Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7, 7-25 nel suo contesto 8810302230, 9788810302231

La pericope 7,7-25 della lettera ai Romani è indubbiamente complessa. Alcuni l'hanno giudicata la più discussa sezi

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Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7, 7-25 nel suo contesto
 8810302230, 9788810302231

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La pericope di Rm 7,7-25 è stata definita «la più discussa sezione di

Romani» (A. Nygren), «il testo più difficile di tutta la lettera accanto a Rm 5,12-21)» (U. Wilckens). Il punto più difficile dell'interpretazione è nella connessione dei due soggetti rilevanti della pericope: l' «io» e la «legge». L'autore si interroga se l'argomentare di Paolo si risolva in una difesa della legge o in una riaffermazione della sua impotenza. Colloca la pericope nel suo contesto e ne propone un'ampia analisi retorico-letteraria. La sua conclusione è che non si tratta di una difesa della legge, come spesso viene sostenuto, ma di una "concessio" retorica in cui l'impotenza salvifica della legge viene ribadita, nonostante la presenza di affermazioni contrastanti. Queste sono richieste dalla complessità del tema trattato e sono formulate dialetticamente. Non sono indice di contraddizione nel pensiero paolino, ma frutto di una strategia argomentativa elaborata, definibile appunto �'concessio" Questa interpretazione è coerente con altri brani della lettera, in cui le affermazioni paoline riguardo alla legge mosaica sono problematiche e presentano diversi elementi di tensione. STEFANO RoMANELLO è presbitero dell'arcidiocesi di Udine, ha conseguito la licenza in sacra Scrittura al Pontificio istituto biblico; ha elaborato il presente lavoro per il dottorato di ricerca in teologia biblica alla Pontificia università gregoriana. Insegna esegesi del Nuovo Testamento nello Studio teologico interdiocesano di Gorizia, Trieste, Udine, affiliato alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, e nell'ISSR di Udine.

STEFANO ROMANELLO

UNA LEGGE BUONA MA IMPOTENTE Analisi retorico-letteraria di Rm 7, 7-25 nel suo contesto

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EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

c

1999 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna

ISBN

88-10-30223-0

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 2000

Sigle e abbreviazioni1

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bBaba Bathra, bBerakoth ... BO BOB

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Anchor Bible CICERONE, Epistularum ad familiares Analecta Biblica Analecta Gregoriana Anglican Theological Review Annua/ of the Japanese Biblica/ Institute A ufstieg und Niedergang der romischen Welt Antonianum Apocalisse di Mosè, edizione greca 'ABOT 0�-RABBI NATAN Asbury Seminarian Abhandlungen zur Theologie des Alten und Neuen Testa­ ments Australian Biblica/ Review Australasian Catholic Record BAUER w. ARNDT W.A. - GINGRICH F.W. - DANKER F.W., A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Literature -

Talmud Babilonese, trattato in questione BLASS F. DEBRUNNER A. - REHKOPF F., Grammatica del greco del Nuovo Testamento BROWN F. DRIVER S.R. - B RIGGS C.A. - GESENIUS W., He­ brew and English Lexicon Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovaniensium Beitrage zur evangelischen Theologie -

-

1 Per le sigle, in genere si è seguito il metodo indicato da Biblica 70( 1 989). Sigle di collane là menzionate non sono state riportate, con l'eccezione di quelle ritenute veramente importanti per l'identificazione del testo.

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8

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Una legge buona ma impotente Beitrage zur h istorische n Theologie Biblica Bibel und Leben Biblische Studien Bijdragen tijdschrift voor filosofie en theologie Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester Bibel und Kirche Bulletin de Littérature Ecclésiastique Le belle lettres Bibliotheca Sacra The Bible Translator Biblische Zeitschrift Beihefte zur Zeitschrift fiir die neutestamentliche Wissenschaft Calvin Theological Journal Catholic Biblica/ Quarterly confer, confronta Commentaire du Noveau Testament Communio Viatorum Concilium Current in Research: Biblica/ Studies Dictionnaire de la Bible, Supplément FILONE, De Decalogo DEMETRIO, llfQl é:Q�TJVELaç CICERONE, De Jnuentione CICERONE, De Oratore EPITIETO, L\tatQtBal

Etudes bibliques Ecumenica/ Review Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament SENECA, Ad Lucilium Epistulae Mora/es esempio Ephemerides theologicae Lovanienses Evangelische Theologie Expository Times HERMAGORAE TEMN ITAE TESTIMONIA ET FRAGMENTA Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testaments Festschrift, scritti in onore Grande lessico del Nuovo Testamento (ed. G. KITIEL- G. FRIEDRICH) Genesi Rabbah

Sigle e abbreviazioni GNT gr. GraceTJ Greg Heyl HistRel HNT HTKNT HTR HUCA ICC lnst. Or. lnt JAAR JBL JBTh JSJ JSNT JSNTSS

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The Greek New Testament greco Grace Theological Journal Gregorianum Heythrop Journal History of Religions Handbuch zum Neuen Testament Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament Harvard Theological Review Hebrew Union College Annua/ lnternational Critica i Commentary QuiNTILIANO, Institutio Oratoria lnterpretation Journal of the American Academy of Religion Journal of Biblica/ Literature J ahrbuch ftir biblische Theologie Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic and Roman Period Journal for the Study of the New Testament Journal for the Study of the New Testament Supplement Se­ ries Journal for the Study of the Old Testament Supplement Series Journal of Theological Studies Kerygma und Dogma latino Lavai théologique et philosophique Loeb Classical Library Lectio divina FILONE, Legatio ad Caium Louvains Studies LIDDEL H.G. Scorr R. JoNES H.S., A Greeek-English Lexicon Lumière et vie Mishnah, trattato Aboth Munchener theologische Zeitschrift Novum Testamentum Grecae Neotestamentica Neue Zeitschrift fur systematische Theologie _und Religionsphi­ losophie Nouvelle revue theologique Novum Testamentum -

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Una legge buona ma impotente Neuetestamentliche Abhandlungen New Testament Studies Novum Testamentum Supplements New Testament Tools and Studies Orbis Biblicus et Orientalis CICERONE, Orator pagina/pagine CICERONE, Partitiones Oratoriae ARISTOTELE, TIEQL JtOll]'tLX�ç Proceeding East Great Lakes and Midwest Bible Societies Protestantesimo Prima grotta di Qumran, Inni Prima grotta di Qumran, Regola della comunità Quarta grotta di Qumran, frammento n. 1 86 Reallexicon fUr Antike und Christentum Rassegna di Teologia Revue Biblique Reformed Theological Review Religious Studies ARISTOTELE, T€XV1') QT)'tOQl.Xft ARISTOTELE, cPlJ'tOQLXTJ ngòç cAì..tl;avbgov de Ratione Dicendi ad C. Herennium Revue d'histoire et de philosophie religieuses Revue de l'histoire des religions Ricerche storico-bibliche Rivista biblica Revue des sciences philosophiques et théologiques Recherches de science religieuse Revue de théologie et philosophie Studii biblici franciscani Liber annuus Society of Biblical Literature Abstracts and Seminar Papers Society of Biblical Literature Dissertation Series Society of Biblical Literature Sources for Biblical Study Stuttgarter Bibelstudien Studies in Biblical Theology Scripta Theologica Svensk exegetisk arsbok Scottish lo urna/ of Theology senza luogo Society for New Testament Studies Monograph Series seguenti Studia theologica Stimmen der Zeit Studia neotestamentica Studien zum Umwelt des Neuen Testament

Sigle e abbreviazioni SymOsl Tg. Neof. TGTeol THKNT TLZ TP TQ trad. TrinJ TRE TyndB TZ UNT v./vv. VD VF Vox Ev WBC WMANT

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Symbolae Osloenses Targum Neofiti Tesi Gregoriana Serie di teologia Theologischer Handkommentar zum neuen Testament Theologische Literaturzeitung Theologie und Philosophie Theologische Quartalschrift traduzione Trinity Joumal Theologische Realenzyklopiidie Tyndale Bulletin Theologische Zeitschrift Untersuchungen zum Neuen Testament versetto/versetti Verbum Domini Verkilndigung und Forschung Vox Evangelica Word Biblica} Commentary Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen Te­ stament Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament Westminster Theological Journal ZERWICK M. - SMITH J Biblica/ Greek Zeitschrift fur katholische Theologie Zeitschrift fiir die neutestamentliche Wissenschaft Zeitschrift fiir Theologie und Kirche ..

Introduzione

La pericope 7,7-25 della Lettera ai Romani è una pericope indubbiamente complessa, oggetto di diversificate interpretazioni tra gli studiosi. In realtà, al ri­ guardo, si può dire che non esiste un qualche consenso nella comunità scientifica internazionale, cosicché uno studioso come Anders Nygren la definisce come «la più discussa sezione di Romani» 1 e Ulrich Wilckens, di rimando «a fianco di Rm 5,12-21 il testo più difficile di tutta la lettera». 2 Una prima difficoltà si riscontra a livello di delimitazione del testo: Rm 7,7-25 deve essere unito ai primi sei versetti del capitolo settimo, - pure incen­ trati sulla tematica del VÒfloç - o è indipendente? Inoltre deve essere chiarifi­ cata la relazione tra questa pericope e l'inizio del successivo capitolo ottavo. In­ fatti da una parte il tono tra le pericopi è assolutamente diverso e farebbe valu­ tare la presente pericope come un excursus. D'altra parte alcuni richiami verbali suggeriscono una sorta di confronto antitetico tra i due testi, il quale potrebbe anche essere considerato come elemento strutturante le pericopi. Ma è soprattutto a livello di interpretazione del testo che insorgono i mag­ giori problemi. All'interno di un contesto in cui l'argomentazione verte sullo sta­ tuto dei credenti e si dichiara la loro libertà dai poteri del peccato e della legge, si rimane sorpresi di fronte a delle affermazioni che presentano la legge e il pec­ cato ancora presenti e tragicamente operativi nell'esistenza di un non meglio identificato èyw. Che senso ha la ripresa di queste tematiche? E chi è il soggetto qui menzionato (crux interpretum d'altronde conosciuta da tempo e a lungo di­ battuta)? Si può accettare la rinnovata proposta dell'identità cristiana di tale soggetto, come anche ultimamente si sostiene in taluni ambienti soprattutto an­ glofoni? La pericope, inoltre, inizia al v. 7 con una domanda sulla possibile identità della legge mosaica con il peccato. All'interno degli scritti paolini la legge è so­ ,·ente vista operare a fianco del peccato, e anche in Rm 7,5 essa è considerata 1 A. N YG REN , Romerbrevet, Stockholm 1944; trad. inglese, Commentary on Romans, Phila· Je lphia 1972, 284. 2 U. WtLCKENS, Der Brief an die Romer II (EKK 6), Zilrich-Einsielden·KOln-Neukirchen­ Vluyn 1 978, 97.

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come strumentale allo scatenarsi delle passioni del peccato, per cui la ragione di tale domanda è ben evidente. Subito dopo aver posto la domanda, Paolo nega la possibile equiparazione tra le due entità. Il capitolo tuttavia prosegue giustappo­ nendo da una parte affermazioni positive sull'indole della legge, definita santa e spirituale, e dall'altra rappresentazioni nuovamente negative del suo interagire con il peccato, terminando poi con una descrizione dello stato miserevole del soggetto qui raffigurato. Tale descrizione parrebbe far volgere l'attenzione non più sulla legge, ma sulla condizione dell'uomo in quanto schiavo del peccato. Come si deve quindi valutare la pericope? come manifesto dell'antropolo­ gia paolina, come discussione imperniata sulla legge o come pericope in cui l 'in­ teresse iniziale sulla legge è scivolato in una rinnovata descrizione della condi­ zione umana assoggettata al peccato? E come valutare la compresenza di affer­ mazioni di diverso tenore sulla legge? Si può asserire che la pericope in qualche modo attenua precedenti valutazioni negative della stessa, presentando aspetti almeno parzialmente nuovi all'interno dell'epistolario paolino e aprendo così la strada a una almeno parziale riqualificazione della legge all'interno dell'esi­ stenza cristiana? In Rm 8,4 Paolo afferma poi che la giusta richiesta della legge viene compiuta nei credenti, fatto che pare giustificare quest'ultima interpreta­ zione. Ma se alcune affermazioni sono in sé indubbiamente nuove, qual è la loro funzione all'interno dello sviluppo argomentativo globale? Come valutare, al­ lora, la stretta interconnessione tra l'agire del peccato e la legge che i vv. 7-1 1 af­ fermano con forza? La tesi che la legge porta all'orgoglio dell'autogiustifica­ zione - tesi presentata come ovvia fino a pochi anni fa - ha un qualche fonda­ mento nella presente pericope? E ancor più radicalmente: si può rinvenire una coerenza globale nello sviluppo dell'argomentazione paolina, oppure è irrime­ diabilmente contrassegnata dal carattere asistematico della sua teologia e condi­ zionata dalla contingenza delle diverse situazioni affrontate? L'obbiettiva diffi­ coltà a mantenere uniti dati in tensione intrinseca deve far concludere che in Paolo vi sono contraddizioni evidenti, riscontrabili anche all'interno di una stessa argomentazione? Ognuna di queste tesi appena accennate ha avuto e ha diversi fautori e so­ stenitori, che saranno menzionati dettagliatamente quando le singole opinioni saranno discusse all'interno del libro. Il richiamo qui effettuato ha solo lo scopo di dare una prima giustificazione al presente studio, la quale si desume facil­ mente proprio perché la problematica insita in questa pericope e le differenti ri­ sposte degli interpreti da sole richiedono uno sforzo interpretativo volto al chia­ rimento delle questioni qui implicate. Il fatto poi che la pericope riguardi la legge, - tema al centro di un continuo e rinnovato interesse tra gli studiosi di Paolo -, è un ulteriore motivo di stimolo per una ricerca volta alla compren­ sione della pericope. Ma il motivo che ci ha spinti a intraprendere un'analisi di una pericope così complessa e che la giustifica è il fatto che tale analisi viene condotta con un me­ todo che non esitiamo a definire innovativo. Questo metodo offre la garanzia di una rinnovata comprensione in senso unitario della pericope e dei suoi interessi.

Introduzione

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Tale unitarietà viene affermata non sulla base di una sovrapposizione delle pre­ comprensioni dell'interprete odierno al testo analizzato, ma in base agli interessi che l'argomentazione stessa dimostra essere centrali e che l'interprete è chia­ mato solamente a evidenziare. Si potrebbe definire tale metodo «rhetorical criti­ cism» in quanto, in modo analogo a ciò che è stato teorizzato da alcuni in questi ultimi anni, viene espressamente fatto riferimento alla retorica classica per trarre da essa strumenti ermeneutici per la lettura del testo. Tuttavia la diffe­ renza tra la nostra analisi e tale metodo, nel modo in cui esso è stato sinora utiliz­ zato, risulterà evidente dal nostro lavoro ed è esplicitamente teorizzata nel primo capitolo dedicato alla metodologia. In breve, possiamo dire che non ci li­ mitiamo a indicare una strutturazione del testo sulla base di una conformità a una manualistica retorica in cui esso è fatto forzatamente rientrare, ma inten­ diamo cogliere la composizione del testo mediante l'analisi letteraria globale del suo sviluppo. Punto di partenza per tale analisi è il rilevare le tematiche genera­ tive del testo - la o le propositio-tiones -, per concentrare così l'attenzione su­ gli obbiettivi finali dell'argomentazione, sugli interessi trattati, cioè sulla teolo­ gia che vi è sottesa. La dipendenza di questo metodo dalle teorizzazioni di J.-N. Aletti risulterà palese e sarà opportunamente richiamata. Utilizzando la termi­ nologia di A. Pitta potremmo definire tale prassi d'indagine come «analisi reto­ rico-letteraria>>, in cui i procedimenti usuali dell'esegesi vengono utilizzati as­ sieme all'analisi retorica in un fecondo circolo ermeneutico che manifesta la loro reciproca e complementare necessità. Grazie a questo metodo siamo giunti a delineare quella che a nostro avviso è la finalità perseguita e coerentemente raggiunta dall'argomentazione paolina. Essa infatti ci risulta come argomentazione imperniata sulla legge, in cui le con­ siderazioni dal tenore antropologico risultano funzionali a tale tema. Ma non si tratta di una difesa della legge, come spesso viene oggi sostenuto, bensì di una «concessio» retorica in cui l'impotenza salvifica della legge viene coerentemente reiterata nonostante la presenza di affermazioni non in linea con questo aspetto. Queste sono richieste dalla complessità del tema trattato e dialetticamente for­ mulate in modo da non smentire la valutazione globale della legge in quanto im­ potente. Tale aspetto, che la pericope intende porre in rilievo, può essere colto proprio dando ragione della compresenza di affermazioni di tenore differenziato sulla legge. Esse non sono indice di contraddizioni nel pensiero paolino, ma frutto di una strategia argomentativa elaborata, definibile appunto «concessio». Lo studio attento dello svolgimento globale dell'argomentazione può indicare i termini su cui effettivamente cade l'accento. Questa è la tesi fondamentale che abbiamo voluto dimostrare in questo lavoro di analisi del testo paolino. È d'altronde risaputo che le affermazioni paoline riguardo alla legge mo­ saica sono sovente problematiche e presentano diversi elementi di tensione. Per ricordare solo alcuni aspetti presenti nella Lettera ai Romani: come si può asse­ rire che la legge testimonia la giustizia divina senza però concorrere al suo disve­ lamento (Rm 3,20-21)? In che senso la legge provoca l'ira (Rm 4,15)? Qual è la relazione tra venuta della legge e incremento della condotta peccaminosa (Rm

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Una legge buona ma impotente

5,20)? Come può, infine, la medesima entità essere mezzo delle passioni pecca­ minose e apportatrice di giuste richieste (Rm 7 ,5; 8,4 )? Il nostro studio non si è addentrato analiticamente in tale complesso di problematiche, ma, più modesta­ mente, si è prefisso di analizzare una sola pericope dominata dalla discussione della legge. Tuttavia, poiché tale discussione in Rm 7,7-25 è esplicitamente enunciata nei suoi termini più generali, non legati a una qualche situazione o problematica contingente, si può presumere che le tesi espresse in questa peri­ cape possano rappresentare un aspetto abbastanza coerente del pensiero dell'apostolo. Non abbiamo ovviamente potuto fornire la verifica di una simile ipotesi. Segnaliamo solamente che nel corso della nostra indagine abbiamo preso in considerazione varie affermazioni circa la legge fatte altrove da Paolo, e che nessuna di esse ha falsificato la tesi qui formulata. Il nostro studio si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo è dedicato a una giustificazione teoretica e alla definizione di una metodologia. Abbiamo ri­ scontrato che quei criteri solitamente valutati dagli esegeti come «letterari» ri­ sultano imprescindibili per la corretta valutazione di un 'argomentazione, ma ne­ cessitano di essere integrati da altri più propriamente attinenti alla dispositio re­ torica. Con tale metodologia abbiamo quindi verificato brevemente l'organizza­ zione globale della sezione che va dal capitolo quinto al capitolo ottavo della let­ tera, entro la quale la nostra pericope è inserita. Il capitolo secondo ha avuto come scopo la delimitazione della pericope di Rm 7,7-25 e la verifica della sua composizione interna. Siamo giunti alla conclu­ sione che essa dipenda dalla domanda di Rm 7,7, in quanto la questione lì posta suscita un dibattito nuovo, atteso in forza di alcune affermazioni precedenti e non ancora esplicitamente affrontato. Il capitolo terzo è dedicato alla minuta analisi versetto-per-versetto. Sono qui risolte alcune problematiche che insorgono a questo livello dell'esegesi. Ma soprattutto vengono poste in risalto tutte le asserzioni che suscitano problema per la comprensione globale del messaggio paolino, motivando il rifiuto di solu­ zioni che unilateralizzino alcuni dati o attenuino l'aspetto provocatorio di alcune dichiarazioni. Un solo esempio tra tutti: nei vv. 7-13 si afferma che attraverso la legge il peccato manifesta la sua virulenza e il suo effetto di morte. Alcuni inter­ preti sostengono che in tale processo è in gioco un progetto divino. Non vo­ gliamo negare che tale tesi possa essere espressa in alcuni passaggi paolini, tutta­ via dimostreremo come non sia espressa in questa pericope e come non sia, di conseguenza, legittimo proiettare su essa valutazioni estranee all'argomenta­ zione concretamente esaminata. L'evidenziazione di tali problematiche è servita da piattaforma al capitolo quarto, dove finalmente abbiamo sviluppato la riflessione teologica sui soggetti messi in scena nella pericope: il peccato, l'io e la legge. L'ordine in cui essi sono stati qui trattati non è casuale, in quanto è proprio sulla legge che l 'argomenta­ zione paolina in fondo verte. Di conseguenza sulla valutazione di tale realtà si ri­ chiede una parola precisa in uno studio dedicato alla presente pericope. In que­ sto capitolo, quindi, vengono espresse le tesi qualificanti della presente ricerca e

Introduzione

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si dimostrerà come affermazioni su altri soggetti siano funzionali alla presenta­ zione della teologia della legge qui intesa. Ma alcune espressioni di Rm 8,1-17 richiamano esplicitamente la pericope qui studiata. Si è reso pertanto necessario un ulteriore capitolo nel nostro studio, il capitolo quinto. Dopo un'essenziale rassegna dello sviluppo del pensiero di tale pericope, si verifica come tali espressioni non falsifichino, ma confermino le tesi da noi avanzate nel corso dello studio della pericope Rm 7,7-25. In modo particolare, le affermazioni riguardanti la legge enunciate in Rm 8,1-17, lette al­ l'interno delle asserzioni presenti in tutto il capitolo settimo, permettono di deli­ neare un'ermeneutica paolina della legge. Ognuno di questi capitoli inizia con un 'introduzione che giustifica lo stadio della ricerca in esso proposto sulla base dello sviluppo maturato precedente­ mente. Alla fine una conclusione generale riassume i punti salienti dimostrati in ogni capitolo. Il presente studio è sorto come dottorato di ricerca in teologia biblica alla Pontificia Università Gregoriana e qui brillantemente discusso nel mese di mag­ gio 1998. Esso si caratterizza quindi per un'analisi rigorosa e una terminologia scientifica, peculiari a tale genere di ricerca. Il linguaggio adottato è però voluta­ mente privo di inutili tecnicismi. e ogni momento dell'indagine viene adeguata­ mente motivato. Questi fattori rendono il presente lavoro adatto non solo agli specialisti del settore, ma anche a chi, solamente introdotto agli studi biblici, de­ sideri affrontare una riflessione sistematica su una delle tematiche peculiari del pensiero di Paolo. Proponiamo quindi il frutto della presente fatica come ter­ mine di confronto per una fruttuosa investigazione delle sempre affascinanti, an­ che se talvolta problematiche, prospettive d eli 'argomentazione paolina. Desidero infine esprimere la mia più viva riconoscenza al p. Jean-Noel Aletti, relatore della tesi. La sua competenza, il suo rigore d'analisi e al con­ tempo il suo entusiasmo mi sono stati di sprone nel lungo cammino della ri­ cerca. Un particolare apprezzamento per il fatto che le sue correzioni e i suoi suggerimenti sono sempre stati intesi a promuovere un'effettiva autonomia nel mio studio.

Capitolo primo

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolina

0.

INTRODUZIONE

Sembra oggi impossibile concepire una ricerca scientifica senza una previa e adeguata presentazione della metodologia ivi utilizzata. Se è vero che i proce­ dimenti scientifici adottati nella ricerca dimostrano la loro importanza e la loro fecondità nel corso stesso del loro utilizzo, pare altresì doveroso darne una enunciazione e giustificazione preliminare, al fine di orientare subito il lettore a cogliere la modalità di analisi di un testo e motivare teoreticamente la possibilità del loro impiego. Per ciò che riguarda l'esegesi paolina, una definizione della metodologia non può prescindere da un confronto con l'epistolografia e con lo studio della diatriba, attraverso le quali da tempo si è creduto di poter ravvisare le «forme» di composizione adottate da Paolo. A esse viene aggiunta oggi la re­ torica. Qualora venga utilizzata con le dovute accortezze che non mancheremo di enunciare, essa appare a nostro avviso come la possibilità forse più feconda di comprensione dell'argomentazione paolina, in quanto permette di compiere il passaggio dalla ricerca della «forma>> di un testo alla comprensione della sua in­ tenzione comunicativa. È ovvio che uno studio comprensivo di tali problemati­ che esorbita enormemente dagli interessi di questo primo capitolo introduttorio. Perciò, tralasciando per esempio totalmente l'analisi dello sviluppo storico di tali ambiti letterari e rimandando per questo agli esaustivi studi già a disposizione, abbiamo scelto di limitare la nostra esposizione all'indagine delle modalità attra­ verso cui il loro studio ha influito sull'esegesi paolina. t.

L'EPISTOLOGRAFIA

1.1

Le tesi di A. Deissmann a confronto con le antiche trattazioni sull'epistolografia

Certamente si deve ad Adolf Deissmann ascrivere l'inizio di un esteso con­ fronto tra l'epistolario paolino e alcune convenzioni epistolari dell'antichità.

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Una legge buona ma impotente

Tale confronto ha posto in relazione le lettere paoline con le usanze ad esse con­ temporanee e ha notevolmente influenzato l'esegesi successiva. Più precisa­ mente, il termine di confronto stabilito dal Deissmann è con le lettere trovate in papiri dell'antico Vicino Oriente, pubblicati e conosciuti per la prima volta alla fine del secolo scorso. Il carattere generalmente semplice dello stile e delle infor­ mazioni ivi riportate portò l'autore alla formulazione della conosciuta distin­ zione tra «lettera» (Brief) ed «epistola» (Epistel) che qui vale la pena riportare per esteso. Cos'è una lettera? La lettera è qualcosa di non-letterario: serve alla comunicazione tra soggetti separati. Per sua intrinseca natura è intima e personale, rivolta esclusi­ vamente al destinatario o ai destinatari reali, non alla pubblicazione o qualificabile da una pubblicazione. La lettera è non-letteraria. Per la determinazione della na­ tura della lettera non sono determinanti in ogni caso il contenuto, la forma e le for­ mule ... Che cosa è un'epistola? l'epistola è una forma artistica letteraria, un genere della letteratura, come ad esempio un dialogo, un discorso, un dramma. È accomu­ nata alla lettera solo dalla forma di lettera. Il contenuto dell 'epistola è calcolato per la pubblicazione, vuole interessare il pubblico. 1

Un a tale distinzione, così nettamente affermata, è a nostro avviso solo ap­ parentemente logica. La distinzione tra lettere inviate a destinatari reali, con cui si intrattengono autentiche comunicazioni e si scrivono solo notizie inerenti a tale comunicazione, e quelle rivolte a un pubblico più ampio, generalizzato, più o meno conosciuto dall'autore ed eventualmente pensate anche per essere tra­ mandate nel tempo, può essere facilmente sostenuta, ma non con una così rigida demarcazione da cui segua che le lettere reali siano sempre e necessariamente «qualcosa di non-letterario». In altre parole, non si può dire che queste non pos­ sano dipendere in qualche misura da convenzioni letterarie, modalità espressive più o meno codificate, e debbano conseguentemente presentarsi come un pro­ dotto stilisticamente e strutturalmente mai elaborato, o la cui elaborazione nulla possa dire a riguardo della determinazione dell'essenza di una lettera. Uno studio più comprensivo di fonti antiche di diversificata natura mette in guardia da queste eccessive semplificazioni. Le epistulae ad familiares di Cice­ rone, per esempio, sono per certi versi indubbiamente missive a carattere pri­ vato, dove l'autore stesso afferma chiaramente che lo stile per le lettere private e quello per le lettere di cui egli suppone la lettura da parte di più persqne è di ­ verso. 2 Ma allo stesso tempo egli è consapevole del fatto che queste lettere pos­ sano venire pubblicate da Tito3 e approfitta per scrivere in esse a riguardo di te­ matiche di interesse generale, volte all'attenzione di un pubblico non limitato a quello dei suoi amici. Conseguentemente le sue lettere, a fianco di un tenore evi-

1 A. DEISSMANN, Licht vom Osten, TUbingen 1909, 164.165. CICERONE, Ad fam. XV, 21, 4. In Ad fam. IX, 21. l riporta la convinzione greca di lettera pri­

2

vata come meta di dialogo tra amici. 3

Ad

fam. XVI, 1 7,

l.

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

21

dentemente privato, assumono a volte le caratteristiche della comunicazione pubblica e della propaganda politica, continuando una consuetudine che risaliva già nell'antichità greca a Platone e Isocrate.4 D 'altro canto le epistulae mora/es di Seneca rivelano per un verso i carat­ teri tipici dell'epistola letteraria a causa del loro carattere di trattazione filoso­ fica e dell'intento, affermato dall'autore stesso, di scrivere su degli argomenti utili a tutta l'umanità.5 Ma per un altro verso sono espressione di un autentico scambio epistolare tra Seneca e Lucilio. Da esse infatti veniamo a conoscenza di aspetti realmente biografici della vita dell'interlocutore di Seneca. 6 Questi dun­ que a volte è visto come un astratto discepolo ideale, ma altre volte è conside­ rato nella sua concreta individualità di amico di Seneca. Le epistole non sono al­ lora uno strumento estraneo al consolidamento di questa amicizia / ma · tale aspetto è tipico della lettera «reale», come è stato ben evidenziato da studi che citeremo in seguito. Le raccolte di lettere di Cicerone e Seneca non sono che due esempi di come epistola «letteraria» e lettera «reale>> possano, con diverse gra­ dazioni, assumere alcuni connotati tipici l'una dell 'altra. I due generi non sono dunque tra loro incomunicabili, ma si verificano diverse sfumature tra gli stessi. Del resto questa sembra essere la convinzione emergente da alcuni degli antichi teorici dell'epistolografia, di cui ora facciamo breve menzione. Tra questi il De Elocuti�ne, attribuito al retore Demetrio di Falero, ma da­ tabile forse con più probabilità a cavallo tra il II e il I sec. a.C., è senza dubbio 1· opera che si avvicina maggiormente alla comprensione della «lettera» presen­ tata dal Deissmann. In essa infatti si riporta la convinzione che la lettera sia parte di un dialogo immaginario tra due interlocutori distanti e perciò si racco­ manda per essa uno stile semplice, ma tale affermazione viene poi relativizzata. 8 Così, riguardo alla struttura della lettera, l'autore raccomanda libertà e conci­ sione, differenziandola da quella dei discorsi retorici giudiziari. Questo tuttavia non sembra escludere totalmente una certa elaborazione della stessa. 9 La com­ prensione delle lettere qui presente rimane sostanzialmente confinata a quella di uno strumento per la comunicazione amicale, ma il fatto stesso che vengano ri-

4 Cf. G.F. GIANNOTIJ- A. 1982, 201 -204. 5 SENECA Ep. mor. VIII.

PENNACINI,

Storia e forme della letteratura in Roma Antica, Torino

,

Ep. XXI� IL� LXX. . In Ep. XXV Seneca richiede la visita dell'amico, in Ep. CXVIII.t lo scambio epistolare è

6 Cf. 7

considerato affine a un debito di amicizia. 8 De El. 223-225: «Ò b tLO'toÀ.txòç xaQaK'tÌ')Q OEi'taL loxvò'tT)'tOç»: «lo stile epistolare richiede semplicità»; «OEi yò.Q u:n:oxan:OKE'UQ06aL :n:wç ,.uillov 'tO'Ù OtaÀòyou tilV €rttO'toÀT]V»: «la lettera deve essere un po' più organizzata del dialogo». Da ciò segue che la comprensione di quest'opera mo­ strata da DEISSMANN, Licht, 164 nota 1 , è parziale. 9 De El. 229: «'t'Ù aÀa[rootç) e la mozione degli affetti dell'uditorio. 52 L'occasionate deviazione dall 'argomento trattato, che permette un certo grado di libertà in tale schema, viene definita come digressio (gr. naQÉX�aotç), da Quintiliano trattata soprat­ tutto come appendice della narrazione.53 L'argumentatio, cuore del discorso persuasivo, viene a ricevere ovviamente la maggiore attenzione da parte dei teorici della retorica. Per Aristotele essa può consistere di prove extra tecniche (a'texvot, lat. inartificiales ), dati di fatto indi­ pendenti dall'arte dell'oratore, e tecniche (ÈvtEXVOt, lat. artificiales), escogitate dall'arte e dal metodo dell'oratore.54 Queste ultime vengono sviluppate in modo deduttivo e induttivo. Il primo modo procede attraverso entimemi. una forma particolare di sillogismo retorico, in cui le premesse sono in genere verosimili. Una di queste viene spesso sottaciuta o alcune connessioni logiche di facile intui­ zione non vengono esplicitate, ma lasciate all'intelligenza dell'uditore che altri­ menti verrebbe tediato da argomenti eccessivamente prolissi.55 Il procedimento induttivo è imperniato su esempi. a cui Aristotele raccomanda di ricorrere solo quando si è a corto dei precedenti.56 Egli pertanto dedicherà parte notevole del suo studio alla ricerca delle premesse degli entimemi: questo avviene nel primo e nel secondo dei libri della Retorica, nonché in un libro a parte, Topici, ove tali premesse sono viste all'interno delle categorie della sua metafisica. Le premesse degli entimemi sono costituite da idee comuni alla memoria e ai sistemi di valore collettivi denominati 'tònot, lat. foci; praticamente è questa la parte dedicata da Aristotele all'inventio. In tutto il suo studio della nlo-rtç egli appare un maestro il cui sforzo di sistematizzazione teoretica e di chiarificazione terminologica si ri­ velerà valido per tutti gli autori a lui posteriori e le cui conclusioni saranno da essi assunte in forma stabile nei successivi manuali. Le differenze saranno di det­ taglio: ad esempio, si concederà più frequentemente la possibilità dei sillogismi a 49 Rhet. Her. l, 6-1 1 : Rhet. Al. 29, 1 436a, 34-40; 0UINTILIANO, lnst. Or. IV, 1 . �o Rhet. Her. l . 1 2 - 1 6 ; Rhet. Al. 30- 3 1 . 1438a-b; OutNTILIANo, /nst. Or. IV. 2 . Per Cicerone essa n on è enumerata come parte strutturante del discorso: cf. De Or. l, 143; Il, 80.307, Part. Or. IV, 27. 51

Rhet.

Her.

I.

18ss; Rhet. Al.

32,

1438b-1 439b:

CICERONE,

De Or. I. 143; OutNTILIANO, lnst. Or.

V. 13, in cui queste due forme della probatio vengono trattate come due parti distinte (cf. anche

9,

5) in modo analogo all'opera giovanile di CICERONE, De lnu. I , 14, 19. 52 Rhet. Her. II, 47-5 0 : CICERONE, De Or. I, 143; QutNTILIANO, lnst. Or. VI . �3 Ou tNTILIANO, lnst. Or. IV, 3. 54 A RISTOTELE. Ret. I, 2. 1 355b, 35-41; QuiNTILIANO, lnst. Or. V, l . 55 ARISTOTELE, Ret. l , l , 1355a. 4-17; 2, 1 356b-1 358a; Il, 22, 1 395bss. 56 ARISTOTELE, Ret. l, 2, 1356b, 1 -40.

III,

Una legge buona ma impotente

34

carattere più esteso ( èn:txelQ'lJ.ta),57 ma la sistematizzazione concettuale data al­ l'argomentazione retorica da Aristotele non verrà mai sostanzialmente ridi­ scussa. L'argomentazione può essere persuasiva, secondo Aristotele, sia perché pronunciandola l'oratore appare degno di fede (in forza del suo T)Soç), sia per­ ché gli ascoltatori vengono mossi emozionalmente dalle sue parole ( Jtét8oç), sia in forza della sua razionalità intrinseca (Aòyoç).58 In aperta polemica con suoi predecessori, egli afferma vigorosamente l'importanza del Àòyoç nel processo argomentativo e, di conseguenza, darà notevole spazio allo studio degli enti­ memi e alle loro premesse, mentre T)Soç e n:ét8oç appaiono perlopiù caratteristi­ che degli esordi e delle conclusioni. Forse è qui possibile rintracciare un'eco della polemica platonica contro l 'uso sofista della retorica, uso che aveva portato alla relativizzazione assoluta della verità. La teorizzazione aristotelica tende a ri­ pristinare la coerenza logica dei meccanismi argomentativi della retorica e, at­ traverso essi, afferma la dignità scientifica della stessa. 59 Nel mondo latino, il li­ bro che mira maggiormente a una analoga nobilitazione di detta arte è il De Oratore di Cicerone, dove la figura del retore viene tracciata nei suoi profili più ideali, nella sua eticità, nel suo spessore politico, e la retorica rapportata in vari momenti alla filosofia. Tutto questo ci rammenta che la ben conosciuta disputa tra queste due scienze, che gli interpreti odierni spesso correttamente ricondu­ cono a una disputa per i mezzi di educazione, non implica una totale estraneità dei loro processi argomentativi. Anzi, vi possono essere diversi gradi di compe­ netrazione tra questi, teorizzati e sviluppati soprattutto da autori interessati a entrambe le discipline. Ritornando ora al carattere persuasivo dell'argomenta­ zione retorica, si deve notare che da un lato i latini seguono Aristotele nell'ana­ lisi delle sue modalità persuasive, d'altro lato affermano con maggiore enfasi la possibilità, spesso l'obbligo, per l'oratore di creare il necessario Jtét8oç nell'udi­ torio anche nel corso della presentazione delle prove, eventualmente con oppor­ tune digressioni. 60 L'argomentazione, come abbiamo visto, dipende per Aristotele dalla pro­ posizione. Ermagora di Temno, retore del II sec. a.C., la cui opera è andata per­ duta, ma può essere parzialmente ricostruita attraverso citazioni di altri autori, elabora d'altro canto un sistema con particolare riferimento alla retorica giudi­ ziaria. In essa l'interesse si incentra nel determinare la questione ( crtétotç, lat. status causae) da cui trae origine il conflitto giudiziario e, conseguentemente, sembra - anche l'argomentazione globale.61 Una tale concezione viene svilup­ pata all'interno di varie trattazioni sul genere giudiziario, il quale è oggetto di S7

Cf. QUINTILIANO, lnst. Or. v,. 14, per la discussione su entimema ed epicherema. ARISTOTELE, Ret. I, 2, 1 356a, 1-19. 59 Cf. ARISTOTELE, Ret. I, 1 , 1 354a, 10-15; l, 1355a, 30 - 2,1355b, 34. 60 Cf. CICERONE, Orat. 69, De Or. II, 3 1 0-315, QuiNTILIANO, lnst. Or. IV, 5, 6: «non enim solum oratoris est docere, sed plus eloquentia circa mouendum ualet»; «dovere dell'oratore non è solo quello di istruire; l'eloquenza ha valore soprattutto per scuotere», VI, l, 5 1 . 6 1 ERMAGORA, Framm. 9-10. 58

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

35

uno sviluppo del tutto particolare sia in ambito ellenistico sia, soprattutto, in am­ bito latino. Pare che essa influenzi tra gli altri la Rhetorica ad Herennium, dove, dopo la narrazione, si pone nel discorso retorico la diuisio causarum che ricorda molto la sua precedente discussione sulle cause. 62 Si deve soprattutto a Quintiliano - senza tuttavia dimenticare Cicerone, sua primaria fonte ispiratrice - una radicale ricomprensione di tale aspetto al­ l'interno delle linee tracciate da Aristotele. Egli definisce lo status causae «ciò che nasce dal primo conflitto, cioè il genere della questione»,63 e prosegue distin­ guendo da esso la partitio, ovvero l'enumerazione dei punti singoli che l'oratore andrà a trattare. Talvolta essa si può ritenere come enumerazione delle singole propositiones.64 Per ciò che riguarda più da vicino la propositio, Quintiliano la considera inizio della prova, la cui funzione è di chiarire sia la questione princi­ pale, sia singoli argomenti che possono essere sviluppati nel corso della proba­ tio.65 Egli ritiene quindi che ci possano essere più propositiones all'interno di una sola argomentazione. 66 Se delle volte la propositio potrà essere omessa, per sor­ prendere l'uditore con delle argomentazioni inaspettate o perché la narrazione già chiaramente indica l'oggetto del successivo contendere. nondimeno viene raccomandato un riassunto a fine della narrazione che introduca l'argomenta­ zione nel suo complesso. Conseguentemente tutto ciò che fa scaturire l'argo­ mentazione, indipendentemente dalle sue caratteristiche formali. viene denomi­ nato propositio, al cui ordine l'oratore viene raccomandato di attenersi stretta­ mente nello sviluppo del suo discorso. 67 In breve, Quintiliano rielabora una teo­ ria in cui la propositio, eventualmente nella forma della partitio. appare l'ele­ mento attorno a cui si impernia la o le questioni principalmente dibattute, e quindi il vero elemento da cui sorge l'argomentazione. L'elocutio (gr. Àt;a.ç), deve essere fondamentalmente adatta alle circo­ stanze e ai momenti del discorso (apte dicere). Per questo motivo vengono varia­ mente raccomandate caratteristiche quali la chiarezza. la correttezza lessicale e grammaticale e l'eleganza del linguaggio. 68 Qui trova la sua ragione anche lo stu-

62 63

nis».

64

65

Rhet. Her. , rispettivamente l, 17 e I, Sss. QmNTILIANO, lnst. Or. III, 6, 5: «quod ex prima conflictione nascitur, id est genus quaestio-

QuiNTILIANO, lnst. Or. III, 9, 2-3; IV, 5. QuiNTILIANO, lnst. Or. IV, 4, 1: «in ostendenda qaesrione principali, sed nonnumquam

e tiam in singulis argumentis poni soleb>; «(la proposizione) viene solitamente posta per chiarire la questione principale, ma talvolta anche nei singoli argomenti». 66 Cf. QuiNTILIANO, lnst. Or. IV, 5-6. 67 QuiNTILIANO, lnst. Or. IV. 4, 9: «ha be t interim uim propositionis, etiamsi per se non est pro­ positi o, cum exposito rerum ordinem subicimus: "de his cognoscitis", ut sic haec commonitio iudicis, quo se ad qaestionem acrius intendat»; «ha talvolta la forza di una proposizione, benché di per sé non sia proposizione. quando (l'esposizione in cui), all'ordine dei fatti esposto, aggiungiamo: "questo constatate", affinché questo sia per il giudice un avvertimento per il quale si dedichi con maggior at­ tenzione alla questione)); IV, 5, 4-5; 28: «pessimum uero non eodem ordine exequi, quo quidque pro­ posueris»; «è in realtà cosa pessima non svolgere (l'argomentazione) nel medesimo ordine in cui è stata proposta». 6H Cf. ARISTOTELE, Ret. III, 1 -2; OcERONE, De Or. III, 37; QuiNTILIANO, /nst. Or. VIII.

36

Una legge buona ma impotente

dio dei tropi e delle figure di parole e pensiero che in seguito, sganciate dal loro contesto, sono divenute sino ai nostri giorni l'interesse esclusivo della retorica, facendola apparire come scienza mirante a una ricercatezza formale artificiosa e fine a se stessa. Da qui, infine. deriva una teorizzazione, iniziata dai latini e pro­ seguita nella tarda antichità cristiana e nel medioevo, sugli stili appropriati ai vari scopi del retore e alla natura dei diversi argomenti (genus subtile, medium, sublime). Per ultima menzioniamo l 'importante definizione dei generi retorici che, iniziata da Aristotele, è stata mantenuta da tutti i teorici successivi. Questi sono: 1 .- il deliberativo (deliberatiuum, gr. OUJJ.�OUÀEU'ttxòv), ove l'oratore mira a far prendere all'uditore una decisione riguardo al futuro, consigliando ciò che è utile e sconsigliando ciò che è nocivo; 2.- il giudiziario (iudiciale, gr. btxavtxòv), ove l'uditore è chiamato a dare un giudizio su avvenimenti passati, su ciò che è giusto oppure ingiusto, e che si presenta come discorso di accusa o di difesa; 3.- infine l'epidittico (demonstratiuum, gr. bttbEtX'ttxòv), ove l'oggetto del discorso è ciò che è bello (in senso originariamente aristotelico, affine al buono), che viene lo­ dato, e ciò che all'opposto è turpe e viene biasimato, e in cui l' uditore o funge da spettatore o viene interpellato a una adesione presente ad alcuni valori. 69 Di queste definizioni vorremmo evidenziare la criteriologia, che è costi­ tuita dall'analisi dell'uditorio - se sia chiamato in causa come giudice su fatti presenti, passati o futuri o come spettatore - e dagli scopi che il retore di conse­ guenza si prefigge. Tale criteriologia fa in fondo apparire la retorica come scienza della comunicazione. Inoltre una definizione così ampia comprende di fatto tutti i vari tipi di uditorio, prevede ogni situazione comunicativa, e conse­ guentemente rende la retorica come studio di tutte le possibili forme di comuni­ cazione. Ciò risulta vero soprattutto nell'analisi del genere epidittico, il più inde­ finito tra i generi retorici. che verrà a includere tutto ciò che non è prettamente giudiziale o deliberativo. Esso comprende così svariate possibilità di situazioni originanti - mentre gli altri sono pensati esplicitamente per l'assemblea politica e per la corte giudiziaria - e si presta per la traduzione in forme letterarie. Ma questa pretesa di inclusività comporta la conseguenza di una indeterminazione dei confini tra l'uno e l'altro dei generi retorici e la consapevolezza della possibi­ lità di diverse finalità perseguite all'interno di una stessa opera o discorso. 70 I di­ scorsi protrettici o la parenesi filosofica, ad esempio, si devono intendere all'av­ viso di molti come testimonianze sia epidittiche sia deliberative. Se è vero ciò che scrivono due tra i maggiori studiosi moderni di retorica, che cioè: «la deci­ sione si trova, per così dire, a mezza strada tra la disposizione all'azione e l'a­ zione stessa, tra la pura speculazione e l'azione efficace»,71 la compenetrazione 69 Cf. ARISTOTELE, Ret. l, 3, 1358b, l 1 359, 5; Rhet. Al. 1, 1421b, 8-14; Rhet. Her. l, 2; CICE­ RONE, De Or. l, 141; QuJNTILIANO, lnst. Or. III, 4. 7° Cf OuiNTIUANO, lnst. Or. III, 4, 16. 71 C. PERELMAN L. 0LBRECHTS-TYTECA, Traité de l'argumentation. La nouvetle rhétorique, -

. .

-

Paris

1958; trad. italiana, Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica, Torino 2 1 989, 52.

Forme

e

metodi p� l'analisi dell'epistolario paolino

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tra questi due generi appare come fenomeno praticamente necessario. Gli esempi potrebbero continuare, ma queste considerazioni bastano a far intuire la complessità insita in tali classificazioni. All'interprete odierno è richiesta una grande accortezza quando si tratta di catalogare un'opera all'interno di questi generi, in quanto si dovrà dare ragione dell'intento persuasivo perseguito da tale opera vista nella sua globalità. 2.2

Retorica e NT: approcci problematici

Questa presentazione estremamente schematica della retorica è già suffi­ ciente per porre la prima domanda che a noi pare metodologicamente necessa­ ria: a quale «livello» è possibile fare un 'analisi di un qualsiasi testo, ivi incluso quelli neotestamentari, con le categorie dell'antica retorica? Infatti si è visto che la retorica è una scienza articolata in vari livelli o momenti, che vanno dalla in­ ventio alla actio, ognuno dei quali oggetto di studio e di precetti da parte degli antichi teorici. Quali di questi livelli può aver significativamente influenzato uno scritto oggi pervenutoci? Come rintracciare questa influenza? È evidente che un testo scritto non si presta all'analisi dal punto di vista della memoria, né della ac­ tio. La coscienza della lettura pubblica della lettera neotestamentaria può indub­ biamente aver influito sulle modalità della sua composizione, ma queste moda­ lità potranno eventualmente riscontrarsi nello studio della sua dispositio, poiché non è possibile oggi riattivare le tecniche di lettura utilizzate a quel tempo. Ugualmente non sembra portare molto lontano uno studio del testo neotesta­ mentario dal punto di vista della elocutio. La teorizzazione riguardo i generi di stile sembra estranea agli scritti del NT, che nella loro globalità verranno addi­ tati come esempio di sermo humilis, mentre lo studio delle varie figure retoriche è una pratica già diffusamente esercitata dalla critica letteraria, ma in sé non dice ancora nulla sul significato argomentativo delle stesse. Lo studio retorico di un testo appare allora più propriamente come uno studio a livello della inventio e della dispositio. Che i testi del NT nella loro globalità riflettano le convenzioni della dispo­ sitio e della inventio della retorica è stato sostenuto da G.A. Kennedy, in uno studio considerato la prima teorizzazione metodologica dell'analisi retorica del NT. Per tale autore risulta chiaro che l'analisi retorica non si limita a enucleare le figure di stile di un brano, ma vuole, al seguito della tradizione retorica elleni­ sta e romana, fornire la sua più ampia cornice interpretativa. Tale intento verrà in seguito sempre affermato dagli esegeti che adotteranno questa metodologia. Egli afferma infatti: La retorica è quella qualità per mezzo della quale un oratore o uno scrittore cerca di perseguire i propri scopi... L'analisi retorica (rhetorical criticism ) prende il testo come noi lo abbiamo ... e lo valuta sulla base dell'intenzione dell 'autore o del com·

38

Una

legge buona ma impotente

pilatore dei suoi esiti finali, e di come sarebbe stato percepito da un uditorio a esso 2 contemporaneo. 7 ,

La retorica classica è lo strumento per cogliere l'intenzione dell'autore. Questa convi nzione viene motivata da Kennedy innanzitutto in forza del pro­ cesso culturale di ellenizzazione dell'Antico Oriente, dal quale la Palestina non si è dimostrata estranea, ma secondariamente anche per mezzo di una compren­ sione della retorica le cui caratteristiche vengono supposte essere generali, tra­ scendenti un determinato contesto culturale e sociale: Sebbene la retorica sia contrassegnata dalle tradizioni e convenzioni della società in cui è applicata, è anche un fenomeno universale, condizionato da processi basilari della mente e del cuore umano e dalla natura di tutta la società umana. Lo scopo di Aristotele, nella sua Retorica, non è stato quello di descrivere la retorica �reca, ma quello di illustrare questo aspetto universale di comunicazione umana. 3

Una tale affermazione, lo si comprende subito, è alquanto criticabile, e di fatto è stata in molti modi criticata. Su tali problematiche ritorneremo al mo­ mento opportuno. Per ora ci preme riportare la sua metodologia di esegesi, che egli definisce dopo una disamina della retorica greco-romana.74 Questa consiste nei seguenti passaggi: delimitazione del testo oggetto di studio nella sua attuale configurazione, indipendente dalle sue eventuali fonti (denominato unità reto­ rica); definizione della situazione retorica retrostante, ovvero delle esigenze che la Sitz im Leben da cui è originato un testo proietta sullo stesso e alle quali esso cercherà di dare una risposta (Kennedy porta ad esempio le notizie ricevute da Paolo dalla comunità di Corinto che danno origine alla l Cor ); individuazione del problema retorico preponderante; definizione del genere retorico del testo; studio della sistemazione del materiale (la dispositio ) che comporta finalmente l'analisi versetto-per-versetto. Una tale teorizzazione metodologica riflette pratiche di analisi precedenti ed è stata adottata spesso come punto di riferimento dagli esegeti che si impe­ gnano nell'analisi retorica. Due ci sembrano le caratteristiche qui degne di men­ zione. La prima è la determinazione della situazione retorica, che diviene il primo compito dell'esegeta una volta delimitata la pericope da analizzare. Infatti precede sia gli altri gradini dell'analisi propriamente retorica sia la minuta ana­ lisi versetto-per-versetto. In secondo luogo è da notare che la definizione del ge­ nere retorico precede lo studio della sistematizzazione del materiale e, quindi, della dispositio ed entrambi ancora una volta sono prioritari ali 'analisi dei singoli versetti, cioè dell'effettivo sviluppo dell'argomentazione. Ambedue queste caratteristiche si possono già riscontrare nel citato arti­ colo di Wuellner.75 Accettando aprioristicamente l'idea che l'exordium retorico ,

72

G.A. KENNEDY, New Testament lnterpretation through Rhetorical Criticism,

1984, 3.4; cf. anche p. 12. 73

74

75

Chapel Hill

KENNEDY, New Testament, 1 0. KENNEDY, New Testament, 33-38. WuELLNER, «Rhetoric», 133ss, seguito soprattutto da JEWE1T, «Ambassadorial».

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

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coincida con il prescritto epistolare, egli vuole trovare in Rm 1 ,1-15 i motivi che governerebbero tutta l'argomentazione successiva della lettera. Questi motivi sono identificati nelle asserzioni paoline di essere apostolo del vangelo per le genti e per i romani. Va subito notato che la menzione delle e8vf) si ha solo al v. 5. all'interno di una frase relativa in cui appare problematico vedere come que­ sta parola sia veramente ciò che Paolo mette in rilievo rispetto ad altri termini ivi presenti. La menzione dei cristiani di Roma appare poi al v. 6, si estende sino al v. 15 ed è introdotta da un'altra relativa (tv otç), che situa i cristiani di Roma al­ l'interno delle È8Vf), a cui il pronome relativo si riferisce. Non si può pertanto af­ fermare che siamo qui di fronte a due differenziati interessi di Paolo, poiché la menzione delle genti serve solo per introdurre quella dei romani, nei confronti dei quali Paolo si dimostrerà realmente interessato a stabilire delle relazioni per mezzo dei vv. 7-15. 76 Ma queste osservazioni dovrebbero risultare ancora prov­ visorie, poiché, se si afferma che qui Paolo esprime degli interessi che introdu­ cono la successiva argomentazione, si dovrebbe verificare la loro presenza all'in­ terno della stessa. Ma tale verifica manca nelle scarne pagine dedicate alla con­ firmatio, mentre solo il confronto con la peroratio finale viene addotto a con­ ferma di queste tesi. Il nostro autore prosegue poi definendo la struttura di Rm in base ai criteri della dispositio manualistica che all'exordium fa seguire la nar­ ratio, identificando come tali i vv. 13-15, cioè la fine dell'esordio. Ma questo non corrisponde alla stessa manualistica, che tratta i due come sezioni distinte, sep­ pur generalmente conseguenti. A tale identificazione, inoltre. si possono rivol­ gere obiezioni dello stesso tenore di quelle precedenti: bastano due soli verbi al passato (v. 13: n:Qoe8ÉJ..tf)V, txwÀ:u8f)v) a definire una narratio? Come mai essa è così esigua rispetto alla confirmatio, che si estenderà sino a 15,13? Ma, ancor più decisamente: una narratio ha il compito di addurre i fatti utili per la successiva probatio;77 ora non si vede quale sia l'influenza del mancato, ma desiderato viag­ gio di Paolo a Roma sull'argomentazione che segue.78 Esula dal nostro intento una presa di posizione sul dibattuto problema dello scopo della Lettera ai Romani. Ci interessa qui solamente. per mezzo della citazione di questi contributi, evidenziare alcuni rischi dell'analisi retorica corre­ lati alle caratteristiche metodologiche sopra rilevate. Quando cioè si vogliono evidenziare la situazione e il problema retorici in base ad alcuni elementi isolati 76 Questa è l'ovvia interpretazione dei commentari; cf. tra gli altri C.E. B. C R A N FI E LD Romans ( ICC), Edinburgh 1 975, 67-68 e WILCKENs, Romer l, 67-68. Discussioni possono sorgere sul tipo di relazione tra la chiesa di Roma e le genti, se cioè il relativo si riferisca alla estrazione sociale dei cre­ denti romani o semplicemente alla loro collocazione geografica in un territorio non ebraico, ma ciò è irrilevante per le nostre considerazioni. 77 Con riferimento soprattutto al genere giudiziario cf. CICERONE, De lnu. I, 19, 27; QmNTI­ LIANO, lnst. Or. IV, 2, 31. 7 8 JEWETI, «Ambassadorial>>, 14, cerca di aggirare la difficoltà affennando che i l versetto «of­ fre il retroterra della visita diplomatica di Paolo a Roma», ma una tale strategia mirante all'acco­ glienza delle finalità dell'oratore è propria non della narratio, ma dell'exordium (cf. ARISTOTELE, Ret. III. 1415a, 35-36; QuiNTILIANO, lnst. Or. IV 1 , 5), o, come afferma con evidente buon senso Cicerone, di tutto il discorso (De Or. II, 19, 81-82). ,

l

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ma

impotente

di un testo, senza analizzare previamente la dinamica dell'argomentazione presa nella sua completezza, si corre il rischio dell'arbitrario, della «sovraesposizione» in un testo di alcuni elementi evidenti e importanti, in fondo, solo all'interprete, senza offrire inoltre criteri di verifica per la validità di una o dell'altra scelta.79 Ancora, l'arbitrarietà sta in agguato quando il genere retorico viene deciso prima dell'individuazione della dispositio e questa prima dell'analisi minuziosa di tutta l'argomentazione, in quanto il criterio che necessariamente viene seguito è quello della conformità di un testo alla manualistica classica. Ma è impossibile esplicitare quale delle talora differenziate manualistiche80 venga seguita e come una caratteristica formale possa autorizzare l'attribuzione di un testo a un deter­ minato genere retorico. Per esempio, una narratio è considerata una caratteri­ stica del genere giudiziario, ma può anche essere presente negli altri generi� è al­ lora sufficiente il solo riscontro di una sequenza narrativa per autorizzare la ca­ talogazione di tutti i testi con narratio come giudiziari? Da una parte l'esegesi retorica ha proseguito - e prosegue - su una delle strade tracciate da Kennedy e si impegna nella definizione della dispositio delle varie lettere paoline e nella determinazione del loro genere retorico con la sicu­ rezza di poterli identificare attraverso il metodo che, dopo le precedenti chiarifi­ cazioni, si può definire «Comparazione formale» tra una lettera e la manualistica retorica. Ma d'altra parte si sta facendo strada la consapevolezza del grado di opinabilità racchiuso in questa metodologia. Su questa scia Porter rileva con molta lucidità come svariati contributi esegetici. stimolati proprio dal presuppo­ sto kennediano della «universalità» delle categorie della retorica, si siano impe­ gnati in ciò che viene definita: «analisi retorica sincronica, in altre parole anal isi di tutti i tipi di comunicazione per apprezzare ogni tecnica utilizzata per pro­ muovere l'arte della persuasione».81 Ma poiché la tesi che identifica nella reto­ rica classica l'espressione dei meccanismi persuasivi di ogni linguaggio risulta ov­ viamente problematica, si nota in questi indirizzi un progressivo affrancamento dai canoni della retorica classica, come anche Porter rileva. Diventa invece ne-

79 Solo a titolo esemplificativo: J.A. CRAFTON, ((Paul's Rhetorical Vision and the Purpose of Romans», in NT 32( 1 990), 3 1 7-339, presuppone una situazione di divisione tra i cristiani romani di origine pagana e quelli di origine giudaica e di conseguenza l'orientamento di tutta l'argomentazione alla loro unificazione, come segno dell'attuazione del progetto escatologico divino; N. ELuorr, The Rhetoric of Romans (JSNTSS 45), Sheffield 1 990, isola dalla peroratio e dall'exordium la supposta esigenza retorica della chiamata alla vita santa dei romani e struttura la successiva argomentazione in base a queste considerazioni (soprattutto pp. 69-98)� GuERRA, Romans. all'intenzione unificatrice dei cristiani di diversa origine associa lo scopo apologetico di Paolo nei confronti dei giudaizzanti. Tutto e il contrario di tutto può essere asserito quando l'esegeta non parte dalla analisi globale dell'argomentazione. 110 Persino la teorizzazione latina, che intende fissare con maggior precisione le regole della dispositio, riconosce la libertà da queste che un oratore deve assumere qualora le circostanze lo ri­ chiedano: cf. ad es. Rhet. Her. III, 17: «est autem alia d ispositio quae, cum ab ordine artificioso rece­ dendum est, oratoris iudicio ad tempus adcommodatur»; «c'è tuttavia un'altra disposizione, la quale, mentre deve allontanarsi dall'ordine fissato dalle regole, viene adattata alle circostanza dal giudizio dell'oratore>>. MI PoRTER, «Justification», 1 06.

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Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

cessaria una assunzione di nuove metodologie volte allo studio del linguaggio umano e della sua funzione persuasiva. Rispetto alla metodologia kennediana si riscontra quindi una sottolineatura dello studio dell'aspetto inter-relazionale, comunicativo di un testo (la situazione retorica e soprattutto il problema reto­ rico) a discapito degli aspetti più strettamente legati alla sua struttura e alle sue connessioni con la retorica classica (dispositio e generi retorici), con la conse­ guente eliminazione di tutti i problemi riguardanti il legame tra le lettere paoline e la retorica del suo tempo. Più o meno consciamente e radicalmente, vari autori hanno percorso la strada così diagnosticata da Porter.x2 L'esito di questi tentativi dovrà essere vagliato di volta in volta. In fondo i vari autori citati in nota non si presentano come seguaci di una definita «scuola», ma sono stati da noi accomunati in forza di una condivisa considerazione «atte­ nuata» della retorica classica, ben sapendo che tale attenuazione presenta gradi disuguali nei diversi contributi. Da questo punto di partenza inoltre derivano metodologie che nella prassi si possono caratterizzare anche come molto diverse tra loro. Eppure proprio da questi elementi è possibile trarre una considerazione di vitale importanza a livello metodologico: la perdita di contatto con la retorica antica svuota q uesti approcci di una criteriologia di verifica comune e li inserisce in metodologie che trovano i propri presupposti ermeneutici e i criteri di verifica della correttezza del loro impiego all'interno del sistema linguistico in cui sono elaborate. In altri termini: tali studi si possono definire più appropriatamente «semiotica)), «linguistica socioculturale>>. «esegesi femminista» ... o con altre de­ nominazioni che devono trovare il proprio statuto epistemologico in maniera au­ tonoma l'una dall'altra. Ma in tale contesto è evidente che la «retorica». con il necessario ancoraggio alla sua origine classica, perde di effettiva consistenza e ri­ mane solo una sigla per definire l 'aspetto persuasivo del linguaggio. Personalmente riteniamo interessante questo sviluppo dell'esegesi, ma passibile di risultati attendibili solo se prima saldamente ancorato alla dinamica logica (e teo-logica) di un testo e della sua argomentazione. Altrimenti si arri­ schia di cadere in una ingiustificabile assolutizzazione della libertà interpretativa del soggetto rispetto al testo, ovvero in un assoluto soggettivismo ermeneutico

82 A titolo esemplificativo ci riferiamo a una prima serie di contributi che. pur presentando di­ versi orientamenti. sono accomunati da questa attenzione ai meccanismi persuasivi del linguaggio: W. WuELLNER, «Where Is Rhetorical Criticism Taking Us?». in CBQ 49( 1 987). 448-463, identifica ranalisi retorica con varie forme di ermeneutiche contemporanee; P.J.J. BoTHA, «The Verbal Art of the Pauline Letters». in Rhetoric and New Testament, 409-428. che sottolineando la dinamica orale della comunicazione epistolare vuole portare l'esegesi dall'interpretazione del testo a quella dell'e­ sperienza ad esso retrostante (cf. p. 4 1 3 ) ; C.J. CLASSEN, «St Paul's Epistles and Apcient Greek and Roman Rhetoric», ivi, 265-291 , applica a Paolo un genere retorico inventato posteriormente (da Me­ lantone) per interpretare le sue lettere secondo categorie più consone al lettore attuale ( = Io «Pau­ lus und die antike Rhetorik, in ZNW 82[ 1 991]. 1 -33); V.K. RoBBINS, «Rhetoric and Culture: Ex­ ploring Types of Cultura) Rhetoric in a Text», ivi, 444-463, e, con sottolineature proprie, B.L. MACK, Rhetoric and New Testament. Minneapolis 1 990. identificano l'analisi retorica con analisi socio­ culturali delle forme espressive neotestamentarie; STAMPS, «Criticism», 167- 1 68, genericamente iden­ tifica la retorica con lo studio delle strategie persuasive. .•

Una legge buona

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ma

impotente

che oggi appare di moda oltreoceano. 83 Ma prima di accettare questo esito che forse non tutti gli articoli citati ad esempio in nota esplicitano in ugual ma­ niera, ma che noi abbiamo voluto presentare perché riteniamo conseguenze pra­ ticamente necessarie delle premesse prima analizzate - dobbiamo chiederci se davvero la relazione delle lettere paoline con la retorica classica non possa es­ sere in alcun modo sostenuta, se le difficoltà sopra menzionate non possano es­ sere in realtà superate affinando adeguatamente gli strumenti di indagine. 2.3

Verso una ridefinizione del metodo

Nel dibattito esegetico fin qui sviluppato si è notata la difficoltà nel definire il rapporto tra epistolografia e retorica, certamente anche a causa della mancata teorizzazione dello stesso da parte degli antichi. Un tale rapporto non si può dare per scontato, come afferma tra gli altri giustamente Aletti: «il fatto che il giudaismo ... sia stato influenzato dall'ellenismo sino alla sua maniera di pensare non implica assolutamente che le epistole del NT seguano la dispositio dei di­ scorsi antichi».84 Ma si è riscontrata un'analoga se non maggiore difficoltà a dar ragione delle caratteristiche di strutturazione e di complessità dell'argomenta­ zioni nelle epistole paoline, tant'è vero che non si riesce facilmente a catalogarle all'interno dei generi letterari dell'antichità. La presenza in esse di argomenta­ zioni strutturate, di figure di stile a livello dell'espressione, sembra naturalmente postulare una certa influenza della retorica. Ora, liquidare queste caratteristiche con affermazioni come «similitudini funzionali e non formali»85 non serve a dar ragione di un fenomeno - la compenetrazione di categorie retoriche nelle let­ tere paoline - che si riscontra nei testi indipendentemente da previe teorizza­ zioni. Quello che allora si richiede è di valutare attentamente le lettere scritte da Paolo per scorgere quali accorgimenti retorici siano presenti e verificare sino a che punto essi determinino la strutturazione globale del suo pensiero. Questo deve essere fatto attraverso un'indagine innanzitutto interna al testo stesso e non preoccupata.prioritariamente di definire il grado di corrispondenza di un testo a una manualistica a esso estrinseca. È questa la sola cornice entro cui può svilup­ parsi una metodologia di analisi retorica attendibile, rispettosa delle peculiarità del testo singolo e capace nel contempo di rilevare le autentiche modalità attra­ verso le quali l'intento persuasivo di un determinato testo viene perseguito. Vorremmo rimarcare immediatamente la differenza di questo approccio da quello di Kennedy, il quale parte da una dispositio predefinita e intende ri­ scon.trarla all'interno del testo neotestamentario in esame. A tale approccio si

83

Molti dei contributi della peraltro in teressante

84

J.-N. ALETTI, «La dispositio rhétorique dans les épitres pauliniennes)), in NTS 38 (1992),

85

Cosl ad es. REED, «Categories» , 322.

The Post-Modern Bible. The Bible and Cul­

ture Co/lective, New Haven 1995, esprimono in modo marcato questa tendenza.

386.

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolina

43

potrebbe chiedere: quale dispositio? Kennedy intende quella dei retori latini, che sulla scia dello sviluppo della retorica giudiziaria è la più conosciuta, ma si è visto come quella costituisca la massima estensione della teorizzazione su tale ar­ gomento. Per Aristotele, invece, un 'argomentazione strutturata attorno a una :tQ68EoLç e una nlotLç è già condizione sufficiente per meritare l'appellativo di retorica. Altre determinazioni attorno a questo nucleo centrale non vengono da lui escluse, ma nemmeno ritenute obbligatorie.M6 Riteniamo pertanto arbitrario definire aprioristicamente un determinato tipo di dispositio a discapito di un al­ tro; qualora un testo antico presenti le caratteristiche della definizione aristote­ lica, esso merita già l'appellativo di «retorico» ed è passibile di analisi retorica. Questa stessa definizione è, come si vede, estremamente generica, per cui ogni testo a carattere argomentativo, sia esso scritto su lettera o su altro, può proba­ bilmente esservi compreso. Tuttavia la verifica di tale possibilità richiede, ancora una volta, un esame interno al testo stesso, finalizzato a determinare la caratteri­ stica e le modalità attraverso cui si sviluppa la sua argomentazione. Siamo così finalmente giunti a poter delineare quella metodologia che con­ sente un'analisi obiettiva delle caratteristiche argomentative di un testo, ivi ov­ viamente comprese le lettere paoline, e la possibile influenza su di esso dell'an­ tica retorica. Per esporla con le parole di J.-N. Aletti, l'inizio dell'analisi retorica consisterà in questo: determinare le differenti unità argomentative o logiche, vedendo come esse si con­ catenino e si articolino progressivamente ... smontare i meccanismi dell'argomenta­ zione per verificarne l'unità, per enunciarvi la o le tesi (propositiones) maggiori.87

Paradossalmente la metodologia cosl delineata sulla scia tracciata da Aletti comporta un ordine di analisi praticamente inverso rispetto a quello prospettato da Kennedy. L'analisi dei singoli versetti diviene ora il compito prioritario, se­ guita poi dalla definizione della dispositio, del genere e dell'intento retorico del testo. Parlando della dispositio si intende la strutturazione che un testo concreta­ mente assume, senza che questa debba necessariamente coincidere con quella della manualistica retorica. Ulteriori possibili influssi di questa su di un testo concreto non vengono accettati aprioristicamente attraverso il metodo sopra de-

86 Ricordiamo il già citato ARISTOTELE, Ret. III, 13, 1414a e la nostra presentazione della ma­ teria in 1.2. 1 . H7 J.-N. A LETTI , Comment Dieu est-il juste?, Paris 1 991, 33-34; cf. anche lo., «Dispositio», 391; lo., «Paul et la rhétorique», in J. ScHLOSSER, a cura di, Pau/ de Tarse (LD 65), Paris 1 996, 40; l o ., La lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Roma 1 997, 29. Altri autori, quali P.J. AcHTEMEIER, «Omne Verbum Sonat», in JBL 109( 1 990), 3-27, e gli stessi PoRTER, «Justification», 1 16, e REEO, , 314, propongono un'analisi retorica a partire dal testo. ma la limitano di fatto a una analisi stili­ stica che non evidenzia la struttura globale dell'argomentazione. né coglie il fatto che lo stile dà forma al contenuto c che i meccanismi retorici sono funzionali alla strategia argomentativa. L'impor­ tanza dell'individuazione prioritaria della propositio, sulla scia della metodologia proposta da Aletti, è riconosciuta da PliTA, Disposizione, 63, e MuRPHY O'CoNNOR, Art épistolaire, 125-129, e con una metodologia propria da D. HELLHOLM, «Enthymemic Argumentation in Pau l. Romans 6», in T. ENG­ BERG-PEOERSEN, a cura di, Pau/ in His Hellenistic Context, Edinburgh 1994, 1 19-179.

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finito come «comparazione formale», ma neppure sono misconosci uti altret­ tanto aprioristicamente in base al raffronto - che rimane sempre estrinseco ri­ spetto al testo concretamente oggetto di indagine esegetica - tra questa manua­ Iistica e quella epistolare. Essi vengono invece determinati di volta in volta a partire dai connotati concreti che assumono le varie argomentazioni, i vari testi da analizzare.BB Riguardo alle lettere paoline, una tale metodologia presenta inoltre l'indubbio vantaggio di riconoscere la relativa indipendenza dalla struttu­ razione retorica di caratteristiche tipicamente epistolari - quali i pre- e post­ scritti, i ricordi epistolari, ecc. -, le quali non sono così forzatamente fatte rien­ trare in una dispositio che, per ciò stesso, apparirebbe necessariamente poco cre­ dibile.89 Alla fine del precedente paragrafo avevamo formulato l 'ipotesi di lavoro che le eventuali argomentazioni strutturate all'interno di una lettera fossero ela­ borate sotto l'influenza della retorica. Ora siamo giunti a una criteriologia di ve­ rifica di tale ipotesi. In questo ambito precisiamo che tale influenza si com­ prende a causa dell'influsso culturale esercitato dall'ellenismo su tutto l'antico Vicino Oriente, Palestina inclusa, come dimostrano gli studi relativi.90 Non è in­ fatti sostenibile che la particolare teorizzazione retorica romano-ellenista possa fornire un modello veramente comprensivo per tutte le letterature, ivi compresa quella ebraica. Infatti, se ad esempio da un lato risulta degna di nota la presenza sia nella retorica greco-romana sia nella poetica ebraica di analoghe figure stili­ stiche (quali parallelismi, chiasmi, antitesi, anafore, epifore, ecc.), d'altro lato le teorie dei generi retorici o le modalità di dispositio non sono assolutamente per­ tinenti a quella letteratura, ma sono manifestamente relazionate ad ambiti cultu­ rali e sociali a essa estranei. Tale influenza appare oggi difficilmente negabile.91 111 Intendiamo cosi dare una risposta a diverse osservazioni, più o meno critiche, a riguardo del «Rhetorical Criticism» sviluppato sulla scia del contributo di Kennedy; oltre a quelle citate pre­ cedentemente, cf. J. LAMBRECHT. « Rhetorical Criticism and the New Testament», in Bijdragen 50 (1989), 239-53; D.F. W ATSON A.J. HAUSER, a cura di, Rhetorical Criticism of the Bible. A Compre­ hensive Bibliography, Lei de n 1994, 1 1 1-1 1 2. IIQ Si può così ipotizzare che la retorica incida a livelli differenziati all'interno delle diverse let­ tere di Paolo, ovvero incida maggiormente quando una lettera è dedicata a delle precise argomenta­ zioni, e in misura minore quando una lettera lascia spazio alle comunicazioni prettamente epistolari. Essa verrebbe così a costituire un modello interpretativo più o meno decisivo a seconda delle diverse lettere; cf. ALETII, «Paul», 36-38, per una ipotesi di differenziata graduazione dell'influsso retorico sulle diverse lettere paoline. ""1 Cf. sopratutto M. H ENOEL Juden, Greichen und Barbaren (SBS 76), Stuttgart 1 976, 174175: «In forza delle evidenze globali si può pertanto definire il giudaismo del periodo ellenistico e ro­ mano in madrepatria al pari di quello della diaspora come "giudaismo ellenista "» (corsivo originale) e Io., L'«ellenizzazione» della Giudea nel primo secolo d. C. , Brescia 1993. Cf. anche: D. DAUBE, «Rab­ binic Methods of Interpretation and Hellenistic Rhetoric>>. in H UCA 22( 1 949), 239-264; S. L JF.B E R MAN, Hellenism in Jewish Palestine, New York 1 950; F. MANNS, Pour lire la Mishna. Jerusalem 1 984; R. ULMER, «Exegetical Midrash Compared to tbc Greek �IATPIBH», in JSJ 28( 1 997), 48-91 . Con ciò prendiamo le distanze da R. MEYNET, L 'analyse rhétorique, Paris 1989. che considerando apriori­ sticamente irrilevante l'influsso dell'ellenismo sulla composizione dei testi neotestamentari li ana­ lizza alla luce delle leggi della poetica veterotestamentaria. Per i limiti di un tale approccio cf. tra gli altri MURPHY O'CoNNOR, Art épistolaire, 129- 1 41 . 9 1 Contro F. SJEGERT, A rgumentation bei Paulus gezeigt an Rom. 9-1 l ( W U NT 2/34), TUbin-

,

­

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45

Ovviamente - è bene ribadirl� - l'affermazione di tale influenza non implica conseguentemente quella della necessaria dipendenza di tutti gli scritti dalle teo­ rizzazioni della retorica prese in toto. È invece necessario verificare l'eventualità e il grado di tale dipendenza per ogni singolo testo. Dovrebbe risultare chiaro, a questo punto, che la metodologia sopra esposta è adatta proprio a tale verifica. Se la retorica, secondo la definizione aristotelica e la sua comprensione da parte di tutti i classici, è la scienza della persuasione, allora è proprio di ogni ana­ lisi retorica mettere in evidenza l'intento persuasivo perseguito da un autore e gli scopi che hanno determinato la stesura di un testo. L'analisi retorica, cioè, non ci fa comprendere la lettera scritta da Paolo come un freddo enunciato di verità a-storiche dimostrate alla guisa di un teorema algebrico, ma le situa all'in­ terno di un complesso di relazioni intercorrenti tra Paolo e i primi lettori della sua lettera, relazioni che Paolo cercherà, a seconda dei casi, di modificare, in­ staurare o incrementare anche con la forza delle sue argomentazioni. Con la me­ todologia sopra delineata si evidenziano le propositiones attorno a cui Paolo struttura il suo testo. Di conseguenza si mettono in rilievo gli intenti che stanno effettivamente a cuore all'apostolo, le tesi che egli, relazionandosi con quei de­ terminati uditori ai quali con tale lettera si rivolge, vuole realmente sostenere. Lo studio di eventuali ulteriori caratteristiche retoriche del testo in esame con­ sente di cogliere gli scopi dell'argomentazione paolina considerata nella sua glo­ balità, senza preoccuparsi innanzitutto di adeguarla forzatamente a modelli pre­ definiti. In questo l'analisi retorica supera i confini della critica delle forme e si confronta con le ricchezze del testo singolo, con le peculiarità attraverso le quali esso è stato organìzzato.92 In tale contesto diviene possibile e proficuo parlare di «teologia» di Paolo. Questa non sarà infatti una costruzione ideologica effet­ tuata a partire da alcuni dati, scelti arbitrariamente, tra gli svariati che il testo of­ fre, ma apparirà fondata realmente su ciò che Paolo ha voluto comunicare. In or-

gen 1985, i l quale sostiene che la retorica classica.abbia influenzato Paolo non in maniera dirett a . ma attraverso l a struttura di pensiero della versione greca della LXX, versione già marcatamente se­ gnata dall'ellenismo. La cri t ica p un t ua le a tale contributo porterebbe lont ano . Basti qui dire che la b ibb i a greca. a parte i libri pi ù recenti, è ovv ia m e nt e legata a opere scritte anteriormente all'interno di un al tra cultura e che la tesi di Siegert ci sembra ancora lega ta a una reticenza nel riconoscere l'in­ flusso de l l e l l en i sm o nella cultura della Palestina ai tempi del NT. Altro esempio di tale reticenza è cost it u ito da RJCHARDS, Secretary, 150-152. 9 2 Contro F.W. HoRN, «Paulusforschung�, in F.W. HoRN. a c u ra di. Bilanz und Perspektiven gegenwiirtiger Auslegung des neuen Testaments, Fs. G. Strecker (BZNW 75). Berlin-New York 1995, 39-40, la determinazione della dispositio di un testo, qualora effettuata con tale metodologia, non è uno strumento arbitrario, ma aJ contrario l'u n i c o attendibile per precisare l'unitarietà di un testo e la sua intenzionalità. Queste operazioni esigono un� metodologia in grado di superare la mera ricerca di Gattungen entro cui limitarsi a catalogare i vari testi. AIJ'interno di metodologie diversificate tali esigen ze sono poste anche. tra gli altri, da B E R G E R , «Gattungen», 1034- 1035; lo., « Rhet orical Criti­ cism, New Form Criticism. and New Testament Hermeneutics», in Rhetoric and New Testament, 392393; C.C. BLACK I I . «Rhetorical Cri t ic ism and Bi bl ica ) Interpretation». in Exp Tim 100(1 988), 257. Anche all'interno dell'analisi retorica sinora sv i l uppata daJresegesi neotestamentaria è sta t a affer­ mata la necessità di evolvere «da un'analisi del genere retorico a un'analisi retorica testuale)) (cf. AN­ DERSON , Pau/, 21 -22); la met odo logi a qui delineata risulta indirizzata proprio a tale obbiettivo. '

'

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dine all'elaborazione di un'autentica teologia biblica l'analisi retorica assume così tutta la sua importanza. Riteniamo infine di dover spendere nuovamente alcune parole riguardo alle metodologie che, volte a illustrare l'aspetto comunicativo e persuasivo del linguaggio di un determinato testo, o si definiscono genericamente retoriche o affiancano a un 'analisi retorica effettuata secondo modelli classici altre analisi desunte da moderne teorie del linguaggio. Avevamo precedentemente asserito che attenzioni a tale aspetto del linguaggio sono a nostro avviso possibili solo dopo aver riconosciuto la logica intrinseca al testo stesso. Tale riconoscimento richiede necessariamente che sia determinata la strutturazione formale di un te­ sto, la quale è veicolo espressivo del suo contenuto logico. Ci sembra a questo punto di aver motivato come tale operazione richieda un'analisi retorica se­ condo la metodologia sopra illustrata. Una volta che questa analisi viene posta in atto, - come lo è presso vari autori -93 non escludiamo contributi da ulteriori metodologie, qualora ovviamente esse siano adeguatamente fondate e corretta­ mente eseguite. Tra esse non possiamo non menzionare una criteriologia di ana­ lisi che trae direttamente origine dalla retorica classica, ma si presenta piuttosto sotto la forma di una teoria generale dell'argomentazione, con sviluppi teoretici propri variamente relazionati pure a forme di ermeneutiche contemporanee. I nomi di Perelman e Lausberg rappresentano indubbiamente quelli dei più cono­ sciuti artefici di un tale sviluppo. A esso anche noi intendiamo rifarci in seguito per attingere ulteriori elementi utili alla comprensione del testo analizzato, ma con l'accortezza che tali contributi dovranno completare, non sostituire quel sen­ sus auctoris, la cui determinazione rimane sempre il primo compito dell'esegesi e della teologia biblica. Questo sarebbe il momento di iniziare la verifica di tale metodologia nel suo utilizzo pratico. Tuttavia ci appare prima necessario dedicare un certo spazio a un altro genere letterario che comunemente viene ritrovato negli scritti di Paolo, ovvero la diatriba. 3.

LA DIATRIBA

3.1

Cosa si intende per «diatriba»?

La complessità dell'argomento affrontato in questo paragrafo è legata agli aspetti molteplici - e spesso equivoci - delle realtà designate con il termine 93 Cf. soprattutto i contributi di J.N. VoRSTER, «Strategies of Persuasion in Romans 1 .16-17», in Rhetoric and New Testament, 1 52-169; Io., «Toward an Interactional Model for the Analysis of Letters», in Neo t 24( 1 990). l 07- 1 30; D. HELLHOLM, «Amplificatio in the Macro-Structure of Ro­ mans», in Rhetoric and New Testament, 122-151; Io., «Enthymemic», «Die Argumentative Funktion von Romer 7.1 -6», in NTS 43( 1997), 385-4 1 1 ; J. BoTHA, Subject to Whose Authority? Romans 13, Atlanta 1994; D.A. CAMPBELL, «Determining the Gospel through Rhetorical Analysis», in L.A. JER­ vts - P. RtcHARDSON, a cura di, Gospel in Pau/, Fs. R.N. Longenecker (JSNTSS 108), Sheffield 1 994, 315-336, i quali hanno il pregio di mantenere un tipo di analisi retorica secondo il modello classico e di affiancare a essa altre metodologie, di fatto diverse a seconda dei diversi autori. Riterremmo tutta-

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«diatriba». Il senso etimologico del termine equivale a «consumare», «perder tempo», «indugiare». Da qui dipartono molte applicazioni, che, è bene chiarirlo subito, non è legittimo equiparare in maniera automatica. Una serie di applica­ zioni affini associa il termine innanzitutto al luogo in cui un insegnante e i suoi allievi impiegano il loro tempo, ovvero l 'aula scolastica, poi si passa a designare un «esercizio scolastico», una «lezione», quindi la scrittura di brevi trattazioni scolastiche di diverso genere e, in particolare, quelle di carattere etico, soprat­ tutto da parte di autori del primo stoicismo.94 Infine, poiché lo stile di questi au­ tori è generalmente immediato e provocatorio, il termine «diatriba» viene a esprimere queste particolari caratteristiche letterarie, ma almeno quest'ultimo sviluppo rappresenta una specificazione moderna del termine. È comunque con questi ultimi significati che il termine è stato assunto dagli studiosi che hanno parlato della «diatriba cinico-stoica».95 Essi intendono con ciò una serie di carat­ teristiche letterarie - di più: un vero e proprio «genere letterario» - e allo stesso tempo l'ambito in cui queste sono riscontrabili, ovvero le produzioni lette­ rarie dei filosofi popolari d'indirizzo stoico e cinico. Quali sono queste caratteri­ stiche? Si deve alla tesi di R. Bultmann una loro puntualizzazione, che riflette lo stadio allora raggiunto dalla ricerca, e una analisi del loro rapporto con l'episto­ lario paolino che ha influenzato notevolmente lo studio successivo. Secondo questo autore la diatriba è costituita dai seguenti elementi: la forma dialogica con un interlocutore fittizio, le cui opinioni sono eco di opinioni comuni o di tesi di altre scuole filosofiche� un periodare spesso paratattico. non scevro però da fi­ gure retoriche, volte alla creazione di un immediato effetto patetico, quali perso­ nificazioni, antitesi, anafore, epifore, giochi di parole, uso di imperativi, ecc., evi­ tando così costruzioni elaborate; rinuncia conseguente all'esplicitazione di tutti i passaggi logici prima della formulazione delle conclusioni; uno stile quindi gene­ ralmente vivace.96 Gli autori più rappresentativi di questo genere sono da Bult­ mann considerati Bione di Boristene - che generalmente ne è considerato l'ini­ ziatore, di cui però non si ha che qualche frammento raccolto da Telete -, il suo discepolo Telete ed Epitteto, mentre altri, quali Seneca, Musonio Rufo. Plutarco e Dione di Prusa sono visti come esponenti di una versione più marcatamente in­ fluenzata dalla retorica.97 Anche la tesi di Bultmann però, al pari di altre acquisizioni un tempo scon­ tate nel mondo scientifico, richiede oggi un riesame globale. A riguardo, è bene

via a uspicabile che l'analisi in base alla retorica classica chiarisse con più accuratezza ciò che nel te­ sto si �uò far risa l ire direttamente all'intenzione stessa dell'autore. 4 Cf. LSJ voce «OL>. Eine vergleichende Stilinterpretation (NTAbh 19), MOnster 1987, 34-36; PnTA, Di.vposizione, 73-74. 99 Cf. CICERONE, De Or. III, in un elenco di figure retoriche evoca il porre domande ( 203 ) e i l darsi delle risposte (207). QuiNTILIANO. lnst. Or. IX, 2, che tratta una serie di figure in cui l'oratore si rivolge al pubblico con vari tipi di domande (6ss). richiama la possibilità della ficta interrugatione da parte di un locutore indefinito citando l'orazione ciceroniana pro Caelio: «dicet aliquis: "haec igitur est tua disciplina? . ">>; «può dire un tale: "è d unque questa la tua disciplina morale? . "», e menzio­ nando in seguito la risposta dello stesso oratore, prosegue poi: «CUi diversum est, cum alium rogave­ ris, non exspectare responsum sed statim subiicere: "domus tibi deerat? at habebas! . .. "»; «rispetto a questo è differente quando si pone una domanda e, senza attendere la risposta, subito si prosegue: "non avevi casa? certo. l'avevi..."» (IX, 2, 15. citando anche nel secondo caso Cicerone e definendo in seguito la figura come suggestio ) . Cf. anche Rhet. Her. IV, 33, ove si definisce la figura in termini generici di domanda posta agli avversari o a sé stessi, a cui segue una risposta solitamente negativa, e 34, ove si prosegue: «ex eodem genere. ut ad nostram quoque personam referamus suhectionem»; «Secondo lo stesso tipo di figura, noi riferiamo la subiectio a noi stessi». Rispondiamo così a chi ancor oggi vorrebbe vedere , in Parola e Spirito, Fs. S. Cipriani I, Brescia 1982, 439-455.

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

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zione sulla pericope Rm 5,1-11 e su alcuni vocaboli esclusivi di questa e della fine del capitolo ottavo: - il sintagma fJ àyan:11 tou 8EoÙ-XQLOtou 126 - il sostantivo 8À.'i'tVLç, che appare anche in Rm 2,9, ma con un significato del tutto diverso da quello che coerentemente mantiene nelle tre ricorrenze dei capitoli quinto e ottavo, ove designa una realtà che non minaccia oramai il cre­ dente e la sua comunione con di Dio fondata sull'amore; 1 27 - i vocaboli èÀ.JtLç-tJ..n:l�w, fra i quali solo il sostantivo appare unicamente in un singolo versetto alla fine della sezione precedente, mentre sia nel capitolo quinto sia nell'ottavo acquistano una pregnanza del tutto particolare. Caratteri­ stica di questi capitoli è inoltre quella di connettere il sostantivo un:of.!ovi] con il tema della speranza; esso assume pertanto una valenza particolare rispetto all'u­ nica sua ricorrenza nei capitoli precedenti; 128 - il verbo ocil�w, esclusivo di tali sezioni. 129 Oltre a tali con nessioni tra Rm 5,1 - 1 1 e la fine della sezione, alcune delle quali, lo si vede, danno a dette pericopi un tenore «escatologico)), altri fattori ac­ comunano non solo queste pericopi, ma tutto il capitolo quinto con la sezione di Rm 6-8. Tra questi fattori segnaliamo: - la menzione del n:vEÙlJ- a, che connette Rm 5,1-1 1 con tutto il capitolo ottavo. 130 Nella maggioranza delle ricorrenze in Rm 8 esso designa lo Spirito Santo, come fa chiaramente in Rm 5.5; per contro, il termine ricorre una sola volta nella sezione precedente; - la menzione di 'lrJooùç-XQunòç: egli è direttamente menzionato 18 volte nei cc. 6-8, 7 volte nel capitolo quinto. e solo 5 volte in Rm l ,16-4.25. Al­ l'interno di queste considerazioni generali vanno sottolineate le ricorrenze del nome preceduto dalle preposizioni tv-ÒLa, espressioni che costituiscono quasi un ritornello nei cc. 5-8, mentre l'unica ricorrenza precedente è in Rm 2 . 1 6 : 1 � 1 - l'utilizzo del pronome d i prima persona plurale, che, assieme a quello di seconda, è il soggetto preponderante dei capitoli 6-8; flflELç, solamente anticipato in Rm 4,23-25 , è infatti il soggetto di Rm 5,1 - 1 1 , assieme a UflELç del capitolo se­ sto e di larghe sezioni del capitolo ottavo, designando insieme i credenti. In Rm 5 . 12-21 i soggetti preponderanti sono Adamo e Cristo, ma l'argomentazione è orientata a chiarire gli effetti delle loro azioni sull'umanità, quindi i credenti sono nuovamente chiamati in causa in tali versetti. Al capitolo ottavo poi, la menzione di soggetti diversi, quali «quelli secondo la carne>> e la «creazione>>, non pone in nessun modo in discussione la prospettiva fondamentale del capi126

5,5.8; 8,35.39. 2.9� 5,3.3; 8,35. IZK èÀJ'tL�W: 8,24.25; èÀJrl.ç: 4,18. 1 8; 5,2.4.5; 8,20.24.24.24; {,,.;OJ.LOV'IJ: 2,7; 5,3.4; 8,2 5. 129 5,9.10; 8,24. 130 nv€uJ.ta: 2.29; 5,5; 7.6; 8,2.4.5.5 .6.9.9.9. 1 0. 1 1 . 1 1 . 1 3 . 1 4. 1 5. 1 5. 1 6 . 1 6.23.26.26.27. 1 31 'llJOO'Ùç-XQLO'TÒç: 2,16; 3,22.24.26; 4,24; 5,1 .6.8. 1 1 . 1 5.1 7.21; 6,3.4.8.9. 1 1 .23; 7,4.25; 8.! -� .9.10. 1 1 . 1 1 . 1 7.34.35.39. Le espressioni tv-òlil XQLot-où 'llJOO'Ù sono sottolineate:nei cc. 5-8 ap­ paiono per undici volte. 127

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tolo, rivolta sempre al «noi/voi)) credente. L'unica vistosa eccezione a queste considerazioni è costituita dal pronome di prima persona singolare della sezione Rm 7,7-25. In ogni caso di deve notare il fatto che il soggetto di Rm 5,1-1 1 conti­ nua sino al capitolo ottavo. Questa è una constatazione importante, perché al criterio della ricorrenza terminologica aggiunge quello dei soggetti di un'argo­ mentazione. Altre considerazioni permettono poi di relativizzare alcuni dei criteri prima enunciati a sostegno della tesi dell'unione di Rm 5,1-1 1 con ciò che pre­ cede. Per esempio, se è vero che il tema del «vanto>) è a loro comune, è anche vero che nei cc. 2-4 esso viene escluso, mentre in Rm 5,2.3. 1 1 è esplicitamente af­ fermato per i credenti. Ma, soprattutto, è la considerazione della natura dell'ar­ gomentazione ove ricorrono i termini inerenti alla tematica della giustificazione a sminuirne il peso. In Rm 5,9-10 infatti siamo in presenza di un ragionamento a fortiori, in cui la realtà della giustificazione/riconciliazione è menzionata sola­ mente al fine di far progredire l'argomentazione, alla guisa di un dato acquisito che non necessita di ulteriori considerazioni: l'attenzione del lettore è oramai in­ dirizzata altrove. Si veda così il marcato parallelismo concettuale tra tali affer­ mazioni e quella di Rm 8,32. Ma questa prospettiva è, in fondo, già iniziata in Rm 5 , 1 , se si vuole lasciare al participio aoristo ÒLxawJ8Évteç il suo significato temporale. 132 Un altro importante criterio da menzionare è quello della natura dell'argomentazione . Se infatti nei capitoli precedenti molte pericopi sono im­ perniate attorno a citazioni scritturistiche - come anche in seguito, nei cc. 9-1 1 -, è facile notare come questo non sia il caso n é d i Rm 5,1 - 1 1 , né dei capitoli se­ guenti, dove personaggi e situazioni della storia biblica (Adamo e Mosè) sono menzionati ed evocati senza che per questo vengano offerte delle prove di carat­ tere prettamente scritturistico. Come si vede, se alcuni criteri letterari farebbero propendere per l'appar­ tenenza del capitolo quinto alla sezione precedente, altri indicano invece la tesi contraria. Questi ultimi ci appaiono più convincenti, in quanto non limitati alla mera ricorrenza terminologica. Tuttavia essi non sono in grado di oscurare com­ pletamente le valutazioni espresse in forza dei criteri precedenti. Alla fine giun­ giamo a formulare solo delle considerazioni probabili e non esaurienti, in quanto, nel loro insieme, i criteri letterari sono divergenti. Essi forniscono delle basi imprescindibili per la comprensione di un 'argomentazione, tuttavia non of­ frono criteri risolutivi per la delimitazione di una sezione complessa come quella in questione. Da questa analisi restano così alcuni interrogativi aperti. Tra questi vorremmo segnalare la singolarità delle caratteristiche che accomunano Rm 5,1-1 1 con la fine del capitolo ottavo: come mai c'è una ripresa di vocabolario tra

132 Contro WILCKENS, Romer, I 181-182 e PENN A , «Funzione», 533. Di questo avviso, tra gli al­ tri, anche J. DuPoNT, «Le problème de la structure littéraire de l'épitre aux Romains)), in RB 62 ( 1 955), 373, e U. Luz, «Zum Autbau von Rom. 1 -8)), in TZ 25( 1 969), 1 78, per i quali, però, tali con­ statazioni non sono sufficienti per considerare Rm 5,1 inizio di sezione.

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pericopi cosi distanti tra loro? Non può essere un fatto casuale! Quale interpre­ tazione allora offrire? . Di fronte a tali problematiche è facile soffermarsi su dati letterari singoli, senza tenere nella dovuta considerazione i criteri con questi divergenti e formu­ lare di conseguenza delle tesi su basi letterarie parziali, giungendo infine a pro­ porre strutture che, consciamente o inconsciamente, sono tematiche e non lette­ rarie. Alcuni esempi. La presenza della tematica escatologica in Rm 5,1-1 1 , ma­ gari considerata in parallelo con quella presente alla fine del capitolo ottavo, po­ trebbe far pensare al carattere conclusivo di tali sezioni; 133 quale conclusione più adatta, per una argomentazione cristiana, della sua proiezione escatologica? Ma a ciò è facile obiettare che, perché una tale tesi sia attendibile, si dovrebbe dimo­ strare come una conclusione di questo genere debba essere preparata, o per lo meno richiesta, dall'argomentazione precedente. Ora tale dimostrazione manca del tutto negli autori che la sostengono. Inoltre, sebbene una tale ipotesi possa costituire una spiegazione dei parallelismi tra l'inizio del capitolo quinto e la fine del capitolo ottavo, non rende affatto ragione, anzi, ignora completamente tutti i motivi letterari comuni a Rm 5 , 1 - 1 1 e alle pericopi a essa successive. Senza tener conto che si potrebbe sostenere che proprio questa prospettiva futura accomuna invece Rm 5,1-1 1 alla sezione che si conclude al capitolo ottavo. 134 Ma cosa fare allora di tutti i dati che indicano il contrario? Semplicemente ignorarli? È questo il limite anche di diversi contributi, i quali individuano opportunamente i vari elementi di comunanza con la sezione seguente, ma passano sotto silenzio tutte le caratteristiche contrarie, o, perlomeno, quelle che non riescono a relativiz­ zare. 135 Una forma del tutto particolare di unilateralizzazione di criteri letterari è rappresentata dalla strutturazione in base a - supposti - elementi chiastici. In forza delle ricorrenze terminologiche è stata proposta una corrispondenza di tipo chiastico tra le sezioni Rm 5 , 1 - 1 1 e Rm 8,18-39 o Rm 5,1-21 e Rm 8,22-39}36 Al riguardo basti asserire che una corrispondenza - e a livello terminologico perlomeno quella tra Rm 5,1-1 1 e Rm 8,18-39 ha elementi per essere sostenuta -, per essere definita chiastica, deve essere chiaramente indicata come tale da non ambigui fattori testuali. Perché, quando alcune ricorrenze verbali appaiono

133 Così Luz, «Aufbau»; 179; H. PAULSEN, Oberlieferung und A uslegung in RiJmer 8 t WMANT 43), Neukirchen-Vluyn 1974, 1 7-18. 134 Così T. DE KRUYF, «The Perspective of Romans Vlb, in Miscellanea Neotestamentica ( NTS 48.2), Leiden 1978, 132-136; P. LAMARCHE - C. LE Dù, Épitre aux Romains V - VII!: structure littéraire et sens, Paris 1980, 16. 13s Cosl, ad es., S. L YONN ET «Note sur le pian de l'épitre aux Romains», Fs. J. Lebreton I, in RSR 39( 1 95 1 ) , 302-303; N.A. DAHL, «Two Notes on Romans 5», in ST 5 ( 1 952), 37-40; R. ScRooos Paul as Rhetorician: Two Homilies in Romans 1 - 1 1 )), in R. HAMERTON-KELLY - R. ScROGGS, a cura di. Jews, Greeks and Christians, Fs. W. D. Davies, Leiden 1 976. 276-285; B. Rossi, «Struttura lettera­ ria e articolazione teologica di Rom l , 1 - 1 1 ,36», in SBFLA 38( 1 988), 98-1 00. 136 LAMARCHE - LE DO, Romains, 1 1 -16; P. RoLLAND, «L'antithèse de Rm 5-8», in Bib 69 ( 1 988), 397-400; Io., A l'écoute de l'épitre aux Romains, Paris 1 991 , 12-16; lo., Epitre aux Romains. Text grec structuré, Rome 1 980. ,

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in diverse sezioni, scegliere alcune a discapito di altre per sostenere tale strut­ tura? Ad esempio: perché sostenere che il termine ò6;a è in relazione chiastica qui e non in Rm 6,4? o che la formula Èv-òu1 XQLO'tq)-ou �ITJOOU causa una rela­ zione qui e non altrove? Per sostenere tale struttura, inoltre, al di là delle corri­ spondenze verbali innegabili, si devono compiere forzature per far rientrare in essa elementi che non si lasciano invece così identificare. Per esempio, Rolland si trova costretto a considerare il capitolo quinto come una unità sotto titoli che di volta in volta variano, ma che mettono in risalto o l'opera di Adamo o quella di Cristo. Tali titoli, tuttavia. non danno affatto ragione dei primi undici versi del capitolo. Lamarche - Le DO, invece, per costruire un chiasmo, si vedono co­ stretti a considerare come sezione unitaria Rm 7,7-8,17, contravvenendo a tutta una serie di elementi letterari che impongono una separazione tra queste peri­ copi alla fine del capitolo settimo. Lo studio delle corrispondenze tra tali peri­ copi sarà poi un fattore estremamente proficuo per la loro interpretazione, ma assolutamente non in grado di poter fondare la loro unità; tutto ciò sarà analiz­ zato in dettaglio al prossimo capitolo. Annotiamo infine che lo stesso metodo, usato così approssimativamente, può dare anche risultati opposti, far unire cioè il capitolo quinto con ciò che precede in forza delle corrispondenze verbali pre­ senti tra essi ! 137 Stando così le cose, non desta sorpresa che alcuni autori rinuncino all'indi­ viduazione di criteri letterari per proporre strutture che di fatto sono concet­ tuali, con il rischio però di cadere nell'arbitrario assoluto e di presentare tesi senza alcun criterio oggettivo di verifica. Così. per Feuillet, la Lettera ai Romani è strutturata sulla base di una presentazione temporale e trinitaria della salvezza che non è desunta da criteri letterari interni al testo ma in forza di un problema­ tico parallelismo con la struttura (?) della Lettera ai Galati. nH La sezione Rm 5,1 1-7,6 sarebbe, secondo tale autore, consacrata all'incarnazione redentrice di Cristo, ma il fatto stesso che egli affermi che, a riguardo della scelta del suo ini­ zio, «la nostra difficoltà è estrema>>, i39 costituisce un segnale inequivocabile della labilità di un tale modo di procedere. Per Ramaroson tutta le lettera è imper­ niata sulla relazione di diversi soggetti con la tematica della fede: giudei, greci, Abramo, Israele 140 Però si è visto come la terminologia «fede-credere» sia ...

137 Così C.D. MYERS, «Chiastic lnversion in the Argumentation of Romans 3-8», in NT 35 (1993), 30-47. Le critiche sono qui ovviamente dello stesso tenore: perché la terminologia del «vanto» è strutturante tra Rm 5,2-3 e Rm 3,27 e non. per esempio, tra Rm 5,2-3 e il capitolo secondo, ove viene nuovamente utilizzato il verbo? Perché la terminologia della giustificazione è strutturante precisamente per Rm 5,9 ( ove. tra l'altro, non costituisce il dato più importante della riflessione) e Rm 3,24-26 e non in tutte le altre ricorrenze del termine? 1311 A. FEUILLET, «Le règne de la mort et le règne de la vie (Rom. V, 1 2-21 )», in RB 77(1 970), 481-521; Io., «Romains», in DBS, 739-863: pur affermando l'autore di volersi attenere a criteri le tt e rari (ad es. «Romains», 764), si deve riconoscere che le considerazioni da lui svolte di fatto seguono altri criteri. 139 FEUILLET, «Structure», 508. 140 L. RAM AROSON, «Un ''nouveau pian" de Rm 1 ,16-1 1 ,36», in NRT 94(1972), 943-958. ­

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completamente assente dopo Rm 5,2, per cui difficilmente una tale definizione può cogliere gli interessi significativi di quella sezione. Forse per tale motivo� rautore si vede costretto a inglobare gli ultimi versetti di transizione del capitolo quarto nella sezione successiva� e poter così intitolare la sezione da lui definita in Rm 4,23 - 8,39 «noi, i credenti». Boers isola arbitrariamente come elemento strutturante le domande di stile «diatribico» per evidenziare così una supposta ((struttura semantica profonda». 141 Essa sarebbe imperniata su tematiche riguar­ danti i giudei e la legge, la cui centralità e il cui ruolo strutturante per la totalità della lettera risulta così non essere fondato su obbiettivi fattori letterari. A ciò basti osservare che non è assolutamente giustificato, né giustificabile� il fatto che tali domande - e solamente quelle - siano gli elementi fondanti la dinamica dell'argomentazione. Tra l 'altro esse sono del tutto assenti in alcune sezioni, quali, ad esempio, la totalità dei cc. l, 5 e 8. Cosa fare di tali sezioni? Giungiamo così a uno fra i più influenti tentativi di strutturazione della Lettera ai Romani, quello di A. Nygren. Per tale autore, i cc. 6-8 sono imperniati attorno al concetto della libertà del cristiano dai poteri nemici della sua esi­ stenza, ovvero dal peccato (Rm 6), dalla legge (Rm 7) e dalla morte (Rm 8), ai quali viene associato il capitolo quinto sotto il titolo di libertà dali 'ira. 142 Com­ pare qui un'esemplare commistione tra criteri letterari e tematici. Infatti UflaQ­ tta è un termine frequente al capitolo sesto, per cui si può senz'altro arguire che in tale capitolo esso rappresenti uno degli interessi rilevanti. ma ciò non è suffi­ ciente a dire che la tematica della «libertà da» sia quella effettivamente centrale in tale sezione. Se questa, infatti, come tale non viene indicata da espliciti fattori letterari, appare come una proiezione ideologica dell'interprete. e non come una tematica messa in rilievo dal testo stesso. Inoltre, la terminologia del «peccato» continua in Rm 7,7-25, dove, come non mancheremo di sottolineare, rappre­ senta una realtà ancora vitale e operante. È credibile, allora, una struttura che pone in risalto successive e conseguenti «liberazionh> quando esse vengono smentite dallo sviluppo stesso dell'argomentazione? Nel capitolo quinto la pa­ rola ÒQYll appare solamente in Rm 5.9: come mai può essere definita interesse centrale di tutto il capitolo? 14 ·"\ È inoltre credibile la supposizione che Paolo vo­ glia trattare i propri argomenti in un modo talmente sistematico-scolastico? 141 H. BoERs, «Jews and Gentiles in the Macro-Structure of Romans», in Neot 1 5 ( 1 981), 1 - 1 1 ; lo., The Justification of the Genti/es. Pau/'s Letters to the Galatians and Romans, Peabody 1 994, 79-

H5. Per la nostra sezione egli considera Rm 5.1 - 1 1 come transizione, a cui seguono pericopi di dise­ �male grandezza: Rm 5 . 1 2 - 7.6; Rm 7.7 - 8.17: Rm 8,18-30; Rm 8,31-39. Per contro, J. JF.REMIAS «Zur Gcdankenftihrung in den paulinischen Bricfem>, in Studia Paulina, Fs. J. de Zwaan, Haarlem 1953, 146- 1 54. vede lo sviluppo tematico della lettera proprio nelle sezioni in cui tali domande con le suc­ cessive risposte sono assenti. 1 42 NvGREN, Romans, soprattutto pp. 191.230.265-266.304-305. 1 43 Significativamente diversi autori, muovendosi sulla linea della proposta di Nygren, non riescono a condividerne diversi particolari: LYONNET, (>, 3 1 1 , vede in Rm 5.1-11 un annuncio te­ matico che sarà sviluppato nella sezione successiva del c. 5 sotto forma di «libertà dal peccato», nel capitolo sesto come «libertà dalla morte» e nel capitolo settimo come «libertà dalla legge»; J .D.G DuNN, «Paul's Epistle to the Romans)), in ANRW 11.25.4, Berlin. New York 1987, 2842-2890 ( lo., Romans I [WBC 38A]. Dallas 1 988, 242ss). vede l'intero capitolo quinto come transizione ! =

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Per questa serie di motivi, Beker ha buon gioco nell'evidenziare la fragilità di tali strutture. 144 Quando però egli passa a definire la pericope Rm 5,1-1 1 come «epistolary transition», compie un'operazione solo apparentemente logica. Essa è indubbiamente una pericope di transizione. Quando si osserva da vicino la complessa argomentazione di Rm non si può che rimanere colpiti dall'abilità di Paolo nello strutturare il suo pensiero e nell'armonizzare le diverse sezioni con passaggi accurati. Questo procedimento si riscontra perlomeno in 4,23 dove, al­ l'interno dell'argomentazione ancora imperniata sulla figura di Abramo, fa la comparsa il «noi» credente soggetto della pericope successiva. Tuttavia, quando al concetto di «transizione>> viene aggiunto l'aggettivo «epistolare», facendo cosl supporre che una tale perizia fosse acquisita dalla pratica della scrittura della let­ tera nell'antichità, si fa un'affermazione del tutto gratuita, in quanto la teorizza­ zione epistolare nulla ha detto al riguardo. Inoltre rimane da chiarire quale rela­ zione concretamente abbia una pericope di transizione con le pericopi seguenti. È una pura sezione di ornamento o ci offre degli elementi per la loro compren­ sione? L'elenco degli autori che hanno presentato tesi riguardo alla strutturazione della nostra sezione potrebbe continuare. 1 45 Vi si possono includere diversi com­ mentari, in cui le titolazioni delle unità vengono spesso date senza la dovuta at­ tenzione ai criteri prettamente letterari. Noi riteniamo di avere sufficientemente posto in risalto il dilemma di fronte al quale spesso viene a trovarsi l'esegesi in tale sforzo di strutturazione. Per un verso, i criteri letterari non forniscono so­ vente elementi convergenti e quindi definitivi per tale operazione. Per l'altro la scelta degli uni a discapito degli altri, oppure la rinuncia a essi per basarsi esclu­ sivamente su fattori concettuali, comporta il rischio dell'arbitrario. Con tale con­ sapevolezza, e tenendo comunque nel debito conto la complessità emergente dai criteri letterari, vogliamo verificare se i criteri desunti dalla retorica ci possono aiutare nel far luce su tale questione.

4.2

L 'analisi retorica: primo approccio

La prima osservazione da fare è che alcuni termini non solo sono comuni a

Rm 5,1-11 e Rm 8,31-39, ma occorrono anche in figure di stile che sono simili e

144 J.C. BEKER, Pau/ the Apostle, Philadelphia 1980, soprattutto pp. 59-70.85-86.

1 45

Solo a titolo esemplificativo citiamo alcuni altri contributi che, a nostro avviso, sono acco­ munati dalla caratteristica di basarsi quasi esclusivamente su considerazioni di natura concettuale: K. PROMM, «Zur Struktur des Romerbriefes; Begriffsreihen als Einheitsband)), in ZKT 72(1950), 333349; A. DESCAMPS, «La structure de Rom 1 - 1 h>, in Studiorum paulinorum congressus 1961 I ( A n B ib 17), Romae 1963, 3-14; G. BoRNKAMM, «Der Romerbrief als Testament des Paulus», in Geschichte und Glaube II ( B EvT 63), MUnchen 1971 , 130ss. Segnaliamo infine S.E. PoRTER, «A Newer Perspec­ tive on Paul; Romans 1-8)), in M.D. CARROLL R. - D.J.A. CLINES - P.R. DAVIES, a cura di, The Bible in Human Society, Fs. J. Rogerson (JSOTSS 200). Sheffield 1995, 366-392, il quale struttura tutta la lettera con i criteri della narratologia, e vede tutto il capitolo quinto come «climax» che causa la svolta decisiva dello scritto. A ciò è facile obbiettare che, quando un testo non si presenta nella sua globalità come racconto di concatenazione di avvenimenti in sequenza temporale, non può essere

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mirano a un analogo effetto «patetico» sul lettore. Ci riferiamo qui ai sostantivi 5,3-4 essi appaiono nella figura della gradatio o climax, che Quintiliano stesso riconosce essere figura ricercata, consistente nella ripetizione, ali 'interno di una sequenza di parole, della precedente prima di af­ fermare la successiva, come in Rm 8,24-25. 140 In Rm 8,35ss, invece, compaiono all'interno di una enumeratio di singole parole, figura che viene ripetuta due volte in pochissimo spazio. 147 Queste figure sono assai simili. 1 48 Il loro effetto è quello di amplificare, di accumulare parole non per chiarire il significato delle singole - ciò però può non essere del tutto vero in 8,24-25 -, ma per ottenere una forte impressione globale, per suscitare il coinvolgimento dei lettori a livello emotivo. In una parola, per agire a livello di naeoç. È questo che Paolo indub­ biamente ottiene dal lettore. In Rm 5,3-4, ribadendo alcune caratteristiche fon­ damentali della presente vita cristiana, egli l'apre a una prospettiva escatologica sorretta dalla sicurezza dell'amore di Dio per noi. In maniera analoga, in Rm 8.35-39 sottolinea con totale confidenza l'assoluta certezza nell'amore di Dio per noi, sia per la vita presente sia per quella futura. Va segnalato inoltre come tale effetto sia ottenuto in tutte due le sezioni di Rm 5,1-1 1 e Rm 8,31 -39. Grazie a tali considerazioni, pertanto, si può asserire che, oltre a un parallelismo verbale tra le pericopi in questione, si nota un parallelismo nel tipo di figure retoriche utilizzate e nel tipo di effetto patetico da esse ottenuto. Come spiegare tale parallelismo? Avanziamo qui l'ipotesi che esso costi­ tuisca un forte indizio per l'affermazione dell'unità della sezione Rm 5-8, in cui la pericope Rm 5,1-1 1 funge da exordium e Rm 8,31 -39 da peroratio. 1 49 Infatti, poiché compito dell'exordium è quello di preparare l'uditore all'accoglienza del­ rargomentazione, alla sua disposizione favorevole, è ovvio che la mozione dei suoi sentimenti vi gioca un ruolo importante. Allo stesso modo appare impor­ tante fissarvi subito alcuni concetti rilevanti, le cui spiegazioni saranno eventual­ mente offerte nel seguito ma la cui immediata fissazione nella memoria serve alla strategia argomentativa per indirizzare l'attenzione dell'uditore verso lo scopo del discorso. 150 Ora, non solo la gradatio di Rm 5,3-4, ma anche le brevi af­ fermazioni seguenti e l'argomento a fortiori di Rm 5,9-10 presentano delle dina­ miche logiche elementari, non impegnano l'uditore in complessi ragionamenti, ma fissano semplicemente alcuni dati oltre ad avere subito una rilevanza emo­ tiva. Tali caratteristiche sono tipiche dell' exordium. Per sua natura, la peroratio t i..n Lç, 8À.i:'tptç e un:o�ovil. In Rm

definito «narrativo>> nella sua globalità, per cui non è giustificabile una sua strutturazione generale in hase a criteri narrativi. 146 Cf. QuiNTILIANO, Inst. Or. IX, 3, 54�56. La gradatio in Rm 8.24-25 viene utilizzata nella forma semplice di anadiplosi, ed è presente anche in Rm 8.29-30. 147 Cf. QuJNTILIANO, lnst. Or. VI, l, l. 148 Per una enumeratio considerata come climax cf. QuiNTILIANO, lnst. Or. VIII, 4, 4-5. 149 In modo analogo: ScRooos, «Rhetorician», 85: ALETII. Comment, 46-48 e, limitatamente alla considerazione dell'ultima pericope come peroratio. A.H. S�YMAN, ((Style and the Rhetorical Si­ tuation of Romans 8.31 -39», in NTS 44(1 988), 218-231. 1 50 Cf. ARISTOTELE, Ret. I I I , 14, 1415a, 23-24; QuiNTILIANO, lnst. Or. IV, l, 5.23.

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Una legge buona ma impotente

mostra peculiarità analoghe. Anche qui è importante fissare alcuni concetti­ chiave, non più introduttori ma riassuntivi, nonché toccare i sentimenti dell'udi­ torio, affinché l'argomentazione possa giovarsi alla fine anche di questo stru­ mento persuasivo. Per Quintiliano, benché brevi appelli emotivi non siano esclusi nel corso dell'intera argomentazione, tale caratteristica accomuna preci­ samente queste parti del discorso, con la sola differenza che l'epilogo è quella in cui si deve puntare più ampiamente alla commozione dell'uditorio. 151 Le enumerationes e le domande retoriche presenti in Rm 8,3 1 -39 assolvono precisamente a tali scopi. Non è d'altronde un caso che nelle varie forme di «am­ plificazione», tra cui vi sono l'enumeratio e, in questo caso, la domanda retorica, gli antichi retori abbiano visto gli elementi propri degli epiloghi. 152 Il fatto che al­ tre figure di amplificazione siano state utilizzate nei versetti precedenti a questa pericope indica con maggior forza che rargomentazione si sta dirigendo verso il suo epilogo, in quanto già inizia a far leva sulla mozione dei sentimenti. Nessuna sorpresa, inoltre, dal fatto che alcuni termini appaiano in entrambe le sezioni. Essi servono per richiamare brevemente alcuni dei concetti sviluppati nel cuore dell'argomentazione. A questo punto, ci sembra già di essere giunti ad alcune acquisizioni rile­ vanti. La prima è questa: l'argomentazione di Paolo mostra di essere stata com­ posta secondo dei criteri studiati e di mirare con perizia a dei risultati progettati. Di fronte a ciò appare alquanto inverosimile, ad esempio, che una massiccia ri­ correnza verbale in sezioni pur tra loro distanti sia dovuta al caso e non sia in­ vece un chiaro indizio di strutturazione, che la retorica può adeguatamente in­ terpretare. In presenza di diverse figure retoriche ci pare del tutto logico sup­ porre che Paolo sia stato a conoscenza delle cognizioni basilari di retorica e che queste si debbano utilizzare per interpretare i suoi scritti. Conseguentemente, proprio in base alle definizioni della retorica, abbiamo iniziato a gettare luce sulla composizione di Rm 5-8. Abbiamo constatato come i criteri letterari - nel nostro caso la ricorrenza del vocabolario - possano essere inglobati dalle acqui­ sizioni della retorica che non li smentiscono. Anzi, esse costituiscono un modello interpretativo più ampio per tali criteri e mettono al riparo da conclusioni diver­ genti. Il vocabolario comune a Rm 5 , 1 - 1 1 e ai capitoli precedenti, nonché la pre­ posizione oùv di Rm 5,1 sono fattori che possono essere compresi come indizi del fatto che Paolo cura le transizioni da una sezione all'altra e si preoccupa di ri­ chiamare le conclusioni precedentemente raggiunte. Questi fattori d'altronde sono del tutto in sintonia con la diligenza che egli dimostra nello sviluppare la sua argomentazione. Ma la convergenza di termini tra Rm 5 , 1 - 1 1 e Rm 8,31 -39, assieme a quella di figure retoriche, sono indizi di un richiamo voluto tra queste sezioni e del fatto che Rm 5,1 - 1 1 , pur con il suo carattere di transizione, deve es-

151

152

Cf.

QUJNTILIANO, /nst. Or. IV, l , 28-29; VI, l, 51. 19, 1419b, 1 9-23; OutNTILIANO, /nst. Or. IV, l, 1 .52: «sit maxima

ARISTOTELE, Ret. I I I , pars epilogi amplificatiO>>.

Cf.

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

65

sere considerata come I'exordium di una nuova unità letteraria. In tale modo si rende anche ragione di tutta quella serie di elementi letterari, oltre alla ricor­ renza del vocabolario, che accomunano Rm 5,1 - 1 1 con le pericopi successive. Questi sono solo i primi passi dell'analisi retorica. È bene ricordarlo. per comprendere perché questi passi, in quanto fatti sulla base del confronto con la manualistica retorica, possono apparire sino a questo punto simili a quel metodo della «comparazione formale», precedentemente criticata. Tuttavia questo primo approccio retorico permette di interpretare i dati della critica letteraria e di giungere a formulare un 'ipotesi per delimitare la sezione. A questo punto, per verificare sino in fondo tale ipotesi e per comprendere la dinamica interna del­ l'argomentazione di questa sezione, dovrebbe subentrare la minuta analisi ese­ getica. Ma l'esame di tutte le sfaccettature della sezione di Rm 5-8 non costitui­ sce però l'oggetto del presente lavoro. Riservando pertanto lo studio analitico alla sezione oggetto della nostra indagine ai capitoli successivi, ci limitiamo ora a delineare a grandi linee il movimento dell'argomentazione di Rm 5-8 per sag­ giare quale ruolo vi occupi la pericope Rm 7,7-25. Iniziamo coll'evidenziare nuovamente un problema irrisolto dai molti au­ tori che, sulla base di criteri letterari, vedono Rm 5,1 - 1 1 connessa con l'argo­ mentazione seguente; qual è il ruolo di tale pericope all'interno di questa argo­ mentazione? Per alcuni essa annuncia i temi discussi in seguito. 153 Ma una tale proposta si trova fatalmente nell'impossibilità di dimostrare come, in realtà, per­ lomeno Rm 5,12-7,25 sviluppi gli enunciati di Rm 5,1-1 1 . Ma questo fatto non dovrebbe costituire una sorpresa. Se infatti questa sezione è un exordium, non vanno cercati al suo interno gli enunciati tematici - ovvero la propositio, che può essere eventualmente alla fine - ma solo i riferimenti di base, entro i quali si possono valutare in maniera appropriata la propositio e la restante argomenta­ zione. 154 Come si sviluppa, allora, l'argomentazione a seguito dell'exordium? In Rm 5,12 fa la sua comparsa Adamo, il singolo uomo per mezzo del quale il peccato e la morte entrano nel mondo. Benché questo versetto sia unito alla pericope precedente con un lnà 'tOÙ'to, si deve riconoscere che questa congiun­ zione non chiarisce affatto il nesso con ciò che precede, per cui la menzione di Adamo risulta indubbiamente inaspettata. Tuttavia appare chiaro che l'interesse di Paolo non verte sulla singola persona di Adamo e sulla sua vicenda, quanto sugli effetti di questa nella storia di tutta l'umanità, che si ritrova così sotto l'e1 5 3 Così LvoNNEr, «Note», 302-303.310-31 1 , considerando Rm 5,1 2-7,25 di fatto alla stregua di digressioni imperniate sulla liberazione effettuata da Cristo; DAHL, «Notes», 40-4 1 . riconoscendo però che Rm 6,1-8,13 hanno un interesse etico del tutto assente al capitolo quinto, è costretto a defi­ nirli «digressioni», e in Studies in Pau/, Minneapolis 1 977, 81 «refutazioni» retoriche. Questi autori hanno comunque avuto il merito di essere stati tra i primi a dare il giusto rilievo ai dati letterari co­ muni a Rm 5,1 - 1 1 e al capitolo ottavo. DuNN, «Romans», 2857-2858. vede nei cc. 6-8 lo sviluppo, a li­ \'ello del singolo credente, degli enunciati di Rm 5.1-11; ma che il «singolo credente» sia veramente al centro di tali capitoli appare un'affermazione alquanto problematica. In modo del tutto arbitrario, invece, J. KtNOSHITA. «Romans-Two Writings Combined», in NT 7 ( 1 964). 258-277, considera Rm 5,1 - 1 1 e Rm 8.1ss come parti immediatamente unite di una lettera originariamente distinta. 154 Cf. OutNTILIANO, Inst. Or. IV. 1 , 3.25-26.

66

Una

legge buona

ma

impotente

gida del peccato e della morte. Un secondo interesse viene inequivocabilmente manifestato da Paolo, ovvero il paragone di tale influsso con quello esercitato dall'opera di Cristo, la cui misura e modalità appare del tutto sovrabbondante ri­ spetto alla precedente. I versetti di Rm 5,15-17, con un nuovo argomento a for­ tiori, rimarcano subito tale sovrabbondanza, mentre i vv. 1 8-19 insistono sul fatto che le azioni di Adamo e Cristo coinvolgono l'umanità. Ci preme qui far notare il carattere alquanto sbrigativo delle affermazioni paoline, che vengono enunciate senza essere provate, e il fatto che vengano come riassunte ai vv. 20b-21. Si vede facilmente come il capitolo sesto prenda le mosse proprio da queste affermazioni, trattando del rapporto tra peccato e grazia e tra gli esiti contrappo­ sti delle loro rispettive signorie, la morte e la vita. I credenti, uniti sacramentai­ mente alla morte di Cristo, sono partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte, che deve da loro essere concretizzata nella propria condotta di vita. Per essi valgono indubbiamente gli enunciati di Rm 5,20b-21 . Anche il capitolo ot­ tavo può essere considerato ali 'interno di questa tematica: benché là la vita dei credenti sia vista soprattutto attraverso occhi positivi, l'antitesi con la vita di pec­ cato non è del tutto scomparsa, come provato dalla menzione dei termini «carne» e «corpo», che, come si vedrà, acquistano sovente una precisa valenza negativa. 155 Ancora, benché la tematica della creazione presenti un allargamento di prospettiva rispetto alle previe considerazioni sui credenti, il fatto che anche essa, nonostante la presente realtà di caducità, attenda il destino di gloria eterna dei credenti è un argomento che può nuovamente essere compreso all'interno della contrapposizione tra morte e vita del capitolo quinto e della menzione della vita eterna di Rm 5,21. Ma, seppur in maniera fugace, in Rm 5,13-14 appare un'altra importante entità, ovvero la legge mosaica. Per ciò che concerne la relazione legge-peccato, si afferma in quei versetti che la legge lo imputa. In Rm 5,20a la legge riappare, assumendo però un compito nuovo. Con un'affermazione indubbiamente au­ dace, Paolo dice qui che la legge incrementa direttamente singoli atti peccami­ nosi ('tò JtaQétJt'tW�a). Questo compito negativo della legge può parzialmente essere visto come un'esagerazione retorica delle affermazioni precedenti; se la legge si limita a imputare il peccato, a definirlo come trasgressione ( 4,15), viene da sé che essa non fa nulla per ridurne l'estensione, per combatterlo efficace­ mente. Questa affermazione non è esplicitamente asserita in Rm 5,1 3 1 4 però ne consegue logicamente. La legge quindi, quando appare nella scena della sto­ ria, non ha l'effetto di arginare il peccato, ma comporta come conseguenza che questi possa proliferare anche in sua presenza. Una tale valutazione negativa dell'operato della legge costituisce il retroterra delle affermazioni di Rm 6,14-15 e Rm 7,1-4, ove la libertà dal peccato e il servizio alla giustizia paiono avere come presupposto la libertà dalla legge. Tale valutazione sarà comunque ripresa -

J!!s

Cf.

Rm 8,4.5.6.7.8.12.13.

,

Forme e metodi per l'analisi dell'epistolario paolino

67

e in un certo senso aggravata in Rm 7 ,5. Sarà nostra cura dimostrare che la se­ zione Rm 7,7-25 tratta proprio di queste tematiche. Ci sembra pertanto a questo punto di poter dire che 5,20-21 assume un ruolo strategico nell'argomentazione. Essa riassume le affermazioni enunciate velocemente nei versi precedenti e pone le basi per le dimostrazioni successive. Siamo qui in presenza della propositio. 1 56 Questa però, come spesso in Paolo, è di tenore incoativo, cioè non enumera per ordine, alla stregua di una partitio, i singoli punti toccati dall'argomentazione, ma enuncia solamente alcuni degli as­ sunti da essa sviluppati. Come visto precedentemente, anche Quintiliano ricono­ sce che all'interno di un'argomentazione vi possano comparire più propositio­ nes. Nessuna meraviglia dunque che Paolo, all'interno di una sezione della let­ tera che in sé si presenta fortemente delineata e caratterizzata, enunci esplicita­ mente le tesi che qui svilupperà, senza preoccuparsi di connetterle esplicita­ mente con la propositio generale di Rm 1 , 1 6-17. Sarebbe, questo, il modo di pro­ cedere per partitio: notiamo qui semplicemente che Paolo procede in modo di­ verso. D'altra parte non desta nessuna meraviglia il fatto che le singole pericopi dipendano da altre propositiones, le quali preciseranno via via quella di Rm 5,20-21 e le tesi che singolarmente verranno trattate. 157 Da quale propositio di­ pende allora immediatamente la sezione Rm 7,7-25? Ma ancor prima: quali sono i limiti di questa sezione? e qual è la sua composizione interna? Con queste do­ mande ci si addentra nel vivo della nostra ricerca.

156 Riteniamo infondata la proposta di ELuorr, Romans, 233, che vede l'intero capitolo quinto funzionare da propositio della lettera! La propositio, in quanto enunciato tematico di un 'ar­ gomentazione, è per sua natura limitata a poche frasi: cf. QuJNTILIANO, lnst. Or. IV, 5, 26. Antici­ piamo qui che il nostro studio porterà a considerare Rm 7,7-25 come pericope in cui l'impotenza sal­ vifica della legge e il suo conseguente operare a fianco del peccato risultano i fattori messi in rilievo e interpretati. Siamo sulla linea dell'affermazione di Rm 5,20a, che quindi pare discussa proprio in 4uella pericope. Per la comprensione di Rm 5,20-21 come propositio cf. anche ALETII, Comment, �ss; lo., «Romains 5,12-2 1 . Logique, sens et function», in Bib 78( 1977), 28-29; Io., Romani. 40-41 . 1 5 7 Forse il misconoscimento d i tale aspetto fondamentale porta AN OE R SON , Pau/, 204-209 ad affermare che la sezione Rm 6-8 non è di natura argomentativa. Tale affermazione è del tutto ingiu­ stificabile come. per ciò che riguarda soprattutto la pericope Rm 7,7-25, verificheremo da vicino.

Capitolo secondo

La pericope 7 ,7-25: limiti, composizione, contesto

0.

INTRODUZIONE

Il primo compito dell'analisi retorica consiste, avevamo detto, nella delimi­ tazione del testo oggetto di studio. Alla fine si dovrà dimostrare che esso gode di una certa coerenza interna, così da poter meritare l'appellativo di «Unità reto­ rica>) e poter giustificare un 'analisi volta alla ricerca in esso di un significato uni­ tario. Abbiamo già delimitato la sezione più ampia entro la quale la nostra peri­ cope è inserita, sezione della quale abbiamo anche tracciato a grandi linee il mo­ vimento di pensiero. Si deve ora svolgere lo stesso compito per la pericope di Rm 7,7-25. Anche in questo caso riscontreremo che i criteri letterari costitui­ scono un approccio necessario, ma non sufficiente per resecuzione di tale com­ pito. Esso perciò dovrà necessariamente essere integrato dall'analisi dello svol­ gimento globale dell'argomentazione, la quale quindi avrà il bisogno di avvalersi dei criteri retorici. Lo stesso si vedrà passando allo studio dell'organizzazione in­ terna della pericope e alla individuazione dei nuclei tematici ivi discussi. Per­ tanto d'ora innanzi, per indicare la nostra proposta di comprensione della dispo­ sizione delle parti di un testo, al posto del più consueto termine «struttura)), il quale sembra sottintendere una certa fissità nelle relazioni tra parti a livello let­ terario, utilizzeremo il termine «composizione».

l.

R M 7 : QUALE

1.1

Primo approccio a l problema in base a i criteri letterari

INIZIO?

Se, come si vedrà, l 'individuazione della fine della pericope non crea solita­ mente problemi, non altrettanto si può dire di quella dell'inizio. È generalmente riconosciuto il fatto che i primi sei versetti del capitolo costituiscano un 'unità let­ teraria in sé definita; il problema è se essi siano in qualche modo connessi con ciò che segue o se Rm 7,7 debba essere considerato come un inizio assoluto. Diamo di seguito la lista delle ricorrenze di vocaboli significativi nel capitolo set­ timo e nei capitoli vicini, per iniziare da tali elementi le nostre considerazioni.

Una legge buona ma impotente

70

Nella prima tabella riportiamo i termini con una funzione genericamente defini­ bile come «meta-argomentativa», che cioè in vari modi esprimono un'osserva­ zione dell'autore dell'argomentazione esterna a questa o che si indirizzano diret­ tamente al destinatario esterno a essa, mentre nella seconda quelli la cui fun­ zione è interna all'argomentazione. Iniziamo considerando i termini secondo l'ordine della loro comparsa a partire da Rm 7,1 e associamo immediatamente a essi tutti quelli connessi per campo semantico. 1 Tab. I

� àyvoEt'tEoiba'IE

6,1 -23

7,1-6

vv.

v.

3.16

7,7-25

8,1-17

l

àbeÀ.q>ol

vv.

YLVWO'X(l)

v.

l

À.aÀ.too

v.

l

v.

1 .4

À.tym

vv.

1.19

v.

f.J.TJ ytVOL'tO

vv.

2.15

vv.

12

7 7.14

La distinzione tra funzione meta-argomentativa e intra-argomentativa può essere verificata confrontando il participio di ytvoooxw in Rm 7 ,l e Rm 6.6. In entrambi i casi esso qualifica anche gli uditori, in maniera esclusiva in Rm 7,1, ove essi sono interpellati alla seconda persona plurale, mentre in Rm 6,6 Paolo si associa a essi e utilizza la prima persona plurale. Ma, mentre in Rm 6,6 ciò av­ viene all'interno del succedersi logico dell'argomentazione, ne costituisce una tappa indispensabile di un entimema, in Rm 7,1 la menzione degli uditori e di tutto ciò che li qualifica si situa in qualche modo «al di fuori» della concatena­ zione logica - che costituisce l'oggetto della loro conoscenza, cf. vv. 1bss -, fa parte di un'apostrofe, ovvero di un'interpellazione diretta agli uditori del di­ scorso e costituisce una mera affermazione per supportare la possibilità che gli uditori possano cogliere la dinamica dell'argomentazione seguente. Un tale schema ci offre innanzitutto delle preliminari informazioni a livello stilistico. Si constata infatti che i capitoli sesto e settimo presentano vari momenti in cui Paolo segnala la sua diretta intrusione nell'argomentazione - cf.: ÀÉyw 6,19, ÀaÀoo 7,1 -, alla quale può associare i suoi interlocutori nelle subiectiones dei vv.

1 Per questa definizione siamo debitori a HELLHOLM, «En�hymemic», 124-1 25.174, le cui con­ siderazioni al riguardo semplifichiamo.

La

71

pericope 7,7-25: limit� composizione, contesto

6,1 ;7,7. Su quest'ultima forma e sulla risposta �-t'il ytvotto effettueremo conside­ razioni in seguito. Invece l'interpellazione diretta agli uditori per mezzo dell'e­ spressione il àyvoEttE-otòa'tE o del vocativo àòEA.cpol è presente nel capitolo se­ sto e solo nella prima parte del capitolo settimo, mentre è assente in seguito, e viene poi ripresa una sola volta nel capitolo ottavo. Se questo dato sia significa­ tivo, si vedrà in seguito. Tab. D 6,1 -23

VÒJ.Wç

14 . 1 5

vv.

7,1-6

7,7-25

8,1-17

vv.

vv.

vv.

2.2.3.4.7

1 . 1 .2.2.3.

4.5.6

7.7.7.8.9.

12.14.16.21 . 22.23.23.23. 25.25 vv.

�vtoÀ.i]

8.9. 1 0.1 1 .

1 2. 1 3

XUQI.fUOO

vv.

àv8QOOJtoç

v.

( ava-ou-) �cl(l)

vv.

9.14

6 2.8. 10.10.

v.

1

v.

l

vv.

1 .2.3

vv.

22.24

v.

9.9

vv.

12. 1 3 . 1 3

v.

10

vv .

2.6. 10

vv.

2.6

vv.

10.1 1 . 1 1

11.13

�wl}

vv.

4.22.23

eava'toç

vv.

3.4.5.9.

v.

5

vv.

v.

4

v.

10.13.13.24

16.21 .23

VEXQÒç

vv .

Svr]'tòç

v.

ÒJto8vtJoxoo

vv.

4.9. 1 1 . 1 3 12 2.7.8.9. 10. 1 0

vv .

2.3.6

ÒJtOXtElVOO eava'tÒ..euroÀEla

vv.

v.

6

v.

v.

bouÀ6ro

vv.

12

6.16.16.

7.7.8

vv.

25

15

17.19. 19.20 1 8.22 vv. 2.4.5.5.6. 9.9.9.1 0. 1 1 .

v. 6

3tVEUJ.1a

1 1 .13. 14. 1 5 . 1 5 . 1 6. 1 6

XVEUJ.l.Q'tLXÒç

v.

xatVÒ'tt'lç

v.

4

v.

6

n:aÀatòç-'tT]ç

v.

6

v.

6

14

La pericope 7, 7-25: limiti, composizione, contesto

yt.VWO"XW

v.

6

vv.

7.15

olba

v.

9

vv.

7.14. 1 8

xa'tEQYO�OJ.lat

vv.

n:gaoow

vv.

15.19

vv.

1 5 . 1 6 . 1 9.

73

8. 1 3.15. 17. 18.20

n:o..tw

20.21

aywç

v.

àya86ç

vv.

12. 1 2 1 2. 1 3 . 1 3.

18.19

xaÀÒç

vv.

l blxawç

btxal.O (v. 17); una volta al genitivo 8tou (v. 23) per qualificare non un'entità astratta quale la «legge», ma il frutto dell'azione divina storicamente e realmente elargita in Gesù Cristo, ovvero la vita eterna. Senza contare, inoltre, che se pur non menzionato esplicitamente, Dio è il soggetto dell'azione della ri­ surrezione di Cristo (vv. 4.9). In modo analogo attirano l'attenzione la frequenza della menzione di 'IT)crouç-XgLcrt6ç e il fatto che la relazione dei credenti con lui sia espressa con la vasta gamma delle preposizioni elç, cruv, èv. In Rm 7,7-25, in­ vece, SeQ> appare solo come oggetto di un rendimento di grazie nel v. 25a, men­ tre ai vv. 22.25b 8eou al genitivo qualifica la legge, senza avere pertanto nessun ruolo attivo nell'argomentazione. Analoghe considerazioni per 'lf1oouç-XQL­ otòç, il quale appare unicamente nella frase stereotipa del v. 25a. Da tutto ciò si evince che i soggetti divini sono assenti nell'insieme di Rm 7,7-25, fatto che ca­ ratterizza notevolmente la nostra pericope rispetto a tutto il capitolo sesto. Si ri­ scontra invece facilmente che la menzione di Dio e di Cristo in Rm 7,4 è secondo le caratteristiche del capitolo sesto, fatto che accomuna ulteriormente i versetti 7,1-6 con il capitolo precedente e li distanzia dai versetti 7,7-25. Alle stesse con­ clusioni orienta la riflessione sul vocabolario della «morte». Esso è comune al capitolo sesto e settimo nella sua totalità, ma in Rm 6 e 7,1-6 si parla di una morte relativa ai poteri nemici del peccato e della legge - cf. le espressioni pa­ rallele dei vv. 6,2. 10 e 7,4 -, che coinvolge i credenti grazie alla loro unione sa­ cramentale con la morte e risurrezione di Cristo. In 7,7-25 la morte appare in-

3 Ciò è sufficiente per far concludere a S.K. STOWERS, A Reareding of Romans. Justice, Jews, and Genti/es, New Haven-London 1994, 259 che 'IT)aou viene continuata esplicitamente per­ lomeno sino al v. 17 con la menzione del «noi-voi)) credente. Ci sembra pertanto di poter asserire che 8,1 annuncia una novità che dà origine a uno sviluppo argo­ mentativo, il quale continua sino a 8,17. Questo fatto permette di considerare proprio tale versetto come la subpropositio di 8,1-17. L'ultima verifica di questa ipotesi dovrà essere nuovamente costituita dall'esegesi particolareggiata dell'ar­ gomentazione, che dovrà chiarire come tale sviluppo si connetta effettivamente con l'enunciato di 8,1. 32 Tuttavia, in forza delle considerazioni indiziarie sinora

29

Cf. BAGD, sub voce. Rm 5,16; 7,3.21 .25; 8,1.12; 9,16.18; 10,17; 14,12.19; 1Cor 5,10; 7,14; 15,14.15.18; 2Cor 1,17; 5,14; 7,12; Gal 2,2 1 ; 3,7.29; 5,1 1 ; 6,10. 31 KOMMEL, Romer 7, 70, porta altri esempi di locuzioni consequenziali con senso traslato nelJa Lettera ai Romani. 32 Rimandiamo già da adesso al capitolo quinto, ove tale verifica verrà offerta. In V.1.2 si ve­ drà che anche il v. 2 del capitolo ottavo può essere affiancato al precedente quale propositio origi­ nante la successiva argomentazione. 30

La pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

87

sviluppate, si possono già formulare le prime osservazioni a riguardo della con­ nessione con l 'argomentazione sviluppata precedentemente. 2.3

7, 7-25

e 8, 1-1 7:

no antitesi strutturante, sì aiJyxptatç

Si deve innanzitutto constatare che le pericopi 7,7-25 e 8,1-17 non sono esplicitamente poste in composizione antitetica. In 7,7 l'argomentazione inizia infatti con la discussione delle relazioni tra legge e peccato, in 8,1 l'attenzione viene posta su realtà che riguardano direttamente la vita dei credenti, senza che i termini della discussione precedente siano esplicitamente richiamati. Se l'esegesi confermerà il fatto che Paolo sviluppa fedelmente i suoi enunciati tematici anticipiamo qui che tale conferma verrà data nei capitoli successivi - l'unica conclusione possibile è che in 8,1 inizia uno sviluppo nuovo e relativamente indi­ pendente rispetto all'argomentazione precedente. Ovviamente, i richiami ver­ bali e le antitesi tra le due pericopi non possono essere misconosciuti. Essi danno certamente a tali pericopi l'aspetto di un confronto reciproco, in cui le conclu­ sioni della pericope precedente vengono rielaborate ali 'interno dello sviluppo successivo. Tale confronto appare come un procedimento letterario conosciuto nell'antichità come comparatio, contentio o auyxQtcrtç, i cui usi e finalità sono molteplici nella retorica e nella letteratura. 33 Il riconoscimento di questo aspetto è necessario per poter interpretare lo sviluppo dell'argomentazione delle nostre pericopi nella sua globalità. Tuttavia ciò che si deve rimarcare è il fatto che gli elementi finora individuati dalla nostra analisi non consentono di comprendere tale o'ÙyxQunç come inglobante tutta la dinamica dell'argomentazione e fattore determinante la sua strutturazione. Pertanto concluderemo il nostro lavoro con un'analisi, seppur sommaria, dell'argomentazione della prima parte del capitolo ottavo, allo scopo di trarre tutte le considerazioni che possono risultare utili per la comprensione delle problematiche trattate nella pericope 7,7-25. In ogni caso non riteniamo tali pericopi come strutturalmente connesse in antitesi. Possiamo poi affermare che la transizione tra le due pericopi si effettua, di­ versamente rispetto a quanto riscontrato sinora, in modo piuttosto brusco e ina­ spettato, fatto che indubbiamente denota la diversità dei toni presenti in esse. L'inizio di 8,1, infatti, non è preparato da nessuna transizione . come può essere facilmente verificato dall'assenza di vocabolario comune a questo versetto e alla fine della pericope precedente. L'unico tentativo di armonizzazione tra le peri­ copi consiste nella ripresa della locuzione btà-èv XQt>, non mette in discussione il fatto che la legge precedentemente menzionata continui a essere connotata in termini positivi, anzi, essi vengono esplicitamente ribaditi.34 Oltre a questi fattori, si riscontra anche una serie di elementi che aiutano a suddividere la nostra pericope al suo interno. - A livello di vocabolario: si nota che i termini esprimenti la dialettica vita-morte, è:rrt8ut-tla-Éw ed tv'tOÀll sono esclusivi dei vv. 7-13, mentre i sostantivi e verbi che esprimono una dissociazione esistenziale dell'io ( aaQ�, awtJ.a, �ÉÀ'Y), vouç, EOW av8gwrroç, StÀ.w, �t.atw) sono invece esclusivi dei versetti successivi. Tale dissociazione, infatti, inizia al v. 1 5 e prosegue, come si constata facilmente, in crescendo sino alla fine della sezione. - A livello di verbi: sino al v. 13 i verbi finiti sono usati in tempi passati, mentre a partire dal v. 1 4 entra stabilmente in gioco il presente. A partire dal versetto successivo, inoltre, c'è da notare che l'io diviene soggetto, sia di verbi fattitivi: xa'tegya�oJlat (vv. 15.17.18.20; tale verbo appare anche ai vv. 8.13, ma il suo soggetto è l'ltt-taQ'tla), 3tQétaaw e n:olfw; sia di verbi volitivi StÀw e J.ttatw; sia di verbi che denotano varie attività razionali e conoscitive come ytvwoxw, oiòa, 34 Ciò è sufficiente per smentire W. ScHMITifALS, Der Romerbrief· Ein Kommentar, GUtersloh 1988. 226ss, il quale vede in 7,17 l'inizio di un originariamente indipendente «dogmatischer Lehr­ text». inserito nella Lettera ai Romani da Paolo stesso o da un ipotetico redattore della lettera. Le asserzioni del v. 17 ben si connettono con quelle precedenti, perciò non si vede affatto perché le af­ fermazioni riguardo al peccato che da lì iniziano non siano in nessuna relazione con il resto della let­ tera (c�. ad es. p. 231).

La

pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

89

oUJ..tflf.lL (v. 1 6), ouv't)ÒoJ..taL (v. 22), E'ÙQloxw (v. 21) e �ÀÉ:rtw (v. 23), i quali hanno come oggetto dei fenomeni che avvengono all'interno dell'io; sia infine del verbo òouÀEuw (v. 25b). Sommando le ricorrenze qui conteggiate a quelle dei verbi prima riportati in tabella in cui l'io è soggetto si contano in totale venti­ sei ricorrenze in cui l'io appare come soggetto di predicati verbali, alle quali vanno aggiunti i vv. 14b.24a, ove esso appare come soggetto di un predicato no­ minale, mentre nei vv. 7-13 esse erano solo quattro, di cui due volte enunciando la dialettica vita/morte non ripresa in seguito, e solo in 7,7 utilizzando dei verbi conoscitivi come nei vv. 15ss. Sembra quindi che l'argomentazione riguardante l'io si sviluppi più ampiamente nella seconda parte della pericope, dove assume delle caratteristiche assenti precedentemente. - Ricordiamo infine che la nuova domanda del v. 13, in forza della sua stessa formulazione, imprime un rinnovato sviluppo all'argomentazione e sem­ bra con ciò demarcare una nuova sezione. Una prima suddivisione di pericope sembra pertanto essere indicata da elementi letterari proprio a partire dai vv. 13-14. Ma dove vedere precisamente il termine della prima sotto-unità e l'inizio della nuova? È difficile rispondere a questa domanda. Da un lato, infatti, già nel v. 13a viene annunciato lo sviluppo nuovo, e il v. 14 non sembra poter essere considerato inizio di sezione in forza del y6.Q esplicativo che lo connette direttamente con il versetto precedente. D'altro lato nel v. 13bc non appaiono nessuno dei segni di novità sopra menzio­ nati, ma il pensiero sembra connesso strettamente con i versetti precedenti sotto un duplice aspetto. Sotto il profilo formale c'è da rilevare la presenza dei tempi verbali passati e la menzione, successivamente non più ripresa, di tvtoÀ.l). È da notare, al riguardo, che il sintagma btà 't�ç tv-roì..iiç-VÒJ.!OU è peculiare dei vv. 7-13, ove ricorre quattro volte. Sotto il profilo contenutistico si sostiene poi che il peccato consegna l'io alla morte per mezzo della legge. Questa affermazione ap­ pare, come si vedrà in seguito, un mero riassunto di quelle precedenti. Una tale ricerca di precisione nella suddivisione interna di una pericope potrebbe sem­ brare un inutile esercizio di pedanteria. 35 Ma in realtà la determinazione dello svolgimento del pensiero nella transizione dalla prima sottosezione all'altra in­ nesca, come si vedrà in sede di esegesi, una serie di ipotesi interpretative a livello teologico da parte degli esegeti. Questo fatto verificherà la convenienza di un 'in­ dagine di tipo minuzioso a riguardo. Da parte nostra, riteniamo che la considera­ zione più ovvia consista nel rilevare il fatto che Paolo semplicemente annunzia lo sviluppo seguente prima di riassumere le considerazioni sviluppate sino a quel momento. In altri termini, egli anticipa ciò che logicamente parrebbe successivo anteponendolo alla conclusione di ciò che precede. Si può riconoscere in questo procedimento la figura retorica dell'hysteron proteron. 36 Di conseguenza il v. 13a 35

Come tale appare, ad es., a DUNN , Romans, I 377. Per tale figura cf. LAUSBERG, Elementi, 230; MoRTARA GARA VELLI, Manuale, 256-257. Que­ sta interpretazione sarà confermata dalla constatazione, che svilupperemo in sede di esegesi (cf. 111.1.7 e 8, 111.2.1), del fatto che in realtà 1 3bc non sembra affatto rispondere alla domanda di 1 3a. 36

Una legge buona ma impotente

90

deve essere considerato l'inizio dell'unità successiva, mentre il v. 1 3bc è da con­ nettere con la precedente. Consapevoli di questo duplice ruolo assunto dal v. 13, lo esamineremo all'interno di ciascuna di tali sotto-unità, a seconda degli aspetti di volta in volta a esse pertinenti. 3.2

7-12. 13bc

L'unità letteraria così delineata in 7,7-12. 13bc si sviluppa sino al v. 1 1 , come avevamo già osservato, con una serie di congiunzioni paratattiche ed esplicative, le quali, assieme alla ripetizione dell'espressione aOQJ.t�V OÈ Àa�ouoa f) élf.tUQ­ 't la òtà 1:ijç tvroì..i) ç ai vv. 8 e 1 1 , le conferiscono una compattezza interna. Al v. 12 la congiunzione consecutiva WO'tE opera una delimitazione rispetto a ciò che precede, tuttavia la conseguenza qui enunciata viene sviluppata solo con poche battute. In sede di esegesi si vedrà come essa dovrà essere integrata con il pen­ siero espresso in 13bc. La formulazione ripetuta dei vv. Sa e 1 1 a ha portato Lamarche - Le Diì a ricercare delle corrispondenze parallele tra i vv. 7-8a e 1 1 -13a. 37 A parte la discu­ tibile delimitazione che vede tutto il v. 13 compreso in questa prima sotto-unità, non si capisce, ad esempio, la corrispondenza, da essi sostenuta, tra i vv. 7b e 12 sotto i titoli «ruolo della legge»; il v. 12, infatti, parla del carattere, dell'indole santa della legge, non del suo ruolo. Se poi il titolo dato da Lamarche-Le Diì fosse corrispondente alla verità delle affermazioni sostenute dai versetti in que­ stione, tali versetti dovrebbero, sempre secondo la loro logica, essere catalogati all'interno delle sezioni B-B 1 , poiché è in essi che si dovrebbe parlare del ruolo della legge. In realtà, si vedrà che dal v. 7b al v. 1 1 si parla continuamente del ruolo della legge, ovvero del suo rapporto concreto con l'io e con il peccato, mentre solo nei vv. 7a e 12 si dice ciò che la legge, in astratto, «è». Proprio questa osservazione risulterà a nostro avviso decisiva per la comprensione della nostra unità letteraria. Una tale strutturazione parallela si rivela pertanto risultato di una forzatura di dati letterari, raggiunta attraverso un 'imposizione di titolazioni ai vari versetti assolutamente arbitraria e non in grado di gettare alcuna luce sullo sviluppo effettivo del pensiero e sulle tappe logiche che di volta in volta vengono raggiunte dall'argomentazione. In modo analogo, Dfaz-Rode las vede lo sviluppo di una struttura parallela rispettivamente tra i vv. 7bc/8a e 8b-10a/10b- l l . 38 Qui la corrispondenza tra i vv.

LAMARCHE - LE DO, Romains, 52-53. Ecco la loro proposta di strutturazione: A) vv. 7-8a: La legge non è peccato. B) vv. 8b-1 0: Ruolo della legge riguardo al peccato e alla morte. A 1 ) vv. 1 1-13a: La legge non è causa di morte. B 1 ) v. 1 3bc: Ruolo del peccato riguardo alla manifestazione del peccato e della morte. 311 DiAz- RooELAS, Ley, 141. Ecco la sua proposta di parallelismo: B 7bc vv. 8b-10a 8a vv. l Ob- 1 1. 37

A

l) 2)

v. v.

La pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

91

7bc e 8b-10a verrebbe stabi l ita in forza unicamente del passaggio dal termine vò­

tJ.Oç al termine èvroÀT]. Ma resta da definire perché tale passaggio possa avere forza strutturante se, tra l'altro, non riesce a determinare un autentico paralleli­ smo nel movimento del pensiero, come lo stesso autore riconosce. All'interno di questa struttura, poi, vigerebbero altri parallelismi. Ad es., tra i vv. 7bc e 8a, ove i termini «A» sarebbero uniti dalla menzione dell' ét�aQ'tla e dall'espressione (>Là VÒtJ.OU-èvtoÀi)ç, mentre i termini «B» dalla menzione dell'€rn0u�la.39 Ma, a no­ stro avviso, il fatto che al v. 7b il peccato funga da oggetto diretto, mentre in 8a da soggetto provoca una prospettiva abbastanza diversa nei due emistichi, cosic­ ché risulta difficile affermare il loro parallelismo. Se poi l'espressione Òlà t�ç èv­ toÀ:ijç va unita con il verbo seguente e non con il participio precedente - come sarà dimostrato in sede di esegesi -, allora il parallelismo proposto dal Diaz­ Rodelas si rivela insostenibile. In breve, si verificherà come alcuni parallelismi, antitesi e chiasmi sono presenti all'interno della nostra sezione, ma dal loro rico­ noscimento in versetti isolati al voler vedere tutta la sezione determinata da que­ ste strutture letterarie il passaggio non è automatico. Piuttosto, ci pare che una simile operazione sottenda un'ennesima forzatura dei dati letterari, di fronte dalla quale si deve essere criticamente riservati quando si tratta di strutturare le peri copi. 3.3

13a.14-20.21-25

Con tale accortezza passiamo all'esame dell'unità letteraria iniziata in 7,13. Rileviamo qui la ripetizione di frasi stereotipe, che può indubbiamente suscitare l'impressione di un certo parallelismo nella composizione dell'unità. 7, 14a o Lba�Ev yàQ O'tl.

7, 1 8a olba yàQ , in R .T FoRTNA - B.R. GAVENTA, a cura di, The .

Conversation Continues. Studies in Pau/ and John, Fs. J.L. Martyn, Nashville 1990, 76-79; M.A. S E I FRID, Justification by Faith (NTS 68), Leiden-New York-Koln 1 992, 237-238 ( = Io., «The Subject of Romans 7: 1 4-25», in NT 34[ 1992], 327); DtAz-RooELAS, Ley, 143; tra i vv. 14-17 e 1 8-23 THEtSSEN, Aspekte, 189; DuNN, Romans, I 377 (= lo., «Romans», 2862); tra i vv. 12-16 e 17-20 RoLLAND, Écoute, 83. 4 1 Per tale figura cf. LAUS B E RG , Elementi, 195; MoRTARA GARAVELLI, Manuale, 238. 42 Contro DfAz-RooELAS, Ley, 137. 43 Contro LAMARCHE - LE DO, Romains, 56. ­

La pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

93

esplicativa y6.Q (vv. 15.15. 18.18.19) e di frasi ipotetiche (vv. 16.20), che danno ai nostri versetti il tono del ragionamento, dello stretto incedere sillogistico ed en­ timematico. Risulta così ovvio attribuire anche all'avverbio vuvl del v. 17 un si­ gnificato logico e non temporale,44 poiché tale significato è quello che ben si in­ quadra nel contesto precedente. I vv. 21ss non sono caratterizzati da un tono diverso (cf. yò.Q v. 22), perlo­ meno sino al v. 24. Tuttavia l'espressione iniziale del v. 2 1 , EÙQioxro aQa, benché possa essere paragonato ai verbi otoa-owaJ.tEV dei vv. 14.18, in quanto il suo og­ getto è un qualcosa che avviene all'interno daJJ 'io, marca una certa distinzione rispetto a ciò che precede. A livello lessicale questa è confermata dal riapparire del termine VÒf.!Oç, daJla sua rinnovata frequenza e dall'antitesi in cui viene coin­ volto, nonché dal riapparire del termine 8ava'toç, assente dopo il v. 13. Tale no­ vità è, però, relativa. Abbiamo precedentemente evidenziato tutte le caratteristi­ che letterarie che accomunano questi versetti con ciò che precede, alle quali va aggiunta la connessione espressamente operata dalla particella aQa del v. 2 1 . In considerazione inoltre del fatto che nei vv. 14-20 manca qualsiasi particella espli­ citamente conclusiva, sembra di poter arguire che qui siamo in presenza delle conseguenze tirate da tutto il ragionamento che si sviluppa in quei versetti. Per­ tanto i vv. 21ss non sono intesi come esplicazione di un nuovo enunciato tema­ tico, ma come conseguenze delle chiarificazioni sopra ottenute. Poiché inoltre l'unica congiunzione consequenziale nei vv. 7-13 è rappre­ sentata da mO'te al v. 12, e poiché l'affermazione a cui aveva dato origine è estre­ mamente concisa, limitata solo a tale versetto, e in considerazione anche del fatto che lo sviluppo argomentativo iniziato al v. 13 sembra connesso con ciò che lo precede, ci si potrebbe interrogare se i vv. 21ss non svolgano una funzione riassuntiva anche nei confronti di quei versetti. Questa ipotesi parrebbe verosi­ mile perché i termini 8ava-roç e VÒJ.toç, che appaiono contraddistinguere questi versetti rispetto a ciò che è loro immediatamente precedente, in realtà sono fre­ quenti nei vv. 7-13, per cui il loro riapparire qui parrebbe un esplicito richiamo proprio di quei versetti. Se fosse così, i vv. 21ss svolgerebbero la funzione, tipica della peroratio,45 di ricapitolazione di tutta l'argomentazione sviluppatasi dal v. 7. Naturalmente dovrà essere l'esegesi a verificare in che misura i vv. 21ss con­ cludano effettivamente tutta l'argomentazione sviluppatasi a partire dal v. 7. Tuttavia queste considerazioni consentono di leggere tali versetti con l'ipotesi ­ da accertare certamente mediante l'esegesi - che a partire dal v. 21 appaia pro­ prio la peroratio di tutta la nostra pericope. La natura riassuntiva di questi versetti viene poi confermata dalla loro con­ clusione in 25b, ove la particella aQa, qui rafforzata da oùv, introduce l'ultima conclusione sotto forma di detto sentenzioso (epifonema).46 Invece il grido del v. 44 Cf. BAGD, «VUVl.», 2.a. 45

Cf. 1.2. 1 .

Per tale costruzione cf. BAGD, «�, 4 : «in questo caso li esprime la deduzione e oh la transizione». 46

Una legge buona

94

ma

impotente

24 interrompe per un momento il tenore strettamente argomentativo della se­ zione e crea un marcato effetto patetico. Ora, tale caratteristica è pure conside­ rata da tutti i retori come propria della peroratio. Anche le considerazioni a ri­ guardo del pathos suggeriscono quindi la stessa valutazione dei presenti versetti. Dopo queste considerazioni, che offrono i primi indispensabili elementi per l'analisi dell'articolazione dell'unità iniziata in 7,13a.14, si può riprendere il confronto con altre proposte di strutturazione. U. Wilckens vede il nostro testo suddiviso in tre sotto-unità: 1 3-16, 17-20 e 21 -23, di cui la seconda e la terza sa­ rebbero esplicative della prima.47 Tale spiegazione sarebbe incentrata rispettiva­ mente sul contrasto tra volere e fare, e tra legge del peccato nelle membra dell'io e legge divina nell'io interiore. Si vede tuttavia che i titoli attribuiti a tali unità non rendono affatto ragione della loro strutturazione. Il contrasto tra il volere e l'agire dell'io è già presente al v. 15, come l'autore stesso non manca ripetuta­ mente di sottolineare, e quindi non può né designare il tema che caratterizze­ rebbe i vv. 1 7-20 né, di conseguenza, distinguerli da ciò che precede per tale con­ siderazione di indole tematica. Ma, ancor più in generale, è problematico il sem­ plice affermare uno iato in versetti che si presentano strettamente connessi in forza della serrata argomentazione che essi sviluppano. Al v. 17 vuvt òt, che l'au­ tore correttamente a più riprese asserisce essere di carattere logico, connette questo versetto con ciò che precede e pertanto difficilmente può costituire un'in­ troduzione di nuove nozioni. 48 Dunn, invece, divide il testo nelle sotto-unità costituite dai vv. 14-17, 1 8-20 e 21-23. 49 Ma poche righe dopo si contraddice, affermando che l'insieme dei vv. 1 8-23 costituisce uno sviluppo parallelo nella sua globalità ai vv. 14-17, smen­ tendo così la sua proposta di porre una cesura tra i vv. 20 e 21 che invece, come si è visto, è l'unica divisione sostenibile in base a criteri letterari. Anche le sue tito­ lazioni sembrano equivoche e forzate, e non in grado quindi di delimitare effetti­ vamente delle unità letterarie. Egli sostiene infatti che i vv. 18-20 sono «Una spie­ gazione di come il peccato opera attraverso l'"io" diviso», ma l'affermazione della divisione dell'io era già fatta al v. 15 e quella del peccato agente attivo al v. 17, per cui non appare in nessun modo giustificabile la sua limitazione ai vv. 1 820. Anche Michel considera il v. 1 8 come inizio di una sotto-unità che si do­ vrebbe estendere sino al v. 25, ma non chiarisce in forza di quali criteri si possa fare una simile affermazione. Commentando questo versetto egli vi pone in ri­ salto la prospettiva dell'autocoscienza. 50 Qui l'io affermerebbe di sapere di es-

47

W I LCKENs, Romer, II 74-75. Contro anche voN DER OsTEN-SACKEN, Romer 8, 202, che vede ne i vv. 15-16 una spiegazione di 14a e i vv. 17-20. da essi distinti, una spiegazione di 14b. 49 DuNN, Romans, I 376-377. so MICHEL, Romer, rispett. 222 e 232. Analoghe osservazioni si possono fare anche a THEISSEN, Aspekte, 191, che nello sviluppo di questi versetti vede un « . .. Progresso ... sul terreno ... della cono­ scenza)). 48

La pericope 7,7-25: limit� composizione, contesto

95

sere sotto la signoria del peccato; sembrerebbe quindi che tale versetto intro­ duca una sotto-unità in forza dell'introduzione di questa nuova tematica. Tutta­ via, se in questi versi l'argomentazione assume le caratteristiche della commora­ tio, come è stato prima rilevato, si dovrà essere molto cauti nel sostenere rile­ vanti sviluppi di pensiero tra un versetto e l'altro. La commoratio piuttosto, ripe­ tendo affermazioni simili, «indugia», come indica il suo stesso nome, su di uno stesso nucleo concettuale per sviscerarne le implicazioni e non è funzionale in­ nanzitutto alla promozione di un nuovo sviluppo argomentativo. Tra le citate proposte di strutturazione in parallelo dei vv. 14ss prendiamo in esame le proposte di Lamarche - Le Dft e Seifrid. I primi vedono nei vv. 21 -23 uno sviluppo, successivo a quello dei vv. 14-20, che si articola all'interno in un rinnovato parallelismo. 51 In esso i termini «A» sono accomunati dalla menzione di «realtà positive» (il bene, la legge di Dio, la legge della mia mente), mentre i termini «B» di quelle «negative)) (il male, la legge nelle membra, la legge di pec­ cato). Si deve effettivamente concordare nel fatto che un'antitesi tra tali ele­ menti è indubbiamente ribadita più volte in quei versetti. Tuttavia non appare giustificata la strutturazione in parallelo di essi in forza di tale antitesi. L'inizio del v. 21a: E'UQLOXW aga tÒV VÒj.!OV a rigor di logica appare infatti fuori struttura, poiché l'antitesi tra il bene e il male è successiva e dipendente da questa introdu­ zione. Ma ciò che risulta decisivo è il fatto che al v. 23 la menzione della «legge della mente» appare isolata, soccombente in una guerra mossale dall'altra legge e non in grado di riassumere tutto il movimento «A>) dei versetti precedenti. È il v. 23 nella sua totalità, infatti, unito al precedente da un bt avversativo, ad appa­ rire come antitetico a quello52 e finalizzato di conseguenza non a porre nuova­ mente in parallelismo antitetico le due leggi, ma a illustrare drammaticamente la forza della legge del peccato. La menzione della legge della mente è fugace e so­ lamente funzionale alla descrizione di tale realtà drammatica. Non appare per­ tanto possibile riconoscere una progressione parallela degli elementi struttu­ ranti, poiché il v. 23 appare molto più esteso di quello precedente. Il movimento del pensiero, di conseguenza, risulta indirizzato verso una marcata accentua­ zione dei termini negativi, la quale ben si presta a scatenare il grido del v. 24. Ora, tutti questi elementi sono interamente ignorati dalla proposta di Lamarche - Le Dft. Seifrid, invece, vede nei vv. 21 -25 una sotto-unità parallela alle precedenti 14-17 e 18-20 e, poiché non può trovare in questi versetti la ripetizione di mede-

51 LAMARCHE LE Dù, Romains, 60. Presentiamo qui la loro proposta a riguardo, eviden­ ziando in AA 1 l 'unica espressione che potrebbe giustificare questa struttura: A) v. 2 1 a -

B) V. 21b A1) v. 22 B1) v. 23a AA 1) v. 23a «V6t.UP -.:ov voòç,. B B ' ) v. 23b. 52 Così anche DlAz-RooELAS, Ley, 144.

Una legge buona ma impotente

96

sime espressioni, come nei vv. 1 4-20, motiva la sua struttura con criteri tema­ tici.53 Le tre sezioni, secondo Seifrid, prenderebbero le mosse infatti da afferma­ zioni di «self-knowledge», passerebbero a «narration of behavior» per finire con un'affermazione di auto-diagnosi dell'io. Due soli esempi sono qui sufficienti per mostrare la forzatura di queste titolazioni. Il v. 1 5a unisce immediatamente i verbi xa'tEQya{;of!aL e ytvoooxw, combinando così una affermazione di autoco­ scienza con un verbo che esprime il comportamento, segno evidente che non in­ tende separare queste due realtà, come invece vorrebbe Seifrid. Lo stesso si con­ stata al v. 23: l'affermazione di ciò che avviene nelle membra dell'io non è una mera narrazione di comportamento, ma è retta dal verbo �Mnw, che esp rime così l'autocoscienza dell'io sul suo comportamento alienato. Ma poiché queste realtà appaiono ripetutamente compresenti nei vari versetti dell'unità in esame, è evidente che non possono fungere da criterio di demarcazione tra un versetto e un altro. Questa proposta, infine, considerando i vv. 21 -25 in stretto parallelismo con i precedenti, finisce per misconoscere la loro funzione riassuntiva rispetto a tutta la pericope, funzione che appare già evidente in forza dell'uso della parti­ cella liQa, come si è avuto modo di affermare in questo stesso paragrafo. 3.4

Uno sguardo riassuntivo

Dall'esame delle varie strutture proposte risulta abbastanza chiaramente come, al momento della strutturazione di una pericope, attenda al varco gli ese­ geti la ricorrente tentazione di integrare criteri letterari mancanti con proprie ri­ costruzioni ideologiche e di ignorare gli elementi con queste divergenti. Per tale motivo, l'approccio letterario alla composizione di un testo risulta imprescindi­ bile, ma non sufficiente per dire l'ultima parola sull'organizzazione e lo sviluppo del testo stesso. Esso quindi deve essere integrato con l'analisi retorica e tema­ tica dello svolgimento dell'argomentazione in un procedimento in cui risultino chiare le varie fasi dello stesso. Solo così, infatti, non si corre il rischio di con­ trabbandare per «criteri letterari» ciò che invece è frutto delle convinzioni ideo­ logiche dell'interprete, né di fondare la comprensione del messaggio di un testo su elementi artificiosamente attribuiti al testo stesso. Risulta anche chiaro per­ ché l'analisi retorica si accompagna necessariamente all'esegesi minuta, come da noi oramai ripetutamente ribadito. Per questa serie di motivi ci sembra più cor­ retto il concetto di «composizione» e non di «struttura)) di una pericope. Ini­ ziando l'analisi del nostro testo in base a criteri letterari, abbiamo integrato tali criteri con i primi passi dell'analisi retorica e siamo giunti a formulare una pro­ posta di composizione che introduce alla comprensione del testo. Ma ovvia­ mente si deve attendere la verifica da parte dell'esegesi minuta di tutta l'argo­ mentazione.

53

SEtFRID,

Justification, 237-238 (

=

lo., «Subject»,

326-327).

La

p ericop e 7,7-25: limit� comp osizione, contesto

97

Riassumiamo qui velocemente i termini della nostra proposta. Innanzi tutto ci pare già chiaro il fatto che in Rm 7,7a Paolo inizi una nuova sezione della sua argomentazione, per cui tale emistichio è senz'altro da ritenere la propositio che dà avvio a una nuova pericope. Alcune caratteristiche letterarie si estendono da tale versetto sino al v. 25, per cui sembrerebbe che questa sia anche l'estensione della pericope. Al riguardo, però, rimane aperto il problema della congruenza di alcune affermazioni con l'enunciato della propositio, problema che dovrà essere chiarito in sede di esegesi. Dopo il v. 7a l'argumentatio si sviluppa in due tappe, la prima tra i vv. 7b-12. 13bc e la seconda tra i vv. 13a.l4-20; la transizione tra le due avviene secondo il meccanismo dell hys teron proteron. A partire dal v. 21 si riscontrano molte delle caratteristiche letterarie presenti nei versetti precedenti, introdotte però da un liQa consequenziale. Questo fa supporre che, all'interno di uno sviluppo letterario strettamente connesso con il precedente, si inizino co­ munque a tirare le conseguenze dello stesso. Tale fattore, unito all'osservazione del pathos creato dal v. 24, fa considerare i vv. 21-25 come la peroratio della peri­ cope. Comunque questa ipotesi richiede nuovamente di essere sviluppata in sede di esegesi. Si nota anche che la pericope 7,7-25 appare distinta chiaramente rispetto all'argomentazione del capitolo ottavo, ma che tuttavia una serie di richiami an­ titetici tra queste pericopi dimostra come tra di esse ci sia una ouyxQLOLç. Non ci è sembrato di poter vedere un principio o criterio strutturante in essa. Tuttavia la semplice osservazione di queste antitesi impedisce di considerare la nostra pe­ ricope come una «parentesi» all'interno della Lettera ai Romani e impone di te­ nere in considerazione anche lo sviluppo argomentativo iniziato in 8,1 per lo stu­ dio della pericope 7,7-25. Per questi motivi, tralasciando per ora l'esame accu­ rato della letteratura secondaria, offriamo qui di seguito la nostra proposta di strutturazione della prima sezione del capitolo ottavo, che si vedrà concludere al v. 17. Dedicheremo poi la fine del nostro studio a un rapido esame di tale peri­ cope, con l'intento limitato di dedurre da questo gli elementi utili alla compren­ sione della pericope 7,7-25. '

4.

UNO SGUARDO

ALLA

COMPOSIZIONE DI RM 8,1-17

A nostro avviso, i vv. 8,1-17 si possono suddividere in quattro piccole unità letterarie. Dopo l 'inizio di 8, l, che come si è visto sembra la propositio origi­ nante la nuova argomentazione, i vv. 2-4 paiono costituire la prima di queste unità. I vv. 2 e 3 sono grammaticalmente connessi tra loro e con l'inizio del capi­ tolo da due y6.Q esplicativi, mentre il v. 4 appare come una frase finale (o conse­ cutiva ) dipendente dal precedente. Oltre che dalla frequenza di alcuni termini ­ oaQ� connessa con Ctf.A.UQ'tla, che non riapparirà sino al v. lO; v6 f.A.oç , utilizzato in seguito solo al v. 7 -, l'unità interna di questi versetti è data dall'utilizzo esclu­ sivo di verbi che, quando sono usati al modo indicativo, hanno un valore tempo­ rale passato: v. 2: ftÀeu8tQwotv oe; v. 3: xa'tÉXQLVev; a ciò può essere aggiunto il

Una legge buona

98

ma

impotente

participio n:tf.L'tVaç l soggetti dei verbi sono inoltre le persone divine: v. 3: ò 8e6ç; v. 2: il VÒJ.toç toù mE'ÙJ.tatoç che, comunque venga inteso, non può che im­ plicare un riferimento allo Spirito Santo. Nel v. 4b appaiono delle novità: l'arti­ colo toiç, in funzione pronominale, e l'espressioni xatà oétQxa e xa'tà JtVEÙJ.ta. Queste espressioni vengono riprese al versetto seguente, con l'articolo questa volta al nominativo plurale, e fungono così da parole-gancio con la nuova unità che inizia al v. 5 e si estende sino al v. 8; i suoi soggetti sono ot e 'tÒ cpQÒVfiJ.tO, e la caratterizzano con una prospettiva generalizzante. Non viene chiarito quale ca­ tegoria di persone sia «Secondo la carne» o «lo Spirito», né a chi appartengano i rispettivi pensieri-progetti. I vocaboli tipici rispetto alle altre unità sono il verbo ElJ.tt e i termini cpQÒVfi!J.a-tw. La menzione di ol xatà o6.Qxa/èv oaQxt ovteç, che ricorre ai vv. 5 e 8, racchiude con una inclusio questa unità. Al v. 9 un bt av­ versativo introduce uno sviluppo che si presenta così immediatamente diverso. Con la sola eccezione costituita dalla fine del v. 9, ove appare il pronome indefi­ nito tlç, il pronome U!J.Etç, che designa gli interlocutori credenti della sezione, continua fino al v. 1 1 , e forma un'altra inclusio tra i vv. 9 e 1 1 . L'espressione èv oaQx\. appare invece come parola-gancio tra i vv. 8 e 9. L'unità interna di questa sezione è data dal pronome UJJ.Etç, che sostituisce il precedente generico ol. e dalla menzione, ripetuta in ogni versetto, di una protasi condizionale et bt, che dona un ritmo particolare alla stessa.54 La transizione alla nuova sezione richiede delle considerazioni un po' più articolate. Al v. 1 2 la già conosciuta espressione aQa oùv segnala sia uno stacco, sia una connessione con ciò che precede. Il carattere di questo versetto, indiret­ tamente esortativo, si comprende facilmente come conseguente dalle afferma­ zioni precedentemente fatte sulla vita secondo la carne e secondo lo Spirito. Il versetto seguente si connette con questo con un yétQ esplicativo. L'affermazione che le condotte di vita secondo la carne e secondo lo Spirito implicano rispettiva­ mente un esito di morte e vita, non desta sorpresa perché tesi analoghe sono state sostenute ripetutamente nel corso del capitolo. La difficoltà inizia al v. 14. Non appare affatto immediata la connessione, qui affermata, tra l'essere con­ dotti dallo Spirito e ressere figli di Dio, nonostante il fatto che un nuovo yétQ esplicativo voglia far apparire tale connessione come relazionata intrinseca­ mente ai versetti precedenti. In realtà il tema della figliolanza è del tutto nuovo nell'argomentazione, e il fatto che sia menzionato frequentemente nei versetti successivi 55 indica senza dubbio che dal v. 14 entra in scena un interesse nuovo. che sembra perlomeno accomunare i vv. 14-17, dove compaiono termini del campo semantico della figliolanza. Tale impressione è però attenuata dalla fre­ quenza in questi versetti del termine 3tVEUJ.ta. Sono già state segnalate le ricor­ renze di questo sostantivo: esso appare cinque volte nei vv. 14-17, undici nei ver­ setti precedenti e poi scompare sino al v. 23, da dove sarà utilizzato altre quattro -.

54 55

Nel

ulol

v.

9 è presente �n'altra frase ipotetica, la cui protasi inizia con la particella ElJtEQ 14.19; utoeeola vv. 15.23; ttxva vv. 16.17.21.

vv.

La

pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

99

volte sino alla fine del capitolo. I pronomi ÙJlEiç-fiJLEiç, inoltre, designano i sog­ getti credenti nei vv. 14-17 come nei vv. 12-13. Al v. 19, invece, entra di scena un nuovo e del tutto inaspettato soggetto, f) X'tlotç. Questo fatto denota indubbia­ mente una novità rispetto a ciò che precede, confermata da tutta una terminolo­ gia pure nuova, caratterizzata da vocaboli esprimenti attesa, orientamento al fu­ turo, gemito e sofferenze al presente ... Tale terminologia può essere compresa come dipendente dall'antitesi tra il vuv xaLQ6ç e il «non ancora» realizzato della salvezza espresso al v. 18. Da tutto ciò emerge l'impressione che Paolo stia qui passando a interessi nuovi, ma la sua oramai conosciuta perizia nell'armonizzare le transizioni da una sezione all'altra non facilita l'identificazione della fine di una pericope e dell'ini­ zio della successiva. Se si considerano i vv. 12-17 come uniti tra loro, e se si dà peso alle novità che appaiono dal v. 14, si potrebbe già considerare il v. 12 inizio di una nuova pericope. 56 Ma a ciò si oppone, oltre il vocabolario che accomuna i vv. 12-13 con quelli precedenti, anche l'espressione aQa o'Ùv con cui inizia il v. 1 2, la quale indica la connessione consequenziale tra tale versetto e l'argomenta­ zione precedente. Se le considerazioni di indole tematica appaiono più rilevanti, la cesura potrebbe essere posta al v. 14. 57 Qui infatti fa la sua comparsa il tema della figliolanza divina dei credenti. Ma ciò non sembra possibile, se non altro a causa della preposizione y6.Q, che invece connette il v. 1 4 con lo sviluppo prece­ dente. Una serie di vocaboli del tutto nuovi compaiono invece a partire dal v. 1 8, motivo per cui la maggioranza dei commentatori è portata a vedervi l 'inizio della nuova pericope. Ma tale considerazione parrebbe nuovamente inficiata dalla presenza anche in questo versetto di un y6.Q esplicativo. Per poter dire una parola conclusiva al riguardo pare ancora necessaria un'analisi che ai dati letterari associ gli esiti dell'analisi retorica dell'argomenta­ zione. Ma questa volta essa esula dai limiti del nostro lavoro. Tuttavia una suffi­ ciente chiarezza può essere arrecata in questo caso dall'analisi delle preposizioni che connettono i vari versetti iniziali di una sezione con ciò che li precede. Così al v. 1 2 1a particella àQa sembra, da una prima osservazione, conservare il suo si56 Tra coloro che considerano una pericope a sé stante i vv. 12-17 cf.: NYGREN, Romans; 325; 8EST, Romans, 93; KASEMANN, Romer, 202; PAULSEN, Romer 8, 11; DUNN, Romans, l 446-447 (ma

nella stessa pagina pare considerare i vv. 1 4-30 come unità!); MoRRIS, Romans, 3 1 1 ; ScHMITHALS, Ro­

mer, 274 (quest'ultimo però contraddicendosi a p. 277, ove considera a sé stanti i vv . 14-17); ELLIOTT,

Romans, 258. Vedono invece iniziare al v. 12 una pericope più estesa BARREIT, Romans, 160- 1 6 1 ; RHYS, Romans, 100-101; CRANFIELD, Romans, I 392; RoLLAND, «Antithèse», 400 ( lo., Écoute, 9 1 ) ; Rossi, «Struttura», 1 19. Ci sia però consentito, nei confronti di quest'ultimo articolo, affermare che è �rammaticalmente assurdo designare UQa ouv come locuzione introduttoria; se la particella àQa lo era stata in 8,1, è perché aveva là assunto un significato traslato. 57 Tra coloro che considerano il v. 14 inizio di pericope cf.: LAGRANGE, Romains, 200; voN DER OsTEN-SACKEN, Romer 8, 226; l. DE LA PoTTERIE, «Le chrétien conduit par l'Esprit dans son chemine­ ment eschatologique)) ' in The Law of the Spirit, 209-241; M. VELLANICKAL, The Divine Sonship of Christians in the Johannine Writings (AnBib 72), Roma 1977, 81 -82; B Y R N E , «Sons of God)) - «Seed of .4braham» (AnBib 83), Roma 1979, 97ss; lo., «Righteousness», 558. Isolano i vv. 14-17: LYONNET, ad Romanos, 203; ZELLER, Romer. 250; S. B RODEU R , The Holy Spirifs Agency in the Resurrection of the Dead (TGTeol 14), Roma 1996, 168. =

100

Una legge buona

ma

impotente

gnificato consequenziale solito, in quanto la terminologia di tale versetto appare strettamente connessa con quella dei versetti precedenti. Non risulta pertanto corretto separare tale versetto dalla pericope precedente per vedervi l 'inizio di una nuova unità letteraria. I vv. 14.18 sono introdotti allo stesso modo, da un y6.Q esplicativo. È riconosciuto il fatto che talvolta però tale congiunzione esprime un nesso causale che non è manifesto, ma deve essere dedotto dal con­ testo, e che altre volte invece perde del tutto il suo significato proprio e può es­ sere paragonata anche a un generico òt. 58 Sarà nostra cura dimostrare come il y6.Q del v. 14 esprima un reale nesso causale, il quale sarà dedotto dalla dinamica dell'argomentazione precedente (cf. V.l .8). Questo fatto unisce senza dubbio tale versetto con la pericope precedente e smentisce le opinioni di quanti lo con­ siderano come inizio di una nuova pericope. Riteniamo invece che il nesso tra il v. 17 e il v. 18 sia molto più blando. È vero che l'antitesi tra le sofferenze del mo­ mento presente e la gloria futura, espressa al v. 18, è anticipata al v. 17, ma è dif­ ficile vedere come il v. 18 spieghi o motivi le affermazioni del versetto prece­ dente. Infatti, da una parte la prospettiva della gloria futura si comprende nel v. 17 in forza della stessa menzione di Cristo, alla cui eredità i credenti sono asso­ ciati, come già aveva fatto intendere lo sviluppo argomentativo precedente (cf. ad es. il v. 1 1 ). D'altra parte le affermazioni del v. 18 sono ripetuta mente riprese e sviluppate in seguito. Questo fatto giustifica l'unione del v. 18 con lo sviluppo a esso successivo e la conseguente comprensione in senso traslato della congiun­ zione y6.Q ivi presente. In ogni caso, proprio perché il nesso causale tra il v. 17 e il v. 18 non risulta immediatamente evidente, l'onus probandi ci sembra debba ri­ cadere su coloro che vogliano sostenere il senso letterale di tale congiunzione. come noi intendiamo fare per il y6.Q che appare al v. 14. In conclusione, ci sembra di poter dire che i vv. 12-17 appaiono connessi lo­ gicamente e appartengono ancora, come ultima sotto-unità letteraria, alla peri­ cope che è iniziata in 8,1, mentre al v. 18 abbia inizio una pericope nuova. I voca­ boli che appaiono in questi versetti e che vengono ripresi ai vv. 18ss fanno certa­ mente considerare l'unità 12-17 anche come un 'unità di transizione. Ma il fatto che le affermazioni lì sostenute necessitino del supporto logico fornito dall'argo­ mentazione precedente, esprimano cioè delle connessioni sulla base delle con­ clusioni precedentemente raggiunte, fa apparire tale unità come ancora unita con lo sviluppo argomentativo previo, alla stregua di una peroratio che intende fissare le ultime acquisizioni concettuali a cui l'argomentazione previa è perve­ nuta. Per considerazioni di tenore dettagliato rimandiamo all'ultimo capitolo. Anticipiamo qui solo il fatto che la menzione della òouÀtla al v. 15, non imme­ diatamente giustificata dal contesto, ricorda le tematiche della pericope 7,7-25. Esso risulta così l'ultimo dei termini della contentio tra le due pericopi. Tale con58 Cf. BAGD, «YÒ.Q», rispettivamente Le e 4. Non vi è discusso il caso di Rm 8,14, mentre 8.1 � e 8,18 vengono citati sotto il primo caso, senza peraltro chiarire quale sia il nesso causale implicito che il contesto in quei casi fornirebbe. A nostro avviso tale nesso è del tutto assente per il v. 1 8, per cui il «YÒ.Q» lì utilizzato va registrato come avente un significato del tutto traslato.

La

pericope 7,7-25: limiti, composizione, contesto

101

siderazione giustifica ulteriormente l'unione dei vv. 12-17 con la pericope prece­ dente. Con ciò le riflessioni sulla composizione della pericope oggetto del nostro studio e sul suo contesto sono giunte a termine. In questo capitolo abbiamo po­ sto le basi per la comprensione di tale pericope, secondo la metodologia prece­ dentemente delineata, in cui analisi letteraria e retorica risultano due momenti necessari di uno stesso circolo ermeneutico in cui l'uno illumina l'altro. L'esame analitico della nostra pericope al contempo si avvale e si propone di verificare i risultati acquisiti da questo capitolo. A questo punto tale esame può indubbia­ mente ritenersi avviato, per cui possiamo senz'altro passare al successivo capi­ tolo della nostra fatica.

Capitolo terzo

La pericope 7,7-25: svil uppo letterario e retorico

0.

INTRODUZIONE

Dopo aver definito i limiti e la studiato la composizione della pericope 7,7-25, applicandovi la retorica sotto l'aspetto della -ra;Lç, possiamo ora dedi­ carci allo studio analitico del suo sviluppo di pensiero, ovvero all'esame dei sin­ goli versetti e della loro concatenazione. La retorica qui viene presa in conside­ razione sotto l'aspetto della ÀtçLç, aspetto che comunque non è fine a se stesso, ma deve anche consentire la verifica delle ipotesi formulate nel capitolo prece­ dente. Tutti i risultati acquisiti in questi capitoli serviranno da base per la disa­ mina degli intenti globali perseguiti dall'argomentazione. e quindi della teologia qui espressa. Tale disamina sarà completata al capitolo successivo.

l.

RM

1.1

v.

7,7-12.13BC

7a

Già precedentemente è stato analizzato questo versetto, determinandone la funzione originante per la successiva argomentazione. Alcune precisazioni qui sono sufficienti: - 6 vòt.toç: la presenza dell'articolo senza dubbio indica che qui viene in­ tesa una legge definita e conosciuta, ovvero quella mosaica, poiché precisamente questa legge è stata ripetutamente posta in connessione con il peccato, come si è infatti già visto, limitandoci per il momento all'interno della sezione 5-8 di Rm (cf. 1.4.2). La legge che in Rm 5,20 viene infatti posta in relazione all'aumento del peccato è la stessa legge che viene affermata essere «sopraggiunta» in un mo­ mento ben definito della storia umana, ovvero con Mosè (5 , 1 3 14; cf. anche Gal 3,17). La legge che appare esercitare una signoria correlata con il peccato in Rm 6,14-15 è la stessa legge mosaica alla quale - e indipendentemente da essa - fa seguito la grazia (5,20-21 ; cf. anche Gal 3,21). Pertanto l'uditore-lettore della presente sezione, di fronte all'enunciato che associa lo scatenarsi delle passioni -

Una legge buona ma impotente

104

peccaminose alla legge (7,4), logicamente è portato a identificare tale legge con quella mosaica, e a ritenere tale identificazione nella presente domanda. - UJ!UQ'tla: la forma della domanda potrebbe essere compresa come en­ diadi, 1 ovvero come utilizzo del sostantivo al posto dell'aggettivo. Ma poiché nella Lettera ai Romani tale sostantivo viene utilizzato di preferenza al singo­ lare, intendendo così il carattere di potenza sovra-personale dello stesso,2 si può intendere anche la domanda così: « È la legge espressione della potenza del pec­ cato?». 3 È probabilmente più saggio tenere a mente entrambe le possibilità d'in­ terpretazione. 1.2

v. 7bc

Vengono qui espressi due enunciati strettamente connessi tra loro da un y6.Q esplicativo e da un parallelismo che appare imperfetto, in quanto la conclu­ sione di 7c è sovrabbondante rispetto alla struttura. Questa infatti appare così delineata: 'tTJV UJ!UQ'tiav 't'flv ... �n:t8u�Lav

oùx eyvwv OÙX fjÒElV

btà VÒJ!OU

Ò VÒJ!Oç ÈÀfyev

.••

In 7b la parola «legge» deve designare ancora la Torah mosaica, nono­ stante la mancanza dell'articolo, in quanto in 7c essa viene cosl qualificata dalla citazione dell'ultimo comandamento delle tavole sinaitiche. Questo ci dice che l'interesse di Paolo è orientato verso la legge mosaica, e che in mancanza di altri inequivocabili segnali testuali si deve assumere che il termine VÒJ.toç in questa ar­ gomentazione designi la Torah. La connessione tra gli emistichi 7a e 7b viene stabilita da un Ò.ÀÀ6. che dovrà essere oggetto di analisi. - oùx eyvwv. Con questo verbo inizia la serie di quelli che hanno l'io come soggetto. Esso appare in una frase formalmente ipotetica, in cui l 'uso del tempo aoristo mira a esprimere un fatto già occorso in un momento preciso del­ l'esistenza del per ora non meglio identificato «iO». In 3,20 è stato espresso un enunciato formalmente simile, che connette la conoscenza della realtà del pec­ cato con la legge.4 A tale enunciato possono essere facilmente ricondotti altri

1

Su tale figura cf. LAUSBERG, Elementi, 164; MoRTARA GARAVELLI, Manuale, 221 . Questa affermazione verrà convenientemente discussa e motivata nel prossimo capitolo. Per ora basti riportare le ricorrenze del termine in Rm: al singolare: 3,9.20; 4.8; 5,12.12.13.13.20.21 ; 6,1 .2.6.6.7.10.1 1 . 1 2. 1 3.14.16.17.18.20.22.23; 7,7.7.8.8.9. 1 1 .13.13.13.14.17.20.23.25; 8,2.3.3.3.10; 14,23; (tot. 45x ) ; al plurale 4,7; 1 1 ,27; (in citazioni) e 7,5 (tot. 3x ) , a cui va aggiunto in 3,25 il plurale di 2

ilJUIQt��a.

Cf. LvoNNET, ad Romanos, 98. Contro R. BuLTMANN, «Romer, 7 und die Anthropologie des Paulus», in H. BoRNKAMM, a cura di, Imago Dei, Fs. G. Kruger, Giessen 1 932, 55, e Io., Theologie, 265, si deve affermare che ciò che viene inteso in questo versetto è l'aspetto cognitivo della legge. Nel versetto precedente, infatti. veniva chiaramente affermata la funzione rivelatrice della legge: essa «parla» affinché anche il giu­ deo conosca la sua realtà di peccatore senza accampare privilegi, in forza del suo «essere nella legge», di fronte alla giustizia di Dio. ·

4

La pericope 7,7-25: sviluppo letterario e retorico

105

che identificano la funzione della legge in quella di definire il peccato come «tra­ sgressione» (JtaQa�aaLç: cf. 4,15; 5,13). Anche Gal 3,19, se si intende la preposi­ zione XUQlV nel suo naturale senso finale e si ritiene sottinteso un verbo conosci­ tivo, esprime il medesimo concetto. Definire il peccato come «trasgressione» si­ gnifica infatti farlo conoscere nella sua indole autentica di realtà opposta a Dio, alla sua realtà e alla sua volontà. Ma, lo si è già visto, Paolo afferma pure l'ina­ spettata tesi che la legge scatena il peccato e il suo incremento (cf. 5,20; 7,5; cf. anche l Cor 15,56 e nuovamente Gal 3,19, se si sottintende un verbo fattitivo ), e anche una tale funzione può essere compresa come «conoscitiva», di una cono­ scenza ovviamente dai contorni tragici: sperimentando il peccato si viene a cono­ scenza della sua realtà. La conoscenza così può rivelarsi di natura esperienziale. Quale tipo di conoscenza viene indicata da questa affermazione? Nono­ stante il richiamo tra questo versetto e il v. 5, ove viene affermata questa se­ conda possibilità, riteniamo che la concisione del presente emistichio non auto­ rizzi per il momento alcuna conclusione certa. La risposta a questa domanda an­ drà cercata nello sviluppo dell'argomentazione, poiché il yO.Q con cui inizia 7c di­ mostra proprio che essa si pone innanzitutto come chiarimento della natura di questa conoscenza. Pertanto è arbitrario accostare il presente enunciato a quello di 3,20 in forza solamente della loro similitudine formale e analizzare di conse­ guenza l'argomentazione a partire da un presunto ruolo positivo della legge nei confronti della rivelazione della natura del peccato. 5 - Ò.ÀÀa. Come noto, questa congiunzione dal forte tono avversativo segue solitamente una negazione, che in questo caso è rappresentata dalla prima rispo­ sta lllJ ytvono alla domanda iniziale. 6 L'accostamento tra negazione e congiun­ zione avversativa si comprende come correctio. 7 Il problema è sapere se Ò.ÀÀa qui si opponga solo alla domanda di 7a�, continuando così il rifiuto espresso dal­ l'esclamazione fl'Ìl ytvol'to, o se si opponga a tutto 7a, domanda e prima risposta negativa comprese, introducendo così qualcosa di nuovo. Entrambe le ipotesi sono possibili. Nel primo caso la correctio interromperebbe definitivamente la li­ nea di ragionamento iniziata dalla domanda di 7a� e inizierebbe un segmento di argomentazione a essa totalmente antitetico. 8 Nel secondo la correctio si ops Contro F.S. GtrrJ AHR. Der Brief an die Romer, Graz-Wien 1923, 223-224; J. Husv - (S. LYONNET) , Épitre aux Romains, Paris 1 957, 243; E. FucHs, «Existentiale Interpretation von Romer, 7,7-12 und 2 1 -23», in ZTK 59( 1 %2), 289; O. Kuss, Der Romerbrief l, Regensburg 1 957, 443-444, BEST, Romans, 8 1 ; BRUCE, Romans, 41; CRANFIELD, Romans, I 348; A. MAILLOT, L ' Épitre aux Ro­ mains. Épitre de l'oecumenisme et théologie de l'histoire, Genève-Paris 1984, 1 86; STUHLMACHER, Ro­ mer, 98; MoR R I S, Romans, 278; J.A.D. WEI M A , «The Function of the Law in Relation to S in>>, in NT 32( 1990), 224-225; FITZMYER, Romans, 466; LEENHARDT, Romains, 104- 1 07. " Cf. BAGD, «ò.U6.», l .a. 7 Cf. LAUSBERG, Elementi, 206-208, semplificato da MORTARA GARAVELLI, Manuale, 242-243. N. SCHNEIDER, Die rhetorische Eigenart der paulinischen Antithese, Ttibingen 1 970, 47-52 l imita in­ •

spiegabilmente la correctio a un sottoinsieme dell'antitesi e non prende in considerazione correc­ ciones i cui componenti non siano antitetici. 8 Così, rimarcando il carattere forte mente avversativo della congiunzione; MuRRAY, Romans, I 249; KAs E M A NN , Romer, 184; CRANFIELD, Romans, I 347-348; WILCKENS, Romer, II 76; MoR RI S , Ro­ mans, 278-279.

106

Una legge buona

ma

impotente

porrebbe anche alla prima negazione e, pur non ripresentando l'ipotesi appena negata, introdurrebbe un'argomentazione in qualche maniera finalizzata a preci­ sare i termini di tale negazione, a «migliorare» il tenore del ragionamento svilup­ pandolo su linee non antitetiche, semplicemente diverse da quelle precedenti.9 La prima ipotesi si accorderebbe soprattutto con il significato teoretico di eyvwv: rivelando la natura del peccato la legge si dimostrerebbe senza dubbio come da esso radicalmente distinta. Ma la debolezza di questa ipotesi consiste nel fatto che è difficile armonizzare immediatamente con essa enunciati tipo quello di 7,5. La seconda ipotesi sarebbe invece più consona a un significato esperienziale del verbo seguente. Ma la sua debolezza consiste nello stesso fatto che in questo caso l'enunciato di 7 ,7b limiterebbe di fatto la negazione così enfaticamente af­ fermata da Paolo in 7,7ay. Ancora una volta, risulta impossibile decidere il senso di questo elemento del versetto senza attendere lo sviluppo di tutta l'argomenta­ zione. Il fatto che ad es. in 3,31 l'espressione Jlll ytvon;o, &"A."A.a . . introduca nel suo insieme uno sviluppo marcatamente antitetico rispetto alla domanda prece­ dente, non autorizza la conclusione che qui Paolo non possa utilizzare la stessa espressione con una sfumatura differente. - oùx ij O ELV et Jlfl ... eÀ.Eyev. Formalmente la frase si presenta come una ipotetica della realtà, tuttavia la legge ha pronunciato le parole «non deside­ rare», smentendo così la premessa della protasi. Pertanto, seguendo l'interpreta­ zione grammaticale più comune, che vede nell'ipotetica della realtà la condi­ zione conforme alla realtà dell'avvenimento, questa condizionale andrebbe con­ siderata irreale nonostante l'assenza di av nell'apodosi. L'altra soluzione è quella di considerare l'ipotetica della realtà come semplicemente esprimente la realtà della connessione logica tra premessa e conclusione, senza preoccuparsi della sua realizzabilità effettiva. 1° Comunque essa vada intesa, la sua compren­ sione e quella della condizionale dell'emistichio precedente, in forza del paralle­ lismo tra le due, sembra andare di pari passo. Proprio dal parallelismo con il precedente eyvwv risulta che anche il piuc­ cheperfetto di forma e imperfetto di senso ij O ELV dell'apodosi esprime un fatto avventlto in un momento definito del passato. Questa interpretazione trova ulte­ riore conferma dalla successiva presenza di un tempo aoristo al v. 8a. Benché in.

9 Considerazioni simili sono presentate da KO MM E L Romer 7, 43.47; LvoNNET, ad Romanos, 98; A. VAN DOLMEN, Die Theologie des Gesetzes bei Paulus, Stuttgart 1968, 107; ScHLIER, Romerbrief, 221 ; MICHEL, Romer, 226; D.J. Moo, «lsrael and Paul in Romans 7,7-12», in NTS 32(1986). 130 nota l; DfAz-RooELAS, Ley, 149-1 50. 1° Cf. BD rispettivamente § 360.1 e 371 . La presente frase viene compresa nella prima ipotesi (cf. nota 2). In tale ipotesi, va notato come la presenza della particella civ nell'apodosi non venga più considerata indispensabile nel greco ellenistico: cf. BO § 360.1 e ZERWJCK § 319: un chiaro esempio paolino di questo è rappresentato da Gal 4,15. Che le frasi ipotetiche della realtà in Paolo possano essere adeguatamente comprese come affermanti la interconnessione tra premessa e conclusione è comunque smentito dal v. 16 della presente pericope, ove, come si vedrà (cf. 111.2.4), tale connes­ sione è oltremodo sbiadita e l'accento dell'affermazione verte sull'effettiva realizzazione dell'av­ venimento espresso dalla protasi: «se, come ho appena espresso, veramente io faccio ciò che non vo­ glio.. ». ,

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La pericope 7,7-25: sviluppo letterario e retorico

107

nanzitutto abbia valore di imperfetto, è risaputo che il piuccheperfetto di oiba - non avendo questo verbo aoristo proprio -, esprime tutti i tempi del passato e può anche acquisire significati che altri verbi esprimerebbero con altri tempi. Quindi può benissimo essere compreso alla stregua di aoristo quando un deter­ minato contesto, come il presente, lo richieda. Il verbo EÀ.EyEv della protasi in­ vece pare doversi interpretare come autentico imperfetto. Tuttavia la protasi può esprimere un'azione ripetuta nel passato - la legge, perlomeno dal mo­ mento della sua promulgazione sinaitica, dice sempre di «non desiderare», e nel passato, come ovvio, lo ha fatto ripetutamente -, pur in presenza di un'apodosi in cui viene riferito un avvenimento più circostanziato - la conoscenza del desi­ derio è avvenuta per rio al momento preciso del suo incontro con la parola della legge -. In ogni caso, appare qui importante notare che in queste frasi l'imper­ fetto è temporalmente ambiguo, e che pertanto non risulta lecito trarre conclu­ sioni sul carattere iterato o continuato sino al presente della conoscenza menzio­ nata in questo versetto. 1 1 è:rt t8u�lav - è:rtt8u�t;oEtç. La precedente affermazione viene motivata dal fatto che la legge, pronunciando il comandamento «non desiderare» (Es 20,17; Dt 5,21 LXX), fa conoscere all'io il desiderio. Il fatto che il sostantivo èrtt8u�la appaia in parallelo al precedente à.�ag-r(a come oggetto della cono­ scenza dell'io in una frase che si presenta come esplicativa della precedente fa ri­ tenere questo sostantivo come strettamente correlato con il primo, come appar­ tenente al Wortfeld del peccato. Ma di che genere è tale appartenenza? Alcuni hanno ritenuto che è:rtt8U1J.la designi qui un particolare desiderio di una realtà in sé peccaminosa, quale quella sessuale o quella delrorgoglio etnico-religioso, '2 ma non c'è nulla nel testo che autorizzi simili conclusioni. Anzi, esse vengono smentite da due considerazioni. Innanzitutto Paolo, a differenza del testo vete­ rotestamentario, riporta la proibizione del desiderio senza specificarne gli og­ getti, secondariamente al verso successivo la stessa menzione di «rtaoav è:rrt8u­ f.1lav » impedisce di ritenere che Paolo abbia qui in vista un unico specifico desi­ derio. Piuttosto, il fatto che sia il sostantivo sia il verbo siano usati senza alcun oggetto che li specifichi può indicare che Paolo stia qui radicalizzando il decimo comandamento e alludendo a un qualcosa di originario, a un qualcosa che in nuce rivela ed esprime l'essenza stessa dell'à.flaQ'tla. Questo senso potrebbe tro­ vare una giustificazione nel fatto che già alcuni scritti giudaici utilizzano questi vocaboli senza ulteriori specificazioni, giungendo an c:he ad affermare esplicita-

11

Cf. BD § 360.3. Contro CRANFIELD, Romans, I 348; DuNN, Romans, I 379. Per la prima designazione cf. E. LoH M EYER Probleme paulinischer Theologie, Stuttgart 1955, 121-122; R.H. GUNDRY. «The Moral Frustration before Conversion», in D.A. HAGNER - M.J. HARRIS, a cura di, Pauline studies Fs. F. F. Bruce, Exeter 1980. 228-245; F. WATSON, Pau/, Judaism and the Gen ti/es A Sociologica/ Approach (SNTSMS 56), Cambridge 1 986, 151ss; per la seconda cf. R. HAMERTON-KELLY, «Sacred Violence and Sinful Desire», in R.T. Fo RTN A - B.R. GAVENTA, a cura di, The Conversation Continues, Fs. J. L. Martyn, Nashville 1990, 38-41 .49-50; A.F. SEGAL, Pau/ the Convert, New Haven-London 1 990, 229; M.D. NANos, The Mistery of Romans, Minneapolis 1 996, 358ss. 12

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1 08

Una legge buona

ma

impotente

mente che l'origine dei peccati consiste proprio nell' èn:t8u�Jla. 13 Essa esprime­ rebbe quindi il desiderio dell'uomo di autodeterminare la propria esistenza in modo indipendente da Dio, «l'autoaffermazione dell'uomo nei confronti di Dio», 14 e il suo divieto corrisponderebbe a una «espressione germinale della vo­ lontà divina» ! 5 Tali affermazioni richiedono tuttavia di essere precisate. Innanzi tutto biso­ gna dire che questo può essere il senso assunto da questi vocaboli, non lo è neces­ sariamente. Sia nell'uso profano, sia in quello giudaico, sia in quello neotesta­ mentario essi appaiono designare innanzitutto una realtà neutra, che può essere di volta in volta connotata positivamente o negativamente a seconda del suo og­ getto o della sua origine. 16 Tale è pure l'uso che ne fa Paolo. In Fil l ,23 e l Ts 2,17 il sostantivo è infatti neutro e riferito a una realtà positiva. In Gal 5,17, dopo aver utilizzato il verbo è1n8u1JÉW per esprimere il desiderare della carne, Paolo lascia intendere che lo stesso verbo può essere utilizzato per esprimere quello dello Spirito. Il fatto stesso che, pur utilizzando prevalentemente sia il verbo sia il sostantivo con un 'accezione negativa, egli senta in genere il bisogno di specifi­ carla o con aggettivi o dicendo gli oggetti o l'origine dimostra, in breve, che essi non sono in sé connotati. 17 Nel nostro testo tali specificazioni mancano, ma il carattere negativo del desiderio appare dal fatto che esso sia proibito dalla legge, che sia contrario a ciò che la legge «dice)); e Paolo non smentisce mai ciò che la legge «dice)), anzi, lo utilizza a conferma delle proprie argomentazioni. 18 Possiamo a questo punto in­ tuire che per Paolo qui la questione non è di stigmatizzare alcuni definiti com­ portamenti peccaminosi, ma semplicemente di ricordare quello che è l'atteggia­ mento fondamentale richiesto dalla legge nella relazione tra uomo e Dio, l'obbe­ dienza. Se l'io si ritrova in un atteggiamento opposto rispetto a quello richiesto dalla legge, si rivela con ciò stesso suo trasgressore, anche se di per sé in questa pericope quest'ultimo sostantivo non viene utilizzato. 19 In quanto connotati in 13 Cf. rispettivamente FILONE , De Dee. 142.173; 4Mac 2,6 e ApocMos(gr) 1 9,3; Gc 1,1 5 . Per un'esaustiva rassegna su tali problematiche cf. DiAz-RooELAS, Ley, 152-1 54. 14 CRANFIELD, Romans, I 349. In modo analogo A. ScHLATIER, Go ttes Gerechtigkeit. Ein Kom­ mentar zum Romerbrief, Stuttgart 2 1952, 232-233; BAR RETI, Romans, 141; S. LvoNNET, « .. Tu ne con­ voiteras pas" (Rom. VII,7)», in Neotestamentica et Patristica, Fs. O. Cullmann (NTS 6), Leiden 1962. 158ss; Io ., ad Romanos 102-106; MICHEL, Romer, 226; SruHLMACHER, Romer, 99; MoRRis, Romans. 279; DuNN, Romans, I 380; FITZMYER, Romans 466; LEENHARDT, Romains, 1 07. 1 5 DfAz-RoDELAS, Ley, 153; cf. anche W. BtNDEMANN, Theologie im Dialog. Ein traditionsge­ schichtlicher Kommentar zu Romer, 1-1 1 , Leipzig 1992, 213-214. 16 Cf. F. BOcHsEL, «bneu�La», in G LNT IV, 593-602. Per ciò stesso risulta discutibile la for­ mulazione di una «teologia dell'bneu!J.ia», come invece fa anche il Btichsel, quasi che il termine sia in sé connotato negativamente. 17 bn9u!J.la: Rm 1 ,24; 6 1 2; 7,7.8; 13 , 14; Gal 5,16.24; Fil 1 ,23; 1Ts 2,17; 4,5; bneu�w: Rm 7,7; 1 3,9; 1Cor 1 0,6; Gal 5,17. Solo in Rm 7,7-8 e 13,14 si hanno usi assoluti, senza specificazioni. in 1 Cor 10,6 dopo il verbo si deve ritenere sottinteso il neutro sostantivato xaxòv, espresso immediatamente prima. 18 Cf. Rm 3 , 19; lCor 9,8; 14,34; Gal 4 21 . 19 Cf. WILCKENS, Romer, II 80 e Rechtfertigung als Freiheit. Pa uluss tudien , Neukirchen 1974. 83-34. ,

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La pericope

7,7-25:

sviluppo letterario e retorico

109

questo modo negativo dal contesto presente i termini è3tt6uJ.tla-èn:t9uJJ.ÉW pos­ sono quindi indicare qui quell'atteggiamento di autosufficienza che è in nuce l'a­ spetto radicale del peccato. Tutta la storia biblica ci presenta infatti il peccato come un situarsi al di fuori dell'Alleanza, di un rapporto con il Dio creatore e li­ beratore. Si può anche leggere in tali termini un riferimento all'interiorità del­ l'uomo e alla sua volontà.20 Tuttavia nei versetti immediatamente successivi si vedrà come Paolo non si dimostri interessato a una descrizione psicologica, non illustra cioè il sorgere e lo svilupparsi del desiderio nel cuore dell'uomo. Per­ tanto ci si dovrà interrogare anche sul senso di questa allusione all'interiorità umana. Ciò che invece si deve decisamente escludere è l'interpretazione in senso nomistico dell'€nt8Uf.!la. Tale interpretazione, sostenuta e diffusa da R. Bult­ mann, ha influenzato, come ben noto, per molto tempo l'esegesi della nostra pe­ ricope e di Paolo in generale. Ritenendo che l 'è3tL8Uf.!ta non si riferisca ali 'inte­ riorità della persona - al pari di altri termini quali 8tÀ.w o > come originato dal desiderio di autosufficienza e di desiderio a sua volta originato dal «peccato» si utilizza il concetto di «peccato» con delle acce­ zioni diverse. Nel primo caso, infatti. come «peccato» verrebbe designato un atto della persona, magari un suo atteggiamento fondamentale, ma comunque circo­ scritto nella sfera della soggettività, nel secondo, invece, il peccato è visto come potenza, come un soggetto autonomo e prioritario all'agire stesso dell'uomo. La differenza di prospettiva tra questo emistichio e, per es., Gc 1,15 è a livello di ri­ cerca delle cause del peccato. Giacomo si accontenta, con la sua affermazione, di rimanere all'interno della sfera personale. Paolo non smentisce questa afferma­ zione, sembra quasi darla per scontata, però riflette su un aspetto che è priorita­ rio alla stretta cerchia della soggettività umana e su questa influente. In questo procedimento giunge alla descrizione del peccato come agente attivo, come po­ tenza - fatto che richiederà un 'ulteriore interpretazione -. Paolo comunque non nega il fatto che il «peccato-atto» sia espressione del desiderio radicale di autosufficienza dell'uomo, ma semplicemente ne ricerca cause più profonde. La sua successiva argomentazione, imperniata, lo ricordiamo, sul rapporto tra legge e peccato, non sviluppando questi aspetti dell'interiorità psicologica dell'uomo si dimostrerà proprio interessata a questo livello di causalità più profonde rispetto alla mera soggettività. Un ulteriore problema deve essere qui segnalato in attesa di una successiva risposta. Paolo ha utilizzato fin qui due aoristi - v. 7: Eyvwv; v. 8: x.a'tELQyétoa'to -, facendo così supporre di stare parlando di un avvenimento preciso nel suo passato. Tuttavia non ci offre alcun elemento per determinare la circostanza a cui esso si riferisce, come non spiega in realtà perché la legge, proibendolo, su­ sciti il desiderio. Ciò che risulta chiaro è solo il rilievo assunto in tale dinamica dal peccato-potenza. Uno sforzo interpretativo dei problemi ancora irrisolti verrà richiesto alla fine dell'esame attento di tutta l'argomentazione.

26 Cf. DfAz-RonELAS, Ley, 1 54-155, che è l'unico autore a notare lucidamente questo sposta­ mento di prospettiva ma non ne dà alcuna spiegazione. Il fatto risulta singolare se si pensa che egli sottolinea con particolare decisione il carattere radicale dell'bn6uf.1la, come precedentemente ripor­ tato.

112

Una legge buona ma impotente

Ciò che invece appare in maniera inequivocabile fin dall'emistichio Sa, e che risulterà di fondamentale importanza per la comprensione dell'argomenta­ zione paolina, è la definizione del rapporto tra legge e peccato in termini dram­ matici di conoscenza esperienziale, non teoretica. Il comandamento della legge è lo strumento per mezzo del quale il peccato agisce, si fa conoscere come opera­ tivo, non lo strumento di una rivelazione intellettuale della natura dello stesso. Una conoscenza di tale tipo è dal nostro testo intesa solamente in quanto impli­ cata dalla pratica attiva del peccato di cui la legge è strumento: sperimentando il peccato io conosco anche la sua realtà. Il btà t�ç èvtoÀ�ç di Sa riprende il òtà tou VÒf..lOU del v. 5, ove è chiaramente intesa una dinamica di tipo esperienziale. Siccome il v. Sa è il proseguimento del v. 7c, che a sua volta è spiegazione della conoscenza del peccato btà VOflOU affermata in 7b, esso chiarisce di conseguenza il tipo di conoscenza là enunciato: la legge, per mezzo del suo comandamento, viene implicata in una dinamica conoscitiva di tipo esperienziale del peccato. In questo modo si chiarisce il significato di Ò.À.À.a all'inizio del v. 7b. Questa con­ giunzione è da intendersi come «piuttosto», «tuttavia». La legge non è affatto peccato, tuttavia è in una certa qual relazione con lo stesso, una relazione di tipo strumentale, poiché proprio per mezzo del comandamento della legge l'io è giunto alla conoscenza pratica del peccato. Si può facilmente constatare come una simile affermazione non spieghi in realtà la negazione alla domanda del v. 7aa, anzi, sembri quasi ribadire le espressioni che hanno portato a una simile do­ manda. Perciò viene immediatamente posto il problema se Paolo persegua vera­ mente con coerenza l'intenzione, da lui manifestata in 7a, di negare l'equipara­ zione tra legge e peccato. Molte sono le considerazioni offerte dagli autori a que­ sto riguardo, e dovranno essere valutate con attenzione, in quanto qui si tocca la problematica centrale della nostra sezione. Ci basti a questo punto aver posto il problema e aver chiarito che la conoscenza che viene qui intesa è quella di na­ tura esperienziale. 27 I versetti successivi contribuiscono a radicalizzare queste problematiche. 1 .4

vv.

8b-10a

Si nota innanzitutto un chiasmo tra i vv. Sb-9a, determinato dalla ripeti­ zione, agli estremi, del sintagma «senza legge», e dall'antitesi centrale tra l'ag­ gettivo «morto» e il verbo «vivere>>. Questo chiasmo può essere così rappresen­ tato:

27 Contro HOBNER, Gesetz. 63-64; DuNN, Romans, I 378; DfAz-RooELAS, Ley, 1 56. che inten­ dono in ugual modo presente un aspetto teoretico e uno pratico della conoscenza in questione, e tutti gli autori citati in nota 5. Felice era già la formulazione di P. BLASER, Das Gesetz bei Paulus (NTAbh 19), MOnster 1 94 1 , 125: «Questa conoscenza dal tenore speculativo viene in qualche modo compresa. Tuttavia l'accento cade non sul momento speculativo, quanto su quello pratico dell'apprendere». Per quanto riguarda 7,7b KOMMEL, Romer 7, 45, porta 2Cor 5,16 come esempio tipico di uso paolino del verbo ytvwoxw con senso esperienziale.

La pericope a

7,7-25:

sviluppo letterario e retorico

1 13

XWQ\.ç yap VÒJ.lOU

b llJ!GQ'tLa VEXQU. b1 èyw �È e�wv

a1 XWQÌç VÒJ.lOU JtO'tÉ

I presenti versetti sono uniti poi ai successivi da una reversio, ovvero da un chiasmo imperfetto che ripercorre a ritroso le affermazioni iniziali modifican­ done le valenze. Tale composizione può essere così rappresentata: a

xwQìç yap v6J.tou

b llJ!GQ'ttQ VEXQQ. c tyw �È e�wv d XWQ\.ç VOJ.lOU JtO'tÉ: d1 €ì.. 8 ouo11ç lJè -rf)ç €vtoA.f)ç C1

� CtJ.lGQ'tlG ÙvÉtfiOEV,

b1 tyw �è àn é 9avov.2H

Il risultato ottenuto da una simile composizione è marcatamente antitetico. Vengono infatti confrontate due situazioni opposte, quella «senza legge» e quella determinata dalla venuta del comandamento, con due effetti antitetici ri­ guardo all'io e al peccato, ovvero morte per il peccato e vita per l'io nella prima situazione e, in maniera contraria, vita per il peccato e morte per l'io nella se­ conda. Esse sono sempre introdotte dalla congiunzione �É che esprime tali diffe­ renze di prospettiva e che assume pertanto un chiaro significato antitetico. Da tutto ciò risulta che tra i vari termini della composizione viene a instaurarsi una marcata relazione di antonimie e sinonimie che determinano il significato degli stessi, relazione all'interno della quale gli stessi termini andranno di conse­ guenza analizzati. - vòt-toç - tvtoÀT). La menzione del comandamento fa pensare immediata­ mente a quello espresso al v. 7c. Tuttavia l'affermazione di Paolo acquista senso solamente se in tale comandamento viene vista in qualche modo rendersi pre­ sente tutta la legge, proprio perché la sua «Venuta» si contrappone alla situa­ zione precedente di assenza della legge in toto. 29 Ci sembra cioè importante ri­ marcare come tale comandamento costituisca in un certo modo un'espressione paradigmatica dell'agire stesso della legge. Esso cioè non rappresenta un'ecce-

28 DfAz-RoDELAS, Ley, 1 39-140, preferisce vedere una composizione in cui il sintagma H.6ouo11ç ÒÈ -r�ç tvtoÀ.�ç viene isolato e posto in relazione con il successivo v. l Ob. Tuttavia ciò non ci appare corretto, perché il bt avversativo con cui tale sintagma viene introdotto lo pone in una rela­ zione antitetica con ciò che precede, precisamente con la situazione XWQ\.ç VÒf!OU no'tt. Il fatto che esso sia affermato una sola volta, e che quindi l'elemento «a)) dello schema sia senza corrispondente nella seconda parte dello stesso, e il fatto che il v. 10 prosegua con affermazioni che non si lasciano inquadrare in esso sono gli elementi che fanno definire la presente composizione come reversio non completa più che veramente chiastica. Su tali figure cf. MoRTARA GARAVELLI, Manuale, 247-249. 29 Cf. G. ScHRENK, «"tvtoÀ.if')) C. Il giudizio dell'tV'toÀ.T] in Paolo)), in GLNT, III, 597-605.

114

Una legge buona

ma

impotente

zione o una peculiarità della legge - ciò che di per sé potrebbe -, ma invece ciò che viene riferito al comandamento pare aver valore per tutta la legge. Pertanto l'attenzione dell'argomentazione non è diretta verso il singolo precetto, ma piut­ tosto sembra continuare a vertere sulla legge considerata nella sua globalità, confermando così ciò che appariva già dal v. 8a. Tuttavia nulla autorizza a dire, allo stato presente dell'argomentazione, che il termine èvroÀT] connota negativa­ mente la legge in quanto estrinseca all'uomo. 30 Notiamo infine che se ai vv. 8b-9a viene rappresentata una condizione durativa, quasi una regola di tenore gene­ rale - «senza legge»: si può sottintendere un arco di tempo prolungato -, il verbo utilizzato in 9b esprime un avvenimento determinato, una definita «ve­ nuta» del comandamento. - &J.taQ'tla vexQét - &vt�f1oev. 31 La prima affermazione sottintende ov­ viamente la copula to'ttv. 32 L'aggettivo vexQ6ç può avere il significato traslato di «senza vita» (cf. Sap 15,5; EpBarn 12,7), e, quindi, se applicato a cose o entità astratte, di «senza opere, inattivo» (cf. Gc 2,17 26b ) . In questo senso traslato pare essere stato utilizzato da Paolo in 6,1 1 , ove, seguito dal dativo di svantaggio l'ij &J.taQ'tL{l, pare proprio indicare la oramai sopraggiunta irrealizzabilità della relazione dei credenti con il peccato, la non operatività che quest'ultimo esercita su di essi. Definire qui il peccato vexQa, in modo analogo, significa definirlo come «senza operatività, senza attività)). Al contrario di 6,1 1 , però, l'aggettivo non qualifica i credenti nei confronti del peccato, ma il peccato in sé. Benché in­ fatti una tale affermazione venga immediatamente seguita da una riguardante l 'io, in 8b non viene detto che il peccato sia non operativo nei confronti sola­ mente dell'io, ma vexQét nella sua globalità. Ancora, se il contesto rappresentato da tutto il c. 6 spinge a vedere nell'affermazione vexQoùç 'tij ÒJ.tUQtlg il seguito di un avvenimento preciso che ha coinvolto chi un tempo aveva avuto questa rela­ zione con il peccato (cf. vv. 2.7.10), qui sembra piuttosto essere indicato uno stato durativo o una condizione generale ( èotlv) senza ulteriori specificazioni. Non appare invece giustificato affermare che l'aggettivo vexQa designi il peccato non conosciuto nei suoi effetti mortifere3 o non definito ancora come trasgres­ sione e non imputato come colpa, in modo analogo a quanto affermato ad es. in 5,13 ( ÒJ.LUQ'tla ÒÈ oùx tÀÀoyei:'taL J.l'Ìl ovroç VÒJ.tOU ) .34 Se infatti abbiamo più sopra .

30

Contro

FuCHs, Freiheit, 65. La proposta di A. MAILLOT, «Notule sur Romains 7,7-8ss», in Foi et Vie 84( 1 985), 2 1 , di tra­ durre lttJ.aQ'ti.a senza articolo con «colpevolezza» (culpabilité) è totalmente insostenibile, poiché la presente composizione suppone che al v. 8b il termine senza articolo e al v. 9b il termine con articolo siano del tutto sinonimi. 32 Due manoscritti del nono secolo esplicitano il carattere passat o di tale affermazione utiliz­ zando invece il verbo flv. 33 Contro FucHs, «Interpretation», 9 1 . 34 Contro KO MM EL , Romer 7, 50; P. BENOIT, «La loi e t la croix d'apres Saint Paul», in RB 41 ( 1 938), 487; GAUGLER, Romer, 201 ; ScHLATTER. Romerbrief, 236; H.J. ScHOEPS , Paulus. Die Theologie des Apostels im Lichte der judischen Religionsgeschichte, Ttibingen 1 959, 200-201 ; HoMMEL, «7. Kapi­ tel», 1 0 1 - 1 02; MICHEL, Romer. 227, 49-50; HOBNER, Gesetz, 68; J. LAMBRECHT, The Wretched «l» and lts Liberation, Louvain 1 992, 46. 31

La

pericope 7,7-25: sviluppo letterario e retorico

1 15

sostenuto che l'io, desiderando, si è rivelato trasgressore della legge che gli or­ dina di non desiderare, abbiamo anche chiarito che il testo non sottolinea questi aspetti. In nessun modo, infatti, qui si afferma la funzione noetica della legge, poiché essa appare come strumento di un processo attivo da parte del peccato (che attraverso la legge si manifesta), non conoscitivo da parte del soggetto (che attraverso la legge conoscerebbe che il peccato è trasgressione e che lui è di conse­

guenza colpevole). Il presente sin tagma va letto come esplicativo e con tin ua­ zione di 8a, non è corretto indurre in esso altri significati. Si vedrà come i versetti immediatamente successivi proseguiranno su questo tenore. Di nuovo, al contrario di una situazione dal tenore generalizzante descritta in 8b, la sua contrapposizione antitetica in 9b mette in scena un avvenimento preciso, come tale espresso dall'aoristo &vél;t')oEv. Ma qual è il significato preciso di questo verbo? Se il prefisso &v- viene interpretato letteralmente, esso deve es­ sere tradotto con «riprese vita», presupponendo così un momento in cui il pec­ cato, anteriormente alla sua situazione prima descritta come VEKQét, era in qual­ che maniera vivo. Tuttavia non c'è nulla, nel presente testo, che possa far presa­ gire come reale tale momento. Nel Nuovo Testamento, oltre a questa ricorrenza, esso viene impiegato solo in Le 15,24, con un significato metaforico in cui il senso letterale del prefisso può essere comunque ritenuto. Per ciò che riguarda il linguaggio paolino, è illuminante constatare che in Rm 14,9, ove sarebbe proprio richiesto questo verbo nel suo significato letterale,35 viene invece adoperato il semplice aoristo E�rtotv, segno del fatto che per Paolo una distinzione tra i due verbi perlomeno non è sempre presente, per cui ci si può chiedere se nell'unica volta in cui viene utilizzato da Paolo esso veramente esprima il suo significato letterale. Il verbo potrebbe essere, come altra possibilità, tradotto con un «venne alla vita». In questo caso il prefisso &v- perderebbe del tutto il proprio significato al pari di altri verbi composti (es. : àva�À.ÉJtoo Gv 9,1 1 ; 15,18). Ma rimane aperto un problema: perché Paolo, non volendo rimarcare il ca­ rattere di ripresa di ciò che già era precedente, avrebbe qui adoperato un verbo così insolito? Forse è opportuno pensare che egli, pur non avendo inteso espri­ mere il significato letterale di «tornare a vivere», abbia volutamente ricercato e adoperato un 'espressione in qualche maniera più sfumata rispetto al verbo �étw. Se infatti avesse detto che con la venuta del comandamento il peccato «prese a vivere», senza sfumare in alcun modo tale espressione, ne sarebbe conseguito che il comandamento, e con esso la legge, risulterebbero causa del peccato diret­ tamente connessa con il suo effetto, suo fomite inseparabile. Da qui ad affer­ mare una diretta connessione tra legge e peccato il passo è breve e praticamente necessario, per cui la negazione alla domanda di 7,7a con cui è iniziata l'argo­ mentazione verrebbe a perdere ogni plausibilità logica: la legge verrebbe defini35 Infatti un esiguo numero di manoscritti minuscoli, oltre a immettere nel testo il verbo àvÉO'tTJ, lo fanno seguire prop rio dal presente aoristo. L'esiguità e la secondarietà dei testimoni, unite alla considerazione che questa è una lectio facilior, ovviamente fanno concludere che essa è inattendibile.

1 16

Una legge huona

ma

impotente

tivamente posta in una connessione inscindibile con il peccato. Sembra pertanto che, con l'utilizzo di questo verbo, Paolo abbia voluto evitare in qualche modo tale accostamento troppo marcato tra legge e peccato e suggerire che il peccato ha una certa consistenza propria, indipendente dal comandamento. 36 Di che ge­ nere sia però tale consistenza, quando il peccato possa essere stato definito v e­ KQ>, in GLNT, III, 1478- 1 480. 53 Contro HOBNER, Gesetz, 64, che sfuma totalmente le considerazioni sul comandamento per evidenziarne il ruolo che in questo processo viene assunto dal peccato. È vero che artefice dello stra­ volgimento del comandamento è il peccato, ma in lOb esso non è nemmeno nominato, l'attenzione dell'ar�omentazione è qui tutta incentrata sul comandamento. Cf. BuLTMANN, «Anthropologie», 208ss; FucHs, «Freiheit», 64; ScHLATTER, Romerbrief, 237; KASEMANN, Romer, 1 88: ScHUER, Romerbrief. 225. Per S. VoLLENWEIDER, Freiheit als neue Schopfung (FRLANT 147), Gottingen 1989, 362, la qualifica di èm.9u!J.ia diviene inspiegabilmente nomistica a partire da questo punto dell'argomentazione. 55 Così VAN DuLMEN, Theo/ogie, 1 10; WESTERHOLM," >, 238 ; DfAz-RoDELAS, Ley, 159. ·

La pericope 7,7-25: sviluppo letterario e retorico 1.6

121

v. 11

Se Ja considerazione espressa nell'emistichio precedente appariva come conseguenza tirata dai fatti narrati in 8b-10a, un y6.Q esplicativo ne introduce, in questo versetto, una ulteriore motivazione. La prima parte di esso ricalca lette­ ralmente il v. Sa, alla spiegazione del quale perciò rimandiamo. Il seguito di esso si presenta in un marcato parallelismo, che rafforza l'impressione che il sintagma Òlà 'tf]ç tv'toAf]ç vada unito al verbo a esso seguente - motivando ulteriormente il fatto che un'analoga costruzione debba valere pure per 8a -. Tale paralleli­ smo può essere così raffigurato: blà 't�ç tvtoA.f]ç xa\. òl' aù't�ç

t;fiXO.Ttloév IJE Ù1tÉX'tf:lVfV.

Si deve riconoscere che l'idea dell'inganno non è giustificata dal prece­ dente sviluppo argomentativo. Certo, può essere arguita dallo stravolgimento operato ai danni del comandamento, il quale si vede distorta l'intenzione origi­ naria orientata alla vita, nell'esito a questa opposto, la morte. Tale processo può sottintendere un «inganno)), una «falsificazione)), ma questa connessione logica appare piuttosto abbozzata, certamente non esplicita. Il motivo della morte in­ vece è ripreso da ciò che veniva chiaramente espresso in Sb-10, in cui è stato detto che l'effetto ultimo del manifestarsi del peccato è stata la morte dell'io, e così viene completata l'affermazione di 8a: l'effetto ultimo dell' €J"neutJla ope­ rata dal peccato è la morte. Da tutto questo risulta che, nonostante il suo inizio di tenore esplicativo, il versetto in realtà non aggiunge nuove motivazioni a ciò che è già stato affermato ai vv. 8b-10, ma si limita a ribadirlo. Il peccato vi conti­ nua infatti ad apparire quel soggetto attivo che opera. ultimamente, anche la morte dell'io, la quale, pertanto, non può in alcuna maniera essere addebitata alla legge, ma appare come Ò1pmvLa del peccato. 56 In tale processo, però, il co­ mandamento, e con esso, in forza dell'argomentazione svolta nei versetti prece­ denti, la legge, appaiono fornire l'occasione al peccato di manifestarsi, cosicché di questo si può dire che opera per mezzo - cf. il duplice bu1 seguito dal geni­ tivo - del comandamento. 1.7

v. 12

Il versetto viene introdotto da un rome consecutivo che indurrebbe a rite­ nere questa come la conclusione dell'argomentazione precedente e non solo di

56 Non si può pertanto in nessun modo convenire con gli autori che invocano nella presente argomentazione un ruolo condannatorio della legge nei confronti del peccatore, poiché il v. 1 1 chia­ risce come la morte sia opera diretta del peccato, non frutto di una sanzione della legge; contro AL­ THAus, Ròmer, 66; BENOIT, «Loi», 490; SruHLMACHER, Romer. 99; H. MERKLEIN, Studien zu Jesus und Paulus (WUNT 43), Tiibingen 1987, lOss; THEOBALD, Romerbrief, I 2 1 1 .

122

Una legge buona

ma

impotente

parte di essa. Si è infatti visto come gli ultimi versetti precedenti non hanno ag­ giunto in realtà delle specificazioni particolari rispetto a quelli a essi anteriori. In realtà questa conclusione presenta alcuni problemi che vanno rilevati. - JJ.ÉV. Tale particella non è seguita da nessuna a essa correlata. Secondo le regole grammaticali si aspetterebbe infatti che il pensiero continuasse con un'altra congiunzione corrispettiva a JJ.ÉV. Questa non può essere il successivo xai., che semplicemente unisce i sostantivi VÒJ-toç ed èvtoÀT} all'interno di una frase globalmente introdotta da JJ.ÉV, cosicché questo stesso fenomeno grammati­ cale dell'anacoluto fa apparire la conclusione in qualche modo incompleta. Paolo usa diciotto volte questa particella nella Lettera ai Romani. 57 Il più delle volte la fa seguire correttamente dalla particella òt, una volta da oùv per sottoli­ neare il contrasto, una volta da oùv, alcune volte senza particella seguente, ma in un uso conforme alle modalità grammaticali greche, per enfatizzare la parola im­ mediatamente precedente (1 ,8; 3,2; 10,1). Certo, facendo mancare la particella correlativa al JJ.ÉV, Paolo talvolta dà luogo a uno stile piuttosto brusco, come ad es. in 3,2, ove tale effetto, in un periodare costellato da un succedersi di do­ mande a breve distanza, appare comunque ricercato e voluto. Viene pertanto da chiedersi se anche in 7,12 questo anacoluto grammaticale sia da interpretare non come disattenzione, ma come reticentia o aposiopesi, ovvero come una figura re­ torica che consiste nel sottacere alcuni aspetti del ragionamento che vengono co­ munque dati a intendere in modo allusivo per ottenere l'ulteriore effetto di en­ fasi - qui intesa non nel senso moderno di espressione rimarcata di alcuni dati. che in realtà non sono manifestamente espressi, ma nel senso retorico di pre­ gnanza di significato -.58 Il proseguimento dell'analisi permetterà di valutare quest'ipotesi. - VÒJJ.Oç - èvtoÀT}. La menzione di ambedue i sostantivi conferma che ciò che sinora è stato detto a riguardo del comandamento va inteso come riferentesi a tutta la legge mosaica, nominata tra l'altro in prima posizione, e che l'argomen­ tazione ha avuto sempre in vista la discussione sulla relazione tra legge e pec­ cato, che questo versetto pare smentire. Della legge infatti viene qui affermato il suo carattere santo, con evidente riferimento alla sua relazione con il mondo di­ vino. Del comandamento vengono aggiunti quello di giustezza e di bontà, in en­ trambi i casi deve essere sottintesa la copula èa'tlv. Soprattutto l'aggettivo àya8T} 57 �v [)t: 2,7-8.25; 5,16; 6,1 1 ; 7,25; 8,10.17; 9,21; 1 1 ,22.28; 14,2.5; �··· illa: 14,20; �v... oiiv: 1 1 ,1 3 (esprime generica connessione; cf. BD § 451 . 1 n. 3; BAGD 2.e); JtQW'tOV �: 1 ,8; 3,2; (cf. BD � 447.2 n. 14); j.ttv .. xal: apparentemente tale correlazione è presente in 7,12 e 10,1 , ma poiché è indi­ scutibilmente un uso assolutamente non corretto (cf. BAGD, lltv 2.d) ci si può chiedere se xal possa essere considerato vero corrispettivo di lltv; 10,1 potrebbe allora essere tradotto con «per quanto ri­ guarda il desiderio del mio cuore. rivolgo anche una supplica a Dio ... )) (cf. BD § 447.2 n. 14), con j.1h isolato che enfatizza il sostantivo E'Ùòoxla. Il nostro versetto, in modo analogo, potrebbe essere com­ preso come «per quanto riguarda la legge (in sé stessa, nella sua natura e origine; ma è bene non cer­ care di specificare eccessivamente un'espressione che è sì enfatizzata, ma che è lasciata indetenni­ nata) ... e anche il (suo) comandamento ... ) 58 Cf. rispettivamente LAUSBERG, Elementi, 228-229.231-233 e MoRTARA GARAVELLI, Ma­ nuale, 177-178. ...

.

,

),

La

pericope 7,7-25: sviluppo letterario e retorico

123

può implicare uno sviluppo del pensiçro verso la relazione del comandamento con il singolo. In questo senso esso risulterebbe «buono» per l'uomo, cioè orien­ tato al suo bene, mentre il precedente aggettivo «santo» sarebbe limitato ad af­ fermare una certa provenienza divina dello stesso e della legge. Tuttavia è super­ fluo cercare di determinare tutte le possibili sfumature di significato degli agget­ tivi qui impiegati. Piuttosto viene posto in risalto l'effetto di accumulazione glo­ balmente ottenuto dalla loro seppur breve enumerazione, effetto ancor più mar­ cato se confrontato con la supposta reticenza su altri aspetti del ragionamento. Dato il carattere conclusivo di questo versetto ci si deve chiedere se e in che misura le qualità della legge qui asserite si giustificano come deduzioni dallo sviluppo argomentativo precedente. Si incontra così un altro rilevante problema per la comprensione del versetto, poiché nulla sino a questo momento era stato detto sulla natura della legge stessa se non l'espressione estremamente stringata dç �ro'flv nel v. lOb, in un emistichio ove l'accento è posto sull'effetto opposto che il comandamento ha ottenuto per l'io. L'osservazione che solitamente si legge negli esegeti a riguardo è che il soggetto che ha prodotto il desiderare e la morte dell'io è il peccato, non il comandamento. e che pertanto questo può es­ sere «sgravato)) da ogni colpa, essere compreso come distinto dal peccato e con­ siderato infine come «santo)).59 Tocchiamo qui uno dei punti cruciali per la com­ prensione della nostra pericope, punto che dovrà essere oggetto di attenta consi­ derazione nel capitolo successivo. Per il momento ci limitiamo a tre osservazioni che sono strettamente inerenti al ruolo del presente versetto all'interno dell'ar­ gomentazione. - Anche se la ricostruzione da noi succintamente riportata fosse vera, ri­ mane il problema della novità assoluta delle qualifiche della legge rispetto all'ar­ gomentazione precedente. Un conto infatti è dire che la legge non è identica al peccato, un altro conto è affermare espressamente la sua santità, ovvero la sua relazione con il divino. Tale conclusione infatti esorbita dalla premessa che vede la legge semplicemente distinta dal peccato. Per spiegare simile affermazione si deve far ricorso alla basilare convinzione giudaica e veterotestamentaria della legge come dono di Dio e rivelazione di Dio al suo popolo, convinzione che pare verosimile supporre in un uditorio che si dimostra capace di vedersi indirizzata un'argomentazione vertente sulla legge, ma che comunque non è implicita nel­ l'argomentazione stessa. - Che i vv. 7-1 1 possano essere adeguatamente riassunti affermando la mera distinzione tra peccato e legge è comunque una tesi a nostro avviso non convincente, come cercheremo di dimostrare dettagliatamente nel prossimo ca­ pitolo. Ricordiamo comunque qui che in tali versetti, se da una parte si afferma

59 Cf. solo alcuni tra gli svariati autori che con più forza hanno motivato questa tesi: KOMMEL, Romer 7, 55; V.P. FuRNISH, Theology and Ethics in Pau/, Nashville-New York 1968, 149; WtLCKENS, Romer, II 83; HOBNER, Gesetz, 64; DfAz-RooELAS, Ley, 1 62. In senso opposto H. LIETZMANN, An die Romer (HNT 8), TObingen 4 1933, 74, afferma che Paolo ha precedentemente inteso mostrare come «il peccato acquista la propria forza attraverso il comandamento», ma poi non commenta il v. 12!

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che l'agire tremendamente potente del peccato stravolge anche il comanda­ mento per operare il suo terribile effetto di morte, e se in tal modo si precisano affermazioni tipo quella del v. 5, in quanto le :n;a81)�a'ta del peccato vengono fatte risalire in ultima analisi al peccato stesso, dall'altra si sostiene anche che il peccato necessita del comandamento per scatenare tutta la sua opera distrut­ trice, che senza il comandamento il peccato è vexQa e che nel comandamento il peccato coglie l'occasione per manifestarsi utilizzando il comandamento stesso come strumento del suo agire. Come è possibile, da queste affermazioni, conclu­ dere la santità del comandamento e della legge? - A una simile conclusione evidentemente si giunge privilegiando alcuni dati e sottacendo altri, supplendo delle premesse e, forse, dimenticando altre. Il fatto che il v. 12 ricordi comunque solamente una delle linee di riflessione sinora sviluppate, e il fatto che per giungere a tali conclusioni sia necessario far riferi­ mento a ulteriori premesse rispetto a quelle sviluppate sino a questo punto, raf­ forza l'ipotesi che Paolo stia esprimendosi con reticentia, espliciti cioè solo una parte di ciò che costituisce l'oggetto del suo interesse e lasci l'altra all'ermeneu­ tica che deve operare il lettore. In questo caso, in quale direzione deve muoversi tale ermeneutica? Quali sono le affermazioni con cui completare il v. 12? Con queste domande si entra nella discussione delle relazioni tra il v. 12 e il v. 13, in quanto appare del tutto logico cercare il resto delle affermazioni paoline per il v. 12 in ciò che il contesto immediato lascia emergere, e, poiché abbiamo già fatto cenno al ruolo strategico di questi versetti, possiamo aggiungere nella discussione della relazione tra la prima e la seconda delle sottounità in cui è sud­ divisa la pericope oggetto dell'analisi. Dando per assodate le considerazioni espresse al capitolo precedente, vagliamo ora alcune ipotesi di transizione tra i versetti, ipotesi che comportano, consapevolmente o meno, anche delle supposi­ zioni sulle tesi non esplicitate dal v. 12. Kiimmel può essere considerato come testimone delle difficoltà di chi vede i vv. 7-12 sostanzialmente dedicati alla difesa della legge e il v. 12 in sé conclu­ sivo. Egli, mentre vuole pure motivare il fatto che 7, 1 3 sia la conclusione della prima sottosezione, considera i vv. 12-13 in questo modo: Il ragionamento dei precedenti versetti trova in 7,13 la sua conclusione provvisoria. L'apologia della legge però non risulta ancora del tutto dimostrata. Certamente la natura divina della legge è stata provata in 7,7- 12. Rimane tuttavia da superare il fatto che la legge abbia un'operatività distorta.611

Di fronte a una simile affermazione ci si può chiedere se davvero i vv. 7-12 siano ne/ loro insieme orientati a dimostrare la natura divina della legge o se, piut­ tosto, come si è già accennato, una tale affermazione al v. 12 risulti piuttosto ina­ spettata rispetto allo sviluppo precedente che poneva l'operare della legge stru-

60 KOMMEL, RIJmer 7, 56. Il v. 13 sarà di conseguenza visto come prova che l'operare della legge rientra negli scopi divini, aspetto che discuteremo tra poco.

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pericope

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mentalizzato dalla potenza del peccato. Inoltre, il fatto che la legge si ritrovi il proprio operato stravolto rispetto alla sua intenzione originaria a causa del pec­ cato è un'affermazione assolutamente non nuova nei vv. 7-12: la si può riscon­ trare ad es. al v. 1 1 , come lo rileva lo stesso Ktimmel. 61 Ma poiché non è affatto necessario attendere il v. 13 per un simile chiarimento anche la connessione tra il v. 12 e il v. 13 non si può assolutamente spiegare in tale modo. Diaz-Rodelas, dopo aver enfatizzato le conclusioni espresse al v. 12, rico­ nosce che la domanda del v. 13 si presenta come fuori luogo: come ci si può sof­ fermare ancora sulla relazione che con la morte ha ciò che è definito «santo»? ... tuttavia il problema sorge logicamente quando si legge 7,12 a ll a luce di 7,10b .. l'implicazione sottesa a 7 , 1 3 a intende questa relazione (tra legge e morte, n.d.r.) nella sua forma più radicale: assumendo l'ultima affermazione di 7,1 1 . .. , la do­ manda che ora si pone implica che la morte dell'io abbia nel comandamento la sua 62 causa ultima. . . .

Ciò che seguirebbe sarebbe, per l'autore. una ribadita sottolineatura della causalità del peccato riguardo all'opera di morte. Ma il problema è che in una si­ mile ricostruzione tale causalità era stata già chiaramente affermata al v. 1 1 e pertanto, a questo livello, il v. 13 non fa proseguire per nulla l'argomentazione. Ma di conseguenza risulta nuovamente non chiarita la posizione del v . 12. Esso non è motivato da ciò che precede né è in grado di supportare lo sviluppo succes­ sivo, che viene spiegato facendo astrazione dal v. 12 e connettendolo diretta­ mente con il v. 1 1 , in una forma che, contrariamente all'autore summenzionato, a noi risulta meramente ripetitiva del già detto. È proprio tale considerazione che obbliga a ritenere il v. 13bc come connesso con i vv. 7-12. Il fatto poi che la conclusione del v. 12 sia giunta in qualche maniera ina­ spettata porta diversi studiosi a interpretare nella forma più estesa possibile gli aggettivi qualificativi della legge adoperati al v. 12. Per Dunn, ad esempio, Paolo chiaramente non può pensare che l'abuso della legge operato dal peccato (vv. 8-1 1 ) pregiudichi la sua indole divina, il suo decretare la volontà divina a11e creature... Egli può persino ritenere che le funzioni della legge di provocare le tra­ sgressioni e di arrecare la morte devono in ultima analisi essere comprese in tale ot­ tica . 63 ..

Affermazioni del genere sono, tuttavia, del tutto ingiustificate. Il v. 12 af­ ferma solo alcune caratteristiche positive della legge in termini del tutto gene­ rici. Dedurre da esse delle connotazioni assiologiche riguardo agli avvenimenti prima descritti è un 'operazione del tutto gratuita, non supportata da nessun ele­ mento presente nel testo. Non desta meraviglia, di conseguenza, che il fonda-

61

62

KOMMEL, Rom er 7, 54.

DfAz-RoDELAS, Ley, 161-163. Considerazioni simili sulla transizione tra il v. 12 e il v. 13 sono presenti in altri studiosi: cf. ad e s. WtLCKENS, Romer, II 84; SruHLMACHER, R6mer, 100. 6J DuNN, Romans. I 386.

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mento per una tale tesi venga da Dunn ricercato anche nel versetto seguente. Ciò che appare chiaro, tuttavia, è che in queste interpretazioni del v. 12 si po­ stula in qualche maniera una certa integrazione rispetto a quello che da Paolo espressamente vi asserisce. In altre parole, in modo più o meno esplicito o rico­ nosciuto, l 'interpretazione di molti autori presuppone il fatto che qui Paolo stia esprimendosi con reticentia. Il problema, allora, si ripropone: in forza di cosa si può ritenere che gli elementi proposti come completamento del pensiero pao­ lino sono corretti? Sono cioè realmente conformi a ciò che Paolo stesso vuole fare intendere o non delle ricostruzioni arbitrarie dell'interprete odierno? Un primo criterio per la soluzione di simili problematiche deve essere ri­ cercato, come avevamo chiarito nei precedenti capitoli, a livello di composizione letteraria della pericope. Studiando tale composizione si è notato come una no­ tevole serie di elementi letterari accomunano i vv. 7-12 al v. 13bc. Perciò, consi­ derando il versetto come connesso con questa sotto-unità, esso va esaminato nel contesto dell'ipotesi, da verificare, che proprio il v. 13bc possa gettare luce sulla comprensione del v. 12. 1.8

v. 13bc

Questo emistichio viene introdotto da un à.lla, la cui funzione dovrebbe in qualche modo consistere, analogamente a quanto visto per il v. 7b, nello stabilire una funzione antitetica o con la risposta 1-t'Ìl ytvoLto o con tutta la domanda del v. 13a. Il fatto più rilevante a livello grammaticale è la mancanza di un verbo finito. Questo porta o a considerare il participio xatEgya�OIJ.ÉVfl come verbo finito o a considerare sottintesa la ripetizione della frase È:J!OL Èyév Et o 86.vatoç (o simile) con soggetto ft UJ.taQtia. Ancora una volta si nota una composizione in paralleli­ smo, che unisce strettamente le due frasi altrimenti accostate tra loro con un semplice asindeto. Questo può essere così rappresentato: a fJ tlJ!UQ'tla, i:va q>avij U J!U Qtia ,

b OLà tou &.ya eou J!OL x at E Qya to J.tÉVfl 8 av at ov ,

a 1 i:va

b 1 �Là tfjç èvtoÀ.fjç .

ytvT)tat xa8' a J.taQtoo À.ò ç f) al'aQt la

'Ù1tEQ�oÀ.T)v

- T] aJ.taQtla. Come nei versetti precedenti, si nota che qui il peccato è un soggetto attivo. Al v. 8 veniva attribuito a esso l'operare ( xat E LQya aat o) del de­ siderio nell'io, ai vv. lOb- 1 1 è stato detto che l'esito ultimo di tale operare è la morte dell'io, ora, in 13b, tale effetto viene richiamato come oggetto diretto del verbo xa'tEQyatoJ.tat.64 È, questo, un primo elemento che rende possibile com­ prendere del v. 13bc in connessione con lo sviluppo argomentativo precedente.

64 Va pertanto respinta l'interpretazione di chi riafferma che in questo versetto la realtà della morte è causata dal giudizio della legge: cf. ad es. WtLCKENS, Romer, II 84; THEOBALD, Romer, I 2 1 1 .

La pericope

7,7-25:

sviluppo letterario e retorico

127

- btà 'tou &ya9ou - 'tijç tvtoA.f)ç. Nei versi precedenti è stata ripetuta­ mente ribadita la strumentalità della legge e del comandamento in questo pro­ cesso di cui il peccato è agente attivo, ora tale strumentalità viene riaffermata con la preposizione òu1 seguita da genitivo. Questa è una locuzione esclusiva, va ricordato, dei vv. 7-13. Inoltre l'aggettivo sostantivato àya96ç, già utilizzato in 13a, trova la giustificazione del suo impiego nel v. 12, dove esplicitamente il co­ mandamento viene qualificato come «buono)). Questo fatto conferma definitiva­ mente la connessione di 13bc con l'argomentazione precedente. Ci si può per­ tanto chiedere di che genere è tale connessione. Il v. 13bc, in altri termini, ag­ giunge qualcosa a quanto prima espresso o si limita semplicemente a ribadirne lo sviluppo? e, di conseguenza, si possono evincere da questo emistichio degli ele­ menti di novità con cui integrare le affermazioni del v. 12 o una tale supposta in­ tegrazione non fa altro che ribadire ciò che era stato detto nei versetti prece­ denti? - tva avij ltf.taQ'tla - yévrrcat xaH' urreQ�oÀflv65 CtJlaQ'tOOÀòç ft CtJlaQ'tla. Formalmente questi sono enunciati nuovi rispetto allo sviluppo precedente. Nuovo è infatti l'utilizzo della preposizione i:va, come nuova è l'accentuazione sul peccato rispetto ai vv. 7-12, la cui conclusione verteva sul carattere della legge e del comandamento, mentre del peccato, una volta affermato il suo inizio di attività, nulla veniva specificato in aggiunta al suo essere potenza operativa. È pertanto necessario dedicare a essi la dovuta attenzione. Una prima possibile interpretazione è quella di considerare questi enun­ ciati come vere espressioni di finalità, secondo il significato più ovvio della pre­ posizione i:va seguita dal congiuntivo. Il soggetto di entrambe le affermazioni è il peccato. Ma la prima di esse utilizza un modo passivo senza che il complemento d'agente venga né menzionato né esplicitamente lasciato intendere dall'argo­ mentazione, per cui diversi autori hanno ritenuto che per mezzo di queste espressioni venga espressa una finalità intesa da Dio, leggendo qui di fatto una forma di «passivo teologico)). 66 L'espressione dovrebbe essere quindi tradotta come: «affinché venga mostrato, rivelato)). Se ciò fosse vero, il carattere comple­ tivo di questo emistichio rispetto al v. 12 sarebbe evidente. Duno, come si è visto sopra, legge in modo indebito la finalità divina nello sviluppo dei vv. 7-12, ma a questo punto tale lettura potrebbe ben essere giustificata. Tuttavia a una tale af­ fermazione si oppongono due considerazioni. La prima, di natura grammaticale, è il fatto che il secondo dei verbi utilizzati, yÉV'Y)'tat, essendo un deponente, non

65 xa"ta seguita da accusativo significa «in conformità con una misura» e, nel presente caso, . Il significato risultante è affine a un avverbio: «eccessivamente, estremamente>>; cf. BAGD, «xa"tét», 11.5.b. 66 Cf. GuTJAHR, Romer, 229; KOMMEL, Romer 7, 56; ALrnAus, Romer, 66; B ENO IT, «Loi», 506; BLASER, Gesetz, 1 36; NYGREN, Romans, 283; LAGRANGE, Romains, 1 74; BARRETT, Romans, 145; Kuss, Romer, I 227; LYONNET, ad Romanos, 109; ScHLJER, Romerbrief, 227; MrcHEL, Romer, 229; CRAN­ FIELD, Romans, I 354� BYRNE, «Righteousness>), 565; ZELLER, Romer, 141 ; Du NN , Romans, I 387; F. THIELMAN, From Plight to Solution (NTS 61), Leiden 1989, 109; LEENHARDT, Romains, 109. Per il «passivo teologico» cf. ZERWICK § 236.

128

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sopporta l'idea di «agente», e l'azione ivi descritta trova nel peccato, soggetto del verbo, la sua unica ragione d'essere. La seconda, decisiva, è proprio l'assenza del soggetto divino in tutta l'argomentazione dei vv. 7-12. Tale assenza non può non colpire se rapportata alla sezione precedente, dove, come si è fatto notare, il suo ruolo . attivo è stato variamente menzionato. Tale assenza è notevole soprat­ tutto se si considera la presente argomentazione, dove allo stravolgimento della legge operato dal peccato risponde l'assoluta assenza dell'intervento di Dio, e questo nonostante il fatto che il v. 12 abbia perlomeno fatto intuire la relazione tra la legge e Dio stesso! Dato questo paradossale silenzio, l 'uditore della lettera non rinviene alcun elemento per poter discernere, neppure in forma implicita, l'orientamento divino degli avvenimenti qui descritti. L'altra possibilità d'interpretazione consiste nel considerare la preposi­ zione tva come consecutiva e tradurre il verbo avij come «apparire», «manife­ stare esteriormente la propria natura». 67 In questo caso solo il peccato è diretta­ mente implicato nel processo di rivelazione della sua intima essenza. In altre pa­ role, il peccato appare come la forza che ha strumentalizzato il comandamento, ha condotto l 'io alla morte e così infine si è smascherato per ciò che veramente è. Anche l'interpretazione consecutiva del presente emistichio rende questo facil­ mente accostabile al v. 12, di cui sembra pertanto completare la conseguenze là affermate. Tale accostamento però assume le caratteristiche della giustapposi­ zione.6H Se al v. 12 veniva affermata una conseguenza a livello della legge, ora si tira la conseguenza a livello del manifestarsi del peccato. Se al v. 12 veniva di­ chiarata la santità della legge, ora viene riaffermato il carattere potente e terrifi­ cante del peccato e del suo agire, che è in grado - fatto qui ribadito - di stru­ mentalizzare anche il comandamento della stessa legge santa. Ma poiché non ap­ pare possibile scorgere un'esplicitazione di una finalità divina in questo pro­ cesso, il paradosso costituito dal tenore delle affermazioni del v. 12 risulta, a no­ stro avviso, ulteriormente accentuato: il buono e santo comandamento della legge risulta essere nient'altro che strumento dell'agire mortifero del peccato e dello svelamento della sua indole. È comunque solo in questo senso che 1 3bc pare completare il v. 12. Excursus:

uso retorico del pronome èyw

e

sfondo adamitico della narrazione

L'esegesi sinora condotta può aver dato l'impressione di provocare do­ mande in numero maggiore rispetto alle risposte date. Tuttavia un tale procedi-

67 Cf. BAGD, «cpalvw,., 2.e. Delle tre sole ricorrenze del verbo nelle lettere paoline anche in 2Cor 1 3,7 appare al congiuntivo passivo con il senso di «apparire», senso che risulta poi essere l'u­ nico accettabile anche in Fil 2,15. Così anche DfAz-RoDELAS, Ley, 166. 68 Completiamo in tal senso l'intuizione di LAGRANGE, Romains, 171, e di BoRNKAMM, Ende, 60. ALrnAus, Romer, 66, vede il v. 12 interrotto da una domanda di un supposto avversario (13a) e dalla successiva risposta (13bc); il problema è che 1 3bc non può essere considerato autentica risposta a 13a perché, rispetto alle questioni lì sollevate, nulla aggiunge rispetto a ciò che era già stato detto nei vv. 7-1 1 .

La

pericope 7,7-25: sviluppo letterario

e

retorico

129

mento è l'unico in grado di offrire alla fine dei dati affidabili, senza correre il ri­ schio di formulare ipotesi interpretative appetibili per la loro semplicità, even­ tualmente fondate su altri testi paolini, ma che disattendono le complesse affer­ mazioni del presente testo semplificandole o travisandole totalmente. Si dovrà avere la pazienza di attendere il prossimo capitolo per formulare in modo orga­ nico una serie di risposte a livello teologico sulle questioni qui sollevate da Paolo. Tra queste questioni, però, ce n'è una, di carattere più immediatamente esegetico, alla quale è necessario iniziare a offrire qui alcuni elementi di risposta e che potrà gettare luce su alcune delle affermazioni enigmatiche sinora espresse dall'autore di Rm. È la questione relativa all'identità dell'io, ben conosciuta per la continuata querelle che suscita a livello di dibattito esegetico. Abbiamo finora ignorato tale problematica, ma ora è giunto il momento di chiedersi se Paolo vuole, come sarebbe logico attendersi, autenticamente descrivere una propria esperienza attraverso l 'uso del pronome di prima persona singolare. La menzione del decimo comandamento delle tavole sinaitiche e l'uso con­ tinuativo di verbi al passato farebbero pensare che qui Paolo stia comunicando una sua passata esperienza di incontro con la legge mosaica, descriva la propria difficoltà a eseguire fedelmente e compiutamente i comandi della legge - es­ sendo il decimo comandamento paradigmatico di tutta la legge - e, di conse­ guenza, la propria esperienza di peccato e di morte spirituale a esso connessa. In altri termini, la prima ipotesi interpretativa che un lettore possa formulare è quella strettamente autobiografica, la quale, in modo più preciso. consisterebbe nel passato farisaico o generalmente giudaico di Paolo. a causa dell'utilizzo di verbi al tempo passato e del riferimento alla legge. Tuttavia questa più ovvia in­ terpretazione si scontra con difficoltà insormontabili. lnnanzitutto la presenta­ zione che del suo passato fa Paolo in Gal 1 ,14 e Fil 3.5-6. dove egli dice espressa­ mente di essere stato zelante nelle tradizioni dei padri e irreprensibile riguardo alla giustizia derivante dalla legge. Non c'è dubbio che per il Paolo giudeo la legge, potendo essere osservata, era ben lungi dal costituire occasione di peccato e di morte! Da qui il tentativo di alcuni interpreti di sfumare il contrasto, leg­ gendo per esempio nelle dichiarazioni di Filippesi l'affermazione di un'osser­ vanza esteriore, di una scrupolosità farisaica, alle quali Paolo contrapporrebbe qui o peccati interiori, desideri segreti nel cuore dell'uomo, o le esigenze dell'a­ more, che non possono essere così semplicemente codificate dal comanda­ mento.69 Tuttavia tali interpretazioni sono del tutto arbitrarie, in quanto inferi­ scono delle distinzioni all'interno delle parti della legge che, oltre a non essere di patrimonio comune di nessuna delle correnti giudaiche, sono del tutto estranee sia al contesto di Filippesi, ove viene semplicemente posta in antitesi la giustizia

69 Cf. BARRETI, Romans, 143- 144� MILNE, «Experience)), 15; J.M. EsPY, «Paul's "Robust Con­ science" Re-examined)), in NTS 31 (1985), 161-188; LAMBRECHT, Wretched, 76·78; STOTI, Romans, 192. GARLINGTON, Faith, 1 16, affenna il carattere autobiografico del pronome senza assolutamente tentare un 'armonizzazione con quanto si dice del passato giudaico di Paolo in Fil e Gal, riconosciuto come dissonante.

130

Una legge buona · ma impotente

legge con la conoscenza di Cristo, senza che tali realtà siano con­ notate né come estrinseca-intrinseca né in nessun altro modo, sia al contesto di Rm 7, dove, come è stato sufficientemente chiarito, il decimo comandamento appare come espressione paradigmatica di tutta la legge. Secondariamente è del tutto incomprensibile dal punto di vista autobiogra­ fico il v. 9a €yw bt t�oov XOOQÌ.ç v6�ou no'tÉ. Avendo prima chiarito che �étoo va qui inteso in senso pieno, e avendo già criticato tutte le letture che in diverso modo tendono ad attenuarne il senso, ci si può chiedere se veramente un giudeo possa affermare di essere «Vissuto>> in senso pieno senza la legge, visto che que­ sta è garanzia di vita, come è stato precedentemente asserito. Ma, ancor più radi­ calmente, ci si può chiedere quando mai un giudeo possa essere stato «senza la legge»! La risposta che solitamente viene data a questa domanda fa ricorso al fatto che secondo gli scritti rabbinici il giovane giudeo è obbligato ali' osservanza della Torah solamente a partire dai tredici anni.70 Tuttavia la prima testimo· nianza di tale legislazione contraddice questa risposta. In essa si parla sì dell'os­ servanza dei precetti a partire dai tredici anni (Lm�wt), ma prima si menziona l'obbligo allo studio della B ibbia a partire già dai cinque anni e a quello della Mishnah dai dieci. Questo trova conferma negli scritti di Filone, che parla dell'e­ ducazione alla legge che il bambino giudeo riceve in famiglia.71 Inoltre lo stesso fatto della circoncisione pone il neonato giudeo in relazione con la legge. Risulta pertanto impossibile designare l'infanzia di un bambino ebreo come periodo «Senza legge». Si potrebbero eventualmente studiare le varie tappe dell'evolu­ zione della sua responsabilità verso la legge, ma questo non è assolutamente il processo descritto in Rm 7,8b-10a, dove, come si è visto, si parla di assenza della legge e di venuta del comandamento e non di un processo graduale di apprendi­ mento o di responsabilizzazione verso la legge stessa. Considerazioni di tale genere erano state adeguatamente sviluppate già da Kiimmel, in uno studio che, pur se datato di quasi settant'anni, costituisce un punto di riferimento obbligato per la discussione esegetica anche odiema.72 Con­ seguentemente l'autore si chiede se l'io di 7,7-13 non sia «in qualche modo una forma retorica per l'elaborazione di un pensiero», rispondendovi affermativa­ mente e presentando alcuni usi paralleli del pronome di prima persona singolare sia nella letteratura greca sia in quella rabbinica. 73 In tale ricerca di paralleli. però, colpisce come nessuna attenzione venga rivolta alla teorizzazione retorica classica, non essendo citato alcun retore o alcuna figura retorica per la giustifica­ zione di un uso linguistico che si afferma essere retorico. Questa lacuna è stata recentemente colmata da Stowers, il quale, riferendosi soprattutto a Quintiliano. 1 vede nell'io di Rm 7,7-25 una forma di prosopopea. 4 Seguiamo qui Quintiliano derivante dalla

70

binic

Una dettagliata presentazione di tale tesi si può riscontrare in W.D. DAVIES, Pau! and RabLondon 1 965, 23-3 1 . 7 1 Cf. m.Aboth 5,20; FILONE, Legat. 210. 72 Cf. KOMMEL, Ro mer 7, 74-84. 73 Cf. rispettivamente KOMMEL, Rom er 7, 87-89 e 1 26-13 1 . 74 STOWERS, Romans, 264-269. Per la sua comprensione della prosopopea cf. pp. 1 6-21 .

Judaism,

La pericope

7, 7-25:

sviluppo letterario e retorico

131

per ricercare le delucidazioni a riguardo. Egli definisce innanzitutto questa fi­ gura come mezzo attraverso cui sia facciamo uscire i pensieri dei nostri avversari come se parlassero con loro stessi ... , sia introduciamo in modo credibile conversazioni tra noi e altri o tra loro· stessi, sia attribuiamo parole di consiglio, rimprovero, richiesta, lode o commisera­ zione a persone adatte. Anzi, è concesso anche far discendere dei dal cielo o susci­ tare morti; anche città e popoli possono ricevere così voce. 75

Una tale definizione è di tenore estremamente generico. Difatti viene svi­ luppata citando altre realtà astratte che possono in questa maniera venir imper­ sonificate (36). Ciò che per il nostro intento risulta interessante è che all'interno di queste possibilità viene menzionato il discorso di un'immaginaria persona, o di un locutore non altrimenti identificato, figura, quest'ultima che somma i ca­ ratteri della prosopopea con quelli dell 'elisse. 76 A nostro avviso è tale modalità retorica che viene utilizzata da Paolo in 7,7ss: una persona inizia a parlare di sé e del suo passato, l'ascoltatore ritiene in un primo momento che questi sia Paolo, ma in forza di alcune affermazioni non conciliabili con il passato di Paolo, è in seguito portato a pensare che un altro soggetto abbia iniziato a prendere parola pur non essendo stato fin qui in alcun modo introdotto, secondo una modalità comunque abbastanza conosciuta nella letteratura e retorica antica. Si può essere più precisi nella definizione retorica di questa figura? Quinti­ liano riconosce che non tutti i teorici della retorica accettano sotto l'unico titolo di «prosopopea)) un insieme così ampio di possibilità espressive e che il dare la parola a un interlocutore indefinito è trattata da alcuni sotto il titolo di sermoci­ natio, detta anche mimesis o f)SoJtotia (cf. 31 -32; così, ad esempio, Rhet. Her. IV, -l3 e 52). Alcuni autori moderni riprendono questa seconda suddivisione. 77 An­ che noi preferiamo attenerci a questo tipo di terminologia, in quanto maggior­ mente espressiva delle peculiarità che essa di fatto ha nei confronti del più gene­ rale fenomeno della personificazione di entità astratte, la quale più propria­ mente può essere compresa sotto il nome di prosopopea. È interessante notare che la subiectio, con cui era iniziata la nostra sezione, ha molte affinità con que­ sta figura, contraddistinguendosi da essa solamente perché appare essenzial­ mente imperniata sul gioco di domanda e risposta. Anche in forza di questo fatto

75 QurNTILIANO, lnst. Or. IX, 2, 30-31. «His et adversariorum cogitationes velut secum loquen­ tium protrahimus ... , et nostros cum aliis sermones et aliorum inter se credibiliter introducimus, et �uadendo, obiurgando, querendo, laudando, miserando personas idoneas damus. Quin deducere deos in hoc genere dicendi et inferos excitare concessum est; urbes etiam populique vocem acci­ piunt». 76 lo., IX, 2, 36-37: «est et iactus si ne persona sermo... » (segue citazione dell'Eneide 2,29); .. viene pure riportata una frase senza il locutore». La prosopopea può quindi essere introdotta senza �he il locutore sia stato esplicitamente presentato, contro ANDERSON, Pau/, 207. Nel nostro testo il se­ gnale che permette al lettore-ascoltatore della lettera di identificare tale figura è l'inconciliabilità delle affermazioni qui pronunciate con le altre descrizioni del passato giudaico di Paolo. n Cf. LAUSBERG, Elementi, 240-242; MoRTARA GARA VELLI, Manuale, 266-267. Per contro STo­ WERS, Romans, 1 6ss,. considera praticamente i termini 3tQ peccato - ciò può essere suggerito da formulazioni analoghe a quelle di Rm 7,5 altro è invece dire che la legge sia «di)) pec­ cato. 1 22 Si intuisce invece che Paolo sta ancora facendo ricorso alla figura de ll 'an­ tanaclasi e utilizza il termine VÒJ.toç nell'accezione traslata di «principio, regola». Pur aderendo alla legge di Dio con l'uomo interiore, l'io si trova costretto a fare i conti con un'altra «legge», ovvero con la regola del peccato, cioè con il peccato stesso considerato, in continuità con tutta la presente pericope, come forza at­ tiva, il quale di regola si presenta come più forte della legge divina e in grado di schiavizzare l'io. L'utilizzo dell 'antanaclasi indubbiamente permette a Paolo di mettere in risalto l'aspetto praticamente ineluttabile del potere del peccato e della sua forza schiavizzante, nonché il fatto che il soggetto che si fida della legge divina non viene da questa aiutato a combattere efficacemente il peccato, anzi, si -,

121 voN DER OsTEN-SACJCEN, RiJmer 8, 210. Cf. anChe E. · LoHsE, «6 VÒJ.Loç toU 3tVtUf.Uitoç 't�ç twi]ç», in H.D. BETZ - L. ScHOITROFF, a cura di, Neues Testament und christliche Existenz, Fs. H. Braun, TUbingen 1973, 285-286 e «Zur Analyse und Interpretation von Rom 8,1 -17», in The Law of the Spirit, 1 38; F.F. BRUCE, «Paul and the Law of Moses», in BJRL 57( 1 974-5), 276; F. HAHN, «D as Gesetzesverstandnis in Romer- und Galaterbrief», in ZNW 67( 1976), 46; WILCKENS, Romer, II 90; lo., «Zur Entwicklung des paulinischen GesetzversUindnis», in NTS 28(1982), 184; B. REKKE, «Pau­ lus Uber das Gesetz», in TZ 4 1 ( 1 985), 243ss; MoRRISON - WoooHousE, «Coherence», 1 1 1 2 ; DuNN, Romans, I 394-395; MARTIN, Law, 27-28; MEYER, , mentre altri antepongono al sostantivo xagLç l'articolo e rendono il v. 25a una risposta completa alla domanda del v. 24. Più difficile risulta decidere se la congiunzione òt appartenga o meno al testo originario. La sua successiva ag­ giunta si potrebbe comprendere come smussamento di un asindeto eccessiva­ mente marcato, ma anche la sua successiva omissione parrebbe comprendersi come adeguamento al carattere di fatto asindetico del restante versetto. Se­ guendo le edizioni critiche del GNT e N-A27 anche noi la riteniamo come origi­ naria. 127 - 'tlç f.1E QUOE'taL. Data la condizione di schiavo dell'io (vv. 14.23) il grido verso un liberatore si comprende facilmente. Da notare ancora che, come si dice che tutto l'io è schiavo, coerentemente qui viene invocata la liberazione di tutta la sua persona, non solamente di una qualche sua parte. Se sotto questi aspetti l'invocazione appare facilmente comprensibile, difficoltà a livello interpretativo sorgono quando si passi a considerare l'entità dalla quale si invoca la libera­ zione, ovvero il «corpo di morte». .

1 26 Cf. MoRTARA GARAVELLI, Manuale, 240. 127 METZGER, Commentary, 455 giustifica l'omissione di bt nel corso del processo di trasmis­

sione come adattamento all'uso liturgico.

164

Una legge buona ma impotente

- lx 'tOU oiDIJa'toç 'toU eava'tOU 'tOU'tOU. L'aggettivo dimostrativo tOU'tOU può ovviamente riferirsi all'antecedente eavéttou. Ma la difficoltà in questo caso sta nel fatto che nei versetti immediatamente precedenti non è stato utilizzato al­ cun termine del campo semantico della morte, per cui non si comprenderebbe il senso di questo aggettivo. Più verosimilmente esso si riferisce al sostantivo OWJ.ta, in una forma di enallage dell'aggettivo. 128 Ricordiamo qui che il campo se­ mantico della morte è stato invece utilizzato nella sezione 7-12.13bc, e che la sua rinnovata menzione a questo punto pare essere conforme alla caratteristica di peroratio della sezione. Più problematico ancora risulta il chiedersi che senso abbia invocare la li­ berazione dalla corporeità fisica, se non è questa a causare i problemi all'io. bensì la sua condizione di schiavo del peccato. Si sarebbe pertanto potuto atten­ dere a questo punto un 'invocazione riguardante precisamente la liberazione da questo potere schiavizzante. ma così non è avvenuto. La formulazione dell'invo­ cazione di conseguenza lascia aperti alcuni interrogativi: che cosa designa il «corpo di morte» qui menzionato? È vero che Paolo pensa talvolta alla vita esca­ tologica come un essere separati dal proprio corpo (es.: 2Cor 5,1-10). Ma ciò av­ viene piuttosto di rado, e in ogni caso secondo un meccanismo che si potrebbe definire «fisico>>, «naturale», senza cioè che il corpo sia avvertito come una entità nemica dalla quale sia necessario essere liberati. Piuttosto, il corpo appare gene­ ralmente come oggetto di redenzione, anche escatologica, la quale così si confi­ gura come liberazione del corpo, non da esso (es.: Rm 8, 1 1 .23). Questa reden­ zione del corpo già mostra i suoi frutti nella vita presente del battezzato. Se un tempo il suo corpo era luogo della manifestazione del peccato, ora tale corpo è già stato sacramentalmente distrutto (cf. Rm 6,6), cosicché ora corpo e membra del battezzato possono essere luogo della manifestazione della giustizia (cf. Rm 6,12-13:19). In tale dinamismo, lo si vede chiaramente, il corpo è luogo raggiunto dalla salvezza, dove essa già ora si manifesta in attesa del suo compimento esca­ tologico, non un'entità dalla quale si deve essere liberati. Date tali premesse la formulazione del nostro versetto appare indubbia­ mente strana, e richiede una disamina attenta. Tale disamina deve giocoforza coinvolgere anche gli altri vocaboli attinenti al campo semantico della corpo­ reità, e pertanto viene rimandata al prossimo capitolo. 129 Ci limitiamo qui a pre­ sentare succintamente le linee che a nostro parere debbono guidare la riflessione di fronte a questa problematica. Ciò che pare caratterizzare questa espressione è l'unione dei sostantivi OWflU e eava'toç, unione che qualifica il corpo come

128

Cf.

LAUSBERG,

Elementi, 169-170.

129 Riteniamo comunque sin d'ora escludere la possibilità di spiegare questa formulazione

inusuale in Paolo facendo ricorso a supposti modelli gnostici che egli avrebbe qui adottato: cf. ad es. FucHs, Freiheit, 62� R. JEWEIT, Paul's Anthropological Terms, Leiden 197 1 , 294. Tali interpretazioni. che non forniscono in ogni caso alcun testo a cui Paolo avrebbe potuto far diretto riferimento, testi­ moniano solamente l'imbarazzo dell'interprete odierno quando alcune affermazioni paoline non si lasciano codificare in schemi rigidamente delineati.

La pericope

7,7-25:

sviluppo letterario e retorico

165

«corpo di morte». Ora, si è visto che il campo semantico della morte appariva nella prima sezione della presente pericope, ove si afferma che il peccato, mani­ festando la sua virulenza sull'io, conduce il soggetto alla morte. L'io ha incon­ trato la morte cioè come conseguenza del peccato. Letta in tale ottica, l'espres­ sione del presente versetto si può comprendere come «condizione esistenziale votata alla morte, già segnata dalla morte» a causa del peccato, di cui rio viene qui detto essere non solo il termine della sua attività, ma anche suo schiavo. Il aw�-ta toù Oavéttou parrebbe così non designare qui la fisicità corporale del sog­ getto, ma la sua condizione esistenziale di votato alla morte in quanto in balìa del peccato. Simile affermazione verrà motivata ulteriormente nel prossimo ca­ pitolo. Ricordiamo, infine, che la risposta sotto la forma del rendimento di grazie nel v. 25a menziona i soggetti divini per l'unica volta all'interno della presente argomentazione. Tale risposta, che rende la situazione dell'io della presente pe­ ricope non disperata, è comunque possibile in forza della precompresione di fede. All'interno degli attori sinora esplicitamente menzionati nell'argomenta­ zione, il liberatore non può essere individuato e la situazione dell'io rimarrebbe senza speranza. 1 30 3.4

v.

25b

La pericope qui oggetto di st udio era iniziata come discussione sulla legge (v. 7) ed era proseguita interrogandosi sulla relazione tra la legge e l'io (v. 13). Al v. 23 l'antanaclasi con il termine VÒIJ.Oç, pur mettendo in scena «leggi» di di­ versa natura, aveva fatto menzione anche della legge mosaica e aveva avuto l'ef­ fetto di ricordare come la tematica della legge era la dominante nella presente pericope Ma nel grido del v . 24 e nella successiva risposta la tematica della legge pareva scomparsa. La funzione dell'ultimo emistichio della pericope, a nostro avviso, pare essere proprio quella di richiamare la discussione sulla legge e le sue implicazioni riguardo all'io. Un epifonema, 1 3 1 ovvero un detto dalle caratteristi­ che di una sentenza, conclude l'argomentazione ponendo in antitesi il servizio che l'io rende alla legge di Dio con la mente e quello che rende alla legge del peccato con la carne. Immediatamente simili affermazioni ricordano i vv. 22-23, ove la legge di Dio, come si è visto, è riferita alla Torah e la legge del peccato è identificata con il peccato stesso. Più in generale, soprattutto per l'utilizzo del termine aag;, questi versetti ricordano tutto lo sviluppo iniziato dal v. 14, che viene così sinteticamente riassunto secondo le caratteristiche di una peroratio. In continuità con le affermazioni di tutta la pericope, si constata che la legge incon­ tra l'io solamente al suo livello intellettuale, poiché a quello operativo essa si trova smentita dal peccato stesso. La presente pericope, iniziata come discus.

130 Così anche WILCKENS, Romer, II 95.

131

Cf. LAUSBERG, Elementi, 221 ;

MoRTARA GARAVELLI,

Manuale,

250-25 1 .

166

Una

legge

buona ma impotente

sione sulla legge, si conclude quindi presentando un soggetto che riconosce idealmente la bontà della legge divina, ma che operativamente è null'altro che schiavo del peccato. Qual è il senso di una simile presentazione all'interno della discussione sulla legge? È questa, a nostro modo di vedere, una delle domande che risulteranno decisive per la comprensione della discussione stessa. Pertanto, alla ricerca di un'adeguata risposta alla stessa, si dovrà dedicare adeguato spazio nel prossimo capitolo. Per il momento si può concludere notando che il presente epifonema mal s'inquadra dopo il rendimento di grazie del v. 25a, il quale par­ rebbe meglio connettersi con lo sviluppo iniziato a partire da 8,1. Tuttavia, ricor­ dando che effettivamente il v. 25a anticipa 8,1 secondo il meccanismo delle pa­ role-gancio, a noi sembra di poter spiegare questa modalità anticlimatica di con­ clusione nuovamente con la figura dell'hysteron proteron. Paolo, cioè, dapprima anticipa lo sviluppo che inizierà in 8,1 (v. 25a), in seguito riassume l'argomenta­ zione precedente (v. 25b ) L'indubbia differenziazione di toni tra queste argo­ mentazioni contribuisce a creare questo passaggio dalle caratteristiche brusche. Tuttavia la logica globale della transizione può essere adeguatamente compresa in tale modo. .

Capitolo quarto

La pericope 7,7-25 : retorica e teologia

0.

INTRODUZIONE: QUAL

È

LO STATUS CAUSAE DELL'ARGOMENTAZIONE?

Nel capitolo precedente abbiamo cercato di far emergere alcuni punti fermi per la comprensione della pericope e le problematiche che sono poste a li­ vello di interpretazione globale della teologia ivi espressa. Abbiamo infatti ri­ scontrato che diverse affermazioni sembrano in tensione tra loro - ad es.: quelle sulla bontà della legge e quelle sulla strumentalizzazione a cui è soggetta a opera del peccato - o perlomeno non adeguatamente motivate nel corso dell'argomentazione. Riteniamo che l'ermeneutica della teologia della pericope - e quindi la possibile soluzione di tali apparenti aporie - sia possibile solo a questo punto. dopo cioè che il progredire dell'argomentazione è stato analitica­ mente vagliato e su di essa può essere ora rivolto uno sguardo sintetico com­ prensivo e non parziale. In questa operazione la retorica apparirà come stru­ mento ermeneutico atto alla comprensione della globalità dell'argomentazione, utilizzando anche le teorizzazioni moderne della retorica, le quali talvolta sono relativamente indipendenti da quelle antiche. La prima domanda che è doveroso porre all'argomentazione paolina è quella concernente la sua natura, il tipo cioè di questione che qui viene affron­ tata. In questo ci è di aiuto la riflessione del Lausberg, il quale distingue quattro modi in cui un questione può essere posta. 1 Seguendo la sua terminologia, a noi sembra di scorgere che Paolo in Rm 7, 7 pone la questione oggetto di discussione proprio precisando la negazione �T) ytvot'to, che rifiuta l'equiparazione tra la

1 Cf. LAUSBERG, Elementi, 24-26. Una simile teorizz azione è stata sviluppata nell'antichità a partire dall'ambito giudiziario. Il Lausberg stesso però sottolinea come questo sia un caso-tipo, la cui schematizzazione possa adattarsi agli altri generi retorici. Questi sono gli status quaestionis per il Lausberg: lo status translationis, ove si pone il problema della legittimità della questione, e quindi del processo; lo status coniecturae, ove si discute la realtà stessa dell'accusa. se l'imputato cioè abbia commesso veramente ciò di cui viene accusato; lo status finitionis, in cui si discute la definizione giu­ ridica del fatto commesso, se sia o meno un delitto; lo status qualitatis, in cui si discute la qualifica giuridica del fatto commesso, riconosciuto come infrazione, ma giustificato mediante il ricorso al conflitto con altre leggi o al bene comune. Per una riflessione della retorica antica cf. QuiNTILIANO, lnst. Or. III. 6.

Una legge buona ma impotente

168

legge e il peccato. Tale negazione, e la domanda precedente, a nostro avviso si possono definire facilmente all'interno dello status coniecturae, il quale è ap­ punto risultante dalla discussione sulla natura della legge in sé. Abbiamo però notato come con la congiunzione Ò.ÀA6., successiva a tale negazione, Paolo si op­ ponga a tutto il v. 7a e inizi un segmento di argomentazione peculiare rispetto a ciò che lo introduceva, in cui l'interesse è volto non più sulla natura della legge, ma sul suo essere strumentalizzata dal peccato e, in conseguenza, sul suo essere occasione per il soggetto della conoscenza esperienziale del peccato (cf. 111 . 1 .2 e 3). Tale modo di procedere, a nostro parere, fa passare l'argomentazione dallo status coniecturae allo status qualitatis, in cui si discute non più sulla natura della legge, ma sulle sue qualità come sono storicamente manifestate nella sua interre­ lazione con il peccato e il soggetto.. Compresa all'interno dello status coniecturae l'argomentazione si esaurisce al v. 7a, in cui l'identità tra legge e peccato viene negata. Tuttavia l'argomentazione, accettando questa negazione, prosegue su di un altro piano, in cui la legge si dimostra qualitativamente inefficace nel proprio operare a dispetto della sua natura positiva. Al v. 13a l'argomentazione riceve un nuovo impulso, il quale si comprende facilmente ancora all'interno dello sta­ tus qualitatis. Infatti ciò che viene domandato è nuovamente comprensibile al­ l'interno delle relazioni tra la legge e l'io. Che la legge sia buona viene dato per scontato, ma l'attenzione ora si rivolge a ciò che questo «buono>> significa per l'esistenza dell'io, dando così l'avvio a una serie di versetti in cui sono fornite de­ scrizioni dal tenore antropologico finalizzate sempre alla descrizione del relazio­ narsi concreto della legge all'io (cf. 111.2). Da tutto questo risulta come sia riduttivo comprendere la presente argo­ mentazione come «difesa della legge». Una tale difesa viene chiaramente affer­ mata nel corso dell'argomentazione quando si vuole esprimere ciò che la legge «è>>. Ma l'argomentazione si sviluppa su binari ulteriori, i quali non si lasciano ri­ durre semplicemente a una discussione sulla natura della legge stessa. Tale svi­ luppo affianca alla realtà della legge l'entità del peccato e un soggetto che si esprime costantemente alla prima persona singolare. Per comprendere le asser­ zioni sulla legge, che, come si è visto, costituisce l 'interesse enunciato della pre­ sente pericope, si deve innanzitutto comprendere il ruolo di questi altri soggetti presenti nell'argomentazione e i problemi che essi suscitano per la sua interpre­ tazione globale. È giunto il momento di studiare analiticamente tali problemati­ che.

l.

I L PECCATO

1.1

� Ù!JapT:la· descrizione metaforica

o

reale potenza attiva?

Al v. 7b il peccato appare come oggetto della conoscenza dell'io. S i è visto come questa conoscenza sia di natura esperienziale, come cioè l'io abbia speri-

La pericope

7,7-25:

retorica e teologia

169

mentato per mezzo della legge la potenza del peccato, il quale lo ha reso tra­ sgressore della stessa legge che gli impediva di desiderare. Dal v. 8 in poi il pec­ cato appare invece come soggetto di varie azioni, come un attore personificato che esercita la propria attività in modo tra l'altro ineludibile per l'io. Infatti esso produce l'èrrL8UJ.1la (v. 8), seduce l'io (v. 1 1 ), lo uccide (vv. 1 1 . 1 3 e, implicita­ mente, già vv. 9-10), lo rende schiavo (vv. 14.23), ne usurpa l'attività (vv. 17.20), abita nell'io (vv. 17.20), ovvero nelle sue membra (v. 23). Per ciò che riguarda in­ vece la relazione con la legge e il comandamento si deve notare che il peccato li strumentalizza come occasione e mezzo del proprio agire (vv. 8. 1 1 . 13), che di­ viene operativo con l'apparire del comandamento (vv. 9b-1 0a) e combatte vitto­ riosamente contro la stessa legge (v. 23). In tutto questo l'intima natura del pec­ cato si rivela in modo inequivocabile (v. 13). Prese nella loro materialità letterale, tali affermazioni suscitano delle dif­ ficoltà. Risulta infatti difficile capire come prima si possa uccidere un soggetto per poi schiavizzarlo o catturarne l'operatività. E se a questa prima difficoltà si può rispondere dicendo che la morte, di cui si parla ai vv. l Oss, è un fatto spiri­ tuale, si deve però riconoscere che la descrizione del peccato come padrone esterno all'io e quella dello stesso come abitante all'interno dell'io sono di fatto difficilmente conciliabili. Così non è facilmente comprensibile come un sog­ getto possa dapprima rendere qualcosa o qualcuno strumento del proprio agire e in seguito muovergli guerra. Ovviamente di fronte a tali difficoltà, in modo intuitivo, guidato dal puro buonsenso, il lettore fa ricorso al concetto di imma­ gine, ovvero tenta di comprendere queste affermazioni come descrizioni per immagini di una determinata realtà, cioè come modalità espressiva che defi­ niamo già come metafora e della quale subito daremo un 'adeguata spiegazione. Tale comprensione può essere in seguito rafforzata dalla constatazione che la forma letteraria della diatriba, della quale nella nostra pericope si è già riscon­ trata la caratteristica basilare, ovvero la finzione dialogica. fa volentieri uso della prosopopea, ovvero della figura retorica della personificazione. Essa può ben essere compresa come un particolare ricorso al linguaggio delle immagini e così consentirebbe di interpretare il peccato soggetto attivo come· null'altro che una personificazione retorica. Una linea interpretativa così sommariamente abbozzata sarebbe però im­ mediatamente contestata da un autore come R. Bultmann, le cui considerazioni al riguardo hanno costituito - e probabilmente costituiscono ancora - l'opinio communis della comunità scientifica. Bultmann, infatti, ritiene che: «quando Paolo presenta il peccato, la legge o la morte come operativi, queste realtà non sono affatto per lui personificazioni retoriche, quanto poteri reali e semi-perso­ nali, ipostasi)). 2 A ciò ha recentemente controbattuto G. Rohser, il quale, dopo aver fornito un'ampia rassegna dell'impiego delle figure della personificazione e della metafora a riguardo del peccato in Paolo e nella letteratura giudaica ed el2

BuLTMANN� Diatribe, 81.

170

Una legge buona ma impotente

lenistica,3 afferma vigorosamente il car àttere metaforico e retorico della personi­ ficazione del peccato operata da Paolo. Come risultato, egli dice che: «"peccato" per Paolo significa l'essenza delle mancanze umane, le quali sviluppano una di­ namica operativa e divengono così una realtà che si pone di fronte all'uomo e lo annienta».4 Il procedimento di Rohser ha, secondo noi, il pregio di porre all'attenzione dell'interprete una serie di parallelismi letterari in forza dei quali negare l'a­ spetto retorico del linguaggio utilizzato da Paolo diviene impossibile. Tuttavia, la sua definizione di peccato ci risulta alquanto lacunosa. Non è infatti per nulla chiaro da queste sole righe come l'insieme delle mancanze umane possa real­ mente sviluppare una vera dinamica operativa ( «Eigendynamik>>) sino a dive­ nire in seguito una realtà esterna ali 'uomo stesso. Ciò risulta ancor più proble­ matico se a questa affermazione si accostano quelle in cui l'autore nega esplicita­ mente non solo il carattere di «potenza», ma persino quello di «sfera influente» che il peccato verrebbe a costituire per le azioni umane, o quelle in cui più mar­ catamente vede, nell'uso paolino del termine >). Nell'e­ spressione «la vecchiezza è il tramonto della vita» si ha una metafora, in cui cioè un termine del tema è immediatamente accostato a un altro del foro e in cui il re­ sto del foro è lasciato all'intuizione. Da qui la definizione di analogia conden­ sata. Si può a questo punto riflettere sull'affermazione paolina di 7,14c, in cui si enuncia che l 'io si trova nella condizione di schiavo del peccato. Se si amplifica in modo pedante tale affermazione si ha un'analogia completa, ad es.: il peccato esercita su di me un'azione obbligante e costringente (tema), come un padrone su di uno schiavo (foro). È evidente che, così intesa, tale affermazione è ricondu­ cibile al linguaggio della metafora. Ma non solo. Tutte le affermazioni che espri­ mono l'azione del peccato sull'io sono così comprensibili. Lasciamo al lettore il compito della loro eventuale esplicitazione. Qui ci preme sottolineare che le immagini (i «fori>>) sono diverse, ma il «tema» espresso, ovvero il genere d'azione esercitato dal peccato sull'io, rimane uguale, per cui la diversità dei fori cessa a questo punto di fare problema, in quanto ap­ pare come diversità di immagini finalizzate all'espressione della medesima realtà. Questa realtà è l'azione di carattere obbligante che il peccato effettiva­ mente esercita sull'io, ed è una realtà che deve essere affermata a chiare lettere, proprio perché, attraverso il ricorso alle immagini, la metafora pare finalizzata all'espressione di tale realtà. 1 0 Di questo a volte il Rosher sembra rendersene conto, come quando afferma che l'elemento che accomuna la metafora della schiavitù dell'io al peccato e quella dell'inabitazione del peccato nell'io, è il fatto risultante che l'io si trova costretto nel suo agire. 1 1 Ma quando afferma, ad esem­ pio riguardo a Rm 7,7-13, che il responsabile dell'inganno dell'io non è una vera potenza agente ma l'io stesso 12 vien da chiedersi che fine faccia la realtà, ripetu­ tamente espressa nell'argomentazione con le diverse immagini e talvolta anche da lui riconosciuta, cioè che l'agire dell'io è esposto a quello assai più potente del peccato. In breve: il ricorso alla metafora e al linguaggio delle immagini non va­ nifica, ma anzi aiuta a esprimere delle realtà ben più profonde delle immagini stesse, e nel caso di Rm 7,7-25, questa realtà deve esprimere il fatto che il pec­ cato è (anche) una realtà esterna all'io e fortemente condizionante l'io stesso. Queste considerazioni si possono inoltre ben adattare alla figura della pro­ sopopea. Infatti, dicendo che «il peccato esercita su di me un 'azione come quella di un padrone su di uno schiavo», esprimo un 'analogia in cui il peccato è perso9

10

Cf. PERELMAN - OLBRECHTS-TYrEcA, Trattato, 393. Giustamente PERELMAN - 0LBRECHTS-TYTECA, Trattato,

424, si oppongono alla compren­ sione della metafora circoscritta all'immagine. Piuttosto, nella metafora l'immagine appare come veicolo di un significato, la cui origine può risiedere in un ambito diverso da quello dell'immagine stessa. Il valore conoscitivo della metafora è stato vigorosamente sostenuto da P. RtcoEUR, La mé­ taphore vive, Paris 1 975; trad. italiana. La metafora viva, Milano 1976. 11 R(>SHER, Metaphorik, 1 26. 12 Cf. RùsHER, Meraphorik, 1 1 6ss.

La pericope

7,7-25:

retorica e teologia

173

nificato per poter permettere la sua comparazione con il «padrone>>. Ma ciò non implica che l'azione di assoggettamento in schiavitù che con questa analogia si esprime sia un generico o poetico modo di dire. Piuttosto tale modo di dire deve esprimere, per mezzo di questa immagine, la realtà funesta dell'effettiva in­ fluenza che il peccato esercita sull'io. 1 3 Questa prospettiva viene ulteriormente confermata dalle altre afferma­ zioni sulla realtà del peccato fatte nella Lettera ai Romani. Si è già visto (cf. 111. 1 . 1 ) che Paolo utilizza 45 volte il termine UIJ.UQ'tla al singolare e tre sole volte al plurale, di cui due in citazioni. 14 Nella prima parte del corpus della lettera, che si conclude alla fine del c. 4, ci sembra che venga affermato chiaramente il carat­ tere di azione umana del peccato, come provato dall'utilizzo del verbo, e il fatto della sua universalità. Per esprimere questo concetto Paolo afferma che «tutti peccarono» (3,23), utilizzando il verbo &�-taQTétvw. ed esprime tale universalità con una catena di citazioni bibliche ove, benché formalmente non appaia mai né il sostantivo né il verbo qui in esame, viene comunque descritta in modo impres­ sionante la condizione totalmente peccatrice dell'uomo (3,10ss). Tuttavia tale catena compare a supporto di un 'altra affermazione, cioè quella che tutti, sia giudei sia non giudei, sono «sotto il peccato>> (u' UIJ.UQ'tlav). Questa afferma­ zione non può non implicare la considerazione che il peccato non è un'entità !i­ mitabile alle azioni umane, in quanto «l'immagine del carcere è patente, e di essa fa parte quella concernente il peccato come carceriere o come padrone, in balìa del quale si è posti». 15 Ci sembra quindi che, argomentando sul peccato-atto de­ gli uomini e sulla sua universalità, Paolo sia già giunto perlomeno ad abbozzare la sua descrizione come potenza condizionante il successivo atto. Ma è da 5,12 che Paolo presenta il peccato più frequentemente come per­ sonificato e soggetto di diverse attività: entra nel mondo (v. 12), si incrementa (v. 20), vi regna (5,2 1 ) . in una serie di affermazioni nelle quali l'aspetto di potenza del peccato. che opera in modo obbligante sugli uomini sino alla redenzione operata da Cristo, diviene in vari modi messo in luce. Contemporaneamente la concezione del peccato come azione umana, seppur non messa più in rilievo, non è però negata esplicitamente. Anzi, talvolta viene menzionata mediante il verbo ét�-taQ'tétvw (cf. 5,12.14.16; 6,15). Per quanto riguarda la pericope più da vicino oggetto di esame, ricordiamo che la descrizione del peccato soggetto di attività è coniugata a quella dell'io di fatto trasgressore della legge e soggetto dell'azione peccaminosa del desiderare (cf. 111. 1 .2 e 111.2.3}. Da tutto questo è possibile trarre alcune conclusioni, le quali risultano indi­ spensabili per la corretta ermeneutica del pensiero paolino a questo riguardo. La .

13

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La prosopopea pertanto può apparire un caso del tutto particolare della metafora: cf. Rt­

coEUR, Metafora, 82.

14 Per questa rassegna seguiamo da vicino PENNA, «Apocalittica», 66-69. le cui considerazioni hanno il pregio della concisione e della comple tezza Alle ricorrenze del sostantivo Ò.f..lUQ'tl.a, date nello scorso capitolo, aggiungiamo qui quelle del verbo ltf..lUQ'tavw: 2,1 2.1 2; 3,23; 5,12.14. 16: 6,15. •� Così PENNA, «Apocalittica», 68. .

Una legge buona · ma impotente

1 74

prima è che le descrizioni del peccato rispettivamente come atto umano e· come potenza operativa sono due modalità espressive diverse, che non è corretto ap­ piattire in una comprensione univoca del peccato stesso. Tra la prima e la se­ conda sezione della lettera la descrizione pare progredire dal peccato-atto al peccato-potenza, la cui specificità deve di conseguenza essere salvaguardata al momento dell'interpretazione. Le considerazioni fatte riguardo alla pericope 7,7-25 si accomunano ad analoghe considerazioni che si possono fare sui capitoli che la precedono. Tuttavia, e questa è la seconda conclusione, tali descrizioni differenziate non si possono assolutamente cogliere come due comprensioni ra­ dicalmente diverse o, peggio, contraddittorie del peccato stesso. 1 6 Questo è pro­ vato dal fatto che in ogni sezione della lettera esse sono contemporaneamente presenti - cf. 3,9 e lOss; 5,12 e la nostra pericope -, anche se l'accento varia di volta in volta su l'una o sull'altra. Come conseguenza non ci si può appellare al­ l'affermazione del peccato-potenza per sminuire la portata del peccato-atto e così vedere in tale affermazione un motivo di discolpa degli uomini. 1 7 Riassumendo, l'analisi fin qui svolta, fondata sulla comprensione dell'a­ spetto metaforico del linguaggio, ha portato alla conclusione che nella pericope 7,7-25, come in altre sezioni della Lettera ai Romani, il peccato appare come una realtà che in qualche maniera deve dirsi anteriore e condizionante i singoli atti umani, anche se da questi non può essere totalmente separato. Ciò conferma ul­ teriormente le note esegetiche ripetutamente espresse al capitolo precedente, in cui simile comprensione del peccato era vista come espressione di cause più pro­ fonde rispetto all'agire umano, ma non come negazione delle implicazioni a esso concernenti. Un'indagine sull'origine di questa affermazione e sulla portata di tutte le sue implicazioni esorbita dall'oggetto del presente studio. Basti qui ricor­ dare la presentazione degli effetti del peccato di Adamo in 5,12ss, in cui si af­ ferma che il peccato è entrato nel mondo come potenza operativa e condizio­ nante l'agire umano proprio a seguito di quella prima trasgressione. 18 Ciò che la nostra pericope afferma è conseguentemente il fatto che l'io si trovi esposto alla 16 E.P. SANDERS Paul, the Law and the Jewish People, Philadelphia 1983, 73-74, ritiene che la differente comprensione del peccato determina differenti - e contraddittorie - affermazioni sulla legge. 17 Su ciò concordiamo con ROsH ER , Metllphorik, 114, ma ribadiamo che affermare l'implica­ zione del peccato-atto e della responsabilità umana all'interno della comprensione del peccato­ potenza non significa affermarne l'identità. 18 Vari autori hanno visto in tale affermazione una del tutto peculiare reinterpretazione di al­ cuni modelli di pensiero apocalittici, in cui questo eone sarebbe ineluttabilmente condizionato non da un supposto atto di disobbedienza angelico, ma dal peccato del primo uomo, o comunque dalla si­ gnoria del eccato pensata in termini apocalittici: cf. ad es. E. KAsEMANN, Paulinische Perspektiven, Tiibingen R1972, 46-48; J. MuRPHY O'CoNNOR, L 'existence chrétienne selon S. Pau/ (LO 80), Paris 1974, 45-5 1 , H.D. B ETZ, «Paul's Concept of Freedom», in W. WuELLNER, a cura di, Protocol of the 26th Colloquy, Berkeley 1 977, 6ss; L. ScHOTTROFF, «Die Schreckensherrschaft der Stinde und die Be­ freiung durch Christus», in Ev T 39(1979), 497-5 10; M.C. DE BoER, «Paul and the Jewish Apocalyptic Eschatology», in J. MARcus - M.L. SoARDS, a cura di, Apocalyptic and New Testament, Fs. l. L. Mar­ tyn, (JSNTSS 24), Sheffield 1 989, 169-190; N.J. DuFF, «The Significance of Pauline Apocalyptic for Theological Ethics», ivi, 279-296; PENNA, «Apocalittica», 77ss. ,

La

pericope 7,7-25: retorica e teologia

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sua azione e assoggettato al suo potere. Non per nulla, del peccato entrato nel mondo si dice che «ha regnato)) (5,21). La pericope 7,7-25 appare bene come una descrizione di tale regno dispotico e mortifero. Con tali chiarimenti acquisiti, si può proseguire nell'analisi della nostra pericope. 2.

L'Èré

Al v. 7 si dice che l'io è soggetto della conoscenza di natura esperienziale del peccato e del desiderio. Nel versetto successivo, tuttavia, la conoscenza del desiderio viene ascritta in ultima analisi al peccato stesso. Mentre da quel mo­ mento il peccato appare come soggetto attivo, l 'io si riduce a essere mero luogo della manifestazione di tale attività e a subirla in modo impotente. Subisce in­ fatti lo scatenamento del desiderio (v. 8a), viene ingannato (v. 1 1 ) e ucciso (vv. 1 1 . 13), tant'è che mentre il peccato può dirsi «vivo>), con una sfumatura impli­ cante il concetto di «Operativo», l 'io viene descritto come «morto». A partire dal v. 15 la descrizione d eli 'io si articola in immagini differenziate: mentre si afferma che «vuole» il bene (vv. 15.18.19.21 ) e odia il male (v. 15), che acconsente alla legge di Dio con la mente/uomo interiore (vv. 22.25b ), si sostiene contempora­ neamente che agisce in difformità totale rispetto al suo volere (vv. 15.16.1 8. 19) e alla sua mente (v. 25b). In ultima analisi tale agire viene ancora una volta fatto risalire al peccato (vv. 17.20), di cui l'io appare come schiavo (vv. 14s.23) impo­ tente in realtà ad agire contro tale padrone. L'attività che di fatto viene affer­ mata riguardo all'io è semplicemente quella conoscitiva e volitiva, di una vo­ lontà però impotente a tradursi nel piano operativo. Egli conosce e vuole ade­ guarsi al bene rappresentato dalla legge, come si è visto, ma non solo; egli com­ prende anche il suo stato di dissociazione esistenziale (vv. 18.21 .23). Come con­ seguenza invoca la liberazione da tale miserevole stato di cose (v. 24). Come abbiamo oramai ripetutamente avuto modo di dire, l 'immagine ri­ sultante da queste affermazioni è quella di un individuo debole, soggetto a una realtà più forte di lui, sventurato, appunto. 19 Prima di affrontare la decisiva que­ stione del senso assunto dalla descrizione di un tale soggetto all'interno di una discussione vertente sulla legge, è necessario riconsiderare la valenza assunta in questa sezione dal pronome èyoo. Abbiamo motivato precedentemente (cf. III, l o excursus ) la comprensione di tale pronome con la figura della tì8ortoLla, la quale permette un 'allusione ad Adamo nella prima sezione della nostra peri­ cape. Ci si deve chiedere ora se altri personaggi possano essere designati da que-

19 Si deve osservare che tali affermazioni sono immagini funzionali alla trasmissione di un si­ gnificato secondo un procedimento metaforico, la cui determinazione. oltre al riconoscimento di tale meccanismo, deve tenere conto degli interessi globali perseguiti dall'argomentazione. Questa, come si è visto, riguarda la legge. Nell'attesa di chiarire, all'interno di questo capitolo. tali interessi, rite­ niamo utile annotare qui il pericolo inerente ad una esegesi che valuta le affermazioni paoline sem­ plicemente ignorando questi dati fondamentali e collocandole all'interno di interessi confessionali successivi: cf. ad es. KA.sEMANN, Perspektiven, 46-48; WEBER, «lch», 1 63.

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sto pronome, e discutere analiticamente se Paolo possa esservi più o meno coin­ volto. Questo esame sarà effettuato sia per la sezione 7-13, sia per i vv. 14ss. Sarà necessario inoltre riprendere l'esame dei termini attinenti al campo semantico dell'antropologia utilizzati soprattutto a partire dal v. 22ss. Metodologicamente, ci sembra importante rimarcare che la ricerca minuziosa di utilizzi simili del pro­ nome all'interno o all'esterno della letteratura paolina è un'operazione di discu­ tibile utilità. In fondo, sono le connotazioni che il pronome assume in ogni sin­ gola argomentazione che fanno decidere sulle designazioni da esso effettuate.20 2.1

L io in 7-12.13bc '

Che l'io descritto ai vv. 7-13 possa essere compreso come un soggetto cri­ stiano è una ipotesi sostenuta da pochi, e con argomenti di tenore confessionale, non fondati su un'attenta disamina dei testi paolini. 21 Infatti, mentre l'io in que­ sta sezione si confronta con la legge e con il peccato, del cristiano era appena stato detto che è oramai morto al peccato (6,2.10) e liberato da esso (6,18.22), che non è più sotto la legge ( 6,1 3.14 ), essendo morto a essa (7 ,4.6 ). Anche la morte, che in questa sezione come nella precedente appare essere esito del pec­ cato e a cui l'io va qui incontro, veniva però presentata come risultato di uno stato di vita oramai trascorso (6,21 .23). Pensare pertanto che la «Venuta del co­ mandamento)) della legge mosaica (7,9) possa essere un avvenimento della vita di Paolo o di un altro soggetto cristiano è semplicemente un assurdo. In aggiunta alle singole affermazioni qui menzionate appare di somma importanza segnalare che la pericope 6,1 7 6 è imperniata attorno alla dialettica O'tE-vùv: il peccato e la legge ora non regnano (o perlomeno possono non regnare) sul cristiano; un temp o anteriormente alla sua partecipazione sacramentale alla morte di Cristo, lo facevano. Come non vedere nella descrizione di avvenimenti passati dei vv. 7ss un esplicito riferimento alla situazione che era stata definita oramai termi­ nata per il cristiano? Per questa serie di motivi, l'ipotesi che l'io dei vv. 7-13 desi-

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20 Tali analisi sono state comunque tentate: E. FARAHIAN, Le «je» paulinien (AnGreg 253), Roma 1 988, 71 73 ritiene che solo quattro volte all'interno dell'intero epistolario Paolo utilizzi il pronome in senso retorico ed evita incomprensibilmente ogni riferimento al dialogismo diatribico. THEISSEN, Aspekte, 1 96- 197 riconosce che nella subiectio il pronome può essere utilizzato in senso re­ torico, adducendo come esempi paolini Rm 3,7 e lCor 10,29-30, ma limita tale uso alla formulazione della domanda e non alla successiva discussione. Se anche ciò risultasse vero per tali usi paolini non verrebbe con ciò ancora autorizzata alcuna conclusione sul tipo di valenza dell'io nella presente peri­ cope. Il tipo di designazione qui operata dall'ty può essere deciso solamente in base alle caratteri­ stiche che qualificano tale pronome nel presente contesto. 21 Cf. RHYS, Romans, 8 I ss; E. ELLWEIN, «Das Ratsel von Romer Vlh>, in KD 1 ( 1 955), 247 267; D.H. CAMPBELL, «The ldentity of tyc:b in Romans 7:7-25», in Studia Biblica 1978 III (JSNTSS 3), Sheffield 1 980, 57-64; per LENSKI, Romans, 461 , l'io designa Paolo in quanto rappresentativo di ogni cristiano; per M A I LLOT Romains, 185, Paolo subito dopo la rivelazione di Damasco; per SEGA L Paul, 229, Paolo che da cristiano riabbraccia la Torah. K. FtNSTERBUSH, Die Thora als Lebensweisung fiir Heidenchristen (SUNT 20), Gottingen 1996, 49ss, pensa che l'io includa i soggetti designati dai vv.l -6, cioè i cristiani di origine pagana. Ma non si comprende il motivo che spingerebbe a conside­ rare come uguali soggetti di pericopi diverse, i quali, all'interno delle rispettive argomentazioni, sono connotati in modo tanto differenziato. -

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gni un soggetto cristiano è un 'ipotesi che tra gli interpreti odierni trova ben poco credito. Viene invece di sovente formulata con varie modalità l'ipotesi che questi versetti narrino il passato giudaico di Paolo, ipotesi che nelle sue linee generali abbiamo già criticato. È qui necessaria una discussione delle varie sfumature con le quali essa viene presentata da alcuni autori. G. Theissen riconosce il contrasto tra le affermazioni di Fil 3,4-6 e Gal 1,13-14 da un lato e quelle del nostro testo dall'altro, ma, applicando i principi della psicoanalisi, ritiene che possano essere comprese come due stadi diversi della evoluzione psicologica di Paolo: «Fil 3,4-6 riporta nuovamente la coscienza del Paolo precristiano, Rm 7 per contro illustra un conflitto una volta inconscio, divenuto conscio a Paolo solo in seguito>>. 22 L'autore giunge a formulare tale tesi associando la descrizione che Paolo offre di sé stesso in Fil e Gal con altre descrizioni «tipiche» del giudeo (ad es. : Rm 2,1. 17). L'immagine che ne risulta assume i tratti caratteristici di un'orgogliosa affermazione della propria identità religiosa, che in Paolo arriva sino alla perse­ cuzione di chi si rapporta in modo diverso alla legge (i cristiani) e alla concla­ mata esemplarità della propria condotta. Tutto ciò viene valutato dal Theissen come una patologica «Sovra-identificazione» ( O beridentifikation) con il proprio gruppo religioso e le sue norme e considerato precisamente come causa del suo zelo persecutorio: l'orgoglio di tenore dimostrativo nei confronti della legge del Paolo fariseo era una reazione ad un conflitto incon scio con la legge. i n cui la legge era divenuta fattore provocante ansietà . Nei cristiani egli, in modo inconscio, perseguitava se stesso.23 .

..

Come interpretare allora gli enunciati contraddittori di Rm 7,7ss? Per Theissen: «Rm 7 è il risultato di una presa di coscienza, a seguito di un lungo sguardo retrospettivo, di un conflitto una volta inconscio» /4 ove la risoluzione del conflitto e la sua successiva presa di coscienza è resa possibile dalla fede in Cristo. La sua morte salvifica è colta, dal punto di vista psicoanalitico, come pos­ sibilità del superamento del conflitto interiore originato da tendenze punitive stimolate dalla legge, la cui funzione nei confronti dell'io è analoga a quella del super-io freudiano. Una tale analisi, come ben si vede, renderebbe ragione del tenore autobiografico di testi in sé contraddittori: Fil 3,4-6 sarebbe una descri­ zione «oggettiva» del passato di Paolo, in cui egli presenterebbe semplicemente le proprie convinzioni di un tempo; Rm 7,7-25 costituirebbe invece il giudizio cristiano di Paolo sul suo passato, giudizio reso possibile dalla fede in Cristo e dalla luce gettata dalla fede sulle tensioni interiori un tempo causate dalla legge. Ma è attendibile una tale analisi? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, quale relazione intercorra tra la morte dell'io di indole spirituale dei vv. 10ss e il 22

THEISSEN, Aspekte, 236-237. THEISSEN, Aspekte, 244. 24 THEISSEN, Aspekte, 244-252. Similmente anche G. LODEMANN, «Psychologische Exegese», in Bilanz und Perspektiven gegenwiirtiger Au.slegung des Neuen Testaments, 91-1 1 1 . 2l

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conflitto psicologico di cui parla l'autore, se la comprensione di tale avveni­ mento all'interno delle categorie della psicoanalisi non sia di fatto riduttiva ri­ spetto alla pregnanza di significato a essa conferita dall 'argomentazione paolina. Ma c'è una osservazione che a nostro parere inficia radicalmente la possibilità di una lettura di tal genere. Per formularla attingiamo, esclusivamente per ragioni di chiarezza, a una terminologia desunta dalla narratologia, senza aver la pretesa di seguire qui le teorizzazioni di tale metodologia in modo compiuto e analitico. Ogni testo presenta al lettore un 'immagine del suo autore. Essa risulta da ciò che l'autore dice di sé esplicitamente e da ciò che della sua persona lascia traspa­ rire attraverso allusioni implicite, come pure dal mondo di valori, dalle convin­ zioni o dai sentimenti che il testo stesso comunica. L'autore può non riferirli esplicitamente a sé, ma il lettore naturalmente li attribuisce al soggetto dalla cui mente è originato un testo. Viene definito autore implicito questa immagine che un testo comunica del suo autore, ovvero l'idea di autore che è possibile rico­ struire dalla lettura di un testo. Ovviamente, dietro l'autore implicito c'è l'autore reale, ovvero la persona concreta da cui è originata l'opera, quella che ha mate­ rialmente ideato, scritto o dettato l'opera. I rapporti possibili tra autore reale e autore implicito sono molteplici: si va da una loro marcata prossimità a una loro marcata differenziazione. Ovviamente dall'autore implicito si potrà iniziare un percorso di risalita all'autore reale, si potrà cioè ritenere, per svariati motivi, al­ cune affermazioni che l'autore comunica su di sé come assolutamente degne di attendibilità e riferirle pertanto alla persona che concretamente ha scritto l'opera. Tale percorso potrà essere più o meno sviluppato, a seconda di vari fat­ tori che qui non è il caso di presentare. Ciò che invece ci preme sottolineare è che tale percorso non potrà mai essere completato, fino cioè ad appiattire la dif­ ferenza tra autore reale e autore implicito, poiché sempre, per definizione, essi rimangono distinti: differenziati in misura minima o massima, a seconda di vari fattori, ma sempre distinti. Ad esempio, anche nel caso di un romanzo autobio­ grafico non c'è mai assimilazione o identificazione: l'autore vuole o sa comuni­ care solo parte della sua esperienza, secondo l'ottica che ritiene significativa al momento della scrittura, non registra meccanicamente tutti i momenti della sua giornata. Ed è precisamente questa l'osservazione pertinente alle tesi di Theissen. Egli analizza gli scritti paolini come se fossero non testi scritti duemila anni fa, ma come parole proferite dal lettino di uno psicanalista oggi, si muove con la si­ curezza di poter risalire non solo al Paolo-autore-implicito ma pure al Paolo­ autore-reale, con la pretesa ulteriore di interpretare il suo subconscio; tali pre­ tese però appaiono del tutto infondate agli occhi della critica letteraria. In forza di una metodologia desunta dalla psicoanalisi, nella proclamata esemplarità della condotta paolina sotto la legge Theissen evince sintomi di psicopatologia, e così pure nelle affermazioni della gioia, del vanto del giudeo nei confronti della legge. Ma cosa dire allora di tutte le affermazioni simili che sono così estesa­ mente presenti nella letteratura vetero ed inter-testamentaria, la cui citazione qui sarebbe solamente un esercizio di inutile pignoleria tanta è la loro diffu-

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sione? Sarebbe di conseguenza tutta quella esperienza religiosa da giudicare «psicopatologica» o piuttosto tali enunciati non nascono da una autentica con­ vinzione di fede, che talvolta si può esprimere anche attraverso un certo tipo di esagerazione, richiesto dalla natura del contesto in cui si trovano e dalla «reto­ rica» stessa del testo? Così in Paolo: le affermazioni di Fil 3,4-6 non hanno forse una logica intrinseca, data loro dal contesto globale in cui sono situate e dallo sforzo retorico che qui Paolo sta compiendo, piuttosto che essere sintomo di suoi conflitti inconsci? L'interpretazione di Theissen, pertanto, appare non fondata nel testo paolina ma piuttosto dedotta da categorie a esso estrinseche. Essa po­ stula la possibilità di passare immediatamente dall'ambito intra-testuale, cioè dall'autore implicito, a quello extra-testuale. ali 'autore reale. Per concludere: una tale ermeneutica costituisce un a-priori, che appare problematico proprio quando le affermazioni di un testo possono trovare la ragion d'essere all'interno del testo stesso senza il ricorso a categorie a esso estrinseche. Perciò si deve ri­ gettare l'analisi di natura psicoanalitica di Rm 7 e di conseguenza la possibilità di conciliare, in forza di tale interpretazione, i testi di Fil 3 e Rm 7 come autentica­ mente autobiografici. E poiché non ci sono motivi per dubitare del tenore auto­ biografico di Fil 3, risulta che Rm 7 non può essere compreso in questo modo. Altri autori ritengono in diversa misura il carattere autobiografico di questi versetti, ma pongono l'accento sul fatto che rio. presentando l'esperienza di Paolo anteriore alla sua conversione, la esprima come quella di un tipico giu­ deo.25 Poiché la nostra sezione si presenta come discussione sulla legge mosaica, e a causa del fatto che l'io si rapporta con tale legge. parrebbe sensato affermare che tale soggetto sia un esponente della religione ebraica che si confronta con quella legge che rappresenta la struttura normativa della sua esperienza reli­ giosa. Una tale affermazione va però precisata: se si vuole scorgere nei versetti qui in questione la narrazione di un'esperienza caratterizzante la vita di Paolo anteriormente alla sua conversione ci si imbatte inevitabilmente nella disso­ nanza delle affermazioni di Fil e Gal rispetto a quelle qui sviluppate. In modo analogo, se si vuole vedere qui descritta l'esperienza di un qualsiasi fedele ebreo dei tempi di Paolo si incontrano difficoltà di tenore simile, poiché nessuno tra essi potrebbe convenire nel fatto che la legge, creduta come dono di Dio per la salvezza del suo popolo, sia divenuta strumento non di salvezza ma di pratica del peccato e, di conseguenza, di morte: tali affermazioni paiono difficilmente com­ prensibili sulla bocca di un soggetto che sceglie la legge come criterio per la sua vita. Molti autori, pertanto, affermano che le parole pronunciate dall'io sono do­ vute a un giudizio cristiano della situazione dell'uomo sotto la legge. Non è il Paolo giudeo o un qualsiasi rappresentante di tale religione che parla in questa

25 Cf. Dono, Romans, 108; BARREIT, Romans; 1 42-144; ScHMIDT, Romer 1 26-1 28; G. BADER, «Romer 7 als Skopus einer theologischen Handlungstheorie», in ZTK 78(1 981 ) 48; P. TRUDINGER, «An Autobiographical Digression? A Note on Romans 7: 7-25», in Exp Tim 107(1 996), 173-174. AL­ THAUS, Romer, 66-67: BLASER, Gesetz, 1 14-119, vedono designata l'esperienza del tipico giudeo senza sottolineare il riferimento autobiografico. ,

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maniera, ma il Paolo cristiano che mette in bocca di un immaginario soggetto giudaico le convinzioni divenute a lui proprie dopo l'avvenimento di Damasco.26 Utilizziamo volutamente l'espressione «mettere in bocca», in quanto richiama esplicitamente la figura dell'i)OorroLla; molti autori hanno riconosciuto di fatto la presenza di una simile figura retorica, senza farla risalire alla sua teorizzazione m an ualistica. Questa interpretazione coglie indubbiamente un aspetto fondamentale del testo qui in esame: proprio perché liberato dalla schiavitù del peccato il cristiano può distanziarsi da esso e prendere coscienza di tutte le dimensioni di tale entità. La dialettica allora-ora, attraverso la quale il testo era andato sviluppandosi nella pericope precedente, fonda ulteriormente una tale interpretazione: Paolo, dopo aver caratterizzato la situazione anteriore alla presente come una situa­ zione di schiavitù al peccato (6, 16ss), la r.ichiama esplicitamente usando dei verbi al passato. È possibile a questo punto precisare ulteriormente in che senso la presente sezione si riferisca a un soggetto giudaico. Al v. 7,7b Paolo mette in scena un soggetto che narra alcune sue esperienze passate e che si trova conno­ tato da un rapporto con la legge mosaica. Il riferimento a un soggetto giudaico sorge immediato nel lettore, ma le affermazioni seguenti non permettono di scorgere nei fatti narrati delle esperienze che tale soggetto potrebbe asserire come proprie. Utilizzando nuovamente terminologie desunte dalla narratologia, si può dire che l'io si presenta all'inizio come un narratore di esperienze di cui è stato protagonista, si presenta cioè come personaggio interno alla storia da lui raccontata ( omodiegetico ). Tuttavia, poiché le connotazioni di tale storia difficil­ mente possono essere comprese come fedele espressione di esperienze da lui ri­ conoscibili come proprie, l'io-narratore viene a perdere di effettiva consistenza e le espressioni da lui asserite vengono, per ciò stesso, fatte risalire immediata­ mente a Paolo, autore della presente pericope. Se pertanto l'io, in forza della sua relazione con la legge mosaica viene riconosciuto come un soggetto giudaico, i vv. 7-13 non vengono compresi come autobiografici, ma come l'espressione di un giudizio cristiano messi in bocca a tale soggetto in modo fittizio. E poiché l 'io viene così a perdere di effettiva consistenza in quanto narratore, si deve di con­ seguenza escludere che un soggetto giudaico possa effettivamente essere com­ preso come locutore delle affermazioni della presente sezione, possa cioè essere designato in quanto tale dall'utilizzo del pronome èyoo. L'io non appare quindi un soggetto giudaico che narra proprie esperienze, ma una figura che interpella provocatoriamente chi si riconoscerebbe in tale personaggio in forza della sua relazione con la legge mosaica, ma allo stesso tempo respingerebbe come non proprie le considerazioni qui sviluppate. Detto sinteticamente: il soggetto di fede ebraica non è compreso come locutore nella presente pericope, bensì implicato come suo destinatario. Solo con tale precisazione è possibile parlare di riferi­ mento giudaico del pronome èyoo. 26

Cf. BULTMANN, �Anthropologie». 53.

La

pericope

7,7-25:

retorica e teologia

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Se tuttavia Paolo interpreta cosi l'esistenza sotto la legge, si potrà osser­ vare, è di conseguenza innegabile il fatto che egli interpreti così anche il proprio passato farisaico. Non potrebbe allora il pronome èyoo esprimere anche questo passato paolino, ovvero esprimere una identificazione retorica di Paolo con lo stesso popolo assoggettato alla legge - tra i cui membri anche lo stesso Paolo era annoverato -, al pari dei profeti di Israele che con il pronome di prima per­ sona si identificavano con il popolo?27 A nostro avviso una simile implicazione è possibile solo con la fondamentale precisazione, appena espressa, che il passato giudaico di Paolo non viene qui descritto, ma interpretato, e che l'io di conse­ guenza non appare come autentico narratore di esperienze effettivamente auto­ biografiche. In seguito a queste importanti chiarificazioni si può iniziare a rispondere a una domanda lasciata in sospeso nel capitolo precedente: cosa implica il riferi­ mento al racconto di Gen 3 per una discussione imperniata sulla legge mosaica? Ricordiamo che i vv. 8b-1 0a postulano il richiamo alla storia dell'Eden, dove si narra lo scatenarsi del peccato e la conseguente morte spirituale dell'io a seguito della venuta del comandamento. Ora la discussione sulla legge si sviluppa su di un terreno già segnato dalla situazione di morte spirituale. il comandamento mo­ saico viene equiparato, nel suo funzionamento, al comandamento divino della Genesi. Il soggetto giudaico interpellato da questa argomentazione, di conse­ guenza, viene provocato, attraverso affermazioni per lui paradossali, a porre in parallelo la sua relazione alla legge mosaica con la relazione del primo uomo al comando divino e alle sue conseguenze di morte, cioè a leggere in filigrana la propria storia nella storia di Adamo. 2R Se il peccato si è dimostrato più forte del comandamento divino di Gen, l'accostamento di tale comandamento con la legge mosaica sembra suggerire che il peccato possa dimostrarsi più forte anche di quest'ultima e l'uomo giudaico di conseguenza viene forzato a comprendersi all'interno dell 'umanità adamitica. La figura dell'f]SoJtoLla appare così funzio­ nale all'espressione di una simile strategia argomentativa a un tempo allusiva e provoca toria. Un'altra ipotesi vede nell'io dei vv. 7-13 un riferimento alla storia di Israele, e nella venuta del comandamento il dono della legge al Sinai. 29 Tale ipotesi, però, potrebbe essere tenuta in considerazione solamente se il verbo €�wv del v. 9 si riferisse a una vita non piena, o a una situazione in cui semplicemente il pec­ cato non fosse imputato dalla legge. Ma queste possibilità sono state già escluse (cf. 111.1 .4). Poiché da tale verbo viene designata una vita in senso pieno, diviene incomprensibile il suo riferimento alla situazione di Israele anteriormente al

27 Cf. FARAHIAN, «le>>, 178-179; LAMBRECHT, Wretched, 84-85, il quale come esempio di tale stile profetico cita Ger 1 0.19-20, Mi 7,7-10. Lam 1 ,9-22. 211 Similmente anche B Y R N E Romans, 218. 29 Cf. van DOLMEN, Theologie, 1 09-1 10; M.W. KARLBERG, «lsrael's History Personified: Ro­ mans 7:7-13>>, in Trinl 7(1986), 65-74; Moo, «lsrael», 127ss; LAMBRECHT, Wretched, 46.84, C.G. KRusE, Paul, the Law and Justification, Leicester 1 996, 208ss. ,

Una legge buona

1 82

ma

impotente

dono della legge al Sinai. La storia dell'umanità prima di tale avvenimento, in­ fatti, è ben lungi dall'essere descritta nella Bibbia come una storia di «Vita» e di assenza di peccato, e in Rm 5,12-21 Paolo ribadisce tale convinzione biblica. Poi­ ché infatti egli vi afferma chiaramente che il peccato è presente e operante nel mondo prima della legge mosaica, la quale ha la mera funzione di imputarlo, e poiché qui viene invece detto che prima della venuta del comandamento il pec­ cato è morto, ovvero non operativo, è evidente che gli avvenimenti descritti in queste pericopi sono differenti. Un'ulteriore ipotesi riguardo alla designazione dell'io è quella fonnulata da autori che, tenendo più o meno in considerazione riferimenti autobiografici al passato di Paolo o designazioni di un soggetto giudaico, pongono l 'accento sulla designazione universale dell'io. Il pronome sarebbe utilizzato in senso retorico e generico e il soggetto che qui parla sarebbe così rappresentativo dell'umanità in generale,30 ovvero designerebbe ogni uomo, in quanto peccatore, appartenente a una umanità contrassegnata dal peccato di Adamo, e in quanto posta a con­ fronto con un qualsiasi sistema legale-religioso. Il fatto che tale sistema sia quello mosaico non riveste, per questa linea interpretativa, di effettiva impor­ tanza. Ciò che viene detto riguardo ali 'uomo giudaico pare potersi affermare per qualsiasi uomo religioso. La posizione del cristiano all'interno di tale umanità è una questione che viene valutata in modo diverso da vari autori e che qui non ci interessa; abbiamo infatti già asserito che a nostro parere il cristiano non è desi­ gnato dall'io in questa sezione. Effettivamente il ricorso alla figura di Adamo parrebbe almeno parzialmente poter giustificare un allargamento di prospettiva nella designazione dell'io e indurre, come si è detto, a considerare il giudeo al­ l'interno di una umanità più ampia. Il fatto poi che si affermi che la legge mo­ saica è stata strumentalizzata dal peccato il quale, in questa operazione, si dimo­ stra più forte rispetto a essa, sembrerebbe autorizzare la conclusione che simili affermazioni possono applicarsi a fortiori a qualsiasi altro sistema legale etico e religioso. Si potrebbe quindi anche affermare che qualsiasi uomo può esperi­ mentare le vicissitudini qui descritte ed essere così designato dal pronome tyoo. Un simile procedimento non sembra però corretto. A nostro avviso, sostenere che ciò che si dice in questa sezione può applicarsi per estensione anche a un soggetto non giudaico non vuoi dire che Paolo abbia volutamente inteso una tale estensione. Decidere se l 'io possa designare «ogni uomo» è una operazione che può essere effettuata solamente sulla base degli interessi autenticamente mani­ festati dall'argomentazione. Ora, in questa sezione Paolo pare mosso dalla di­ scussione sulla Torah, non da considerazioni sulla natura e situazione di «ogni uomo». L'interesse antropologico non è quello determinante la sezione: la di­ scussione di natura antropologica pare piuttosto funzionale a quella sulla legge. � 30 Cf. ALTHAUS, Romer, 66-67; ScHLATI'ER, RiJmer, 2(]7; BoRNKAMM, Ende, 59; SCHUER, Ro merbrief, 228ss; G. ScHUNACK, Das hermeneutische Problem des Todes, Ttibingen 1 967, 124ss.136ss.205ss; J. B LA N K «Der gespaltene Mensch. Zur Exegese von Rom 7,7-25», in BibLeb 9 ( 1 968) , 1 0-20; MuRRAY, Romans, I 225; VERGOTE, «Moi», 123-124; CRANFIELD, Romans, I 341 -344; ,

La pericope 7,7-25: retorica· e teologia

183

Questa osservazione è già stata fatta riguardo alle sezioni successive della pre­ sente pericope e a maggior ragione si impone a riguardo alla presente, dove la legge mosaica e il suo comandamento sono continuamente menzionati e la cui conclusione, che è affermata nei vv. 12-13 (cf. 111.1.7 e 8), porta l'attenzione del lettore proprio sulla legge e sul suo essere strumentalizzata dal peccato. Non ri­ teniamo pertanto possibile asserire che l 'io di questa sezione designi un rappre­ sentante generico dell'umanità, implicando con ciò stesso un allargamento di prospettiva che non è per nulla inteso dagli interessi qui esplicitamente manife­ stati. Possiamo a questo punto fare un bilancio riguardo alla problematica qui affrontata. L'io di Rm 7,7- 1 3 si presenta in primo luogo come un soggetto ebreo, in quanto connotato essenzialmente da un rapporto con la legge mosaica. Tutta­ via, a una simile affermazione bisogna immediatamente aggiungere che le consi­ derazioni da lui espresse e i fatti da lui narrati non si possono in alcun modo pen­ sare come espressione delle sue reali convinzioni o evocazione di esperienze au­ tenticamente autobiografiche, per cui non è veramente appropriato parlare di effettiva designazione giudaica dell'io di questi versetti. Piuttosto si deve riba­ dire che questa sezione si può comprendere solamente come espressione di un giudizio cristiano immediatamente e fittiziamente posto sulla bocca dell'io. Al­ cune espressioni, tra le quali quelle dei difficili vv. 8b- 10a. postulano un riferi­ mento al racconto biblico di Gen 3, e pertanto l'io esplicitamente richiama per alcuni versi la figura di Adamo. Tale richiamo pare finalizzato a collocare l'io giudaico e la sua relazione con la legge ali 'interno di una storia e di un 'umanità contrassegnata da una situazione di morte spirituale storia dalla quale in nessun modo l 'io pare avulso. .

2.2

I vocaboli del campo semantico dell'antropologia: una disamina

Prima di passare all'analisi dell'utilizzo del pronome nei vv. 1 4ss ci sembra utile affrontare la questione della visione dell'uomo implicata dall'utilizzo, alla fine della pericope, di differenti termini attinenti al campo semantico dell'antro­ pologia. Soprattutto a partire dal v. 22 Paolo infatti non mette più solamente in scena un soggetto diviso tra la sua volontà e la sua prassi, ma attribuisce pure la volontà orientata al bene al suo uomo interiore-sua mente - espressioni da con­ siderare sinonime: cf. 111.3.2 , e la sua prassi peccaminosa alle sue membra-sua carne. Già al v. 18, lo si è visto, viene utilizzata un'espressione che parrebbe po­ ter in qualche modo differenziare la «carne» da tutto l'io. Sono queste espres­ sioni da considerare esprimenti delle locazioni in senso stretto? Pensa cioè Paolo a un io suddiviso interiormente in differenziate parti costitutive, ognuna delle quali sta all'origine di attitudini diverse e tra loro conflittuali? Su tali linee, come -

VIARD. TII A LS,

Romains, 160-162; MtcHEL, Romer, 227; WEBER, «lch», 175; MoRRIS, Romans, 247.28L ScHMI­ Romerbrief, 216-217; SruHLMACHER, Romer, 98; THEOBALD, Romerbrief, 203.

1 84

Una legge buona ma impotente

è risaputo, si è mossa la riflessione della filosofia greca. Tuttavia molti indizi nella presente argomentazione fanno piuttosto propendere verso considerazioni differenti. 31 Riprendendo le annotazioni formulate nel capitolo precedente, rileviamo innanzitutto che la situazione di dissociazione esistenziale dell'io trae origine dal dominio che su di esso esercita il peccato, e che «schiavo» del peccato viene defi­ nito tutto l'io, non solamente qualche sua parte senza coinvolgimento delle altre. Di conseguenza l'io nella sua totalità viene definito «Carnale» (v. 14). La volontà dell'io orientata al bene, inoltre, non appare una volontà che possa autentica­ mente salvaguardare «parti» dell'io dal dominio del peccato poiché, dopo le af­ fermazioni che riferiscono tale volontà all'uomo interiore-mente viene immedia­ tamente ribadito che tutto l'io si trova nella situazione di schiavitù (vv. 22-23). 32 Se Paolo fosse veramente interessato a designare con precisione differenti parti costitutive dell'io, in una argomentazione in cui questi appare confrontarsi in termini drammatici con la potenza del peccato, dovrebbe chiarire le relazioni di tali parti con il peccato. Ma poiché ciò non avviene - fatto, questo, dimostrato dall'attribuzione indifferente dell'agire malvagio ora alla «carne» (vv. 1 8.25b) o alle membra (v. 23), ora alrio considerato nella sua unitarietà (vv. 1 9.20.21 ) - si è necessariamente portati a concludere che Paolo non è interessato a presentare in modo consistente una visione antropologica in cui l'io venga precisamente dif­ ferenziato in diverse parti Queste considerazioni paiono indubbiamente raffor­ zare l'interpretazione data del «corpo di morte» del v. 24 (cf. 111.3.3). Proprio perché ai vv. 7ss veniva detto che tutto l 'io andava incontro a un destino di morte a causa dell'azione del peccato, si deve vedere anche in quella espressione designata non l'esteriorità materiale dell'uomo, ma la sua persona, implicata in un destino di morte spirituale. A simili considerazioni orienta anche l 'unione en­ fatica del pronome airr6 ç con il pronome personale €y>.

La

pericope

7,7-25:

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1 85

l'uomo tutto intero. Ad es., in Rm 6,12-13 si nota un caratteristico alternarsi in parallelo tra «corpo»-«membra» e il pronome èatrtoù, in forza del quale Paolo giunge ad affermare indifferentemente che le «membra» delle persone o le per­ sone stesse sono oggetto di offerta alle signorie mutuamente concorrenziali del peccato o di Dio. Questo fatto postula indubbiamente un 'identificazione tra il corpo e le membra da una parte e la persona stessa dall'altra. Anche il sostantivo oaQ!; talvolta designa la persona umana, sia in frasi stereotipe quali Rm 3,20, 1 Cor 1 ,29, Gal 2,16 (n:aoa oag;) o Gal 1 ,16 (oag; xat aÌJ.ta), sia utilizzato da solo, come ad es. in 2Cor 7 ,5, ove la locuzione «riposo della carne» deve signifi­ care «riposo della persona». Tuttavia un tale impiego non è esclusivo. Diverse volte, infatti, Paolo parla in termini che implicano una certa differenziazione del­ l'io dal corpo. In 2Cor 5,1-10 il soggetto si distingue chiaramente dal proprio corpo, «abitazione» del soggetto sulla terra; nel v. l viene utilizzato in senso figu­ rato il sostantivo oxl)voç, mentre a partire dal v. 6 esplicitamente OOOJ.ta. In 2Cor 12,2-4 viene detto che il soggetto può estraniarsi dal proprio corpo durante un 'e­ sperienza mistica. Affermazioni come quelle di Gal 6.17 o l Cor 9,27 non si pos­ sono comprendere se non come designanti l'esteriorità dell'uomo. Anche per quanto riguarda il termine oaQ; si deve riconoscere che talvolta non si può sfug­ gire all'impressione che Paolo intenda la parte esteriore, visibile dell'uomo (ad es.: Rm 2,28), la parte muscolosa del corpo (2Cor 12.7) o semplicemente il corpo stesso (Gal 4,13). Ritenere questi usi linguistici paolini - di cui abbiamo fornito solo alcuni esempi - come del tutto parziali. dovuti più a prestiti terminologici dell'ellenismo e asserire di conseguenza che OWJla è ruomo «in quanto può ren­ dersi oggetto del proprio comportamento, di fronte al quale può distanziarsi nel suo essere soggetto... » 34 è un'affermazione a nostro avviso un po' eccessiva. Ol­ tre a interpretare il termine OWf.la con categorie desunte da indirizzi filosofici at­ tuali e per ciò stesso sospetta quando pretenda di voler esplicitare il senso auten­ ticamente paolino dello stesso, 35 tale affermazione sembra voler assolutamente far passare come del tutto irrilevante il fatto che Paolo conosca una differenzia­ zione tra l' , in G LNT Xl, 1 237-1 379; Io., «"OÙ>J.la" D. Il Nuovo Testamento», in GLNT, XIII, 692,

757.

41

Cf. GuNDRY, Soma, 1 37ss. Conveniamo in ciò con HECKEL, Mensch, 209-210. 43 Così WILCKENS, Romer, II 93: «il mio essere dominato per mezzo del peccato diviene reale nel mio agire». 42

188

Una legge b11ona

ma

impotente

discernimento morale. Da qui a voler vedere designato con tale termine la capa­ cità di giudizio etico dell'uomo e non il suo intelletto, cioè a vedere il termine virtualmente sinonimo di «coscienza» ed esprimente la sua responsabilità etica di fronte a Dio, il passo è breve. 44 Breve, ma non giustificato. Infatti in altri usi paolini (es.: l Cor 14,14. 1 9; Fil 4,7) il termine è soggetto di una mera conoscenza intellettuale e designa di conseguenza inequivocabilmente la «mente», «l'intel­ letto», secondo il significato usuale nel greco. Quando esso viene adoperato nelle accezioni precedentemente menzionate, si deve riconoscervi una sineddo­ che che, in senso inverso rispetto a quella considerata per i vocaboli sopra analiz­ zati, ora esprime la parte con termini che abitualmente designano il tutto, ovvero la razionalità etica dell'io con la sua capacità razionale generalmente intesa. An­ che in 7,23.25 vouç pare esprimere tale coscienza etica del soggetto, la quale viene illuminata dalla legge divina ed è orientata al bene, ma è smentita dalla prassi che manifesta la legge del peccato. Per ciò stesso appare logico e conse­ guente vedere nella volontà al bene del soggetto l'espressione della «mente», cioè del soggetto stesso che si colloca in sintonia con la legge divina, ma a un li­ vello - giova ripeterlo - meramente intellettivo e ideale. Una tale sottolinea­ tura della sintonia tra mente e legge pare problematica a Bultmann, il quale ri­ tiene che negli scritti paolini la mente . in quanto tale, possa orientarsi sia al bene come al male e non essere indirizzata in senso unico. 45 Questo problema però sorge solamente se le affermazioni paoline vengono lette come esprimenti una perenne e costante valutazione dell'uomo di tipo ideale. Nella nostra argomen­ tazione, invece, non si vuole esprimere questo. ma semplicemente presentare un soggetto che si raffronta con la legge, a cui dà un assenso intellettuale e che, per­ tanto, tra i possibili orientamenti della sua coscienza etica sceglie quello positivo. Questo fatto, congiuntamente alla constatazione che la sua prassi non si con­ forma a tale orientamento, risulterà decisiva per la comprensione dell'argomen­ tazione. 2.3

Il desiderio etico irrealizzabile dell'io

Riguardo alla coscienza etica dell'io ci si può chiedere come altrove Paolo abbia espresso le sue convinzioni su questo argomento. Quando soggetti cre­ denti sono implicati nella sua argomentazione, è ovvio che una tale coscienza venga radicata nella loro fede (cf. Rm 1 4,22-23). Infatti egli afferma anche che il volere e l'operare del cristiano vengono suscitati da Dio (Fil 2,13). Si può per­ tanto far risalire il cpgovEiv e l'btt6Uf.1EÌ:V del credente direttamente al suo agente prioritario, lo Spirito (cf. Rm 8,5-7 e Gal 5,16-17), il cui moto interiore è antite­ tico a quello della carne. Con tali premesse è interessante una lettura di Rm 12,2. Qui i cristiani sono destinatari di due inviti, espressi con verbi al passivo, indi-

44

4s

Così BuLTMANN, Theologie, 2 1 1 -214.

Cf.

BuLTMANN,

Theologie, 213.

La

pericope

7,7-2 5:

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189

cando così inequivocabilmente che la loro azione si può solo comprendere come disponibilità a quella prioritaria dello Spirito. Il primo invito ha per oggetto una formulazione in negativo, cioè la non conformazione alla presente era. Il se­ condo invece invita positivamente al rinnovamento della mente. La finalità di tale processo viene indicata nel discernimento ( boxtf.LéttftV) di ciò che è con­ forme alla volontà di Dio. Come abbiamo già avuto modo di dire, in tale conte­ sto «mente)) deve essere intesa come soggetto del discernimento etico, come ca­ pacità dei soggetti di vagliare e offrire l'obbediente assenso alla volontà di Dio. È infatti ovvio che un riconoscimento meramente intellettuale non avrebbe al­ cun senso, come il versetto chiarisce invitando prioritariamente i credenti a of­ frire i «corpi)) come «sacrificio» a Dio. Lo stretto parallelismo con le espressioni di Rm 6,12ss giustifica da solo per il termine «corpo» il significato di «persona», intesa nella sua attualizzazione operativa. E poiché tale capacità di discernere il bene è frutto dell'agire divino, al quale i cristiani sono invitati a conformarsi. è altresì necessario vedere in essa una manifestazione propria dello Spirito, uno dei segni che caratterizzano il cristiano in quanto tale. Si deve vedere la stessa capacità del cristiano espressa in Rm 7? La mente che è in sintonia con la legge di Dio (Rm 7.25) è un segno che caratterizza il cri­ stiano, al pari della mente di cui si parla in 1 2,2 o in 14.5? E in modo analogo, l'uomo interiore di 7,23 deve essere colto come una designazione del cristiano, al pari di 2Cor 4,16?46 A simili domande la nostra risposta è decisamente negativa. O meglio: nelle ricorrenze precedentemente menzionate sono i vari contesti a imporre la designazione cristiana dei termini qui in esame. i quali così risultano essere connotati positivamente non in forza di una loro «bontà» intrinseca così come «carne» e «corpo» non sono negativi in quanto designanti l'esteriorità dell'uomo -, ma in forza solamente delle caratteristiche che il contesto in esame fa loro assumere. Per asserire la valenza cristiana dei suddetti termini bi­ sognerà di conseguenza indicare cosa nel presente contesto autorizza simile af­ fermazione; il fatto che in altri contesti Paolo abbia utilizzato tali termini con una chiara connotazione cristiana appare del tutto insignificante. C'è di più: se parlando di cristiani Paolo attribuisce alla loro mente la capacità di discernere la volontà di Dio, non esclude ad es. che i giudei possano essere autenticamente orientati nella loro conoscenza etica dalla legge, come viene detto in Rm 2,17-18. Certamente tali affermazioni sono fatte in un contesto fortemente polemico nei confronti del giudaismo, in cui dapprima i giudei vengono violentemente apo­ strofati e l'argomentazione prosegue poi relativizzando il valore stesso della cir­ concisione (v. 29), elemento espressivo per antonomasia del giudaismo. È tutta-

46

Così, ad es.: LENSKI, Romans, 485; BARREIT, Romans, 150; BANDSTRA, Law, 1 46: J.l. PAc­ M an'' in Romans 7», in F.L. CRoss, a cura di. Studia Evangelica Il (TU 87), Berlin 1 964. 625; CRANFIELD, Romans, I 363; DuNN, Romans, I 393-394; Io., «Theology», 262; M. BYs­ Kov, «Simul Iustus et Peccator. A Note on Romans VII 25 b» in ST 30( 1 976), 78; HENDRICKSEN, Ro­ I'TUlns, I 235; D.S. DocKERY, «Romans 7:14-25: Pauli n e Tension in the Christian Life», in GraceTJ 2(1982), 250-25 1 ; GA RLINGTON, Faith, 129; lo., «Theology>>, 220.

KER, «The "Wretched

,

Una legge buona

190

ma

impotente

via importante notare che, nel seguito polemico dell'argomentazione, i cui in­ tenti sono compresi e valutati in modo assai differenziato da parte degli inter­ preti, la capacità conoscitiva ottenuta in forza della legge non viene comunque messa in discussione. Il semplice fatto, già precedentemente ricordato, che Paolo utilizzi come prova argomentativa ciò che la legge «dice» è segno di una sua vali­ dità a livello teoretico-religioso, non esclusivamente morale, ma nemmeno asso­ lutamente prescindibile da questo. Ovviamente in tali accezioni il sostantivo v6IJOç designa la yga$11, tuttavia è degno di nota il fatto che la Scrittura sia com­ presa come «legge». Anche nel contesto di Rm 7,7-25 la capacità conoscitiva etica del soggetto e il suo volere il bene paiono doversi ascrivere alla legge di Dio, espressione che, lo ripetiamo, designa inequivocabilmente la Torah giu­ daica (cf. 111.3.2). È infatti la Torah, così espressamente connotata, a illuminare la mente-l'uomo interiore (cf. vv. 22ss). La sintonia dell'io con il bene è dunque qui affermata in forza della legge, la cui funzione gnoseologica appare chiara­ mente sostenuta.47 Si comprende forse così perché la legge sia qui definita nvEUJla'tLxòç, in quanto con tale aggettivo verrebbe espressa la potenzialità che rende la legge passibile di tale comunicazione a livello teoretico. Tuttavia non si può in nessun modo dimenticare che tale comunicazione è allo stesso tempo confinata a quel livello, poiché a livello della prassi si riscontra il dominio di una «legge» di ben altro tenore. Pertanto è possibile ora precisare le affermazioni espresse nel capi­ tolo precedente (cf. 111.2.2 e 3). È vero che la legge «spirituale» illumina la cono­ scenza dell'io. Ma poiché la prassi non viene intaccata da questa conoscenza, l'il­ luminazione rimane alquanto parziale, praticamente inefficace. Pertanto, anche se la legge ha una certa rilevanza a livello noetico, praticamente l 'io non è benefi­ ciato da essa e può, nella sua globalità, essere definito carnale. Così la legge non è in grado di colmare lo iato tra la sua indole spirituale e la condizione dell'io schiavo del peccato. Parlando della «spiritualità» della legge l'argomentazione parla anche della sua debolezza. 2.4

L 'io

nei v v. 14ss: un

soggetto cristiano?

Prima di proseguire con queste considerazioni, che risulteranno decisive per la comprensione degli interessi centrali della pericope, si deve affrontare l 'a­ nalisi dell'identità dell'io nei vv. 14-25, analisi che le riflessioni testé effettuate già hanno introdotto. Poiché questi versetti si presentano come sottosezioni della pericope iniziata in 7,7, è logico interpretare l'utilizzo del pronome tyoo con la figura dell'f)SortoLia al pari dei versetti precedenti. Si notano qui comunque delle peculiarità rispetto a ciò che precede, in quanto l'io non viene più coinvolto in avvenimenti passati. A partire dal v. 14 il participio perfetto nenaJ,ttvoç dà ini-

47 Così WILCKENS, Romer, II 94: «ciò che in Rm 7,14-25 viene detto di positivo a riguardo del­ l'io deve essere accreditato alla legge non all'io». Cf. anche MEYER, «Core)), 68-69. ,

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7,7-25:

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zio a una serie di verbi al tempo presente, che è logico interpretare come conse... guenza degli avvenimenti anteriormente descritti. Per ciò stesso il riferimento alla figura di Adamo scompare in questa sezione, e difatti nessun elemento di essa può ricollegarsi al racconto di Gen 3. Diviene importante allora sapere se il pronome qui designa o allude a qualche altro soggetto. È, questa, una nota crux esegetica. Kiimmel, nella sua monografia, aveva escluso il riferimento a ogni soggetto cristiano in questi versetti.48 Benché le sue considerazioni siano apparse condivisibili a molti esegeti, nondimeno un considerevole indirizzo soprattutto anglofono ha, anche recentemente, argomentato a favore della tesi opposta, eventualmente asserendo · anche l'implicazione autobiografica del pronome.49 Sulla base delle connotazioni assunte dall'io nella presente sezione, cerchiamo ora di valutare l'attendibilità di queste tesi. In via preliminare, si deve notare che mancano del tutto gli elementi per una designazione specifica di questo soggetto come cristiano, ovvero ogni men­ zione della sua relazione con Cristo o del suo essere guidato dallo Spirito, fatto che colpisce indubbiamente soprattutto se rapportato alla semplice frequenza di tali menzioni nei capitoli contigui. Un a prima caratteristica rilevante d eli 'io è in­ vece il suo essere definito schiavo del peccato. esposto ineluttabilmente al suo potere. Con diverse metafore, lo si è visto, l'argomentazione ribadisce questa pe­ culiarità distintiva del soggetto della presente sezione. Ora, una simile caratteri­ stica non si combina affatto con le descrizioni da Paolo solitamente offerte della vita e dello status del cristiano, e men che meno con ciò che Paolo ha asserito della vita cristiana nella pericope precedente, 6,1-7.6. Qui appariva chiaramente che, in forza dell'unione battesimale alla morte di Cristo. il cristiano è ormai morto al peccato (6,2-5) e liberato da esso (6, 18). cosicché può non essere più as­ servito alla sua signoria e invece può dedicarsi al servizio obbediente di Dio e della sua giustizia (6,6. 12-14.18-22; 7,6). Abbiamo già dedicato a questo punto sufficiente spazio nell'esame di tutte le affermazioni che nella nostra sezione in­ dicano invece una realtà del tutto opposta. Senza ripetere l'analisi, ribadiamo semplicemente che la situazione di dissociazione esistenziale dell'io nasce dalla sua perdurante schiavitù sotto il peccato, e tale sua connotazione antitetica ri­ spetto alle precedenti descrizioni del cristiano indirizza decisamente verso una differenziazione dell'io da tali soggetti. Qui va segnalato solamente che l'unica 48 Cf. KOMMEL, Romer 7, 98ss. Tra coloro che a suo seguito hanno argomentato con più perti­ nenza per negare l'identità cristiana dell'io in questi versetti cf.: P. ALrnAus, «Zur Auslegung von Rom 7,14ff. Antwort an Anders Nygren», in TLZ 8(1 952), 475-480; B .L. MARTIN, «Some Reflections on the Identity of ty in Romans 7,14-25», in SJT 34(1 98 1 ) . 39-47 ( = lo., Law, 101ss); ZELLER, Ro­ mer, 144; LAMBRECHT, Wretched, 67; DfAz-RooELAS, Ley. 185- 1 93; J.-N. ALETII, «Romans 7,7-25: Rhetorical Criticism and its Usefulness», in SEÀ 61 ( 1 996 ). 88-92. 49 L'eventuale comprensione del pronome in relazione con il passato giudaico di Paolo si scontra nuovamente con la contraddizione del presente passo rispetto a Fil 3.5-6 e Gal 1 ,14. su cui ci siamo già a sufficienza soffermati, e con l'uso del tempo presente, che non fa assolutamente presa­ gire la descrizione di un passato ormai trascorso. Tra chi invece sostiene tale tesi cf. H.A.A. KEN­ NEDY, «St. Paul and the Law», in The Expositor 1 3(1917), 344ss; D.M. DAVIES, «Free from Law; an Exposition of the Seventh Chapter of Romans», in lnt 7(1953), 156-1 62.

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Una legge buona ma impotente

volta (v. 25b) che nella nostra pericope viene utilizzato il verbo òouÀeuoo, lo è con un 'applicazione del tutto diversa da quella del capitolo sesto. Infatti, un ser­ vizio limitato alla mente e in antitesi con quello fatto dal soggetto realmente operante non è affatto il servizio che si attende dal cristiano chi lo invita a offrire le sue «membra» a servizio della giustizia ( 6,19). 50 Riguardo a questo termine, deve essere detto che le membra luogo della manifestazione del peccato sono in 7,5 segno caratteristico di una modalità di esistenza per il cristiano ormai trascorsa, mentre in 7,23 sono ciò che contraddi­ stingue la situazione presente e drammatica dell'io. Collegata con queste rifles­ sioni è la connotazione dell'io come oétQX.Lvoç, ove tale aggettivo esprime esatta­ mente il suo essere assoggettato al peccato. Non si può non pensare nuovamente alle affermazioni di 7,5, ove l'espressione èv tij oaQx.l denota l'esistenza precri­ stiana asservita al peccato. Ancora più rilevanti risultano le affermazioni della prima sezione del capitolo ottavo, la quale costituisce, avevamo visto, una carat­ teristica ouyx.QLOLç con la presente e le cui affermazioni saranno di conseguenza oggetto di ulteriore analisi. Anticipiamo qui semplicemente la considerazione che in tale capitolo la libertà del cristiano dal peccato viene riaffermata (vv. 2-4), congiuntamente alla sua libertà dalla oétQ�, ovvero da una condizione marcata dal peccato (vv. 5-9� 12-13. Cf. ad es. la netta affermazione del v. 9: UJJ.Eiç ÒÈ oùx èo'tÈ tv oaQxi). Da tutto questo risulta come sia impossibile ritenere le descri­ zioni dell'io di 7,7-25 e dei soggetti cristiani nelle pericopi contigue come conci­ liabili. Per ciò che riguarda la sua relazione con il peccato, l'io viene connotato in termini tali da non potersi riferire a un cristiano. Ma, si potrà obbiettare, i cc. 6 e 8 della Lettera ai Romani non dicono tutta l'esperienza e la realtà del cristiano, non parlano del fatto che anche il cristiano avverte nella sua vita il condizionamento pesante del peccato e si riconosce biso­ gnoso della misericordia e del perdono divino. Non dicono ciò che Paolo ad esempio afferma in lCor 3,1-3, ove definisce i cristiani come oétQXtVOL-oagxLx.ol nel senso deteriore del termine. Non rendono conto della fermezza di toni spesso utilizzata da Paolo nell'argomentare su questioni concernenti il compor­ tamento dei membri delle sue comunità, segno evidente della sua convinzione che il peccato è realmente presente e operante in tali comunità. Non dicono che lo stesso dissidio tra volere e fare descritto con dovizia di particolari in questa se­ zione è sovente avvertito da molti cristiani ed è esplicitamente riferito a essi in Gal 5,17. Non sviluppano un'affermazione pur espressa da Paolo in 6,19, che cioè la «carne» dei cristiani può essere definita debole. Non si potrebbe allora pensare che in 7,14ss venga descritto un aspetto dell'esperienza cristiana che sa­ rebbe complementare con altri, cioè con quelli espressi ai cc. 6 e 8? Non parreb­ bero piene di buon senso le osservazioni di Cranfield, il quale asserisce che «più

50 Contro CRANFIELD, Romans, I 3�. Ricordiamo inoltre che il v. 21 nella presente pericope pone espressamente l'accento sulla volontà di «fare)) il bene e sui patemi risultanti dal fatto che que­ sto non avviene.

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seriamente un cristiano si impegna, nella vita di grazia, per sottomettersi alla di­ sciplina del vangelo, più diviene cosciente della propria continua peccamino­ sità» 51 e vedere nella volontà orientata al bene uno dei segni del cristiano che vuole distanziarsi da tale stato di cose? Se a queste considerazioni viene poi af­ fiancata la consapevolezza che la liberazione del cristiano viene sperimentata nella dialettica tra il già realizzato e il non ancora compiuto, tra l'era escatolo­ gica nella quale il credente è inserito ma che si affermerà solamente con la vitto­ ria dell'ultimo nemico, la morte (cf. l Cor 1 5,24-26.52-55), allora si potrebbe age­ volmente proseguire affermando che l'io avverte qui precisamente la tensione tra l'escatologia già realizzata, che lo pone in sintonia con il volere divino, e il non-ancora compiuto, che comporta il suo cogliersi ancora avviluppato nelle spire del peccato. Come afferma Dunn: Paolo parla di sé stesso riguardo alla sua appartenenza al mondo della carne, l'e­ poca antica. Per quanto possa gioire della sua appartenenza, mediante Cristo, alla vita oltre la risurrezione, la nuova epoca, egli riconosce anche con tutta serietà il fatto di essere ancora carne.52

In una parola, si potrebbe, per varie motivazioni, affermare che qui ab­ biamo la descrizione del cristiano simul iustus et peccator. Tuttavia noi dissentiamo da queste interpretazioni. Pur ritenendo che os­ servazioni di tale tenore possano cogliere nel segno se rapportate ad alcune esperienze della vita cristiana o ad alcune affermazioni altrove espresse da Paolo, crediamo però che il giudizio sull'identità del soggetto qui messo in scena vada dato sulla base delle caratteristiche presenti nell'attuale sviluppo argomen­ tativo e dal confronto con il contesto immediato, non innanzi tutto in forza di una comparazione formale con espressioni similari che possono essere giustificate in altri contesti ed essere riferite ai cristiani per motivazioni a cui la presente argo­ mentazione è del tutto estranea. Così, dopo aver ascoltato che la vita «nella carne» è una realtà trascorsa per il cristiano, il lettore della lettera è logicamente portato a pensare che quando un soggetto sia definito oaQxtvoç venga per ciò stesso identificato come non cristiano. Poco importa se in 6,1 9 la debolezza della carne dei cristiani sia una realtà esplicitamente menzionata; infatti, una cosa è tale menzione, una cosa del tutto differente è la qualifica del soggetto senza ulte­ riori sfumature come oaQxtvoç, ovvero JtEJtUf..lÉVoç un;ò tilv , 253-254; GARLINGTON, Faith, 138-139: Io., «Theology», 230-231 . 66 C f. KASEMANN, Romer, 201 . i l quale riconosce altresì «quanto sia pericoloso vedervi una glossa sulla base di motivi solamente concettuali, contro l'insieme della tradizione testuale»! 67 Così, invece, ad es. LAGRANGE, Romains, 1 72; ELLIOTI, Romans, 246-247; LEENHARDT, Ro,

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tale soggetto come un soggetto ideale, fortemente motivato a livello etico e reli­ gioso, al contrario, ad es., del giudeo apostrofato in 2,1 7ss, ove nulla lasciava tra­ sparire che la trasgressione della legge fosse coniugata con la volontà di ese­ guirla. Tuttavia, anche animato da tale volontà, il giudeo qui descritto deve fare i conti con il problema dell'àxQaala e si ritrova di conseguenza impossibilitato a compiere ciò che la legge richiede. Già nella prima parte della pericope il sog­ getto giudaico là alluso, attraverso l'originale menzione all'episodio di Gen 3, veniva ricompreso all'interno dell'umanità adamitica, per nulla esentato dalla sua storia e dalle sue debolezze in forza della sua relazione con la Torah. Tale comprensione del soggetto giudaico prosegue anche in questa sezione. Poiché l'àxQaala è frutto del peccato, l'io, nonostante il suo riferimento a una legge a cui sinceramente aderisce, non è in alcun modo abilitato a rompere la storia di peccato in cui si trova coinvolto. Qual è il senso assunto dalla descrizione di un tale soggetto all'interno di una pericope imperniata sulla discussione della legge? Riformulando questa domanda ci avviciniamo alla discussione degli in­ tenti centrali della presente argomentazione, intenti che, sulla base dei chiari­ menti sinora acquisiti, ci proponiamo finalmente di vagliare. 3.

LA LEGGE E IL

CLIMAX

RETORICO DELL'ARGOMENTAZIONE

Il sostantivo v6�oç compare otto volte nei vv. 7-16 designando sempre la Torah giudaica. 68 Il sostantivo tvroÀil ricorre sei volte nei vv. 8-1 3 e si riferisce da un lato al decimo comandamento, citato al v. 7, ma in una forma che pare in­ cludere tutta la legge mosaica e che d'altro lato si estende sino a comprendere anche il comandamento divino rivolto ad Adamo nel giardino dell'Eden. Legge e comandamento vengono connotati al v. 12 come santi. giusti e buoni. Quando ai vv. 13ss viene riutilizzato l'aggettivo sostantivato àya86v pare pertanto neces­ sario scorgervi il riferimento alla Torah, pur in assenza del sostantivo VÒf.!Oç. Questo sostantivo riappare però nei vv. 2 1 -25, connotato sia in termini positivi come legge «di Dio» o «della mente» - nel qual caso la designazione della legge giudaica deve essere mantenuta -, sia in termini negativi come legge «del pec­ cato» - espressione che invece, come si è visto, non è altro che un gioco di pa­ role (antanaclasi) per indicare il peccato-potenza nella sua azione coercitiva nei confronti d eli 'io. 3.1

Una legge buona ma debole

Dopo le considerazioni del capitolo precedente deve essere svolta un 'inda­ gine sulla valenza generale delle affermazioni riguardanti la legge, che sembrano mains, 1 13; WJTHERINGTON, Narrative, 23-27, nonché molti degli autori citati in nota 30, cbe vedono tale designazione universale proseguire dalla sezione precedente. 6tl Simile affermazione è stata sufficientemente motivata nel capitolo precedente. Ci pare per­ tanto insostenibile l'ipotesi di L. GAsToN, Pau/ and Torah, Vancouver 1 987, (soprattutto 31ss), che vede qui menzionata non la Torah ma la legge dei gentili.

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Una legge buona ma impotente

talvolta esprimere una polarità dialettica. Da una parte, infatti, quando la legge viene qualificata assiologicamente, lo è in termini indiscutibilmente positivi. Essa non è compresa né all'interno del potere del peccato, né di quello della morte (vv. 7.13); è definita buona, santa e giusta ( vv. 12.16), tant'è che 'tÒ ètya86v può esserne una designazione (vv. 13.18. 1 9). Ed inoltre è detta spirituale (v. 14) e «di Dio>> (vv. 22.25). D'altra parte, però, quando si analizza il suo rela­ zionarsi operativo al peccato e all'io, ovvero agli altri soggetti dell'argomenta­ zione, tali qualifiche positive scompaiono e la legge risulta esposta in diverse forme all'azione di quello che risulta come l'unico soggetto veramente attivo nella presente argomentazione, ovvero il peccato. Nel v. 7 la legge appare infatti come strumento della conoscenza esperienziale del peccato e del desiderio da parte dell'io, conoscenza che viene ascritta in 8ss al peccato. La legge allora, nel suo comandamento, è strumento della nascita del desiderio (8a), dello scatenarsi operativo del peccato (8b-9) e del suo effetto di morte ( 10b-13). Con il sintagma l)Là 'tOÙ VÒJ.!OU - 'ti)ç èv-roÀ:i]ç, che si è visto essere peculiare della prima sezione, reiteratamente si afferma questo ruolo strumentale della legge. Nei vv. 14-21 la legge incontra l'io a livello della sua volontà. ma non a livello della prassi, la quale appare nuovamente dominata dal peccato. Nei vv. 22-23 la legge è posta in contrasto diretto con il peccato, in cui appare soccombente e il cui esito è la pri­ gionia dell'io. Abbiamo quindi a che fare con una serie di immagini diversificate, ma il cui punto comune è proprio la descrizione di una legge che a confronto con il peccato risulta costantemente debole e viene di conseguenza da questi o an­ nullata o asservita. Com 'è possibile la contemporanea presenza di affermazioni dal tenore così diversificato? Molti vedono qui un'argomentazione volta alla difesa della legge e considerano le asserzioni sul carattere non-salvifico del suo agire come risalenti in ultima analisi al peccato, vero responsabile della schiavitù dell'io e anche dello stravolgimento subito dalla legge, la quale nelle sue mani diventa stru­ mento di morte. Tale opinione è diffusa in così tanti autori dagli indirizzi più di­ sparati da poter esser considerata certamente l'opinio communis degli studiosi. Ci risparmiamo a questo punto la loro citazione, ricordando comunque che nel capitolo precedente avevamo di volta in volta discusso alcune delle motivazioni solitamente addotte a sostegno di questa tesi e citato alcuni dei suoi fautori più rappresentativi. Ciò che ci proponiamo ora è di effettuare una disamina accurata del succedersi delle affermazioni concernenti la legge, al fine di dimostrare che. benché la causa del suo operare al fianco del peccato possa essere in ultima ana­ lisi fatta risalire allo stesso peccato-potenza, l'argomentazione della presente pe­ ricope non si può affatto comprendere come globalmente mirante a una difesa della legge. È questo il primo punto qualificante la nostra comprensione della teologia della legge qui espressa da Paolo. Per affrontare tale esame. risulterà estremamente illuminante l'analisi sullo status dell'argomentazione effettuata al­ l'inizio del presente capitolo. Riteniamo infatti che, passando allo status qualita­ tis, l'argomentazione si sviluppi su coordinate che non si lasciano comprendere

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semplicemente all'interno dell'affermazione o negazione della relazione intrin­ seca tra la legge e il peccato, e che tale sviluppo non sembri affatto supportare tutte le considerazioni di natura positiva sulla legge qui presenti. Gli elementi che a nostro avviso supportano tale tesi sono molteplici. Li elenchiamo di seguito, rimandando alla lettura del capitolo precedente per la loro adeguata motivazione. - Innanzitutto va rilevato che la discussione si sviluppa all'interno di quello che abbiamo definito lo status qualitatis, ovvero della presentazione del concreto relazionarsi della legge ali 'io. In nessuna misura tale sviluppo giustifica nei vv. 7- 1 2 il crescendo di connotazioni assiologicamente positive della legge. Più precisamente, dicendo che la legge pare strumentalizzata dal peccato l'argo­ mentazione aiuta sì a operare la distinzione tra il peccato e la legge stessa, ma non a giungere al punto di affermare che questa sia santa, buona e giusta. Que­ ste, piuttosto, sembrano essere delle pre-comprensioni che l'argomentazione evoca. Ma per il fatto stesso che non le motiva adeguatamente, non risultano es­ sere l'autentico interesse messo in rilievo. - In modo analogo, nei vv. 1 4ss le qualifiche della legge come «spirituale» o «di Dio» non paiono potersi evincere dallo sviluppo argomentativo, ma rap­ presentano piuttosto dei presupposti utilizzati dall'argomentazione stessa per ri­ marcare altre affermazioni. - È poi vero che l'argomentazione distingue tra peccato e legge mettendo in rilievo il fatto che il soggetto autenticamente operante è il peccato. Ma nei vv. 8bss la presenza della legge e del suo comandamento appare necessaria per lo scatenarsi operativo del peccato che, in assenza di legge, è «morto». Tali affer­ mazioni possono essere giustificate dal riferimento al racconto di Gen 3, ma ap­ pare oltremodo insolito il ricordo di un avvenim�nto in cui la legge ha avuto queste tragiche conseguenze all'interno di un'argomentazione finalizzata alla di­ fesa della legge stessa. Per Ktimmel il semplice riferimento alla figura di Adamo appare incomprensibile all'interno di un'argomentazione con tali finalità e per­ ciò rifiuta di riconoscerlo.69 Ma se invece il riferimento appare indiscutibile come è stato già motivato· -, viene da chiedersi se questo stesso fatto non im­ ponga di valutare la presente pericope sotto altre categorie. - La formulazione del v. 1 1 appare pure problematica. _Se infatti il ruolo attivo del peccato nel processo di seduzione e morte dell'io viene rimarcato, non viene però sottaciuta la strumentalità della legge e, più precisamente, del coman­ damento, la quale è invece ribadita due volte. Una simile connessione tra l'a­ zione del peccato e il ruolo strumentale della legge, espressa in termini così strin­ genti, non aiuta affatto il lettore a cogliere tali affermazion i come tese a scagio­ nare la legge. - Al v. 12 l'argomentazione pare trarre una conclusione sull'indole santa della legge. Ma tale conclusione, lo si è visto, sia per la forma di anacoluto gram69

Cf. KOMMEL, Romer 7, 87.

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Una legge buona ma impotente

maticale, sia per il fatto che non appare del tutto motivata,70 lascia il sospetto che Paolo si esprima con reticentia, non dica tutto ciò che intende e inviti con ciò stesso il lettore a completare tale affermazione. L'indole santa della legge non pare così essere la tesi sottolineata con maggior forza nell'argomentazione. - Il processo di strumentalizzazione della legge a opera del peccato sotto­ linea indubbiamente la responsabilità del peccato stesso, tuttavia mette in rilievo pure la debolezza della legge. A livello di status qualitatis la legge appare sola­ mente impotente, non discolpata. Una possibilità per superare la presente diffi­ coltà parrebbe essere la considerazione di questo processo all'interno di un dise­ gno o di una finalità divina. Ma la nostra argomentazione tace del tutto su questa possibilità. L'attore divino è completamente assente in questa pagina. Non è pertanto possibile attribuire qualcosa al disegno o volontà di Dio. L'unico riferi­ mento implicito a questo potrebbe essere letto nel v. 13. Ma si è visto (cf. 111.1 .8) che le espressioni del v. 1 3bc vanno comprese come consecutive, non finali. L'at­ tore che viene ribadito operativo è il peccato, non Dio, per cui risulta impossibile vedervi là affermata una finalità divina. 71 - Ai vv. 14ss si nota un crescendo delle qualifiche positive della Torah, che viene definita «spirituale», «di Dio)), e designata semplicemente con gli ag­ gettivi «dya86v e xaÀ.6v-6ç>>. Tuttavia queste qualifiche, oltre a risultare non motivate dallo svolgimento logico dell'argomentazione, appaiono in contesti in cui vengono di fatto fortemente relativizzate dalla contrapposizione di realtà nei confronti delle quali la legge si rivela nuovamente impotente. Così nel v. 14 alla spiritualità della legge viene contrapposta la «carnalità» dell'io; ai vv. 18-21 alla sua bontà, l'impossibilità di realizzarla e il male che invece viene concretamente operato; ai vv. 22-23 alla legge divina, a cui la mente acconsente, la legge del pec­ cato che della prima risulta più forte e che rende pertanto schiavo l'io. Ciò che emerge da tutto questo è una bontà della legge che è però vanificata al piano operativo. Se precedentemente avevamo rimarcato il fatto che le qualifiche posi­ tive dell'io vanno ascritte alla positività della legge, si deve altresì notare che l'impotenza operativa dell'io è causata dall'impotenza della legge. - Abbiamo sinora lavorato con l'ipotesi, suffragata da alcuni indizi lette­ rari, che i vv. 21ss costituiscano la peroratio della presente argomentazione. Fun-

70 Cf. ad es. BoRNKAMM, Ende, 60, che afferma che la conclusione del v. 12 «non è in alcun modo in sé comprensibile», ma la giustifica di fatto in forza della finalità divina entro cui gli av­ venimenti qui descritti vengono compresi. Affermare questa finalità è però oltremodo problematico (cf. in seguito). 71 Per questo motivo appaiono inattendibili le considerazioni di chi vorrebbe vedere una con­ notazione comunque positiva negli avvenimenti presentati da questa pericope, in quanto espressione di una tappa provvisoria della storia della salvezza, finalizzata poi al dono della grazia. Il presente te­ sto non lascia trasparire alcun modo questa finalità. La connotazione positiva è invece sostenuta, tra gli altri, da ALTHAUS, Romer, 66.74; G.S. SLOYAN, ls Christ the End of the Law?, Philadelphia 1978, 96; MERKLEIN, Studien, 9 1 ; N.T. WRIGHT, «Romans and the Theology of Paul», in SBLASP 3 1 , Atlanta 1 992, 200ss; J . K . BRUCKNER, «The Creational Context o f Law before Sinai», in Ex Auditu 1 1 (1995), 103- 1 04; J . D . MooREs, Wrestling with Rationality i n Pau/ (SNTSMS R2), Cambridge 1 995, 93ss.

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zione della peroratio, lo si è visto, è anche quella di ricapitolare i punti salienti della precedente probatio. In questi versetti, tuttavia, nessuna affermazione mette effettivamente in risalto la bontà della legge. La modalità precisa con cui questi versetti svolgono effettivamente una funzione conclusiva è una questione che dovrà essere da qui in avanti affrontata dettagliatamente, tuttavia risulta già significativo il fatto che il tema «difesa della legge>> non appaia perlomeno espli­ citamente sottolineato in questi versetti. - Ciò che viene invece affermato è l'apparire di «diverse» leggi, ove il so­ stantivo VÒJ.toç, per i motivi già visti, deve avere un senso figurato. Oltre a ricor­ dare che comunque l'interesse dell'argomentazione è sempre rivolto alla legge, una tale antanaclasi non ha forse l'effetto ovvio di evidenziare in modo palmare la debolezza della legge, che viene a essere compresa semplicemente come una delle tante forze - e nemmeno la più potente - con cui l'esistenza dell'io si confronta? 12 - Una caratteristica che appare pertinente con l'aspetto perorativo di questi versetti è la presenza di un marcato pathos, espresso soprattutto con il grido del v. 24 e reiterato con l'affermazione di 25b, ove l'io si dichiara infine schiavo del peccato nelle sue membra nonostante l'assenso intellettuale alla legge divina. In nessun modo simili affermazioni e l'effetto da esse conseguito paiono comprendersi come miranti alla difesa della legge. Si può ovviamente ri­ tenere che Paolo sia qui alle prese con una digressione dal tenore antropologico. Ma poiché al v. 13a l'argomentazione viene presentata come concernente le re­ lazioni tra l'io e la legge si deve usare un 'estrema cautela nel considerare le af­ fermazioni riguardanti l'io come digressive. Piuttosto. la prima ipotesi da va­ gliare è se esse non illustrino in realtà una qualche verità sulla legge stessa. Que­ sta verità però non appare essere in alcun modo il suo carattere «santo», «spiri­ tuale» e «divino». Nell'attesa di esaminare analiticamente questo lato della que­ stione, registriamo fin da ora che il tenore di tali formulazioni non è finalizzato alla «difesa della legge». 3.2

Alcune interpretazioni problematiche

Dalla presente rassegna emerge che l'argomentazione non si lascia com­ prendere nella sua globalità come orientata alla difesa della legge, ma piuttosto presenta delle definizioni positive della legge giustapposte alla descrizione del suo rapporto concreto di tenore negativo con l'io e il peccato, verso cui in ogni caso l'argomentazione converge già a partire dal v. 7b. Questa giustapposizione è stata ovviamente avvertita da diversi autori, i quali in vari modi o si acconten­ tano di presentare a fianco della tesi sulla bontà della legge le affermazioni che

72 Cf. WrNGER, Law, 1 85ss; ALETI1, «Usefulness», 87-88. VoN DER 0STEN-SACKEN, Romer 8, 210 non riconosce invece l'antanaclasi proprio perché non la vede finalizzata alla difesa della legge. Ma se tale figura è invece presente, come prima osservato, vien con ciò stesso da chiedersi se la «di· fesa della legge» sia effettivamente il punto messo in rilievo dalla presente pericope.

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Una legge buona ma impotente

paiono smentirla senza preoccuparsi di sanare le tensioni risultanti, o ricono­ scono accanto all'intento apologetico a riguardo della legge un altro intento, che viene in diversi modi qualificato ma le cui implicanze sulle affermazioni di te­ nore negativo relative alla legge non vengono esplicitate. 73 Altri autori tendono a far passare del tutto in secondo piano le affermazioni non collimanti con la propria ricostruzione del pensiero paolina. Per sostenere l'intenzione apologe­ tica nei confronti della legge, Hiibner ad esempio sottolinea la responsabilità del peccato nel processo descritto ai vv. 8ss, ma non spende una parola sul fatto che il peccato necessiti veramente della legge per potersi manifestare.74 Così egli pa­ lesa la difficoltà di chi vuole affermare la natura apologetica della presente argo­ mentazione. Di tenore esattamente opposto sono le osservazioni di van Diilmen, che, commentando i vv. 8ss, afferma che la legge appare «come potenza non sal­ vifica ... che, assieme al peccato, si impadronisce dell'uomo». 75 Tuttavia queste affermazioni risultano indubbiamente eccessive. Anche se questi versi presen­ tano la legge come realtà necessaria allo scatenarsi operativo del peccato, essa rimane pur sempre un suo strumento e il ruolo assegnatole dall'argomentazione è ripetutamente quello della causalità strumentale (cf. il replicato òu1 seguito da genitivo). Anche dalla diversificazione delle opinioni degli studiosi pare, quindi, di poter dedurre la complessità delle affermazioni concernenti la legge che, non si deve assolutamente misconoscere, presentano una polarità dialettica: da una parte la natura intrinseca della legge viene qualificata santa, divina, d'altra parte la sua funzione operativa è quella di essere strumento nelle mani del peccato o comunque impotente a fronteggiarlo. La compresenza di affermazioni così di73 Cf., con varie sfumature BANDSTRA, Law, 134ss; 8LASER, Gesetz, 120; GAUGLER, Romer, 205-206; BLANK. «Mensch», 16; W.D. DAVIES, «Paul and the Law», in M.D. HooKER - S.G. WJLSON, a cura di, Pau/ an d Paulinism, Fs. C. K. Barrett, London 1 982, 4-16; G. EtcHHOLZ, Die Theologie des Paulus im Umriss, Neukirchen-Vluyn s 1 985, 255ss. Esemplari di una simile tensione ci risultano le af­

fermazioni di DtrNN, Romans, I 409-410, che è uno dei più convinti assertori della funzione apologe­ tica della presente pericope. Commentando i versetti conclusivi sottolinea in modo così marcato l'impotenza della legge (aspetto presente nell'argomentazione. lo si è visto) da affermare che essa può essere definita di peccato e di morte. Se ciò fosse vero. le qualifiche positive sulla sua natura ri· sulterebbero totalmente stravolte. Di conseguenza ci si può chiedere come tale stravolgimento possa conciliarsi con la pretesa funzione apologetica. Annotiamo tra parentesi che Dunn riconosce - giu­ stamente - che qui «le opzioni sono analizzate solamente in termini di peccato e legge». Però un'ana­ lisi in tali termini non può riferirsi a un soggetto cristiano, come invece egli vorrebbe. 74 Cf. HOBNER, Gesetz, 69. Similmente THIELMAN, Law, 296 nota 17. riconosce che se la legge ha un ruolo attivo nella manifestazione del peccato l' «apologia» della legge non può essere soste­ nuta. Ma poiché tale ruolo appare perlomeno nei versetti 8b-10a, se ne deduce che la tesi dell'apolo· gia, da lui invece sostenuta in Law. 199 e Plight, 103, non risulta attendibile. 7s VAN D O LM EN , Theologie, 1 09. Similmente J.M. CAMBIER, «L' Èvangile de Dieu selon l'épitre aux Romains», in StudNeot 3(1967), 304ss , commentando i vv. 14ss, accentua la «Carnalità» del· l'uomo sino al punto da vedervi un fattore che stravolge completamente la legge, la quale viene per questo ridotta a istituzione umana. Ma questo è esattamente ciò che l'argomentazione non dice, qua­ lificando la stessa Torah come 'tOÙ Oeoù. Che la legge sia espressione della volontà divina non lo si evince solo da altri passi, come fa l'autore. ma in modo inequivocabile anche dal presente. Sottoli­ neano le qualifiche negative della legge senza riuscire a dare ragione delle positive anche M. WEL­ KER, (> della legge stessa, e che viene smentita immediata­ mente. Abbiamo già fatto riferimento a diverse affermazioni paoline che pos­ sono aver indotto la formulazione di questa domanda, per cui appare logico ve­ dere qui da parte di Paolo un'intenzione chiarificativa, un discutere per elimi­ nare possibili equivoci. Può una tale domanda essere stata formulata da alcuni oppositori di Paolo? A nostro avviso, una ipotesi di tale genere appare verosi­ mile, ma nulla ci è dato da sapere sulla loro identità o consistenza, come in ge­ nere avviene in presenza di domande di tale tenore (cf. 1.3.1 ) La presenza di op­ positori è esplicitamente menzionata in Paolo in Rm 3,8, e le loro tesi paiono es­ sere riprese nella subiectio di 6,1 . Tuttavia da tali domande Paolo sviluppa un'ar­ gomentazione che presenta una logica intrinseca e come tale va analizzata, e questo deve avvenire anche per la nostra pericope. Tale sviluppo, lo si è visto, si caratterizza come del tutto peculiare rispetto al modo in cui è stata posta e im­ mediatamente negata la domanda, poiché non verte sulla «legge in sé», ovvero sullo status coniecturae, all'interno del quale la legge è considerata positiva­ mente, ma sul suo essere praticamente strumento dell'azione del peccato, ov­ vero sullo status qualitatis, all'interno del quale la legge, colta nel suo relazio­ narsi storico, appare inserita in un operare dai connotati nefasti. L'accentua­ zione di questo operare, lo si è visto, non risulta finalizzata a sostenere le affer­ mazioni di tenore positivo sulla «legge in sé», o perlomeno non appare, nello svolgimento globale dell"argomentazione, come sopportante tutto il crescendo di qualifiche positive della legge. Ora, è precisamente su questo sviluppo che Paolo fa convergere l'attenzione del lettore, ed è esattamente questo che deve essere compreso. È cioè la ragione della presenza, in un 'argomentazione iniziata semplicemente con una domanda sulla natura della legge stessa, delle afferma­ zioni concernenti l'effetto della legge in una storia contrassegnata dal peccato del primo uomo a richiedere di venire chiarita al fine di cogliere le ragioni sot­ tese alla presente pericope. Affrontando l'esegesi dell'inizio della pericope (cf. 111. 1 .2 e 3) avevamo considerato come il v. 7a�, non contrastando esplicitamente la domanda del v. 7aa, desse inizio a uno sviluppo di tenore diverso rispetto a tutto il v. 7aa, do.

CANCIK - H. LICHTENBERGER - P. SCHAFER, a cura di, Geschichte - Tradition - Reflexion, Fs. M. Hengel, Tiibingen 1 996. 111 387-415. 84 Da ciò che ci risulta, simile comprensione è stata esplicitamente formulata solamente da R. PENNA , «Legge e libertà nel pensiero di S. Paolo», in J . LAMBRECHT, a cura di, The Truth ofthe Gospel (Galatians 1:1-4:11), Roma 1993. 253 e ALEITI, «Usefulness)), 85ss. In rapporto a tali articoli viene qui proposta una fondazione teoretica di quelle intuizioni, che sono indubbiamente condivisibili.

·

La

pericope

7,7-25:

retorica e teologia

209

manda e negazione incluse. Comprendendo la transizione tra l'emistichio 7aass come forma di correctio avevamo seguito la terminologia lausberghiana, che considera esplicitamente come correctio anche figure non solitamente comprese come tali.g5 Questo è il nostro caso, in cui la correctio viene facilmente accostata alla concessio, figura che non nega esplicitamente un determinato fatto - ov­ vero che la legge non sia peccato -, ma che pone espressamente in rilievo i fat­ tori dissonanti con la prima affermazione, ovvero che la legge opera comunque sotto l'egida del peccato.86 Ma questo meccanismo non è !imitabile affatto all'ini­ zio della pericope, ma è caratteristica di tutta l'argomentazione. In essa talvolta le ulteriori qualifiche positive della legge sono espresse in termini che lasciano supporre un completamento del periodo lasciato all'intelligenza del lettore. Così avviene nel v. 12, dove si è visto che Paolo si esprime con reticentia. In altri con­ testi le qualifiche positive vengono esplicitamente contrapposte a sottolineature del carattere negativo dell'operare storico della legge (così ai vv. 14ss). In questa ottica la figura della concessio può essere colta in alcuni versetti: ad. es. al v. 14, che può essere parafrasato come «è ben vero che la legge è spirituale, tuttavia io sono carnale »; ai vv. 22-23: «gioisco infatti nella legge di Dio con l'uomo inte­ riore, vedo tuttavia nelle mie membra . . »; al v. 25b: «è ben vero che con la mente servo la legge di Dio; con la carne, tuttavia » . Ma tutta l'argomentazione, giu­ stapponendo volutamente affermazioni non immediatamente conciliabili e· dando rilievo a quelle di un determinato tenore. si sviluppa secondo la dinamica così evidenziata. È stato sostenuto che l'argomentazione qui suffraga contempo­ raneamente la distinzione tra la legge e il peccato e raffermazione del loro reci­ proco relazionarsi. �7 Ma se questi intenti vengono letti come ugualmente impor­ tanti ci si imbatte nella tensione oramai qui abbondantemente delineata. Se in­ vece le affermazioni sulla bontà della legge vengono ascritte a una concessione che è forzata a riconoscere un dato, ma in vista di uno sviluppo che in fondo rela­ tivizza il dato stesso per evidenziare altri elementi più importanti, allora la giu­ stapposizione cessa di fare problema e appare invece come un effetto cercato, mirante a sottolineare alcuni elementi a discapito della presenza di altri. In que­ sto modo di procedere trova conferma lo stile retorico paolino, che solitamente argomenta dipanandosi attorno a propositiones e non a partitiones (cf. 1.4.2). Il v. 7aa non ha le caratteristiche formali di una partitio, ovvero non si presenta come un elenco ordinato di punti. Per questa stessa ragione vi si può scorgere, anche a livello concettuale, non tutto il nucleo tematico che verrà discusso, ma semplice­ mente l'avvio di una problematica che può anche svilupparsi in termini non com­ presi dal modo in cui viene inizialmente posta. ...

.

...

85 Cf. LAUSBERG, Elementi, 206-209. L 'argomentazione qui in esame presenta comunque an­ che varie correctiones la cui definizione non è oggetto di disputa nei vv. 1 5. 1 7.19.20: cf. 111.2.3. 86 Per la concessio come figura cf. LAUSBERG. Elementi, 243; compresa come strategia argo­ mentativa cf. lo., 26, ove viene compresa all'interno dello status qualitatis, e PERELMAN 0LBRECHTS­ TYrEcA, Trattato, 5 1 0ss. 87 Cf. DfAz-RoDELAS, Ley, 225. -

210

Unt� legge buona

ma

impotente

Da questo procedimento emerge che l'affermazione della bontà della legge non viene in realtà smentita. In fondo, la concessio non nega determinate affer­ mazioni, piuttosto le relativizza, e questo è ciò che avviene a riguardo di quelle concernenti la bontà della legge. Benché non suffragate dallo sviluppo argomen­ tativo, esse sembrano inoltre essere in qualche maniera richieste dall 'argomen­ tazione stessa soprattutto nei vv. 15ss, ove un certo valore gnoseologico viene ef­ fettivamente riferito alla legge, nonostante che un valore a livello pratico venga costantemente smentito. Nella teorizzazione lausberghiana la concessione delle ragioni dell'avversario si avvicina all'ironia; si può scorgere dell'ironia anche in questa pagina? A nostro avviso la risposta può essere affermativa: pur soste­ nendo la bontà della legge, la prima sezione della pericope pone il giudeo che si relaziona alla legge all'interno dell'umanità adamitica, dai cui patemi, causati dal mortifero «regnare» del peccato, egli non risulta estraneo, in una dinamica che relativizza l'affermazione sulla bontà della legge rimarcandone la sua inutilità pratica e, almeno implicitamente, può implicare perlomeno un accennato effetto ironico. 88 Nella seconda sezione l'io, pur essendo illuminato dalla legge divina a livello di volontà, si trova a fare i conti con la debolezza della stessa, ovvero con il problema dell'àxQaala, in una modalità che, tra l'altro, è stata almeno parzial­ mente teorizzata dalla cultura pagana, cioè è stata evidenziata senza l'aiuto della legge stessa. Si può forse vedere in questa menzione di un topos non giudaico un ulteriore motivo per sottolineare la debolezza della legge, affermata qui non solo a livello pratico, ma allusa anche a livello noetico? In ogni caso tale debo­ lezza, rimarcata in modo così esemplare, indubbiamente relativizza le qualifiche positive della legge e può inoltre essere letta anche come accenno ironico sulla stessa. Ma perché Paolo ha ritenuto necessario intraprendere una strategia argo­ mentativa così apparentemente complessa, in cui la compresenza di afferma­ zioni dal tenore non univoco, se non viene adeguatamente colta, può dare adito a difficoltà o distorsioni nella comprensione della stessa? A nostro avviso, una risposta a tale questione può essere formulata tenendo conto del fatto che la pre­ sente argomentazione implica un confronto con degli oppositori. Utilizziamo ap­ positamente questo verbo perché non ci è dato di sapere nulla sull'identità pre­ cisa e sulla consistenza di questi, se non che la loro matrice è giudaica, come si deduce dai continui riferimenti alla Torah qui presenti, che suppongono per ciò stesso un uditorio ritenuto in grado di cogliere un'argomentazione imperniata su tale tematica. Questa sola informazione dedotta dal testo, tuttavia, è quella ne­ cessaria e sufficiente per cogliere la logica sottesa a questa probatio paolina. Per un simile uditorio, infatti, affermazioni analoghe a quelle di Rm 7,5, in cui lo sca­ tenarsi delle passioni del peccato viene connesso con la legge, appaiono sempli­ cemente blasfeme. Da qui la necessità, per Paolo, di ribadirle e motivarle evi-

88 BYRNE, Romans. 220, vede dell'ironia nella contrapposizione tra la vita. effetto ideale della legge. e la morte, suo effetto reale, al v.lOb.

La

pericope

7,7-25:

retorica e teologia

211

tando a l contempo obiezioni pur possibili i n forza d i corollari desunti dalle sue affermazioni stesse. 89 Ed è proprio questa la strategia argomentativa sviluppata dalla presente pericope, in cui si afferma da un lato la bontà della legge, in fondo non motivando la poiché è un dato ritenuto acquisito per il lettore implicato dalla presente, e d'altra parte si relativizza tale affermazione sottolineando la sua in­ capacità salvifica, dimostrando come, nonostante la sua natura, essa risulti impo­ tente al momento del confronto con il peccato. La compresenza di affermazioni di tale tenore viene così giustificata non come disattenzione o imperizia di Paolo, ma come rispondente a una precisa strategia argomentativa che vede nella con­ cessio la sua spina dorsale. 3.4

Il climax dell'argomentazione: Legge

o

antropologia?

La comprensione dell'argomentazione qui presentata a nostro avviso rende ragione pure del concatenarsi delle sezioni all'interno della pericope e permette di affermare che la discussione sulla legge rimane l'obbiettivo centrale di questa argomentazione e il climax raggiunto con la perorati o dei vv. 21 ss è fun­ zionale agli intenti manifestati da essa. Questo è uno tra i punti ulteriormente qualificanti la presente ricerca, e la sua definizione suffraga ulteriormente la vi­ sione globale dell'argomentazione come concessio. Anche sulla coerenza del succedersi delle varie sezioni della pericope i pa­ reri dei commentatori non risultano concordi. Diffusa è l'opinione di chi vede nei vv. 14ss. una parentesi dal tenore antropologico, non connessa con la sezione precedente incentrata sulla difesa della legge. 90 A una tale tesi può essere imme­ diatamente risposto ricordando innanzitutto gli elementi letterari che invece spingono a considerare questi versetti come connessi con i precedenti (cf. 11.3. 1), e in seguito affermando che l'individuazione degli interessi emergenti in un'ar­ gomentazione passa necessariamente attraverso l'individuazione di ciò che l'ar­ gomentazione stessa dimostra essere sua problematica generativa; ora questa, nel v. 1 3a, è la discussione dell'antropologia in connessione con la problematica della legge, non isolata da essa (cf. 111.2.1 ). In realtà, tutta la pericope è conside­ rata da alcuni autori come manifesto programmatico dell'antropologia paolina; come esempio di questo indirizzo, valgano gli studi di Bultmann, ripetutamente succitati. Una tale comprensione, non fatta emergere da enunciati tematici espii-

89

524.

Per la concessio come forma di confutazione cf. PERELMAN - 0LBRECJITS-1'YrECA, Tranato,

90

Solo a titolo esemplificativo, cf.: KOMMEL, Romer 7, lOss; KA.SEMANN, Romer, 182ss; J.M. Rom 7 and 8, Roma 1976, 13-44; ScHUER, Romerbrief, 228ss; BERGMEIER, « M ensch » . Il testo dogmatico ipotizzato da ScHMITHALS, Ro­ merbrief, 226ss ( lo., Anthropologie, 34ss) per Rm 7,17-25a è interpretato come imperniato sull'an­ tropologia. Di fatto è anche l implicazione desunta dalle osservazioni di THIELMAN, Plight, 109, il quale, polemizzando con Sanders, sostiene che i vv. 14ss sono incentrati semplicemente sul conflitto interiore all'io tra il desiderio di bene e l'incapacità di realizzarlo, e non sulle relazioni tra la legge e il peccato. Tuttavia lo stesso autore afferma ripetutamente che tutta la pericope è incentrata sulla di­ fesa della legge.

CAMBIER, «Le "moi" dans Rom 7», in The Law of the Spirit in =

'

212

Una legge buona ma impotente

citamente dichiarati come centrali nella discussione, è stata efficacemente criti­ cata da K. Stendahl, in uno studio destinato a lasciare segno nel dibattito succes­ sivo:n Considerando la pericope 7,7-25 - o perlomeno i vv. 1 4ss - come dedi­ cati soprattutto all'antropologia, la conclusione della pericope e il grido del v. 24 paiono logica conclusione di tali interessi. Ma se l'argomentazione viene corret­ tamente fatta rientrare nell'ambito di una discussione sulla legge, sorge il pro­ blema dello sviluppo acquisito dai versetti dal marcato tenore antropologico e da un grido che fa effettivamente convogliare il pathos sulla situazione dell'io. Stendahl aveva compreso i riferimenti antropologici dell'argomentazione come finalizzati a una discolpa della legge , ma la sua ricostruzione incorre nell'osser­ vazione, già formulata, che se la legge può effettivamente essere considerata po­ sitivamente in quanto informatore morale dell'io, deve altresì essere connotata come debole, incapace di far divenire tale coscienza prassi, e che quindi l'argo­ mentazione di tenore antropologico non può nella sua globalità essere vista come sopportante la difesa della legge. Non desta meraviglia perciò, che chi svi­ luppa con più acume le intuizioni di Stendahl, si trova a valutare la presente ar­ gomentazione come in realtà sconnessa. iniziata da un problema teo-logico ma conclusa con una descrizione antropologica. '):! Non mancano studi che mirano ad affermare contemporaneamente pre­ senti nella pericope intenti antropologici e storico-teologici. Ma il peso globale delrargomentazione viene così di fatto spostato sul primo interesse, e la discus­ sione sulla legge è compresa come sua sussidiaria. 93 Da parte nostra, abbiamo in­ vece dimostrato come l'argomentazione venga suscitata da domande inerenti la legge e il suo rapporto con l'io, e come la descrizione di questo rapporto rimar­ chi in modo palmare la debolezza della legge, pur non equiparando la stessa al peccato. Ci rimane qui da verificare come i vv. 2 1 -25, ipotizzati essere la perora­ tio finale dell'argomentazione, suffraghino la comprensione della pericope qui presentata, fatto che di conseguenza confermerà il carattere perorativo di questi versetti. A questo riguardo risultano significativi tre elementi: vv. 22-23: al v. 22 si afferma che l'io acconsente con gioia alla Torah, qualificata enfaticamente «di Dio>>, ma a questa affermazione il versetto succes­ sivo oppone antiteticamente, per mezzo di un ot avversativo, il peccato inteso come «legge», il cui operare ha un effetto sulla legge, la combatte - implicita­ mente: in modo vittorioso -, e uno sull'io, lo rende schiavo. La composizione di -

91 K. STENDA HL, «The Apostle Pau) and the lntrospective Conscience of the Wesb>, in HTR 56 (1963), 1 99-215 ( = lo., Pau! among Jews and Genti/es, and other essays, Philadelphia 1976). 92 Cf. SANDERS, Law, 79-80. 93 Ciò può essere facilmente verificato in WEBER, «. 112 Tuttavia va sottolineato che la comprensione della legge mosaica giunge, attraverso tale procedimento, a individuare effettive carenze insite alla stessa. 1 13 Il suo non essere tramite dello Spirito e il suo agire in forma puramente estrinseca al so ggetto risultano due connotati inscindibilmente complementari. 114 menzionata né da quei versetti né dall'argomentazione successiva, risulta necessario ricorrere ad al­ tre spiegazioni. 111 Si nota in questo una differenza radicale tra Paolo e la riflessione rabbinica, la quale ve­ deva nello studio della legge lo strumento per vincere l'impulso malvagio: cf. III, 2° excursus. 112 Si deve indubbiamente a SANDERS, Judaism, 442ss, la formulazione di tale tesi in termini acuti e influenti per gli studi attuali (il titolo del capitolo iniziato a p. 442 è in sé espressivo: «The so­ lution as preceding the problem» ) Tra gli autori che hanno ribadito la linea da lui tracciata cf. M. LIMBECK, «Vom rechten Gebrauch des Gesetzes», in Gesetz als Thema biblischer Theologie, 1 5 1 - 169; H. LJCHTENBERGER, «Paulus und das Gesetz», in Paulus und das Antike Judentum, 361-378. 113 Cf. anche Kuss, «Nomos», 217; R.B. SwAN, «Paul and the Law: why the Law Cannot Save?», in NT 33( 1991), 55ss. 114 Similmente anche J.A. FITZMYER, «Saint Paul and the Law>>, in The Jurist 27(1967), 24ss (interpretazione non ugualmente sottolineata nel suo recente commentario); G.E. LADD, «Paul and the Law)>, in J. McDowELL RrcHARDs, a cura di, Soli Deo Gloria, Fs. W. C. Robinson, Richmond 1968, .

224

Una legge buona ma impotente

La ricerca di questo capitolo ha permesso di vedere nella pericope Rm 7,7-25 una discussione sulla legge in cui la logica globale della stessa viene valu­ tata come concessio di qualifiche positive della legge per la riaffermazione della sua incapacità salvifica. La prosopopea del peccato e le considerazioni di tenore antropologico sono finalizzate a questi intenti. Una volta che questi sono corret­ tamente enucleati, la pericope dimostra la propria coerenza logica. In questo procedimento viene rivelata una caratteristica insita alla legge stessa, il suo es­ sere estrinseca al soggetto, che rende ragione della sua inadeguatezza salvifica. La presente pericope è però connessa con la successiva con una caratteristica 01JyxQtatç. Lo studio di essa permetterà la definitiva conferma o l'eventuale smentita delle presenti osservazioni.

50-67; D. ZELLER, «Tyrann oder Wegweiser? Zum paulinischen Verst:indnis des Gesetzes», in BK 48 (1993), 134-140. Pe r A. FELJILLET, «Loi de Dieu, loi du Christ et loi de l'Esprit)), in NT 22(1 980), 29-65, la critica di estrinsecità è volutamente rivolta nella presente pericope a ogni legge positiva di­ vina.

Capitolo quinto

La ouyxQtOLç tra Rm 7,7-25 e 8,1 - 1 7

0.

INTRODUZIONE

Il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, compresa la sua prima sezione, è indubbiamente una delle pagine bibliche che affascinano maggiormente anche il lettore non specialista per le prospe ttive teologiche ivi contenute e al con­ tempo richiede particolare sforzo per la delucidazione di alcune espressioni par­ ticolarmente criptiche. Volgendo la nostra attenzione ora a Rm 8,1-17, pare utile chiarire come non rientri nei nostri intenti né l'analisi esaustiva di queste, né l'e­ nucleazione completa di quelle: nelrevidenziarne lo sviluppo letterario e reto­ rico ci limiteremo a prendere in esame le espressioni che ricevono luce dalla pe­ ricope precedente o che possono confermare o smentire l'interpretazione di quella da noi sviluppata, per passare infine a tratteggiare i termini sui quali viene sviluppata la auyxQLOLç tra queste due pericopi. Obiettivo di questo esame, lo ri­ petiamo, è esclusivamente la verifica della continuità o meno delle valutazioni teologiche espresse nella precedente argomentazione. Concretamente questo capitolo permetterà di verificare se la designazione non cristiana dell'io della precedente pericope è in sintonia con la restante argomentazione e se la valuta­ zione paolina della legge, come emersa dal nostro studio nel precedente capi­ tolo, viene ribadita, elaborata o eventualmente smentita. l.

8,1-17.

1.1

v.

SVILUPPO LETIERARIO E RETORICO: ALCUN I CENNI

l

- Oùòtv xa'taXQL�a. Paolo inizia il capitolo annunciando l'assenza di condanna per coloro che sono «in Cristo Gesù». Il sostantivo xa'taXQL�a, se si interpreta in modo letterale il suffisso -�a, indica una condanna effettivamente realizzata, una pena non solamente comminata ma operativamente messa in atto. L 'utilizzo di un tale termine appare indubbiamente inaspettato: in tutto il NT appare solamente qui e in 5,16.18, testi che di conseguenza costituiscono il

226

Una legge buona

ma

impotente

termine di riferimento necessario per la sua interpretazione. In essi il xa-raXQ4Ja era apparso come conseguenza della disobbedienza di Adamo; se in 5,12 veniva sostenuto che a causa sua era entrato nel mondo innanzitutto il peccato, e per mezzo del peccato la morte, la pericope proseguiva affermando gli effetti ulte­ riori della disobbedienza di Adamo, ovvero la morte (vv. 15.17), il x.a'tétXQtf!a (vv. 1 6. 1 8) e la peccaminosità degli uomini (v. 19). Se questa condanna possa consistere tout court nella morte è una questione che qui non ci riguarda; ci preme invece sottolineare che essa è in stretta interconnessione con il peccato, è cioè frutto del peccato di Adamo e allo stesso tempo coeva del peccato che, me­ taforicamente personificato come potenza attiva, a seguito di Adamo è entrato nel mondo. Questa qualifica del sostantivo lo pone così in stretta connessione con la pericope precedente, la quale, lo si era visto, sviluppava la descrizione di un soggetto asservito come schiavo al costante dominio del peccato-potenza e pareva raffigurarsi anche come descrizione degli effetti causati proprio dalla prima disobbedienza di Adamo. 1 L'annuncio dell'assenza di condanna pare quindi implicare immediatamente un cambiamento di prospettiva rispetto a ciò che era stato precedentemente affermato. 2 Ciò che invece va respinta è l'interpretazione di coloro che vedono la con­ danna causata dalla legge . 3 Tale interpretazione, infatti, richiede sia una affer­ mazione esplicita della funzione condannatoria della legge nella pericope prece­ dente, cosa da noi già smentita (cf. 111. 1 .4 e 6), sia un'affermazione esplicita nella presente pericope della libertà dalla legge, causa della condanna, affermazione che, vedremo, è invece qui assente, in quanto gli interessi paiono vertere su altre entità. Inoltre sembra stabilire un legame necessario tra il xa-rétx.QLIJ.a e la legge, legame che invece appare ingiustificato da come il sostantivo compare nella pe­ ricope 5,12ss. Se è vero, infatti, che la legge è strumento per la definizione di pec­ cato come trasgressione ( 4, 15), e quindi canone per il giudizio escatologico di co­ loro che sono sotto la legge (2, 1 2b ), è vero anche che il giudizio si può effettuare senza la legge (2,12a) e che il peccato in sé, come rifiuto della relazione con Dio. richiede una sanzione (5,16. 18). la quale può così non essere codificata dalla legge. In breve: la funzione condannatoria non è una qualifica che il contesto qui in esame richieda e che sia necessariamente inerente alla legge, pertanto, in as­ senza di riferimenti espliciti, non risulta motivato legare la condanna di cui si parla al v. l alla legge. 1 Similmente LYONNET, ad Romanos, 145. Cf. anche VtARD, Romains, 169; WILCKENS, Romer. II 121; DuNN, Romans, I 415. 2 Sim ilm en t e DtAz-RoDELAS, Ley, 1 96. 3 Così invece BARRETI, Romans, 154; R. BRING, >, 1 82-183; WILCKENS, Romer, II 1 1 8; ZIESLER, Romans, 201 . Ci pare eccentrica l'afferma­ zione di una sorta di «consequenzialità paradossale», sostenuta dal DfAz-RoDELAS, Ley, 1 97-198: o un'espressione funge grammaticalmente da autentica conseguenza, o risulta un vero paradosso. Queste considerazioni confermano l 'analisi da noi già effettuata che vede nel presente versetto una novità assoluta rispetto a ciò che precede, caratteristica che può essere peculiare di una propositio. Annotiamo infine che il versetto non si presenta affatto alla stregua di un «cri de victoire», come vor­ rebbero invece LAMARCHE - LE DO, Romains, 6 1 , e che pertanto non può essere messo in parallelo con il v. 7,24 per questa caratteristica formale. 5 Il fatto che il codice alessandrino e un altro unciale, alcuni minuscoli e alcune versioni ripor­ tino l'aggiunta f..lTJ xutà oétQxa 1tEQIJtatoùmv si comprende facilmente come desiderio di offrire su­ bito chiarimenti a suo riguardo, anticipando formulazioni che saranno presentate al v. 4. Altri codici e degli interpolatori di N e D completano ulteriormente la frase con il sintagma àìJ..à xatà n:vE'Ùf..la. La conclusione breve è comunque quella meglio supportata dalla critica esterna. =

Una legge buona ma impotente

228

lettore pensa immediatamente alle tesi espresse nel c. 6, ove era stato chiara­ mente ripetuto che Cristo ha liberato dal potere del peccato il credente, tuttavia l'inaspettato utilizzo del termine xataXQLJ.ta e il riferimento esplicito all'evento Cristo dopo un 'argomentazione dedicata ad altre topiche non mancano di sor­ prendere il lettore e di renderlo desideroso di ulteriori delucidazioni. Esse ver­ ranno date a partire dal prossimo versetto, il cui carattere esplicativo è reso ma­ nifesto dal yaQ iniziale. 1 .2

v. 2

Il presente versetto appare come totalmente rilevante rispetto agli interessi che guidano la nostra ricerca, e quindi bisognoso di una analisi dettagliata. In­ nanzi tutto annotiamo la sua composizione concentrica,6 la quale può essere così raffigurata: 8

Ò VÒJ.lOç 'tOU 3tVEUJ.1UtOç tilç �ooilç b EV XQLO'tQl 'lfiOOÙ �AEU8ÉQWOÉV

a1

&nò tOU VÒflOlJ t�ç UflUQtLaç xat tOU eavéttou

0€7

Con la maggioranza dei commentatori, abbiamo qui unito il sintagma èv XQLO't'Ql 'lf1ooù al verbo successivo� la sua dipendenza da un verbo fattivo fa ac­ quisire all'espressione un significato strumentale. Altre possibilità a livello grammaticale sono quelle di connettere il sintagma al genitivo t�ç tooiiçH o a tutto l'emistichio precedente. 9 Le ragioni di questa scelta sono da ricercarsi, a li­ vello stilistico. nel parallelismo perfetto che così viene a crearsi tra i termini a-a 1 della composizione - si noti l'antitesi vita-morte così risultante -, e nel fatto che l'equilibrio stesso del versetto porta naturalmente il lettore a una simile in­ terpretazione. mentre altrimenti la prima parte del versetto risulterebbe eccessi­ vamente lunga. Ma anche a livello concettuale, benché l'interpretazione non vari sostanzialmente .in forza di una o dell'altra ipotesi adottata, c'è da notare che. sebbene il proseguimento della pericope tratti anche della dipendenza della «Vita» da Cristo, il contesto più prossimo pone l'attenzione alla dipendenza di questa dallo Spirito (vv. Sss), e che la menzione di Gesù Cristo isolata da ciò che precede e unita al verbo pone in risalto il suo ruolo nella liberazione, senso, que-

6 Così anche DfAz-RooELAS, Ley. t 47. 7 Nella presente pericope il pronome personale singolare appare qui per runica volta, per cui si può capire la sua sostituzione con il pronome di prima persona plurale, tra i codici testimoniata pe­ raltro solo da 'V. I codici A D e la maggioranza dei minuscoli portano invece il pronome �E. la cui presenza può essere compresa come influsso della pericope precedente. Sebbene poi il pronome or possa essere compreso come dittografia della finale del verbo precedente. tale ipotesi prevederebbe come originario l'utilizzo di tale verbo in senso assoluto, senza alcun oggetto diretto, fatto però non direttamente testimoniato da alcun codice. K Così invece ZAHN, Romer. 315; LAGRANOE, Romains, 191; LENSKI, Romans, 491. 9 Cosl invece ScHLAITER, Romerbrief, 254; Kuss, Romerbrief, 490; K. STALDER, Das Werk des Geistes in der Heiligung bei Paulus, Bern 1 962, 394; ScHLJER, Romerbrief, 239.

La ouyxQtOI.ç tra Rm 7,7-25 e

8, 1-17

229

sto, che costituisce uno svolgimento ottimo del precedente versetto ed è inoltre esattamente ciò che intendono a loro volta sviluppare i successivi vv. 3 -4. 10 Ci si può ora chiedere cosa designino le espressioni «legge dello Spirito della vita» e , sono stati liberati dal potere vessatorio del peccato, ovvero dalla causa di tale condanna. E come comprendere, in tale prospettiva, l'aggiunta dell'espressione xat 'tOU 8av6.'tou? Ricordiamo che in 7,7- 12. 1 3bc Paolo aveva già chiarito come la 10 A riguardo, ZAHN, Romer, 375. rifiutava di vedere il sintagma tv XQt>. Possiamo a questo punto cogliere alcuni aspetti rilevanti nella logica dell'i­ nizio di questa pericope. lnnanzitutto notiamo che il v. 2 per molti versi dà ra­ gione del v. l. Se infatti al v. l veniva annunciata l'assenza di condanna, al v. 2 viene annunciata la liberazione del peccato, elemento causante tale condanna, e dalla morte, la quale almeno parzialmente è assimilabile a tale condanna costi­ tuendo un effetto del peccato. L'assenza di condanna veniva detta inoltre al v. l essere peculiare di coloro che sono «in Cristo Gesù)), sintagma pure qui ripreso per affermare che il processo di liberazione è avvenuto grazie a Cristo, fatto che, a causa delle tesi espresse al c. 6, impone un necessario riferimento al battesimo. Paolo inizia la pericope con una connessione logica di tipo entilnematico, in cui il v. l costituisce la tesi annunciata e il v. 2 la sua ragione (ratio ), o, il che è lo stesso. il v. 2 la premessa esplicita e il v. l la conclusione. La premessa implicita può essere costituita dalla interconnessione tra condanna e peccato. 18 Il prose­ guimento del capitolo tratterà in varia maniera della liberazione dal peccato e dalla morte, confermando definitivamente così che l'interesse qui posto in ri­ lievo. non concerne la legge mosaica ma proprio il peccato e la morte in sé consi­ derati. Tuttavia, a seguito della precedente pericope, in cui l 'interesse verteva proprio sulla legge mosaica, e a seguito della rinnovata antanaclasi con il sostan­ tivo VÒJ..toç, il quale, si è visto, non designa la Torah ma indubbiamente funge a ricordarla, il lettore si meraviglierebbe se il silenzio sulla stessa fosse totale e, forse, si attende che una qualche parola su di essa venga di nuovo pronunciata. Un 'ulteriore connessione viene da questo versetto stabilita con 7,24: se infatti là veniva invocata la liberazione da una condizione esistenziale segnata dai poteri del peccato e irrimediabilmente votata alla morte (cf. 111.3.3), qui tale libera­ zione viene annunciata essere realtà per coloro che sono «in Cristo Gesù)), con un riferimento quindi pure al v. 25a, ove la risposta al grido di liberazione era data in modo - lo si era visto - implicito. Già queste righe iniziali confermano pertanto anche il fatto che la descrizione del soggetto del capitolo precedente è quella di un non redento e che tra le due pericopi si attua una ouyxQLOlç, che dif­ ferenzia in modo netto le situazioni rispettivamente illustrat�. tR Per una simile terminologia rimandiamo al nostro primo capitolo: 1.2.1 e a menti, 1 98ss.

LAUSBERG,

Ele­

Una legge buona ma impotente

234

Tuttavia, oltre a motivare le prospettive enunciate al versetto precedente, Rm 8,2 costituisce anche un marcato elemento di novità nella misura in cui fa menzione dello Spirito e gli assegna un ruolo attivo nella liberazione dai poteri del peccato e della morte. Il lettore, alla menzione dello Spirito, ricorda imme­ diatamente 7 ,6, ove lo Spirito veniva detto caratterizzare la vita nuova, non più obbligata dal peccato e dalle sue passioni. Ma il carattere fugace di tale citazione non rende adeguata ragione della menzione così enfaticamente qui formulata e del legame stabilito tra lo stesso Spirito e l'avvenimento della liberazione. Ov­ viamente un tale legame è presto esplicitato qualora si pensi alla relazione tra il battesimo e il dono dello Spirito. 19 Essa è intuibile in molti testi paolini, tra i quali anche 7,6, in cui la novità caratterizzata dallo Spirito coinvolge proprio i soggetti a riguardo dei quali l'argomentazione precedente aveva detto essere di­ venuti partecipi sacramentalmente della morte di Cristo per mezzo del batte­ simo, e manifestamente espressa in altri, quali l Cor 6,1 1 . Tuttavia è innegabile che la formulazione qui presentata in Rm 8,2 richieda ulteriori spiegazioni. Il v. 2, quindi, se da una parte offre già le ragioni del v. 1 - ne costituisce cioè la ratio - d'altra parte rappresenta a sua volta un forte elemento di novità, che rilancia nuovamente l'argomentazione e richiede ulteriori spiegazioni. Questo è riscon­ trabile soprattutto per la menzione dello Spirito, ma si deve notare anche che la menzione dei poteri del peccato e della morte, pur comprensibile in forza della pericope precedente, verrà continuata nella successiva argomentazione e la libe­ razione dagli stessi ne costituirà uno degli oggetti di interesse. Riteniamo che in forza di questo duplice carattere il presente versetto possa essere compreso uni­ tamente al precedente come subpropositio originante l'intera argomentazione che si svilupperà sino al v. 17. Le osservazioni fatte sulla composizione generale di questa sezione della Lettera ai Romani trovano così la loro conferma. 1 .3

vv.

3-4

Un rinnovato yéJQ introduce due versetti che secondo noi sono intesi come espressione di una ulteriore causalità della liberazione dal peccato affermata nel versetto precedente. Se infatti tale liberazione raggiunge il singolo grazie al bat­ tesimo, è ovvio che il battesimo ha senso in forza del prioritario evento Cristo, in modo particolare della sua morte e risurrezione. Nella seconda parte del v. 3 Paolo intende richiamare proprio tale evento, il quale appare così logicamente come ragione ultima dell'affermazione del versetto precedente, e lo fa con affer­ mazioni sintetiche, dense, che evidenziano il carattere di allusione di tali righe e costituiscono di conseguenza una serie di locuzioni ricchissime per la loro pre­ gnanza teologica, ma altresì bisognose, proprio a causa del loro carattere estre­ mamente conciso, di accur'lta analisi e confronto con altre similari all'interno della teologia paolina. Tale analisi non rientra però nei nostri ambiti di ricerca. 19 Tale relazione è giustamente posta in risalto da M. LuBOMIRSKI, // ruolo dello Spirito Santo nel passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo secondo San Paolo, Roma 1 988, 259ss.

La O'Ùì'XQLOtç tra Rm 7,7-25

e

8, 1-17

235

In ogni caso facciamo rilevare che queste affermazioni sono incorniciate, ai vv. 3a e 4, da due menzioni del termine VÒf.toç precedute dall'articolo. L'assenza di un successivo genitivo e la non pertinenza dell'eventuale senso traslato di «norma», «principio», fanno sì che il riferimento alla legge mosaica sia qui indi­ scutibile; pertanto tali versetti risultano inerenti alla nostra indagine. Tra i vv. 3a e 4 viene così a costituirsi una relazione dovuta, oltre che dalla ricorrenza del termine VÒf.LOç, anche dall'opposizione tra l'impossibilità e il compimento della stessa, fattori che dovranno essere definiti attraverso un'analisi accurata, ma che si pongono immediatamente, già in modo intuitivo, come antitetici tra loro.20 Il v. 3a, nel suo complesso, può essere compreso come accusativo di rela­ zione al successivo proseguimento del versetto, ovvero come apposizione ali' og­ getto del verbo principale xa"ttXQLvev. 21 Una tale interpretazione però deve ipo­ tizzare una relazione tra elementi oggettivamente distanti all'interno di una frase, e ha inoltre lo svantaggio di comportare di conseguenza un 'interpreta­ zione dell'impossibilità della legge limitata solamente alla condanna del peccato. Questa interpretazione, come vedremo, benché non falsa, è tuttavia riduttiva. Se questa soluzione viene respinta il presente emistichio appare come anacoluto. Tuttavia, rispetto ad altri anacoluti, in cui il pensiero viene ripreso dopo una frase incidentale pur con una costruzione grammaticale non concordante con quella iniziale,22 si deve notare che il presente emistichio risulta totalmente tronco. Paolo non dà l'impressione di voler continuare il pensiero dopo una frase incidentale che gli ha fatto perdere di vista il corretto sviluppo grammati­ cale, quanto piuttosto di isolare un elemento del pensiero: attestare che la legge non è in grado di fare qualcosa. Egli poi vi contrappone con ricercata durezza ciò che invece è stato compiuto da Dio. Così facendo ottiene il risultato di richia­ mare all'attenzione da un lato la debolezza della legge, dall'altro di porre in as­ soluto rilievo l'iniziativa di Dio, collocata in posizione enfatica così da conferire indubbiamente il dovuto risalto al soggetto ultimo dal quale dipende l'iniziativa del processo di vittoria sul peccato. L'irregolarità grammaticale risulta così non un fenomeno incidentale, ma voluto. Di conseguenza essa può essere valutata retoricamente come enfasi allusiva, la quale si prefigge lo scopo di rimarcare la novità, l'imprevedibilità di un determinato fatto e di impressionare per questo l'uditore, ottenendo così l 'effetto definito dello straniamento.23 20 Così anche U. V ANNI, «ÒJ.lOUOJ.la in Paolo», Greg 58(1m). 458ss, il quale prosegue la sua analisi ipotizzando che al successivo verbo finito xa-rtxQtvEV vengano unite le espressioni a esso pre­ cedenti. Tale costruzione è però poco plausibile, in quanto anticiperebbe inspicgabilmente dei com­ plementi indiretti e lascerebbe il precedente participio senza i necessari complementi. La modalità ripetuta con cui i sostantivi oc.'lQ� e ltJ.taQtl.a sono connessi all'interno del v. 3 ha portato poi DfAz­ RooELAs. Ley, 148, a ipotizzare per i presenti versetti una perfetta composizione chiastica. A parte le corrispondenze innegabili, deve tuttavia essere notato come altri elementi non si lascino inscrivere in tale schema (es.: la menzione di Dio, l'invio del Figlio ... ) e che la conclusione del v. 4 è in ogni caso al di fuori della composizione, servendo da transizione a ciò che seguirà. 21 Cf. BD § 1 60. 1 . 22 Cf. BD § 467.2, che porta Gal 2,4.6 come esempi di anacoluti i n Paolo. 23 Per queste definizioni cf. LAUSBERG. Elementi, rispettivamente 231-233 e 60-62. Una tale fi­ gura retorica è simile a quella riscontrata in 7,12.

Una legge buona

236

ma

impotente

---- -cò àl)uvatov tou VÒJ.tou. Dato il riferimento alla legge mosaica, si deve necessariamente risalire al capitolo precedente, ove si parlava della legge mo­ saica, per avere la cornice interpretativa di questa locuzione. Poiché ciò che viene qui evocata è l 'incapacità e l'inadeguatezza della legge, si deve trarre an­ che da questo fatto una conferma indiretta dell'interpretazione del capitolo pre­ cedente da noi offerta. Se infatti in tale capitolo proprio questa debolezza, attra­ verso la concessio, era il fattore maggiormente posto in risalto, è del tutto natu­ rale una sua ripresa in modo così enfatico a questo punto dell'argomentazione. Ma cosa designa, allora, questo neutro sostantivato? A nostro avviso tre erano i fattori di debolezza emersi nella precedente argomentazione. Innanzitutto la legge è apparsa impotente ad abilitare il suo compimento. La legge stessa, con la sua proibizione, ha suscitato il desiderio (vv. 7-8), cosicché la volontà dell'io, pur desiderando sinceramente obbedire alla legge, si è trovata a essere impotente; essa non riesce a educare la profonde interiorità dell'io ed essere così fattore ge­ nerativo di prassi (vv. 1 5-25).24 La legge, così, come primo aspetto rilevante, ri­ sulta incapace a orientare la prassi dell'io. Come conseguenza essa non è fattore promotore di vita per l'individuo a essa assoggettato. Infatti, nonostante un'in­ tenzionalità originariamente orientata alla vita, essa diviene invece un fattore di morte, ovvero è strumentale a un processo di asservimento dell'io al peccato, il cui esito finale è la sua morte (v. l Ob ). Si può quindi asserire che un ulteriore aspetto posto in rilievo dalla precedente argomentazione è la sua incapacità a produrre «vita)). Questi due aspetti di carenza della legge sono causati, lo si è visto, dal suo assoggettamento al peccato personificato come potenza, alla sua azione coerci­ tiva e ineludibile. L'io, che si affida alla legge e fa esperienza drammatica della sua incapacità salvifica, alla fine grida il suo bisogno di liberazione da una condi­ zione esistenziale votata alla morte e dissociata interiormente (v. 24). Si è visto come questo grido sia da intendersi precisamente come espressione di un sog­ getto in balìa del peccato, la cui liberazione deve avvenire necessariamente a li­ vello di rimozione della causa ultima della sua schiavitù, ovvero deve compor­ tare la vittoria sul peccato-potenza. Risulta ovvio. da tutto il movimento di pen­ siero della pericope precedente, che la legge è del tutto incapace a compiere una tale liberazione. Di conseguenza il soggetto che grida questo suo bisogno esprime anche al contempo in modo palmare l'incapacità della legge a essere soggetto di liberazione dal peccato, essendo essa stessa da questi strumentaliz­ zata e asservita. Pertanto l'impossibilità della legge, richiamata in questo ver­ setto, designa anche la sua impossibilità a vincere il peccato, la quale si manifesta

24 È opinione comune e nostro avviso indiscutibile che una tale insistenza sulla necessità di fare la legge e la conseguente importanza assegnata alla prassi sia in piena continuità di pensiero con la riflessione giudaica. F.S. JoNEs. Freiheit in den Briefen des Apostels Paulus, Gottingen 1987, 1241 26, legge anche una interessante analogia tra la rifle s sione paolina e il concetto di libertà comune ai filosofi cinico stoici per i quali l'essere padroni delle proprie azi oni è un aspetto di assoluta rile­ vanza. -

,

La O'UyxQtatç tra Rm 7,7-25

e

8,1-17

237

conseguentemente nell'incapacità a promuovere il comportamento e a conferire così la vita. Tutte queste sono le «incapacità» della legge emerse dalla prece­ dente argomentazione. Non solo: esse in diverso modo vengono richiamate nella presente, ove la loro controparte positiva, ovvero la vittoria sul peccato, il dono della vita e la possibilità di prassi adeguata verranno variamente messe in risalto in tutta la presente pericope, non solo in questo versetto. Per il momento fac­ ciamo rilevare che il tema della vittoria sul peccato è già stato enunciato nei vv. 1-2 e che al v. 2, seppur in modo fugace, si fa menzione della vita, considerata come effetto realizzato dello Spirito e non più attesa in dipendenza della legge. - Èv

>, senza implicare in sé l'affermazione della distinzione della stessa. 32 Il riferimento qui implicato è certamente alla morte in croce di Cristo, esito finale del suo coinvolgimento con la storia di peccato degli uomini, ma non è a nostro modo di vedere escludibile anche un riferimento a tutta la sua esi­ stenza, al suo vivere in una storia di peccato e, di conseguenza, al suo essere uomo come gli altri, sofferente, tentato. Questa allora è una delle rare volte in cui Paolo fa menzione della vita di Cristo. È interessante notare che, se da un lato il presente versetto fonda il prece­ dente ricordando l'avvenimento originario in cui il peccato è stato vinto e in forza del quale il battesimo ha senso, d'altro lato allarga anche la prospettiva dello stesso, in quanto mostra la vittoria sul peccato come evento non limitabile al battesimo, ma anteriore e anche più ampio dello stesso. Detto altrimenti, se le affermazioni precedenti annunciano la liberazione dal potere del peccato confe-

31 · Evidentemente il sintagma tv 'tij aagxL va unito al verbo e non al precedente étllaQ'tlav, quasi che ci fosse «peccato» non manifesto nella «carne» e che questo non fosse di conseguenza vinto. 32 Cf. VANNI, «Ò!lOlrofJ.a,.. Tale espressione indica bene la condizione di esistenza di Cristo come assolutamente distante rispetto alla dignità che gli è propria. Una espressione ancor più audace può essere letta in 2Cor 5,2 1 .

Una legge buona

240

ma

impotente

rita per mezzo del battesimo - del quale non si fa menzione esplicita, ma la cui evocazione è sottintesa dali 'argomentazione stessa -, ciò che viene ora affer­ mato è che la vittoria sul peccato è dovuta all'evento Cristo. Ovviamente, a que­ sto evento si partecipa efficacemente per mezzo del battesimo. Tuttavia il batte­ simo non può esaurire il significato di un evento che riguarda tutta la storia umana, sulla quale lo stesso peccato aveva precedentemente esercitato il suo po­ tere. 33 Pertanto questo versetto allarga la prospettiva che, dalle affermazioni precedenti, avrebbe potuto restringersi esclusivamente a un ambito ecclesiale: il significato della vita e della morte di Cristo non è esaurito nel battesimo e non è possesso esclusivo dei battezzati. Nell'argomentazione della presente pericope tale allargamento di prospettiva non è sviluppato, essendo Paolo interessato dal­ l'inizio a rivolgersi direttamente ai credenti e a parlare delle prospettive di­ schiuse loro dal battesimo. Tuttavia è importante notare quegli aspetti della sua riflessione, che implicano delle rilevanti conseguenze pur non esplicitate dall'au­ tore in quanto non inerenti ai suoi interessi immediati. Ciò chiarito, riteniamo utile per il proseguimento del nostro studio soffermarsi un momento sulla se­ guente espressione. - n:tQt UJ.!UQ'tlaç. Nella LXX la locuzione viene utilizzata per tradurre l'e­ braico h(t nel senso di «sacrificio espiatorio» (ad es.: Lv 5,6.7.1 1 . .. ; 16,5.6.9. 1 1 . . . ). La frequenza di un simile significato nell'Antico Testamento greco suggerisce la presenza di una tale allusione anche nel presente contesto. In tal caso la morte di Cristo sarebbe esplicitamente evocata come momento in cui il peccato viene vinto e l'offerta del perdono divino, promessa dal culto anticotestamentario, viene ora comunicata agli uomini. 34 Non riteniamo però in alcun modo ammissi­ bile in questo testo una lettura che consideri Cristo come soggetto la cui morte verrebbe richiesta per assumere su di sé la condanna comminata dalla legge ai peccatori. cioè come espiazione sostitutiva della loro condanna. Tale concetto, in ogni caso difficile da moti varsi in forza dei testi sacrificali dell'AT, viene escluso dallo svolgimento delrargomentazione paolina. Ciò che qui viene affer­ mato è che l'invio del Figlio nella storia di peccato degli uomini e la sua solida­ rietà estrema, sino alla morte. con la nostra condizione hanno portato alla con­ danna, ovvero all'annientamento del peccato. Non si dice invece che Cristo sia stato condannato. Perciò è del tutto arbitrario introdurre una tale prospettiva nel presente contesto. 35 33

34

3,25.

A LTHA us , Romer, 76. La correlazione tra morte di Cristo e culto sacrificate AT è esplicitamente affermata in Rm Cf.

35 Con svariate sfumature tesi simili si riscontrano, tra gli a l tri , in K. K E RTELG E , « Recht­ fertigung» bei Paulus, Mii n ster 1 967. 217; W J LC K E N s . Romer, II 1 24ss; K1M, Origin, 275-276; PESCH. Romerbrief, 69; R.H. GuNDRY, «Grace, Works and Staying Saved in Paul», in Bib 66( 1 985). 31 -32: SruHLMACHER, Romer. 1 10; THEOBALD, Romerbrief, 222 : LEENHARDT. Romains, 1 17. Cf. le critiche di G. GJAVINJ, «Damnavit peccatum in carne», in RivB 1 7 ( 1 969 ) , 233-248; SABOURIN, Sin, 246ss; O. Ho· FJus, Paulusstudien (WUNT 5 1 ), Tubi ngen 1989, 35-39.46-49. Altri autori si spingono ancora più in là, negandovi ogni riferimen t o cultuale: cf. T.C.G. THORNTON, «The Meaning of xat 3tEQÌ. Uf.LUQ'ttaç in Romans V I I I .3», in JTS 22(1 971), 5 1 5-5 17; CRANFIELD, Romans, l 382; G. FRIEDRICH, Die Ver-

La O'Uyxgu}l.ç

tra Rm 7,7-25

e

241

8, 1-17

Il coinvolgimento personale di Dio, per mezzo del proprio Figlio, ha ope­ rato ciò che risultava impossibile alla legge, cioè la vittoria sul peccato. Tuttavia tale vittoria ha una finalità, che viene espressa nel versetto successivo e riguarda il compimento di una giusta richiesta della legge stessa. Così la legge risulta non essere semplicemente superata o abrogata, ma necessariamente affermata in al­ cune sue esigenze. Una simile formulazione presuppone le qualifiche positive della legge espresse nella pericope precedente, ma può essere considerata per certi aspetti sorprendente, qualora si pensi al fatto che il cristiano è morto alla legge e non vive più sotto il suo dominio (6,14-15; 7,1-6; cf. anche Gal 2,19; 3,2325). Ma ancor più decisamente, se tale affermazione si fonda sulle qualifiche po­ sitive prima espresse sulla legge, non è forse vero che esse rivestono un 'impor­ tanza decisiva nell'economia globale dell'argomentazione? E l'interpretazione sin qui sviluppata, fondata sulla figura della concessio, non verrebbe per ciò stesso inficiata, in quanto non disposta a riconoscere alle stesse la loro dovuta ri­ levanza? Per rispondere a questa domanda è necessario proseguire la nostra analisi. - 'tÒ �txai.oof..ta 'tOU VÒf..tOU. Il sostantivo btxalooJ.!a etimologicamente signi­ fica «ciò che è giusto», con il suffisso -f..ta che indica la concretezza, il risultato di un processo. All'interno dell'epistolario paolino è utilizzato solo nella Lettera ai Romani, con un significato generalmente corrispondente al senso etimologico e con un genitivo seguente che a volte specifica ciò che è giusto e che determina la sua designazione. 3(1 Nel presente contesto esso va quindi inteso come «ciò che è giusto secondo la legge», e quindi «ciò che la legge richiede», con il genitivo 'tOU VÒJ!OU che ha valore soggettivo. Che cosa è però giusto secondo la legge, che cosa designa cioè concretamente questa espressione? A questo punto le opinioni degli interpreti divergono. A nostro avviso qui non viene intesa la giustizia di Dio, la giustificazione /7 poiché Paolo, quando vuole indicarla con un sostantivo, utilizza correttamente òtxalooot.ç (cf. 4,25; 5,18. In 5,16 lnxaloof..ta è eccezionale, perciò non è corretto fondarvi la comprensione dell'uso paolino). Inoltre la giu­ stificazione non è una finalità ulteriore alla vittoria sul peccato precedentemente

kundigung des Todes Jesu im Neuen Testament, Neukirchen-VIuyn 1982, 68-71; ZELLER, Romer, 1 53; C. BREYTENBACH, Versohnung. Eine Studie zur paulinischen Soteriologie (WMANT 60), Neukirchen 1989, 1 59ss; N.T. WRJGHT. «The Meaning of rtEQl a�aQ'tlaç in Romans 8.3>>, in Studia Bihlica 1978 III, 453-459, Climax, 220-230 giustifica il riferimento cultuale in quanto nell' AT l espressi one qui esaminata si riferirebbe alle trasgressioni involontarie, quali quelle compiute dall'io di Rm 7 che vor­ rebbe aderire alla legge. Il contesto paolino però non è quello dell'inavvertenza. come in alcuni testi della LXX (e comunque neanche in tutti: cf. Lv 16). ma quello totalmente differente dell'i mpotenza del so9fetto. Cosi in 1 ,32 si può rendere con «ciò che Dio chiede giustamente» cioè il giudizio, in 2,26 «ciò che la legge richiede», ovvero i comandamenti (è degno di nota questo unico uso plurale del ter­ mine). in 5,18, senza seguente genitivo, «ciò che è compiuto giustamente», un singolo atto giusto. A ciò fa eccezione 5, 1 6. ove il termine signi fica «giustificazione», ovvero designa un processo e non il suo risultato, e la sua scelta sembra dovuta all'influsso di altri termini aventi il medesimo suffisso. Per una rassegna di altre possibilità cf. G. ScHRENK. «••òtxaiwtJ.a" B. Nel N uovo Testamento», in G LNT, II, 1 3 1 6-1 322. :n Così invece ScHLATIER, Romerbrief, 258; NYGREN, Romans, 317-319; DEIDUN, Morality, 74. '

·

242

Una legge buona

ma

impotente

menzionata, come invece sembra essere qui, e non si coniuga felicemente con il verbo «compiere», il quale sottende l'idea di un processo continuativo. Non viene nemmeno intesa la morte di Cristo, poiché altrimenti essa apparirebbe ne­ cessariamente come espiazione vicaria al posto degli altri peccatori. Tale conce­ zione, come si è detto a proposito del versetto precedente, è qui inammissibile, e non giustificherebbe la successiva aggiunta «in noi». 38 Ciò che invece la legge richiede giustamente, in quanto legge «di Dio», espressione della sua volontà giusta e santa, è un comportamento conforme a questa volontà, una condotta di vita adeguata. In altri termini, il presente ver­ setto afferma la finalità etica della redenzione operata da Cristo. Alcuni autori hanno allora voluto vedere qui un riferimento al decimo comandamento, men­ zionato in 7,7 e ora finalmente compiuto. 39 Questa interpretazione in sé non è impossibile, poiché ÒLxai.oo�a può essere affine a èvtoÀi} (cf. 2,26), ma è esclusa dal contesto presente, ove il riferimento a tale comandamento non viene più ri­ preso, e dalla considerazione che nel capitolo settimo il decimo comandamento appariva come un caso paradigmatico deli 'impossibilità di tutta la legge ad aiu­ tare il conseguimento di ciò che da essa veniva richiesto e non oggetto di una at­ tenzione argomentativa precisa. Non sono mancati autori che hanno dedotto da questa espressione la obbligatorietà dei comandamenti della legge mosaica per i cristiani.40 Ma questa interpretazione è smentita dal fatto che il sostantivo è al singolare - cf. la differenza con 2,26 -, indica piuttosto qualcosa di unitario, qualcosa che non può essere semplicemente equiparato alla molteplicità dei co­ mandamenti della Torah. Anche il successivo verbo, inoltre, pare intenzional­ mente differenziato rispetto a quelli che nel capitolo precedente costituivano il campo semantico del «fare>> e a quello che, nella seconda parte di questo ver­ setto, indica la condotta di vita dei cristiani, ovvero 3tEQuta'tÉoo. Se infine Paolo avesse espresso un simile concetto sarebbe incorso in una flagrante contraddi­ zione con tutte le sue affermazioni implicanti, in maniera esplicita o implicita, una distinzione tra alcuni comandamenti della legge, ad es. la circoncisione, e le esigenze rispetto alle quali il cristiano è necessariamente obbligato e che rappre­ sentano l'autentica volontà divina, le sue imprescindibili richieste. Ciò che della legge invece viene da Paolo messo altrove in stretta connes­ sione con la vita del cristiano è il comandamento dell'amore. In Gal 5,14 e Rm 13,8-9 viene infatti detto che il comandamento dell'ày{utfl è il compimento della

38 Cosl invece BENOIT, ((Loi», 498; ASMUSSEN, Romerbrief, 167; KASEMANN, Ri:Jmer, 208; VON DER OsTEN-SACKEN, Romer 8, 232ss; ScHMITHALS, Anthropologie, 102-1 03; lo., Romerbief, 266. Alcuni tra essi contestano l'implicazione da noi dedotta (cf. BENOIT, «Loi», 507), tuttavia se ciò che della legge deve essere compiuto è la condanna a morte del peccatore non si può fuggire all'idea che Cri­ sto sia il capro espiatorio che assume il posto dei peccatori. 39 VoN DER OsTEN-SACKEN, Romer 8, 228; ScHMITHALS, Romer, 266, sostengono che il deside­ rio conserverebbe qui il suo orientamento all'autogiustificazione; WATSON, Paul, 156-157, che legge invece un riferimento al desiderio sessuale; J.A. ZIESLER, «The Just Requirement of the Law ( Ro­ mans 8.4)», in AusBR 35(1 9H7), 77-82; lo., Romans, 207. 40 Cf. SICKENBERGER, Romer, 236 e più recentemente THIELMAN, Plight, 88-90.

La O'Ù')'XQt.Otç tra Rm

7, 7-25 e 8, 1-17

243

legge e la ricapitolazione dei suoi precetti. L'utilizzo del verbo 1tÀ.TJQÒOO in conte­ sti tematici affini dimostra come tale idea non sia estranea al presente versetto. 41 Tuttavia è degno di nota il fatto che qui non venga esplicitata, che Paolo lasci la sua espressione volutamente in un tenore generico. Deve anche essere rilevato come nei testi suddetti l'amore appare la modalità di compimento della legge, non ciò che viene compiuto, mentre qui è il ÒLxatoof.ta a essere compiuto, e que­ sto pare opporsi all'esplicita equiparazione tra i due termini. È questa una mera sottigliezza grammaticale, non in grado di influire veramente a livello ermeneu­ tico? A nostro avviso no, in quanto la presente espressione è volutamente gene­ rica. Ciò che viene qui implicato è solamente il fatto che la legge è apportatrice di giuste richieste, che ha un'intenzionalità originaria espressione della volontà divina, la quale deve essere conseguentemente compiuta. Non viene però detto che tutte le sue richieste siano tali e nemmeno indicato quali lo siano. Altri testi fanno coincidere questo compimento con l'amore, ma Paolo non appare interes­ sato a sviluppare simile concetto qui; al massimo lo revoca. - n:ÀTJQ008ij èv 11�-ti:v. A livello grammaticale deve essere notato che in lCor 6,2 Paolo esprime un complemento d'agente con il davvero insolito èv se­ guito dal dativo. Tuttavia tale senso può essere là giustificato dalla presenza del verbo XQivoo, che risulta in casi analoghi attestato anche nell'uso profano42 e non appare pertanto proponibile in contesti diversi. Il passivo del verbo allora è un passivo teologico, in armonia con tutto il contesto che ha visto ò 8e6ç, enfatica­ mente rimarcato nel v. 3b, come il soggetto di tutte le azioni sinora menzionate. La locuzione èv 1lfltV potrebbe di conseguenza avere senso strumentale, in quanto è ben risaputo che nel NT il dativo strumentale è reso molto spesso con il dativo preceduto da èv. In tal modo verrebbe evidenziata la cooperazione umana rispetto all'azione divina. Quest'ultima rimarrebbe prioritaria, l'altra di­ verrebbe uno strumento necessario all'attuarsi della precedente. Tuttavia deve essere notato che, quando Paolo fa seguire a rtÀllQÒoo al passivo un senso stru­ mentale, utilizza un dativo semplice (Rm l ,29: 2Cor 7,4 ). In tal caso inoltre la re­ lazione tra questa prima parte del versetto e quella successiva, ove verrà esplici­ tamente menzionato l'agire etico dei credenti, sarebbe in un certo senso di con­ temporaneità: la giusta richiesta della legge verrebbe compiuta da Dio - per mezzo nostro (v. 4a ) - ovvero del nostro camminare secondo lo Spirito, nel no­ stro agire conforme alla morale (v. 4b ). In attesa di analizzare tale emistichio, anticipiamo qui che questa non sembra essere la concatenazione effettivamente stabilita tra i due emistichi. La presente espressione pertanto deve avere un

41 In questa formulazione sfumata, da noi pienamente condivisa, un simile concetto viene proposto da BYRNE, Romans, 237. Svariati autori propongono una più o meno esplicita equipara­ zione tra il btxalwj.L(l e il comandamento dell'amore: cf. DE BooR. Romer, 1 82; PAULSEN, Ro m er 8, 64; H.W.M. VAN DER SANDT, «Research into Rom 8,4a: the Legai Claim of the Law», in Bijdragen 37 (1976). 252-269; WrLCKENS, Romer, II 1 28; U. ScHNELLE, Gerechtigkeit und Christusgegenwart. Vor­ paulinische und paulinische Tauftheologie, G otti ngen 1983, 1 3 1 ; HERMAN, «Rom 8», 39. 42 Cf. BD § 219 n. l .

Una legge buona ma impotente

244

senso locale. I credenti appaiono per il momento totalmente

ricettivi nei con­ fronti delragire divino, che in modo assolutamente gratuito compie in loro l'esi­ genza della legge. Si impongono a questo punto due domande: la prima, come deve essere intesa questa dimensione etica totalmente affidata all'iniziativa di Dio, la seconda, quale qualifica della legge emerge alla fine di queste considera­ zioni. Il pronome di prima persona plurale appariva al c. 6 per indicare Paolo as­ sieme ai suoi interlocutori credenti. Veniva là asserito che i credenti sono morti al peccato in quanto inseriti nel destino di Cristo crocifisso e risorto mediante il battesimo. Questo status dei credenti figurava totalmente dovuto all'iniziativa divina, iniziativa i cui momenti salienti là ricordati erano il mistero pasquale e l'inserimento dei credenti nel dono della vita di Cristo per mezzo del battesimo. Tale avvenimento era presentato altresì con un immediato risvolto etico: la libe­ razione dal peccato-potenza doveva far nascere una prassi corrispondente, degli atti in sé rivelatori del nuovo orientamento assunto dall'esistenza dei credenti, ovvero degli atti non peccaminosi. In poche parole, veniva presentata la ben co­ nosciuta dialettica tra l'indicativo e l'imperativo, tra lo statuto dei credenti e la sua intrinseca implicazione etica. 43 Questa veniva evocata con degli imperativi che sottolineavano la necessità dell'impegno responsabile dei credenti, ma prio­ ritariamente veniva tutta radicata nell'iniziativa divina. Riteniamo quindi che Paolo, per certi aspetti, in questo emistichio non faccia null'altro se non ripren­ dere ciò su cui in tale contesto si è già espresso. Affermare la prioritaria e incon­ dizionata dipendenza dell'etica dall'opera divina non significa negare la neces­ sità della corrisposta umana, ma affermare a chiare lettere che questa è assoluta­ mente impossibile senza la prioritaria iniziativa divina. Se è solo essa che può conferire un nuovo status ai credenti, e se la dimensione etica è intrinsecamente connessa e implicata da questo si può anche dire che essa è innanzitutto opera divina, compiuta nei credenti da Dio.44 Ma Paolo dice anche qualcosa di nuovo rispetto al c. 6, ovvero qualifica l'e­ tica come giusta richiesta della legge mosaica. Per capire tale riferimento è ne­ cessario ricordare da una parte che la legge era stata definita giusta, spirituale, addirittura «di Dio)) in 7,7-25, ma d'altra parte che il regime della legge era ap­ parso assolutamente inadeguato a promuovere quella vita nella giustizia che pure la legge esige (7,7-25) e che la libertà dal regime della legge è condizione per la vita nella giustizia (6,14), condizione che per noi credenti, afferma Paolo, è oramai realizzata (7,1 -6). Il noi-credente di questo emistichio non può non ricor­ dare di essere stato da Paolo qualificato come libero dalla legge per poter vivere

43

Cf. BuLTMANN, Theologie, 332-335. Riteniamo pertanto infondate le preoccupazioni di R. W. THOMPSON, «How Is the Law Ful­ filled in Us?)), in LouvSt 1 1 (1986), 31-40, il quale ritiene che un significato locale della locuzione tv t)f!iv comprometterebbe la rilevanza dell'agire etico umano. Invece Paolo. con tale espressione, ha mirabilmente sintetizzato l'incondizionata priorità dell'opera divina e la necessariamente implicata corrisposta umana. 44

·

La oUy>tQtotç tra Rm 7,7-25

e

8,1-17

245

nella novità di vita conseguente al suo inserimento nel mistero di Cristo. Da un lato, allora, il presente emistichio ricorda che l'àòuvatov tou VÒJlOU, menzio­ nato al v. 3a, riguarda anche la dimensione della prassi, in forza delle conside­ razioni svolte da Paolo nelle pericopi precedenti e nella presente non ancora ri­ chiamate. D'altro lato, in maniera ancor più importante, designare la vita etica come giusta richiesta della legge. compiuta da Dio nei credenti affrancati dalla stessa, rappresenta, ci sembra, un fatto altamente paradossale, poiché è precisa­ mente ciò che la legge non riesce a compiere a essere operato gratuitamente da Dio nei confronti di chi dalla legge è oramai liberato. Non c'è nulla che nella presente espressione rimarchi la bontà della legge senza al contempo ricordare l'àòuvat:ov toù VÒIJ.OU, impossibilità superata per chi non è più sotto la legge! L'ironia, che ha accompagnato le considerazioni della precedente pericope ri­ guardo alla legge (cf. IV.3.3), non è affatto cessata quando la stessa legge ri­ mane negli interessi della presente argomentazione. Riteniamo pertanto che la comprensione della valutazione paolina della legge da noi proposta non solo non venga smentita dalla presente asserzione, ma sia da questa pienamente confermata. - Toiç ... JtEQIJtatouotv. Il versetto prosegue ponendo in apposizione al pronome personale ft�-tt:i:ç un participio sostantivato che qualifica i soggetti per i quali la giusta richiesta della legge viene compiuta come persone il cui compor­ tamento è determinato non dalla carne, ma dallo Spirito, formulazione rimar­ cala da una rinnovata antitesi (cf. fltl··· àÀ.A.ét). Il verbo JtEQLJtattw in Paolo rinvia pressoché regolarmente all'agire etico, come nel caso di 6.4, unica sua menzione finora nella Lettera ai Romani.45 Esso è seguito dalla preposizione xatét con ac­ cusativo, la quale ha il significato di «in accordo con»; le due locuzioni risultanti hanno così un significato affine a un avverbio. 46 È comunque chiaro che JtVEUJla designa qui lo Spirito Santo, nonostante la mancanza dell'articolo, la quale può essere giustificata dalla preposizione: al v. 27 lo stesso 8e6v non è preceduto da articolo a seguito di questa preposizione! La menzione della carne richiama dap­ prima nuovamente ciò che era stato detto nella pericope 7,7-25 e ribadito al ver­ setto precedente. Essere «carnale» significa essere nella sfera d'autorità e di do­ minio del peccato (7,1 4), quindi manifestare tale dominio con la propria prassi, con il proprio io operativo (7 ,23.25). La signoria esercitata dal peccato sull'uma­ nità fa sì che la sua condizione possa essere definita «carne di peccato» (8,3). La citazione qui effettuata della carne, in stretta antitesi con lo Spirito, ovvero con la stessa realtà già posta in antitesi irrimediabile con il peccato (v. 2), rende inol­ tre, per questo stesso motivo, il concetto di carne come virtualmente simile a

45 Cf. Rm 6,4; 8,4; 1 3,13; 1 4,15; t Cor 3,3; 7,17; 2Cor 4,2; 5,7; 10,2.3; 12,18; Gal 5,16; Fil 3,17.18; lTs 2,12; 4,1 . 1 . 1 2. Cf. BAGD, «Jtt:Quta'tÉW», 2. 46 Cf. BAGD, «Xa'tél», 11.5.b. Il senso dell'espressione è così affine a 7 , 1 3 e differente da 7,22. ove xa'tà tòv fow avSQWJtov esprimeva un'origine. I n altri contesti anche la locuzione xatò. oétQxa ha semplicemente questo senso: cf. da es. Rm 1 ,3; 4, 1 . Cf. BAGD, «XUtét», 11.5.b. e ScHWEIZER, «OaQ; E. 11.2», in GLNT, Xl, 1 333-1 338.

Una legge buona

246

nw

impotente

quello di «peccato». Non è solamente espressione di una realtà condizionata, ma pure condizionante l'esistenza umana. Paolo pare dunque allargare il concetto di oaQ; con un procedimento metonimico, sul quale si è già parlato precedente­ mente. Una prassi non più determinata dalla carne è segno inequivocabile che il peccato è stato vinto e che le affermazioni del presente capitolo si oppongono a quelle del precedente come descrizioni di condizioni esistenziali opposte e mu­ tuamente inconciliabili. Lo Spirito è la realtà che orienta l'esistenza dei credenti come principio radicalmente opposto a quello del peccato. Questa affermazione riprende per la prima volta la menzione dello Spirito fatta al v. 2 e, in continuità con tale versetto, lo pone in antitesi netta e irriducibile con il peccato stesso. Va notata la formulazione trinitaria dei presenti versetti. Dio Padre è all'origine del processo che, per mezzo del Figlio, ha portato nel passato alla vittoria sul pec­ cato. Al presente i credenti manifestano questa vittoria nel loro agire guidato dallo Spirito. Questa formulazione non è l'unica all'interno della presente argo­ mentazione; nel seguito, infatti, altri interventi trinitari per la nostra salvezza verranno menzionati. È opportuno a questo punto studiare la relazione tra le due parti del ver­ setto. Solamente ipotetica dal punto di vista grammaticale è la supposizione che 4b rappresenti la condizione di 4a, che cioè la giusta richiesta della legge sia adempiuta a patto che camminiamo secondo lo Spirito. Il compimento della ri­ chiesta, infatti, era presentato in 4a come totalmente dipendente dall'agire di­ vino e pertanto non condizionato dal camminare umano. Più consono allo svi­ luppo dell'argomentazione pare essere un significato modale: il camminare se­ condo lo Spirito cioè rappresenterebbe la modalità attraverso la quale si manife­ sta concretamente il compimento della richiesta della legge. 47 Se tuttavia i verbi impiegati in questo versetto da Paolo hanno un qualche senso, tale ipotesi è dif­ ficilmente sostenibile. Dapprima, infatti, viene utilizzato 3tÀllQW9ij, un aoristo che indica un 'azione definita che non può esprimersi attraverso il successivo par­ ticipio presente 3tEQuta'toÙaLv. il quale invece indice un'azione continuativa, ite­ rativa. Ovviamente una simile difficoltà potrebbe venir superata se si com­ prende questo aoristo come ingressivo. Ma nel presente contesto una simile in­ terpretazione perlomeno non risulta chiaramente. Infatti gli aoristi del versetto precedente non sono ingressivi, ma piuttosto indicano azioni oramai completate. Parimenti il proseguimento del versetto, non unendo strettamente il compi­ mento della richiesta della legge con il camminare etico, non facilita tale comprensione: sarebbe stato diverso se Paolo avesse scritto una frase del tipo « affinché la giusta richiesta della legge venga compiuta nel nostro camminare. ». Ciò che viene compiuto, inoltre, è una richiesta singola, la cui designazione, lo si è visto, viene lasciata inespressa, ma la cui singolarità viene chiaramente affer­ mata, mentre il verbo successivo 3tEQLJta'touaLv, indicando un atteggiamento ...

..

47

Di

questo avviso CRANFIELD, Romans, I 385.

La O'UyxQtmç

tra Rm

7,7-25 e

8,1-17

247

continuativo, ripetuto, non pare esprimere una correlazione stretta con una sola entità. La connessione tra questi due emistichi parrebbe così essere di tipo conse­ cutivo. Inseriti in Cristo mediante il battesimo i credenti ricevono un nuovo sta­ tuto. Questo comporta necessariamente una dimensione etica, la quale è ciò che la legge richiede e ciò che viene gratuitamente offerto come possibilità ai cre­ denti da Dio. Conseguentemente essi possono agire non più in conformità alla carne, ma in conformità alla nuova forza che, donata nel battesimo, anima la loro condotta, lo Spirito. 48 Lo stile di Paolo, lo si vede, è qui estremamente con­ ciso, ma denso di implicazioni teologiche. Da una parte, infatti, egli richiama le considerazioni precedentemente espresse sulla legge mosaica, il fatto che sia ap­ portatrice di giuste richieste di cui al contempo è assolutamente incapace di abi­ litarne il compimento. D'altra parte afferma che lo stesso si è realizzato in forza dell'assolutamente gratuita iniziativa di Dio, la quale raggiunge le esistenze dei credenti e li abilita di conseguenza a una necessaria condotta di vita etica. V al la pena di risentire ciò che della celebre dialettica indicativo/imperativo ha scritto Aletti, in quanto può essere interamente colto in queste scarne righe: Si sa che, per Paolo, il verbo peripatein rinvia al comportamento morale; e il peripa­ tein nella novità della vita è . presentato come ciò che costituisce la finalità del bat­ tesimo. Non si saprebbe essere più espliciti. La santificazione ci è già stata donata ... , poiché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo ... , ma rimane ugualmente proposta alla nostra libertà , è allo stesso tempo la meta verso cui dobbiamo tendere ... e verso cui 2iungia mo un po' alla volta se non mettiamo ostacoli ai moti dello Spirito in noi. a-9 .

.

...

Infine va segnalato che, da ciò che viene qui espressamente detto, l'agire etico parrebbe una possibilità del tutto scontata per i credenti. 5° In realtà ciò non è così agevole, come fanno capire le ammonizioni che Paolo esplicitamente ri­ volgerà ai suoi interlocutori nel seguito dell'argomentazione. Ma implicitamente anche il presente contesto offre indicazioni in tal senso. Poiché infatti l'agire etico dei credenti viene visto innanzitutto come dono di Dio e possibilità offerta grazie all'opera dello Spirito in essi, e poiché l'io, da solo, era descritto nella pe­ ricope precedente come assolutamente impossibilitato a rompere con il perverso meccanismo di schiavitù al peccato, va da sé che il credente non può mai presu­ mere che il rischio di un rinnovato assoggettamento alla vita nella carne non lo

48

Similmente ZELLE.R, Romer, 153. J.-N. ALEITI, «L'éthicisation de l'Esprit Saint», in J. DoRE, a cura di, Ethique, religion etfoi, 1 30- 1 3 1 . Invece DEmuN, Morality, 74-75, misconosce la presenza di tale dialettica qui per il fatto che il v. 4b non è pri mariame n te un'esortazione, ma la descrizione di un dato di fatto. Se tuttavia il verbo JtEQLJta-rtm in sé connota l agire dei credenti. il quale è ovviamente dipendente da quello divino, ma necessariamente espression e della libertà delle persone, una perlomeno implicita allusione al loro impegno responsabile non può non essere qui intesa. 50 Non si possono trarre conseguenze sul carattere ipotetico del loro camminare secondo lo Spirito in forza della negazione !J.TJ, la quale in conformità all'uso del greco NT. viene qui impiegata semplicemente a causa del modo participio: cf. BD § 430; ZERWICK § 440-441 . 49

'

,

Una legge buona ma impotente

248

più riguardare.5 1 Egli invece dovrà ritenere che l 'unica garanzia che ciò non avvenga consiste nell'opera dello Spirito, alla quale viene richiesto implici­ tamente di conformare sempre la propria esistenza. Con questo versetto, quindi, Paolo ha menzionato uno degli aspetti tra quelli che risultavano impossibili alla legge in base alla pericope precedente, ov­ vero l'aspetto etico, la capacità di abilitare il singolo a conseguire il bene da cui idealmente si sentiva attratto. Ora questo aspetto è compiuto, in seguito alla re­ denzione operata da Cristo, per coloro che hanno ricevuto lo Spirito e model­ lano il proprio comportamento sulla base di questo e non più della carne. Si at­ tua così una marcata antitesi tra la descrizione dei credenti nella presente peri­ cope e l'io di quella precedente, antitesi che conferma l'interpretazione là pro­ posta, ovvero che tale pericope si riferisse a un soggetto non cristiano. Il ruolo dello Spirito nella battaglia contro il peccato, enunciato al v. 2, inizia qui a essere chiarito. Vista la concisione di queste affermazioni riguardanti l'etica, il lettore si attende comunque che esse vengano in qualche modo sviluppate, ed è ciò che fanno i versetti successivi.

possa

1 .4

vv.

5-6

Si è visto che i vv. 5-8 presentano molte caratteristiche letterarie comuni. essi analizziamo in modo separato dapprima i vv. 5-6 e in seguito i vv. 7-8. Troveremo così dei criteri concettuali che integrano quelli letterari per determi­ nare la composizione del testo. Infatti i vv. 7-8 svilupperanno la parte negativa dell'antitesi che riscontriamo ai vv. 5-6, ovvero quella imperniata sulla carne, mentre i successivi vv. 9-1 1 svilupperanno quella positiva, imperniata sullo Spi­ rito. Questa sarà riferita non a soggetti generici, ma ai credenti. I vv. 5-6 potreb­ bero allora essere considerati come una sorta di riassunto prolettico di ciò che segue. Entrambi i versetti si presentano come esplicativi in quanto sono ambedue introdotti da u n y6.Q. L'esatta valenza di tale spiegazione può essere evidenziata solo a seguito dell'esame dei singoli termini qui presenti. Si nota subito come essi sviluppino l'antitesi tra oaQ; e rtvEu�a poc'anzi introdotta. Essi infatti sono strutturati con un parallelismo antitetico, in cui la congiunzione 6f. ha un carat­ tere avversativo, e sviluppano pertanto una ouyxQtotç tra le possibilità di vita de­ terminate dalla carne e quelle determinate dallo Spirito. - ot. ovtEç. La presente locuzione sostituisce la precedente ... 'toiç .. rtE­ QtJ"ta'touotv e indica una realtà basilare dalla quale emergono successivi atteggia­ menti: chi è secondo la carne o lo Spirito ha degli atteggiamenti rispettivamente corrispondenti alla carne o allo Spirito. Ovviamente la ripetizione di altri sin­ tagmi dell'emistichio precedente indica immediatamente che la tematica etica è ancora nell'orizzonte degli interessi di Paolo. Tuttavia l'uso del verbo ElflL e il Di

..

51 Cf. WILCKENS, Romer, II 1 29-130; BYRNE, «Righteousness», 569.

.

La ouyxQtOtç tra Rm 7,7-25

e

249

8, 1-17

sia originante di atteggiamenti personali denotano che qui viene indicato qualcosa che sta a monte dell'agire immediato, ovvero uno status, una condizione esistenziale. 52 - Qovtw, Q6Vrtf.1a. Viene qui utilizzato un verbo che nell'epistolario paolino ricorre ventitré volte e il sostantivo corrispondente, che, invece, al di fuori delle tre ricorrenze nei vv. 6-7, ritorna solamente una volta, sempre all'in­ terno di questo capitolo. 53 Siccome Paolo usa a volte il verbo con un senso forte, non limitato solamente al senso di 'tOU e eou oùx UJ'tO'tUOOE'tUL. Dopo aver sviluppato ai vv. 4b-7a la tematica etica come antitesi tra le condizioni esistenziali e i conseguenti modi di vita determinati rispettivamente dalla carne o dallo Spirito, tra essi mutua­ mente esclusivi, l'argomentazione mette ora, in modo decisamente inaspettato, nuovamente a contatto con la «legge di Dio», la cui menzione e ra assente dopo il v. 4a. Vista questa assenza dai versetti immediatamente precedenti, e conside­ rato il fatto che l'argomentazione si svilupperà poi senza menzione esplicita di tale legge, si potrebbe essere indotti a pensare a questo termine in modo nuova­ mente traslato e a vedervi una rinnovata antanaclasi, in cui verrebbe designata genericamente la volontà di Dio. 58 Ma a questa interpretazione si oppone il fatto che in 7,22.25 tale sintagma designa precisamente la Torah, e che tali ricorrenze, unite alla presente, sono le uniche in cui tale espressione viene utilizzata da

ss

Cosi, ad es., SCHMITHALS, Anthropologie, 106; lo., Romerbrief, . 268.

La O'UyXQLO'tç tra Rm

7, 7-25

e

8, 1-17

253

Paolo, per cui risulta oltremodo inverosimile che egli abbia utilizzato un'espres­ sione per lui insolita con un significato differente in contesti così vicini tra loro. L'espressione legge di Dio, in base a una prima lettura, parrebbe designare in­ nanzitutto la Torah,59 alla quale gli orientamenti esistenziali determinati dalla carne non si assoggettano.til Inoltre non vi si possono assoggettare in quanto espressione radicale dell'inimicizia nei confronti di Dio. L'aggiunta del verbo buvaf.tat. offre la ragione della non sottomissione della carne a Dio e alla sua legge. Da qui il ricorso alla preposizione yaQ . Il verbo perciò connette questi versetti con il v. 3a, ove «l'impossibilità>> della legge viene radicata nella «carne». Essi rendono evidente che tale impossibilità riguarda la vita etica. Ma non solo: questi versetti si riconnettono espressamente ai vv. 7,14-25, ove precisamente la «carne» dell'io, cioè la sua esistenza storica contrassegnata dal peccato, viene vi­ sta come ragione ultima di una condotta di vita incapace di tradurre la legge in prassi. 61 Se a questo pensiero si collega quello espresso in 7,5-6, che vede nella li­ bertà dalla legge la condizione per una vita contrassegnata dalla novità dello Spi­ rito e non più dai dettami della carne - e non c'è dubbio che per Paolo tale ac­ costamento è un fattore naturale, che i pensieri qui espressi non sono due mani � festazioni contraddittorie - allora il paradosso a cui si è fatta menzione prece­ dentemente continua. Chi è «sotto» la legge è ancora determinato nella sua esi­ stenza dalla carne e non è in grado di «assoggettarsi» autenticamente alla legge, a ciò che essa, come espressione della volontà divina, richiede. 62 Se l'orienta­ mento esistenziale determinato dalla carne comporta inimicizia nei confronti di Dio, è ovvio che i credenti sono esclusi da questo stato di cose, e che di conse­ guenza l'io di 7,7-25 appare anche in forza di questo versetto come non credente. Non a caso si continua qui a sviluppare la descrizione della parte negativa del­ l'antitesi dei vv. 5-6, ovvero dell'esistenza nella carne e non di quella nello Spi­ rito. L'io di 7,7-25 è definito precisamente carnale (v. 14). mentre anche in tale pericope lo Spirito è del tutto assente. L'assenza della sua menzione esplicita ri­ sulta così voluta, mentre non è possibile scorgervi una sorta di sua rievocazione

59 Nel proseguimento del capitolo valuteremo se tale designazione possa essere allargata, benché in ogni caso non smentita. 60 Il verbo unaTaooETal. ha senso riflessivo: cf. BAGD l .b�. 61 I presenti versetti confermano così il fatto che l'bn9uJ.Li.a nomistica non sia in vista nell'ar­ gomentazione paolina della precedente pericope. Infatti non viene sostenuto qui che ci sia una sorta di obbedienza «Carnale» alla legge tesa a conseguire l'autogiustificazione, ma che l'obbedienza alla legge è semplicemente impossibile all'uomo carnale, e che in questo consiste il suo stato di inimicizia nei confronti di Dio. Di altro avviso. tra gli altri: FucHs, Freiheit, 94; ScH M I DT, Romer, 1 38-139; SAND, «Fieisch», 1 96; MAILLOT, Romains, 209. 62 Appare così fortemente verosimile che nella presente espressione sia da intendersi sottin­ teso il sostantivo �nxalwJ.ta: gli orientamenti esistenziali determinati dalla carne non si rendono sog­ getti a ciò che la legge giustamente richiede. In ogni caso non condividiamo ciò che afferma Di A Z RooELAS, Ley, 209: «Rom 8.4 costituisce l'autentico punto di arrivo del discorso iniziato in 7,7». Dal punto di vista della dispo.�itio retorica l'argomentazione vertente principalmente sulla legge si chiude al v. 25, con la risottolineatura della sua incapacità salvi fica. Dal punto di vista concettuale i richiami alla pericope precedente continuano oltre 8,4, e non perdono mai di vista l'aspetto della debolezza della Torah. ­

Una legge buona

254

ma

impotente

implicita in qualche espressione. Se però i credenti, in quanto liberati dal potere del peccato e non più necessariamente portatori di atteggiamenti esistenziali de­ terminati dalla carne possono assoggettarsi alla legge di Dio, quale ruolo ha tale legge nella loro esistenza? Non è forse implicato qui che la legge possa costituire nuovamente il canone dei loro comportamenti? L'argomentazione, lo si vede, continua a sollevare delle problematiche riguardo alla legge, alle quali sarà ne­ cessario offrire adeguata risposta con una sezione dedicata nuovamente alla legge, ovvero a ciò che della legge viene globalmente inteso da questa pericope. - ol èv oaQxl OV'tEç. L'argomentazione prosegue riassumendo la condi­ zione di coloro che sono «nella» carne. La preposizione èv viene qui utilizzata al posto di xa'ta, la quale invece era utilizzata ai vv . 4b.5a per esprimere la rela­ zione degli uomini con la «carne>>. Si può scorgere qui un uso «sociativo>> della preposizione, con il significato risultante di «nel potere di>>, «in società con». 63 L'espressione risulta così praticamente sinonima della precedente xa'tà oagxa e il significato di «potenza» acquisito dal sostantivo oag� viene qui ulteriormente ribadito. - 8eQ> àgtoat où buvavrat. All'interno delle lettere paoline, la locuzione 8eQ> àgtoxetv non è inusuale per descrivere la finalità ricercata dall'esercizio dell 'apostolato paolina (cf. 1Ts 2,4; implicitamente anche Gal 1 , 10.10) o dalla condotta etica dei credenti (cf. 1Ts 4,1; al riguardo cf. anche l'utilizzo dell'agget­ tivo e'Òagem:oç per qualificare la relazione delle persone con Dio in Rm 12,1; 14,8; per designare ciò che concretamente è conforme alla sua volontà in Rm 12,2). Qui viene affermato il risvolto negativo di un orientamento esistenziale che non si lascia modellare dallo Spirito: non si sottomette alla legge di Dio. Conseguentemente esso non riesce a raggiungere quella pace e quella comu­ nione con Dio (cf. v. 6b) qui evocata con la presente espressione. Ancora una volta notiamo che ciò che risulta impossibile a un 'esistenza carnale viene affer­ mato essere possibile per i credenti, i quali vengono così sin d'ora pensati non al­ l'interno di questa modalità di esistenza. Ma ancora una volta, poiché il non pia­ cere a Dio è qui considerato come risultato del non assoggettarsi alla sua legge, i soggetti credenti risultano estranei alla situazione descritta nella pericope 7,14ss, caratterizzata appunto dalla non obbedienza fattiva alla legge divina. Con queste note si può concludere l'esame dei vv. 5-8. Si è visto come la ri­ flessione avente per oggetto l'etica prosegue in riferimento a soggetti generica­ mente designati (quelli che sono secondo ... ), dei quali è descritto l'atteggia­ mento esistenziale corrispondente al proprio status ontico. Tale riflessione si svolge comunque secondo modalità che ci portano ulteriormente a differenziare la situazione dei credenti da quella descritta nella pericope precedente della let­ tera. Ma al v. 7 è stata anche fatta menzione rinnovata della legge di Dio, che ri­ chiede una riflessione rinnovata sulla presenza di tale tematica all'interno della

63

Cf. ZERWICK § 1 16-1 17. Cosl anche BRODEUR, Agency, 180.

La O'Uyxgtotç tra Rm 7,7-25 e 8, 1-17

255

presente argomentazione. Prima di affrontare tale tematica riteniamo utile pro­ seguire in una seppur sommaria lettura dei versetti successivi. 1 .6

vv.

9-11

All'interno di questi versetti prosegue la descrizione dell'esistenza dei cre­ denti, vista ora non solamente sotto la prospettiva dell.'etica, ma da un punto di vista più generale. Diamo innanzitutto una lettura rapida dei vv. 9_. 1 1 per poi sof­ fermarsi al v. 10, ove il sintagma OÒlJ..la VEXQÒV presenta una nota crux agli inter­ preti e sembra riguardare da vicino l'antropologia espressa nella pericope prece­ dente. Il v. 9 presenta due successive frasi ipotetiche della realtà. La prima di esse inizia con l 'apodosi in cui è presente un 'antitesi tra carne e Spirito, a cui fa se­ guire la protasi introdotta dalla non comune particella EL1tEQ. - 'Ùf.!Eiç oè oùx �att �v oaQxL Dopo aver parlato in termini generici, ora Paolo applica esplicitamente ai suoi interlocutori le riflessioni dei precedenti versetti e li interpella con il pronome di seconda persona plurale. Questo è stato utilizzato l'ultima volta in 7 ,4, ove segnala l'applicazione agli interlocutori del paragone precedentemente sviluppato. Infatti là viene affermata la libertà dei credenti dalla signoria della legge. Ma questa libertà cristiana appare intima­ mente correlata alla libertà dalla carne e al servizio nuovo nello Spirito (vv. 5-6). L'affermazione del presente versetto appare pertanto del tutto inerente alla glo­ balità della teologia paolina. Inoltre, essa è un'applicazione conseguente dei ra­ gionamenti precedentemente espressi in forma generica. Anche l'interpreta­ zione proposta, che vede i credenti implicitamente distinti dai soggetti determi­ nati dalla carne, viene pertanto confermata. 64 La locuzione �v oaQxl connette espressamente questo versetto con lo svi­ luppo argomentativo precedente attraverso la formula delle parole-gancio. An­ che il significato di oaQ� allora risulterà conforme a quello precedentemente espresso, sarà cioè equivalente a «sfera di influenza, di potere)), virtualmente si­ nonima di peccato. 65 A questa sfera di potere si contrappone quella dello Spirito, nel cui ambito sono collocati i credenti. Lo Spirito rappresenta quindi l'ele-

64 OUNN , Romans, I 428, afferma invece che: «>, «dare vita» ed è pertanto un verbo con un significato pregnante, utilizzato talvolta da Paolo in modo da ri­ chiamare esplicitamente la creazione, da suggerire che il suo unico possibile sog­ getto è Dio creatore (cf. Rm 4,17}. 76 In ogni caso esso è adoperato quasi sempre per descrivere una specifica attività salvifica. È possibile qui trarre un altro mo­ tivo di paragone, seppur sfumato, con la pericope precedente. In 7, 1 0b veniva esplicitato il fatto che la legge non si fosse rivelata come orientata alla vita, bensì alla morte. Si è analizzata la valenza di una simile affermazione, e si è visto come non venisse là implicata una potenzialità originaria della legge di dare vita. Se d'altronde tale potenzialità è una potenzialità creatrice, si comprende bene come essa sia totalmente estranea da ciò che è legittimo e sensato attendersi da una legge. Ma se questa è una caratteristica di Dio, come si dice in un versetto che parla della risurrezione dei morti dopo una lunga discussione dedicata alla vita etica, la quale è resa possibile solamente grazie all'opera dello Spirito in noi, preceduta dalla vittoria sul peccato operata da Dio per mezzo del Figlio, allora è -

•••

74 Cf. M. DE MERODE, «L'aspect eschatologique de la vie et de l'esprit», in ETL 51(1971 ). �a VE­ KQÒV, che appare direttamente correlato con l'antropologia che si è sviluppata nella pericope precedente. Tale espressione costituisce, come è noto, una crux. Sembra cosa saggia non cercare di risolverla qui, quando la nostra ricerca si indi­ rizza ormai verso la sua conclusione. Si deve solamente vedere se essa può falsi­ ficare la nostra interpretazione dell'antropologia della pericope precedente e la designazione non cristiana del soggetto che in 7,24 anela alla sua liberazione dal corpo di morte. Al pari della successiva espressione, si è in presenza di un predicato nomi­ nale in cui l'aggettivo VEKQÒV funge da nome del predicato, mentre la copula elp.l è sottintesa. Brodeur ha avuto il merito di ricordare che l'omissione della copula lascia il tempo del verbo nella indeterminatezza, che quindi potrebbe essere in-

La O"Ù)'XQLOtç

tra Rm

7,7-25

e 8, 1-17

263

teso sia un tempo passato, sia un presente come anche un futuro. 77 Ma se la pre­ senza di un passato ci sembra alquanto improbabile, poiché l'ultimo tempo pas­ sato era stato utilizzato al v. 3 e il lettore non vede come possa essere sottinteso nella presente espressione, considerando anche che i participi aoristi del versetto successivo fungono semplicemente da base di partenza per lo sviluppo del pen­ siero, l'ambiguità tra il tempo presente, caratteristico dei versetti precedenti, e quello futuro, tempo della frase principale del versetto successivo, pare invece essere volutamente ricercata. Paolo può voler dare così l'impressione di passare con accortezza all'ultimo punto della sua probatio, il quale ha, come visto, come oggetto la risurrezione dai morti. Se pertanto viene inteso il tempo al futuro, l'e­ spressione deve essere letta come «il corpo sarà morto>). Il senso dell'espressione appare come variazione retorica della successiva menzione dei corpi mortali, evento ovvio, che causa problemi ai cristiani, i quali sarebbero così preparati alla discussione del versetto successivo. Ci si potrebbe chiedere perché Paolo utilizzi tale espressione se dopo adopera l'aggettivo dal senso indiscusso 8vr]tòv. Ma a mio modo di vedere ciò non è sufficiente per ritenere del tutto improponibile tale senso anche nell'espressione del v. 10, poiché Paolo può ben aver scelto ter­ mini diversi per ragioni stilistiche. In continuità con il verso successivo viene poi fatta menzione dello Spirito, qualificato come «Vita)). Non è necessario vedere qui un tempo futuro, in quanto nell'argomentazione sin qui sviluppata era stato sufficientemente ribadito che lo Spirito è fattore originante la vita. Se si ricorda che lo Spirito abita nei credenti (v. 9), si comprende come venga implicitamente suggerito che tale Spirito è garanzia di vita futura, ciò che dirà il verso succes­ sivo. L'aggiunta «causa la giustizia», da canto suo, ricorderebbe come la vita fu­ tura, pur essendo innanzitutto dono del Dio creatore (v. 1 1 ), non è totalmente indipendente dalla condotta di vita nella giustizia dei credenti. Altre letture sono state proposte anche per la fine del versetto. Tuttavia, se si accetta la lettura del v. lOba qui ipotizzata, allora la fine del versetto vedrebbe questa come ipotesi più logica. Non c'è nulla, in questa lettura, che si opponga all'interpretazione della pericope data precedentemente, come si è sopra chiarito. Ma è anche fortemente probabile che un'allusione a un fatto presente sia qui compresa, o'vvero che il corpo venga definito come morto «ora)), ovvero nel momento in cui Paolo scrive e i suoi interlocutori leggono la lettera. Cosa può voler intendere allora Paolo con tale espressione? Come può, un corpo di per­ sone viventi, essere definito morto? A questo punto le opinioni degli interpreti si differenziano. Senza rendere conto di tutte le sfumature con cui tali ipotesi sono state proposte, pensiamo che esse possono essere ridotte sostanzialmente a due. Una di esse vede un utilizzo di fatto metonimico del termine OOOfla, il quale ver­ rebbe così ad assumere un significato traslato, affine al precedente oag;, indi­ cherebbe cioè qualcosa in sé negativo a livello assiologico, come del resto appare al v. 13. Definire tale corpo morto equivarrebbe allora ad affermare che la po77

BRODEUR,

Agency, 203ss.

264

Una legge buona ma impotente

tenza della carne è terminata nell'esistenza del cristiano, che egli nel battesimo è stato liberato dal potere del peccato. 7x Questa affermazione risulterebbe in con­ tinuità con lo sviluppo del versetto: verrebbe cioè affermato contemporanea­ mente sia che il corpo è morto, sia che lo Spirito è vita come duplice effetto della presenza di Cristo nei credenti. Questa interpretazione avrebbe il vantaggio di armonizzarsi con il contesto generale della pericope, ove l'esistenza cristiana è descritta in termini altamente positivi e il suo conseguente concretizzarsi nell'a­ gire etico affermato con chiarezza, e ripeterebbe ciò che è stato detto in 6,6, ove esplicitamente si parlava della distruzione del «Corpo di peccato)) avvenuta nel battesimo. È ovvio che essa non si oppone in nulla, anzi conferma pienamente ciò che si è asserito riguardo all'identità dell'io di 7,7-25. Il corpo di morte che te­ neva prigioniero l'io verrebbe qui definito morto - i termini impiegati da Paolo comportano questo gioco di parole -, con un risultante marcato effetto antite­ tico tra le due espressioni che denoterebbe la totale differenziazione tra la situa­ zione qui descritta e quella descritta nella pericope precedente. Ma una tale interpretazione è lungi dall'essere l'unica possibile. Se all'apo­ dosi viene conferito valore concessivo, l'affermazione riguardo al corpo morto non sarebbe in continuità con quella successiva, ovviamente salvifica, riguar­ dante lo Spirito, ma risulterebbe con questa dissonante. I n altri termini, il corpo potrebbe qui essere compreso nel suo senso più ovvio di corporeità fisica, la quale verrebbe considerata affetta dalla morte in vari modi (in· quanto mortale o pensata sin d'ora come debole e caduca, esposta alla consunzione) e nonostante questa realtà verrebbe affermata la realtà salvifica determinata dallo Spirito. 79 Questa interpretazione collimerebbe bene con il senso causale immediato del successivo sintagma òt.à a�aQTLav: il corpo porta ancora i segni della morte a causa del peccato che ne è la causa ultima, come era stato detto a più riprese nei cc. 5-7 e ribadito anche nella pericope precedente. Una simile lettura offre una spiegazione del testo indirizzata in senso diametralmente opposto alla prece­ dente, -in quanto verrebbe affermato che il «corpo di morte» è una realtà ancora presente nella vita cristiana, e potrebbe di conseguenza indurre a ritenere l'e­ spressione di 7,24 non estranea alla vita cristiana, ma descrittiva perlomeno di un

78 Così, ad es., ALTHAUS, Romer, 77; LIETZMANN, Romer. 80; GAuGLER, Romer, 276; ScHLAT­ TER, Romerbrief, 262; BARRETT, Romans, 1 59 ; Kuss. Romerbrief, 502-504; LvoNNET, ad Romanos, 193.1 98-20 1 ; SAND, «Fleisch»; PENNA, Spirito, 253-254; BAUER, Leiblichkeit, 1 62- 163; KASEMANN, Ro­ mer, 214; PAULSEN, Romer 8, 70-73; voN DER OsTEN-SACKEN, Romer 8, 239; ScHLIER, Romerbrief, 247248; WILCKENS, Romer, II 1 32; PEscH, Romerbrief. 70; ScHNELLE, Gerechtigkeit, 1 32; R EI N M UTH , Geist, 72; ZELLER, Romer, 1 58. 79 Co sì , ad es.; ZAHN, Romer, 378-379; KOHL, Romer, 264; G UTJ A H R, Romer, 251 ; LAGRANGE, Romains, 1 98; LENSKI, Romans, 51 1 ; Hu sv. Romains, 284; STALD ER , Werk, 439: PFISTER, Geist, 46-47: MuRRAY, Romans, I 279: CRANFIELD, Romans, I 389; MtCHEL, Romer, 1 93; ScHMITHALS, Anthropolo­ gie, 1 1 0- 1 1 1 : Io., Romerbrief, 270-27 1 ; BYRNE, «Righteousness>>, 239: B RuCE, Romans, 1 5 3 ; DuNN. Romans, I 43 1 ; FEE. Spirit, 549-550; J . MALEPARAMPIL, The « Trinitarian» Fomulae in St. Pau/, Frank· furt am Main 1 995, 1 66; B RODEUR, Agency, 191ss; S. VOLLENWEIDER, ((Der Geist Gottes als Sel bst der Glaubenden», in ZTK 93( 1 996), 1 72.

La oU)'XQUJtç

tra

Rm 7,7-25

e

8, 1-17

265

suo aspetto, al pari di quella presente.80 Si deve quindi ripensare alle precedenti considerazioni sull'antropologia della pericope 7,7-25 a causa di ciò. che Paolo va qui argomentando? A nostro avviso, è evidente che, anche indipendentemente dalla presente espressione, Paolo esprime molte note che chiariscono come l'esistenza cristiana non sia ancora completamente raggiunta dalla redenzione ma bisognosa ancora di incamminarsi verso il suo definitivo adempimento. Si tratta allora di vedere come il «non ancora» cristiano viene espresso. Ora, solamente una lettura che si arresta all'immediatezza delle espressioni può accostare la formulazione di 7,24 con quella presente o con quelle in cui viene descritta la limitatezza dell'esi­ stenza cristiana. Infatti tali descrizioni esprimono allo stesso tempo il «non an­ cora)) e il «già)) realizzato della redenzione - come apparirà evidente tra l'altro nei versetti immediatamente successivi -, mentre in 7,24 - e in tutta la peri­ cope 7,7-25 - la redenzione è del tutto assente. Infatti l'invocazione alla libera­ zione è rivolta al futuro, attesa come inizio assoluto senza che i prodromi siano in alcuna maniera evidenziabili, e anche il rendimento di grazie a Dio, formula stereotipa di tutta la sezione Rm 5-8, esprime un precomprensione di fede che abbiamo visto essere esterna allo svolgimento argomentativo della pericope e non in grado di assicurare l'identità cristiana dell'io che così si esprimeva. Al contrario, anche nel presente versetto l'affermazione - supposta secondo que­ sta linea interpretativa - che il corpo è ancora soggetto alla morte viene bilan­ ciata dal fatto che lo Spirito è vita e dalla sua influenza sui cristiani, qui garantita dalla presenza in loro di Cristo. Anzi, la struttura grammaticale della frase, che combina insieme una frase ipotetica e una concessiva. fa convergere l'attenzione proprio sulla fine del versetto, ovvero sul fatto che lo Spirito è vita ed è pertanto garanzia per i cristiani che la morte è in via di superamento, che la loro esistenza non è a essa votata.R1 Riassumendo, si può dire che anche questa interpretazione parrebbe ben adattarsi in un contesto dove la vita cristiana è descritta nei suoi termini più posi­ tivi, reiterati anche in questo versetto. Solamente che, con molto realismo, in esso si afferma anche la presenza nei cristiani di elementi di difficoltà, di segni «di morte>), elementi che d'altronde erano impliciti nell'argomentazione fin qui sviluppata e verranno esplicitamente richiamati al v. 1 1 , con la menzione della morte del corpo, e ai vv. 12-13, con la menzione dell'impegno morale dei cre­ denti necessario per vincere il peccato che ancora può condizionare la loro esi­ stenza. Deve però essere ribadito che sia il presente versetto sia quelli successivi, quando menzionano tali entità non salvifiche per il cristiano, lo fanno tenendo ben presente la controparte positiva e asserendo che la salvezza è comunque realtà attivamente operante nella sua esistenza. Questo fatto differenzia netta-

80

mans.

Cosl esplicitamente DUNN, «Rom. 7,14-25», 269-271; lo., Jesus and the Spirit, 312; Io., Ro­

I 43 1 .

81

Così anche FEE, Spirit,

545; BROOEUR,.

Agency, 192.

266

Una legge buona ma impotente

mente questo vetsetto da 7,24 e conferma in ogni caso l'interpretazione di tale versetto da noi fatta. È questo il punto che ci interessava dimostrare qui, per cui ora si può completare la lettura della pericope.

1.8

vv. 12·1 7

Questi versetti sono stati considerati globalmente come parenesi.82 Ma in tal caso risulta difficile inglobare sotto questo titolo i vv. 14ss, ove il carattere di monizione è praticamente assente e l'argumentatio sembra riprendere attra· verso una serie di concatenazioni logiche vertenti nuovamente sullo statuto dei credenti. Se invece essi vengono compresi come peroratio globale dell'argo· mentazione fin qui sviluppata, questa duplice caratteristica mostrata dalla pre­ sente sotto-unità letteraria è più agevolmente compresa. Poiché infatti compito della peroratio è la ricapitolazione dei punti salienti di un 'argomentazione, si può agevolmente cogliere come Paolo riassuma, esplicitandole, le implicazioni etiche sottese allo sviluppo logico dei vv. 4ss. I cristiani sono stati colà conside­ rati come animati dallo Spirito e pertanto abilitati a una condotta di vita conse­ guente a questo loro nuovo statuto. Se tuttavia tale condotta è apparsa innanzi­ tutto come possibilità di vita a loro gratuitamente offerta grazie all'opera dello Spirito, il loro impegno responsabile a corrispondere a tale opera è stato impli­ citamente sottinteso, come noi abbiamo cercato di dimostrare. Ora Paolo, nei vv. 12-13, riprende la tematica etica sotto l'angolatura dell'impegno dei cre­ denti. Ma tale vita etica è apparsa radicata nella nuova condizione esistenziale dei credenti: i nostri versetti non mancano di riprendere ed esplicitare anche questo concetto, ed è ciò a cui sono indirizzati soprattutto i vv. 14ss. La mo­ zione degli affetti, obbiettivo che caratterizza la peroratio, viene così perseguito sotto una duplice forma. Da una parte viene sottolineata la serietà, l 'urgenza e l'inderogabilità del responsabile impegno etico dei credenti, dall'altra vengono ulteriormente motivati i sentimenti di confidenza causati dal nuovo status in cui i cristiani sono inseriti. Con le presenti osservazioni ci proponiamo di enucleare le ultime espres­ sioni concernenti la ouyxgLotç tra la presente pericope e quella precedente e di intraprendere la verifica delle connessioni tra le due parti di questa sotto-unità letteraria e della seconda di queste con la precedente argomentazione. Queste connessioni, una volta verificate, autorizzerebbero così a considerare i presenti versetti come unità letteraria dipendente dall'argomentazione precedente e la sua definizione di peroratio. In via preliminare facciamo notare che l'inizio del v. 12 costituisce un forte indizio in tale direzione. Se infatti si dimostra che i vv. 14ss vanno uniti a ciò che precede, la locuzione àQa oùv, con cui il v. 12 inizia, viene a reggere non solo il v. 12 ed eventualmente il 13, ma tutta la sezione lette­ raria iniziata qui, la quale così sarebbe in dipendenza consecutiva con l 'argo-

82

Cosi

ad es. DEIDUN, Morality,

78-81.

La O'ÙyxQtOt.ç tra

Rm 7,7-25

e

8, 1-17

267

mentazione precedente. Per questo motivo tale dimostrazione appare necessaria. Il v. 12 fa seguire a un'affermazione positiva (siamo debitori}83 una nega­ zione che definisce la realtà (la carne) verso la quale i cristiani sono definiti non debitori. Il fatto che la negazione sia apposta al dativo di rispetto e non al predi­ cato rende la presente affermazione tronca: i cristiani cioè vengono definiti in una situazione di obbligazione, ma non viene chiarito nei confronti di quale en­ tità, solamente tra esse viene esclusa la carne. Questo poi suscita un ulteriore in­ terrogativo, ovvero in forza di cosa simile esclusione venga affermata. Evidente­ mente tali informazioni sono facilmente desunte dallo sviluppo argomentativo precedente, nel quale lo Spirito è apparso in costante antitesi con la carne (vv. 46.9) in quanto sorgente di una possibilità di esistenza e di condotta di vita nuova per i cristiani, cioè non più determinata dalla potenza del peccato e della carne. Immediatamente il lettore è pertanto portato a completare il presente versetto con l'affermazione della obbligazione dei credenti nei confronti dello Spirito, per vivere secondo lo Spirito. L'infinito toù �ilv, al pari di quello uguale sottin­ teso, può così essere indifferentemente compreso come epesegetico o conse­ quenziale/finale ed esprimere tutta la gamma di verbi utilizzati per designare op­ poste condizioni esistenziali nella pericope precedente. quali «camminare», , non designa la legge mosaica, ma la potenza del peccato e della morte, potenza da cui viene annunciata la libe­ razione sia in tale versetto come in quello successivo. Diviene pertanto proble­ matico un accostamento tra questo brano e quelli di Geremia e Ezechiele, il cui interesse verte su tematiche differenti rispetto alla presente. Termini anche sor­ prendenti in un determinato testo trovano il loro senso nello scopo che si prefig­ gono di raggiungere in un determinato uditorio, il quale, in questo caso, non ha gli strumenti per poter collegare immediatamente questo testo con quelli dei profeti e di leggere di conseguenza questo alla luce di quelli. Una tale interpreta­ zione, inoltre, pare essere interessata più alla legge in quanto legge, quindi estrinseca, secondo una linea ermeneutica a cui abbiamo già fatto menzione (cf. IV.3.7), che non alla legge manifestamente mosaica, la quale invece è ciò che co­ stituisce l'interesse di Paolo. Ma così facendo arrischia di distorcere l'attenzione dagli interessi autenticamente paolini e, alla fine, di risultare estremamente eva­ siva su ciò che è invece la problematica centrale che l'argomentazione paolina suscita nei suoi lettori, ovvero la relazione della legge mosaica con i credenti. Ci si potrebbe chiedere infatti se tale legge interiorizzata rimanga in qualche modo quella mosaica, eventualmente interpretata, purificata ... , o perché la vita etica dei credenti venga vista come richiesta della legge mosaica. Ma tali domande non sono state poste dal Lyonnet e rimangono quindi senza risposta nei suoi scritti. Così egli afferma contemporaneamente che l'amore è il compimento di tutta la legge e che quando il cristiano osserva il comandamento de li 'amore os­ serva tutta la legge, che però l'amore necessita di opere diversificate - senza porre in relazione le stesse con la legge mosaica - e infine che il cristiano è radi­ calmente liberato dalla legge. 1 00 Ma la compresenza di tesi così disparate rivela da sola come l'attenzione dell'autore non sia affatto incentrata sulla legge espli­ citamente mosaica. A noi sembra invece che proprio quello sia il tema centrale dell'argomentazione paolina. L'interpretazione dei vv. 2-4 offerta dal Lyonnet non ci pare pertanto con­ vincente. Tuttavia questo non ci porta a smentire la comprensione della legge mosaica che, sulla scia anche di alcune tesi di questo autore debitamente ripen­ sate, nel capitolo precedente abbiamo fatto nostra, ovvero quella di una legge di cui un fattore di debolezza consiste nel suo essere codice esterno rispetto al­ l'uomo, e per questa ragione non in grado di promuovere effettivamente il suo 98 LYONNET, «Loi�, 12-13; lo., «Testament», 582-586; lo., «Rom 8,2-4», 239-240. 99 Così anche DEIDUN, Morality, 201 . 100 Cf. LYONNET, «Liberté», rispettiv. 19.26-27.31.

«Liberté

du chrétien� 10-1 1 ; lo.,

276

Una legge buona ma impotente

agire etico. Se infatti ci chiediamo da cosa nasce il camminare dei credenti, Paolo, nell'argomentazione qui esaminata, e precisamente non ai vv. 2-4, ma ai vv. 5-6, risponderà che esso origina dall'atteggiamento esistenziale che lo Spirito suscita all'interno di questi, ovvero dal QÒVl')�a 'tOU JtVE'ÙJ.tat:oç. Tale aspetto è anche implicato nei vv. 9. 1 1 , ove lo Spirito, che nella presente pericope è visto costantemente come originante la condotta etica dei credenti, è detto abitare «in» essi, con un'espressione in cui, lo si è visto, viene designata anche la pre­ senza dello Spirito all'interno del singolo credente. Confrontata con lo Spirito, la legge mosaica risulta essere insufficiente a promuovere un'autentica condotta di vita etica anche perché incapace di promuovere un QÒVl')�a effettivamente ope­ rativo all'interno del singolo (cf. 7,14-25). Certo, la ragione ultima dell'impossi­ bilità della legge a promuovere una condotta di vita etica consiste nella sua inca­ pacità a vincere il peccato, il quale, personificato come potenza, signoreggia tra­ gicamente sulla storia umana, come la pericope precedente ha descritto. Ma poi­ ché si è visto come il peccato potenza non possa essere considerato come entità totalmente avulsa dai singoli atti umani, risulta logico ritenere che tale impossi­ bilità della legge si rifletta ali 'interno del soggetto stesso, divenga impossibilità a spingere la coscienza del singolo nella sua lotta contro il peccato, a divenire forza interiore di tale lotta. 101 In breve, la presente pericope non ci sembra inte­ ressata a descrivere la liberazione da una legge esterna, né l 'interiorizzazione delle sue richieste. Solamente, se si raffronta la forza animatrice della condotta di vita cristiana, lo Spirito, con la legge, quest'ultima risulta nuovamente debole anche perché, a confronto dello Spirito, rimane un codice estrinseco all'uomo e non in grado di muovere lo stesso a livello della sua interiorità decisionale. 2.3

Una legge riabilitata?

In maniera anche sorprendente, in alcuni ambiti protestanti si sta affer­ mando un indirizzo interpretativo che vede la presente argomentazione mirata a riconsiderare positivamente la legge nella vita del cristiano, ad assegnarle un certo ruolo nell'esistenza dei credenti in Cristo, non considerandola pertanto in opposizione antitetica con il vangelo. Un autore che ha affermato l'esplicita va­ lenza della Torah per la condotta etica dei cristiani è W. Schrage. Per questi il cristiano è libero dalla legge intesa come giogo, sistema di salvezza, ma non dal contenuto morale della legge, poiché lo Spirito è sì forza di condotta etica, ma non suo criterio, non detta cioè le norme concrete dell'agire etico. 102 Ma chi ha iniziato un processo di radicale ripensamento del ruolo della legge nella vita cri101 Tali osservazioni possono essere intese anche come risposta a DEIDUN, Morality, 251 -258, il quale giustamente corregge Lyonnet sostenendo che la preoccupazione primaria di questa come di altre argomentazioni paoline è quella di affermare la libertà del cristiano dal peccato, ma che di con­ seguenza non dà sufficiente ragione del fatto che la legge mosaica sia vista da Paolo anche come fat­ tore esterno al singolo. 102 Cf. W. ScHRAGE, Die Konkreten Einzelgebote in der paulinischen Pariinese, Gtitersloh 1961, 96-99.231 ; Io., Ethik des Neuen Testaments, Gottingen 1982, 1 80-1 82.

La O'UyxQLOLç tra Rm 7,7-25 e 8, 1-17 stiana è E. Lohse. Per questo mente la legge mosaica:

autore,

infatti, la

locuzione del

277

v.

2 i n dica

chiara­

dove è all'opera Io Spirito che crea vita viene portato allo scoperto ciò che la legge deve essere e operare secondo la volontà di. Dio. Essa deve indicare la santa, giusta e buona volontà di Dio, che viene compresa e attuata da coloro i quali ripongono la propria fiducia non sulla oaQ;, ma solo su Cristo. 103

Una volta liberata grazie allo Spirito dal suo nefasto legame con la carne e il peccato, la Torah ritornerebbe così a esprimere il suo carattere originario di ri­ velazione della volontà di Dio e come tale rimarrebbe ancora densa di signifi­ cato per il cristiano. Egli infatti la può «Compiere)) (v. 4): Cristo, dopo aver libe­ rato il cristiano dalla maledizione della legge, gli conferirebbe la forza per il suo compimento, il quale viene spesso identificato con l'obbedienza al comanda­ mento dell'amore. 104 Una linea di pensiero così succintamente riportata, in quanto originata da un 'ipotesi già confutata, ovvero che 8,2 esprima una riquali­ fica della legge mosaica, potrebbe per ciò stesso essere considerata deficitaria e inattendibile, senza necessitare di un'ulteriore discussione. Tuttavia essa com­ porta numerose sfaccettature - ovviamente diversamente presenti nei vari au­ tori - ed è fatta propria pure da chi ha delle riserve sull 'esegesi del v. 2 presen­ tata sopra, per cui merita di un'analisi più accurata qui di seguito. A nostro modo di vedere l'argomentazione qui in esame presenta tutta una serie di dati che indicano piuttosto il fatto che la legge mosaica sia per il cristiano una realtà non più rilevante, non più necessaria. Ne diamo un elenco. - Innanzitutto l'espressione di 7,4: «siete stati messi a morte alla legge». È un'affermazione forte, diversa, per esempio, dal dire che la legge è finita come via di salvezza, ma rimane con un altro ruolo per i cristiani. Una tale afferma­ zione non può che indicare la fine di un legame. Pertanto alla lettura di 8,4 si deve rammentare che il òtx.alwf.!a della legge viene compiuto senza sottomet­ tersi a essa. - Non solo 7,1-6 annuncia la fine del legame con la legge, ma anche in 8,4 si dice che il compimento del òtx.alwJ.ta avviene in maniera assolutamente indi­ pendente dalla legge stessa. L'unico soggetto menzionato al v. 3 è Dio, ed è per­ tanto giocoforza leggere il passivo del v. 4 come un passivo teologico, in cui la legge non è per nulla implicata.

1 03

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Indice delle citazioni bibliche e giudaiche

Genesi

2-3 2,7 2,16 3,11 3,13 3,17 6,5 8,21

133 139 181 183 191 199 201 218 230 132 132 133 132 149 149

Esodo 20,17

107

l Cronache 29,28

1 49

Giobbe 32,8 33,4

230 230

Siracide

15,14 24,9 24,22 37,3

149 151 133 133 149

Luca

Deuteronomio

5,21 LXX 3 1 ,21

107 149

Isaia 26,3 29,10 59,12

149 149 170

Geremia 14,7 38,31ss LXX

170 274

Ezechiele

36,26 36,27 37

274 275 230

Osea 5,5

170

2,23 2,24 2,39 15,24

1 58 158 158 1 15

Gi ov anni 9,14 15,18

115 1 15

Romani 1 ,1-15 1 ,3 1 ,8 1 ,12 1,16-4,25 1,16-1 7 1 ,29 1 ,32 2-4

39 245 122 146 57 5 4 67 243 241 58

324 2,1 2,9 2,11-13 2,12 2,16 2,17ss 2,17-29 2,17-18 2,21 2,26 2,28 2,29 3,1 3,2 3,4 3,6 3,8 3,9-20 3,9 3,10ss 3,19 3,20 3,23 3,24-26 3,25 3,27 3,30 3,31 4,1 4,15 4,17 4,23-8,39 4,23-25 4,23 4,25 5-8 5-7 5 5,1-11 5,9-10 5,12-7,25 5,12-6,23 5,12-21

Una legge buona ma impotente 177 237 57 142 226 57 199 1 42 177 1 89 77 77 241 242 185 137 1 89 222 78 122 78 78 208 144 174 193 173 174 108 104 105 185 173 56 240 78 256 78 106 77 78 245 66 105 133 217 226 120 261 61 57 62 241 54-67 l 03 265 264 55-62 158 57 58 59 62 63 64 65 63 65 288 57 182

5,1 5,2 5,3-4 5,3 5,5 5,6 . 5,8 5,8-10 5,9- 1 1 5,9-10 5,9 5,10 5,11-7,6 5,11 5,12ss 5,12 5,13-14 5,13 5,14 5,15-17 5,16 5,17-18 5 18 5,18-19 5,19 5,20 5,20a 5,20b-21 5,20-21 5,21 5,21b 6-8 6,1-7,6 6 6,1-25 6,1 6,2-5 6,2 6,3ss 6,4-9

55 56 58 61 64 163 250 284 56 58 61 63 56 58 57 61 76 56 61 284 250 58 61 252 60 5 5 5 6 58 163 1 17 174 217 55 56 65 1 1 6 152 173 226 66 133 105 1 14 1 18 173 66 173 225-226 241 250 225-226 66

226 241 1 05 173 218 66 81 66 67 87 103 1 16 1 63 173 175 88 57 83 84 176 191 66 75 140 1 58 192 1 94 228 233 244 70 71 74 55 71 77 82 208 191 78 1 14 176 230 83

Indice delle citazioni bibliche e giudaiche 6,4 6,6-7 6,6 6,7 6,8 6,9 6,10 6,1 1 6,12ss 6,12 6,12-14 6,12-13 6,13 6,14 6,14-15 6,15 6,1 6ss 6,16 6,17 6,18 6,18-22 6,19ss 6,19 6,20-23

6,20-21 6,20 6,21ss 6,21 -23 6,2 1 6,22ss 6,22-24 6,22 6,23 7 7,1-6 7,1-4

7,1 7,4-6

60 245 260 70 164 191 264 268 271 114 56 260 1 14 176 1 1 4 116 189 194 260 197 83 191 140 162 1 64 185 116 176 176 218 244 66 103 142 196 206 241 78 173 180 1 1 6 140 271 271 173 191 142 70 164 1 92 193 227 271 197 116 271 141 268 77 176 227 260 250 176 227 163 176 77 153 1 54 177 1 79 189 190 70 71 74 75 76 81-82 158 196 206 241 244 273 293 66 70 74 81-82

7,4

7,5 7,5-6 7,6 7,7-8,1 7 7,7-25

7,7-13 7,13b-c 7,7-12 7,7ss 7,7-1 1 7,7-10 7,7-8 7,7

7,7a 7,7b-c 7,8ss 7,8-13 7,8-11 7,8 7,8a

325

74 75 104 176 226 255 67 76 82 83 1 05 106 1 12 124 161 162 192 210 218 76 77 85 253 76 84 137 176 191 222 227 234 260 271 288 60 58 61 65 67 69-97 103-166 167-224 231 238 244 245 253 264 265 272 280 281 282291 293 294 88 89 93 127 172 180 207 214 90-91 97 103-134 164 1 76-183 216 217 218 229 250 268 79 90 124 125 1 28 201 77 139 176 177 184 273 90 123 199 90 219 236 69 71 76 77 80 82 87 89 93 1 1 1 165 1671 68 175 199 200 215 242 274 288 290 293 77 78 79 80 81 90 97 1 03-104 105 106 1 12 1 1 5 1 35 136 208 209 78 79 90 91 104- 1 1 0 1 12 1 13 1 1 8 129 126 180 203 215 200 201 204 199 125 88 90 1 1 1 126 169 175 90 91 1 1 4 1 1 5 121 217

326 7,8b-10a 7,8b 7,9-10 7,9 7,9a 7,10ss 7,10-1 1 7,10b-13 7,10 7,10b 7,11-13a 7,1 1 7,1 1a 7,12

7,1 3ss 7.13a 14-20 7,13-16 7,13-14 7,13

7,13a 7,13bc 7,14ss 7,14-25 7,14-21 7,14-20 7,14-17 7,14

Una legge buona ma impotente 90 91 112-118 1 1 9

120 121 130 131 181 183 200 78 218 169 176 181 130 169 177 76 90 126 1 35 200 250 118-120 125 136 236 261 90 78 79 90 121 125 169 175 201 90 79 90 93 121-126 127 128 135 137 142 146 158 159 183 1 99 200 201 202 209 214 235 79 1 99 91 -96 97 135-155 94 89 79 80 88 89 90 93 124 125 142 1 46 147 1 56 165 169 175 183 200 202 218 245 77 79 80 89 91 94 126 127 135-136 138 168 203 21 1 79 89 90 126-128 135 136 138 175 176 1 90199 201 201 207 209 211 212 218 219 254 214 249 253 268 276 200 91 92 93 95 96 94 95 77 79 84 88 89 91 93 94 136-140 144 146 152 159 162 163 165 169 184 190 194 200

7,14a 7,14b 7,14c 7,15ss 7,15-25 7,15-20 7,15-19 7,15 7,15a 7,15b 7,16 7,16a 7,16b 7,17-20 7,17-18 7,17 7,18-21 7,18-20 7,18-19 7,18 7,18a 7,18b 7,19 7,19a 7,20 7,20a 7,20b 7,21ss 7,21 -25 7,21 -23 7,21 7,22ss

209 220 222 223 231 233 245 253 268 272 287 288 92 89 194 237 172 194 214 218 237 89 236 92 142 88 93 94 140-142 1 55 175 92 96 210 91 141 89 93 1 42-143 157 175 200 91 92 141 92 79 94 84 84 88 91 92 93 94 140 1 43-145 151 155 169 175 227 257 287 202 94 95 1 45-148 146 84 88 93 94 148 158 175 183 184 1 87 200 91 92 141 91 93 140 143 155 175 184 200 141 84 88 93 94 140 151 155 169 175 184 257 287 91 92 91 92 74 93 202 207 273 91 -97 155-166 199 94 95 80 89 93 94 95 97 146 147 155-157 175 184 176 190

Indice delle citAzioni bibliche e giudaiche 7,22-23 7,22 7,23

7,24-25a 7,24a 7,24

7,25 7,2Sa 7,25b

8

8,1ss 8,1-17 8,1-2 8,1 8,2-4 8,2

8,3-4 8,3

84 157-163 165 200 202 209 212-213 215 75 89 93 175 183 196 200 252 84 89 95 96 1 5 1 155 156 163 165 169 175 184 187 188 189 192 217 229 231 245 252 272 287 163-165 89 289 74 83 84 93 94 95 97 165 170 175 184 197 198 203 212 213 214 227 233 236 250 260 262 264 265 266 272 74 84 94 97 188 189 198 200 233 245 252 268 75 85 87 1 66 74 75 84 85 87 89 93 158 162 165-166 175 184 1 92 203 209 213 229 272 57 66 76 84 1 92 194 1 95 1 96 75 85 70 71 83 86 87-88 97101 225-272 272-281 282-291 294 237 259 76 83 84 85-87 97 100 166 225-228 233 239 281 97 192 272 274 275 276 83 84 86 87 97 98 138 228-234 238 245 246 248 249 250 256 259 260 267 269 277 289 84 229 234-248 83 86 97 98 250 251 253 260 263 273 277 279 284 287

8,4ss 8,4-9 8,4-8 8,4-7 8,4 8,4a 8,4b-7a 8,4b 8,5ss 8,5-9 8,5-8 8,5-7 8,5-6 8,5 8,5a 8,6 8,6b 8,7-8 8,7 8,7b 8,8 8,8a 8,9- 1 1 8,9 8,10 8,1 1 8,12ss 8,12-17 8,12-13 8,12 8,13 8,14-17 8,14 8,15 8,16

327

259 266 268 83 256 267 97 249 251 260 270 271 273 277 278 252 252 98 254 228 84 192 260 188 248-251 253 255 268 276 98 271 254 259 268 269 258 224 251 -255 84 97 158 274 281 238 98 106 1 10-112 248 255-262 287 84 98 263 267 269 270 271 276 282 287 97 198 259 262-266 283 284 8 3 84 98 100 120 164 187 197 198 263 265 276 282 283 289 194 98-101 266-272 83 84 99 192 265 283 98 99 266 267 271 291 143 187 263 266 267 268 269 271 272 284 98 99 98 99 100 269 270 271 100 270 271 287 289 283

328

Una legge buona ma impotente

8,17 8,1 8ss 8,18-39 8,18 8,19 8,22-39 8,22 8,23 8,24-25 8,27 8,31 -39 8,31 8,32 8,35ss 8,39 9-1 1 9,8 9,9 9,14 9,30 10,1 10,3 10,6 10,7 10,8 10,14 11,1a 1 1 ,1b 11,11 1 1 ,19 12,1 12,2 1 3,8-9 14,5 14,8 14,9 14,15 14,22-23 15,27

86 100 272 100 59 99 100 99 59 56 98 164 260 261 289 63 245 62 63 64 77 78 56 58 63 55 58 146 77 77 78 77 122 110 146 146 146 78 78 78 78 77 187 254 188-189 254 242 187 189 254 115 279 188 137

Prima Corinzi 1 ,29 2,15 3,1-3

185 137 140 192

3,1 3,3 5,3-5 6,2 6,1 1 6,19 7,19 9,8 9,1 1 9,27 12,1 14,14 14,19 14,34 1 4,37 15,15 15,20 15,22 15,23 15,24-26 15,26 15,36 15,44 15,45 15,46 15,52-55 15,56

137 138 138 279 27 243 234 256 281 108 137 185 137 188 1 88 108 137 86 261 120 261 193 230 120 137 120 137 193 105 218

Seconda Corinzi 3,2-3 222 3,6 222 4,10 117 4,16 159 189 5,1-10 164 185 5,5 260 5,16 1 12 5,21 239 7,4 243 7,5 185 7,19 158 12,2-4 1 85 12,7 185 12,10 237 13,3 237

Indice delle citazioni bibliche Galati 1,10 1 ,13-14 1,14 1,16 2,16 2,19 2,22 3,7 3,17 3,19 3,21 3,22 3,23-25 4,4-5b 4,13 4,21 5,14 5,16-17 5,17 6,1 6,8 6,17

103 105 218 103 1 1 9 120 193 241 270 185 108 242 188 108 192 140 269 185

Efesini 315 6,12

159 137

254 177 129 191 185 185 241 144 86

Filippesi 1 ,23 2,5 2,13 3,4-6 4,7

249 188 129 144 179 191 188

Colossesi 4,16-17

27

108

Prima Tessalonicesi 2,4 254 4,1 254 5,27 27

e

giudaiche

Seconda Tessalonicesi 27 3,12-15 Filemone 2 12

27 146

Ebrei 7,16

138

Giacomo 1,15 2,17 2,26b

108 1 1 1 1 14 1 14

Epistola di Barnaba 114 12,7 4Maccabei 2,6

108

Apocalisse di Mosè (gr) 1 08 19,3 Filone De Dee 142 173 108 130 Legat 2,10 Qumran 1QH 1 ,21b-23a 1QH 1 ,25ss 1QH 1 ,32-35 1 QH 2,9 36 1 QH 3,23-24 1QH 4,29 1 QH 5,5 3 1 1 QH 7,7 13 1QH 1 1 ,3 20 1QH 12,26-32 1QH 15,13 1QH 17,12-25 1QH 35,21 -23 1QH 37,23-24 t QH 44,3-12 1QH 47,14-15

150 1 50 1 50 150 150 150 150 150 150 150 150 150 150 150 1 50 150

329

330

Una legge buona ma impotente

tQS 3,17ss 1 QS 5,5

150 1 50

4 0 186

1 50

Testamento di Aser 151 1 ,2-9

Talmud Babilonese BabaBathra 16a 152 Berakoth 61 a b 152 Kiddushim 81a b151 151 152 Sukka 52a b Yoma 69b 152

Letteratura rabbinica Mishnah Aboth 4,1 151 130 Aboth 5,20

GenesiRabbah 9,7a 14,4 22,6

152 152 151

ARN 16

TargumNeofiti Geo 2,15; 3,23

133

151

Indice degli autori classici

ARISTOTELE

TtXVl') Ql')tOQLXi} l, 1,1354a,l0-15 I, 1,1355a,4-17 l, 1 , 1355a,30-2,1355b,34 I, 2,1 355b,35-41 l, 2,1356a,l-19 I, 2,1 356b-1358a l, 2,1356b,l-40 I, 3,1358b,l-1359,5 l, 9,1368a II, 22,1395bss III, 1 -2 III, 13,1014a,29-36 III, 14,1414b-1416a III, 14,141 5a,23-24 III, 19,1419b,1 9-23 III, 19,141 9b-1420a III, 1425a,35-6 llEQL 3tOLl')'tLXTJç XXI, 7ss XXI, 15-30,1 457b

34 33 34 33 34 33 33 36 50 33 35 32 43 32 63 64 32 39

171 171

CICERONE

De Oratore I, 141 l, 143 II, 1 9,81 -82 II, 80 II, 307 II, 310-315 III, 37 III, 53 III, 202-205

36 32 33 39 33 32 33 34 35 50 50

III, 203 III, 207

48 48

De Inuentione I, 14,19 l, 19,27

33 39

Epistulae ad familiares IX 21,1 xv 21 ,4 XVI 17,1

20 20 20

Orator 69

34

Partitiones Oratoriae IV, 27

33

ERMAGORA

Testimonia et Fragmenta 9-10

34

DEMETRIO

llEQl éQ�l')VElaç 223-225 229

21 21

'En;tatoÀLf.taLot XaQaXtTJQEç IX

22

EPITIETO AtatQL�at I, 28,8 II, 17,21 II, 26,1 III, 23,9-29

154 1 54 154 49

332

Una legge buona

EuRIPIDE Ml)òeta

1078-1080

1 53

OVIDIO Metamorphoseon VII, 17-21 VII, 92-92

1 54 154

QUINTILlANO

Institutio Oratoria III. 4 III, 4,16 III, 6,5 III, 9,2-3 III, 9,5 IV IV, l IV, 1 ,1 IV, 1 ,3 IV, 1 ,5 IV, 1 ,23 IV, 1 ,25-26 IV, 1 ,28-29 IV, 1,52 IV, 2 IV, 2,31 IV, 3 IV, 4,1 IV, 4,9 IV, 5-6 IV, 5 IV, 5,4-5 IV, 5,6 IV, 5,26 IV, 5,28 v

V, l V, 14 V, 13 VI VI, 1,1 VI, 1,51 VI, 1 ,52 VIII

36 36 35 35 33 32 33 64 65 39 63 63 65 64 64 33 39 33 35 35 35 35 35 34 67 35 32 33 34 33 32 33 63 34 64 64 35

ma

impotente

VIII, 4,4-5 VIII, 6,8 IX, 2 IX, 2,15 IX, 3,54-56 IX, 4,19-22

63 171 48 48 63 30

de Ratione Dicendi ad C. Herennium I, 2 36 l, 2,3 32 l, 4 32 I, 5ss 35 I, 6-1 1 33 I, 12-16 33 I, 17 35 l, 18ss 33 II 32 II, 47-50 33 III 32 III, 17 40 IV, 33 48 IV, 42,54 50 IV, 44,58 50 IV, 45,58 50 epfiTOQLXTJ 3tQÒç �Aì..É;avbQOV l , 1 421b,8-14 29, 1436a,34-40 33 30-31, 1 438a-b 33 32, 1438b-1 439b 33 SENECA

Epistulae Morales VIII XXI IL LXX CXVIII

21 21 21 21 21 21

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