Alla fine qualcosa ci inventeremo. Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco 9788852054129

Tommy ha da poco compiuto sedici anni. Vive l'età in cui tutti gli adolescenti cominciano a fare progetti sul futur

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Italian Pages 169 Year 2014

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Alla fine qualcosa ci inventeremo. Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco
 9788852054129

Table of contents :
Indice......Page 169
Frontespizio......Page 6
Il libro......Page 3
L’autore......Page 5
Alla fine qualcosa ci inventeremo......Page 7
I. Effetto Stigler......Page 8
II. Un movimiento sexy......Page 13
III. Il segreto di famiglia......Page 18
IV. Il tapis roulant nel sottoscala......Page 22
V. Tommy laureato affettatore di zucchine......Page 28
VI. Trallallà......Page 37
VII. Noi, sentinelle del nostro carceriere......Page 43
VIII. Insettopia è ovunque......Page 49
IX. I genitori taxisti......Page 58
X. Cenerentola al gran ballo di corte......Page 64
XI. Un serial killer come compagno di banco......Page 69
XII. Aguzzine di sostegno......Page 75
XIII. La grande cavalcata......Page 83
XIV. Così forte e così fragile......Page 90
XV. Le favole e la realtà......Page 96
XVI. Spazio riservato......Page 107
XVII. I folli in maschera......Page 117
XVIII. Il sulfureo autismo......Page 124
XIX. Uomini e topi......Page 131
XX. Nostro figlio è la nostra droga......Page 138
XXI. Io, padre forcluso......Page 142
XXII. I bravi ragazzi......Page 147
XXIII. Autistico: indicibile......Page 156
XXIV. Che ne so......Page 163

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Il libro

T

OM M Y HA DA P O C O C OM PI U TO SE DIC I A N N I .

VIVE

L ’ E TÀ I N C U I

tutti gli adolescenti cominciano a fare progetti sul futuro e i genitori si preparano a lasciarli camminare da soli. Ma Tommy è un adolescente

speciale: certo, è bravissimo a risolvere il cubo di Rubik, sa alzarsi perfettamente in equilibrio dopo aver girato per mezz’ora, in posizione yoga, come una trottola sulla sedia d’ufficio del padre, però il suo sguardo fatica a incrociare il tuo e il suo vocabolario è fatto di una manciata di parole. Perché Tommy è autistico, un dolcissimo, solitario ragazzone che senza l’aiuto di qualcuno difficilmente potrà percorrere le strade della vita. ¶ Tommy «frequenta» il liceo artistico, ma non conosce l’ambizione di un diploma o di una laurea. Il vero traguardo di quelli come lui è l’autonomia nelle piccole azioni di tutti i giorni: sapersi lavare e vestire, allacciarsi le scarpe, affettare le zucchine per un piatto di pasta da cucinare sotto lo sguardo attento di un adulto. ¶ E se fino a un anno fa la sua gestione quotidiana – già tutt’altro che semplice – era pur sempre l’unico problema dei genitori, per loro è ora arrivato il momento di affrontare nuovi angoscianti quesiti: che ne sarà di Tommy domani? Chi se ne occuperà quando il padre e la madre non avranno più le energie per camminargli accanto? Chi potrà arginare le ansie, le crisi di quell’«omaccione-bambino» dalla forza incontrollabile? ¶ Con la lucidità, insieme disincantata e ironica, e la visionarietà che gli riconosciamo, Gianluca Nicoletti ci racconta (e si racconta) cosa succede «dopo», quando al tuo bambino incapace di comunicare e giocare inizia a spuntare la barba e tu, oltre alle difficoltà del presente, devi fare i conti con il suo futuro. ¶ Con la fine della scuola superiore, il sogno dell’inclusione totale naufraga miseramente, per molti ragazzi autistici si aprono le porte dei centri per handicappati gravi, per tanti altri non c’è alternativa alla reclusione fra le mura domestiche. Aumenta il deserto intorno a loro. E ai loro genitori. I quali, mossi da un «miraggio di

immortalità», si vedono costretti a trovare una soluzione in proprio: per questa ragione pullulano le associazioni, le onlus, i siti, i blog. Perché l’attivismo è il miglior modo «per dare un senso al quotidiano», e soprattutto per combattere il pensiero angoscioso che, quando non ci saranno più, quel figlio «strampalato» venga trattato dalla società come «materiale da discarica di esseri umani». ¶ Alla fine qualcosa ci inventeremo è un libro provocatorio e arrabbiato, ma – proprio come Una notte ho sognato che parlavi, di cui è il naturale seguito – struggente e pieno d’amore. Alternando il racconto di episodi vergognosi e buffi, imbarazzanti e commoventi, fa luce su una realtà che troppo spesso si preferisce tenere nascosta dietro le finestre di casa e soffocare nel silenzio.

L’autore

Gianluca Nicoletti, giornalista, nota e pungente voce della radio italiana, conduce

la trasmissione

Melog-Cronache

meridiane (Radio 24) e collabora alla «Stampa». È autore di: Ectoplasmi, Golem, Perché la tecnologia ci rende umani, Libro infame e, da Mondadori, Amen, Le vostre miserie, il mio splendore e il bestseller Una notte ho sognato che parlavi. http://www.miofiglioautistico.it

Gianluca Nicoletti

ALLA FINE QUALCOSA CI INVENTEREMO Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco

Alla fine qualcosa ci inventeremo

Ci siamo tolti la maschera per non essere riconosciuti nella follia che affolla il nostro muto pensare

I

Effetto Stigler

Il 17 gennaio nell’anno 2014 è caduto di venerdì. Quel funesto incrocio di venerdì e di 17 è per me iniziato alle otto di mattina, con l’ascensore schiantato proprio mentre io ero dentro e risalivo verso casa. Il nostro palazzo è servito da un vecchio ascensore Stigler a gabbia degli anni Venti, progettato all’origine per andare su e giù per sei piani provvedendo alle ordinarie transumanze familiari dell’epoca. Le sue salite e discese attaccato a cavi d’acciaio a vista erano state valutate per sostenere mediamente due uscite quotidiane per gli inquilini uomini e una per le donne. Al massimo il raddoppio di saliscendi era previsto anche per le signore se, oltre alla spesa, avevano l’impegno della novena. Sapevo di rischiare ogni giorno con un ascensore pensato per altri tempi, soprattutto perché oggi il palazzo è occupato quasi esclusivamente da uffici. Il viavai di persone che vanno e vengono non è sopportabile per il vecchio trabiccolo di legno e vetrinette che, per lo stress eccessivo, spesso cede. Così, quel venerdì 17 gennaio, l’ascensore ha cominciato a tremare, poi ha fatto un salto in basso, strattonato all’istante dal freno di sicurezza. Mentre pensavo che sarei morto sfrittellato, ho fatto giusto in tempo a considerare che fortuna fosse stata quella di ritrovarmi lì da solo (mia moglie era allettata con la febbre) venti secondi dopo aver consegnato mio figlio Tommy ad Alessandro, il ragazzo che lo aspetta sul marciapiede davanti al portone per portarlo a scuola con il pulmino del comune. Quando ho capito che non sarei morto, con un’ardita peripezia sono riuscito a svicolare nella fessura di trenta centimetri scarsi tra il muro e il cancelletto dell’ascensore, bloccato tra due pianerottoli, continuando a pensare che mi sarebbe stato impossibile, se Tommy fosse stato dentro con me, issare gli oltre novanta chili del mio ragazzone balzano per quel pertugio

dove a stento passavo io; di sicuro, il suo testone riccioluto sarebbe rimasto incastrato. Risalendo a piedi le scale per prendere giacca e valigia, mi faceva male la schiena per il colpo di frusta, ma sono poi partito abbastanza leggero verso la Puglia, dove avevo una presentazione del libro in cui ho raccontato della mia vita con Tommy. Lo stesso giorno, però, lo scuolabus giallo ha pensato di non riportare a casa il mio Capoccione strampalato: qualche funzionario preposto al servizio aveva deciso che il trasporto per Tommy andasse cambiato. L’ha fatto di sua iniziativa, forse per ottimizzare le spese, o forse per favorire un’altra famiglia che aveva battuto i piedi. Quel signore sconosciuto non si è posto il problema di quale tragedia potesse significare per un autistico l’interruzione di una routine. Da zelante «efficientatore» ha deciso d’intervenire senza consultarsi con gli educatori e senza preoccuparsi di avvertire la famiglia né tantomeno la scuola. Così a mezzogiorno Tommy è uscito di classe e ha cominciato ad aspettare il suo pulmino per completare quell’insieme mentale «scuola-casa» che rappresenta un anello importante della consuetudine quotidiana, aiutandolo ad allontanare l’ansia continua che il mondo possa all’improvviso finire. Più ancora di lui si è agitata sua madre, che oramai fibrilla per un nonnulla che le faccia immaginare una crisi di Tommy e che, dopo un’ora di telefonate senza senso, ha infine spedito in taxi la nostra cara Nelly per riportare Tommy alla base. Io, per fortuna, ho saputo dell’accaduto quando tutto era risolto, mentre, in viaggio sul Frecciargento verso Bari, cercavo di fendere la barriera umana di pendolari seduti per terra per andare a prendermi un panino al bar, nella quarta carrozza. Già prigioniero di una furiosa incazzatura che sarebbe scemata solo a Caserta, dove il treno si è miracolosamente vuotato, per il restante tratto di ferrovia (coperto straordinariamente in cinque ore di viaggio per problemi tecnici) ho postato la storia su tutti i miei social network, chiedendo: «Perché i disabili sono considerati come pacchi dai nostri amministratori?». In rete sono molto più ascoltato che nella vita concreta, perciò qualche collega ha cominciato a chiamarmi, moltissimi hanno rilanciato il post dai

loro account, la vicenda è diventata pubblica in un’ora e le solerti signore degli uffici stampa dei vari assessorati in Campidoglio si sono subito allarmate. Sono iniziate le telefonate imbarazzate, le scuse, le giustificazioni, le rassicurazioni. E il giorno dopo, grazie anche ad alcuni pezzi sui giornali, sono arrivati sms contriti… Insomma, non ho difficoltà a immaginare che la prossima volta ci penseranno bene prima di fare una stronzata simile. Tommy, in fondo, è fortunato: alla fine subirà soprusi gravi e diretti solo quando io non avrò più modo di scrivere di lui. Per ora è coperto dal mio reagire sempre violento con gli strumenti della scrittura e della parola: sono la sua barriera protettiva, proprio come il farmaco antiepilettico che lo copre dalle convulsioni. Ma verrà un giorno in cui nessuno mi chiederà più di scrivere libri, nessuno mi offrirà un microfono o uno spazio su un giornale. Quel giorno Tommy sarà esposto alle intemperie dell’indifferenza umana come la maggior parte dei suoi colleghi poco loquaci. Ci penso spesso a Tommy senza di me, sempre più di frequente da quando mi guardo allo specchio e ammetto di essere vicino a quella rappresentazione di un uomo che ho sempre attribuito alla vecchiaia. Non ho molto tempo; devo sbrigarmi a rendere concreta ogni mia immaginazione su un suo futuro dopo di me. Chissà, mi chiedo, come gli verrà spiegato che io sono morto. Forse per viltà, «morte» è una parola che con lui non ho mai pronunciato. Come gli posso far allucinare l’idea di uno stato che nemmeno io conosco come esperienza? In che modo posso comunicargli qualcosa che terrorizza chiunque? Proprio a lui, cui basta vedere la copertina del dvd di Biancaneve per chiudersi le orecchie, quasi avesse paura che il cervello possa schizzargli fuori. Ultimamente Tommy è cresciuto a dismisura. Mi sento un fuscello accanto a lui, eppure solo un anno fa riuscivo a tenergli testa fisicamente quando provava a menarmi. Lo immobilizzavo, anche se a fatica; schivavo le sue manone e lo incravattavo con le gambe fino a che non si calmava come un puledro rassegnato sotto al suo domatore. Temo di cominciare ad assomigliare, in quanto a usura, a quell’antiquato ascensore, uscito nel 1920 dalle officine meccaniche Stigler di Milano, un gioiello della tecnica

ascensoristica a trazione elettrica, oggi non più adeguato a sopportare il peso di cui viene caricato. L’«effetto Stigler», che penso prima o poi colga ogni genitore d’autistico, lo sintetizzo nella lancinante sensazione di non poter più farcela a tirare su il proprio figliolo. La corda si rompe e il motore comincia a girare a vuoto, sconquassando la cabina con il frastuono di un singhiozzo disperato. Seppure per me ancora dovrebbe volercene prima che mi appiccichino addosso il cartello condominiale con scritto «guasto», come quello che era attaccato al mio ascensore, ancora a mezz’asta la sera successiva al blocco, quando me ne sono tornato a casa reduce dalla presentazione pugliese. Ho girato non poco in quest’ultimo anno, e mi sono fatto un’idea abbastanza chiara di come vivono anche altre persone quello che è il mio maggior problema familiare. Galleggiamo tutti nel miraggio d’essere immortali. I nostri figli balzani c’imprigionano nel loro «tempo della chiocciola», quello di chi si porta dietro un guscio dove rintanarsi, ma ci tengono in vita con una struggente malia che ci fa illudere di poter compiere imprese epiche. Nessuno di noi avrebbe avuto occasione di meravigliarsi per l’energia che ancora si trova addosso se non fosse per il proprio imperterrito figliolo, il più assetato dei vampiri, che ha imparato a succhiarci la vita piano piano, per farci durare il più possibile, come fa il gatto quando agguanta un passerotto e ci gioca a lungo prima di mangiarselo. Ho capito che quello che per semplificare chiamiamo «autismo» è una categoria dell’esistenza, una delle infinite possibilità che abbiamo di misurare il mondo e i nostri simili, un punto di vista individuale che geneticamente si distribuisce in diverse percentuali d’intensità e in un numero impressionante di esseri umani. La cosa più pesante che ho dovuto sopportare in quest’ultimo anno è avvertire un senso di speranzosa attesa che io potessi fare qualcosa di concreto. Ho cercato in tutte le maniere di svicolare dall’idea che io potessi avere qualche possibilità di cambiare la realtà, riguardo alla montagna di angoscia che provoca l’autismo nel nostro paese; eppure, ovunque mi trovassi al cospetto di famiglie con il mio problema, ho visto sempre le stesse facce e gli stessi occhi. Persone come me dopate d’autismo, oramai dipendenti fino alle ossa dal morso amoroso del divoratore che allevano in casa. Nel leggere questo mio pensiero, più i genitori sono giovani e più si irriteranno, più sono

avanti nell’«esperienza» e più non potranno che darmi ragione: la nostra vita ha un paletto fisso a cui siamo legati; possiamo al massimo girarci attorno per quanto saremo riusciti ad allungare la corda che a esso ci lega. Cerchiamo di non pensarci, e siamo talmente presi dal quotidiano adattarci da ottenere quasi un benefico stordimento che abbassa gradualmente la soglia delle nostre attese, di quello che potremmo fare per gratificare noi stessi, della nostra fiducia nel futuro. Il nostro futuro è la mattina dopo in cui tutto ricomincia, o l’attesa della sera in cui potremo goderci un po’ di silenzio quando nostro figlio dorme, ammesso che gli vada di dormire. Forse tutto questo l’ho già detto; speravo che, una volta scritto un libro sulla mia vita con Tommy, mi sarei potuto tirare fuori, almeno dalla necessità di dar corpo a quelli che un anno fa immaginavo essere soltanto miei pensieri fissi; ma poi ho visto che sono davvero in tanti a essere trapassati dalle stesse domande senza risposta. Ho capito finalmente che io, in questa storia, ci sarò dentro per sempre, così, finché ho testa per farlo, tanto vale che continui a raccontare.

II

Un movimiento sexy

Tommy ha compiuto il suo sedicesimo compleanno. Sedicesimo: me l’ha ricordato mia moglie alla festicciola triste che avevano organizzato per lui, nel centro dove ancora passa qualche ora alla settimana a fare musicoterapia suonando le percussioni con un gruppetto di suoi colleghi. Avevo risposto d’istinto: «Quindici!» all’educatrice che mi aveva chiesto l’età del festeggiato, rimuovendo completamente che fosse già così grande. Eppure ce l’ho addosso praticamente da quasi tre intere stagioni della mia vita. È tipica di me quest’approssimazione riguardo ai compleanni: vengo da genitori che mi hanno fatto passare la voglia di festeggiarli, come d’altronde di attribuire lietezza ai normali eventi familiari. Con Tommy, poi, è davvero più complicato accettare ogni compleanno: come può avere già sedici anni quell’omaccione-bambino che ancora mi si avvinghia come una piovra affettuosa quando guardiamo assieme i cartoni in tv stravaccati sul divano? A sedici anni io già scorrazzavo in moto, mi consumavo in amori disperati, pensavo a come entrare in maniera truffaldina a vedere i film vietati ai minori di diciotto. Tommy, invece, mangia soddisfatto patatine fritte, pizzette rosse e frappe di carnevale, felice perché gli hanno regalato un’armonica a bocca e una parannanza da cuoco con disegnati dei pesci. Quando gli metteranno davanti la torta con il suo nome e sopra la candelina sparafuoco si chiuderà le orecchie di fronte alla fontana di scintille luminose, ammirato e spaventato allo stesso tempo. E ha sedici anni... Accanto a lui ci sono anche ragazzi più grandi. L’età di quel gruppetto va dai quattordici ai ventidue. I più anziani, per modo di dire, sono lì per una concessione, un cedimento ai regolamenti conquistato dai loro genitori, che si sono saputi muovere entro quell’area di contrattazione con operatori e responsabili, cosa che non è detto sia sempre possibile. Raggiunta la maggiore

età non dovrebbero più stare in quel posto: non è ammesso, perché la legge stabilisce che per loro non ha più senso essere sottoposti a terapie. Insomma, entrano nella dimensione dell’autistico fantasma, quell’essere alla domanda del cui destino nessuno sa dare una risposta precisa. Dopo aver soffiato sulla torta, Tommy sale su una sedia a rotelle motorizzata e si mette a scorrazzare nella stanza, ma finisce per investire una ragazza, lei pure autistica, che comincia a piagnucolare. È colpa mia. Sono stato io, suo padre, ad averlo incitato a fare un giro sulla carrozzella elettrica, dopo avercelo fatto anch’io. Mi sono sentito in colpa sotto gli sguardi di rimprovero delle operatrici; mi dispiace, ma non tolleravo più la tristezza di quanto accadeva in quella stanza. Indiscutibile la buona volontà e l’affetto di tutte le persone che si erano adoperate per la festicciola, ma io non sopporto più di vedere congelati in un’eterna fanciullezza esseri umani che per ormoni e stazza fisica bambini non lo sono più da un pezzo. La maggior parte degli amici di Tommy, come lui d’altronde, ancora staziona in un istituto specializzato, dove girano, come criceti sulla ruota, dai tempi della scuola materna. Con gli autistici sono trattati anche altri ragazzi e adulti con problemi di tutti i tipi: oltre che psichici, anche motori. Per questo ci si sente in un ambiente a metà tra l’eterno asilo, un parcheggio per carrozzelle e un magazzino di ausili ortopedici. Niente da dire sull’istituto, che occupa una vecchia costruzione ottocentesca e porta il nome della benemerita signora che lo fondò, moglie di un magistrato. Era stata mossa a pietà da alcune famiglie di reclusi che lei andava a visitare, quando aveva visto ragazzi e bambini trascinarsi sul pavimento afflitti da un handicap che nessuno sapeva come trattare. All’esterno una lapide d’epoca ricorda che in quel posto sono accolti «fanciulli minorati». E così il deposito per minorati è ancora l’ultimo ridotto dove il mio bellissimo gigante può trascorrere un paio d’ore a settimana, che per lui sono comunque importanti perché una casella fissa nel suo calendario mentale sa che in quei giorni lui andrà in quel posto a fare quelle cose. Sono tasselli che lo aiutano a tenere assieme la sua instabile visione del tempo che passa, che è passato e che passerà. Per lui, però, fatalmente verrà il giorno in cui potrà guardare quell’istituto solo da fuori, perché troppo poco minorato per essere seppellito al reparto dei gravissimi non autosufficienti. Non sono mai salito fino ai ricoverati

all’ultimo piano, lasciati in quel posto dai loro parenti, o magari rimasti soli al mondo: ci sono anche anziani, possono solo aspettare di morire. Quei residui umani in fase di smaltimento sono proprio davanti alle finestre della casa dove vivo con la mia famiglia; mi affaccio e li immagino allettati oltre le mura gialline dell’istituto, immobilizzati, inchiodati in un piano alto con dei finestroni quadrettati di legno antico verniciato bianco, dietro cui la notte vedo accesa la luce azzurrina delle corsie d’ospedale. Tommy oggi è troppo grande per quelle seggioline, quegli armadietti colorati con attaccati i disegni fatti da mani che sembrano di bambini dell’asilo, i cartoncini con riprodotti gli oggetti per permettere a chi non parla di fare delle richieste con il metodo della comunicazione aumentativa, che integra il linguaggio verbale: «Sono allegro, sono triste, ho fame, ho sete, mamma, papà, casa», tutto sotto forma di figurine da indicare… Lui mi guarda e sorride, come se avesse capito che gli conviene stare al gioco: se si accorgono che sta diventando adulto, da quel posto, squallido ma familiare, sarà cacciato. Tutto sommato intuisce che starsene nella sua cameretta a guardare dalla finestra sarebbe ancora peggio, così preferisce fingere d’essere bimbo nella casa dei fanciulli minorati. Il nuovo educatore di Tommy è Marco, il tatuato, che ha sostituito l’avvolgente maternage della tata russa che l’ha praticamente allevato per cinque anni, da quando era bimbo a quando è diventato un gigante peloso (ma che, senza rimpianto apparente e con il felice pragmatismo di una reduce del socialismo reale, l’ha ceduto al giovane vegano, ora suo addestratore alla vita). Marco gli ha regalato per il compleanno il cubo di Rubik. Con grande nostra sorpresa, abbiamo scoperto che Tommy è bravissimo a risolverlo, in pochissimi passaggi, anche se glielo incasiniamo per bene. Rimette a posto il cubo quasi all’istante; lo rigira un po’ tra le dita poi, velocissimo e senza sbagliare mai un tentativo, ricompone tutti i lati con colore omogeneo. Devo pensare che sia un genio? Che diventerà un grande matematico? Devo lavorare su questo suo talento? No, non lo penso proprio. Tommy è veloce con il cubo di Rubik, come da bambino era velocissimo con i puzzle: prendeva i pezzi a caso dal mucchio e ne componeva l’immagine non si sa come. Sono semplicemente magie di secondo livello, che alla scuola di Harry

Potter usano i ragazzi per passare il tempo a ricreazione, non serviranno mai a qualcosa d’importante. Ricordo che, durante il mio servizio militare, c’era un ingegnere, anche lui marmittone tardivo come ero io, che steso in branda armeggiava con il cubo di Rubik per passare il tedio dei pomeriggi di consegna. I colleghi semianalfabeti – ce n’erano tanti – gridavano al miracolo perché ci riusciva in qualche ora e studiandoci su. Riuscirci non significa nulla. Me lo ripeto, ma lo scrivo per far comprendere a chi legge e non ha un figlio autistico: con quanti infinitesimali brandelli di speranza, noi genitori di tali figuri cerchiamo di diluire in ogni istante che ci è possibile la gelida certezza che nostro figlio non guarirà mai, se per guarigione s’intende essere uguale agli altri. Tommy da qualche anno trascorre la settimana bianca con un gruppetto di suoi colleghi. Quest’ultimo inverno Marco lo ha accompagnato. In un video che mi ha inviato durante uno di quei giorni, Tommy scende con gli sci da fondo lungo un declivio, ma prende velocità e grida: «Aiuto Marco!!! Aiuto!». Gridare «aiuto» è per lui una maniera per esorcizzare l’ansia, perché in realtà scende sicuro e con equilibrio; poi pronuncia «Marco» perfettamente: mi accorgo che ha pure l’erre moscia come la mia. Non l’avevo mai sentita pronunciare da lui quella consonante che mi fece subire per tutta la prima elementare l’onta d’essere ammalato di rotacismo; erano i tempi in cui le maestre ti punivano se non pronunciavi l’erre nella maniera «giusta», e così mi sono trovato a essere lo zimbello della classe perché per me era impossibile. Avevo completamente rimosso questa esperienza e, ora, guarda un po’, Tommy me l’ha fatta tornare in mente. Solo che io avevo appena sei anni allora e lui adesso ben sedici, e suscita fierezza per ogni vocale o consonante in più che pronuncia. In altri video, di Tommy fenomeno sulle nevi sono riprese alcune serate in hotel: le operatrici ballano La Bomba scatenate assieme ai ragazzi, «Suavecito para abajo, para abajo…». E Tommy, giusto per fare un favore a chi avrà insistito, abbozza qualche passo, forse un po’ scocciato… «Con movimiento sexy, con movimiento sexy» L’amatissima psicologa sarda che lo segue da quando era piccolo si contorce con grande impegno, una cubista consumata non saprebbe fare meglio, l’apprezzo davvero. Mi rattrista, confesso, pensare che a un ragazzo sedicenne quello spettacolino di solito non lo somministra una seria studiosa quarantenne con

occhiali e capelli raccolti con la coda, ma una ragazzina poco più che sua coetanea, che la società considera come minimo un soggetto a rischio sventatezza, da dover recuperare allo studio, al senso di responsabilità, ai valori… Ma questi sono solo pensieri miei, per Tommy è indifferente. Tommy esegue meccanico «Una mano en la cintura…», guardando svagato verso quel punto indefinibile dell’orizzonte, quello che io a volte vorrei tanto poter raggiungere.

III

Il segreto di famiglia

Osservo sempre con attenzione i familiari dei ragazzi o degli adulti che con più evidenza mostrano tratti inequivocabili d’autismo. Vedo in loro atteggiamenti e modi d’essere che mi ricordano la mia famiglia, non certo quella precedente da me ritualmente rinnegata e disconosciuta, ma quella che mi sono costruito in questi ultimi trent’anni, volati in un soffio. Tutti noi parenti d’autistici abbiamo, per tratto inconfondibile, l’impressione di lasciarci dietro una traccia d’inquietudine, che si raggruma come malta colata da una betoniera, e che è concretamente visibile soprattutto quando fendiamo la folla dei normalmente relazionati. L’autismo è parte del nostro patrimonio genetico; la differenza tra noi e il caso conclamato che abbiamo in famiglia è solo questione percentuale. Un amico neuropsichiatra me l’ha mostrato in un istante, facendomi notare alcuni infinitesimali tratti autistici nel mio figlio maggiore, Filippo, esempio lampante di fratello di figliol prodigo, ragazzo inappuntabile e coscienzioso, ma naturalmente autosottovalutante, proprio perché, qualunque cosa faccia, non avrà mai contezza della festa che il padre fa ogni volta che vede suo fratello sorridere, o che lo sorprende a compiere azioni banalissime, tipo cambiarsi da solo d’abito perché ci sono ospiti a cena, senza che nessuno gliel’abbia chiesto. «Ho notato che Filippo non aggancia volentieri lo sguardo» mi diceva l’amico dottore. «In una serata l’avrà fatto al massimo due o tre volte. Tu capisci, la base della relazione è guardarsi negli occhi...» Io annuivo, ma non potevo fare a meno di pensare quanto poco anche a me piaccia agganciare lo sguardo altrui, e se mi capita di farlo è perché attribuisco a quello scambio d’occhiate un senso di profonda fascinazione, o al contrario d’odio

incontenibile. Aggancio lo sguardo solo in prossimità d’un abbraccio o di un calcio in bocca. È evidente che pure io sono un po’ quello che per Tommy è una costante. Il che non mi spaventa, è semplicemente la spiegazione razionale di un senso di disagio nel confrontarmi con il mio prossimo che ho sempre avvertito sin da bambino. Non a caso mi sono preso per moglie una donna molto silenziosa; non a caso tra i nostri silenzi abbiamo messo come perenne mediatore un figlio bifronte che, guardando entrambi in silenzio, fa da tramite di quello che probabilmente le altre coppie riescono a dirsi. Per paradosso, io di mestiere faccio il comunicatore. Succede di frequente che mi senta ripetere: «Oh, come capisci tutto subito! Oh, come è facile entrare in confidenza all’istante con te! Tu riesci a farmi confessare quello che non ho mai detto a nessuno…». Un po’ forse sarà perché sono vecchio del mestiere, ma mi sento dare del poliziotto: è innegabile che io non possa fare a meno di osservare ogni minimo particolare di quello che ho attorno, come se anche trovarmi nella più banale delle situazioni – che so: entrare in una casa o in un ufficio, viaggiare nello scompartimento di un treno, stare seduto in una sala d’attesa, passeggiare per strada – per me equivalesse sempre al dover cercare indizi nascosti nel teatro di un crimine. Posso affermare questo dopo aver passato più di un paio d’anni in immersione totale nei punti di vista di Tommy; e non perché credo che sia stato lui ad avermi condizionato: molto più semplicemente mi ha aiutato a riconoscere quanto ci sia di autistico in me. L’autodiagnosi è comunque già un cedimento alla tentazione, comune a padre o madre d’autistico, d’improvvisarsi esperti della materia che condiziona loro la vita. È il palliativo più usato per alleviare lo sbattimento quotidiano: a un certo punto ognuno di noi sente il bisogno di fare qualcosa; ogni genitore si forma un progetto in testa che dovrebbe riuscire a far collimare l’esigenza, sempre più impellente, di assicurare un domani dignitoso al proprio figlio. A mano a mano che lui cresce, aumenta il deserto attorno e si radicalizza nel genitore l’idea che non ci sia nulla di accettabile per il suo futuro, e quindi si pensa sia possibile organizzarlo in proprio. Per questa ragione pullulano le associazioni, le onlus, i siti, i blog, i libri scritti da genitori (me compreso). L’attivismo è la migliore maniera per dare un senso al quotidiano, ma, di conseguenza, al minimo accenno che riguardi

il problema comune esplodono discussioni, affiorano i punti di vista personali, si generano catene interminabili di messaggi che s’intrecciano, si alimentano a vicenda, portano verso derive laterali, disquisiscono su derivati, presupposti, analogie, opposti e paradossi rispetto alla proposizione iniziale. Il risultato è la moltiplicazione dei vissuti individuali rispetto a una visione comune di ciascun particolare problema. Questo determina che i genitori passino ore davanti a un monitor a scrivere, rispondersi, documentarsi per controbattere o allargare il campo della discussione. In sostanza, la vita dei figli non cambia di una virgola e chi potrebbe farla cambiare non ha nemmeno lontanamente l’idea di dove cominciare, ammesso che abbia la volontà di fare qualcosa. Ho letto, per esempio, in un sito gestito da genitori di ragazzi autistici, una lunga disquisizione sul fatto che io avessi partecipato a un dibattito televisivo in cui presentavo il libro di Tommy, a cui però era stato invitato anche un noto psicanalista di scuola lacaniana, pure lui autore di un libro sulla paternità. È vero che la lettura lacaniana dell’autismo è abominevole, ma quel professore di tutt’altro parlava e forse per la prima volta in Italia avevo portato in prima serata tv un dibattito concreto sugli autistici. Considerato che nel paese in cui mi è dato di vivere sembra fisiologicamente impossibile un approccio razionale al problema dell’autismo – poiché alla base di tutto il nostro malessere c’è la convinzione che i nostri figli siano un problema sociale di cui dobbiamo farci carico noi – la sensazione più cruda è che nell’aria che ci circonda sia scritto: «Se hai un figlio scemo è in parte colpa tua e quindi risolvi da solo il tuo problema». Nessuno lo dirà mai in maniera così diretta ed esplicita, ma chi vive il grattacapo sa benissimo che questo pensiero avvelena il nostro respiro ogni volta che ci rivolgiamo a un’istituzione, ogni volta che siamo costretti a esporre il nostro problema all’esterno, ogni volta che cerchiamo di chiedere qualcosa a cui abbiamo diritto. Me ne sono accorto quel venerdì 17 mentre mi veniva spiegato nel dettaglio il meccanismo burocratico per cui il pulmino non era andato a prendere Tommy. Intuivo che nessuno aveva il coraggio di dirmi apertamente: «Quanto ci tocca faticare per una cazzata del genere, e solo perché hai fatto casino e sei un rompipalle di giornalista! Possibile che dobbiamo perdere tempo e spendere soldi pubblici per mandare tuo figlio a

scuola e per giunta, se un giorno lo lasciamo a piedi, pure chiederti scusa?». Siccome sono anch’io un po’ autistico e sento le parole anche se nessuno le pronuncia, sono sicuro che lo pensassero. Quel venerdì 17, come ho scritto, sono andato nell’entroterra pugliese a presentare il mio libro in un liceo dove volenterosi professori e professoresse l’avevano adottato per un laboratorio di lettura con gli studenti. Vado volentieri a parlare con i ragazzi, molto più di quando mi trovo davanti una platea di genitori come me. Perché mi ricordano che Tommy ha 16 anni, è un loro coetaneo, potrebbe essere un loro compagno di banco. I figli autistici diventano un soggetto atemporale quando li metti sul tavolo di un dibattito. E li si rende ancora più autistici negando loro il fatto che sono principalmente ragazzi, puro istinto e strategia per difendersi dagli adulti, per non far scoprire che stanno cominciando a comprendere alcuni dei segreti meccanismi che muovono il mondo. Questo vale per tutti i giovani e anche per gli autistici, solo che i più non lo dicono. Alla fine pensarli bambini facilita la loro gestione, esclude a priori di dover affrontare la montagna impervia della loro maturità emotiva. Così per tutta la vita si va avanti con vezzeggiativi, con gli abbracci delle mamme (fino a che ce la fanno) e con i padri che allacciano loro le scarpe, se non sono riusciti a trovare quelle col velcro, che li rendono autonomi.

IV

Il tapis roulant nel sottoscala

Giorni fa ho conosciuto una famiglia con un ragazzino autistico. L’ho conosciuta al ristorante dove mi ero fermato per puro caso perché Tommy smaniava e pensavo che forse fargli mangiare una bella pizza l’avrebbe calmato. Stavano alle mie spalle e nemmeno li avevo notati perché ero troppo impegnato a neutralizzare l’insorgere del «comportamento problema» che Tommy mette in atto quando sta per sbarellare. Aveva tutte le ragioni per farlo: quella domenica mattina mi ero preoccupato di scrivere un pezzo urgente lasciando che lui mi ronzasse attorno perché aveva voglia di uscire con la bella giornata di sole. E ora capiva che la pizza sarebbe stato l’unico momento d’aria possibile in quella domenica di clausura. Come fanno i cagnolini, che procrastinano il loro bisognino per non essere riportati a casa subito dal loro padrone frettoloso, Tommy rifiutava ogni offerta di cibo, patatine e supplì compresi (di cui va pazzo), per tema di dover tornare subito al chiuso. Mentre negoziavamo sul cibo, mi sento chiamare dalla coppia alle mie spalle e, girandomi, noto che con loro c’è un bambino di sette-otto anni, proprio dietro di me, che non avevo sentito perché era stato sempre zitto. La madre mi spiega che aveva riconosciuto il capoccione riccioluto del mio ragazzo perché aveva letto il libro con la sua storia e seguiva nel blog le sue avventure. «Mi sembra di conoscerlo…» diceva, guardando rapita quel testone maledetto che mi stava rovinando come al solito la domenica, che dopo il sabato è la giornata peggiore della settimana di un autistico e dei suoi genitori. Giornata scialba, infinita, che già a metà mette addosso l’ansia dell’approssimarsi ineluttabile del lunedì. Tutti pensiamo che ci siamo sparati un altro weekend a far nulla, e non ci siamo nemmeno rilassati; insomma, giorno da dimenticare.

Tanto per cambiare, ci mettiamo a parlare di autismo: che hai fatto, che farai, chi lo segue ecc. Anche loro hanno percorso il solito iter di tutti noi: perso molto tempo nella diagnosi, poi per fortuna scelto la strada giusta di abilitazione, dura per il ragazzo e la famiglia, ma siccome è ancora abbastanza piccolo avrà buone possibilità di autonomia; inoltre ha dei genitori intelligenti, e non è sempre così. Naturalmente la parte più divertente della nostra imprevista chiacchierata è quella relativa alle maldicenze, di cui, oramai, si sa tutto. Io chiedo sempre notizie dei praticoni, dei truffatori, dei millantatori. È questo l’universo nascosto che più m’interessa conoscere. Fatto di coloro che alle spalle delle famiglie annichilite vivacchiano e rosicchiano. I due genitori mi raccontano di una psicoterapeuta specializzata in ragazzi autistici che viene a Roma tre volte a settimana da Bologna, appoggiandosi a una struttura sanitaria. Ha visitato il loro bambino, o meglio, si è limitata a guardarlo in silenzio per un sacco di tempo… senza fare o dire nulla. E quella era la sua terapia: non fare nulla. Per ottenere risultati era necessario che il trattamento nullafacente fosse ripetuto, guarda caso, almeno tre volte a settimana, naturalmente dietro sonoro esborso di denaro. Con loro però le andò male e, quando le dissero che non se ne faceva niente, la dottoressa parve stupita, evidentemente non le era mai capitata una cosa simile, che dei genitori osassero comunicarle che non erano interessati alla sua straordinaria terapia: «Ma come, non desiderate fare uscire il dolore da vostro figlio?» continuava a domandare come se quasi non si capacitasse del rifiuto. «Ma allora vorreste dire che se lui avesse un cancro… non lo fareste curare?» Questo dei cialtroni terapeuti è un argomento su cui non riesco a essere conciliante; non so spiegarmi il motivo, di solito non m’impunto mai su un’idea preconcetta, anzi mi piace ricredermi, cambiare parere, sovrascrivere ogni mia convinzione. Forse ciò accade perché ho sempre avuto un’epidermica diffidenza per gli spacciatori di pratiche che sanno d’occulto e misterioso, che siano cartomanti, indovini, veggenti, negromanti o spiritisti. Non posso farci nulla, non è certo per pregiudizio razionalista: sarei il primo a non stupirmi se vedessi una fata, uno gnomo o il fantasma inquieto di mio padre. È che non tollero chi esercita potere sul suo prossimo facendo leva su presunti carismi, illuminazioni, investiture da parte di entità superiori.

Per questa ragione quando nella cittadina pugliese, il giorno dopo quel 17 gennaio, una madre di un autistico mi seguì nell’aula magna di un liceo pieno di ragazzi per dirmi che non la pensava come me riguardo alla scrittura facilitata, fui molto antipatico con lei. Le risposi che ognuno era libero di buttare il suo tempo come meglio credeva. Sapevo che quella donna era una spina nel fianco degli insegnanti, pretendeva che il figlio sostenesse le stesse identiche prove (compiti in classe, interrogazioni) del resto dei suoi compagni. Naturalmente il ragazzo, che non parlava e non scriveva, rispondeva con la scrittura facilitata, cioè tramite una persona che lo condizionava a muovere un dito sulla tastiera di un computer, facendo sembrare che capisse ed elaborasse pensiero esattamente come gli altri studenti. I professori del liceo mi lasciarono intendere che non se la sentivano di contrastare i genitori in questa loro illusione e, quindi, tutti facevano finta di nulla. Una pantomima, questa, che si mette in scena ogni giorno in moltissime scuole del nostro paese. In quel liceo tutti gli studenti erano stati ben educati a comportarsi in maniera accogliente e affettuosa con i compagni meno abili di loro a comprendere e comunicare secondo i parametri neurotipici. Avevano letto il libro di Tommy e ora mi facevano domande (selezionate precedentemente dai loro insegnanti), alternandosi al microfono. Era una scuola modello dal punto di vista dell’inclusione, con un bel numero di ragazzi con problemi, ma mi parvero tutti perfettamente seguiti. Fra loro, però, non c’era il ragazzo che a me interessava conoscere. Mi avevano appena accennato alla storia di Rinaldo (il nome l’ho dato io, quello vero non lo ricordo, anzi l’ho volutamente dimenticato perché questa mia riflessione non debba domani condizionargli la vita), un autistico di 20 anni che viveva in perenne simbiosi con la madre, sigillato in un piccolo appartamento senza che lei lo facesse mai uscire di casa. Mi avevano raccontato che la donna teneva le serrande abbassate estate e inverno, e non si vedeva in giro con il figlio da anni. Una sua dirimpettaia mi aveva detto che, persino quando stendeva i panni sul terrazzino, con un braccio teneva lontano il figlio perché non si affacciasse. Chiesi a un’insegnante di poter incontrare la madre; mi fu risposto che sarebbe stato quasi impossibile: non aveva mai fatto entrare nessuno in casa. Ma il giorno successivo, di mattina, venne a prendermi in albergo, perché la

donna aveva accettato di vedermi. Sul pianerottolo della palazzina popolare dove abitavano notai un tapis roulant, del genere di quelli che si comprano nei grandi centri commerciali. Era appoggiato verticalmente nel sottoscala. Nella parete interna dell’androne, a fianco del portoncino di ferro e vetro smerigliato a livello marciapiede, c’era un quadro votivo che raffigurava santa Lucia. Un’iconografia che da piccolo mi ha sempre impressionato perché la santa ha gli occhi divelti per martirio su un piattino retto con una mano. Quando entro nel tinello, il ragazzo mi guarda in faccia e si martella pugni in testa. Non sempre, ogni tanto… Mi dà un’occhiata e parte un cazzottone sulla tempia. E il suo cranio risponde sempre con lo stesso rumore: un toc sordo e leggermente vibrato, simile a un colpo di martello sul tronco cavo di un albero. Il pugno parte velocissimo e imprevedibile. La madre è una bella signora sulla cinquantina, molto ordinata e ben curata. Non ha lo stigma indelebile della genitrice rassegnata che si dimentica completamente di sé nella missione di badanza perenne del suo figliolo. Ha un bel taglio di capelli, decisamente moderno, e davvero nulla mi farebbe pensare in lei quei comportamenti arcaici di vergogna a mostrare un figlio la cui insanità mentale è vissuta come un’onta. Com’è possibile che si sia ridotta a quello stato di prigionia? La donna sembra non far troppo caso all’autolesionismo del figlio; anzi, con imbarazzo, cerca di minimizzare la cosa. Osservo meglio Rinaldo e noto che ha l’orecchio sinistro distrutto come se gliel’avesse masticato un cane. Dopo anni, quei pugni in testa gli hanno deturpato il profilo, ma il ragazzo è curatissimo, straordinariamente a posto barba e capelli, una pelle perfetta. Mi sembra di vederla, la madre, che ogni giorno, per passare il tempo, gli mette la crema sulle guance, sulla fronte, proprio come si fa con un neonato per idratargli l’epidermide. La mamma di Rinaldo mi aveva visto in televisione e sapeva che avevo scritto un libro su mio figlio autistico. Per questo ha accettato di vedermi. Alle mie domande risponde senza incertezza, ma fa di tutto per eludere il discorso sull’assurdità di quella segregazione. A un certo punto compare anche il fratello maggiore, che studia all’università di Bari. Lo stesso viso gentile e rassegnato del mio Filippo filosofo zen. Molto silenzioso, tiene il fratello sottobraccio per attenuare il più possibile quel suo martellarsi sulla testa. La madre, che sembra molto preoccupata solo per la selettività alimentare

del ragazzo, mi rassicura sul fatto che gli cucina tutti cibi sani, ma quando le chiedo se Rinaldo faccia sport, o almeno qualche passeggiata, tergiversa dicendomi che cammina sul tapis roulant e, una volta a settimana, viene un terapista a fargli fare esercizi posturali per la schiena un po’ curva. Certo non le passa per la mente che, vivendo in un posto con la campagna a un passo, potrebbe portarlo almeno a camminare in un prato, farlo sedere sotto un ulivo. Invece Rinaldo trascorre ogni giorno in casa, girando attorno al tavolo di quel tinello con le vetrinette piene di bicchieri e chincaglierie. I due mi hanno raccontato che Rinaldo ogni tanto sbrocca e prende a calci il tavolo. Ho chiesto alla madre se non ritenga pericolose quelle antine a vetri, quei quadri alle pareti. Io, a casa, per stare tranquillo, ho tolto ogni oggetto fragile, tagliente, acuminato. Ma non sembra un problema per lei, come non pare un problema che il figlio ventenne ancora debba essere aiutato per fare pipì. Dopo un paio d’ore me ne sono andato tra baci e abbracci. Rinaldo mi ha anche dato il cinque, e suo fratello l’email perché gli spedissi la foto che ci avevano fatto tutti assieme con il mio smartphone. Ancora, però, non gliel’ho mandata. Ho pensato che, se poi mi avesse scritto e mi avesse chiesto di aiutarlo, cosa mai avrei potuto consigliargli? Quando vedo casi del genere riesco a pensare d’essere fortunato. Tommy è un ragazzo molto saggio; nella sua inarrestabile sventatezza genetica, ha regolarizzato la sua vita: è un liceale e ogni mattina viene un pulmino giallo a prenderlo e portarlo a scuola. Non mi sembra vero che almeno questa piccola conquista sia consolidata; per come già ho scritto in queste pagine, quando ho sentore che si possa tornare indietro mi sento prendere dal panico, oltre che da rabbia distruttiva. Chi guarda con invidia alcuni servizi di cui usufruiamo e pensa che non sia giusto che i propri figli, molto più efficienti e di sicuro maggior sostegno futuro al progredire della società, non abbiano autobus che li portino a scuola, costringendo i genitori a faticosissime corvée di accompagnamenti e ritiri, ha ragione: tutti i ragazzi dovrebbero essere aiutati al massimo negli anni dello studio. Però provate a pensare di prendervi sulle spalle anche il resto, quello che sta dietro al pulmino giallo la mattina sotto casa. Provate a sobbarcarvi per un istante il peso di un figlio di cui dovrete occuparvi sempre, notte e giorno, durante tutta la vita e con lo struggimento di non poterlo più fare

quando la vostra esistenza sarà agli sgoccioli. Quando vi accorgerete di averla vissuta solo per lui e, nonostante questo, vi sarà sembrato di non aver fatto abbastanza. Vi do un esempio di quello che diventa importante quando si entra in questo trip. La vita di un genitore d’autistico scivola giorno dopo giorno su un piano inclinato, che lo allontana da una dimensione condivisa d’esistenza, nel bene e nel male. S’immagini che, centimetro dopo centimetro, ci si distacchi gradualmente da un punto di vista centrato sulla realtà circostante: familiari, colleghi, amici, conoscenti, come pure individui qualsiasi, sconosciuti incrociati per caso, compagni di scompartimento, di fila alle poste, di frequentazione al mercatino rionale… Lentamente ci si accorge che il proprio sguardo sul mondo diventa sempre più laterale, come se si fosse chiusi in una cassa sulla pedana di una giostra che gira con lentezza esasperante, ma si muove, e vi fa mutare l’orizzonte mentre si muove, perché voi che siete bloccati dentro la cassa riuscite a guardare fuori solo attraverso una fessura aperta davanti ai vostri occhi. Inseguireste tutto quello che vi è familiare mentre lo vedete inghiottito dalla zona buia della vostra visuale; lo vedreste sempre più a fatica, strabuzzando gli occhi fino allo strabismo, ma poi scomparirebbe. Ecco, a questo sareste condannati, in cambio di quel pulmino giallo, di quel tagliando arancione per parcheggiare, di quella manciata di giornate lavorative «scroccate» per la legge 104 di cui possiamo usufruire per accudire i nostri figli. Non credo che il cambio vi converrebbe: forse, mentre voi ancora un giorno ci vedrete, noi non riusciremo più a vedere voi, che – pur nelle mille afflizioni a cui è da sempre sottoposta la nostra stirpe di figli d’Adamo – non conoscete l’ineluttabile sprofondare in questo mare con la pietra al collo del nostro fardello amoroso.

V

Tommy laureato affettatore di zucchine

Un giorno di inizio primavera 2014, autorevoli testate giornalistiche lanciarono con entusiasmo a piena pagina la notizia che si festeggiava il primo autistico in Italia ad avere preso una laurea. Sembrava veramente una bella notizia per tutti, neurodiversi e non. Quello che veniva ritenuto un ritardato mentale, in realtà era stato capace di laurearsi dottore magistrale in Scienze umane e pedagogiche. Solo per inciso, quasi fosse un particolare trascurabile, era scritto però anche che, per laurearsi, quell’autistico era stato assistito da qualcuno che alle sue spalle guidava la sua mano sulla tastiera di un computer, affinché lui potesse esprimersi compiutamente. Parte dei titoli era tratta da una frase del neodottore che i giornali riportavano come fosse un mantra; una frase devo dire particolarmente intensa: «La disuguaglianza è la vera disabilità, so che cammino solo. Ho contro un male che rende la vita muta, solitaria, vacua e bisognosa di altri, ma nella mia cesta di parole taciute trovo anche soli e lune, oceani calmi e colori di luce». È senza dubbio un’immagine molto profonda, anche troppo perché quel ragazzo possa essere definito autistico, infatti l’Associazione nazionale genitori soggetti autistici (Angsa) ha subito comunicato di essere strafelice per la notizia, ma ha anche precisato che su quel ragazzo evidentemente era stata sbagliata la diagnosi: non era un autistico. Si sarà già capito, quando ho raccontato della madre con il figlio «facilitato» nella scuola pugliese, che quello della fanta-facilitazione è un tema che non m’appassiona, ma ho voluto fare uno sforzo di leggerezza di pensiero e ho immaginato che, se quel distico l’avesse scritto veramente il futuro laureando e non il suo facilitatore, sarebbe stata una bella notizia, perché lui

avrebbe dimostrato di avere una comunicazione sociale più che buona, quindi difficilmente poteva essere considerato un autistico, almeno del tipo «non verbale», cioè incapace di comunicare, indipendentemente dal modo in cui possa esprimersi. Perciò scrissi sul mio giornale vari articoli, ritenendo indispensabile fare precisazioni del genere, pur sapendo che rischiavo di rovinare la festa, non tanto a quel ragazzo, ma forse soprattutto alla sua famiglia, che stava vivendo giornate di felice orgoglio, e sinceramente ero dispiaciuto di far la parte del saccente o magari dell’invidioso in quanto padre di Tommy. A volte, però, è impietosamente necessario fare un punto di chiarezza, proprio perché non si accenda all’istante la speranza in ogni altro genitore d’autistico che il proprio ragazzo, magari incapace persino di dire «mamma», possa ambire all’inimmaginabile traguardo della laurea, pur se munito di facilitatore che lo aiuti a scrivere tutto quello che, altrimenti, non sarebbe mai capace di esprimere parlando. Penso che, se passasse questo concetto, sarebbe altrettanto grave del far credere che tutti gli autistici siano come il protagonista di Rain Man, o come il prodigioso piccolo veggente matematico della serie televisiva Touch. L’autismo è un mondo complesso e variegato, e sono davvero poche le modalità di trattamento terapeutico che funzionino per tutti. Tra queste è da escludere che ci sia la comunicazione facilitata, oggi nota con il nome di Woce, che negli Stati Uniti da almeno quindici anni è dichiarata priva di evidenza scientifica e in Italia classificata dalla Linea guida n. 21 dell’Istituto superiore di Sanità del 2011 fra gli interventi «non raccomandati per l’autismo». Mentre scrivevo ero più che sicuro che mi sarei esposto all’indignazione e alle proteste di tutti quelli che vedono nella facilitazione un canale comunicativo misterioso, ma confortante, aperto tra autistico e mondo circostante. Mi avrebbero attaccato portando casi e prove documentate trovati in rete, dove è scritto che qualcuno da qualche parte del mondo invece considera efficace questo tipo d’intervento. Avevo presente una miracolosa, quanto cialtronesca, cura con le cellule staminali, diventata nell’opinione generale una certezza solo perché sostenuta da una potente campagna mediatica. L’emotività non è buona consigliera in casi così delicati. Purtroppo chi ha conoscenza dell’autismo cosiddetto «a basso funzionamento» (sì, non è

bello come termine, ma anche mio figlio è di quel genere e ci ho fatto l’abitudine) sa che chi ha questa particolare sindrome, e non verbalizza che poche parole, nella maggior parte dei casi ha enormi problemi cognitivi e relazionali e non è certo in grado di redigere una tesi di laurea, esprimere concetti elaborati, creare quei testi colmi di saggezza e profondità che spesso vengono attribuiti agli autistici «facilitati». È giusto piuttosto che anche in queste occasioni venga ribadito il concetto che per l’autistico il primo vero traguardo è l’autonomia di base nei comportamenti quotidiani. Inutile porsi l’obiettivo ambizioso di una laurea, se il proprio figliolo ha ancora difficoltà ad allacciarsi le scarpe, a vestirsi da solo, a curare la propria igiene personale. E, non ultimo, chiediamoci anche cosa potrà fare il nostro figlio autistico una volta laureato, soprattutto se dovrà sempre essere seguito dai suoi facilitatori quando gli sarà chiesto d’esprimersi. Il giorno prima, Tommy si era cucinato da solo la pasta con le zucchine, che aveva diligentemente affettato con il coltello senza aiuto. Quando Marco mi ha mandato la foto, ho fatto salti di gioia: mi bastava per illudermi che il cuoco avrebbe potuto farlo, anche se non sa parlare. Come prevedevo, di lì a poco puntuale arriva la prima lettera di una mamma indignata al direttore del mio giornale: Non ci sto a veder insultare un ragazzo, la sua famiglia e tutte le famiglie che stanno facendo o hanno fatto esperienze simili, né a sentir mettere in dubbio quanto hanno fatto con dolore e fatica. … Chi ha un figlio disabile affronta già tante cazzate e cattiverie. Ce ne vogliamo autoinfliggere altre perché non vogliamo vedere al di là del nostro naso? Mio figlio a 14 anni guardava una espressione matematica un po’ complessa e ne scriveva la soluzione saltando i passaggi: e certo chi lo supportava con una mano sulla spalla non era in grado di farlo! E questo secondo Lei significa che non è autistico? Ma magari poi, dopo questa brillante performance, se gli si chiedeva cosa aveva fatto a scuola, si incazzava e si dava i pugni in testa perché non era in grado di dirlo. Questo È AUTISMO.

Come contraddire la signora? E, soprattutto, perché contraddirla? Il problema è proprio quello che lei animosamente illustra: non c’è un’univoca versione dell’autismo; ogni genitore ha il «suo» autistico accanto e ne difende il diritto di essere aiutato come meglio funziona per lui. Ma questo significa

forse che chiunque possa pubblicizzare una terapia dicendo che funziona per tutti? Non lo so davvero, non mi va di mettermi a studiare i casi, a fare il giro delle sette chiese dei terapeuti ufficiali e «alternativi». Del resto anch’io forse galleggio nel mio delirio di un «metodo Tommy» che a me sembra il migliore possibile, anche se perfezionabile di giorno in giorno. So bene, e l’ho già detto, che non bisognerebbe mai infilarsi nei meandri delle discussioni tra genitori sulle migliori terapie per i loro figlioli autistici. Se in Italia l’autismo è ancora circondato dalle nebbie della superstizione, è proprio perché nessuno della nostra comunità scientifica si è ancora assunto concretamente la responsabilità di definire cosa sia giusto fare per un autistico, o cosa invece sia inutile o dannoso. Ognuno fa come meglio crede, come immagina che sia meglio per il proprio figlio, a volte fidandosi delle persone che gli capita via via d’incontrare, vagando a caso nel suo impraticabile labirinto di solitudine. Come ho già scritto, ne ho viste e sentite parecchie sull’autismo magico, soprattutto in questi ultimi anni di gestione diretta di Tommy; dalle camere iperbariche alle diete purificatrici, ai vaccini colpevoli, ai rimedi omeopatici, agli sciamani, persino agli esorcisti. Sembra impossibile, ma c’è veramente chi, prima di rivolgersi a un neuropsichiatra, ha pensato bene di portare il figlio strambo dal prete, tante volte fosse indemoniato! Ancora peggio di questi paradossi sono i portatori di verità quasi plausibili, quelli che riducono la soluzione del problema a una seduta psicoanalitica a vita per madri e figli in coppia, o quelli, oggi all’onore delle cronache, che vorrebbero farti credere che il tuo vero figlio sia una sorta di spirito guida rinchiuso in una gabbia. Solo loro, se lautamente pagati, possono mettersi in contatto con quel figlio occulto, che al computer diventa un genio anche se nella vita quotidiana non s’infila i calzini da solo. Su questa vicenda, però, ho deciso di mollare quando, tra i messaggi delle persone arrabbiate con me, ne è arrivato uno chilometrico e strappacuore scritto da una neuropsichiatra che, fra l’altro, ho saputo aver avuto in passato un importante ruolo nella sanità pubblica. E le chiedo: perché? Perché una notizia così semplice e bella … ha prodotto, grazie a lei, questa valanga di curiosità malsana, di aggressione e linciaggio morale mediatico? Questa famiglia ha dovuto staccare il telefono, respingere l’accalcarsi delle emittenti dei

talk show televisivi, aprire la porta solo a chi conosce… Lui guarda il viso tirato di sua madre e si chiede se nel folle mondo delle persone «normali» laurearsi sia qualcosa di sbagliato o pericoloso.

Ma poi ho scoperto che era proprio lei che formava i facilitatori con la sua cooperativa ed era lei ad aver seguito il laureato per anni: era, insomma, la persona più direttamente colpita dalla mia semplice richiesta di chiarezza. E, ripeto, era una neuropsichiatra. Chi sono io, mi sono chiesto, per sollevare dubbi su qualcosa che alla fine sta bene a tutti, istituzioni, medici, familiari? E ho deciso di smettere di scrivere pezzi su quest’argomento, ma confesso con grande senso di smarrimento. Pochi giorni dopo un mio amico, anche lui neuropsichiatra, mi ha raccontato che la madre di un giovane paziente autistico che non parla, l’ultima volta che si erano visti, in concomitanza con l’esplodere del caso sui giornali, gli aveva comunicato di voler iscrivere il figlio all’università, perché «un pezzo di carta serve sempre»… Ho letto spesso messaggi di ragazzi «facilitati»: sono tutti scritti con un lessico particolarissimo; la loro sembra quasi una maniera aulica di esprimersi, ma forse è un po’ troppo definirla tale, come se quello che si vuole comunicare fosse carico di un significato profetico, quasi una sentenza. Sono evidenti cazzate anche queste, facilmente smascherabili ponendo al ragazzo autistico domande di cui il facilitatore non sia in grado di conoscere la risposta: ma nessuno, quando ne è coinvolto, vuole essere smentito. È come chi ha avuto un grave lutto e incappa nel medium o santone che lo mette in contatto con lo spirito del caro trapassato. Conosco bene questo tipo di linguaggio, assomiglia troppo a quello dei messaggi d’oltretomba; ho conosciuto vedove e genitori orfani di figli perdere senno e averi dietro a cialtroni che propinavano messaggi dall’aldilà con la scrittura automatica, con il bicchierino che si muoveva sul tabellone dell’alfabeto e il tavolino che ballava. In particolare ricordo un’amica a cui era morto il marito, uomo di grande valore di cui lei era devotamente innamorata. In un periodo in cui entrai con lei in maggiore confidenza, mi fece capire che comunicava con il defunto. Mi fece leggere qualcuno dei messaggi che lui le avrebbe mandato dall’altro mondo, o da qualche interstizio intermedio nelle tante dimensioni tra il

mondo concreto e l’aldilà. I messaggi le venivano recapitati tramite una donna che pare avesse il dono della scrittura automatica. Assistetti persino a qualche seduta in cui si mettevano in contatto con il trapassato: la medium si concentrava, quindi cominciava a scrivere svelta su dei fogli di carta con una grafia enorme e per me poco comprensibile. Le sue parole poi venivano in un secondo tempo dattiloscritte e ricordo che erano dello stesso tenore di quelle di molti autistici «facilitati». Alla fine i messaggi non dicevano nulla d’essenziale, se non considerazioni sull’amore universale, sull’armonia e il desiderio di catarsi cosmica. Rivelazioni che non cambiavano la vita ad alcuno dei beneficiati, ma erano di grande conforto, aiutavano a elaborare un lutto, servivano a mantenere viva la presenza di uno scomparso, che sembrava essere empaticamente vicino alle persone care che lo invocavano. Quando leggo i pensieri dei ragazzi autistici «facilitati» ho la stessa impressione di trappola esoterica in cui era caduta la mia amica, e in cui cade la moltitudine di persone che cerca di registrare i messaggi dei figli morti con tecniche di metafonia o interroga un medium per sapere cosa pensa un caro trapassato. Perché dovrei immaginare questa struggente entità di autistico imprigionato che mi raggiunge per dirmi che è stanca di stare chiusa nella sua gabbia, di essere vigile e attenta a ogni cosa che dico e faccio, che sciorina a volte nozioni di discipline che Tommy nemmeno immagina che esistano, parla lingue che lui non ha la possibilità di studiare? Che m’importa di avere in casa un normalizzato artificiale che si manifesta solo se dotato di protesi umana? A me sta bene mio figlio così com’è, mi basta che sia felice e sapere che non capiterà mai che qualcuno attenti alla sua felicità quando io non ci sarò più per difenderlo. Questo mi basta e avanza, chi se ne frega delle corone d’alloro e della gloria degli atenei. Il nostro è un paese stracolmo di laureati inetti e di lauree inutili. Perché fare tutta questa fatica per un così misero profitto come una laurea strappata per compassione... perché nessuno ha il coraggio di dire che è tutta una mistificazione. Con il massimo rispetto per il dolore altrui, che ben condivido, penso che ognuno abbia diritto di scovare le proprie forme di elaborazione del dramma di avere un figlio disabile, purché poi non le si spacci per una regola che vale per tutti. Confesso che non vorrei mai diventare un erudito di autismo; mi fanno

paura quei genitori che dei problemi clinici del figlio pensano di saperne più di qualsiasi specialista. Anche se da una parte li invidio per la costanza che hanno avuto nello studiare, leggere, approfondire tutte le possibili fonti che trattino d’autismo (forse non proprio tutte, solamente quelle che sembravano confermare una loro idea di guarigione o miglioramento). E poi non potrei mai giudicarli senza sentirmi inadeguato, che ne so io? Trovo faticosissimo e, almeno per me, poco redditizio improvvisarmi specialista e ancor più difensore della cosiddetta «medicina non ufficiale» che, solo per il fatto di essere marginale e reietta, potrebbe dare l’impressione di essere portatrice di sapienze e verità troppo scomode per chi vorrebbe conservare l’egemonia nel trattare gli autistici. Sicuramente questo è un problema mio, non riesco ad appassionarmi alle dispute sulla vera scienza, quella ufficiale e non ufficiale. Sono esercizi utili solo a farmi perdere di vista l’obiettivo essenziale del mio mestiere di genitore d’autistico. Gli anni corrono velocissimi e non intendo sprecarli per prendere una seconda laurea in neurologia o psichiatria. Tommy cresce e diventa sempre più serio, come se iniziasse a pensare: «Sto diventando un adulto, e adesso?». In verità questo non lo pensa minimamente, forse sta solo capendo che il tempo passa anche per lui. Appare spesso pensieroso e mi atterrisce immaginare che lo sia perché mi vede stanco. Se potessi rubare per me dieci anni di vita, li cambierei con la certezza dell’inferno. Mi serve ancora tempo, devo costruire qualcosa per lui, perché Tommy è ancora dipendente da me in tutto e per tutto. Non voglio dire che non sia autonomo nei suoi bisogni primari: si alza, si lava, si veste, mangia e va in bagno. Sì, è una grande conquista: ci sono suoi coetanei che nemmeno quello riescono a fare senza che qualcuno li aiuti. Ciò che vorrei che Tommy riuscisse a capire è che siamo al mondo, che il mondo è vario, che ci si alza alla mattina con uno scopo che deve muoverci almeno fino alla sera. Lui questo non lo ha presente proprio perché è autistico, e io vorrei poter rispettare il suo immoto silenzio, il suo guardare dalla finestra particolari di foglie del platano che svetta dal viale fino al quinto piano delle nostre finestre, il suo ridere all’improvviso come se qualcuno gli avesse raccontato una barzelletta anche quando è solo. Forse invidio i padri organizzati che cercano in Internet, studiano documenti eretici, frequentano luminari che la scienza ufficiale snobba

perché troppo scomodi, che hanno la costanza di seguire e sperimentare tutto quello che di fantasmagorico venga proposto per guarire il figlio. Le assicuro che anche le sedute in camera iperbarica, che lei ha tanto criticato, hanno fatto molto bene a mio figlio, quasi quadruplicando la sua produzione verbale come da valutazioni successive.

Così mi scrive uno dei tantissimi colleghi padri che periodicamente faccio imbufalire perché mi prendo la rogna di essere scettico. Ma a questi appunti non faccio caso, non mi sento diverso o più «autisticamente maturo» di altri. Io non cerco maestri e cure, voglio solo costruire «Insettopia», la mia «città» per Tommy e i suoi amici. Sempre da chi mi dà lezioni di paternità autistica informata, leggo: Da padre a padre, mi ha molto deluso, non dico di vendere false speranze, ma nemmeno offendere chi lavora e soprattutto tutti coloro i quali hanno avuto dei benefici ridicolizzandoli e facendoli passare per i creduloni vittime del Wanna Marchi di turno... Una volta eliminata l’intossicazione da mercurio che aveva mio figlio è iniziato a rifiorire, sistemando con semplici probiotici l’intestino e aiutando il sistema immunitario a rafforzarsi le cose sono decisamente cambiate, evitando di dare medicine, utilizzando l’alimentazione come chelante disintossicante ecc. ecc. è praticamente rinato.

Che cosa faccio io che non chelaziono né disintossico? Sono un padre degenerato, antiquato, bigotto? Me lo chiedo, me lo richiedo… Soprattutto quando mi scrivono citando Galileo e dandomi dell’ottuso verso un pensiero scientificamente trasgressivo. Ma che me ne frega, alla fine? Ripeto: cerco che mio figlio sia autonomo il più possibile, che lo sia nella sua banale quotidianità. C’è voluto accanimento e metodo, ma un ragazzo di 16 anni che fa progressi per la sua autonomia è il miglior traguardo possibile. Purtroppo oggi prevale l’illudersi generalizzato, che spesso rende indifesi al punto di prestare credito alle panzane dei sacerdoti medium che illudono tanti genitori affranti a credere che dentro quel loro figlio pietrificato viva un arguto e saggio fanciullino pensante. Uno spiritello imprigionato che, attraverso il rassicurante contatto con un «esperto», possa far sentire la sua voce.

In paesi civili i facilitatori di messaggerie autistiche sono trattati da truffatori. Da noi, invece, ancora è possibile spacciare per plausibili le scritture automatiche di fantapoemi opera di autistici, che da soli non sanno neppure scrivere il proprio nome, ma se guidati dal facilitatore muovono il dito sulla tastiera del computer e diventano Giacomo Leopardi. Mirabilia propagandate come realtà persino dalla tv pubblica. Non voglio infierire perché ho troppo rispetto e comprensione per l’angoscia di chi da suo figlio non ha mai sentito dire nemmeno «papà» o «mamma» e trova consolazione nel vedersi sciorinare pagine e pagine di messaggi, che assomigliano magari troppo ai messaggi della Madonna di Medjugorje, ma forse esattamente come quelli servono a sorreggere la speranza che esista vita eterna.

VI

Trallallà

Chiunque aspetta il sabato come una giornata dedicata al riposo, tuttavia molti dei segni che noi genitori di autistici ci portiamo addosso provengono dagli scontri fisici del sabato mattina, perché «lui» non tollera quella giornata d’interruzione del suo ruolino di marcia, fatto di scansioni irrinunciabili. Anche ammesso che Tommy vada a scuola a fare molto di meno rispetto al programma che seguono i suoi compagni, certamente lo rassicura, e forse attenua la sua ansia, quella quotidiana ritualità fatta di colazione, pulmino, corridoio, palestra, merenda, passeggiata, pulmino e pranzo. Il sabato mattina invece è terribile; sembra avere un radar che lo avverte che quella è una giornata senza regole, almeno dovrebbe esserlo per me. Iniziano così le crisi, improvvise, inaspettate e senza motivi apparenti. Oggi devo dire che Tommy è molto maturato; alla fine, se lo assecondo – e quindi gli permetto di vivermi accanto, dormire il venerdì sera nello studio dove io lavoro, alzarsi alla mattina, fare colazione assieme e passare fino al lunedì in simbiosi – è veramente un ragazzo esemplare, anche se il prezzo è che io non abbia più l’idea di cosa sia il tempo del disimpegno. Fino a qualche mese fa questo giorno della settimana era il più turbolento e oppositivo. La giornata iniziava con la sua dimostrazione concreta dell’ansia che gli procurava l’assenza di impegni fissi. Spesso ho accettato lo scontro con lui e non è stato bello: quando tra noi c’è colluttazione non è proprio come nel film Fight Club accade ai combattenti per noia dell’omonimo club; almeno, io non devo dimenticare di essere un padre: posso solo stare in difesa, cercando di immobilizzarlo senza che si faccia male. Oramai Tommy è un gigante che mi sovrasta e, se lottassimo solo per gioco, sarebbe pure un bell’allenamento. Invece non si gioca, lo scontro fisico con lui è sempre più

difficile da gestire, anche se dura poco. Poi sbollisce e torna un bambinone tenero e mi chiede scusa, mortificato, se vede che perdo sangue. Una volta, quando ho notato che cominciava a scalpitare, ho preferito non intervenire lasciando che se la vedesse da solo, prendendosela con il cuscino. Quel giorno ha appena fatto in tempo ad afferrarmi una mano, come se volesse essere aiutato, ma in realtà mi ci ha ficcato le unghie come fossero piccoli pugnali acuminati (le ha cortissime, ma usa una forza inaudita). Pazienza, è la prassi: ci si disinfetta e si aspetta che passi. Ho scattato una foto della mano martoriata e l’ho pubblicata nel blog dove parlo di lui: qualcuno, che non conosce il problema, ha trovato inutilmente truce il post, ma l’ho fatto a caldo proprio per chi, all’esterno della mia vita, mi vede così incastrato e mi dice: «Stacca! Devi prenderti degli spazi per te…». Non ci sono spazi per chi ha un figlio autistico nei giorni di festa o semifesta. Quanto meno, io non ho ancora trovato, salvo rare occasioni, chi sia capace di organizzare dei fine settimana alternativi per i ragazzi come il mio. A chiunque lo chieda, mi risponde che è difficile trovare gente specializzata disposta a lavorare di sabato. Chi invece è «del mestiere» sa bene a cosa mi riferissi con quella foto. Si sarà guardato le sue vecchie ferite di guerra e avrà capito il mio sfogo. Altro sabato. Ero appena rientrato in studio. Venivo da un convegno sull’autismo dove, come spesso mi è accaduto nell’ultimo anno, ero stato chiamato a parlare in veste di eroico padre di Tommy. Questa volta si era tenuto in Sardegna. Tempo pessimo al decollo e all’atterraggio all’andata, lo stesso naturalmente al ritorno perché non potevo aspettare il giorno successivo. Come sempre il mio principale obiettivo era stato fare in modo di rientrare a casa il prima possibile, in tempo per prendere in consegna il mio Capoccione inquieto, che puntuale mi viene riconsegnato appena giro le chiavi nella toppa. Il sabato pomeriggio è difficile chiedere a un collaboratore di fermarsi, ma soprattutto sarebbe stato impossibile quando era già il terzo sabato che mancavo per un convegno. Il fatto è che in quel periodo avevo pasticciato con il calendario delle presentazioni, così me ne ero trovate tre di fila in tre fine settimana. Nessun problema, tanto tutti sanno che io mantengo la parola e comunque copro. «Grazie, sei veramente una bella persona, profonda e generosa!!!» Puntuale pure l’sms di ringraziamento dell’organizzatrice che mi dice che

sono una bella persona: che noia, non voglio essere una bella persona! Almeno non per aver detto in un microfono quattro fregnacce che oramai ripeto a pappagallo, da un anno almeno tre volte al mese. Ogni tanto penso di avere sbagliato tutto nella mia professione, mi sarei dovuto impegnare per diventare un maestro di vita, qualcosa a metà tra il santone e il predicatore. Quei signori toccati da una disgrazia, una malattia, una fulminazione divina… che all’improvviso cominciano a scrivere libri ispirati, si fanno crescere una bella barba bianca e ogni parola che dicono fa palpitare di consenso le folle. È facile farsi ammirare e compatire: basta raccontare qualcosa di sé che il resto dell’umanità teme come la morte. Non c’è gara, si vince sempre quando si racconta di aver perso la partita in cui è in palio la felicità. Io potrei anche riuscirci, so essere convincente quando parlo, mi viene spontaneo fare pause significative, modulare il tono, usare suggestioni, metafore e altri artifizi perché la gente resti affascinata quando parlo. Per il resto sono valutato un mediocre nel mercato della mia professione, ma perché alla fine mi sento come uno scampato per un caso alla ghigliottina. Mi pare sempre un regalo della sorte spartire spazi d’espressione con chi sembra avere un diritto dinastico a padroneggiarli. Dopo dieci minuti che ero entrato in casa, quando ho acceso il mio computer di studio, ecco un’altra buona occasione per farmi rodere: mi accorgo che è stata pubblicata una locandina per un evento di cui sono protagonista (la presentazione di un altro mio libro scritto per divertimento) usando un’illustrazione presa dal volume che, fuori contesto, dava tutta un’altra veste all’incontro. Il grafico non aveva letto il testo, ma voleva dare un’immagine «forte» e per la locandina aveva riprodotto, tra le tante fra cui poteva scegliere, un’illustrazione che mostrava una coppia sadomaso; lei in tuta di latex, lui carponi e al guinzaglio. Alzai il telefono e feci letteralmente a pezzi il responsabile grafico, che tolse subito la locandina dal sito dell’editore. Ero fuori di me perché stavo lavorando allo stesso tempo sul mio progetto di community web per le famiglie di autistici. Mi venne subito da pensare che quella loro incauta leggerezza mi sarebbe potuta costare tantissimo, sembrava che io promuovessi un partouze bdsm. A parte il fatto che non ho alcuna predilezione per quel genere di spettacolini, ho pensato che l’equivoco avrebbe potuto rendermi meno credibile.

Cercavo di sbollire la rabbia assorto in queste riflessioni mentre frullavo il minestrone con il Minipimer, perché le verdure a pezzi nella minestra a Tommy danno fastidio. Toccava a me farlo anche se ero rientrato solo da dieci minuti a casa. Mio figlio maggiore, com’è giusto che faccia, era uscito con i suoi amici; mia moglie era al suo giornale come tutti i sabati. E io ero lì, come sempre, a preparare la cena a Tommy, che mi guarda e sta zitto con l’aria di un cagnolino davanti alla ciotola mentre il padrone con l’apriscatole si affanna ad aprirgli la lattina dei bocconcini di manzo. Pochi minuti prima mi aveva telefonato un’amica chiedendomi in prestito delle sedie pieghevoli che ho in uno stanzino; le servivano per una cena tra colleghi a casa sua: non le era nemmeno venuto in mente d’invitarmi, mi conosce ed esclude a priori che sia possibile per me partecipare. Nessuno più m’invita, tutti sanno che io la sera non esco, oramai nessuno pensa che possa fare quelle cose che normalmente tutti fanno. Ho perso il possesso del mio tempo proprio nel momento in cui, una volta cresciuti i figli, avrei pensato di poter finalmente tornare a esserne padrone. Il tempo è il mio più implacabile strozzino. Io trascorro le giornate a pagare gli interessi del mio debito con lui, consapevole che non riuscirò mai a estinguerlo. Quest’anno compio sessant’anni, eppure mi sento come un ragazzino che deve rendere conto ai genitori di quello che fa, con l’unica differenza che io devo rendere conto a Tommy. Chi se ne importa, trallallà! Non è che ho alternative, lo capisco, ma il vero rischio per ogni genitore di autistico è la cristallizzazione in questo status come se si fosse eterni. Mi sono accorto che i nostri ragazzoni da una parte ci succhiano energia, ma dall’altra ci costringono a delle performance talmente inaudite da tenerci sempre sotto allenamento. Tommy è il mio personal trainer: ho sviluppato cosce e polpacci d’atleta, pur avendo una giornata piuttosto sedentaria, lo devo a quelle pedalate in tandem durante le quali fino a poco tempo fa mi portavo dietro i suoi novanta chili a peso morto. Dovevo continuamente ricordargli di spingere sui pedali, perché per lui pedalare faticando è un controsenso, se lo fa qualcuno al suo posto. Del resto è la straordinaria filosofia dell’autistico: mai forzarsi a fare qualcosa che sia faticoso o spiacevole, mai fare qualcosa per disciplina, spirito di sacrificio, ascesi… L’autistico fa qualcosa solo se si sente di farlo: o per suo piacere, diletto,

passatempo, o per una di quelle sue attività di compensazione dell’ansia che non riesco a capire da quale memoria profonda attinga. Quando era piccolo, e fino a un paio d’anni fa, Tommy amava tantissimo andare in altalena. Tutti gli autistici vanno pazzi per l’altalena, sarebbero capaci di dondolarsi per ore, si vede chiaramente che quel movimento a pendolo ha la proprietà di rilassarli. Quante file ho fatto ai giardinetti con Tommy, già grande, che si metteva in coda con bambinelli che gli arrivavano alla cintura, per un turno sull’altalena. Ci sembrava di scoprire un tesoro se ne scorgevamo una abbandonata, senza codazzo di ragazzini intorno. Se mi capitava di incrociarla mentre guidavo, mi fermavo, parcheggiavo e correvo a portarlo a sfogarsi un po’. Quando non ci furono più altalene possibili per reggere Tommy basculante, abbiamo cercato di trovargli alternative estatiche. Io, come ho scritto nel precedente libro, avevo fatto mettere una rotaia di ferro da parete a parete in una stanza del mio studio, a cui per un annetto è stata appesa un’amaca peruviana su cui per qualche mese lui si è dondolato mentre guardava la tv, ma con scarso entusiasmo dato che il raggio di movimento era piuttosto limitato. Poi, all’improvviso, un giorno è entrato nella fase derviscia. Come è noto ai più, i dervisci rotanti sono dei danzatori mistici turchi che ruotano vorticosamente su se stessi in una sorta di girotondo rituale che probabilmente provoca loro un’uscita dalla realtà sensibile. Tommy, spontaneamente, ha scoperto che è possibile ottenere lo stesso effetto ruotando veloce sulla sedia girevole della mia scrivania. Oramai la prassi è la medesima tutti i giorni. Verso le 21 Tommy suona al citofono del mio studio accompagnato da Marco. Rapidissimo, si toglie le scarpe (a casa mia è d’obbligo), si sfila la felpa e si precipita ad accoccolarsi sulla mia sedia. Nulla di che, è una poltroncina Markus acquistabile all’Ikea per 139 euro, ma, da quando lui l’ha scelta come astronave per uscire dal mondo, ha subito un stress strutturale che nessun crash test avrebbe mai potuto prevedere. Tommy è capace di girare senza fermarsi anche per mezzora: tiene le gambe raccolte sulla seduta come in una posizione yoga e, spingendosi con un braccio dalla scrivania, comincia a girare velocissimo. Sembra che quel movimento gli dia grande relax. Si comporta esattamente come un dervisho, il capo reclinato da un lato e gli occhi chiusi. Ultimamente pretende di restare solo e non vuole nessuno in quella stanza mentre gira. Quasi fosse una pratica

che richiede intimità e concentrazione, quasi quel movimento liberasse endorfine: «Si sta drogando» mi dice infatti Marco, che prima di occuparsi di autistici, mi pare abbia viaggiato come fotografo per tutta la via dell’oppio, dall’India al Tibet. Tommy gira e sembra che sia la cosa che maggiormente riesca a tranquillizzarlo; lo capisco da quando entra correndo nella mia stanza proprio come un affamato verso la dispensa. Da solo ha trovato una tecnica che riesce a placare la sua ansia divorante. Mi viene in mente la macchina degli abbracci che si era costruita Temple Gardin, la scienziata Asperger, guardando il congegno per immobilizzare le mucche nel loro recinto. Tommy si è ingegnato a immaginare la sua macchina ansiofuga guardando suo padre al lavoro; le prime volte, appena mi alzavo, qualunque cosa stesse facendo si sedeva al posto mio e girava un poco; poi questa abitudine è andata in crescendo sino alla folle giravolta, oggi immancabile tappa della sua quotidiana liturgia rituale per essere certo che il mondo non finirà. L’ho mostrato anche al mio amico neuropsichiatra, mentre girava. Lui allora mi ha chiesto di sedermi, girare per qualche secondo e alzarmi in piedi. Naturalmente stavo per cadere, mi girava la testa ed era quasi impossibile reggermi dritto. Il mio amico allora mi ha fatto notare che Tommy poteva girare per mezz’ora, poi si alzava e andava tranquillamente a prendere l’acqua in frigo in un’altra stanza come nulla fosse. Gli autistici hanno proprio un altro cervello: il loro punto d’equilibrio è decentrato rispetto al nostro, in tutti i sensi. Non immaginate come vorrei avere, anche solo per un attimo, il punto di vista «eccentrico» di Tommy e vedere il mondo con il suo colpo d’occhio. Capirei molto più di lui e, forse, capirei molto più pure delle realtà che vedo sempre e comunque con il banalissimo e stantio sguardo condiviso dal resto dell’umanità neurotipica.

VII

Noi, sentinelle del nostro carceriere

Oggi è la festa del papà… E che vuol dire? Per i più piccoli un giorno dell’anno dedicato ai lavoretti dei più orribili, frutto d’impegno coatto per compiacere maestre con velleità creative. Cravatte di cartoncino, segnaposto, portatovaglioli fatti di mollette stendipanni incollate, cioccolatini con la ciliegina al liquore (a differenza di quelli per la mamma, con la nocciola), poesiole, cuoricini, coccole e sorrisini. La festa del papà, il funerale di ogni dignità paterna, serve a commemorare una reliquia del passato; sta al padre come il Calendimaggio di Assisi sta al Dolce stil novo. È una farsa organizzata dalla pro loco dello strapaese famiglia per confezionare memoria fittizia di un tempo passato per sempre. Per fortuna, noi guardiani dei folli colossi dell’irrequietezza balzana, di essere loro padri ce lo ricordiamo ogni minuto della nostra giornata; non ci serve un santo patrono che padre lo è stato per procura divina, beato lui. Il nostro patrono è il figlio manesco di cui siamo custodi e prigionieri allo stesso tempo. Colui che ci consuma ma ci fortifica, facendoci bersaglio quotidiano di sberle e di carezze. Noi saremo padri dei nostri figli taciturni per sempre, fino a che saranno loro a portarci sulle spalle, perché ancora non potranno fare a meno di noi. Gli altri garruli paparini delle cravatte di cartoncino e dei cioccolatini, nel frattempo, saranno già stati sbattuti in qualche discarica per vecchi dai loro figlioletti poeti e canterini. A differenza di questi padri, io devo fare i conti con le esigenze di mio figlio, anche dopo lo svezzamento o l’età in cui non si possono ancora lasciare soli. Io avrò sempre bisogno di qualcuno che faccia da baby sitter di un omone che non può rimanere solo in casa la sera. Da quando Marco si occupa

di Tommy in orari umanamente elastici, in verità adesso a volte mi capita di riuscire a incastrare le mie ore d’aria con quelle di qualche altro genitore; ma alla fine, per quanto si cerchi di dare un senso di fuga a quel tempo strappato, si finisce sempre per parlare dei propri figli. Siamo come i custodi di una stirpe di strambi personaggi, ognuno diverso dall’altro, ma tutti uniti dalla stralunata inquietudine dell’essere guardinghi sorveglianti delle nostre vite mentre ce le strappano morso dopo morso. Due mamme di autistici, tempo fa, si erano fatte belle ed erano venute con me in una libreria-pub frequentata da gente molto improbabile. Non so come ero capitato in quel posto fricchettone con ragazzi che bevevano birra seduti tra loro a due a due. Poi mi resi conto che era la sera di San Valentino ed erano quasi tutti fidanzati che davano un senso alla ricorrenza. E noi genitori d’autistici, finti scapoli per una sera, ce ne stavamo in disparte, sentendoci fuori posto. Avevamo sbagliato luogo e serata. Una madre aveva portato con sé il suo figliolo: non quello autistico, ma il fratello, che forse qualche problema però l’aveva pure lui; nulla di grave, ci siamo abituati… Come già scritto prima, i fratelli di autistici sono comunque lambiti dalla marea che solleva «lo strambo di famiglia». Sono sempre persone taciturne, molto spaventate e sensibili. Rassegnati a vivere in disparte rispetto alla fonte di maggiore pathos familiare, non rivendicano lo spazio vitale che ruba loro il fratello bizzarro, ma si adattano a colonizzare come possono gli scampoli di vita condivisa che lasciamo a loro disposizione. Quel fratello maggiore di un più piccolo autistico aveva portato un foglietto con illustrati vari tipi di panini con hamburger che aveva programmato di mangiare in quella serata in cui avrebbe avuto attenzione solo per sé, senza monopolizzatori accanto. Nessuno di noi si mostrava meravigliato di un fatto in sé abbastanza strano: che un ragazzo di 16 anni si fosse portato dietro un dépliant di cheeseburger e si fissasse perché proprio quelli voleva e nient’altro di quanto proponeva quel locale. Siamo tutti così abituati... Rispetto a quanto accadeva un anno fa, ora sono circondato da genitori come me molto più di prima. Li ho fuggiti sempre, i genitori dei compagni dei miei figli; per principio trovavo forzato il dover frequentare persone solo perché ci univano una scuola e dei ragazzi coetanei. Sono tracollato dopo le prime pizze tutti assieme, le file in attesa del colloquio con un insegnante, i capannelli davanti alla scuola, all’accompagno o alla ripresa. Ora, giocoforza,

sono dentro fino al collo a un problema che non posso non condividere con altri, è quasi obbligatorio: da soli non ce la si fa. Le occasioni d’incontro sono le attività sportive e ricreative a cui accompagniamo i nostri figli, esattamente come tutti i normali genitori fanno fino a una certa età, perché poi i loro figli vanno da soli. Non è così per noi, che spesso ancora portiamo per mano uomini e donne fatti in piscina, in palestra, a fare una partita, a passeggio, a prendere il gelato. Di anno in anno ai ragazzi cresce sempre più barba, mettono su più muscoli, alle femmine vengono fuori le tette, cominciano a truccarsi. Ma ci sarà sempre una madre, o un padre, che accanto a loro li aiuta a infilarsi la tuta, ad allacciare le scarpe e sta a bordo campo pronta a ogni evenienza. È sempre lo stesso problema con Tommy e i suoi simili: noi genitori cerchiamo disperatamente pertugi per arrivare di soppiatto al loro sistema operativo. Cerchiamo dico, perché sappiamo che è quasi impossibile e possiamo solo affidarci alle nostre intuizioni, abbandonarci a quei canali indecifrabili che si stabiliscono tra noi e loro, come una rete wi-fi non protetta che improvvisamente scopriamo quando siamo in astinenza di connessione, e allora felici ci attacchiamo perché non ci pare vero di quell’occasione inaspettata. Molti dei miei colleghi in gestione di figli autistici non mi hanno mai perdonato di avere raccontato la nostra comune vita, forse pensano che i panni sporchi debbano essere lavati in famiglia. Ho comunque capito che, per quanto si condivida un problema, è molto difficile che esista una solidarietà a priori tra genitori di autistici; anzi, la nostra «comunità» è spezzettata in un’infinità di modi diversi di pensare e raccontare il proprio autismo familiare. È chiaro che, poiché di autismi ne esistono un grande numero, chiunque viva di persona un figlio di questo tipo tenda immediatamente a fare rapidi e spietati paragoni tra i problemi/abilità del proprio e lo status degli altri. Per esempio: mio figlio non parla, ma non se la fa nemmeno addosso; quello è più loquace, ma gira con il pannolone. Oppure il suo non ha crisi epilettiche, ma il mio almeno non ha l’aspetto di un paziente psichiatrico. Oppure, ancora, guarda quella: il figlio la mena come un tamburo, ma almeno quando la sera va a letto si addormenta subito; il mio è tranquillo di giorno, ma la notte smania e vuole stare alzato senza farmi dormire. E via dicendo…

Mi è capitato di mandare a farsi benedire più gente nelle mie condizioni in questo ultimo anno, di quanti viscerali nemici abbia maltrattato nel resto della mia vita. Sembra paradossale, ma è così. Il peggior antagonista di un genitore d’autistico è quasi sempre un altro genitore nelle sue condizioni. Basta saperlo e farci pace senza portare rancore, ma non bisogna nemmeno permettere che altri possano rubarti tempo e serenità. Ognuno di noi ha il suo bel lavoro complicato nel mettere in fila ogni giorno, non c’è tempo per troppi confronti. Quindi ciascuno segua la strada che in coscienza ritiene più giusta per il proprio figlio. Spesso è inutile cercare unità totale d’intenti, rispetto a un problema che serpeggia in infinite varianti e sfumature. Le aggregazioni avvengono più facilmente tra famiglie omogenee, sia nel tipo di autismo, sia nell’approccio culturale verso le possibili maniere d’affrontarlo. Altrimenti si litiga, come quando da ragazzi si andava in vacanza con amici che avevano abitudini diverse dalle nostre. Naturalmente, io che ho scritto un libro su mio figlio immagino di essere stato valutato, soppesato, confrontato in ogni particolare, anche con animo più che benevolo, dalle decine di migliaia di persone con lo stesso problema che mi hanno letto. A volte mi va bene, altre meno. Per esempio: mi è capitato di moderare una tavola rotonda sull’autismo a un convegno scientifico, per un invito di cari amici; l’ho fatto con piacere, perché mi sembra sempre utile ragionare e ascoltare opinioni differenti. Durante la discussione ho però avuto modo di saggiare di persona un’ostilità nei miei confronti da parte di alcuni genitori a cui sinceramente non ero preparato, ma di cui devo comunque tener conto. Mentre parlavo, una signora, penso fosse un’educatrice, si sbracciava a comunicare ad alta voce ai vicini di sedia che lei mi conosceva e poteva dire che non mi sono occupato mai di mio figlio, non andavo mai alle verifiche (che roba è?), e che adesso sto facendo i soldi con un libro su di lui. Un signore che non ho mai conosciuto (forse una volta l’ho sentito al telefono), che mi sembra rappresentasse un’associazione genitori, ha cominciato ad attaccarmi nell’auditorium, in un crescendo rabbioso, chiedendomi perché solo ora mi fossi deciso a parlare di autismo, quando lui lo faceva dagli anni Ottanta. Continuava a chiedermi dove io fossi stato fino a quel momento e, soprattutto, perché non mi fossi iscritto alla sua associazione. Questo ultimo punto lo faceva particolarmente arrabbiare, come

se il mio fosse un atteggiamento censurabile. Chi ero mai per non iscrivermi all’associazione? La mattina dopo, un’amica mi segnala che in un profilo Facebook si parla di me a proposito di una mia intervista sull’autismo. A me non piace mai… Non condivido la sua visione dell’autismo e lo trovo una persona molto arrogante. Non è un discorso di pietismo… ultimamente è presente in tantissime trasmissioni tv e articoli di giornali... la visione che dà dell’autismo è di una condanna... un ergastolo senza appello… Tempo fa ho commentato un suo articolo sulla sua bacheca (era fra i miei contatti) nel quale scriveva, al ritorno da una gita, che tutti i genitori andavano a prendere i loro «fardelli»… Gli ho detto che al posto di «fardelli» poteva scrivere «figli», in quanto io non considero mio figlio un peso … Prima mi ha risposto: «Ma scusa, tu che ne sai?»; quando gli ho detto che ero mamma di un bambino autistico e pure fra i suoi contatti mi ha scritto: «Perché… per te avere un figlio autistico è una passeggiata? beata!!» con un tono della serie: «Non sai chi sono io»… Se suo figlio è tanto un peso per lui invece di scriverci sopra un libro può metterlo in un centro residenziale… Con tutti i soldi che si è fatto... Non parliamo poi della sua idea… Insettopia… un ghetto per gli autistici.

La critica ci sta tutta, figuriamoci se non l’accetto: ho fatto il critico di mestiere per anni. Quello che accetto meno è il bisogno di entrare nella gestione privata degli affetti altrui solo per il fatto che si condivida un problema. Se ho usato il termine «fardello», per me in quel momento era il più appropriato, ma saranno fatti miei! Invece no, c’è sempre chi mi contrappone la sua visione di gioioso martirologio. Cosa facevo io negli anni Ottanta invece di parlare di autismo? Ma saranno fatti miei! A quel tempo facevo il servizio militare, ero un pischello. E se da padre non andavo alle verifiche? Avrò avuto altro da fare che perder tempo a sentirmi leggere i compitini degli insegnanti su osservazioni che non mi hanno mai spiegato nulla su mio figlio. Per fortuna mi arrivano spesso anche tracce fantasticamente «bislacche» delle menti vivaci di altri miei colleghi genitori di autistici. Ho sempre sospettato che ci fosse ancora una bella fame di vita dietro alle facce rassegnate, ai loro abitucci fuori tempo, a quel mesto accontentarsi di sopravvivere che ci imponiamo tutti noi, quando ci coglie come un male

inesorabile la certezza che la nostra badanza non ci permetterà più di avere una nostra vita. Mi è piaciuta una mamma che mi ha scritto, in un messaggio su Facebook, di vedere il suo Paolo sfuggente come «un gatto salterino». Le mamme degli autistici devono avere il tempo per andare a ballare, per farsi belle, persino per trovarsi gagliardi amanti quando i mariti scappano per paura, come spesso succede. Avranno così più fantasia per inventarsi nuove maniere di pensare i loro figli senza doversi massacrare il cuore. I padri non devono portare a spasso i loro figlioloni con i baffi pensando che siano entrambi condannati a essere bimbi a vita. Invitino qualche amica simpatica e facciano festa assieme. Mi sono fissato con la mia Insettopia proprio perché vedo troppa rassegnazione e infelicità nelle famiglie di autistici. Ne riconosco i tratti quando vedo persone che fendono invisibili le folle neurotipiche come se fossero fantasmi già trapassati, scivolano discrete nei luoghi pubblici come se dovessero farsi perdonare qualche colpa… Ma stiamo scherzando? Ne abbiamo più noi di fantasie fugaci che ogni banale nostro collega, amico, conoscente che non sa quanto sia preziosissimo il tempo della gioia, quel così raro e imprevedibile fremito vitale che, ogni tanto, riusciamo a strappare al nostro perenne esser sentinelle dell’amatissimo nostro carceriere. Poi questo penso io, forse solo perché a me è capitato Tommy invece di un altro dei tanti figli autistici possibili. Alla fine sono loro a condizionare il nostro personale punto di vista sull’autismo. Non le letture, non i convegni, non le valutazioni, i Glh, le supervisioni e le analisi comportamentali. Sono i nostri autistici in dotazione a suggerirci ogni nostra futile certezza su chi essi siano. Lo fanno senza dirlo, ma semplicemente mostrando a noi genitori quale sia il vero colore del loro autismo, tra tutte le sfumature possibili di uno spettro smisurato.

VIII

Insettopia è ovunque

La grande domanda che da un po’ di mesi mi viene fatta è cosa mai sia Insettopia. Risposta: «La città felice dei ragazzi autistici». Nel libro di Tommy ne parlo a lungo e, alla fine, Insettopia sta cominciando a essere il sinonimo del sogno di ogni genitore di autistico. Insettopia è il luogo che nel nostro immaginario consideriamo perfetto per la felicità dei nostri figli. Rispetto a tutti gli altri luoghi che possiamo immaginare, o che qualcuno potrebbe averci qualche volta proposto, è davvero il posto più bello che si possa allucinare. Deve essere bello innanzitutto, perché un luogo bello è già una cura alla tristezza; poi perché non dobbiamo accontentarci di soluzioni di ripiego, «tanto loro sono autistici». La città dei nostri ragazzi potrebbe anche sembrare un’utopia ma, se così fosse, non lo sarebbe in quanto impossibile realizzarla, ma solo perché pochi veramente, quando pensano al «problema dell’autismo», si sforzano di affrontarlo con lucida razionalità. Un figlio autistico è una bella rogna – e questo lo sappiamo in tanti – ma, proprio perché siamo in tanti a saperlo, dobbiamo renderci conto che la soluzione, ohimè, non è «guarirlo», ma piuttosto assicurargli una vita il più possibile adeguata ai suoi bisogni, alle sue sensibilità, al suo benessere. Per farlo dobbiamo prima ancora cercare di essere sereni noi genitori: se «scoppiamo», per lui non potremo fare più nulla. Razionalizzare le attività quotidiane di nostro figlio significa avere una vita più degna di esser vissuta anche per noi. Immaginate un unico luogo dove si condensino tutte le attività gradite e utili ai propri figli. L’organizzazione settimanale del tempo di un autistico è, nella maggior parte dei casi, frammentaria e disorganizzata. Comunque, lascia moltissimi spazi vuoti in cui il ragazzo sperimenta noia, frustrazione e

solitudine. Situazioni che favoriscono l’insorgere di «comportamenti problema». Immaginate allora un luogo in cui i genitori abbiano la certezza che, come in un campus pensato per le esigenze specifiche dell’autistico, l’attività e il tempo del proprio figlio siano organizzati in maniera costruttiva e confacente alla sua personalità, a sua misura. Ciò non esclude che poi a piccoli gruppi si possano sperimentare uscite serali, per esempio in pizzeria e in discoteca, attività «proibitive» per ragazzi problematici che, a una certa ora, sono costretti a stare in casa con i genitori (coprifuoco) perché non esistono servizi fruibili per loro. Questo luogo però non me lo prefiguro come il giardino di un convento, chiuso verso l’esterno; al contrario, dovrebbe essere un catalizzatore di attività sociali talmente belle, originali e «strambe» da stimolare anche la curiosità dei neurotipici. La «nostra città» dovrebbe essere costruita in un’oasi verde e sospesa dalle forti stimolazioni acustiche e visive del traffico cittadino, delle liturgie ipercomunicative, lontana dall’attrito delle relazioni con un’infinità di altri umani. Allo stesso tempo, però, Insettopia non dovrebbe essere emarginata, bensì solo «sensorialmente alleggerita», quanto basta a non stressare la particolare sensibilità delle persone autistiche. Il che farebbe bene pure a chiunque altro volesse passare per Insettopia, anche solo per attutire il peso quotidiano dell’essere sovraccarico dall’obbligo di socializzazione intensiva e forzata. Amo chiunque segua i suoi pregiudizi gloriosi, come ho scritto nel mio motto sulla parete di casa mia e fatto stampare nella prima pagina del mio libro precedente. Per anni di me si sono immaginate fantasmagoriche sventatezze, ma mai che in realtà passassi la maggior parte del mio tempo impegnato nelle più banali attività di accudimento familiare: spesa, pulizie domestiche, figli da edificare, moglie da interpretare. In verità mi sento molto vicino a Emilio Salgari, che mai annusò dal vivo i fantascenari dei suoi pirati e tagliatori di teste. Io mi sono costruito una fama di divina scelleratezza nel mio quotidiano di borghese piccolo piccolo. E un esempio concreto è il fatto che, mentre tutte le persone che ammiccavano sulle mie presunte dissolutezze se la spassavano chi in isole esotiche, chi in giro per il mondo, io ho trascorso un’estate a fare presentazioni del libro di

Tommy. Come spesso accade nell’alta stagione, in molti posti di villeggiatura organizzano incontri tra acclamati autori e la popolazione vacanziera. Con Tommy e il resto della famiglia al seguito, me ne sono fatti parecchi di questi giri. E Tommy ha acquisito una sua dimensione pubblica venendo assieme a me a presentare il suo libro. Ha capito da subito di essere protagonista, e questo gli piace. Il che penso sia un buon segno, perché si abitua al fatto che esiste anche altra gente oltre al padre, alla madre e al fratello, persone che snocciola in questo esatto ordine ogni volta che viene preso dall’ansia di un possibile viaggio o spostamento. Tommy deve essere certo che lo schema classico di noi quattro sia rispettato. Questo lo rassicura: lui seduto davanti accanto a me, dietro la madre e Filippo. Per le presentazioni e le occasioni di dibattito pubblico, invece, preferisce stare solo con me. Lo capisco, è l’unica maniera per sentirsi assimilato ad altra gente; e quando avverte di essere al centro di una scena, sa gestire l’ansia da affollamento umano. Io per questo mi sento leggermente in colpa verso il resto dei suoi simili pazzerelli; mi sento un privilegiato che ha permesso che il problema di suo figlio diventasse per lui una bandiera che lo rendeva riconoscibile e interessante. So bene che non è sempre così; anzi, se ripenso ai tanti ragazzi che in questi ultimi anni ho visto portare in giro come fagotti da nascondere, o dissimulare tra una folla che immediatamente ne intuisce l’ingombro emotivo, mi rattristo. L’autistico ha un’aura di tensione che spazia ben oltre i suoi confini corporei. L’autistico è un iper-ricettore di ogni alterazione emotiva che attraversi gli umani attorno a lui. Se ne impossessa come fosse uno scippatore velocissimo e la rimastica per ributtarla poi fuori amplificata, alterata come un terremoto d’emozioni d’ogni tipo che coinvolge necessariamente chi sta a lui intorno. Questo processo avviene tra le mura domestiche così come in qualsiasi altro luogo affollato e, spesso, ne deriva un gioco di rimbalzi che non è sempre facile gestire. È la ragione per cui molti genitori si fanno scrupolo di esporre i loro ragazzi al rischio di reazioni a catena, fatte di sguardi, atteggiamenti perplessi, a volte irritazione dettata da ignoranza più che da poca sensibilità. Tutto ciò non è facile da mandare giù e alla lunga non ce la si fa più a dovere sempre spiegare, giustificare, informare… Quindi ci si isola. La miglior cura dell’autismo sarebbe costruire percorsi di leggerezza

attraverso l’insopportabile spessore del pensiero neurotipico, che non ammette imprevisti, non ammette sregolatezza, non ammette di dover fare sforzi per comprendere punti di vista laterali rispetto alla fissa monocromia del proprio. Una delle prime iniziative che mi sono ripromesso di portare avanti se mai riuscirò a costruire la mia Insettopia, è proprio quella di tracciare una mappa dei posti e delle persone che sappiano accogliere le famiglie d’autistici senza che esse siano obbligate a spiegarsi. Il primo comandamento di chi voglia fare lo sforzo d’essere autism friendly dovrebbe essere proprio quello di non costringere a spiegare nulla. Un atteggiamento naturale che ho trovato spontaneo nella gente più semplice. Potrebbe essere un commesso di un negozio di scarpe che capisce al volo la situazione e allora comincia a interloquire con Tommy cercando di fare in modo che vinca il suo sospetto verso un paio di scarpe nuove, che non gli danno quel senso di familiarità prima di infilarle che lui si aspetta da ogni scarpa. O un negoziante che, vedendolo entrare, previene la sua richiesta ponendogli nel modo giusto la domanda: «Vuoi questo panino al latte o quello all’olio?». Banalissime attenzioni che a molti esseri umani vengono spontanee, senza bisogno di training specifico, per altri non è così e allora occorre una faticosa opera di formazione. La mia idea è che Insettopia sia una città felice, ma che non debba avere necessariamente un perimetro definito: dovrebbe essere come un albergo diffuso; potrebbe essere ovunque si realizzassero le condizioni perché mio figlio si senta a casa sua. Il tempo corre veloce, lo sento incalzare dietro alle spalle e mi mordicchia i talloni. Per questo vado in giro con Tommy a incontrare persone in cui possa intuire la stoffa di possibili colonizzatori d’Insettopia. Fino a che ce la faccio, non posso permettermi d’invecchiare. Un’amica mi ha detto: «Tommy è la tua medicina per restare giovane», ma so che non è così, o per lo meno non durerà in eterno questa fiammata vitale che mi fa sentire un combattente che oggi copre con l’elmo la canizie, come i compagni d’Enea, ma che prima o poi dovrà fermarsi e mettersi a sedere. Mi piace osservare Tommy l’autistico accanto a me: si comporta da consumato convegnista, perfettamente nel suo ruolo. Pretende di sedersi al mio fianco al tavolo degli oratori, poi se ne resta abbastanza tranquillo,

scarabocchiando un foglio o smanettando sull’iPad e aspetta il momento fatale delle firme. Di solito, a fine presentazione si forma un capannello di persone che si avvicinano per farsi autografare la loro copia. Tommy oramai le firma assieme a me: ci passiamo la copia dove io scrivo la dedica e il mio nome, poi lui ci scrive «Tommaso», con variabile di font e con aggiunta dei disegni più vari quando ne ha voglia, arabeschi e stranezze grafiche che a volte riempiono la pagina in ogni suo spazio bianco. In giorni come quelli, penso che Insettopia sia un clima più che un luogo fisico. Insettopia è ovunque un autistico si senta a suo agio e, di conseguenza, dove si possa anche allentare la tensione perenne dei suoi familiari. Insettopia è uno stato che ogni persona di buona volontà potrebbe contribuire a sostenere. Mi sembra lontanissimo dal mio modo d’essere e da quella che è sempre stata la mia vita scoprirmi a fare tali pensieri: non mi sono mai molto preoccupato di stimolare l’altruismo nel mio prossimo; ho sempre considerato un regalo immeritato ogni attenzione gratuita e immotivata verso di me. Sulle dita di una mano posso contare tutte le persone per cui sento di dover provare sincera ed eterna gratitudine, che nei momenti meno prevedibili mi hanno sostenuto, senza chiedermi nulla, senza che ne ottenessero niente in cambio. Da quando sono diventato un «testimonial» dell’autismo, le persone cui esser grato si sono moltiplicate a dismisura. Ho lavorato almeno a tre progetti (abortiti) d’Insettopia prima di scrivere queste righe, e ancora oggi ci sto riprovando con una community web, visto che le mie capacità d’improvvisarmi palazzinaro non sono sembrate a nessuno sufficienti a prendermi in concreto sul serio. Mi ero illuso che fosse possibile trasformare in un polo specializzato sull’autismo uno dei posti più belli di Roma, il Bioparco. Mi sembrava una fantastica maniera per riconvertire un luogo che ogni giorno di più rischia di diventare antistorico, in un avamposto davvero unico da cui promuovere una «cultura dei ragazzi autistici». Mi avevano detto che all’interno del Bioparco di Roma c’era un’area completamente abbandonata a rischio crollo: si trattava di due fabbricati semicircolari, le famose uccelliere progettate dall’architetto Raffaele De Vico e realizzate tra il 1923 e il 1925, un tempo considerate all’avanguardia per l’impianto di riscaldamento che passava sotto alle gabbie rialzate e che, assieme alla celebre voliera, rappresentavano un esempio di architettura funzionalista.

Con alcuni amici architetti e un manipolo di persone di buona volontà, di quelle di cui poco sopra parlavo, avevamo immaginato una partizione dei due corpi, in aree destinate alle attività, sia ricreative che terapeutiche, dei ragazzi autistici, al loro benessere, alla possibilità di svolgere programmi finalizzati alla realizzazione di manufatti che rendessero gratificante il tempo da loro trascorso nella struttura. In quelle stanze ripiene di sporcizia, guano millenario, avevamo progettato persino una piscina e una piccola spa affinché ai nostri figli non mancasse nulla. Allo stesso tempo questo spazio avrebbe dovuto essere destinato anche ad altre due branche di attività, perché oltre agli operatori fissi impegnati nel progetto ci fosse un continuo turnover di studenti e aspiranti educatori, che potessero così disporre di uno specifico e qualificato percorso formativo alla gestione di soggetti neurodiversi. All’interno della struttura pensavamo potesse poi essere ospitato uno sportello permanente dedicato al supporto delle famiglie. Sia per gli aspetti giuridico-normativi, sia per il sostegno psicologico e la formazione alla miglior gestione dei figli disabili. Avevo trovato grande entusiasmo da parte del direttore del Bioparco, un veterinario dalla barba rossa, che naturalmente aveva legato ogni sua ragione di vita a quel posto. Assieme ai suoi collaboratori c’eravamo inventati un’attività coordinata tra i nostri operatori e quanti già svolgevano attività didattiche sul luogo. Le uccelliere erano state costruite accanto a un museo di storia naturale, e questo poteva permettere un’integrazione con le attività didattiche e di stimolazione all’autonomia. In concerto con la direzione avremmo potuto studiare specifici percorsi che, tenendo conto delle esigenze di sicurezza e tutela del patrimonio naturalistico, potessero comunque consentire attività di relazione e studio ravvicinato degli animali e della natura. Un recupero mirato degli spazi originari avrebbe fatto della nostra città un prototipo di residenza per autistici, un luogo di addestramento all’autonomia in cui condividere alcune regole del vivere che possono poi essere applicate nella propria casa e in altri contesti sociali. Tutto mi sembrava perfetto. Già avevo iniziato a prendere contatti con grosse aziende che lavorano nel settore dell’innovazione tecnologica, immaginavo che le antiche uccelliere avrebbero ospitato un laboratorio permanente per fare occupare in maniera intelligente e costruttiva la giornata

dei nostri ragazzi. Non avevo in mente l’ennesima versione di fanta-autismo, ma un’alternativa follemente rivoluzionaria a quelle strutture d’accoglienza misericordiosa per matti adulti, umbratili e umidicce, intrise di litanie e attraversate da camici ingialliti, che fino a quel momento pensavo essere l’unico approdo possibile per Tommy. Quindi un posto bellissimo, il più bello che esista a Roma: una struttura strappata alla sua destinazione di rudere, un habitat con leoni, elefanti e giraffe da accudire e da respirare come residui di quell’universo di selvaggia natura che gli autistici conservano nella loro memoria biologica molto più di ciascuno di noi. Pensavo a un innesto radicale di tecnologia; avrei voluto creare un prototipo di domotica tra quei mattoncini muschiosi. I ragazzi dovevano essere monitorati e assistiti, senza ricreare un panopticon digitale, ma volevo permettere loro un po’ più di libertà di movimento, senza rinunciare alla loro sicurezza. Guardavo e riguardavo il progetto che ridava vita a quei due fagioloni semicircolari che l’estro di un signore di quasi un secolo fa aveva immaginato come un colpo d’occhio esotico al centro del boschetto di querce piantate dai principi Borghese. Sarà stato meraviglioso quel pullulare di piumaggi colorati e di stridii di foreste lontane che per anni avrà popolato quel luogo d’ingabbiamento. Credo che, da almeno cinquant’anni, gli uccelli siano emigrati nel pallone voliera antistante e quel posto è andato in rovina, divorato dai rampicanti. Nel primo sopralluogo che facemmo mi resi conto che anche il tetto era crollato in più punti e si poteva scorgere il cielo tra il tegolato che sembrava la bocca sdentata di una vecchia. Era facile immaginare che gli uccelli fossero tutti volati via da quelle voragini aperte sull’azzurro. Qualcuno provò a obiettare che forse sarebbe sembrato politicamente scorretto alloggiare dei ragazzi in uno zoo, come fossero animali in gabbia. Me ne ridevo, sapevo che l’operazione era esattamente opposta: trasformavamo un luogo di segregazione di esseri destinati alla libertà in un luogo di libertà per esseri destinati alla segregazione. Nessuno più degli autistici ha già segnato il suo destino di essere rinchiuso, prima o poi, in qualcosa che assomigli a un carcere. Ammassare e rinchiudere costa molto meno in termini di risorse che accompagnare e seguire individualmente. Inoltre, i miei autistici somigliano più che ogni altro umano agli uccelli; gli autistici volano sempre oltre con lo sguardo, il loro orizzonte è sconfinato

rispetto al nostro, si dice che evitino il contatto visivo e, quando lo fanno, sono sicuro che sia solamente perché i nostri occhi sono per loro trappole infami, che li obbligano a riconoscerci come simili, consanguinei, appartenenti a un genere. Sguardi insistenti che vorrebbero costringere creature geneticamente costruite per tendere alla leggerezza e al volo ad ancorarsi a vincoli affettivi, familiari e gerarchici. Naturalmente del progetto non se ne è fatto nulla; ci abbiamo lavorato come matti per un anno, fino a che uno dei più fantastici architetti da me conosciuti, boy-scout, ciclista, dandy e immagino pure donnaiolo (lo spero per lui, almeno), tornò sconsolato da una riunione con due impavide paladine della conservazione dei patrimoni culturali facendomi una sintesi devastante di quell’incontro. Il primo indizio del loro disappunto fu quello di domandare perché avremmo mai preteso di mettere proprio degli autistici in una struttura di un tal valore storico (sta cadendo a pezzi da decenni, sottolineo), lodevole intento, figurarsi… ma con tanti spazi disponibili proprio qui dovete venire? (sottinteso: a romperci le scatole con i vostri disabili…). Fatta la premessa, sono iniziate le contestazioni al progetto, anche se noi eravamo ben consapevoli che l’aspetto esterno dell’edificio dovesse restare immutato, sia nella struttura che nei materiali usati. Sapevamo il fatto nostro e chi di dovere aveva studiato leggi e regolamenti. I problemi nascevano dalla nostra esigenza di dover trasformare quelli che in pratica erano, più o meno, stati pensati come dei pollai in luogo frequentabile da umani, con esigenze fra l’altro molto particolari. Per le due inflessibili sentinelle del rudere non se ne parlava proprio! Le gabbie degli uccelli (ammasso di rete arrugginita) avevano un valore storico e non si potevano toccare (quindi i ragazzi dovevamo immaginarli ingabbiati). Lo stesso discorso valeva per le aperture, alte ottanta centimetri, che servivano per fare transitare gli uccelli più grossi (pavoni e simili) all’esterno, e che noi avevamo invece necessità di ampliare: ci sarebbero dovuti passare i nostri autistici per andare là dove noi pensavamo di creare un orto o una serra per loro. Insomma, gente tipo Tommy, che sfiora il metro e novanta, per uscire all’aperto secondo la maestrina della sovrintendenza, avrebbe dovuto gattonare. Ma le condizioni erano queste. Se a noi andavano bene potevamo (tutto a spese nostre…) sicuramente procedere al restauro conservativo della struttura.

Così non se ne fece nulla, e le nostre belle uccelliere continueranno, fino al crollo fatale, a essere dimore di ratti e ramarri.

IX

I genitori taxisti

C’è sempre in agguato un difensore delle teorie inclusive, che sono perfette ma non sempre possibili. L’inclusione scolastica è un termine che scalda il cuore, tutti noi l’abbiamo desiderata come concreta opportunità per un figlio autistico. Non posso escludere che questo miracolo possa accadere in alcune delle nostre scuole; ho conosciuto eccezionali insegnanti e educatori che si sono seriamente impegnati ad affinare le loro competenze per la concreta inclusione di autistici, spesso difficili da assimilare socialmente, anche e soprattutto perché il loro principale problema è quello di non accorgersi di chi si muove loro intorno. Già in partenza è arduo fare un progetto sul figlio da includere. Chi conosce la materia sa che di autismi ne esistono un numero indefinibile e ogni soggetto andrebbe trattato come un caso unico, o per lo meno ogni intervento richiede una forte percentuale di personalizzazione. E sarebbe un buon risultato trovare una scuola che accolga un autistico con la consapevolezza, anche generica, del tipo di problema con cui si dovrà confrontare. Perché è rarissimo che un insegnante accetti a cuor leggero di farsene carico per la sua parte, il che è anche comprensibile: gli autistici sono imprevedibili, non stanno fermi, hanno una scarsa costanza nell’attenzione. Fra l’altro ogni tanto scalpitano; se nessuno sa come trattare una loro crisi oppositiva, possono anche avere comportamenti aggressivi, verso se stessi e verso gli altri. Tutto si scarica sull’insegnante di sostegno, che non ha una formazione specifica sull’autismo: nel migliore dei casi ci mette buona volontà, ma senza le concrete basi di conoscenza su come si debba trattare uno di questi giovani pazzerelli non può farcela. L’inclusione allora in genere si riduce in un assistente di qualche

cooperativa comunale, che porta il ragazzo a spasso per i corridoi della scuola, in cortile, in palestra, pronto a chiamare a casa se ci sono minimi problemi di gestione. Così mediamente passano gli anni della scuola dell’obbligo. Molti genitori decidono di far ripetere le classi al proprio figlio, e così si tira avanti ancora un po’, senza porsi il problema successivo. Con l’adolescenza, infatti, inizia quella fase in cui l’autistico perderà gradualmente anche la dignità di essere definito tale. Si avvicina per lui la fase del «fantasma», quella in cui tutti i referenti sociosanitari allargheranno le braccia facendo capire che a loro non compete più occuparsene. Per qualcuno ci sono licei agrari, alberghieri, artistici, dove ancora per una manciata di anni il ragazzo viene parcheggiato; e dove a volte passa un tempo sereno, altre meno. Poi arriva la maggiore età e allora davvero scende il buio. Trovate voi qualcuno che possa smentirmi, sarei il primo a esserne felice. Un pomeriggio è arrivata da Marco una foto di Tommy che torna a casa, apparentemente da solo. Era una giornata grigia e piovosa, Tommy camminava sul marciapiede ridotto a pozzanghera, dove si rifletteva la sua gigantesca silhouette. Procedeva guardando come sempre stralunato, l’ombrello aperto appoggiato sulla spalla, esattamente come ricordo lo portavano i pastori che incrociavo per i Monti Sibillini nelle mie passeggiate da ragazzo. Era chiaro che il suo educatore lo seguiva a vista, anche se sempre più a distanza, per dargli la possibilità di misurare l’ambiente, senza essere sempre tenuto per mano come un bambino. Non ho però potuto fare a meno di pensare a quando lui solo lo sarà davvero. Così mi è venuto spontaneo immaginare che potrà servirgli un ombrello bello robusto, se la città continuerà a offrirgli il clima lugubre di una perenne pioggia alla Blade Runner. Ecco, noi dobbiamo pensare sin da ora a qualcosa di più che un ombrello per nostro figlio, prevedendo il giorno in cui attorno a lui ci sarà solo l’indifferenza frettolosa degli altri, che nemmeno lo vedranno lungo le strade di una città a cui lui non appartiene. I più lo attraverseranno come fosse fatto d’aria, altri lo scanseranno contrariati incrociandolo per i marciapiedi limacciosi. Inutile scacciare il pensiero; un autistico adulto, allo stato delle cose, è esattamente questo: un fantasma affogato nell’uggia di un mondo a lui

estraneo, immerso in un autunno perenne, al massimo con un ombrellino da quattro soldi come unica difesa dalle intemperie. Mi sarebbe piaciuto proprio per questo dare un senso diverso al 2 aprile, qualcosa di più di un giorno dedicato alla consapevolezza sull’autismo, che per molti terminerà a mezzanotte con tante belle luminarie blu sui monumenti del passato e ben poche speranze accese per il futuro. Negli ultimi due anni il 2 aprile sono stato chiamato ovunque, ho girato per manifestazioni e convegni come la Madonna Pellegrina. Ho concluso che per nulla al mondo voglio continuare in futuro a sentirmi quel giorno come mio nonno il 4 novembre. Lui era un eroe (a suo dire) di tre guerre, il giorno della vittoria rispolverava le sue medaglie e andava alla sfilata dei reduci, faceva un gran bel discorso con il rigatino blu e il suo medagliere sfavillante (la nonna, la sera prima, lo lucidava con il Sidol e l’ovatta fino a che su quelle facce di re baffoni ci si potesse specchiare), poi tornava a casa e per un anno restava in pantofole. L’unica guerra che mi andrebbe di fare è quella per l’Insettopia degli autistici, del resto mi importa poco. Sono quasi certo che non riuscirò a scrivere questo nome su qualcosa costruito con dei mattoni. Mi basterebbe costruire l’idea di una città dove ci sia cittadinanza anche per i nostri figli autistici. Per molti di noi loro, al momento, sono il necessario pretesto per un estenuante attivismo, che sicuramente ci serve a dare senso alla nostra vita, ma in quale percentuale il fare convegni, tavole rotonde, fiaccolate e flash mob si traduce in concreti servizi per i nostri figli? Quanta felicità riusciamo ad aggiungere alle loro vite quotidiane? Se faccio il bilancio di un anno, i giorni che veramente sento di aver vissuto pienamente per qualcosa che ha fatto felice mio figlio sono quelli in cui l’ho visto sorridere, ballare, andare a cavallo, fare sport, cucinare, nuotare, soprattutto provare la soddisfazione di sbrigarsela da solo e sentirsi dire che è stato bravo. Sono un po’ meno sicuro d’aver fatto qualcosa per lui quando conto il tempo speso in litigate con persone da convincere per avere concessioni per me ovvie, in questue d’attenzione davanti alle porte degli assessori, nei fiumi di parole che ho scritto e detto e ripetuto allo sfinimento, in cui l’autismo è stato sempre il filtro più potente tra me e il resto del mondo. La proposta che non mi stancherò di fare, o almeno spero, sarà di

continuare a cercare le tracce d’Insettopia, che può trovarsi ovunque, sparpagliata tra le strade, e magari non aspetta altro che essere abitata. Prevedo che, ancora per molto, non sarà facile costruire concretamente dalle fondamenta la nostra città ideale; forse resterà per sempre nel paese delle utopie. Sarebbe però già tanto riuscire almeno a segnalare dove si trova qualcosa che le assomigli in giro per il paese. Mi piacerebbe riuscire a tracciare una prima mappa d’Insettopia, creare un network di persone interessate per fissarne le coordinate, e poi andare a visitare, come fecero i primi coloni, i brandelli sparsi della nostra terra promessa, valutare e, se ci piace, spargere la voce così che altri possano venire. Sembrerà esagerato, a chi non conosce il nostro problema, questo incessante desiderio di emigrare in un paese migliore: a differenza di chiunque altro, noi genitori d’autistici non abbiamo in mente terre d’elezione, come per esempio avrebbe potuto essere la Patagonia di Chatwin per le coppie radical-chic qualche anno fa. Noi non abbiamo mai in mente un luogo geograficamente identificabile: abbiamo in mente un insieme di spazi liberi, strutture bellissime, spoglie di mobili e oggetti con spigoli vivi, parti in vetro, pomelli che si svitano, finestre che si aprono sull’abisso. Molti dei nostri figli s’imbizzarriscono nelle nostre case a misura di criceto, spaccano ogni oggetto frammentabile, divelgono stipiti, demoliscono porte e infissi, riducono pareti e pavimenti a un letamaio. Non tutti lo fanno, certo, ma c’è chi lo fa e le Insettopie diffuse devono essere pronte ad accogliere chiunque sia dei nostri. Dal più tranquillo al più turbolento. Anche perché non si trascinino più storie come quella della madre-autista del figlio autistico. Salve, sono una mamma disperata. Ho un figlio autistico di 19 anni e mezzo che non riesco più a gestire (è alto quasi 2 metri e pesa 135 kg). Fino a due anni e mezzo fa riuscivo a fargli fare molte attività; era sereno e tranquillo, un figlio esemplare. Improvvisamente un’ulteriore e progressiva chiusura: non vuole più fare niente tranne andare per ore e ore in macchina, 5-6-7 ore al giorno, ma la cosa peggiore e terribile è che è diventato aggressivo. In macchina picchia e apre lo sportello, ma non sempre riusciamo a capire il perché. Non ho più una vita. Sono praticamente tenuta in ostaggio da lui tutto il tempo tranne quando dorme; ho dovuto lasciare il lavoro, non posso andare da nessuna parte. Cerco DISPERATAMENTE

un posto dignitoso dove possa stare, a Roma o nei dintorni, o anche

fuori regione purché sia più adatto possibile alla sua problematica di autistico. Chissà se un educatore per 5-6 ore al giorno possa aiutarmi e soprattutto aiutare mio figlio? Dove trovarlo? come si fa ad averlo per così tante ore? Sono allo stremo delle forze. Mi sento come una malata terminale. Mi sono rivolta alla Asl, ma non vi dico che posti ho visitato… raccapriccianti. E purtroppo non s’intravede soluzione. Grazie di cuore (lettera firmata)

Questa è una delle tante lettere arrivate i primi giorni che furono messe on line le pagine della Community d’Insettopia. Sintetizza il problema in assoluto più urgente riguardo all’autismo nel nostro paese. Gli autistici crescono. Crescono e diventano sempre più irrequieti, soprattutto se appartengono alle generazioni per cui nessuno aveva ancora in mente quali fossero i sistemi per abilitarli in maniera più efficace. Quando gli autistici non sono più bambini, quindi più facili da gestire e più gratificanti per la risposta che possono dare al terapeuta, scompaiono da ogni attenzione, da ogni progetto, da ogni impegno. Le famiglie che hanno in carico un autistico maggiorenne hanno tutte inesorabilmente provato l’amara esperienza di assistere alla graduale ritirata delle persone che si sono sempre occupate dei loro figli. S’inizia con un’imbarazzante retromarcia, avvertita già durante l’adolescenza del ragazzo, quando viene sempre più spesso sottolineato che oramai è cresciuto, che non potrà più far parte del tal progetto, che si dovrà cominciare a pensare a una sistemazione… A Roma pure per Tommy iniziano a fare questi discorsi, e non dico nemmeno quali sono le soluzioni che ci vengono suggerite, con la stessa frase imbevuta d’ipocrita altruismo: «Altrimenti voi non ce la potete fare!». La proposta è sempre la stessa, una sorta d’internamento in una strutturadeposito di pazienti psichiatrici d’ogni tipo. Esattamente come scrive questa madre disperata. Provate a chiedervi e a chiedere in giro: «Ma dove vanno a finire gli autistici quando diventano adulti? E quando invecchiano?». In giro al massimo ho visto autistici di una quarantina d’anni, li ho visti perché i loro genitori quasi ottantenni ancora riuscivano a occuparsene. È chiaro che, morti quelli, anche il figlio per la società sarà considerato materiale da discarica di esseri umani. Questo è il punto d’arrivo fatale che tutti noi temiamo. Ci illudiamo che sia lontanissimo, ma quando si arriva alla

fase dei genitori-autisti, come questa mamma, che non hanno altra possibilità d’acquietare il loro ragazzone che portarlo, come taxisti, avanti e indietro in macchina per la città, significa che tutti hanno voltato le spalle a quel monoblocco d’amore e sofferenza che è un genitore incatenato a un figlio che lo morde. Sono convinto che, se questo ragazzo fosse stato trattato da professionisti, nei tempi giusti e nelle maniere giuste, oggi non si comporterebbe così. Tutto per questa donna sarebbe meno atroce se qualcuno avesse pensato a organizzare spazi aperti capaci di accoglierlo, di dare a lui una prospettiva quotidiana, di aiutarlo a costruire in tempo la sua dignitosa autonomia dalla madre. Non certo quei surrogati di manicomi in cui le viene consigliato oggi di rinchiuderlo, perché possa liberarsene lei, ma anche la coscienza collettiva, non ponendosi più il problema della sua esistenza. Mi sono chiesto, dopo aver sollevato un bel po’ di clamore su questa vicenda, se qualcuno mai avrebbe risposto alla madre-autista che ci aveva scritto. Speravo veramente ci fosse chi le dicesse che il suo è un caso limite, che le cose non stanno così, che degli operatori specializzati avrebbero pensato a lei come tanti stavano già pensando alle sue «colleghe» che scorrazzano giorno e notte per le nostre città, magari facendo all’infinito lo stesso giro dello stesso isolato, perché è l’unica maniera per evitare che tuo figlio urli, che rompa tutto, che morda, graffi o sferri pugni. Se questo fosse accaduto, avrei cominciato a pensare che Insettopia ce l’avevamo fuori della porta di casa, e non ce ne eravamo mai accorti… Qualcosa, in realtà, poi si è mosso. Anche con la spinta di un gruppo di genitori on line che hanno minacciato una «mailbomb» al comune di Roma, quasi in sordina la madre-autista è stata avvicinata dai servizi sociali cittadini e al figlio è stato trovato un posto per la riabilitazione in una struttura. Aspettiamo con fiducia il giorno in cui non si debba ottenere ascolto solo scatenando campagne mediatiche.

X

Cenerentola al gran ballo di corte

Un giorno del settembre 2013, tra i memorabili della mia recente vita, quella con Tommy attaccato addosso, mi hanno dato un premio, ambitissimo dai miei colleghi giornalisti. Me l’hanno dato per il primo libro scritto su mio figlio. Riceverlo è stato uno dei più bei momenti di cui abbia ricordo. Anche se, per godermelo come si deve, non avrei dovuto avere il problema di Tommy irrequieto a Roma che mi scarnificava il tempo. Il nostro libro era in finale fra altri molto quotati e mi pareva impossibile che qualcuno potesse preferire una storia così strampalata ad autori più blasonati, ma soprattutto a carattere più universale. Come spesso è successo, Tommy è un grimaldello che può all’improvviso aprire porte che sembravano chiuse ermeticamente. Così accadde in quella circostanza: in un palazzo fantastico, seduto sul divanetto di fronte allo schermo collegato con il salone dove stavano discutendo i giurati, seguii assieme a un paio di ragazze che rappresentavano il mio editore le ultime fasi della votazione della giuria popolare, annotando su un foglietto i risultati e, quando fu inequivocabile che avrei vinto, continuavo a chiedermi come mai. Già, come mai il racconto dell’autismo risulta interessante, persino avvincente, ma poi nella società al contrario tutto sembra riaffondare nelle sabbie mobili dell’indifferenza? L’autismo ha una sua perversa attitudine a essere epicamente rappresentato, forse per questo è poi così difficile raccontare in maniera lineare cosa significhi viverlo nel quotidiano. Gli umani non vogliono sentir parlare di autistici, se non per qualche eccezionale evento che li coinvolge o se inseriti in una sceneggiatura che mostri l’autistico come un’esplosione di talento, il personaggio chiave di una pièce drammatica. Niente di tutto questo era presente nel primo libro di Tommy, semplice

racconto della mia vita con lui. Evidentemente bastava l’idea di un autistico protagonista di una qualunque normalissima storia a svegliare interesse; si ritiene forse che gli autistici nella regola siano irraccontabili perché imprigionati in un’unica piatta dimensione, fatta di azioni quotidiane che loro ripetono per tutta la vita, come la passeggiata in tondo dei carcerati nel cortile della prigione. Esseri che si muovono inseguendo le loro stereotipie. Punto dopo punto, fino a formare un cerchio che rappresenta il loro incessante tempo ciclico. Sembrerebbe quindi impossibile il coinvolgimento emotivo alla loro vita da parte dei neurotipici dal tempo ondivago, serpeggiante, multiforme e saltellante. Avevo annunciato in un tweet che, se fosse accaduto di ricevere quel premio, alla vittoria avrei fatto seguire «stupefacenti azioni di dissoluta allegrezza». In realtà, tornai a casa appena possibile e la sera stessa, mentre gli altri finalisti probabilmente festeggiavano in qualche cena di gala, io già stavo sul mio divano con il testone riccioluto di Tommy arrovellato addosso, come accade la maggior parte delle mie serate in questi ultimi anni. Il giorno seguente alla cerimonia di sfarzosissima premiazione nel fantastico teatro cittadino, il quotidiano «La Nuova Ferrara» ospitava in prima pagina la lettera della madre di un ragazzo autistico. Mariella aveva fatto i salti mortali per venire al Teatro comunale ad assistere alla mia premiazione. Ero in platea, mi era costato molto essere lì: ho dovuto organizzare tutto nei minimi particolari, in modo da non creare problemi alla routine quotidiana di mio figlio e di conseguenza della mia «speciale» famiglia. Ho trovato il tempo per fare la doccia, per sistemarmi i capelli, dare lo smalto alle unghie e mi sono addirittura fatta una coccola massaggiandomi con cura la crema per il corpo, tutte cose normali, cose che si fanno quasi quotidianamente, ma non per me, non per «noi» mamme di bambini, ragazzi e adulti con autismo. L’ho fatto con la voglia di esserci e me lo sono potuta permettere perché mio marito mi ha aiutato dandomene la possibilità. Adesso ho le mani che bruciano, provo una gioia che rasenta l’euforia, anche se ho dovuto rinunciare al buffet per tornare a casa, perché «noi» dobbiamo sempre correre a casa. Questa sera sono ancora la mamma di Giangi, ma questa sera sono anche una donna, questa sera mi sento una donna, sono una donna che ha i capelli in ordine e un velo di

trucco e, anche se noi non usciamo a cena perché nostro figlio odia la confusione, io questa sera mi sento Mariella, una donna felice.

La lettera di Mariella alla «Nuova Ferrara» è per me equivalsa a un secondo premio. È la prova che non è stata vana tutta l’angoscia che mi è costata mettere in piazza il mio privato più indicibile. Per una sera ho liberato Mariella dalla sua clausura coatta, l’ho costretta ad agghindarsi, farsi bella, pittarsi le unghie, addirittura mettersi la crema dopodoccia. Nessun’altra donna, che non condivida la cura perenne dei nostri balzani fardelli amorosi, potrà capire cosa ci sia di straordinario in tutto questo. Nessuna, dalla più modesta alla più sfacciata, se può rinuncia alla propria cura femminile: fa parte di quei piccoli gesti quotidiani che gratificano, fanno star bene, riconciliano con qualsiasi avversità dell’esistere quotidiano. Solo alle suore è interdetto farsi belle, ma lo scelgono loro e probabilmente ne hanno in cambio grazia a profusione. Le donne come Mariella, invece, per una legge non scritta, devono, spesso e loro malgrado, accettare di far parte dell’ordine monastico delle madri di ragazzi autistici. A loro è chiesta dedizione totale, incondizionata e perenne alla stregua di vestali custodi di un figlio. Con una strisciante insinuazione, mai completamente sopita, che sia loro la responsabilità di quella stravaganza della natura. Può una donna sentirsi ancora tale quando è impegnata in una maratona massacrante che durerà per tutta la vita? Di sicuro no, perché gli affetti si diluiscono, le passioni si raffreddano, le occasioni di sorridere diventano lussi irraggiungibili. Conosco bene questa situazione delle madri: il loro destino sembra quello di spegnersi dimenticando il legittimo desiderio di piacersi e piacere al resto del mondo. Spesso i maggiori responsabili sono uomini come me che, se restano in casa invece di scappare via, sublimano nell’euforia di una paternità totale ogni residuo del loro essere anche mariti. Invece l’autostima è un diritto sacrosanto, equivale alla felicità di ognuno di noi. Una donna che deve obbligarsi a ignorare la «ricrescita», che non ha tempo di farsi le unghie come le piacerebbe, per la quale è impossibile sentirsi bene con il proprio corpo ben custodito avrà sempre un’ombra luttuosa nel punto più profondo dell’animo, anche se lo nega, anche se dirà che tutto ciò non è importante, perché per lei è più importante che quel figlio fortissimo, ma indifeso, abbia la sua vigilanza sempre assicurata. Ecco perché quando ho

letto la lettera di Mariella mi sono sentito improvvisamente euforico, come se avessi bevuto un Margarita di troppo. Sono riuscito a rapire, anche se solo per un pomeriggio, una delle spose di Barbablù, permettendo che si sentisse tutt’altro che una vittima destinata al sacrificio. Mariella sarà stata come Cenerentola al grande ballo di corte, in quel gran teatro luccicante e pieno di bella gente importante. Con me, quel signore pallidissimo e scarmigliato che si è fatto fotografare sul palco, ma non certo il principe azzurro. Certo poi, cara Mariella, la tua carrozza è tornata a essere una zucca e il tuo bel vestito della festa l’avrai rimesso in naftalina. Consolati, anch’io non ho assaggiato il buffet, avrai notato che, dopo tutti i discorsi dei ministri, dei presidenti, delle autorità, quando sono stato nominato già ero sparito. Mi aspettava un treno che non potevo perdere: dovevo correre a Roma a dare il cambio a mia moglie, una donna più o meno uguale a te. Anch’io avevo fretta di togliermi la giacchetta buona e arrotolarmi le maniche. Io però sono un uomo, ed è diverso, anche se altrettanto duro. Per fortuna io trovo sempre le risorse per consolarmi, uno spiraglio dove infilarmi e ricaricarmi le pile. Sono in qualche modo fortunato, ho un lavoro che spesso mi ricompensa. Ho fatto il giro d’Italia con il libro di Tommy sottobraccio, e se non mi sono crogiolato nel compiacimento è solo per la mia natura nevrotica e incontentabile, e per quel mio figlio che mi obbliga sempre a fuggire di corsa. Ho incontrato folle attente e sensibili, persone ostili e amiche. Contrasti e applausi… Insomma, quanto sarebbe bastato a riempire di gratificazione un’intera vita di tanti miei colleghi; ma io posso vedere il presente solo con la coda dell’occhio, sono grato alla vita, però non posso fermarmi. Per le donne è differente, lo è in partenza: ancora accade spesso che una diagnosi di autismo si trasformi in un processo alla carente vocazione materna, in una ricerca strisciante del segno del diavolo in quella femmina che «sicuramente» avrà stretto qualche patto scellerato con la deprecabile modernità, traccia di quel pensiero deviato che suppone donne non unicamente impegnate nel loro ruolo di nutrici. Quando ripeto questo concetto, si levano alti gli scudi di chi vorrebbe rassicurare il mondo che nessuno pensa più così, che io esagero… Ma fatemi il piacere! Come se non ascoltassi e leggessi tutti i giorni decine di madri che scrivono e raccontano.

Esisterà sempre un professore in camice bianco e con l’aureola di santità che sommessamente lo dice. O una beghina che promuoverà seminari su terapie diadiche e rafforzamento della «sinergia tra l’autistico e la madre». Non a caso le mamme di autistici si portano addosso, spesso per tutta la vita, il peso di questa lettera scarlatta, che le condanna a restare attaccate ai loro ex bambini anche quando diventano giganti forastici, e continuano a tenerseli stretti addosso, nonostante i lividi, i graffi, i morsi e gli schiaffi con cui quelli le ripagano. Rividi Mariella qualche mese dopo, ripassando per la sua città. Era entrata nella dimensione epica d’essere Cenerentola. La mia risposta alla sua lettera, pubblicata, sempre in prima pagina, dalla «Nuova Ferrara», le aveva conferito una patente di rappresentante ufficiale del riscatto dal martirologio materno, e questo pareva l’appagasse. La presi un po’ in giro, la feci diventare rosso fuoco domandandole se si era finalmente decisa a darsi un po’ da fare con qualche gagliardo principe azzurro. Sicuramente le infransi un mito, si sarà domandata dove mai fosse finito quel suo eroe integerrimo di una sera a teatro. Mi spiace per lei, ma ho troppo bisogno di appannare quel mio ruolo di padre modello, che oramai mi fa sentire solo a disagio quando mi capita di dover parlare di ragazzi autistici. Vorrei tanto poter barattare il santino dell’uomo che vive per suo figlio disabile con una di quelle belle divise da padre snaturato, futile e immaturo. Quelle che nei discorsi tra colleghe alla macchinetta del caffè ascolto cucire addosso a tanti uomini che vedo attorno a me vivere alla grande, leggeri e neurodisabilitati.

XI

Un serial killer come compagno di banco

Quando leggo in un titolo di giornale la parola «autistico», come già ho raccontato, di solito metto le mani avanti. Un pomeriggio lanciai da un mio blog una «campagna preventiva» d’attenzione a una notizia che stava circolando con il titolo Bimbo autistico spinge la sorella di tre anni giù dal balcone. Dei colleghi mi avevano chiamato, come «persona informata» sui figlioli autistici, per sentire cosa ne pensassi. La storia, nella sua essenza, era la seguente: «Una bimba di circa tre anni è ricoverata in rianimazione nell’ospedale Santobono di Napoli, dopo essere caduta dal balcone al primo piano della sua casa a Mugnano, piccolo centro a nord di Napoli». La parte che potrebbe ispirare singolarità a questa cruda vicenda è riferita ai primi accertamenti che avrebbero fatto i carabinieri: sembrerebbe infatti che, a spingere la bimba, potrebbe essere stato il fratellino di sette anni, disabile, anzi «autistico», come si puntualizzava nei titoli dei giornali che ho veduto e che mi piacerebbe non vedere più. Qual è la necessità di mettere in risalto il disagio di cui potrebbe soffrire quel bambino? Non è forse una mancanza di rispetto per lui e per la sua famiglia, che immagino avranno già un grande carico di angoscia da dividersi? Avrei accettato quell’«autistico» nel titolo se specificare la sindrome fosse stato una maniera per evidenziare un altro aspetto della vicenda, quello forse più degno di approfondimento. Sembra che la mamma, secondo quanto riferivano persone vicine alla famiglia, avesse più volte chiesto in passato un aiuto ai servizi sociali, un sostegno per lei e il bambino, che in alcune ore della giornata l’aiutasse a gestirlo con più serenità. In questa vicenda è dunque da evidenziare ancora una volta la mancanza di cultura istituzionale sui problemi delle famiglie con autistici; ma quello che

non deve passare con enfasi è che esista un legame fatale tra il disagio del ragazzo autistico e la caduta della sorellina dal balcone o, peggio, che i figli autistici siano, in assoluto, un pericolo per i fratelli minori. Un soggetto autistico non può essere comunque lasciato solo su un balcone, sia che abbia sette anni, sia che ne abbia cinquanta. Per quel che mi riguarda, ho serrature a tutte le finestre, e inferriate dove necessario. Questo per salvaguardare la vita di mio figlio autistico sedicenne che, in ragione della sua sindrome, non ha un’esatta valutazione del pericolo e potrebbe tranquillamente saltare da una finestra, solo perché ha visto Peter Pan farlo in uno dei suoi dvd preferiti. Un bambino autistico può essere pericoloso? Non più di quanto possa esserlo un qualsiasi ragazzino che soffra, per esempio, di gelosia per un fratellino o una sorellina minori; le più banali cronache familiari sono piene di episodi del genere. Per questa ragione, se si voleva evitare un ulteriore dolore a quella famiglia, si sarebbe potuto fare a meno di enfatizzare che il figlio fosse autistico. Si sarebbe risparmiato un pensiero funesto in più anche alle altre decine di migliaia di famiglie che, in tutta Italia, ogni giorno hanno a che fare con un ragazzo di cui, giorno e notte, devono custodire la sopravvivenza, anche, e soprattutto, quando lo vedono avvicinarsi a una finestra o a un balcone. Non molti mesi dopo l’episodio di Mugnano, puntuale un’altra notizia con «autistico» nel titolo, sempre proveniente dallo stesso comune a nord di Napoli. Cambia la tipologia del trattamento giornalistico, ma la location è la stessa. Passa come una storiaccia raccontata per edificare, del genere «genitori senza cuore». Un gruppo di papà e mamme, venuti a conoscenza della presenza nella classe dei loro figli di un ragazzino autistico, va dalla direttrice dell’istituto per chiederle di trasferirli in altre sezioni. Al centro dell’episodio, anche se nessuno aveva fatto il collegamento, c’era lo stesso bambino accusato mesi prima di essere il lanciatore di sorelle dal balcone. Iscritto alla prima elementare, non gli era permesso di condividere il tempo scolastico con gli stessi bambini con cui aveva frequentato la scuola materna. I genitori avevano spiegato che la richiesta di trasferimento dei loro figli era stata dettata da motivazioni «puramente didattiche», niente a che vedere con atti discriminatori: semplicemente temevano che i propri bambini potessero

rimanere indietro con i programmi ministeriali, per stare al passo con il compagno disabile. Ipocrisia duplice e ignoranza abissale… Se le regole dell’inclusione sono ben applicate, nessuno resta indietro; al massimo i compagni di scuola di un disabile faranno l’esperienza, che non guasta, di dedicare qualche briciola del loro tempo al coetaneo con più problemi. Non sarebbe stato male che quei genitori, così preoccupati della didattica di prima elementare, avessero approfittato dell’occasione per spiegare ai loro pargoli che un ragazzo disabile è un problema dell’intera società, non solo di chi ha pescato quel numero alla lotteria dei figlioli fuori standard; insomma, che sarebbe stato civile e gratificante per loro prenderlo tutti in carico in minima parte e non ritenere che fosse un disagio destinato solo alla sua famiglia. In realtà, il paese era piccolo e tutti avevano letto mesi prima la storia dell’incidente del balcone. Si aggiunga pure che, se è vero che il bambino non era stato sufficientemente seguito dai servizi sociali, è probabile che fosse oppositivo, magari a volte violento. Quanto bastava per procurargli un futuro da incubo, dopo essere stato già bollato come un potenziale serial killer. Passano pochi mesi ancora e la stessa scena si ripete a Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza; anche qui alcuni genitori, al momento della preiscrizione alla scuola elementare, chiedono che venga cambiata classe ai propri figli per evitare la «convivenza» con una bambina autistica. La mamma della bambina, ampiamente intervistata, afferma: «Purtroppo nostra figlia è trattata in modo diverso dalle altre bambine perché autistica. Qualcuno, pur non conoscendo cosa significa essere autistici, preferisce allontanare i propri figli dalla nostra piccola». Alcuni genitori si allarmano perché quella bambina potrebbe capitare nella stessa classe dei loro figli, anche se non la conoscono; il suo disturbo non pregiudica assolutamente la convivenza con gli altri coetanei, alla scuola dell’infanzia le maestre hanno insegnato ai bambini a giocare e collaborare con lei, ed era proprio lei stessa a coccolare i suoi amici quando piangevano. Sempre sua madre racconta un episodio ancora più triste accaduto l’anno precedente, sintomatico di un atteggiamento tanto diffuso quanto sommerso nei confronti degli autistici: «Avevamo trovato una casa in affitto a piano terra, esente da ogni pericolo e che si adattava alle esigenze di nostra figlia. Alla bambina era subito piaciuta, tanto che ci trasmetteva emozioni, cantava

ed era felice. Dopo averla imbiancata e messa in ordine, ci hanno detto che dovevamo lasciarla perché la bambina poteva dare fastidio agli inquilini di sopra. Quando l’abbiamo dovuta lasciare, la piccola è caduta in depressione. Per fortuna abbiamo trovato un’altra casa in un condominio accogliente con la gioia di tutti gli inquilini. Nessuno si lamenta, tutti le vogliono bene e nessuno si manifesta freddo o indifferente». Questo non è un caso isolato. Un’amica di famiglia, con una ragazzona «collega» di cavallo e rugby di Tommy, ci ha raccontato di essere stata anche lei costretta a traslocare, perché il suo buon vicinato non perdeva occasione di protestare per la presenza della figlia. Piccoli e banali incidenti come mollette gettate dal balcone, che si sarebbero perdonati a qualunque altro bambino, nel caso dell’autistica diventavano sintomi di possibili escalation delinquenziali. C’eravamo illusi che ragazzi come i nostri avessero reale possibilità di non essere destinati per la raccolta differenziata, al contenitore «diversi». Invece ci stiamo accorgendo, da segnali sempre più insistenti, che da una parte hanno l’obbligo ideologico di considerarsi teoricamente «inclusi», dall’altra soffrono per l’assenza di chi sappia garantire una loro vera inclusione. A scuola l’autistico necessita di un educatore «specializzato». Non bastano la buona volontà, la dedizione, e nemmeno quello che chiamano spirito di servizio. E non è giusto sperare nelle virtù eroiche degli altri compagni. Servono strumenti reali, scientifici ed efficaci. Occorrono persone formate e per questo giustamente pagate. Non sono sufficienti la buona intenzione, o rinchiudere «il problema» nel tempo parallelo delle passeggiatine nei corridoi e dei fogli da colorare. Non è che l’autistico sia un violento o un sadico: semplicemente non ha altre maniere per reagire all’ansia continua che lo soffoca nelle mille situazioni in cui non gli è possibile esprimere il suo terrore, il suo disagio, la sua angoscia divorante. Tommy, nel suo primo anno di liceo artistico, ha completamente cambiato il suo atteggiamento verso la scuola. Fino al termine delle scuole medie era palese che si sentisse un pacco appoggiato per qualche ora in un luogo a lui estraneo. Passati i primi mesi di assestamento al liceo, invece, ci rendiamo tutti conto che alla mattina non vede l’ora di uscire di casa per andare a scuola. La routine del pulmino giallo che lo aspetta gli permette di assecondare le sue necessità di ritualizzare il tempo. Saluta l’accompagnatore

che lo aspetta al portone di casa, apre lo sportello dello scuolabus, sale e si allaccia la cintura di sicurezza, l’autista gli fa ascoltare della musica, a volte si mette a cantare (a modo suo). Questo avviene ogni mattina, e ogni mattina lui ha così la sicurezza che arriverà la sera senza imprevisti. La sua grande conquista è che ora pretende di stare in classe: non vuole più uscire durante le ore di lezione; vuole fare esattamente quello che fanno gli altri. Ha avuto due insegnanti di sostegno completamente a digiuno di ragazzi autistici. Lo ha però seguito per noi Sigi, una psicologa che destina le tre ore a settimana di terapia che la Regione Lazio paga per Tommy ad aiutare i professori a conoscerlo e di conseguenza a imparare come si lavora con un ragazzo autistico. Grazie a questo Tommy non è più un caso clinico. È bastato poco: buona volontà e collaborazione. Sigi ci comunica ogni suo progresso via WhatsApp; durante un compito in classe d’italiano, per esempio, Tommy ha preteso pure lui di avere un foglio, dove ha scritto tutte le parole che conosce, ha chiamato la professoressa di lettere e ha detto: «Professoressa guarda!». Ha letto tutte le parole, anche se non avevano senso compiuto, con grande felicità. Un’altra volta ha «invitato» la sua compagna di classe Rebecca a prendere un gelato, le ha fatto un disegno che raffigurava lui, lei e dei gelati e ha detto: «Tommaso, Rebecca, gelato». Solo piccole cose, come si vede: cose ridicole per chi considera un figlio sedicenne nella norma. Ma enormi soddisfazioni, che commuovono quasi alle lacrime, per chi vive ogni giorno nel timore di ricevere una telefonata che chiede il tuo intervento immediato perché quel «tuo» ragazzo ha fatto qualcosa che la scuola non riesce a gestire. In ogni caso, a ogni inizio di anno scolastico si ricomincia tutto da capo: si coltiva fino all’ultimo giorno la speranza che il proprio figlio possa avere gli stessi insegnanti di sostegno dell’anno prima, a cui si era già abituato e che lo avevano capito e sapevano come trattarlo. Potrebbe anche essere, però, che cambino, e allora bisogna di nuovo spiegare, parlare, cercare di far capire. Per Tommy il secondo anno di liceo significherà -4: quindi si avvicina sempre più il giorno in cui non sapremo nemmeno dove mandarlo la mattina, e saranno davvero dolori. Mi capita di scambiare due parole con una «collega» bellissima e triste di cui sono diventato amico. È angosciata per quando il figlio, poco più grande di Tommy, dovrà tornare a scuola a settembre: «Quest’anno me lo

promuovono, mannaggia...». Io non capisco il suo disappunto… «Passerà all’ultimo anno. Poi che succederà? Se lo bocciassero, almeno avrei altri dodici mesi di tempo.» Questa è la scuola, per noi genitori d’autistici oggi in Italia, in mancanza di strutture adeguate: una maniera per non pensarci, per diluire e procrastinare il problema dei problemi. Ancora un anno parcheggiato, comunque vada, è sempre meglio che svegliarsi ogni mattina con l’incubo di averlo incollato in casa tutto il giorno.

XII

Aguzzine di sostegno

Un giorno ha incominciato a girare in rete il video delle torture che due insegnanti infliggevano a un ragazzo autistico di cui si occupavano. Un fattaccio orribile, avvenuto in una scuola media del comune di Barbarano, nel Vicentino. Le immagini erano di una crudezza inaudita: sembra senza umana spiegazione una violenza così accanita e crudele contro un ragazzo quattordicenne, totalmente indifeso, incapace di qualsiasi reazione. Io avevo seguito vari mesi prima tutta quella vicenda, anzi sono forse il maggior responsabile del fatto che abbia avuto un respiro nazionale. A darne la notizia a livello locale era stata una brava cronista di un giornale on line, che per prima aveva tirato fuori e approfondito il caso. Il ragazzo vittima delle due aguzzine era un autistico dell’età di Tommy, e anche più o meno allo stesso livello nello spettro dell’autismo, quindi non verbale. Il padre era un uomo semplice, separato dalla moglie, che credo vivesse con il figlio aiutato da una badante nella cura del ragazzo. Da qualche tempo si era accorto che qualcosa non andava: il figlio, oltre a dare segnali di insofferenza per la scuola, spesso tornava a casa con lividi e segni di percosse. Il ragazzo, non potendo parlare per il suo grado di disabilità, non poteva riferire la situazione che era costretto a subire a scuola, l’ambiente in cui si sarebbe dovuto sentire più protetto; ma i segni che si portava addosso avevano insospettito la famiglia, così un giorno il padre, dopo averlo accompagnato in ospedale, aveva chiesto conto alle insegnanti delle lesioni, ricevendo solamente risposte sdegnate e indignate. Lui era uomo semplice, come ho detto, ma non sprovveduto, e ha fatto quello che raramente si fa in questi casi: si è rivolto ai carabinieri. La denuncia è finita nelle mani di un bravo magistrato che ha subito provveduto a far mettere sotto sorveglianza la classe. Con discrezione, i

carabinieri hanno piazzato ovunque telecamere e microfoni, anche sul corpo del ragazzo, e si sono poi messi a sorvegliare dai monitor quello che accadeva nell’aula, dove il ragazzo restava solo con l’insegnante di sostegno e un’assistente che proveniva da una cooperativa sociale. Il carabiniere che ha coordinato l’operazione mi ha raccontato che i suoi uomini non sono riusciti a far durare l’attività d’intercettazione per tutto il tempo che richiedeva la prassi: sono intervenuti dopo quattro giorni tanto era atroce quello che stavano vedendo. Sono stati sequestrati una bacchetta di legno, un righello, delle forbici, usati contro il giovane dalla sua insegnante di sostegno e dall’assistente che avrebbero dovuto occuparsi della sua quotidiana terapia abilitativa. Gli stessi investigatori hanno definito «insopportabili» le scene di vere e proprie sevizie che sono stati costretti a visionare durante le ore e ore di registrazione audio e video, necessarie per provare la sistematicità delle violenze. I filmati, solo mesi dopo pubblicati su YouTube, mostrano le fasi dell’irruzione in aula e dell’arresto delle due megere. Sembra veramente un film del genere Hostel, nella fase salvifica in cui la polizia irrompe nella sala del supplizio e libera la vittima dal sadico che la stava torturando. Il ragazzo veniva sistematicamente umiliato, picchiato, insultato. Mi hanno detto che lo colpivano con il righello e con le forbici. Aveva ematomi e lesioni su tutto il corpo, alla testa e persino sui genitali. Nessuno poteva capacitarsi del disprezzo cosmico che le due donne esprimevano verso di lui. Le due insegnanti sono state arrestate, le foto segnaletiche uscite sui giornali mostravano i volti anonimi di due signore tra i cinquanta e i sessant’anni, con i capelli grigi e l’aspetto da tranquille massaie, che potrebbe incontrare chiunque per i marciapiedi di una qualsiasi delle nostre città, i nipotini accanto e il carrellino della spesa da cui escono i gambi di sedano e il cavolfiore incartato. Invece sono state colte in flagranza di maltrattamento dai carabinieri, probabilmente in azioni scellerate così inequivocabili da far scattare subito le manette. Da quanto risulta dalle agenzie di stampa, una volta che il caso era esploso, la preside dell’istituto si era detta «profondamente stupita» dall’esecuzione del provvedimento cautelare, aggiungendo che solo all’arrivo degli investigatori aveva appreso della vicenda. Chiaramente la scuola si tirava fuori da ogni responsabilità su quanto accaduto. E quando andai a Vicenza

qualche giorno dopo, invitato a un dibattito, il mio stupore crebbe vertiginosamente. Il sindaco della città, come forma di riparazione pubblica per quel fatto, aveva messo a disposizione la più bella sala palladiana del Comune. Era presente molta gente e molti furono gli applausi. Conobbi il padre, la badante del ragazzo e tanti altri genitori. Notai, però, che della scuola non era intervenuto nessuno; mi informarono che non c’era nemmeno un insegnante, nemmeno un compagno di classe. Tanto meno la preside si era presa la briga di mostrarsi. Segno tristissimo della volontà di mantenere la sua posizione, e quasi un tacito sostegno alle insegnanti. Mi sembrò chiaro che quell’episodio non aveva indignato nessuno tra i più diretti testimoni del quotidiano scolastico di quel ragazzo, non al punto di esprimere di persona la propria solidarietà a quella famiglia così crudelmente provata. In realtà ciò non deve stupire; sono queste le occasioni in cui si può monitorare la spietatezza che solo l’ignoranza e il pregiudizio nei confronti della malattia mentale possono produrre. Qualcosa di profondo e radicato nell’umanità mediamente benpensante – e nemmeno crudele d’istinto, voglio immaginare – porta ancora a ritenere che una persona con problemi così evidenti di relazione non dovrebbe mettere a cimento il resto della collettività, ma dovrebbe piuttosto stare in un posto adeguato al suo status e fra persone che gestiscano la sua segregazione. È l’impressione che io colgo sempre anche dietro agli sguardi, ai mezzi sorrisi, alle parole dette a bocca stretta di tanta umanità che attraverso con Tommy stretto al mio fianco. Il sottinteso è pesante, ma difficilmente equivocabile: «Abbiamo tanta comprensione, ma che possiamo fare? È la tua croce e sbrigatela da solo, anzi evita di guastarci l’umore sbattendo sul muro che quel tuo figliolo ha costruito tra lui e il resto del mondo». L’esito di questa condotta diventa devastante se tracima, goccia dopo goccia, anche in un operatore a cui l’autistico è affidato. Costui si sentirà professionalmente e umanamente frustrato e penserà, nella sua abissale ignoranza, che quel ragazzo lo stia provocando, in realtà il suo è tutto un atteggiamento… Così, giorno dopo giorno, cresce la voglia di vendetta che, su un soggetto totalmente inerme, può sfociare in violenza accecante. Ho visto episodi simili ai pestaggi delle maestre vicentine in altri video girati con telecamere nascoste da varie forze dell’ordine e mostrati ai telegiornali, che

raccontano di blitz fatti in ospizi, case di riposo, asili nido e scuole materne, o ancora una volta istituti per malati psichiatrici. In tutti i casi si nota un accanimento mirato verso chi è meno capace di reagire, condiviso e accettato come regola di gruppo dal personale di assistenza. Nessuno si sottrae, tutti sono complici, altrimenti il sistema non reggerebbe. La deduzione più ovvia è, in primo luogo, che degli autistici si debbano occupare operatori specializzati sulla sindrome, non generici assistenti. Comunque siano andate le cose nella scuola vicentina, se le terapie abilitative dell’autistico fossero state affidate a personale accuratamente formato, di certo nulla del genere sarebbe potuto accadere. Nell’infinita tristezza che suscita questo episodio, c’è almeno da augurarsi che sia motivo di stimolo a uscire dall’arretratezza culturale con cui ancora, in gran parte del nostro paese, l’argomento autismo è affrontato. Quel ragazzo era sottoposto a vera violenza fisica perché colpevole di essere affetto da un disturbo del comportamento, che solo operatori ignoranti possono scambiare per indisciplina. Nella stessa indagine è stata denunciata anche una bidella: nel monitoraggio degli investigatori la si vede avvicinarsi alla vittima e, come facevano le due insegnanti, picchiarla senza motivo. Tutto questo è avvenuto apparentemente senza alcuna ragione e logica. L’avvocato dell’insegnante di sostegno dopo l’arresto ha detto di aver consigliato alla donna di «parlare, spiegare, confessare tutto», e ha dichiarato a un’agenzia che la sua assistita era molto provata: «Si rende conto di aver travalicato, ma dice di essere stata esasperata da quel ragazzo. Un caso limite, che evidentemente l’ha travolta». Su questa ultima frase vale la pena di soffermarsi: il «caso limite» aveva probabilmente, come molti autistici, delle crisi oppositive, non obbediva docilmente alle indicazioni degli insegnanti, magari urlava, non voleva muoversi, si graffiava o tentava di graffiare o colpire le persone accanto a lui… Si tratta dei tipici «comportamenti problema» che ogni genitore o educatore preparato per trattare i soggetti autistici sa come smorzare sul nascere, o gestire nella migliore delle maniere. Il dramma è che a persone senza questo tipo di formazione vengano affidati ragazzi dall’equilibrio molto precario e soprattutto condizionato dalla serenità di chi sta loro accanto. Nessuno più di un autistico percepisce l’ansia di chi a lui si rapporta; quando

avverte un atteggiamento insicuro, o peggio ostile, il sintomo del suo malessere si centuplica e diventa difficile gestirne l’escalation. È proprio quello che è accaduto in famiglia quando Tommy per la prima volta ha fatto seriamente male a sua madre incrinandole una costola. Mi ricordo che mia moglie piangeva come una fontana, non tanto per il dolore fisico, ma per quell’atroce senso di frustrazione che immagino possa sentire una madre quando deve subire un atto violento da chi tutta la vita continuerà a vedere come «il suo bambino». Noi padri siamo più coriacei e mitologicamente avvezzi a banchettare con i nostri figli quando cominciano a rivaleggiare con noi. Per questo, forse, alla fine il padre diventa un buon alleato del figlio solo dopo essersi robustamente misurato con lui sul piano del confronto fisico; un autistico, nell’esplodere del suo furore d’adolescente, ci permette di conquistarci il nostro rango di capobranco, almeno fino a che ce la facciamo a sopraffarlo. Ricordo con esattezza il giorno in cui riuscii a contenere Tommy, che si era bello imbizzarrito, fino a che cominciò a urlare «aiuto», la sua parola universale multisignificato, ma che mai come in quel caso aveva un significato inequivocabile: «Sì, tu sei mio padre e sei più forte di me, quindi ti darò ascolto». Da quella volta è sempre stato docilissimo con me. Forse per un po’ sono riuscito a domarlo. È tutt’altra cosa dalla violenza, però: è un percorso di riappropriazione della paternità in un’epoca storica nella quale essere padri è puramente una convenzione sociale, non costa nessuna fatica, è un gadget, chiunque può esserlo, anzi chiunque ambisce a esserlo, basta avere un foglio che te ne riconosca il diritto, come un’expertise capace di rendere opera di valore qualunque crosta da televendita d’arte. L’estraneo che deve occuparsi di un soggetto autistico non deve recuperare nessun ruolo, deve solo conoscere bene il proprio mestiere. L’autistico può avere comportamenti problematici da gestire, ma non per chi ha studiato come assisterlo e ha esperienza di autismo. Chi si occupa di questi particolari ragazzi disabili come fosse un qualsiasi lavoro impiegatizio non può che entrare in crisi ed «esasperarsi», proprio come l’insegnante di Vicenza. Mi racconta Marco che in passato era chiamato a gestire casi disperati: famiglie intere, nonna compresa, asserragliate in una stanza perché il gigante imbizzarrito era capace di divellere gli stipiti delle porte e distruggere

sistematicamente ogni suppellettile della casa in momenti di sua forte «agitazione». Sono casi estremi, ma accadono più frequentemente di quanto si creda. Marco passa per uno dei migliori «ammansitori» d’autistici che giri per la Capitale, e si consideri che peserà massimo sessanta chili e a Tommy arriva poco più su del gomito. Se un ragazzo che certamente non è un colosso di muscoli riesce a tranquillizzare soggetti considerati indomabili, significa che esiste un metodo. Non mi va di fare qui dissertazioni di tipo tecnico e non voglio assolutamente improvvisarmi nel ruolo di padre esperto d’autismo e suoi derivati. Osservo soltanto, e deduco, che può gestire gli autistici solo chi ha studiato per farlo nelle maniere giuste e validate per quel tipo d’intervento. Oltre questo, ci sono unicamente gli sciamani e i cialtroni. Il caso di Vicenza dovrebbe essere l’occasione per una riflessione molto più ampia sulla demonizzazione della categoria degli insegnanti di sostegno: anche sul loro disagio si dovrebbe intervenire; in moltissimi sono mossi da ottime intenzioni, ma devono scontrarsi con scarsità di risorse e referenti inadeguati per svolgere serenamente e proficuamente il loro lavoro. Dato per certo che gli autistici non si educhino a colpi di forbici, la possibilità che gli insegnanti possano mortificare il suo figlio speciale è uno dei pensieri costanti del genitore di un disabile. E non sarà certo il risarcimento pecuniario cui sono state condannate le aguzzine di Vicenza a darci l’idea di una giustizia vigile su questo problema. Non mi stupisce che le televisioni nazionali abbiano iniziato a interessarsi del caso molto tempo dopo che era accaduto: per loro è diventato interessante solo con la prova video, perché così si poteva finalmente fare della bella tv del raccapriccio. La cosa che più mi ha fatto provare amarezza è stato il totale oblio sulla vicenda, quasi ci fosse un imbarazzo generale che tendesse a rimuovere l’idea che un’insegnante di sostegno potesse diventare l’aguzzina di un ragazzo a lei affidato. Anche quando mesi dopo una storiaccia simile si ripresentò a Roma, non mi pare che ci sia stato qualcuno che abbia messo in relazione i due fatti: eppure lo schema sembrava combaciare, c’era un bambino autistico e un’insegnante che (nell’omertà della scuola) lo mortificava crudelmente, e per questo fu anche lei arrestata. La madre del bambino la conosco, è una donna molto impegnata nell’associazionismo e quindi preparata sull’autismo, non soltanto per esperienza personale. Era ancora allibita per l’accaduto e non riusciva a darsi spiegazioni di una

crudeltà così ottusa e ingiustificata, soprattutto dell’indifferenza generale in cui si era prodotta. Sarebbe necessario sollevare un dibattito più articolato del semplice sdegno su quanto è accaduto. So con certezza che sono molti ancora i casi in cui ragazzi disabili diventano vittime delle persone a cui la famiglia li affida, con fiducia e speranza di sollievo. Sempre più spesso, dietro il silenzio e la reticenza generale, qualcuno mi segnala episodi simili. È successo a Chiavari, dove ho parlato di autismo ad almeno duecento persone per due ore; solo alla fine ho saputo che, proprio in quella città, un anno prima, due insegnanti di sostegno erano stati rinviati a giudizio con l’accusa di maltrattamenti, abusi sessuali e corruzione di minore nei confronti di sette allievi disabili. Ancora più male mi fanno i racconti a mezza voce, senza riferimenti precisi, senza nomi e luoghi identificabili, ma con particolari identici a questi casi spuntati nelle cronache locali, mai sufficienti a suscitare una riflessione coraggiosa su quanto ci sia di ipocrita, imbarazzante e non risolto dietro ai termini «inclusione» e «sostegno», con i quali oggi tutti si riempiono la bocca. Non mi stanco di ripeterlo: degli autistici deve occuparsi chi ha strumenti professionali e umani che lo abilitino a farlo. Un autistico, soprattutto adolescente, non potrà mai essere affidato alle mani di una persona incompetente riguardo alla sua patologia, senza avere giustificati motivi di timore. Non voglio entrare nel merito della crudeltà, ma l’ignoranza professionale delle due signore di Vicenza è palese. Gli autistici non sono soggetti qualunque: per trattarli serve aver studiato, ma anche aggiornarsi di continuo. Con quale coscienza invece è stato affidato dalla scuola un ragazzo autistico quattordicenne a due persone così palesemente sprovviste delle cognizioni basilari sui suoi bisogni e le sue problematiche? Chi ha stabilito che le due donne avessero i titoli per occuparsi del ragazzo? Chi doveva sapere cosa accadesse in quello stanzino che chiamavano «aula di sostegno» con evidente paradosso? Chi ha evitato di approfondire quando il padre si lamentava che il ragazzo fosse pieno di lividi e ferite? Se persino la bidella ogni tanto partecipava al «programma educativo», le altre insegnanti cosa facevano? In realtà, il problema non si pone solo per gli autistici, ma per ogni tipo di disagio e handicap. Mi scrive un’insegnante:

Lavoro da diversi anni nelle scuole e, anche se mi è capitato di lavorare con colleghi di sostegno preparati e bravissimi, resta che altri non lo sono affatto. Capita spesso che accettino cattedre di sostegno insegnanti che hanno pochissima esperienza, non conoscono le patologie specifiche, o fanno sostegno solo per quell’anno, mentre normalmente insegnano altre materie. A queste persone vengono affidati ragazzi con patologie spesso gravi, e che si ritrovano a essere seguiti da persone che, per quanto magari volenterose, non sanno minimamente cosa fare. E anche noi insegnanti di classe siamo spesso spiazzati, perché quando il collega di sostegno non c’è rimaniamo per ore soli, con un ragazzo in classe che ha bisogno di aiuto specifico da parte nostra, ma che noi non riusciamo a seguire come dovremmo perché ne abbiamo altri venti o trenta da controllare. Per alcuni ragazzi, invece, ci vorrebbe davvero un ambiente tranquillo, con insegnanti preparati e in grado di capire i loro bisogni e preparare per loro un programma che consentisse di sviluppare le loro potenzialità. Invece non c’è e loro rimangono stritolati nella morsa. E noi con loro, perché non sappiamo come aiutarli davvero.

Manca totalmente nel nostro paese un vero aggregatore di senso e di cultura sull’autismo. Il problema dell’autismo non potrà mai essere affrontato in modo costruttivo, se prima non si riesce a consolidare il principio che l’autistico ha diritto di vivere completamente ogni fase della sua vita. Vegliare perché questo accada nei termini corretti è un dovere per ogni operatore scolastico, nessuno escluso. Tutto quello che non sarà dato a un autistico negli anni della formazione – per infingardaggine, ignoranza, disimpegno generalizzato –, si accumulerà anno dopo anno, maturando sempre più onerosi interessi, fino a diventare un debito gravoso che dovrà pagare tutta la società. Con questa riflessione vorrei rispondere a tutti quanti i genitori che mi rinfacciano di voler proporre con Insettopia un modello di segregazione. Molte di queste obiezioni, quando non ispirate da cattiva fede, provengono dal totale disorientamento in cui si trova la maggior parte delle famiglie di autistici in Italia. Non è davvero facile immaginare soluzioni sensate per i propri figli, quando si è sopraffatti dalla difficile gestione del quotidiano, fatta di contrattempi, di incomprensioni, di interlocutori sempre troppo distratti per convincerci di avere veramente intenzione di adoperarsi per assicurare anche solo la dose minima di felicità possibile ai nostri ragazzi.

XIII

La grande cavalcata

Alla fine di settembre 2013 mi sono deciso a partire con Tommy per un’impresa folle, ideata da un gruppo di padri di autistici che si sono associati sotto la sigla poetica «L’emozione non ha voce» e organizzano fantasiose attività, oltre che per i figli, anche per gli altri: una delle rare realtà dove i nostri ragazzi speciali sono veramente felici. Da quando ha iniziato a trascorrere del tempo con loro, infatti, Tommy si sente parte di un gruppo di amici, alcuni pazzerelli come lui, altri meno, altri più simili ai «normali», almeno all’apparenza. Ha imparato a fare il muratore (per qualche mese è stato impegnato a costruire assieme agli altri una chiesetta), ad ammucchiarsi in una squadra di rugby, a fare i tuffi, e sta seriamente iniziando a gestire un cavallo in autonomia. Quella volta si erano incaponiti che avremmo potuto portare i nostri ragazzi a cavallo per boschi per tutta una settimana, percorrendo in sella cento chilometri, dall’alta Sabina all’Umbria meridionale. Volevano rievocare l’epica impresa di Lucio Battisti e Mogol, che hanno ispirato il nome dell’associazione e che negli anni Settanta fecero a cavallo un viaggio da Milano a Roma. Andai perché mi fidavo di loro da quando avevo scoperto che organizzavano attività, oltre che per i figli, anche per gli altri coetanei autistici. Feci bene a prendere la decisione di partecipare alla «grande cavalcata» assieme a un’altra decina di ragazzi autistici (fra cui tre erano ragazze, per la precisione) con i loro accompagnatori. Fu per me una settimana indimenticabile. Tornai ad assaporare quella bella campagna che mi aveva allevato e cresciuto per i primi vent’anni della mia vita, emozione che non avevo mai più provato, salvo quando mi capitava di rivivere in sogno qualche

lampo della mia età giovanile, tornando a correre tra grano mietuto, profumo di gambo spinoso di pomodoro, uva pestata e strame di vacca. Il mio primo pensiero al ritorno è stato quello che fossi partito da casa con Tommy ancora bambino, per tornare una settimana dopo che era diventato un uomo. Intendo dire che, grazie a questa esperienza, ho capito che per me era oramai evaporato per sempre il pensiero che fosse un essere fragile da proteggere, un concetto che accompagna tutti i genitori, ma che se perdura troppo oltre nel tempo non ci fa ammettere che il figlio sia cresciuto. Con gli autistici è ancora più complicato: crescono spesso soltanto di stazza fisica ma, per come si comportano, continuiamo a percepirli come fossero destinati a un’eterna fanciullezza. Del passaggio di Tommasone al mondo degli uomini sono stato invece certo: è accaduto dopo una giornata in cui non lo avevo seguito passo passo perché era un tratto particolarmente lungo, di quelli in cui il convoglio che trasportava le masserizie non aveva potuto fare la stessa strada dei cavalli, impraticabile per i mezzi a motore. L’ho raggiunto solo a tardo pomeriggio e l’ho trovato che dormiva, sudato e puzzolente, sopra un mucchio di fieno, con la sella che gli faceva da cuscino, dopo aver cavalcato per più di sei ore assieme ai suoi amici, autistici come lui. Era stato accompagnato da persone estranee alle sue abituali frequentazioni familiari, eppure stava come un fiore. Io quel giorno per lui non c’ero. Non gli ero stato attaccato per tutto il tempo, per dargli una manata ogni tanto, per porgergli la bottiglietta d’acqua, per mandargli un saluto e chiedergli come stesse. L’avevo lasciato andare, e ce l’aveva fatta anche da solo. Erano quasi le cinque e ancora doveva mangiare; faceva un caldo infernale, accanto a lui e agli amici spossati c’erano maiali, galline, mucche e altri animali che sguazzavano nel loro letame; Tommy era indifferente a tutto, come se quello fosse da sempre il suo habitat. Si riposava, perché era giusto che lo facesse, ma senza lamentarsi; non chiedeva nulla: aspettava che, rifocillati i cavalli, qualcuno facesse infine girare i panini fra i «cavalieri». Dove erano finite le penne rigate, l’unica pasta che sembrava possibile cucinargli? Dove era finito il sughetto filtrato e senza pellicine che gli preparavamo come unico condimento che sembrava tollerasse? Dove l’abitudine di stravaccarsi sul divano all’ora dei Simpson? E il suo cuscino? Il

suo letto ultradimensionato? L’aria condizionata nella cameretta? L’iPad sempre pronto, sennò guai… chissà cosa potrebbe succedere… Soprattutto dove erano finite le crisi oppositive, se qualcuno (che non fossi io) lo avesse contraddetto? Quel saltare a perdifiato, il mangiarsi le mani, il graffiare, mordere e menare? Sembrava improvvisamente tutto appartenere a un passato lontano. Non m’illusi certo che fosse guarito dall’essere autistico, con i problemi che ne conseguono; sapevo bene che molto di tutto questo sarebbe poi a poco a poco tornato a far parte del mio quotidiano. Ebbi solo la certezza che Tommy non dovesse mai più essere trattato come un bambino. Naturalmente, a distanza di qualche giorno, mi sono di nuovo trovato a dover rispondere all’insopportabile domanda: «Cosa facciamo fare oggi a Tommy? Chi può occuparsene? Lo porti tu a fare una passeggiatina? Lo porto io in studio? Oggi lo mandiamo a prendere il gelato?». Ordinarie domande che si pone ogni giorno chiunque abbia in casa un autistico e si preoccupi che non si faccia male, non si innervosisca, che il suo tempo sia il meno atroce possibile. Era però cambiata in me la considerazione verso Tommy. Finalmente si era imposto al mio pensiero costante come un essere adulto, creandomi, certo, nuovi problemi e ben più funesti pensieri, ma con la consapevolezza che questa fosse una necessaria e naturale fase del mio rapporto con lui. Non so quanti padri di ragazzi «nella norma» saranno riusciti ad avere una così precisa consapevolezza del passaggio dei propri ragazzi all’età adulta, se non con l’arrivo della patente di guida, dell’università, degli amori più duraturi. Tommy invece era entrato nella maggiore età con forza e decisione, ben due anni prima che lo stabilisse la legge, almeno in questo era stato precoce. Mi ero unito alla carovana della «grande cavalcata» perché avevo capito subito che quella folle impresa sarebbe stata fantastica; e, nel farla, mi sono convinto ancora di più che avere un figlio autistico è una opportunità per recuperare dimensioni dimenticate e profonde della socialità, del rapporto tra padri e figli, del contatto tra uomini, animali e natura, anche se è una prova pesantissima. Ho visto in una settimana Tommy e i suoi amici trascorrere giornate come non avrei mai creduto possibile, non solo per un ragazzo «disabile», ma anche e soprattutto per qualsiasi adolescente neurotipico. Hanno lavorato assieme, consapevoli di far parte di un team; hanno attraversato boschi, guadato fiumi, cavalcato lungo strade asfaltate sotto il

sole, viottoli pieni di rovi, sentieri di campagna tra mosconi e insetti d’ogni tipo. Hanno mangiato quando si poteva, riposato solo a fine giornata, quando ci si fermava in un agriturismo dove, tolti stivali e pantaloni incrostati, ci si tuffava in piscina: per i nostri figli, l’apoteosi della felicità. Eppure, non ho mai visto un gruppo di autistici così diligente e reattivo per un tempo così prolungato. I ragazzi ridevano, evento rarissimo per un autistico, parlicchiavano pure, erano rilassati, soprattutto ci rompevano le palle in percentuale minima rispetto alla norma. Non voglio tirare conclusioni, non ho gli strumenti necessari per farlo. È noto che i ragazzi autistici hanno una fondamentale difficoltà a gestire alcune complessità della vita contemporanea, dei suoi irrinunciabili obblighi di ipersocialità, delle sue mutazioni veloci di circostanze urbanistiche e ambientali. Ma allora, sarebbe forse azzardato tentare il recupero di abilità necessarie ad affrontare tante difficoltà facendo far loro un cammino a ritroso attraverso le regole del vivere contemporaneo? Non potrebbe essere salutare fargli sperimentare altre forme d’esistenza, forse più arcaiche ma utili a ristabilire patti sicuri e rassicuranti tra l’essere umano e l’ambiente in cui è immerso? Penso che esista un paradosso nel fatto che un autistico debba essere guardato a vista nel corridoio di una scuola, senza altro risultato che renderlo infelice e spaventato, ma sia invece in grado di trascorrere una settimana a spasso per le campagne cavalcando e faticando come uno stalliere per l’intera giornata per ritrovarsi alla sera palesemente raggiante di soddisfazione. Qualcuno che abbia strumenti scientifici dovrebbe cominciare a studiare seriamente partendo da questa strampalata riflessione. I ragazzi hanno battuto il record di resistenza in sella, un giorno sono arrivati a cavalcare per sei ore continuate; erano talmente allegri che nemmeno se ne sono accorti. Hanno forse per la prima volta capito di essere al centro di un’impresa. Sono passati per strade provinciali a raso di automobilisti spazientiti; hanno attraversato borghi, boschi, roveti; hanno incrociato pecore, mucche, istrici, cani inselvatichiti e gatti in amore spiaccicati sull’asfalto. A pieno diritto potevano dirsi giovani guerrieri. Proprio come nelle più arcaiche delle culture, ci hanno insegnato che si è adulti solo dopo una prova terribile. Oggi nessuno diventa adulto: si arriva all’età del diritto al voto, ma si continua a pensare che la vita sarà sempre un

gioco. I nostri pazzerelli si sono accorti quasi subito che per loro non sarà mai così. Tanto è vero che è raro vedere un autistico giocare, anche nell’età in cui è permesso farlo. Pensai che in quel momento davvero fossero diventati grandi, uomini e donne. Nessuno potrà più far finta di nulla quando li vedrà per strada, con noi che li teniamo sottobraccio. Sono quelli che hanno cavalcato per sei giorni per aver diritto di esistere, ma se ancora non basterà, ripartiremo. Saremo sempre più belli e forti, nel coro dei mesti, pavidi e insoddisfatti. Gli indifferenti son già mummie, a noi il sorriso dei nostri silenziosi ragazzi basterà per tenerci in vita. La nostra guida si chiamava Orazio, proprio come nelle storie di «Topolino» il marito della mucca Clarabella, che appunto è un cavallo. Orazio è un antico cavaliere, musicista country e anche un poco pellerossa. Quando siamo partiti dalla caserma dei lancieri a Montelibretti, ci ha fatto mettere in cerchio e ha recitato dei versi che assomigliavano a un’invocazione agli spiriti del bosco e dei ruscelli. Li ha scongiurati di accompagnare i ragazzi nella loro cavalcata: chissà, forse finora siamo stati seguiti di nascosto da gnomi, fate e folletti. Magari è per questo che i nostri pazzerelli si sono fatti grandi risate in sella, e nessuno di noi ha capito cosa mai potessero vedere che li facesse ridere, tra le frasche e le colonne di erbacce che si mangiavano gli scheletri di antichi casolari rintanati sotto i piloni di cemento armato della ferrovia. In alto, verso il cielo, per noi che passavamo sotto, a volte correva veloce il Frecciarossa. Mentre noi procedevamo a cavallo con sinfonia di zoccoli, i superveloci ci annichilivano con il loro fischio. Tra i ragazzi, qualcuno che so bene non aver mai parlato, mentre era in sella si è messo a cantare. Io personalmente non l’ho sentito, ma Orazio, che gli aveva retto la cavezza per qualche chilometro, mi ha giurato che lui l’ha proprio ascoltato mentre cantava. È possibile che un autistico si sia fatto insegnare a cantare da un cavallo? Già dopo due giorni di cavalcata mi sembrava di vedere solamente undici centauri. Difficile distinguere dove finisse il cavaliere e iniziasse il cavallo, o viceversa. Non è uno sfoggio retorico, è proprio così. Osservavo mio figlio, che a volte si allungava sulla sella e cavalcava tenendo il cavallo abbracciato, come se volesse fondersi con lui. Altri ragazzi assumevano pose marziali, come se avessero in mente una

statua equestre. Altri ancora sembravano saldati alle staffe, come se ci fossero nati sopra. Nel complesso, nessuno degli undici autistici era quasi più identificabile come tale; sono soggetti che nella loro vita quotidiana hanno bisogno continuamente di qualcuno accanto che sappia capire in anticipo e gestire le loro improvvise crisi, le stereotipie martellanti, l’autolesionismo, i comportamenti oppositivi. Nel clima della grande cavalcata erano solo ragazzi che andavano a cavallo, sorridevano, guardavano con interesse i campi di granturco che attraversavano, oppure lavoravano di striglia, pulivano zoccoli, si caricavano sulle braccia selle e finimenti. Quando abbiamo guadato il fiume Treja, dopo essere passati per una macchia fitta, sullo sfondo c’era il monte Soratte, a lato il cavalcavia dove ancora una volta stava passando il treno Roma-Milano. Mentre schivavo gli schizzi di fango, pensavo alle tante volte che l’avevo preso: lo immaginavo pieno di signori indaffarati con il loro smartphone, di ragazze che sfogliavano riviste, di carrelli sospinti dagli inservienti: «Buongiorno, dolce o salato?». Io che vivo delle mie parole, ho finalmente capito che molte volte se ne può benissimo fare a meno. Per sei giorni abbiamo attraversato silenziosi campi di girasole appassito e cespugli di more. Lo abbiamo fatto anche per dimostrare che gli autistici non sono zombie, esseri strani da guardare con sospetto. Quei ragazzi si sono conquistati un briciolo in più di dignità di esistere, anche oltre le porte chiuse delle loro case, oltre le passeggiatine attorno all’isolato, con l’accompagnatore che li tiene sottobraccio, oltre le interminabili giornate a far nulla, davanti a un televisore acceso, con una madre o un padre sempre più ossessionati dal tempo che divora la speranza che qualcosa, o qualcuno, possa assicurare una vita dignitosa a quel figlio struggente. Per sei giorni ho seguito Tommy che andava a cavallo, e non ho pensato al fatto che tra pochissimi anni non avrò una scuola dove mandarlo, che non saprò chi se ne farà carico quando non ce la farò più, che non vedo un progetto andare in porto, nessuno dei tanti per cui avrei voluto un po’ d’attenzione da parte dei nostri amministratori sempre indaffarati. So che esistono centinaia di migliaia di famiglie in Italia che si arrovellano sugli stessi problemi. Noi abbiamo portato i nostri ragazzi a cavallo perché anche loro abbiano il coraggio di uscire dal silenzio, quel mutismo coatto a

cui si condanna da solo chi pensa di avere avuto in sorte un figlio irraccontabile.

XIV

Così forte e così fragile

Ho iscritto Tommy al liceo artistico, è la strada che abbiamo ritenuto più adatta per lui. A Tommy piace disegnare, riempie velocissimo pagine e pagine di gnomi guerrieri tutti uguali. È ipnotico vederlo all’opera: pare mosso da un furioso horror vacui nel mettere in fila i suoi pupazzi sempre identici nel tempo. Non so cosa raffigurino i suoi ometti, sembra abbiano orecchie da coniglio e piedi a papera; chissà se i suoi plotoni di sgorbumani saltellanti sono un barlume degli orizzonti che riesce a sbirciare oltre i nostri sguardi condizionati dal senno. A lui piace andare in quella scuola e la mattina è una gioia accompagnarlo al pulmino che l’aspetta davanti casa: è giallo e nuovo, e Tommy come tutti gli autistici ha una sensibilità estetica spiccatissima. Genitori in situazioni simili alla mia mi confermano che anche ai loro figli autistici piacciono le cose belle, vogliono essere vestiti con abiti di linea attuale, bei colori, che stiano loro bene addosso. Agli autistici poi piacciono le belle auto, i posti piacevoli. E non sembri che stia elencando ovvietà; voglio ricordare che non perché abbiano un quoziente intellettivo più basso della media è possibile relegarli in edifici segnati dallo squallore, dalla tristezza, dall’incuria. Infatti, mi sono ben indebitato per ristrutturare e arredare il mio studiolo secondo quelle che intuivo fossero le predilezioni di mio figlio. Il mio rifugio di lavoro, a pochi metri da dove abito con la famiglia, è per Tommy la meta più ambita a fine giornata. Alla domanda dove voglia andare, la sua risposta prevalente sarà quasi certamente: «Casa papà». Non so perché, ma da me si tranquillizza, sembra più adulto, come se passando il portoncino d’entrata si spogliasse della sua condizione di «assistito perenne» e potesse vivere una seconda esistenza di persona autosufficiente. Quando Tommy sta da me, mi guarda sdraiato dal suo angolo di

cuscinoni colorati con l’iPad in mano, mentre io sto battendo sulla tastiera; ogni tanto si alza e va in bagno, anche per non far nulla: gli piace semplicemente poterci andare, perché è un bel bagno tutto nero, con una lucina a led che cambia continuamente colore, sembra una via di mezzo tra un bordello e una camera oscura, a me piace che abbia un’aria un po’ ammiccante, tutta la casa del resto ce l’ha e proprio per questo ci stiamo entrambi molto bene. Mi diverte pensare che passo la maggior parte del mio tempo con il mio figlio capoccione in una specie di boudoir che a molti sembra uno scannatoio, ma a noi sta bene così, ci piace che s’immagini che siamo due scavezzacolli amici di scorribande. Anche se siamo un padre sessantenne e un ragazzone di sedici anni. Ogni tanto passano a trovarci delle amiche, fino a un paio di anni fa mi organizzavo delle belle tavolate, serate allegre tra Margarita e schiamazzi con persone che avevano voglia di fughe domestiche, di chiacchiere spudorate, di cazzeggio liberatorio. Oggi è molto più difficile, Tommy cambia completamente le mie abitudini di giorno in giorno. E se è sempre più complicato staccarmelo di dosso, confesso che amo averlo vicino; mi tranquillizza pensare che almeno così nessuno mi chiamerà all’improvviso perché c’è un problema causato da lui, o perché è nervoso, o perché fa stramberie e la madre teme le sue reazioni. È così che, poco alla volta, Tommy è diventato per me la risposta vivente alla frase: «Se vieni porta un amico». Io di amici ne ho veramente pochi, preferisco le amiche; non sono un satiro, assolutamente mi annoierebbe ogni abbozzo di corteggiamento o provolonica scorribanda, però con le donne mi è sempre piaciuto passare il poco tempo che dedico al disimpegno. Le mie amiche sono sempre venute a casa mia, alcune di loro sono diventate le migliori amiche di mia moglie, dei miei figli e questo ci ha fatto passare spesso serate di allegria sconsiderata. L’ultima fase della mia vita con Tommy incollato ha però cambiato le mie abitudini futili. La maggior parte delle persone che mi capita di frequentare oramai sono genitori con il mio stesso problema, e anche in questo caso trovo più facile confrontarmi con le mamme che con i padri. Tommy mi segue in questa mia aspirazione a cercare la leggerezza nel rapporto con le donne. Così, quando lo porto a cena fuori, a fare conferenze, a vedere mostre, a seguire spettacoli, ogni tanto abbranca qualche amica e ci facciamo tante

risate. Bello e con un fisico da lottatore, è ancora un bambinone e non conosce l’ombra della malizia, ma un giorno la mia amica Gio Giò, che fa la cantante e ha una figlia dell’età più o meno dei miei, mi ha detto mentre eravamo in un pub: «Guarda che Tommy mi sta pomiciando», e infatti se la stava tenendo tra le braccia e le accarezzava i capelli mentre le baciava il viso proprio come fosse un fidanzato. Ci siamo trovati altre volte in situazioni simili con signore e signorine, sempre più che ultraquarantenni, che sembrano prese da una strana euforia tra il divertimento e lo stupore per quel dongiovanni con la testa da bimbo che se le stringeva addosso come fossero bambole di pezza e magari intanto aveva lo sguardo perso chissà dove. Ecco, questo è il genere di situazioni che non riesco a immaginare nella vita di Tommy negli anni a venire. Secondo prassi comune, quando io non ci sarò più dovrà andare in un posto tra estranei che, per quanto possa essere decoroso, avrà tutte le caratteristiche della segregazione e del rigore di un seminario. Dove troverà Tommy le mie amiche scanzonate che lo sbaciucchiano e si fanno una risata se ci scappa una palpatina di tette? Dove troverà gente che se lo porta a cavallo, a ballare sotto la luna con i violini e le cantanti country? A mangiare nelle trattorie, a fare la prima colazione dopo aver dormito in un bell’albergo? A stendersi al sole su un prato? Per mostre e musei, in visita a casa d’amici, insomma a fare tutte quelle cose che fa con me? Non solo non gliele farà fare nessuno, magari diventerà lo zimbello di sorveglianti, monatti, suore baffute e preti puzzoni. Esagero, ma questo è un rovello che non m’abbandona mai: non penso a cosa farà, ma piuttosto a come farà a divertirsi come faceva con me… Il mio pensiero è diventato un incubo quando ho letto una squallida storia avvenuta proprio in un liceo artistico romano. In questa scuola, un manipolo di poveri lazzaroni poco più grandi di Tommy – potrebbero quasi essere suoi compagni di ricreazione – è stato indagato perché nell’intervallo giocava a bruciacchiare con le sigarette un loro compagno disabile con un ritardo psichico. Il divertimento stava nel vedere fino a che punto lui resistesse al dolore. Niente di più facile che quello non si lamentasse: le persone come Tommy hanno una soglia altissima del dolore, il vero problema dei nostri figli è che possono camminare con un’unghia incarnita o con piaghe ai piedi e non dire nulla. Bisogna sempre guardare con attenzione se abbiano lesioni in qualche parte del corpo, difficilmente loro lo fanno capire.

Durante una presentazione del libro di Tommy è venuta da me una signora anziana con la foto di suo figlio, che era identico al mio, e mi ha raccontato che era caduto dal balcone fratturandosi il bacino, ma di questo lei si era accorta solo dopo molti giorni perché lui non si lamentava. Un altro impenetrabile enigma degli autistici, stoici sopportatori della sofferenza fisica. Tornando al caso del liceo romano, il gioco al massacro del ragazzo «invulnerabile» consisteva nel costringerlo a farsi spegnere dei mozziconi di sigaretta sulle mani, sulla fronte, sul mento. La madre ha denunciato i compagni torturatori, dopo aver portato il figlio nove volte al pronto soccorso per ustioni ed essersi vanamente lamentata con il preside che escludeva ogni possibilità che qualcuno l’avesse seviziato in orario scolastico «perché lì è vietato fumare». Pensando a questi vigliacchissimi bulletti, un paio erano pure maggiorenni, che avranno sicuramente papà e mamme pronti a difenderli, mi viene in mente Pulp Fiction quando Marsellus Wallace chiama i suoi scagnozzi perché lo raggiungano con un paio di pinze e una saldatrice, per somministrare una «cura medievale» al culo di chi si era appena accanito su di lui. Ricaccio subito indietro un pensiero così pessimo, ma succede spesso anche a me di rimuginare cose di cui non vado fiero, perché anch’io come ogni genitore di disabile devo fare i conti con la mia umana rabbia. I nostri ragazzi, a prima vista, sono fortissimi e possono sembrare quasi indistruttibili. Tommy ha la compattezza muscolare di un gladiatore, a dargli uno schiaffetto su una spalla o una natica ci si frattura la mano, ma come la maggior parte degli autistici ha crisi epilettiche e può improvvisamente rovinare a terra come un ramoscello secco sbattuto da un refolo di vento. Faccio un esempio: una delle attività che Tommy più ama è andare al campo di rugby dell’Acqua Acetosa dove gli intrepidi padri di ragazzi come lui, alcuni dei quali ex giocatori, organizzano un allenamento settimanale per una squinternata e fantasticamente folle squadra di autistici, Asperger e strambi affini. Vederli allenare è molto divertente, sono tutti abbastanza giganteschi e, a colpo d’occhio e da una certa distanza, sembrano quasi ragazzi come gli altri. Il rugby è uno sport molto adatto a loro, ammucchiarsi spesso li diverte e comunque prendono l’allenamento come una cosa serissima.

Durante uno di quegli allenamenti, a una ragazza viene un attacco epilettico: comincia ad avere le convulsioni, la madre corre da lei, tira fuori dalla borsa un cronometro, lo mette a terra e lo fa partire, prende una mascherina e la infila sulla bocca della ragazza e cerca di sorvegliare che non si faccia male, pronta a intervenire con un farmaco se la crisi andasse oltre un certo tempo. Si capisce che per lei è una procedura oramai memorizzata. I genitori presenti si limitano a chiedere se desideri essere aiutata, sanno che è capace di sbrigarsela da sola e che, in quel momento, preferisce non avere gente attorno. Anche a molti di loro capita o sarà capitato di trovarsi in quella situazione. Ognuno di noi ha oramai una sua procedura personalizzata per assistere il figlio in questi frangenti. Io ultimamente riprendo le crisi di Tommy con il mio smartwatch, mentre conto ad alta voce i secondi che passano, so che se va oltre un certo limite di tempo devo intervenire con il microclisma di Valium che porto d’abitudine sempre con me. È utile riprendere le sue crisi; i medici a posteriori mi chiedevano di descrivere i sintomi e non sempre a memoria era facile: la testa era girata da che parte? La rigidità era in tutto il corpo? Dopo quanto tempo si è ripreso? Prima segnavo tutto a penna su una rubrica, ora filmo, e si fa prima. L’orologio con telecamera è sempre al polso e mi lascia libertà d’intervento. Se qualcosa mi sembra anomalo, mando subito il file via WhatsApp al mio amico neuropsichiatra, che dà un’occhiata e poi mi chiama. Tommy, crescendo, si è regolarizzato nelle sue crisi: sono oramai rare e sempre a casa, soprattutto la sera o la mattina. Così posso controllarle meglio, anche perché riesce ad avvertirne l’aura e a segnalarci che qualcosa sta arrivando. O meglio, diciamo che io ho capito quando la crisi è nell’aria: lo vedo agitato e comincia a chiudersi le orecchie chiedendo aiuto. Una psichiatra, cui avevamo descritto il sintomo, in passato sentenziò che Tommaso aveva delle allucinazioni, come se vedesse o sentisse qualcosa che lo spaventava. Questo bastò per farci precipitare in una nuova ansia: che le sue difficoltà stessero degenerando e muovendo verso approdi che non ci facevano certo piacere. Conosco genitori con ragazzi che hanno quel tipo di problema: capita che parlino tra sé con due voci diverse, come se si sdoppiassero. Tommy non parla quasi, qualche volta colgo nella notte un suo biascichio chiacchierinante: mi piace ascoltare i toni e le oscillazioni del suo non parlare parlante. Sono però stato rassicurato, almeno su questo: pare che

nel suo caso non siano previste allucinazioni. Meglio così, come potrei aiutarlo a definire l’irrealtà dell’incubo, rispetto a tante situazioni concrete che già lo spaventano? Semplicemente era il farmaco che non lo copriva più del tutto; così, di nuovo un prelievo del sangue, di nuovo da rivedere dosaggi e si tirerà avanti. Finora agli attacchi di Tommy siamo stati sempre presenti o mia moglie o io, ma se accadesse a scuola? O durante una qualsiasi delle sue attività? Ci sarà qualcuno pronto a fargli il microclisma, se la crisi dovesse continuare oltre il minuto? Saranno in grado di stare attenti che non sbatta la testa a terra? Sono domande di spicciola apprensione, avrò risposta solo quando e se accadrà. Per ora Tommy è bravissimo, concentra le sue crisi epilettiche rigorosamente negli orari casalinghi, sembra sapere che perdere coscienza tra estranei potrebbe significare non risvegliarsi più con la sicurezza che c’è ancora un padre che gli ha tenuto il testone tra le braccia perché nella convulsione non si facesse male.

XV

Le favole e la realtà

Il mito degli autistici prodigiosi rappresenta un genere letterario. La traccia dominante di questo genere è l’impresa eccezionale di un autistico o, in un sottogenere che forse pure io alimento, di un genitore d’autistico che a lui dedica la vita. Leggo ora del nascere di una di queste storie nella vicenda di un padre che lascia il lavoro, si prende una seconda laurea in scienze dell’educazione e diventa lui il tutor scolastico del figlio Asperger. L’alternativa era che il suo ragazzo non frequentasse più la scuola e rimanesse a casa per tutta la giornata. Nessuno di quelli che ne hanno scritto è riuscito ad andare oltre all’aspetto esemplare di questa storia. Naturalmente viene d’istinto pensare con ammirazione a un uomo che si rimette a studiare a quasi sessant’anni e dedica la sua giornata a sostituire a scuola l’insegnante per il figlio che altrimenti non si sarebbe mai materializzato. Purtroppo invece io non riesco a non vederne la tragedia nascosta, tanto per il padre quanto per il ragazzo. È madornale che un uomo sia costretto a fare un gesto così disperato quale quello di sdoppiarsi nel duplice ruolo di genitore e insegnante. Solo in quei film di sopravvissuti dai naufragi si vedono cose simili. In una puntata dei Simpson si racconta di Marge, la madre di Bart, che improvvisa nel garage un’aula scolastica per continuare a fare lei da maestra al figlio discolo cacciato dalla scuola. In una situazione civile, la scuola è la palestra perché ci si renda autonomi proprio dall’egemonia dei genitori; se non è in grado di fornire questa opportunità a un ragazzo solo perché ha dei problemi in più rispetto ai suoi coetanei, è una scuola fallita. Alla fine, però, la storia del padre accolto dal preside per occuparsi del figlio diventerà un altro di quei racconti edificanti in cui ci saranno soltanto virtù eroiche individuali e le scelleratezze pubbliche se

ne avvantaggeranno perché si sa che lacrime e cuore sono gli antidoti all’inefficienza più abusati nel nostro paese. Gli autistici allo stato naturale sono difficilmente raccontabili senza ricorrere alla mitizzazione del quotidiano; una persona che non comunica sembra pietrificata nel suo simulacro, e questo pare non riesca a scalfire l’indifferenza generale. Bisogna sempre rappresentare una lotta, una dolorosa e faticosa battaglia per essere il più possibile «normali». Il fine non dovrebbe essere la conversione degli autistici in persone come le altre, ma piuttosto riuscire a garantire possibilità di esistenza a chi è diversamente strutturato a comunicare. Di autismo di genere fiabesco si è parlato ne Il motivo per cui salto, del giapponese «con tendenze autistiche» Naoki Higashida, da poco pubblicato nella traduzione italiana. Un libro definito come «il caso editoriale che ha commosso il mondo». Infatti, per commuovere il mondo, serve un’altra storia di fanta-autismo in cui il protagonista, con l’uso di ideogrammi, riesce a comunicare. Un altro che ancora una volta dimostra che si possa uscire dalla «fortezza» per mostrarci che anche lui ha un’anima. Siamo alle solite: l’autismo letterario è la deriva fantastica del nostro quotidiano tra autistici, il picco fantasioso che compensa, tranquillizza, conforta tutti del fatto che «un miracolo possa accadere». La passione per il fanta-autismo genera successi letterari, è chiaro: anche la fanta-storia attribuisce gloria al Codice da Vinci e il fanta-erotismo trova una sorgente d’attizzamento nelle Cinquanta sfumature di grigio. Non riesco però a immaginare una storia commovente e d’altrettanto successo che magari riguardi un cieco che scrive di quello che lui vede, una persona sulla carrozzina che racconta della sua passione per la corsa, o un muto che pubblica un cd con le sue canzoni. Sono paradossi evidenti, eppure s’immagini se mai ci fosse una possibilità di lanciarli nel mercato dell’editoria. In quale genere sarebbero incasellabili? Quello della fanta-scienza? I racconti di miracoli che si vendono nelle librerie dei preti? Sicuramente qualcuno alla fine direbbe che sono costruzioni artificiose di marketing librario, i cui protagonisti sono dei simulatori, non hanno la patologia che millantano perché si sa che un cieco non vede, un muto non parla, una persona in carrozzina non corre. Per tutto quello che riguarda gli autistici, però, nessuno si pone queste

domande, perché dell’autismo non si è ancora stati in grado di comunicare la dimensione reale, quindi è possibile farne passare per probabile qualsiasi alterazione. Per questa ragione, io che conosco l’autismo nella sua concreta dimensione di vita quotidiana, non sono proprio riuscito a commuovermi, come il resto del mondo, per la storiella fasulla e affettata del giapponesino Naoki. Potrei solo crudelmente pensare che non l’abbia scritta lui se è autistico del genere tosto. Posso intuire il pompaggio artificiale del caso quando leggo sul risvolto di copertina che Naoki Higashida è un «tendente all’autismo», termine che non significa nulla ma che ammette, comunque, che chi lo sia possa riuscire in qualunque impresa richieda d’essere neurotipico, compreso raccontare storielle. Nell’edizione italiana, poi, viene persino fatto intendere che l’uso degli ideogrammi per comunicare altro non sia che una forma di «scrittura facilitata», la tecnica di cui sopra ho ampiamente parlato e che millanta di trasformare in saggisti e poeti autistici drasticamente non verbali. Ecco, questo è proprio quello che noi genitori non amiamo vedere scritto perché ci dà la certezza di essere presi per il culo. Non posso fingere che ci accarezzi l’anima un libriccino che ancora una volta ripropone il concetto che i ragazzi autistici siano una stirpe di angeli caduti, creature aliene, o insondabili testimoni di verità sepolte dentro di loro. Esiste un universo di operatori che con simili misticismi abbaglia tante famiglie d’autistici: «Per anni mi sono rivolta a una onlus nota e accreditata che si occupava di autismo e disabilità» mi ha confessato una madre attraverso mille titubanze. «Poi sono venuta a sapere che sia gli psicologi che gli educatori facevano parte di una specie di cerchio magico. Erano convinti che i nostri figli avessero scelto di essere autistici per favorire la nostra evoluzione spirituale.» Purtroppo questo accade a forza di accreditare ogni superstizione riguardo l’autismo, tanto che il mondo si commuove per le frasi a effetto con cui il piccolo oracolo di Kimitsu, o chi per lui, confeziona tutti i luoghi comuni del fanta-autismo: «Essendo autistico non sono libero … nato con sensi primordiali»; oppure: «A volte provo davvero pena per voi, che non potete vedere la bellezza che mi circonda così come la vedo io». Basta con queste cazzate! Dateci scuole che funzionino, operatori che abbiano studiato, strutture dove i nostri ragazzi cresciutelli possano passare il

loro tempo in attività che non li facciano sentire conigli all’ingrasso. Non sappiamo che farcene di edificanti parabole con sante mamme, eroici papà e i loro angeli silenziosi. Io sono molto soddisfatto quando vedo Tommy sradicato dalla sua fisiologica staticità di piccolo Buddha. Cerco sempre qualcuno che lo sappia addestrare a svolgere attività pratiche, oltre al lavoro che fa ogni giorno con il suo educatore Marco. Almeno, nella mia città iniziative di questo tipo sono quasi sempre promosse da volenterosi genitori che si sono messi a disposizione per riempire le lunghe giornate vuote dei loro autistici che si avviano all’età adulta. A proposito dell’incolmabile tempo dell’autistico, un paio di settimane dopo la mia campagna stampa mi è arrivata una mail della mamma-autista: Ciao Gianluca, sono la mamma-autista del figlio autistico: la disperata, la mamma della mailbomb (per capirci e farti ricordare chi sono). Finalmente ce l’ho fatta: Asl e comune mi hanno ufficialmente autorizzato a portare mio figlio niente di meno che... alla Fornino-Valmori di Forlì!!!!!! Sono felicissima. Spero che vada tutto nel migliore dei modi. Spero che il mio gigante torni a essere il gigante buono che era!!!! E se tutto questo sarà... lo devo anche a TE!!!!! Grazie di tutto!!!! Un abbraccio a te e a Tommy!!!

Una volta tanto una storia a buon fine, ho pensato. Quel ragazzo non poteva capitare meglio. Il comune di Roma, nella vergognosa e totale assenza di strutture adeguate a occuparsi di lui, è stato costretto a delegare la soluzione concreta del problema a dei privati. In questo caso sapevo benissimo chi fossero i Fornino-Valmori: i più folli ed eclettici inseguitori di utopie per autistici che abbia mai conosciuto. Ero stato a trovarli circa un anno prima, in uno di quei miei viaggi (quasi sempre a vuoto) in cui passo in rassegna i luoghi dove mi arriva notizia che esista qualcosa di davvero avvicinabile alla mia idea di città felice per autistici e disabili psichici di ogni tipo. Quella che mi è sembrata la sintesi più riuscita di ogni mio fantasticare è stata edificata dove prima c’era un pollaio. L’ho scoperta leggendo un trafiletto di giornale che parlava di due padri che avevano deciso di costruire una città per i loro figli disabili. Ci sono arrivato in macchina con tutta la mia

tribù al seguito un tardo pomeriggio. L’Insettopia-pollaio è infilata nelle colline tra Bertinoro e Forlimpopoli. In una bella piana dove cresce l’erba medica, i due folli padri hanno investito tutti i risparmi di una vita guadagnati spennando galline nella loro città dell’utopia. Vincenzo Fornino e Edo Valmori erano soci da sempre. Il primo, per più di quarant’anni, è stato a testa bassa ad allevare polli, l’altro produceva mangimi. Erano uniti da un’amicizia consolidatasi sulla fatica quotidiana, ma ancora di più da un problema in comune: Fornino ha un figlio quarantaduenne con gravi problemi psichici, Valmori invece ne ha uno autistico, ventunenne. Un giorno hanno capito che tutto quello per cui avevano lavorato sarebbe stato vano se non avessero fatto qualcosa per garantire un futuro ai loro ragazzi, quando loro non sarebbero più stati capaci di accudirli di persona. Avevano sempre amministrato con saggezza le vite dei figlioli e, tutto sommato, erano stati anche fortunati a trovare buoni insegnanti. Però a un certo punto anche per loro, come per tutti noi, è arrivato il periodo in cui ci si pongono domande troppo angosciose, quando i capelli bianchi cominciano a farsi spazio sulla testa. Fornino, in realtà, ha i capelli color nero corvo, come giustamente ancora impongono i barbieri di paese fermi sul concetto che il maschio debba combattere ogni segno di decadenza. Come siamo arrivati, verso sera, ci ha accolti nella sua bella casa eclettica costruita a pianta circolare. Il suo ragazzo se ne stava taciturno in una poltrona alle nostre spalle e la moglie ha subito riempito Tommy di biscottini, che penso avesse fatto lei. «Eravamo giunti a un’età in cui bisognava cominciare a pensare di far la valigia» mi ha raccontato Fornino, e il pensiero del futuro estremo è bastato per decidere di investire ogni avere nella città felice per i loro figli, ma anche per i figli di tanti altri genitori con la stessa disperazione per un futuro angoscioso. Sono così riusciti a far nascere al posto dei loro pollai una struttura che oggi vale più di quattordici milioni di euro. Per farla non hanno chiesto un soldo a nessuno, hanno tirato su un fabbricato di seimila metri quadrati, con ventidue ettari di terra attorno. Quel luogo, come scrivono nel programma della loro Fondazione, è aperto a tutti, non soltanto riservato a chi ci vivrà per un periodo o per sempre. È un centro in cui, per qualche ora al giorno o per soggiorni più lunghi, gli ospiti possono frequentare laboratori e servizi per acquisire abilità e competenze utili nella vita quotidiana o per potenziare le

loro capacità relazionali, anche attraverso il lavoro o l’equitazione ricreativa. Per chi viene da fuori ci sono due palazzine destinate a ospitare ragazzi e familiari per dei soggiorni mirati a dare autonomia a chi ha bisogno di essere aiutato. Il giorno dopo il nostro arrivo, si è svolta l’inaugurazione di questa loro «Insettopia». C’erano i due sindaci di Bertinoro e Forlimpopoli, venuti con la fascia a tagliare i nastri. Autorità a bizzeffe, divise gallonate, inviati del vescovo e centinaia di concittadini. Tutti battevano le mani, felici che il territorio avesse partorito la città dei sogni, ma i Fornino-Valmori ne hanno mandati giù di bocconi amari, quando nessuno credeva nel progetto e, anzi, tutti sembravano fare a gara per metter loro i bastoni tra le ruote. Per realizzare il loro sogno hanno combattuto per ben cinque anni con la burocrazia, poi, una volta che avevano tutte le carte a posto, per costruire l’intera struttura ne hanno impiegati solo due. Alla fine lavoreranno lì cinquanta operatori specializzati, con la supervisione di cinque docenti dell’università di Bologna che si sono prestati per garantire la correttezza scientifica dell’attività. Preoccupazione non da poco, in un paese dove spesso persino l’ente pubblico è ignorante sulla realtà dell’autismo e sovvenziona terapie non efficaci, un po’ perché non è informato, un po’ per non fermare gli antichi carrozzoni dell’assistenzialismo professionale. Al centro della «città», la coppia Fornino-Valmori ha voluto una struttura residenziale e semiresidenziale per progetti di abilitazione individuali: due edifici con stanze da letto perfettamente a norma secondo i regolamenti vigenti. Altro che un ghetto per disabili: sembra un luogo immaginato per la serenità di chiunque. C’è un ristorante biologico aperto al pubblico, rifornito con prodotti a chilometro zero, una lavanderia industriale ipermoderna con fornitura, ritiro e lavaggio di pannolini rigenerabili per gli asili nido. Palestre, campi sportivi, aule di abilitazione. E un centro di equitazione ricreativa per disabili che garantisce attività sia al coperto che all’aperto; un’ippovia interna di ben quattro chilometri; oltre a venti stalle modernissime per tenere a dimora cavalli altrui e fare così reddito. Il principio è quello di un’azienda e l’ottanta per cento delle strutture sportive e di quelle destinate a riunioni e convegni è a disposizione di chi voglia affittarlo. Dopo la mail della madre-autista ho aspettato altre due settimane, poi ho

chiamato l’amico Fornino per sapere come se la passasse con quel «soggettone». «Non ci crederai, è qui davanti a me e sta portando da mangiare alle capre!» mi ha risposto. In breve, vengo a sapere che l’abilitazione sta andando bene: ora il ragazzo è meno manesco, ha un’occupazione costante che lo impegna e che gli piace; occuparsi delle capre è il suo nuovo compito che sembra via via portarlo a un comportamento socialmente più accettabile e la notte dorme. Fornino è molto soddisfatto: «Pensa che non era più abituato a camminare, i primi giorni gli erano venute le vesciche ai piedi! Ti rendi conto?». Apprendo che il comune di Roma ha stabilito con una delibera il sostentamento del ragazzo in quella struttura per sei mesi, anche se Fornino mi ha confessato che servono quattro operatori fissi per occuparsene e parte del costo se la accolla lui, ma va bene così. «L’importante è che ora stia bene. Ogni giorno gli facciamo delle foto e le mandiamo alla madre, così vede che migliora. Quando è arrivato aveva sempre la faccia arrabbiata, adesso sembra già un’altra persona.» Ho allora richiamato la madre, per capire come stesse prendendo la cosa. L’ho sentita rasserenata, anche se, a questo punto, il suo problema era il proprio mantenimento. Anni prima aveva lasciato il lavoro per occuparsi del figlio ed entrambi, più un altro figlio studente universitario, vivevano con l’indennità d’accompagnamento dell’Inps, che ora è stata, giustamente, convogliata sul progetto di Forlimpopoli. Mi rendo conto che in questa, come in troppe altre vicende simili, tutto è sbagliato, impostato male, approssimativo. Quel ragazzo ora necessita di un trattamento molto costoso perché per anni soltanto la madre si è occupata di lui: nessun progetto era stato fatto in passato prevedendo che sarebbe stato impensabile per lui, autistico adulto, restare solo con una madre che lo scarrozzava vita natural durante, lasciandolo dormire fino alle tre del pomeriggio. Ora, per dare a lui una possibilità di esistenza dignitosa, sono necessarie le risorse che aiuterebbero a essere più autonomi altri tre ragazzi. Invece devono occuparsi di un solo individuo, e chissà per quanto tempo ancora, solamente perché siamo un paese ignorante. Da una parte le famiglie pensano di potercela fare con le proprie forze, senza rendersi conto che i figli, crescendo, diventano altra cosa rispetto ai

batuffolosi orsacchiotti che mamma e papà conservano nei loro ricordi più teneri. L’autistico permette infatti di coltivare l’illusione dell’eternità genitoriale, che forse è un palliativo ad affrontare la fase di decadenza della vita di ciascuno di noi. Dall’altra parte, ovvero quella delle istituzioni e delle amministrazioni locali, non esiste alcuna attenzione al problema. Dove si può, si erogano sussidi, si alimentano cooperative e organizzazioni religiose: le quali, da parte loro, vivacchiano il più possibile con tutto quello che gravita attorno al disabile, ma non si pensa. Non si capisce che quello che serve è un «format», per dirla con un termine oramai in voga. La vita delle famiglie d’autistici andrebbe impostata secondo una griglia, fatta di passaggi già risolti, che preveda ogni miglior passo possibile, dalla diagnosi precoce all’organizzazione del «dopo di noi». Non stupisce che quando un caso, che rappresenta una dolorosissima prassi, esce dalla condanna all’oblio, grazie a campagne mediatiche, nelle istituzioni subentri il panico perché non c’è soluzione: le lacune non sono colmabili con la solita manciata di soldi per salvare la faccia. La storia della mamma-autista ha avuto ascolto quando il clamore che ho fomentato è diventato pericoloso per un’amministrazione comunale, ma se non ci fossero stati Fornino e Valmori e la loro follia sarebbe stato impossibile salvare la faccia. In tutt’Italia non c’è una struttura pubblica avanzata in grado di «accollarsi» un caso così degenerato nei «comportamenti problema», se non mediante i classici trattamenti postmanicomiali fatti di sedativi e contenzione. Lo sa bene una mamma mia amica che ebbe la disavventura di portare la sua ragazzona, compagna di rugby di Tommy, in un rinomato ospedale perché era un po’ «sbroccata», come spesso le succedeva durante il ciclo mestruale. Fu ricoverata in un reparto di psichiatria infantile, dove c’erano pazienti di ogni tipo ma purtroppo in quel momento nessuno che sapesse qualcosa di autismo, e quindi la dottoressa di turno le prescrisse un trattamento orribile: la ragazza fu afferrata da infermieri, legata di forza al letto mentre urlava e sedata con iniezioni alle gambe, una scena indescrivibile. La madre passò un paio di giorni sulle scale del reparto ad aspettare le ore di visita, finché riuscì a ottenere che le facessero un’ecografia. Sua figlia era piena di cisti ovariche: era quella l’origine del disturbo che aveva generato le

crisi oppositive. Così la ragazzona se ne tornò a casa, inutilmente intontita e con le gambe piene di buchi. Non si arriverebbe a questi eccessi incivili se l’autismo avesse cittadinanza nella cultura, anche clinica, di questo paese. L’autistico dovrebbe rientrare in un progetto che coinvolgesse attivamente la famiglia dal primo istante. Non a caso, l’unica soluzione possibile al problema della mamma-autista è stata quella che nasce dall’idea di due padri che conoscevano bene il tema della disabilità psichica da gestire in famiglia e si sono organizzati per risolverlo, quando hanno capito che mai nessuno l’avrebbe fatto per loro. Quei due padri innanzitutto non si sono dimenticati di essere degli imprenditori. L’intera struttura è stata pensata per potersi sostenere con le proprie risorse, cosa che a molti farà storcere il naso, ma è indiscutibilmente un progetto sociale molto interessante. È chiaro che non tutti i genitori hanno risorse così cospicue da investire, ma sarebbe interessante calcolare quanto il pubblico investe nella grande macchina dell’assistenza agli autistici. Non per pura polemica, ma è per qualche utile riflessione sul reale rapporto tra spesa e livello di felicità (la parola scandalizza?) nei diretti interessati, che andrebbero forniti degli strumenti culturali necessari per amministrare loro stessi e spendere al meglio quel denaro. Io sono convinto che per le famiglie di autistici dovrebbe essere pensato un modello d’impresa a loro misura. Una struttura modulabile su diverse realtà che dia strumenti organizzativi e gestionali a un piccolo numero di famiglie, sette-otto al massimo, con figli omogenei per fascia d’età e livello di patologia. Delle micro Insettopie dove si mettano in comune risorse private e contributi pubblici di tutti i partecipanti per realizzare, con strumenti giuridici appropriati, un progetto che duri per tutta la vita futura dei propri figli. Credo che, se ci fosse una concreta volontà di farlo, non sarebbe poi impossibile creare all’interno delle nostre città dei luoghi destinati principalmente alle esigenze degli autistici, che fossero allo stesso tempo dei centri catalizzatori anche per altri ragazzi con meno problemi dei nostri figli, che volessero rigenerarsi in un posto fantastico, perché frastornati dalle iperstimolazioni che sono costretti a subire in palestre dove l’agonismo strangola, in discoteche dal frastuono assordante, in interminabili bivacchi con la bottiglia in mano davanti ai ritrovi più in voga. La scelta di una dimensione da «Insettopia» secondo me precorre tempi e mode; non ci

vorrebbe molto a farla diventare il miglior posto possibile anche per quell’enorme fetta di gioventù che trova disagio nell’omologazione. L’autistico – se non è visto come soggetto patologico – è geneticamente cool, proprio per una sua innata predisposizione alla bizzarria estetica e una sua aristocratica indifferenza a giudicare ed essere giudicato. Sono oramai costantemente spinto dall’idea folle dell’esproprio per ogni angolo di bellezza che vedo inutilizzato e, come penso facciano spesso molti miei «colleghi», sto cominciando ad archiviare nella mia memoria i tanti posti desolati che mi piacerebbe colonizzare. Di recente mi hanno chiamato a parlare d’autismo in un fantastico convento in Brianza, completamente ristrutturato da anni, bello da impazzire, ma chiuso e inutilizzato. Ho parlato al mio pubblico sparuto dalla navata principale di quella che fu una basilica, ora abbandonata da secoli e da cui sono stati rubati persino gli affreschi, nella storia moderna ricordata solo perché nel 1970 vi fu girata la scena della fornicazione profanante di Francesca Romana Coluzzi, nella parte di Tarsilla Tettamanzi, una delle tre sorelle che si dividevano lussuria e gola del ragionier Emerenziano Paronzini, interpretato da Ugo Tognazzi nel film Venga a prendere il caffè da noi, diretto da Alberto Lattuada e tratto dal romanzo La spartizione di Piero Chiara. «Vede, da dietro quella colonna usciva il prete gridando» mi aveva raccontato qualche ora prima della mia conferenza il custode che al tempo si era trovato sul set. «Poi la donna tutta nuda scappava via da quella porticina…» E io dovevo parlare a dei poveri genitori come me, che abitavano in quel comune ed erano venuti ad ascoltarmi lasciando i loro figli a casa perché avrebbero disturbato, e che speravano potesse venire da me qualche parola di speranza per il loro futuro. Avrei voluto dire loro: Ma occupate il convento chiuso a chiave e portateci i vostri ragazzi! Sparpagliateli per quei silenziosi anfratti tutti belli lavorati in pietra e calce, con soffitti di legno a cassettoni che ancora profumano di buono, tre piani almeno di sale, stanze, corridoi, servizi tutti perfettamente ristrutturati a norma di legge con impianti elettrici, infissi, rifiniture di grande pregio. Vuoti, desolati e inabitati perché nessuno sa che farsene. Un bel chiostro all’interno, un porticato con le colonne, persino una macchia d’umido sulla parete che sembra il profilo dello spettro di un frate inquieto che pare di notte si faccia sentire. Insomma, già ci vedevo un fanta-laboratorio, un ristorante gestito dai

ragazzi, una serie di spazi per palestre, attività d’abilitazione, possibilità di dormire, sorridere, correre; persino una piscina dentro l’ex refettorio di quei frati zoccolanti. Nessuno però ci ha pensato, nessuno ci penserà mai. Mi sono caricato ancora una volta delle angosce di tante persone che non vedono futuro per sé e per i loro ragazzoni reclusi; magari sperano che possano improvvisamente parlare per ideogrammi, come il giapponese che commuove il mondo, ma non pensano che la soluzione potrebbero avercela proprio sotto i piedi, che mentre mi ascoltavano appoggiavano su quel fantastico pavimento, perfettamente ricostruito in cotto brianzolo, che però serve solo a fare da tappo all’ossario dei frati, coperti con un telone di plastica e lasciati là sotto a far la guardia al loro monastero fantasma.

XVI

Spazio riservato

Un giorno una lettrice di «Oggi» ha scritto una lettera abbastanza inviperita per un’intervista sul libro di Tommy che aveva letto su quel magazine. L’articolo era corredato da alcune foto che illustravano varie sue attività sportive, da cui era ben chiaro che non fosse fisicamente disabile e la signora non concepiva che il mio ragazzo, in quanto non immobilizzato su una sedia a rotelle, avesse diritto a uno stallo riservato sotto casa. Anche se Tommy è autistico, cammina: perché deve avere il permesso per il parcheggio? si chiedeva la donna, ponendosi chissà per quale forma di zelo civico proprio questo problema. Non me la sono presa poi molto: è un’opinione diffusa che gli autistici non debbano avere questo «privilegio». Nel precedente libro ho raccontato come fosse stato difficile ottenere il tagliando da disabile da mettere sul parabrezza; ancora mi arrivano lettere da tutt’Italia di genitori come me che trovano medici legali che si rifiutano di concederglielo perché i figli «possono camminare con le loro gambe». Esattamente come la pensava questa lettrice: Scrivo a proposito dell’articolo pubblicato sul n. 10 su Gianluca Nicoletti che parla delle problematiche del figlio autistico. A un certo punto ho letto: «Ci abbiamo messo un anno per avere il permesso di parcheggio per disabili…»; allora mi sono chiesta: ma com’è possibile che un ragazzo che va in bici e gioca a golf (quindi nessun impedimento motorio) possa aver diritto al parcheggio per disabili?? Per carità, la massima comprensione per questi genitori che devono affrontare un problema grande, ma questo mi sembra troppo!!! Scusate lo sfogo, ma non riesco ad accettarlo.

È chiaro che, a forza di servizi in tv dove si vede il paralitico che corre, il cieco che legge il giornale, anche l’autistico possa ingenerare sospetto, proprio

perché non sembra avere, all’apparenza, lo stigma evidente di una disabilità. La campagna martellante che sui media tende a enfatizzare i falsi invalidi è sacrosanta, anche se la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) ha pubblicato la smentita della bufala sulla consistenza numerica del fenomeno, amplificato per ignoranza e cattiva fede di chi ha interpretato i dati. Nel mio caso, se la signora che scrive avesse una minima cognizione di cosa sia una disabilità di tipo cognitivo e relazionale, non si esprimerebbe in maniera così scandalizzata per il fatto che un ragazzo senza impedimenti motori abbia bisogno di usufruire di un permesso che lo agevoli nel trasporto in auto. Chi ha un figlio autistico conosce bene quest’atteggiamento generalizzato, che riesce talvolta a farci sentire quasi come una colpa il dover gestire un figlio disabile che non si porta addosso indicatori così evidenti del suo problema. Forse è superfluo, ma mi piacerebbe poter spiegare alla signora quanto sia impossibile per un autistico fare un solo passo fuori della porta di casa senza che qualcuno si occupi di lui. Un autistico adulto è come una bomba sempre sul punto di poter esplodere; molto spesso ha una massa fisica e muscolare che ne rende difficilissima la gestione nel caso di crisi oppositive, vale a dire che potrebbe piantarsi in mezzo alla strada e non muoversi più, oppure il suo «comportamento problema» potrebbe sfociare in atti auto ed etero lesionisti, con schiaffi, pugni, graffi a chi lo sta accompagnando. Ancora di più, potrebbe avere una crisi epilettica, e in quel caso la vicenda si farebbe ancora più complicata, soprattutto per strada. Per un autistico, anche il solo aspettare a un semaforo, fare un percorso piuttosto che un altro, passare per una via particolarmente rumorosa può essere motivo dello scatenarsi di uno di questi problemi. Chi mi è «collega» sa bene quanto sia veramente lancinante dover giustificare che il proprio figlio, capace di andare in tandem e di tirare qualche pallina da golf al campo scuola comunale, allo stesso tempo sia un invalido gravissimo. Mi creda, la lettrice di «Oggi»: ne farei volentieri a meno di quel cartoncino arancione che ogni tanto appoggio sul mio cruscotto, quasi con senso di colpa per chi ci guarda male e pensa come lei: «Guardate quel ragazzo, che avrà mai per permettersi di parcheggiare sulle strisce gialle?». E allora immagini la signora che spesso quel cartoncino è l’unica ancora di

salvezza quando dobbiamo decidere se ce la faremo ad affrontare un’uscita per la città o dobbiamo restarcene chiusi in casa. Una madre di autistico mi ha raccontato che le è capitato di trovare un bigliettino sul parabrezza che diceva: «Vergognatevi, siete lo specchio dell’Italia di oggi… da questa macchina non è sceso nessun disabile!!!». Che bello che ci siano controllori del livello di disabilità che s’indignano se vedono uscire da un’auto contrassegnata un ragazzone con il fisico da rugbista! Poi aspettano che s’allontani con il suo accompagnatore e gli lasciano il loro messaggio avvelenato, del tenore degli avvisi minacciosi che qualche condomino attacca all’ascensore, alla cassetta delle poste, al portone del palazzo in cui con poche e sgrammaticate parole esprime tutto il suo vindice disprezzo per i suoi coinquilini indegni che parcheggiano le biciclette nel cortile, non chiudono bene le porte dell’ascensore, hanno fatto una festa in casa la sera prima. Si sappia una volta per tutte che nei moduli per la richiesta di parcheggio per disabile sono chiaramente indicate anche le persone che possano documentare patologie gravi, anche diverse da quelle strettamente motorie, nello specifico con disabilità intellettiva (per esempio, grave ritardo mentale), che comprometta l’uso di mezzi di trasporto pubblico, e che non possano essere lasciate sole neanche temporaneamente. Quindi nessuno deve sentirsi di usurpare qualcosa se parcheggia in un posto per disabili dopo aver ottenuto il regolare permesso. Il problema successivo all’ottenimento del permesso di parcheggio per disabili è combattere con chi ci usurpa il posto. Mi sentirò finalmente in un paese civile quando non avrò più bisogno di rovinarmi il fegato perché qualcuno ha occupato abusivamente il parcheggio riservato a mio figlio. Cosa che capita sempre più spesso, e sinceramente non mi va più molto di discutere. Ogni volta c’è una giustificazione diversa: chi mi ha detto che deve lavorare, che è andato ad accompagnare un invalido, che non aveva visto il cartello con il numero della concessione, che in fondo era solo per una mezz’oretta, che tanto mio figlio può camminare con le sue gambe e quindi potevo anche aspettare... Addirittura, quella volta che quasi mi accapigliai in un autogrill con un gruppo di centauri che avevano piazzato le potenti moto dentro alle «nostre» strisce gialle, fui minacciato da uno di loro, che mi disse: «Anche mia madre è disabile e so quanto soffre quando vede quelli come lei

che le occupano il parcheggio». Frase surreale, ma per lui evidentemente Tommy e l’amico autistico con cui stava erano usurpatori mentre lui, per diritto di «successione materna», poteva parcheggiare la moto con i suoi compari. Trovo queste situazioni davvero umilianti, non certo per me, piuttosto per tutti quelli che si arrampicano sugli specchi per giustificarsi, spesso anche con molta arroganza. Una volta una megera ha fatto retromarcia sgommando come volesse investirmi, solo perché le facevo notare che non avrebbe dovuto parcheggiare nelle strisce gialle. Un giorno poi non ce l’ho fatta più, dopo avere assistito a un nuovo insediamento abusivo in parcheggio riservato a disabile, messo a punto con una vera e propria strategia da guerra psicologica. Sotto il parabrezza dell’auto l’occupante aveva messo un cartello con il numero del suo cellulare, per essere chiamata in caso di bisogno (inutile sottolineare la delicatezza, se al posto di un padre con un figlio autistico ci fosse stato un anziano signore invalido, o con difficoltà di camminare… lei certo non poteva sapere a chi fosse riservato quel parcheggio). Per colmo di spocchia, accanto aveva sistemato un cartoncino con il logo di una rete televisiva, come se fosse un motivo valido per occupare il parcheggio di un disabile il fatto di lavorare alla tv. (Nel mio palazzo ci sono varie società di montaggio, quindi c’è un viavai di programmisti, registi, creativi, artisti.) Cosa era, un suggello di casta? Come per dire: «Io sono della televisione e parcheggio dove voglio!»; oppure: «Bada che potrei essere un vip, non alzare la voce quando mi chiami…»; o, peggio che mai: «Sto lavorando, capiscimi, sono della televisione…». Mica pizza e fichi! Naturalmente ho chiamato e fatta nera la persona che ha risposto, tanto che a spostare l’auto ha mandato una spaventatissima collaboratrice che si è beccata tutti i miei improperi, fra l’altro senza essere colpevole. Naturalmente ho immortalato in una serie di foto la sequenza dell’azione di pura prepotenza di cui sono stato testimone: l’auto parcheggiata con tanto di parabrezza con il cartello. E poi pubblicato tutto sul mio sito, così che la storia è stata ripresa subito da giornali on line ed è diventata pubblica. Puntuale mi telefona il giorno dopo la proprietaria dell’auto, ma io le ho risposto che non mi andava di parlarle. Allora mi manda un sms strappabudella. Io ero stato violento e vessatore nell’approfittarmi del mio status di affermato giornalista. Avrei dovuto, al massimo, chiamare i vigili,

non sputtanarla in quella maniera. Fra l’altro, lei era sotto chemio e quindi si affaticava a camminare. Chissà perché me l’ha scritto, sicuramente per farmi sentire in colpa, o forse solo per giustificarsi. Fatica sprecata in entrambi i casi. Non sono insensibile al suo (eventuale) problema, ma perché questo dovrebbe giustificarla dall’occupare un posto riservato? Comunque, da allora per me è stata guerra aperta, non certo a colpi di bloccasterzo o cacciavite come molti suggeriscono. Ho sferrato il contrattacco, approfittando dei tanti che si sono appassionati alla mia campagna antiabusivi. Un’affascinante imprenditrice siculo-svizzera mi ha proposto un prototipo di sentinella elettronica per parcheggi, che si potrebbe estendere a tutti i disabili dopo aver fatto il test con i nostri ragazzi. Si tratta di un dissuasore acustico e luminoso che entra in azione quando il parcheggio viene occupato da un’auto non autorizzata, mentre una mappa on line localizza immediatamente l’occupazione segnalandola a chi di dovere (proprietario, vigili eccetera). Poi è arrivato un amico, direttore di una società dell’Aci, e mi ha proposto la sperimentazione di un dissuasore molto più semplice: un arco d’acciaio, che si alza e si abbassa con il telecomando, di quelli che si vedono nei parcheggi condominiali. In onore di mio figlio l’hanno battezzato «Tommy». Ho subito pensato che se il progetto avesse avuto fortuna, il nome del mio capoccione sarebbe stato considerato il guardiano dello stallo di ogni disabile. A essere sincero, trovo molto triste dover arrivare alla conclusione che il problema dell’occupazione selvaggia dei parcheggi per disabili può essere risolto solo con un dissuasore che impedisca l’accesso alle persone non autorizzate. C’è stato anche chi ha scritto che la mia idea del dissuasore era vergognosa perché i diritti dei disabili non vanno imposti con la forza della tecnologia. Posso essere d’accordo, sarebbe bello che bastassero campagne persuasive per evitare il furto del posto da parte dei furbetti. Del dissuasore «Tommy» si è scritto molto quando iniziai la sua sperimentazione nello stallo riservato a mio figlio. Almeno si è parlato di un problema a proposito del quale culturalmente dobbiamo tutti dividerci la vergogna. Speravo potesse essere il primo passo concreto per una campagna che investisse tutto il paese, partendo dal mio municipio. Il problema è diffuso in ogni città italiana: non esiste la percezione che i disabili abbiano realmente bisogno di avere dei parcheggi disponibili. In più c’è da dire che tante campagne d’informazione che hanno lambito il tema della disabilità

hanno però anche accentuato il concetto che il nostro sia solo un popolo di falsi invalidi, di millantatori, di persone che usufruiscono impropriamente di privilegi per un loro status che è sempre tutto da provare. Questa impressione generale ha creato una radicale indifferenza verso i minimi presidi dedicati a rendere meno pesante la vita quotidiana a chi abbia delle difficoltà. L’ultima indagine del Censis sulla disabilità è di maggio 2014 e mi conferma questo ulteriore problema nel problema. La disabilità è percepita da 2 italiani su 3 essenzialmente come limitazione dei movimenti, mentre in realtà la disabilità intellettiva è più diffusa in età evolutiva e rappresenta l’aspetto più misconosciuto, al limite della rimozione. Nemmeno a me diverte il cancelletto elettronico sotto casa, che mi ricorda ancora di più che mio figlio ha, e avrà sempre, un problema con il resto dell’umanità. L’ho scritto dal primo momento in cui si è parlato di dissuasori. Sono però convinto che sia necessario un primo passo perché si possa segnalare, in maniera evidente, quello che non è stato finora considerato un problema da affrontare istituzionalmente, magari con una campagna basata sul principio che chi si approfitta dei posti dei disabili non è più furbo degli altri, ma solo un povero sfigato. Questo, secondo me, è un messaggio convincente, soprattutto per i più giovani, a cui nessuno insegna che bisogna rispettare le strisce gialle. Se nessuno ha ancora pensato d’iniziare una campagna culturale sugli spazi riservati ai disabili, proviamo a farlo noi autistici, che siamo i più «invisibili» tra tutti. Saremo i primi a essere felici se andrà a vantaggio anche di tutti gli altri. Mi piacerebbe vedere un dissuasore in ogni parcheggio per disabili della città. Si consideri che è un deterrente soprattutto psicologico – se uno volesse, basterebbe un piede per abbassarlo –, ma l’idea è che possa ricordare un principio di civiltà rispetto al diritto di movimento dei disabili. Me lo hanno esposto in maniera perfetta e lucida le lettere di una madre: L’automobile, per noi genitori di un ragazzo autistico, non è semplicemente un mezzo di trasporto. È anche un rifugio dove ci si può ricoverare con il ragazzo per il tempo necessario a disinnescare o smaltire una crisi di ansia, evitando che fugga in mezzo alla strada o che aggredisca il primo malcapitato che si trova davanti. È un piccolo avamposto di casa nostra, dove ci sentiamo più al sicuro e dove possiamo piangere liberamente prima di rimboccarci nuovamente le maniche e ricominciare.

E di un padre: Mio figlio, persona autistica di 26 anni, intorno ai 15 anni, appena sceso dalla macchina scappava e a nulla valevano i miei sforzi fisici per evitare che si allontanasse dal portone di casa. Spesso qualche vicino mi aiutava, a proprio rischio e pericolo. Domenico, infatti, è un ragazzone, ma due persone non eravamo sufficienti a bloccarlo!! E io vedevo l’agognato portone … allontanarsi sempre più!

E, ancora, una mamma di una bambina autistica di 9 anni: Comprendo pienamente il «busillis» del parcheggio. Se supero il portone della scuola non avendo trovato un parcheggio prima, Silvia inizia a irrigidirsi e chiede: «Ma la scuola è quella! Non andiamo a scuola!?». Comunque quasi mai io riesco a parcheggiare nelle strisce gialle, perché la maggior parte delle volte trovo auto con le 4 frecce che scaricano bambini perfettamente sani e neurotipici: «Tanto ci sto pochi minuti» ti dicono. Nooo, perché io invece vengo a scuola per mettere radici in quel benedetto parcheggio!!!

Non è esagerata la mia battaglia per il riconoscimento di un diritto al parcheggio per gli autistici. La questione va molto oltre l’indubbio vantaggio di poter gestire i propri ragazzi più agevolmente: significa garantire ai loro accompagnatori una vita più serena. Pongo una questione di principio: cosa sarà mai un parcheggio per ogni autistico rispetto al malessere generale della comunità dei neurotipici? Ci sono, almeno nella città di Roma, molti parcheggi riservati con la dicitura «Riservato corpo diplomatico», sulla liceità dei quali nessuno si sognerebbe mai di obiettare, e sui quali c’è anche molta più reticenza all’occupazione abusiva rispetto ai parcheggi per disabili. Per questa ragione mi divoro di rabbia interiore, ma non riesco a essere giudice imparziale delle persone che vedo così spesso nascondere a malapena un profondo senso di fastidio per dover concedere anche solo una briciola del loro spazio fisico ed emotivo a favore di esseri umani che, in linea di principio, nessuno può negare che abbiano diritto a essere agevolati nelle loro difficoltà. Quando si ha fretta e non si trova parcheggio, ci si inventano mille giustificazioni sul tempo breve della sosta, sul fatto che magari nessuno si farà vivo a reclamare, o magari persino l’idea che alla fine noi produciamo e abbiamo una vita completa da vivere e pertanto abbiamo diritto a ogni

frammento di città disponibile. Gli «altri» se ne stiano a casa, negli istituti, o dove meglio possano essere archiviati. Tanto, che vanno a fare in giro? Ecco il punto: il disabile psichico è condannato alla nullafacenza, quindi è potenzialmente un «parassita», già lo si mantiene in vita, non si potrà certo pretendere che ci si faccia carico anche dei suoi spazi urbani! Ho letto troppa ignoranza negli imbarazzi, nei fastidi, nei nervosismi di quanti ho provato a far ragionare sul fatto che non sia un’azione di cui andar fieri prendersi il posto di mio figlio. Ne sono sempre uscito sconfitto. Le volte in cui sono riuscito a non farmi prendere dalla collera, ho portato a casa il magone soffocante di quello che deve giustificarsi di non aver rubato una merce a cui, pur avendola regolarmente pagata, non era stato tolto il sensore che fa scattare l’allarme all’uscita di un grande magazzino. Alla fine, comunque, il dissuasore «Tommy» è stato rimosso solo dopo un paio di settimane. Ufficialmente perché era finita la sperimentazione; in realtà, nel frattempo c’era stata la risposta del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che, dopo la richiesta del municipio per concedere l’autorizzazione all’installazione, aveva, di fatto, dato parere negativo sull’intero progetto con la seguente motivazione: «Trattandosi di aree destinate alla riserva di sosta non sembrerebbe preclusa la possibilità, qualora non fossero occupate dal titolare, di essere utilizzate per una semplice manovra di fermata». In sintesi, secondo il ministero, quando lo stallo è libero dall’assegnatario, chiunque può metterci la macchina, basta che dica che si è solo fermato… Il risultato catastrofico, secondo me, sarà che ora un disabile non potrà più protestare: non gli resterà che aspettare che la «fermata» altrui abbia termine. Penso che sia quindi finita così anche la mobilitazione sul problema degli stalli per disabili, che nel nostro paese sono da oggi ufficialmente intesi come territorio di nessuno, indifendibili, una pura formalità. Lo scopo del dissuasore doveva essere quello di richiamare l’attenzione dei «distratti» per superficialità, per incuria, perché nessuno ha mai spiegato loro con sufficiente chiarezza e convincimento il diritto di un disabile ad avere delle facilitazioni che compensino i suoi problemi a muoversi per le città. Ma la risposta istituzionale ancora una volta è desolante. In senso lato, giustifica chiunque lasci la macchina impropriamente parcheggiata nelle strisce gialle, perché potrà poi dire: «Ma mi ero fermato

solo cinque minuti!». Di sicuro sarà corretto ai termini del regolamento stradale, ma rivela un vuoto normativo enorme. Il legislatore dovrebbe tenere conto che il livello di sensibilità verso i disabili si è evoluto enormemente da quando sono state emanate regole per i parcheggi e contro le barriere architettoniche. Ma è impossibile considerarsi un paese civile quando ancora si finge che non esista il problema dei troppi che non rispettano il diritto del disabile a circolare e quindi a parcheggiare. Considero quella sui parcheggi una battaglia culturale al momento persa, e mi dispiace. Altri comuni avevano già chiesto di entrare a far parte del progetto, tantissimi disabili mi avevano scritto, sentendo per la prima volta che qualcuno si era accorto della quotidiana frustrazione di dover reclamare un sacrosanto diritto. Pazienza, torneremo a discutere con tanti bravi signori e signore che ci diranno che avevano fretta, che avevano da fare, che si erano fermati solo un momento, che alla fine forse sarebbe meglio che il disabile se ne stesse a casa. Non potremo nemmeno protestare: il ministero li ha autorizzati. I miei amici ingegneri, però, non si sono dati per vinti e già stanno progettando un «sensore» da incorporare nell’asfalto del parcheggio: se questo non riconosce l’auto per cui è riservato, inizia a suonare una sirena; così il ministero non potrà recriminare nulla: la sola manovra sarà possibile, ma non l’occupazione giustificata come fermata momentanea. Si dirà: che paura potrà mai fare una sirena? Ci penseremo. Magari, invece che una sirena, potremmo mettere un generatore di roboante e fortissimo pernacchio. Ci piace immaginare che l’elegante signora con la sua Smart o l’incravattato professionista nel suo Suv se ne andrebbero di tutta fretta il prima possibile, per non essere indicati come origine dell’oltraggioso rumore. Lo so che sono mezzucci, nessuno mi prenderà più sul serio quando dovessi riproporre il tema dell’importanza di una battaglia culturale sui parcheggi per disabili. Eppure dovrebbe far riflettere la generale indifferenza della maggior parte delle persone all’idea che quel piccolo rettangolo delimitato da strisce gialle possa essere considerato «zona franca». Non pretendo che esploda miracolosamente una generale sincera partecipazione emotiva verso l’universo della disabilità. Se faccio uno sforzo di memoria retrospettiva, ricordo benissimo che, prima che mi scoppiasse in mano la

granata di nome Tommy, nemmeno io avevo un pensiero particolarmente assiduo verso le persone come lui. Che sapevo degli autistici? Poco. Come moltissimi al mondo, avevo visto Rain Man; poi avevo incontrato una volta, come cronista, un ragazzo autistico di una trentina d’anni che aveva compiuto un’impresa alpinistica eccezionale. Mi ero dimenticato di lui, ma mi è venuto in mente mentre scrivevo queste pagine e ho fatto una rapida ricerca: si trattava di Alberto Rubino, che nel 1999, a trentasette anni, aveva partecipato a una scalata dell’Himalaya. Quando lo conobbi, Tommy era nato solo da un anno e non potevo immaginare certo che quel ragazzone alto quasi due metri che non mi guardava in faccia mentre cercavo di dargli la mano era la profezia di ciò che sarebbe diventato quel batuffoletto rosa che mi portavo a spasso in un marsupio, mentre il maggiore, Filippo, cominciava già a giocare con me con i primi videogiochi horror in serate epiche in cui ancora ero io a insegnare a lui. Provo a sforzarmi di ricordare come percepii Alberto, l’alpinista autistico: pensai a una persona che fosse da un’altra parte e mi pesò la sua assenza, quel suo guardare oltre le persone che aveva attorno. Lui era così differente da quel Raymond, con la faccia di Dustin Hoffman, che per la maggior parte dell’umanità civilizzata resta l’unico modello d’autismo possibile. Quando rileggevo le bozze di questa pagina, mia moglie mi ha rivelato che Tommy ha incontrato Alberto Rubino ogni martedì mattina per un paio d’anni: entrambi alle nove aspettavano nell’anticamera della piscina nello stadio Flaminio. Tommy andava a nuotare e Alberto a correre, si sedevano sempre vicini ma non si sono mai salutati, mai parlati, mai sfiorati.

XVII

I folli in maschera

«Ci siamo tolti la maschera per non essere riconosciuti nella follia che affolla il nostro muto pensare.» È una frase, questa, che non ha molto senso all’apparenza: lo assume se spiego che era la didascalia di una foto di me e Tommy con delle maschere bianche sul volto. Era il nostro ennesimo Halloween anticipato: già dai primi di ottobre Tommy comincia a far richieste di «mostri». Non è colpa sua; è che, da autistico, lui ha un suo calendario interiore basato sulle ricorrenze emotive più importanti del suo anno sensoriale. Una di queste corrisponde alla liturgia di Halloween, che per lui inizia i primi giorni d’ottobre, quando i negozi dei cinesi cominciano a esporre le prime zucche arancioni e le maschere di gomma da mostro. Da allora, inizia un martellante stillicidio perché si ripeta il rituale allestimento nel mio studio del set infernale di un party di Halloween. Possiedo oramai tutto il materiale: teste mozzate che appendo alla trave dell’altalena domestica di Tommy, zucche che s’illuminano ovunque a terra, vampiri, diavoli e streghe che occhieggiano dagli angoli. Illuminazione da film horror, braccia divelte, mani amputate, vassoi di finta coratella un po’ ovunque. Sottofondo di lamentazioni, strida di uccellacci e urla di torturati. Questo lo tranquillizza, e per interi pomeriggi tutto riprende a scorrere tranquillamente nel mio studio come se nulla fosse. Disegni, merende, stravaccamenti sui cuscinoni con l’iPad in mano. L’importante è che Tommy si senta rassicurato per tempo che Halloween arriverà anche per lui. L’unico problema è che quando poi finalmente la festa arriva anche per il resto del mondo, lui si è assuefatto… Inizia la lamentela per l’albero di Natale che, a suo volere, già a metà novembre dovrebbe essere bell’e pronto. È così, avere un figlio autistico significa pure dover assecondare e condividere una sua diversa misurazione del tempo. Chiaramente ci si sforza

il più possibile di non restare imprigionati nelle sue ossessioni; giorno dopo giorno si lavora duro per addolcire gli spigoli della sua planimetria mentale. Non è giusto, però, che tutto a lui sia imposto; alla fine occorre trovare un equo compromesso tra i nostri universi in continua collisione. Tommy ha imparato a essere ospite impeccabile persino nelle mie colazioni di lavoro. Me lo porto dietro spesso anche quando viaggio, non c’è persona più amabile che potrei avere accanto nei rari momenti d’evasione, di chiacchiera davanti a un bicchiere (se si trascura qualche ruttino che ogni tanto spara per sfida quando beve Coca-Cola, ma ci stiamo lavorando…), di passeggiata a zonzo per vetrine o librerie. In cambio, io sto gradualmente ridimensionando la mia naturale attitudine a verbalizzare, puntualizzare, frammentare ogni argomento in infiniti rivoli di ragionamento, verso derive improbabili per la maggior parte dei miei interlocutori. Il mio cosciente narcisismo mi spinge alla ricerca continua dello stupore in chi mi ascolti. Su questo ho articolato la mia «caratteristica» professionale, su questo ho mascherato le mie naturali insicurezze di essere umano. Su questo ho anche, dignitosamente finora, vissuto e contribuito al mantenimento della mia famiglia. A tal proposito, un giorno mi è arrivata una lettera spedita via posta. Chi fosse il mittente mi era da subito parso indifferente, anche perché ritengo abbia usato il più comune degli pseudonimi. La premessa era a dir poco infame: chi scriveva pensava di potersi permettere dell’ironia, ma gli era riuscito malissimo: «Non è che per caso il mutismo di suo figlio dipende in certo modo dall’eccessiva sua loquacità?». Mi accusava, in sintesi, che l’autismo di Tommy fosse colpa mia perché parlavo troppo. Pensai che almeno era un passo avanti rispetto alla teoria della madre frigorifero: il concetto si era evoluto nel padre fonografo, sempre in linea con l’immaginario di genitorialità elettrodomestica che tanto piace a una certa scuola di pensiero, quella che vorrebbe legare a sensi di colpa il proprio corredo genetico. Ma il mittente continuava ancor peggio: «La sua rivelazione rende ragione del suo comportamento radiofonico, onestamente assai indisponente. Quel suo “segare”, interrompere, parlar sopra; una qualche ostentata pruderie…». Pruderie, semmai, è la sua; se ho ben capito, quella che il signore vorrebbe attribuirmi è scurrilità. Ho un linguaggio libero, lo so bene, e spesso maneggio nelle mie esternazioni radiofoniche argomenti che per parte del

mio pubblico esigerebbero una mia decisa presa di distanza «morale», ma io parlo di nefandezze proprio come il chirurgo descrive le anatomie compromesse che individua nel corso della sua dissezione. Ecco, però, che ancora una volta leggo latente la solita condanna per un mio comportamento «irregolare», o peggio «immorale», cui sono ben abituato. Ho sempre pagato prezzi altissimi per la mia insistenza nell’andare a tormentare ogni benpensante sciorinandogli sotto al naso tutto quello che a lui fa maggiormente orrore, o che non riesce a elaborare. Per questa ragione mi hanno cucito addosso una fama di compiaciuto della sconcezza. Da quando ho iniziato a occuparmi di disabili, e in particolare di autistici, questo conferma in molti il pregiudizio che io sia un’anima persa. «Nicoletti, ma se tu avevi una figlia velina ci parlavi tutti i giorni di fica!» mi scrisse una volta un ascoltatore via sms, infastidito da una serie di trasmissioni che avevo dedicato all’autismo e all’handicap. «Confesso che a volte son costretto a cambiare canale» continua imperterrito l’autore della lettera. «Ora però mi rendo conto del disagio e direi del cupio dissolvi che sembra sottendere alle sue provocazioni: non c’è di che vergognarsi o “scontare”… Purtroppo le malattie capitano, e prima o poi tutti ci imbattiamo nel limite…» Alla fine, il tipo, dopo aver citato Tolstoj, mi allega un articolo del «Messaggero di Sant’Antonio» che parla di una fondazione che potrebbe anche interessarmi per la mia idea d’Insettopia; in quanto metterebbe a disposizione beni della Chiesa per progetti sociali (sempre tutto da verificare). La premessa della lettera è però così sgradevole e vi trapela una tale ottusità, da precludermi ogni desiderio di approfondimento. Perché ho scritto di questo episodio? Primo, perché sono anche io un essere umano a cui girano le palle, e farlo mi è servito da sfogo. Secondo, perché di puzzoni simili – saccenti, spietati, ipocriti e caritatevoli – è costellata la mia e la vostra strada. Avevo omesso un particolare… Alla fine della lettera il suo autore mi scrive di avere esperienza come «animatore di disabili». Chissà cosa intendeva? Non contento, aggiungo all’elenco dei nefandi anche l’ultima «divergenza» in chat con una madre sconosciuta… Vale la pena!

MAMMA:

Salve, sono la mamma di un bambino speciale di soli 2 anni. Cosa dire… lei è

un ottimo padre e complimenti per il libro e per il suo bellissimo Tommy. Il Signore vi benedica sempre. Ricordi, Dio non ci manda mai più di quello che non possiamo sopportare. Siamo stati scelti per qualcosa di veramente speciale. Il Signore ha un piano magnifico per noi e i nostri ragazzi speciali. IO:

Nooooooooo.

MAMMA: IO:

Scusi, nooooooooo cosa?

È la frase più irritante che possa sentirmi dire, nel mio libro lo scrivo…

MAMMA:

Be’ forse per lei, io non mi sento irritata, vuol dire che credendo in Dio io – e

ripeto, io – mi sento di poter affrontare questa avventura. Naturalmente c’è chi sta meglio di noi, ma anche chi sta peggio. Le dico un’altra cosa, tempo fa ero convinta che se mio figlio fosse morto sarebbe stata la cosa migliore… Poi il Signore ha eliminato questo pensiero facendomi capire che, avendo mio figlio accanto, posso sempre pregare per avere nuove forze per affrontare le difficoltà e magari chissà un domani potrei ricevere un miracolo. Mentre alla morte non c’è rimedio. Mi creda, lei forse più di me sa che la nostra non è una vita facile, ma sarebbe stato meglio trovarci con loro in un reparto di oncologia? Rifletta bene, e da mamma già so la risposta che mi darà… Buona notte. IO:

Sia gentile, mi lasci in pace…

MAMMA:

Certamente. Addio.

Vorrei tanto vedere madri come questa, invece che mortificarsi sorridere, tornare ad aver voglia di farsi belle, come mi scrisse Mariella, di andare a ballare, di avere qualcuno che le guardi non soltanto come appartenenti a un ordine di suore, votate al martirio e alla sofferenza. Quando ci sarà qualcuno che riuscirà a far riconoscere alle madri di autistici il diritto a una loro futile allegria terrena, avrà fatto il più grande passo avanti verso la laica speranza di una vita dignitosa e serena per i loro figli. Le mamme di autistici diventano protagoniste assolute del rapporto con il figlio solo se c’è di mezzo un fatto di sangue o di proclamata follia per diagnosi mediatica. È successo quando una madre cinquantenne un giorno ha preso a coltellate il figlio di undici anni. Non può esserci commento possibile alla notizia di una madre che accoltella il figlio di undici anni. Non basta appigliarsi alla scarna formula da lancio d’agenzie che informa vagamente che «soffriva di depressione», a meno di voler correre il rischio di somigliare agli opinionisti da salottino tv, quelli

che hanno l’espressione compunta davanti ai plastici di baite di montagna, alle copie di mannaie, alle foto di pavimenti con macchie ematiche. Non è invece secondario il fatto che il bambino fosse autistico, l’elemento più delicato e «sensibile» che è trapelato dal riserbo necessario attorno alla vicenda. Oggi è d’uso un generalizzare diffuso, quanto scellerato, che mette in rapporto l’autismo con episodi di cruda cronaca, quindi non giurerei che fosse proprio quello il disturbo di cui soffriva la vittima di quell’atto di disperato furore. Ammesso comunque che il bambino di questa storia fosse autistico, comprendo la depressione della madre, anche se naturalmente non giustifico affatto il suo gesto. Per una madre che viva in Italia non esistono, almeno al momento e per quello che io ho avuto modo di conoscere, molte situazioni altrettanto angosciose che dover gestire un figlio autistico alla soglia dell’adolescenza. Episodi come questo non devono farci esprimere giudizi, ma essere l’occasione per aprire una seria riflessione su quale sia il profondo senso di abbandono in cui si trova una famiglia con questo problema, senza interlocutori certi e informati, spesso sola e affogata in un disprezzo mellifluo e impalpabile, ma crudelmente lancinante. L’autismo in Italia, fatte salve alcune straordinarie eccellenze, è ancora istituzionalmente appannaggio di pressappochismo, ignoranza, superstizione. Nuclei familiari che lentamente vanno in disfacimento, dove spesso le madri restano sole a gestire un amatissimo vampiro. Tutto questo non giustifica le coltellate, ma serve a distribuire almeno la responsabilità di alcuni impazzimenti materni. Mia moglie Natalia ha passato mesi a fare avanti indietro tutti i giorni da via dei Sabelli, dove c’era un centro di neuropsichiatria infantile dell’università, ad aspettare seduta su una panca assieme ad altre madri dalle otto alle quattordici, mentre i bambini erano con una terapista, o, per ammazzare il tempo dell’attesa, facendo passeggiatine per il quartiere San Lorenzo, noto e caratteristico luogo di appuntamento per botte di vita serale e notturna, ma deposito di antichi fricchettoni sfatti durante il giorno. Fu quando Tommy aveva più o meno cinque anni: sapevamo che presentava «qualcosa» che aveva a che fare con l’autismo, ma figuriamoci se potevamo dirlo autistico. In via dei Sabelli non trapelava mai secca e inequivocabile la

parola «autistico». Si osservava, si valutava, si aspettava, e i bambini intanto crescevano. Il figliolo poteva essere accompagnato fino a una porta, poi lo si consegnava a una terapista che lo portava con sé dentro a una stanza di cui dall’esterno s’intravedevano giochetti vari, seggioline, tavolinetti colorati. I genitori restavano fuori, leggevano, chiacchieravano tra loro e aspettavano che il loro ragazzo terminasse la terapia e lo portavano a casa. Così passavano anni ai tempi di Tommy piccolo, con l’idea che si fosse fatto qualcosa di utile per lui, mesi e mesi in panchina ad aspettare… Ogni tanto la dottoressa ti chiamava nella sua stanza. C’erano anche lì sparsi dei giocarelli. Ricordo la luminare che, con un certo senso di superiorità, tirava a Tommy dei pupazzetti per farlo trastullare con un castello sistemato davanti alla sua scrivania, faceva qualche domanda ai noi genitori mentre osservava il bimbo che si arrabattava, poi non diceva nulla. Tornavamo a casa convinti che si trattasse di qualcosa da cui Tommy sarebbe uscito. Era radicata questa idea di «patologia lontana», dell’autismo impalpabile che poi, crescendo, si sarebbe come diluito. Il problema vero non è che noi ci fossimo fatti questa convinzione, ma piuttosto che nessuno avesse veramente le palle per dirci: «Vostro figlio è autistico, cominciate a fare qualcosa». Forse perché a nessuno era ben chiaro cosa dovessimo fare, e di tempo con Tommy così ne abbiamo perso tanto. Ricordo le ore di logopedia, completamente inutili come so oggi, ma allora una signora anziana si era cocciutamente impegnata a far parlare nostro figlio e ogni volta ci teneva a mostrarci quelli che secondo lei erano progressi, con lui che naturalmente non ne voleva sapere. Una mia collega disgraziata una volta mi convinse ad andare da suo fratello omeopata, mi fidai del consiglio, era tutta gente di grande cultura, molto di sinistra, medici in famiglia… Questo dottorino, dopo aver consultato un librone che sembrava la Bibbia che si portano i preti durante la messa, mi dette delle goccine e mi chiese di far disegnare a Tommy una casa e riportarglielo dopo un mese. Andai avanti con due o tre di quegli appuntamenti, sempre con un disegnino di casa e le goccine da prendere, mi pare, mattina e sera. Poi finalmente mi ruppi le palle, anche perché mi rendevo conto benissimo del sottofondo sciamanico di quella

pseudopratica… Oggi almeno sono sicuro che l’autismo non passa facendo disegnare casette e somministrando acqua con il contagocce.

XVIII

Il sulfureo autismo

Tutto sembra possibile se non ci si decide a prendere alla svelta coscienza del fatto che quel soggettone, bello e robusto, autistico lo sarà per sempre e un giorno non ce la farai più fisicamente a gestirlo. Il problema vero è proprio questo: noi invecchiamo. Chiunque invecchia e nulla funesta maggiormente un sereno accettare la parabola naturale della propria esistenza, quanto il cruccio di non aver fatto tutto il possibile per i propri figli. Mio padre mi ha frastornato per anni con il racconto delle dispute accanite con i suoi numerosi fratelli. Mai, giurava, ci avrebbe messo in una situazione simile, agendo per tempo e con senso di giustizia. Organizzò un casino di successione così ingarbugliato che nemmeno a studiarlo a tavolino si potrebbe fare qualcosa di simile. Dopo la sua morte, io non ho mai più parlato né a mia madre né ai miei fratelli. Vorrei spezzare questo meccanismo perverso di nemesi familiare, soprattutto non vorrei lasciare al mio primogenito Filippo un onere così complicato come la patata bollente di Tommy adulto, poi uomo maturo, poi anziano. Forse questa è la ragione per la quale posto continuamente sue foto su Facebook. È come se volessi immagazzinare per lui una riserva di socialità futura. Moltiplico l’esistente di Tommy nella sua età del maggior splendore. Lo faccio fino a che ci sono. Racconto per lui il suo quotidiano. Ora Tommy è bello... Non lo sarà forse per sempre. Il suo maggiore fascino è fisico. Non potrà mai, come faccio spesso io, cancellare con la chiacchiera le sue rughe, le sue stempiature, il suo ventre rilassato. Non riesco a pensare Tommy vecchietto, o forse mi viene da dire che quando avrà 90 anni sarà un novantenne in salute e svampito come tutti a quell’età. La demenza senile dei suoi coetanei lo renderà finalmente non più «diverso», anzi lui avrà il vantaggio di essersi esercitato tutta la vita alla

diversità di passo rispetto al mondo degli uomini che corrono veloci con le parole, che hanno pensieri che vanno oltre il «fame, sonno, cacca, pipì, bene, male». Filippo non se lo merita proprio di ereditare un peso simile, oltre all’angoscia che ha divorato i suoi genitori e che ha tolto a lui anni di serenità. Quando Tommy doveva nascere, noi eravamo preoccupatissimi per organizzare un sistema di compensazione per la gelosia che avrebbe provato come qualsiasi primogenito, quando gli viene espugnato il primato assoluto di divoratore esclusivo dei genitori. Naturalmente mia moglie e io ci dividemmo i compiti nell’immediatezza dell’evento: io ero più concentrato nella «coltivazione» del primo figlio, che avviai precocemente al videogame per riuscire a integrare il mio lavoro fisso davanti a un monitor con la necessità della badanza didattica, Natalia s’impegnò nella «fabbrica» di Tommy. Com’è oramai noto, poi il Capoccione nacque quando io non c’ero. E nei primi anni della sua crescita io sono stato comunque sempre meno presente di quanto lo fossi stato per suo fratello, che avevo la sottile vanagloria di ogni neopadre di portarmi spesso appresso, anche solamente come piccolo trofeo dell’esser riuscito a costruirmi una trappola per la morte. Passò qualche anno in cui io coltivavo il mio clone e a mia moglie cominciarono le ambasce delle prime verifiche, delle visite specialistiche, del contatto con maestre, terapeute ecc. Tommy per me e Filippo era il minore di casa da portarci dietro: alla fine non dava poi molto fastidio, era silenzioso e l’unico problema era fargli mangiare i cibi che lui non includeva nella sua lista personale dei gradimenti. Quando Filippo verso i sette anni decise di fare la prima comunione era, devo dire, molto ispirato. Lo assecondai perché pensavo, e penso tuttora, che è preferibile far seguire ai figli l’iter sociale di una pratica religiosa, che comunque darà loro un elemento di giudizio per decidere da grandi a quale Dio raccomandarsi l’anima, o se preferiscano non raccomandarsela per nulla. Il giorno della cerimonia, quindi, era in fila con tutti i suoi compagni di classe, vestito da comunicando e molto preso dall’enfasi emotiva di quel momento. Quello che accadde devo dire che fu lui, anni dopo, a ricordarmelo, infatti andai a recuperare in vecchi cd di backup immagini di quell’occasione e ritrovai il breve filmato su cui Filippo ancora oggi ride.

Io, con altri genitori, stavo nella seconda fila di panche, dietro i piccoli comunicandi inginocchiati nel primo banco vicino all’altare. Il prete girava con il calice in mano e a uno a uno li imboccava con l’ostia. Per un gioco di luci, da una finestra in alto vicino al soffitto della chiesa (orribile architettura di mal interpretato razionalismo liturgico anni Settanta), un raggio di sole filtrato da una vetrata colorata arrivava dritto come un laser sulla capoccella di Filippetto a mani giunte. Un quasi miracolistico effetto speciale che tutti notammo dandoci di gomito tra parenti e genitori. Io, naturalmente, colsi l’occasione per segnalare agli altri quella mistica predilezione per il mio figliuolo che sembrava incoronato da un’aureola luminescente. Tommy era in quel periodo già quasi battezzato come autistico nel nostro immaginario, ma ancora nella fase interlocutoria su ciò che avrebbe per noi di fatto significato quella denominazione d’origine incontrollabile. Mentre il prete stava porgendo l’ostia a Filippo, con la formula di rito, Tommy, per bilanciare quell’afflato paradisiaco del fratello, manifestò un palese sintomo di possessione diabolica, o per lo meno questo sentii sussurrare a mezza voce nel brusio di beghine e sacrestani che sedevano accanto a noi nel settore della chiesa riservato ai neocatecumeni. Erano tipi fieri del fatto che facevano il loro cammino, qualcuno aveva una veste bianca e tutti erano sorridenti e molto partecipativi alla cerimonia con canti e schitarrate (che odio sin dai lontani tempi delle messe beat della mia fanciullezza avanzata). Insomma, Tommy, nell’attimo più sacro per il fratello, si era messo a urlare «Aiuto», con quel vocione che si porta dietro sin dal primo vagito. «Aiuutooo! Aiutoo!! Papà…» Vai a spiegare che quella era una delle tre o quattro parole multisignificato che lui conosceva e che semplicemente mi segnalava magari che qualcosa lo stava spaventando, forse proprio i canti e le chitarre, o l’organo elettrico che riempiva le navate, o la voce del prete che arrivava a tutto volume dalla cassa attaccata a una colonna, proprio sopra la nostra testa. O forse, peggio ancora, sentire il biascichio sommesso di quella folla inginocchiata, che per noi erano fedeli oranti, ma per lui autistico magari equivaleva all’avvicinarsi di un’ondata di tsunami che tuona sopra alla testa. Io lo portai fuori dalla chiesa tra gli sguardi di rimprovero dell’assemblea dei fedeli. Era accaduto molte altre volte di dover portare fuori quel bambino che sembrava indifferente alle regole del posto. E non mancava mai qualche

ben intenzionato che, ignorando la presenza di noi genitori, si rivolgeva a Tommy direttamente, rimproverandolo o cercando di fargli capire che non ci si comportava in quella maniera in chiesa. Figuriamoci quanto lui potesse dar ascolto a quelle raccomandazioni. Comunque, oramai la comunione Filippo l’aveva fatta, noi potevamo anche fare a meno della messa se era diventata un’ulteriore occasione di stress sociale, oltre alle tante che ci toccava affrontare al tempo in cui ancora eravamo tutti molto fragili. Non avevamo acquisito quelle tecniche ninja di contrasto all’attacco emotivo dei perplessi, degli scocciati, degli infastiditi e dei curiosi. Le principali categorie in cui un genitore con autistico d’ordinanza al fianco classifica la folla inconsapevole che fende ogni giorno. Da quell’episodio maturai la coscienza profonda di cosa possa significare essere accusato d’essere ricettacolo di possessione diabolica. Di Tommy qualcuno forse lo pensò solo per avvelenamento da integralismo, o forse lo disse per pura facezia. Io stesso ci risi, sul momento tutto pareva talmente paradossale da sembrar persino comico. È facile immedesimarsi in quanti, tornando indietro nel tempo, si sono visti affibbiare la patente d’indemoniato solo perché avevano punti di vista differenti da quelli comuni. Lambiti da follia, estrosità, cupezza o euforia, si saranno sopportati l’onere di dover spiegare di non aver stretto alcun patto con il Maligno. Lo sprigionarsi di comportamenti sconnessi è comunque un sintomo di uscita dal sacro recinto dell’assennatezza. Le tarantolate di Galatina andavano a sbattersi sull’altare di una chiesa perché qualcuno fosse rassicurato che una mano santa potesse guarirle dalla loro femminile irrequietezza. L’iconografia cinematografica di un fortunato filone d’esorcisti vari rappresentava i posseduti in vere e proprie crisi oppositive, quelle che ben conosciamo noi che abbiamo imparato a schivar schiaffi e contrastare morsi. Per ragioni simili restai molto turbato, ma è un problema mio, quando vidi e lessi dell’«esorcismo» che il neo papa Francesco effettuò su un disabile in carrozzella che gli era stato portato davanti tra una folla di fedeli acclamanti. La vicenda di un «esorcismo», vero o presunto che sia, in piazza San Pietro era balzata all’onore delle cronache. Il quotidiano spagnolo «El Mundo» rivelò in un’intervista chi fosse l’uomo su cui il pontefice aveva imposto le mani recitando la santa preghiera. Si trattava di un signore

messicano sulla sedia a rotelle non per disabilità clinica, ma perché posseduto da quattro spiriti maligni sin dall’età di quattordici anni. Meno male, così ho smesso di preoccuparmi, anche perché ho poi letto che il presunto ossesso era in cura da ben dodici preti esorcisti, compreso l’espertissimo padre Gabriele Amorth. Secondo me è importante sfatare l’idea che possa esserci un nesso tra disabilità e diavolo. Sono più che convinto che il papa non lo abbia mai pensato, nemmeno alla lontana: qualcuno al seguito gli avrà chiesto di benedire un uomo, che in quell’occasione era seduto su una sedia a rotelle. Il Vaticano ha smentito si trattasse di esorcismo; padre Amorth in un’intervista a RadioRai ha invece ribadito la possibilità dell’infestazione di quell’uomo: secondo l’esorcista era colpa dei vescovi messicani, ma in tutta questa querelle tra il comico e l’imbarazzato, non è secondo me superfluo ribadire che la disabilità non è una condanna divina, non è conseguenza di comportamenti «immodesti» da parte dei genitori, non c’è lo zampino del diavolo, soprattutto in un disabile di tipo psichico. Queste sono credenze antiche, superstizioni superate nell’attuale società civile. Mica tanto vero, però… Mi è stato raccontato da fonte più che attendibile che una coppia di professionisti di una città di provincia si è rivolta a un noto centro specializzato di neuropsichiatria infantile a Roma: assieme a loro un ragazzo che presentava disturbi del comportamento. Hanno confessato di essersi rivolti ai medici solamente dopo aver affidato il figlio a un esorcista. Vedendo che il loro ragazzo mangiava tranquillamente l’ostia, senza nessun effetto negativo, si erano convinti che non fosse posseduto dal diavolo e quindi, forse a malincuore, si erano decisi a rivolgersi a uno specialista d’altro tipo. Il pregiudizio che cova alla base della ritrosia a render noto il disagio di un figlio, o parente, disabile psichico, purtroppo non è del tutto estinto, vale la pena affrontarlo apertamente ogni volta se ne presenti l’occasione. Troppa circospezione, sospetto, ipocrita reticenza avvertiamo spesso attorno ai nostri figli da parte non solo di estranei, ma anche di persone amiche, o addirittura di famiglia. Anche se di fatto viviamo in una società ampiamente secolarizzata, i residui latenti di arcaiche credenze riguardo nessi oscuri tra problemi psichiatrici e insondabili forze maligne, o imprecisati comportamenti «irregolari», sono ancora molto presenti.

«Guardavi in faccia tuo figlio quando l’allattavi?» È la domanda che ancora da molte parti viene fatta alla madre di un autistico: sopravvive comunque l’idea di una colpa alla radice del male. E dietro a ogni colpa, è un attimo che spunti la coda di un demone, ipotesi per molti forse più facile da elaborare che una diagnosi al momento senza cura. L’idea che i malati psichici siano «indemoniati» è più radicata di quanto io non pensassi. Mi ha scritto una donna che da un anno combatte una forma di pazzia improvvisa del marito, così almeno la definisce lei: Molti amici e conoscenti mi hanno più o meno velatamente consigliata di rivolgermi a un prete esorcista. È assurdo! Io continuo a rivolgermi a psichiatri esperti e mi rifiuto categoricamente di prendere in considerazione l’idea del diavolo! Se mio marito non migliorerà vorrà dire che è incurabile o non sono andata dal medico giusto!

Non tutti, però, sono vaccinati come la signora contro l’antico preconcetto. Un padre di autistico mi ha fatto una sua personale analisi sul rapporto tra demonio e autismo: Diavolo è colui che divide (e cosa c’è più dell’autismo che ci separa da nostro figlio): ancora Satana era il termine con cui in greco si descriveva il compito di chi durante un processo era chiamato a «coglierti in castagna» (il pubblico ministero), colui che cercava di tirare fuori il peggio di te (chi fra padri di soggetti autistici non ha mai provato un sentimento del genere...).

Io, se proprio si vuole vedere l’autismo in questa cornice, posso laicamente azzardare l’unico nesso che trovo assimilabile alla radice di ogni tentazione «diabolica» di cui si legge nelle Scritture. È quel momento fatale in cui non ce la si fa più, si perde il senso e la speranza. Per noi corrisponde a quando non si vorrebbe nemmeno più sentire nominare la parola «autistico», tanto quel termine si è abbarbicato nel tessuto connettivo della nostra esistenza cosciente. Confesso che a me di tanto in tanto accade. Soprattutto da quando ho cercato in tutte le maniere per me possibili di trovare soluzioni al malessere che si prova nello stare al centro di un abbraccio così potente da togliere

senso a ogni altro abbraccio, ma così inesorabile da stritolarti lentamente giorno dopo giorno. Rischiare di soccombere per mano di una persona ostile, ributtante, aliena e nemica è un incentivo continuo a combattere e scovare risorse insospettate per resistere e magari contrattaccare. Infatti il «Tentatore» ha sempre un volto accattivante quando vuole fregarci per davvero l’anima. Può quindi capitare che nasca in noi il sospetto che i nostri begli angioloni abbiano come scopo il nostro annientamento, e ci venga voglia di mollare tutto. Un brutto pensiero, che come viene però poi passa, non abbiamo tempo da perdere noi; e le poche tentazioni che ci restano da poter consumare non sono certo quelle che ci porteranno all’inferno.

XIX

Uomini e topi

E vengano pure a sbattermi in faccia le storie dei gattili fatiscenti, o dei topolini da liberare dalla prigionia degli stabulari dove umani crudeli li hanno rinchiusi per usarli nei loro esperimenti. Non mi spaventa la virulenza degli animalisti estremi, i più robusti integralisti che abbia conosciuto. Spesso ho a che fare con loro quando tratto alla radio o in articoli per il mio giornale temi bollenti che riguardano vicende legate ad animali, sperimentazione animale e argomenti correlati. Mi è capitato quando fu organizzato un blitz per salvare delle cavie da un laboratorio del Cnr dove si fa ricerca per malattie genetiche, tra cui anche l’autismo. Mi capita ogni volta che la politica usa strumentalmente l’animalismo come arma demagogica. È che per ogni pubblica polemica che ho con loro, devo poi rendere conto a Marco, tutore di Tommy e vegano convinto, che poi mi porta opuscoli sulla vivisezione. Li leggo e taccio, anche se non sempre molto convinto, io a Marco devo essere molto grato. Da quando è lui a occuparsi dei pomeriggi di Tommy, il ragazzo ha messo su un fisico da paura. Penso che la maggior parte del merito sia da attribuire al fatto che mio figlio dalle 15 alle 21 sia vegano al cento per cento. Non mangia più le schifezze per cui andava matto, tipo würstel e pizza al taglio, ma ha una dieta ricercatissima priva di ogni accenno di grasso animale. L’unico problema è che quando poi viene in studio da me mi svaligia il frigo che contiene quasi solo bresaola e pecorino, la mia fonte maggiore di sostentamento… In realtà, sono anche altri, e importanti, i vantaggi che Tommy abbia un educatore specializzato che tutti i pomeriggi si occupa di lui. Sembra un’altra persona, ti saluta e ti chiede «come stai?». Il che, per un autistico, equivale a recitare la Divina Commedia a memoria. Marco, il tatuato, per Tommy è stato la vera svolta di quest’ultimo anno.

Da quando sono riuscito a ottenere l’«assistenza domiciliare indiretta» e un educatore tra i migliori che ci fossero su piazza, tutti i pomeriggi dalle 15 alle 21 e con grande elasticità di orario, Tommy è radicalmente cambiato. La cosa che deve far riflettere è che questo cambiamento non è costato al contribuente un centesimo più di quanto gli costava il servizio inesistente che avevo prima, vale a dire l’«assistenza diretta» che passava per una cooperativa indicata dal municipio, che mi inviava persone senza alcuna competenza che venivano per tre ore tre volte a settimana e, al massimo, andavano a fare una passeggiatina con il ragazzo. Impossibile pretendere di più da chi non aveva nessuna ambizione a crescere professionalmente per quei pochi euro all’ora che riceveva, mentre la cooperativa che gestiva il servizio si attribuiva il grosso del budget. Questa è la prassi, decide il municipio di residenza chi si debba occupare di un disabile e spende per un servizio praticamente inutile, almeno per un autistico, la stessa cifra che spenderebbe per un servizio altamente specializzato e costante. Nel nostro caso, io ho provveduto a un’integrazione più i contributi per arrivare alla cifra dello stipendio mensile che spetta all’educatore. Così la mia vita e quella di Tommy sono cambiate. Marco è assunto a tempo indeterminato e segue un progetto di cui può vedere giorno per giorno i risultati. Insomma, la nostra esperienza sembrerebbe l’uovo di Colombo. Mi chiedo allora perché lo stesso non venga proposto a chiunque: conosco genitori che hanno lasciato il loro impiego per le necessità dei figli, che non hanno mai un attimo libero salvo quelle tre ore sporadiche di semplice badanza, e che devono poi pagare di tasca propria ore di educatore comportamentale che abiliti il loro ragazzo. Al contribuente, lo risottolineo, tutto costa esattamente la stessa cifra… Perché questo accada come prassi non chiedetemelo; quando pongo la domanda, tutti alzano gli occhi al cielo con un’aria che vorrebbe significare: «Eh, che vuoi farci?». Già, che voglio farci… Mi viene da pensare che far lavorare certe cooperative che si occupano di sociale sia considerato più importante che salvare la vita a delle persone, genitori e figli compresi. La legge è ambigua in proposito al punto tale che il diritto all’assistenza «indiretta», così si chiama la possibilità di scelta dell’operatore, non è sancito in modo chiaro, ma è a discrezione del singolo municipio, che decide quando e come sia il caso di concederla, anche se per l’ente la spesa è equivalente. Capisco che si voglia evitare che le famiglie

lucrino sul contributo d’accompagnamento del disabile, non sono poi così ingenuo da non sapere quanto sia facile trasformare in risorsa un figlio con handicap. Leggo sin troppo spesso di ritrovamenti di persone con problemi di tipo psichico rinchiuse per anni in una stanza e lasciate marcire, utili solo ad assicurare alla famiglia un reddito mensile. È di pochi mesi fa la notizia di una donna cinquantenne che a Napoli è stata rinchiusa per trent’anni in un bagno di due metri per tre nell’appartamento dove viveva sola e dove era stata segregata dalla madre che si vergognava di avere una figlia con problemi psichici, ma che ogni mese incassava il suo contributo d’invalidità. Le portava due volte a settimana degli avanzi, che buttava per terra come se lei fosse un animale, lasciata vivere nella sua sporcizia in un porcile. Ogni tanto la lavava sul terrazzo con la pompa dell’acqua. E certo i vicini di pianerottolo non potevano non sapere della segregata che viveva prigioniera dietro ai tramezzi del loro appartamento. Magari quegli stessi vicini si saranno preoccupati che il regolamento dello stabile impedisse per decoro di fare feste da ballo nelle ore di riposo, ma poi facevano finta di nulla per un essere umano ridotto come il più maltrattato degli animali, solo perché psichicamente non adatto a sostenere relazioni regolari con il resto del mondo, o almeno di questo era convinta quell’impeccabile signora ultrasettantenne, che di tanto in tanto arrivava con la sua dog-bag, e c’è da credere che da quella casa sicuramente nel corso della giornata saranno usciti urla e lamenti. Nessuno aveva nulla da dire, un pazzo ha meno dignità di un cane e non commuove. Lo dimostrano le lettere che mi arrivano quando cerco di far passare il concetto che dovrà pur esserci una differenza di rango d’esistenza tra un cagnolino che ci fa tanta tenerezza e un adulto disabile che magari non ce ne fa nessuna. Amico, ti comunico che le persone sensibili verso gli animali sono generalmente più sensibili verso gli umani (rispetto alla media). Quindi evita di proferire cazzate del tipo «preferirei togliere risorse destinate ai gatti e darle ai disabili», in quanto ci sono tanti borghesotti come te che non fanno niente né per gli uni né per gli altri. Eppoi chi è che ti ha detto che per la causa animalista vengano fatte tutte queste offerte?? Il parroco forse? Siamo con le pezze al culo, molte strutture sono a rischio chiusura. E sono quelle che magari raccolgono i cani di razza comprati e magari poi abbandonati da individui come te.

Sei solo un povero fesso condizionato che non ascolterò più (anche per non sentire oltre quella voce da checca che ti ritrovi)! Solidarietà a tuo figlio che si ritrova, poverino, un padre così cazzone. Giorgio, Torino

Quanto odio… E viene proprio dai più sensibili verso gli umani. Non voglio ironizzare, però. Avevo fatto una considerazione dalla mia radio parlando del consenso che la politica sa di poter ottenere promettendo denari pubblici a gattili, canili o comunque iniziative petoriented. Quello che allora osservai, e che qui vorrei riportare come pensiero, è l’impressione che nella nostra società sia in atto un processo di deriva dell’istintiva solidarietà che dovrebbe suscitare una persona in difficoltà, sostituita da una forma di «social solidarietà» verso gli animali maltrattati. Naturalmente non predico, al contrario, la spietatezza verso le sofferenze gratuite inferte agli animali. Mi riferisco a quegli appelli su Facebook con foto strazianti di cani e gatti martoriati o, per contrasto, tenerissime immagini di cucciolate orfanelle o desiderose di coccole. Tutto qui. Io rispetto chi abbia una coscienza «animalista», ma non mi va di contrapporre le categorie umane in una gara su chi sia migliore in ragione della sua sensibilità verso gli animali. Chi ha forte questa spinta altruistica verso le bestie fa benissimo a seguirla, se ne trae giovamento e soddisfazione, ma non pretenda che sia un principio talebano da imporre come condizione indispensabile per meritarsi l’appartenenza alla categoria dei «giusti». È irragionevole ritenere che un genitore di disabile possa pensare che le risorse destinabili a suo figlio debbano essere considerate alla stessa stregua di quelle (giustamente e correttamente) impiegate in ospizi per animali. Alla domanda precisa se per me, in una gerarchia di priorità d’intervento, vengano prima i cuccioli a quattro zampe o quelli a due, non potrò mai rispondere in maniera differente a quanto ho già affermato. Prima i ragazzi disabili, poi naturalmente anche cani, gatti e tutto quello che abbia bisogno di attenzione. Mi rendo conto dell’estrema impopolarità che suscita questo pensiero, per nulla ruffiano verso una visione del mondo che non ammette oscillazioni. Quello che potrebbe essere inteso solo come un puro attivismo per il benessere del mondo animale ha, infatti, derive fastidiose verso

un’appartenenza rivendicata con tale tenacia da diventare una religione assoluta. Persino importanti uomini politici, cui immagino abbiano sempre fatto ribrezzo i peli di un cane sulle loro austere grisaglie, in campagna elettorale si sono piegati alla necessità propagandistica di farsi fotografare sorridenti tenendone uno in braccio. Uno ha addirittura lanciato la sua idea di far adottare tutti i cani che sono prigionieri nei canili, proponendo un incremento economico alle pensioni di vecchiaia in modo da permettere a ogni anziano di mantenere un cane. È chiaro a loro, come a tutti quanti cercano facile consenso, che quella era la maniera migliore per risultare simpatici e «giusti». A me di essere simpatico non importa, ma che ciò che qui ho scritto sia giusto non ho dubbi. Alla fine il grande vantaggio di convivere con Tommy la maggior parte del mio tempo mi ha portato a capire più della comunicazione di quanto abbia studiato negli anni precedenti. Allacciare un filo con un autistico equivale per un comunicatore a quegli esercizi estremi e apparentemente inutili che i maestri di karate dei b-movie impongono ai loro allievi, del tipo: «Dai la cera. Togli la cera». «Noi viviamo nell’era del comunicare!» Quanto ci siamo riempiti la bocca con questo concetto che ci vuole civilizzati in quanto frenetici comunicatori. È vero senz’altro che è meravigliosa la frenesia del distribuirsi in una moltitudine di potenziali interlocutori, mai come in questo periodo della storia dell’umanità ci è stato possibile avere esperienza di un così vasto numero di persone contemporaneamente, soprattutto a dispetto di ogni usurante distanza tra noi e loro. Non mi preoccupa di sicuro, sono anni che aspetto di potermi sedere in tale illimitata plancia di comando e lanciare e ricevere messaggi, contando su un bacino di decine di migliaia di persone, di cui la maggior parte è per me totalmente sconosciuta. Non è questo certo che mi fa sentire meno umano, anzi. Trovo che mai la nostra catena evolutiva abbia sperimentato una fase di così repentina e consapevole mutazione. Abbiamo specializzato la nostra capacità di relazioni multiple: che vogliamo di più? Quello di cui invece comincio a sentire l’angustia è, per paradosso, la correttezza strategica imposta dal nostro incivilimento: vale a dire la nostra tolleranza esteriore verso il pensiero altrui e la capacità di sopportazione

educata dell’altrui immaginare, pur non condividendolo. Questo sicuramente ci fa onore e ci fa vivere in maniera meno virulenta i nostri rapporti con altri umani. Però, indubbiamente, ci stressa. Ci sentiamo costretti spesso a sostenere conversazioni che ci soffocano, ad ascoltare sorridendo e annuendo uno sproloquiare per noi privo di senso. Soprattutto abbiamo imparato a sorridere, a dire che ci piace, a condividere ogni luogo comune perché ci rafforza nell’idea che il consenso renda felici. Sbagliamo: cercare l’accordo a tutti i costi ci scarnifica da dentro, ci svuota di senso, ci rende dipendenti dal timore di essere mal giudicati. Tutto ciò per l’autistico è la più grande follia possibile. Ci guarda e sorride, come se ci compatisse per il nostro logorante affanno di dover verbalizzare per smussare i contrasti, per docilmente assecondare, per civilmente convivere. Il sorriso dell’autistico è molto raro, ma quando esplode ci illumina all’improvviso, sembra volerci sollevare dal nostro maniacale accanirci a essere accettati a tutti i costi. Tommy sorride anche più spesso di me (il che non è difficile), lo fa quando è felice e quando mi vede affannato a comunicargli parlando. Quando ride, lui di me ha già capito tutto quello che mi sforzo di dirgli, prima ancora assai che l’abbia potuto capire io stesso. Mi scrivono gli arrabbiatissimi amanti degli animali che è la mia insensibilità a impedirmi di provare un senso profondo di solidarietà per esseri senzienti che non appartengono al genere umano. Si sbagliano per due ragioni: la prima, perché sono di stirpe campestre e quindi ho imparato a sentire gli umori degli animali sin da bambino; magari non ho imparato a tenerne particolare conto, quello sì, ma solo perché in campagna gli animali ci sono per essere funzionali ai bisogni dell’uomo. La seconda, perché io ho a che fare con Tommy e i suoi amici. Provate a trascorrere un pomeriggio con una banda di autistici belli grandi e vi renderete conto cosa significhi accorgersi dell’esistenza dell’altro rispetto a te: mantra irrinunciabile di ogni prete, benpensante di sinistra, predicatore e santo laico. «Bisogna accorgersi dell’altro.» Sì, facile accorgersene quando parla, scalpita e ti pesta i coglioni perché vuole spazio. Meno facile è cogliere nell’ineffabile silenzio di un autistico rombante delle tracce di senso. Cade ogni certezza sulla necessità di confronto e dialogo per essere considerati al rango di creature umane. Forse in questo potrei dar persino ragione agli

animalisti estremi che dicono di cogliere messaggi decifrabili da ogni essere senziente, fosse anche la piattola che saltella sotto all’ombelico. Ma sì, avete ragione: salviamo tutti i topolini cavia, ma strappiamo pure le pantegane del fiume Tevere dal patibolo del derattizzatore, ve lo dice un inveterato cacciatore di topi, lo sport preferito della mia fanciullezza agreste, che impegnava l’intera famiglia, nonne comprese. Non voglio affermare che sia in assoluto l’unico precetto possibile per regolare il rapporto tra noi e le bestiole, ma è quello con cui sono stato cresciuto. Su come considerare invece i figli disabili nessuno mi ha mai insegnato nulla, mi sono dovuto arrangiare quando già ero più che adulto. Sono autodidatta, per questo potrei anche sbagliare.

XX

Nostro figlio è la nostra droga

Come immagino il giorno della mia morte? A preoccuparmi non è tanto quello che potrà accadermi, il pensiero fisso è piuttosto che Tommy dovrà sopravvivermi. La spregiudicatezza che avrebbe un kamikaze verso il pensiero della propria fine è il regalo più potente che un figlio autistico fa a suo padre e a sua madre e, allo stesso tempo, è la peggiore ossessione che ci appiccica addosso la sua esistenza. A me di morire davvero non importerebbe poi molto, se non fosse che proprio non riesco nemmeno a pensare cosa ne sarebbe di Tommy senza di me. Certo, nella migliore delle ipotesi gli resterebbero una madre e un fratello, ma questo non cambia la mia preoccupazione fissa. Sarà un mio limite, ma considero tutta la mia famiglia un popolo da proteggere e di cui sono io il responsabile. Questo, anche se più Tommy mi assorbe più mi accorgo che degli altri mi resta solo la nostalgia del tempo che fu. Compresa mia moglie, che ci sono giorni, confesso, in cui la taglierei a metà con una motosega. Anni fa non avrei creduto che la crescita di Tommy avrebbe potuto sconvolgere anche tutti i rapporti interfamiliari, per lo meno non fino al punto in cui mi trovo ora. Mi ricordo bene quando ancora mi consideravo soddisfatto di essere riuscito a costruire una famiglia. La mia d’origine l’avevo cancellata, motivi miei e per nulla interessanti. Sufficienti, però, a contagiarmi dell’idea che le famiglie siano destinate alla dissolvenza graduale dei vincoli affettivi e che, nel tempo, questi si trasformino in trappole avvelenate in cui ognuno imprigiona gli altri, gratuitamente e senza motivi giustificabili. Il vincolo che tiene legate in apparenza le persone è la necessità di avere sempre a portata di mano un bersaglio su cui ribaltare ogni responsabilità del proprio malessere. Più ci si accanisce e più ci si ammala, più ci si rende conto del

veleno che agisce su di noi, più ci si lega a filo doppio con i nostri avvelenatori. Questa è la famiglia media nel tempo lungo. E quando c’è di mezzo un autistico, è lui il più spietato dei componenti, proprio perché inconsapevole. Anche se nessun essere vivente è più lontano dalla malizia di quanto può esserlo un umano autistico. Tommy è un vampiro che non conosce la crudeltà del gusto d’azzannare. Azzanna come se respirasse. Deve farlo per vivere, e basta. Essere azzannati da Tommy alla fine narcotizza e rende immuni ai graffi e ai morsi del resto dell’umanità che ci circonda, dai più prossimi ai semisconosciuti. L’autistico insegna a chi a lui si dedica a tempo pieno la salvifica arte dell’indifferenza verso gli altri, ma solo perché a lui ci si dedichi totalmente: questo, almeno, penso nello specifico frangente in cui scrivo. C’è da dire, però, che tutto è altalenante e a volte basta sapere che per una settimana, forse, si è trovata una soluzione perché lui sia felice e in buona e attiva compagnia, che l’orizzonte diventi meno cupo. Poi quella settimana vivremo schiacciati comunque dall’ansia delle tante cose che vorremmo fare e che abbiamo compresso nei mesi precedenti, che nemmeno ce la godremo a fondo, divisi tra il senso di colpa per averlo delegato ad altri e la rabbia per ciò a cui abbiamo dovuto rinunciare per lui. È così: non crediate alle dichiarazioni di virtù eroiche che si autoattribuiscono tutti quelli che scrivono e dicono «il mio ragazzo speciale», «il mio angelo», «la sola ragione della mia vita»… «Tommy è la tua droga!» mi ha detto una volta un’amica che fa la poliziotta e di drogati ne ha visti tanti. Tutto vero: quando ci siamo dentro ne siamo assuefatti e, probabilmente, le endorfine che ci stimola la nostra «sostanza tossica» ci portano ad accettare la nostra dipendenza. Chi non si stabilizza in un consumo controllato rischia l’overdose, poi lavora d’accetta o salta dal balcone, ed è una pessima soluzione. Cercare la lucidità di giudizio in ogni istante della mission impossible è la maniera migliore di aiutarci a portarla avanti. Dobbiamo però saper gestire la certezza che sopraggiungerà il giorno della nostra radicale e incolmabile solitudine in quello che facciamo. Non dobbiamo incolpare nessuno dei nostri cari di questo, sarebbe inutile, persino ingiusto. Tutti in famiglia hanno

partecipato a modo loro alla corsa a ostacoli della condivisione del problema, se si sono via via fermati per strada stremati vuol dire che eravamo noi i più robusti, i designati alla sopravvivenza, e per questo «lui» ci ha scelto. Dobbiamo farcene una ragione e smettere di coltivare il livore verso chi sentiamo un passo indietro nella quotidiana ossessione per la riconquista di brandelli spendibili del nostro tempo personale. Nella scomparsa graduale delle nostre relazioni, dalle più remote e superficiali a quelle più vicine e viscerali, c’è un momento in cui anche noi smettiamo d’essere disponibili a sostenere la fatica di riallacciarne qualcuna. Così alla fine resteremo solo noi e lui: gli altri familiari, da figure di primo piano, acquisteranno graduale trasparenza diventando solo figure estranee, che si muovono come se fossero ombre sullo sfondo di un quadro, e vederle sparire dal nostro universo emotivo sarà unicamente questione di tempo. Il bel regalo che ci fa il nostro inseparabile compagno è invece quello di ossessionarci con il pensiero della sua vita che proseguirà quando la nostra sarà finita. Innanzitutto ci fornisce un’occasione di memento mori più che unica nell’attuale livello della nostra civilizzazione, in cui tutti ci promettono che non si morirà mai, che solo agli altri accade perché sono sfigati mentre noi ci salveremo, comunque. Ecco, è molto delicata la spiegazione di quanto ci accade, ma cercherò di elaborarla anche per chi non sia passato per questa esperienza. L’autistico ci sceglie, lo fa in ragione della nostra attitudine a occuparci di lui, della nostra determinazione, della nostra capacità di stabilire con lui un legame non di sudditanza, perché lui preferisce che il ruolo dominante spetti a noi… Tanto, dovunque andiamo, possiamo giganteggiare quanto ci pare, sempre al suo seguito dovremo essere. Poi, l’autistico pretende da noi dedizione totale, il patto è che noi non ci ammaliamo, non sbarelliamo di testa, non molliamo mai la presa. Chi a questo diktat si attiene con scrupolo, riceve dall’autistico qualcosa che assomiglia a un superpotere. Non si ammalerà più, non conoscerà più la stanchezza fisica, la fame, il disagio di non avere a disposizione gli strumenti necessari a una vita confortevole. Ci si sentirà qualcosa a metà tra il samurai e l’umanoide mutante della fantascienza. E altri penseranno che abbiate straordinarie capacità di smaltire egregiamente impegni di lavoro, di fare velocemente piani strategici, di risolvere situazioni complicate. Soprattutto, vi accorgerete di poter evitare

senza apparente fatica di dormire la notte, di mangiare regolarmente, di dedicarvi a quello che in passato giudicavate gratificante per voi, come viaggiare, coltivare passioni, frequentare persone che vi piacciono. È esattamente questo l’effetto del morso dell’autistico, proprio come quello del vampiro conferisce l’immortalità alla sua vittima. L’autistico riesce a confermarvi nell’idea che voi siate inossidabili, invulnerabili, e qualunque ambascia che quotidianamente logora gli altri esseri umani su di voi scivolerà lieve come pioggerella primaverile sul volto di una statua scolpita nella pietra. Eccovi quindi lontani mille miglia dall’idea che possa accadervi di morire, semplicemente perché mai lui vorrebbe che questo accadesse. Il suo problema, però, è che non ha nessuna cognizione dei concetti del vivere e del morire. Inizio e fine sono parametri molto difficili da elaborare nella ritualità del tempo ciclico dell’autistico. Lui, rendendovi indistruttibili, ha già trovato un sistema per placare l’ansia divorante di quello che potrebbe accadere se in ogni minuto non si ripresenta la rassicurante sequenza delle cose che conosce e ha oramai acquisito nel suo database. Voi ci sarete sempre, perché avete vinto la gara con il resto del mondo per occuparvi di lui. A quel punto è scontato che nulla potrà più accadergli d’imprevisto, perché voi sarete con lui. Insomma, nella strampalata cosmologia dell’autistico, il genitore perenne è una sorta di messia a cui lui ha affidato la sua salvezza; nulla potrà distoglierlo da questo atto di fede se non la vostra morte. Sì, perché, fatalmente, secondo l’ordine del naturale esito delle classi anagrafiche, essendo più vecchi di lui, è assai probabile, se non certo, che non gli sopravvivrete. Qui si apre un bel problema. Il vero problema: quello che vi terrà fortunatamente lontani dal terrore della tenebra in cui prima o poi anche voi vi immergerete, ma che vi fornirà il rovello quotidiano di come impedire che la vostra morte possa rappresentare per lui una sorta di cataclisma cosmico in cui il suo universo, costruito sulla vostra presenza, possa immediatamente tracollare.

XXI

Io, padre forcluso

Da qualche giorno avevo notato questo messaggio che rimbalzava in una newsletter di genitori d’autistici. Si rimpallavano inorriditi una surreale lezione che alla Sapienza di Roma era stata impartita da un docente che avrebbe dovuto istruire sull’autismo delle persone già laureate e future insegnanti. Lo riporto letteralmente: In allegato parte della lezione che i futuri insegnanti hanno dovuto subire nel giugno 2013 all’Università La Sapienza di Roma, si trattava del corso TFA (Tirocinio formativo attivo) per accedere all’insegnamento. Durante questo corso, nell’ambito della pedagogia speciale, è stato espletato un corso obbligatorio sull’autismo tenuto da un membro dell’Association Lacanienne Internationale (Paris) e dell’ALI-RM , collaboratore del Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti. Riporto alcune perle di saggezza che costui ha consegnato a noi, futuri insegnanti: «La teoria genetica è una “stronzata” (scusatemi per l’espressione). La base per spiegare l’autismo è la Teoria lacaniana. La madre e il bambino sono un unico corpo: la “débile” (potremmo tradurre con debolezza o disabilità) è responsabilità della madre. Le madri sanno a livello inconscio di essere parte della disabilità dei propri figli: ecco perché ai colloqui con gli insegnanti si presentano sia padre che madre, mentre per gli altri alunni è solitamente la sola madre ad andare». (!?) Traggo da uno scritto che ci ha consegnato alcuni stralci: «La forclusione del Nomedel-Padre ostacola la metafora paterna e il buco lasciato “per carenza dell’effetto metaforico provocherà un buco corrispondente al posto della significazione fallica”, insegna Lacan. E il padre forcluso fa ritorno nel Piccolo Joyce (bambino con autismo) proprio come buco nella catena significante (…)»

Confesso che mi sono sforzato a immaginare un’applicazione pratica di

questi concetti nel lavoro quotidiano su mio figlio. Mi pare di aver capito che l’autismo è tutta una storia di buchi e falli. Ammesso pure che sia così, che dobbiamo fare? Non so se questa domanda sarà stata rivolta al docente pure da chi ha seguito questa lezione. Rabbrividisco pensando che chi oggi avrà a che fare con ragazzi come Tommy si sarà convinto che vadano seguiti tenendo ben in conto la responsabilità della madre, o del padre «forcluso» (cancellato). Sono letture, queste, da molto tempo oramai totalmente sconfessate dalla letteratura scientifica, ma se anche così non fosse, totalmente arrabattate e inutili per aiutare a gestire un alunno con problemi simili. Come si controlla una crisi oppositiva una volta capito che si tratta di un corpo «débile»? Quale idea di abilitazione può essere articolata sul ragazzo se tanto la colpa è tutta della madre? Riuscite poi a mettervi nei panni di un genitore d’autistico che si sentisse dire da un’insegnante che il figlio ha problemi per una sua responsabilità, ed è quindi lui che deve interrogarsi, non cercare un terapeuta capace di far crescere le autonomie del ragazzo? «Vostro figlio è autistico non perché è geneticamente strutturato così, ma piuttosto per un buco al posto della significazione fallica!» Posso prevedere con certezza che quell’insegnante potrebbe avere come risposta seri problemi sia di buco sia di significazione fallica, a seconda del suo genere naturalmente. È politicamente scorrettissimo pensare a una possibile ira devastatrice del genitore che aggredisce perché aggredito a colpi di Lacan, ma è inammissibile pensare che un episodio simile sia potuto realmente avvenire, soprattutto in una delle più grandi università italiane. Cosa ne direbbe l’opinione pubblica se leggesse su un giornale che è stato chiamato in un’università un cartomante per parlare di problemi oncologici, o uno spiritista per spiegare l’origine delle malattie degenerative? Scoppierebbe uno scandalo nazionale. Ma chissà perché chiunque può parlare d’autismo, senza porsi il problema delle conseguenze delle sue parole poiché sa che non potrà essere contraddetto. Alla fine la mancanza di certezza sull’autismo lascia il campo aperto a qualsiasi illazione, a qualsiasi punto di vista. Non è allegro avere come fulcro della propria esistenza una sindrome rappresentabile per ipotesi, di cui nessuno ha titolo di rivendicare la competenza. E se è vero che non esiste certezza scientifica su come noi si sia diventati autistici – e dico «noi» perché non c’è più alcuna differenza tra

quello che i genitori fanno ogni giorno e la vita dei propri figli – è altrettanto vero che non si può pensare che una «visione del mondo» così diffusa non meriti rispetto, a partire da chi appunto forma i docenti nelle università e chi dovrebbe sostenere una cultura più informata su chi noi siamo. Non è il solito piagnisteo di chi rivendica attenzione o visibilità per la propria condizione di disagio sociale. Chi fa parte della grande famiglia diffusa degli autistici è alieno dal lamentarsi: i nostri figli indifferenti ci hanno insegnato a sopravvivere trapassati dall’indifferenza. Vorremo solo spazio per vivere, praterie da colonizzare perché loro crescono e non ce la facciamo più a vederli rinchiusi come criceti. Un giorno facevo anticamera dal mio avvocato e, mentre aspettavo, scambiavo due chiacchiere con una sua assistente. La conosco particolarmente bene perché ha un figlio autistico di trentatré anni. Mi racconta che va a trovarlo tutti i venerdì nella struttura vicino a Roma dove è ospite. «Facciamo una passeggiatina, prendiamo un caffè…» E mi sembra di leggerle nella voce quell’angoscia reiterata settimanalmente di vedere un uomo chiuso in un quasi manicomio e non voler pensare come si svolga la sua vita da adulto, trattato come un bambino o, peggio ancora, come un vecchio in ospizio. «Non c’è un giardino, non c’è spazio, hanno un cortiletto di cemento e stanno li.» Anche lei come tutti noi vive nella speranza di un’Insettopia per il figlio; assieme ad altri parenti d’autistici ha fatto un progetto di casa famiglia, sono disposti a finanziarselo da soli, ma il Comune non riesce a trovare un pezzo di terra dove possano realizzarlo: «È assurdo, li facciamo risparmiare, ci mettiamo i soldi noi, il progetto è fatto, ci prendiamo anche l’onere della gestione, perché siamo matti, giriamo alla nuova struttura i soldi che il Comune paga alla cooperativa che ora si occupa dei nostri figli… Non costerebbe nulla». Ma intanto il pezzetto di terra per costruirla non riesce a venir fuori, e sono anni che aspettano. Quanti terreni potrà avere a disposizione il comune di Roma da poter assegnare a un progetto simile, quanti ne avranno preti, curie, suore e arcivescovi… Nemmeno pensarlo. Eppure per gli autistici non c’è mai nulla. Anch’io mi sono avventurato, tra mille tentativi, nella ricerca di un terreno. Esistono liste clandestine d’immobili che da sempre girano tra le famiglie d’autistici. C’è sempre un parente, un amico, un cugino, un amante che riesce a darci un documento

aggiornato dei potenziali spazi pubblici che per legge sarebbero destinati all’assegnazione per usi sociali. Ne ho scorsi parecchi di questi elenchi, ci sono i beni sequestrati alla mafia o alle organizzazioni criminali... «Sì, però tutte le ville sequestrate ai clan più pericolosi non le vuole nessuno» è la prima cosa che ci viene detta come informazione riservatissima. «Quelli, se ci metti piede, ti sparano. Sanno che prima o poi se le riprendono…» Terreni smisurati, palazzine, appartamenti: la prima scelta è sempre, comunque, per organizzazioni ecclesiastiche, poi vengono le cooperative più potenti, poi non si capisce per quali rivoli segreti qualcuno se li assegna… Mai però che da questo maneggio venga fuori un’iniziativa concreta per autistici. Ricordo una volta che con un manipolo di madri e padri ci avventurammo a visionare una ex fattoria abbandonata lungo una strada consolare che porta a Roma. Una nostra talpa di un ente parchi ci aveva fatto la soffiata che non era stata ancora assegnata e il Comune aveva fatto un accordo con un costruttore a cui aveva dato una concessione edilizia in cambio del suo impegno a ristrutturare il casale. La destinazione d’uso era ancora una volta «finalità sociali», quindi potevamo chiedere che l’assegnassero a un nostro progetto d’Insettopia. Avevamo studiato l’area da Google Earth e ci sembrava perfetta: c’erano casali, stalle, edifici di vario tipo, tanto spazio esterno con alberi, verde, prati… Insomma, a noi ne sarebbe bastato un pezzettino e non era nemmeno lontanissimo dalla città. Un pomeriggio, dunque, ci siamo avventurati per il sopralluogo. Il cancello principale era incatenato e quindi siamo stati costretti a fare un giro a piedi risalendo una collina piena d’erbacce per arrivare fino a quella pinetina al cui culmine sapevamo c’era l’ex fattoria che c’interessava. Alcune delle madri erano venute vestite come se dovessimo andare a una festa, con l’abito bello e i sandaletti col tacco, i padri più razionali in tenuta da trekking. Mentre stavamo arrancando tra pietraie, selve di rovi spinosi e macerie, improvvisamente all’orizzonte sono spuntati una decina di cani giganteschi: pastori maremmani irsuti e inselvatichiti, disposti in circolo, che ci ringhiavano minacciosi. Ci avevano detto che quei terreni erano stati «prestati» a un pecoraio che li usava come pascolo e intanto fungeva da sorvegliante. La puzza di pecora che solo io avevo riconosciuto, per antiche radici campagnole, avrebbe dovuto metterci in guardia. Nell’avvallamento dietro alla collina c’era il suo gregge aggruppato sotto a dei cespugli.

L’attacco dei cani fu fulmineo. Cominciarono ad aggirarci come un branco di lupi nei film di sopravvissuti in Antartide. Le madri iniziarono a urlare, aizzandoli ancora di più. Qualcuno cercò di darsela a gambe, ma la collina era davvero scoscesa e io vedevo i polpacci di quelle signore già trasformati in bistecche al sangue da quelle zanne feroci. Io che sono stato morso da cani in varie occasioni, sapevo che non è certo una bella esperienza. Una volta che fui azzannato alla mano dal mio scottish terrier la notte ebbi degli incubi e vedevo casa mia con la soggettiva del mio cane, come se camminassi con lo sguardo a mezzo metro da terra… Fu un’esperienza sciamanica che non avrei voluto ripetere con una turba di cagnoni assatanati e puzzolenti che galoppavano verso di me. Per istinto cominciai a tirar sassi verso il più grosso dei maremmani, quello che mi sembrava il capobranco. I cani arretrarono e capii che dovevamo approfittare dell’elemento sorpresa. Riuscimmo a oltrepassare il reticolato che ci divideva dalla strada e riguadagnammo le nostre macchine. Solo allora mi resi conto che avevamo tutti rischiato veramente la vita. Immaginavo l’assurdità della notizia, che già allucinavo in un titolo: «Tre uomini e due donne sbranati da un branco di cani… Mistero su cosa fossero andati a fare in una sterpaglia sulla via Cassia». Avrebbero fatto delle illazioni tra le più indecenti, di sicuro a nessuno sarebbe passato in mente che quei poveri cadaveri dilaniati appartenessero a padri forclusi e madri con un buco corrispondente al posto della significazione fallica, che erano andati per fratte solo perché si erano rotti le scatole di promesse e reticenze sul destino dei loro fardelli autistici, e così avevano deciso di trovarsi da soli un posto per costruire la colonia felice per quei loro figli invisibili al mondo.

XXII

I bravi ragazzi

Ho avuto la percezione fulminea che Tommy fosse un ragazzo una volta che di lui parlavo ad alcuni suoi coetanei. A Ferrara si erano radunate in un teatro di preti alcune classi di vari licei perché io illustrassi loro la storia di mio figlio. Avrebbero partecipato a un concorso, appendice del premio Estense che avevo vinto: dovevano produrre un progetto multimediale ispirandosi al libro di Tommy. Prima di allora avevo parlato di autismo soprattutto con adulti, fossero essi genitori o operatori del settore, come educatori e psichiatri. Quel giorno mentre, come sempre, raccontavo il nostro quotidiano, alle mie spalle venivano proiettate delle immagini di Tommy e me che facevamo quello che un tempo era la nostra abituale attività: andavamo sul tandem (cosa che non faccio più da vari mesi perché lui è diventato troppo grande e io molto più stanco per arrancare sui pedali con quell’elefante dietro che si fa trascinare), passeggiavamo, ci abbracciavamo. Poi i ragazzi cominciarono a farmi domande su Tommy e, per la prima volta, era lui il punto d’interesse e di curiosità, non il contesto e la sofferenza familiare, gli amministratori che non danno risposte, le terapie per abilitare gli autistici, i centri specializzati, l’inclusione, il «dopo di noi»… Insomma, nulla di quella sequenza di argomenti che suscita il tema autismo e che, da quando me ne occupo diffusamente, è la traccia obbligata di ogni incontro pubblico o discussione. Allora mi sono chiesto come mai fino a quel momento non mi ero accorto che Tommy fosse un ragazzo, ancora prima di essere un autistico. A farmelo capire erano le domande di quei suoi coetanei; soprattutto di alcune ragazze che mi chiedevano, ad esempio, banalissime informazioni su come Tommy si ponesse di fronte all’invito a fare una passeggiata, a uscire assieme agli altri giovani. Io oramai ho uno sguardo deformato su mio figlio, con lui passo

troppo tempo da solo o, se non siamo soli, c’è sempre gente adulta: miei amici o amiche o altri genitori, i cui figli sempre autistici sono comunque un loro accessorio inscindibile, ma non ci sono più ragazzi, che all’età di Tommy scappano via dagli adulti per stare con i loro coetanei. Tra le tante maniere che abbiamo di limitare involontariamente un figlio autistico c’è anche quella di costringerlo a vivere con persone per lui vecchie. Tommy, oltre ai compagni di scuola con cui coabita alla mattina, frequenta giovani solo quando va a fare la musicoterapia, quando va a cavallo due volte a settimana, quando il sabato si allena con la sua squadretta di rugby, ma, nel caso di queste attività, sono sempre autistici, stralunati quanto lui, che alla fine sono capaci di creare un fantastico cortocircuito che fa sembrare anche un campetto sportivo una sorta di buco spazio-temporale che apre su un’altra dimensione. Purtroppo noi restiamo sempre da questa parte dello stargate, dove tutto è costruito a misura di cervelli che si pretende abbiano sinapsi ordinate come il traffico di una città svizzera. La vita dei nostri ragazzi dovrebbe svolgersi con persone della loro età, almeno fino a che sarà possibile far loro sentire che sono adolescenti, non bambini condannati a vivere tra adulti. A chiunque della loro generazione verrebbe l’orticaria se fosse costretto a passare le giornate con gente che, come minimo, ha tre volte la sua età. Perdiamo troppo tempo nell’illusione di poter creare per i figli più strampalati mondi paralleli in cui la folle leggerezza dell’autistico sia la regola universale. Noi siamo adulti e abbiamo dimenticato quasi tutto di quello che pensavamo alla loro età. I coetanei dei nostri figli autistici, invece, hanno molta meno difficoltà a comprenderli e assimilarli: se ci pensiamo bene, qualsiasi adolescente ha problemi di comunicazione con il mondo strutturato a dimensione d’adulto, ha bisogno di esorcizzare ciò che fatalmente lo trascina verso quel mondo che gli imporrà regole e disciplina, cerca il più possibile di ancorarsi al suo tempo spensierato illudendosi di non essere costretto a uscirne. L’adolescente ci si mostra taciturno, sfugge lo sguardo dei genitori e di quelli da cui si sente giudicato e ai quali non vuol far capire troppo d’essere cresciuto. L’adolescente è fisiologicamente oppositivo, è spesso goffo e prova difficoltà a comunicare. Insomma, anche se l’abbiamo dimenticato, moltissimi di noi hanno avuto un periodo della vita in cui erano

più vicini all’atteggiamento di un autistico che a quello che gli altri si aspettavano da lui. Avevo capito che quei ragazzi che mi ascoltavano erano sinceramente interessati a un padre che parlava del figlio senza indossare la casacca ufficiale della paternità; insomma, per loro non era tanto importante che Tommy fosse autistico, quanto il fatto che un padre l’affidasse alla loro attenzione. Percepivo vera curiosità sul Capoccione, ma non tanto perché lo vedevano come alieno, anzi ebbi quasi l’intuizione che Tommy fosse a tutti gli effetti considerato uno di loro. Ogni adulto vede un autistico con angoscia, perché lo giudica impossibilitato a sostenere una vita complessa come la sua; in un ragazzo questa impressione è molto più attenuata, perché anche lui ha problemi simili ai suoi per accettare come unica realtà possibile il modello d’esistenza degli adulti. Io sono appassionato di film di zombie: una delle classiche tecniche dei sopravvissuti alla catastrofe mondiale per riuscire a passare attraverso le mandrie di zombie affamati senza far loro percepire di essere ancora vivi è spalmarsi addosso un po’ di sugna zombesca e camminare lentamente. Quelle passeranno accanto, daranno un’annusata (surreale perché i più non hanno narici) e tireranno dritto pensando che quei sopravvissuti siano dei loro. Un autistico potrebbe anche essere valutato come normale dai suoi coetanei, magari con una percentuale più intensa del loro stesso problema di sentirsi zombie e di non essere considerati dagli adulti alla stregua dei «viventi» a tutti gli effetti. Gli adulti, invece, non si fanno ingannare dall’apparenza: giudicano e analizzano spietatamente l’autistico classificandolo subito come non appartenente alla loro specie. I più generosi immagineranno per lui e per i suoi colleghi un recinto apposito dove possa vegetare, ma mai lo penseranno capace di vivere loro accanto senza che questo possa creare problemi, attentare alle loro risorse, essere uno stimolo fastidioso cui dover pensare. Al contrario, non c’è molta differenza tra se stesso e un autistico per un ragazzo che vive l’età dell’adolescenza, oggi fra l’altro precocissima, ma che poi si dilata fino oltre i vent’anni, quindi un tempo considerevole. Nell’autistico, se ben rappresentato nel suo quotidiano e non solo nella sua patologia, gli adolescenti vedono nient’altro che la sintesi esasperata della loro abituale condizione esistenziale. L’autistico è innanzitutto un incompreso dai portavoce del pensiero razionale, proprio come si sente ogni adolescente

quando comincia a farsi domande sugli adulti che lo governano. L’autistico non ha grande interesse per quello che gli altri giudicano importante, ma coltiva alcune sue passioni che possono ai più sembrare manie. Esattamente quello che accade a ogni ragazzo che deve mettere in secondo piano quello che a lui piace e lo appassiona (videogiochi, fumetti, musica) perché non considerato utile al suo dovere di diventare socialmente assimilato; anzi, di più, ciò che a lui piace è spesso deprecato in quanto pericoloso, negativo, perditempo. Infine il valore del silenzio. Ogni giovane passa per una fase in cui per lui è faticosissimo parlare di sé con i «grandi», ha vergogna, timore d’essere smascherato nella sua dimensione privata, sensazione di non essere capito, d’essere giudicato. Insomma, l’autistico è il supereroe dell’adolescente medio perché riassume in sé, sotto forma di ultrapoteri, tutte le sue angosce esistenziali. La prova di quanto allora avevo solo intuito mi è arrivata come una bastonata in testa quando, mesi dopo, ho avuto per le mani i lavori dei ragazzi che, assieme a una giuria d’insegnanti ed esperti vari, dovevo giudicare per il premio finale. Sfogliando il faldone contenente le dodici prove elaborate da altrettante classi di vari licei classici, scientifici, artistici, tecnico-industriali, rimasi fulminato. Riuscii a cogliere in tutti, pur espressi in modo diverso, segni d’istintiva intuizione di quello che da anni cerco di far capire scrivendo e parlando sulla realtà dell’autismo. Mi sono passate davanti come in un film mentale tutte le facce di amministratori, medici, esperti di socialità, persino genitori impegnatissimi nel promuovere convegni e tavole rotonde sull’autismo. I ragazzi avevano capito perfettamente senza bisogno di troppe spiegazioni. Senza che avessero mai visto Tommy lo trattavano come uno di loro, un possibile compagno di cui percepivano i bisogni come sulla loro stessa pelle. Molti avevano realizzato dei corti, alcuni di livelli invidiabili rispetto a tutte le pacchianate che spesso vedo realizzate in tv sull’autismo. Mentre quest’ultime prendono avvio sempre dal pathos di un caso drammatico per non arrivare ad altro che a una fastidiosissima dichiarazione di commiserante solidarietà, che non cambia un cazzo, i ragazzi sono partiti dal progettare concretamente soluzioni. Mi ha molto colpito, ad esempio, il lavoro straordinario di alcuni allievi di un istituto tecnico (che poi si è aggiudicato anche il premio). Avevano

elaborato un reale progetto di ristrutturazione di un rudere abbandonato da anni dove avevano ipotizzato una possibile Insettopia. Il progetto era perfetto, in regola con le normative per l’edilizia per persone speciali: avevano pensato pure a una stalla per i cavalli, a un’area verde da coltivare, ad aule informatiche; insomma, una struttura modello dove degli autistici avrebbero potuto passare periodi felici, ma dove anche chiunque lo desiderasse sarebbe potuto andare a mangiare, a trascorrere del tempo, a vivere la propria vita assieme alla loro. I ragazzi avevano girato anche un corto con il backstage del progetto: iniziava da loro che si riunivano, facevano un sopralluogo tra le rovine affogate nelle sterpaglie, infine realizzavano la struttura che appariva in una rappresentazione grafica tridimensionale, dimostrando che, con la buona volontà, sarebbe stato possibile strappare spazi all’abbandono per farne luoghi felici. Solo dopo essermi documentato, però, capii che il progetto aveva pure un’altra chiave profonda, non immediatamente percepibile a chi non conoscesse la zona. Il rudere era «il manicomio dei bambini fantasma», che ha reso abbastanza celebre un’altrimenti sconosciuta Aguscello, piccola frazione del comune di Ferrara. Del caso si occupò tempo fa una famosa rubrica della televisione, dedicata ai misteri e all’occulto, per questo ancora se ne sente parlare, anche oltre i confini delle leggende locali. La storia di quel posto ha origini remote, per certo si sa che dal 1940 fu adibito a manicomio per bambini di età inferiore ai tredici anni. Le cronache orali raccontano di trent’anni di gestione da parte di suore crudeli, di un vero lager di torture per disgraziati bimbi abbandonati. Dopo la dismissione dell’attività, nei primi anni Settanta, si parla di «poteri forti» che abbiano volutamente cancellato ogni traccia documentale di quell’orrore; leggo in rete che resti di apparecchiature, compresa una macchina per l’elettroshock, sono stati ritrovati nascosti nelle campagne vicine. Sul perché a un certo punto la clinica psichiatrica dei bambini avesse chiuso i battenti ci sono varie versioni. Si narra di un incendio che arse vivi i piccoli reclusi dalle suore in un’ala dell’edificio, altri dicono di un’epidemia virale che avrebbe sterminato tutti gli ospiti, seppelliti nel bosco dai responsabili poi dileguatisi. Un’altra storia ancora parla di un bambino di nome Filippo con gravi problemi psichiatrici che, tartassato dai sistemi correttivi delle suore, sarebbe definitivamente impazzito, uccidendo alcuni suoi compagni e alla fine

suicidandosi buttandosi da una finestra. Lo confermerebbero parecchi cacciatori di fantasmi che avrebbero preso contatto con la sua anima disperata. Tutto questo è in gran parte leggenda, ma dalle scritte sui muri diroccati è facile capire che è bastata perché negli anni il posto diventasse meta di ogni squilibrato, sballato satanista, spiritista curioso dell’occulto. C’è ancora chi dice che di notte sia possibile sentire i lamenti dei bambini e il cigolare metallico della giostrina di ferro e dell’altalena, che erano gli unici svaghi a loro permessi. Insomma, Insettopia, per quei giovani autori del progetto, sarebbe stata il modo per riscattare un luogo simbolo maledetto di un barbaro trattamento a bambini con disagi simili all’autismo, sempre in nome della vigliacca volontà di segregare dei soggetti con problemi psichici, che ancora oggi noi genitori avvertiamo potente, anche se dissimulata nelle pubbliche affermazioni. Prima di quell’incontro ferrarese non immaginavo che sarebbe stato così interessante per dei ragazzi sentirsi raccontare di autistici, forse perché vivo in una città in cui è impossibile portare questo problema all’attenzione delle scuole in maniera sistematica. Ho cercato varie volte di trovare una strada per essere ascoltato dalle istituzioni sulla necessità di una campagna di sensibilizzazione sull’autismo. Ci sono però altri temi che vengono ritenuti più importanti e su cui ho visto potenti mobilitazioni. Come, per esempio, una sacrosanta campagna contro l’omofobia nelle scuole, che è indubbiamente più facile da comunicare che l’autismo: oltre l’alto valore sociale, almeno si ha la certezza di essere capiti da grossi numeri di persone. Riguardo all’autismo, invece, c’è forse la percezione che sarebbe già difficile far comprendere agli insegnanti di cosa si stia parlando. Lo so che è brutto fare questi pensieri, lo so che molti nel leggermi storceranno la bocca, ma non posso fare a meno di trasferire quello che di detestabile sento ribollirmi dentro quando vedo le stesse persone di cui ho saggiato l’indifferenza ai problemi dei nostri ragazzi pavoneggiarsi avvolte nelle bandiere arcobaleno, solo perché hanno calcolato che fare battaglie sulla discriminazione di genere in questo momento sia per loro più demagogicamente utile che farle sulla discriminazione della neurodiversità. I nostri «mattacchioni» non hanno loro rappresentanti tra vip, personaggi di spettacolo e politici di ampie vedute. I nostri matti devono star rinchiusi

perché non hanno vessilli sotto cui ripararsi. Questo per dire che ci sono battaglie che riescono subito a incanalarsi in un condiviso e ampio movimento di civilizzazione e battaglie che invece ancora devono superare l’ostacolo più tenace dell’inataccabile pregiudizio per diventare di comune dominio. L’autistico deve ancora pubblicamente definire la sua esistenza; prima di poter sensibilizzare l’opinione pubblica su possibili interventi riguardo a nostri problemi specifici, dobbiamo ancora iniziare a spiegare chi siamo e quanti siamo. Nessun autistico farà mai coming out per sostenere il suo diritto alla felicità. L’autistico non può scegliere nulla, sa solo tacere. E i suoi genitori spesso se ne vergognano, quando invece sarebbe utile a tutti un loro uscire allo scoperto. Non voglio qui fare odiosi paragoni o tanto meno banalizzare campagne sociali che sottoscrivo in pieno, ribadisco la desolante riflessione sullo scarso valore mediatico di tutto ciò che riguarda gli autistici. Eppure sono tantissimi, il loro problema investe in Italia centinaia di migliaia di esseri umani che smettono di avere una vita; le soluzioni per migliorare questa situazione sono molto «tecniche» e attuabili in parte senza attingere a nuove risorse economiche… Ma, oltre a una bella luminaria azzurra il 2 aprile, non ho ancora assistito, almeno qui nella Capitale dove vivo, a nulla di paragonabile alle mobilitazioni per uomini, donne, stranieri e persino cagnolini e gattini con disagi indubbiamente percepibili e gravi, ma mai condannati a una non-vita di reclusione come invece ancora oggi accade ai soggetti autistici quando i genitori non ce la fanno più. Il maggior livello d’attenzione l’ho visto la volta in cui almeno quattro assessori avevano convocato in Campidoglio varie associazioni per la proiezione, con dibattito, di un film sull’autismo. Era Ocho pasos adelante diretto e prodotto da due fantastiche sorelle, Selene e Sabina Colombo, che con l’autismo non c’entravano nulla, ma con quel film, sostenuto interamente da loro, erano riuscite a far approvare in Argentina una legge che prescriveva l’obbligo di diagnosi precoce d’autismo per tutti i bambini entro i diciotto mesi d’età. In quell’occasione non mancarono grandi prolusioni e grandi promesse: anche Roma si sarebbe mossa per far passare quella legge in Italia. Le sorelle Colombo ci credettero pure e lanciarono l’idea che nel frattempo si poteva cominciare con una sperimentazione almeno negli asili nido della Capitale e si decise di organizzare un concerto per la raccolta fondi necessaria

a finanziare un primo modulo di formazione per insegnanti, per abilitarle a fare un semplice test che le aiutasse a capire se un bambino andasse indirizzato a uno specialista che valutasse la presenza di tratti autistici. Una terapia abilitativa precoce è infatti di straordinario aiuto per l’evoluzione di un bambino verso un autismo con maggiori margini di autonomia. Alla fine, non si sa perché, le Colombo sisters il concerto se lo sono organizzate per conto loro e a loro spese e il Comune non ha mandato nemmeno un funzionario a far presenza; lo spettacolo si era meritato il «gemellaggio» con il palazzo delle Nazioni Unite a New York che aveva ospitato la regista Selene Colombo in contemporanea all’evento di Roma. Ho saputo che la sperimentazione dovrebbe (forse) iniziare negli asili nido comunali dove alcune maestre saranno per la prima volta formate da pediatri per individuare potenziali autistici, ma solo grazie alla folle cocciutaggine delle due Colombo, che nel frattempo sono diventate nostre amiche di famiglia e spesso si spupazzano Tommy. Con le sue manone le agguanta e se le stringe addosso come fossero due bamboline, che è per lui il miglior modo per dimostrare gratitudine. Una simile immediata simpatia di Tommy per persone che non appartengono alla sua routine l’avevo registrata solo un’altra volta, con il fotografo e videomaker che aveva passato una giornata intera con lui per realizzare un servizio per la tv. Era stato la nostra ombra per ore e ore, voleva cogliere il filo segreto del nostro rapporto seguendoci nelle più banali attività: guardare un cartone animato, andare a fare la spesa, bivaccare nel nostro rifugio. Ci riuscì bene, la sua fu la migliore sintesi visiva che in pochi minuti era riuscita a condensare quello che io avevo scritto in un libro intero. Mi ero fatto convincere a fare un video assieme a Tommy dalla mia amica Stella, che voleva dedicare all’autismo una puntata del suo programma in tv. Ero titubante, ma lei aveva giurato che mi avrebbe mandato a casa una persona con la sensibilità giusta per il contributo che aveva in mente. Infatti si presentò quel ragazzo timido che seppe prendere Tommy per il verso giusto, come ho visto fare a pochi estranei. Lo aveva fatto disegnare, aveva cominciato a fargli foto discrete, fino a che era riuscito in poco tempo a diventare trasparente ai sensibilissimi sistemi di difesa di Tommy.

Ciao Gianluca, ti mando un paio di scatti in bassa risoluzione di te e Tommy. Ti ringrazio per la splendida intervista a Roma, ma soprattutto Tommy per la sua candida disponibilità nei miei confronti. Affondato in una coltre biancastra stamattina andando in studio ascoltavo il volo, cercando quella leggerezza perduta nella vita quotidiana.

Così il giorno dopo mi aveva inviato via mail qualche foto che aveva fatto di me con il Capoccione avvinghiati. Pensai che la leggerezza fosse per lui un esercizio quotidiano, per questo magari mi scriveva che aveva ascoltato una mia trasmissione alla radio dedicata a quando noi sogniamo di volare. Forse aveva assimilato il volo onirico a quello che aveva assaporato in quelle ore con un autistico. Quel fotografo aveva trent’anni e si chiamava Andy Rocchelli. Il suo ultimo volo, però, fu un anno dopo, per un colpo di mortaio che lo uccise nell’est dell’Ucraina, mentre faceva il suo lavoro di reporter di guerra.

XXIII

Autistico: indicibile

Recentemente mi sono reso conto che, per affrontare in modo razionale il problema dell’autismo in Italia occorre una battaglia culturale. L’autismo è sconosciuto nel nostro paese. O meglio, più che a ogni altra latitudine, noi italiani rappresentiamo la polverizzazione in un numero indefinibile d’interpretazioni di un malessere già di per sé molto poco definibile. Ho in pochi giorni radicalizzato questa mia convinzione – che mi pare di avere già espresso in maniera quasi maniacale in quanto finora ho scritto sulla mia esperienza personale – in occasione di una vicenda specifica. Ne farò la cronaca omettendo i nomi, non per infingardaggine (mi sono peraltro rivolto in vari articoli apertamente e direttamente a più d’uno dei protagonisti di quanto sto per raccontare), ma perché ci tengo che questa mia riflessione possa essere indicativa di una tendenza generale e non riconducibile a un partito, a un particolare momento della storia della nostra Repubblica o a una specifica generazione d’uomini politici. Vuole infatti essere la rappresentazione concreta di come ancora nessuno veda nella cruda realtà dell’autismo un motivo di malessere totale per un numero elevatissimo di persone. La politica ha sempre cercato con il lumicino occasioni di accaparrarsi consenso pescando con l’esca della demagogia in tutte le possibili categorie del disagio sociale. Se, famelica di voti com’è, non si è ancora accorta che in Italia esistono gli autistici, e che sono centinaia di migliaia, significa che finora abbiamo saputo comunicare all’esterno il nostro dramma veramente da schifo. Tutto è iniziato un sabato mattina, quando la madre di un ragazzo, più o meno come Tommy, mi ha mandato via WhatsApp il link che mostrava il video di una presentazione in libreria. Una delle tante cerimonie tra «amici di

terrazza» per celebrare, santificare, o semplicemente testimoniare l’esistenza di un libro scritto da uno del giro, che sarà promosso con recensioni entusiastiche da altri del giro. L’autore farà passaggi in tv ospitato da altri membri del giro, viaggerà per partecipare a seratine in piazzetta, cenette in baita, aperitivi al tramonto in spiaggia. Per un po’ accadrà di vedere il suo libro fotografato sui magazine, appoggiato sul ponte di una barca come fermafoulard mentre la sua ricca lettrice si bagna, o sul comodino afghano ai piedi dell’abat-jour di Tiffany in qualche delizioso boudoir con vista Trinità dei Monti. Forse ancora un paio di mesi dopo la sua uscita verrà consultato alla ricerca di frasi da citare in pubblico, oppure mostrato in bella vista sulla libreria quando si riceve, o lasciato distrattamente nella sacca sportiva assieme alle infradito e al telo afro. Insomma, un libro di cui ci si dimenticherà facilmente, ma capace di addensare attorno alla sua transeunte parabola gloriosa ogni più solida incarnazione della correttezza politica. In quel simpatico cenacolo, parlava agli astanti un senatore della Repubblica, già direttore di una testata Rai e mio collega al tempo in cui mi dibattevo come pesce fuor d’acqua in quelle mucillagini che tanto mi furono nefaste. Costui, in quei giorni, si era fatto capocordata di una diaspora in seno alla maggioranza governativa; e ora si rivolgeva agli accoliti di quella fronda, di cui l’autore del libro, seduto accanto a lui, era un altro importante esponente, indifferente al fatto che, comunque si muovessero in quel momento nel Parlamento i seguaci e i protagonisti della presentazione, erano tutte persone di pensiero, di cultura, di provata e collaudata coscienza sociale. Vale a dire che sempre – in qualunque occasione pubblica, e si spera privata – avevano preso le difese di ogni minoranza discriminata, categoria emarginata, etnia tartassata, differenza perseguitata. Per farla breve, di chiunque, tranne che degli autistici… A un certo punto della discussione, il senatore dice, parlando del suo ex alleato divenuto antagonista politico: «È un ragazzino autistico, che vorresti proteggere perché tante cose non le sa». L’ha detto ridendo, come fosse un’infame battutaccia, e la platea d’illuminati esempi di coscienza civile è scoppiata essa pure in una fragorosa risata e in un applauso a scena aperta. Il frastuono ridanciano e lazzarone di quelle brave persone che si

scompisciavano pensando al possibile paragone con un autistico scatenò in me un’indignazione acuta, cosa peraltro rarissima: non m’indigno mai, infatti; ho imparato a non fare caso agli atteggiamenti altrui da quando mi porto dietro Tommy. Ma non potei a quella vista fare a meno di reagire e cominciai a scrivere ovunque mi fosse dato modo di pubblicare, iniziando da Twitter: «Vergognatevi tutti, siete degli incivili! Soprattutto siete ignoranti madornali se ridete alla parola “autistico”, come se fosse l’equivalente di qualcosa di comico». Mi aveva fatto veramente male vedere quei signori, solitamente così attenti a stare sempre dalla parte del giusto e del corretto, ma così spietati verso un problema atroce, sghignazzare e trovare divertente come una barzelletta il fatto che venisse appioppata a una persona che si vuole ridicolizzare la sindrome che a noi rende la vita difficilissima. Come prevedibile, già dopo poche ore, la gaffe era di pubblico dominio, ma solo perché un appiglio sin troppo facile per incardinarci la reazione di chi voleva contrattaccare politicamente i «dissidenti». Il senatore impapocchiò le sue scuse, ma non sarei troppo convinto che si fosse reso conto della bestialità che era uscita dalla sua bocca: «Ieri sera, stanco e provato, ho detto cose che non avrei dovuto». Spiegò che il suo paragone al bambino autistico andava inteso come quello a un essere «nei confronti del quale si prova affetto e voglia di protezione ma che ti sorprende per la straordinaria capacità di risolvere un’equazione (in questo caso politica) molto complessa». Capii allora l’aspetto più drammatico di tutta la vicenda: quel cosmopolita intellettuale, in realtà, sugli autistici aveva una lacuna abissale, appena arginata da quanto ricordava d’aver visto al cinema o in tv sui soliti geni matematici autistici. Una conferma che la visione fantasiosa e romanzesca dell’autismo arriva fino ai piani alti delle nostre istituzioni, ancora più beffarda se si pensa che al Senato si tergiversava da tempo su una legge sull’autismo che noi familiari aspettavamo da anni. Mi vennero alla mente in quel momento tutte le vicende paradossali legate all’autismo: dalle iniziative della procura, che aveva iniziato a indagare, ancora una volta, sul rapporto tra vaccini e autismo, creando di nuovo dubbi, incertezze, ripensamenti alimentati da qualche strenuo difensore della «scienza non ufficiale», alla storiaccia che di recente il mio bravo collega della

«Stampa» Niccolò Zancan aveva raccontato, da vera mosca bianca. Zancan ha sempre avuto un punto di vista sinceramente appassionato e informato sulle follie fantamediche che attraversano il nostro superstizioso paese. In un suo reportage riferì per primo (e restò l’unico a parlarne) della sua scoperta di un giro scellerato di «viaggi della speranza» di autistici italiani, organizzato da un medico che è diventato il riferimento per organizzare in Ucraina trattamenti a base di cellule staminali. Dodicimila euro a infusione, compresi i biglietti aerei, due notti in hotel e rimborso spese per il medico accompagnatore. Tutto nella vana speranza che si possa «guarire» un autistico. «Abbiamo tentato tutte le strade del mondo, per mio figlio. In questi anni ho speso non meno di trecentomila euro» racconta un padre d’autistico al mio collega giornalista, a cui confessa i viaggi disperati a Kiev, dove c’è una struttura che si spaccia per banca delle staminali e dove i genitori portano dall’Italia i loro ragazzi per sottoporli a iniezioni sull’addome di cui non conoscono il contenuto e che, come ovvio, non sortiscono alcun risultato. «Ha iniziato a sudare tantissimo e mandava un cattivo odore» continua il padre intervistato che ha sottoposto il figlio al trattamento. Dal sito dell’organizzazione risulta che, con le stesse staminali, curano un ventaglio smisurato di malattie: dal cancro alla disfunzione erettile, alla menopausa precoce. Evidentemente nessuna storia di autistici simile a questa è arrivata a lambire le belle terrazze di quei ridanciani signori, né ha compromesso l’armonia delle loro case feng shui, o ha impedito lo sventolio orgoglioso delle loro bandiere arcobaleno. Ho continuato ad avere l’impressione sempre più radicata che il problema dell’autismo sia ignorato in ogni circolo di pensiero, oltre ogni matrice ideologica, quando qualche giorno dopo la polemica ho letto l’editoriale di un direttore di giornale di tutt’altro segno politico e con visioni della vita totalmente antitetiche al suddetto senatore. Era un pezzo in sua difesa, che invocava il diritto all’invettiva mediante l’uso del termine «autistico», e citava a supporto della tesi la voce «Autismo» tratta da Wikipedia, dove se ne descrivono i sintomi. Quindi, dare dell’«autistico» è lecito: corrisponde a dare dell’asociale, non è certo per questo che «si offende colui al quale sia stata diagnosticata la Sindrome di Kanner o la sua famiglia: bisogna essere un po’ folli o parecchio

furbi per ingabbiare il linguaggio in vicoli tanto tortuosi e ciechi. Se dico che il tuo comportamento è paralizzante offendo i tetraplegici? Se ti do del bischero si risentiranno coloro che hanno un deficit cognitivo? Se racconto del biondino della spider rossa, parlando di un mistero criminale, discrimino in base alla caratura tricologica di soggetti chiari e scuri?» Così, per la prima volta in vita mia, mi sono visto mettere dalla parte di quelli che trasudano «politically correct», solo perché l’autistico è inteso come una categoria astratta dell’esistenza, un personaggio simbolico a cui si fa riferimento per definire un asociale, per taluni persino un vezzo per autodefinirsi anarchici e poco propensi a contaminarsi con il prossimo. Quasi fosse una «furbata» incazzarsi un po’ vedendo signorini e signorine, di ottima educazione e cultura, ridere a crepapelle quando si danno dell’«autistico» nelle loro liti di famiglia. Sulla questione si aprì quindi il fuoco incrociato di altri due organi di stampa, solitamente molto illuminati e sensibili ai diritti di ogni categoria discriminata. Il primo, che si definisce «quotidiano comunista», torna sulla questione con un pezzo intitolato L’autismo e l’ipocrisia, a firma di un signore che si fregia, nella sua biografia, di essere «Membro ordinario con funzioni di Training della Società psicoanalitica italiana» e che s’impegna in un’indegna arrampicata sugli specchi per giustificare come banale e lecita maniera d’esprimersi l’uso del termine «autistico» per definire i limiti di un avversario: «Dire di un adulto che si comporta come se fosse un bambino autistico non comporta di per sé un giudizio discriminatorio nei confronti dei bambini che non comunicano con il loro ambiente, come dire che uno ha un rapporto geometrico con i propri sentimenti non implica un disprezzo verso Euclide». Questo mi costrinse a ritornare sull’argomento: possibile che il termine «autistico» approssimativamente usato per dileggiare un avversario non indigni nemmeno la coscienza di uno psicanalista? Al punto tale di sorvolare sulla vergognosa e ignorante discriminazione che quest’uso comporta? Persino un indagatore del profondo della psiche umana giudica esagerata ogni reazione da parte di chi gli autistici ce li ha per casa, ed egli sa bene che universo di difficoltà comporti conquistare istante dopo istante un briciolo di dignità sociale a esseri umani che non hanno nemmeno il beneficio di un riconoscimento lessicale. Chiunque si fa mille cautele prima di pronunciare impropriamente il

nome di qualsiasi altra categoria penalizzata (per genere, per scelta sessuale, per etnia, per religione, per cultura, per patologia…). Ma il termine «autistico» possono usarlo tutti a proprio piacimento in qualsiasi contesto, riderci, sghignazzarci, con il beneplacito di ogni bel pensatore, qualunque sia il loro schieramento ideologico di riferimento. E arricciano pure il naso, come per dire: «Ma cosa vogliono questi genitori di autistici con le loro sciocche sensibilità!». Ultimamente mi è stato segnalato, ancora una volta da un «collega», nell’area web di un altro quotidiano, il blog di un professore dell’università di Roma. Tra i suoi tanti titoli e competenze scrive che si occupa d’«interazioni sociali»; deduco che quindi sappia con certezza chi sia un autistico. Chissà perché, però, sente la necessità di definirsi «Economista non autistico», scrivendolo anche nel suo status su Twitter. Immagino sia una battuta, ma anche in questo caso a noi genitori d’autistici non fa ridere. Perché mai, anche una persona di così ampia ed eclettica cultura, si riduce a fare ironia proprio sul termine «autistico», prendendone le distanze come se fosse una posizione detestabile con cui lui precisa di non avere nulla a che fare? Mi domando se mai avrebbe scritto in un blog la qualifica «Economista non down» oppure, uscendo dal campo delle disabilità ed entrando in quello delle categorie di umanità più discriminata, ma che sono riuscite a imporre giustamente anche il rispetto lessicale, «Economista non gay». Per non parlare delle possibili alternative se entriamo nel campo minato delle appartenenze a etnie, religioni, ecc. Sicuramente non l’avrebbe mai scritto, perché sarebbe apparso, oltre che scorretto, anche molto ottuso. Nessun giornale gli avrebbe permesso di aprire un blog con questa specifica gratuita e poco rispettosa. Invece con gli autistici si può… Il giornale non ne immagina nemmeno il carattere offensivo per chi autistico lo è davvero. C’è da dire che il professore mi ha subito pubblicamente risposto, in maniera molto civile, scusandosi per non aver mai riflettuto prima su un possibile significato offensivo dell’aggettivo «autistico», e impegnandosi a togliere il termine dalla sua nota biografica, ma in ogni caso precisando che «l’economia postautistica» è un movimento nato in Francia nel 2000 a cui lui rivendicava l’appartenenza.

In verità, facendo una verifica, ho letto che quel movimento dal 2008 ha cambiato nome. È accaduto quando i promotori si sono resi conto che il termine «autistico» non poteva più essere usato con leggerezza senza essere giudicati insensibili verso chi soffrisse di questa sindrome. Evidentemente il ripensamento non è ancora arrivato alla corrente italiana di quella scuola di pensiero, composta da economisti che, probabilmente in buona fede, non riescono ancora a ravvisarne l’accezione dispregiativa. È chiaro che l’autismo in Italia è un macigno così pesante e così difficile da rimuovere che non si riesce ancora a elaborare il concetto che gli autistici siano persone reali, parte di molte nostre famiglie, della nostra società, con la pretesa di non restare reclusi a vita perché chi li ha in carico ha sempre preferito nasconderli, come se fossero una vergogna da non mostrare in giro. Mi sono convinto che i nostri invisibili figlioli sono considerati quindi persino indicibili, dal momento che il nome che qualifica la loro sindrome ha per troppe persone tutt’altro significato. Dovremo perciò combattere per insegnare ai più arguti pensatori a non insultarli, anche solo nominandoli a sproposito. Il problema della reale esistenza degli autistici non potrà mai essere considerato un fatto nazionale, se nemmeno noi ci battiamo per rivendicare un uso corretto della parola che li definisce, quella che portiamo scritta sulla nostra pelle come fosse un tatuaggio indelebile.

XXIV

Che ne so

Tommy mi cammina sempre davanti, cammina veloce e a volte quasi corre. Devo inseguirlo e non posso permettermi il fiato corto. Finché un giorno, nemmeno lontano, qualcuno noterà per il quartiere un vecchietto che insegue malfermo un ragazzone spensierato, e non posso pensare che sarò io. Spero soltanto di avere il sole in faccia se mi capiterà di battere la testa sul marciapiede, non voglio immaginare di vedere Tommy perdersi sul ciglio del mio abisso. Il mio non è pessimismo, solo un’idea realistica di un possibile mio futuro. Non so se sarà mai possibile far capire il disorientamento di noi che viviamo alla giornata, che sgraffigniamo rapaci ogni residuo abbandonato del tempo altrui per farne la nostra festa. Abbiamo la continua impressione di alimentarci dagli interstizi vitali lasciati incustoditi dal resto del mondo, cioè da quelli che non hanno autistici per casa, che avranno pure una serie infinita di problemi, sicuramente, ma li vivono in un tempo condiviso. Noi siamo convinti che per gli altri ci sia sempre la possibilità di riappropriarsi di un tempo personale, di poter vivere dei periodi, dei giorni, delle ore senza dover rendere conto al fardello filiale della propria assenza. Non è detto che sia così in assoluto, anzi mi rendo conto che quest’idea della fatale reclusione a vita sia qualcosa che lambisce il delirio. Chi invece la pensa come me sia il benvenuto; questo passa per la testa di un genitore di autistico, almeno da quando comincia a essere consapevole di essere stato contagiato da suo figlio e di non osservare più il resto del mondo con lo stesso sguardo che potrebbe avere qualsiasi altro suo simile. Io adocchio molti miei colleghi genitori d’autistici mettere in atto strategie di difesa molto efficaci, tipo prendersi spazi di libera uscita, fisica e mentale, negoziando con il partner o chi per lui una cogestione condivisa dei

turni di sentinella. Confesso d’averci provato più volte anch’io, ma di non esserci mai riuscito, almeno con soddisfacente risultato. Tommy spesso è in grado di creare in mia temporanea assenza microcataclismi programmati con tale cronologia distruttiva che magari, appena mi siedo al tavolino di un pub e ordino una birra, lui già ha fatto in modo di agganciarsi a un filo d’ansia avvertito nella madre e allora sono costretto ad alzarmi e seguire il messaggio d’aiuto di chi sta a casa. E anche se la telefonata o l’sms di richiesta d’intervento immediato non arrivano, oramai non mi godo più nulla. Tutto sembra troppo condizionato da circostanze imprevedibili, fino a farmi venire la tentazione d’evitare per principio qualunque attività di quelle che potrei dedicare solo al mio star meglio; parlo di cose semplicissime: una palestra, una cenetta allegra, una bella bevuta, una piccola vacanza senza pensieri di cosa si mangia, di dove si va, delle pillole da prendere sera e mattina, del fai la pipì seduto, adesso dormi, smetti di mugolare… Cose che, alla fine, dirle o non dirle cambia ben poco. Questo è alla base della distruzione progressiva di genitori, di stretti familiari, di persone che hanno un autistico tra le loro necessità quotidiane. Penso che sarebbe molto più facile per chiunque se fra le priorità legate al problema dell’autismo ci fosse anche la conquista di uno spazio temporale per i genitori. Cambierebbe tutto anche per i ragazzi, che hanno una sensibilità sin troppo straordinaria per non rendersi conto che è meglio avere accanto una persona il più possibile serena piuttosto che uno spettro vagante. Molte persone che mi frequentano in maniera più assidua hanno notato che Tommy ha cambiamenti repentini d’umore in ragione del mio stato d’animo, che è già di sua natura molto ondivago e mutevole. Per questa ragione faccio salti mortali per trovare spunti di vita che mi gratifichino: se io sono di buon umore, gestire Tommy è quasi una passeggiata. È sempre difficile farmi capire quando parlo d’autismo: in genere intuisco che la misura dell’attenzione del mio interlocutore è vicina allo zero e, anche quando vengo ascoltato, mi resta addosso l’impressione che solo per uno scrupolo di cortesia sono stato seguito. Alla fine, come tanti prima di me, mi stancherò di parlarne e farò definitivamente l’autistico tacendo. Sono nauseato dal pressappochismo degli improvvisati, dalla cialtroneria dei millantatori, dall’ottusità degli amministratori; assieme a molti miei colleghi

genitori con la lanterna accesa cerchiamo il grande saggio che ci dia risposte sul come, sul dove, sul quando. Tra noi genitori, i più inclini all’abbandonarsi allo sconforto decidono di studiare… E allora è finita veramente! Il genitore dotto è un genitore indottrinato, diventa il rappresentante di una categoria che fuggo all’istante, salvo rare ed eccellenti eccezioni. Così a volte, anzi spesso, mi chiedo perché io stia qui a dedicare tanta parte del mio tempo a questo tema, con la presunzione di portare alla luce una fetta grossa di umanità che tutto sommato moltissimi vorrebbero adombrata, non sofferente magari, ma lontana da chi deve correre veloce e non vuole zavorre. Ricordo esattamente quando concepimmo Tommy. Era un pomeriggio di primavera avanzata, stavamo in una camera con le finestre sul vicolo medievale di via dei Priori, una delle volte che ero passato a trovare i miei genitori a Perugia, quando ancora sopportavo di avere una famiglia d’origine. Filippo non c’era, forse l’avevamo lasciato dai nonni. Natalia mi disse: «Adesso facciamo il fratello»; come già era accaduto la prima volta, su precisa e ineludibile sua richiesta restò immediatamente incinta. Nei primi anni della sua vita dedicavo il mio poco tempo a casa ad ammaestrare Filippo, che chiamavo «il bambino cavia» perché ambivo di farne un nativo digitale prima ancora che questo termine fosse coniato. Naturalmente è venuto fuori un poeta e studioso d’ideogrammi giapponesi, molto poco appassionato ai segreti del codice binario. Su Tommy non avevo progetti, ma nemmeno sapevo che io sarei stato il suo progetto. Così oggi amministro la mia irrituale eterna giornata di padre frammentato. Ho nostalgia di tutto e tutto allo stesso tempo mi avvelena. Mi piacerebbe poter tornare alle belle vacanze spensierate in cui si stava un mese al mare assieme. Mi piacerebbe tornare a quei Natali in cui andavo a raccogliere il muschio tra la neve strappandolo da sotto le querce imbiancate, assieme ai bambini per poi fare il presepe. Mi piacerebbe tornare a quei sabato pomeriggio ai parchi, con due tipi di pannolino nelle tasche del giubbetto per due piscioni di taglia diversa, Tommy nel passeggino e Filippo in piedi sul predellino dietro e io che spingevo e facevo il cretino con le mamme fingendomi imbranato e chiedendo istruzioni su come cambiare Tommy, in famiglia detto, meritatamente, «Spadone». Piccole infamità innocenti per passare il tempo della fierezza, che è durato

fino a che non è iniziato quello dell’angoscia, seguito da quello dell’accettazione e ora da quello della simbiosi. Le giornate sono sopportabili perché Tommy è senza dubbio la mia migliore compagnia, per il resto vedo solo macerie tenute assieme perché così si deve. Penso che mi piacerebbe fare un viaggio con mio figlio, ma poi non so se avrei voglia di tornare nel mio paese. Il Censis, nel rapporto che ho già citato, conferma quello che tutti noi sappiamo: un italiano su quattro dice di non aver mai avuto a che fare con persone disabili, che nel 2020 saranno quasi cinque milioni. È mai possibile che cinque milioni di famiglie interessate non diano tracce evidenti della loro quotidiana sofferenza? Tra loro poi come possono sperare attenzione gli autistici, che restano pressoché invisibili? Sempre il Censis afferma che il novantotto per cento dei disabili adulti è a completo carico delle loro famiglie, non credo che per lo specifico degli autistici la statistica possa essere diversa, se non per una percentuale più alta di «inclusione a vita» nella famiglia di chi è affetto da questo problema. Quello che avverrà poi non abbiamo voglia di dirlo, ma lo sappiamo bene noi che abbiamo figli stralunati attaccati addosso. Lo sappiamo perché ci siamo incamminati lungo una strada di cui non vediamo la fine: possiamo solo andare avanti, anche se lungo il percorso ci perdiamo le persone a cui più teniamo. Qualcuna prende strade laterali, altre si siedono perché non ce la fanno più. Noi dobbiamo procedere senza far caso al paesaggio che cambia, al tempo che passa, ai pensieri che si dissolvono. Dobbiamo guardare avanti ed evitare gli specchi, ed è facile che un giorno potremo non riconoscere più quel volto che riflettono. Dobbiamo camminare e sentirci forti nei muscoli, pronti sempre a combattere, voraci nel predare ogni barlume di piacere che scorgiamo lungo il nostro sentiero. Non dobbiamo pensare d’essere santi, non ci salverebbe dare un senso superiore alle nostre rinunce: dobbiamo restare arrabbiati ma sereni, tanto alla fine qualcosa ci inventeremo e riusciremo a sopravvivere a tutti quelli che oggi ci sembrano liberi, spavaldi e indifferenti. Sarà necessario per noi restare vivi il più possibile, ce lo impone l’unico compagno con cui divideremo fino in fondo il nostro viaggio. Che, di sicuro, non ci lascerà mai soli. Sa bene che, se smarrisse noi, sull’universo intero per lui calerebbe la tela.

Alla fine, e nonostante tutto, resto convinto che avere un figlio autistico che ti cresce accanto è una delle migliori opportunità, che ci possano capitare, per non annoiarsi mai. Nessuno potrebbe tenerci in allenamento a ben vivere come lui, che ci corre a fianco sempre più veloce; anche se tu senti che stai rallentando. Sai che un giorno ti fermerai per naturale andamento delle cose, ma lui non potrà mai oltrepassarti. Quando sarai fermo lo sarà anche lui e ti aspetterà. Ti aspetterà anche se tu ti fossi fermato per sempre.

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Frontespizio Il libro L’autore Alla fine qualcosa ci inventeremo I. Effetto Stigler II. Un movimiento sexy III. Il segreto di famiglia IV. Il tapis roulant nel sottoscala V. Tommy laureato affettatore di zucchine VI. Trallallà VII. Noi, sentinelle del nostro carceriere VIII. Insettopia è ovunque IX. I genitori taxisti X. Cenerentola al gran ballo di corte XI. Un serial killer come compagno di banco XII. Aguzzine di sostegno XIII. La grande cavalcata XIV. Così forte e così fragile XV. Le favole e la realtà XVI. Spazio riservato XVII. I folli in maschera XVIII. Il sulfureo autismo XIX. Uomini e topi XX. Nostro figlio è la nostra droga XXI. Io, padre forcluso XXII. I bravi ragazzi XXIII. Autistico: indicibile XXIV. Che ne so

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