché è un mistero…), so per certo che negli altifondi terrazzieri del centro capitolino allacciare la cintura è considerato una servitù per soli perdenti, quei poveretti che devono subire regolamenti e leggi. Per Tommy questo non sarà mai un problema, la cintura è connaturata al salire in auto, non potrebbe concepire il contrario. Anche in questo penso che l’autistico sia il vero essere umano programmato per vivere il futuro: non si pone artifici emotivi nemmeno sulle regole di sicurezza. La cintura la mette chiunque, come le tasse dovrebbe pagarle chiunque, come le norme di circolazione dovrebbero essere rispettate da chiunque. A differenza delle signore con la Smart che trovano delizioso parcheggiare sulle rampe per le carrozzelle, quel ritaglio di marciapiede giusto giusto di misura per infilarci la loro civettuola macchinetta, così carina sistemata in lieve declivio, sembra una lumaca appiccicata a un sasso. Un pomeriggio, in cui finalmente mi sentivo in vena di scrivere a oltranza, mi chiama la badante di Tommy al telefono, è molto agitata e capisco solo che lui ha avuto una crisi alla gelateria del quartiere. Esco di casa e corro a vedere. Girato un angolo, li scorgo di fronte al gelataio, entrambi seduti su una panchina. Tommy mi vede e mi corre incontro, è sudato e trema. La donna è coperta di sangue, ha due graffi sulla gola che sembrano i colpi di knut che si era beccata la madre di Michele Strogoff, uno dei momenti indimenticabili della storia di uno dei miei più fulgidi eroi di fanciullezza. Strogoff stava per essere accecato con la scimitarra arroventata dal perfido Ivan Ogareff, suo acerrimo nemico, ma si salva perché il velo di lacrime sgorgate per la visione della vecchia madre frustata funge da barriera ignifuga e lo preserva dall’accecamento. A me non veniva da piangere: se non fosse stato per la povera signora

sofferente avrei trovato la situazione persino comica. Lei mi racconta che Tommy si è scatenato per qualche minuto in tutta la sua furia titanica, mi dice che per fortuna c’erano tre ragazzi in gelateria che sono intervenuti per contenerlo, ma nemmeno loro sono riusciti a tenerlo fermo, hanno solamente evitato che si facesse male picchiando la testa sul pavimento. Conosco bene il colpo di capoccia di Tommy quando si cerca di fermarlo: è micidiale, mirato a colpire a distanza ravvicinatissima. Penso che loro sono stati fortunati, potevano rimetterci come niente il setto nasale. Tutto è accaduto perché abbiamo cambiato medico di famiglia. L’anziano pediatra che ha visto nascere i miei figli è andato in pensione, e la nuova dottoressa ha visitato Tommy senza che l’avessimo avvertito. Avrei dovuto accompagnarlo io e fargli prendere confidenza con un cambio così delicato. Per lui certi passaggi sono indispensabili, inalienabili al vivere quotidiano, come la cintura di sicurezza da allacciare appena si sale in auto. Mi sono improvvisamente ricordato anni di strategie per fargli passare come accettabile la visita del medico. Gli ho regalato non so quanti kit del piccolo dottore, manichini che si smontavano con tutti gli organi interni da incastrare dentro e varie versioni dell’«allegro chirurgo». Quello col paziente a cui si illumina il naso se, con le pinzette, non si sta attenti all’estrazione di pseudoviscere di plastica era un giocattolo della mia giovinezza, ma è ancora in vendita. Il pediatra, molto paziente, simulò, non ricordo per quante visite, di usare uno stetofonendoscopio giocattolo prima di passare a quello vero, per non impressionarlo. Anche recentemente, con una siringa giocattolo, ho dovuto fare a Tommy un training al prelievo di sangue, cui deve sottoporsi periodicamente per il dosaggio degli antiepilettici. Alla fine questo è un rituale al quale forse nemmeno crede più, ma gli è necessario. Ora si fa cavare il sangue senza battere ciglio, con l’iPad acceso porge la vena all’infermiera che viene a casa la mattina. Basta non interrompere le liturgie che lo rassicurano, poi Tommy è molto più docile dei ragazzini che vedo transitare nelle case di tanti conoscenti. Dopo avere massacrato un po’ di persone nel negozio del gelataio, è stato con me tenerissimo tutto il resto della giornata. Sarebbe bastato spiegargli prima che la dottoressa prendeva il posto del pediatra pensionato e non sarebbe stato versato sangue innocente. Lo so, se non dovessi lavorare, potrei stare sempre io con lui e staremmo benissimo.

XVIII Il cattivismo Un giorno mi è capitato di leggere il prodotto dell’ingegno di un gruppo di comici corrosivi anonimi che, sotto il nome collettivo di «Umore Maligno», alimentavano un blog di satira molto politicamente scorretta, tanto da potersi permettere persino di ironizzare sui disabili. La cosa scatenò una polemica pubblica, ma gli autori dei testi – prevedendolo – avevano messo le mani avanti minacciando azioni legali contro chiunque li citasse fuori contesto. Io feci una lettera aperta che generò un dibattito fuori e dentro la rete. In sintesi, scrissi agli autori della satira che mi era parsa solo poco intelligente, se loro mi avessero fatto almeno un po’ sorridere ci sarei passato sopra. Il cattivismo di pura maniera non può offendere chi, anche più volte al giorno, avrebbe voglia di essere veramente molto cattivo. Figuriamoci se, mentre mi tengo avvinghiato il testone riccioluto di Tommy, può fregarmene qualcosa se uno scrive, tanto perché gli pare d’esser controcorrente, pensieri estremi del tipo: «Ma quali trattamenti possono migliorare la vita di un disabile e della sua famiglia? Al primo posto c’è naturalmente l’eliminazione del soggetto, che non tutti si sentono di praticare, vuoi per timore delle conseguenze legali vuoi per un malsano attaccamento che con il tempo si sviluppa anche verso le più immonde fra le creature». A me il concetto dell’eliminazione ipotetica del problema figlio disabile è balzato in mente un’infinità di volte: quanto sembrerebbe più facile tagliare alle radici, piuttosto che continuare a puntellarlo, un albero colpito da un fulmine… Spesso si legge di genitori anziani che sopprimono il figlio autistico perché non ce la fanno più, non riescono a sopportare il pensiero che quella cosa possa sopravvivere a loro e magari incontrare chi non abbia la stessa pazienza di un padre e di una madre. Oh, mi farei passare sopra da un treno prima di far del male a un figlio, lo dico davvero. Per una moglie, magari, ci mediterei un po’ meno… Però a volte capita di pensare a come sarebbe la vita resettando tutto ed eliminando il file che più compromette un nostro ipotetico equilibrio. Devo dire, in piena coscienza, che sarebbe un lavoro inutile, nemmeno penso sia vero che senza «il problema» staremmo meglio, ci mancherebbe un grosso acceleratore di felicità e piacere. La vedo così: da quando Tommy m’invade la vita, mi sono accorto di essere diventato molto più rapace nello sgraffignarne bocconi di felice soddisfacimento. La sua presenza totalizzante

e ossessiva mi restituisce quel gusto sublime per il tempo rapinato che non ricordavo da quando ho lasciato la casa dei genitori secoli addietro. Lo guardavo poco fa in ascensore, mentre ci recavamo a una delle sue kermesse di autistici colleghi. Ha dei piedoni il doppio dei miei, mi sovrasta in altezza, ha un fisico da colosso e ormai avanza spedito precedendomi per strada con il suo zaino sulle spalle, a testa alta come un soldato in marcia. Sembra lui la mia sentinella, non io il suo accompagnatore, eppure senza di me non potrebbe uscire dal portone di casa senza rischiare la vita. Potrebbe incamminarsi per la strada incurante dei semafori; io abito all’incrocio di due grandi arterie urbane, le auto corrono veloci e di Tommy farebbero polpette. Eh sì, è dura, ma non mi lamento, perché mi godo molto di più le fessure e gli interstizi di quanto abbia mai fatto nei momenti più pieni e spensierati dell’esistenza. Ancora è presto per me per fare tragedie. Verrà forse un giorno in cui mi si spegnerà fisiologicamente ogni entusiasmo e sarà veramente dura avere accanto un giovane uomo esuberante e irrefrenabile. Al momento, io in questa storia non ci gongolo certo, ma mi ci barcameno, anche se mi rendo conto che l’accumulo è deleterio, non faccio un viaggio da secoli, passo le giornate chiuso in una stanza, ogni giorno sembra sempre più uguale al precedente, sul domani ci sono meno attese di novità. «Hoy como ayer, mañana como hoy, ¡y siempre igual! Un cielo gris, un horizonte eterno y andar… andar.» Da ragazzo mi immedesimavo in Gustavo Adolfo Bécquer per ridicole pene d’amore. Mai avrei detto che l’avrei oggi riletto in chiave di logorante tedio domestico… Di fronte alle continue sconfitte quotidiane, all’indifferenza, al logorio costante dell’accudimento di una persona che annichilisce come fa a volte mio figlio. Sono pensieri – quelli dell’eliminazione – che di tanto in tanto è persino salutare non reprimere. Come ogni altro essere umano, anch’io penso che nei bassifondi della mia coscienza farei a fettine con la motosega molti miei simili, anche perfettamente abili. Per fortuna ci siamo civilizzati e, tra quanti lo pensano e quanti lo fanno, c’è sempre un’immensa differenza di numeri. Ricordo che mi colpì molto quando lessi nel catalogo di una mostra a Roma la didascalia di un’immagine riprodotta in un manuale di biologia tedesco, in cui era raffigurato un operaio del Terzo Reich mentre reggeva a fatica sulle spalle il peso morto di due persone con evidenti problemi di handicap: «Stai sostenendo questo peso! Il costo di una persona affetta da malattia ereditaria fino al raggiungimento dei 60 anni è di circa 50.000 marchi». Fu lo slogan più azzeccato del progetto Aktion T4, che fin dall’autunno del 1939 operò lo

sterminio sistematico e la cremazione di cittadini tedeschi affetti da patologie fisiche, mentali e sensoriali, quindi non produttivi. Il bilancio finale fu di circa duecentocinquantamila persone uccise, tra cui cinquemila bambini. Oggi il salto culturale forse permette che chiunque possa esprimere quegli stessi concetti che, all’epoca, silenziosamente si trasformarono in agire criminale verso persone inermi da parte di miti padri e madri di famiglia, i quali magari ogni sera tornavano sorridenti dai loro figli indenni da difetti, davano loro una carezza e raccontavano una favola. Erano mostri, ma non ne avevano alcuno stigma apparente; per questa ragione, alla fine, quelle banalissime atrocità che gli umoristi maligni scrivono su down, autistici e disabili in genere potrebbero anche essere utili a non dimenticare. Non so se, al contrario, potrebbero essere interpretate come un campanello d’allarme per una caduta libera verso l’indifferenza, ma sarei soddisfatto se riuscissero almeno a far riflettere tanti sepolcri imbiancati; quelli che aggrottano le ciglia se tuo figlio sbraita al ristorante o è lento nel salire e scendere da un autobus, o soprattutto osa sedersi lasciando loro, solidamente anziani, appesi al corrimano. Alla fine mi accorgo che la maggior parte delle persone cui passo vicino con mio figlio per mano mi guarda con la pesante commiserazione di chi pensa che, tutto sommato, sarebbe meglio che un ragazzo subnormale non fosse mai nato. Ricordo l’amniocentesi di Tommy, faticosissima, il medico dovette infilare l’ago di venti centimetri per ben due volte nella panciona di mia moglie dove Tommy si stava formando, magari già col suo testone balzano, e nessuno di quegli attenti analizzatori di sostanza fetale lo sospettava. Fatica sprecata. E poi, se mi avessero mai detto: «Sarà autistico!», che cosa avremmo mai fatto? Autistico quanto? Lievemente… Mediamente… Totalmente? Penso che ancora oggi l’autistico sia davvero un alieno indefinibile, troppo difficilmente classificabile per essere persino discriminato prima di nascere. È vero come scrivono, nel tentativo di essere malignamente umoristici, che queste nostre creature «spesso sbavano, emettono suoni e rumori sgradevoli e non sono in grado di provvedere neppure alle necessità basilari: mangiare, bere, pulirsi». Ma se ne stiano tranquilli, ci pensiamo noi, siamo abituati a occuparci di loro senza chiedere nulla a nessuno… Per quanto mi riguarda, nemmeno serve leggere, come fosse un’imprecazione, cosa significhi avere un ragazzo autistico in casa: «Tutte le volte che ho dovuto accompagnarlo al cesso, fargli il bidè, allacciargli le scarpe, assecondarlo in

caso di pubbliche escandescenze, ricevere calci»… Lo so bene e non ci faccio certo caso, è tutto già parte del quotidiano che vivo con mio figlio. Il resto di quello che voi, comici maligni, scrivete nel vostro post attinge dal vecchio repertorio delle più classiche barzellette che ci si raccontava alle scuole medie, tutte quelle facezie infantili a base di storpi, dementi, cacca, pipì, piselli ecc. Ne ho sentite raccontare centinaia prima di avere un figlio come Tommy e probabilmente ne sentirò raccontare ancora tante, ma almeno posso riderci su o indignarmi se mi va. Purtroppo, tutte le barzellette scorrette del mondo, per quanto irritanti, non sono neppure paragonabili all’idea di vedere il proprio figlio da solo, con il mondo davanti, quando noi non saremo più accanto a lui. Tommy sarà prima o poi senza di me. Pensarci per tempo è possibile, occorrerà prevedere, delegare, accantonare. Anche se la congiuntura del momento rende tutto questo ancor più difficile di quanto sia sempre stato. Sommessamente, ma decisamente, la crisi di cui tutti parlano in questo particolare periodo ci sta avvicinando a una versione «morbida» dello stesso principio dei «gusci vuoti» che determinò lo sterminio accettato dei disabili durante il nazismo. Quest’affermazione farà insorgere più di una voce indignata, ma non me la prenderei più di tanto. È accaduto in un’epoca civilissima, fior di medici che avevano fatto il giuramento di Ippocrate, infermiere, persino suore, alla fine hanno pensato che la soluzione migliore per quei soggetti segnati da Dio fosse l’eutanasia. Nessuno la prospetterà nei termini di uno sterminio pianificato, ma nel taglio progressivo delle risorse destinate ai disabili è probabile che si delinei sempre più minacciosa, e a lamentarsene saranno soprattutto genitori e familiari, e in genere quelle persone che, per vocazione o mestiere, si occupano concretamente del problema. Ne sto conoscendo parecchi, per necessità chiaramente, e ho appreso che una parte insospettabile dell’umanità ha sensibilità e altruismo da vendere. Spesso trasmettono l’immagine di persone risolte e felici che, senza sforzo, distribuiscono cure e attenzione agli altri ricavandone vera soddisfazione. Peccato che mai nessun prete sia riuscito a convincermi che questa sia una virtù unicamente se illuminata dal praticare secondo la parola di un dio: per me è una dote umana formidabile quando è lontana mille miglia dall’idea del sacrificio o del dovere, assimilabile piuttosto a qualcosa che dia vero piacere e, allorché ciò accade, chi si dà agli altri è in paradiso e ci trascina chi gli è accanto. Me l’ha fatto notare una giovane e molto disinibita amica mia che

prendevo in giro per gli uomini non sempre avvenenti di cui lei si innamorava: «Tra uno giovane e aitante che si sente molto fico e uno che si vede che gli piace molto star con me, preferisco mille volte il secondo». Mi piacerebbe che i genitori di fantafigli nati per vincere provassero almeno una volta anche loro cosa si prova leggendo il lampo di gioia negli occhi del tuo ragazzo autistico che quasi ha la barba, quando ti vede finalmente tornare a casa e magari sa che andrai a fare un giro in bici assieme a lui.

XIX Sì e no Dopo anni di frequentazioni di operatori sociosanitari mi sto accorgendo che una delle prime facoltà che si sviluppano con il «problema in casa» è l’automatismo nel misurare lo spessore reale delle persone che se ne occupano. All’inizio si pende dalle loro labbra come fossero oracoli. Quando ancora si culla l’idea che da quel problema si uscirà, chiunque ci dica che esiste una possibilità di miglioramento o addirittura di guarigione diventa per noi improvvisamente un eletto, sceso da altre dimensioni a beneficarci con i suoi poteri. Penso ne girino parecchi di questi grandi saggi, lo immagino quando sento discorsi strani di genitori che sembrano essere entrati in contatto con una sorta di flusso sciamanico, capace di infiltrarsi laddove la scienza medica si è dimostrata impotente. Sia chiaro, tra i miei pregiudizi gloriosi sopravvive l’idea profonda che ogni ipotesi di accudimento da noi immaginata, sognata o allucinata potrebbe avere un suo riscontro anche in quello che chiamiamo mondo reale. Per questa ragione penso, con la stessa intensità e convincimento, che dietro ogni guaritore ci sia un ciarlatano abile nell’arte dell’illudere, come un essere umano con livelli di conoscenza non ancora noti e scientificamente verificati. Per non perdere tempo, però, mi tengo alla larga da chiunque sia circondato da vaghi aloni carismatici e dia l’impressione di sapere cose che ai più sono interdette. Sarà per questo mio evidente scetticismo che nessuno è venuto mai a propormi quelle stranezze di cui ogni tanto mi arriva eco lontana. Solo una volta l’amica di un’amica mi parlò di una terza amica che aveva soppresso totalmente la somministrazione degli antiepilettici al figlio sostituendoli con la cannabis. Altri mi parlò di camera iperbarica in cui periodicamente sarebbe stato efficacissimo mettere Tommy. Una volta ero in procinto di portarlo a fare pet–terapy con orche marine e lemuri. A parte quest’ultima esperienza, che rimpiango di non aver provato perché a Tommy so che sarebbe piaciuta, non trovo utile percorrere vie balzane per risolver l’irrisolvibile. Preferisco pensare che Tommy dovrà affrontare comunque la vita con gli strumenti in suo possesso ora che ha 14 anni; magari si scioglierà un poco di più, imparerà a giocare a tennis, si deciderà a nuotare in maniera più convenzionale, invece che tenere le gambe nella perfetta posizione del loto muovendosi sott’acqua come fosse un tritone dotato di branchie. Oltre a questo, non mi aspetto certo di potermi un giorno svegliare e

vederlo intento a leggere Kant. Devo confessare, però, che ogni tanto mi capita di sognare Tommy che mi parla spedito. Penso che sarà accaduto anche ad altri genitori, nel più profondo universo onirico c’è nostro figlio che parla e si comporta come ogni altro ragazzo della sua età. Risulta molto difficile per me immaginare la stessa scena da sveglio. La voce di Tommy ha qualcosa che troppo sembra appartenere a una dimensione aliena per poter supporre che possa trasformarsi e pronunciare un discorso banalmente comune. Tommy si esprime come nei film comici parlano in genere i personaggi orientali. Prevale il tono gutturale, mai più di due parole in fila, una serie di suoni indecifrabili e stereotipie che esplodono in raffiche rabbiose dopo che lo sforzo di piegare l’emissione vocale in una parola compiuta comincia a procurargli stati d’ansia. Io capisco tutto quello che mi dice e quindi non riesco più a giudicare quale sia per gli estranei il suo livello di comunicazione verbale. Mi rendo conto di essere ormai condizionato dal «tommese»: chiamiamo così il suo parlicchiare, in famiglia, e qualche volta pensiamo di scriverne il vocabolario, talmente poche sono le parole che usa. In effetti, il suo è un linguaggio in cui le parole non hanno poi tanta importanza, a volte ne usa una sola per più concetti. Come ho già scritto, l’espressione «aiuto» – che è quella che in assoluto pronuncia meglio – è da lui usata in moltissime occasioni, sia per indicare un bisogno, sia per affermare una contrarietà. Anche «no» lo dice benissimo: lo pronuncia con la o chiusa e leggermente cantilenata quando scherza, oppure secco come una bastonata in fronte quando teme qualcosa; mentre lo urla fino a sopraffare ogni altra voce lo circondi quando vuole andarsene da un posto che lui giudica pericoloso per il suo equilibrio. «Sì» non sa dirlo, dice «sci», così quando annuisce è molto comico e fa tenerezza. Il suo «sì» è un cedimento che gli costa sempre un po’ di fatica e quindi arriva come un regalo. Dice «sì» dopo una crisi oppositoria, all’ennesima richiesta di andare da una parte più sicura che non quel marciapiede a cui sembra incollato. «Sì» detto da Tommy significa conciliazione, fine delle ostilità, serenità momentanea che riesce a trasferire. Questa faccenda del «sì» e del «no» ha tracce nel mio remoto fanciullesco e forse ora Tommy ne porta residui inconsapevoli. Io e mio fratello, da piccoli, ci eravamo costruiti dei cartelli con scritto «sì» e «no» e li usavamo per rispondere, perché avevamo veduto su «Topolino» una storia in cui Qui Quo Qua usavano quel sistema per comunicare con zio Paperino, con cui

erano entrati in contrasto. La nostra terribile nonna ci sequestrò il cartello del «no» lasciandoci solo l’altro. A suo dire era sconveniente che dei bambini mostrassero la loro forma di dissenso. Più o meno sarà stato il 1958-59, non c’era certo ancora il deterrente della contestazione giovanile che sarebbe arrivata solamente il decennio seguente, ma quella vecchia, raffinatissima e colta rompicazzo aveva già anticipato in noi la sua dose di spirito reazionario preventivo. Io, nella mia vita, ho detto un’infinità di «no» rispetto ai pochissimi «sì». Il suo bisnipote, che la buonanima mai avrebbe fatto in tempo a conoscere, usa il «no» con una frequenza pari all’80 per cento delle parole che usa del suo scarno repertorio. Una volta, qualche anno fa, la commessa di un negozio di abbigliamento, pensando che fosse una frase spiritosa, disse a Tommy: «Bambino, che fai, parli giapponese?». Io risposi: «Magari!», e lei restò fulminata. Era una brava donna, solo un po’ ignorante, e quella volta – Tommy avrà avuto sette–otto anni –, ho iniziato a produrmi nella spiegazione di cosa abbia quel mio figlio strano, cosa che ancora mi produco a fare senza però averlo davvero capito io stesso. Quando ci capita di inciampare in uno di quei frugolini iperloquaci che a malapena ti arrivano al ginocchio, in prevalenza femmine vestite identiche alle madri, è normale che si facciano i paragoni. A tre anni, oggi, un bambino nato nella parte più benestante dell’Occidente parla mediamente spedito come un treno. Articola frasi, esprime desideri e richieste, inventa favole, è capace di simulare, mentire. Sa essere ambiguo, sa ottenere, individua le debolezze degli adulti, canta, parla lingue straniere, recita… Insomma, tutte attività che Tommy non ha mai praticato se non in maniera molto primitiva e approssimativa. Noi ci chiediamo sempre se, nel caso in cui Tommy parlasse, gran parte dei suoi problemi sarebbero risolti. Chiaramente è un’illusione. Se lui potesse articolare in maniera più raffinata, certo non per questo avrebbe pensieri diversi da quelli che già ora riesce a comunicarmi con il suo pigolio parolibero. Quando siamo soli e nessuno ci sente, io mi rivolgo a lui come se capisse ogni mia parola e gli parlo. Gli parlo come parlerei a qualsiasi altra persona, anzi ancora di più articolo concetti complessi e sfoggio il mio lessico personale fatto di arcaismi, costruzioni barocche e desuete, parole inventate. Lui naturalmente fa orecchie da mercante, le farebbe pure se sillabassi o parlassi veramente giapponese. Tommy è oltre la conoscenza di una lingua, forse parlare nemmeno serve troppo a essere felici. Io sono sempre stato

negatissimo per le lingue straniere, ne ho studiate quattro senza saperne veramente parlare nessuna, ho serie difficoltà ogni volta che devo pronunciare un termine, addirittura a volte ciò mi procura stati d’ansia. Forse questo è il segnale genetico che avrei generato un Tommy? Chi potrebbe mai dirlo. Nella mia lingua potrei parlare per ore, con apparente competenza e sottile articolazione, di qualunque cosa. A volte mi è capitato di dover presentare libri mai letti, sempre con grande successo. Sono arrivato a prendere a caso un testo sconosciuto dallo scaffale e parlarne interessando il pubblico in sala. In una libreria sarda ho parlato per più di un’ora di un manuale per allevare i fagiani. Invece mio figlio Tommy, per dire che ha sete, dopo quattordici anni si limita al solito: «Vuoi acqua!». Per paradosso, suo fratello Filippo davvero parla giapponese, e ha una spiccata predisposizione per le lingue estremo–orientali. A 15 anni mi chiese di poter frequentare l’istituto di cultura giapponese il sabato. Ora sono passati due anni e lo guardo scrivere in caratteri Kanji come se nulla fosse, mentre guardiamo la tv. Ho due figli davvero molto dotati e forse la parola non ha nulla a che fare con il nostro dna. Mentre chiudevo questa frase è arrivato un sms della psicologa che ha in carico Tommy una settimana al mare, anche per permettermi appunto di scrivere questo libro: «Prima Tom nel lettino di piscina ha detto da solo “Ciao papà, come stai?” – È una meraviglia!». Se io credessi alle favole sugli autistici supereroi direi che ho un X–Man telepate in famiglia.

XX Una presenza relazionalmente trasandata Qualche giorno senza Tommy, l’obiettivo di un anno intero. Non solo per me, ma immagino pure per il resto della famiglia. La presenza di Tommy è un costante riempitivo multisensoriale e traccia la casa come nessun altro è capace di fare. La sua voce è sempre presente, di giorno e molto spesso anche di notte. Lo sentiamo mugolare ed emettere suoni incomprensibili dalla sua stanza, sia quando gli accendiamo davanti la tv con un cartoon, nella speranza che possa addormentarsi, sia dopo ore, quando vorremmo sentire solo silenzio attorno a noi. Tommy è grande e occupa tanto spazio, sui divani, nei corridoi, quando cammina veloce uscendo all’improvviso, di corsa, da una porta, quando saltella con le braccia in alto o si butta a sedere fragorosamente da qualche parte. Tommy ha un suo odore molto forte, suda parecchio, soprattutto se si agita. Anche se i suoi capelli hanno, sempre e comunque, un buon profumo di muschio. Se è nervoso, o particolarmente attizzato, per protesta piscia come se avesse in mano un innaffiatoio. Guai a non accorgersene subito e a non pulire all’istante con tutti i prodotti specifici che negli anni ho selezionato, arrivando a farmi dare campioni e suggerimenti dalle signore delle pulizie degli uffici in cui lavoro! La pipì umana si infiltra come una massa aliena nelle fughe delle piastrelle, e resta lì nascosta lasciando che l’ammoniaca inizi il suo processo chimico di annientamento delle molecole attive di ogni deodorante da bagno. Una civile abitazione può, in poco tempo, regalare un’esperienza olfattiva simile a quella che si prova nell’attraversamento di quei sottopassi delle stazioni dove generazioni di barboni la notte hanno orinato per terra. Tommy lascia manate sui muri bianchi, scarabocchia con matite e pennarelli ogni superficie scrivibile, quando mangia il suo panino all’olio, croccante, semina sbriciolamenti tra cucina e salotto, come se dovesse pasturare galline. La percezione di Tommy è una sinestesia continua, avvolge chiunque divida la vita con lui. Ricordo la sensazione di libertà che notai per la prima volta in Filippo quando decidemmo che i fratelli avrebbero dormito in camere separate. Filippo, un vero eroe, ha sopportato in silenzio anni di notti con quel fratello sdraiato sotto di lui nel letto a castello, che smaniava e si agitava come un orso chiuso in una gabbia. Ora che praticamente Tommy passa la

maggior parte del suo tempo nel mio studio, il resto della famiglia ha ripreso un po’ a respirare. E sempre più raramente si presenta la situazione opposta, vale a dire che Tommy stia con loro e io solo. Nessuno ha ancora ben chiaro il concetto che Tommy è un uomo, anche se ha solo quattordici anni, e dobbiamo renderci conto che l’organizzazione che imposteremo per la sua vita dovrà valere anche oltre, nell’età adulta. Noi ci illudiamo che sia sempre un ragazzino da accudire, la sua giornata è organizzata come dieci anni fa. Si alza la mattina, trova la colazione già pronta (sempre la stessa: yogurt alla fragola senza pezzi di frutta, mezza tavoletta di cioccolato al latte, panino all’olio tostato, qualche biscotto). Aiuto nel vestirsi (chissà perché, quando è perfettamente in grado di farlo da solo?), lavaggio dei denti assistito, uscita per la scuola – dove di lui si occupano un’insegnante di sostegno un paio d’ore e un’assistente del comune, ovvero, parcheggiato. Ripresa a scuola, a casa pranzo pronto, Simpson in tv con me e il fratello. Alle 15 arriva la signora, tutti scompaiono e resta lei. Alle 20 circa viene in studio con me, guarda l’iPad, disegna un po’. Alle 22 circa torniamo a casa e va a letto. Tutto inframmezzato da tre+tre ore alla settimana di terapia a domicilio. Altre tre ore con il servizio del comune, che si risolve in una passeggiata nel quartiere. Un’ora di psicologa e altre tre ore circa tra musica, cavallo, piscina ecc. Il resto del tempo, nulla. In pratica, la vita di un anziano con l’Alzheimer, come quelli che vedo con la badante seduta accanto su una panchina al parco, con lo sguardo perso nel nulla. Non può essere questa la vita quotidiana di un adolescente bellissimo ed esuberante come lui! Questo solo perché ha un disturbo della comunicazione? Chi non comunica deve essere messo sotto tortura vivendo come un galeotto in libertà vigilata? E quale sarebbe il suo reato? Essere nato autistico? Tommy mi comunica con lo sguardo che si è rotto le palle di tutto questo, io pure lo sto comunicando con una certa insistenza a chiunque mi stia accanto. Non mi sento più in grado di accettare con rassegnazione la mia immagine futura di signore mesto che passeggia portando sottobraccio il figlio minorato per i viali del quartiere Prati, sempre straboccanti di auto in doppia fila e di cacche di cane sui marciapiedi. Ne vedo troppe, da anni, di coppiette del genere transitare dalle mie parti. Ne incontravo una in particolare, sin dall’inizio degli anni Ottanta, quando ero appena arrivato a Roma: una signora con un ragazzo chiaramente ritardato, oggi lei è decrepita e anche lui è un vecchietto. Sempre con quel cappellino sportivo in testa e la radiolina all’orecchio. Non vorrei trovarmi

anche io così, per la felicità di Tommy ma anche mia. Se io non sono felice, nessuno che mi stia accanto potrà mai esserlo. A me non serve poi molto per immaginarmi felice: mi basterebbe avere tempo per pensare, per scrivere, per non perdere le occasioni che mi si parano davanti. Mi logora questa forzata sorveglianza che sembra ineludibile. Solo attraverso preventive negoziazioni la signora con cui Tommy passa la maggior parte della sua giornata si ferma fino al rientro di mia moglie dal giornale (22.30 circa), quindi ogni giorno che viene in terra io alle 21 devo essere disponibile a darle il cambio, ma per fare cosa poi? Tommy non è interessato a nulla, riesce a fare attività gratificanti unicamente in un contesto di gruppo e con un programma specifico di organizzazione del tempo, che può essergli proposto solo da un terapeuta professionista, altrimenti si stanca subito. L’unica attività che riesce a coinvolgerlo senza riserve è quella fisica, come andare in tandem o in piscina. Potrebbe pedalare o nuotare nella sua particolarissima maniera a oltranza, ore e ore. Lui sì, ma io no. Quando era piccolissimo, e ancora non sospettavamo del suo autismo, una volta andammo tutti per una gita al monte Soratte. Si partiva dal paese di Sant’Oreste per arrivare in cima alla montagna dopo una bella salita di qualche chilometro. Ricordo che il piccolo Tommy, che aveva da poco imparato a camminare, partì spedito davanti a tutti, fino a che arrivammo in cima. Detto così sembrerebbe banale, ma l’impressione che avemmo fu quella di un robot, un mutante, un piccolo cyborg programmato per arrampicarsi senza mai fermarsi. Tommy accanto a me è abbastanza tranquillo, ma comunque assorbe attenzione. È molto difficile concentrarsi e scrivere con lui nei paraggi. Passi per un articolo che richiede più mestiere che inventiva… Impossibile è creare, lasciare a briglie sciolte l’immaginazione. Tommy è un generatore di jamming organico. Come quei dispositivi di disturbo che usano i servizi segreti per impedire trasmissioni di propaganda da paesi stranieri. Immaginate un sibilo continuo, ininterrotto, che è percepibile come uno stato d’ansia costante. Avete presente quando nel cuore della notte scatta la sirena dell’allarme di un ufficio? Vi entra nel cervello mentre vorreste riposare e vi divora, nervo dopo nervo, attraverso ogni vostro possibile recettore. La sirena, se persiste, penetra attraverso i capelli, le unghie, i denti. Vi pervade ovunque. Poi, finalmente qualcuno la spegne. Il silenzio sale come fosse il vapore sfrigolante di una secchiata d’acqua su una lastra di ferro rovente. Questa è esattamente l’impressione che si prova quando qualcuno porta

Tommy fuori di casa. Il silenzio comincia a rimbalzare ovunque. Però, quando accade, mi accorgo che Tommy mi manca. Sto trascorrendo proprio ora un periodo silenzioso. Ho due case a disposizione perfettamente in ordine, climatizzate come posso permettermi solo quando non devo negoziare con nessuno, senza odori molesti a cui sono molto sensibile. Senza cibo che cuoce sui fornelli, con i frigoriferi occupati unicamente da frutta e bevande. Insomma, come vivrei se fossi da solo. Eppure mi manca la sua presenza relazionalmente trasandata. Le persone che vedo in questi giorni di estate in città mi affaticano tantissimo. In realtà sono io che non ho più nessuna voglia di sforzarmi a tenere in piedi conversazioni fatte di nulla, o peggio ancora di confrontarmi su argomenti seri. Non mi va di capire e conoscere gente nuova, non mi incuriosisce. Questo è sicuramente uno stato passeggero, ma sono sicuro che sia la conseguenza dell’iperesposizione che negli ultimi sette–otto mesi ho avuto con Tommy. Mio figlio, rispetto alla mia capacità di interagire fluidamente con il prossimo, è per me come la kryptonite verde per Superman, mi annichilisce sempre di più. Mi è impossibile non capirmi con lui, mentre con il resto del mondo ho sempre maggiori difficoltà. Potrebbe essere che, a forza di aver a che fare esclusivamente con Tommy, non riesca più a gestire con leggerezza le divergenze, pur minime, con gli altri miei consimili. In verità, non è che mi senta relazionalmente impotente, come se mi si fossero attenuate le capacità o avessi dei blocchi improvvisi, del genere che capitano ai soggetti ansiosi o depressi. La realtà è che mi sono proprio rotto il cazzo di dover tenere conto sempre e comunque degli stati d’animo e delle sensibilità altrui, delle opinioni, delle abitudini, dei gusti delle persone con cui entro in contatto. La cultura e la civilizzazione – che di certo non rinnego, anzi che ribadisco essere la miglior maniera possibile di vivere la contemporaneità – mi impongono di essere rispettoso di ogni diversità. La tolleranza permette lo scambio, che è arricchimento. Giusto, ma da una vita mi arricchisco sorridendo a denti stretti, abbozzando, ascoltando e fingendo consenso e solidarietà. Oggi vorrei dilapidare un po’ tutto questo prezioso patrimonio d’umanità, altrimenti che ho vissuto a fare? Imitare nei limiti del possibile il «sistema Tommy» mi regalerebbe grande leggerezza. In coincidenza di ogni alleggerimento vescicale, è forse ora che inizi anch’io a smettere di preoccuparmi dell’inviolabilità dogmatica della tavoletta del cesso.

XXI La nostra anfetamina Per qualche mese, quasi ogni domenica, mi sono divertito a pubblicare su Facebook le foto della passeggiata urbana in bicicletta con i miei figli. Non facevo in tempo a inserire le foto sulla mia bacheca, che subito partiva il coro dei «mi piace». Un padre che porta i figli in bici fa davvero colpo, soprattutto se uno dei due siede con lui su un tandem; poi ogni settimana avevamo una piccola storia da raccontare, incontri lungo gli argini del Tevere, nei vicoli della città ancora mezzo addormentata o girovagando attorno a San Pietro, sin dalle prime ore della domenica teatro di una variopinta transumanza di pellegrini di ogni parte del mondo, che cercavano posti in prima fila per l’Angelus di mezzogiorno. Noi osservavamo, fotografavamo, filmavamo e, una volta a casa, mettevamo in condivisione. Questo ci rese molto popolari, forse soprattutto perché i padri che si occupano personalmente dei propri figli sono una rarità nella famiglia media italiana, a meno che questi non siano piccoli e batuffolosi. Io gioco un po’ a fare il bravo padre, è il mio riscatto. Per anni di me hanno potuto dire e immaginare fantasmagoriche turpitudini che, se non avessero rischiato di danneggiarmi seriamente, avrei trovato quasi divertenti. Quando non seppero più che cosa inventarsi per farmi fuori da un’importante posizione professionale, qualcuno mi contestò l’improvvisa apparizione di link a siti zozzi sul portale aziendale, di cui ero responsabile. Capii che era la perfetta forma di diffamazione, in totale sintonia con quel mio presentarmi sempre come l’antitesi totale a ogni bigottume sagrestanesco. Cambiai lavoro e, allo stesso tempo, smisi di illudermi che avrei potuto far qualcosa per contrastare chi andava dicendo di me che partecipavo a messe nere o fotografavo bambini davanti alle scuole (mi confessò una mia segretaria di allora che quelle erano le chiacchiere arrivate alle sue orecchie). Per questo, alla fine, non nego di provare una certa serenità nell’essere ora associato a quella che è stata davvero la mia attività principale, dopo il lavoro, la cura di Tommy. Anche se mi piacerebbe che il mondo non mi vedesse unicamente dedito al presidio della mia responsabilità paterna, i peggiori ipocriti che ho conosciuto in tutta la mia vita sono stati i portabandiera dei valori della famiglia. In realtà, non credo alla sacralità degli aggregati umani, non credo alla venerazione di concetti astratti. Penso pure che la famiglia, come tradizionalmente è intesa, sia un’istituzione molto poco adeguata alla società contemporanea, a meno che non si dia per scontata

l’ipocrisia di un patto d’amore che possa durare, intangibile, per un’intera vita. Ora che Tommy me lo ricorda ogni minuto, sono certamente e anche felicemente sicuro che non mollerò nessuno dei miei al suo destino, ma non mi sento per questo rassegnato a esaurire ogni mio palpito vitale in questa «missione». Mi diverte ogni tanto leggere o ascoltare come, venendo a conoscenza della mia situazione, scatti in una parte del mio prossimo ammirata partecipazione, quasi fossi coinvolto in chissà quale progetto divino. «Eh, Dio ti darà la forza…», «La Provvidenza fa sì che tu possa sopportare…», «Porti la tua croce…» Ma de che? Come mai, invece che Madre Teresa di Calcutta, io mi sogno La grande odalisca di Jean–Auguste– Dominique Ingres? Non esiste la rassegnazione alla badanza perenne, non credo che sia accettabile che un genitore metta in cassaforte ogni sua attesa di felicità possibile per dedicarsi a un grigio e disperato cammino di sopportazione della propria difficoltà. Alla fine, se ci si riflette, cosa cambia tra il disperarsi e l’ingegnarsi per mantenere vivace la propria immaginazione e riuscire così a farsi qualche sorriso di soddisfazione? Il figlio autistico è la ricetta migliore per chi volesse trovare uno stimolo alla mortificazione. Diciamo che è un farmaco rispetto al proprio piacere generalizzato, equivalente all’anoressizzante che assume chi non vuol cedere alle lusinghe della gola. La nostra anfetamina si chiama figliuolo. Ah, mi piacerebbe simulare qui del fantasioso vittimismo. Il compatimento è una molla che scatta all’istante e provoca sublimi elevazioni. «Oh, sei un padre fantastico!» mi cinguettano con partecipe sospirazione alcune mie carissime amiche. Mi rendo conto di stare attraversando quella fase intermedia in cui un padre che sappia aggregare alla sua immagine il sapiente effetto «ragazzone– oracolo» si sente come quei maschi marpioni che vanno per parchi con il cane al guinzaglio, cercando amabili signore che passeggiano sole con la loro cagnolina. Un uomo con un figlio che sembri bisognoso di conforto fa molta presa tra le romantiche frequentatrici delle social–chiacchierate. «Tommy sembra un giovane Buddha!» mi ha detto una scrittrice che ci conosce bene, quando le raccontavo dei successi del mio coming out paterno. La stessa cosa, prendendo in braccio Tommy ignudo, di pochi mesi, me l’aveva detta un’attrice mentre chiacchieravamo nel suo salotto che affacciava su una spiaggia sarda, dove entrambi eravamo approdati con le reciproche famiglie. Allora era un putto panzone, assai ieratico in verità;

ancor più estatico lo sembrava dopo aver inspirato l’aria del boudoir della signora, dove lei e i suoi amici si facevano grossi cannoni dalla mattina alla sera. Potrei quindi girare il mondo portandomelo dietro come ragazzo vaticinante, potrei insegnargli a salire su una corda, potrei millantare che possa guarire da molte malattie imponendo le mani, potrei fingere d’interpretare le sue parole sconclusionate come profezie pronunciate in estasi usando linguaggi scomparsi. Potrei fare tante cose folli con Tommy, ma tutte sarebbero per far contento me. E lui? Quando mi capita di passare fra altri genitori con figli autistici al seguito preferisco non pensarmi in quel posto. Non vorrei sembrare altezzoso e spietato, no davvero; premetto, anzi, che mi sto arrovellando per trovare soluzioni che possano valere anche per altri miei «colleghi». Però non nego una mia ritrosia a immaginarmi stremato come vedo loro allo stremo. D’altra parte, come si potrebbe non esserlo, con una persona per casa che devi tenere sempre sott’occhio ogni istante della tua vita? Lo penso mentre siamo tutti in salotto assieme a un’altra famiglia il cui ragazzo non riesce a stare fermo un minuto. Compie un’oscillazione continua del corpo e del capo senza fermarsi mai, mi dicono che è in una fase tranquilla. Riempie lo spazio con il suo movimento; a me non dà nessun fastidio, anzi provo tenerezza per lui, ma soprattutto ne provo per i suoi genitori che si rivolgono a lui con frasi di circostanza e, quasi per un automatismo, tendono a giustificarsi per il disturbo che il figlio irrequieto e ipercinetico potrebbe arrecare. Sono talmente abituati a quel nascere spontaneo di sensi di colpa che dimenticano di stare tra persone con lo stesso problema. Li abbiamo conosciuti in occasione di una vacanza trascorsa da Tommy al mare, con quel ragazzo e altri autistici, accompagnati da psicologi e educatori. Tommy era tornato molto silenzioso. Sembrava che riflettesse sulla differenza tra casa sua e quella al mare. Già, come sarà il ritorno dalle vacanze per un tipo come lui? Io ero andato a prendergli il gelato che più gli piace da quando è nato, fragola e cioccolato. L’unico che mangia su imitazione del fratello maggiore, radicalmente fedele da sempre a quei due gusti. Volevo smorzare il senso di nostalgia che anch’io provavo da ragazzo, quando mi accoglieva il tetro squallore dell’habitat familiare dopo che avevo sfiorato la vertigine di persone sorridenti, ambienti accoglienti, aria profumata e piacere generalizzato.

L’ho osservato accucciato sul solito divano molto pensieroso, ogni tanto ridacchiava come se avesse riportato alla mente un pensiero felice. Non ci avrebbe mai potuto raccontare qualcosa di quei giorni trascorsi al mare, ma ci contaminava con il suo esercizio di passare in rassegna i ricordi piacevoli. Forzando la sua logica, mi piacque pensare che quella era la sua maniera di comunicarci la sua esperienza. Insomma, un suo farci vedere le diapositive della vacanza. Immagino che nella sua testa i pensieri non siano astrazioni come per noi. Lui i pensieri dovrebbe vederli, come quando noi abbiamo in testa i soldatini a cavallo se immaginiamo un film western. Anche questa è una caratteristica dell’autismo che mi affascina. Nessuno potrà confermare questa mia impressione, ma nemmeno contraddirla. Quando Tommy ride in anticipo guardando per la miliardesima volta un cartone animato, perché magari sa che di lì a poco Paperino finirà in acqua, viene preso a volte da un’euforia addirittura esagerata. Da piccolo, c’erano scene che lo inquietavano al punto che lui stesso fermava il cartone animato e andava avanti veloce saltando la sequenza. Facendo così, lui evitava che Paperino si bagnasse, ne sono sicuro. Non esiste differenza tra realtà e rappresentazione per l’autistico, non ci sono mondi simulati, separati e di rango diverso, dal mondo concreto che noi viviamo. Spesso Tommy è capace di stare tranquillo molto tempo a scarabocchiare fogli di carta che poi sminuzza, oppure a rimirare il soffitto. Noi al suo posto vedremmo solo superfici bianche, uguali e monotone. Lui cerca uno schermo su cui liberare i suoi pensieri che hanno mani e piedi, e saltano, rimbalzano, s’inseguono. Per questo a volte ride quando pensa. Supponiamo di figurare un nostro qualsiasi disagio fisico o mentale come una personalità concreta che occupi spazio reale nel territorio del nostro immaginario. Anche noi, se fossimo autistici, vedremmo sederci accanto il nostro mal di pancia, paffuto e dispettoso. Oppure sentiremmo scalpitare dentro il petto quel signore irrequieto che si sveglia ogniqualvolta ci sorprende un pensiero d’amore.

XXII Insettopia Tommy è contento quando si trova in un ambiente che non gli crei problemi e che lo incuriosisca. Il suo tempo di tenuta di una curiosità è brevissimo, anche perché è difficile che sia curioso. Dovrebbe abitare un ambiente in continua mutazione, quasi un caleidoscopio di colori cangianti, una piazza girevole in mezzo a un cerchio di baracconi delle meraviglie. Ogni genitore di ragazzo autistico cova nel suo profondo l’idea del paese che non c’è, costruito su misura per suo figlio. Figuriamoci se non ci penso anche io… Non ho visto nulla di simile, ma Tommy sa sicuramente di cosa si tratta. È qualcosa di simile a «Insettopia», la terra promessa degli insetti evocata in Zeta la formica, cult movie di mio figlio. Insettopia è una semplice discarica con avanzi di cibo ai confini di Central Park. Che però è abitata come un fantasmagorico paese della cuccagna da insetti di ogni balzana fattezza, che volteggiano in mele bacate come fossero in un luna park. Nell’ultima sequenza del film, che manda Tommy in visibilio, l’inquadratura, in un primo tempo stretta sull’immensa regione della felice utopia formichesca finalmente raggiunta dal popolo eletto di Zeta, si allarga lentamente relativizzandone la centralità: Insettopia diventa solo un piccolo immondezzaio ai margini del parco verde; poi l’inquadratura si allarga ancora e si vede New York con i suoi grattacieli, il mare… Insettopia è un universo contenuto in altri universi infinitamente più grandi e quindi incommensurabili per le povere formichine. Io penso che Tommy e i suoi siano le formiche operaie, o come tali comunque vengano percepiti dal resto dell’umanità, fatta sempre di insetti, ma di quelli spavaldi e prepotenti, come nel film sono i grossi formiconi allevati per fare i guerrieri. L’Insettopia dei ragazzi speciali è una città per loro immensa, ma solo un granello se paragonato all’enorme superficie di una metropoli abitata da esseri giganteschi. Bene, in questa guerra tra insetti per contendersi la briciola ho iniziato a fare i conti anche con le cavallette, le protagoniste di un altro film formichesco caro a Tommy, A Bug’s Life Megaminimondo, sono le prepotenti predatrici che tutto divorano, rapaci e ingorde, senza lasciare nulla alle povere formiche. Vedo come cavallette tutte le persone che desertificano le risorse destinate ai più deboli. Quelli che appaltano il grande affare della disabilità facendone il loro business. Sono persone molto spesso in perfetta buona fede e assolutamente encomiabili per i loro sforzi, ma non è sempre così. Ho visto troppe cavallette spartirsi le

risorse che dovrebbero essere più equamente attribuite ai veri destinatari. È necessario un salto avanti fondamentale, in cui è preciso dovere dei familiari di tutte le persone che hanno problemi simili a Tommy di capire che non possono sempre massacrarsi la vita per meritarsi la benevolenza altrui, ma devono essere loro i primi a pretendere un pensiero rivoluzionario sull’umanità «imperfetta» e che non può essere limitato a porre solo un concreto problema di welfare. Capita spesso, per ognuno di noi, di subire silenziosamente un ottuso pregiudizio: è quella rassicurante certezza altrui che il «diverso» sia figlio di un dio minore e che non debba interferire con il suo, già problematico, quotidiano. È un inconfessabile pensiero che mai pubblicamente nessuno esternerebbe, ma che galleggia spesso nel sentire comune, anche se avevamo sperato di poterlo seppellire sotto la calce del politicamente corretto. La cosmesi lessicale, quella che fa dire «diversamente abile» o «neurodiverso» o «non vedente», poco ha cambiato nella sostanza della cultura generale sulla diversità. È ora che l’idea che per tutti ci possa essere un’Insettopia felice sovrascriva l’arcaico contrappasso per cui alla fine la famiglia è condannata a essere l’unica alternativa a quei famigerati luoghi di compostaggio di rifiuti speciali dell’umanità a cui spesso veniamo consigliati di rivolgerci. Vorrei che fosse la fabbrica di Insettopia a giustificare l’esistere di tanti pii istituti, cooperative, fondazioni ed enti morali, per i quali spesso passano tanti soldi, ma si traducono i ben pochi benefici per i nostri ragazzi. Chi si sente assolto dal pregiudizio che qui esprimo lo dimostri, ora sa come muoversi. Per chiunque viva la mia esperienza, viene sempre il momento in cui il possibile progetto dell’Insettopia per il proprio figlio comincia a prendere corpo. Arriva per lo più quando le madri sono ridotte al lumicino, non hanno più alcuna fantasia che riguardi la loro persona, il loro futuro, la loro felicità. Si sentono esauste e non ce la fanno più ad andare in giro con fasce elastiche e tutori là dove il figlio ha avuto la mano pesante, a immaginare una vita fatta di continui incastri tra chi ritira, chi restituisce, chi soppesa, chi allontana quel loro fardello. Non escludo che anche molti padri arrivino un giorno alla stessa conclusione, ormai tagliati fuori da tutto, guardati con commiserazione dai colleghi di lavoro, incapaci di immaginare una vacanza da soli, una passeggiata non incasellata nei rigidi schemi del turno di sorveglianza, spesso anche torturati dalla nostalgia di amori rapaci e segreti che sanno di non potersi più permettere nemmeno come semplice fuga onirica. A quel punto si inizia a immaginare l’edificazione di Insettopia. Io posso

dirvi la mia. La vagheggio vicino a dove abito, dove lavoro e dove vivo da tanti anni. In posti che Tommy conosce e che, nel suo Gps organico, considera l’origine di ogni itinerario. Il luogo, insomma, dove lui pensa sempre di dover tornare quando si allontana per un paio di giorni (e comincia a chiedere di farlo). Per lui «casa» sarà sempre la casa dove è cresciuto, non credo che si abituerebbe a considerarne un’altra. È come avesse interiorizzato il link «home» che porta sempre al piano del numero civico dove abita. La prima regola, quindi, è che Insettopia sorga vicino a casa, per questo, forse, è sempre difficile che più genitori trovino una soluzione condivisa al loro problema. Ho avuto modo di conoscere alcune realtà associative, nate per buona volontà di qualche eroico padre o madre, che ha deciso di muoversi non solamente nell’interesse personale ma anche di altri genitori. Tutti mi hanno parlato di difficoltà estreme per accordarsi su un progetto comune. Posso capirlo, l’Insettopia che ogni genitore ha in mente è calibrata sulla sua formica, e paradossalmente le nostre formiche sono tutte differenti tra loro. La città che mi piacerebbe costruire, dentro ogni città, non dovrebbe essere un luogo che potesse essere scambiato con qualcosa che assomigli a un ospedale, una clinica, un manicomio, un carcere. Dovrebbe comunque avere un suo perimetro protetto, che non significa chiuso: io abito nel quartiere delle vecchie caserme umbertine, ormai dismesse, e, ogni volta che passo davanti a quelle mura irte di altane senza più sentinelle, costruisco nella mia mente la nostra città felice. È la mia ossessione, ma immagino che lo sia anche di tanti altri genitori. Temiamo tutti il giorno in cui il nostro amoroso fardello resterà in mano a qualcuno che se ne dovrà occupare. I nostri figli, è nell’ordine naturale delle cose, ci sopravvivranno, e non sono un carico lieve da amministrare. Tanto varrebbe allora costruire sin da oggi la loro città e abituarsi all’idea che ci possa essere in ogni municipio, quartiere, circoscrizione un’Insettopia per chi non si trova a suo perfetto agio tra gli umani. Sarebbe l’esatto opposto della segregazione, almeno nella mia idea. Sarebbe l’equivalente dell’ufficio, del luogo di lavoro, del bar dove si va a prendere l’aperitivo, della palestra, del calcetto, della scuola. Noi genitori sappiamo bene che non ce la faremo per tutta la vita a sottoporci al continuo inseguimento di un’ora di attività decente per i nostri figli attraversando le città, scavalcando le file, rincorrendo gli autobus. E questo per quaranta minuti di piscina, un’ora di psicomotricità, un tentativo di logopedia, una

corsetta in uno stadio, una cavalcata con qualcuno che tenga le redini… Insomma, per quei pezzetti di Insettopia che andiamo raggranellando in giro ogni giorno come fossimo tossici alla ricerca della loro dose. Per rendere l’idea, forse basterà dire che la nostra giornata inizia quando ci svegliamo con il pensiero di cosa stia accadendo nella camera del figlio autistico. Sentiamo lamenti, ululati, rumori vari: ci preoccupiamo e andiamo a vedere. Non sentiamo nulla: ci preoccupiamo e andiamo a vedere. Poi il problema si articola lungo tutta la giornata: che cosa gli faccio fare? Io, oggi, ho la mia vita organizzata come tanti frammenti di mare aperto da percorrere in navigazione forzata in mezzo a un arcipelago di piccole isole, le attività di Tommy. Per esempio, sono abbastanza libero dalle 9 alle 12.30, perché lo parcheggio a scuola. Poi la successiva finestra può essere dalle 15 alle 18, nei giorni in cui viene un terapista a casa e per tre ore si occupa di mio figlio. Non viene tutti i giorni, quindi bisogna riempire con la badante, che è in grado di evitare che si faccia male, lo può portare a spasso, può tenerlo impegnato comunque in qualche modo. Così si arriva alle 20, poi Tommy mi ritorna addosso. Io sono magari nel mezzo di una cosa da scrivere, di un lavoro da inventare e posso tenermelo accanto dando a lui un occhio e continuando a fare le mie cose. Lo sento che passeggia per il mio studio, entra ed esce dal bagno più volte, anche senza necessariamente far nulla, prende carta e colori e disegna per un po’, ma non dura molto. Alla fine si stravacca sui grossi cuscini che ho sul parquet e si mette a guardare YouTube con l’iPad. Verso le 22 lo riaccompagno a casa, se è nelle buone si mette a letto, magari chiacchiera un po’ da solo nella sua maniera strampalata, butta all’aria qualche cuscino, poi alla fine si spegne la luce e il problema Tommy è sospeso fino al giorno dopo. Il resto della famiglia intanto sprofonda – ognuno per sé – nelle proprie attività di fine giornata, chi legge, chi gioca con la play station, chi, come me, mette a punto le idee che gli sono scappate via tra un’isola e l’altra, pensa alle cose che avrebbe dovuto fare ma non ha potuto, alle persone a cui ha dovuto dire «non posso», perché la mia badanza esclude ogni uscita dalla routine. Alla fine, sono problemi della famiglia dell’autistico ed è giusto che se ne occupi quella. Forse anch’io lo penserei, se vedessi la cosa da fuori. Il fatto è che la famiglia dell’autistico continua a essere una famiglia, nella migliore delle ipotesi, unicamente per il disperato bisogno di alternanza nella cura costante del figlio. Me lo sono ricordato una sera mentre stavo andando a cena con la mia «collega» bomba M e altre persone con cui lavoro a un

progetto di Insettopia. Le chiesi dove fosse suo marito e mi sentii rispondere che, se lei era lì con noi, lui necessariamente doveva stare a casa con il figlio. Se ci penso, saranno non so quanti anni che non esco assieme a mia moglie, tanto che a entrambi è pure passata la voglia di farlo. Ammesso che qualcuno possa restare a sostituirci nel turno di guardia, è comunque impossibile godersi ogni tipo di serata quando si sta sempre all’erta su quella mina innescata che ci aspetta a casa. Magari lo troviamo ancora sveglio a notte fonda, magari si alza e passeggia, magari fa casino per il resto della notte. Si sopporta questo tipo di vita quando si ha un bambino di pochi mesi, si continua a sopportarlo per tutto il tempo dello svezzamento, della muta dei denti, delle turbe preadolescenziali… Ma penso che per tutti venga il giorno in cui i figli cresciuti presentano per lo meno il vantaggio di avere acquisito autonomia ed esprimono il desiderio di avere i genitori tra i piedi il meno possibile. Invece, per noi, è esattamente il contrario. Noi ci dividiamo un figlio che più cresce più ha bisogno di noi. Se non costruiamo la nostra Insettopia, che sarà di lui quando non ci saremo più?

XXIII In nome del padre Mi è arrivato un sms del mio ex collega cieco che annuncia la nascita della figlia. È stata una delle rare volte in cui una notizia del genere mi ha lasciato uno strascico di allegria. Sapevo con quanta cocciuta determinazione quella bambina era stata messa in cantiere dai genitori, tutti e due ciechi. Conosco il padre, giornalista parlamentare, da quando ancora un po’ riusciva a vedere. Veniva spesso a trovarmi nella mia redazione per discutere di quello che avevo detto alla radio. Poi per mie vicende lasciai l’azienda per cui lavoravamo entrambi e non ebbi più sue notizie. Me lo rividi davanti almeno sette–otto anni dopo, una mattina in metropolitana. Aveva accanto un grosso cane guida ed era diventato completamente cieco. Però seppi da lui che si era sposato con una ragazza che conoscevo molto bene. A differenza di lui è cieca dalla nascita, ogni anno comunque costretta a una visita legale di verifica a cui puntualmente si presenta con la frase: «Niente, ancora nessuna novità da Lourdes!». Da poche persone come da lei ho imparato a reagire con l’arma dell’ironia agli aspetti più crudelmente surreali dell’ottuso apparato burocratico preposto a occuparsi dell’universo dei disabili. Mi fu anche molto utile perché sapeva tutto della televisione, della cui analisi io mi sono occupato per anni. Da piccola i suoi la facevano stare seduta dietro al vecchio televisore di famiglia, che aveva un tasto difettoso; per poterlo mantenere sulla sintonia giusta era necessario che qualcuno tenesse il dito pigiato su quel tasto. I genitori pensavano che tanto la piccola non vedeva e quindi era indifferente che stesse davanti o dietro alla tv. Usai il suo talento nel mio programma nominandola sul campo «la mia critica televisiva cieca». Lei seguiva la sera un programma per me e la mattina dopo mi raccontava alla radio le sue impressioni. Trovavo che fosse la più straordinaria integrazione alla mia quotidiana riflessione sulla tv che lei «guardava» come un vate cieco. Ero anche andato a trovarli nella casa dove vivevano assieme ai rispettivi cani. La prima volta mi sorprese un messaggio che lui mi mandò il giorno dopo la visita: «Ti volevo dire una cosa, che però non volevo dire davanti a Tommy. Quando siete andati tutti in un’altra stanza a un certo punto sono venuto anch’io. Be’, l’anta della porta dell’anticamera si era sganciata dal paletto e ci stavo per andare a sbattere contro. Tommy mi ha preso il braccio e mi ha spostato verso la parte che era rimasta aperta.»

Mi feci subito il film di una qualità segreta di mio figlio che aveva intuito lo stato non vedente dell’amico e gli aveva evitato di battere la faccia sulla porta. So che è molto improbabile, ma se lui l’ha sentita così sono sicuro che non sia andata diversamente. Reso euforico dall’idea di Tommy guida per ciechi, la volta successiva che ci incontrammo, andammo a fare una passeggiata. Io chiesi a Tommy di accompagnare i due coniugi per i marciapiedi del quartiere. Ripresi la scena con il telefonino e ancora mi commuove rivederla. Tommy avanti a tutti camminava fiero del sentirsi incaricato di una così delicata incombenza; teneva la ragazza per un braccio tirandosela dietro e il marito seguiva in fila indiana con una mano sulla spalla di lei chiudendo il drappello. Naturalmente durò poco: Tommy, preso dall’euforia di quel gioco, correva troppo spedito e c’era il rischio che non desse ascolto alle indicazioni di chi suppliva alla sua incoscienza fermandolo al semaforo di ogni passaggio pedonale che dovevano attraversare. Era una straordinaria simbiosi tra la visione distorta del reale di una guida e la capacità visionaria del suo seguito al buio. Spero di poter vedere i miei due amici ciechi tra qualche anno proprio come li vidi con Tommy, sorridenti, mano sulla spalla e in fila indiana al seguito della loro ragazza veggente. L’hanno voluta contro il parere di tutti, saranno sicuramente degli ottimi genitori, lei sarà fortunata e vivrà a cavallo fra due mondi, quello che lei vede con gli occhi e quello che vedono i suoi genitori con gli altri sensi. Lo stesso sarà per Tommy, che vede pure lui tutto ciò di cui suo padre non sarà mai capace di accorgersi. Pensare che io un figlio nemmeno lo volevo. Fui costretto a concepire i miei due con un out out che non ammetteva repliche. M’illudevo che comunque sarebbe passato del tempo, invece niente: entrambi concepiti al primo colpo. Non mi sono mai visto nelle vesti di padre, anche se mi era capitato più volte di sentirmi dire: «Oh, saresti un padre meraviglioso!». La dichiarazione mi faceva sempre meditare la fuga, perché di solito veniva da un’amica o fidanzata. Per essere battezzato come ipotetico padre ideale bastava che io rilanciassi il pallone a un gruppo di ragazzini che l’aveva mandato fuori campo, o avessi tranquillizzato un infante caduto dalla sedia che urlava a squarciagola o, peggio ancora, fingessi affabilità e simpatia verso un suo cugino, nipote o fratellino minore che per qualche disgraziata fatalità mi ero trovato fra i piedi. Per questa ragione avevo predisposto un meccanismo di autodistruzione

di ogni cascame amoroso: scattava verso qualsiasi femmina che accennasse, sotto tutte le metafore possibili, alla sua vaghezza di esser trasformata da oggetto passionale a fattrice della mia progenie. Ora che Tommy mi agguanta ogni pensiero, immagino quanto fosse inutile combattere contro il mio fato. Pensavo di essere invincibile e corazzato verso ogni rischio di farmi divorare da un figlio, ma Tommy mi ha colpito preciso dove ero più indifeso, e mi ha vinto. Me lo chiedo spesso il perché della mia capitolazione. Se tutto con lui fosse andato come con il maggiore, Filippo, ora non starei qui a scrivere ma, invece che incollarmi a una tastiera, farei esercizi di doppio salto mortale. Un figlio in condizioni normali, nel tempo, diventa sempre più un estraneo con il tuo dna. Puoi solo augurarti che impari a essere il più possibile autonomo, che sia il più possibile felice, che si ricordi nel tempo che tu lo hai portato a cavalluccio. Il figlio autistico, invece di staccarsi, crescendo ti si cementifica addosso. Questa è la fase più delicata della perdita del proprio diritto a essere felici; riesco ancora a viverla abbastanza lucidamente, anche se avverto i sintomi della simbiosi irreversibile con ogni sua quotidiana ritualità. Il punto di caduta del padre che accetta il figlio non conforme alle sue attese corrisponde al momento in cui scopre che quel figlio è diventato la rappresentazione culminante di ogni sua aspettativa paterna: è il cobra che ti ipnotizza prima di morderti. Non mi spiegherei altrimenti la totale e incondizionata abnegazione che vedo nei molti altri genitori nelle mie condizioni. Il figlio incomunicante diventa il loro unico idolo, crudele e allo stesso tempo generosissimo. Spesso mi sono meravigliato della reticenza di padri e madri a cercare vie alternative alla presenza perenne del figliolo in ogni loro momento di vita. Quando lo affidano, a persone sicure e referenziate, spesso fanno comunque di tutto per restare nei paraggi, o cercano scuse per riaffacciarsi a vedere se tutto proceda senza problemi, che si tratti di un campo estivo o di una qualsiasi attività che coinvolga altre persone. È difficile spiegare questo desiderio progressivo di isolarsi in un mondo parallelo plasmato a esatta misura del figlio autistico. È come se lo aiutassimo a costruire il bozzolo in cui resteremo imprigionati con lui, ma quando di noi non resterà più nulla da divorare, lui di che si nutrirà? Vedo soprattutto genitori con vite articolate su ogni desiderio, mania, ritualità del figlio. Sta accadendo anche per me. Nonostante mi sforzi in tutte le maniere per inventare un sistema di affrancamento da Tommy, la mia vita

è oramai condizionata quasi totalmente da lui. In questo fatalismo irreversibile pesa di certo l’assenza di alternative organizzate alla militanza individuale del genitore. Inutile immaginarle: non ci sono, se non con interventi sporadici e discontinui. Gli operatori che paghiamo i fine settimana si riposano, quando avremmo bisogno di tempo per noi i centri diurni sono chiusi, la sera nessuno è disponibile a darci il cambio perché avremmo voglia di futilità vitali, come per me sarebbe bere un Margarita in compagnia invece che fare la sentinella al mio Polifemo. Poi è innegabile che questi ragazzi, anche se forse non tutti alla stessa maniera, emanano un’affettività così primordiale e intensa da indurci ad avvertirne la mancanza fisica quando sono lontani da noi. Ho spesso scritto in queste pagine che mi ritengo comunque fortunato nel mio problema: conosco storie di genitori che hanno in casa un figlio perennemente scatenato, cui sono costretti a fare indossare un casco perché non si faccia male battendo la testa contro il muro; un essere che sistematicamente distrugge ogni oggetto si trovi a portata di mano, in grado di urlare tutta la notte, e per tutte le notti; a volte violento senza motivo apparente, capace di un’aggressività spaventosa per un qualsiasi essere umano, che di solito nella sua vita non ha occasione di provare il dolore e la mortificazione di essere picchiato in maniera selvaggia. Eppure i padri e le madri fanno di tutto per avere quell’individuo speciale sempre addosso, sono terrorizzati dall’idea di doversene separare, è come se fosse per loro un figlio e un fratello siamese allo stesso tempo. L’autistico diventa così la clausola indissolubile di un contratto fatale, da noi mai lucidamente sottoscritto, ma che che ci impone di dovercelo tenere accanto per ogni istante della vita. Tommy mi allucina con la sua presenza ininterrotta, persino in ogni mio istante di lecita e sacrosanta fuga da lui e dal pensiero di pensarlo. Io non sono mai stato un esempio di virtù domestica, non ho mai pensato che la ricerca della mia individuale soddisfazione dovesse essere regolata da patti, principi etici o morali oltre quelli che d’istinto mi sentivo di dover seguire. Mi accorgo, però, che sto cominciando a rinunciare a troppe occasioni di spensieratezza e curiosità e sono sempre più incline a convincere me stesso che è l’angustia che mi provoca Tommy a farmi recedere. Può essere che stia semplicemente invecchiando. Il mio generoso figlio strampalato, in cambio di una totale dedizione, mi concede il pretesto che l’eutanasia sui pensieri più malandrini proceda dalla mia eroica scelta di dedicare a lui ogni energia, non dall’acquietamento del crepuscolo che regala a ogni umano il trascorrere del

tempo.

XXIV Lui, giovane guerriero Ho qui iniziato a scrivere di Tommy nel mese di aprile. Allora, quando lo abbracciavo in piedi, potevo appoggiare il mento sul suo testone riccioluto. Ora, mentre mi rileggo a dicembre, al massimo gli arrivo alla spalla. Mi guardo abbracciato a lui nello specchio dell’ascensore e mi sembra di vedere un ometto stritolato da un orco. In un video di solo due anni fa Tommy aveva ancora la voce di bambino. Mia moglie, guardandolo, mi ha fatto notare quanto sia cambiato in pochissimo tempo. Ricordava di come si fosse divertita con lui quella volta in crociera, al tempo in cui ancora riusciva a portarselo dietro. Le era bastato rispettare qualche sua idea fissa, poi Tommy con lei aveva fatto tutto quello che facevano i suoi coetanei. Certamente i limiti della sua diversità allora non pesavano come oggi, al massimo non le era consentito di lasciarlo nel centro diurno per ragazzi, dove gli altri crocieristi lasciavano i figli a giocare tutto il giorno. Tommy non se lo vollero prendere nemmeno morto, dicevano che non potevano gestirlo. La stessa cosa era già avvenuta qualche anno prima in una ludoteca: come si accorsero che qualcosa in lui non andava, ci chiesero di riprendercelo perché non potevano seguirlo. Tommy è stato un bambino molto tranquillo, certo serviva un controllo costante e individuale, ma ha fatto esattamente tutto quello che hanno fatto i suoi coetanei: tanto per smontare i pregiudizi, è andato in vacanza al mare, ai monti, ha viaggiato in auto, in nave, in aereo, persino a cavallo. In crociera non entrava in piscina, che per assurdo era la cosa che più amava, ma solo perché era terrorizzato dagli animatori che starnazzavano a bordo vasca dicendo cazzate al microfono, con le casse a tutto volume. Questo obbligava la madre e il fratello a fare un giro lunghissimo ogni volta che dovevano recarsi al ristorante, per non passare per il ponte con le piscine dove si rumoreggiava tutto il giorno. Al contrario, per farlo sfogare, sfruttavano discoteche e sale da ballo di giorno, quando non c’era nessuno. In quei saloni deserti Tommy tranquillamente scorrazzava e faceva il derviscio girando veloce in tondo a braccia aperte, che era, al tempo, il suo divertimento preferito. Addirittura mi hanno raccontato che si era prestato senza ribellarsi alla simulazione di abbandono della nave, infilandosi il salvagente, lasciando la cabina e raggiungendo il punto di raccolta vicino alla scialuppa di salvataggio, aspettando in fila insieme agli altri passeggeri.

Persino le escursioni a terra le aveva fatte tutte, anche sorbendosi musei, chiese e spostamenti sui torpedoni colmi di turisti italiani che non si accorsero di avere tra di loro un connazionale autistico. A Malta aveva ascoltato nel silenzio più profondo le descrizioni dei capolavori caravaggeschi. Alla fine si era sdraiato sulla panca della chiesa, ma era ampiamente scusato, data la lungaggine della dissertazione e il caldo opprimente. Si era girato gli scavi di Cartagine, si era seduto bevendo Coca– Cola al tavolino di un bar affollato di Sidi Bou Said dove aveva visitato una tipica casa araba e il mercatino di souvenir nelle stradine piene di gente che spintonava e urlava e contrattava, insomma non si era sottratto a quanto ci sia di più coercitivo nei rituali del turismo di massa. Certo, non mangiava un piffero, e per una settimana si era nutrito solamente di salsa di pomodoro, unica cosa che non rifiutava del pantagruelico menu della nave. La verità è che lui allora era molto selettivo in fatto di cibo. Fu un errore non portarsi qualche alimento amico a bordo. E, fra l’altro, fu proprio con la scusa di comprare i biscotti Ringo che accettò di fare l’escursione a Valencia, con tanto di visita alle chiese barocche del centro città. Purtroppo in Spagna non vendevano i Ringo, e il celebre biscotto morbido tipico della zona proposto come alternativa venne regolarmente sputato con un «no vuoi». Al tempo, mia moglie riusciva a gestire Tommaso appoggiandosi a Filippo, che era abbastanza grande da aiutare, ma non abbastanza grande da staccarsi dal gruppo d’assalto familiare. Una volta Natalia portò Tommy in Bulgaria durante un viaggio di lavoro; anche in quell’occasione lui si era sciroppato giorni di intenso turismo culturale, comprese le visite al museo delle icone di Sofia, a quello dei tesori dei Traci e in un monastero ortodosso sperduto tra i monti a mille metri di altezza. Era entrato pure nelle moschee levandosi tranquillamente le scarpe. Aveva mangiato in qualsiasi ristorante affollato. Per non parlare delle file davanti ai check–in dell’aeroporto fatte con certosina sopportazione senza che la madre fosse costretta a chiedere le vie preferenziali che spettano di diritto ai minori disabili. (Almeno all’estero, qui in Italia è un po’ meno scontato.) Ma in queste occasioni lo attendeva un bel premio finale: andare sull’aereo, che è la grande passione di Tommy. Oggi, non riuscirei a tenerlo cinque minuti fermo nemmeno davanti a un documentario di National Geographic. Insomma, secondo mia moglie il vero spartiacque è stato l’inizio della ribellione adolescenziale di Tommy, direi

soprattutto la sproporzione di forza fisica che è conseguita alla sua crescita. Per spiegarmi meglio, Tommy ha aggredito fisicamente la madre un po’ di volte e ora lei non resta sola con lui neppure un minuto fuori casa, se non c’è qualcuno nei paraggi che possa aiutarla in caso di necessità. Ha una paura che rasenta il panico di restare sola con lui per strada. Evita persino di passare dal mio studio per riaccompagnarlo a casa, anche se si tratta di fare meno di cento metri a piedi. Questo fa sì che, quando siamo tutti assieme, per esempio la domenica o un giorno qualsiasi di festa, ormai è scontato che si crei un clima impalpabile, ma inesorabile, di imprigionamento sottile. È pur vero che, quando Tommy era piccolo, lo stesso tipo di imprigionamento ha bloccato per anni la madre, che non s’è mai azzardata a far nulla che non inglobasse la presenza dei figli. A volte a me sembra di essere uno degli invitati dell’Angelo sterminatore, bloccati per giorni nel salotto da qualcosa che nemmeno loro riescono a definire, mentre un gregge di pecore scorrazza per la casa che li ospita. Tommy è probabilmente il nostro angelo sterminatore, colui che ci tiene paralizzati in un’«orribile eternità», come la definisce la padrona di casa nel film di Buñuel, e forse anche noi a volte ci sforziamo di ritornare nella combinazione di persone e cose che possa riportarci alla libertà. Non è facile farlo, gli amici si perdono per strada per primi: dopo decine di inviti inevasi, buche paurose a cene, compleanni, gite, vacanze, giustamente la maggior parte delle persone che si frequentano finisce col pensare che ce la tiriamo. Così dopo un po’ si dimenticano di noi. D’altra parte, la vita sociale non è facile, non ci va più di far venire a casa persone, a meno che siano veramente amici intimi. Non è come qualche anno fa che bastava una tata che tenesse Tommy occupato davanti alla tv nella sua cameretta, ora lui è il padrone di casa e noi siamo subordinati a ogni suo estro. Nel mezzo della serata potremmo vedercelo passare davanti con la lancia in resta verso il bagno. Non è che sia scontato che vada così, naturalmente, ma questo ci ha reso sempre meno socievoli, a meno che non ci si prenda, alternandosi, qualche permesso per uscire a respirare un po’ fuori casa; anche se, come ho già scritto, è sempre tutto condizionato dalla perenne irrequietezza che l’angelo sterminatore è capace di trasmettere pure a distanza. Questo vale soprattutto per me, che sento nel profondo la sensazione di avergli lasciato la madre in ostaggio, come una principessa delle fiabe legata davanti all’antro del dragone.

È impossibile pensare che questa possa essere la mia, la nostra vita per gli anni che ci restano, che probabilmente non sono nemmeno pochissimi, data la natura longeva della mia famiglia. Ancor di più, almeno per quanto mi riguarda, non mi rassegno a dover rivestire, per cause di forza maggiore, quel tetro abito della mesta maturità che mi sono sempre rifiutato di considerare parte del mio guardaroba. L’angelo sterminatore mi vorrebbe monaco dedicato alla mortificazione e dedito al suo accudimento… Oggi sento Tommy come un problema soprattutto mio. È come se con lui fossi tornato indietro alla più arcaica tradizione, secondo cui ogni maschio deve lasciare la madre con l’avvento dell’adolescenza per essere iniziato al mondo dei maschi adulti. Tommy non verrà gettato da una torre di tronchi legato a un piede, nemmeno sarà abbandonato nella foresta, né dovrà affrontare una fiera a mani nude. Non gli saranno imposti tatuaggi, scarnificazioni rituali, sacre mutilazioni. Niente di tutto ciò, ma Tommy nella sua alterità obbliga comunque chi gli sta accanto a comportarsi come non si faceva da secoli, almeno alle nostre latitudini. Questo, per quanto bello e suggestivo, alleggerirà la madre di un peso, ma condizionerà per sempre la mia vita. Lui, giovane guerriero, che però non può essere lasciato un solo istante da me, presto vecchio e inutile ma obbligato a fare per sempre la sentinella al mio ragazzone? Col piffero che andrà a finire così sul triste, caro figlio mio capoccione! Il tuo papà avrà sì molti capelli bianchi, ma ancora sa distinguere nelle notti di primavera quel bel profumino di gelsomino che gli risveglia addosso tante emozioni! Che te ne faresti di un papà in pantofole e con lo sguardo rassegnato? Alla fine, saresti tu il primo a soffrirne, quindi non diventare l’unico arbitro della mia possibilità di restare con te quando mi va di restare, e di scappar via ogni volta che l’estro me lo suggerisca. Tuttavia, così come siamo messi ora, il mio tempo ha perso ogni valore. Quando un anno sta per finire, io rabbrividisco perché, mentre sta per arrivare di nuovo il Natale, mi accorgo che già aspetto Martedì grasso. La Pasqua mi assopirà mentre penso al tedio delle vacanze; sogno agosto da solo in città e già l’autunno mi entra nelle ossa mentre cominciano a vedersi le prime luminarie natalizie… Questo, ogni anno, è il mio anno: un tunnel concentrico con incolmabili fessure. Non ti chiedo tanto, figlio mio, ma, se puoi, organizzati perché tuo padre riesca almeno a colmarne qualcuna.

XXV Ripartire da Tommy Mi racconta l’educatore tatuatissimo di Tommy che ultimamente ha a che fare con una bambina autistica di quattro anni ad «alto funzionamento». Così alto che da sola ha imparato a leggere e scrivere in italiano e in inglese. È comunque autistica, quindi con grandi problemi di relazione, e perciò non le va di parlare. Lo ascolto incuriosito, anche se di solito tendo a non considerare troppo queste storie di autistici prodigiosi. Quel ragazzo è un professionista serissimo, ho visto i progressi che ha fatto Tommy con lui e nemmeno un istante metto in dubbio la storia della bimba straordinaria. È una delle tante, probabilmente lei si prenderà lauree e riconoscimenti e, spero, diventerà famosa almeno quanto Temple Gardin, grande scienziata allevatrice di mucche e autrice di libri sull’autismo che sono una vera Bibbia. Ma la maggior parte di noi non ha figli che riescono a sviluppare un’autonomia di pensiero organizzata al punto da poter scrivere libri, fare conferenze, lasciare tracce intelligibili del prodotto della loro mente. Tommy non lascia nulla, se non spinto, guidato, incoraggiato da educatori altamente specializzati. Tuttavia, cosa può esserci di lui nelle produzioni eseguite con qualcuno che ti tiene la penna, ti suggerisce, ti costruisce delle gabbie che tu devi solamente riempire? Un’altra educatrice lo ha accompagnato per una settimana al mare assieme ad altri ragazzi autistici. Ci teneva molto, al ritorno, che guardassi il diario che Tommy ha fatto della settimana: «Dategli un po’ di importanza!» mi diceva. Io, di buon grado, mi sono messo a guardare con lui pagina per pagina il suo diario, ma non era il suo… Ogni giorno c’era scritto cosa aveva mangiato e le varie attività, tipo piscina, gioco, passeggiata ecc… Di Tommy c’erano solo dei disegni, sempre gli stessi che gli vedo fare da anni. Sono figure umane stranissime, e pure molto divertenti. Le disegna in sequenza, tutte molto simili tra loro, e lo fa velocissimo. Può riempirne un foglio intero in pochi minuti, ma sono scarabocchi da bambino piccolo, anche se io amo molto quelle figurine. Le disegna con le scarpe allungate e il berretto uguale a quello dei sette nani, una delle sue più magnifiche ossessioni. Non me la sono sentita di dire alla ragazza così entusiasta che Tommy disegna sempre i personaggi dei suoi cartoni, a volte guerrieri con la spada, perché quello è il periodo Mulan, o il periodo Gobbo di Notre Dame. Si può spaziare da Kung Fu Panda a qualche altro personaggio, ma difficilmente s’ispira al reale: a lui piace riprodurre ciò che del reale è già riproduzione. Il

mondo degli umani gli interessa talmente poco che, per faticare meno, lo legge nella semplificazione di un cartoon e, se proprio deve riprodurlo, si ispira alla copia grottesca piuttosto che al modello stesso. Proprio come se gli umani non li vedesse o fosse disinteressato a vederli. Non mi stancherò mai di ripetere che queste sono mie parzialissime e superficiali letture, che azzardo avendo osservato mio figlio, ma che non hanno nessun valore assoluto e non sono in alcun modo applicabili a chiunque altro abbia problemi inseribili nello spettro dell’autismo. Mi piacerebbe illudermi che ognuno dei nostri figli con una matita in mano potesse fare come Stephen Wiltshire, il ragazzo autistico nero a cui è sufficiente girare in elicottero sopra Roma, o New York, per poi ridisegnarle tutte, casa per casa, strada per strada, quartiere per quartiere su un grande cartone semicircolare. In genere i nostri fenomeni sono molto meno degni di meraviglia, se fosse per loro penso non farebbero nulla. Ecco perché bisogna insistere, serve che facciamo qualche buchetto nella grande muraglia che ci tiene separati da loro affinché possano afferrare qualcosa di noi. Non vorrei sembrare fermamente convinto che sia il nostro mondo quello a cui far riferimento, piuttosto che il loro. Penso che sia necessario dotare gli autistici dei minimi strumenti di convivenza, ma solo perché noi e loro dobbiamo convivere, bene o male, e per necessità. Noi dobbiamo farci materialmente carico delle loro esigenze primarie, e quindi non possiamo lasciarli dall’altra parte di un immaginario confine tra il mondo dei neurodiversi e il nostro, finiremmo per lasciare loro il cibo davanti all’uscio, come quei ragazzi giapponesi Hikikomori, intossicati a tal punto dal loro mondo fantastico di multiplayer che passano la vita rinchiusi al buio in camera da letto attaccati a un computer. Ho saputo che gli Asperger, autistici con problemi legati soprattutto all’interazione sociale, hanno una comunità scientifica molto attiva. In rete è possibile scaricare testi on–line realizzati da loro stessi, che insegnano come capire noi neurotipici e interpretare quello che vogliamo esprimere nella nostra attività sociale da segnali che nemmeno noi immaginiamo di produrre. Gli Asperger ci studiano, e possono così capire se noi siamo allegri o tristi, se il nostro è un atteggiamento ostile o amichevole. Esattamente come quei manuali d’istruzione per i militari in missione in paesi molto diversi dal loro, che consigliano di non guardare fisso in faccia le persone, di non dare la mano, di evitare di mangiare cibi particolari, bere, cantare… Tutto quello, insomma, che nei codici degli autoctoni rischierebbe di essere equivocato.

Gli autistici classici, invece, non mi pare abbiano comunità scientifiche, il loro status preclude la possibilità di coalizzarsi autonomamente. Possono dare segni di piacevole socializzazione se inseriti in un gruppo e seguiti da un educatore. Da soli se ne starebbero lì seduti ad aspettare. Quando Tommy è fuori casa per qualche giorno, mi arriva puntuale un messaggio della persona che si occupa di lui che mi dice: «Chiede del padre!», come se questa fosse una grande conquista. Sono convinto che Tommy senta provenire dal limite estremo dell’orizzonte che segna i confini del suo mondo una punta di nostalgia per le ore che passa con me, anche se poi non mi pare di fare nulla di particolare per lui. Quando torna, improvvisamente mi si accoccola accanto sul divano e mi abbraccia stretto. Ho già detto che l’abbraccio di Tommy corrisponde a un’uscita dal mondo, almeno tanto per capire che quel ritrovarmi al culmine di una sua spirale temporale per me indecifrabile è per lui una sicurezza che lo rende felice. Per Tommy, «felice» corrisponde a un’iconcina di faccia sorridente che, nel suo sistema di comunicazione visiva, è contrapposta a un’altra che lo rappresenta «arrabbiato». Tommy, se non è felice, è arrabbiato: difficile che rappresenti stati d’animo intermedi. Tra il felice e l’arrabbiato c’è una placida tranquillità che noi interpretiamo come disinteresse, astrazione, chiusura. Forse quello è il modo per salvaguardarsi dalle angosce che l’immersione nell’ipersocialità inesorabilmente ci propina. E ancora di più mi convinco che Tommy dovrebbe insegnarmi la corretta misura della nostra disposizione al contatto con gli altri, prima che diventi per noi nefasto. Ho fatto vari tentativi per inventarmi protesi capaci di ammorbidire l’attrito che mi provoca la distanza abissale da Tommy, soprattutto quando mi sta accanto. Non so se questo rappresenti per lui un problema, ma lo è per me. Un oracolo indecifrabile ha il suo fascino, ma alla lunga confesso che preferirei sentirmi dire: «Andiamo a fare un giro in bici», «Andiamo a mangiare una pizza», «Andiamo in piscina», senza che debba essere io a proporlo. Ho elencato tutte attività che so che a lui piacciono molto, anche se non è mai accaduto che esprimesse un desiderio diretto. Non chiede nemmeno di far pipì, non so come farebbe se non ci fosse un bagno a disposizione dove può andare ogni volta che ne abbia bisogno. Che ha fame lo si capisce perché inizia a gironzolare in cucina, o se siamo fuori casa prende a essere irrequieto. Però, oggettivamente, è impossibile che comunichi un suo bisogno. Sono convinto che neppure un dolore fisico riesca a spingerlo a chiedere aiuto. Una volta si era procurato una piaga seria a un

piede, ma non ci diceva che un paio di sandali nuovi gli faceva male. Camminava e non diceva nulla, fino a che non ce ne siamo accorti noi. La mia ansia affettiva mi porterebbe a stargli sempre accanto per cercare di intuire, capire, provvedere. So, però, che questa non è la strada giusta: a Tommy deve essere insegnata l’autonomia. Una benedetta parola che mi sento ripetere continuamente, e che mi sembra lontana anni luce dalle sue possibilità. Mi sforzo, ma è come arrampicarsi su una parete liscia con le mani legate dietro la schiena. Sembra impossibile, ma comunque si tenta. Tempo fa mi ero appassionato all’idea di riportare in vita la vecchia Comic Chat, un software accluso ai pacchetti Windows alla fine degli anni Novanta, che permetteva di chattare attraverso un’interfaccia a fumetti. La grafica, molto curata, era generata grazie a un algoritmo davvero sofisticato che mutava atteggiamenti ed espressioni dei personaggi a seconda di quello che scriveva l’utente. Ancora oggi sono affascinato dalla disarmante pulizia concettuale di Comic Chat e dalla sua quasi magica capacità di illuderci che fosse un programma con una sua «anima» e autonomia di pensiero. Pensai che, per le persone come Tommy, sarebbe stato molto importante riuscire a collegare un testo con uno stato emozionale e le corrispondenti espressioni facciali. Le persone autistiche rielaborano le informazioni visive meglio di quelle uditive. In campo terapeutico, soprattutto nella «comunicazione enfatizzata», si utilizza un metodo d’insegnamento attraverso stimoli visivi per aiutarle a esprimersi usando figure, simboli o disegni, e un linguaggio del corpo insieme alle istruzioni verbali. Studiai così un progetto per la possibile realizzazione di un sistema di «amplificazione della comunicazione». Gli esperti dell’istituto a cui ci appoggiavamo noi per Tommy ci lavorarono sodo per adattare il sistema a una possibile terapia che sviluppasse le abilità relazionali, magari giocando. Mobilitai i miei più cari amici di sempre e li coinvolsi nel progetto. Posso contare su poche persone, ma fortunatamente di grande spessore; ci siamo costituiti in un’«università fantasma», e ci «evochiamo» ogni volta in cui riteniamo che ci sia qualche idea folle da sviluppare. Presto riuscimmo a creare un piano che ci sembrava molto convincente sia dal punto di vista di una possibile realizzazione informatica, sia dal punto di vista dell’efficacia dello strumento. Sentimmo varie aziende per un eventuale sostegno, sembrava quasi che fosse possibile ottenerlo. Poi capimmo che, per essere vagamente credibili, avremmo dovuto fare i

conti con i numerosi enti, organismi, associazioni che già professionalmente si muovono nel campo dell’autismo. Capii che era meglio che mi occupassi di problemi più concreti e soprattutto ripartissi da Tommy. Accantonata l’idea astratta di un software, mi misi a cercare in rete le offerte nel settore «biciclette» e comprai il mio famoso tandem, di seconda mano ma nuovo fiammante. Non è strano trovarne uno usato praticamente intatto. Il tandem di solito si compera per andarci in due e, la maggior parte delle volte, è di una coppia che si lascia affascinare dal miraggio di pedalare avvinti da un nodo d’amore. Per questa ragione un modello dell’Atala ha la parte anteriore del telaio verniciata di blu e quella posteriore di rosa, quasi assegnasse ruoli e sellini alle caratteristiche standard dei due sessi. Poi gli amori si spengono e il tandem finisce in cantina. Io me lo sono comperato tutto blu e sento che dovrò pedalarci sino a che il fiato me lo permetterà, e non per il volubile estro di Cupido.

XXVI E per finire, un’utopia Torno con la memoria al rapporto con i miei genitori. È importante che lo faccia spesso anche perché non sento la mia famiglia d’origine da anni. Il giorno che morì mio padre decisi di chiudere ogni relazione con loro. Non avevo altra possibilità di scelta che tagliare quel ramo molto contorto della pianta delle mie già troppe angosce, fatto di madre e fratelli carichi di fardelli generazionali di cui non mi andava assolutamente di raccogliere il testimone. Detto questo, non posso negare che la maggior parte della mia esperienza, dei miei pensieri, dei miei modi d’esprimermi, d’essere, di presentarmi al prossimo sia comunque condizionata dai primi tre decenni della mia vita, da me quasi per intero vissuti in famiglia. Questo, naturalmente, nel bene e nel male. Dopo arrivò il momento di mollare gli ormeggi, anche se forse era già un po’ tardi. Ho iniziato a vedere il mondo con i miei occhi, a fare i miei errori, a essere fiero dei miei successi. La fanciullezza e l’età giovanile restano però dentro di noi in filigrana, sempre più trasparenti con il trascorrere degli anni, come un livello di Photoshop di cui si gradui l’intensità per ottenere un particolare effetto sull’immagine che stiamo elaborando. Ecco, la vita di ognuno di noi è un file .psd costruito su vari livelli. Ogni volta che ce la rappresentiamo, vediamo alcune cose in primo piano, altre sullo sfondo; altre sono livelli nascosti che abbiamo disattivato, e magari dimenticato, però ci sono e appesantiscono l’immagine, anche se sono invisibili. Come vede la sua vita Tommy? Che gerarchia hanno i suoi ricordi? Riesce a lavorare sulla trasparenza dei livelli o per lui è tutto copiato e incollato sullo stesso sfondo? Non dovrei preoccuparmi di questo, perché è un ragionamento che nasconde un profondo egoismo. In realtà, il mio rovello è solo intuire in quale spazio della mente di Tommy siano depositati i ricordi che ci appartengono, cioè dove siamo io, sua madre, suo fratello. È un pensiero forse paradossale; a nessun genitore capita di farlo, a meno che non abbia un figlio insondabile tipo il mio. La verità è che anche il più snaturato e insensibile dei padri ha la consapevolezza che, alla fine, solo un figlio può dare certezza di sopravvivenza. Il mio primogenito Filippo sembra un mio clone, sono convinto di avere con lui intrappolato la morte. Io stesso, pur avendo cancellato volontariamente l’idea di aver avuto un padre, spesso mi guardo

allo specchio e vedo lui. Il vero metro della mia graduale senescenza è nell’emergere di parti di mio padre dai miei comportamenti, dai miei pensieri, addirittura dalle mie posture. I caratteri genetici che determinano l’aspetto Tommy, invece, se li è presi tutti da lontani avi corazzieri di mia moglie. Ho una foto di un suo pro–pro– pro bisavolo in divisa da combattente della guerra d’Indipendenza che somiglia a Tommy molto più di me. Ne conserviamo in un soppalco le sciabole brunite e, sopra una mensola, dove nessuno lo vede, il medagliere. Per il resto, della sua memoria marziale non rimane altra traccia che, forse, il battere pesantemente i piedi a terra di Tommy. Anche la mia defunta suocera, come ho già detto, è la fotocopia di Tommy, io non l’ho mai conosciuta, ma mia moglie mi dice che aveva la stessa maniera di occupare lo spazio di questo nostro figlio, anche lei imponente gigantessa. Alla fine, solamente una fossetta sul mento testimonia il mio contributo alla costruzione fisica di questo figliolo, ma poco mi importa. Il dilemma per me insolubile è capire se mai riuscirò a trovare un pertugio di vita in cui mi sarà possibile vedere Tommy camminare per la sua strada, senza girarsi indietro come fa ora per dirmi: «Papà, vieni?». Ogni tanto m’illudo che questo stia accadendo, per strada rallento il passo e lo vedo avanzare bello spedito con lo zaino sulle spalle. Sembra un giramondo come tanti. Impettito e a testa alta come gli ho insegnato a camminare. In questo, l’evoluzione generazionale è veramente visibile, io cammino con un atteggiamento curvo, e sin da ragazzo mi sono sempre sentito ingiungere: «Sta’ dritto che ti viene la gobba!». Ora è anche peggio perché, per inventarmi una performance divertente, ma con una sua pretesa filosofica, negli ultimi due anni ho sollevato qualche centinaio di donne durante uno spettacolo che facevo in giro per le piazze, dove come un venditore di elisir di lunga vita invitavo signore di ogni età e censo a sottoporsi alla mia «Disciplina del sollievo di sollevar donne». Ho sollevato centinaia di sconosciute, mi son caricato sulla schiena qualunque femmina e di qualunque peso per dimostrare che ogni donna ha diritto di sentirsi donna leggera. Già, e mentre io facevo il cazzone a sollevar signore e signorine, in cerca di una vertigine momentanea, Tommy zitto zitto mi preparava la sorpresa di diventare un omone. Come per sfidarmi: «Volevi continuare a tirar su signore a gambe all’aria? Volevi accollarti il peso delle femmine per fare il provolone? Adesso prendi su i miei ottanta chili, che presto cresceranno, mio caro, ho solo quattordici anni, hai voglia a salire di peso!».

Adesso che faccio? Dovrò gettare alle ortiche ogni mia curiosità, folle infantilismo, istinto vorace? Tutto questo per tirarmi dietro quel figliolone che guarda avanti e cammina come se il mondo per lui si aprisse all’istante come le acque del Mar Rosso nella ricostruzione indimenticabile di Cecil B. DeMille? Quando finisce il marciapiede, però, c’è una strada dove passano macchine veloci, bisognerebbe tener conto di un semaforo… Tutte accortezze che non sono sicuro che per Tommy siano considerate importanti. Lo guardo camminare un po’, mi beo dell’immagine e del pensiero che ci costruisco sopra, ma poi mi devo mettere a correre a perdifiato per raggiungerlo prima che finisca sotto il 30 express, l’autobus lunghissimo che pare un missile e, quando passa, tremano i vecchi palazzi di viale Mazzini. Tommy sarà il dilemma su cui dovrò arrovellarmi per tutta la vita, ma mica perché lo consideri un problema dei peggiori che possano capitare a un essere umano, solamente perché è un problema che sento di dover risolvere io, inutile pensare ancora che possa farlo qualcun altro. Nell’automatismo familiare che assegna i ruoli a seconda della capacità di ognuno di prendersene carico, è sin troppo chiaro che la palla Tommy è stata messa nelle mie mani. Che può fargli più una madre, ormai? È poi anche giusto che lei, che se lo è sciroppato in silenzio e rassegnazione nei primi dodici anni di vita, ora lo molli a me e pensi al nostro figlio maggiore. Io non ce la farei a portare Filippo in giro per musei come sta facendo egregiamente Natalia. Di me, Filippo si ricorderà quando a sette anni lo portavo a fare kung fu, e seguivo la lezione pure io perché era troppo piccolo per essere lasciato solo. Si ricorderà dei primi videogame a cui l’ho iniziato, ma la pratica è durata poco perché a nove anni era già molto più bravo di me. Per il resto, mi vedrà soprattutto come il badante del suo fratellone cresciuto di testa, ma non di cervello. Spero che un domani, forte dei suoi innumerevoli successi, non mi venga a fare il discorso del fratello secchione e sfigato del Figliol Prodigo. E magari potrà vedermi far più festa se Tommy imparerà ad allacciarsi le scarpe da solo che per la sua terza laurea. Ma il mondo va così, figlietto mio, tu puoi camminare con le tue gambe e andrai lontano, lui resterà sempre nel posto dove qualcuno lo metterà. Per questo vorrei, finché mi assiste la sorte d’esser lucido, pensarci io a come dovrebbe essere quel posto. La conquista d’Insettopia sarà la più importante battaglia della mia vita. Anche se, per combatterla, dovrò nascondere con l’elmo la canizie, come fecero i compagni di Enea. Penso che sarà compito dei padri costruire la città dei loro figli balzani, perché, se non

lo faranno, quelli finiranno in un contenitore per raccolta differenziata di umanità poco produttiva. Mi sono fatto qualche conto e ho concluso che – tra quello che spende ogni famiglia e quello che, inutilmente, spende lo Stato in assistenti svogliati e sostegni inadeguati – ce ne sarebbe a sufficienza per fondare la nostra Insettopia senza questuare e senza piangere. Ci serve, però, un posto. In ogni città, in ogni quartiere ci sarebbe una sede adatta, solo che in genere ci fanno altre cose, magari utilissime, ma pure noi vogliamo essere utili. Se non altro a lasciare sistemate le nostre patate bollenti a vantaggio di chi ci sopravvivrà. Da qualche tempo ho allertato i miei pochi e fidi amici a guardarsi attorno. Li ho convinti a far loro il mio motto, trendy al punto che una mia amica newyorchese un giorno me l’ha mandato su un foglio di caratteri trasferibili da attaccare al muro e ora campeggia al centro del mio studio/casa di Tommy: «A noi piace giocare con le visioni, con sguardi laterali, con pregiudizi gloriosi e sventatezze ardite». I nostri sguardi laterali arrivano ovunque e precedono quelli dei nostri figli, che laterali lo saranno sempre per fantastica, quanto cruda, fatalità. Ci stiamo rendendo conto che, ovunque guardiamo con attenzione, c’è una potenziale Insettopia. Stiamo adocchiando palazzine disabitate, depositi inutilizzati, enormi giardini dove passeggiano preti e suore, villini con piscina costruiti illecitamente, messi sotto sequestro e assegnati a un nuovo uso sociale, persino abbondano le caserme abbandonate. Accanto a casa mia ce n’è una superba che sembra la fortezza Bastiani, ma presidiata solo da un paio di vecchi marescialli al posto del tenente Drogo… Non ci faranno certo paura! Guardiamo la piazza d’armi, le camerate, i grandi spazi che potrebbero diventare quartieri della nostra «città dei ragazzi». Addirittura, c’è cresciuto un boschetto dentro. Qualcuno avrà già in mente di farci un centro commerciale, un parcheggio, degli uffici… ma fa i conti senza i nostri poderosi supereroi. Quando ne parliamo tra noi, sogniamo un grande progetto che, oltre a risolvere il nostro problema, potrebbe ridare senso a interi quartieri, dove nessuno più riesce a lanciare sguardi laterali. Dove nessuno più è capace di coltivare visioni e sventatezze ardite. E la nostra, ardita lo è davvero… Immaginiamo di costruire la città felice che manca in ogni luogo, felice proprio perché chi l’abita è disinteressato alla competizione, a schiacciare il prossimo, a sopraffare, scavalcare, insidiare. Felice perché ci vive chi è contento di far le cose che a lui piacciono, e mentre gli scontenti ammorbano

chi sta loro vicino, chi è leggero di pensieri regala un sorriso a chiunque lo sfiori. Mi piacerebbe che pure chi, come i nostri ragazzi, non ha più un posto e un ruolo, perché il mondo non sa che farsene di lui, ritrovasse in questa città qualcuno che dia un senso al suo esistere. Vigili in pensione, falegnami, decoratori, artigiani di ogni tipo troverebbero a Insettopia formiche capaci di fare qualcosa, o almeno che ci proverebbero. A Insettopia si ballerebbe, si farebbe musica, si mangerebbe e respirerebbe allegria, perché sarebbe come una fessura aperta sul mondo che non c’è. Ci andrebbero anche i ragazzi con il cervello tutto in regola, ma solo perché farlo diventerebbe più figo che passar le serate in piedi davanti a un locale, con in mano il bicchiere di plastica del mojito annacquato. Nella mia compulsiva fulminazione per luoghi urbani da trasformare in città per autistici, mi sono pure innamorato di un rudere abbandonato tra alberi e cespugli al centro del bioparco di Roma, quello che una volta era chiamato giardino zoologico. Non so nemmeno come ci sono arrivato, ma ho pensato anche in quel caso alla mia Insettopia. Ho scoperto che da decenni nessuno si è più curato di dare una destinazione a due grandi edifici semicircolari, che sembrano due fagioloni di mattoni, progettati negli anni Venti da Raffaele De Vico: un ottimo esempio di architettura funzionalista, immaginati per ospitare uccelli rari, ma perfetti per essere adattati a fabbrica di felicità per umani rari. Al momento giacciono semicadenti di fronte a una grande voliera a forma di pallone; tra i rovi che abbracciano quelle antiche mura si vedono passeggiare pavoni, sembra uno di quei templi abbandonati in mezzo alla giungla che improvvisamente appaiono nei film alla Indiana Jones. Anche in questo caso ho precettato splendidi amici di buona volontà per progettare, pianificare, immaginare. Le due case baccellone potrebbero diventare il modello più avanzato di città felice che ogni genitore di autistico, o neurodiverso in genere, immagina per farci emigrare suo figlio ed essere finalmente alleggerito dello struggimento quotidiano di consumarsi la vita senza poter far nulla per lui e il suo futuro. Penso che i ragazzi non potrebbero trovare un luogo ideale più adatto alla loro dignitosa esistenza che l’ex zoo di Roma. Anche loro vivono in gabbie mentali e, per essere liberati, e liberare le loro famiglie, non potrebbero star meglio che nel grande giardino al centro della città. In un posto mentalmente delocalizzante, sembra uno stargate aperto su una foresta incantata e nascosta in un universo parallelo sotto uno dei

quartieri più incasinati dal traffico del centro. Come si entra, cambiano la dimensione del tempo e ogni percezione acustica. È una zona sensorialmente alleggerita, l’ideale per chi soffra dello stress di fastidiose distorsioni nella percezione dei rumori, per esempio, o entri in crisi ansiose per la folla o le improvvise sollecitazioni che impone muoversi tra le auto che a Roma non seguono mai regole e buon senso. Soprattutto in un posto dove ancora possono vivere serenamente tigri, leoni e giraffe, anche i ragazzi speciali troverebbero un’occasione che non sia il semplice parcheggio in aree di sopravvivenza. Con gli animali non avrebbero bisogno di doversi per forza adeguare a parlare, scrivere, leggere, misurare il mondo con le nostre regole infallibili. Potrebbero organizzare le loro giornate, imparare a rendersi utili nei lavori di quotidiana gestione del parco, essere protagonisti di attività che possano attrarre anche le persone meno problematiche, far loro conoscere la propria straordinaria capacità di mostrarsi come un laboratorio vivente di vita possibile, angeli silenziosi e alleggeriti dal tedio della socializzazione forzata. Ancora una volta sto pensando di coinvolgere architetti e specialisti del cervello, esperti nella formazione e contorsioniste e danzatrici del ventre. Avvocati, atleti, poeti, facoltosi zii d’America e chi più ne ha più ne metta. Qui mi fermo. Alla fine – temo – non se ne farà nulla… Continuerò a guardare ogni edificio inutilizzato come un possibile fortino da espugnare per farne la nostra città. So che continueranno a regalarne a circoli sportivi, associazioni culturali, comunità religiose. Se ne faranno lussuosi scannatoi per i potenti della politica, oppure centri conferenze per raccogliere sbadigli, in appalto alle brave persone che per mestiere si occupano di sociale. Non contesto ad altri il diritto ad avere spazi, ma ne resterà qualcuno disponibile per un progetto concreto che risolva la vita dei nostri ragazzi? Continuerò a chiederne per noi, che siamo centinaia di migliaia in tutt’Italia, perché non ci servono per coltivare hobby o futili passioni, ma per poter finalmente tornare a vivere e permettere ai nostri figli di sopravvivere dopo di noi. Già prevedo che otterrò qualche promessa, molti sorrisi, molti sguardi equivalenti alla solita detestabile frase: «Se il Signore ti ha dato un peso del genere, significa che hai la forza per sostenerlo!». Eh sì, pare vero… Avrei preferito nascere deboluccio e leggero, giuro! In realtà le premesse non mi fanno pensare a un futuro molto piacevole: «Gli atti n’en belli…», come dalle mie parti dice il maiale destinato alla porchetta, quando vede il contadino far la punta a un palo.

Andrà a finire che taglieranno sempre di più le risorse per i disabili e Insettopia la guarderemo a loop solo nel vecchio cartoon, sul dvd DreamWorks del 1998, esattamente l’anno in cui è nato Tommy, e io non c’ero. Ora mi vien da dire chi se ne frega, sopravvivremo comunque fino al giorno che sarà proprio Tommy a portarmi sulle spalle, come dovette fare Enea con il vecchio Anchise. Io mi attaccherò al suo capoccione bislacco e gli dirò per la miliardesima volta di fermarsi ai semafori e camminare sulle strisce. Mi consolerà pensare che, a quel tempo, gli altri figli efficienti e produttivi avranno già sbattuto i loro genitori a far la muffa in qualche ospizio. Noi ci faremo qualche bella passeggiata ancora assieme. Quando io non ci vedrò quasi più, forse passeremo col rosso.

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Frontespizio Il libro L’autore Citazione Premessa Un bambino tranquillo Un rivelatore di umanità grottesca Ipersensibilità In tandem Genitori emotivamente soppressi Un’armonia perduta Oltre l’era della comunicazione Un sostegno poco di sostegno Aiuto! Second Life Coming out La ragazza in bombetta Prepararsi al peggio Un argomento tabù... Un matrimonio combinato Stato: Libero Diritti negati Il cattivismo Sì e no Una presenza relazionalmente trasandata La nostra anfetamina Insettopia In nome del padre Lui, giovane guerriero Ripartire da Tommy E per finire, un’utopia

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