Io, figlio di mio figlio. Quello che il genitore di un autistico non racconterà mai 9788852086199

"Noi siamo figli dei nostri figli autistici e insieme vi mostriamo l'esempio di come i "cervelli ribelli&

1,053 136 1MB

Italian Pages 260 Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Io, figlio di mio figlio. Quello che il genitore di un autistico non racconterà mai
 9788852086199

Table of contents :
Indice......Page 260
Frontespizio......Page 7
Il libro......Page 3
L’autore......Page 5
Io, figlio di mio figlio......Page 8
I. L’orgoglio di una mente «diversa»......Page 9
II. Anch’io sono un po’ tanto autistico, e ve lo spiego......Page 16
III. È una vita che mi adatto......Page 25
IV. Perché i nostri figli autistici sono orfani......Page 34
V. L’autistico diversamente abusato......Page 42
VI. Grullautistici contro genialoidautistici?......Page 49
VII. Il Gigante di ferro......Page 59
VIII. Una vita fondata sul lavoro......Page 69
IX. La mia storiaccia......Page 78
X. Prima di Tommy......Page 85
XI. Insieme nel buio......Page 95
XII. Padri assassini......Page 101
XIII. Vorrei un figlio teppautistico......Page 107
XIV. Alla conquista del nostro castello......Page 112
XV. La sindrome di Isacco......Page 120
XVI. Le belle famiglie......Page 128
XVII. La tecnologia ci dirà chi siamo?......Page 137
XVIII. I nostri ammortizzatori emotivi......Page 145
XIX. Noi empacto-scettici......Page 152
XX. Guai ai cervelli ribelli......Page 160
XXI. Gli incompatibili autistici......Page 167
XXII. «Eravamo già autistici nelle palle dei nostri papà»......Page 174
XXIII. Inclusione anche per noi......Page 180
XXIV. Guerra civile sull’autismo?......Page 186
XXV. Vogliono uccidere i nostri bambini......Page 193
XXVI. Le madri che hanno spento il frigorifero......Page 204
XXVII. Se potessi, parlerei d’altro......Page 213
Così mi sono fatto vedere da uno bravo......Page 220
Appendice diagnostica......Page 223
Note......Page 233
Ringraziamenti......Page 257

Citation preview

Indice

Il libro L’autore Frontespizio Io, figlio di mio figlio I. L’orgoglio di una mente «diversa» II. Anch’io sono un po’ tanto autistico, e ve lo spiego III. È una vita che mi adatto IV. Perché i nostri figli autistici sono orfani V. L’autistico diversamente abusato VI. Grullautistici contro genialoidautistici? VII. Il Gigante di ferro VIII. Una vita fondata sul lavoro IX. La mia storiaccia X. Prima di Tommy XI. Insieme nel buio XII. Padri assassini XIII. Vorrei un figlio teppautistico XIV. Alla conquista del nostro castello XV. La sindrome di Isacco XVI. Le belle famiglie XVII. La tecnologia ci dirà chi siamo? XVIII. I nostri ammortizzatori emotivi XIX. Noi empacto-scettici XX. Guai ai cervelli ribelli XXI. Gli incompatibili autistici XXII. «Eravamo già autistici nelle palle dei nostri papà» XXIII. Inclusione anche per noi XXIV. Guerra civile sull’autismo? XXV. Vogliono uccidere i nostri bambini XXVI. Le madri che hanno spento il frigorifero XXVII. Se potessi, parlerei d’altro Così mi sono fatto vedere da uno bravo Appendice diagnostica Note Ringraziamenti Copyright

Il libro «Possibile che non l’hai ancora capito? Anche tu sei un autistico!» La frase detta quasi come un’ovvietà da una giovane neuropsichiatra a Gianluca Nicoletti, padre di Tommy – un ragazzone autistico di vent’anni con una capacità espressiva limitata all’universo di un bimbo di tre –, è di quelle che hanno il potere di cambiare una vita. Anche perché confermata ufficialmente dai risultati di test mirati e dalla successiva diagnosi, clinicamente precisa e inequivocabile: sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro dell’autismo associato spesso, come in questo caso, a un alto quoziente intellettivo. Alla luce di tale sconvolgente consapevolezza, tutto assume contorni diversi e muta bruscamente di segno. Il presente, che, vissuto nell’impegno totalizzante di procurare a Tommy la massima felicità possibile e di immaginare un futuro decente per lui quando sarà solo, si arricchisce ora di nuovi significati, perché la scoperta della comune neurodiversità tra padre e figlio rischiara e rafforza la visceralità di un legame in cui non è più così chiaro chi dei due dà o riceve aiuto. Il passato, come dimostra la spietata autoanalisi con cui Nicoletti rivisita e reinterpreta in chiave «autistica», senza ipocrisia né falsi pudori, le fasi cruciali della propria esistenza: l’infanzia solitaria, il tormentato rapporto con la famiglia, i successi e i fallimenti professionali, le relazioni sentimentali, la paternità, i tic e le idiosincrasie personali, ritrovando in ognuna il filo rosso di un’incolmabile distanza dai valori e dai comportamenti della maggioranza neurotipica. E soprattutto il futuro, che, tra relazioni mediate da strumenti digitali e abbattimento di strutture affettive tradizionali e rassicuranti, sembra destinato a fare degli autistici ad alto funzionamento l’avanguardia più credibile di un prossimo salto evolutivo rispetto alla socialità. Io, figlio di mio figlio è un’appassionata e coraggiosa autoriflessione rivolta in particolare, anche se non solo, ai genitori di ragazzi autistici, che Nicoletti ha fatto uscire dall’ombra e dall’isolamento con il docufilm Tommy e gli altri, trasmesso con successo in televisione, e che ora invita a scoprire e a rivendicare con orgoglio la propria neurodiversità: «Noi siamo figli dei nostri figli autistici e insieme vi mostriamo l’esempio di come i “cervelli ribelli” possono essere lo

stimolo fantasioso ad aprirsi al nuovo e all’originale in una società imprigionata nella gabbia dei propri pregiudizi».

L’autore Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della radio italiana, conduce le trasmissioni «Melog: il piacere del dubbio» e «Il treno va» (Radio24) e collabora alla «Stampa». Da Mondadori ha pubblicato: Amen, Le vostre miserie, il mio splendore e i best seller Una notte ho sognato che parlavi e Alla fine qualcosa ci inventeremo. Del 2017 è il docufilm Tommy e gli altri, trasmesso da Sky e diventato nel 2018 oggetto di un tour nelle scuole italiane organizzato dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Gianluca Nicoletti

Gianluca Nicoletti

IO, FIGLIO DI MIO FIGLIO Quello che il genitore di un autistico non racconterà mai

Io, figlio di mio figlio

Stacco per qualche giorno dai pensieri funesti dai problemi terrestri dai discorsi pedestri. È facile che non mi muova da casa, che non mi stacchi dalla tastiera, che nemmeno mi affacci alla ringhiera. Indosserò vestimenti leggeri, sognerò arditi sentieri, inventerò nuovi mestieri. Costruirò parole nuove, danzerò finché piove, cancellerò tutte le prove. Manterrò la calma, calmerò la mantenuta. Terrò ogni mano unita ma incrocerò le dita. Penserò insomma un po’ alla mia vita… Proposito per agosto

I

L’orgoglio di una mente «diversa» Il tempo che passa per un uomo lo raccontano i suoi capelli. Una buona parte dei miei mi ha abbandonato, i rimanenti esprimono un quotidiano dissenso a ogni regola e decoro. Non fanno più parte di me, anche se restano attaccati alla mia cute. Sono incattiviti e ribelli, non vogliono rassegnarsi alla canizie, alla perdita di vigore, al fatto che nessuno, o quasi, abbia ancora voglia di accarezzarli. Mio figlio Tommy l’autistico ha vent’anni, e una foresta immensa di capelli riccioluti. Il suo capoccione sembra infilato nella chioma di una quercia rovesciata d’autunno, le cui radici affondano in una nuvola sospesa. Ci scattiamo spesso foto assieme, a lui diverte e dice «cisss». Io sembro piccolissimo e sparuto con i miei quattro peli biancastri in testa; lui è immenso, imponente e cespuglioso, come un rampicante rapace che s’impossessa di una dimora morta e diroccata. Il mondo dovrebbe appartenere a Tommy e ai suoi capelli da condottiero. Io, invece che stargli attaccato come uno scalatore alla roccia, più per sostenere me che lui, dovrei stare tranquillo a guardare il mare, a pensare alla mia vita passata, a coltivare le residue tiepide passioni. Uno dei miei più dolorosi tormenti è che qualcuno possa un giorno tagliare i capelli a Tommy, magari sostenendo che non è igienico tenerli così lunghi. È faticoso coltivare quel garbuglio che cambia colore secondo la posizione del sole. Una massa cangiante e irrequieta, che può variare di tinta dall’oro antico fino al rosso sangue delle foglie di vite del Canada, passando per tutte le sfumature del sottobosco. Di sicuro, quando io non ci sarò più, la prima cosa che accadrà a Tommy sarà di essere rasato. Il taglio dei capelli a zero è la condizione base quando si perdono la libertà e l’autonomia delle proprie azioni. Si è rasati alla porta dei conventi, delle caserme, delle prigioni. Non posso fare a meno di pensare che si sia rasati pure in quegli istituti che

istituzionalmente «accolgono» i nostri figli quando da esseri umani diventano «una retta mensile». Questo è dunque il mio maggior problema, l’angoscia che mio figlio possa sopravvivermi. Non riesco a immaginarmi, senza esserne atterrito, cosa in termini concreti possa significare questo per Tommy: cercarmi, e io non ci sono. Sono tanti i genitori che, come me, ogni giorno si arrabattano sull’equazione più complicata di un’esistenza: procurare la massima felicità possibile per il presente dei figli neurodiversi e immaginarsi un possibile futuro dopo che noi saremo morti. È una fatica quotidiana che gradualmente ci allontana da noi stessi. Non ci spezziamo ogni giorno perché siamo in assoluto dei «buoni genitori», o perché esserlo è stata da sempre la nostra massima aspirazione. Non è scelta di altruismo ma necessità, come tale ce la impongono le nostre viscere. Non tutti tra noi lo fanno, è evidente, ma noi che riusciamo a tenerci vicino il nostro esito balzano, ci attacchiamo al figliolo come fossimo dei cani per ciechi, pensiamo solo alla strada da percorrere con lui, tanto che alla fine smettiamo di farci domande sul senso della nostra vita. Per noi la tutela costante di un figlio autistico corrisponde al naufragio di ogni speranza e piacevolezza individuale; la scelta fatta in un primo tempo per necessità, si trasforma in un precetto che impone rigore. Ci troviamo a fare parte di un ordine monastico non costituito, senza che ci sia stata per noi una vocazione. Ancora di più: siamo tante monache di Monza, costretti alla clausura da chi non vuole spartire con noi il patrimonio comune del benessere sociale. È chiaro che ogni volta che ci pensiamo ci sembri «ingiusto» accontentarsi di ore d’aria, o sguardi attraverso una grata. La «fortezza vuota», che allucinava come condizione permanente per i nostri figli quel gran cazzone del professor Bettelheim, 1 in realtà è stata assegnata a noi; dovremmo abituarci a viverci per tutta la vita che ci rimane. Guardare e aspettare, mentre, oltre le mura che ci imprigionano, ci sembra che il mondo altrui viva una realtà diversa, solo perché alleviato da gravami familiari così vincolanti come i nostri. Io non ho ancora trovato soluzioni «tecniche» che mi diano

sollievo. Tutto è immobile nel nostro paese, con l’aggravante che attorno all’autismo si è sviluppata una vasta attenzione di superficie, basata spesso anche sull’opportunismo politico e su interessi di parte. Per paradosso, ora si parla moltissimo di autismo, ma con l’effetto di avere evocato uno «spettro» che invece di creare condizioni favorevoli alla vita dei nostri figli, alimenta paure collettive e ignoranza sociale. Continuerò comunque a cercare spazi per costruire utopie, a raccontare gli autismi che vado conoscendo, a denunciare profittatori e falsi profeti. Continuerò a segnalare per tutta Italia esempi di autistici fantasma, adulti e dimenticati. Non smetterò di «inventarmi qualcosa» per i nostri figli bislacchi, ma vorrei fermarmi solo un attimo per riflettere su noi genitori. Rassicura tutti immaginarci coperti con il saio dei penitenti… Senza che nessuno abbia veramente il coraggio di dirci quale sia la colpa che dobbiamo espiare. Forzerò un punto di vista personalissimo, che a me è costato molto esprimere con spudoratezza, e che molto di più potrebbe costarmi in futuro, creando le premesse per una coltre di diffidenza che, nella vita sociale e professionale, da domani potrebbe addensarsi su di me. Si dirà che la sofferenza di avere un figlio autistico mi ha compromesso il cervello, si dirà che la mia è possibile demenza senile, si dirà che sono pagato, o manovrato, per minimizzare responsabilità di multinazionali, centri di potere occulti, ecc. È un rischio che alla fine mi spaventa assai poco; non tanto perché la mia priorità era già da prima, e resterebbe comunque anche dopo, quella di un figlio autistico da gestire. Da Tommy ho imparato a non affannarmi nella ricerca del consenso altrui e ne ho fatta la mia nuova regola di vita, soprattutto ora che so di essere anch’io, in parte, autistico. Ogni parola scritta in questo libro è stata confrontata con la mia nuova consapevolezza di appartenere alla reietta progenie dei cervelli diversi. Consapevolezza che è stata corroborata da un volontario percorso diagnostico, cui mi sono sottoposto per costruire sulla solidità scientifica quella che poteva essere considerata solo una

banale impressione. Ora ho una cospicua certezza che il mio cervello abbia sempre lavorato fuori dalle regole che rendono le persone più facilmente accettabili, almeno per quella parte di umanità che stabilisce i criteri di cosa possa essere inteso come pensiero normale e cosa invece fuori norma. L’immersione totale, e per nulla sgradevole, nella neurodiversità di mio figlio Tommy, nella quale il mio corredo genetico ha evidentemente avuto un suo peso, mi ha acceso il desiderio di non reprimere la mia parte autistica. Ho cominciato a non avere paura di pensare da autistico, ho iniziato a farlo per convivere più serenamente con la mia alterità, ma anche per meglio aiutare lui a stemperare i suoi comportamenti, per sperare in una vita socialmente meno reietta. Ora Tommy potrà rivendicare lo ius soli, non più un clandestino ma anche figlio di padre autistico, con pieno diritto di cittadinanza a vita, e non di finire rinchiuso quando io sarò morto. Di solito ogni volontaria «uscita allo scoperto» ha potere catartico, attribuisce gratificazione e dignità a chi si espone come testimone di modi d’essere e comportamenti considerati atipici, o ancora peggio contro natura, dalla parte più arcaica dell’umanità. Rivendicare l’orgoglio di avere una mente «diversa» è inusuale, e non credo possa raccogliere il sostegno morale dell’ala più culturalmente avanzata della società, come può accadere a chi rivela di essere gay. Nemmeno mi risulta che esistano associazioni o gruppi di opinione a sostegno della neurodiversità, come accettazione lucida e cosciente di un proprio stato. La «follia», perché alla fine di questo si tratta, di solito viene tollerata quando si esprime nel campo del pensiero o della produzione artistica, ma è quasi sempre una valutazione che fanno altri, mai il soggetto che ne è portatore. Si può, con trasparenza, dirsi neurodiversi? Si può farlo al di fuori dell’obbligo di dimostrare talenti extra ordinari? È certamente un punto di riflessione «estremo» per chi già viva l’emarginazione sociale per il solo fatto che su di lui volteggia l’ombra costante di strambo certificato.

Sono però convinto che la consapevolezza di essere parte biologica dell’autismo del proprio figlio farebbe vivere il rapporto con il mondo dei neurotipici con maggiore serenità, anche agli altri genitori come me. La mia idea sarebbe quella di radicalizzare paradossalmente il pregiudizio che ha maggiormente determinato l’occultamento familiare, e quindi sociale, di un autistico. Occorre demolire la paura che qualcuno pensi che nella nostra linea di sangue possa allignare un «ramo di pazzia». Nella mia memoria di bambino conservo lucido un tema ricorrente nelle discussioni tra i miei genitori: mia madre faceva spesso osservare a mio padre quelli che, secondo lei, sarebbero stati i sintomi del ramo di pazzia presenti in fratelli, zii, nonni. Probabilmente era il suo asso nella manica per bilanciare il suo essere capitata in una famiglia di rigido stampo patriarcale, che di fatto l’ha sempre considerata davvero poco, ma se ci penso non aveva per niente torto. La mia famiglia d’origine, da parte di padre, poteva contare su un bel numero di tipi strambi, almeno nelle due o tre generazioni che mi è stato dato di conoscere. Inutile tentare di sfuggire al pensiero costante che all’autismo di Tommy possa non essere del tutto estranea quella schiera di zii e prozii dai cervelli come minimo «eccentrici». Come pure non posso fare a meno di pesare quanto sia rimasto arenato nel mio personale cervello di quel manipolo di stravaganti, genialoidi, inventori, o depressi, taciturni, sociopatici, che componevano il mio variegato parentame. Dovrebbero farlo anche un po’ tutti quelli che hanno figli del tipo «Tommy e gli altri». 2 Sarebbe una buona occasione di riconciliazione con l’idea che non ci sono colpevoli nella nostra vicenda personale, non possiamo scegliere i nostri antecedenti e non possiamo sindacare sul patrimonio genetico che ereditiamo dai nostri due genitori. Ci servirebbe di sicuro a non guardare più al nostro prossimo come a una fila di passeggeri seduti in un vagone della metropolitana, cui proponiamo ogni giorno il nostro fardello come fanno le zingarelle quando mettono in scena il classico format uguale in tutta Italia: «Buongiorno signorri, che dio vi benediccaa, sono una rragazza poverra, sollo un centesimo per comperarre latte e pannolini per questo bambino…».

Con questo mio coming out ora vorrei dire basta al doversi sentire gli zingari della società: non siamo destinati alla deportazione in un deposito di prodotti umani malriusciti, ma piuttosto, come sto sempre più convincendomi, potremmo essere testimoni nella nostra carne della società futura, che, piaccia o no, sarà sempre più composta da cervelli autistici. Vorrei che la stessa riflessione fosse condivisa, solo per un istante, anche da quelli che si sono naturalmente sentiti interessati a ogni mio precedente racconto sull’autismo di Tommy. Si sono mai chiesti cosa si nasconda dietro il loro interesse a leggere e capire storie di persone così lontane dalla propria esperienza familiare? Azzardo una risposta: potrebbero far parte anche loro della grande e variegata popolazione degli autistici. È chiaro che posso anche essere immediatamente smentito, anzi se già la premessa indigna, è inutile continuare nella lettura. Non ci pensate più e, per quanto possibile, vivete sereni. Ho sempre cercato di sentirmi il più possibile affine a quel mio strambo figliolo. Pensavo che questo desiderio corrispondesse a un mio paterno senso di protezione, avrei voluto anch’io oltrepassare i confini che mi separavano dal suo universo mentale e stargli vicino senza risparmiarmi per fargli sentire che suo padre c’era. Oggi ho una consapevolezza diversa riguardo a quel mio desiderio di «essere a mia volta un diversamente normale patentato», come scrissi nel mio primo libro dedicato a Tommy. Ho sempre pensato che il suo sistema di pensiero non fosse poi per me così abnorme nella sua apparente eccentricità, un’intuizione che non potevo certo approfondire in quella fase di «scoperta» della paternità attiva. Ero già sin troppo stordito dal dover ammettere di rendermi conto cosa significhi essere padre, concetto che per me era sempre corrisposto unicamente a una convenzione sociale, come quello di famiglia, parte di un logoro retaggio del passato. Essere padre non mi aveva mai particolarmente affascinato, non davo nessun significato particolare al fatto che avessi generato prole, se non aver sguinzagliato spermatozoi in una donna durante il suo periodo fertile.

Oggi mi sembra tutto diverso, e vedo nella presenza costante di Tommy un modo per ricordarmi il mio vero punto di vista, mentre fino a ieri mi sforzavo di conoscere il suo. Ed eccomi qui, arrivato a scoprirmi figlio di mio figlio.

II

Anch’io sono un po’ tanto autistico, e ve lo spiego Vorrei essere a mia volta un diversamente normale patentato, ancor più di quanto già mi hanno spesso giudicato. Ma so che, per quanto mi sforzerò, al massimo potrò essere visto come un signore originale, con idee curiose, anche spesso paradossali. Una notte ho sognato che parlavi

La prima avvisaglia del mio possibile autismo mi si manifestò quando avevo già iniziato a scrivere questo libro e immediatamente ne ha condizionato ogni senso possibile. La persona che mi ha detto con cruda chiarezza che, secondo lei, io sarei potuto essere autistico era una giovane neuropsichiatra, che conoscevo appena. Tutto sommato è stato meglio che sia andata così: ho sempre accettato come fatale ogni spiacevolezza che provenisse da una donna. Mi sono sempre consolato con il pensiero che le donne almeno, rispetto agli uomini, hanno quasi sempre un buon odore. Non quella dottoressa, però, che accendeva una sigaretta dietro l’altra e sapeva di fumo. L’ha presa un po’ alla larga, rivelandomi che mi aveva studiato per almeno un paio d’anni prima di dirmelo. Infatti non capivo perché ogni tanto mi chiamasse per chiedermi come stavo: la mia impressione era quella di un interrogatorio, come se volesse estorcermi informazioni sulla mia vita interiore. Non avevo nessuna particolare frequentazione con lei, la vedevo per convegni, chiacchiere istituzionali, ma sempre roba di medici, un altro mondo per me. Quelle telefonate mi davano un po’ di fastidio, non le capivo, non ne comprendevo lo scopo. Non la sentivo come persona particolarmente piacevole, era una perfetta estranea e tale preferivo rimanesse: avevamo amici comuni e non mi piaceva mischiare i rapporti. Che io fossi autistico aveva cominciato a dirmelo come se fosse uno scherzo, o come tale lo presi io. C’era anche altra gente oltre noi due, tra cui mio figlio maggiore Filippo. Forse pensò che non fosse il momento giusto, e io assecondai quello che credevo puro cazzeggio:

negli ultimi anni è diventato abbastanza abituale chiamare qualcuno «autistico», come sinonimo di «strano», quindi potevo anche fare finta di non aver capito bene… «Gianluca, è possibile che non l’hai ancora capito? Anche tu sei un autistico!» Non seppi distinguere se fosse una sentenza, o una battuta detta per gioco. «Autistico di che tipo?» le chiesi. «Asperger» mi fu risposto. Tanto bastò per rendermi conto che non scherzava e che forse avrei dovuto farle qualche altra domanda, non cavarmela con le solite facezie che uso per cambiare argomento. Confesso che di essere anch’io autistico non me n’ero mai accorto. Sono almeno cinque anni che mi occupo di autismo, scrivendo e ragionando. A volte parlavo con la premessa «per noi autistici», 1 lo consideravo un espediente retorico, per dare maggiore coinvolgimento personale a ciò su cui argomentavo. Ero però lucido sul fatto che lo facessi per mio figlio Tommy; se non ci fosse stato lui, magari mi sarei occupato d’altro, forse avrei continuato a fare il mass mediologo, come spesso ero definito con infame qualifica. Invece mi era stato messo in testa il rovello che anch’io fossi proprio autistico, lo fossi naturalmente da quando sono nato. Cominciai a pensare che autistici, di conseguenza, fossero molti dei miei pensieri da bambino, molti dei miei passatempi di allora. Forse – pensai – ho vissuto da autistico gli anni della scuola, le amicizie, i primi amori, la mia vita matrimoniale. Un perfetto autistico, come da manuale, senza minimamente immaginare che l’autismo avrebbe avuto una parte così importante nella mia vita futura. Solo allora cominciai a sospettare che ci fosse una circostanza comune dietro la molteplice sequenza di fraintendimenti su cui erano basati tutti i miei rapporti con esseri umani. Nessuno escluso, iniziando da mia madre con la sua fissa del «ramo di pazzia» e finendo con la dottoressa che mi parlava in quel momento. Più rispondevo alle sue domande, più avrei voluto approfondire. Pensavo che fosse normale quel senso di estraneità che ho sempre provato nei confronti del prossimo, di cui spesso non capisco molte

cose, e che nonostante le spiegazioni io continuo a non capire, fino a farmene una ragione, convinto che il problema sia dell’altro, non mio. Ogni pensiero altrui mi sembra espresso come al rallentatore, tanto che interrompo sempre chi mi parla perché ho la convinzione di aver già capito e trovo inutile che continui. Lo faccio perché sono autistico, come solo ora cominciavo a sospettare. Come ho capito tante mie difficoltà nel mantenere relazioni, di qualsiasi tipo, il mio entusiasmarmi per persone che poi si sarebbero rivelate perniciose, il mio trattare con indifferenza anche chi mi esprimeva sentimenti positivi, passione, amicizia, amore. Non decodifico sempre correttamente i segnali del mio prossimo, non ho particolare trasporto per lui, anche se sono convinto di poter essere molto empatico. Cominciavo a farmi venire il dubbio su quanto non avessi mai vissuto serenamente la mia dimensione sociale, ma piuttosto messo in atto e affinato nel tempo delle mie personali strategie, per riuscire ad arrabattarmi a convivere in un mondo popolato da estranei indecifrabili. A ogni mia obiezione, la dottoressa dava una risposta che confermava il sospetto. Inutile ricordarle che da 35 anni faccio il giornalista, osservo e scrivo di tutto, parlo alla radio quotidianamente in programmi in cui il pubblico interloquisce, e a me risulta facilissimo farlo, mi viene anche bene, mi sono costruito una mia fama professionale parlando e interagendo. Possibile che proprio quello sia il mio problema, visto che parlo con istintiva facilità? Infatti, mi veniva risposto, potrebbe darsi che mi riesce bene perché lo faccio con la meticolosa maniacalità dell’Asperger, perché ho il cervello che va a mille e provo a placare i morsi della sua fame che mi divora la pancia, come fosse una tenia arrovellata. È come se il mio verme solitario avesse trovato la sua perfetta dimora nella scatola cranica, da dove se ne scende ad azzannare in ogni parte delle mie viscere, e ovunque io lo senta dibattersi immagino che si tratti di emozioni. Da quel pensare cominciai a maturare la convinzione che il mio rapporto privilegiato con Tommy fosse scattato proprio per il fatto che siamo entrambi della stessa razza di matti, e quindi ci capiamo e

confortiamo a vicenda. In effetti anch’io, come Tommy, guardo gli altri solo se mi incuriosiscono; come fa lui, in realtà osservo tutto e tutti memorizzo, anche se spesso sembro distratto. È pure vero, però, che non seguo né guardo in faccia chi mi parla: Gigi, 2 il mio amico neuropsichiatra di bambini autistici, mi prendeva spesso in giro, ancora prima che io fossi consapevole del mio autismo, sparandomi abbozzi di diagnosi del tipo: «Hai un disturbo serio dell’attenzione, sguardo a tratti sfuggente e tendenza ad astrarti da un discorso». Non posso negarlo, lo so bene che a un certo punto l’interlocutore diventa per me evanescente: accade quando intuisco che quello che dice non m’interessa. Potrebbe essere chiunque, ma smetto di ascoltarlo. È un lusso che mi concedo sempre più spesso, soprattutto da quando posso permettermi di far pesare agli altri che forse quel tipo capoccione, che sono solito portarmi ammanettato al polso, ogni tanto qualche svampimento me lo potrebbe anche procurare. In realtà sono sempre stato poco attento a quello che gli altri possono dirmi. Mai, quanto per me, è più appropriata la frase: «Quando parlo, non ascolti mai quello che dico». Un concetto fastidiosissimo che mi sentivo infilare nelle orecchie dai genitori, dalle fidanzate, dagli amici e dai colleghi, e solo ora mi sono convinto, grazie alla convivenza con Tommy, che è sano evitare di sovraccaricarsi di punti di vista altrui se l’istinto ci suggerisce che lo sforzo dell’attenzione sia per noi privo di interesse reale. Il famoso studio grigio di cui parlo nel mio primo libro, 3 quello che ho costruito per Tommy, a luce attenuata, umbratile e ovattata, adesso comincio a pensare che in realtà l’ho costruito per me, oltre che per lui. Non per niente ora praticamente ci vivo la maggior parte della mia giornata. Gradualmente era sempre di più il tempo che trascorrevo in studio, le notti che ci passavo a scrivere o che ci dormivo con Tommy per farlo uscire da momenti agitati, e così alla fine è diventata

emotivamente la mia casa. Solo in questo posto ritrovo il mio odore, la mia luce, le mie cose, sensazione che non ho mai provato in ogni altra casa dove abbia vissuto anche per decenni. Questo forse significa anche essere autistico e ambire a stare solo, provare insofferenza per i legami, le consuetudini sociali, le ritualità che non siano le proprie: care, abituali e confortanti. Posso fare moltissimi esempi di miei comportamenti che potrebbero essere considerati «anormali». Sono parecchie estati che invento scuse per non andare in vacanza, sto bene rinchiuso nel mio silenzio, nella mia penombra, a scrivere e pensare. Ho maneggiato parecchi libri, ma ho l’impressione di non averne letto nessuno; da anni potrei dire che non leggo un libro dall’inizio alla fine, eppure non è vero perché so cosa c’è scritto, forse li ho sfogliati velocemente, magari ho fatto un programma alla radio con l’autore cui ho chiesto tutto quello che volevo sapere e mi basta. So che è superficiale rispetto a un corretto approccio con il sapere, ma è una delle tante metafore che rappresentano la costante di instabilità che avverto lungo ogni strada che io percorra e che per me è sempre rappresentabile come una passerella sospesa su una voragine. Ho la certezza, del tutto irrazionale, che quando ne avrò bisogno le nozioni che mi servono verranno fuori e si incastreranno al posto giusto nel costruire un discorso compiuto, circolare e soddisfacente. Così per lo meno mi è sempre accaduto, è come se per me le parole fossero mattoncini di Lego invisibili e autonomi nel movimento; si ammassano l’uno sull’altro in un magazzino in cui sono divisi per colore e per dimensione. È facile usarli quando servono a costruire ragionamenti, perché si dispongono da soli uno incastrato all’altro e edificano i miei monologhi radiofonici che seguono sempre un’orbita compiuta e sensata, anche se io non so mai come finirò una frase quando la inizio. Tutto questo potrebbe sembrare anche una figata tipo superpotere, ma è semplicemente una bizzarria da autistici come me, insomma è un sintomo distintivo di un cervello strutturato diversamente dalla norma.

Penso a chissà quante volte Tommy avrà provato a farmi capire con i suoi codici di comunicazione che anch’io, come lui, venivo da quell’altro mondo dei cervelli ribelli. Mi rimbalzavano nelle orecchie pensieri del tipo «Io sono tuo padre» del dialogo finale tra Darth Vader a Luke Skywalker in L’Impero colpisce ancora. 4 Solo che non riesco bene a capire chi abbia il ruolo del padre e chi del figlio, dopo la scoperta della mia appartenenza a quella che viene comunemente intesa come una stirpe aliena. Pensavo che il mio compito fosse aiutare Tommy ad acquisire autonomie che gli servissero per capire e farsi capire, nonostante i suoi deficit. In realtà è stato proprio Tommy a far ragionare me su come adattarsi al vivere circondato da cervelli tipicamente strutturati. Ho cominciato quindi a pensare che sarebbe stato utile mettere ordine in tutte quelle sensazioni sparse e cercare una base attendibile su cui appoggiare una nuova costruzione del rapporto tra me e Tommy: alla fine stava diventando sempre meno facile continuare a pensarlo come un bambinone di cento chili. Tommy è un individuo adulto, anche se la sua capacità espressiva è limitata all’universo di un bimbo di tre anni al massimo. Mi è capitato di vedere assieme a lui il vecchio film Il mago di Oz 5 e osservavo come lo avesse imparato pressoché a memoria e fosse in grado di anticiparmi ogni passaggio, del tipo ecco la fata o ecco la strega. Nulla di eccezionale, molti autistici lo fanno. Non è un superpotere, fa parte del loro modo di memorizzare particolari che ai più paiono trascurabili. Ero io che mi sentivo stupido nel compiacermi ancora, dopo vent’anni, di questa sua particolarità. Non indica nessun suo progresso nella direzione dell’entrare tra i «normali», continuerà ad anticipare le sequenze dei film stravisti decine di volte, anche quando avrà barba e capelli bianchi come i miei. Dovevo trovare un nuovo terreno di confronto con lui, portare il suo modo d’essere su un piano diverso, rispetto al dialogo sbilenco di un padre con il proprio figlio autistico adulto. Avevo da tempo cominciato a osservare anche gli altri miei «colleghi» genitori; in effetti, tutti hanno mantenuto con i figli autistici già belli grandi quel bamboleggiare lessicale tipico dell’interlocuzione con bambini

piccolissimi. Si rivolgono ai loro giganti irsuti come se fossero pargoletti, cambiando la voce, usando vezzeggiativi, senza rendersi conto di inscenare un teatro grottesco di fronte al resto dell’umanità, che non può che tacere e in cuor suo commiserare. Ho cominciato a farci caso. Anch’io spesso, tra la gente, mi rivolgo a Tommy come se fosse un bambino piccolo, gli dico «ti sei fatto la bua?» perché d’istinto quello lui lo capisce, senza rendermi conto di quanto sia ridicolo, forse per il mio bisogno di «segnalare» la sua diversità al resto del mondo, forse per proteggerlo. D’altronde, Tommy non ha un bastone bianco come un cieco, che immediatamente mette in guardia chiunque sul fatto che sia un essere umano con delle difficoltà e quindi da aiutare o favorire, se occorresse. Forse, però, è tutta una mia elucubrazione da padre esausto, non me ne rendo più conto e forse come ogni genitore inconsapevolmente talvolta anch’io m’illudo, o mi piacerebbe che Tommy potesse apparire meno autistico di quello che è, ma di sicuro a chiunque basta dargli un’occhiata fugace per accorgersi a quale schiatta di matti appartenga, basta vedere come cammina con quel passo asimmetrico, come si muove in continuazione, il suo tenere il capo leggermente reclinato, il suo sguardo perduto. Insomma, sono solo io a non farci più caso, ma Tommy fende una folla che ha la netta impressione della sua diversità. Mi fa venire in mente come esempio la mia prima volta in una città africana. Ricordo che ero per una strada di Nairobi e, guardandomi intorno, ero l’unico bianco nei paraggi. Per rendersi conto della propria alterità rispetto a chi ci circonda non c’è esercizio migliore che essere l’unico ad avere la pelle bianca in piedi su un marciapiede attraversato da una frotta ininterrotta di gente con la pelle nera. Ecco, mi sarebbe piaciuto fare con consapevolezza la stessa esperienza riuscendo a fare mio il punto di vista di Tommy, che cammina per strada tra gente neurotipica e si rende conto di essere il solo ad avere un cervello diverso, sì perché nel suo sguardo è probabile che le persone «normali» siano portatori di caratteri esteriori distintivi di una diversità paragonabili al colore della pelle. Per lo stesso motivo per cui oggi possiamo dirci civilizzati proprio perché ci

siamo imposti di non considerare le caratteristiche fisiche come elemento discriminante nel considerare un essere umano, mi sarebbe piaciuto vedere applicato lo stesso procedimento di evoluzione culturale anche nel campo delle molteplici possibilità cognitive e relazionali. Quella bella immagine che ci fanno vedere sin dalle elementari con i bambini di tutti i colori che sorridono tenendosi per mano, dove c’è il bianco, il nero, il marroncino, il giallo, il pellerossa, ecc., dovrebbe essere integrata con una simile che rappresenti bambini che hanno cervelli diversi, oltre che diverso colore della pelle. Anche tra loro esistono evidenti differenze che non dovrebbero rappresentare un pretesto per essere discriminati. Non c’era alternativa, dovevo calarmi consapevolmente nel modo di essere e di vedere di Tommy, seguendo come filo di Arianna le similitudini che istintivamente sentivo rispetto ai suoi aspetti balzani. Dovevo ripercorrere a ritroso il labirinto che porta al centro della sua mente, mai più pensare che dovesse essere lui a fare questo sforzo nei miei confronti, o magari ritrovarci a metà strada, dove entrambi potessimo raggiungere il miglior compromesso possibile per vivere il reciproco sentirsi orfani in terra straniera.

III

È una vita che mi adatto

Alla fine, dopo avere rimuginato come se fosse un gioco sull’ipotesi che io potessi avere un cervello diverso dalla media, mi sono deciso a cercare uno psichiatra. Un medico specializzato in matti capace di farmi una diagnosi strutturata e completa, per dirmi se, e nel caso quanto, fossi anch’io autistico. Non è stato difficile trovarlo. In Italia, quelli che si occupano di «autismo adulto» con un approccio scientifico esclusivamente evidence based si contano sulla punta delle dita di una mano, anzi di dita ne avanzano pure, se si vuole essere rigorosi. Pensavo che di sicuro il medico si sarebbe stupito quando, per la prima volta al telefono, gli ho chiesto una valutazione per capire se sono autistico. Invece mi ha dato il primo appuntamento per un colloquio, senza scomporsi. Mi sarei forse persino aspettato che la prendesse come uno scherzo, e poiché mi conosceva, visto che c’eravamo incrociati in un paio di convegni sull’autismo in cui io presentavo qualcuno dei miei libri. Ipotizzavo che avrei dovuto faticare per spiegargli perché gli parlassi di me piuttosto che di Tommy, che in effetti a Roma non ha trovato uno psichiatra adatto a lui, se non l’amico Gigi. Ma quel dottore non era per nulla stupito, e allora pensai che evidentemente anche il mio autismo mi si legge addosso, forse ancora più di quanto io avessi potuto supporre. Così ho preso l’appuntamento, ci siamo visti a Roma un giorno che lui era di passaggio, e ho parlato senza che m’interrompesse per almeno un paio d’ore. Poi ci siamo salutati, dopo aver fissato un incontro nel suo studio, dove sarei stato sottoposto a tutti i test necessari per la valutazione che richiedevo. Arrivato nella sua città andai a cena con un’amica del posto, ascoltai per tutta la sera, compresa la bevuta della staffa, le storie di uomini scellerati che le capitava di incontrare. È una ragazza molto

esuberante e ha una vita relazionale variegata. Così, almeno, non pensai all’autismo e andai a dormire con informazioni nuove sull’universo maschile. Sono sempre molto incuriosito dai racconti delle donne, mi piace la realtà letta attraverso il loro filtro. Per me ascoltarle è una maniera strumentale per arricchire di nuovi elementi il database sull’umanità che ho in memoria, che considero il mio strumento professionale più potente. In quella serata ricca di particolari, appresi tutto quello che ancora mi mancava sul vecchio bavoso, il toy-boy marchettaro, il microfallico che fa lo gnorri. La mattina dopo toccava a me. Mi hanno strizzato in due, lo psichiatra e un suo collega psicologo, l’hanno fatto senza sosta per una giornata intera. In realtà avevo già accettato l’idea che per una valutazione completa sarei dovuto stare a loro disposizione per due giorni, ma visto che compilavo i test molto velocemente e non mi sentivo stanco, ce l’abbiamo fatta in tutta una tirata. Devo dire che, sbollita l’adrenalina, mi sono sentito come se mi fosse passato sopra un treno. Cambiai città e andai a dormire a 50 chilometri di distanza, con un gran senso di libertà: ero solo e senza incombenze familiari, era estate e nessuno mi cercava. Questa volta, però, non riuscii a distrarmi, era come se mi stessi riprendendo da un’anestesia e cominciassi a sentire il dolore di un intervento chirurgico: se dovessi specificare dove, direi d’istinto all’addome. Passai la notte pensando alla mia vita, non lo facevo da millenni, e cercai di ricollocare tutti i ricordi nel nuovo schema mentale che stavo definendo, soprattutto dopo essere stato bersaglio di una raffica di test come WAIS , Minnesota, macchie di Rorschach e vari altri. 1 Mi resi conto solo allora di aver vissuto tanto, e mi consolai pensando di essere ancora lucido e, soprattutto, di avere ben chiara una sintesi visiva della successione degli eventi. La percezione cosciente dell’esistenza di Tommy autistico è stata indubbiamente l’evento più importante dei miei 63 anni passati a calpestare la terra. In realtà non è che abbia fatto qualcosa di straordinario dall’incontro decisivo con Tommy, a parte scrivere un paio di libri e produrre un docufilm. L’essere entrato nel dibattito pubblico

sull’autismo, come tutto il mio arrabattarmi, non si discostano dal medio attivismo di un genitore con un figlio disabile, almeno se provvisto di strumenti professionali di comunicatore come i miei, e deciso a metterli a disposizione di una causa che lo tocca nella sua carne. In fondo non sono il primo padre a essersi dato da fare in questo senso; ormai si contano a decine i libri pubblicati da genitori di autistici, e pure un documentarista e scrittore americano ha raccontato la storia del figlio autistico in un film, che addirittura è stato candidato al premio Oscar. 2 Io non credo che parlando di autismo abbia proprio soddisfatto la mia vocazione, presumo di aver pensato e diffuso idee per me stimolanti e capaci di suscitare dibattito prima di tutto questo, quando mi occupavo di tv, di critica dei media, di evoluzione della società attraverso la comunicazione. Al contrario, per quanto ci si giri intorno, essere uno di quelli che scrivono sul figlio autistico non mi fa intravedere nessuno sviluppo oltre il già fatto. Un racconto della propria esperienza può essere scritto più o meno bene, ma non rappresenta molto più dell’elaborazione pubblica di un episodio assolutamente personale, un evento che incide su tutto il proprio esistere, ma non certo su chi non condivida il problema. A maggior ragione non vedevo quale potesse essere il senso di quello che ha invaso ogni mio pensiero, a partire da quella notte di agosto fino alla fine di ottobre, una riflessione che riguardava soprattutto me. Avevo una complicazione che non sospettavo, qualcosa che assomiglia alla sorpresa di avere una di quelle malattie che ti possono condizionare la felicità, con la differenza che io non mi sentivo terrorizzato di essere malato, anzi non aspettavo altro che la conferma di avere anch’io quella «malattia» su cui andavo armeggiando da qualche anno. Finalmente ero arrivato alla quasi certezza di essermi occupato di autismo, come impegno anche professionale, soprattutto per arrivare a trovare la chiave di lettura della mia storia personale. Immagino che sia difficile pensare a un figlio come oracolo capace

di risolvere la propria equazione esistenziale. Tommy aveva rappresentato per me il concetto fiabesco di una figura risolutrice, proprio come il «Grande e potente mago di Oz» del suo film prediletto, a cui si rivolgono uno spaventapasseri, un uomo di latta e un leone fifone per capire qualcosa delle loro vite sgangherate. Arrivò infine il giorno della «restituzione», e finalmente capii cosa significasse quel termine che sentivo spesso citare da signore colte e colleghi austeri. È il momento in cui qualcuno da cui ti sei fatto aprire il cervello e saccheggiare a man bassa quello che contiene, ti gratifica con l’inventario del bottino di ciò che pensavi fosse solo roba tua. Quella restituzione l’ho aspettata per mesi, era nei patti, volevo un documento dettagliato e approfondito. Era tutto dentro una cartellina di cartone arancione, con il mio nome scritto sopra in stampatello. Lo psichiatra e io ci incontrammo a Roma di sera, poco prima di cena, nella hall di un piccolo albergo dalle parti di Santa Maria Maggiore. Feci a piedi la via buia e mi sembrava di andare all’appuntamento con un informatore, da cui avrei dovuto ricevere documenti top secret. La hall era poco più che uno stanzino, dietro al banco della reception c’era un signore nero con una specie di livrea, almeno così mi parve. Per avere un po’ di privacy salimmo una scaletta e ci sistemammo in un salottino minimo ricavato in un soppalco con balaustra, proprio sopra la testa del nero azzimato. Non so perché pensai che quel luogo un po’ equivoco fosse adeguato alla riservatezza necessaria per quel momento in cui stavo per prendere la pillola rossa, quella che disattiva il mondo illusorio e lo mostra per quello che realmente è. 3 Nel mio caso avrei avuto conferma della consapevolezza inconfessata di essere un alieno che in quel mondo ci era capitato per caso, o per missione… Ma una missione così segreta da rendere necessaria la cancellazione dalla memoria del mio pianeta d’origine. La diagnosi fu precisa e inequivocabile, come immaginavo perché in parte mi era stata anticipata al telefono. Prima della restituzione il dottore, forse per sdrammatizzare, mi disse: «Sei un Aspergherone!!!». Una sintesi efficace che già da sola poteva bastare a riassumere i risultati del test che, ridotti all’osso, dicevano:

Il paziente presenta un punteggio totale superiore al punteggio totale suggestivo di Sindrome di Asperger, come in tutte e 4 le sottoscale riportate dal test. L’interazione sociale avviene con successo e soddisfazione anche se caratterizzata da spiccata originalità con aumento del traffico comunicativo in corrispondenza degli specifici interessi comuni e condivisi con l’interlocutore o interlocutrice. Pragmatica e senso motorio sono gestiti con efficacia in virtù delle notevoli capacità adattive e dell’intelligenza del soggetto. Confermo i tratti Asperger nella personalità e nel funzionamento della Persona esaminata. Certifico quindi che il paziente presenta le diagnosi di Sindrome di Asperger e Lieve Disturbo d’Ansia non Specificato.

Parlammo per una mezz’ora, ma avevo fretta di andarmene, volevo leggere tutto il fascicolo. Capii solo che sono super Asperger e anche un po’ ansioso. Mi sono salvato dalla depressione, e forse dal suicidio, 4 perché mi sono messo a fare il giornalista estroso e non l’impiegato ligio al dovere. Ho un quoziente intellettivo abbastanza alto, e grazie a quello nel tempo ho imparato a mettere in atto delle strategie di adattamento che mi hanno permesso di avere una vita quasi normale, delle relazioni quasi normali, una famiglia quasi normale… Fatto salvo Tommy, che dal mio punto di vista ora vedo come il più «normale» di tutti. Insomma, il mio salvavita è quel QI 143 che il dottore, per indorarmi la pillola, cercava di farmi passare come un superpotere: «La media degli umani ha 100, pensa che Madonna ha 140, Einstein 150…». Invece avevo capito che non me ne facevo nulla di un cervello a metà tra un’icona pop di fama mondiale e il genio della fisica per antonomasia. È come se avessi una Ferrari, ma fossi costretto a usarla per trasportare la spesa dal supermercato a casa altrimenti muoio di fame. È una vita che mi adatto e questo costa fatica: io in questo lavoro minuto per minuto mi brucio tutti i cavalli del mio motore a dodici cilindri. Con tutta la potenza di una mente fuoriserie impiegata per galleggiare nella norma, non me ne resta nulla per fare cose geniali, magari potrei se non fossi autistico, ma lo sono, e per sopravvivere al contatto con l’umanità neurodiversa sgasso e sfriziono al volante della mia Ferrari, ma rimango sempre dove sono, infatti viaggio poco.

Tiro le somme del mio millantare, mi rendo conto che alla fine non ho mai messo il naso fuori dal mio paese se non per rare necessità di lavoro, anche quelle sporadiche e mai cercate per mio gusto. L’apprendista di bottega del mio parrucchiere ha viaggiato cento volte quello che ho viaggiato io, che ho il triplo dei suoi anni, come minimo. Perché non l’ho fatto? I mezzi non mi sono mancati. Troverò risposta nella diagnosi, anche se devo dire che essere definito Asperger sulle prime non è che mi avesse fatto fare i salti di gioia. Ho maturato un pregiudizio sugli Asperger che me li aveva fatti diventare un po’ indigesti. Anche alle loro associazioni di categoria non dovrei nemmeno io stare molto simpatico. Mi vedono come un pericoloso fomentatore dell’opinione pubblica, proprio perché rappresento continuamente a scritti e parole, e persino con un film, un’immagine dell’autismo a basso funzionamento che a loro non appartiene. Più di un genitore di Asperger mi ha attaccato pubblicamente perché accendevo i riflettori «sui casi più gravi», con il rischio di creare diffidenza verso i loro figlioli più socialmente accettabili. Una volta, a un incontro istituzionale sulla legge del «dopo di noi», dissi in un’intervista che mi stupivo per l’assenza di rappresentanti dei soggetti realmente interessati a quella legge. La mia frase fu sbobinata e considerata discriminatoria: «Ho voluto portare con me Tommy per far vedere com’è fatto un autistico» spiega Nicoletti. «C’era anche un genio Asperger, ma non credo che a quelli come lui si rivolga la legge, per quanto ovviamente abbiano anche loro diritto a riconoscimento e tutele. Ma i destinatari sono persone che stanno a ben altri livelli.» 5

Certo che mi sembrava riduttivo che la categoria degli autistici, su cui si legiferava perché i genitori avessero speranza che non finissero in una discarica per umani difettosi, fosse rappresentata unicamente da un giovane avvocato, sicuramente Asperger come diceva di essere, ma anche in grado di avere una vita autosufficiente, almeno rispetto agli autistici del «tipo Tommy».

L’avvocato se la legò al dito e mi scrisse una lettera pubblica piena di indignazione, che ancora ogni tanto qualcuno mi rinfaccia: Vorrei dirle, Nicoletti, come queste sue parole mi abbiano ferito, mi abbiano fatto male … mi chiama «genio». Usa, per me, una etichetta. Non mi conosce, non sa nulla della mia vita, eppure mi chiama «genio». Chiaramente, è falso. No, non sono un genio: lei mi dà una etichetta e mi esclude. Come per secoli è stato fatto per chi è diverso: le donne, gli afroamericani, gli omosessuali. Io, per lei, sono un diverso: non sono «a ben altri livelli». Anche se una diagnosi medico-psichiatrica mi definisce autistico, lei vuole che la legge sull’autismo non mi dia alcun diritto. Come gli afroamericani (pensi all’Università nell’America degli anni Sessanta) o gli omosessuali (pensi al matrimonio), la legge non dovrebbe parlare di me. 6

Continuando poi con tutta la sua irritazione: Io esisto, noi, autistici lievi, esistiamo. Con le nostre vite, con le nostre difficoltà, con i nostri sentimenti. Cadiamo, soffriamo, siamo felici, siamo particolari … Suo figlio è autistico grave. Lei – etichettandomi – afferma di conoscere ciò che provo, ciò che sono: il dolore di suo figlio è più grande del mio. Ed è davvero così? Come può dirlo?

Considerato che, a distanza di un paio d’anni, questa lettera ancora ogni tanto qualcuno me la ripropone come prova della mia spietatezza verso l’umanità neurodiversa, di fascia alta, chiedendomi per quello che ho osato dire scuse pubbliche, oggi più che mai ne vedo il non senso. Proprio con me non attacca l’accusa di trattare le minoranze con toni discriminatori, anche se può darsi che sia facilmente fraintendibile, che a molti risulti difficile capire se parlo sul serio o prendo in giro il mio interlocutore, o che sia visto come un parvenu delle battaglie sull’autismo che si sveglia soltanto ora, cosa che ancora mi viene detta, come se il diritto di parola sull’autismo potessero averlo solo alcuni «padri fondatori». Il senso della mia risposta mi pareva più che chiaro: si parlava di una legge che avrebbe dovuto salvaguardare persone gravemente non autosufficienti dopo la morte dei genitori che se ne occupavano. Non

possono essere assimilati ai bisogni primari di esseri umani pesantemente inabili a gestirsi, che non parlano, con difficoltà radicate di relazione, con un deficit cognitivo importante, quelli di chi si presenta come un uomo che ha conseguito una laurea e svolge una professione complessa. Penso ora d’istinto e con piena comprensione del dolore interiore di tutta la sua vita, caro giovane avvocato autistico diagnosticato, che quello che vale per lei allora dovrebbe valere anche per me… Anch’io, come lei, sono stato diagnosticato Asperger, e in maniera pesante. Ora, se stessimo facendo una partita a carte, io metterei sul tavolo il mio bel 168 di aspergherità, che rispetto al 134 di media secondo la valutazione con RAADS-R non sono proprio noccioline… Naturalmente, lo dico per fare una battuta, non voglio mettermi addosso nessuna perizia che mi affranchi dalle responsabilità di rispondere delle mie affermazioni, tanto più che in questi ultimi tempi ho registrato da più parti dei segnali che mi confermano l’insorgere di una nuova moda che impone l’autodiagnosi; oggi viene forse più facile nascondersi dietro un «sono autistico…». Esattamente come tre decenni fa era frequente il «sono esaurito!». Ho però cominciato a capire quali terribili poteri mi dava quel fascicoletto che tenevo in mano; detto con un francesismo, e scusandomi in anticipo per la mia autistica incapacità di valutare il peso delle parole, mi sentirei di dire: «Adesso che anch’io ho la patente di autistico, per favore, non rompetemi più i coglioni!». Assorto anche in questo pensiero che mi dava, e tuttora mi dà, una certa detestabile soddisfazione, uscii nella strada nebbiosa con la cartellina arancione dove era scritto tutto quello che il dottore aveva trovato nel mio cervello.

IV

Perché i nostri figli autistici sono orfani

Un giorno d’estate, mentre scrivevo questo libro, cominciarono ad arrivarmi i messaggi augurali dai vari social network che tenevo aperti in background… Da poco era passata la mezzanotte ed era il giorno del mio compleanno. Da vari anni faccio di tutto per dimenticarlo e nessuno in famiglia, dove è noto il mio atteggiamento, mi fa più auguri. È un esorcismo sciocco il mio contro l’ineluttabile banchetto che il tempo fa della mia vita. Non voglio pensarci e non voglio fare quei discorsi massacranti del tipo: «Cinque anni fa sembra ieri», perché generano inesorabilmente un «il “tra cinque anni” arriverà senza che nemmeno me lo aspetti». Di fatto mi pesa doppiamente il tempo passato, mi pesa come per chiunque altro per la mia vita che si esaurisce nel suo naturale decorso: ditemi a chi ha mai fatto piacere fare il conto alla rovescia su quello che gli resta di tempo vivibile. A questo va aggiunta la sensazione frustrante di essersi tanto agitati per cambiare il destino del proprio figlio autistico, ma sentirsi sempre al punto di partenza. Sono varie le circostanze per cui la battaglia sembra disperata, la principale è la molteplicità di forme in cui si manifestano gli autismi nei nostri figli. Mi diceva un’amica: «Non smuoverai di un centimetro la situazione dell’autismo, per quanto tu possa continuare a scrivere e dire…». Non posso darle torto, le cose stanno proprio così, lo vedo sulla mia pelle. Quelli con figli come il mio sono divorati nel profondo dal sospetto che alla fine, per quanto possano arrabattarsi, tutto resterà immutato. La situazione degli autistici resterà immobilizzata salvo i piccolissimi spazi mentali che abbiamo espugnato nella percezione generale del problema, frammenti di cultura che cominciano a circolare grazie alla grandissima fatica dei genitori più combattivi e altruisti, almeno fino a che ce la faranno a sbattersi anche per gli altri e non solo per il proprio figlio.

Io mi ero preso un mese intero di respiro, avevo il pretesto che dovevo scrivere questo libro e quindi sono stato lasciato in pace. Poi è tornato Tommy e si ricomincia. Me l’hanno riportato a casa da Civitavecchia, dove il gruppetto dei quattro o cinque amici autistici era attraccato dopo un mese che se la spassavano in Sardegna. Qualcuno dirà: «Dagli, privilegiato, pensa alle migliaia di genitori che non se lo possono permettere…». Tommy è stato con la madre ospite di amici, e lo dico non perché debba giustificarmi; e poi, io sono restato a casa tutta l’estate, come ormai faccio da anni. Quest’anno, almeno, ho lavorato a questo libro, che per giunta mi procurerà nuove rimostranze per aver detto che un po’ dell’autismo dei nostri figlioli ce lo portiamo da sempre dentro anche noi. Immagino che se chiedessi una consulenza a quegli istituti che fanno previsioni sul come e in cosa investire, mi sconsiglierebbero di farlo sulla causa dell’autismo, perché purtroppo, per quanto si faccia e si dica, non si riuscirà mai a soddisfare le aspettative di tutti. Gli autismi sono troppi, troppo diversi tra loro, gli approcci all’autismo sono infiniti e nessuno, di quelli che pubblicamente parlano del loro autismo in famiglia, alla fine avrà riconoscimento e appoggio unanime per quanto quello che dice sia corretto. Insomma, ci si muove sempre su un terreno ambiguo, ci si sente sempre al centro di polemiche, ci s’imbatte sempre nello stesso ritornello «tu vedi solo tuo figlio!», che massacra la possibilità di ogni strategia comune nell’universo parallelo delle famiglie. Non esiste iniziativa pubblica, editoriale, culturale che possa fungere da catalizzatore per tutti, qualcuno resterà sempre fuori a fare le pulci e a cercare di smontare il lavoro fatto. Il dato inoppugnabile che tutti i genitori di autistici di ogni tipo dovrebbero tenere a mente è che la dignità di cittadini a pieno diritto per i nostri figli è ancora tutta da costruire. Rispetto agli autistici ci sono falle enormi nella rete dei rapporti civili, giuridici e di convivenza, e a volte ce ne accorgiamo per puro caso. Forse saremmo più agguerriti nel sostenere i diritti dei nostri figli se in maniera unanime li sentissimo come parte esplicita di un nostro modo d’essere, magari meno socialmente rilevante, ma comunque determinato da una nostra affinità.

Non so se sarà condiviso o meno dai tanti potenzialmente interessati, ma le battaglie per il riconoscimento a una vita dignitosa per tutte le persone con autismo dovrebbero essere combattute sotto l’idea che quello che chiediamo lo chiediamo «per noi autistici», non solamente per i nostri figli, autistici per caso. Altrimenti è giusto chiamarli orfani, anche se i genitori sono i soli a occuparsene. I nostri figli saranno orfani fino a che non accettiamo l’idea che il loro autismo è anche il sintomo di uno stato atipico del nostro cervello. Sarebbe come se negassimo altri caratteri fisici che da noi hanno ereditato, tipo la fisionomia, la corporatura, il colore dei capelli. Assorto in pensieri simili, avevo appena ritirato Tommy, reduce da una giornata in barca con gli altri amici autistici. Il cielo è terso e il sole va a tramontare dopo un po’ di fragore di un temporale che millantava di essere nubifragio. È il giorno della settimana in cui mi piacerebbe sentirmi «normale», essere quindi libero di non rincasare, ma il sabato sera è di prassi che lo trascorra con Tommy. Fuori dalle sbarre antiscavalco delle nostre finestre si riaffaccia nell’aria momentaneamente tersa quel profumo di gelsomino tentatore, che nei primi anni della mia transumanza romana segnava il sentiero di qualche rapace scorribanda amorosa. Tommy è l’anestetico a ogni mia ricaduta nel morbo della nostalgia. La sua presenza riempie il mio presente, mi fornisce il pretesto di non pensare al mio futuro perché il suo è prioritario. Tommy è il garante del mio patto col diavolo, non so che sarà di me, ma fino a che mi occuperò di lui sono sicuro che non resterò accalappiato dalle turbe classiche di chi, alla mia età, quel gelsomino lo conserva già da anni mummificato tra le pagine del libro del suo passato. Invece mi piace pensare che, se volessi, potrei far venire qualcuno a trovarmi, potremmo berci un Margarita e farci qualche allegra risata. Tommy sarebbe di compagnia, anche se silenzioso e discreto come un collega secchione con cui si divide l’appartamento da universitari fuori sede. A nessuno verrebbe mai da pensare che in realtà siamo padre e figlio, che dividono uno studio che nel tempo è diventato la

loro ideale casa comune. Magari, quello che ho appena scritto, galleggia per lo più nella mia fantasia. Non importa, è sicuramente plausibile; io conosco tantissime persone simpatiche, non le frequento quasi per nulla, perché mi sembra sempre di non averne il tempo, ma forse tra loro qualcuno avrebbe piacere di passare a trovarmi. Già che lo veda un pensiero possibile è una conquista, nelle mie condizioni di recluso e sorvegliante nel medesimo tempo. Molto spesso, ma più che altro nelle intenzioni, Tommy diventa per me un possibile lasciapassare alla dissolutezza: potrei permettermi sprazzi di vita folle e spensierata portandomelo sempre con me. Sapere che è un’eventualità aperta già mi soddisfa, gli sono grato per stimolarmi questi propositi, in un’epoca della vita in cui i miei coetanei pensano solo a controllarsi la prostata e a fare i conteggi per la pensione. A me piace pensare che sia così. È la controparte delle nottate passate a scrivere articoli, inventare progetti, sollecitare amministratori e rispondere ai messaggi accorati di tutti quelli che, come me, hanno al seguito figli che divorano tempo ed energia. Mi sembra poco coerente che io possa essere considerato una guida e un possibile consigliere per tante persone senza le risposte di chi avrebbe ruolo e responsabilità per occuparsi del loro problema. Penso a volte che se fossi capace veramente di mantenermi freddo come una serpe, potrei millantare di essere qualcosa di simile a un maestro di vita, quei mezzi santoni che spolpano la povera gente disperata promettendo salvezza e guarigione. Purtroppo per le mie tasche ho studiato invano da figlio di puttana, ho spesso millantato uno sguardo cinico, senza mai riuscire a esserlo veramente fino in fondo, nemmeno in una briciola di occasione, di quelle in cui sarebbe stato per me propizio farmi meno scrupoli del mio prossimo. Al contrario, non sono nemmeno un appassionato del bene comune, proprio per struttura genetica. Già da un po’ di tempo prima della diagnosi, in realtà, mi sono più volte chiesto che se Tommy è autistico ci dovrà essere pure qualcosa in me di quell’indifferenza ascetica, di cui lui è placidamente intriso. Quando mi dicono che sono un padre meraviglioso, mi sento

veramente a disagio, sono chiacchiere da social network fatte davanti a una foto tenerona di Tommy che mi abbraccia; se al suo posto ci fosse un gattino, sarebbe la stessa cosa per chi mi giudica solo da quello che posto in Facebook, e so bene io quanto sono bravo a mistificare. Non m’importa molto del giudizio altrui, soprattutto del visibilio per qualità paterne non so che farmene: io non volevo fare il mestiere di padre, anzi la mia intenzione decenni fa era di interrompere la catena perversa dei padri divoratori di figli che avevo conosciuto nella mia famiglia di provenienza. Sono figlio di un uomo che si vantava di non aver cambiato mai idea. Era nato fascista e tale morì, coltivando in famiglia una radicale intolleranza verso ogni complessità di ragionamento, ogni diversità, ogni divergenza dal suo incrollabile pensiero unico. Mi sforzai di essere come lui, riuscendoci persino all’apparenza per qualche anno di adolescenza scapestrata. Quando presi la mia strada autonoma, capii che fu intesa come un’insubordinazione al comune destino familiare che, da generazioni, voleva tutti incarcerati nella stessa bolla emotiva di un presunto destino di perseguitati da un mondo di traditori, infami, profittatori e ladri. Smisi di preoccuparmi di chi fossero i giusti e gli empi, e cominciai a giudicare il mio prossimo per sensazione e non per pregiudizio. Sbagliai quasi sempre in ogni mio rapporto, ma per lo meno era diventato un problema solo mio e non di stirpe. Alla fine cancellai mio padre dal mondo, di conseguenza fui costretto a estendere la strage a ogni membro della mia famiglia di origine, dai numerosi zii ai cugini, compresi quelli con i quali lui aveva litigato, fino a mia madre e compresi i miei tre fratelli. Il mio fu un atto volontario, lucido e radicale di «sfamiglio»; non vedo né sento più nessuno dei miei parenti e familiari da anni. Dopo la morte di mio padre, l’unico atto formale che mi coinvolse con la sua scomparsa è stato quello di firmare una procura per il ritiro da parte del resto della famiglia dell’urna con le sue ceneri. Ho fatto di tutto per non emularlo nei comportamenti, anche perché gli somigliavo persino troppo nelle fattezze e nei modi di muovermi e di parlare. Spesso, ora che sono invecchiato, mi sorprendo con le mani in tasca o conserte come le teneva lui, dire frasi

che per lui erano abituali, o peggio ancora mi stanno venendo quelle stesse sue rughe sul viso e mi stanno spuntando i peli dalle orecchie che mi facevano orrore. Ho comperato una macchinetta elettrica cinese e, a differenza di lui, me li taglio continuamente per evitare quel cespuglio auricolare che mi sembra da sempre l’affacciarsi delle fronde di una pianta parassita che affonda le radici nel cervello. Da mio padre ereditai una viscerale intolleranza e disprezzo per i pareri altrui, da cui però mi sono affrancato solo con uno sforzo culturale. Nel mio intimo penso ancora di essere felicemente in sintonia con ogni mio glorioso pregiudizio, ma non posso cambiarmi il colore degli occhi o parti del dna, quindi è così e mi do pace. Ho ancora molti residui del suo carattere su cui non ho potuto fare nulla, per esempio non accetto di essere ignorato, allo stesso tempo sto bene ignorando l’esistenza delle altre persone; non sono equo in questo, lo ammetto, ma penso che la cosa faccia parte del mio temperamento criptoautistico. Da adolescente ero ancora meno interessato a socializzare o, per essere più precisi, a rinunciare a qualcosa del mio modo d’essere nella necessaria negoziazione per un’inclusione sociale. Ci fu un periodo in cui mi astrassi molto dalla vita concreta, mi piaceva leggere tutto quello che rappresentava una deriva dalla modernità; mi ero convinto che esistessero gli dèi dell’Olimpo o qualcosa di simile, pensavo che raggiungerli sarebbe stato il fine più ambizioso della mia vita. Ora penso che fosse fisiologico del mio stato il fantasticare, oggi quelli simili a me s’immergono in giochi di ruolo online, hanno serie di telefilm da urlo, fanno raduni di cosplayer, condividono tutto l’universo possibile che trovano o mettono in rete. Quando ero sognatore io, c’erano solo i libri e un po’ di cinema, la tv era triste e nemmeno esisteva il videoregistratore. A me figlio degli anni Cinquanta, nato lo stesso anno della tv nazionale, sembra impossibile avere attraversato un ponte epocale che ha le sue fondamenta ancora nel fascismo e nella seconda guerra mondiale. Sono stato allevato con i racconti dei bombardamenti, della fame, della borsa nera. Alle scuole elementari c’erano ancora i cartelloni che ci ammonivano a non raccogliere le bombe inesplose, con immagini cruente di bambini cui erano saltate

via le mani e le gambe. Nonostante abbia vissuto tutto questo, ho la consapevolezza di essere ancora vivo e raziocinante nell’epoca in cui scrivo e ragiono di ombra digitale, di protesi emotive, d’intelligenza artificiale, di relazione robotica. Mi sembra impossibile essere ancora in grado di parlarne lucidamente. Come mai non sono ancora morto, o per lo meno in preda alla demenza senile? Forse proprio per rassicurarmi su questo lo psichiatra che mi ha diagnosticato l’autismo mi ha pure chiesto una risonanza magnetica dell’encefalo e del tronco cerebrale. Mi sono infilato volentieri in una bara metallica per una ventina di minuti, e mentre sibili spaziali mi scansionavano le meningi pensavo che vedermi il cervello sarebbe stata una bella esperienza. Una delle mie ossessioni ricorrenti è sentirmi dire «hai un bel cervello» o peggio «mi piace tanto il tuo cervello»: l’ho sempre trovato fastidioso, soprattutto quando a dirmelo era una donna. Vorrei piacere per prestanza fisica, per profilo volitivo, per scattante vivacità muscolare… Non per quella roba grigia e molliccia che ho nella scatola cranica. Comunque, appena ottenni le radiografie dal centro clinico le pubblicai su Instagram, con la stessa vanità con cui un ragazzotto mette in circolazione la foto della sua tartaruga addominale.

V

L’autistico diversamente abusato Ora che ho consapevolezza di far parte anch’io del popolo degli autistici, mi rendo conto di cosa possa significare l’appartenenza a una minoranza che non ha certezza del totale godimento di tutti i propri diritti. Non prendo come esempio le più classiche e detestabili forme di xenofobia, razzismo, intolleranza, sessismo. Sono tutte manifestazioni di pensiero arcaico che, in parte, possono trovare comunque un fronte ben rappresentato di biasimo, censura e repressione. Quello cui alludo, se possibile è ancora peggiore, perché meno passibile di stigma sociale ma altrettanto letale nelle sue conseguenze in chi ne è vittima. È il caso di quando ci si senta discriminati non tanto da leggi scritte, o da un ben definibile pensiero politico o filosofia o ideologia. È piuttosto sentirsi nel ruolo di possibili vittime dell’impalpabile serpeggiare di un pregiudizio sedimentato, inconfessabile, ma non abbastanza definito e avvertito come comportamento criminoso. Accade quando senti di essere entrato in una di quelle categorie a rischio del famigerato «tanto che vuoi», che è già una premessa a definire dei limiti oggettivi alla completezza della tua cittadinanza. È quel fintamente compassionevole «tanto che vuoi, è un povero vecchio» o «tanto che vuoi, è un malato terminale» o «un infelice», «un poveretto», «una persona sola al mondo». Per noi quest’attenuante al nostro appartenere in pieno all’umanità si sintetizza nel «tanto che vuoi, è uno svitato, un matto, un minorato, un deficiente». Ultimamente in questa categoria è persino stata di nuovo sdoganata l’espressione «mongoloide», che sembrava essere stata debellata da ogni lessico civilizzato, ma è tornata ad apparire come un vezzo anche nei salotti televisivi del talk politico. 1 Può essere che chi ancora provasse disagio nel sentirla pronunciare debba essere bollato come un residuo del detestabile pensiero «politicamente

corretto», che tanta ipocrisia generò nel mondo. Può darsi… che noi ormai siamo residui del passato, siamo indietro rispetto al nuovo corso, per cui il mondo marcia fiero verso un fulgido periodo di rinascita nel quale gli umani «risvegliati» si sono liberati da questi ipocriti fronzoli e finalmente parlano il sano e spregiudicato linguaggio del popolo della rete… Può darsi, ma vorremmo solo ricordare che se si abbattono le garanzie delle categorie deboli a parole, presto sarà per tutti «normale» abbatterle concretamente a fatti. Già da qualche tempo, con la stessa intenzione dispregiativa, è entrato nell’uso comune il termine «autistico», 2 e in quest’ultimo ci siamo tutti noi. Ne feci in passato una battaglia, verso un parlamentare (anche molto di sinistra) che aveva dato pubblicamente dell’autistico a chi riteneva un incapace. Ero e sono tuttora convinto che dall’abuso disinvolto nel definire «autistico» chi si giudica con sarcasmo un disadattato sociale, si arriva facilmente alla minore considerazione per la notizia di un autistico concretamente abusato. Poiché comincio ad averne qualche concreto segnale, racconterò qualcosa di estremamente sgradevole, per cui chi pensa di avere lo stomaco debole salti direttamente al capitolo seguente. Non tutti i genitori lo ammettono facilmente, ma uno dei peggiori rovelli legati alla scarsa autonomia dei nostri figli autistici è che qualcuno possa abusarne. I nostri ragazzi sono spesso molto belli e molto indifesi. Spesso non hanno capacità di discernere il tipo di attenzione che ricevono da persone a loro vicine, come da estranei. Sono di un’ingenuità radicale rispetto alla sessualità, non conoscono il senso di colpa, non attribuiscono un valore etico all’affettività, non la legano a un diritto di autodeterminarsi, potrebbero addirittura non rendersi conto della differenza tra un abuso e una semplice e innocente manifestazione affettuosa. Per la stessa ragione sono tra le vittime migliori di ogni predatore proprio perché non capiscono e soprattutto non parlano, e quindi non sono nemmeno in grado di riferire la violenza subita. Voglio raccontare una storia recente, per dare corpo a un incubo ricorrente. Il protagonista è un ragazzo autistico di 21 anni che è stato

abusato sessualmente dalla persona che lo aveva in carico. Il padre stesso mi ha raccontato la vicenda, che ha risvolti agghiaccianti. Il figlio con diagnosi di autismo, legge 104 articolo 3 comma 3, 3 che noi genitori sappiamo che significa autistico al cento per cento, quindi totalmente non autosufficiente, doveva frequentare le scuole superiori, e siccome, come spesso accade, non c’era il servizio municipale dotato di personale adeguato per l’accompagnamento, si era autonomamente organizzato assumendo come accompagnatore un carissimo amico di famiglia che proprio in quel periodo aveva perso il lavoro. Una persona di sua massima fiducia, sessantenne padre di due figlie, in seguito anche nonno. Per tre anni l’uomo si occupa del ragazzo apparentemente con grande scrupolo. A un certo punto, però, iniziano a presentarsi dei comportamenti problema mai verificatisi prima. Il ragazzo è inizialmente nervoso e agitato, poi comincia a tormentarsi le unghie arrivando spesso, all’apice della crisi, a strapparsele completamente con i denti. Assieme a questi atti di autolesionismo comincia a dire ai genitori delle frasi per lo meno ambigue in cui il tema ricorrente era: «Non si mette il pippo in bocca». Questo comincia a destare qualche sospetto: «pippo» è il termine gergale con cui in famiglia sono soliti chiamare il membro maschile. Inoltre, il ragazzo comincia a segnalare dei problemi alla bocca, soprattutto al palato, come avesse i sintomi di un malessere che però nella sua limitatezza verbale non riusciva a spiegare. Il padre comincia a collegare indizi inequivocabili e si fa la sua idea, anche se gli sembrava impossibile solo immaginarlo; d’altra parte, l’amico di famiglia era l’unica persona con cui il figlio passava del tempo da solo. Il padre inizia con cautela a interrogare il ragazzo sulla questione del pippo in bocca e alla fine scopre che a quel concetto è sempre associato il nome dell’accompagnatore. Decide di procurarsi delle prove certe e attrezza una stanza di casa con una telecamera spia che ormai si può acquistare in Internet per pochi soldi. Poi convoca l’amico e lo mette alle strette. Quello, dopo qualche titubanza, confessa l’abuso, giustificandosi con il fatto di essere stato «provocato dal ragazzo». Evidentemente ben consigliato da un legale, però, si

presenta spontaneamente alle autorità e si autodenuncia. Ottiene così il patteggiamento e, come prescrive la legge, tutte le attenuanti, perciò viene condannato alla pena minima prevista per reati di questo tipo. Alla fine, pur avendo abusato di un disabile, non sconta nemmeno un giorno di carcere e il risarcimento stabilito per i danni alla vittima si riduce alla cifra irrisoria di 5000 euro. La notizia è stata così raccontata da un giornale nazionale 4 senza nemmeno suscitare troppo scalpore, e io stesso mi sono meravigliato, ma quando la Procura interessata ha replicato, molto contrariata dalla versione giornalistica del fatto, chiedendo di divulgare la sua posizione al riguardo, ho capito che il problema andava ben al di là di un’eventuale disquisizione sull’operato dei giudici. Senza entrare nel merito dalla sentenza, e dando per certo che la legge è stata correttamente applicata, il dato culturale da approfondire è che la vittima dell’abuso sessuale è stata valutata in base a una diagnosi di persona in grado, tutto sommato, di autodeterminare i propri comportamenti, come scrive appunto il magistrato interessato nella sua lettera: 5 Dalla documentazione medica acquisita agli atti, afferente la persona offesa di anni 20, emerge un ritardo mentale medio oltre alla diagnosi di autismo, che ha legittimato l’adozione di un provvedimento di amministrazione di sostegno e non già di interdizione da parte del tribunale competente.

Lo strumento del patteggiamento ha almeno portato a una condanna sicura, che non sarebbe stata così scontata in un processo che avrebbe visto implicato un adulto «con ritardo medio»: si pensi solo quanto avrebbe potuto argomentare la difesa dell’imputato sul significato di quel «ritardo medio». In più c’è da aggiungere che la maggior parte delle famiglie di autistici sceglie la strada dell’amministratore di sostegno piuttosto che quella dell’interdizione, perché la ritiene una forma più civile per un’inclusione sociale del proprio figlio. Questo, però, non significa che l’autistico, anche se non interdetto, possa gestirsi autonomamente, o addirittura essere consenziente a un rapporto sessuale con un adulto.

Può una diagnosi di autismo essere riducibile alla frase «ritardo mentale medio»? Può questa sintesi definire un tema così complesso come il grado di consapevolezza che debba avere un essere umano di fronte alla richiesta di un atto sessuale? Sarebbe importante aprire un dibattito di livello tra giuristi e clinici su tale questione. Primo perché dopo questa sentenza, che sicuramente dal punto di vista del diritto è inconfutabile, potrebbe passare l’idea che abusare di un autistico sia un reato tutto sommato lieve. Ancora di più dovremmo avere la certezza di tutela dei nostri ragazzi autistici nella situazione opposta: se fossero loro a compiere un’azione assimilabile a un reato, sarebbero considerati da chi li giudicasse come persone in grado di intendere e di volere? Ritornando quindi alla radice del vero problema: in Italia c’è un sistema oggettivo e comunemente accettato per valutare un soggetto autistico? Le diagnosi di autismo e le relative tutele giuridiche dei soggetti autistici tengono conto di possibili circostanze come quella di una violenza sessuale? Mi si dirà che il caso rappresenta un’eccezione, ma ricordo che anche quando le vittime sono donne disabili psichiche il benpensantismo diffuso fa finta di non vedere, e molte madri di ragazze autistiche lo sanno. Ne parlai nel mio primo libro quando raccontai della donna che portò la figlia autistica dal ginecologo, il quale le disse: «Dopo il menarca le metta subito la spirale… Almeno evita che se qualcuno ne approfitta possa rimanere incinta!». 6 Ho provato a cercare su Google una breve rassegna di episodi recenti di violenza sessuale in cui le vittime fossero persone con problemi di cervello. Ho trovato una tragica ricorrenza di notizie di cronaca in cui la vittima è una ragazza disabile psichica, e talvolta lo stupratore è il padre o un familiare. Comincio da Spoleto, 18 febbraio 2017: «Fa prostituire la figlia disabile e la violenta». Proseguo a Roma, 25 settembre 2017: «Offre figlia disabile per rapporti sessuali che filma: un rifugiato lo fa arrestare». Poi a Ragusa, 28 settembre 2017: «Disabile violentata a Ragusa: arrestato un parente della vittima». Per finire a Catania, 4 ottobre 2017: «Una minore, affetta da leggero deficit cognitivo e

collocata presso una comunità, aveva riferito di avere subito, per anni, abusi sessuali da parte del padre e di una persona, estranea alla sua famiglia, che, assieme al padre, la costringeva a prostituirsi». Questo, solo con una ricerca superficiale che chiunque può fare e limitata ai primi dieci mesi del 2017. Sarà un caso? Forse è stato un anno nefasto per noi autistici, magari dovuto a un oscuro e sfavorevole incrocio astrale, o forse sono io che esagero. Ecco che così ho anticipato ogni possibile puntualizzazione e tentativo di relativizzare e sminuire il problema. Mi sono però chiesto più volte perché mai tra le tante ricorrenze politicamente correttissime nessuno ricorda pubblicamente che esiste pure la violenza, anche sessuale, ai danni delle donne disabili psichiche. Eppure le donne con disabilità dovrebbero poter accedere agli stessi servizi antiviolenza istituiti per ogni altra donna, anzi dovrebbero esistere per loro servizi specializzati e dedicati in concerto con le organizzazioni di familiari. Ma non ne parla volentieri nessuno, eppure le donne disabili sono più indifese di ogni altra donna, sono quelle incapaci persino di raccontare, di denunciare, quelle che hanno doppia difficoltà a essere credute perché ritenute «minorate». Sono proprio le donne ritenute inabili a intendere e volere che spesso subiscono molestie e violenze in famiglia, nei centri residenziali di cura, laboratori, in genere in tutti i luoghi di «esclusione» dove sono «depositate». Nella maggioranza dei casi la violenza viene dalle stesse persone incaricate di occuparsi di loro. Paradossalmente, quando in Italia l’episodio di una presunta violenza sessuale su una ragazza autistica diventa un «caso» di portata nazionale, è solo per un madornale abbaglio. Mi riferisco alla tragica storia di quella ragazzina autistica che, per una vicenda giudiziaria, fu sottratta dai servizi sociali alla famiglia, che in più dovette anche subire la vergogna di un sospetto di molestia sessuale. Su quell’errore giudiziario fu scritto un libro, da cui fu persino tratto un film. 7 Fu un clamoroso episodio d’ignoranza istituzionale: il presunto abuso era nato come equivoco attribuibile alla «comunicazione facilitata». Chissà perché, in quella circostanza, fu ritenuto degno di attendibilità un sospetto di molestia sessuale da

parte del padre sulla figlia disabile che era emerso unicamente da quella pratica «sciamanica», purtroppo ancora molto diffusa nell’universo del «fanta-autismo», 8 secondo la quale l’autistico, con il solo aiuto di una persona che gli tiene una mano sulla spalla, riuscirebbe a comunicare attraverso una tastiera di computer. Il risultato è sorprendente per chi crede ai miracoli più che alla verifica scientifica. 9 Infatti, ecco che attraverso quel sistema un disabile con gravi problemi cognitivi, incapace persino di scrivere il proprio nome, riesce improvvisamente invece a esprimere pensieri complessi, scrivere libri, sostenere esami universitari. Eppure un sospetto di abuso emerso dalla comunicazione facilitata è stato giudicato credibile. È assurdo, esattamente come se qualcuno potesse essere accusato dello stesso reato basandosi su prove emerse da una seduta spiritica o dalla lettura dei tarocchi.

VI

Grullautistici contro genialoidautistici?

L’autismo è un universo multiforme e complesso. Provo a rappresentare questa caratteristica dell’umanità come la vedo io: collochiamo l’insieme delle persone con autismo che frequentiamo o conosciamo all’interno di un cerchio in cui stiano una accanto all’altra e mettiamo che in un punto qualsiasi sia collocabile la posizione di Tommy, autistico a basso funzionamento, non verbale. Considerato che la gradualità dei segnali autistici è differente per ogni persona del cerchio, sarebbe impossibile disporli in un ordine che tenga conto di un’ipotetica scala di «gravità». Ci sono autistici tosti, senza dubbio, che è facile collocare nelle posizioni centrali, ma anche in quelli dotati di maggiori capacità cognitive, quelle relazionali risultano compromesse, anzi immagino, ma ora che sono diagnosticato posso dire di esserne sicuro, che la maggiore consapevolezza del proprio stato diventi un ostacolo ancora più grande al sentirsi parte dell’umanità. La prima impressione dopo aver ricevuto «la patente» è proprio di intendere quella diagnosi come una sorta di salvacondotto, un’autorizzazione a non porsi più limiti. Quelle forzature che ogni giorno si devono mettere in atto per convivere con il proprio prossimo, sembrano diventare di un peso insopportabile. Di conseguenza si comincia a esagerare, si accentua quello che si pensa essere parte della propria natura, e immagino che funzioni così anche per tutti quelli che, dopo aver pubblicamente dichiarato la loro reale inclinazione sessuale, si sentono più liberi anche di cambiare il modo di comportarsi, di acconciarsi i capelli e di vestirsi. Chiaramente, l’autistico può dichiararsi tale solo se appartiene alla fascia di quelli ad alto funzionamento, mentre per gli altri l’autodefinizione sarebbe una contraddizione in sé, ed è quindi più facile per l’autistico consapevole euforizzarsi per ciò che potrebbe sembrare un superpotere: quell’impaccio che avvertiamo nel rapporto

con gli altri ci piace immaginarlo come la necessità di nascondere la nostra vera natura di supereroe, quasi fosse la nostra identità segreta. Sembrerà un’esagerazione, ma, credetemi, non capita così spesso di trovarsi tra le mani una formula che sia in grado, a torto o a ragione non importa, di risolvere tutte le equazioni esistenziali che avevamo lasciato in sospeso, vedi rapporti familiari, professionali, affettivi, ecc. Allo stesso tempo, non esiste un doping più efficace per l’autostima che sentirsi in diritto di dire e fare quello che più ci piace rispetto ai nostri impegni sociali usando la semplice formula magica: «È così perché sono autistico!». Serve un minimo di tempo e parecchio autocontrollo per non buttarsi nell’ubriacatura che deriva dal sentirsi matti patentati. È però un dato concreto che la consapevolezza di essere capaci di elaborare pensieri e ragionamenti complessi ma «eccentrici» aumenta l’impatto potenziale sul nostro prossimo. Di questo nostro necessario modo d’agire dobbiamo imparare a fare virtù: più riusciamo a gestire in maniera non distruttiva il nostro essere «sfrontati», più diventa facile essere «tollerati» nella società neurotipica. Tutti i cervelli ribelli che la storia, anche recentissima, ci consegna come innovatori sono quelli che hanno saputo mettere a frutto la loro diversità, invece che trincerarsi in un nascondiglio. Non si parlerebbe di Batman se fosse rimasto sempre chiuso nella Bat Caverna a smanettare sulla playstation assieme a Robin. Che c’entra Batman? Secondo voi, un signore benestante che si veste con un costume da pipistrello ha un cervello normalmente strutturato? Bruce Wayne, anche lui orfano guarda caso, riesce a dare un senso alla sua singolarità combattendo il crimine, piuttosto che vivere di nascosto la sua ossessione segreta per i pipistrelli. Il mondo dei cervelli fatti in serie non chiede di meglio che rinchiudere il neurodiverso in un recinto, per difendersi marginalizzando proprio chi, con capacità di argomentazione «irrituale», potrebbe minare i princìpi fondativi della sua egemonia. Oggi mi dicono sia diventata molto frequente la richiesta spontanea di una diagnosi di autismo da parte di persone già avanti negli anni. C’è molta più conoscenza generica sulla neurodiversità

rispetto a solo pochi anni fa, ma non altrettanto sedimentata è una cultura equivalente, e quindi potrebbe cominciare a diventare preoccupante il dilagare dell’idea che la patente di Asperger possa corrispondere a una sorta di attestato di genialità. Può capitare di leggere accesi dibattiti in gruppi Facebook tra persone neurodiverse dichiarate che si rinfacciano il reciproco QI , con sfide a «tirarlo fuori e farlo vedere» che tanto somigliano all’antico confronto maschile su chi l’avesse più lungo. Di conseguenza si allarga ancora di più la forbice tra le due grandi categorie di un medesimo modo d’essere. I matti del tipo Tommy e dintorni continueranno a essere considerati matti, anche se con definizioni più ammorbidite, formalità che in sostanza cambiano ben poco del loro destino a finire rinchiusi. Per loro, al massimo, si può conquistare uno spazio di dignità che salvaguardi la loro serenità e il loro diritto di trascorrere una vita il più possibile soddisfacente. Questo che potrebbe sembrare un obiettivo minimo, in realtà è la montagna che ogni genitore tenta di scalare con immensa fatica e scarsi risultati tangibili. Poi ci sono gli altri, gli strambi, i chiacchieroni, gli introversi, i fissati, gli asociali, i nerd, i geni matematici. È una popolazione immensa e sempre più mimetizzata dietro funzionamenti mentali che permettono di trascorrere vite, solo all’apparenza, abbastanza normali. Continuando nella metafora del girotondo degli autistici, se includiamo anche questi ultimi dovremmo metterci dentro, secondo me, una parte cospicua delle persone che siamo abituati a considerare «normali», al massimo portatori di qualche stranezza caratteriale. Be’, tra questi c’ero anch’io, considerato estroso, originale, ma non certo portatore sano di una diagnosi di mezzo matto, per cui se mi accanissi potrei persino provare a chiedere che mi siano applicate le garanzie della 104. 1 Immagino che la gradualità dell’«essere autistici» sia rappresentabile come un impulso elettrico che attraversi tutte le persone del cerchio, valutando che l’intensità di corrente sia avvertita da ogni componente della catena umana in maniera proporzionale alla propria «resistenza» alla normalità. Se potessimo misurare quello

che ognuno sente di fastidio o dolore, potremmo considerarlo come una scala equivalente alle sollecitazioni che subisce nel suo quotidiano, che di conseguenza provocano reazioni e comportamenti diversi a seconda della posizione occupata dal soggetto in questo nostro ipotetico girotondo. Tradotto in termini «operativi», questa situazione «fluida» nelle persone autistiche impedisce di elaborare modelli di vita personalizzati che vadano bene per tutti. Quindi le richieste di ogni genitore sono calibrate sul «suo» problema di famiglia. Se per me la richiesta che considererei «un sogno» per Tommy è una concreta città dell’utopia, pensata e progettata per la serena osmosi tra cervelli ribelli e cervelli «che va bene come va», per altri con figli più intelligenti, e soprattutto in grado di sostenere una conversazione, è quella di un inserimento lavorativo in un ambiente protetto, la speranza di una vita autonoma il più possibile felice, ecc. Per altri ancora che sono in quello spettro, ma non lo sanno, la richiesta non viene espressa, non è ascrivibile a un’associazione, a un gruppo di pensiero, anzi proprio perché sono autistici non riescono nemmeno a farsi accettare per quello che hanno di diverso. Magari si assemblano inconsapevolmente, ritrovandosi a condividere interessi comuni, professioni particolari o a coltivare predisposizioni artistiche di vario tipo. Tutto questo s’immagini non con i limiti di un girotondo in una piazza, ma piuttosto come un’interminabile catena umana che si snoda ovunque, entra in ogni quartiere, in ogni casa, in ogni luogo dove ci siano persone. Chi mai altro dovrebbe prendersi a cuore un problema simile? Perché mai dovrebbe essere percepito come oggetto di riflessione generale il fatto che anche i cervelli ribelli dovrebbero avere dignità di cittadinanza, in qualsiasi gradualità questi dovessero presentarsi? È persino difficile far percepire come un problema il diritto all’inclusione di autistici il cui disagio è evidente come quelli del tipo Tommy, che alla fine si vedono in giro per un periodo molto limitato della loro vita. «Tollerati», nella migliore delle ipotesi, il loro destino è tuttora e fatalmente quello di dissolversi. Spariscono, non si vedono

più, la società si dimentica prestissimo della loro esistenza. Restano piombati nelle mura di casa, finiscono rinchiusi da qualche parte, o a sorreggere la gloria dei «fondatori» di strutture modello, che alla fine stanno alla vita reale come un’esposizione dell’Ikea sta alle case in cui viviamo. Quelli invece capaci di parlare, che possono anche essere sorprendenti nei loro ragionamenti, dovranno comunque vivere sul filo di un rasoio, con sempre maggiori possibilità di farsi male in ragione del livello di socializzazione in cui dovranno impegnarsi. Fino a questo mio momento di consapevolezza consideravo poco questa fetta dell’autismo dei cosiddetti «ad alto funzionamento». È comprensibile, immagino che possa sentirmi assolto per questo. Provate a immaginarvi come possa porsi problemi per una persona apparentemente nella norma il genitore di un figlio che, se non si attiva lui, potrebbe passare l’intera giornata steso su un divano con l’iPad in mano. Nel mio specifico caso di genitore che, suo malgrado, è diventato un «testimonial» dell’autismo per la sua specifica attività giornalistica, è veramente difficile entrare in empatia con genitori con problemi simili ai miei, ma che mi guardano con sospetto o addirittura con ostilità solo perché, secondo loro, la mia è una lettura parziale dell’autismo che potrebbe creare dei problemi ai loro figli con vite ed esigenze molto diverse da quelle di Tommy. Una volta ho passato un’intera domenica mattina a chattare con una madre che mi aveva pesantemente insultato in alcuni commenti a un mio articolo e alla quale avevo chiesto ragione della sua violenta reazione. Ho così capito che esiste un fronte esteso di famiglie che hanno una visione molto diversa dalla mia dell’autismo che le coinvolge. Io mi sono sempre schierato dalla parte della denuncia di ogni disfunzione o malessere sociale, e ancor meno mi rassegno alla condanna di ragazzi come Tommy all’invisibilità. Altri genitori, al contrario, hanno come scopo il rendere meno visibile possibile il discrimine che separa i loro figli dalla società neurotipica. Più io davo la parola a genitori con esistenze massacrate da una

gestione difficilissima e dolorosa dei loro figli autistici, più questo è stato visto con fastidio da chi vorrebbe che la parola «autismo» fosse ammorbidita, soprattutto smettesse di pesare come uno stigma su persone che potrebbero, comunque, avere vite con livelli di autonomia molto più ampi. Probabilmente dal loro punto di vista hanno ragione, non discuto e non pretendo attenzione ulteriore da chi ha già i suoi problemi, ma chiedermi la sordina no… Forse sarebbe meglio se smettessimo di considerarci tutti una grande famiglia, includendo nella categoria di «autistico» persone che in realtà sono molto diverse. La disputa si accese quando pubblicai la lettera con foto di una madre che era stata realisticamente «scalpata» dal figlio autistico molto grave e ultraventenne, che era stato colto da una crisi oppositiva mentre lei guidava. Per averlo fatto fui attaccato in maniera violentissima, anche se era stata la madre a chiedermi esplicitamente di pubblicare la foto di lei scotennata. Voleva denunciare il suo essere totalmente sola, senza alcun tipo di supporto e, soprattutto, senza nessuno reperibile su piazza che avesse competenze specifiche per poter attuare un intervento efficace a gestire i problemi oppositivi di suo figlio. Si trattava di un autistico maggiorenne pieno di stereotipie molto invalidanti, che però per tutto e tutti era «guarito» dall’autismo e quindi non meritava specialisti che potessero aiutarlo. Per lui c’erano al massimo generici prescrittori di farmaci, camicie di forza chimiche buone per tutti, e nulla più. Mi sono reso conto di aver scatenato nella persona indignata con cui avevo chattato un magone indicibile, una rabbia profonda condivisa da molte altre persone, tutte con figli autistici ad alto funzionamento. La sintesi dei suoi discorsi era un invito a smetterla di raccontare in maniera così realistica gli aspetti più crudi dell’autismo: La prego di finirla di innescare tifoserie fra grullautismo e genialoidautismo, perché altro non fa che indebolire i diritti di tutti e negare i bisogni di chi, considerato più fortunato di altri, rischia di essere abbandonato nel limbo delle sue non autonomie di sopravvivenza. La prego di contenere la voglia narcisistica di esporre i propri scalpi come trofei perché generano terrore innanzitutto in quelle famiglie che intraprendono il

viaggio nell’autismo con i loro bambini prospettandogli un’invivibilità della malattia pericolosissima. Io non so dov’era lei quarant’anni fa quando da quei manicomi iniziammo a tirar fuori internati. … La superficialità di chi non capisce che, generando senso di impotenza anziché complicità sociale attraverso strumenti attivi, l’unica soluzione e prospettiva sarà la riapertura di quei manicomi e questa volta con i nostri figli dentro.

Ho capito che esiste un problema di base di assai difficile risoluzione. L’autismo non è uno solo e tutti lo sappiamo, ma tra le mille difficoltà che questa circostanza comporta, c’è anche il fraintendimento di base di quando s’inizia a parlare di autismo attraverso un network o un prodotto editoriale potente, e non solo in piccoli circoli chiusi e soprattutto «omogenei». E questo indubbiamente io faccio da anni, riuscendo a farmi sentire più di altri perché comunicare è il mio mestiere da sempre e, senza falsa modestia, conosco bene i meccanismi per rendere efficace il mio lavoro. Non è una colpa, dovrebbe anzi essere considerato un vantaggio per tutti. Ho capito però il problema: la mamma di un figlio collocato in una porzione dello spettro dell’autismo diversa da quella che io rappresento teme che il prevalere di una visione parziale possa appannare la posizione di altre persone (come suo figlio) che hanno difficoltà di sicuro gravissime, ma differentemente rappresentabili. In sintesi, ogni volta che mi esprimo vengo già identificato come portatore degli interessi di «una parte» degli autistici, non della loro interezza; e se io «rivelo» che alcuni autistici possono avere anche comportamenti eteroaggressivi, rischio che rimettano tutta la banda in manicomio, senza guardare in faccia a nessuno. In quest’ottica, è chiaro che più mi sforzo e più sarò guardato con ostilità da parte di chi si vede erodere attenzione per causa mia. Me lo scrive con disarmante sincerità quella madre alla fine della sua chilometrica chat: Non si devono fare gare per attirare l’attenzione ma puntare sui bisogni diversi e far muovere lo stato per questo non per differenze di gravità. Se no

rischiamo la guerra. Una guerra che già sta dividendo i disabili gravi e gravissimi. Se lo facciamo anche fra autistici è la fine.

Allora ne presi atto ma mi arrabbiai, perché lo vidi come un tentativo di censurarmi o di pretendere che abbassassi la guardia nella difesa dei diritti di Tommy e degli altri, solo perché a una parte delle famiglie potrebbero venire le paturnie e le gelosie. Oggi la vedo molto diversamente: oggi mi sento di poter riflettere con maggiori elementi su quale potrebbe essere il pensiero di quei ragazzi neurodiversi di fronte a genitori così avvolgenti. Cresceranno, quei ragazzi, e continueranno a pensare che la soluzione di vita migliore per loro possa essere quella di restare in penombra, cercando una «morbida» via di accettazione da parte di un mondo che ragiona in maniera diversa da loro. Per sopravvivere il più possibile sereni, dovranno passare la vita a inerpicarsi su pareti rocciose a mani nude? Inventarsi stratagemmi per compensare quel dislivello ed essere considerati «socialmente accettabili»? Oppure, al contrario, la rivoluzione è già iniziata. Mentre noi stiamo qui a segnare con un gessetto i confini tra differenti autistici, ma solo per capire cosa sia meglio fare per noi genitori, forse autistici di generazione più avanzata, al punto tale che i genitori se li sono lasciati salutarmente dietro le spalle, stanno già occupando il loro posto nella società in continua mutazione. Mi piace pensarlo, e vorrei davvero che una scossa dalla stagnazione in cui vedo languire l’innovazione nel mio paese venisse dall’azione salutare di tanti «cervelli ribelli» che vivono e operano tra noi e aspettano solo l’occasione per farci vedere quello che sanno fare. Un po’ come la stirpe aliena dei «rettiliani» di cui favoleggia un filone fantanarrativo del più immaginifico catastrofismo social condiviso. So che Tommy non sarà tra loro, e me ne dispiace, ma sia io che lui siamo due modelli di passaggio, dei prototipi che forse serviranno ad altri per vivere meglio. L’importante è che ci siamo riconosciuti e che io abbia capito, anche se in età avanzata, quanto possa essere leggera l’esistenza senza il fardello costante dell’angosciosa necessità di vivere sempre in ragione dell’indole del proprio prossimo, che quasi sempre

si manifesta attraverso segnali così frastagliati e ambigui da non sembrarmi quasi mai abbastanza rilevanti per essere presi in considerazione.

VII

Il Gigante di ferro

È una vita che molti di quelli che mi ascoltano alla radio e non condividono quello che dico, o alcuni dei punti di vista che esprimo, mi scrivono: «Tu devi farti vedere… Ma da uno bravo…». Ora li ho presi in parola e sono andato finalmente a farmi vedere. È stato un impeto maturato in pochi giorni e messo in atto all’istante, ma ripensandoci a distanza di un paio di mesi mi sembra strano che abbia deliberatamente passato ore e ore a farmi sconquassare la testa senza che nessuno me l’avesse prescritto. È ancora più lontano da tutto quello che ho sempre sostenuto il fatto che abbia accettato di ragionare con uno psichiatra degli aspetti più riservati della mia vita, come dei pensieri che giudicavo appartenere solo a me. Infine è paradossale, per le mie abitudini, che mi sia sottoposto a tutta quella sequela di test storici che ho già citato, tipo VAIS , Minnesota, macchie di Rorschach, più altri giochini con cubetti o figure di legno. Mentre lo facevo, a un certo punto ho persino ricordato che mi stavo sottoponendo a prove su cui ho sempre sorriso e ironizzato. Ai tempi in cui lavoravo nell’azienda di servizio pubblico radiotelevisivo, in una fase «avveniristica» dei responsabili delle risorse umane, fu introdotta, anche se con ritardo di anni rispetto ad altre aziende, la prassi di sottoporre a un assessment ogni nuova risorsa umana da assumere. Incaricata di fare le valutazioni dei candidati era una giovane signora, al tempo molto rampante, che somministrava a tutti questi test con molta convinzione. Una volta, un amico con grande esperienza si era proposto per un progetto, ma al colloquio con la signora del personale, che lo avrebbe valutato se idoneo all’incarico, vide che lei tirava fuori la scatola delle macchie di Rorschach. L’amico si alzò come se avesse ricevuto un’offesa e la mandò a quel paese sbattendo la porta. Allora io ero d’accordo con lui… Pensavo fosse una vera cazzata mostrare delle

macchie d’inchiostro a un ingegnere che avrebbe dovuto occuparsi di un progetto informatico, e da quelle macchie stabilire se fosse adatto a svolgere l’incarico. Non avrei mai immaginato, prima delle mie diagnosi, che ci fosse un nome preciso per designare la mia attitudine ad avere affinità solo con persone definibili come «socialmente problematiche». Un problema ricorrente, che ho sempre avuto passeggiando per strada, è stato quello di «attirare i matti». Ricordo che è sempre stato lo spauracchio di mia moglie, che è molto apprensiva, al punto da esortarmi preventivamente a non guardare quando nei paraggi passava uno di quei soggetti che urlano, inveiscono e fanno stranezze. Ma fatalmente quel soggetto, anche se era dall’altra parte della via, veniva verso di me come se avessi una calamita addosso. C’è un aspetto del mio cripto (manco tanto) autismo che invece mi piace molto, perché non mi ha mai dato problemi, anzi mi ha sempre fatto molta compagnia: mi piace stare da solo e raccontarmi delle storie. Di storie me ne sono raccontate sin da bambino. Ora le racconto agli altri, ma allora che ero molto timido era il mio gioco preferito. Salivo su un albero e mi raccontavo storie di cui ero protagonista, belle avventure con scenari che costruivo servendomi di supporti concreti, come le foglie di quello stesso albero, la corteccia, le ghiande o altri frutti. Il mio videogame, infatti, era in prevalenza a componente vegetale. Vivevo in campagna e non era difficile raccontarsi storie con la faccia a terra, rasente ai cretti dei campi di pomodoro, nei tramonti d’estate in cui ci si poteva confondere tra gli odori decisi di quel bel terriccio rossastro e scaldato dal sole. Sento ancora l’aroma pungente dei gambi delle piante di pomodoro, l’odore aspro del verde che ti fa vibrare di solletico le narici, finché arrivava il profumo della polpa dei Sammarzano maturi, tutto concentrato nel loro culmine appuntito, come se da quella specie di beccuccio trapelasse quanto serviva per la rituale preparazione e imbottigliamento della salsa in quantità quasi industriale. Era l’oro rosso domestico, che sarebbe rimasto in dispensa assieme alle riserve invernali d’insaccati, strutto, cereali e quant’altro

occorreva alle bisogna di una famiglia molto allargata. Alla cerimonia dell’ammazzamento e smontaggio del maiale noi bambini eravamo d’impiccio e ci tenevano ai margini, però il lavoro sui pomodori era un’attività in cui eravamo coinvolti, e nei giorni seguenti ci avrebbe lasciato ovunque tracce di sugo semi-indelebili. Chissà perché, ma di tutto questo conservo un ricordo incancellabile, nemmeno avessi assistito agli esiti sanguinosi di una bomba esplosa in mezzo a una folla. Non saprei perché ora io mi stia dilungando sui pomodori. I vegetali evidentemente, ora come allora, mi forniscono più stimolo a essere osservati e ricordati che gli umani. È un problema? Giocavo con le piante come gli altri giocavano con i loro simili, mentre io avevo al massimo mio fratello. Vivevamo abbastanza isolati e ricordo i confini del giardinetto dei nonni come le colonne d’Ercole, oltre le quali c’era un mondo considerato pericoloso o inadeguato alla nostra età. Anche quando cominciai ad avventurarmi fuori di casa, non cambiò la mia attitudine a provare più interesse per le cose inanimate che per le persone. Continuavo a giocare con le piante, e ho combattuto guerre infinite schierando e massacrando, come fossero soldati, le foglioline carnose di crassula che erano nei vasi disposti sul muretto del terrazzo di casa di alcuni zii romani, quando venivo allontanato dalla campagna per respirare un po’ di aria della capitale. A proposito, mi ricordo l’odore della pizza bianca appena sfornata, che arrivava fino alle colonne del Pantheon dove si mischiava con l’aroma del caffè tostato proveniente dalla «Tazza d’oro» dall’altra parte della piazza. Oggi non si sente più, ma per me era quello il ricordo di Roma. Attribuisco ancora a molti oggetti una vitalità ispiratrice di storie. Anche se non è più un gioco, ci faccio caso solo ora che mi capita di classificare un mio possibile comportamento autistico. Faccio un esempio: mi è arrivata via WhatsApp una foto delle vacanze di Tommy, che è assieme a Bobone, Alberto e Jose, i suoi amici di sempre. Nella foto, i quattro sembrano aver espugnato un’antica torre sbilenca nella zona di Tharros. Forse, invece, è il rudere che sembra guardarli e sorridere, riconoscendoli suoi fratelli nell’asse eccentrico.

Quel relitto di bastione di guardia potrebbe essere il testone di un gigante di pietra interrato fino al collo, che li fissa da due feritoie che paiono piccoli occhi, un tratto diroccato gli disegna il naso e, alla base, i mattoni sbrecciati sembrano proprio una bocca aperta in un sorriso. Somiglia al «Gigante di ferro», il personaggio di un cartoon che ogni tanto Tommy ancora guarda. 1 È la storia di un bambino che diventa amico di un gigantesco automa, una sofisticata macchina da guerra che alcuni militari vogliono eliminare con le bombe atomiche, perché sospettano possa appartenere a potenze nemiche. Lo fanno a pezzi, ma il lieto fine è che i frammenti si ricompongono e il Gigante di ferro riprenderà vita. L’ultima sequenza del film è proprio la testona sbilenca dell’automa che, sepolta nella neve, si riaccende. Mentre il torrione li osserva, però, ognuno dei quattro ragazzi ha gli occhi rivolti verso un punto diverso dell’orizzonte; fa parte della loro natura non avere punti di vista omologabili. Ciò che attira gli sguardi autistici è invisibile alle nostre pupille annebbiate, corrotte per il continuo sforzo di mantenersi accordate all’unisono visionario. Potrei immaginare i quattro in un’isola sperduta, al culmine di una cima a picco sul mare, sulla duna più superba di un deserto sterminato. Qualunque luogo pensassi sono certo che lì starebbero bene, anche se desolatamente soli. Nella foto, almeno è chiaro e visibile il vuoto che hanno attorno per tutta la vita. È come se in questa immagine qualcuno avesse reso invisibili gli scenari quotidiani che circondano quei ragazzi; invece che tra quella sterpaglia salmastra potremmo vederli, con gli stessi sguardi divergenti, stare seduti in silenzio tra i banchi di scuola, a passeggio per le strade della loro città, stesi sul divano di casa, nella camerata del centro caritatevole che li accoglierà quando noi non esisteremo più. Nulla cambierebbe per loro, guarderebbero con interesse sempre e soltanto quel punto perduto nell’orizzonte remoto, ma sarebbero comunque soli come in quella foto. Il resto del mondo è sempre fuori campo, proprio come in quella foto, anche se continua a esistere. È il mondo fatto di gente che parla, si abbraccia, si cerca, si sfugge, si spia, s’invidia, si seduce, s’insulta, si confida, si conforta, si tradisce, ma sempre oltre un diaframma

trasparente dove gorgoglia il bulicame che a loro non appartiene. Noi lo vediamo e noi ne siamo coinvolti, loro lo attraversano come se fosse una scossa elettrica che pizzica sulla pelle. Della presenza leggera di quattro ragazzi balzani si è sicuramente accorta l’antica torre, forse perché è nata per essere sentinella. Magari non si ricorda più che il suo compito è avvistare i saraceni devastatori, c’è da capirla, da secoli può guardare solo le devastazioni che stanno avvenendo alle sue spalle, di cui quei ragazzi sono placidamente gli inconsapevoli esiti. Non si pensi che, perché ho un figlio autistico, la mia debba essere per forza una vita triste. Grazie alla presenza di Tommy e dell’indotto che si è creato attorno all’esistenza sua e dei suoi simili ho riflettuto molto in profondità, ho scritto, ho parlato, ho persino fatto un film. Ho molte occasioni di vedere persone che mi esprimono affetto e amicizia, e oggi mi rendo conto che forse lo apprezzo poco per il mio cervello differentemente programmato. Alla domanda che mi sento rivolgere spesso: «Ma a te che piacerebbe fare?», rispondo sempre che vorrei stare in un posto con Tommy. Entrambi dovremmo poter fare quello che più ci piace: io scrivere, parlare con persone curiose, con alcune di loro farmi qualche bevuta di Margarita e lasciarci stordire un po’. Poi di nuovo inventare, affastellare pensieri, scriverli, raccontarli, elaborarli. Intanto vorrei vedere Tommy sguazzare nell’acqua, in compagnia dei suoi amici balzani e più o meno nella norma, starsene bello beato a seguire le sue derive fantastiche sull’iPad. Una piscina e poter mangiare pizza, patatine e gelato fragola cioccolato… Poi penso che non ci servirebbe altro. È così, non posso farci nulla. Questo mi renderebbe forse sereno, più che la pace nel mondo e ogni altra utopica esposizione di virtù altruistiche. Tuttora mi chiamano a parlare di autismo ovunque, come se io avessi la formula per alleviare le afflizioni altrui, non so più cosa dire se non ammettere che ancora sono al punto di partenza per una soluzione accettabile per il futuro di Tommy. So benissimo che queste mie affermazioni creeranno delusione e disprezzo nei miei confronti, ma sono stanco di alimentare tabernacoli di rettitudine come quei principi reggenti che dovevano sempre mostrarsi in divisa e alamari

per mantenersi nel ruolo e non scontentare il popolo. Cari signori e signore che siete tentati di giudicarmi, volete capire che un figlio che resterà con le fragilità di un bambino per tutta la vita è come un’ombra nera che vi cresce alle spalle? Ogni giorno più densa e incombente. Alla fine esiste solo quello per voi. Forse quando scelsi quel nascondiglio in cui divido le mie ore più serene con Tommy, era già partito il conto alla rovescia per il big bang della mia vita di neurodiverso consapevole. Trovo irrinunciabile la sensazione di chiudermi una porta alle spalle e avere la certezza che nessun altro passerà per quella porta se non io quando la riaprirò. Questo mi permette di trovare, a distanza di ore e persino di giorni, sempre tutto congelato come la scena di un crimine. Nessuno ha toccato nulla, tutto è esattamente come io l’ho lasciato. È difficile spiegare cosa questo possa significare per chi non sopporta di vedere un asciugamano fuori posto o il tubetto del dentifricio senza il suo tappo. Non è stato facile, non lo è nemmeno adesso mentre scrivo, mi si creda. Non ha nulla a che fare con una fuga dai propri doveri, con la voglia di rifarsi una vita. Di tutti i motivi per cui le persone scappano di casa non saprei indicarne uno in particolare, forse li ho lambiti tutti, ma la vera ragione è soltanto una… Io non avrei mai dovuto pensare a farmi una famiglia, o per lo meno il mio cervello non è mai riuscito a gestire questa soluzione di vita come stabile e appagante. Penso che il miglior compromesso possibile sia proprio questo, la dislocazione emotiva in un altrove sensoriale e territoriale, oltre che mentale. Tommy me l’ha insegnato come medicina contro il sovraccarico delle presenze altrui, lui è la sentinella che presidia la mia quotidiana uscita dal mondo. Spero che questa fuga autistica non mi distragga troppo dal quotidiano e mi permetta comunque di poter essere sempre di più un buon padre, o per lo meno accettabile anche per il figlio maggiore Filippo, di cui anelo l’autonomia e l’affrancamento da ogni debito familiare, compreso il pensiero di doversi un giorno occupare del fratello autistico quando i genitori non ci saranno più. Filippo ama l’Estremo Oriente, ha vissuto mesi in Corea, ha visitato da solo il Giappone quand’era ancora minorenne, è proiettato verso la fuga in paesi differenti e si trova più a suo agio in

società diversamente strutturate rispetto alla nostra, non vorrei mai ostacolarlo ponendogli l’imperativo di farsi carico di un fratello così impegnativo. Ci penserò io per lui, e comunque farò in modo che almeno lui sia salvo dall’essere sorvegliante del proprio secondino. Ho conosciuto troppe situazioni in cui genitori di autistici hanno deliberatamente generato un altro figlio, solo per avere il conforto che possa essere lui a occuparsi del fratello disabile quando loro non ci saranno più. Scelta sicuramente imprudente perché, per evidenti motivi ereditari, quel secondo figlio ha forti probabilità di avere pure lui difficoltà simili a quelle del fratello, raddoppiando così il problema anziché risolverlo. Il vantaggio dell’ansia costante che procura il pensiero di Tommy è che mi crea una barriera invalicabile a ogni velleità, o tentazione, di pensare a ricostruirmi una vita personale in contesti diversi. È un pensiero che confesso di aver rimuginato in certi momenti di abissale sconforto, ma la sicurezza di non essere un soggetto neurodisponibile a questo percorso mi ha sorretto nell’idea che preferisco così, anche volendo non posso, la mia forma mentis mi porta verso una socialità limitata e più invecchio meno riesco a scendere a compromessi con le esigenze di esseri umani a me promiscui, che non sia un figlio naturalmente. È crudo, ma è così. La sfrontatezza di ammetterlo senza sensi di colpa l’ho pagata a caro prezzo, ma ora mi appartiene e su quella solo posso continuare a costruire, anche per Tommy e gli altri. Il punto che più mi colpisce di tutto questo è che se non avessi avuto l’esperienza intensa e cosciente del mio annullamento in un figliolo autistico, oggi magari sarei piombato nella depressione tipica della terza età, anche perché mi sa che oltre la soglia dell’inverno della mia vita ci sono quasi: inutile che faccia salti mortali, ho 64 anni. Posso sentirmi garzoncello quanto voglio, ma un giorno dovrò ammettere di essere sulla dirittura di arrivo della mia permanenza in questa dimensione dell’essere. In questi anni penso di essermi dedicato soprattutto al lavoro. Ho lavorato tanto, veramente tanto, perché mi sono costruito una professione, una credibilità, un’immagine pubblica contando

soprattutto sulla mia frenesia autistica dell’iperoperatività. Ho sempre solo lavorato. L’essere neurodiverso mi ha permesso di non pensare a quello che avrebbe potuto farmi piacere in alternativa al lavoro. Solamente ora, e studiando me stesso, mi accorgo di quante persone che nel loro operare professionale sembrano accaniti perfezionisti, in realtà hanno più cervelli ribelli che doti di alacrità e sacro senso del dovere. Per me il lavoro non è mai stato una fatica, piuttosto una medicina. Lavorare mi è servito a mantenermi in apparenza «normale», come le pasticchine rosa e bianche che prende Tommy ogni sera e mattina per non sbattersi e sbavare nelle convulsioni epilettiche. A volte immagino che sarò classificato come brutta persona per questa mia ambizione di vita isolata, anche se non mi importa granché del giudizio altrui; capisco da solo che la mia appare sicuramente come una soluzione sgangherata, trascorro un’esistenza da accampato ovunque mi possa trovare, eternamente in bilico tra quello che vorrei fare e quello che sono costretto a fare. È così però, non riesco più a fingere di poter vivere rilassato con altre persone sotto lo stesso tetto. Negli anni ho capito che i miei ritmi quotidiani mi rendono pesantissimo il dover armonizzare con le esigenze altrui, dal sonno alla veglia, al nutrirsi, al lavorare. Difficilmente ho fame quando gli altri decidono che sia ora di mangiare. Quando vedo sbadigliare attorno, per me inizia la fase più attiva mentalmente della giornata. Non sopporto più discorsi su come occupare il tempo libero, organizzare viaggi, vacanze. Da quando Tommy mi è complice, posso sempre dire a chiunque che ho da fare con lui, farmi compatire da chi va alle cene, alle rimpatriate tra amici, a interessantissime conferenze, fantastici concerti… Io posso, senza dare nemmeno più spiegazioni, declinare ogni invito, per poter finalmente chiudermi dentro, scrivere, leggere, pensare, guardarmi serie di telefilm a botte di sette-otto episodi per volta. Essere riuscito a conquistarmi quel lembo di spazio solo mio, che cerco da quando mi costruivo il mio nido sugli alberi, è la mia più grande vittoria. Ho lavorato una vita e penso di essermi meritato almeno settanta metri quadri dove ho condensato tutto il mio

universo, dai ricordi di quando ero bambino ai miei convulsi progetti per il futuro. Un futuro che inseguo mentre mi corre davanti agli occhi, e intanto che scappa mi divora il presente come se avesse una bocca da squalo al posto del sedere.

VIII

Una vita fondata sul lavoro

C’è da dire che nel lavoro ebbi fortuna. Iniziai a pensare a dovermi mantenere verso i trent’anni. Non mi si chieda perché così tardi… Nemmeno io lo so e nemmeno ricordo cosa fu la mia vita fino al giorno che decisi di laurearmi e andarmene di casa. L’unico ricordo che conservo è di tre decenni interminabili e vissuti in un’altra dimensione, in un mondo in cui non esisteva la stessa qualità del tempo che vivo attualmente. Ricordo la terra, le mucche e le galline legate alla prima infanzia. La nebbia pungente e l’erba gelata che scricchiolava sotto i piedi quando la mattina andavo a scuola. I pomeriggi d’inverno quando faceva subito buio, le sere d’estate sotto il pergolato con l’uva fragola. Ogni tanto, sopra ci si vedeva correre un topo e iniziava una caccia che coinvolgeva noi ragazzi, genitori e giovani zii. Uno di loro aveva una carabina Flobert, ed era il più fortunato in armamento, noi soltanto fionde, sassi e bastoni. Poi un’adolescenza interminabile, che è appunto finita quando avevo quasi trent’anni. Cosa ricordo? Un corso cittadino calpestato avanti e indietro milioni di volte. Stop, questo è il prima. Il dopo è iniziato quando la Rai mi assunse con un primo contratto, nemmeno io so come accadde. Fu per caso che capitai nel palazzo di vetro col cavallo. Accompagnavo una giovane cugina che doveva firmare un contratto: ero il parente campagnolo che veniva da Perugia e passavo per la Capitale per perfezionare i documenti necessari all’espatrio. Avevo vinto un concorso del ministero degli Esteri e sarei dovuto andare per due anni a Barcellona a fare il lettore di lingua italiana in un’università. Ero già nella mia fase di redenzione, dopo quel monotono, infinito vitellonaggio che mi aveva spalmato avanti e indietro a fare vasche sulle pietre antiche del corso Vannucci, il salotto buono dei perugini. La città natale era, almeno ai tempi della mia prima giovinezza, un bel ricettacolo di preti, massoni e burocrati del Partito comunista, che erano l’aristocrazia cittadina e vivevano in belle

ville in un bosco sopra casa mia che la gente chiamava «Il Kremlino». Poco avevo a che fare in quella città e andarmene era diventata la mia massima aspirazione. Ora, da autistico, penso che in qualunque posto fossi nato avrei avuto questa sensazione di estraneità. Dalla scuola elementare, alle gite da liceale, agli amici figli dell’humus cittadino… Mi sono sempre sentito un imbucato, un estraneo. Sempre una grande fatica per cercare di mimetizzarmi tra gli altri. Ricordo una mattina che arrivai a scuola vestito da Pierrot triste, con un costume che aveva cucito mia nonna ritagliando vecchie lenzuola: ero l’unico mascherato perché avevo sbagliato giorno, gli altri erano già seduti ai banchi con il loro grembiule nero. La maestra fece chiamare mia madre, che mi cambiò in mezzo alla classe dei compagni sghignazzanti. Fu un vero trauma. La mia prima festicciola a casa di un amico fu altrettanto disastrosa, la passai addossato a una parete sperando di poter scomparire in quella penombra artificiale, fuori c’era il sole ma le tapparelle erano state abbassate con intento strategico mentre facevano il ballo della scopa. Vedevo ragazzi e ragazze che si abbracciavano e mi rendevo conto che ero l’unico vestito in totale dissonanza con quella che era la moda del momento, che io ignoravo. Avevo il mio eterno maglioncino a strisce orizzontali bianche e nere, sembrava la casacca della Banda Bassotti quando sono in prigione, mentre gli altri avevano tutti vezzosi mini golfini verdolini o arancioni, sembravano in divisa. Io ero l’evaso con ancora indosso la divisa del carcere, il clandestino sbarcato da un paese lontano e ingrato, e anche se abitavo a cento metri da quella casa, mi sentivo l’orfanello chiamato per misericordia. A me mancava sempre un pezzo per essere come gli altri, o avevo qualcosa di troppo che gli altri non capivano. Ricordo con lucidità che quando parlavo mi impappinavo sempre, dicevo frasi arcaiche che facevano parte del mio lessico familiare, ero l’unico a non parlare in dialetto, ma nemmeno con quella cadenza tipica dei miei concittadini. Ero uno straniero anche nel modo di esprimermi e naturalmente questo creava ilarità e imbarazzo. Per non dire del mio rotacismo. Avere l’«erre moscia» negli anni delle mie scuole elementari era

considerato un handicap grave, quasi una colpa. Mi era stato inculcato il sospetto che dipendesse da una mia negligenza individuale aver fatto scivolare in gola quella consonante monovibrante alveolare. Le lezioni di corretta pronuncia mi erano impartite dalla maestra, con me in piedi davanti alla cattedra, con il resto della classe che mi derideva alle spalle. Io in prima elementare già sapevo scrivere e leggevo libri, ma rispetto ai miei coetanei analfabeti ero in difetto congenito per pronuncia atipica. Non ero assolutamente portato a nessun tipo di attività fisica o sportiva, non sapevo giocare a pallone: una volta mi misero in porta, presi una pallonata in faccia e mi uscì il sangue dal naso. Non correvo bene, ero imbranato o per lo meno tale mi sentivo. Il mio unico talento era salire sugli alberi, una sfida individuale che mi appassionava nei lunghi pomeriggi solitari. In particolare salivo fino ai rami più alti di un noce che affondava le radici in un fosso dove scorreva acqua di scolo di campi coltivati a grano o erba medica, a seconda degli anni. Immaginavo che tra quelle fronde fosse la mia casa, ci portavo libri e piccoli oggetti che tenevo in una scatola incastrata in una forcina tra due rami. A diciassette anni, per sfidare me stesso feci il corso da paracadutista e presi il brevetto all’insaputa dei miei. In seguito praticai anche attività sportiva, persino lanci in alta quota, e iniziai anche il lavoro relativo che consisteva nel saltare dall’aereo assieme ad altri e tenersi per mano in caduta libera. Le mie prestazioni erano sempre mediocri, ma lo feci per vincere la mia sensazione di inadeguatezza. Funzionò anche troppo bene; per un periodo della mia vita divenni molto sfrontato e bazzicai ambienti di destra, un po’ perché nella mia città era la parte più reietta, ma anche più intellettualmente vivace, in un’omologazione culturale che trovavo soffocante, e un po’ per cercare consenso nei confronti di mio padre, che era stato repubblichino e da piccoli ci cantava «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…». Trovai qualche buon amico nell’ala più intellettuale e filosofica degli eretici e cattivi, almeno mi fu utile per leggere molto e costruirmi l’idea che esistessero limiti valicabili della condizione umana, come

fessure in una grande muraglia nelle quali ci si potesse infilare ed entrare in un mondo luminoso. Di quelle letture improntate a realtà assolutamente dogmatiche, discipline metafisiche, filosofie magicoidealiste mi è restata per paradosso la leggerezza verso ogni idea preconcetta o pregiudizio possibile. Potrei vedermi sbucare un folletto da dietro un albero e non mi sembrerebbe strano, e posso immaginare o attribuire esistenza con la stessa indifferente sventatezza. Ancora oggi, se faccio un bilancio dei miei rapporti professionali, delle mie relazioni pubbliche e private, continua a mancarmi sempre un pezzo per riuscire a combaciare nell’incastro giusto, per diventare anch’io parte di quelle costruzioni sociali, che sembrano reggersi perfettamente su solidissime fondamenta e su cui tutti si adagiano come se fosse casa loro. Ecco, io mi sono sempre sentito un clandestino, tollerato forse perché dice cose divertenti e rompe la monotonia di quell’idillio, o, al contrario, rafforza i vincoli di sangue che uniscono gli altri tra loro omogenei. Mi sentivo destinato a non uscire mai da quei confini mentali e fisici. Immobilizzato a vita in un salottino come nell’Angelo sterminatore di Buñuel. 1 Però ebbi veramente fortuna, quella buona sorte che premia la sfrontatezza dell’incosciente. Quell’unica volta che entrai in un non luogo che nemmeno immaginavo esistesse concretamente come il palazzo di vetro e amianto della Rai di Viale Mazzini, incontrai in un corridoio la signora che mi avrebbe cambiato la vita. Una gentildonna padana di grande raffinatezza di pensiero che, in quegli anni, poteva ancora trovare credito e prestigio nella più importante azienda culturale del nostro paese. Era alla ricerca di rarità antropologiche, perché ogni anno doveva costruire una squadra di giovani risorse da sguinzagliare alla ricerca di stimoli che alimentassero il talk radiofonico quotidiano condotto dal direttore di rete, con cui aveva un rapporto simbiotico. Allora i canali di approvvigionamento delle redazioni erano, oltre alle segreterie dei tre partiti dominanti, le curie e alcune cattedre universitarie con docenti dai nomi altisonanti (ancora si attingeva dagli allievi di Asor Rosa, di Massimo Cacciari, di Ida Magli, prima che fosse messa all’indice, di Walter Pedullà, di Sabino Acquaviva). Non esisteva ancora la

disciplina universitaria di «scienza della comunicazione» e quindi si scritturavano filosofi, sociologi, letterati, qualcuno che veniva dal neonato DAMS , ma sempre con molto e giustificato sospetto. Io con questi non c’entravo nulla, ma nel disegno della signora sarei potuto essere uno di quegli elementi eterodossi che messi nel mucchio creano dinamica, detto in parole diverse avrei dovuto avere il ruolo del misero «asino ruffiano», quel povero quadrupede nella scala infima degli equini che è messo nel recinto per smuovere un po’ la giumenta in calore, solo il minimo di presenza per rendere più agevole la gloria dello stallone che scalpita nel box attiguo, pronto all’azione finale. Non ricordo cosa le dissi, ma fui esagerato e millantatore al punto che venni convocato per un successivo colloquio finalizzato a un possibile contratto. Mi ripresentai la settimana successiva. Un amico più vecchio di me mi prestò la sua ventiquattrore, quella dove metteva i dépliant della caldaie di cui era rappresentante. Era un uomo vissuto, vestiva sempre con giacca e cravatta e pare avesse molte amanti. M’istruì con un corso accelerato di una sera in birreria su come dovevo atteggiarmi per sembrare più professionale. Ricordo che studiai tantissimo l’abbigliamento, ma sbagliai tutto. Avevo dei pantaloni beige di tessuto molto leggero, sotto avevo messo mutande nere, e solo nel riflesso delle grandi vetrate all’ingresso con il cavallo morente mi accorsi che si vedevano in trasparenza. Io che a quell’età mi sentivo uno spaccamontagne, io che per sfida mi lanciavo con il paracadute, saltavo da auto in corsa per scommessa, facevo cazzate di ogni tipo, nel giorno fatidico della mia possibile entrata nel mondo dei «normali» avevo lo stesso problema che avrebbe potuto funestare la giornata di una fanciulla al primo appuntamento con il fidanzato. Ma poiché i paradossi mi hanno sempre accompagnato, cercai di mascherare l’oscena mutanda con la valigetta e salii al secondo piano. Quello fu il mio primo vero test, lo posso equiparare alla valutazione dello psichiatra. La signora faceva domande per me strane e prendeva appunti. Voleva sapere chi ero, cosa mi interessava, cosa sapevo, a cosa soprattutto avrei potuto esserle utile nelle dinamiche del gruppo che stava costruendo. Fui molto strafottente, ero sicuro di non avere chance alcuna, e quindi presi il colloquio come

una mia occasione di sberleffo verso un universo cui non mi sarei mai sentito di poter appartenere. Invece piacqui, perché evidentemente era una congiuntura felice, una di quelle fessure che ogni tanto si aprono nel corso della vita per richiudersi subito dopo. Sono porte aperte verso la possibilità di scegliere una variante di percorso. La maggior parte delle volte facciamo finta di non vederle, ma se ci capita di infilarci al volo in uno di quegli stargate, ci rendiamo conto che equivale a segnare l’inizio di una nuova fase dell’esistenza. Così fu per me. Mancava solo una malleva che definisse la mia appartenenza, come mi chiese senza perifrasi una funzionaria che mi telefonò qualche giorno dopo. Aveva ragione, venivo da una piccola università di provincia e non ero stato segnalato da nessuno. Rimediai scrivendo una finta lettera di raccomandazione a firma di uno zio arcivescovo che non ho mai avuto, e mi sembra di ricordare che il nome dello zio immaginario fosse quello vero del porporato di Bergamo, o giù di lì. Su quello che seguì m’interrogo ancora oggi: la mia raccomandazione era talmente paradossale da essere credibile? Fu messa nel mio fascicolo senza che nessuno si prendesse la briga di approfondire? Non lo so, ma sta di fatto che mi proposero il primo contratto di nove mesi: avrei guadagnato quanto mai avevo pensato di poter guadagnare in vita mia, anche se diciamo che partivo da molto in basso. Il primo giorno di lavoro, per farmi schiattare da subito, mi mandarono a fare una diretta davanti al carcere di Rebibbia, dove avrei dovuto intervistare parenti di detenuti incazzatissimi non ricordo perché… Mi sembrò facile, non avrei mai pensato di saperlo fare. Diventò quello il mio mestiere; nel frattempo avevo mandato un telegramma a Barcellona per dire che non sarei più arrivato. Fu la mia prima svolta. Lavoravo e lavoravo, e mi riuscì bene. Diventai una voce della radio nazionale, inventai un programma di successo di cui molto si parlò e su cui molti addirittura fecero la tesi di laurea. Fui assunto in pianta stabile, feci l’esame da giornalista professionista e mi fu riconosciuto il ruolo; entrai così nella casta più prestigiosa

dell’azienda, sempre da parvenu e senza un marchio d’appartenenza, ma ebbi culo. La mia passione per la nascente cultura di Internet, che ai miei colleghi non interessava, mi mise in una posizione di privilegio quando anche la Rai fu costretta ad accorgersi che era un campo di cui si sarebbe dovuta occupare. Divenni inviato speciale, poi caporedattore. Mi affidarono una struttura dedicata all’innovazione multimediale. Progettai e realizzai per la radio il primo portale Internet costruito su un Content Manager System, e fui odiato da tutti i passatisti torinesi dell’ICT aziendale, che insistevano a dire che Internet sarebbe stato sempre e solo testo, mentre invece io pretendevo di creare un sistema di pubblicazione di audio e video. Un anno dopo la Rai si sarebbe dovuta quotare in borsa e aveva bisogno di un portale Internet, a cui lavoravano in tanti e spendevano un sacco di soldi. Una volta al mese venivano a Viale Mazzini dei fantomatici «ingegneri russi» e mostravano delle proposte al top management dell’azienda, che non sapendo nemmeno di cosa si parlasse, si dilungava in disquisizioni sul tono di blu dello sfondo del sito. I russi prendevano appunti, salutavano, fatturavano e si ripresentavano il mese dopo. Un giorno il direttore generale di allora mi convocò: aveva saputo del mio lavoro alla radio e mi chiese se potevo collaborare a quel progetto. Chiunque avrebbe accettato senza condizioni, io da vero autistico dissi di no, a meno che mi avesse promosso direttore e mi avesse permesso di assumere tutta la banda di nerd che lavorava con me, finora con compensi pressoché simbolici. Mi cacciò dall’ufficio, ma una settimana dopo fui richiamato. Capii che ero l’ultima spiaggia e diventai direttore, con stipendio pantagruelico, autista, ufficio con divanetto e lampada di design con annesse due segretarie. La faccio breve. Con la mia squadra, e grazie alla copertura di un giovane amministratore delegato che ci credeva, realizzai il portale in tre mesi. Fu uno sforzo immane, ma riuscimmo a riunire tutte le reti e testate in un’unica area web. Un passo epocale per un brand che in rete era frammentato in mille repubbliche autonome. Poco dopo cambiò la scena politica e, come sempre accade, cambiò

l’azienda della tv pubblica. Internet non era più d’interesse vitale, ritornarono a esserlo comici e ballerine. Il nazionalpopolare riprese il sopravvento e il portale doveva essere solo la vetrina della tv aziendale, tutt’altro che quel diffusore di alfabetizzazione digitale che avevo immaginato nella mia idea editoriale. Oggi, leggendo i risultati di uno dei tanti test, mi rendo conto che chiunque avrebbe compreso in tempo che sarebbe stato più utile annusare l’aria cambiata, mediare, cercare alleati, trovare consenso. Io continuai a lavorare come se fossi un sopravvissuto giapponese nella giungla, ma non avevo capito nulla. I primi a mollarmi furono proprio quelli che pensavo miei alleati, i ragazzi che avevo assunto, i giovani scapestrati e nerd che avevo portato dentro l’azienda pubblica per contaminarla con i loro cervelli ribelli… Erano stati tutti assorbiti dal sistema, parlavano in aziendalese, giravano in cravatta, soprattutto avevano capito che, nelle regole non scritte del galleggiamento professionale, io ero ormai una barca che stava affondando e quindi da abbandonare in tutta fretta. Per me non ci fu più posto, anzi rischiavo di diventare fastidioso. Non capii l’aria, m’intestardii a mantenere posizioni e fui espulso da quel sistema. Non solo: siccome provai a resistere, su di me fu compiuta un’operazione mirata allo sterminio della memoria. Non faccio la vittima, me l’ero cercata. Però fu veramente una cosa brutta, che comunque segnò la seconda svolta.

IX

La mia storiaccia

La segretaria sospesa sui tacchi e sorridente mi fece accomodare come se niente fosse. A destra, sul divanetto, il giovane presidente con l’anello dell’hobbit al dito stava a testa bassa, forse immerso nei sogni tolkieniani. L’anziano amministratore delegato sorrideva dietro la scrivania, con il fantoccio di un samurai armato traballante alle spalle, nel vano della finestra. «Sono spiacente di doverti consegnare questa lettera.» Riconoscevo bene lo stile, perché ne avevo ricevute di simili nelle settimane precedenti ed erano tutte contestazioni pesanti per minuzie di lavoro o addirittura per nulla, dai toni sempre aspri e fastidiosi. Questa, però, capii subito che rappresentava il colpo finale. Lessi dalla prima riga che si faceva riferimento al sito del mio famosissimo programma alla radio e pensai che mi avrebbero colpito al cuore. «Capisci, ci sono link che vanno a siti pornografici e addirittura pedofili.» «Siete impazziti?» replicai. «Ma dove stanno? Fatemeli vedere!» «Cercali, cercali, ché ci sono.» L’ad era trionfante mentre il giovane hobbit presidente continuava a tenere gli occhi bassi seduto sul divanetto. «Hai messo i disegni del Lego porno con un pisello lungo così, bel servizio pubblico!» E l’ad elencava le sconcezze cui si arrivava partendo dalle pagine di molti anni prima, che contenevano le puntate del mio programma. «Poi c’è un link a Rocco Siffredi che apre una pagina con un’inculata in primo piano, poi c’è un link che va ad altri siti pornografici, poi c’è un messaggio in inglese che porta a un sito pedofilo…» e sorrideva. «Pedofilo? Sei impazzito?!» Ma a quella parola capii che mi avevano incastrato di brutto. Mi sentivo come quello a cui qualcuno ha infilato la bustina di droga in tasca e capisce che è stato fatto fuori.

Già, ma nei film alla fine la giustizia trionfa. Da come si stava mettendo, invece, ero sicuro che se quella trama prevedeva un morto, quello sarei stato io. L’avvocato a cui mi rivolsi mi disse che non mi dovevo fare illusioni, sarei stato licenziato. Infatti ero fritto. Più andavo avanti e più ne ero certo. Le accuse, una volta circostanziate, in sé erano ridicole, ci avrebbe riso qualunque essere pensante con minime cognizioni di Internet, ma naturalmente, da come erano state poste e da come erano state presentate ai vertici Rai prima della contestazione, io sembravo un pericoloso maniaco. Il dossier che mi accusava era la stampata di decine e decine di pagine hard di siti Internet con cui non avevo naturalmente nulla a che fare, ma la tesi semplificata al massimo diceva semplicemente che a questi si arrivava dal sito del mio programma radio, quello su cui erano state fatte le tesi di laurea, come dicevo, e che rappresentava il primo esempio di crossmedialità nell’azienda pubblica. Che poi, per arrivare alle pagine zozze, occorresse passare per link di vecchi siti free cambiati negli anni, o che in altri casi fossero contenuti in un messaggio di spam del commento anonimo in un blog, era troppo oltre le possibilità di analisi di chi mi aveva preventivamente condannato. Ero un maiale e gettavo disdoro sull’azienda, perciò fuori e alla svelta, e se non se ne va, lo si denunci e sputtani a sangue. Anche se del sito Rai si occupava più di un centinaio di persone, io ero il direttore, e quindi la colpa era solo mia. Ero fino a quel momento convinto di essere considerato in Rai una delle punte più creative dell’innovazione digitale, avevo scritto il primo progetto editoriale per la realizzazione di un portale Internet unico per tutta la Rai, ero stato mandato a parlare a nome dell’azienda persino al Forum Internazionale dell’Onu sulla televisione a New York, potevo mai ora essere immaginato veramente come il responsabile materiale di link a siti zozzi nelle pagine del portale che gestivo come direttore? Avrei dovuto essere un aspirante suicida se ce li avessi messi di proposito, ma nessuno si fece la domanda perché alla fine nessuno si oppose quando fu reclamata la mia testa. Quando mi ripresentai accompagnato dall’avvocato,

l’amministratore delegato prese a sciorinare beffardo le sconcezze che aveva diligentemente raccolto e chiuso in una cartellina blu: «Ecco qua siti porno, i maggiori motori di ricerca di materiale osceno, che riconoscono la lingua di chi ci va e rispondono pure in italiano, poi siti con donne nude, e cose che vi risparmio, poi il Lego porno… Questo sarebbe servizio pubblico!». Chissà perché, pensai, si era fissato con un sito di pupazzetti Lego osceni, che faceva solo ridere. «Già, bel servizio pubblico!» A fargli eco il loro avvocato, che avevo ignorato perché mimetizzato in un completo pesantissimo di tweed peloso e marroncino-beige orrendo, con cravattina della stessa stoffa e camicia pesante di flanella a quadri. Insomma, era talmente vestito male da essere più inguardabile dei piselli in primissimo piano che mi sventolava sotto il naso. Lo fulminai facendogli capire che la sua ironia era fuori luogo, e lui si vendicò stritolandomi la mano al momento del commiato. C’era poco da girarci intorno: in quei giorni nessuno mi rivolgeva la parola, i miei dipendenti compresi, ai piani alti nessuno volle ricevermi, per tutti ero morto. Dovevo decidere a quel punto se avventurarmi in una battaglia legale e fare di quella storia un caso pubblico, ma l’avvocato mi disse che sarebbe comunque durata anni e non valeva la pena di combattere per poi essere messo in una stanza a fare nulla. Tra l’altro, data la scabrosità della materia di cui sarei stato chiamato a rispondere, non avrebbe per nulla giovato alla mia immagine insistere, trattandosi di accuse che sporcano solo a parlarne. Mi consigliava di negoziare piuttosto un’uscita dignitosa come mi era stato proposto e ricominciare altrove, perché quello non era più un posto per me. Nel frattempo mi ero dato da fare, avevo ripreso contatto con un bravo collega direttore che stimavo e mi stimava. Stava rinforzando la squadra del suo giornale con una campagna acquisti di nuove firme. Ci parlai e mi propose un’assunzione: avrei ricominciato a scrivere, ma soprattutto mi sarei lasciato alle spalle quel verminaio. Così, chiusi in pochi giorni la mia gloriosa storia professionale di vent’anni, anche perché le formalità furono sbrigate in tempi velocissimi. Cominciarono a fioccare voci, che mi venivano riportate dalle poche

persone che ancora mi dimostravano solidarietà. Si diceva che facessi messe nere, che andassi davanti alle scuole a fare foto ai bambini, che sarei stato misteriosamente convocato dal cda Rai sull’argomento, seduta durante la quale il mio avvocato avrebbe alzato le braccia dichiarando l’impossibilità di ogni mia difesa: «Nemmeno l’avvocato se l’è sentita di difenderlo!!!». A me sembrava assurdo, ma tutti vollero crederci, e se incontravo dei colleghi per strada, facevano finta di non conoscermi, mia vicedirettrice compresa, dalla quale non ricevetti più nemmeno una telefonata, dopo cinque anni di lavoro quotidiano al mio fianco. Di lei ci rimasi particolarmente male perché la consideravo un’amica e ci conoscevamo da almeno un ventennio; tra l’altro io la difesi quando in uno dei tanti cambi di stagione politica mi fu velatamente consigliato di favorire una sua giubilazione. Anche la quasi totalità dei miei funzionari, collaboratori stretti, grafici e sistemisti che avevo fatto assumere e con cui lavoravo gomito a gomito, scomparvero. A tutti loro però, che erano i soli che materialmente potevano intervenire e pubblicare sui siti Rai, nessuno chiese o contestò nulla. Presi l’unica decisione possibile e tutto durò un attimo: negoziai con pochissimi margini la cifra d’uscita e firmai la lettera che mi misero davanti. L’appuntamento per la procedura finale fu in un baretto d’angolo a metà strada tra la sede Rai e casa mia: ci sarò passato davanti milioni di volte nel corso degli anni, senza mai immaginare che sarebbe stato teatro della mia «degradazione». Ci siamo visti con l’addetto del personale che mostrava velleità da elegantone smart in un penoso tentativo di sciarpetta celestina annodata al collo, con un cappio che mi pare fosse di moda in quel periodo. Per essere più trendy ed esaltare l’accessorio sbarazzino era senza cappotto, in giacchetta e pullover. Faceva un freddo bestia e l’eco remoto dello tsunami, che in quei giorni aveva falciato decine di migliaia di persone nel Sudest asiatico, rendeva ancor più grottesca quella mise arrangiata. Dovevo restituire il tesserino magnetico e il cellulare, che equivalgono al distintivo e alla pistola che vengono richiesti nei telefilm d’azione a ogni poliziotto radiato dal corpo per una congiura

ordita per metterlo fuori dai piedi. Equivalgono alle mostrine divelte e alla spada spezzata nella cerimonia di degradazione dell’innocente Dreyfus pronto a salpare per l’Isola del Diavolo. 1 Siamo dovuti anche andare a fare le fotocopie di un mio documento e del codice fiscale alla copisteria di fronte al baretto, era la prassi. Come siamo usciti di nuovo in strada, mi sono preso una cacata di storno dritta in testa. Lui ebbe a dire che portava fortuna. Il cielo era nero di voli sinistri di uccelli e di nuvole residue di tsunami che si addensavano sul mio capino fortunato. Il giorno seguente il mio ex autista mi portò a casa lo scatolone con le cose che avevo lasciato sulla scrivania. Era la mattina dell’antivigilia di Natale. Il 25 dicembre 2004 ogni traccia di me era stata cancellata dal sito della Rai. Come se non fossi mai esistito. Quando me ne accorsi aprii un blog personale: «Il Golem scomparso». «Golem» era il titolo del mio storico programma, ma anche il simbolo della mia passione per la tecnologia, poiché il Golem è il primo esempio di automa che svolge funzioni umane. Su di me si era pure scaraventato l’anatema classico per cui ogni Golem alla fine annienta il suo incauto creatore. Inaugurai il nuovo blog con un post dal titolo Levità dello scomparire, al quale affidai questo pensiero, ancor oggi visibile benché sepolto in una delle tante fosse comuni digitali: È una sensazione d’impagabile leggerezza l’essere scomparso da ogni luogo ufficiale dove da anni e anni depositavo idee, pensieri, incubi e parole. Scorrere un elenco di nomi e accorgersi che la propria faccia e la propria biografia sono scomparse assomiglia a un’esperienza di premorte. Vale a dire quel volteggiare sopra il proprio cadavere in piena coscienza che spesso raccontano gli scampati da terribili sinistri. Pazienza, questo non m’impedirà di continuare a esprimermi e a definire una nuova qualità del tempo che da quel momento in poi avrò a disposizione.

Il 4 gennaio 2005 il pubblico affezionato si aspettava di sentire la mia voce come da oltre dieci anni, ma la radio trasmise al posto mio Corazón espinado di Carlos Santana. Mia moglie mi regalò una tessera

dell’autobus e mi disse: «Bentornato alla vita normale!».

X

Prima di Tommy Ho tirato fuori con molta fatica la mia storiaccia, ma fa parte integrante di quello che facevo prima di occuparmi di Tommy, e a volte non riesco a capacitarmi di come sarebbe potuta essere la mia vita se non ci fosse stato quel violento cambio di percorso. Si provi comunque a immaginare come ci si possa sentire a dover digerire una vicenda del genere con la consapevolezza di essere vittime di un torto immenso, ma senza speranza di ricevere solidarietà e giustizia: ci si sente stuprati e con la sensazione che tutti siano complici di quello che hai subìto. L’ho voluta riportare qui perché sono stanco di dovere ancora oggi avvertire che cala l’imbarazzo intorno a me quando aleggia un riferimento a questa lontana vicenda, quasi avessi fatto qualcosa di vergognoso e indicibile. La storia è crudamente quella che ho raccontato e c’è ben poco da aggiungere. Nei quattordici anni che sono passati, la mia improvvisa, quanto misteriosa, uscita dalla Rai sembrò paradossale soltanto a un dirigente della stessa azienda, che tre anni dopo ne fece una ricostruzione onesta e dettagliata dedicandogli un intero capitolo di trenta pagine del suo libro sui «fatti e misfatti della tv di Stato». 1 Non fu per niente tenero quando scrisse della stessa Rai: Questo atto omertoso mi preoccupa molto, perché potrebbe significare che in certe circostanze può scattare una procedura non scritta, ma condivisa, che elimina

un

dipendente

senza

lasciare

traccia,

mettendo

la

vittima

nell’impossibilità psicologica di reagire.

Pensavo che, dopo questo, sarebbe esploso il mio caso, ma non accadde nulla. Di quel libro sono state vendute ventimila copie, e mai qualcuno mi chiese spiegazioni. Dall’autore nessuno pretese smentite o rettifiche. Per me è acqua passata, necessariamente lo è, anzi chissà perché

quella vicenda remota, vista con gli occhi che ho oggi, mi sembra uno dei segnali premonitori di quello che avrebbe poi condizionato l’ultima fase della mia esistenza. Ho subìto un sopruso infame, ma l’ho archiviato tra i disastri emotivi che mi sono procurato negli anni, e la loro conseguente ricaduta nella mia vita concreta, esperienze che mi testimoniano quanto sia per me drammaticamente difficoltoso costruirmi delle zone protette nella società degli uomini. Oggi penso che questo accada quando si offre agli altri la costante impressione di essere radicalmente diversi, anzi sicuramente «strani» rispetto alla maggior parte delle persone che sembrano legate tra loro da un’istintiva complicità, data dall’appartenenza a un’umanità omogenea. Il mio lato atipico onestamente non l’ho mai nascosto, anzi l’ho usato come fosse la mia arte marziale: questo probabilmente mi ha reso la vita difficile, ma almeno ho vissuto. Ho ritrovato la prima scheda di valutazione che mi fece la famosa signora del mio esordio in quell’azienda vent’anni prima del «rigetto». In quel foglietto che riuscii a fotocopiare da un archivio molti anni fa era scritto: Tipo strano, provinciale, arrabbiato. Tende alla cultura dell’effimero e dichiara scarso interesse per le attività sociali. Possiede una verve torrentizia.

Insomma sembravo uno strambo, parlatore compulsivo e per nulla interessato alla concretezza nella percezione del prossimo. La gentildonna di gran classe e appassionata di teatro mi aveva già quasi fatto la diagnosi. In altre parole, un «cervello ribelle» sulle prime può anche apparire interessante, forse qualcuno nel mainstream neurotipico in buona fede può addirittura pensare che dall’estrosità si possa trarre vantaggio, ma è nella durata di un rapporto nel tempo che si crea la divergenza e l’incompatibilità viene a galla, per quanto ci si possa sforzare. Come capita a me di sentirmi circondato da perplessità, sospetto, circospezione, sicuramente accade qualcosa di simile in chi si sente osservato, soppesato, messo in imbarazzo, offeso, ridicolizzato o sottostimato da una persona senz’altro disattenta nell’applicare le

procedure fondamentali che comunemente regolamentano i rapporti sociali e le relazioni. Non riesco a immaginare senza dolore quella che potrà essere una sensazione simile nella costante e quotidiana percezione del prossimo in una persona come Tommy, che probabilmente sente tutto quello che provo a descrivere come mia sensazione, ma accelerato all’ennesima potenza rispetto a me. A differenza di me, non ha strumenti per verbalizzare, elaborare e mettere a punto strategie adattive. Infatti Tommy sbarella, si chiude le orecchie, sfarfalla, comincia a sudare, s’incazza e salta sul divano sfiorando con la testa il soffitto e, qualche volta, mena. Mi rendo conto di essere stato capace di accelerazioni incredibili, sia in entrata che in uscita dalla mia fase di massimo adattamento sociale. Ho raggiunto traguardi professionali notevoli, eppure non ho consolidato rapporti e relazioni che mi permettessero di conservare o far evolvere le condizioni di privilegio che avevo in maniera rapidissima conquistato. Mi chiedo ora quale sarà mai il segreto dei tanti che riescono, senza incontrare le mie difficoltà, a costruirsi una dignità professionale e a incastrarsi nel complicato sistema delle liturgie aziendali. Vedo ora persino con occhio diverso il personaggio simbolo della classe dei subordinati che è il ragionier Ugo Fantozzi. È superficiale considerarlo una semplice vittima della malasorte perseguitato dalla «nuvola da impiegato». Fantozzi è un disadattato sociale, è ragioniere perché la sua epopea è ambientata in un periodo antecedente all’informatica, altrimenti oggi sarebbe un programmatore, un nerd attempato; invece che guardare la partita in tv, seguirebbe serie di telefilm di fantascienza; invece che giocare a battaglia navale in ufficio, farebbe giochi di ruolo online con i colleghi. Con i quali comunque non riuscirebbe a legare, perché lo considerano «lo strano», infatti lo bullizzano restando sempre e comunque sodali tra loro. Fantozzi non gestisce le sue emozioni, non decodifica l’infamità di Filini, di Calboni, nemmeno quella della signorina Silvani, che di «Fantocci» si approfitta, contando sulla passione irrazionale, folle e infantile che prova per lei. Fantozzi è goffo nei movimenti, incapace di

coordinazione, e quindi inabilitato a qualsiasi forma di sport o attività fisica. Fantozzi veste sempre uguale con abiti fuori dal tempo, ha una giornata scandita da azioni rituali sempre identiche compiute secondo una tabella oraria rigidissima, dal risveglio, alla colazione, al lavarsi i denti, alla sosta in bagno, al vestirsi e al tentativo di prendere l’autobus al volo. Fantozzi ha persino selettività alimentare nella sua passione quasi compulsiva per la «frittatona di cipolle». L’unico suo superpotere è fare di conto. Quando in una delle sue disavventure 2 decide di sostenere la prova di ammissione per «l’unico ambitissimo posto di aiuto del vice corruttore laterale mafioso», è però costretto a falsificare i documenti, tingersi i capelli e mettersi il busto perché il limite d’età è trentacinque anni. Nell’aula d’esame piena di ragazzi che smanettano al computer nessuno sa risolvere un impossibile problema di «contabilità nera», solo Fantozzi ci riesce, usando unicamente carta e matita, ma sarà comunque cacciato con vergogna perché il sudore per lo sforzo gli fa colare in faccia la tintura nera per capelli utilizzata per simulare gioventù. In ogni caso, in campo matematico è un fuoriclasse rispetto a tutti quei giovincelli, da bravo ragioniere o da bravo Asperger? Chissà… Sta di fatto che soltanto ora che ho fissato questo pensiero mi ricordo che, dal primo giorno in cui misi piede nello studio da cui scrivo, sull’etichetta del campanello apposi la dicitura «Rag. Ugo Fantozzi». Ancora oggi i venditori truffaldini di forniture elettriche o di gas, quelli che ti chiedono di visionare l’ultima bolletta e ti ostentano un badge fasullo, mi salutano con un radioso «Buongiorno, signor Fantozzi, ci manda l’Enel Gas per controllare la sua utenza!». Fu per l’incubo di poter diventare un Fantozzi che lasciai casa quasi trentenne. Fuggii dalla città d’origine e mi buttai in un mondo con il quale non potevo assolutamente essere compatibile. Mi ritrovai dopo vent’anni ufficialmente rigettato, con un tentativo di annientamento che, per quanto ho potuto sapere, non aveva precedenti nemmeno in ambienti altamente competitivi come quelli da me frequentati. Sarei dovuto uscirne distrutto, se non altro per aver subìto un’ingiustizia di quella portata. Adesso non mi pongo più la

questione del perché o del percome sia potuto accadere: ero un cervello ribelle e non avrei mai dovuto cedere alla lusinga di entrare nelle stanze del potere. Per sopravvivere bisogna sapersi destreggiare in banalissime strategie sociali; per farlo, però, è necessario essere governati nelle proprie azioni da una mente rigidamente neurotipica. Non lo dico con disprezzo, ma è come se avessi deciso di fare il funambolo e soffrissi di vertigini. Non potevo che schiantarmi. Insomma, anche in un ambiente di lavoro che richiede estro e creatività, non riconoscendo le regole non potevo sfuggire al mio destino di essere colpito dalla malefica nuvola fantozziana, mentre per chiunque altro il cielo era sereno. Il primo ventennio dopo la mia marcia su Roma fu comunque molto stimolante: da quando lasciai la città d’origine, riuscii a progredire in maniera fulminea nel lavoro, mi sono sposato, ho fatto due figli, ho prodotto pensiero e immaginario. Ho dato il massimo usando la mia parte torrenziale dovuta al fatto di essere nello spettro. Ora so che non avevo altra maniera per compensare il disagio che mi procurava l’incomprensibile pensiero altrui. Parlavo e raccontavo; se non avevo da raccontare, elaboravo pensieri costruiti su frantumi di ricordi, che spumeggiavano come l’acqua nella bottiglia, quella con il tappo bianco con la guarnizione di gomma arancione che si chiude col ferretto, in cui negli anni Sessanta si versava prima l’acqua del rubinetto e poi le polveri dell’Idrolitina. Fuffa gassata per ricostruire fittiziamente l’idea astratta della fonte sorgiva. Questo esattamente ero io, un fittizio bizzarro; più che altro manierista del velleitario in quanto «provinciale arrabbiato». Ogni volta che mi capitava di tornare a Perugia a visitare la mia famiglia, mi scontravo con l’ironia rancorosa di mio padre, che non mancava occasione per impartirmi la sua personalissima benedizione: «Adesso che hai imparato a mettere due parole in fila, chi cazzo ti credi di essere!». Mi ci vollero anni per capirlo, ma alla fine arrivai alla lucida conclusione che mi sarei dovuto liberare della mia famiglia d’origine. Era un peso insopportabile vivere contemporaneamente la loro

esistenza, che mi congelava nel passato, e la realtà che mi ero costruito: una famiglia mia, un lavoro e una vita sociale che mi portavano a essere diverso da come mi avevano conosciuto negli anni della mia infanzia e giovinezza. Ogni ritorno nella mia casa natale mi procurava la soffocante sensazione di rientrare in un paradosso temporale, in cui tutto era restato immobile. Nulla cambiava, anche le crepe nell’intonaco della mia cameretta erano le stesse di quando frequentavo le scuole medie e passavo le giornate a giocare con il Lego, che sicuramente non era quello con i pupazzetti priapici per cui venni in seguito accusato di ignominia. Non ne potevo più del pelo dei gatti di mia madre che restava attaccato ai vestiti per giorni e giorni, dell’odore di cucina che era lo stesso che mi aveva accolto ogni giorno all’ora di pranzo e cena per i primi trent’anni di vita immobilizzata. Soprattutto era diventato per me insopportabile dovermi mettere sempre in atteggiamento di difesa ogni volta che tornavo a casa, senza mai capire quale fosse la mia colpa di «disattenzione» alle questioni dei genitori e fratelli, sempre foriere di litigi, paradossi, fecce ancestrali. Tra l’altro si cominciava a presentare il problema Tommy, che sempre con maggiore evidenza era un bambino con gravi difficoltà di comportamento e che, soprattutto, quando aveva già passato le scuole elementari non parlava ancora. Il sottotesto era sempre lo stesso: io me n’ero andato da casa e non mi ero più occupato dei problemi dei miei genitori; in fondo ero stato molto più fortunato dei miei tre fratelli minori che ancora ruotavano attorno a papà e mamma. Di norma arrivavo con figli e moglie, si mangiava assieme e, appena mangiato, c’era sempre un pretesto per iniziare a litigare. Io urlavo un po’, poi rimettevo tutti in macchina e ripartivo alla volta di Roma. Il magone mi durava anche intere settimane, in cui passavo le notti a rimuginare sul paradosso di una famiglia che ti considera un estraneo solo perché non vivi più con loro a divorarti l’anima, per infelicità sedimentate in almeno tre generazioni precedenti, sotto il tetto sgangherato che avevi sulla testa da quando eri nato.

L’ultima frase che mi disse mio padre fu: «Allora mandami in galera!», durante una lite feroce con tutti i miei fratelli su questioni patrimoniali. Dopo poche settimane morì, aveva un problema cardiaco. Non mi feci vivo con nessuno e la mattina che lo seppi andai comunque a lavorare. Conducevo un programma in diretta tv, oltre che la quotidiana trasmissione radiofonica, e nessuno si accorse di quello che mi era successo. Saltai funerali, esequie, incontri con parenti. Insomma, tirai giù la saracinesca su tutto quello che avevo vissuto nella prima fase della mia vita. Nessuno più mi cercò e nessuno più io cercai. Solo quando, come ho già detto, mi scrissero tramite avvocato che serviva la mia firma per ritirare le ceneri del babbo morto, mi ricordai che avevo ancora una sua lettera autografa, dove esprimeva la sua volontà di essere cremato e sparpagliato in un campo coltivato. Quella lettera me la fece recapitare aperta da mio figlio Filippo, che al tempo aveva undici anni e, com’era prevedibile, la lesse e ne fu veramente scosso. Allora pensai con rabbia che mio padre avrebbe potuto darla a me personalmente, evitando così di turbare un bambino, ma solo adesso mi rendo conto che sarebbe stato impossibile, perché non avevamo un rapporto tale che gli permettesse un gesto simile. Ancora però non mi spiego perché ci teneva che l’avessi. Forse ne avrà mandate tre simili anche ai miei fratelli e quello era il suo concetto di giustizia: avrà voluto distribuire una bella cucchiaiata di angoscia a tutti, ma di sicuro la mia era doppia perché rafforzata dall’afflizione di Filippo. Non ho più avuto notizie di nessuno, e sono ormai passati sette anni. Vivo a un’ora e mezzo da mia madre e da tre fratelli, e tra noi non esiste nulla, solo il minore un anno fa mi inviò una mail piena di livore con allegata la foto del cadavere di nostro padre. La conservo, ma non l’ho mai più aperta; non riesco a pensare cosa potesse aver scatenato un odio così primordiale in una persona che ho visto nascere e a cui non ricordo di aver mai fatto nessun torto. La trappola è proprio farsi domande su quello che non capiamo degli altri: non posso più addentrarmi nei sospesi del passato, ho troppo poco tempo davanti e devo pensare a che sarà di Tommy dopo di me. 3 Chiusa la parentesi e tornando alla mia vita romana, come ho detto

sopra, dopo aver fatto lo sbaglio di entrare nella camera alta del sistema, e la caduta vertiginosa di tutto il castello che mi ero costruito, in maniera anche traumatica ho ricominciato da capo, pur non avendo ancora capito che il problema era tutto nel mio non saper decodificare i sentimenti degli altri nei miei confronti. Come non sono riuscito a sentirmi parte della mia famiglia e mi sono accorto alla fine di essere vissuto sempre tra persone con cui condividevo una totale estraneità, per lo stesso equivoco ho pensato che mi fossero amici dei colleghi che poi si rivelarono infami, sbagliando ogni valutazione, ogni scelta, ogni decisione. E pur avendo costruito una carriera fulminante vendendo bene la mia frenetica attività d’inventiva, ho sempre fallito ogni genere di rapporto, che probabilmente avrei gestito con minori problemi se fossi stato neurotipico al cento per cento. Alla dipartita dalla Rai seguì un altro decennio niente male, tutto sommato; furono per me gli anni della ritrovata sventatezza. La mia regola di vita s’ispirava alla formula del cocktail Margarita: dopo tanto rigore e grisaglia aziendale, mi sono sentito di nuovo ragazzo, ho vissuto un po’ meglio la mia vita, ho esplorato nuovi campi d’interesse come gli universi condivisi generati da computer, una bella esperienza d’immersione nell’inconcreto mondo di Second Life attraverso un mio avatar. 4 Mi feci cavia per sperimentare e scrivere di come la dopamina e altri neurotrasmettitori si attivino anche nelle relazioni elettronicamente mediate. Ero convinto che uno stato comune di euforia, di felicità, una propensione all’innamoramento romantico e sensuale, potessero essere provocati in Second Life dalla deprivazione sensoriale, uno stato che era indotto in chi condivideva un ambiente artefatto e costruito dal computer. Osservavo in me e in altri che passavano, come nulla fosse, ore e ore in quella realtà immersiva, effetti simili a quelli di una sostanza che stimolasse la dopamina, fondamentale per l’umore e l’emotività. Mi presero per matto, naturalmente, ma anni dopo le stesse intuizioni sono state alla base di analisi sugli effetti dei social network. Secondo Kristen Lindquist, docente di psicologia presso l’Università di Chapel Hill, in North Carolina, ogni volta che riceviamo un «Mi piace», o un retweet, il nostro organismo rilascia una piccola scarica di dopamina, ancora

una volta il neurotrasmettitore che viene coinvolto nei fenomeni di dipendenza. Così il nostro bisogno di social-gratificazione cresce nel tempo, esattamente come accade a un cocainomane, o come convenzionalmente accade in una fascinazione amorosa. 5 Venne il giorno che fui costretto a tornare con i piedi per terra e abbandonare le mie riflessioni sulle aggregazioni sociali in ambienti inconcreti. Come un temporale improvviso si è manifestato Tommy nella sua fase adolescenziale. Mi ha richiamato a un dovere paterno atavico e antichissimo, dovevo aiutarlo a uscire dalla condizione di bambino. Qui è cominciata la nuova fase della mia vita, non è detto che sia l’ultima, ma non penso che me ne restino poi molte altre… 6 Il tempo passa e quel gigantone riccioluto è diventato il metro con cui prendo le misure del mio prossimo, della mia giornata, della maggior parte dei miei pensieri. È come se avessi un gemello siamese attaccato addosso, che, invece di essermelo trovato accanto dalla nascita, mi è spuntato dalle ossa già bello grande quando mi trovavo in età avanzata. Mi ha cambiato molto avere quattro gambe, quattro braccia e due teste. È come se fossimo uno di quegli animali fantastici di Hieronymus Bosch costruiti da surreali simbiosi. Ora, però, Tommy è cresciuto. Ha passato il traguardo della maggiore età, per paradosso non è nemmeno più definibile come autistico dalla psichiatria, che tratta l’autismo solo come un fenomeno infantile. Così si deve ricominciare tutto da capo, rifare domande, documenti, cercare posti e persone. Tutto da capo, ma sempre fermi al punto di partenza, perché non cambia nulla anche se è cambiato tutto. Chi prima seguiva tuo figlio nelle terapie non è più qualificato a farlo. Medici che si occupino di autistici maggiorenni non ne esistono, quasi. La scuola non vede l’ora di mollare l’autistico scomodo, dopo aver mantenuto in piedi per anni la favola dell’inclusione, chiacchiere, riunioni, verbali. Né a te né tantomeno a lui, di tutti questi anni di accompagni, discussioni, litigate, progetti, insegnanti arcigne non resterà nulla, ti rendi conto che è servito solo a mantenerti l’illusione di avere un figlio che potesse fare le stesse cose che facevano i figli di tutte le altre persone che ti circondavano. È duro però accorgersi che a un certo punto il tuo scende dalla giostra, che per gli altri continuerà

bene o male a girare a suon di musica e lucette colorate.

XI

Insieme nel buio

Vieni, inseguimi tra i cunicoli della mia mente, tastando al buio gli spigoli acuti delle mie paure. Trovami nell’angolo più nero, osservami. Raccoglimi dolcemente, scrollando la polvere dai miei vestiti. Io ti seguirò. Ovunque.

La diva Saffo scrisse più di due millenni e mezzo fa questi versi, pensando di sicuro a una creatura di cui era innamorata. A me sono apparsi per la banalità del caso una notte, in uno dei tanti post che mi segnala Facebook, in alto a destra del mio monitor. Stavo scrivendo questo capitolo e ne sono rimasto fulminato. Sarebbe difficile rendere in maniera altrettanto efficace il rapporto tra me e mio figlio, come lo sto elaborando in questo preciso momento. Devo dire che me la sono cercata, potevo anche accontentarmi di fare il padre e occuparmi di lui come nella migliore delle ipotesi fanno tutti, o quasi. Sono voluto andare oltre la linea di confine convenzionale che, tutto sommato, mi tutelava. Nessuno avrebbe mai messo in dubbio il mio ruolo paterno di guida assoluta di un figlio con poco cervello, invece sono andato a imbucarmi in un vicolo che non so dove mi potrà condurre. Già qualche giorno dopo la «restituzione», le poche persone cui ho accennato il fatto di essere autistico anch’io mi guardano con un certo imbarazzo; comincio a capire cosa si prova a sentirsi ufficialmente «diverso» e penso che questo valga per ogni forma di alterazione dichiarata, almeno rispetto alle certezze che cementificano il consenso e ci fanno sentire come minimo tollerati. Già nei primi anni di convivenza ravvicinata con

Tommy mi ero reso conto di quanto fosse esemplare il suo totale disinteresse a adeguarsi ai pensieri altrui. Mi resi conto della fatica immane che comporta l’essersi ipercivilizzati nel rispettare le opinioni non condivise. Gradualmente perdiamo la consapevolezza del nostro punto di vista, tanto siamo abituati a smussarne quotidianamente gli spigoli più taglienti per paura che possano ferire qualche nostro interlocutore. Tommy non si pone il problema di entrare in contrasto con modi di pensare diversi dal suo, a meno che abbia la consapevolezza di poter ottenere un rifiuto che scombussolerebbe il suo fragilissimo equilibrio emotivo. Non ha il coraggio a volte di fare una richiesta solo per paura del rifiuto, si tiene tutto dentro e magari sbarella. Ora io, diversamente da lui, ho abbassato ancora di più il mio già infimo livello di tolleranza per i pareri che non condivido o che semplicemente mi annoia ascoltare. Nel giro di pochissimo tempo, quel fascicoletto arancione con dentro tutti i test che mi consegnano allo spettro dell’autismo è diventato il mio salvacondotto alla sfrontatezza; esagerando sicuramente, l’ho immaginata come la mia patente di matto a cui tutto è consentito, patente che ho autonomamente allucinata in quelle poche decine di pagine dove, tra grafici e disegnini in bianco e nero, è descritta in sintesi la storia della mia vita interiore. Il risultato un po’ mi spaventa, ma mi adatterò. Non riesco più a mediare tra quello che penso e quello che dico. Devo dire che il flusso dei pensieri che diventano linguaggio senza un mio razionale intervento rettificatore è una mia «malattia professionale», che ho cronicizzato in più di trent’anni di quotidiana diretta radiofonica, in cui parlo di tutto, interagisco con decine di persone nuove ogni giorno, lascio che i miei pensieri saltellino liberi davanti al mio microfono. Ora, però, mi comporto nella stessa maniera anche ogni volta che devo interloquire con persone il cui contatto mi provoca qualche minimo fastidio; possono essere frequentazioni abituali, affetti, amicizie, rapporti di lavoro, verso cui ho ridotto a zero i margini di tolleranza e spesso dico cose o assumo atteggiamenti che stupiscono

persino me. Tanto che è sempre più frequente che mi senta dire: «Non sei più lo stesso!». Alla fine basta così poco per essere percepito come sospetto folle? Un po’ meno ipocrisia nel fingersi interessato alle vicende altrui? Meno indulgenza a sopportare le molestie di chi pensa di poterti riversare addosso parole e pensieri che non ti interessano, non ti stupiscono, non ti divertono, non ti intrigano? Mi rendo conto che continuare lungo questa china comporterebbe il rischio di essere considerato asociale. Ho ben presente quello che mi ha detto lo psichiatra che mi ha fatto la valutazione, quando gli ho chiesto se avrei potuto pubblicarla in un libro: «Faccia molta attenzione, sta correndo il rischio che poi le affibbino un pregiudizio sulla sua lucidità, magari a qualcuno verrebbe il sospetto che quello che scrive o ha sempre scritto sia il frutto di una mente malata. Lei non ha nessun male, nessuna patologia psichiatrica, ha solo una mente autistica». Quindi mi ha subito prescritto una risonanza magnetica, così avremmo avuto anche la prova visiva dell’assenza di qualsiasi alterazione organica al cervello, come ad esempio una forma di Alzheimer. Ecco quindi che mi ritrovo a dover cercare difese preventive dalla possibile accusa di essere matto, e solo perché ho voluto farmi un esame al cervello. Nel frattempo ho fatto una gastroscopia per problemi di gastrite, un’ecografia all’addome per un po’ di renella ai reni, una visita cardiaca accurata, radiografia al ginocchio per problemi di menisco… Ne posso parlare tranquillamente con chiunque, anzi sono ottimi argomenti di conversazione, la gente ama parlare dei malanni e prova un sottile godimento nel confrontarsi su sintomi e terapie. Sulla risonanza al cervello, invece, sono sicuro che non troverò qualcuno che abbia voglia di chiacchierarci su. Anzi, mi guarderanno ancora di più come se fossi uno strambo da tenere a distanza. Per tutte queste ragioni i versi di Saffo mi rimbalzano nelle orecchie come se fossero le parole di Tommy che non ho mai udito… «Inseguimi tra i cunicoli della mia mente, tastando al buio gli spigoli acuti delle mie paure.» Mi confermano che non poteva che essere Tommy il traghettatore verso quest’ultima fase della mia vita. Dico

«ultima», solo perché sono avanti negli anni; se non facessi caso all’anagrafe, sarebbe un passaggio come altri in cui si fanno nuovi pensieri, e di conseguenza nuovi progetti. Mi sento sempre di stare con Tommy «assieme nel buio», sempre di più mi convinco di avere perso il senso di chi insegua e di chi sia inseguito tra noi due, di fatto ci muoviamo entrambi a tentoni nei medesimi cunicoli mentali. Non saprei dire chi accudisca e chi sia l’accudito. Arriverà davvero quel giorno che ho già paventato, in cui lui mi porterà sulle spalle, proprio come Enea fece con il vecchio padre Anchise. È probabile che possa accadere e tuttora non posso che immaginarmi che potrebbe anche essere l’ultimo per entrambi. 1 Nessuno s’inalberi, è un pensiero orribile, ma lo facciamo tutti, tanto vale ammetterlo. Diciamoci che è l’esorcismo più potente che conosciamo per tenere il più lontano possibile l’eventualità che possa accadere. Tommy, in cambio della mia attenzione, mi ha già regalato l’idea stabile di essere immortale e indistruttibile; se mi abbandonassi allo sconforto per l’invecchiamento, per lui sarebbe finita. Di sicuro il mio miglior destino sarà quello di tracollare di colpo per sfinimento, pur sentendomi, un istante prima, vitale come un ragazzo. Tommy è stato la mia droga pesante. L’ho già scritto, e qui è importante che lo ribadisca. Non ricordo quante volte ho sentito affermare dal genitore di un ragazzo autistico che mai permetterebbe al figlio di sopravvivergli. Lo dicono spesso e con pudore, ma consapevoli che sia comunque una scelta possibile, e solo a chi con certezza possa capirli, che alla fine sono solo quelli con cui dividono il problema. È proprio così. È una storia che ci raccontiamo tra noi, ogni altra persona a sentirla ci rimarrebbe male; invece no, è la lucida e disperata scappatoia da un pensiero che ci tormenta l’esistenza. Quale sarà la vita di un figlio così fragile, quando non ci saremo più noi a sbatterci ogni minuto per la sua impalpabile felicità? Qualche volta lo penso anch’io. Accade proprio nei momenti in cui, quel figliolo con tanti problemi, lo vedo sereno. È strano, ma pensarlo non atterrisce più di

tanto, anzi mi dà quasi un senso di leggerezza, considero che sarebbe bello restare sempre assieme, senza angustie senza afflizioni senza paure. Ma, diciamo la verità, lo pensiamo tutti noi genitori di figli indicibili. È la nostra maniera di esorcizzare il presente che non cambia. Ci dissolve ogni inquietudine immaginare di fare assieme il salto finale dall’altra parte. È di sicuro una sconfitta, ma in certi giorni ci viene da pensare che può essere anche una soluzione. Poi magari, invece, ci viene voglia di ributtarci nella mischia quotidiana, di inventarci ancora qualcosa, di non mollare. Però il tempo passa anche per noi. È un tempo vigliacco, perché invece di rendere sempre più evidente la differenza tra noi che invecchiamo e i nostri figli che crescono, come accade per il resto dell’umanità, ci avvicina sempre più a loro. Diventiamo fragili come loro, svampiti come loro, sempre più soli come loro. Ci si rende conto di non essere più all’altezza del proprio compito, di non essere eroi eterni e invincibili.

XII

Padri assassini

Spesso si legge che qualcuno, alla fine, lo fa veramente. Sono stati tanti a strozzare, scannare, affogare la persona per cui si è consumata ogni energia. È un pensiero crudele, ma assicuro chi legge, e magari s’indigna, che ci accompagna con costanza. A volte saltella dietro le nostre orbite come un’emicrania. Altre, invece, ci sembra persino impossibile averlo lambito, quando ci capita una di quelle belle giornate in cui lui è tranquillo e magari ti sorride pure, o ti tiene una di quelle sue manone appoggiata sulla fronte, in una carezza che ti fa sprofondare. Almeno che io sappia, non sono malato terminale, non sono stato incarcerato innocente, non ho subìto stermini familiari, disastri economici. Nemmeno ho mai avuto la delusione di vedere crollare ideologie in cui m’identificavo, sbriciolarsi pezzi di società in cui ero parte. Non ricordo d’importanti eclissi sentimentali, amori intossicanti, tradimenti lancinanti. Direi una percentuale di sfiga assolutamente nella norma, nulla di epico, comunque, o da farne materia di racconto memorabile. Almeno, questo io sento. Tutto il mio problema alla fine è stato avere un figlio autistico, a cui un giorno qualcuno cercherà di spiegare che io sono morto. Per lui quello sarà il giorno del giudizio universale, il cosmo che lui conosce potrebbe tracollare come inghiottito da un buco nero. Saremo così, più o meno nello stesso istante, entrambi rapiti da oscurità diverse. Quella che sarà la mia oscurità postuma, nessuno l’ha mai raccontata per esserci passato. Posso quindi anche immaginare angeli sulle nuvole e altra robina, forse noiosa, ma sempre meglio che pece, fuoco e forconate nel sedere. Di quella tenebra in cui cadrà mio figlio, senza punti di riferimento familiari come stare con me a «casa papà», invece io so molto. Lo so per aver visto quell’oscurità che fora i timpani baluginare anche negli

occhi di altri esseri silenziosi come lui. Persone destinate alla sopravvivenza in un limbo di pensieri insondabili, in perenne attesa di ritrovare un filo che possa riallacciarli a dei frammenti di mondo familiare. Poche cose; come una finestra che affacci su un trancio di muro conosciuto, una voce distinguibile, l’odore di una persona il cui abbraccio sia sopportabile. Mi è stato chiesto dal mio giornale di scrivere un commento della vicenda dell’ennesimo padre che ha ucciso il figlio autistico soffocandolo nel sonno, per poi tentare il suicidio. Ne ho scritto perché di quell’uomo avevo sentito parlare da persone che lo frequentavano prima della tragedia: era un uomo solo e allo stremo con un figlio di difficilissima gestione. Ho semplicemente scritto che dietro quel gesto c’è un pensiero molesto che ogni tanto è passato per la testa anche a me, come pure tutte le persone nella mia condizione mi hanno detto di averlo pensato almeno una volta. Qualcuno dei lettori ha definito raccapricciante il mio pensiero, quasi fosse interpretabile come una giustificazione dell’omicidio di un figlio disabile, ma è chiaro che noi lo diciamo perché mai ci succeda. Percepiamo che esiste sempre qualcosa di orribile alla base di ogni rassegnazione, quindi tiriamo fuori quello che pensiamo sia il fondo più oscuro dell’abisso, lo facciamo per incoraggiarci a vicenda per continuare a combattere, ogni giorno con il coltello tra i denti, ogni giorno capaci di inventarci qualcosa. Non mi riesce tuttavia d’abbandonarmi al pensiero di cosa possa accadere al mondo di mio figlio Tommy quando io non ci sarò più. L’immagine che prevale è lo scenario di Inception, 1 in cui le città implodono, tutto crolla, si rovescia, si avvolge in se stesso. È quel film con Leonardo DiCaprio, che con un’indescrivibile diavoleria s’innestava nelle menti altrui, condividendone la vita onirica e condizionandola. Per farlo doveva naturalmente entrare anche lui in una dimensione di sogno. Per non perdersi nel sogno di lui che sognava un altro che sogna, doveva concentrarsi su un oggettino familiare che lo riportasse alla realtà: «il totem». Ecco, io penso di essere il totem di Tommy: se mi perde, il mondo potrebbe per lui sgretolarsi come accadeva a DiCaprio quando si perdeva nel sogno

dei sogni. Non è una bella cosa essere trafitti dall’angoscia quotidiana, solo perché un figlio è naturalmente destinato a sopravviverci. Perché non è concesso che per lo meno ci si possa liberare da un rovello che abbiamo tutti. È vero, per questo spesso alluciniamo la tentazione di sperare che la vita per entrambi finisca nello stesso istante. Non sembri una bestemmia, il pensiero arriva quando siamo sopraffatti dall’immaginare quale apocalisse sarebbe per lui vedere improvvisamente scomparire il mondo a cui era abituato, solo perché noi siamo morti. Potrebbe sembrare sicuramente un abominio agli occhi di tutti quelli che augurano ai propri figli una vita più lunga possibile. Quelli che, fortunati, vivono con rammarico anche il normale conflitto con i figli cresciuti che ti danno del rimbecillito e reclamano, anche con strafottenza, la loro autonomia. Ogni simile pensiero, inquietante proprio per non essere attribuibile all’esperienza maggiormente condivisibile, è classificato come «follia». Anch’io l’ho frettolosamente giudicato sempre come tale, solo ora ci sto ripensando con una percezione diversa. Non credo che i genitori anziani di neurodiversi pensino unicamente ai problemi materiali del figlio quando non potranno essere più loro ad accudirlo. Sarebbe limitativo della complessità di questa costante ossessione. Noi pensiamo molto più profondamente che, anche se fossimo certi che lui sarebbe comunque seguito alla perfezione per ogni ora della sua giornata, resterebbe comunque ostaggio di un mondo popolato da esseri alieni. Immagino che questa riflessione la faranno non solo i genitori dei cosiddetti «bassi funzionamenti», come Tommy appunto, ma anche quelli che hanno figli che parlano e sono capaci di articolare ragionamenti complessi. Anzi, sono proprio loro che si potrebbero sentire più consapevolmente esposti a un’epurazione radicale dalla società neurotipica per il principio di eccentricità contaminante di cui sono portatori. Io posso anche illudermi che Tommy potrebbe essere abbastanza sereno se avesse nell’ordine: 1. 2.

casa papà iPad

3. 4. 5. 6. 7.

piscina pizza rossa, patatine, supplì, gelato fragola cioccolato La Sirenetta della Disney in dvd una camera con la porta e un letto comodo per «rilassarsi» una sedia girevole da ufficio per fare il dervisho (leggi drogarsi) 8. qualcuno che lo porta a spasso in auto, treno, aereo, barca.

Alla fine, paradossalmente, sono beni di consumo abbastanza semplici da procurare; se a questi si aggiunge una sorveglianza attiva e costantemente «abilitativa» che stimoli anche la sua socialità e autonomia, potremmo concludere che la soluzione del «problema Tommy» è solo questione di budget. Io, però, parlo come se il problema generale fosse la sua felicità. Figuriamoci, di Tommy ci si accorgerà quando entrerà nella sua fase produttiva, suo malgrado naturalmente, allora sarà misurato come un valore sociale quando lui corrisponderà a una retta, e varrà esattamente quanto la cifra mensile che verrà corrisposta a chi ha come core business la presa in carico dei cervelli diversi. Non mi venite ora a mostrare gli esempi eccelsi, sono pochi e non riproducibili. La stragrande maggioranza dei disabili psichici ha l’ineluttabile destino di finire nelle mani di organizzazioni pagate per renderli inerti, come fossero rifiuti tossici da stoccare in sicurezza, perché non inquinino l’ecosistema. La procedura è tollerata, non se ne parla, ma chi dovrebbe preoccuparsi del progressivo spegnimento in vita di menti che non hanno legami, se non con i loro genitori? Pensate quanto vi manca alla solitudine totale, vale a dire alla scomparsa di chiunque vi abbia a cuore: dovrete comunque fare i conti con varie persone, parenti stretti, amici, affetti, relazioni. Qualcuno che prenda in carico la vostra esistenza esisterà pure. Invece gli autistici di quelli tosti, intendo quelli come Tommy, nascono già orfani, ma per paradosso hanno solo dei genitori su cui contare veramente. Penso a come mi sentirei io se dovessi ancora fare affidamento sui miei genitori: come ho detto, da troppi anni ho calato una saracinesca sulla loro esistenza, e non riesco nemmeno a immaginare di dover loro chiedere qualcosa e che da loro possa dipendere la mia

sopravvivenza. Questo lo pensavo anche all’età di Tommy? Forse no, ancora stavo in famiglia, anche se con enormi e quotidiani conflitti. Però pensavo sempre che un giorno, come poi è accaduto, me li sarei lasciati alle spalle. Chissà se Tommy nei suoi pensieri ha già elaborato l’idea che io appartenga al suo passato? Come lo vorrei… Come mi piacerebbe poter intuire che Tommy riuscirebbe a vivere felicemente senza di me. Invece no, resto qui imprigionato nel nostro tempo comune di padre e figlio incatenati nella stessa dimensione. Ci unisce lo stato di perenne osservazione del mondo in cui siamo capitati, a cui ci sentiamo di appartenere solamente in quei pertugi di tempo in cui possiamo essere sereni, sia soli che abbracciati ai pochi umani respirabili, quelli che non ci fanno prudere i polpastrelli quando li sfioriamo, perché li percepiamo solo come sacchi di organi molli che noi sentiamo sotto la loro pelle appiccicosa, o i loro abiti cuciti con stoffe senza estro e piene di tessuto sintetico.

XIII

Vorrei un figlio teppautistico

Mentre scrivo, Tommy è con me. Sta stravaccato nella sua alcova con gli occhi fissi sul tablet. È un iPad di prima generazione che nessuno userebbe più. È quello sopravvissuto al suo ultimo sgranocchiamento del vetro, che ormai risale a cinque anni fa, come minimo. Tommy non mastica più tablet da molto tempo, ma preferisco che continui a usare quello; la cover marrone di finta pelle è allo stremo, ma lui ci è affezionato. Il sistema operativo antiquato non supporta più YouTube, ma ho trovato con un’app un escamotage per cui può ancora usarlo per la sua funzione prevalente: guardare i cartoni animati della Disney, che lo accompagnano praticamente da quando è nato. Tommy è un uomo di quasi vent’anni, ha una bella barba con baluginii rossastri, ma in sottofondo per la miliardesima volta mi fa ascoltare il canto strozzato della Sirenetta mentre le viene strappata la voce dalla perfida Ursula, mezza strega e mezzo calamaro. L’educatore di Tommy, Marco il tatuato, dice che la Sirenetta per lui equivale a YouPorn. Anch’io penso che Ariel sia il suo sogno proibito di femminilità, ma proprio perché possiede una strategica coda di pesce che lascia il mistero su quello che una donna ha dall’ombelico in giù. Forse avrei dovuto spiegarglielo da tempo che le donne sono fatte diversamente da lui, ma a che scopo? Piuttosto, dato che è maggiorenne da più di un anno, mi sarei forse dovuto preoccupare io di procurargli l’occasione di scoprire, dal vivo, la ciuffosa matrice di ogni smarrimento. Già, ma sono cose che si dicono, si progettano, poi se non c’è impellenza si rimanda. Nel caso di Tommy non scorgo segnali insopprimibili del suo bisogno di tale avventura. Non mi va di forzare un passo del genere, nessuno in quel campo mi ha saputo dare consulenze specifiche su come comportarmi. Tantomeno quello del

sesso è argomento che si tratta negli incontri tra genitori, quando si organizza una gita per i ragazzi, un’attività sportiva, un laboratorio. Come si affrontino gli affocamenti ormonali ancora non è sul tavolo delle trattative, almeno per Tommy, ma credo nemmeno per i suoi amici variamente autistici con cui fa gruppo fisso da un paio d’anni. Sono cinque o sei ragazzoni come lui che condividono i pomeriggi, e a volte anche vacanze di una settimana. Ci inventiamo noi genitori come e con chi, ma alla fine riusciamo a far fare loro un’attività che si avvicina a quelle dei coetanei con il cervello più simile alla norma. Tommy e gli altri li ho battezzati i «Teppautistici», un termine per il quale sono riuscito a farmi odiare ancora di più dalla folta schiera di genitori che ancora parlano dei «nostri angeli speciali». Ipotizzai la categoria del teppautismo il giorno in cui vidi la foto di Tommy e dal suo amico Bobo che si atteggiavano a gioventù bruciata: sguardo spavaldo, sigaretta tra le labbra e bottiglia di birra in mano. Era una foto da figli della teppa fatta per gioco da Marco il tatuato, che se li era portati dietro in un bar. Così pubblicai la foto su Facebook. Subito partì il coro delle vestali inorridite… Come? Con la sigaretta in bocca… Con la birra e lo sguardo strafatto? In giro per locali, invece che a nanna nel lettino di casa… Non me la sono sentita di specificare con troppa sollecitudine che le sigarette erano di cioccolata, come quelle che da piccoli ci mettevano nella calza della Befana. Io non mi volevo rassegnare a congelare Tommy e Bobo in un perenne destino di poveri ragazzoni da compatire, condannati a un ininterrotto stato angelico in cui non è permesso lo stravizio. Con quello sguardo enigmatico da sciupafemmine altezzosi, non conosceranno mai la vertigine di una sbornia, la leggerezza dopo la deboscia, la perdizione etilica. In realtà, nessuno li vedrà mai fuori di senno, se non perché di natura già felicemente dissennati a vita. La loro impeccabile pantomima da beoni incalliti sembrava volerci illudere che possiamo anche lasciarli andare, vorrebbe dirci che è arrivata l’ora che anche loro facciano le ore piccole, scolino bottiglie, disperdano i pensieri nelle spire di fumo, sbocconcellino famelici le

ore della notte, tentatrici ambigue e ruffiane. Soprattutto che lo facciano con persone della loro età, con cui condividere affanni, passioni, perfidie e ore ignave generosamente regalate al tempo dei loro capelli folti e muscoli da saltimbanchi. Di sicuro vorrebbero scrollarsi di dosso ogni badante, accompagnatore, educatore, genitore, insegnante, medico, pedagogo, prete. A loro non importa essere santi, anche loro avrebbero diritto di meritarsi un po’ di purgatorio per essersi lasciati azzannare dalle fugaci compagnie della giovinezza, saporite o crudeli che siano. Dio sa quanto mi piacerebbe sapere di poterli lasciare liberi di vivere anche ogni lato oscuro dell’essere follemente giovani, ma so bene che, per la follia scavezzacolli che sempre li accompagnerà, ogni loro libertà non potrà mai essere altro che vigilata. Questa silente condanna a un’esistenza morigerata per i propri figli devo dire è un deterrente formidabile per ogni possibile tentazione alla devianza dalla rettitudine anche per i genitori. Frequento sempre meno per occasioni informali famiglie che gestiscono la neurodiversità di un congiunto, o per lo meno lo faccio solamente quando sono investito del ruolo ufficiale di quello che parla a un convegno, fa un’inchiesta, presenta un libro, o deve scrivere un articolo. Mi sento sempre più un alieno rispetto alla categoria che, purtuttavia, continuo a rappresentare al mondo delle istituzioni. È singolare che lo scriva in un libro che, al contrario, dovrà ancora una volta confermarmi in questo ruolo di cantore ufficiale dell’autismo. Devo necessariamente essere sincero, non voglio essere una sorta di delegato sindacale, anche se faccio con piacere battaglie con la lancia in resta. Mi metto in prima linea sulla necessità di attenersi alle evidenze scientifiche nei trattamenti per i nostri ragazzi, lo faccio con maggiore ostinazione di quanto spesso lo facciano le associazioni che applicano una giusta mediazione dovendo rappresentare tutte le opinioni delle famiglie; lo faccio spesso alimentando antipatie e inimicizie anche da parte di medici e ricercatori, di chi si vede invaso nel suo campo professionale da un parvenu che pretende di dare lezioni solo perché riesce a dire con belle parole quello che loro hanno sempre sostenuto. Ogni tanto ho pure contatti con la politica e i piani

alti dei palazzi del potere. È strano che non mi sia sentito stimolato a farlo nei miei primi trent’anni di accanita professione e ora venga tutto così facile per la mediazione di un figlio stralunato che al massimo dice «Ciao come stai?». Girano in rete foto di Tommy assieme a importanti rappresentanti delle istituzioni. È accaduto che Tommy sia apparso in tv abbracciato alla seconda carica dello Stato, come se fossero stati amici da sempre. Addirittura è stato immortalato assieme al presidente della Repubblica, compitissimo anche se con la maglietta di un gruppo metallaro. Anche questo mio aspetto pubblico è pesante da gestire, sento che mi circonda il sospetto che faccia tutto pro domo mea. Non è così purtroppo, non sono nemmeno riuscito a smuovere la signora preside del liceo di Tommy e convincerla di bocciarlo al quarto anno: tanto fa poco o nulla, mi avrebbe dato un anno di respiro in più. Nulla da fare. Con imbarazzo mi è stato pure riferito che, in corso di discussione del «caso Tommy», sarebbe stato detto: «Nicoletti è benestante, ci pensi lui al figlio, perché dovrebbe parcheggiarlo a scuola!». Anche se sul «benestante» avrei molto da dire, posso persino capire cosa ha suscitato un pensiero simile. Io sto sulle palle, non si perdona la sfiga quando è ostentata come fosse splendore.

XIV

Alla conquista del nostro castello

Un ricordo tenero di mio padre, in effetti, lo conservo: sono le storie di «Tosco nel folto bosco». Era il nostro telefilm casalingo quando non c’era la tv, un’opera aperta che affabulava ogni sera per noi bambini quando ci metteva a letto, improvvisando e aggiungendo particolari o personaggi che spesso noi figli stessi gli suggerivamo. Quando a metà degli anni Ottanta cominciai a inventarmi il mestiere di scrivere, la prima cosa che assemblai con una «modernissima» macchina elettrica a testina rotante fu appunto il mio personale epilogo della storia di «Tosco nel folto bosco». Non l’ho mai pubblicato e ho ancora l’originale battuto allora. Feci persino fare le illustrazioni da un bravissimo artista bolognese, ma il libro è rimasto sempre nel cassetto. Rileggendo quel racconto capisco che tutti i ricordi del primo decennio della mia vita erano presenti in quei capitoletti. Era il condensato di ogni mia aspirazione. Il protagonista è un bambino che ogni tanto fugge dalla monotonia imprigionante della casa entrando nella dimensione parallela del folto bosco. Il passaggio avviene pedalando velocemente attorno al tavolo del salotto, con il triciclo rosso indemoniato che gli era stato regalato per Natale. Mi aveva ispirato la struggente memoria dei Natali che al tempo della mia fanciullezza erano una cosa veramente seria, con l’odore del muschio muffo degli anni passati e i regali che erano davvero una rarità. Alla fine dell’avventura il bambino Tosco diventa un albero, una specie di storia di Pinocchio al contrario in cui la natura umana non è la massima conquista per un pezzo di legno, ma, al contrario, rivelava il mio desiderio infantile di incorporarmi uno di quegli alberi «fortunati perché appena sensitivi», 1 come diceva un poeta che avevo studiato all’università, che erano di sicuro gli stessi su cui da piccolo mi piaceva salire. Era un desiderio inconsapevole che, evidentemente, mi ero portato dietro fino ai giovani anni della mia vita.

Tutto il racconto mi venne fuori di getto osservando una mia foto di bambino. L’originale era piccolissima, la feci ingrandire e stampare per vedere meglio i particolari. Ero io, penso più o meno a quattro anni, in triste posa paralizzata e seduto sul mio triciclo di latta stampata, che ricordavo fosse rosso. Stavo contro il muro del giardinetto di casa, accigliato come se aspettassi di essere fucilato. Avevo addosso un grembiule a quadretti che per me era come una camicia di forza, scarpe scure con i lacci, forse con plantari ortopedici. Usava mettere ai bambini una sorta di stivaletto malese, ordigno da tortura descritto da Salgari: allora avevo le gambette storte, e comunque storte mi sono rimaste. Di quella foto mi accora il senso di cosmica solitudine del bambino che vi è ritratto. Eppure, al tempo avevo attorno una famiglia numerosa: genitori, nonni, almeno cinque-sei zii e zie che vivevano nella stessa nostra casa. Non credo mi mancasse attenzione, ma ho il vago ricordo di come quel piccolo giardino, con quattro alberi e un pergolato di vite, per me fosse come una foresta sconosciuta. Mi basta osservare come tengo strette le mani al manubrio del triciclo: sembra veramente che già allora non pensassi ad altro che fuggire. Ho la stessa identica espressione di Tommy quando viene fotografato frontalmente e con il sole in faccia. Anche lui contrae le sopracciglia e ha quell’aria assente da cervello in fuga, chissà verso dove. Lui e io, a distanza di sessant’anni, abbiamo la medesima aria preoccupata. Io non mi sono rassegnato, da allora continuo a cercare un pertugio che mi porti alla mia terra promessa, solo che ora ho come priorità trovare un posto dove Tommy potrà vivere anche senza di me. So che lo cercherò finché avrò fiato, anche volendo non potrei fare altrimenti. Nulla mi tormenta ogni istante quanto il pensiero del mattino in cui Tommy si sveglierà e si accorgerà che io non ci sono più. Non sarà necessario che qualcuno glielo dica o glielo faccia capire. Avrà già capito tutto lui, come sempre capisce tutto a onta del suo QI infimo e del suo sguardo perso. Non è un pensiero originale il mio, ogni genitore di autistico sogna che possa esistere una fetta di mondo dove il proprio figlio si senta a

casa sua. Questo posto non è certo la casa in cui vive con i genitori. Come per noi, a un certo punto della vita, le mura tra le quali siamo nati e cresciuti ci diventano estranee, così immagino che a un certo punto anche in ogni metodico autistico, che vive rassicurato perennemente dalle sue stereotipie, sorga la voglia di avere un posto proprio. Tommy non ce l’ha in esclusiva, ma deve dividere i suoi spazi con me, che lo zavorro alla sua condizione di figlio. Se mai Tommy potesse generare un pensiero visibile a tutti, come fosse un ologramma, immagino che ci apparirebbe un castello. Lui disegna sempre castelli, i castelli sono le dimore dove vivono i personaggi dei suoi film preferiti, La Bella e la Bestia, Cenerentola, La spada nella roccia, La Bella Addormentata, Frozen… Sempre castelli che spuntano dalla testa di chi sarà destinato a vivere in una stanza assieme ad altra gente come lui, che non capirà dove è finito, in che mondo si trovi, ma cercherà sempre quei ricordi di cartoni animati che si confondono con la casa dei genitori, le zucche di Halloween e gli alberi di Natale, i regali, le passeggiate da bambino che si ripeteranno nei loro pensieri saltellanti nell’eterno loop di tutti i cartoon della propria vita. Sono vari anni che vado cercando un castello. Prima lo facevo solo per Tommy, ora non riesco a pensarlo staccato dalla sparuta compagnia dei suoi amici teppautistici. Sono cinque o sei gli inseparabili: c’è Bobone che ogni tanto urla e Tommy si chiude le orecchie, anche se ora lo fa meno, perché lo hanno dotato di tappi gialli di gommapiuma. Se li porta in una scatolina e, quando serve, se li mette. Penso alla stranezza che il giorno in cui io sarò costretto a mettermi nelle orecchie apparecchi acustici per sentirci meglio, lui avrà sempre i suoi tappi per smorzare il superudito che gli trapassa il cervello. Poi c’è Marco, che non ha bisogno di tappi perché è sordo, ma è capace di guidare la macchina; se non si sta attenti, mette in moto e parte. Una volta l’ho visto in una pista di kart: sfrecciava come un campione, veramente incredibile. Poi c’è Alberto, che è un ragazzo biondo e gentile; suo padre è cardiologo e, quando mi ha visitato il

cuore, ha trovato una valvola che sfarfalla… Pazienza. Poi il placido Jose, che appallotta carta come attività preferita, ne riempie sacchi interi, tanto che potrebbe essere usata come pellet per alimentare una stufa. Infine c’è Federico, il più anziano del gruppo, che ha già tutti i capelli bianchi ma, in compenso, parla molto bene, anche se di solito non ha granché da dire. Messi tutti assieme ai tantissimi altri che ho conosciuto, che potrebbero mai fare? Secondo me bisogna studiare un modello matematico che regoli la loro vita, che dovrebbe essere protetta e, allo stesso tempo, inclusa. Come ogni essere umano, anche i nostri autistici dovranno avere uno scopo quotidiano, lavorare, fare sport, trascorrere il loro tempo in modo dignitoso. Perché questo sia possibile occorre costruire un luogo di snodo che li attivi, in uno scambio costante con il quartiere in cui vivono. Un luogo fisico in cui mettere in campo tutte le competenze necessarie per creare il modello. Proprio come se fosse un format. Costruirlo, metterlo in esercizio, studiarlo, descriverlo e poi, una volta collaudato il modulo, esportarlo e diffonderlo. Io, negli anni, ho trovato le persone giuste e capaci per realizzarlo, ho il campione giusto di autistici per iniziare la sperimentazione, ho imparato a fare progetti e cercare risorse. Mi manca solo una location. Deve essere bella centrale, aperta e molto visibile. È proprio questa l’ultima equazione che dovrò risolvere nella mia vita. Ci studio sopra da anni, almeno da quando cercai di negoziare con il Comune di Roma di poter trasformare un rudere all’interno del Bioparco in un centro modello per la vita dei nostri ragazzi. Allora fallii, ma solo perché mi avevano chiesto di lasciare le gabbie «di valore storico» di quella che era un’ex uccelliera. Mettere mio figlio dietro le sbarre mi sembrò inaccettabile e continuai a cercare. 2 Un paio d’anni fa ho cominciato a puntare un casale alle pendici di Monte Mario. 3 È in una zona centrale, immerso incredibilmente nel verde, anche ben messo strutturalmente. Mi sembrò subito una fantastica dimora per seminarci l’utopia su cui mi arrovello. Presi informazioni e seppi che era di proprietà del Comune, che lo aveva destinato a usi sociali. Per un periodo era stato dato in concessione a un ente religioso che si sarebbe dovuto occupare di bambini con

problemi. In un secondo tempo, dopo un cambio di sindaco, il Comune se lo era ripreso perché l’attività di fatto non veniva svolta. Ora che il sindaco è nuovamente cambiato, è chiuso e inutilizzato. Per me, vederlo sbarrato e aggredito dall’erbaccia e volerlo conquistare per farne il castello dei teppautistici è stato tutt’uno. Ho iniziato un duro lavoro di relazione e ricerca di alleati, farcela da solo sarebbe stato impossibile. Ogni lembo di territorio pubblico destinato a scopi sociali ha qualcuno che ne rivendica il diritto d’uso, in questo caso i pretendenti erano molti e non so nemmeno come sono riuscito a trovarmi finalmente un giorno a parlarne allo stesso tavolo con la ministra dell’Istruzione e la sindaca di Roma, per concordare un piano condiviso di utilizzo a beneficio dei ragazzi autistici tipo Tommy, quelli in transizione tra l’età scolare e il destino di diventare fantasmi. Fu un incontro di vertice che aveva dello straordinario, soprattutto in una contingenza politica nella quale le due signore non avrebbero mai avuto un’opportunità così felice di collaborare a un progetto comune. Penso che a volte la sofferenza muta e implosa dei ragazzi, che mi sono sentito di rappresentare in questa battaglia, sia equivalente all’arsenale termonucleare ostentato ogni tanto da qualche piccolo dittatore pazzo, per essere considerato dalle grandi potenze mondiali. Non so come sia potuto accadere e non sono in grado di dire qui come andrà a finire. Azzardo entrambe le ipotesi possibili: la trattativa alla fine si arenerà nelle fatali strategie della fase pre-elettorale che stiamo attraversando. Mi sarà detto: «Ci pensiamo dopo le elezioni…», e poi non se ne farà mai più nulla, come ormai so che sempre succede. In questo caso, sinceramente, io non riuscirei più a ricominciare da capo. Mi farò una ragione del fatto che la vita reale non preveda storie a lieto fine per chi è segnato da uno stigma indelebile. Non finisce quasi mai a tarallucci e vino, come nelle favole edificanti. A differenza di quanto accade nella bella storia di August Pullman, il bambino con la faccia devastata da una grave malattia protagonista di Wonder, 4 abbandonerò l’illusione che la diversità possa veramente diventare un

brand vincente, in barba a tutte le logiche che regolano la media felice socializzazione. La realtà, come è ben noto a ogni genitore di autistici, è molto lontana da ogni epilogo consolatorio. I nostri figli imparano sin dall’asilo che essere diversi è comunque un peso. La prima lezione che regala loro la vita è che, confondersi nel gruppo, significa guadagnarsi con minor conflitto la difficile gratifica del consenso sociale. Lo può immaginare ognuno di noi perché, anche senza bisogno di un raccapricciante stigma fisico da romanzo d’appendice, siamo stati sempre costretti a camuffarci per essere accettati. Ci vuole veramente una determinazione d’acciaio temperato per non sentire dolore e disagio, quando ci manca sempre qualcosa per essere dalla parte giusta del «gruppo», uguali e quindi confondibili con l’insieme umano cui c’è stato dato di appartenere. Gli esseri più civilizzati si battono perché ciò non accada, lo slogan più usurato è «la diversità è una ricchezza»: giusto e sacrosanto, ma è facile ostentarlo quando non si ha addosso alcun segno di difformità rispetto al modello più ricorrente. Chiunque abbia la consapevolezza di appartenere a una delle categorie meno trendy del campionario umano, di quella ricchezza farebbe volentieri dono a chi, per assurdo, ne avanzasse richiesta. Il problema è che quasi nessuno si accolla il peso della difformità altrui. Quelli che lo fanno per buona educazione, compassione, santità o imperativo culturale, di solito sono indicati come eccezioni, eroiche avanguardie di un esercito che ancora sembra marciare molto lontano dai confini del mondo in cui c’è dato di vivere. Ognuno degli oggettivamente diversi ha ben poche strade da scegliere per vivere tra persone omogenee tra loro nei tratti fisici, nei modi di connettersi con il cervello, nello sguardo e nel retroterra familiare. I diversi possono imparare a essere indifferenti, trasparenti, intangibili; siano essi disabili fisici, neurodiversi, dai cromosomi ballerini o comunque difformi, balzani, ribelli. Si manda giù e ci si fortifica, s’immagina di essere sbarcati in un mondo di alieni e si vivacchia così, da eterni clandestini, imbucati e, bene che vada,

sopportati. E se invece andasse bene? Se mi trovassi come il pifferaio di Hamelin in testa a un corteo di cervelli ribelli che entrano nel loro castello? Che lasciano il ponte levatoio abbassato alle loro spalle perché chiunque possa entrare e uscire e mischiarsi felicemente con i castellani? Sarebbe la via dell’orgoglio per quello che si è, comunque si sia. Facile forse a parole, meno facile da mettere in atto. Richiederà un salto mortale sopra le teste di chiunque, persino di quelli che ci offrono il pietoso abbraccio della consolazione. Sarà un po’ anche la via dello sberleffo, dello spaesamento delle menti regolamentate, del rimescolio delle certezze acquisite. Da me cervello ribelle se lo aspetterebbero, e magari farà bene anche a chi si è fidato. Mi piacerebbe tentare la sfida del diverso che non si nasconde, non si mimetizza, ma costruisce su di sé una nuova categoria estetica ed esistenziale. Gli spazi si conquistano con l’impudica sfrontatezza di essere rari artefatti di una natura che lavora sempre a noiosissime catene di montaggio, da cui escono solo esseri umani standard. Per ogni nuova persona che si sentirà diversa, nel nostro covo si organizzerà una festa. Non selezioneremo emarginati ma rarità, il cui esistere è determinato dal fatto che ogni tanto l’artefice si distrae. Vorrei trasformare quel casale romano, ex dépendance di preti, in una macchina capace di generare allegria ogni volta che, tra tanti individui prestampati, possa uscirne dal buio qualcuno fuori serie, tanto difettoso quanto irripetibile. Non so se questo potrà mai accadere, nel caso sarebbe la prima storia divertente che avrei occasione di raccontare, da quando mi occupo di cervelli in fuga oltre il confine della visibilità sociale.

XV

La sindrome di Isacco

Quando dico che i neurodiversi sono dei senza famiglia e non può essere altrimenti per loro, parlo di una mia convinzione personale. Dico che i genitori di figli balzani dovrebbero accettare di avere a che fare con orfani perenni, perché mi rendo conto che i nostri ragazzi sono fisiologicamente distanti da quello che ognuno normalmente pensa dovrebbe essere il sentimento di un figlio verso chi l’ha generato. Gli autistici si avvinghiano a noi come il naufrago a qualunque cosa veda galleggiare, facciamo parte della loro routine e siamo la stella polare su cui orientano ogni loro passo, ma paradossalmente il loro rapporto con noi è molto più sano dei figli nella norma, perché non pensano di doverci dare qualcosa in cambio. Non hanno il senso del «dovere» e quindi sono molto più liberi dal giogo affettivo verso chi ha determinato la loro esistenza, una dipendenza che spesso è difficile scrollarsi di dosso anche da adulti. Gli autistici non sono continuamente sollecitati al dovere, non pensano di doverci qualcosa anche solo perché così è scritto nelle tavole della legge, che attribuisce sacralità indiscussa al proprio genitore. Chi trovasse cinica questa conclusione provi a pensare se non sia piuttosto molto più giusto così, che questo sia l’ordine regolare delle cose, perché non è detto che il mondo debba procedere imbullonato su immutabili schemi di organizzazione sociale. Sono vari i segni che portano a immaginare una società futura che sarà composta di persone che vivranno benone anche senza dover essere sottoposte a lacci affettivi imposti dalla consanguineità. Si sentiranno affini alle persone che sceglieranno e a quelle vorranno spontaneamente del bene, finché durerà, senza essere vincolati al principio di eternità del sentimento, che è veramente un controsenso, data l’ineluttabile precarietà della nostra avventura esistenziale.

È questo un modo d’immaginare la famiglia che ha il suo prezzo: ne so qualcosa io che lucidamente, a un certo punto della mia vita, ho deciso di operare un volontario e inesorabile atto di «sfamiglio», che non è certo stato senza conseguenze. Non è che mi senta poi del tutto leggero ogni volta che mi capita di riflettere sul fatto che ho cancellato in un minuto persone con le quali ho vissuto sotto lo stesso tetto per trent’anni, e di cui sono purtuttavia consanguineo stretto. Non avevo alternative, volevo continuare a vivere sereno, e non mi sarebbe stato possibile se non avessi risolto un rapporto che era sin troppo inquinato da generazioni di mutismi, ricatti emotivi, vessazioni e rancori. La mia famiglia non è stata un covo di abiezione, era una normalissima famiglia italiana. In coscienza, nemmeno posso dire di avere subìto alcun torto grave sotto il tetto paterno: mi hanno mantenuto a oltranza fino a quasi trent’anni, non mi hanno imposto nulla e, andandomene di casa, ho fatto liberamente tutte le mie scelte. Nonni, zii, nipoti, fratelli, genitori, cugini… Nessuna irregolarità criminosa, nessun delitto, nessuna violenza estrema. Solamente è stato necessario per me interrompere un filo conduttore indissolubile e indistruttibile attraverso cui si trasmetteva, generazione dopo generazione, il vero collante di ogni aggregazione familiare: il «senso di colpa». Il fatto è che risulta sempre più evidente quanto poco abbia ancora ragionevolezza pensare che possano esistere «legami di sangue» da cui ci provengano obblighi emotivi. Gli esseri umani si aggregano e figliano, fin qui nulla da eccepire. Abbiamo poi culturalmente tramandato nel nostro sistema operativo il fatto che debba essere mantenuto un legame affettivo perenne tra generazioni, legame che giustifica l’illimitata permanenza e ingerenza nelle vite altrui da chi appartenga alla famiglia. Quando c’è accordo, niente da ridire, ma che io debba soffocare la noia, il disprezzo, il disagio profondo che provo nella co-affettività coatta con altri esseri umani, che tra l’altro io non ho mai volontariamente e liberamente scelto, fa secondo me parte di un atavismo di cui occorre liberarsi, esattamente come la pseudocoda che abbozza la nostra vertebra sacrale, la polimastia, l’ipertricosi. 1 Penso, dal punto di vista opposto, che la gestione di un

«dissidente» sia comunque d’imbarazzo per il resto dei familiari, che hanno l’onere di dover giustificare al mondo intero quel sintomo di «difformità» che fa parte della loro stessa carne. Estremizzando il concetto, è difficile trovare qualcuno che con leggerezza non si faccia scrupolo di comunicare all’esterno problemi neurologici che si presentano nella propria famiglia, figli o fratelli autistici o disabili psichici compresi, naturalmente. Mi guardo bene dal giudicare le scelte altrui, ma chissà perché è ancora così faticoso dire che si ha un autistico in famiglia. Trovo che un pregiudizio tanto antico e radicato, come quello dell’attentato alla stirpe rappresentato da un neurodiverso tra i consanguinei, sia oggi abbastanza ridicolo. Nessuno, chiaramente, è obbligato a raccontare di avere un figlio con problemi, ma non capisco perché, quando il dibattito sull’autismo come una conseguenza dei vaccini è sulla bocca di tutti, persino chi ha una visibilità e rilevanza pubblica sia così riluttante a portare sul tavolo della discussione un’esperienza così importante come quella di un congiunto nello spettro. Nell’ambiente dei genitori comuni mortali ogni tanto si vocifera di quello o di quell’altro personaggio famoso, artista, politico, imprenditore di successo con cui si divide il destino di un autistico in famiglia. Resta tutto nel circolo delle dicerie, come se si trattasse di un evento paragonabile a una vicenda di corna, o di vizio indicibile. Dire «quello ha un figlio autistico» equivale a mormorare «ha l’amante, gioca, beve, si droga…». Quasi una turpitudine morale da tenere nascosta, insomma. Una fonte abbastanza eterodossa mi ha fatto riflettere sulla possibilità che l’idea di quanto sia faticosa la gestione di un figlio balzano potesse filtrare anche in contesti inaspettati. Mi ha illuminato in tale senso un’intervista a Haim Baharier, un eclettico esegeta biblico mezzo polacco e mezzo francese. 2 È un signore dalla barba bianca che, con ardita disinvoltura, maneggia Cabala e Talmud, e tra le altre cose ha elaborato una teoria molto interessante proprio sul padre Abramo, personaggio fondamentale per gran parte della nostra cultura religiosa. Abramo è un rispettabilissimo signore, con un importante ruolo

pubblico, di specchiata virtù, ma è pronto a scannare un figlio solo perché Dio glielo ha comandato. Difficile da capire in assoluto, ma calandosi nel tempo e nello spirito di quel particolare filone religioso che ha la Bibbia come riferimento ci può stare. Immaginiamo, per sentirci più vicini alla sua esperienza, che esista una regola ineluttabile per cui quel figlio deve essere soppresso. La coinvolgente rilettura dell’episodio biblico che fa il professor Baharier, però, lo colloca in una cornice che lo rende ancora più vicino a noi genitori di figli fuori standard: lo studioso afferma, infatti, che Isacco era probabilmente un ragazzo disabile psichico. Abramo ebbe Isacco quando era già molto vecchio, la Bibbia dice avesse 100 anni, ed è un dato di fatto che studi autorevoli 3 parlino dell’età paterna avanzata come di un importante fattore di rischio autismo. Secondo il professor Baharier, la neurodiversità di Isacco sarebbe evidente perché «rideva fuori luogo», come almeno indica l’etimologia del suo nome, «colui che riderà». Per questo suo comportamento «strano» era oggetto di scherno continuo. Mi sono incuriosito di questa lettura «neurodiversa» di una delle figure più importanti della storia sacra dell’Occidente, mi sono documentato in rete e, scartabellando tra sermoni di rabbini californiani, 4 mi sono accorto che, in effetti, l’ipotesi di Isacco «strambo» non è nuova. È descritto come un ragazzo silenzioso che tendeva a isolarsi e, forzando dal nostro punto di vista l’esegesi, potrebbe sembrare quasi che la sua famiglia lo volesse salvaguardare dal mondo esterno, soprattutto quando si legge che Isacco viveva nello stesso alloggio della madre, pur non essendo più un bambino. Esattamente come i nostri giuggioloni teppautistici. Quando il ragazzo oltrepassò i trent’anni (età già ampiamente adulta, soprattutto in quel contesto storico), Abramo potrebbe aver maturato la certezza che non sarebbe stato in grado di avere una vita dignitosa. Nel momento in cui Isacco avrebbe dovuto a tutti gli effetti prendere il posto che naturalmente gli sarebbe spettato nella società degli adulti, il padre si rende conto di essere ormai decrepito e di non poter più «coprire» l’irregolarità del figlio di fronte alla sua gente.

Così arriva a pensare che la maniera migliore per «liberare» quel figliolo da un futuro infelice fosse ucciderlo e attribuire la sua uccisione a un ordine divino… Abramo, come spesso accade, immagina anche lui che quel figlio autistico soffrirà meno se gli sarà evitato il dramma di sentirsi deriso ed emarginato per il resto della sua vita. Pur imputando il delitto all’Onnipotente, si sarebbe comportato come uno di quei tanti padri assassini che ho citato come presenti anche nelle cronache dei nostri giorni. Per fortuna, almeno in quel caso il Padreterno intervenne giusto in tempo per evitare il delitto, o fu lo stesso Abramo che alla fine cambiò idea, vai a saperlo. A molti di noi viene in mente questa soluzione estrema nel corso dell’ultima fase della vita, ma poi non tutti lo fanno. Esasperando questa interpretazione, dobbiamo immaginare che Isacco fosse un ragazzo dei nostri, un teppautistico ridanciano che non aveva possibilità di essere incluso in una società così ritualizzata e rigida come quella della tribù del padre Abramo. Pensandoci bene, quale uomo di oltre trent’anni, addirittura 37 nell’esegesi ebraica, non si sarebbe fatto qualche domanda in più vedendo che il padre lo fa camminare per tre giorni, portandosi legna e coltello per compiere un sacrificio, ma senza l’animale da sacrificare? Isacco era sicuramente molto più robusto del padre, ma quando Abramo lo fa stendere sull’altare del sacrificio e inizia a legarlo, lui, da bravo autistico, non si ribella: magari aveva preso tutto come un gioco, dopo una passeggiata con il padre, di quelle che ognuno di noi fa quando deve riempire il tempo di un figlio adulto che non ha impegni durante le sue giornate. Sempre nell’esegesi ebraica dell’episodio c’è anche la possibilità che Abramo avesse già iniziato a tagliare la gola di Isacco quando apparve l’angelo per fermarlo. Quel trauma alla gola giustificherebbe con una causa tecnica il fatto che anche la successiva vita di Isacco fu «silenziosa». Noi invece, alla luce della nostra esperienza di genitori, ci sentiremmo di azzardare l’ipotesi, seguendo sempre il filo della nostra fantasia e senza fare l’errore di forzare in un tempo storico un racconto sacro, che Isacco non parlasse solo perché era un autistico

non verbale. Insomma, l’idea di fare la festa al figlio «strano» potrebbe averla avuta persino il vecchio padre Abramo, e questo dovrebbe avvalorare la premessa che non dobbiamo sentirci in colpa di pensarlo, l’importante è trovare – come Abramo – una via di uscita al nostro pensiero funesto. In questo frangente dobbiamo pure pensare che saremo soli, perché non possiamo pretendere che anche i nostri figli annusino l’aria di tragedia imminente. Persino quando diventerebbe per chiunque palpabile la nostra disperazione per il loro futuro, loro continueranno a stare zitti, perché per loro il punto di equilibrio del mondo siamo noi. È la «sindrome di Isacco», che li renderà spensierati fino all’ultimo: finché ci sentiranno presenti, per loro andrà tutto bene, anche quando il nostro velenoso pathos genitoriale starà facendo tracimare l’amore sconfinato verso un progetto di annientamento totale. Forse bisognerebbe sentirsi meno santi, fuggire la tentazione di irrigidirsi nella fatale accettazione di una regola assoluta e ineluttabile, come se fossimo anche noi vecchi patriarchi; dovremmo smettere di pensare di esserci votati alla castità emotiva perenne e cercare il più possibile di dare un senso di salutare dissolutezza, almeno nell’intenzione, alla nostra custodia di quel figlio, sentendoci padroni assoluti di ogni suo pensiero e ogni sua azione. Abramo si sentiva in diritto di vita e di morte del proprio unigenito, solo perché lo vedeva imperfetto rispetto a un modello corrente. Oggi non è cambiato molto: il nostro Isacco non diventerà mai un adulto autonomo, perché la vita sociale richiede cervelli troppo complessi e capaci di sapersi costruire ruoli e relazioni. Piuttosto che aspettare seduti che arrivi il momento clou del nostro sacrificio di un’intera vita, diamoci da fare per vivere con maggiore leggerezza. Solo imponendoci di non considerare noi stessi vittime sacrificali, allontaneremo l’idea di emulare il padre Abramo nella sua follia senile. Impegniamoci piuttosto per conquistare al nostro Isacco le porzioni di vita sociale di cui ha diritto, cercando alleati perché un cervello ribelle come lui non abbia come unica alternativa alla nostra mannaia quella di finire nello scannatoio di un ricovero per cervelli

ribelli, in rappresentanza di una delle molteplici sottocategorie di inadeguati a trovare posto nella grande tribù degli umani mentalmente omogenei.

XVI

Le belle famiglie

Per realizzare un film sugli autistici fantasma abbiamo girato l’Italia con un pulmino. Con la troupe c’era pure Tommy, che faceva la parte del cane da tartufo: avevamo un itinerario stabilito per riuscire a riprendere un ventaglio il più vario possibile di situazioni familiari con autistici adulti, e lui, una volta sul posto, ci accreditava con le persone che ci aprivano casa, ci faceva da interprete con i ragazzi suoi simili. Anche se è difficile capirlo per chi non è abituato a frequentarne, gli autistici tra loro si riconoscono. Non è che scodinzolano e si annusano come cagnolini al parco, nemmeno credo abbiano la sensazione di riconoscere i tratti che li accomunano, semplicemente si comportano come accade nei film di zombie quando qualcuno dei protagonisti viene morso e si trasforma: smettono di agitarsi e vanno altrove. Forse per loro uno spazio non può essere occupato contemporaneamente da molte persone in ipertensione sensoriale. L’autistico, quando passa tra i suoi simili, può anche accendersi ed esplodere come un candelotto di dinamite, o può semplicemente disconnettersi dal mondo e sprofondare in quello stato di silenziosa osservazione di un punto qualsiasi dell’orizzonte, come se solo lui potesse intravedere quello che si nasconde in pieghe dello spazio che restano invisibili agli sguardi dei più. In tutte le famiglie che hanno ospitato la nostra troupe, a ogni latitudine e in ogni ambiente sociale, il set era sempre lo stesso: una casa organizzata come un santuario al cui centro vive un oracolo. La percezione che si avverte appena si varca l’uscio di quelle case è che tra quelle mura si consumi un culto clandestino, con i suoi adepti, i suoi riti, i suoi sacrifici. Da genitore di autistico, come testimone di situazioni simili alla mia, ormai potrei codificare un protocollo di comportamento buono per tutte le occasioni della giornata. Si fanno le stesse cose la mattina, con sveglia, lavaggi, vestizioni, avvio alla

giornata. Le stesse all’ora di pranzo e cena: mangerà, non mangerà, mangia troppo in fretta… Ha preso le medicine. Le stesse nella fase di messa a letto. Ho omesso i pomeriggi, perché qui si concentra il massimo sforzo. La gente comune il pomeriggio lavora, passeggia, s’incontra, fa l’amore, cammina. I genitori di autistici organizzano il tempo del figlio. I più fortunati, tra cui anch’io, hanno chi li aiuta, e quindi devono solo organizzare entrate, uscite, consegne, riprese in carico. Tutte cose che, comunque, ci collocano in una dimensione sempre laterale rispetto alle persone che possiamo frequentare. Ogni impegno è sempre subordinato alla momentanea e serena «sistemazione» del figlio. Questo per ogni giorno che ti sarà dato da vivere, senza sconti. Gli altri, quelli soli, non vivono. Sono perennemente agli arresti domiciliari, senza possibilità di amnistie, senza nessuno che concederà la grazia, anzi più pena sconteranno, più l’idea di libertà sarà per loro un miraggio. Il figlio cresce e aumentano le sue esigenze, tu ti appassisci così velocemente che nemmeno ti sembra possibile. Questo accade perché della propria soddisfazione personale, del proprio aspetto, di come ci si veste e ci si cura, gradualmente si perde ogni interesse, senza aver preso nessun voto si diventa simili a quelle suore che si fanno crescere i baffi o, anche se sono giovani, indossano quella maschera di sfuggite da ogni grazia che le fa sembrare decrepite. Per le religiose è conseguente a una loro scelta di mortificazione della vanità terrena, ma per noi è una scelta obbligata dalla mancanza di tempo e dalla perdita di estro vitale. Ho visto da vicino tante di queste madri, dignitose, fiere nella loro rassegnazione, ma conciate come lo erano le zie quando andavano alle messe pomeridiane. Già, ma le nostre zie si producevano nei tardi anni Cinquanta, le mamme di autistici di oggi sembrano così lontane dal tempo in cui vive la maggior parte del mondo sorridente e spensierato che nemmeno le badanti ucraine di prima generazione quando, con ancora addosso lo stigma del socialismo reale, s’incontravano tra loro la domenica ai giardinetti. L’accudimento di un autistico che cresce è come l’espiazione di una colpa mai commessa e, per giunta, senza speranza di assoluzione.

Sembra che il tempo sia impegnato in una corsa ad alleggerirsi di quelli che sono solo i frammenti rispetto alla massa rocciosa della montagna da scalare. Un terapista, un fine settimana da qualche parte, un nuovo farmaco, una crisi violenta, la noia quotidiana che gli si legge negli occhi in cui nessuno riesce a vedere gli universi solo a noi destinati. Possiamo anche scappare per qualche giorno, o per qualche settimana, come ho fatto io per scrivere questo libro. Ci ho provato, ma poi stavo male. Anche se sapevo che Tommy era accudito in tutto e per tutto, ben sorvegliato e al fresco nella nostra casetta di montagna, bello lontano dalla puzzolente estate metropolitana che io invece passavo con il condizionatore a palla. Avrei potuto starmene tranquillo e leggero, invece quello struggimento mi ha preso lo stesso e proprio perché tanto non riuscivo più a fare nulla, con quel pensiero fisso di lui, sono andato a trovarlo. Sembrava che mi aspettasse, era nervosissimo e aveva iniziato il consueto repertorio di stramberie, sfarfallamenti e saltelli per tutta la mattina, che di norma sono i campanelli d’allarme di qualche imminente sbrocco. Avrebbe potuto prendere i suoi occhiali e farli a pezzetti, tirare qualcosa sul muro, come in quel periodo in cui, al bar della piscina, afferrava sistematicamente il vaso dei pesci rossi e lo lanciava come una bomba a mano sul pavimento. Ne ricomprai almeno quattro, tanto che quando mi vedeva entrare il negoziante che li vendeva andava già a prendere lo scatolone in magazzino, perché aveva capito. Questa volta arrivai in tempo. Quando mi ha visto, ha avuto un sussulto, poi ci ha messo un po’ a ricondizionarsi all’idea che c’ero di nuovo, alla fine ha riacquistato la serenità. Non voglio fare il paragnosta, ma sono sicuro che avesse sentito che arrivavo, forse ha intercettato qualche frase tra le persone che erano con lui. Sta di fatto che già questo è bastato a sconvolgergli il mondo: non mi vedeva arrivare e per l’ansia iniziava a sbarellare. Ora che anch’io ho cominciato a considerare certi miei sintomi come segnali di un ben preciso stato d’animo, capisco molto di più quello che può provare lui. Quando ci si sente sopraffatti da un’onda emotiva, spesso è

difficile controllarsi: per esempio, sto avvertendo una sensazione simile solo per un piccolo malinteso di lavoro su cui ognuno si farebbe una risata. Per me è una tenaglia che mi stritola lo stomaco, di conseguenza una reazione sopra le righe con la prima persona che ne parla; ci penserò stanotte e sceneggerò nella mia mente insonne tutte le possibili variazioni di quello che potrei fare domani, come se fosse la storia di un delitto. Di solito articolo il mio autodramma come fosse Rashomon, 1 in cui i testimoni di un crimine ai danni di un samurai e sua moglie danno ognuno una versione differente. In questa fase mi riconosco nella bocca contratta di Tommy, quando strizza gli occhi e comincia ad agitare le mani come volesse spiccare il volo; lo smarrimento arriva fulmineo e a causarlo può essere veramente un nonnulla, a volte basta l’accenno di un pensiero, o qualcosa legato alla privazione. Mi spiego quello che più fa sbarellare un autistico: immagino sia l’idea di qualcosa di fondamentale che ci viene a mancare senza che sia possibile capire perché; penso che corrisponda a una sensazione di improvviso tracollo, come se scomparisse un pezzo del marciapiede su cui camminiamo. Per andare avanti dobbiamo saltare oltre una voragine che si spalanca tutt’a un tratto al posto di quel pezzo di marciapiede scomparso. Improvvisamente sentiamo che c’è solo quel salto da dover fare, senza un apparente scopo per farlo. Quel pezzo di marciapiede che manca ci martella nella pancia e ci sembra impossibile che altre persone possano continuare a camminare come se nulla fosse, proprio nel punto esatto dove per noi esiste solo un baratro. In quel caso, per Tommy il baratro era l’annuncio di un mio arrivo inaspettato e quindi ogni azione che l’avesse distolto da quel momento, come fare una passeggiata nel bosco, per lui era solo un precipitare nell’angoscia che potessi arrivare mentre lui non c’era. Ho detto che questo ormai lo sento non perché voglia dare corpo all’idea romantica e consolatoria che tra il figlio autistico e il genitore possa esistere un filo sottile su cui transitano i pensieri, ma perché anche a me capita di sentire la stessa stretta allo stomaco in un’infinità di occasioni quotidiane, quando l’imprevisto si sovrappone a un’idea che

mi ero fatto della mia giornata, rivoluzionata da un messaggio, una chiamata, un incontro inatteso. Noi genitori di strambi che talvolta siamo chiamati in occasioni pubbliche, siamo abituati a dover confermare iconografie familiari sprizzanti tenerezza e amore, ma con la tacita convenzione che sia tutta una farsa per una decente rispettabilità esteriore. Ci tocca diventare esempi reali di quel trasudo dolciastro che resta ormai attaccato solo ai commenti delle foto con cucciolotti e gattini nei social network. Quando oggi guardo le copertine dei miei libri autistici, con quell’immagine trasognata di me e Tommy abbracciati, penso quanto appartengano al passato. Lo scatto avvenne una mattina d’autunno in cui, quasi per caso, ci eravamo riparati dalla pioggia in un portone e ci scaldavamo a vicenda, e il nostro amico fotografo artista Fabrizio Intonti ci fece qualche foto. Così tutti ci videro un passaggio sottile di flussi affettivi tra padre e figlio, ma chi è del mestiere avrà capito che Tommy mi stava strizzando il lobo dell’orecchio per il preludio di una crisi oppositiva dovuta al disagio di dover aspettare che spiovesse prima di giungere alla macchina parcheggiata. Inutile che aggravi la mia già precaria reputazione per ribadire quanto io stesso non ne possa più di quell’immagine, né di sentirmi scrivere e dire: «Sei un padre straordinario!!!». Ma straordinario dove? Faccio quello che nella regola dovrebbe fare ogni padre, occuparsi del benessere di un figlio, dandogli quanti più strumenti di autonomia possibile. L’unico piccolo problema è che il mio, di quegli strumenti, ne avrà bisogno a vita… In Italia c’è un movimento di opinione che dice di battersi per la famiglia tradizionale e ha come simbolo una di quelle belle silhouette ritagliate su carta in cui papà mamma fratellino e sorellina si tengono per mano, in un’armonia dalla geometria perfetta, ma che non tiene conto del fatto che noi non siamo stati tutti ritagliati dallo stesso foglio di quaderno a quadretti. Se dovessimo dare una rappresentazione grafica della famiglia con neurodiversità al suo interno, non potremmo che raffigurarla al centro della moltitudine di quelle ritagliate usando lo stesso stampino per avere la traccia per le forbici. La difformità può essere rappresentata

solo accanto a un numero cospicuo di modelli perfettamente omogenei tra loro. Ecco, il cartamodello della nostra famiglia prevedrebbe un figlio gigante per mano a una mamma o a un papà, alternati per lo più, o almeno nella più rosea delle ipotesi, perché di solito ne resta solo uno, l’altro se la dà a gambe e cerca di rifarsi una vita. Invece, se resta, si accolla comunque il problema senza porsi limiti. Io ho sempre pensato che le belle famiglie ritagliate nella carta fossero solo quelle degli altri, lo pensavo ancora prima di essere adulto. Nei miei anni scolastici ricordo di avere sempre millantato che le famiglie dei miei compagni di classe fossero simili alla mia, almeno come la vedevo io. In realtà avevo la netta sensazione di vivere in un altro tempo, in un altro paese, tra persone nate e vissute in un mondo che nulla aveva a che fare con quei capolavori di armonia e ordine che vedevo nelle case altrui. A casa mia c’era sempre un odore per me sgradevole, un punto di luce, una disposizione dei vuoti e dei pieni che me la facevano sentire più estranea di qualsiasi luogo io conoscessi. Mi sentivo più a mio agio a cavalcioni del ramo di un albero che nel soggiorno dove non c’era nemmeno un divano, come se ci fosse un preciso disegno per cui tutto dovesse essere scomodo, freddo, inospitale. Guai a portare gente a casa. Ho vissuto per decenni oltre una soglia invalicabile per chiunque non fosse consanguineo. Quella era la regola: non si porta gente a casa. Era come se ci fosse un pudore di nascondere temibili micragne che ci rendevano tutti incompatibili con la frequentazione di estranei. Spesso, anche negli anni seguenti, mi è capitato di sentire qualcosa del genere, soprattutto quando avevo figli piccoli e quindi famelici divoratori di spazi vitali. La sensazione era quella di Alice quando mangia il fungo allucinogeno di quello sballatone del Brucaliffo, la casa diventava così stretta e angusta da sentirmi soffocare. Capisco perché ora posso stare anche giorni chiuso a scrivere nel mio rifugio sensorialmente adattato alle mie esigenze, anzi alle «nostre», perché per Tommy la massima ricompensa possibile a fine giornata è proprio andare, magari anche fermarsi a dormire, a «casa

papà», e vi giuro che quando siamo entrambi chiusi dentro in quel posto extraterritoriale c’è nell’aria qualcosa che per me è il surrogato più potente di quella che immagino sia la serenità. Risulterà sicuramente abnorme e perverso quello che ho scritto a tutti coloro che, invece, hanno sempre vissuto la casa di famiglia come una cuccia calda. Me ne rendo conto quando mi sento dire da persone adulte o persino mature che «devono» andare a passare una festività a casa degli anziani genitori. Alla mia domanda se lo sentano come un dovere, la risposta è quasi sempre la stessa: «Be’, sì, loro ne morirebbero se non andassi», oppure con alcune varianti tipo: «Non mi parlerebbero più, non mi riconoscerebbero più come figlio/a, sono vecchi e ci rimarrebbero male… Alla fine, anche a me fa piacere». Ecco, in varie fasi della mia vita mi sono sentito dare queste risposte da persone che pure avevano una loro vita autonoma e gratificante, ma per le quali il richiamo atavico era incontestabile, quasi che il ricatto amniotico avesse condizionato una parte del loro cervello che, per lo più, mi sembrava quello di persone socialmente molto evolute. Quanti invece sentono di doversi far piacere per forza ciò che, in realtà, è un peso insopportabile? Proviamo a guardare senza la scusante del «dovere» quelle orripilanti ritualità a cui siamo stati sottoposti sin da bambini. Nella maggior parte dei casi ci accorgiamo di essere delle «comparse» in una rappresentazione teatrale che non ci appartiene, come se fossimo stati scritturati all’ultimo minuto prima di andare in scena per sostituire uno dei protagonisti, che magari si è ammalato o è scomparso. Basta scorrere le foto di quando eravamo ragazzi: spesso non sono altro che crude testimonianze iconografiche di tutte le ricorrenze familiari in cui noi siamo stati usati come rimpiazzo di persone che non siamo noi, ed ecco che insieme alle immagini sbiadite cominciano a trapelare per tutti i sensi i ricordi sgradevoli di cui quelle testimonianze di brandelli di vita passata trasudano. Bacini, carezze, abbracci da dover elargire a zie puzzolenti o nonne sdentate. Per non parlare di quell’odore di fumo dei padri, quelle colonie svampite delle mamme, quel ciabattare per casa che ci martoriava le orecchie, quei biascichii del penoso rituale del desco condiviso, quel bagno che

ognuno ti lasciava impregnato dei suoi miasmi. Se tutto questo per voi ha un senso e non lo giudicate un delirio… benvenuti, siete dei nostri.

XVII

La tecnologia ci dirà chi siamo?

È chiaro che lo stress iconografico è più percepibile in generazioni che, come la mia, conservano ancora una sensazione tattile dell’immagine del passato. Le mie sei-sette foto da bambino erano stampate su cartoncino ruvido e avevano i bordi dentellati. Altre avevano angoli con lo spigolo che pungeva, perché erano stampate su cartone più spesso, altre erano polaroid e ancora conservavano qualche traccia labile dell’odore sbiadito che aveva il liquido fissatore che occorreva spalmarci sopra dopo lo scatto. Ricorda un po’ quel barlume di molecole volatili di acetone che si portano dietro le donne, nelle ore successive la visita dall’estetista. Altre foto sono curvate dall’essere state male affastellate in scatole inadeguate, altre si sono incollate tra loro, e le immagini, una volta staccate le fotografie, si sovrappongono con le facce appiccicate una sull’altra, quasi un tentativo primordiale di morphing in epoca predigitale. Oggi, chiaramente, è più difficile stabilire quanto di queste mie ossessioni possa essere conservato nelle gallery infinite che ognuno di noi affastella nei propri social network. A me, arcaicamente condizionato, la scomparsa della dimensione fisica del supporto di memoria, devo dire, mi limita lo scaturire dei ricordi polisensoriali, ma sicuramente la sensazione cambia in chi non ha la memoria storica della mutazione tra foto stampata e immagine digitale. Non escluderei che la diversa percezione delle icone memorabili corrisponda anche a una mutazione delle tracce di esperienze che amiamo definire «concrete». In che percentuale rispetto al passato un gesto diretto a noi, un’espressione, un contatto corporeo corrisponde a un sommovimento emotivo che ci traccia l’hard disk organico della nostra memoria? Non è banale il fatto che ognuno di noi ormai produca e condivida un numero altissimo di frammenti visivi corrispondenti ad attimi immagazzinati attraverso le retine e sparati in qualche archivio della

nostra mente. È chiaro che le foto che pubblichiamo nei social permettono solo una parzialissima interpretazione dell’immensa massa dei nostri quotidiani colpi d’occhio, e di conseguenza dello stratificarsi della nostra esperienza. È noto che gli autistici abbiano un approccio visivo sulla realtà diverso da quello dei neurotipici. Gli scienziati usano una telecamera a infrarossi – l’eye tracker – che registra i movimenti oculari per capire come i bambini autistici osservino l’ambiente a loro circostante, quali particolari li colpiscano, quale priorità diano agli eventi che accadono nei loro paraggi. A me capita di osservare un bottone del taschino della camicia di un uomo che mi sta parlando, magari dovrei guardarlo negli occhi, ma è più interessante quel bottone che forza l’asola perché dentro quel taschino c’è qualcosa che m’incuriosisce e vorrei scoprire. Ecco, ho fatto un esempio di mio sguardo autistico, o meglio di quelli che io chiamo «sguardi laterali», gli unici che mi restituiscono informazioni per me utili sul mio prossimo. Non è un caso che il primo nome della Onlus attraverso cui faccio progetti di comunicazione sull’autismo fosse proprio: «Sguardi laterali». Anche la storica rubrica web che da anni tengo per il mio giornale ha per titolo «Obliquamente». La pensai nel 2011, quando Tommy era ancora un figlio autistico separato da me, eppure m’incuriosiva la realtà osservata con sguardo obliquo. Quello che scrissi allora, oggi mi sorprende per la sua attualità rispetto a quanto sto esponendo in queste pagine. Pur totalmente inconsapevole di una mia possibile componente autistica, facevo già un’apologia dello sguardo obliquo: È un punto di vista mentale che destruttura e vanifica ogni sforzo dei costruttori di apparenza. Guarda obliquo chi sia capace di nomadismo della mente, chi abbia addestrato l’occhio furtivo per vedere dietro ai paramenti, alle costruzioni scenografiche, alle investiture condivise. Viviamo un’epoca fantastica in cui stiamo assistendo in tempo reale a una fase della nostra evoluzione; nessuno si è mai accorto della nascita del pollice opponibile, che per funzionare ci ha messo qualche milione di anni, ma in un solo decennio abbiamo tutti imparato a incorporarci nuovi dispositivi di relazione.

Ogni nostro rapporto, futile o importante che sia, nasce, cresce, abortisce o muore sempre di più attraverso passaggi mediati da macchine. Per essere adeguati al nostro tempo, avremo quindi sempre più bisogno di costruirci e adattarci indosso protesi che suppliscano ai limiti sensoriali ed emotivi della nostra natura biologica. Tra queste tecnologie evolutive, mi piacerebbe definire l’upgrade del nostro sguardo nella funzione: «obliquamente», una piccola utility per evitare i punti di vista comuni, consueti, rassicuranti, come pure le eterodossie di maniera, le strampalatezze omologate, le estrosità partecipate.

Mi sorprende ora che lo rileggo, in sintesi, pur non immaginando allora cosa fosse la neurodiversità, non avendo mai approfondito gli aspetti culturali di quella che ero convinto fosse una «malattia» di mio figlio su cui non avrei potuto fare nulla. Tommy era ancora un bambino e nemmeno mi ponevo il problema del «dopo di noi», ma avevo già ben chiaro che lo sguardo «diversamente orientato» dell’autistico fosse da intendere non come una patologia da correggere tipo lo strabismo o la miopia, ma un test che anticipa la riprogettazione dei punti di vista degli umani futuri. Ho letto di uno studio sulle avvisaglie della depressione basato sulle foto pubblicate su Instagram. 1 Non c’entra nulla con l’autismo, ma la ricerca mi suggerisce una considerazione che trovo banale quanto affascinante: le persone, attraverso Instagram, danno dei segnali di sé al prossimo. La pratica abituale di questo social network, lo dico per esperienza, prende la mano e viene sempre più spesso il desiderio di lanciare un sasso tra i nostri followers, per cercare conferme su di noi misurando la reazione in termini di «like» di quella popolazione sconosciuta che popola le gallerie iconografiche condivise. Instagram era in origine un insieme di filtri per ritoccare le foto digitali e renderle velleitariamente «artistiche», o ancora di più per attribuire alle proprie istantanee il valore del tempo, cioè «storicizzarle»: foto patinate, antichizzate, drammatizzate, ombreggiate, che conferiscono una dimensione onirica a quello che pubblichiamo. Ora, i ricercatori hanno fatto scansionare da un

software un numero di foto postate da un campione di persone, misurando i volti umani, le percentuali di luce, ombra, colore valutabili attraverso i pixel. Tramite punteggi dedotti dalla misurazione di questi ultimi sono riusciti a individuare dei marcatori della depressione, anche nei soggetti del campione a cui non era stata ancora diagnosticata. È interessante immaginare che un giochino come Instagram potrebbe farci la mappa di cose che abbiamo nel cervello. Noi facciamo una foto, scegliamo di fotografare magari un piatto di pastasciutta, come le nostre scarpe, o un tramonto, o un’insegna che ci attrae. Già diamo delle informazioni… Lo so bene, a Tommy piace fotografare e le sue foto sono particolarissime: può fotografarsi un dito decine di volte, o fare un’inquadratura impensabile. Già, ma è autistico, e si vede che molte sue foto seguono interessi non tipici. Lo stesso vale per l’uso dei filtri? A me piace usare quelli che rendono l’immagine fredda, virata sui toni del blu, poi lavoro sulla saturazione, sulle luci, sulla vignettatura. Sono sicuro che dal mio profilo Instagram si potrebbero leggere un’infinità di informazioni sulla mia neurodiversità, che magari riesco a mascherare quando scrivo o parlo. Mi sono confrontato su questa idea con il mio riferimento scientifico sull’autismo, l’amico Gigi Mazzone, che mi ha subito smorzato l’entusiasmo: «Attento! Il rischio è quello di essere superficiali come successo in passato e pensare di fare una diagnosi basandosi solo sul comportamento e senza approfondire quello che c’è dietro. La sfida della moderna psichiatria è, da anni, quella di trovare marker neurobiologici…». Ha ragione Gigi, ci mancherebbe pure che mi augurassi una psicoanalisi collettiva dall’osservazione dei social network. Di quella ricerca mi affascina proprio il fatto che è affidata a degli algoritmi, a delle macchine, non a una valutazione «umana». La macchina pesa, analizza e confronta attraverso i pixel il nostro prodotto fotografico e il risultato è un’elaborazione di dati empirici, non un’interpretazione. Il nostro rapporto con le macchine mi affascina e nelle macchine non vedo limitazioni poste all’umanità, bensì il loro far parte del nostro essere umani, almeno nel tempo in cui mi è dato di vivere.

Non so se questo stesso metodo di analisi potrebbe essere applicato anche a indicatori della qualità della relazione analizzando l’attività delle persone su Facebook o Twitter. Non certo attraverso la valutazione di quello che possiamo «immaginare» guardando delle figure o delle foto riprodotte, con giudizi basati sui nostri preconcetti, ma con un’analisi non emotiva di alcune significative costanti di questi comportamenti da affidare a un algoritmo appositamente elaborato, che lavori sulle nostre azioni quotidiane come scrivere status, postare foto, commentare azioni altrui, condividere, aggiungere emoji, ecc. In fondo sono tutti campi della nostra relazione facilmente classificabili e sarebbe impensabile escludere che alla fine potremmo produrre la fotografia riassuntiva di ogni nostra attività sociale. Come c’è prescritta una risonanza magnetica per stabilire un trauma o una patologia, l’analisi computerizzata della nostra attività social potrebbe diventare uno dei fascicoli della nostra cartella clinica. Ogni giorno, ognuno a modo suo, esercitiamo tutti un costante training alla relazione attraverso le nostre protesi elettroniche, ma proprio qui comincia a vedersi un nuovo criterio di valutazione delle differenze tra cervelli. La relazione digitale è avulsa da molte ritualità e convenzioni sociali, anche per chi ha problemi meramente «sensoriali» che limitano gli approcci concreti. Nell’astrazione dell’ombra digitale il «socialmente disagiato» può addirittura essere in vantaggio rispetto a quanti, proprio sull’osservanza di quei codici e parametri esteriori, basano ogni loro sicurezza e autostima. Di fatto sarà interessante osservare come i comportamenti in questo nuovo ambito di relazione renderanno più elastici i confini di quella che chiamiamo «normalità», soprattutto in ambiti di relazione mediata da strumenti digitali, che spesso sembrano costruiti su misura per i neurodiversi, forse proprio perché chi li ha pensati e costruiti probabilmente in parte aveva anche lui problemi del nostro tipo a capirsi con il mondo degli «altri». I grandi e giovanissimi padri fondatori delle maggiori applicazioni per relazioni digitali alla fine si sarebbero impegnati non tanto per fare un favore all’umanità dei cervelli regolari, ma per sfidarla su un campo di battaglia più favorevole a noi cervelli ribelli.

Siamo l’esito di una mutazione «importante», stiamo forse per entrare in una fase evolutiva che ha proprio nei portatori di autismo la sua avanguardia. L’avvisaglia è nel comportamento sociale, caratterizzato dal nostro velocissimo assuefarci al potenziamento delle abituali attitudini relazionali attraverso il piacevole e inebriante uso collettivo di protesi emotive. Questa improvvisa esplosione di possibili esplorazioni oltre i limiti ritenuti invalicabili delle dimensioni dello spazio e del tempo nella conoscenza di altri esseri umani e nella percezione della propria identità sta producendo un duplice effetto. La possibilità di condividere i propri pensieri e le proprie emozioni attraverso gli strumenti digitali ha provocato grande euforia in chiunque, e ancora più dirompente è stata la scoperta di potersi costruire una fittizia epica individuale. In questo ambito le persone più tenacemente neurotipiche sono facilmente sopraffatte dalla necessità di doversi misurare con un folle ampliamento delle loro relazioni, che tentano di gestire usando i comportamenti abituali elaborati dalla loro intelligenza sociale. Ed è molto probabile che ciò possa provocare sintomi simili a quelli di chi abusa di sostanze euforizzanti. I portatori di neurodiversità, invece, in questo guazzabuglio emotivo possono mettere a frutto lo stigma della loro «condizione patologica»: la maggiore attitudine alla relazione selettiva permette proprio a loro di essere l’avanguardia più credibile di un prossimo salto evolutivo rispetto alla socialità. Gli autistici vivranno meglio degli altri il futuro, che è già presente. Questo avviene naturalmente, e finirà per rappresentare la condizione migliore per essere perfettamente conformi alle nuove strutture di organizzazione sociale e professionale, come pure ai nuovi contenitori dove si passerà la vita. Sospetto davvero che la società si stia «autisticizzando», e non è detto che sia un male. Ci lasceremo alle spalle il vecchio mondo fatto di cuori di mamma, di fumigazioni passionali, di sensi di colpa generazionali, di dolorose ipocrisie per galleggiare in alterità condizionanti, di metafisica da opuscolo venduto porta a porta. La prima reazione di paura collettiva a questo ineluttabile esito è lo scatenamento della leggenda nera del «danno vaccinale». Si

attribuisce a un elemento quasi magico – una pozione malefica, l’azione di untori, stregoni malvagi, ecc. – quel mutamento oggettivo negli uomini e nelle donne delle ultime generazioni, che hanno radicalmente cambiato le loro abitudini, i loro comportamenti, il loro sistema di vita, il loro ambiente. Le persone che stanno operando, sotto gli occhi di tutti, le più grandi mutazioni nel modo di gestire saperi e relazioni sono inconsapevolmente autistiche, o per lo meno si comportano secondo quello che è classificabile come un cervello autistico. Chiaro che non mi azzardo ad avanzare diagnosi, non ho strumenti per farlo e nemmeno m’interessa avventurarmi in questa direzione. Parlerò solo di mie osservazioni della realtà «mediata». Per anni ho osservato la televisione e l’ho analizzata come «medium», vale a dire come evocatore di realtà fantasmatiche e non percepibili con i consueti rilevatori sensoriali. Al tempo parlavo del passaggio in tv, sempre più necessario a certificare un senso dell’esistere, come di un trapasso, un cambiamento della propria percezione di se stessi che arrivava all’identificazione della propria realtà con quella fittizia dell’«ectoplasma» generato dal potere «medianico» della televisione. Erano gli anni Novanta e tutto da allora è velocemente mutato. Oggi, osservando la dilagante esplosione del medium individuale che ognuno può attivare attraverso la propria protesi emotiva chiamata smartphone, ancora una volta non posso fare a meno di assistere all’evocazione di un fantasma: quello di allora gratificava e si chiamava «fama», quello di oggi atterrisce e si chiama «autismo».

XVIII

I nostri ammortizzatori emotivi

La qualità delle nostre relazioni ha subìto un cambiamento radicale, anche solo rispetto a come eravamo abituati a gestirle un decennio fa. La mediazione delle protesi elettroniche è ormai la condizione base per ogni rapporto, non sarebbe possibile farne a meno, sarebbe come dire a un miope di leggere senza occhiali. Ogni relazione equivale a una connessione, a una voce nella personale rubrica telefonica, a un contatto WhatsApp, o a qualsiasi altro mezzo ognuno preferisca usare, di applicazione in applicazione. Questa situazione crea una sensazione generale di facilità nel rapportarci con gli altri che non ha precedenti nella storia dell’umanità. È immediato assemblare e connettere tra loro le persone con cui abbiamo rapporti, nel database del nostro telefono si accavallano le amicizie e gli affetti sedimentati in una vita, assieme ai contatti memorizzati velocemente solo per una necessità estemporanea. Allegare un contatto è immediato come allegare una foto, ma di fatto rappresenta molto di più: si crea istantaneamente una connessione tra due persone che non si conoscevano e non avrebbero avuto altrimenti una possibilità così immediata di relazionarsi. Nel compiere un’operazione così semplice come condividere un contatto, in realtà creiamo delle mutazioni, non solo nell’assetto della vita dei nostri interlocutori, ma anche in maniera più estesa nella società che precedeva questa nostra azione. Per tale ragione oggi si stanno ridefinendo tutte le categorie finora conosciute per classificare secondo una gerarchia d’importanza le nostre relazioni. Il numero di telefono, l’indirizzo, le foto, il diario quotidiano dell’elettricista che abbiamo chiamato per una riparazione si collocano sullo stesso rango di quelli della persona con cui abbiamo condiviso i due terzi della nostra vita. Appaiono entrambi con una piccola icona del viso e i dieci caratteri con cui li abbiamo memorizzati, resteranno in eterno se non li cancelliamo e, di cloud in cloud, migreranno in tutti

i successivi smartphone della nostra vita. Riappariranno quando ci saremo già dimenticati di loro, se per qualunque ragione ci cercheranno anche a distanza di anni, forse nemmeno ci ricorderemo per quale ragione li abbiamo collocati nella periferica da 36 gigabite della nostra memoria sociale. Questa fase di passaggio ci obbliga a muoverci come funamboli sull’abisso che separa una realtà relazionale codificata da una che ancora è in fase di riscrittura; qualcuno corre spedito in perfetto equilibrio su questa fune sospesa, altri fanno più fatica, in ogni caso nessuno sa con certezza cosa ci sarà esattamente all’altro capo della fune. È un mondo ancora non ben chiaro a nessuno, come nessuno aveva previsto che il futuro sarebbe stato molto diverso da quello delle macchine volanti e del cibo in pillole che aveva immaginato la fantascienza. In un istante ci siamo ritrovati in una realtà imprevedibile di umani che, senza nessuna preparazione, si sono abituati all’idea che per il resto della vita avrebbero condiviso la loro esistenza con un telefono, attimo per attimo, senza nemmeno conoscersi di persona. In questa realtà sembra ancora più paradossale lo sforzo che molti compiono per indurre un autistico a costruirsi una rete di relazioni «normale»: già, ma ci siamo chiesti cosa s’intenda oggi per una maniera tipica di relazionarsi? Forse corrisponde a restaurare comportamenti codificati e usuali nella società predigitale? Oppure significa riuscire a stare in equilibrio stabile sulla tavola da surf del nostro smartphone e cavalcare senza farsi troppe domande le onde anomale del mare in cui ci siamo buttati? Il discrimine tra queste due opzioni non è banale. Dovremmo capire e decidere se per caso la mente autistica non sia già programmata anticipatamente per riuscire a sopravvivere, anche se con il motore al minimo, allo stress emotivo che sta attraversando l’umanità e ancor più sarà evidente quando diventeranno elementi dominanti della società individui che non hanno più memoria di come «funzionava» una volta, quando gli umani si mettevano in relazione tra loro, quando esisteva il concetto di vita privata, quando si era più limitati nel condividere comportamenti affettivi, tutte funzioni che in

realtà per la mente autistica sono irrilevanti, perché le ha già classificate come fastidiose e obsolete. Forse la selettività dell’autistico nelle relazioni non è razionale, ma di fatto sembra programmato per poter vivere senza quegli ammortizzatori emotivi che agli uomini che camminano sulla fune sembrano ancora indispensabili alla serenità, ma che per lui sono soltanto inutili cascami di precedenti fasi dell’evoluzione che necessariamente è salutare lasciarsi dietro le spalle. Verrebbe quasi da azzardare un approccio diverso rispetto al diktat primario di dover dare al figlio autistico istruzioni per il suo, necessario, adattamento alle consuetudini altrui. Sia chiaro, non intendo mettere in discussione quanto si sta facendo e studiando per abilitare i nostri ragazzi a una vita il più possibile inclusiva; anzi, considerato che per molti genitori questo non è ancora nemmeno un obiettivo contemplato, è il caso di continuare il più possibile a combattere le approssimazioni e le fumosità – davvero molto presenti in Italia – rispetto a un approccio razionale all’autismo. Non sono un medico, né tantomeno uno scienziato, ma sono convinto che rispetto a uno stato di scarsa conoscenza dei meccanismi che producono la mente autistica, almeno quel poco che ha evidenza scientifica deve essere considerato l’unico punto di partenza possibile, sia per capire le reali esigenze degli autistici sia per fare in modo che abbiano una vita il più possibile inclusa nel mondo in cui sono nati, pur senza pensare di alterare il loro stato forzandoli a una «normalità» che non fa parte dei loro orizzonti. Mi sono fatto un mucchio di nemici per avere sostenuto battaglie a favore di associazioni di familiari che erano stanche di essere messe in mano a ciarlatani e millantatori di ogni tipo. Nei miei libri precedenti ho ampiamente parlato delle cure miracolose, delle teorie strampalate dell’autistico imprigionato, delle terapie sciamaniche. Durante la realizzazione del film con Tommy ho conosciuto di persona parte dell’universo dei poveri genitori impegnati nei viaggi della speranza verso fantomatici luminari che suggeriscono disintossicazioni, diete, lavaggi del sangue dai metalli pesanti, camere iperbariche, terapie staminali all’estero, o pronti ad affidarsi ancora a specialisti con

approcci all’autismo scientificamente smentiti, ma comunque sostenuti dal servizio sanitario nazionale. Anche un quotidiano come «il manifesto», 1 che della difesa delle minoranze ha sempre fatto una bandiera, ha pubblicato la lettera di uno psicoanalista che rivendicava il diritto di trattare l’autismo, ma dalla quale trapelava, nemmeno troppo velatamente, che il vero scopo di tale rivendicazione di competenza era la speranza che in una legge regionale sull’autismo ci fosse spazio anche per la sua scuola di pensiero, che continua a illudere le famiglie con terapie inutili. L’importante, insomma, è che chi ancora si arrovella sulle madri frigorifero possa continuare a mettere mano nei trattamenti erogati dal servizio sanitario pubblico. Pregai lo psicoanalista che, per gentilezza, non venisse a frantumarci con la sua «apatia del vivere», la nostra vita è tutt’altro che apatica. Non si sarebbe dovuto permettere di darci degli «addestratori di automi», come scriveva nella sua lettera: noi facciamo per i nostri figli quello che, risultati alla mano, ci dimostra essere per loro la migliore maniera per avere una vita il più possibile autonoma e dignitosa. Abbiamo alle nostre spalle troppe generazioni di esseri umani buttati in discarica dai suoi colleghi per compiacere il pippamentalismo psicoanalitico di quella che chiamava la «cultura del vivere». Lui ci dava degli «ipocriti», attribuendoci «sensi di colpa» se preferiamo affidarci all’evidenza scientifica piuttosto che a uno sciamano che mette le madri sul lettino per «curare» i figli. Se mai gli capitasse di incontrare una di quelle donne che vedo ogni giorno arrabattarsi con i loro giganti al seguito, una di quelle madri che, come scriveva, «quando sono ferite nella loro femminilità, anche la maternità si fa molto vulnerabile, con conseguenze nefaste per i figli», costei sarebbe ben contenta di consigliare al signore psicoanalista in maniera molto esplicita soluzioni fantasiose per rendere anche la sua vita meno apatica. Ho letto considerazioni analoghe a quelle contenute nella lettera al «manifesto» addirittura in un documento ufficiale elaborato dalla Commissione Bicamerale per l’infanzia riguardo all’autismo, 2 che riportava i verbali di un’indagine conoscitiva sulla tutela della salute

psicofisica dei minori, finalizzata ad analizzare le situazioni che possono compromettere una sana crescita psicofisica dei bambini e degli adolescenti, come quelle legate al disagio mentale, ecc. Di solito funziona così: la Commissione ascolta esperti qualificati del settore, poi compila il documento che dovrebbe rappresentare un punto di vista istituzionale su un problema relativo alla salute pubblica e quindi si presume corroborato da una visione strettamente basata sulle evidenze scientifiche. Invece no. Pare che la Commissione abbia scelto di dare rilevanza alla vecchia scuola psicodinamica che promette straordinarie «uscite dall’autismo», facendo passare per di più una lettura terrorizzante dell’ABA 3 con termini che potrebbero far pensare che si tratti di una sorta di tortura brutale a base di scosse elettriche… Ma c’è di più. Riguardo ai trattamenti che la scienza reputa più efficaci, che spesso le famiglie pretendono a prezzo di estenuanti battaglie legali, nel documento della Commissione parlamentare passa il concetto dispregiativo che siano metodi di «addestramento», quasi suggerendo l’idea che gli umani siano trattati da animali che devono essere ammaestrati, paragonando le terapie comportamentali a un supplizio medievale e facendo balenare come alternativa terapeutica gli asinelli, animali «intelligenti e affettivi». Ho messo da parte questi cascami, ma un’idea che mi tormenta, devo confessare, è quella che vorrei io farmi «addestrare» da Tommy, capire attraverso di lui come muovermi in percorsi mentali meno condizionati, rispetto a quelli in cui giocoforza mi sono dovuto arrabattare, dall’età della ragione a quando ho cominciato coscientemente ad averlo accanto. Non lo dico per cercare di elaborare un disagio, o un senso di colpa, come mi stanno spesso scrivendo sui social gli antivaccinisti che mi vedono come pericoloso testimonial delle multinazionali del farmaco, ma proprio perché sono sicuro che con un cervello autistico come modello vivrei veramente più intensamente questa fase della contemporaneità. Sembra un ragionamento folle? A supporto del fatto che stiamo cambiando più velocemente di quanto possiamo percepire, si rifletta solo sul fatto che oggi sembra diventato necessario estrarre in maniera preventiva i quattro denti del giudizio, solo perché non ci servono più,

visto che mangiamo diversamente e verrà un giorno che spariranno da soli, come ci sono già scomparsi il vestitino di peli, forse anche la coda e persino il baculum o osso penico, residuo di un nostro passato di primati che molti rimpiangeranno, ma se ne facciano una ragione: averlo perso fa parte della nostra evoluzione. Non storcete il nasino politicamente correttino, non mi veniva in mente un altro esempio evolutivo in cui qualcosa di fisico cambia per l’uso sociale che ne facciamo. Non immagino un concetto che sia un po’ meno discriminatorio del rimpianto di quel gadget che ci è cascato circa 1,9 milioni di anni fa, quando la monogamia si è consolidata come espediente per riprodurci: avevamo sempre una donna al fianco e l’osso, che doveva essere l’arma di multipla rapina amorosa, si è reso inutile e si è volatilizzato. Proviamo dunque a immaginare un autistico come prototipo, di sicuro molto perfezionabile, di un’evoluzione anche «fisica», testimone di quello che diventeremo per il nostro modo di vivere le relazioni e che ancora non è facile accettare come possibile, almeno da chi è neurotipico al cento per cento, e quindi sorretto dalla sua certezza di rappresentare l’unica misura della «normalità». Potrebbe essere che chi viene ritenuto oggi nella norma in realtà sia solo un modello già superato di umano, proprio per il turbinio irrazionale di nostalgie che lo ancorano alle sue sicurezze sul valore d’esser savio.

XIX

Noi empacto-scettici

A Tommy è stato insegnato a salutare baciando sulle guance, e ora bacia tutti a raffica, velocissimo come se dovesse sbrigare un’incombenza fastidiosa. Bacia genitori, parenti, amici, persone sconosciute viste per la prima volta. Bacia assorto pulendosi immediatamente la bocca dopo aver baciato, come se volesse cancellare all’istante le tracce della contaminazione che gli ha procurato quel gesto forzato. Se è baciato, si pulisce la parte sfiorata dal bacio altrui. Qualche volta giochiamo su questa sua mania appioppandogli baci in parti difficili da raggiungere con la mano, tipo tra le scapole o in mezzo alla schiena, e ridiamo del suo arrabattarsi per la rituale pulizia. A volte lo si bacia a raffica in due persone assieme, e lui velocissimo con entrambe le mani neutralizza, persino dai vestiti, quella pioggia contaminante che gli arriva ovunque. Tommy è nella condizione estrema di un modo d’essere che segna il confine tra società avanzata e società arcaizzata. L’empatia tra corpi che permette di abbracciare senza reticenza una persona, in realtà, per noi empacto-scettici è per lo più un atto spiacevole, a meno che non sia motivato da una sufficiente armonia tra condizioni tattili, olfattive, termiche, reattive. Insomma, un corpo che abbracci t’investe con un turbine di sensazioni che devi gestire tutte assieme, e non è semplice che risulti piacevole un gesto che richiede l’attivazione di un numero così importante di recettori. A noi anziani predigitali hanno insegnato sin da piccoli che abbracciare non è un gioco, non si abbracciano tutti. L’autistico che è in me non ha bisogno di imporsi una regola comportamentale, sa quanto un abbraccio sia condizionato, e quindi lo applica molto raramente. Un’amica una volta mi disse: «Ma tu non sai abbracciare!». Eppure era una persona che razionalmente trovavo piacevole, quando la incontravo non avevo nessun senso di ripulsa, nella mia testa ero anche contento di abbracciarla per salutarla, ma forse lei,

particolarmente sensibile, sentiva mie profonde riluttanze che nemmeno io razionalizzavo, magari faceva la differenza con altre persone che le buttavano le braccia al collo piene di entusiasmo e trasporto. Io non mi sono mai lasciato trasportare in un abbraccio, nemmeno nell’infoiamento dell’adolescenza; almeno che io ricordi, non ho memoria di abbracci memorabili nella mia vita. Ho sempre la prevalenza di altre sollecitazioni, ora capisco perché ho studiato e mi sono interrogato. In effetti, non ci vado matto ad abbracciare, nemmeno l’avvenenza fisica mi spinge a farlo, per lo meno nella tradizionale forma di abbraccio affettuoso tra persone amiche o conoscenti. Dirò che nemmeno una persona con cui posso aver avuto o pensare di avere un rapporto più intimo trovo sia fondamentale abbracciarla. Sin da ragazzo mi sono sempre sentito dire «ma non mi abbracci?» dalle mie amiche più «personali»: abbracciarle «a secco» non era per me indispensabile, anche se poi si faceva l’amore. Posso fare anche un altro esempio, che mi fa ancora più riflettere su quanto ci sia di Tommy in me: ho capito che già il tessuto degli abiti di una persona riesce a creare in me sensazioni non sempre piacevoli. Io, per esempio, odio la lana, lo razionalizzo solo ora perché mi sono accorto che non indosso capi di lana da decenni, nemmeno in inverno. Soprattutto i pantaloni di lana sono un ricordo lontanissimo, ma anche le giacche di lana non entrano più nel mio guardaroba da tantissimo tempo. Se devo abbracciare una persona vestita con un capo di lana, devo ricominciare da zero il mio condizionamento a quel tessuto. Ecco, ho espresso a ruota libera un po’ delle sensazioni nascoste che ho sempre provato, e che riconosco appartenere tutte a una condizione che potrebbe essere comunemente definita «patologica». Ci ho sempre convissuto perché alla fine presenti in una bassa gradualità, tale per lo meno da potermi consentire una vita del tutto normale, salvo essere circondato da un’impressione generale di «persona un po’ particolare» o «stramba» o anche, in accezione affettuosa, «un po’ matto». Be’, è una vita che mi sento dare del matto, e su questo essere matto sono riuscito a costruire una caratteristica professionale. Non mi lamento, ma non è per tutti così. Ora che butto

lo sguardo costantemente nel mondo dei neurodiversi certificati, e dei loro familiari, ho capito che il punto più difficile da elaborare è che tutti, anche se con diversa consapevolezza, avvertono quanto le strutture sociali, così poco «piacevoli all’epidermide», sono in molti casi per noi gabbie di contenzione, che ci limitano non solo la libertà individuale di espressione e di azione, ma anche e soprattutto il benessere fisico e mentale. Questo dovrebbe essere uno spunto di riflessione per chiunque, proprio al tempo in cui molti amano evocare lo spettro della cosiddetta «famiglia naturale». Nel grembo di questo concetto di pura astrazione, potrebbe manifestarsi anche la possibilità che ci siano figli incapaci di autonomia. Persone che non coltiveranno mai il desiderio di poter avere una vita loro, separata da quella dei genitori. Si badi bene, qui non si parla dei bamboccioni, degli eterni mammoni, dei bimbominkia ultratrentenni… Avercene di quelli! Stiamo parlando dei nostri ragazzi neurodiversi, quelli che cresciamo e accudiamo esattamente come qualunque altro genitore con prole «nella norma» fa quotidianamente. Con la differenza che solo noi sappiamo, con crudele certezza, che il nostro non è un investimento sul futuro del figliolo, ma unicamente un lavoro che facciamo perché abbia almeno un dignitoso presente. Al futuro non vogliamo pensarci, perché nessun pensiero ci darebbe il conforto di immaginare una sua possibile vita in un mondo che sappiamo sulla nostra pelle quanto sia «diverso», rispetto a quello per cui loro sono programmati. La cura generale dovrebbe essere quindi maggiormente dedicata a stimolare condizioni «culturali» perché i neurodiversi possano crearsi serenamente una loro nicchia attiva per avere uno scambio con il resto della società. Il vantaggio di questa osmosi è indubbio anche per quello che considero «il mondo vecchio», quello arroccato sulle certezze dei cervelli standard. L’osservare, includere e frequentare i nostri cervelli diversi, senza pregiudizio, potrebbe per molti essere un tirocinio efficace per quell’aggiornamento del «sistema operativo mentale» che sarà indispensabile per affrontare un futuro sistema di vita molto più complesso rispetto ad alcuni incrollabili standard che ci hanno

accompagnato per millenni. Sarà sempre più evidente la necessità di sapersi agevolmente articolare su molteplici relazioni non esclusive, o di accettare un rapporto generazionale in cui la maggiore età dei genitori non li ponga automaticamente in una posizione di vantaggio dominante sui figli, o la dissoluzione del concetto che per ogni attività umana ci sia il suo tempo, quando fare o con chi fare percorsi di vita ce lo sceglieremo noi, non lo indicheranno più le scansioni «liturgiche» delle età della vita, o meglio, delle opportunità di avere comportamenti adeguati a una fase della vita. Quelli che ho accennato sono tutti concetti in continua ridefinizione e riscrittura, come già ce la fa immaginare quella coda di futuro che avvertiamo immersa nel nostro presente: la mente autistica, in alcune porzioni dello spettro in cui si presenta, ha già risolto molti di questi comportamenti laddove in alcuni soggetti ci sia una forte capacità di adattarsi a un mondo fortemente alieno. L’autistico è consapevolmente impegnato ogni istante in un faticosissimo lavoro di osservazione di ogni minimo particolare della realtà che lo circonda, come se tutto quello che per noi è realmente visibile e concreto e si chiama per esempio albero, casa, persona, animale, per lui non fosse altro che una sequenza di geroglifici disegnati e da decifrare. Non trovo rappresentazione migliore per definire questa sensazione che l’attitudine esercitata dai ribelli di Matrix di vedere la realtà fittizia generata dalle macchine guardando solamente il codice binario che la costituiva passare sui loro monitor. Attraverso sequenze di 1 e 0 che scorrevano sui vecchi schermi a led verdi, i ribelli vedevano il mondo illusorio che i computer somministravano agli umani per dar loro la sensazione di vivere normalmente mentre erano rinchiusi in bozzoli. Questo è quello che immagino, osservando quella parte di autismo con cui convivo e cercando di usarla per interpretare l’enigma quotidiano degli sguardi di Tommy, delle sue reticenze, delle sue improvvise fluttuazioni tra rabbia, terrore, pacatezza e serenità. È come se proiettassero un film alle mie spalle e io cercassi di intuirne la trama osservando le reazioni di uno spettatore seduto in prima fila in

platea. Quel film è il mondo come lo vede Tommy. Più consumo il mio tempo, più mi convinco che quella versione del mondo di Tommy e gli altri abbia dignità di esistenza e diritto di essere rappresentata, esattamente come quella versione «standard» dell’esistenza che condivide l’umanità neurotipica. Per questa ragione ho sempre sostenuto che i nostri figli autistici siano delle opere d’arte. Da una parte, questo affranca lo stigma della loro «follia», perché l’arte è l’unico territorio in cui essere folli non è considerato un limite, essendo ogni artista un folle nel suo distorcere e interpretare quello che banalmente ognuno vede perché impresso nelle proprie retine. Ancora di più, l’opera d’arte è una fenditura nella dimensione del consueto da tutti frequentato, oltre la quale c’è il mondo parallelo dove abitano i demoni dell’artista che l’ha prodotta. Mi piace per questo pensare gli autistici come porte che si aprono su altre realtà e altra qualità del tempo. Detto questo, non si può far finta d’ignorare che ogni disabile, in genere, è un essere fragile e bisognoso di attenzioni particolari, ma più fragili di tutti sono quelli privi di autonomia nel far evolvere la propria relazione con il resto del mondo. Impossibilitati a gestire il proprio umore e le proprie emozioni, resteranno sempre dei bambini da sorvegliare, anche quando cominceranno ad avere i capelli bianchi. Un figlio che pensa, parla e ragiona, anche se con qualche limite, avrà pur sempre una possibilità che qualcuno l’ascolti, anche se per lui potrebbe essere impossibile camminare, vedere, sentire, scrivere correttamente. Potrebbe sempre incontrare qualcuno che si sentisse sedotto dal suo pensiero, dalle sue idee. Potrebbe diventare un astrofisico, un cantante di grido, un musicista. Anche semplicemente una persona capace di badare a se stessa, di far valere i propri diritti, di muovere masse e coscienze… O anche meno, come raccontare fiabe ai propri figli, spettegolare con gli amici al bar, flirtare via Internet e poi anche dal vivo. Insomma, sono quei figli non perfetti al cento per cento che non avranno mai la vita facile, ma possiamo immaginare che comunque, con un po’ di fortuna e tanta tenacia, potrebbero anche farcela senza di noi. Tutt’è che riesca a connettersi con porzioni di

normalità e su quelle costruire una vita di compensazione rispetto al suo deficit. Altra cosa è vedersi vicino un figlio del tipo Tommy, che ti guarda invecchiare e, anche se non è capace di dirtelo, ti fa capire che senza di te per lui il mondo si dissolverebbe in un istante, esattamente come quando piove su un acquarello lasciato ad asciugare sul davanzale. Invece che lasciarsi struggere in questo ineluttabile disfacimento, forse possiamo ancora coltivare l’idea che si possa costruire quel modello di società dove la neurodiversità possa sviluppare i propri talenti attraverso i suoi rappresentanti con più alto funzionamento, e in questo modello ci sia posto, per una collocazione felice e il più possibile «produttiva», anche per quei soggetti come Tommy che devono essere considerati come un condensato di «autismo primordiale», come se fossero un pacchetto di aggiornamento ancora compresso in attesa di essere lanciato nel sistema operativo della società. Sono convinto che lo sguardo di Tommy sia uno sguardo antichissimo, lo sguardo di chi ha un patrimonio cosciente di memoria remota che nemmeno si può immaginare e che, purtroppo per lui, è nato nel momento sbagliato perché sia possibile decomprimere quel file e farlo interagire con il software mentale della maggior parte degli umani. Sono sicuro che, di autistici come lui, non se ne vedranno più tra qualche generazione, e mi piace pensare che non avverrà una selezione «a priori» come è avvenuto per altre categorie di «cervelli ribelli», come le persone Down, che indubbiamente saranno sempre meno perché sono individuabili ancora prima di nascere. Per i neurodiversi del nostro tipo sarà – immagino – molto difficile che avvenga la stessa cosa, perché la scienza dovrebbe riuscire a leggere una mappa così complessa di varianti quante sono le possibili manifestazioni dello spettro dell’autismo. Immaginiamo per assurdo che si riesca a rilevare in un embrione tutta la scala di autismi possibile, dove per esempio Tommy sia collocabile alla modalità nove e io magari, che so, alla modalità tre: chi si prenderebbe la responsabilità di decidere in anticipo che la mia vita sia degna di essere vissuta e la sua invece no?

Continuando naturalmente per assurdo, sarebbe chiaro che se il sistema di selezione eugenetica mirasse, come sempre è avvenuto in questo caso, a rafforzare un ideale prototipo di integrità, si finirebbe per creare un mondo fatto solamente di cervelli mediocri, perché è chiaro che l’equivalente dei capelli biondi e gli occhi azzurri del mito di razza ariana, nel nostro caso sarebbe produrre delle menti non particolarmente capaci di variabili imprevedibili, ma solo perché questo sconfinerebbe in territori definibili di follia. La società dei savi che alla fine si otterrebbe sarebbe fetida come il ristagno dell’acqua in un vaso di fiori, non produrrebbe alcun pensiero che già non sia stato pensato, si affosserebbe nella produzione di esseri omologati e docili. Quello che la peggior fantascienza catastrofista ha sempre immaginato, insomma. Quindi, anche voi appassionati dei complotti tenetevi i nostri autistici, non pensateli come esito vaccinale, che è una cazzata, ma piuttosto come il vostro vaccino alla tristezza infinita, quello che vi renderà immuni dal contagio collettivo di una sola mente, sempre la stessa distribuita in tutte le scatole craniche degli abitanti della Terra.

XX

Guai ai cervelli ribelli

Essere autistici è una condizione e non una malattia. Lo ripetiamo all’infinito quando leggiamo e ascoltiamo nefandezze del tipo «ammalato di autismo». Difendiamo a priori il fatto che ai nostri figli sia riconosciuto il diritto di essere come sono. Il nostro compito non è farli «guarire», ma piuttosto cercare di aiutarli a gestire il loro modo d’essere per poter convivere con persone diverse da loro. So che questo «ammaestramento», come lo definiscono gli psicoanalisti che si sentono defraudati del diritto di occuparsi di autistici, e soprattutto delle loro madri, potrà suonare come un atto vessatorio anche alle orecchie di quegli autistici «ad alto funzionamento» che hanno perfetta consapevolezza della loro alterità rispetto alla maggior parte delle persone che hanno intorno, ma probabilmente non ritengono giusto doversi adeguare a regole sociali che non condividono. Sta di fatto che anche loro potranno rivendicare quanto vogliono il diritto di esercitare liberamente la loro neurodiversità, ma quando poi dovranno lavorare, condividere un’abitazione, fare un viaggio, per quanto desidereranno assecondare il loro modo d’essere, dovranno tuttavia scendere a dei compromessi e imparare gli «usi» di quella tribù indecifrabile che sono i cervelli «regolari». Lo dice chi ne sa qualcosa… Credetemi. Lo stesso, quindi, vale per quei nostri figlioli che da soli non aprirebbero nemmeno il frigorifero quando hanno fame. A meno che noi accettiamo che il loro destino finale sia l’internamento in un lager, come allo stato attuale dei fatti è ineluttabile che avvenga. Più noi continueremo a combattere per la loro reale inclusione, più a loro toccherà comunque confrontarsi con una società composta da persone che sentiranno sempre radicalmente «diverse». Il nostro scopo sarà fare in modo che questa scelta, che noi riteniamo indispensabile, avvenga nella maniera per loro meno angosciosa. Non

possiamo pretendere che cambino la loro natura per risultare più accettabili dalla dominante società neurotipica: sarebbe abominevole come chiedere ai neri di sbiancarsi la pelle. Allo stesso tempo non dobbiamo farci illusioni. Anche la parte migliore e più accogliente dell’umanità che ci circonda si sentirebbe comunque fortemente destabilizzata da ogni cervello diverso, da ogni comportamento che riveli punti di vista eccentrici, rispetto al solco rassicurante del pensare condiviso. È chiaro che sarebbe ora di iniziare a prendere atto delle differenze d’impatto sociale che provocano le varie manifestazioni della neurodiversità. L’esperienza genitoriale, in questi casi, è molto condizionata dal modello di figliolo che ci è stato dato in gestione… Ho notato che le famiglie si arroccano in posizioni che spesso creano dissidi con altri genitori, a seconda del livello di autismo con cui hanno a che fare, sia nella loro prole sia in loro stessi. Mi sento di poterlo specificare, e spero che questa autoannessione alla grande famiglia riguardi non solo me, ma anche quelli che pensano che la diversità dei figli sia da attribuire soltanto a cause esterne, come se l’autismo del figlio nulla avesse a che fare con la propria equazione personale. È noto che ci siano, nei casi più difficili, figli che non parlano, non hanno autonomia; figli che ci picchiano, che si fanno del male, che distruggono, che urlano. Quanto pure, al contrario, figli capaci di verbalizzare, fare ragionamenti molto complessi e persino inquietanti. Fino a quelli che presentano solo delle piccolissime difformità nei comportamenti, nella lettura, nella scrittura, nel parlare, ma che non vanno considerati «fortunati» perché anche in loro è presente lo stigma dolorosissimo che quella difformità segna comunque sempre nella loro vita sociale e affettiva. Per avere esperienza simultanea di questi due stati mi sono dovuto trovare non molto tempo fa nello studio del mio amico Gigi, neuropsichiatra infantile. Mi ero portato Tommy perché il giorno prima aveva passato un brutto momento, era rimasto chiuso in un ascensore assieme all’amico Bobone, un’insegnante di disegno e il fido Marco, vegano tatuato che non lo molla un minuto. Tommy, intuendo

l’ansia degli altri per il blocco a metà di due piani, ha sbarellato e ha cominciato a menare a man bassa chiunque. Considerato che era una cabina di quelle di vetro anni Venti e il rischio di tragedia era imminente, Marco l’ha messo a terra e lo ha immobilizzato, finché sono arrivati pompieri, barella e varia gente urlante. Alla fine volevano portare via Tommy, che comunque si è dovuto far stendere in ambulanza per misurare la pressione. Il giorno dopo era schizzato e l’ho portato da Gigi, nel cui studio ha ripetuto il comportamento problema: si è accapigliato con me, una sua manata ha fatto un buco sulla parete in cartongesso, poi sono riuscito a farlo stendere, ma lui si è spogliato tutto nudo e passeggiava con lo spadone in mano. Insomma, quanto è bastato per farmi venire immediatamente una gastrite soffocante. Pensavo che episodi del genere appartenessero al passato, invece no… Ecco che allora bisogna provare un nuovo farmaco, di quelli tosti che richiedono il piano terapeutico. Perciò, ancora una volta, in fila come un drogato per il metadone a farsi dare il permesso scritto per poter acquistare la bomba per demolire tuo figlio picchiatore e far rinascere quel pupone svagato che almeno non mena e non fa l’esibizionista. Se accadesse qualcosa del genere a scuola, sarebbe una tragedia: già è difficile farlo accettare, figuriamoci se si fa la nomea di violento o sessuomane. C’è caso che lo caccino anche prima del termine fatale. E la mattina, io che gli faccio fare? Questo pensavo quando è irrotta nello studio una madre che faceva un corso nell’aula attigua. Era piuttosto confusa, si voleva confrontare su alcuni problemi che le procurava il figlio coetaneo di Tommy, ma ad altissimo funzionamento. Un ragazzo che si è diplomato, che parla, che ha la passione del cinema e ha già fatto un documentario tutto da solo, un ragazzo che ha passato da poco un periodo all’estero senza che nessuno l’accompagnasse. Una situazione fortunata, si penserà, un passo avanti rispetto a Tommy, almeno nella gestione. Macché, quella madre era disperata: il figlio non le parlava, non le diceva nulla di quello che faceva, anzi minacciava di continuo lei e il

padre, tanto da farla disperare per l’impossibilità di recuperare un filo di comunicazione con lui. Nulla di nulla, quello se ne stava asserragliato in camera o usciva senza dire dove andasse o chi vedesse. La donna non si dava pace… Ho avuto sentore di un rovello comune tra me e lei, perché gestiamo due persone dai comportamenti molto differenti, ma entrambe incasellabili in un’unica grande famiglia sin da quando frequentano le elementari. Parlino o non parlino, abbiano una diagnosi di basso funzionamento o di alto, sono comunque quelli che hanno il cervello che gira diversamente, quelli che seminano inquietudine negli insegnanti, spesso incapaci di gestirli, quelli che in classe comunque rischiano maggiormente di essere bullizzati, prima dai compagni con i cervelli perfetti, poi dai genitori dei compagni che si pongono il problema della loro esistenza solo quando realizzano che un autistico in classe potrebbe rallentare l’apprendimento dei propri figli. Queste ansie dei genitori dei bravi ragazzi cominciano di solito ad apparire nei gruppi WhatsApp, ma il passo successivo è scrivere petizioni al dirigente scolastico, minacciando il ritiro dei propri figli dalla classe, perché c’è troppa follia contagiosa per un tranquillo futuro, nella totale ortodossia cerebrale, dei loro piccoli. Pensare che se invece ci fossero insegnanti illuminati, quei pensieri balzani, quei comportamenti irregolari dovrebbero essere elementi di attenzione per tutta la classe, dovrebbero essere considerati oracoli, non minorati. Tra quei cervelli ribelli ci sarà chi riscriverà di sicuro parte dei libri scolastici che gli altri oggi devono imparare a memoria, per appiccicarsi nella testa quanto basta per avere la patente di cittadini dell’umanità che pensa bene, ma non produce pensiero. Nella porzione di storia che sto vivendo nel mio paese mentre scrivo, mi viene da dire che viviamo nel tramonto del rischio di un forte pensiero antagonista che possa creare disordine e confusione nei valori che trasmette, o dovrebbe trasmettere, la scuola. Gli unici a esprimere un dissenso, seppur quasi sempre muto, o non articolato in un comportamento condiviso tra persone affini, sono proprio i neurodiversi, unici cervelli ribelli rimasti a testimoniare un punto di

vista costruttivamente sovversivo, nel panorama omogeneo provocato da un unico frullato di tutte le ideologie passate che oggi è rappresentato dalla politica. Un mix di frutta mista le cui possibilità di divergenza tra ottiche opposte è rappresentata dalla percentuale di zenzero presente nel beverone. Questo è uno dei tanti motivi per cui fanno paura i «cervelli ribelli»? Ne fanno moltissima, a tutti. Nulla destabilizza l’assetto sociale quanto i pensieri inclassificabili, almeno nelle più consuete interpretazioni del reale. Il focus collettivo che si sta espandendo sulla condizione autistica (che qui intendo nella sua più vasta e multiforme espressione possibile) è significativo di un’inquietudine generale verso i sintomi autistici, quasi si paventasse l’inizio di una temibile sovrascrittura evolutiva sulle caratteristiche più emotivamente viscerali della condizione umana. Se potessi esprimere un paragone per far capire come possa sentirsi oggi un genitore che voglia sostenere i sacrosanti diritti negati di un figlio neurodiverso, potrei azzardare che è lo stesso stato d’animo di quei tanti genitori «normali» che negli anni di piombo scoprivano di avere un figlio assassino o terrorista solo quando questo era arrestato, quindi increduli provavano comunque a organizzare una macchina di difesa per togliere il figlio dal carcere, o alleviarne la pena. Questi genitori sentivano sempre e comunque sulle spalle il peso del giudizio altrui, che assimilava l’uscita dalla regola dei figli a una probabile sregolatezza nascosta nei padri e nelle madri. Non prendiamoci in giro, siamo nel paese del «tale madre tale figlia», se si vuole addebitare a un’intera linea di sangue femminile qualsiasi segnale interpretabile come sintomatico di affocatezza carnale. Come pure per ogni maschia sregolatezza si cerca sempre di risalire a un padre che qualcosa abbia sbagliato o qualcosa di sbagliato si porti nel corredo di geni che lascia in eredità ai successori. Saremmo visti con minore sospetto e diffidenza, sia noi che i nostri figli, se avessimo generato delle chimere, piccoli minotauri, graziosi gattini antropomorfi, simpatici cucciolotti che scodinzolano e camminano eretti come Pippo. L’umanità allo stato attuale della sua consapevolezza avrebbe maggiore attitudine a considerare

umanizzabili gli animali che a mettere in discussione i processi neurologici tipicamente condivisi. Persino le punte più scaltre della nostra classe politica hanno capito come sia più redditizio fare campagne di propaganda per sostenere le spese di mantenimento di un animale domestico che attivarsi concretamente per rendere la vita migliore a umani neurodiversi.

XXI

Gli incompatibili autistici

Non voglio raccontare di nuovo quello che è già stato detto un’infinità di volte da tanti genitori disperati, senza che nulla sia mai cambiato naturalmente, ma perché non può cambiare, anche ammesso che arrivino dalla luna i governanti più illuminati che noi potremmo mai immaginare. Ammesso che si facciano leggi perfette, che la scuola diventi realmente inclusiva anche per i soggetti dai cervelli più tosti come i nostri figlioli, ammesso che tutto scorra come in un sogno e i nostri affanni potessero essere diluiti verso altri obiettivi che non siano la sorte del figlio autistico… Ammesso tutto ciò, siamo sicuri che la società attuale sia disposta a considerare senza riserve la neurodiversità una condizione possibile dell’esistenza? Io penso che questo sia molto difficile, se non impossibile. Facciamocene una ragione, il pensiero neurotipico è la culla di ogni certezza per quella porzione di umani che stabilisce le regole del vivere. La curva della «normalità» copre un segmento sempre più esile del mondo civilizzato, ma proprio per questo si barrica e alza fortificazioni verso ogni sintomo che possa minacciare la sicurezza del livello più condiviso di consapevolezza. Vediamo di focalizzare alcuni segnali: il pensiero generale considerato positivo in quanto maggiormente condiviso si addensa sempre di più verso l’area della conservazione. È vero che la cosiddetta «fantasia al potere» è stata una grande delusione per tutti quelli che ci avevano creduto. Non esiste traccia di un pensiero eclettico, della leggerezza di chi sa passare sopra i pregiudizi, della comprensione del proprio prossimo per sincero e incondizionato senso di pietas e non per appartenenza ideologica. Soprattutto è scomparso quel bel sentire laico che è talmente risolto nella sua consapevolezza da essere rispettoso e persino curioso di ogni antitesi alla sua fiducia nel pensiero empirico e razionale. Oggi si

contrappongono integralismi, oggi si tende alla semplificazione per paura di ogni complessità, oggi ritornano la paura e l’irrazionale a governare il pensiero di massa. Ha suscitato grande, quanto breve, clamore mediatico la notizia della morte a Pesaro, per una semplice otite, di un bambino di sette anni. L’indignazione di popolo accese i riflettori sul medico omeopata che lo aveva in cura e che, invece di prescrivere un banale antibiotico che l’avrebbe guarito in poco tempo, gli somministrava zuccherini omeopatici condannandolo a una morte atroce causata dall’infezione che gli aveva compromesso il cervello. Il medico era pure un ex adepto di un gruppo che s’ispirava a sermoni di preti esorcisti e miti dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Si era cancellato dall’ordine dei medici, per anni aveva fatto il facchino, poi era tornato a indossare il camice e sembra che svolgesse con profitto il ruolo di curatore omeopata. Insomma, un perfetto rappresentante di quella «scienza alternativa» o «medicina dolce» che tanto piace agli analfabeti funzionali che guerreggiano con le loro tastiere e talvolta scendono in piazza a manifestare per rivendicare il diritto di farsi curare da persone come lui. A seguito della morte del bimbo, però, l’avviso di garanzia è pervenuto non solo al medico omeopata, che ha ricevuto la visita dei carabinieri che gli hanno perquisito l’appartamento e sequestrato computer, telefoni, ricettari, farmaci, ma anche ai genitori del piccolo. La notizia non va liquidata come un caso isolato, perché è piuttosto il sintomo di una patologia sociale diffusa, da analizzare con cura. Da quanto Marco Zonetti ricostruisce su «Affari Italiani», 1 la scelta dei genitori di affidarsi all’omeopata quasi santone non era stata casuale, ma frutto di una ben precisa, e molto condivisa, ideologia basata sulla superstizione e il disprezzo per la scienza. Dalle immagini pubblicate nel profilo Facebook del padre risultava palese una sua spassionata adesione a tutte le fantateorie complottistiche che oggi rappresentano l’alimento ideologico del neosciamanesimo tastierista. Nell’estrema pietà per quelle che saranno state le sofferenze del bambino morto, è importante riflettere su quale sia il livello di presa della social-fantascienza sulle coscienze di una fetta importante di

italiani. Non può più essere definito semplicemente come un fenomeno di analfabetismo funzionale, è molto di più. Si pensi solo al dramma di due genitori che vedono un bambino che si lamenta per giorni squassato da dolori indicibili e non lo portano in ospedale solo perché un signore, che vende loro acqua fresca come cura, assicura che dietro la scienza medica c’è un complotto. È lo stesso sintomo di deterioramento culturale per cui, nel medesimo periodo, nel Cosentino un padre ha tentato di strangolare un medico solo perché lo riteneva colpevole di aver provocato l’autismo del figlio vaccinandolo. 2 Non possiamo più considerare un semplice fenomeno di folklore quello che sta profilandosi con i contorni di un vero e proprio integralismo religioso, molto più ottuso, spietato, oscurantista e ignorante. Un movimento di pensiero condiviso anche nelle fasce medio-alte della società, assai più pernicioso di ogni altra forma di regressione sociale collettiva conosciuta negli ultimi decenni. È l’informazione scientifica gestita da analfabeti funzionali che continua a fare vittime. È una storia abbastanza sottostimata dalla stampa nazionale, ma è un segnale pericolosissimo di quello che sta accadendo nel clima generale di confusione e ignoranza diffusa rispetto alla medicina e alle evidenze scientifiche. Non so quanti si aspettano che io, di fronte a tutto questo, continui a sbattermi per fare qualcosa. Da quando mi sono visto costretto a pagarmi un avvocato per cautelarmi dalle rimostranze dei tanti professionisti dell’autismo che si sentivano danneggiati da quello che dicevo e scrivevo, sto cominciando a pensarci su. Non mi sento la vocazione del Don Chisciotte, e ritengo che se in Italia esiste una comunità scientifica che vuole continuare a essere definita tale, cominciare a mettere dei paletti tra medici e praticoni è affar suo più che mio. Molti genitori come me, invece, ancora pensano che riuscirò a inventarmi qualcosa che possa aiutare anche loro. Altri, invece, credono che sia solo un chiacchierone che usa il figlio come una specie di fenomeno da portare in giro. Come fosse un Bigfoot catturato tra le nevi, o un King Kong in procinto di spezzare le catene. Io ho smesso di dispiacermi per le incomprensioni con i miei

«colleghi», nemmeno ho più voglia di replicare a quel settore di umanità contigua all’autismo che ha ancora voglia di difendere posizioni ideologiche sulle origini del problema dei loro figlioli, sulle terapie, sulla gestione quotidiana, su quella orribile zona ai confini della realtà che chiamano «dopo di noi». Sono ancora dell’idea che avrò un po’ di tempo utile per lavorare sul futuro di Tommy, mi sento in forze, cerco di non dare troppo peso ai sintomi fatali dell’età e di occuparmi il più possibile di analisi della contemporaneità, resetto all’istante ogni possibile tentazione di guardarmi alle spalle per ripescare scampoli di vita vissuta. La diagnosi che mi ha definito qualcosa di autistoide mi ha veramente cambiato il punto d’occhio sulla vita. Innanzitutto ho deciso di indossare solo abiti che non mi accorgo di avere addosso. Un’amica se n’è accorta: «Che hai, la sindrome di Braccio di ferro?». Alludeva al fatto che, come Popeye, avessi addosso sempre la stessa divisa. Aveva notato che da mesi avevo sempre gli stessi pantaloni, le stesse scarpe, le stesse camicie. Non è che non mi cambio, anzi sono un maniaco della pulizia, ma sto acquistando abiti in serie. Quando indosso un pantalone e mi sento particolarmente a mio agio, ne compero due e, se mi trovo bene, subito altri due, prima che escano di produzione. Lo stesso vale per le scarpe: ho trovato un modello che non mi toglierei mai dai piedi. Ne ho quattro paia, uguali, salvo il colore che ha piccole variazioni. Questo vale per ogni capo di vestiario, comprese mutande, magliette, calzini (che metto poco). Ciò comporta che stiano uscendo dai miei armadi tutti i vestimenti che magari una volta mettevo volentieri, ma ora non riesco più nemmeno a provarmi davanti allo specchio. Mi sono sgradevoli addosso e non li metterò mai più. Guardo ancora le mie foto passate e sorrido per la goffaggine con cui mi infagottavo di roba che non mi corrispondeva, magari seguendo le mode del momento, o alcune ritualità sociali. Io in grisaglia con camicia bianca e cravatta, io con giacche di tweed e il papillon, io con orribili pantaloni beige, io con spolverini, giacconi, cappotti… Infatti ricordo che non ero mai tranquillo, non vedevo l’ora di tornare a casa e togliermi quella roba di dosso.

Ora ho standardizzato la mia divisa. Da un anno circa indosso solamente una marca di jeans, cambia solo lievemente il tipo di lavaggio. Alcuni sono più scuri, altri più chiari. La prima volta che ne ho provato uno, me lo sono sentito perfetto, nemmeno occorreva accorciarli. Non troppo attillati, ma mi calzano come una seconda pelle, senza nessuna sgradevole pressione in vita o nelle parti basse. La settimana dopo ho dovuto subito comperarne un altro paio uguali per necessità di lavaggio. Ora ho un set di jeans uguali che mi consente agevolmente di portarli sempre. E pensare che per almeno vent’anni della mia vita non avevo più messo jeans, li giudicavo inadatti alla mia età, deridevo gli uomini maturi in jeans. Ma una volta ho cominciato a metterne un paio di quelli comperati per Tommy adolescente che gli erano diventati piccoli nel giro di un cambio di stagione e mi sono accorto che erano i miei pantaloni ideali, soprattutto perché sono più difficili a macchiarsi. Io ho sempre considerato un incubo le macchie sugli abiti: una macchiolina di pomodoro sulla camicia può rovinarmi una giornata, figuriamoci la patata fritta che cade sulla gamba mentre sei seduto a tavola… Perché lo dico? Perché questa è roba molto da autistici. Lo so bene e l’ho imparato da Tommy; anche lui da anni è praticamente in divisa: pantaloni militari camouflage lunghi d’inverno, corti d’estate. Magliette vivaci o anche nere di cotone, purché abbiano scritte e marchi evidenti. Felpe sempre di cotone (odia la lana addosso, proprio come me; la lana pizzica, è fastidiosa, ha un cattivo odore e fa ribrezzo pensare che viene dalla pecora, che è piena di zecche). Pure le scarpe che porto le ho scoperte perché, dopo variegate sperimentazioni, sono quelle che più piacevano a Tommy. Rigidamente senza lacci, molto tecniche, interamente in cordura, lo stesso modello è indossabile in ogni stagione. Se guardate mie foto o il film che abbiamo girato, ho lo stesso modello di scarpa sia tra le nevi del Trentino sia in spiaggia in Calabria. Mi sembra meraviglioso. Il vantaggio di questa scarpa è che è un bel modello molto fashion e puoi indossarla anche con la giacca: sempre in cotone, sempre blu, sempre sfoderata; quelle estive e quelle invernali cambiano solo per la pesantezza della trama, per il resto sono identiche.

Mi viene in mente il famoso monologo di Bill su Superman prima che «La sposa» lo uccidesse con i cinque colpi delle dita che fanno esplodere il cuore: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman … quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro … è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. … Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana. 3

Ecco, gli autistici devono camuffarsi da umani per essere accettati, e la divisa da supereroe di Tommy sono maglietta, felpa e pantaloni mimetici. Io non ci faccio caso, perché lui gira sempre vestito da supereroe, sta a suo agio e per me non è un problema. Una volta sola mi sono accorto della sua capacità di essere anche Clark Kent: fu quando andammo a presentare l’anteprima del nostro film in Senato. Per l’occasione avevo rivestito Tommy da capo a piedi. Era la prima volta in vita sua che metteva giacca e cravatta, era indispensabile per il rispetto del rigido protocollo. Sembra impossibile, ma come si è messo l’abito blu che avevamo acquistato al volo per l’occasione è diventato un’altra persona, come se avesse capito che in quella circostanza a lui si richiedeva compostezza e osservanza del cerimoniale. Mi pento di non averlo mai vestito prima da «uomo», chissà perché continuavo a pensare che fosse un eterno ragazzino… Magari per lui sarebbe stato più facile «confondersi».

XXII

«Eravamo già autistici nelle palle dei nostri papà» Dopo la notizia che forse sono autistico anch’io, ho osservato che la cosa, senza che lo rivelassi, è cominciata a trapelare dalle reazioni ad alcune cose che scrivevo o dicevo. Ho avuto l’impressione che fosse già possibile leggere un mio atteggiamento, diciamo, più consapevole verso l’autismo: Nicoletti difende solo la sua incapacità nel cercare di migliorare la condizione di suo figlio. La sua cattiveria e la sua anaffettività gli fanno temere che prima o poi il figlio possa ripagarlo con la stessa moneta. Basta leggere il libro per accorgersene.

Era un padre che su Facebook commentava inviperito una mia netta presa di posizione rispetto alla psicosi collettiva sui vaccini che è esplosa da primavera. Commentavo la sentenza della Cassazione che riguardava un altro padre che chiedeva rimborsi per il figlio autistico, secondo lui, per colpa dei vaccini. Avevo scritto un editoriale sicuramente provocatorio, e il tipo, naturalmente anche lui antivaccinista, ci colse subito in filigrana la scoperta del mio autismo, riportando per intero e commentando la frase che in effetti era più indicativa della mia transizione: «Noi eravamo già autistici quando galleggiavamo come possibile progetto nelle palle dei nostri papà, questo vi rassereni sul futuro dei vostri pupattoli prestampati, che giustamente voi vorreste comunque e sempre come canarini a cantare nella tristanzuola gabbia degli umani neurotipici. Che ne sapete voi dei nostri pensieri ballerini, di quel punto del cielo che solo noi vediamo, delle nostre risate sulla vostra vita affannata?». «Un’intelligenza sublime» commentava ironico. «È l’unico padre di figlio autistico talmente immedesimato che si autodefinisce autistico. Il futuro lo ricompenserà come merita, ne sono certo. Con gli altri papà di figli autistici con percorsi di miglioramento e addirittura di

forte miglioramento intoniamo una consona pernacchia. Il vate di campagna non me ne vorrà.» Chissà perché mi malediceva e spernacchiava? Ora so che non me ne renderò mai conto perché mi è difficile entrare nel suo punto di vista, ma perché dovrei sentirmi menomato per questo? Mi pare tanto tristanzuola la sua ira verso di me, che in fondo nemmeno lo conosco, mai l’ho citato o coinvolto. Era arrabbiato perché negavo che l’autismo di Tommy potesse essere frutto di una vaccinazione. Tra l’altro, Tommy nemmeno fece lo specifico vaccino per il morbillo, allora non obbligatorio, infatti si prese il morbillo esattamente come me da piccolo. Ai tempi non esisteva nemmeno l’idea dei vaccini che facevano diventare autistici, anzi io nemmeno avevo mai sentito parlare di autismo: avevo un figlio che non parlava, ma pensavo che prima o poi si sarebbe sbloccato. Ma questa è una storia già scritta. Sono sicuro, però, che il padre che scriveva era imbufalito perché era convinto che io fossi fatalmente rassegnato al fatto che Tommy non possa migliorare il suo stato, quindi mi vedeva come negazionista del miglioramento o del «forte» miglioramento dei figli altrui. Non amo prendere in giro me stesso: quando lo faccio, lo faccio consapevolmente come se prendessi un cachet per il mal di testa. Sono più che convinto che il mio intento non è certo quello di imprigionare Tommy nella sua condizione senza muovere un dito per dargli autonomia. Essere autonomo, però, non significa che lui debba «migliorare» dal suo stato autistico. Si migliora nel corso di una malattia, muovendosi nella direzione di uno stato di benessere. Non credo che a un autistico si possa chiedere di cambiare il suo cervello immaginando che così starà meglio. Ora è chiaro che Tommy più riesce a stare serenamente in mezzo alla gente e meglio è per lui, ma questo non potrà mai comportare la sua regressione dallo stato autistico. Lui potrà adattarsi al mondo dei neurotipici, anche se con fatica e sofferenza a volte indicibili; lo farà perché glielo imponiamo, come a noi imposero da bambini di apprendere lingue straniere per dialogare con culture differenti dalla nostra. Il suo cervello, però, resterà sempre quello, perché la sua particolare condizione equivale a essere una

sorta di «beta tester» dell’umanità futura, cioè fa parte dei «tiri di aggiustamento» necessari per colpire il prossimo bersaglio del nostro cammino evolutivo. Quello che di tutto ciò mi coinvolge, però, è che a me è toccato dovermi occupare di uno degli esperimenti di laboratorio della nostra evoluzione. Immagino una grande équipe di scienziati che lavora appunto a migliorare le possibilità dell’umanità di adattarsi al mondo in mutazione. In questo periodo, che potrebbe essere lunghissimo in termini di tempo – radicalizzo per necessità di sintesi –, si sta occupando del cervello. Ci serviranno cervelli sempre più efficienti, perché il mondo ce lo siamo costruito molto più complesso di come l’abbiamo trovato ai tempi in cui vivevamo in caverne, e soprattutto dobbiamo imparare a pensare oltre i nostri limiti tradizionali. Vediamo lontano simultaneamente a moltissime altre persone, condividiamo con il resto dell’umanità pensieri, immagini, momenti di vita. Un bell’esercizio, che ci richiede processori sempre più potenti nei nostri apparati elettronici e sinapsi sempre più cazzute nei nostri cervelli. La fase di adattamento a tutto questo ha naturalmente un costo, e questo costo sono le persone come Tommy, gli autistici detti «a basso funzionamento». Hanno negli occhi lo splendore dello sguardo, che spazia in un mondo nuovo, alleggerito da cascami emotivi che gli uomini si sono lasciati alle spalle. Verrà un momento in cui anche i «Tommy» così poco strategici, in quanto incapaci di badare a se stessi, saranno assorbiti in nuovi umani con meno problemi di ansia di convivenza. Al momento, però, questo mi è toccato e questo mi tengo. Mi sento a volte come quegli animalisti radicali che saccheggiano gli stabulari degli istituti di ricerca e si portano a casa i topolini cavia con l’intento di allevarli e reinserirli nell’ambiente. Ma quelli sono topolini già sottoposti a mutazioni, proprio perché anelli di passaggio di qualche specifica ricerca, quindi non certo capaci di ritagliarsi una possibilità di sopravvivenza autonoma come i loro cugini ratti che scorrazzano felici tra i tavolini dei bar lungo il corso del Tevere. Una vera conquista è per me svegliarmi senza il pensiero di avere

buttato via il mio tempo. La facilità con cui bruciavo ore, giorni, mesi e anni è stata una mia ossessione da sempre. A quarant’anni ho calcolato che ero in ritardo sulla tabella di marcia della mia vita di almeno un decennio; esattamente il periodo bruciato durante la mia infingarda giovinezza, vivacchiata da studente senza prospettiva. È vero che poi ho recuperato veloce. Come ho raccontato, sono fuggito dalla mia città natale e mi sono inventato un lavoro facile, fatto di chiacchiera ed estro nel saper comunicare. Ero comunque sempre dieci anni più vecchio di quanto avrei dovuto, anche se una natura giovanile mi ha aiutato a mascherarlo, almeno finché mi ha fatto piacere e comodo evitare di riflettere sulla mia fatale e naturale possibile decadenza. Poi, dopo varie epoche storiche registrabili unicamente nella mia biografia interiore, è iniziata la fase autistica. Mi ha colto a cavallo dei sessant’anni. Un paradosso per chi aveva basato la sua sopravvivenza sull’essere bravo «a mettere due chiacchiere in fila», come mi ha sempre rinfacciato mio padre, che non si dava pace del fatto che qualcuno potesse offrirmi dei soldi per parlare. L’autismo ha iniziato quindi a far parte della mia vita: ero un comunicatore istintivo con l’onere di un figlio che non parla e non comunica. Non mi pareva vero tuffarmi nel paradosso e sguazzarci dentro. Molti nei miei panni hanno chiuso con la vita, io mi sono imposto di accendere tutte le lampadine e andare in scena. Assieme a quel fardellone stralunato che ogni buon senso imponeva di nascondere, o per lo meno maneggiare con discrezione. Infatti sono guardato come un padre perfetto. Mi danno tutti grandi attestati di stima e ammirazione per il coraggio con cui affronto a viso aperto, ogni giorno, l’angoscia di avere un figlio che mi sopravvivrà. Sono sincero, o forse incosciente, ma non sento ancora i morsi della paura che mi spolpano l’anima. È vero, ho capito che la consapevolezza di avere un problema non lo risolve, ma di sicuro aiuta a sopravvivere. È così che da anni l’impegno quotidiano nell’autismo ha capovolto ogni mio precedente punto di vista sull’esistenza, di quelli che almeno avevo maturato fino al giorno in

cui ho cominciato a raccontare al mondo di mio figlio.

XXIII

Inclusione anche per noi

Sono molto portato a interloquire con chiunque non conosca, a fare domande a estranei o a persone incrociate casualmente, a cercare subito un contatto confidenziale. Mi sento spesso dire che mi comporto come un poliziotto o che soffro della deformazione professionale del giornalista, che poi è la stessa cosa. Quella è secondo me la mia parte compulsiva, che assomiglia alla fame del bulimico. Voglio immagazzinare dati che poi riporterò in superficie quando sarà per me utile farlo. Questo, forse, è alla base del mio mestiere di parlare alla radio con persone che non vedo, soprattutto farlo a braccio su qualsiasi argomento, come se avessi una cultura enciclopedica, mentre in realtà ho lacune abissali nella mia formazione. Forse è per la mia notorietà d’interlocutore radiofonico, a cui si parla come nascosti dalla grata del confessionale, che ispiro confidenza. Spesso mi viene raccontato quello che nemmeno a un parente stretto si direbbe. Mi è stato lasciato intendere che questo fa parte dell’essere nello spettro, e mi è andata bene perché l’ho trasformato in un lavoro per la vita; se non ci fossi riuscito, mi dicono che avrei rischiato di brutto, forse quella sottile nebbia di tristezza che spesso mi arriva al massimo al ginocchio sarebbe salita fino a togliermi il respiro. È facile! Nel tempo sono molto cambiato. A mano a mano che mi allontanavo dalla giovinezza e dai luoghi fisici in cui me l’ero consumata, mi sono perso per strada le peggiori delle mie ruvidezze. Chi m’avesse conosciuto allora e mi leggesse ora penserebbe che mi sono ammorbidito. Per come mi sentivo di essere nel passato remoto trovo un inebriante paradosso che oggi molti, senza esitazione, mi diano del buonista. Buonista, in questi giorni confusi, è diventata un’offesa, un motivo di scherno e di svergognamento corale, come una volta si diceva quattrocchi o cicciobomba. Fa parte di un momento di generale

reazione alle letture ipocrite e edulcorate del reale che hanno rappresentato la costante caratteristica della cultura dominante negli ultimi decenni. Era fatale che, a forza di sentire come obbligo per l’accettazione sociale fingersi evoluti e quindi tolleranti, abbia fatto inghiottire amaro a chi non aveva elaborato con serenità la necessità di esserlo come importante progresso culturale. Ecco quindi che, appena la tolleranza ha smesso di essere una teoria da salotto e ha avuto un collettivo e reale terreno di verifica, tra crisi economica e immigrazione, il fragile argine del politicamente corretto è tracollato ed è riemersa la parte più rozza e arcaica dell’animo popolare. La questione è stata mal posta, sostenuta da un’élite culturale che non aveva metabolizzato quello che predicava e la cui posizione di «casta» non era costruita su una condizione privilegiata di consapevolezza, ma su rapporti di potere. Il termine «inclusione», per paradosso, non è un’invenzione dei salotti di sinistra, anzi sono convinto che indichi realmente un livello di civilizzazione oggi dei più avanzati tra quelli che dovrebbe perseguire l’umanità neurotipica. Chi non ha paura di avere un atteggiamento inclusivo è il testimone perfetto della più efficace strategia di sopravvivenza nella contemporaneità. Chi sinceramente include piuttosto che escludere come esercizio quotidiano, senza che sia mera ostentazione di virtù buoniste, è un sapiente stratega e dimostra molto più coraggio di chi lancia proclami e chiamate alle armi per presidiare i propri confini, sia fisici che culturali. L’umanità si è evoluta proprio sul principio dell’inclusione: le grandi transumanze hanno fortificato e corroborato la specie, mentre le civiltà presidiate da fortificazioni e argini si sono estinte, o per entropia o per non aver capito che non esiste muraglia che qualcuno, prima o poi, non possa attraversare. Non bisogna però rinnegare una conquista culturale solo per alcune circostanze oggettive di cattiva gestione dei flussi migratori. Una mente inclusiva è la nostra salvezza, anche strumentalmente; chi è capace di riprogrammarsi sul mutare di circostanze esterne sopravvive più facilmente di chi resta abbarbicato a sistemi operativi mentali chiusi e obsoleti.

In sintesi, vince chi ha capacità inclusiva. Non ci si lasci impressionare dal fatto che appaiano come forti le opinioni di massa guidate dagli integralismi, dalle ottusità imposte come regola, dai precetti che livellano i comportamenti. La superstizione non ha mai prodotto civilizzazione. Persino la religione, quando è libera espressione dell’umana capacità d’immaginare trascendenza, produce arte, pensiero, serenità. Una regola di vita che cerca conferma in deità vindici, o prescrizioni irrazionali, è al lumicino, è prossima alla sua fase di decadenza. Ci si difenda lecitamente dalle forme dispotiche di colonizzazione forzata, ma non in nome di altrettanto indubitabili princìpi: la guerra di religione è sintomo di regressione. La chiave della modernità è nella leggerezza di accettare sovrascritture continue dei propri schemi abituali. La vera preoccupazione dovrebbe essere piuttosto quella di organizzare il nostro territorio, soprattutto mentale, per una razionale e fruttifera inclusione di tutte le possibili «alterità», sia quelle che arrivano da realtà geografiche diverse sia quelle che si producono spontaneamente all’interno del nostro sistema sociale, come disabilità di ogni tipo, neurodiversità, eresia, eterodossia comportamentale, ecc. Nulla andrebbe «normalizzato», ma studiato e metabolizzato come stimolatore alla costruzione di nuovi contenitori di senso. L’atteggiamento inclusivo non deve essere considerato come rinunciatario, ignavo o, peggio ancora, succube. La capacità di includere implica il saper alimentare il proprio database cognitivo, corrisponde a una molteplicità di risorse da poter continuamente mettere in campo, significa poter aggregare informazioni e costruire sistemi di espansione della propria area di competenza. In sintesi paradossale: oggi il vero colonizzatore è chi è capace di adottare sorprendenti strategie inclusive. Chi associa l’inclusione al politicamente corretto ha una visione obsoleta, proprio perché cementificata in un pregiudizio ideologico incapace di contaminarsi con la velocissima mutazione del reale. Dico questo calandomi nella mia reale percezione di essere politicamente scorrettissimo per la mia parte autistica. Alla fine io

dovrei essere candidamente «spietato», impassibile alle sofferenze altrui, in quanto difettoso di empatia, interiormente inattaccabile da sensi di colpa per quello che si muove nel mondo di alieni tra cui mi trovo come estraneo. Però non è così. L’aspetto atipicamente dinamico dei miei pensieri sempre in fuga mi stimola proprio nella direzione opposta, nel sentire acuta la «commozione» per gli stati d’animo altrui proprio perché fa parte delle possibili nozioni che devo scaricare ogni giorno nel mio database organico. È per me vitale mantenere a livello il combustibile della mia produzione mentale, delle mie parole impensate, delle idee che mi saltellano di continuo tra le pupille e l’orizzonte prossimo. Annuso il malessere altrui come fossi un cocainomane. Lo faccio mio, prendendomi a volte sulle spalle dei pesi inenarrabili. Non accade perché sono buono, ma forse perché sono autistico. Fa parte della mia storia personale essermi prodotto per un periodo della vita pubblica nella «sollevazione delle donne». Mi sembrava un bel gioco, tanto da compromettermi la schiena, ma solo ora capisco perché lo facevo. Volevo sfidare la legge di gravità che ci appesantisce, ma soprattutto appesantisce le donne a cui non è consentito essere donne leggere. E così, per farle sentire tali, le prendevo sulle spalle e, assieme a loro, il loro peso. L’ho fatto per quasi un anno anche girando per le piazze d’Italia con un’orchestrina che mi accompagnava a rullo di tamburo per ogni donna che sollevavo sulle spalle, come nell’iconografia classica il buon pastore porta la pecorella. Sembrava l’apoteosi di un gesto fisico, ma non era così: riuscivo a prendermi sulle spalle anche donnoni oltre i cento chili, e ancora non me ne capacito. Eppure l’ho fatto, tornavo la sera con la schiena a pezzi e uno strano formicolio tra le vertebre. Ero però soddisfatto perché avevo rubato sorrisi e palpiti di riconoscenza a quelle donne che avevo appena sfiorato e che, per «regolamento», non avrei mai più visto. Nulla di più autistico che collezionare sollevamenti con l’intento di annullare corpi lottando contro la supremazia della loro massa e sfidando il loro naturale stare con i piedi a terra. C’è chi cerca la sopravvivenza nella memoria collettiva coltivando virtù eroiche, producendo pensiero, benessere, persino inquietudine o disperazione.

Non c’è etica da imporre nella corsa all’eternità terrena dell’umano consapevole di poter influenzare il proprio destino. Io volevo sopravvivere sollevando donne. 1 Tutto qui. Penso ancor oggi che rompermi la spina dorsale sollevando femmine era per me la via più facile per rapportarmi con loro. Alla fine, caricarmele sulla schiena era la maniera meno complicata per gestire il soffocamento costante che di solito mi procura il contatto con l’emozione. Tra tutte le emozioni, so bene che la più vertiginosa è proprio gettare lo sguardo in quel precipizio che solo una donna è capace di spalancare. Donna sollevata è donna passata… Meglio per me, meglio per lei. Non lo sapevo, ma stavo facendo delle prove su strada di quella che immagino possa essere la soluzione migliore di «assetto relazionale» per chi ha come modello un ragazzo che si pulisce la faccia se riceve un bacio.

XXIV

Guerra civile sull’autismo?

Mio padre mi allevò con il concetto che fossero tutti traditori. Posso capirlo, raccontava come fosse una favola della guerra civile verso la fine della seconda guerra mondiale in Italia, mi diceva che ci sono situazioni in cui il tuo vicino potrebbe diventare il tuo aguzzino, solo perché magari t’invidia la casa, la moglie, lo stato economico. La nostra storia patria ancora non ha fatto serenamente i conti con quello che accadde tra italiani nei mesi dell’eclissi finale del fascismo. Non fu bello, anzi fu atroce, ma oggi, a parte i reduci, è materia scolastica e di commemorazione in date particolari. Poi ci fu qualcosa di simile, anche se imparagonabile per il coinvolgimento del paese e la quantità di sangue versato. Sono stati gli anni di piombo, in cui ancora una volta si respirava l’aria di guerra porta a porta. L’ideologia contrapponeva l’estremismo di destra e quello di sinistra, e per anni fu il pane quotidiano di una generazione di giovani, cresciuta forse sulle ambiguità di quanto scritto sopra, che si affrontava in piazza manifestando, facendo della militanza politica l’esercizio totalizzante della propria giornata, parlando, leggendo ma anche sprangandosi, accoltellandosi, sparandosi addosso. Qualcuno fece persino stragi. Poi, per decenni, non ci fu più nulla. A metà degli anni Novanta in Italia iniziammo a scoprire la rete e cominciammo a capire che qualcosa non tornava tra la nostra vita reale e l’ottimismo che vedevamo rappresentato in tv. Lambimmo qualche guerra, ma la chiamavamo missione di pace e se ne accorsero in pochi, e iniziammo anche noi a sentire la crisi, la politica divenne un talk show ininterrotto. I leader si tiravano le torte in faccia sul palcoscenico del Bagaglino, sembravano tutti simpatici e alla mano, anche quelli che ci stavano sul cazzo, per questo pareva tramontata l’idea che qualcuno sarebbe di nuovo potuto venire ad aspettarci sotto casa, nessun sintomo nell’aria che assomigliasse a quella rabbia irrazionale di cui le folle si alimentano, quando basta un modo di

pensare, un modo di essere, una religione, l’appartenenza geografica a scatenare la voglia di uccidere. Qualcuno potrà giudicare questo mio brevissimo excursus nella storia patria sicuramente lacunoso e forse sommario, ma, credetemi, la mutevole percezione dell’odio sociale è riassunta nella sua reale gradualità. Almeno, questo è il mio punto di vista. Arriviamo quindi al paradosso dell’esatto momento storico in cui sto scrivendo. È percepibile la crisi di ogni ideologia nella contrapposizione manichea fra «la gente» e «la casta». Sicuramente la reazione di sfiducia verso competenze e istituzioni ha basi concrete che in parte la giustifichino, ma la sintesi percepibile dai più passa in flussi emotivi riassumibili in formule standard, fatte di slogan, princìpi assoluti, parole chiave che diventano acceleratori d’indignazione attraverso i social network. Partecipare significa mettere il proprio segnale d’identificazione individuale a un pensiero preso in corsa ed espresso attraverso i link a una notizia, a una dichiarazione di persona pubblica, a una foto o fotomontaggio. La marcatura al volo di stereotipi che s’ingigantiscono a mano a mano che riescono a essere contenitori di conformità indiscriminata. Ho fatto questa digressione sul metodo di accorpamento di molteplici assenze di pensiero per far comprendere come questo ammassarsi di consensi espressi con gli smartphone crea una sorta di cosmesi del vuoto, facendo apparire come sembiante seducente e ammirevole quello che è una bolla d’aria ricoperta di cipria. Sembra paradossale che sia io ad affermare questo, che da sempre ho cavalcato con entusiasmo la rivoluzione digitale, ma è davvero difficile accettare che la fantastica profezia della condivisione dei saperi, che affascinò con me tanti ottimisti sul valore del web, si sia conclusa con la scoperta – forse prevedibile e scontata, ma allora nessuno ci pensò – che l’umanità digitalizzata si sarebbe rivelata per lo più composta da legioni di conformisti. Osservo e trovo ancora incredibile come generalmente venga sprecata la conquista diffusa di un’occasione per potersi rappresentare ed esprimere liberamente il proprio pensiero. Per assurdo, ho sempre difeso il diritto a essere rappresentato

anche per il pensare imbelle. Quando Umberto Eco scoprì che la rete era piena di imbecilli 1 con lo stesso diritto di parola di un premio Nobel, trovai la sua alterigia antiquata. Scrissi che, finalmente, avremmo potuto misurarci con il più realistico tasso di ottusità di cui da sempre è intrisa l’umanità. 2 Era stato fino a quel momento sin troppo facile, per ogni intellettuale o fabbricatore di pensiero, misurarsi unicamente con il simposio dei suoi affini. Ora, chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari di quello dei bei tempi in cui questa massa incivile e incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori. Stare buoni e zitti, leggere giornali scritti da noi, leggere libri scritti da noi, guardare programmi in tv in cui al centro eravamo noi, ascoltare lezioni che facevamo noi. Ammettiamo che sia finita l’epoca delle fortezze inespugnabili in cui la verità era custodita dai suoi sacerdoti. Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, e farlo costa fatica, gratifica molto meno, ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza. È vero, Internet è il libero scatenamento di ogni menzogna, consolidamento di ogni superstizione, sublimazione di ogni velleità. Proprio per questo la contemporaneità mi affascina, è una tigre da cavalcare per non esserne divorati. Pensare che ancora possano esistere gabbie capaci di contenerla è quanto di più lontano dalla realtà si possa immaginare. Milioni d’imbecilli possono e devono potere, a loro piacere, ricostruirsi un’epica individuale, senza aver mai compiuto un gesto veramente memorabile in tutta la loro vita… E allora? Chi siamo noi per negare il diritto all’imbecillità di evolvere con strumenti individuali? Non credo ai comitati di saggi, ai maestri di vita digitale che, dai giornali, fanno l’analisi critica della rete. Le loro sentenze avrebbero quel profumino di abiti conservati in naftalina che oggi emanano le muffe lezioncine sulla buona televisione, sul servizio pubblico, sulla qualità dei programmi, su questo è buono e questo fa male. Siamo tutti intossicati, per questo

oggi l’intellettuale deve fare sua la follia del funambolo. Chi vorrebbe curare gli altri e ancora si proclama sano, in realtà è (digitalmente) già morto. In tutto questo è emerso prepotente un orgoglio diffuso di esistenza certificata unicamente dal proprio accodarsi a un confuso esercito di «risvegliati», in grado di sovvertire ogni rapporto di potere, leadership consolidata, principio di autorità, unicamente in nome del diritto della gente a esprimere la propria volontà. Il vaccino è diventato l’elemento scatenante di un movimento di opinione – il termine mi sembra addirittura improprio, in questo caso – che vede nella vaccinazione dei figli una specie di preludio a una sistematica strage degli innocenti. Ora, all’italiano medio non glien’è mai importato nulla dei vaccini, non ha mai considerato un problema farsi vaccinare, al massimo l’antivaccinismo è stata una di quelle tendenze vagamente salutiste e un po’ new age. Il problema è sorto con l’imprevedibile deriva della rete, cioè da quando la diffusione dei social network e quella capillare degli smartphone hanno fatto emergere uno spaventoso analfabetismo funzionale che, probabilmente, nessuno sospettava così esteso nel nostro paese. Pensavamo tutti che fosse bastato il maestro Manzi negli anni Sessanta e le enciclopedie vendute a rate a farci uscire dal nostro arcaismo rurale. Così non è stato. Siamo cresciuti come ignoranti perché siamo rimasti superstiziosi e bigotti, anche se la pratica religiosa è pressoché scomparsa, almeno come elemento regolatore della vita sociale. Non c’è di peggio di un baciapile senza dio: sarebbe capace di costruire un altare di fronte a una scarpa vecchia pur di avere un punto di riferimento che lo assolva dal pensare e prendersi delle responsabilità. Ecco, per farla breve, quale è stato l’effetto dell’euforica scoperta del multitasking relazionale sull’italiano medio, che si porta fino alla pensione gli amici del liceo, che cambia casa al massimo un paio di volte nella vita, che si terrebbe fissi sulla schiena parenti genitori e consanguinei, come le grosse femmine di rospo con i loro sposi. Improvvisamente si è sentito proiettato oltre quel circoletto chiuso, ha collazionato le proprie debolezze con quelle altrui

sentendosi affrancato dall’obbligo di farne ammenda perché ha scoperto che in molti sono come lui, pensano come lui, desiderano come lui, hanno mamme e mogli combacianti come lui. Ecco, dunque, l’italiano digitalmente evoluto, ma solo nel modello di smartphone, per il resto non ha cambiato schema e il tono dei suoi interventi social mantiene la spocchia del fanfarone da pizzeria, quello che azzitta tutti con quell’aria da «lasciati servire». Così che gli italiani alla tastiera iniziano a cercare di dare un senso a quel loro così insolito smanettare. Ecco quindi le varie fasi di affermazione della propria identità, euforici che tutto è più facile in rete. Si possono fare citazioni colte, mettere link ad articoli di cronaca cavandosela con uno scarno commento o un like, ma simulando così una propria competenza nel gestire notizie ed essere attanagliato sull’attualità. Il fotoritocco con i filtri standard che resuscita ogni scatto schifoso nella velleità di essere un’opera di un grande maestro della fotografia. Basta un link alla condivisione social della geolocalizzazione del ristorante, locale per aperitivi, addirittura museo o galleria d’arte per ricostruirsi anche l’apparenza di un’intensa vita mondana. Poi, su tutto questo, arriva l’autismo. Non certo come capacità di comprendere la neurodiversità, ma piuttosto come esito di un «errore vaccinale». L’autismo è diventato centrale nei discorsi degli italiani, ma solo per scalmanarsi contro una legge dello Stato che impone l’obbligo delle vaccinazioni. La gente scende in piazza con le magliette arancioni a proclamare «il diritto di scelta». Il clima che circola è quello di avvertire il mondo addormentato che sta per essere lanciata una nuova campagna per giustificare la vera strage degli innocenti che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti. L’iconografia simbolica del novaxismo ha gioco facile accentuando il carattere minaccioso che ha una siringa per trasformarla in uno spauracchio. Le siringhe entrano a far parte di una narrazione che le descrive come macchine per torturare, offendere, menomare e uccidere i nostri bambini. Appare una nuova iconografia a supporto della neoreligione. Ovunque saettano siringhe che trafiggono innocenti come le frecce di san Sebastiano e lo scopo dei potentati occulti sarebbe quello di trasformare vivaci cervelli neurotipici in

detestabili masse grigie corrotte dalla piaga dell’autismo. Ecco, quindi, esplodere un paradosso. La denuncia della scarsa comunicazione sull’autismo è stato il mio mantra per almeno cinque anni, ora mi trovo a dover fronteggiare un eccesso di comunicazione sull’autismo, che sta circolando ovunque e non certo nel senso che mi auguravo. Degli autistici si parla soprattutto come di «danneggiati da vaccino». I cervelli ribelli su cui tanto mi sono arrovellato per raccontare la loro assenza, improvvisamente si trasformano in un’allucinazione collettiva in quanto mostri, divenuti tali a causa della somministrazione di massa di farmaci mutageni. L’immaginario è lo stesso di Resident Evil, 3 la saga di videogame e film in cui si preconizza la fine dell’umanità perché la multinazionale farmaceutica Umbrella Corporation si fa sfuggire un virus dai laboratori, dove preparava in realtà armi batteriologiche e faceva orribili esperimenti di ingegneria genetica. Naturalmente, il mondo comincia a popolarsi di zombie e mutanti come nella migliore fiction fanta-horror. Questo accostamento sembrerà fastidioso a tanti familiari che ancora vivono inconsapevoli della percezione comune che sta crescendo attorno ai loro figli, ma dovrebbero cominciare ad abituarsi che sempre più crescerà la superstizione leggendaria che sono loro i colpevoli dell’autismo dei figli perché li hanno vaccinati. È straordinario come si ripresenti il mito: c’è sempre una colpa da attribuire a chi genera il difforme, vuoi patti con qualche demone, vuoi mancanza di empatia e, quindi, non appartenenza alla società dei «giusti». La colpa dei genitori è oggi quella di essersi «assoggettati» a una pratica di Stato che ha reso i loro figli inabili a vita. La loro colpa è stata quella di non essersi informati, di non aver preteso di sapere cosa fosse inoculato ai propri figli, ma soprattutto, implicitamente, quella di aver accettato il perverso diktat delle multinazionali del farmaco (viste esattamente come Umbrella Corporation) che, cinicamente e per profitto, continuano a tacere sulla mostruosa mutazione che provocano in bambini inermi.

XXV

Vogliono uccidere i nostri bambini

La crociata che denunciava la strage degli innocenti ha raggiunto la sua apoteosi durante il varo della legge sull’obbligatorietà delle vaccinazioni. 1 In quei giorni una folla si è radunata davanti a Montecitorio per dare l’assalto ai parlamentari che l’avevano votata, al grido di «assassini!». Erano perfettamente convinti che in quelle grisaglie senza tempo si annidassero crudeli sterminatori di bambini, condannati per legge alla neurodiversità, paragonabile per costoro alla morte. Mi sono fatto portavoce degli autistici, in quanto portatore consapevole della mia percentuale di autismo, e mi sono espresso per i canali a mia disposizione, azzardando che avevo un po’ le scatole piene di essere sempre sulla bocca di signore con la fiatella per la troppa soia, evocato dai loro compagni postfricchettoni con le mani sudate. Non ne potevo più in quanto autistico di campeggiare nei loro cartelli come esito infausto di un vaccino. Immagino che dietro quelle richieste strappalacrime – «le cavie sono i nostri figli… » – si nasconda un’indifferenza cosmica per quello che potrebbe essere il nostro posto in una società di persone che ci vede come alieni: hanno ragione a pensarlo, è vero che siamo diversi. I nostri cervelli ribelli, loro se li sognano; magari mandano la cagnolina dallo psicologo perché la vedono depressa, ma che gli importa se per i più tosti di noi la destinazione finale più probabile assomiglia terribilmente a quei canili che a loro fanno tanto orrore. Mi verrebbe da dire di stare tranquilli: non faremo un «Pride» tutto nostro che sconvolgerà l’agenda degli impegni di piazza, non chiediamo altro che di toglierci dall’elenco delle litanie. Raddoppiate l’impegno per le scie chimiche che avvelenano, per i microchip che impiantano, per i rettiliani che spiano. Noi siamo tolleranti nei confronti di ogni possibile religione, purché non si occupi mai di noi. Tanto saremo sempre altrove rispetto ai pensieri della maggior parte

delle persone, così scontati e così sempre uguali. Sarebbe bene che tutti i genitori se ne facessero una ragione: se hanno un figlio autistico, l’autismo gliel’hanno passato loro, come il colore degli occhi, qualche tratto del volto e tutto quello che regala argomenti ai vari parenti. Non c’è complotto, non c’è congiura delle multinazionali del farmaco, non c’è un giornalista asservito che deve compiacere i suoi padroni, nonostante abbia anche lui un figliolo autistico, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Per aver scritto tutto questo ricevetti proteste e insulti, e non escludo di riceverne ancora avendolo qui ribadito. Mi saranno nuovamente rinfacciate le libertà di scelta, il diritto costituzionale, la medicina alternativa, la scienza… Quella buona però, non quella cattiva, che dice che nei tuoi geni c’è anche in parte l’autismo di tuo figlio. La protesta del popolo no vax sarà ancor più rinfocolata da questo libro, che sarà addotto come prova per riconfermare il complotto ordito per far diventare tutti autistici, magari per governare meglio. Esattamente come accade per le scie chimiche, i rettiliani e via dicendo, alimentando l’attuale creatività nel costruire nuovi miti collettivi. Lo dico con amarezza, perché non è bastata l’evidenza scientifica per evitare che la gente scendesse in piazza a rivendicare il diritto alla vita dei propri figli, come se fosse in corso uno sterminio di massa. La sfiducia in ogni potere costituito si diffonde peggio del morbillo. L’unico vaccino sarebbe il buon senso, ma è sempre il grande latitante in ogni passaparola di folla. Preoccupa ancor più vedere che a protestare non è solo gente ignorante, ma persone che hanno studiato, socialmente integrate, tutti però convertiti all’idea che non esista più diritto all’autorevolezza, per nessuno. Diffondendo la certezza che ogni autorità menta si fanno portatori di quello che credono debba essere lo slogan di una nuova rivoluzione, in nome della libertà uguaglianza fraternità. Secondo l’analfabetismo funzionale diffuso, mentono gli scienziati, mentono i magistrati, mentono i rappresentanti delle istituzioni, mentono le autorità spirituali… Insomma mentono tutti, solo la gente dice la

verità. Per capire l’irrazionalità degli anarco-novax-insurrezionalisti, si pensi al paradosso di un papa, capo supremo della cristianità, che dice con chiarezza che a Medjugorje la Madonna non ci è passata nemmeno per fare un salutino. 2 Ai ferventi fedeli mariani questo non basta: il papa si sbaglia perché a loro conforta più pensare che la Madonna passi il suo tempo in quel parco a tema in Bosnia ed Erzegovina, quindi tutti ad aspettare il messaggio quotidiano, arrivasse pure tramite il gruppo WhatsApp dei veggenti. Ora, se la crisi della spiritualità tradizionale nel nostro paese si legge nel sedicente cristiano che mette in dubbio la parola del papa, in nome della fiducia nella Madonna postina, specularmente una paurosa eclissi del pensiero razionale è leggibile nella fede antivax. Entrambe le circostanze sono sintomo di un’abissale carenza di contenitori di autorevolezza che siano ancora credibili. La folla reclama apparizioni e guaritori alternativi perché, a ogni faticosa e dolorosa ricerca di senso, è più facile contrapporre l’estatica ripetizione collettiva del mantra che ogni re sia nudo. Non c’è in questo il seme di una salutare rivoluzione sociale, ma una regressione contaminante dalla nostra faticosa conquista di esseri umani dotati di raziocinio. Ogni tanto mi piace esasperare la reazione delle persone che sembrano stare appiccicate alle tastiere pronte a colpire appena qualcuno offre il fianco all’attacco a sciame. Quando in Italia si è iniziato a parlare di obbligo vaccinale a termini di legge è cominciata la «resistenza» di quanti vedevano in questo un attentato alla libertà di scelta individuale riguardo alla salute dei propri figli. Non entro nel merito della vicenda dei vaccini obbligatori, non per ignavia, ma perché mi sembra già strano che sia sorta la necessità di fare leggi su un’azione scontata come il vaccinarsi, segno evidente che la comunicazione su scienza e salute nel nostro paese ha avuto qualche problema. Al netto del profondo spirito superstizioso che fa parte dei nostri caratteri nazionali, mi è sembrata veramente singolare la facilità con cui ha fatto presa il concetto del grande complotto a danno dei bambini innocenti.

Ecco cosa scriveva al mio indirizzo quella che, dal suo profilo Facebook, mi sembrava una tranquilla signora sulla cinquantina: L’Italia dal 29 luglio 2017 (ma anche prima, per i più accorti) è ufficialmente uno Stato-canaglia. Peggio del Myanmar e della Corea del Nord, molto peggio. Ha preso di mira i bambini come Erode un tempo.

E, ancora più diretta: Nicoletti che sente (provando brividi freddi lungo la sua schiena) che questa verità sta saltando di bocca in bocca, pericolosamente, decide di saltare oltre la dignità, oltre la decenza, oltre l’etica e il senso di pudore e spara a zero…

Ce l’aveva con un mio pezzo che ribadiva la follia di continuare a cercare nei vaccini la causa dell’autismo dei propri figli; non le andava nemmeno giù che avessi corredato l’articolo con una foto di Tommy e i suoi amici teppautistici in gita: … mettendosi davanti la foto di 4 adolescenti autistici di cui non si sa nulla e si inventa tutto. Usa scudi umani danneggiati geneticamente. Questi sono solo genitori che non hanno le palle di sopportare l’idea di averli condotti quel giorno alla ASL per le vaccinazioni.

Povera donna, sapesse che Tommy nemmeno li ha fatti quei vaccini… Ma anche dirglielo servirebbe a poco. La versione standard per ogni genitore di autistico che cerca di far ragionare su questo tema sembra ormai far parte di un kit a cui chi milita nella «resistenza» attinge automaticamente: Il loro cervello ha chiuso i boccaporti per non sentire troppo senso di colpa. I medici li hanno aiutati a costruirsi le loro frescacce che servono a tirare «a campà» senza appendersi a una trave. Questa è la verità: pensare che il tuo DNA ha trasmesso il fallo e che tu non lo sapevi e non potevi farci nulla, è molto meglio di vivere sapendo che quel giorno hai fatto inoculare merda dentro tuo figlio, per la pigrizia di capire e informarti veramente.

Ed ecco fatta la diagnosi: ogni genitore convinto che i vaccini non c’entrino nulla con l’autismo del figlio, in realtà matura questa convinzione solo per ricacciare dentro di sé il rimorso di averlo fatto vaccinare. Ancora di più con la mia dichiarazione, indubbiamente un po’ forzata, che gli autistici siano tali già nelle palle del padre prima di essere concepiti, ho suscitato il livore di una simpatica nonnina, o almeno tale pareva, sempre dalle foto del suo profilo Facebook, che sorride tra i monti e gli chalet della sua regione natale. Uno se la immagina in rete interessata alle ricette delle torte di mele… Macché, anche lei linka a manetta ogni informazione parabolica su autismo e vaccini che le capita a portata di mouse e naturalmente non gli sono sfuggito io, che nego la sua «religione»: Che buffonate, ovviamente dettate dal buffone capo, il Nicoletti. Se voi avete avuto dei genitori come Nicoletti, bene, tenetevi il vostro autismo e non rompete i coglioni a chi invece sa che i propri figli sono stati danneggiati da una classe medica che ha studiato nei macelli americani e sui testi di Goebbels. Se poi sono i genitori di questi poveretti a scrivere, allora se pensate di avere un DNA di merda, almeno abbiate la decenza di stare zitti!

È grottesco che attribuisca caratteristiche di nazista alla classe medica, come se volesse deliberatamente nuocere ai bambini. Ora, può sembrare parziale che mi limiti a costruire un pensiero basandomi unicamente su queste reazioni, ma, credetemi, sono rappresentative di quella sorta di litania che ripetono tutti i «resistenti» allo sterminio dei perfidi vaccinatori. Di sicuro, penso che il successo popolare che le campagne antivacciniste hanno suscitato in persone, come ho scritto, anche apparentemente evolute, sono basate su un antichissimo pregiudizio «standard» che è sempre stato il movente basilare di ogni campagna d’odio e discriminazione: l’idea che il «nemico» attenti ai propri bambini. Al propagarsi di questa voce scatta un automatico consenso e un’istintiva adesione emotiva. È come se non si cercasse altro che il pretesto inoppugnabile per odiare chi pensiamo abbia dei privilegi di

cui non sappiamo darci ragione. L’esempio più calzante è quello della cosiddetta «accusa del sangue» che, sin dal Medioevo, rinfocolava l’odio per gli ebrei con una leggenda che ha radice esattamente nello stesso pregiudizio. Fu alimentata per secoli la diceria che gli ebrei rapissero i bambini dei cristiani per cibarsi del loro cuore o usarne il sangue in macabri rituali, come impastarlo con la farina per fare il pane azimo a Pasqua. Oppure si diceva che gli ebrei si alleassero con i lebbrosi per sterminare i cristiani attraverso il contagio. 3 In realtà, l’unico scopo di queste maldicenze era quello di impossessarsi dei loro averi. Sulla cosiddetta «leggenda del sangue», però, la trattatistica è assai ricca e molte presunte vittime di questo culto omicida sono state portate persino alla gloria degli altari, come per esempio il piccolo Simonino di Trento. 4 È probabile persino che in certi periodi la diceria avesse raggiunto una diffusione così virulenta da costringere gli stessi uomini di chiesa a produrre prove che la smentissero. Ci sono documenti in cui i papi dichiarano di avere fatto svolgere indagini sulla questione e di avere concluso che si trattasse di accuse «falsissime». 5 D’altronde, esistono esempi più recenti dello stesso meccanismo emotivo per provocare paure collettive, come chi affermava che i comunisti «mangiassero i bambini». L’unico elemento storicamente accertato è che in Russia, negli anni Venti e Trenta, ci furono terribili carestie che portarono ad atti di cannibalismo, ma da qui si arrivò decenni dopo a manifesti di propaganda elettorale raffiguranti un bambinello inerme su cui incombeva un’enorme e minacciosa falce e martello che spuntava da una rossa nube di fuoco, con la scritta «Papà salvami!». Oppure uno scheletro gigantesco con la divisa con la stella rossa che ghermisce un lattante strappandolo dalle braccia della madre con lo slogan: «Madri d’Italia, il mostro rosso vuole il vostro sangue!». Fino al più recente: «Madre, salva tuo figlio dal Bolscevismo, vota Democrazia Cristiana». E, ancora una volta, spetta alla povera donna fare scudo ai teneri bambinelli contro le orde che alle sue spalle marciano sotto il rosso vessillo. Non vedo molta differenza nella creatività di locandine antivax

che circolano in rete con un simile infante paffuto e indifeso che sta per essere trafitto da una selva di siringhe. Recentemente è stato segnalato in Veneto un manifesto ancora più macabro per sottolineare il pericolo di danno vaccinale. Una delle campagne dei no vax locali è stata incentrata nel mostrare un dramma simulato. Tutta la cartellonistica punta sulla foto di un lattante, a occhi chiusi e con la scritta: «Io sono uno dei tanti bambini morti di Sids», ovvero la morte in culla, che, nei temi ricorrenti di chi si batte sul fronte antivaccinista, sarebbe attribuibile al vaccino esavalente. Come da più parti dimostrato, però, quell’immagine appartiene a un bambino che non è per niente morto: al tempo dell’affissione aveva cinque anni, era vivo, vegeto e pare anche vaccinato. La foto è stata acquistata online da un service di materiali digitali per uso grafico pubblicitario, ecc. Gli associati ribattono che non potevano certo usare la foto di un bambino morto e, poi, che anche il testimonial di un qualsiasi farmaco non deve per forza essere un malato. Non è proprio la stessa cosa… In ogni caso, anche dopo vari giorni che l’inesattezza iconografica è stata smascherata ovunque, 6 come se nulla fosse il manifesto con il finto bambino morto continua a essere affisso negli spazi pubblicitari nelle città venete, evidentemente nella speranza che molti subiscano l’impatto emotivo del morticino tarocco. In conclusione, produrre come prova di una teoria, che comunque non ha alcuna evidenza scientifica, un’immagine che è stato dimostrato essere falsa non è certo la maniera migliore per proclamarsi paladini della verità, eppure nessuno rinuncia all’icona del bambino morto perché si sa che storicamente, dalla strage degli innocenti in poi, ha sempre dato grandi risultati nel delimitare il perimetro dei cattivi, senza che possa essere sollevato alcun dubbio. Nulla di nuovo sotto il sole. In Italia ce ne stiamo accorgendo da relativamente poco tempo, ma l’antivaccinismo è solo un aspetto di una ben più vasta corrente di pensiero che tocca quasi tutti i paesi occidentali. Come scrive Wlodek Goldkorn, dietro la formula di facile presa del «diritto di decidere» i no vax sono «i profeti e le avanguardie di quel movimento neanche più sotterraneo che porta all’abolizione della società stessa, intesa come un sistema di relazioni tra persone e

gruppi di esseri umani». 7 Qualcosa che assomiglia a un «si salveranno i più forti» che ci riporta a uno stato arcaico in cui non esiste scienza e non esiste pensiero razionale, e in cui possiamo confidare solo nelle forze della natura. Ecco perché ritornano in auge guaritori e stregoni, ecco perché la ragione viene sconfitta dalla superstizione. Si comincia a parlare di «morbillo party», che sono quasi dei riti magici in cui le madri si convocano via Facebook per contagiare a vicenda i loro figli mettendoli a contatto con altri bambini che abbiano in corso malattie esantematiche e possano loro passare i «bacillini santi», quasi una sorta di eucarestia per ottenere l’immunizzazione (salvezza) «per via naturale». I segnali della deriva verso l’irrazionale sono all’ordine del giorno, e tralascio tutti i casi di persone che rifiutano terapie antitumorali per bere limone e bicarbonato o che dicono che l’Aids non esiste. Mi soffermo solo sui casi più evidenti che riportano le cronache sanitarie. In Friuli una donna, dopo aver partorito, pretende che nessuno osi tagliare il cordone ombelicale che lega la placenta al figlio neonato. 8 È convinta che debba essere lasciato cadere naturalmente da solo e minaccia i medici filmandoli con il telefonino per denunciarli se avessero provato a fare sul suo bambino quelle operazioni di prassi dopo un parto. Alla fine interviene la procura e il cordone viene tagliato appena in tempo perché il bambino non ci lasci la pelle. La convinzione di quella donna sarà comunque di aver subìto un torto, una vessazione. Lei aveva il diritto di seguire la natura, ma soprattutto di seguire con decenni di ritardo rispetto al resto del mondo i dettami del Lotus Birth, 9 per cui il neonato non deve essere separato dalla placenta per evitargli traumi. Ho avuto per radio una discussione con una mamma di ottima cultura e che parlava un perfetto italiano la quale mi raccontava come lei pure ha preteso che il suo bambino restasse attaccato alla placenta per una decina di giorni, finché si è staccata naturalmente. Per evitare la puzza della putrefazione aveva ricoperto la placenta di sale grosso e il bimbo si è tenuto quell’impacco di carne morta addosso perché la madre era convinta che questa pratica fosse indispensabile per «completare il suo corpo eterico». 10 Il paradosso è che il mondo dei gruppi su Facebook per mamme,

donne gravide e puerpere è costellato di post di quelle che si definiscono «Mamme Pancine» 11 e che riesumano pratiche piuttosto da mammane medievali. Ho letto una discussione che parte dall’idea che una donna dovrebbe essere libera di poter bruciare in terrazzo gli assorbenti con il mestruo e recitare le formule propiziatrici per restare incinta. Si sta diffondendo anche in Italia la moda di mangiarsi la placenta dopo aver partorito perché «lo fanno gli animali», e naturalmente abbondano le ricette di come cucinarla, farci marmellate, essiccarla e confezionarci dolci. È roba che si sentiva dire nelle mie campagne sessant’anni fa e già allora era una pratica giudicata a metà tra la stregoneria e la tradizione rurale. Ovviamente non ha alcun fondamento scientifico, ma l’illusione è che faccia tanto bene. Più che in un social network in epoca digitale sembra di trovarsi in un convegno di fattucchiere che si scambiano pozioni e incantesimi. Di questa tendenza, noi genitori di autistici adulti siamo la memoria storica. Nei miei libri precedenti ho accennato all’aspetto «magico misteriosofico» che aleggiava attorno ai nostri capoccioni che qualcuno voleva chiamare «bambini indaco». Già l’idea di una «soluzione naturale» alla neurodiversità era percepibile nell’ossessione della «purificazione» di tanti genitori. L’ossessione per i metalli pesanti nel sangue, le chelazioni che, intese in questo senso, altro non sono che inconsapevoli rituali per una surreale «catarsi» di quel povero bambino «avvelenato» dal male. Lo sono pure le diete inutili, la fiducia nei preparati omeopatici, basati già in sé sul principio «magico» che l’acqua fresca possa guarire, come pure l’ossessione per l’intestino e i suoi derivati… Ho sentito genitori parlarmi per ore dello stato delle feci dei figli, di costosissimi intrugli che acquistano via Internet, di farmacopea alternativa carissima a base di «uova di maiale» che, già dal nome, sembra una pozione di Harry Potter. Come pure sta emergendo l’idea del «trapianto fecale» come possibile sistema di cura dell’autismo dei figli. Solo perché l’hanno sentito dire, solo perché l’hanno letto in Internet, segnalato da qualche gruppo di fedeli della «medicina dolce», che sarebbe poi quella che chiunque può inventarsi, in attesa che ogni struttura basata su un principio razionale crolli

definitivamente.

XXVI

Le madri che hanno spento il frigorifero

Sto notando il cambiamento generazionale anche nei genitori di autistici. Chi ha figli ormai adulti come me, è facile che si sia lasciato sopraffare dal problema. Posso anche capirlo. Da quando il ragazzo lascia la scuola dell’obbligo, e oggi è sempre più tassativo che ce li riconsegnino senza dilazioni allo scadere del tempo, tutte le stagioni si fondono in un unico limaccioso autunno senza inizio e senza fine. Si sarà provato tutto, saranno ormai esaurite le speranze di potersi inventare qualcosa, si comincia a elaborare come un lutto preventivo il fatto che noi ce ne andremo e lui rimarrà affidato al suo destino. Io da qualche tempo sono ossessionato da un racconto che mi ha fatto l’ormai mitologico Marco, il vegano tatuato, che da anni è l’amico maggiore di Tommy. Mi ha raccontato un giorno che era in vena di confidenze, normalmente parla pochissimo, della sua prima esperienza di volontariato con bambini disabili psichici. Lui, assieme ad alcuni colleghi, era andato «in missione» in India in una piccola città vicino a Delhi, dove erano stati assegnati a un istituto gestito da religiosi che operavano sotto il brand di Madre Teresa di Calcutta. Si erano trovati di fronte una cinquantina di bambini con ogni tipo di handicap, buttati nel fango uno sull’altro. Non facevano nulla tutto il giorno e li lavavano con l’idrante, perché naturalmente si facevano tutto addosso. Mangiavano lo stesso orribile pastone e nulla veniva pensato perché il loro tempo potesse essere impegnato in modo più dignitoso. Di notte, Marco e i suoi amici spesso erano svegliati da urla disumane, quelle di un bambino che aveva manifestato delle crisi oppositive e che l’infermiera di turno aveva chiuso in una gabbia. Una volta al nostro tatuato capitò di assistere alle crisi epilettiche di uno dei poveri disgraziati ospiti di quel porcile per umani: i preti si erano messi in cerchio attorno a lui e avevano cominciato a recitare le preghiere dell’esorcismo. I volontari italiani, per quanto è stato loro possibile, durante il soggiorno hanno comperato di tasca loro

materiali per fare musica e far giocare quei bambini che non sapevano nemmeno cosa significasse un sorriso. Non credo che le cose procedano in maniera poi tanto diversa in quei «fiori all’occhiello» che ogni tanto si guadagnano l’onore delle cronache. In queste condizioni, credetemi, le gioie della vita sembrano un ricordo remoto. Ci si ammala di senescenza nei propri desideri assai prima di diventare paziente geriatrico. Come altrimenti si potrebbe conciliare un gigante irrequieto sempre addosso con una vita piacevolmente rapace? I matrimoni, se resistono, diventano un’impresa sociale di cui ci si divide gli oneri, ma che non produce utili. Nessuna gratificazione è possibile quando non si è mai più soli. Non venitemi a parlare dei famosi weekend del respiro, in cui qualcuno ti toglie di casa il figlio per un paio di notti, se va bene. Che volete che si recuperi in due giorni, quando ci vorrebbe almeno un mese unicamente per riprendere solo un barlume di ritmo mentale che assomigli al tempo su cui sono organizzate le vite della maggior parte dei propri coetanei. Sta di fatto che i genitori ormai sono concretamente esclusi dalle normali frequentazioni sociali per il fardello che si portano appresso, ma tutti e senza esclusione passano molto tempo in rete, che permette di tenere i contatti per le gite, le uscite, i fine settimana dei figli, di conoscere interagire valutare tutto quello che nei lunghi giorni solitari ci racconta sia dell’autismo dei nostri figli sia della vita che scorre fuori delle nostre finestre con le sbarre. Per di più, da oltre una ventina d’anni ci siamo accorti che in quel posto inconcreto potevamo anche sentirci tutti assieme appassionatamente in un’immensa alcova che non ha più pareti. Internet, nella sua fase social-relazionale, è stata per tutti la riscrittura radicale di ogni mappa tradizionale dell’anfratto amoroso, e ancor più lo è per chi sembra condannato a uno stato monacale per quel «segno» che lo ha toccato. I genitori di autistici socializzano molto in rete, si sentono affratellati dal problema comune, fanno parte quasi di una categoria professionale. Come gli avvocati, i giornalisti e i medici che si danno subito del tu perché sono «colleghi», anche tra noi esiste il vincolo di colleganza, che non ci impedisce di ingaggiare sanguinose guerre intestine, come accade

appunto tra giornalisti, medici e avvocati, d’altronde. Non si pensi immediatamente alle app di dating geolocalizzato o alle più fosche turpitudini che potrebbero innescare la gang bang cosmica, basta semplicemente l’uso «domestico» di Facebook per osservare la mutazione che è avvenuta da quando siamo digitalmente stimolabili. Ci siamo resi conto di quanto sia complesso il nostro universo emozionale quando da una richiesta di amicizia da parte di un altro utente avvertiamo un potente abbattimento di diaframmi emotivi e convenzionali. Ho già citato lo studio per cui ogni volta che riceviamo un «Mi piace», o un retweet, il nostro organismo rilascia una piccola scarica di dopamina, e così nessuno di noi ha più bisogno che certe «sostanze» ci entrino in circolo e ci aiutino a vivacchiare con meno angustia. Non è vero che Internet ha ucciso il bel sesso di una volta, pieno di mistero e umbratili umidità; soprattutto per noi è un’importante fase di sostentamento, seppure attraverso un’iconografia celebrativa del nostro quotidiano rapporto con i figli, con l’autismo, con il mondo dei normali. Lo vediamo come un esercizio riabilitativo, paragonabile alla ginnastica pelvica, per una parvenza di relazione soddisfacente, almeno ci si lasci pensarlo. Il passeggio per i social è equivalente allo struscio di paese per giovanotti e signorine di una volta, solo che ora a strusciarsi via tastiera sono persone già belle che accasate, e le protesi emotive elettroniche, attraverso cui ci relazioniamo, sono i «tutori» per abituarci a una dimensione nuova della conoscenza, anche intima, di un altro essere, quando sembra che la vita ci abbia precluso del tutto tale esperienza. Mamma Carlotta, che ha almeno trent’anni meno di me, mi scrive nella chat privata su Facebook di non farcela più. Abita in una piccola città del Sud Italia, si sente oppressa, ha un ragazzo autistico adolescente e uno più piccolo che non ha problemi. Sa di essere graziosa e, su Facebook, fa di tutto per sembrare impertinente. Nulla che non sia innocente, ma nell’insieme innocente non pare. Ci metto poco a farle tirare fuori la storia della sua vita. Poca roba, si è

innamorata di un tizio che ha conosciuto chattando. Facendo peripezie inaudite, è riuscita dopo mesi ad architettare una scusa per stare qualche giorno sola fuori casa e fuori dal controllo delle altre donne di famiglia, soprattutto. Lo ha raggiunto dopo un viaggio per lei massacrante, lui l’ha portata a casa sua e hanno dormito assieme. Dal giorno dopo non lo ha più visto ed è tornata nella sua realtà con un magone di nostalgia. Sono passati mesi e ancora non si dà pace. Quell’unica volta le è stata sufficiente per imbastire una storia d’amore che evidentemente non c’è. A lei serve, deve sopravvivere, ama il figlio, non si sottrae a nessuno dei suoi doveri di madre, ma quell’episodio le ha fatto scattare un’inquietudine che la divora. Si è accorta di essere desiderabile, di poter piacere agli uomini e, soprattutto, che gli uomini le piacciono. Il marito la vede «diversa» e comincia a essere di una gelosia ossessiva. Lei, a un certo punto, gli dice di avere desiderio di altri uomini, lui pensa a un gioco, o finge di pensarlo, e si mette a ridere. Ma lei non scherzava, si è fissata con il primo e unico suo peccato di lussuria e lo vede come un potenziale grande amore. Alla domanda «Ma lui ti si accollerebbe con figlio autistico annessi e connessi?» risponde di no e ammette di essere certa che «lui mi vorrebbe solo come amante, per il sesso». La cosa a lei non dispiacerebbe e si consuma nell’architettare un secondo probabile incontro, le ci vorranno altri mesi per trovare una scusa altrettanto credibile per essere approvata dal clan di suocere, cognate e parenti varie che sembrano molto preoccupate dalla sua voglia di autonomia, che poi sarebbe solo avere un po’ di tempo per se stessa. Ecco, tempo per se stessa. Mentre nella vulgata ipocrita e comune questo significa parrucchiere, shopping, cura del corpo, relax, per Carlotta significa concedersi amore carnale a cui ha capito che sia duro rinunciare in nome dei voti che le impone lo status di suora dell’ordine della beata madre di tutti gli autistici. Per assurdo, se non avesse quel figlio che la lega in maniera quasi indissolubile a un marito che non la emoziona più, la sua vita magari sarebbe diversa, o forse è proprio il magone quotidiano del figlio che le permette di sentirsi affrancata dai sensi di colpa che spesso colgono chi in un matrimonio lascia per primo andare le briglie.

Poi c’è Caterina, che invece ha una storia più complessa e distruttiva, almeno per lei. Anche Caterina ha in dotazione una figlia diversamente cervellata, sebbene non così grave da non essere autosufficiente, ma è ancora troppo piccola per sapere che sarà di lei quando arriverà l’adolescenza. Nel frattempo, però, Caterina l’amante se lo era fatto e se lo godeva con giudizio, senza compromettere il matrimonio con un uomo che lei ha sempre giudicato «un po’ autistico», forse per la figliola nello spettro che gli era toccata, forse per avere un argomento di rivalsa su di lui quando raccontava alle amiche più care della sua storia d’amore clandestina. Il marito per lei era autistico perché sembrava poco interessato alla sua scorribanda, i cui segni ormai le si leggevano addosso in maniera inequivocabile. Questo però ancora non le bastava, come a poche persone basta la passione che giorno dopo giorno si avvelena di sotterfugio. Anche dell’adulterio si diventa dipendenti, e come ogni dipendenza servirebbe aumentare la dose per ottenere il medesimo grado di benessere. L’amante, pure lui sposato, un giorno prende la grande decisione, molla la moglie e va a vivere da solo. Per Caterina è una notizia fantastica, basta alcove di fortuna e uscite dal rotto della cuffia nuziale. Ora potrà finalmente incontrarlo in una casa, senza portieri, senza vergogna, senza incastri strategici. Magari la loro storia potrebbe diventare un’alternativa al matrimonio. Ma le cose non vanno come lei crede. Lui, appena riacquista la condizione di neocelibato, smette di considerarla oggetto di passione, insomma la considera «friendzonata»… come dicono i ragazzi oggi. Passano due anni di teatri, cinema, cenette, bevutine. Lui nella nuova casa nemmeno la fa entrare, si vogliono bene, ma niente sesso. Intanto la figlia di Caterina cresce, crescono i problemi e anche i bisogni quotidiani. Caterina a un certo punto confessa a scoppio ritardato la sua storia al marito, non perché vuole sentirsi sincera, ma perché lo vede talmente amorfo che non le sembra nemmeno di fargli un torto. Lui non ne fa un problema, meno di quello che c’è tra loro non può esserci, e i due continuano la solita vita da separati in casa. Entrambi hanno dimenticato il sesso: lei per esilio nella friend zone, lui

perché è autistico e quindi disinteressato alla relazione. Almeno, questo lei pensa e dice quando si sfoga con le amiche. Le cose, però, non stanno così. La faccio breve: Caterina coglie un messaggino nel telefono del marito che la insospettisce, comincia un’indagine capillare e sistematica delle sue protesi emotive: tanto lui è autistico, ha tutto palese e aperto. Il marito, per lei inconsistente, ha invece una relazione di passione e sesso selvaggio con un’amica di famiglia, la tipica con cui si fanno le serate a quattro, due mogli e due mariti, per parlare dei figli delle vacanze del nulla. Caterina sbarella, ma di brutto. Soprattutto per i messaggi ardenti mandati al marito dall’amica, che lei pensava una tranquilla impiegata, che vestiva un po’ dimessa e con una ridicola impalcatura di chioma gonfiata da parrucchiera di paese. Invece no, i due gli danno sotto come matti; lei scrive apprezzamenti audaci sulle mirabolanti qualità organolettiche dell’appendice virile di suo marito. Roba maschile che lei ha sempre considerato glamour poco più che un fagiolino lesso. Scoppia la follia. Caterina inizia a fare scenate al marito, che le risponde dicendo che è stata lei a cominciare, e quindi se ne faccia una ragione. No, la ragione non se la fa, non tollera soprattutto che in quel ménage a quattro lei debba subire l’asimmetria di un amante divenuto eunuco mentre suo marito si scopre con doti da Rocco Siffredi. Tenta la riconquista, arriva persino a mettere in campo strategie mirate a riprendersi quello che aveva disprezzato. Risultati scarsi e deludenti. Finché un nuovo colpo di scena: il marito tradito dell’amica amante di suo marito, a sua volta tradito… Le telefona: «Brutta stronza, tuo marito si scopa da anni mia moglie, tu lo sai e non mi dici niente?». La convoca e le consegna una chiavetta usb con vari gigabites di prove inequivocabili della tresca. Lui si è rivolto a professionisti dello spionaggio adulterino e loro hanno prodotto tutti i materiali per intentare una causa di divorzio per colpa. Caterina passa ore e ore a scorrere foto, video di amplessi clandestini, screen shot di chattate bollenti e sprofonda sempre più… non nel dolore del tradimento subìto, ma nell’invidia del tripudio carnale di suo marito. L’ex amica ora amante del marito di Caterina viene cacciata di casa

dal proprio legittimo consorte, si rifugia in un pensionato di suore, ne uscirà malissimo… ma con biancheria da capogiro. Il fattaccio cementa la coppia e il marito pseudoautistico dice alla moglie, prima fedifraga poi cornuta, che andrà a vivere con il suo amore e quindi si attrezza per andarsene di casa. Tutta questa reboante vicenda può sembrare poco legata alla neurodiversità (diagnosticata) della figlia di Caterina, ma soprattutto alla neurodiversità (presunta) del marito. La sento al telefono un mesetto dopo che mi ha raccontato la sua storia. «Sono in una specie di tsunami, in questi giorni non mi è permesso nemmeno di prendermi un po’ di spazio per me. La situazione che ti ho descritto è arrivata un po’ al giro di boa. Il padre di mia figlia dice di volere uscire a giorni, ma a tutti gli effetti è ancora in casa con scontri ormai sempre più accesi tra noi. Uno sfascio familiare in cui devo dividermi tra il proteggere la bambina da questo casino, pensare alla sua salute, alla mia che inizia a vacillare e a tutte le incombenze legali e burocratiche da adempiere. Insomma, devo sostenere tutto e non ce la faccio più davvero. Avrei bisogno di essere sostenuta io in realtà, in questo momento.» Come sta la bambina, che dice? «Poverina. È l’anello debole della catena. Non ci capisce più un cazzo. Con il padre completamente “schizofrenico”, in preda a comportamenti istintivi ed egocentrici, e me distrutta emotivamente e fisicamente.» Alla mia domanda sul perché attribuisca patologie mentali gravi a suo marito, e non dica semplicemente «stronzo», «egoista», ecc., come sarebbe normale, risponde: «Perché io sono sette anni che lo studio, da quando è nata mia figlia. Non ho fatto altro che occuparmi di loro due. E ho messo piano piano una cosa dietro l’altra. Io sono pazza ed esaurita, è vero. Ma sono lucida, ovvero non sono scollegata dal reale». Invece il marito, che ha scelto una via difficile, certo, ma che probabilmente lo renderà più felice, è uno spostato. Parte così la diagnosi fatta in casa, che devo dire è abbastanza usuale da quando le angustie sentimentali trovano conforto nei video tutorial su YouTube di vari consiglieri per donne, che trovano sempre una motivazione per

ogni abbandono nel «narcisismo» del maschio, fedifrago o spietato amatore seriale. In questo caso, il marito che si spupazza l’amica di famiglia, e che dovrà poi accollarsela, è un bambinone che gioca: «Ha una percezione adolescenziale del reale. All’apparenza sembra sano, ma in realtà con la propria condotta può arrecare danni enormi senza neppure rendersene conto, ahimè». Magari le cose non stanno così, anche lui è sempre stato un cervello ribelle e si destreggia come può per recuperare qualche brandello di fugace dissolutezza perché satollo del sacro dovere di essere responsabile e adulto. Alla fine, tutto si riduce a una banalissima equazione: quello che già rende molto difficile la vita di coppia, quando c’è un figlio con problemi neurologici seri, sembra entrare in una dimensione di onirica ineluttabilità, come quei sogni lucidi in cui ci rendiamo conto che stiamo vivendo consapevolmente un incubo, sappiamo che basterebbe svegliarsi e tutto finirebbe, ma non riusciamo nemmeno ad alzare una mano e ci sentiamo inchiodati sul letto. Esattamente quella sensazione di soffocamento che provoca il gestire menti alterate, che alla fine rende alterata ogni nostra realtà.

XXVII

Se potessi, parlerei d’altro

Gli amici, ma solo quelli veri, mi dicono: «Non sei più lo stesso, parli solo di autistici e disabili! Non ti riconosciamo più!». Mi è stato scritto un giorno via Facebook: Una volta qui scrivevi cose divertenti, ora metti solo link ad articoli che parlano di autismo…

Risposi in parolibertà: È vero, ma a me piace così. Ho tedio per gli status grondanti di socialgoliardismo climaterico, viriltracotanzacialisindotta, subliminalpizzinismo trombamicale,

sorellanzapasseradesolatista,

spirtoguerrierchentromiruggismo

pantofolaro, ma soprattutto ho in gran dispitto il funesto ricorrere di horrovacuità domenicopalmistica che oggi è feroce… 1

Gli umani iperrelazionanti hanno stravaccato ogni mio residuo di sopportazione, gli autistici invece mi fanno bella compagnia, e quando sorridono, il tristo mondo, che nei social network rappresentiamo complici, leggiadramente evapora… Può essere che sia cambiato in questi ultimi anni ed è giusto che lo ammetta. Chi in queste pagine mi legge ed è consapevole di cosa significhi sentirsi l’indifferenza altrui addosso, non se ne farà meraviglia. È facile che ci troviamo nello stesso lazzaretto dell’anima e non facciamo più caso ai nostri bubboni interiori, che ormai cominciano ad attraversarci la pelle e diventano visibili anche ai più distratti. Vorrei, se possibile, farlo capire anche a quelli che mi sono sempre stati amici, che pure hanno vite segnate da esperienze dolorose, ma che non hanno idea del massacro mentale che può provocare l’angoscia fissa e indelebile per la sopravvivenza di un proprio

figliolo. Guardate bene, non parlo di un figliolo come tutti quanti: cioè un po’ stronzo, un po’ tenero. Quello, per capirci, che un po’ ti sta sulle scatole, ma un po’ lo assolvi da tutto perché in fondo hai contribuito tu alla sua venuta al mondo e quindi sai che devi fartene carico, ma speri sempre che prima possibile ce la faccia a correre con le sue gambe e ti auguri che con lui la vita sia indulgente il più possibile. No, non parlo di questi. Parlo di quelli che pesano più di te, ti sovrastano di gran lunga in muscoli vigore e altezza, ma ti guardano (quando ti guardano… non poi così spesso) come se sapessero che tutto il senso del poter esistere fosse legato a quelle poche e semplici cose che tu riesci a fare per loro. Una passeggiata, una gita in macchina, lo sport, la colazione assieme al mattino, starsene avvinghiati sul divano a vedere per la millesima volta magari lo stesso cartone di Peppa Pig e della Sirenetta, mentre la loro barba ti pizzica sulle guance. Vorresti anche tu che questo fosse per sempre, lo speri perché l’hai già da tempo barattato con tutto quello che di sorprendente, avventuroso ed estatico pensavi di poterti ancora permettere per la tua personale gioia. Ma un pensiero fisso e straziante non ti abbandona: vedi quel ragazzone inerme e tenero, per quanto sembri possente come un orco, nelle mani di quei lazzaroni di operatori con i guanti e il camice. Lo vedi nudo buttato per terra, terrorizzato che si copre le orecchie e chiude gli occhi, lo vedi preso a calci, trascinato a peso, sbeffeggiato e irriso. Lo vedi nelle condizioni dei poveri uomini e donne di cui la cronaca televisiva racconta spesso lo strazio. Lo stesso identico set, ogni volta che vengono messe telecamere nascoste in un centro che accoglie persone non autosufficienti. Stesse stanze vuote, pavimenti sudici, pareti scrostate da galera. Persino i protagonisti sembrano avere la stessa maniera di muoversi, gli stessi abiti, le stesse corporature. Ho avuto la terrificante certezza che comunque gli strumenti per fermarli siano irrisori; ho parlato con una donna che da anni è in causa con un signore che ancora, da qualche parte, ha la responsabilità di

disabili. Già sotto la direzione di costui qualcuno spaccò la mandibola e varie altre cose a un suo fratello disabile psichiatrico. Ecco, cari amici, perché non sono più lo stesso: più vedo, più leggo e più scrivo di queste cose, più immagino il mio Tommy e i suoi teppautistici compagni di viaggio, tutti assieme silenziosi sulla tradotta per essere deportati in uno di quei lager, quando io non ce la farò proprio più a tenerlo con me. Inutile che mi ricordiate le nottate a bere Margarita, le fughe scavezzacollo, le follie per le piazze a sollevare donne, per me mai troppo leggere. Le mie infami invenzioni e le mie indicibili intenzioni… Scusatemi, lo so che vi ho fatto divertire tanto. Anch’io mi sono tanto divertito con voi. Ma ora non riesco a pensare ad altro che a questo, ai tanti dal cervello balzano cui ormai so di assomigliare pure io, quelli che già ora rischiano di essere picchiati e maltrattati dalle persone che dovrebbero proteggerli. Non è una storia d’altri tempi, ma è la cruda sintesi della cronaca dei nostri giorni. Le immagini diffuse dalle telecamere nascoste non lasciano mai dubbi: botte, calci, schiaffi che omoni nerboruti (con i guanti bianchi, però) distribuiscono ai piccoli pazienti inermi che si coprono il viso terrorizzati. Porto un esempio per far comprendere il paradosso: sono stati incriminati due operatori di una cooperativa sociale del Nord Italia che avevano preso a calci e pugni un ragazzo autistico di 21 anni perché non conoscevano altra maniera per gestire una sua crisi oppositiva. Lo hanno fatto scendere dal pulmino e lo hanno malmenato davanti agli altri ragazzi, come se fosse una necessaria «punizione». Ancora una volta la neurodiversità resta assimilata a una «colpa»: lo conferma pure il capo d’accusa contro i due educatori che definisce il loro reato «abuso di mezzi di correzione». È come se i comportamenti determinati da problemi neurologici fossero da considerare atti volontari da «correggere». Sarebbe lo stesso che punire un cieco perché non vede, un sordo perché non sente o un tetraplegico perché non corre. Eppure oggi, nella percezione sociale più avanzata, si è maturato un concetto diffuso di ripugnanza persino per chi ammaestra animali

da circo, per chi usa sistemi brutali nell’allevamento di galline, per chi trascura animali domestici; su questo si è allertata una fitta rete di attenzione pubblica e i responsabili sono immediatamente additati, a piena ragione, al disprezzo della collettività. Desta più commozione la sorte delle cavie da laboratorio che degli umani diversamente cerebrati. È mai possibile che per richiamare l’attenzione sui maltrattamenti verso gli umani più indifesi, segregati e non in grado di riferire la violenza subita, non basti nemmeno una telecamera nascosta che ne documenti l’orrore e ne riporti all’attualità il problema? Che il set della raccapricciante candid camera sia un asilo, una scuola, un ospizio, o un centro di riabilitazione. In una società avanzata, solamente a persone che hanno strumenti professionali specifici è permesso di occuparsi dei disabili mentali, siano insegnanti di sostegno, educatori o operatori generici. Il contatto con quella che ancora è percepita come «follia» deve essere mediato dalla conoscenza del problema. Il rifiuto a una richiesta, lo sbalzo umorale, una crisi oppositiva sono parte integrante del quotidiano di chi abbia dei problemi neurologici, e un operatore specializzato sa quali siano le metodologie d’intervento per trattare emergenze del genere, senza dover ricorrere alla violenza o alla coercizione fisica. La brutalità diventa l’unica risposta possibile in una percezione ignorante e antiquata dell’intervento sul disabile, che si pensa debba essere «raddrizzato», come fosse un discolo o un teppista. Potranno pure essere previste pene più severe per chi commetta reati di violenza e maltrattamenti all’interno delle strutture sanitarie, ma non basterà a cambiare le cose. Il problema fondamentale è culturale, antico e difficile da demolire. Il disabile psichiatrico non è il frutto di uno «scherzo della natura», non deve essere destinato alla raccolta differenziata degli individui «a perdere», solo in ossequio a tale arcaico pregiudizio. Mi è sempre sembrato impossibile pensare un destino simile per mio figlio Tommy. Quando giro con lui, sembra appartenere a una stirpe eletta rispetto alla folla che fende stralunato con la sua nuvola di capelli che è impossibile non notare. Ha delle spalle dietro cui si potrebbe nascondere un’intera famiglia senza essere vista.

Ci penso perché ora me lo porto in giro più spesso, dopo mesi di reclusione per scrivere questo libro. Mi consola l’idea che il tempo a lui sottratto l’ho impiegato a lavorare per qualcosa che spero serva a lui e a quelli come lui. Sono tuttavia consapevole che, tra quelli che mi leggeranno, non saranno pochi i delusi. Sarà scontentato chi si era fatto un’idea rassicurante e consolatoria del padre consacrato al figlio silenzioso. Invece no, ora che Tommy e io ci mettiamo di nuovo in cammino, a fare da guida questa volta è proprio lui, anche se da solo non potrebbe nemmeno fare due passi fuori dal portone di casa, senza rischiare la vita. Chi sarei stato io se non avessi avuto un «Tommy» in dotazione? Faccio presto a rispondere, basta che corra a ritroso di una ventina d’anni e mi vedo, forse ero più spensierato? Quando mai… Ero in una fase cruciale della mia carriera e pensavo solo al lavoro. Dalle foto di allora mi vedo bolso e liscio come una mela, di quelle finte e tirate a cera, che sembrano uscite dal delirio Disney della scialba Biancaneve. Potevo continuare per quella strada e oggi starei a guardare il tramonto scendere sul mare del Portogallo. È il posto dove i miei ex colleghi giornalisti di allora hanno aggregato una colonia di pensionati semiresidenti. Mi dicono che con dieci euro si mangi pesce a volontà, che la vita costi pochissimo, la pensione non è tassata come in Italia. Mi assicurano persino che ci sia «discreta fica». Loro se ne stanno tutti assieme dalla mattina alla sera, per sei mesi e un giorno. Poi tornano in Italia all’ombra dei cascami delle loro famiglie, in un tempo ciclico devastante. Mentre l’unico legame con la propria vita reale resta il discutere su passate epopee professionali. Io non ricordo più le loro facce, nemmeno ho interesse per i loro discorsi. Ho sovrascritto ogni mia precedente fase biografica. Ora mi trovo in modalità «cervello ribelle». Mi sono preso la patente per esserlo con leggerezza, come decenni fa sostenni l’esame di Stato per diventare giornalista professionista, e ancor prima mi sono laureato. Grazie a Tommy, ho trovato un senso alla mia vita. Non lo dico nell’accezione che molti vorrebbero attribuirmi, che mi vedrebbe risplendere del mio sacrificio altruistico di padre. Figuriamoci… Tommy mi ha insegnato a cancellare proprio l’idea del sacrificio: fa

nulla che a lui non vada, sforzarsi in nome di una regola altrui è fuori dai suoi parametri di vita e sta cominciando a uscire dai miei. Non faccio nessun sacrificio, vi assicuro, anzi mai come ora ho cominciato a pensare a me e solo a me. Mi rendo conto che l’altruismo è una conquista culturale, giusta e corretta, ma non indispensabile se non ci gratifica. Coviamo sempre la speranza di ottenere un vantaggio da ogni nostra azione a sostegno del prossimo. Fosse anche essere avvolti dalla gratitudine, o essere indicati come esempio per le categorie degli empi egoisti e aridi. Non per questo dobbiamo sentirci cinici e profittatori, siamo solo esseri umani programmati per sopravvivere. Questo scandalizza? Pazienza. Non mi compete. Ho smesso di avere paura delle parole, anzi sto imparando a scegliere il più possibile quelle giuste, che sarebbero poi quelle per me più semplici da pronunciare senza pensarci. Forse non sarà in linea per le consuetudini altrui, ma è il linguaggio che ho scelto per definire ogni mia azione e ogni mio pensiero. L’ho imparato ascoltando Tommy il taciturno, che viaggia con spazi siderali di vantaggio rispetto a me. Io guardo mio figlio, lo respiro e seguito ad andare avanti.

Così mi sono fatto vedere da uno bravo

Pubblico a seguire, e in aggiunta a quanto già scritto, la mia diagnosi. Non vuole provare nulla, sia chiaro, si tratta solamente di un documento utile soprattutto a me, per consolidare alcune mie antiche riflessioni. Qualcuno potrebbe obiettare che una diagnosi di questo tipo dovrebbe essere convalidata da una struttura sanitaria pubblica. Sarei pure stato tentato di farlo, ma a quale scopo? Quale struttura pubblica, poi, in Italia ha competenza specifica in autismo adulto, anzi quasi senile, come nel mio caso? Nessuno si offenda, di sicuro ci sarà, ma non mi sono preso la briga di cercarla. Veramente, a me non interessa avere un riconoscimento d’invalidità, non mi sento tra l’altro invalido a svolgere alcuna delle mie funzioni, anzi ho l’impressione di aver acquisito una nuova consapevolezza di quello che io sono, e arrivarci a 63 anni trovo sia piuttosto di buon augurio a considerare la vita come una scoperta continua. Il professor Croce, dopo i test diagnostici, come ho già accennato, mi ha anche prescritto una risonanza magnetica al cervello, soprattutto per mia salvaguardia nel caso in cui, dopo l’uscita di questo libro, mi dovessi trovare nella necessità di confutare possibili accuse di malattie degenerative del cervello. «Non si sa mai,» mi ha detto il luminare «qualcuno potrebbe anche dire che, data la tua età, potresti cominciare ad avere sintomi di demenza senile.» Lui forse scherzava, ma, per non rischiare, mi sono comunque fatto fotografare a fondo anche il contenuto del mio cranio. Allego quindi la risonanza magnetica dell’encefalo e tronco cerebrale. Non trovo che monitorare il proprio cervello rappresenti nulla di scandaloso, assimilo questo esame a una banale gastroscopia o visita cardiaca. Chi pensa che sia sconveniente parlare dello stato d’efficienza delle proprie sinapsi soffre di bigottismo clinico. Perché il mio cervello non dovrebbe essere controllato come il cuore, lo stomaco, l’intestino o la

prostata? Ora che so abbastanza del mio cervello, tantomeno mi attira entrare in un club esclusivo che guarda i neurotipici come esito di una catena di montaggio d’umani standard, cullandosi sul gongolante privilegio di sentirsi centro del laboratorio in cui la natura sperimenta i suoi prototipi futuri. Oggi è aperto anche un dibattito sull’ipotesi che quei geni che potrebbero avere una parte nell’essere autistici siano stati appositamente confezionati dalla nostra macchina evolutiva perché il cervello umano potesse acquisire sempre maggiore efficienza. Certo è che il vantaggio del supercervello mamma evoluzione ce lo fa pagare ben caro, rendendoci più restii a socializzare e più tardi a capire quello che gli altri umani si dicono tra loro. 1 Sarebbe bello illudersi di avere l’ultrameninge, ma so che per me non è così. Di grazia se lascerò all’umanità qualche riflessione sulla mia vita con mio figlio Tommy, che a cervello sta messo bello strano anche lui. I veri cervelli superiori sono quelli che hanno cambiato il corso della storia, e non è sempre chiaro se sia nel bene o nel male, ma nemmeno bene e male sono categorie oggettive o assolute. Non credo che dai gruppi chiusi su Facebook che hanno nell’intestazione il termine «aspie» sia mai venuto fuori qualcosa che stravolgerà la vita a tutti gli altri. Sarebbe forse meglio che il fine degli asociali genetici (come me, naturalmente) fosse non quello di fare un club a parte in cui ci si crogioli nella propria condizione, quanto piuttosto cercare di lavorare il più possibile per essere inclusi nella società neurotipica che ha molto bisogno, secondo me, di cervelli ribelli per recuperare in civilizzazione ed efficienza. Molti celebri strambi, palesi anche se non certificati, hanno già contribuito notevolmente a «movimentare» il mondo nel campo delle scienze, delle relazioni digitali, delle arti, del pensiero. Altri meno conosciuti sono coloro che oggi alimentano il campo della ricerca scientifica, della sperimentazione di nuove forme di aggregazione sociale. In quanto a quelli che nello spettro dell’autismo abitano nei quartieri alti, siano contenti di appartenere alla stirpe degli X-men, 2

ma il loro fantastico QI non li assolve dal dovere di attenzione e tutela di quelli che vivono nello stesso spettro, ma nella periferia, in cui nessuno ama metter piede e tutti preferiscono pensare che sia abitata solo da fantasmi. Guardate che sono belli grossi e hanno una voglia matta di vita anche loro, benché il massimo consentito per i loro vent’anni sia ancora palpitare per la Sirenetta, immersi ogni sera in tablet di vecchia generazione. Quelli nuovi, nemmeno permettiamo che li prendano in mano, perché capita che ogni tanto venga loro voglia di addentarli e sgranocchiarne il vetro.

APPENDICE DIAGNOSTICA

Prof. Luigi E. Croce Medico Chirurgo Specialista in Psichiatria e Psicoterapia Presidente Comitato Scientifico ANFFAS Nazionale Direttore Scientifico Poliambulatorio SIR, Milano Direttore Scientifico Centro per l’Autismo Domino, Milano Professore di Neuropsichiatria Infantile Università Cattolica, Brescia Servizio di Consulenza Clinica, Educativa, Formazione, Organizzazione e Ricerca Certificazione Diagnostica a beneficio di Gianluca Nicoletti Brescia, 16 ottobre 2017 Ho valutato le condizioni cliniche e comportamentali di Gianluca Nicoletti, nato a Perugia, il 17 agosto 1954, di professione giornalista. Il paziente richiede una valutazione diagnostica relativa al sospetto di «sindrome di Asperger». Sono stati raccolti dati anamnestici e obiettivi clinici essenziali e sono stati somministrati test come la WAIS-R Wechsler Adult Intelligence Scale - Revised, la MMPI , Multiphasic Personality Inventory-2, e il test di Rorschach. Inoltre è stata condotta con estrema accuratezza l’intervista RAADS-R Ritvo Autism and Asperger’s Diagnostic Scale - Revised in concomitanza con l’esplorazione della percezione della Qualità di vita del paziente in relazione agli 8 Domini fondamentali / Benessere fisico, Benessere emotivo, Benessere materiale, Autodeterminazione, Sviluppo personale, Relazioni interpersonali, Inclusione sociale, Diritti ed Empowerment. Note anamnestiche: il paziente non è in carico presso nessuna struttura sanitaria o professionista in ambito sanitario e presenta una storia clinica caratterizzata da condizioni di sostanziale benessere bio-psico-sociale. Lavora, intrattiene relazioni affettive e professionali soddisfacenti, esercita ruoli e funzioni in ambito domestico, lavorativo, relazionale e sociale perfettamente compatibili con una condizione di normalità di funzionamento clinico, relazionale e sociale.

Valutazione Obiettiva sintetica: Persona lucida, a contatto, perfettamente orientata nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone. Non si evidenziano compromissioni del funzionamento cognitivo. Il comportamento è adeguato al contesto e collaborativo rispetto allo scopo dell’incontro. L’umore appare sostanzialmente normale, mentre si evidenziano sfumati segnali di ansia somatizzata, che non intaccano minimamente la relazione con l’interlocutore. Interessato, collaborativo, rivela una spiccata disponibilità all’esplorazione condivisa del proprio funzionamento mentale. Non sono evidenti alterazioni delle funzioni percettive e ideative. Il linguaggio è particolarmente fluente e appropriato nei contenuti e nelle forme espresse dalle richieste della valutazione. Sul piano cognitivo, per quanto riguarda memoria, attenzione, capacità elaborativa, creatività, astrazione, processamento logico, meccanismi di ragionamento deduttivo e induttivo, il paziente appare brillante ed efficace. Emerge una particolare ricchezza e complessità della sfera emozionale e istintuale, gestita e governata da una personalità evoluta che ha saputo controllare nel tempo qualche tendenza disgregativa e regressiva di cui si rivela traccia nelle indagini testologiche. Più specificamente il funzionamento clinico del paziente è stato valutato alla luce dei Criteri Diagnostici ICD-10 OMS per la diagnosi di Sindrome di Asperger con i seguenti riscontri:

Criterio Diagnostico

Evidenza

A) Non è presente un ritardo generale clinicamente significativo nell’espressione o produzione del linguaggio o nello sviluppo cognitivo. La diagnosi richiede che l’uso di singole parole si sia sviluppato entro i primi due anni di età e che l’uso di frasi a valenza comunicativa si sia sviluppato entro i primi tre anni di età. L’autosufficienza, l’adattamento all’ambiente e la curiosità per l’ambiente nei primi tre anni debbono essere di un livello adeguato al normale sviluppo intellettivo.

Sostanzialmente rispettato in base alle referenze anamnestiche raccolte

Tuttavia, gli stadi dello sviluppo motorio possono essere in qualche misura ritardati ed è frequente una certa goffaggine motoria (sebbene non sia una caratteristica diagnostica necessaria). Sono frequenti, ma non sono necessarie per la diagnosi, particolari abilità isolate, spesso connesse a interessi normali. B) Sono presenti compromissioni qualitative Rispettato anche se dell’interazione sociale (come nell’autismo). deve essere precisato che: le variazioni qualitative dell’interazione sociale in realtà non sono disfunzionali, ma adattive C) Il soggetto presenta un interesse Non rispettato inusualmente intenso e circoscritto o modelli di formalmente e comportamento, interessi e attività limitati, sostanzialmente stereotipati e ripetitivi (come nell’autismo; tuttavia in questa sindrome, sono meno frequenti i manierismi motori o l’interesse per parti di oggetti o per elementi non funzionali dei materiali di gioco). D) Il quadro non è attribuibile ad altri tipi di Rispettato sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico; alla schizofrenia simplex (F20.6); alla sindrome schizotipica (F21); alla sindrome ossessivo compulsiva (F42.-); al disturbo di personalità anancastico (F60.5); al disturbo

reattivo e disinibito dell’attaccamento dell’infanzia (rispettivamente, F94.1 e F94.2). Il test di Intelligenza denota un’intelligenza complessiva decisamente superiore alla norma con Q.I. di 143, come si evidenzia nel test allegato. Il profilo di Personalità, all’interpretazione dell’MMPI-2 e alla luce del colloquio clinico, si configura come integro e in grado di sostenere l’identità psicologica del paziente. L’indagine esplorativa con il test di Rorschach conferma e sostiene la poderosità dell’impianto pulsionale, che tuttavia viene efficacemente controllato dalla maturità psicologica, dalla capacità di razionalizzare le spinte istintuali e dalle esperienze relazionali pregresse, gestite con successo. Lo spunto psicopatico e il tratto Mascolinità/Femminilità evidenziati nel profilo di Personalità vanno interpretati come segnali di originalità caratteriale, assolutamente non patologici e correlati con le spiccate capacità di elaborare il materiale verbale espresso dai possibili interlocutori, in modo particolare di sesso femminile. Il paziente è stato quindi sottoposto a valutazione testologica con: RAADS-R

Ritvo Autism and Asperger’s Diagnostic Scale, edizione italiana a cura di

Davide Moscone e David Vagni a

Scale

Cut-off

Media ASD

Paziente

Interazione sociale

31

66

78

Interessi circoscritti

15

28

34

Pragmatica

4

10

10

Sensomotorio

16

30

46

Punteggio totale

65

134

168

I risultati del Test indicano che: a.

Il paziente presenta un punteggio totale superiore al punteggio totale suggestivo di Sindrome di Asperger

b.

Il paziente dimostra un punteggio superiore al punteggio suggestivo di Sindrome di Asperger in tutte e 4 le sottoscale riportate dal test, Interazione sociale, Interessi circoscritti, Pragmatica, Sensomotorio

c.

Il paziente dimostra un punteggio superiore al punteggio medio suggestivo di Sindrome di Asperger in 3 delle sottoscale riportate dal test, Interazione sociale, Interessi circoscritti, Sensomotorio. In ambito Pragmatica il paziente rivela un punteggio corrispondente alla media dei punteggi riscontrati in pazienti con Sindrome di Asperger

d.

L’interazione sociale avviene con successo e soddisfazione anche se caratterizzata da spiccata originalità con aumento del traffico comunicativo in corrispondenza degli specifici interessi comuni e condivisi con l’interlocutore/interlocutrice

e.

Pragmatica e senso motorio sono gestiti con efficacia in virtù delle notevoli capacità adattive e dell’intelligenza del soggetto.

Conclusioni: premesso che:

1.

La definizione di «Sindrome di Asperger» prende il suo nome da quello del medico austriaco Hans Asperger, che per primo ha identificato, studiato e descritto un gruppo di bambini con particolari comportamenti nell’interazione sociale, nelle abilità comunicative e negli interessi.

2.

È stata introdotta nel DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) IV nel 1994 e inserito, come l’Autismo, nella categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo.

3.

In sintesi, si differenziava dall’Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia, del comportamento adattativo, salvo, ovviamente, che nell’interazione sociale.

4.

Con il DSM V (2013) si parla di Disturbi dello Spettro Autistico, definiti all’interno di due sole categorie: «deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e nelle interazioni sociali in diversi contesti» e «schemi comportamentali ripetitivi e ristretti», entrambi presenti fin dall’infanzia, ma possono non diventare manifesti finché le esigenze sociali non superano i livelli di capacità.

5.

A loro volta, tali categorie sono descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui, per la prima volta, l’ipo o iper sensibilità verso gli stimoli sensoriali. La presenza di tali sintomi deve compromettere o limitare il funzionamento quotidiano. La diagnosi ora richiede la presenza o l’assenza di disabilità intellettiva correlata, di alterazioni del linguaggio, così come di condizioni mediche e genetiche aggregate.

6.

La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato scompaiono. L’APA (American Psychiatric Association, che redige il DSM ) sottolinea ciò che nella pratica clinica è dato osservare e cioè che le diverse condizioni delle persone con Autismo appartengono a uno stesso continuum, piuttosto che costituire entità separate. Ciò che differenzia, secondo il DSM V, e quindi dà origine a «sub diagnosi» è la «gravità» che viene identificata nella necessità di «supporto». La condizione autistica può richiedere quindi «very substantial support», «substantial support», «support».

7.

A partire dal 2014, è possibile sostituire la definizione di «Sindrome di Asperger» con quella di «Spettro autistico», specificando che la persona interessata non ha disabilità intellettiva, e che non ha necessità di un supporto intensivo. Anche se bisognerà sempre tenere conto degli specifici profili individuali. Come, del resto, accadeva anche col DSM IV, quando si cercava di classificare le persone che non rispondevano a tutti i requisiti previsti per la Sindrome di

Asperger, ma con discreti livelli di autonomia e di sviluppo cognitivo e del linguaggio, nella definizione (non prevista dal Manuale) di Autismo ad Alto Funzionamento. 8.

È evidente inoltre che rappresentando l’Autismo come uno «spettro», sarà difficile definire anche i confini con la condizione di «normalità» (neuro tipica) e quindi sarà possibile individuare persone che manifestano condizioni «limite» (cd variante normale e/o sub clinica).

Con particolare riferimento alla lettura e alla elaborazione combinata e contestuale dei dati emersi dalle valutazioni testologiche, cliniche anamnestiche e obiettive, confermo i tratti Asperger nella personalità e nel funzionamento della Persona esaminata. Certifico quindi che il paziente presenta le diagnosi di:

Codice ICD 10

Diagnosi

F84.5

Sindrome di Asperger

F41.9

Lieve Disturbo d’Ansia non specificato

Cordialità Luigi Croce

Roma, lì Ns. Rif.

02/12/2017 U001993322

Pagina Data esecuzione 01/12/2017

1 /1

Signor/ra NICOLETTI Data referto 02/12/2017 GIANLUCA Data nascita 17/08/1954 Privato RM cerebrale Indagine eseguita con tecnica di acquisizione spin Echo utilizzando sequenze atte a ottenere immagini pesate in T1, T2 secondo piani assiali, sagittali e coronali. Non alterazioni morfologiche né di segnale di tipo focale evolutivo del parenchima cerebrale. Non alterazioni della sostanza bianca cerebrale. Il sistema ventricolare sopra e sottotentoriale è in asse rispetto alla linea mediana non deformato, dislocato o dilatato. Gli spazi liquorali della base e del mantello risultano di ampiezza normale. Non alterazioni del troncoencefalo né del cervelletto. Sequenze in diffusione non documentano aree di restrizione della diffusività molecolare da riferire a lesioni ischemiche in fase acuta o subacuta. Quale reperto accessorio si segnala deviazione scoliotica destro-convessa del setto nasale. Modesta ipertrofia dei turbinati. Dott. Alfonso Amatruda TSRM Moretti Luigi Referto sottoscritto con firma digitale ai sensi degli artt. 20,21 n. 2,23 e 24 del D.L. 82 del 7/3/05 e successive modifiche U.S.I. S.p.A. P.Iva 01066621002 - Unita locale - Via V. Orsini 18 ROMA

Risonanza magnetica dell’encefalo e del tronco cerebrale di Gianluca Nicoletti. a. Ritvo, R.A., Ritvo, E.R., Guthrie, D., Ritvo, M.J., Hufnagel, D.H., McMahon, W., Tonge, B., Mataix-Cols, D., Jassi, A., Attwood, T. e Eloff, J., The Ritvo Autism Asperger diagnostic scale revised (RAADSR ): A scale to assist the diagnosis of autism spectrum disorder in adults: An international validation study, in «Journal of autism and developmental disorders», 41 (8), 2011, pp. 1076-1089.

Note

I. L’orgoglio di una mente «diversa» 1. Bruno Bettelheim (Vienna, 28 agosto 1903 - Silver Spring (MD ), 13 marzo 1990) è stato uno psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense. Dal suo La fortezza vuota nacque l’idea che l’autismo fosse causato dall’inadeguatezza materna, la cosiddetta «madre frigorifero», dalla quale il bambino per essere curato doveva essere separato («parentectomia»). Le teorie di Bettelheim sulle origini relazionali dell’autismo sono state ampiamente confutate ed è ormai assodato che l’autismo ha una molteplicità di cause: organiche, genetiche, epigenetiche e di sviluppo del cervello. 2. Tommy e gli altri è anche il titolo del docufilm realizzato dall’autore nel 2016 con la regia di Massimiliano Sbrolla, la cui trama si snoda in un giro in Italia di Gianluca Nicoletti e il figlio Tommy alla ricerca di autistici fantasma.

II. Anch’io sono un po’ tanto autistico, e ve lo spiego 1. Il sito www.pernoiautistici.com è il portale di informazione e riflessione sull’autismo che Gianluca Nicoletti ha fondato nel 2015 e su cui tuttora scrive con continuità. 2. Si tratta di Luigi Mazzone, neuropsichiatra infantile e autore di Un autistico in famiglia, Milano, Mondadori, 2015. 3. Una notte ho sognato che parlavi, Milano, Mondadori, 2013. 4. The Empire Strikes Back (Star Wars: Episodio V) è un film del 1980 diretto da Irvin Kershner. 5. The Wizard of Oz è un film del 1939 diretto da Victor Fleming. La protagonista (Dorothy Gale) è Judy Garland.

III. È una vita che mi adatto 1. WAIS-R (Wechsler Adult Intelligence Scale - Revised), MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2), test di Rorschach e RAADS-R (Ritvo Autism Asperger Diagnostic Scale - Revised), un’intervista abbinata all’esplorazione della percezione della qualità di vita del paziente in relazione agli 8 Domini fondamentali: Benessere fisico, Benessere emotivo, Benessere materiale, Autodeterminazione, Sviluppo personale, Relazioni interpersonali, Inclusione sociale, Diritti ed Empowerment. 2. Life, Animated è un film documentario del 2016 diretto da Roger Ross Williams. 3. Citazione da Matrix (The Matrix), film di fantascienza del 1999 scritto e diretto da Larry e Andy Wachowski. È la scena famosa in cui Morpheus mette davanti agli occhi di Neo due pillole, una azzurra e una rossa: «È la tua ultima occasione. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie, vedrai quanto è profonda la tana del bianconiglio». 4. Nemmeno tanto da scherzarci. I tassi di suicidio tra le persone con il disturbo dello spettro dell’autismo hanno raggiunto livelli «preoccupanti». A lanciare l’allarme è stato un team di ricercatori delle università di Coventry e Newcastle (Regno Unito), che su «Lancet Psychiatry» spiegano come sia necessaria un’azione urgente per aiutare i pazienti più a rischio

(Understanding

and

prevention

of

suicide

in

autism,

maggio

2017,

http://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366(17)30162-1/fulltext). 5. Legge sull’autismo, «vince il compromesso: niente cambierà», in «Redattore sociale», 28 luglio 2015. 6. Paolo Caponi e David Vagni, Il diritto all’autodeterminazione delle persone autistiche. La nuova legge sull’autismo riguarda anche noi?, in «Spazio Asperger», 29 luglio 2015.

V. L’autistico diversamente abusato 1. Il 20 settembre 2017, nella trasmissione «Otto e Mezzo», su La7. La frase esatta era: «Andate pure avanti a trattarli come mongoloidi», usata nell’ambito di una polemica politica. 2. Ne parlo diffusamente in Alla fine qualcosa ci inventeremo, Milano, Mondadori, 2014, cap. XXIII («Autistico: indicibile»), pp. 181-188, in particolare p. 183: «A un certo punto della discussione, il senatore dice, parlando del suo ex alleato divenuto antagonista politico: “È un ragazzino autistico, che vorresti proteggere perché tante cose non le sa”. L’ha detto ridendo, come fosse un’infame battutaccia, e la platea d’illuminati esempi di coscienza civile è scoppiata essa pure in una fragorosa risata e in un applauso a scena aperta. Il frastuono ridanciano e lazzarone di quelle brave persone che si scompisciavano pensando al possibile paragone con un autistico scatenò in me un’indignazione acuta». 3. La legge 5 febbraio 1992 n. 104, più nota come legge 104/92, è il riferimento legislativo «per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate». Principali destinatari sono dunque i disabili, ma non mancano riferimenti anche a chi vive con loro. Il presupposto è infatti che l’autonomia e l’integrazione sociale si raggiungono garantendo alla persona handicappata e alla famiglia adeguato sostegno. E questo supporto può essere fornito sotto forma di servizi di aiuto personale o familiare, ma può essere inteso anche come aiuto psicologico, psicopedagogico, tecnico. Dopo l’entrata in vigore, la legge è stata aggiornata in alcune sue parti, per effetto di norme introdotte successivamente (fonte: www.disabili.com). 4. Ferruccio Pinotti: «Per anni ha abusato di mio figlio disabile, eppure resta libero», in «Corriere della Sera», 2 novembre 2017. 5. Dalla lettera al «Corriere della Sera» del procuratore di Cuneo Francesca Nanni del 3 novembre 2017. 6. Una notte ho sognato che parlavi, cit., cap. XV («Un matrimonio combinato»), p. 105. 7. Gaia Rayneri, Pulce non c’è, Torino, Einaudi, 2009, da cui nel 2012 fu tratto il film omonimo, diretto da Giuseppe Bonito. 8. Parlo diffusamente di questa pratica in Alla fine qualcosa ci inventeremo, cit., cap. V («Tommy laureato affettatore di zucchine»), pp. 28-37. 9. Sintesi dalle Linee Guida IIS , Istituto Superiore Sanità, ottobre 2011, p. 64: «A oggi non ci sono dati per sostenere che i soggetti con autismo ricevono un aiuto nella comunicazione facilitata, ma ci sono invece dati che comprovano che la comunicazione è

prodotta dal facilitatore. Proprio in considerazione delle implicazioni etiche sollevate da questi risultati rispetto all’integrità e alla dignità dei bambini e adolescenti con autismo, l’American Psychological Association ha approvato una risoluzione contraria all’utilizzo della comunicazione facilitata. Viene raccomandato di non utilizzare la comunicazione come mezzo per comunicare con bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico».

VI. Grullautistici contro genialoidautistici? 1. Vedi cap. V, nota 3.

VII. Il Gigante di ferro 1. Il gigante di ferro (The Iron Giant) è un film d’animazione del 1999, prodotto dalla Warner Bros e diretto da Brad Bird, ispirato al libro L’uomo di ferro (The Iron Man) di Ted Hughes, pubblicato nel 1968.

VIII. Una vita fondata sul lavoro 1. El ángel exterminador è un film di Luis Buñuel del 1962. È la storia surreale di una compagnia di amici che sono misteriosamente impossibilitati a uscire dal salotto di casa dopo un incontro conviviale.

IX. La mia storiaccia 1. L’affare Dreyfus è un caso classico di uso strumentale della giustizia che divise la Francia dal 1894 al 1906. Il capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, accusato di tradimento e spionaggio con la Germania, fu degradato con ignominia, condannato e deportato. Dodici anni dopo fu riabilitato perché innocente e vittima di una macchinazione.

X. Prima di Tommy 1. Loris Mazzetti, «Gianluca Nicoletti un professionista regalato alla concorrenza», in Il libro nero della Rai, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 218-246. 2. Fantozzi va in pensione è un film del 1988, diretto da Neri Parenti, con Paolo Villaggio. 3. Un racconto dettagliato della mia vita perugina è in Il libro infame, Latina, Tunué, 2013, illustrato da Roberto Ronchi. 4. Second Life è un mondo virtuale che le persone condividono online. È stato lanciato nel 2003 dalla società americana Linden Lab. La mia esperienza in Second Life è raccontata in Le vostre miserie, il mio splendore. La seconda vita narrata dall’avatar Bitser Scarfiotti, Milano, Mondadori, 2007. 5. Dopamine jolt behind internet addiction: the effect on the brain is similar to what makes drug addicts reuse cocaine, in «The Financial Times», 3 gennaio 2013. 6. Questa fase l’ho raccontata in Una notte ho sognato che parlavi, cit., e successivamente in Alla fine qualcosa ci inventeremo, cit.

XI. Insieme nel buio 1. Il riferimento è all’ultimo capoverso di Una notte ho sognato che parlavi, cit.: «… ora mi vien da dire chi se ne frega, sopravvivremo comunque fino al giorno che sarà proprio Tommy a portarmi sulle spalle, come dovette fare Enea con il vecchio Anchise. Io mi attaccherò al suo capoccione bislacco e gli dirò per la miliardesima volta di fermarsi ai semafori e camminare sulle strisce. Mi consolerà pensare che, a quel tempo, gli altri figli efficienti e produttivi avranno già sbattuto i loro genitori a far la muffa in qualche ospizio. Noi ci faremo qualche bella passeggiata ancora assieme. Quando io non ci vedrò quasi più, forse passeremo col rosso».

XII. Padri assassini 1. Inception è un film del 2010 co-prodotto, scritto e diretto da Christopher Nolan e interpretato da Leonardo DiCaprio nella parte di Dominic «Dom» Cobb, un professionista che si occupa di «estrarre» segreti dalle menti delle persone mentre dormono, infiltrandosi nei loro sogni tramite un apparecchio a timer in suo possesso, che permette a un gruppo di persone di partecipare a un «sogno condiviso».

XIV. Alla conquista del nostro castello 1. «Dichoso el árbol, que es apenas sensitivo, / y más la piedra dura porque è sa ya no siente, / pues no hay dolor más grande que el dolor de ser vivo, / ni mayor pesadumbre que la vida consciente» (Lo fatal). Félix Rubén García Sarmiento (Metapa, 1867 - León, 1916), meglio conosciuto con lo pseudonimo Rubén Darío, è stato un poeta, giornalista e diplomatico nicaraguense. È considerato il massimo esponente del modernismo ispanoamericano. 2. La storia è raccontata nel dettaglio nell’ultimo capitolo («E per finire, un’utopia») di Una notte ho sognato che parlavi, cit. 3. Si tratta del Casale Gomenizza, collocato nella riserva naturale regionale di Monte Mario. 4. Wonder è un film del 2017 diretto da Stephen Chbosky. È tratto dal romanzo omonimo di R.J. Palacio, pubblicato nel 2012.

XV. La sindrome di Isacco 1. Concetto ripreso da Il libro infame, cit., p. 153. 2. Antonio Gnoli, Da Abramo a Noè ecco il volto segreto degli eroi biblici, in «la Repubblica», 20 gennaio 2017. 3. Magdalena Janecka, PhD, Claire M.A. Haworth et al., Paternal Age Alters Social Development in Offspring, in «Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry», 56 (5), 2017, pp. 383-390. 4. Famous Figures from History and Today With Disabilities, The Jewish Federation of Greater

Los

Angeles

-

The

http://www.boardofrabbis.org/.

Board

of

Rabbis

of

Southern

California,

in

XVI. Le belle famiglie 1. Film giapponese del 1950, diretto da Akira Kurosawa.

XVII. La tecnologia ci dirà chi siamo? 1. Andrew G. Reece e Christopher M. Danforth, Instagram photos reveal predictive markers of

depression,

0110-z.

https://epjdatascience.springeropen.com/articles/10.1140/epjds/s13688-017-

XVIII. I nostri ammortizzatori emotivi 1. Sarantis Thanopulos, L’autismo regolato, in «il manifesto», 14 febbraio 2017. 2. Camera dei Deputati, XVII legislatura, bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari n. 845, martedì 27 giugno 2017, Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza: «Indagine conoscitiva sulla tutela della salute psicofisica dei minori». Esame della Sezione: «Il diritto alla salute dei minori diversamente abili». 3. ABA è l’acronimo di Applied Behavior Analysis (tradotto in italiano con Analisi Comportamentale Applicata) ed è la scienza applicata che deriva dalla scienza di base conosciuta come Analisi del Comportamento. Per i genitori rappresenta la speranza di poter migliorare la relazione e, quindi, la qualità di vita dei propri figli autistici. Nonostante sia il trattamento consigliato come prima scelta dalle linee guida dell’ISS in Italia, è ancora molto difficile farlo passare dal servizio sanitario nazionale. La nostra cultura scientifica generale è ancora molto carente e spesso le famiglie si trovano un’offerta abilitativa limitata a trattamenti non efficaci, come logopedia e psicomotricità, o comunque conforme al superato approccio psicoanalitico e psicodinamico.

XXI. Gli incompatibili autistici 1. Bambino morto di otite: padre, madre e omeopata indagati per omicidio, 29 maggio 2017. 2. Vittima dell’aggressione è stato il dirigente medico dell’Asp di Cosenza, responsabile del settore vaccini di Belvedere e Diamante, 15 giugno 2017. 3. Kill Bill vol. 2 (USA 2004) è la seconda parte di Kill Bill, quarto film del regista statunitense Quentin Tarantino. La frase divenuta celebre è tratta dall’epilogo del rapporto ambiguo tra Beatrix (Uma Thurman) e Bill (David Carradine): «L’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana».

XXIII. Inclusione anche per noi 1. Vedi «Il sollievo di sollevar donne», in Il libro infame, cit., pp. 112-117.

XXIV. Guerra civile sull’autismo? 1. «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» affermò Umberto Eco il 10 maggio 2015 nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in «Comunicazione e Cultura dei media». 2. Eco, i social network e le legioni di imbecilli. Difendere la verità è un lavoro che costa fatica, in «La Stampa», 11 giugno 2015. 3. Nato nel 1996 come videogioco survival horror creato da Capcom inizialmente per PlayStation, sullo stesso soggetto sono stati realizzati dal 2002 al 2017 ben sei film.

XXV. Vogliono uccidere i nostri bambini 1. Il 20 luglio 2017 la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge sui vaccini. Nella Gazzetta Ufficiale del 5 agosto è pubblicata la Legge n. 119 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, recante disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale». 2. Nel ritorno da Fatima, il 13 giugno 2017, papa Francesco ha dichiarato a proposito di Medjugorje: «Maria non fa la postina». 3. Maurizio Ghiretti, Storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, Milano, Bruno Mondadori, 2002. 4. Simonino di Trento, tradizionalmente «san Simonino» (1472-1475), morì durante la Pasqua del 1475 e fu venerato come beato dalla Chiesa cattolica sino al 1965. La tradizione lo voleva ucciso da rappresentanti della comunità ebraica per scopi rituali. Nell’iconografia del santo erano rappresentati anche gli strumenti che sarebbero stati usati per dissanguarlo. 5. Massimo Introvigne, In margine al caso Toaff: magistero pontificio e accusa del sangue contro gli ebrei, 1247-1759, articolo apparso in versione abbreviata come Chiesa, antisemitismo e accuse agli ebrei, in «Famiglia Cristiana», anno LXXVII, n. 8, 25 febbraio 2007, p. 143. Nel 1247 papa Innocenzo IV emana due bolle in cui afferma che gli ebrei sono «falsamente accusati di comunicarsi a Pasqua con il cuore di un fanciullo assassinato» e dice decisamente di «vietare che si accusino alcuni di loro [ebrei] di utilizzare sangue umano nei loro riti, giacché anche nel Vecchio Testamento si vieta loro di fare uso di qualunque tipo di sangue, per non parlare del sangue umano». 6. La campagna era apparsa per la prima volta pubblicata sul sito dell’associazione Corvelva, Coordinamento regionale veneto per la libertà delle vaccinazioni. A raccontare la storia del falso sul suo blog fu David Puente, esperto di tecnologie multimediali e comunicazione online, impegnato da tempo in una battaglia contro le «fake news». 7. Egoismo e complotto, le due facce dei No-Vax, in «L’Espresso», 12 settembre 2017. 8. L’episodio si è verificato a metà settembre 2017 nella sala parto dell’ospedale di San Daniele del Friuli, in provincia di Udine. Già prima del parto la donna aveva dichiarato ai medici il proprio rifiuto a un eventuale taglio cesareo: la coppia di genitori desiderava infatti un parto naturale secondo la pratica del cosiddetto «Lotus Birth», con il cordone ombelicale che avrebbe dovuto staccarsi e cadere da solo. 9. Lotus Birth deve il suo nome a Clair Lotus Day, un’infermiera californiana che nel 1974 decise di non far recidere il cordone ombelicale del figlio perché convinta di avere il

dono di vedere l’aura delle persone. Lotus Day sosteneva che l’aura di chi non aveva subìto il taglio del cordone fosse vibrante e integra, a differenza degli altri. Da allora la modalità di non recidere il cordone si è diffusa con il suo nome, ed è stata sostenuta dalle guru new age Jeannine Parvati Baker e Shivam Rachana. Quest’ultima è autrice dell’unico libro sul tema: Lotus Birth: il parto integrale. Nati con … la placenta (trad. it. Giaveno [TO ], Amrita, 2005), che ha dato ulteriore diffusione a una pratica che la comunità scientifica internazionale definisce «pericolosa per la salute del bambino». 10. L’associazione delle ostetriche è stata costretta ad aprire un’indagine interna per accertare quali loro affiliate si prestassero ad assecondare tale pratica. Cfr. «Melog», programma di Radio24, puntata del 18 settembre 2017 («La superstizione corre nei social»). 11. Quello delle «mamme pancine» è un lampante esempio di subcultura digitale. Un rigurgito arcaico e stregonesco presente soprattutto in community su Facebook. I gruppi sono alimentati da mamme votate all’allattamento perenne, a demonizzare il sesso, a credere in sortilegi a base di latte materno, o mestruo.

XXVII. Se potessi, parlerei d’altro 1. Da un mio post Facebook del 9 aprile 2016, Domenica delle Palme.

Così mi sono fatto vedere da uno bravo 1. Widespread signatures of positive selection in common risk alleles associated to autism spectrum disorder, studio di Renato Polimanti e Joel Gelernter, finanziato dai National Institutes of Health e pubblicato il 10 febbraio 2017 su «PLOS Genetics». Ne fa una sintesi ragionata Monica Torriani nell’articolo: Diversità come vantaggio dell’evoluzione: l’autismo. Gli studi sull’autismo ci insegnano a vedere la diversità come un vantaggio (Wellness4good.eu 20 marzo 2017). 2. Gruppo di supereroi mutanti, protagonisti di varie serie a fumetti pubblicate dall’editore statunitense Marvel Comics, ideati da Stan Lee e dal disegnatore Jack Kirby nel 1963.

Ringraziamenti

Il primo a mettermi la pulce nell’orecchio (sempre in maniera scherzosa e amichevole) sul fatto che in me ci potessero essere segni dell’autismo di mio figlio Tommy è stato Luigi Mazzone, medico ricercatore in neuropsichiatria infantile. Ha lavorato dal 2005 al 2006 al National Institute of Mental Health di Bethesda (Washington) e, dopo aver vinto la «Alexander Bodini Fellowship», dal 2006 al 2009 alla Division of Child and Adolescent Psychiatry della Columbia University di New York, partecipando a studi di risonanza magnetica su bambini e adolescenti affetti da disturbi dello sviluppo. È autore di numerose pubblicazioni su prestigiose riviste scientifiche internazionali e vincitore del bando di ricerca finalizzata 2009 del ministero della Salute. In questo periodo svolge attività clinica e di ricerca prevalentemente nel campo dei disturbi dello spettro dell’autismo e dei disturbi esternalizzanti dello sviluppo presso l’Unità operativa di neuropsichiatria infantile, dipartimento di medicina dei sistemi dell’Università Roma2 Tor Vergata. La prima diagnosi del tutto informale di Asperger l’ho avuta nel luglio 2017 all’Aquila nel backstage di un concerto di Elio e le Storie Tese, dove ero andato con mio figlio Filippo e una collega appassionata di Elii; a noi si accodò anche una ragazza siciliana che conoscevo per fama e alla quale avevo spesso indirizzato dei genitori di bambini autistici perché sapevo essere molto scrupolosa. Era la dottoressa Laura Reale, medico ricercatore in neuropsichiatria infantile. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Neuropsichiatria infantile presso l’Università di Catania. Dal 2012 al 2017 ha svolto attività di ricerca nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo e degli psicofarmaci in età evolutiva presso il laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. Attualmente è ricercatrice presso l’Università di Milano-Bicocca e dirigente medico neuropsichiatra presso l’U.O. di Neuropsichiatria dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Lei mi avrà forse visto particolarmente «bizzarro, isolato e intelligente», per parafrasare il titolo del libro di Hans Asperger (Bizzarri, isolati e intelligenti, trad. it. Trento, Erickson, 2003), comunque mi ha consigliato di farmi fare una vera diagnosi da uno psichiatra che trattasse autismo adulto. La diagnosi che riproduco nell’Appendice diagnostica è seguita a un’osservazione iniziata ad agosto dello stesso anno a Brescia nello studio del professor Luigi Croce: medico chirurgo specialista in Psichiatria e Psicoterapia, presidente del Comitato scientifico di ANFFAS Nazionale, professore di Neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica, dove svolge

attività clinica, consulenza, formazione e ricerca nel campo della Qualità di Vita di Persone con Disabilità Intellettive e dello Sviluppo, con riferimento anche alla Famiglia, ai contesti di vita e in presenza di gravi disturbi psichiatrici e del comportamento associati.

Questo eßook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it Io, figlio di mio figlio di Gianluca Nicoletti © 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852086199 COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: GAIA STELLA DESANGUINE | ELABORAZIONE GRAFICA DI UNA FOTO DI GIANLUCA NICOLETTI DA BAMBINO «L’AUTORE» || FOTO © BEATRICE QUADRI

.

Frontespizio Il libro L’autore Io, figlio di mio figlio I. L’orgoglio di una mente «diversa» II. Anch’io sono un po’ tanto autistico, e ve lo spiego III. È una vita che mi adatto IV. Perché i nostri figli autistici sono orfani V. L’autistico diversamente abusato VI. Grullautistici contro genialoidautistici? VII. Il Gigante di ferro VIII. Una vita fondata sul lavoro IX. La mia storiaccia X. Prima di Tommy XI. Insieme nel buio XII. Padri assassini XIII. Vorrei un figlio teppautistico XIV. Alla conquista del nostro castello XV. La sindrome di Isacco XVI. Le belle famiglie XVII. La tecnologia ci dirà chi siamo? XVIII. I nostri ammortizzatori emotivi XIX. Noi empacto-scettici XX. Guai ai cervelli ribelli XXI. Gli incompatibili autistici XXII. «Eravamo già autistici nelle palle dei nostri papà» XXIII. Inclusione anche per noi XXIV. Guerra civile sull’autismo? XXV. Vogliono uccidere i nostri bambini XXVI. Le madri che hanno spento il frigorifero XXVII. Se potessi, parlerei d’altro Così mi sono fatto vedere da uno bravo Appendice diagnostica Note Ringraziamenti

7 3 5 8 9 16 25 34 42 49 59 69 78 85 95 101 107 112 120 128 137 145 152 160 167 174 180 186 193 204 213 220 223 232 257