Un po’ prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione (1908-1915) 9788889829752

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Un po’ prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione (1908-1915)
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nuˇmeruˇs, i, m.: numero, quantità, moltitudine; misura, ritmo, armonia; valore; ordine, regola; canone. Esempio: numerus scriptorum optimorum.

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©2009 luca sossella editore srl [email protected] www.lucasossellaeditore.it

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©agli autori

Un po’ prima della fine?

Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 da Grafiche del Liri (FR)

Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione (1908-1915)

Art director Alessandra Maiarelli Illustrazione di copertina Giuseppe Palumbo

Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Université de Liège

ISBN 97888-89829-75-2-9

CURA DI

LUCIANO CURRERI

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FABRIZIO FONI

Atti del Convegno internazionale di Liège 18-19 febbraio 2009

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Indice

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Premessa a due voci di Luciano Curreri e Fabrizio Foni Un po’ prima della fine? Appunti per una critica e una cronologia salgariana Piranesi della parola: rovine non (o comunque poco) esplorate

La riconquista del Mompracem (1908): malinconie di un’utopia pirata di Vittorio Frigerio 30 Sulle frontiere del Far-West (1908): narratività, spinte unitarie e tradimenti di Gian Paolo Giudicetti 38 Gli ultimi filibustieri (1908). Una chiusura eroicomica per il Ciclo dei Corsari di Pietro Benzoni 48 La Scotennatrice (1909): un perturbante a lieto fine di Cristina Benussi 57 Una sfida al Polo (1909): cavalieri elettrici in cerca dell’inorganico? di Irene Incarico 64 La Bohème italiana (1909): il romanzo dell’avventura scapigliata di Roberto Fioraso e Claudio Gallo 74 Emilio e lo specchio veneziano. Note di lettura e ipotesi interpretative intorno a I corsari delle Bermude (1909) di Alberto Brambilla 86 La beata prole nelle Selve Ardenti (1910). Gli amerindi di Salgari tra Leopardi e Gramsci di Felice Italo Beneduce 97 Il Leone di Damasco (1910). Meditazione breve circa un approccio molto tardivo di Giuseppe Papponetti 101 “– Serata d’arrosto o di naufragio?”. I cattivi odori dell’Apocalisse e La crociera della Tuonante (1910) di Gianni Turchetta 113 Angoscia crescente: I briganti del Riff (1911) tra guerre coloniali e ansia personale di Donatella de Ferra 124 Romanzo febbrile, anzi un po’ “frenetico”: Il bramino dell’Assam (1911) tra ipnosi, sotterranei e misteri di Fabrizio Foni 19

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137 Caduta come fine? Cultura delle fiamme e sovracomprensione: fascino

e rifiuto dell’apocalisse in La caduta di un impero (1911) di Luciano Curreri 145 Ma le tigri possono invecchiare? Note sparse su La rivincita di Yanez (1913) di Giuseppe Traina 155 Straordinarie avventure di Testa di Pietra (1915): un romanzo a due mani di Willy Burguet e Alessandro Viti APPENDICE I 169 I Predoni del Gran Deserto (1911), vicenda di “vita eccentrica”

di Mario Tropea APPENDICE II 183 La consacrazione di Emilio Salgari

di Giuseppe Palumbo 189 Postfazione

Salgari ovvero dell’impotenza degli italiani di Alberto Abruzzese 197 Profili bio-bibliografici degli autori

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Premessa a due voci Luciano Curreri e Fabrizio Foni

Un po’ prima della fine? Appunti per una critica e una cronologia salgariana “Quando i filibustieri guardarono verso il ponte di comando, videro il Corsaro che si copriva il volto con le mani. Tra i gemiti del vento e lo scrosciare delle onde si udivano, a tratti, sordi singhiozzi. Carmaux disse: ‘Guarda lassú: il Corsaro Nero piange’”. Agli orecchi attenti dei salgarofili, la citazione appena prodotta – per quanto riporti senza difficoltà la memoria di tutti alla fine di Il Corsaro Nero (1898) – non è filologicamente esemplare. Non lo è perché non si cita dal testo di Emilio Salgari ma da Gente di Roma (2003), film di Ettore Scola dove un grande Arnoldo Foà, al ristorante, di fronte al figlio che lo vuole convincere a entrare in un ospizio, declama il passo citato e poi commenta: “Ormai mi ricordo solo le cazzate”.1 Il vecchio che perde la memoria può metaforicamente introdurre, e a piú livelli, il Convegno di Liège del 2009, che prosegue il contrabbando della letteratura italiana otto-novecentesca principiato l’anno scorso con D’Annunzio come personaggio e che è dedicato all’ultimo Salgari e agli ultimi suoi romanzi.2 E volutamente si è ancora scelto un punto di partenza allegro e malinconico a un tempo, che non imponga una distanza ma inviti piuttosto a un riavvicinamento, producendo subito un esempio di vitalità nel presente di un immaginario non schiavo del passato. Circa trent’anni fa, all’inizio degli anni Ottanta, la situazione era diversa e non si poteva non apprezzare lo straniamento prodotto ad arte, di fronte a un pubblico di accademici, da Giuseppe Zaccaria, che, per evocare Le tigri di Mompracem (1900), non citava Salgari ma d’Annunzio, leggendo il passo di Le vergini delle rocce (1895 e 1896) in cui Violante e il vecchio principe commemorano “a vicenda la ruina e la strage” dell’assedio di Gaeta. 3 Ma oggi, nonostante Salgari appaia sempre piú, in un certo senso, l’alter ego di d’Annunzio, di cui è praticamente il popolare coscritto, è davvero triste constatare come anche la critica piú avvertita e brillante abbia prodotto spesso un allontanamento dei lettori e delle letture che si possono fare dei testi salgariani e dannunziani senza restare necessariamente schiavi del collazionamento o del collezionismo, ovvero anche della memoria da collazione o da collezione.

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Di certa proliferazione della bibliografia critica, di certe derive dello studio matto e disperatissimo siamo tutti un po’ colpevoli.4 Ecco allora che l’inattualità di un vecchio che ricorda e non ricorda serve bene l’immaginario che sto cercando di mappare. Una volta, Salgari, si ricordava cosí, a mente, un po’ come capitava per d’Annunzio, e per Dante secoli addietro. L’immaginario non si nutre di edizioni critiche né di canoni, e in tal senso gli ospizi, prima di archivi e biblioteche, potrebbero forse essere consultati con un certo successo. E significativo è il fatto che nei titoli di coda del film di Scola si ringraziano Shakespeare, Belli e Dostoevskij, con rinvii precisi, in parentesi, alle opere da cui la pellicola trae citazioni, dal Giulio Cesare a Er padre de li santi ecc., mentre non si fa menzione di Salgari e del Corsaro Nero (a meno che i miei occhi miopi non abbiano fatto cilecca, ma non credo). Potrebbe sembrare un abuso, figlio magari di una dimenticanza; ma Salgari ne esce vincitore, ché comunque la si giri e la si pensi non c’è bisogno di citarlo. Dietro l’ottusità del figlio, che lo vuole rinchiudere, il vecchio, di una vitalità straordinaria, incarna – potremmo suggerire prendendo in prestito una formula azzeccata di Stefano Calabrese – “il tasso di salgaricità” che l’immaginario italiano non ha mai cessato di “tesaurizzare”.5 Di piú. Potremmo dire che nel film di Scola la messa in scena di una citazione – che diventa la citazione di una citazione e che è compiuta senza dover pagar dazio – costituisce di per sé una nuova realtà narrativa. Ma quante nuove realtà narrative di questo tipo, o simili, poteva produrre Emilio Salgari di ciclo in ciclo, di romanzo in romanzo, di capitolo in capitolo, di episodio in episodio? Come si riscriveva Salgari? Come si citava? Come diventava quella divinità narrativa “ubiqua e clandestina” di cui parla Emanuele Trevi a proposito del Corsaro Nero?6 Sono tutte domande interessanti, a loro modo, ma che nascondono risposte rischiose, specie se queste ultime si appuntano con eccessivo e strutturalistico zelo sulla riduzione del nuovo all’identico, cercando a tutti i costi equivalenze, isomorfismi, elementi ricorsivi e riducendo la letteratura a una grammatica paraletteraria senza io creatore, finalmente demistificato, ovvero destinato a crepare nei suoi testi. E viene in mente ancora d’Annunzio, specie il romanziere indagato in La coazione al sublime di Gianni Turchetta a partire da “una retorica dell’amplificatio” che si appunta, tra l’altro, su “un plurilinguismo monotonale” e significative “forme della ripetizione”, ovvero quelle “figure propriamente iterative” come la geminatio, la reduplicatio, l’enumeratio ecc.;7 tutte figure di un’arte, anche raffinata, ma destinata a ripetere meccanicamente le proprie funzioni e a ridurle a miti fasulli. Fatte le debite differenze, anche Salgari vive una sua “coazione al sublime” – a un sublime logaritmizzato8 – ma in lui è forse ancora piú arduo isolare e poi risolvere retorica in simbolica e semantica, secondo una non facile soluzione di continuità già ravvisabile, del resto, in d’Annunzio.

Premessa a due voci

Per di piú d’Annunzio una via di fuga, nella realtà, l’ha costruita. I testi non se lo sono portato via: checché se ne dica ancora oggi, il suo destino non coincide con quello di Andrea Sperelli, Tullio Hermil, Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo, Stelio Effrena, Paolo Tarsis. Nella storia come nella letteratura, e nell’immaginario tutto, il personaggio d’Annunzio va ben al di là del suo romanzesco. Salgari, invece, è diventato davvero, in un certo senso, Tremal-Naik, Kammamuri, Sandokan, il Corsaro Nero, persino Hiram, l’eroe di Cartagine in fiamme (1906 e 1908). E questo non solo perché la vita di Emilio assomigli molto a quella di un travet. Ma anche perché in Emilio Salgari è ravvisabile, a mio avviso, il destino dell’uomo-libro, ovvero l’essere il libro che si scrive; e il libro che Salgari scrive – nel caso di Cartagine in fiamme ma anche in molte altre testualità che si situano un po’ prima della sua fine e/o della fine, della caduta di antiche e gloriose città o di imperi – è come se fosse l’ultima cosa che scrive.9 E ciò avviene nonostante il mercato non ne contempli e ne inquini, al contrario, lo sforzo: lo sforzo quasi titanico di una vita e di una scrittura che non si specchiano ma si fondono – anche perché non ci sono antichi e raffinati miroirs a far da filtro e tramite! Si tratta di una scrittura dove ogni ciclo, romanzo, capitolo, episodio possono e devono essere utilizzati e riutilizzati, e quasi bruciati, consumati. Tanto che la scrittura sembra ormai coincidere con la lettura che l’autore fa del suo stesso testo come lettore, mentre lo produce. E il rischio cui si espone Salgari è quello di ridurre, in origine, la “relecture” – che è “opération contraire aux habitudes commerciales et idéologiques de notre société qui recommande de ‘jeter’ l’histoire une fois qu’elle a été consommée (‘dévorée’)” – e cosí di aprire la strada alla “répétition (ceux qui négligent de relire s’obligent à lire partout la même histoire)”.10 In questa prospettiva, gli ultimi romanzi salgariani sono, forse, piú significativi degli altri: il glissement dell’enciclopedico e/o quasi di una semiosi illimitata, con parole che sono programmi narrativi potenziali, verso l’autoreferenzialità di una trinità, un po’ troppo serrata, di autore-eroe-lettore, non può che produrre ripetizione. Il lettoreeroe-autore legge e invita a leggere “partout la même histoire” mentre la vive e la scrive. Difficile non scorgere in questa deriva, specie nell’alveo di testualità che si situano un po’ prima della fine, il tragico destino di piú inquietanti affabulazioni storiche del secolo breve. Ma stiamo già rileggendo Salgari, ovvero rilanciando quella “relecture” che “sauve le texte de la répétition” e che “n’est plus consommation, mais jeu (ce jeu qui est le retour du différent)”. E al fine di ottenere “non le ‘vrai’ texte, mais le texte pluriel: même et nouveau”.11 In effetti, ai nostri occhi, rileggere Salgari, non significa aderire mimeticamente e in toto all’idea che un canone ormai classico, basato sulle sue vere testualità, ci ha trasmesso circa la piú tarda e ripetitiva pratica letteraria salgariana. Quest’ultima, del resto, sembra anche oscillare tra una certa novità – da intendere magari come una diffé-

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rence libre, che deleuzianamente non si lascia subordinare e ridurre all’identico – e una répétition complexe ou déguisée.12 Ma al di là di piú o meno complesse e travestite ripetizioni, che magari possono farci ricadere nell’eccesso teorico, con il quale prima si polemizzava, è la cronologia estrema di questi romanzi, frequentata poco o niente dalla critica, ad avere attirato la nostra attenzione; specie se si pensa a quanto, sulla scia del fortunato libro di Giulio Ferroni, si è ritornato a dire in Italia, negli ultimi tre lustri, sul concetto di fine e sulla condizione postuma della letteratura.13

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Ma forse, negli ultimi romanzi, la critica salgariana ha avuto paura di scoprire e di dover poi ricordare “solo (...) cazzate”; ovvero quelle debolezze che (forse) potrebbero offuscare la piú istituzionale e sublime riscoperta di Salgari, attiva, come si suggeriva poc’anzi, tra anni Ottanta e Duemila, dotata fin dall’inizio di un suo classicismo e solo piú di recente tesa a riabbracciare l’opera completa, in chiave maggiormente popolare, al di fuori delle aule universitarie e verso il pubblico, piú variopinto e meno snob, delle edicole. Tuttavia, l’opera completa, attraverso il lavoro di Luciano Del Sette e di Claudio Gallo per la Fabbri,14 o di puntuali riproposte di un testo d’appendice piú o meno celebre e tardivo,15 non ha davvero mutato o precisato quel canone intergenerazionale che situa soprattutto la narrativa di Salgari in un ventennio compreso all’incirca tra il 1884 e il 1904; ovvero tra La Tigre della Malesia (1883-1884), poi noto come Le tigri di Mompracem (1900), I misteri della jungla nera (1887 e 1895) e Le due Tigri (1904), con Il Corsaro Nero (1898) e La Regina dei Caraibi (1901) a rafforzare questa cronologia, in seno ad altro e corposo ciclo, quello dei Corsari, che è secondo solo, e non a caso, all’Indo-Malese delle “tigri” e dei “misteri”. In effetti, dieci anni dopo l’uscita, in dispense, di Il Corsaro Nero, il 1908 pare imporsi da sé come soglia esistenziale del primo tentativo di suicidio, che è del 1909, e come soglia narrativa per una specie di inizio della fine dei cicli piú importanti, con titoli che cominciano a declinare certe sistemazioni – La riconquista del Mompracem (1908) – o a chiudere un certo tipo di percorso – Gli ultimi filibustieri (1908). Al tempo stesso, tuttavia, Sulle frontiere del Far-West (1908) principia un nuovo ciclo, piú breve ma non da trascurare: quello, per l’appunto, del Far West. Per un Salgari che sembra aver già voglia di spezzare la penna, lanciandosi su una spada, e di chiudere piú o meno lietamente i cicli, dando sistemazione ai suoi vecchi eroi, ce n’è uno che ancora sente il richiamo e il fascino delle frontiere, del viaggio: ecco allora il giovane Devandel, in Nord America, che pare proprio prendere il relais di Sandokan e Yanez, entrambi accomodati su un trono, e finanche degli ultimi filibustieri, con la contessina Ines di Ventimiglia che legittimamente entra in possesso di un immenso tesoro. Ed è questa alternanza – non banale, nelle forme e nei risultati – che offrirà prospetticamente ancora otto anni – postumi per la metà

Premessa a due voci

– al romanzesco salgariano, attraverso nuove sfide, come quella Al Polo (1909), o con la riapertura di vecchi conti: se Sandokan è ben saldo sul suo trono, l’impero di Yanez vacilla parecchio per il ritorno di Sindhia in Il bramino dell’Assam e La caduta di un impero, entrambi del 1911 e già postumi. Vecchi conti, poi, la bibliografia salgariana ne tiene sempre aperti, specie intorno alla morte del Nostro: è il caso di I Predoni del Gran Deserto, in volume nel 1911 per la Società Tipografica Editrice “Urania” di Napoli ma “già pubblicato in 5 puntate dal 29 novembre al 27 dicembre 1896 su ‘Il Novelliere Illustrato’ di Torino” – informa Vittorio Sarti.16 Che fare? Evadere il ritorno, non cosí casuale e forse anche un po’ significativo, nell’avvicendarsi bibliografico di briganti e predoni, del racconto lungo o romanzo breve del 1896, o farlo giocare con le testualità del 1911 e gli ultimi romanzi salgariani? Alla fine si è deciso di non svincolare I Predoni del Gran Deserto, in volume, da quella materia in movimento che è la piú o meno immediata posterità romanzesca salgariana, affidando il lavoro a un lettore avvertito, Mario Tropea, e collocandolo in un’apposita Appendice. Certo, Il bramino dell’Assam e La caduta di un impero – figli di una totalità romanzesca smembrata in dittico da Bemporad – sono i titoli che in maniera piú forte ci mettono in contatto con l’ultimo Salgari e quella sua coazione a ripetere che assolutizza il refrain “nati per fare la guerra” relativo a Sandokan e Yanez; una coazione a ripetere ormai piú arbitraria che stereotipata, piú ossessiva che retorica ma piú antropologica che psicanalitica – e a tal punto che neanche un Charles Mauron potrebbe facilmente compilare la sua lista di metafore ossessive e di miti personali derivati.17 Detto questo, i vecchi eroi degli ultimi romanzi del Ciclo IndoMalese riemergono insieme – significativamente insieme – alla novità, alla libera differenza di personaggi meno statici, meno schiavi di un’alta eroicità; ovvero insieme a Kammamuri e a Timul. E questi ultimi sembrano, a tratti, il risvolto esotico dei goliardi campioni di La Bohème italiana (1909): un testo in cui il lato maudit, scapigliato, distruttivo e/o autodistruttivo dello scrittore salgariano è messo in scena malinconicamente e allegramente a un tempo. Insomma la bohème come caduta e rivincita, sintesi anticipata delle stesse, mentre la quotidianità sembra infrangere il destino dell’uomo-libro un po’ prima della fine, del rasoio, del bosco, della collina di Val San Martino. l.c.

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Gente di Roma (Italia, 2003), regia di Ettore Scola, produzione Istituto Luce e Roma Cinematografica. Curreri, Luciano (a cura di), D’Annunzio come personaggio nell’immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa, P.I.E. Peter Lang, Brussels 2008. Zaccaria, Giuseppe, Il sangue, l’amore, la strage, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino s.d. [ma 1981], pp. 320-333, poi riedito col titolo meno appariscente di Salgari in Id., La fabbrica del romanzo (18611914), Slatkine, Genève-Paris 1984, pp. 165-176. Il critico cita ad effetto, con efficace valenza straniante, il passo delle Vergini delle rocce in cui Violante e il vecchio principe commemorano “a vicenda la ruina e la strage” dell’assedio di Gaeta e la figura della giovane Regina che campeggia in mezzo agli “orrori” della guerra, fra il sangue e il fuoco. Cfr. d’Annunzio, Gabriele, Prose di romanzi, vol. II, a cura di Niva Lorenzini, introduzione di Ezio Raimondi, Mondadori, Milano 1989, pp. 8389. Ma si veda anche Curreri, Luciano, Metamorfosi della seduzione. La donna, il corpo malato, la statua in d’Annunzio e dintorni, ETS, Pisa 2008, pp. 157-167; in particolare p. 164. A partire dal sottoscritto. Si vedano il saggio, la bibliografia ragionata e la nota al testo che accompagnano Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 315-420. Ma sono ancora convinto che un vero ripensamento di Salgari e di molta letteratura popolare otto-novecentesca debba anche passare attraverso edizioni critiche, bibliografie ragionate, saggi tesi a ridisegnare e a riguadagnare un contesto, piú che un canone. La faciloneria con la quale spesso si servono certi prodotti della nostra cultura moderna è figlia o di vecchie pregiudiziali o di una pratica postmoderna, spesso accordata a un mercato che la fa sua non per convinzione ma per scelta commerciale. Calabrese, Stefano, L’idea di letteratura in Italia, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. XI. Trevi, Emanuele, Introduzione, in Salgari, Emilio, Il Corsaro Nero, a cura di E. Trevi, scritti di Claudio Magris e Goffredo Parise, Einaudi, Torino 2000, p. XXVI. Turchetta, Gianni, La coazione al sublime. Retorica, simbolica e semantica dei romanzi dannunziani, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 6-102; in particolare pp. 25-40 e 82-102. In fin dei conti, ancora novalisianamente congiunto a un sublime romantizzato e di questo tracciante il movimento inverso, dal portentoso al familiare. Cfr. D’Angelo, Paolo, L’estetica del romanticismo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 131135; in particolare p. 135. Cfr. Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in fiamme (1906) di Emilio Salgari, in Salgari, Cartagine in fiamme cit., pp. 315-403; in particolare pp. 377-378. Barthes, Roland, S/Z. Essais, Seuil, Paris 1970, pp. 22-23. Ivi, p. 23.

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Penso a Deleuze, Gilles, Différence et répétition, P.U.F., Paris 1968. Cfr. Ferroni, Giulio, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996. Ma si veda la riproposta recente del classico di Kermode, Frank, The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction, Oxford University Press, Oxford 1967, già in trad. it. come Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Rizzoli, Milano 1972 e ora, per l’appunto, con presentazione di Giorgio Ferroni, Sansoni, Firenze 2004. Ma il discorso potrebbe facilmente essere ampliato. Si veda, a riguardo, la suggestiva rassegna di La Forgia, Pasquale, Apocalissi nostrane. La critica italiana e la tentazione della fine, in “Studi Novecenteschi”, 2003, 30, n. 66, pp. 305-355. Un piccolo contributo in tal senso è anche nel mio Libri segreti contro l’«autobiographie totale», in D’Annunzio segreto, Atti del 29° Convegno di studio del Centro Nazionale di studi dannunziani, Ediars, Pescara 2002, pp. 315-328. Si tratta di Emilio Salgari. L’Opera Completa, a cura di Luciano Del Sette e Claudio Gallo, Fabbri – RCS Collezionabili, Milano 2002-2004 e Nuova edizione, Fabbri – RCS Libri, Milano 2005-2007. I volumi pubblicati provengono (quasi) tutti dal Fondo Salgariano della Biblioteca Civica di Verona e riproducono “il testo di una delle edizioni originali pubblicate dalle case editrici di riferimento tra il 1887 e il 1926”. L’indicazione, uguale per tutti i volumi, spiazza il lettore a livello filologico, ma non altera uno dei tentativi piú completi e rispettosi di restituire le testualità salgariane a un pubblico vasto, non di nicchia. Per questo, ai curatori di questo convegno è parso comunque utile inviare a ogni partecipante – come omaggio teso pure a uniformare i riferimenti – il volume di cui si doveva occupare nell’edizione ora citata di Emilio Salgari. L’Opera Completa, lasciando comunque liberi gli amici e colleghi di servirsi di altre edizioni. Purtroppo meno facili da pubblicare. Mi sia concesso richiamare l’attenzione su un testo non molto noto, Le aquile della steppa, apparso su “Per Terra e per Mare” tra il 1905 e il 1906, che fra il 2001 e il 2009 ho proposto – inviando il romanzo nella versione originale d’appendice ora ricordata – a Avagliano, M.U.P., Einaudi, Aragno. Tappa successiva del lavoro principiato con l’edizione in rivista di Cartagine in fiamme (per cui si veda qui la nota 4), la riproposta di Le aquile della steppa è stata presentata dal sottoscritto in seno a un gruppo di ricercatori che si è raccolto prima, nel 2001, intorno all’Associazione Internazionale Emilio Salgari, e poi, a partire dal 2005, nelle pagine e colonne di “Ilcorsaronero. Rivista salgariana di letteratura popolare”. Anche grazie all’aiuto e alle sollecitazioni di alcuni membri del gruppo, posso ora annunciare, con un certo trasporto, il recente approdo di Le aquile della steppa alla Greco & Greco di Milano (con pubblicazione prevista per la primavera del 2010). Sarti, Vittorio, Nuova Bibliografia Salgariana, Pignatone, Torino 1994, p. 119. Penso naturalmente a Mauron, Charles, Des métaphores obsédantes au mythe personnel. Introduction à la psychocritique, José Corti, Paris 1963.

Piranesi della parola: rovine non (o comunque poco) esplorate C’è un sentimento di rovina, nell’ultimo Salgari? Benché la vicenda biografica sia ancora lungi dall’essere attendibilmente illuminata,1 forte dev’essere stato, senza dubbio, il senso della fine nell’esistenza dell’autore. Al di là di ogni patetismo, una vita che si apre con belle speranze, e si arena tra i ceppi della frenetica serialità (sul piano professionale), e della seriale frenesia (dal profilo umano, se non casalingo), deve essere apparsa come una rovina. O meglio, per dirla col titolo di un romanzo postumo – apparso dopo la fine ma, al contrario dei falsi, davvero scritto prima – deve aver equivalso un po’ alla Caduta di un impero, quel piccolo impero editoriale e privato che l’uomo Salgari aveva faticosamente edificato. Se allora di caduta, di ultimi giorni o tramonto si può parlare, con tutto l’appeal catastrofico che di solito ne deriva, fa ancora piú meraviglia che un tale periodo sia stato trattato pressoché esclusivamente in chiave biografica, e si sia rimossa nel suo complesso la narrativa coeva, quasi a volerne sancire, implicitamente, una serialità maggiore e piú coercitiva, o a volerne temere, da fedeli lettori, una scrittura piú stanca e piú degradata, di cui è piú leale e affettuoso tacere. Certo, i fasti del Corsaro Nero sono ormai sfumati, e I misteri della Jungla Nera un po’ meno misteriosi, ma la fucina salgariana pompa sempre a pieno vapore, forse perché alimentata da una “condizione di assedio, di assalto, di reclusione, di isolamento, in sostanza di aggressività e di resistenza”.2 Poco importa che lo assediassero fantasmi piú esistenziali che pecuniari, o viceversa: ciò che conta, realmente, è che anche gli ultimi romanzi del capitano portano impresso un marchio, e il marchio è profondamente salgariano. E se la parola marchio potrà apparire controproducente, perché facilmente associabile all’idea di staticità, ricordo che il marchio di Salgari, la cifra intima di uno stile farraginoso ma inarrivabile, risiede proprio in un camaleontico crinale all’insegna del “nuovo” e del “sempre uguale”,3 nel torbido intreccio del primo con il secondo, in una ripetizione che appaga il palato del lettore; perché da un lato non nega il piacere dei motivi e dei personaggi amati (non è il coito una coazione a ripetere?), dall’altro ne alterna fantasmagoricamente i connotati passando con nonchalance dal gotico al decadente, dall’azione primordiale fino a tensioni e slanci in odor di futurismo, in una

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continua ricerca del diverso. Accolta la definizione di “opere mondo”,4 non si faticherebbe troppo a definire Salgari, per altri versanti, uno scrittore mondo, senza temere la complessità del termine. E non si tema neppure, in quest’ottica, l’idea – assodata – di un Salgari plagiario, scopiazzatore di fonti, notizie, ragguagli, et cetera: perché, a braccetto con quel Benjamin che è anche lui un po’ prima della fine (1940), constateremmo come l’uso massiccio della “citazione”, nell’opera salgariana, non sia altro che “‘origine e distruzione’, il modo in cui tutte le parole, liberate dal senso, sono diventate motti nel libro della creazione. La citazione è un’operazione di sradicamento dal contesto ‘naturale’ e di riposizionamento in un contesto nuovo, ‘artificiale’ strategicamente finalizzato da chi ne fa uso, tendenziosamente forzato a costruire una ‘forma’ che è una forma di umanità”.5 È allora forse superfluo rimarcare come lo scrittore veronese, sin da ragazzo, avesse frequentato accanitamente la letteratura di viaggio, senza limitarsi peraltro a quella d’invenzione, ma collezionando notizia su notizia di esplorazioni, colonizzazioni, scoperte, missioni religiose: il che non esclude che si trattasse spesso di informazioni romanzate, ma è indicativo di come Salgari volesse trascinare il lettore (e pure se stesso) in un mondo che apparisse sí meraviglioso, ma comunque realistico. Realistico, perlomeno, rispetto a quanto riferivano i vari periodici fra i quali il pezzo forte era il “Giornale Illustrato dei Viaggi” di Sonzogno; e a tal proposito è ben chiaro Mario Tropea, allorché in chiusura di un suo studio ricorda “che basta aprire una di queste annate del “Giornale…” con i suoi naufragi, con le sue belve, e i suoi paesi, per essere coinvolti in questo gioco di specchi, di rimandi, di riferimenti, di suggestioni, che era il mondo vero in cui viveva Salgari e in cui creava, come vita, le sue opere”.6 Uno stile, quello del narratore veronese, che non esiterei a ribattezzare piranesiano, specie pensando al Piranesi delle rovine: eccessivo, ridondante, mastodontico, dal dettaglio usurato ma vertiginoso, dalle infinite sequele di architetture verbali che, applicate a soggetti diversi (e talvolta solo parzialmente), rasentano il sublime dell’infinito incommensurabile, e dall’altra si vendono per ripetizione industriale. Perché anche quello di Salgari è in sostanza “uno sguardo senza altra ratio che il desiderio”, che forgia “dispositivi ludici che usano pezzi di memoria”.7 Dispositivi ludici, e anche passionali, ossimorica fusione di romanticismo e mercato di massa, che ancora sono attivi – come questo convegno tenta di dimostrare – poco prima della fine. Persino la fine di Salgari, nella sua domestica tragicità (un harakiri eseguito con un comune rasoio) e pur nella rassegnazione espressa “spezzando la penna”,8 è una “morte che dà la vita al consumo e che produce energia”;9 basti ricordare gli immediati effetti editoriali, dalle ristampe ai postumi, inclusi i falsi. A dispetto di chi, come Vamba, relega l’esperienza del romanziere tra i “transfughi della vita”,10 l’universo salgariano è un’instancabile

Premessa a due voci

“macchina celibe” i cui ingranaggi non si arrestano alla scomparsa del loro autore,11 e che anzi si alimentano del desiderio lasciato dal vuoto, e forse anche dalla rovina. Una macchina celibe, orfana un po’ della critica, sí, ma dagli innumerevoli figli spuri, perché “le rovine di un edificio indicano che nelle parti scomparse o distrutte dell’opera d’arte sono ricresciute altre forze ed altre forme, quelle della natura; cosí che dalle forze ancora vive dell’arte e da quelle già vive della natura è venuta fuori una nuova totalità, un’unità caratteristica”:12 il salgarismo in assenza di Salgari, parte scomparsa, rovina vivente. Si pensi all’inedito Sandokan di Hugo Pratt destinato al “Corriere dei Piccoli”, su testi di Mino Milani, e da pochissimo riesumato;13 o ancora meglio, per valutare le prosperità dell’immaginario, si pensi a un tormentone che infestò l’estate del 1981, e tutt’altro che tramontato: la canzone Maracaibo, composta da Luisa (“Lú”) Colombo e dal dichiarato salgariano David Riondino.14 Al di sotto dei rinvii cubani, certo, sembra di ritrovare l’esotismo del luogo verso cui salpa il Corsaro Nero. E allora lo scanzonato nome della protagonista del brano musicale, inconsapevolmente, potrebbe assumere i caratteri e nascondere la cifra della rovina, della piú tragica risposta del capitano alla vita. “Maracaibo / Mare forza nove / Fuggire sí ma dove?”; e la risposta di fatto, con un rasoio in mano, è per l’appunto stata: “Zazà”. f.f.

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Ricordo qui: Arpino, Giovanni e Antonetto, Roberto, Vita, tempeste, sciagure di Salgari il padre degli eroi, Rizzoli, Milano 1982 e Gonzato, Silvino, Emilio Salgari. Demoni, amori e tragedie di un “capitano” che navigò solo con la fantasia, Neri Pozza, Vicenza 1995. Tropea, Mario, Nevrosi, modelli e trascrizione. Terza introduzione, e conclusione, sui Racconti, in Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura e con saggi introduttivi e finali di Mario Tropea, con una nota sulla “Bibliotechina Aurea Illustrata” di Claudio Gallo e Caterina Lombardo, vol. III, Viglongo, Torino 2002, p. V. Nello specifico, Tropea si riferisce alle sessantasette storie scritte sotto pseudonimo da Salgari per una fortunata serie per l’infanzia dell’editore palermitano Biondo, tra il 1901 e il 1906, ma credo che tale “condizione” si presti bene all’intera produzione dello scrittore. Prendo in prestito l’evocativo titolo del n. 2 di “Calibano” (1978), rivista semestrale edita dalla romana Savelli (Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa), la cui redazione era composta da Carole Beebe Tarantelli, Benedetta Bini, Paola Colaiacomo, Mario Corona, Giorgio Di Giulio, Nadia Fusini, Barbara Lanati, Franco

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Moretti, Beniamino Placido e Alessandro Portelli. Rimando naturalmente a Moretti, Franco, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994. Speroni, Franco, La rovina in scena. Per un’estetica della comunicazione, Meltemi, Roma 2002, p. 19. Speroni cita a sua volta da Benjamin, Walter, Sul concetto di storia (1940), a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 248-249. Tropea, Mario, Titoli, nomi, note, congetture e qualche plagio. Indagini e ricognizioni sull’universo dei Racconti, in Salgari, I racconti cit., p. 281. Abruzzese, Alberto e Borrelli, Davide, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma 2000, p. 81, e ci si riferisce per l’appunto alle incisioni di Giovan Battista Piranesi. È ormai parte integrante del mito Salgari la lettera vergata in data 22 aprile 1911, e destinata agli editori: “Ai miei editori / A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche piú, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali. / Vi saluto spezzando la penna. / Emilio Salgari”. Abruzzese, Alberto, La grande scimmia. Mostri

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vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, Luca Sossella editore, Roma 2007, p. 18 (I ed. Roberto Napoleone, Roma 1979, p. 7). Anonimo [ma Vamba, pseud. di Luigi Bertelli], Per gli orfani Salgari, in “Il Giornalino della Domenica”, n. 19, 7 maggio 1911, p. I. Penso a Carrouges, Michel, Les machines célibataires, Arcanes, Paris 1954, e poi Éditions du Chêne, 1976, rivista e ampliata, con quattro lettere di Marcel Duchamp. Simmel, Georg, Le rovine (Die Ruine), in Id., Saggi di cultura filosofica, Vicenza, Neri Pozza 1998, p. 109 (prima edizione: Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Klinkhardt, Leipzig 1911). Le tavole in questione sono state raccolte e riproposte in Pratt, Hugo e Milani, Mino, San-

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dokan, Rizzoli-Lizard, Milano 2009 e, in francese, Sandokan. Le Tigre de Malaisie, Casterman, Paris 2009. Per l’annuncio della scoperta sulla stampa, cfr. ad esempio Trevisani, Alessandro, Il Sandokan inedito di Hugo Pratt. Decine di tavole ritrovate 40 anni dopo che il disegnatore le aveva create. La scoperta di Alfredo Castelli, in “Corriere della Sera”, 6 febbraio 2009 e Papini, Roberto Davide, Il fumetto ritrovato: ecco il Sandokan inedito di Hugo Pratt. Le tavole disegnate nel 1969 e mai pubblicate, in “La Nazione”, 8 febbraio 2009. Circa la paternità del brano musicale cfr. Brunetta, Linda, “Il mio nomadismo dei miracoli”. Intervista a David Riondino, in “Vivaverdi. Il giornale degli Autori e degli Editori”, 2008, 80, n. 6, pp. 40-41: 41.

La riconquista del Mompracem (1908): malinconie di un’utopia pirata Vittorio Frigerio

Il ritorno dell’eroe è uno dei topoi piú comuni della narrazione d’avventura. La lotta contro il sempre risorgente avversario trova una sua estensione, potenzialmente infinita, nel confronto con lo scorrere del tempo, altro nemico ancora piú subdolo, che in un contesto realista marcherebbe inevitabilmente il progressivo declino e la scomparsa dell’eroe. I “venti anni” trascorsi tra l’abbandono di Mompracem e la sua riconquista evocano dunque necessariamente,1 nel gioco di allusioni e referenze intertestuali col quale si costruisce l’universo del feuilleton, lo spazio di non-storia che separa la vittoria di D’Artagnan e dei tre moschettieri su Milady e precede il loro scontro con il figlio di lei, Mordaunt. L’amicizia rinnovata e rinsaldata, il vento dell’avventura che riporta i personaggi verso il faccia a faccia con il pericolo, segnano tuttavia il limite invalicabile oltre il quale scompaiono le somiglianze tra il trittico di Dumas e la saga salgariana. Certe differenze, invece, riescono ben piú utili per individuare delle particolarità importanti della visione dell’autore veronese. In primo luogo vi è il fatto che in Dumas lo scorrere del tempo corrisponde all’affievolirsi delle energie, e favorisce lo sviluppo degli egoismi personali che dividono gli eroi e li sottomettono a forze superiori, che essi servono volontariamente per perseguire quel po’ di potere o di ricchezza che riescono ad accaparrare negli spazi lasciati liberi dalle manovre dei veri potenti: re, regine e cardinali. Il ritorno dell’eroe segue un vuoto temporale nel quale egli era stato veramente assente, anche se in realtà tale vuoto fa solo figura di ellissi nel fluire della narrazione, o di spazio tra due volumi. In Salgari, invece, il tempo è pieno e corrisponde allo spazio percorso. L’abbandono di uno spazio implica l’occupazione di un altro. Gli eroi non accettano alcun subordinamento, e anche le loro sconfitte non possono causare tempi morti. Nuove avanzate devono giocoforza seguire provvisorie ritirate. Nella distesa mitica dei mari tra la Malesia e l’India non si può riconoscere nessuna potenza che possa a lungo arrestare lo slancio, sempre energico, dei personaggi. Ogni partenza prevede già un ritorno, ogni perdita una riconquista, in un susseguirsi di alti e bassi che nutre lo sviluppo narrativo. Il ritorno non può dunque essere semplicemente il ritorno dell’eroe, ma piuttosto il ritorno dell’eroe ad un luogo. La riconquista del Mompracem, romanzo non eccelso rispetto ad altri appartenenti al Ciclo Indo-Malese, presenta però certe caratteristiche tutt’altro che prive d’interesse. Prima fra tutte l’emergere di

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Yanez, la tradizionale spalla di Sandokan, e la sua trasformazione in personaggio centrale, e in secondo luogo la presenza nella trama di situazioni che rimandano significativamente, con degli scarti curiosi, al modello originale di tutti i romanzi d’avventura: l’Odissea. Prima di proporre una lettura del testo, conviene rammentarne le grandi linee. Yanez si presenta al Sultano di Varauni sotto mentite spoglie, avendo assunto l’identità dell’ambasciatore inglese che questi attendeva. Il suo scopo è di circuire il “tirannello” per attirarlo verso una trappola.2 Con la scusa di una partita di caccia egli vuole in effetti portarlo incontro alle orde di Sandokan, che invadono il sultanato scendendo dai Monti del Cristallo verso la capitale, e obbligarlo a cedere lo “scoglio” di Mompracem.3 In questo piano Yanez è ostacolato dai marinai inglesi della nave che trasportava l’ambasciatore da lui rapito, dalla marina olandese e infine dai rajaputi indiani al servizio del Sultano. Egli sormonterà tuttavia ogni ostacolo, si ricongiungerà infine col suo amico e conquisterà Varauni, distruggendo le navi da guerra inglesi e olandesi accorse in aiuto del Sultano, che sarà obbligato a cedere Mompracem per aver salva la vita. Nella sua impresa Yanez lotta alternativamente contro gli uomini e contro le fiere, fin quando ogni ostacolo è abbattuto e il covo dei pirati torna ai suoi legittimi proprietari. 20

Un bildungsroman alla rovescia Il viaggio di Yanez si presenta come un ritorno alle origini, un tentativo di far girare all’incontrario le lancette dell’orologio e restaurare la purezza di un’identità originale. L’eroe e il suo doppio lontano, che ha ideato il piano che egli mette in opera,4 non fanno che pretendere ciò che appartiene loro, e nulla piú. Nel concetto stesso di “riconquista” è insita l’idea di legittimità. Sandokan “non è piú l’uomo d’una volta (...). Le sue furie di sangue ormai si sono calmate e non lotta che contro coloro che lo assalgono”.5 Lo stesso Yanez sembra raddolcito, anche se non infiacchito dal passare del tempo.6 Esiliato dal fato nemico, lontano dalla patria ormai deserta, Yanez intraprende un viaggio che evoca attraverso le sue vicissitudini quello di Ulisse, nel suo sforzo costantemente ostacolato di tornare ai lidi di Itaca. Ma se nell’epopea greca Ulisse deve fare i conti con le gelosie dei numi, il mondo salgariano ha i suoi eroi ma è completamente privo di dei. Nel rispetto del modello del romanzo ottocentesco, conta solo “la concatenazione delle vicende in un mondo senza trascendenza, dominato da moventi elementari”.7 Per giungere allo scopo, il portoghese riproduce i comportamenti del suo predecessore greco, soprattutto opponendo l’astuzia alla forza, ma non riconosce al di sopra di lui alcun potere trascendente con cui debba instaurare un’intesa. Come sono assenti le divinità, nei mari dell’Oriente non vi è vero stato e non vi è autorità indiscussa. Il potere è semplice questione di forza bruta e l’unica legittimità viene dal coraggio, che si oppone alla potenza nutrita di arroganza dei colonizzatori inglesi.8

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Ciò che trionfa infine è la virtú, ma non in base a una qualunque morale superiore che la renderebbe per essenza invincibile, ma grazie all’astuzia, e alla propria forza e decisione. I vent’anni passati non hanno in realtà lasciato tracce chiare o importanti sui personaggi, come la Storia non ha pesato sulle loro vite. In queste avventure non vi è tempo storico, ma solo “spazio, modello irrevocabile di ogni tempo mitico”.9 Adorno vedeva in Odisseo un eroe borghese e illuminista, personaggio ideale d’una storia avente la forma del romanzo d’avventure, che come tale già nella contrapposizione “non psicologica” dell’unico Io superstite al destino molteplice, periglioso ed estraneo, esplicita il processo tra illuminismo e mito. Il lungo errare da Troia ad Itaca e l’itinerario del soggetto – infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza – l’itinerario del Sé attraverso i miti.10

In un modo stranamente perverso, Yanez ribalta il percorso dell’eroe greco, tornando attraverso un itinerario simile ma opposto, dall’identità stabile al mito. Non si tratta per lui di costruirsi un Io in opposizione al mondo, ma piuttosto di liberarsi di un’identità che gli pesa per ritrovare lo stato di indefinitezza associato alla libertà totale che è concretizzata nel racconto dal luogo stesso di Mompracem. L’identità problematica di Yanez risalta con evidenza, e con derisione, fin dalla scena iniziale dell’abbordaggio del vascello che trasporta in direzione di Varauni Sir William Hardel, l’ambasciatore inglese. A costui e al capitano della nave, John Foster, che esigono di conoscere con chi hanno a che fare, Yanez si presenta variamente come “un nababbo indiano”, oppure, “con una leggera punta di ironia”, come un rajah.11 Di fronte all’incredulità dei suoi prigionieri, insiste affermando “Chiamatemi pure milord, o meglio Altezza”, ripete “Sono un rajah e basta”, parla di sé stesso alla terza persona (“Mia Altezza”),12 e rifiuta giustamente il solo titolo che l’ambasciatore, irato, consente ad affibbiargli quando esclama: “Obbedisco alla forza brutale d’un bandito!”, replicando: “Principe, disse Yanez un po’ beffardamente”.13 Ognuna di queste autodefinizioni, peraltro tutte vere, è denunciata come un inganno, un travestimento, rivelato dal tono stesso col quale il personaggio le snocciola.14 In realtà, Yanez capisce e apprezza di piú i termini di “furfante”, “ladro”, o meglio ancora “pirata”,15 appioppatigli dalle sue vittime. A questo stadio, il portoghese non può tuttavia che denunciare la finzione dell’uomo civilizzato che è divenuto, senza ancora sentirsi di accogliere a testa alta, come titoli nobiliari, gli insulti che gli inglesi gli lanciano. Sarà solamente alla fine del romanzo, una volta superati tutti gli ostacoli, che al momento di far firmare all’ambasciatore l’atto di cessione dell’isola, risponde alla domanda “E che

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siete venuto a fare?” con la netta dichiarazione: “A riconquistare Mompracem, il glorioso scoglio dei pirati della Malesia, sulla cui vetta non vedo piú sventolare, da quasi vent’anni, la rossa bandiera della pirateria adorna di tre teste di tigre”. 16 Ridivenuto pirata, Yanez è infine Nessuno come lo era Ulisse, ritrovando con il suo ruolo la libertà che il successo – e anche l’amore raggiunto – gli avevano paradossalmente tolto. Egli non è quello che Adorno chiamava l’“eroe maturo”, per il quale “la fantasmagoria diffusa della religione popolare tramandata, diventa (...) ‘errore’, peripezia, rispetto alla chiara univocità del fine della propria conservazione, del ritorno alla patria e alla proprietà stabile”.17 Egli è al contrario l’“eroe immaturo” per eccellenza, che ritorna alla patria del cuore e della gioventú, lasciando dietro di sé per una “vacanza” la proprietà stabile e la sua sicurezza,18 della quale è ironicamente fiero, con lo scopo di ritrovare il rischio e il mito, rappresentato nel romanzo dalla natura, le cui forze cieche surrogano gli dei assenti. Al contrario esattamente del meccanismo ben conosciuto del bildungsroman, il soggetto non è in divenire, non deve imparare a conoscersi e battersi contro la propria natura o sforzarsi di formarla per giungere alla conoscenza reale di sé. Il ritorno, attraverso lo spazio, al tempo andato, restaura anche l’identità originale, compiuta proprio perché indefinita, e sbarazza l’eroe del peso assillante delle costruzioni sociali che, nel definirlo, lo imprigionano. Al contrario dell’eroe “borghese”, Yanez disprezza sicurezza e ricchezza. Sembra anzi che voglia fare tutto il possibile per sbarazzarsi dei tesori che gli garantisce il suo ruolo di principe consorte, regalando gioielli e rubini a piene mani e aprendo “un credito illimitato” a un suo dayako per fargli comprare un “palazzotto”,19 quasi fosse il conte di Monte-Cristo.20 Yanez sacrifica la sicurezza ottenuta a duro prezzo (le ricchezze dell’Assam) per raggiungere i suoi scopi, ossia tornare alla povertà, allo scoglio, alla semplicità, e alla giovinezza. Astuzia e debolezza Mentre Sandokan cala dai lontani Monti Cristalli alla testa delle sue orde di dayaki e di malesi, spazzando via col solo ausilio della forza brutale le kotte che marcano le frontiere del dominio del Sultano, Yanez penetra nella capitale del nemico contando non sulla forza, ma sull’astuzia. Dopo aver rubato al vero ambasciatore le sue credenziali, egli si ingegna a ingannare il Sultano e a entrare nelle sue grazie attraverso lauti doni e dimostrazioni impressionanti di abilità e di coraggio. Pur tenendo in riserva una flottiglia nascosta di prahos, il portoghese preferisce a uno scontro frontale dalle sorti troppo incerte i risultati piú lenti ma piú sicuri dell’inganno. Come l’astuto Odisseo, che “è, nonostante tutto ciò che si narra delle sue gesta eroiche, sempre fisicamente piú debole delle potenze arcaiche su cui deve lottare per la vita”, 21 Yanez dubita delle reali possibilità di riuscita della sua impresa, qualora essa dovesse

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dipendere solo dai suoi mezzi concreti. Il portoghese è incerto, nutre apprensioni. Quando ostacoli imprevisti sembrano sul punto di smascherarlo, si vanta della superiorità presunta delle sue forze: “Chi mi darà la caccia? I giongs sgangherati del Sultano? Ne mettesse in linea anche venti, noi passeremmo ugualmente su di loro. E poi a Gaya abbiamo una riserva imponente, capace di bombardare la città ed anche di prenderla d’assalto”.22 Ma in realtà, la “calma del portoghese” è “piú apparente che reale”,23 ed egli alternerà costantemente sicumera e dubbio.24 Ogni sua vittoria trova origine nell’inganno. Per frastornare il Sultano, dopo averlo convinto della sua falsa identità, Yanez lo porta ben due volte davanti a dei presunti covi di pirati, che bombarda per sfoggiare il suo potere. In realtà si tratta di una messinscena, e i prahos che servono da bersaglio ai cannoni carichi solo a polvere della sua nave, sono quelli dei suoi uomini. Quando un capitano olandese convince il Sultano ad accompagnare Yanez a Pontianak per far verificare le sue credenziali, egli lo fa prigioniero facendo ubriacare i suoi sipay. Allorché la sua nave viene inseguita dai cannoniere inglesi, Yanez, attraverso un’“audace e pericolosissima manovra”,25 le attira nei bassifondi dove s’incagliano. Vero novello Ulisse, e come lui astuto, Yanez resiste alla tentazione di mostrare fino all’ultimo la sua forza reale, replicando a Kammamuri, che suggerisce di rapire il Sultano: “Là, là, non correre troppo, focoso indiano; la diplomazia non deve mai essere stata il tuo forte e poi il colpo decisivo lo serberò in ultimo, quando si tratterà di costringerlo a restituire l’isola alle vecchie Tigri di Mompracem”.26 Precisamente come per Ulisse, si può dire per Yanez che “il furbo è sempre anche colui che parla troppo. Egli è determinato oggettivamente dalla paura che se non mantiene continuamente l’effimero vantaggio della parola sulla forza, questa possa tornare a prendere il sopravvento”.27 In simile modo, Yanez è obbligato a giocare un ruolo sempre piú inverosimile presso il Sultano, confondendolo con i suoi discorsi almeno tanto quanto lo stupisce con i suoi sciali. L’inganno da solo non sarebbe tuttavia sufficiente perché l’eroe arrivi ai suoi fini. Ripetendo una volta di piú lo schema mitico, Yanez riesce a impressionare e a irretire il Sultano attraverso svariate dimostrazioni di abilità. Sempre come nel caso d’Ulisse, “[g]li episodi in cui viene esaltata la nuda forza fisica dell’avventuriero (...) hanno carattere sportivo”.28 Dapprima Yanez, durante uno spettacolo organizzato in suo onore, impressiona il sultano uccidendo una tigre che lo minacciava, bucando una moneta con un colpo di fucile e abbattendo un toro, per non parlare poi di una seconda tigre prima della fine della serata. Sul mare, mostra al Sultano, “che non [è] mai stato in vita sua altro che un poltrone”,29 come cacciare il pescecane. Nelle foreste abbatte un urang-outan colpevole d’aver rapito la bella olandese Lucy Wan Harter, anni prima di King Kong e di Fay Wray. Nel bel mezzo d’una battaglia trova il tempo di dare la

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caccia anche al bru-samuinoli, “uno stranissimo animale, col muso informe che termin[a] in una bocca impossibile a descriversi”.30 E per finire, poco prima di raggiungere Varauni per dare l’ultima scrollata al potere vacillante del Sultano, respinge un assalto di elefanti contro la sua giunca, in una lotta titanica. Ogni lettore di Salgari riconoscerà immediatamente queste situazioni come familiari. Yanez dimostra attraverso queste prodezze il suo valore, e soprattutto il suo statuto superiore. Gli animali, come Scilla e Cariddi, Circe o Polifemo nell’Odissea, sono condannati “a fare sempre la stessa cosa”: accolgono qualsiasi visitatore del loro regno con una ripetizione automatica di comportamenti preordinati. L’essenza delle figure mitiche “consiste nella ripetizione: il cui fallimento segnerebbe la sua fine”.31 Ripetizione di libro in libro, e all’interno di ognuno di essi, dove l’eroe rompe attraverso il suo inter vento lo sviluppo programmato dell’azione di queste forze naturali, ribadendo in tal modo la sua autonomia rispetto a ogni forza esterna a lui.

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Una Penelope peripatetica Fin dalle prime pagine del romanzo si affianca a Yanez un personaggio che in termini cinematografici hollywoodiani si tenderebbe a identificare come una love interest. Si tratta di tale Lucy Wan Harter, un’olandese passeggera della nave che Yanez e i suoi abbordano, con la quale la “Tigre bianca” danza un valzer prima di mettere le mani sull’ambasciatore inglese. Personaggio straordinariamente unidimensionale, la “bella olandese”, come ella viene costantemente chiamata a preferenza di qualsiasi altra definizione, riempie un ruolo tanto necessario quanto ambiguo. In assenza di Surama, ella affianca Yanez diventando la spalla della ex-spalla promossa a eroe principale, restando per il romanzo intero costantemente accanto al portoghese, senza però che tra i due vi sia mai il minimo segno di un interesse che vada oltre la simpatia reciproca, o forse l’ammirazione da parte della giovane signora. Il carattere di Lucy è improntato interamente a quelle qualità che si presume siano tipiche della sua razza, e che hanno il doppio vantaggio di fare di lei un’ausiliaria efficace nell’avventura, impedendo che il suo rapporto con Yanez si tinga anche solo vagamente di sentimento. Ella fa prova di “quell’olimpica calma che è una specialità dei popoli bagnati dal freddo e tempestoso Mare del Nord”.32 Infatti, pur essendo “una bellissima signora” dagli “occhi azzurri e profondi”, “sempre flemmatica e sorridente”,33 la giovane vedova è soprattutto pronta a intervenire per proteggere Yanez da qualsiasi pericolo. È lei che rassicura il Sultano garantendo che Yanez è effettivamente un ambasciatore, malgrado le denunce del capitano inglese. È lei che si tiene sempre “a fianco del portoghese, come per difenderlo da qualche tradimento”,34 e che uccide John Foster quando questi tenta di assassinarlo. È ancora lei infine a catturare di nuovo l’ambasciatore inglese, approfittando del fatto che

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“[d]’una donna non si deve avere paura”.35 Nei numerosi scontri che oppongono il gruppo di Yanez alle guardie del Sultano, “la bella olandese (...) spar[a] meravigliosamente, come (…) in un campo di tiro”, e tutto ciò per giunta “senza manifestare alcuna emozione”.36 L’impassibilità di Lucy non è solo il frutto dell’eredità e del sangue freddo dei settentrionali. È soprattutto una necessità che permette di evacuare ogni pulsione erotica, lasciandone solamente la lontana potenzialità, ribadita dalla ripetizione ossessiva del sintagma “la bella olandese”.37 Si è di fronte a una bellezza teorica, a un valore che non viene mai realizzato e deve per conseguenza trovare apprezzamento ad altri livelli, piú accettabili nel quadro della morale comune. La bella olandese diventa allora ammirevole soprattutto per la sua prontezza e la sua calma audacia, e la sola cosa che le capita di carezzare è la canna della sua arma. In uno scambio rivelatore Lucy e Yanez denunciano la vera natura dei loro rapporti, e l’unico ruolo che è consentito giocare a questa fredda maliarda nel contesto di un mondo esclusivamente maschile: “– Io sono pronta a tutto – rispose la flemmatica creatura, battendo col palmo della sua destra sulla canna della sua piccola carabina. – Consideratemi come un soldato, milord. / – Se tutte le donne fossero come voi, quanti malanni si eviterebbero!”.38 Ciò che è dato soprattutto di evitare a Yanez è di tradire anche solo col pensiero la moglie lontana, pur ritrovando grazie alla presenza decorativa della bionda amazzone un ruolo attivo e maschile che compensa la posizione subordinata che è diventata ormai la sua, dove egli è solamente “lo sposo o meglio il principe consorte della rhani dell’Assam”.39 L’impossibilità per il portoghese di aderire pienamente a questa funzione passiva è annunciata fin dall’inizio del romanzo, e proposta come giustificazione principale di un’impresa azzardata ma indispensabile: Mi sono però imbarcato in un’avventura che non so dove finirà, poiché gli inglesi di Labuan non mancheranno di appoggiare il Sultano. D’altronde che cosa può fare un principe consorte alla corte del rajah d’Assam? Far saltare sulle mie ginocchia mio figlio per farmi ridere dietro da quei grandi nababbi maleducati e invidiosi? Surama d’altronde sa che io sono un uomo d’azione, incapace quindi di addormentarmi fra i profumi ed i balli delle bajadere.40

L’avventura rende a Yanez la sua virilità in pericolo, e gli impedisce di dover trascorrere giorni vuoti in una condizione secondaria rispetto a quella della moglie, ridotto ad aspettare passivamente che l’erede maschio in arrivo, futuro Telemaco, si dedichi all’azione in sua vece. Per realizzarsi appieno, il ruolo ritrovato necessita la presenza di una figura femminile attraente ma non sessualmente attiva, che sarà infine riassorbita nella legittimità matrimoniale andando a prendere posto al fianco della vera sposa, in qualità di sua “buona

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compagna”.41 È solo allora che Lucy potrà realmente diventare una “cortigiana”, nel senso meno pericoloso della parola, facendosi l’amica di Surama, che “desiderava ardentemente vedere”,42 e riunendo in tal modo “i poli opposti e complementari dell’estraniazione femminile nel mondo patriarcale”. Il piacere, che a corte era sacrificato “al saldo ordinamento della vita e del possesso”,43 viene cosí rinnovato per la durata dell’avventura da una forma inedita di personaggio femminile, che non riveste le sembianze dell’erotismo ma riproduce gli schemi del comportamento eroico maschile. È questa l’unica forma di soddisfazione accettabile per un eroe alla ricerca delle emozioni della sua gioventú, al quale non è permesso di far soppiantare l’amore duramente conquistato da una nuova infatuazione, per quanto allettante essa sia. L’Ulisse portoghese porta con sé la sua Penelope nel viaggio verso casa, e questa gli consente, proteggendolo dal Sultano e salvandogli la vita, di realizzare il suo sogno: “Prima di tornare in India a rivedere Surama, che sta per regalarmi un erede al trono, spero di contemplare ancora una volta, dall’alto di quella rupe, il mare della Malesia”.44 La dimora mitica richiede una compagna dalle virtú particolari, pronta a scomparire quando l’ordine normale del mondo torna a far valere i suoi diritti, allo scadere del tempo concesso all’avventura. Non vi può essere una moglie fedele ad attendere l’eroe in una casa da lungo lasciata, dove egli non viene a cercare altri che sé stesso. L’unica compagna possibile è un pallido fantasma, con cui ballare un ultimo valzer alla memoria dei tempi andati. Una geografia atemporale Come per la bella olandese, i personaggi che circondano l’eroe – eccezion fatta per gli oppositori, peraltro sprovvisti anch’essi di un’identità complessa – svaniscono semplicemente nell’adempimento dei loro compiti. Nessuna descrizione che si possa chiamare tale eleva i compagni di Yanez fino ad attribuire loro una personalità. Ciò che loro attiene è un’abilità. Mati il dayako è un cannoniere di prim’ordine. Kammamuri e Sambigliong sono fedeli e pronti a obbedire agli ordini. Solo quest’ultimo – “un vecchio malese tutto rugoso, coi capelli completamente bianchi”45 – riceve l’obolo d’una riga di ritratto che sottolinea ancora il passare del tempo. I paesi percorsi da Yanez non obbediscono alle leggi della modernità e i loro abitanti trovano una specie di realizzazione solo nell’obbedienza cieca alla volontà del padrone. I pirati, che sono in realtà unicamente i discendenti dei pirati di un tempo, si sacrificano per la riconquista di un luogo che ha valore – puramente simbolico e sentimentale – solamente per il dominatore che li guida. Il Sultano non ha torto di stupirsi quando scopre le intenzioni del falso ambasciatore, esclamando: “Voi avete conquistati dei troni e venite ad assalirmi per un isolotto che non varrebbe due colpi di fucile?”.46 In egual modo, i rajaputi, “fanteria saldissima” al suo servizio,47 suscitano l’am-

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mirazione per le loro qualità guerresche indipendentemente dallo scopo per cui ne fanno sfoggio, e sprecano le loro vite e la loro virtú per proteggere un essere abietto, il cui unico “merito” è di possedere il potere. Gli echi sono quelli di “Et la Garde impériale entra dans la fournaise” di hugoliana memoria, ma il gesto val molto di piú in quanto gratuito, anziché per incarnare una qualsiasi causa. Per quanto l’epoca illustrata da Salgari sia quella del grande sviluppo del colonialismo, e di ciò che è stato chiamato “la chiusura delle mappe”, con la spartizione da parte delle grandi potenze di ogni territorio ancora inesplorato,48 è interessante notare come in quest’universo non vi sia produzione né valore di scambio che tenga. Il mercato è inesistente o è subordinato al potere, come i “Celestiali” sotto il tallone del Sultano.49 Le ricchezze vengono dalla conquista, militare o sentimentale, come nel caso di Surama, e non dal lavoro in quanto tale. I personaggi vivono in un mondo dove l’economia non esiste, e neppure lo sfruttamento imperialista dei colonizzatori è mai rappresentato nella sua realtà economica, ma solo incarnato dai colori sgargianti delle uniformi e dalla potenza tecnica e militare. La modernità appare solo sotto la forma delle cannoniere, sarebbe a dire in ciò che ha di piú primitivo. Non è un cambiamento del genere di vita, è solo un accrescimento di capacità distruttive. Il mondo dove sta tornando Yanez è ancora innocente, illibato, lontanissimo dalla logica borghese che sta conquistando nella realtà le terre che egli percorre nell’immaginazione. Adorno sottolinea che “[o]gni illuminismo borghese concorda nell’esigenza di sobrietà, senso dei fatti, giusta valutazione dei rapporti di forza. Il desiderio non dev’essere il padre del pensiero. Ma ciò deriva dal fatto che ogni potere è legato all’acuta coscienza della propria impotenza nei confronti della natura fisica e della forza che le succede nella società: quella dei molti”.50 All’opposto di questa logica, in Yanez non vi è alcuna valutazione dei rapporti di forza, e il pensiero è la concretizzazione immediata del desiderio. Il nesso è invertito: piú i rapporti sono squilibrati, piú i dubbi sono forti sulle possibilità di riuscita delle proprie imprese, piú queste appaiono attraenti e necessarie. L’azione dell’eroe è sfida costante contro la dismisura di ciò che egli non è, nutrita dallo sprezzo per quei poteri che gli si contrappongono e ai quali egli nega ogni valore, materiale o trascendente. Thierry Wanegffelen ha notato come il ruolo della spalla nella letteratura di massa sia quello di permettere “l’irruzione dell’umanità” nella sfera eroica.51 All’eroe troppo perfetto va accostato un personaggio piú fallibile, col quale il lettore possa piú facilmente identificarsi. L’umanità profonda di Yanez traspare proprio nella sua rinuncia ultima. Il suo destino è quello di tornare, per poi tornare ancora. Come è tornato alle origini riconquistando Mompracem per quell’essere essenzialmente mitico che è Sandokan, 52 egli dovrà in seguito tornare alla sua vita normale, ritrovare quella felicità per cui aveva lottato e che aveva provato sollievo ad abbandonare per ridi-

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ventare, per lo spazio di qualche mese, ciò che era stato prima. Sandokan può annidarsi di nuovo in cima all’antico scoglio, trasformandolo in baluardo “inespugnabile”,53 invulnerabile soprattutto all’assalto del tempo e della civiltà, proprio perché Yanez rinuncia, sacrifica per lui la sua libertà e permette al suo doppione selvatico e selvaggio, di ritrovare pienamente la totalità della sua identità mitica: “Grazie, fratellino mio – disse la Tigre della Malesia al portoghese (...). Questa rivincita io la devo tutta a te!”.54 Il compito della riconquista di Mompracem può appartenere unicamente a Yanez perché Sandokan reca Mompracem in sé, mentre il portoghese è l’uomo reale, sul quale il tempo opera le sue magie, e per il quale la distanza conta. Per Yanez è piú arduo il ritorno alla purezza delle origini, e deve essere dunque suo compito incaricarsene. Ma mentre l’eroe mitico si arrocca come un’“aquila” sul suo scoglio,55 utopia fatta di roccia e di sogni, la spalla tornata tale rientra nel quotidiano, come il suo autore che depone la penna a romanzo ultimato, un po’ prima di decidersi a spezzarla.

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Salgari, Emilio, La riconquista di Mompracem, Fabbri, Milano 2002, p. 203. D’ora in avanti si citerà da questa edizione. Originariamente il romanzo appare in volume nel 1908 per i tipi della fiorentina Bemporad, con il titolo La riconquista del Mompracem. Salgari, La riconquista cit., p. 179. Ivi, p. 192. In effetti, Yanez non fa altro che realizzare “il grandioso piano ideato da Sandokan di prendere il Sultano fra due fuochi” (ivi, p. 40), ma le linee principali del “piano” gli lasciano una vasta libertà d’improvvisazione. Ivi, p. 65. Dovendo far giustiziare dei traditori, “Yanez, un po’ commosso, quantunque ben deciso a dare una terribile lezione ai traditori, si volse per non vedere” (ivi, p. 102). Berardinelli, Alfonso, L’incontro con la realtà, in Moretti, Franco (a cura di), Il romanzo, vol. II (Le forme), Einaudi, Torino 2002, p. 365. Secondo il modello tipico dei romanzi salgariani, gli inglesi appaiono “sempre ferocemente invadenti”, “irascibili”, “ubriaconi”, e “prepotenti” (le citazioni provengono da Salgari, La riconquista cit, rispettivamente pp. 28, 41 e 50, 70, 71). Essi non parlano, lanciano un “urlo da belva”, da “bestia feroce” (ivi, pp. 22 e 72). L’autore concede tuttavia che “quantunque gli inglesi siano duri

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come macigni [essi] abbiano una vitalità superiore alla nostra” (ivi, p. 76). Adorno, Theodor W., Interpretazione dell’Odissea, con un dialogo sul mito tra Adorno e Karl Kerényi, a cura di Stefano Petrucciani, Manifestolibri, Roma 2000, p. 47. Si tratta di una parte rimasta inedita di Horkheimer, Max e Adorno, Theodor W., Dialektik der Aufklarung. Philosophische Fragmente, Querido, Amsterdam 1947 (di cui si ha una precedente versione dattiloscritta e ciclostilata: Institute of Social Research, New York 1944). Ci siamo in buona parte ispirati alle riflessioni del filosofo tedesco per la considerazioni che seguono. Ivi, pp. 43-44. Salgari, La riconquista cit., pp. 10 e 11. Ivi, pp. 12, 15 e 18. Ivi, p. 19. Vale la pena di ricordare come una situazione simile si riscontra all’inizio del romanzo seguente del Ciclo Indo-Maltese, Il bramino dell’Assam (1911), dove uno Yanez insofferente degli obblighi del suo ruolo proibisce a Kammamuri di chiamarlo Altezza. Salgari, La riconquista cit., pp. 18 e 20. Ivi, p. 193. Adorno, Interpretazione cit., p. 44. “Ho preso tre mesi di vacanza e ti giuro che mi sono divertito” (Salgari, La riconquista cit., p. 204).

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Ivi, p. 26. Le crédit illimité è il titolo del capitolo XLVI del romanzo eponimo di Dumas. La ricchezza come travestimento è d’altronde uno dei temi principali di questo celebre romanzo. Adorno, Interpretazione cit., p. 60. Salgari, La riconquista cit., p. 42. Ivi, p. 43. Altre volte Yanez appare “agitatissimo”, “assai inquieto”, e qualora Kammamuri tenti di forzargli la mano, suggerendo “Spazzeremo tutti? Abbiamo delle forze imponenti”, egli replica “Vedremo: per ora preferisco giuocare d’astuzia col Sultano” (ivi, pp. 76 e 68). Ivi, p. 94. Ivi, p. 114. Altrove Yanez afferma: “agirà ora piú la diplomazia che la forza” (ivi, p. 21). Adorno, Interpretazione cit., p. 80. Ivi, p. 60. Salgari, La riconquista cit., p. 122. Ivi, p. 172. Adorno, Interpretazione cit., pp. 63-64. Salgari, La riconquista cit., p. 18. L’espressione “calma olimpica” ritorna alla pagina seguente (p. 19). Altrove si parla ancora della “sua calma meravigliosa”, o di “calmissima creatura” (ivi, pp. 134 e 177). Ivi, pp. 13, 62 e 146. Ivi, p. 150. Ivi, p. 181. Ivi, pp. 163 e 156. L’espressione ritorna con una regolarità veramente martellante ogniqualvolta il personaggio entra in scena: ivi, pp. 18, 19, 62, 77, 122, 124, 125, 130, 132, 133 (tre volte), 134 (due volte), 136, 137 (due volte), 146, 147, 148, 149, 150 (due volte), 151, 156, 157, 159, 163, 170, 171 (due volte), 176, 179 (due volte), 180, 181 (due volte), 183 (due volte), 185, 186, 190, 194, 195, 201, 205. Ivi, p. 183. Ivi, p. 193. Ivi, p. 22.

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Ivi, p. 204. Ivi, p. 205. Adorno, Interpretazione cit., p. 88. Salgari, La riconquista cit., p. 203. Ivi, p. 21. Ivi, p. 175. Ivi, p. 178. “The last bit of Earth unclaimed by any nationstate was eaten up in 1899. Ours is the first century without terra incognita, without a frontier”. Si cita da Hakim Bey (pseud. di Peter Lamborn Wilson), The Temporary Autonomous Zone, 1990, www.hermetic.com/bey/taz3.html (ultima visita: 27 maggio 2009). In formato cartaceo cfr. T.A.Z. The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism, Autonomedia, Brooklyn 1991 (trad. it. T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, Shake, Milano 1993). Va notato d’altronde che i cinesi per Salgari sono commercianti come gli inglesi sono arroganti: per natura. Adorno, Interpretazione cit., p. 61. Wanegffelen, Thierry, Le capitaine Haddock, ou l’irruption de l’humanité dans Les Aventures de Tintin: Rôle et place du personnage secondaire dans l’oeuvre de Hergé (1942-1976), in “Belphégor”, 2006, 6, n. 1, http://etc.dal.ca/belphegor/vol6_no1/articles/06_01_wanegf_tintin_fr.html (ultima visita: 27 maggio 2009). Vale la pena di notare come, all’apparizione di Sandokan, ostacoli che sarebbero stati prima praticamente insormontabili svaniscano come nebbia al sole: “In meno di mezz’ora cinque cannoniere furono prese, due altre affondate dai pezzi da caccia dell’yacht. Le altre, sconquassate, con gli equipaggi piú che decimati, avevano avuto appena il tempo di riprendere il largo per cercare un rifugio a Labuan o nei porti danesi delle coste orientali e meridionali” (Salgari, La riconquista cit., p. 203). Ivi, p. 200. Ivi, p. 203. Ibid.

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Sulle frontiere del Far-West (1908): narratività, spinte unitarie e tradimenti Gian Paolo Giudicetti

L’avventura è una situazione singolare, straordinaria, imprevista, che viene dal di fuori dell’uomo, gli ‘avviene’ e deve essere da lui superata con coraggio ed acume, in una vittoria che rappresenta una prova morale di sé stesso Leo Spitzer

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1. Una struttura narrativa, non ideologica Quando si ha l’abitudine di praticare un tipo di critica analitico, immanente al testo, e si ha poca fiducia nell’utilità delle deduzioni tratte dalla storia della letteratura e dalla biografia per la comprensione di ciò che è essenziale nelle singole opere letterarie, posti di fronte all’opportunità di studiare un romanzo di Salgari, in questo caso Sulle frontiere del Far-West (1908), in maniera tendenzialmente indipendente – perché altri romanzi di Salgari saranno trattati da altri, e ogni studio costituirà un tassello in un mosaico collettivo – la prima questione che si pone è metodologica. Come affrontare con strumenti di origine strutturalista romanzi che tra le loro caratteristiche formali non hanno quella della densità? Uno dei frutti migliori della critica d’ispirazione strutturalista è quello di mettere in relazione macrostrutture e microstrutture, costruzione narrativa su larga scala e peculiarità stilistiche e tematiche che si riscontrano a livello della pagina, del paragrafo, della singola frase. Ciò è piú difficile in un romanzo, come Sulle frontiere del Far-West e come altri di Salgari, quasi puramente narrativo, nel quale la lingua ha la finalità di mediare una trama e non di veicolare significati dipendenti dalla scelta di un vocabolo invece di un altro. La riflessione su questo romanzo dovrà quindi fondarsi primariamente su un’analisi della struttura narrativa. Tuttavia, in un secondo tempo, ci si renderà conto che l’interpretazione della struttura narrativa potrà essere fatta interagire con il reperimento di nuclei tematici ricorrenti; in tal modo, almeno due livelli testuali, quello sintagmatico della trama e quello paradigmatico della presenza di isotopie tematiche, contribuiscono alla costruzione di un senso. Nel cosiddetto Ciclo del Far West, di cui il nostro romanzo fa parte,1 alcuni critici hanno creduto di individuare “nazionalismo, eurocentrismo, razzismo e misoginia”, controvalori che sarebbero fondati sull’“antagonismo razziale Bianco/Rosso”. 2 Questa lettura è al contempo comprensibile e fortemente opinabile: comprensibile perché vi sono tracce testuali forti che tendono a comprovarla, smentibile perché l’opposizione tra bianchi e indiani non avviene sul piano dell’etica o su quello della preferenza ideologica, bensí ha una funzione prettamente narrativa. Come altri romanzi di Salgari aderiscono alla prospettiva di popoli colonizzati e trasmettono una visione negativa dei colonizzatori, 3 in particolare

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inglesi, dipinti come spietati, avidi, meschini, cosí Sulle frontiere del Far-West si focalizza sull’azione di alcuni statunitensi e riconosce negli indiani nemici pericolosi e crudeli, senza che questo comporti un giudizio di valori, rispondendo invece all’esigenza di una struttura narrativa che risulti adeguata al romanzo di avventura. Un po’ come Gian Luigi Bonelli, il creatore di Tex Willer – stando alle dichiarazioni del figlio – aveva fatto morire subito la moglie del suo eroe “perché gli dava fastidio nello sviluppo dell’avventura”, e aveva cosí ideato “un mondo del tutto maschile” non per ragioni misogine,4 ma di linearità strutturale, cosí Sulle frontiere del Far-West costruisce una realtà manichea a fini di pragmatica narrativa. Sergio Bonelli, nella stessa intervista da cui è tratta la dichiarazione precedente, affermava che “le storie alla fine sono sempre quelle, con solo qualche minima variazione. Tuttavia il lettore è contento, si accontenta di poco”.5 Piú che accontentarsi di poco, si tratta di quel piacere della lettura che si prova di fronte alle strutture narrative di base, quasi archetipiche, come ha osservato Valerio Evangelisti riferendosi proprio ai romanzi di Salgari, che ricalcherebbero “tipologie antiche” di narrazione.6 Semplificata in un unico movimento, la trama può essere riassunta nell’impresa di tre uomini d’armi al servizio del colonnello degli Stati Uniti Devandel, che superano una serie di ostacoli per salvare i figli del colonnello, in pericolo perché rimasti isolati nella loro fattoria, in balía delle tribú indiane sollevatesi contro i bianchi. Sullo sfondo dell’avventura individuale c’è quindi uno sfondo storico, quello della guerra tra indiani e bianchi, di cui una delle premesse è l’alleanza improvvisa di tre tribú indiane. Dal momento che i tre uomini di Devandel lasciano l’accampamento del loro superiore fin dai primi capitoli del romanzo, e solo negli ultimi capitoli raggiungono i figli di Devandel (che nel lieto fine si ricongiungono a loro volta con il padre, che da tempo non vedevano), uno dei macrotemi del romanzo è quello dell’unione: quella ambita e conseguita tra i bianchi, e quella degli indiani che non ha potuto evitare la loro sconfitta, perché al di là di alcune vittorie parziali saranno nettamente battuti dall’intervento dell’esercito statunitense. A fianco di questa trama, e in parte alla sua radice, ci sono però tragici motivi familiari. Yalla, capo indiano di sesso femminile, piú che la vittoria delle tribú persegue la vendetta su Devandel, il quale, costretto a sposarla quando era stato catturato anni prima, l’aveva poi abbandonata. L’azione vendicativa di Yalla porta a un primo risultato,7 l’uccisione da parte di Devandel del figlio avuto con Yalla, un giovane indiano che, oltre a non essere stato riconosciuto, Devandel fa fucilare quando cade nelle mani dei suoi soldati. Si tratta di una morte che, secondo la mentalità crudele di Yalla, è positiva perché contribuisce a cancellare il passato della sua unione con un bianco. Ma Yalla non raggiunge cosí il suo obiettivo principale, quello

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dell’uccisione dei due figli avuti da Devandel con la nuove moglie, una messicana.

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2. La linearità dell’avventura e le isotopie tematiche dell’unità Che gli indiani rappresentino un antagonista dal punto di vista della struttura narrativa e non un nemico ideologico, è comprovato dal fatto che essi sono un gruppo antagonista tra gli altri e che i tre uomini di Devandel, per compiere la loro missione, devono superare anche ostacoli costituiti da orsi, cinghiali, lupi, in una successione di sequenze narrative che si articola prima di tutto sintagmaticamente, con un’autonomia narrativa forte delle singole sequenze. Questa autonomia è in realtà un criterio fondamentale per la definizione dell’avventura. Georg Simmel, nel saggio Das Abenteuer, comparava l’avventura al sogno: “Jeder weiss, wie schnell wir Träume vergessen, weil auch sie sich ausserhalb des sinnvollen Zusammenhanges des Lebenganzen stellen”. Cosí l’avventura: “in einem viel schärferen Sinne, als wir es von den anderen Formen unserer Lebensinhalte zu sagen pflegen, hat das Abenteuer Anfang und Ende”.8 Come i presunti manicheismi ideologici, anche altri elementi stereotipici sono stati a volte imputati da alcuni critici a Salgari, disconoscendo all’opera dello scrittore una densità stilistica e tematica che permetta un’analisi letteraria raffinata. Elio Gioanola ha scritto di una predominanza degli stereotipi micro- e macro-strutturali, tale la meccanicità e artificialità delle situazioni narrative, tale l’obbedienza alle urgenze pratico-economiche da ridurre al minimo la densità stilistica del materiale analizzabile: né si vorrebbe davvero correre il rischio di scambiare per métaphores obsédantes le infinite ripetizioni a tutti i livelli, che propongono un paesaggio di figure allo stato fossile, secondo gli statuti della letteratura di consumo piú corriva.9

Secondo Gioanola e altri le ripetizioni all’interno dei singoli romanzi di Salgari sono il segnale di un limite estetico e non producono, inversamente alle métaphores obsédantes, significati, evocazioni, un livello di senso che si aggiunge a quello insito nella trama. Una prova che le cose non stanno cosí è quella della presenza, nella serie di avventure attraversate dai personaggi, di elementi che collegano proprio queste avventure, che compongono la lunga parte centrale del romanzo, con il tema strutturale dell’opera, che è, in sintesi, quello dell’opposizione tra unità e meticciato. L’azione vendicativa di Yalla avviene con l’aiuto del suo nuovo marito, un indiano, in opposizione al bianco Devandel, e il primo atto della vendetta è il sacrificio del figlio avuto con Devandel, che rappresenta il frutto di un passato interrazziale che la donna vuole cancellare, investendo tutta la propria volontà di discendenza in Minnehaha, figlia di seconde nozze e fanciulla combattiva destinata al ruolo di

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protagonista nei successivi romanzi del Ciclo del Far West. Un mezzo della vendetta è anche quello, altro segno di unità, dell’alleanza delle tre tribú indiane principali, i cui esiti sono sventati dal coraggio, l’abilità, l’esperienza degli uomini di Devandel, che formano loro stessi un gruppo compatto. Al meticciato bianco-indiano, rappresentato dall’antico matrimonio di Devandel e Yalla, si oppongono meticciati interni alle tribú indiane (Minnehaha è figlia di due genitori appartenenti a tribú diverse) o ai bianchi (Devandel si è sposato, dopo aver abbandonato Yalla, con una messicana e i suoi due nuovi figli sono meticci). Non esiste un terreno di contatto tra bianchi e indiani: Yalla, nonostante il rispetto della parola data costituisca un valore importante tra gli indiani, non sente l’obbligo di mantenere le promesse pronunciate nei confronti dei bianchi, perché tra i due mondi non c’è comunicazione, non sono possibili intesa né dialogo. Ma il meticciato e l’estraneità rispetto a uno schieramento unito costituiscono anche uno dei campi semantici che attraversano il romanzo a livello simbolico. L’altra dimensione simbolica prioritaria è pertinente all’avventura stessa, al successo di imprese eroiche, alla speranza della riuscita delle proprie azioni, e si attua ad esempio attraverso la presenza di motivi quali il tramonto, il sorgere della luna, la luce. Esistono quindi due strutture nel romanzo: quella lineare dell’avventura, definibile anche, con le parole di Calvino, come una “prova razionale dell’uomo sulle cose a lui contrarie”,10 cose contrarie che si succedono una dopo l’altra, e quella, piú tragica, meno sintagmatica e piú paradigmatica, della vendetta e del conflitto bianco-indiano, nella quale si legano storia individuale e grande storia.11 Anche la presenza della grande storia, che si concretizza in digressioni sugli indiani e sulle conquiste statunitensi nell’Ovest, va considerata prima di tutto nel suo significato interno al romanzo, e cioè strutturale: essa contribuisce, tracciando una cornice di eventi da cui la trama non può sfuggire, a conferire vigore al tema del destino, proprio dell’avventura, inteso come l’inserzione dell’azione in una trama lineare i cui esiti sono limitati. Il tema del destino, del futuro parzialmente già determinato, è comprovato da altri tre elementi: i) Il didattismo, ossia l’ampio divario tra sapere del narratore e sapere del lettore, che si attua nelle divagazioni di tipo enciclopedico, sovente a inizio di capitolo. Un esempio è la descrizione dei coyote in apertura del capitolo sesto, La difesa della cripta: Due razze di lupi si disputano l’impero delle sconfinate praterie che si stendono a ponente del Mississipi, spingendosi fino ai piedi dell’imponente catena della Sierra Nevada che copre la California; il coyote ed il lupo nero. Il primo, che è assai piú numeroso, poiché non è raro incontrarlo

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anche oggidí in bande da cinquanta a cento capi, è una razza intermedia fra le volpi ed i veri lupi. Dei primi ha il muso, dei secondi il corpo e la coda, corpo robusto, ricchissimo di pelo, di color giallognolo con macchie rossastre, che d’inverno diventa grigiastro.12

Questo è anche un primo brano nel quale si può riscontrare il motivo del meticciato, dal momento che il coyote, come afferma il narratore, è una sorta di razza bastarda tra la volpe e il lupo. Il motivo del meticciato appare cioè anche in fasi testuali in cui esso non è il tema principe dal punto di vista della trama. ii) Il fatto che il romanzo sia costruito come una successione di avventure tendenzialmente indipendenti e quindi concluse (prima i tre uomini di Devandel sfuggono ai lupi, poi all’annegamento in gallerie sotterranee, poi sconfiggono un orso, e cosí via) imprime nel romanzo la sensazione ricorrente della fine: della fine di ogni singola e successiva sequenza, di un esito vittorioso iterato piú volte fino a culminare nel macroesito dell’happy end.

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iii) I personaggi sono frequentemente impegnati nella lettura di segni che prennunciano il futuro e le minacce circostanti. Ad esempio il fumo segnala la presenza di indiani, i tuoni annunciano il pericolo di un uragano. 3. La tragedia della vendetta: unità, meticciato, accerchiamento La dimensione tragica dello scontro bianco-indiano è costruita fin dall’inizio del romanzo. In particolare fin dai primi tre paragrafi è evidenziata la situazione di accerchiamento dei soli “cinquanta uomini” di Devandel,13 protetti unicamente da una strettoia tra le montagne e minacciati dalle tribú indiane che li stanno circondando. La condizione di accerchiamento ricorre piú volte nel romanzo,14 con l’insistenza ad esempio sulla stazione di Kampa, forse l’ultima stazione bianca a rimanere provvisoriamente intatta in un territorio via via conquistato dagli indiani. Quando i tre uomini d’armi si uniscono a una carovana in fuga, l’isolamento di un furgone, che si stacca dal resto della carovana, conduce subito alla strage: Ben presto l’ultimo furgone, che già cominciava ad essere avvolto dal fumo che il vento spingeva, fu isolato ed allora successe un massacro orrendo. Gli squatters che lo difendevano, cinque o sei in tutto, furono atterrati a colpi di fucile, di scure e di lancia e subito scotennati; le loro donne furono strappate, malgrado la loro feroce resistenza, gettate attraverso le gualdrappe dei mustani e portate via; i fanciulli gettati prima in aria e poi sbatacchiati contro le ruote del furgone fino a spaccare loro i crani.

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Nessuno aveva potuto accorrere in aiuto dei disgraziati (...).15

I tre bianchi sospettano che persino le intemperie, un uragano nella fattispecie, sia forse “diventato l’alleato delle pellirosse contro le pellibianche”,16 coadiuvando a bloccarli nei passaggi sotterranei di una miniera abbandonata. Ancora in una delle avventure conclusive, quando i tre raggiungono la fattoria di Devandel, dove risiedono i suoi figli, la costruzione “si trov[a] ormai come chiusa in una morsa di ferro e di fuoco” dagli indiani,17 senza la speranza che arrivino rinforzi. Inoltre gli indiani stessi, a causa anche della diminuzione della selvaggina, vivono in una situazione di pericolo, a rischio di estinzione. Il motivo dell’unità tra i bianchi, indispensabile per la vittoria finale, si esprime anche in dettagli, come quello, già nella seconda pagina, degli spari dei due fratelli Harry e Giorgio che tendono a convergere in uno sparo unico: “due spari erano rimbombati, formando quasi una sola detonazione”.18 Anche le opinioni dei due fratelli, nella medesima pagina, prima divergenti, temendo uno il carattere audace degli indiani, e l’altro mettendo in avanti la propria capacità di tiratore per tenere lontani i nemici, convergono poi, quando anche il secondo avverte l’incursione ormai prossima dei pellirosse. Il senso di due unità coese che si contrappongono è accentuato dalla presenza di caratteristiche che fanno spiccare ancora di piú alcuni personaggi dei due campi opposti (cosí Yalla è descritta come una donna bellissima, senza equivalenti), ma anche dalle descrizioni di animali contrassegnati dalla tinta unita, come un leggendario ma realmente esistente – nel mondo del romanzo – cavallo dalle qualità straordinarie, e “tutto bianco, colle quattro unghie ed anche la criniera dello stesso colore e di forme perfette”,19 o altri “sei mustani tutti neri e sei tutti rossi”.20 Al polo dell’unità si oppone quello dell’estraneità, impersonato da Nube Rossa, marito di Yalla e padre di Minnehaha, indiano della tribú dei Corvi, tribú diversa da quella della moglie, il quale si unisce, sotto false vesti, ai tre pistoleros: è estraneo a loro in quanto aspetta il momento giusto per tradirli, e ogni tanto sente la tentazione di scotennarli, ma si percepisce come un estraneo anche rispetto alla moglie e alla figlia, che si vantano di appartenere a una tribú piú valorosa. 4. La simbologia della linearità avventurosa Nei primi paragrafi, alla dimensione spaziale che mette in primo piano l’accerchiamento dei bianchi di Devandel, e che si estende in una descrizione abbastanza precisa della collocazione geografica della scena, “fra i confini meridionali del Wyoming e quelli settentrionali del Colorado”,21 succede immediatamente la collocazione sull’asse temporale, con l’evocazione del passato (i due fratelli,

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Harry e Giorgio, “fino a pochi giorni prima erano stati scorridori di prateria”) e la preoccupazione per il futuro,22 con gli stessi Harry e Giorgio che s’interrogano sul prossimo attacco indiano. Gran parte del romanzo è marcata dalla presenza forte dell’asse temporale, con numerose proiezioni verso il futuro, previsioni piú o meno fondate, tra cui la già ricordata consapevolezza di un destino ineluttabile, come quello di essere uccisi dagli indiani che spetterebbe a tutti i postiglioni del Far West, 23 e giuramenti, che ipotecano il futuro, come, nelle ultime pagine, quello di Harry, che informato del fatto che Nube Rossa è il marito di Yalla, giura “sulla [sua] salvezza eterna, che gli strapper[à] il cuore”.24 È l’orientamento lineare delle opere di Salgari che rende i narratori dei suoi romanzi parchi di commenti metanarrativi,25 che apporterebbero dimensioni ostacolanti la linearità, la nettezza del costrutto narrativo. Di questa costante proiezione verso il futuro è un indice ricorrente la simbologia della luce, che rappresenta un orizzonte di speranza che si contrappone alle tenebre del presente. Cosí, allorché sono bloccati nelle gallerie sotterranee, i personaggi principali pensano a quando rivedranno il sole uscendone. Il lume che essi portano con loro rivive quando l’inondazione causata dall’uragano, che li bloccava “nelle viscere della terra”, come recita il titolo di un capitolo (l’undicesimo), è cessata e i pistoleros possono sperare di ritornare alla superficie.26 Infatti, quando escono dalle gallerie, il sole sta auguralmente per spuntare:

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che nel mondo di Salgari, dove, scrive Evangelisti, “l’azione è descritta con precisione scenografica, i paesaggi hanno una magnifica evidenza di colori”,30 oltre a questa capacità pittorica e al fascino della trama c’è spazio per una scrittura che si poggia, seppure moderatamente, anche su un piano di simboli, rimandi, evocazioni.

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guidati alla luce della lampada, la quale sembrava un piccolo faro scintillante fra una notte burrascosa, non tardarono a raggiungere il tanto sospirato passaggio che avrebbe dovuto ricondurli, piú tardi, nella non meno sospirata prateria. (...). Gli avventurieri si trovarono improvvisamente all’aperto (...). L’alba non era ancora spuntata, però cominciavano a diffondersi pel cielo i primi riflessi dell’aurora, i quali permettevano di discernere i profili, ancora neri, della Sierra Escalante. – Ehi, John – chiese Harry, il quale si era ben guardato di fare un altro passo innanzi. – Dove siamo noi dunque?27

Per concludere con un ultimo esempio di una corrispondenza, sebbene di densità limitata, tra macrostrutture e microstrutture del romanzo, si può citare l’incontro pericoloso dei tre uomini di Devandel con i pecari, specie di maiali selvatici, invasi da un istinto di vendetta che ricorda quello di Yalla. Sebbene non carnivori, essi con “ostinazione” cercano di vendicarsi per essere stati dapprima disturbati,28 e poi perché un proiettile partito per sbaglio ha ucciso uno di loro, “ben decisi a farsi sterminare fino all’ultimo piuttosto di rinunciare a vendicare i loro compagni disseminati fra le erbe”.29 È una determinazione che allude a quella degli indiani, e ricorda ancora

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Il ciclo si compone di tre romanzi, editi dalla Bemporad di Firenze: Sulle frontiere del Far-West (1908), La Scotennatrice (1909) e Le Selve Ardenti (1910). Cfr. Carloni, Massimo, Nazionalismo, eurocentrismo, razzismo e misoginia nel Ciclo del Far West di Emilio Salgari, in “Problemi”, 1993, n. 97, pp. 170181: p. 174, citato da Galli Mastrodonato, Paola I., Il “caso” Salgari e gli studi paraletterari in Italia, in “Belphégor”, 2001, 1, n. 1, http://etc.dal.ca/belphegor/vol1_no1/articles/01_01_Galli_Salgar_fr.html, la quale si oppone a quell’interpretazione (ultima visita: 27 maggio 2009). Si rimanda ad esempio all’intervento di Donatella de Ferra su I briganti del Riff (1911), all’interno del presente volume. Bonelli, Sergio, SessanTex. Il celebre eroe dei fumetti festeggia i 60 anni, intervista a cura di Rocco Bianchi, in “Corriere del Ticino”, 27 settembre 2008, p. 26. Ibid. Evangelisti, Valerio, Centinaia di Salgari, in Arpaia, Bruno, Santangelo, Evelina, Giartosio, Tommaso et al., Dieci decimi. Sguardi a ritroso sulla nostra letteratura, Rizzoli, Milano 2003, tratto da www.24sette.it/contenuto.php?idcont=169 (ultima visita: 27 maggio 2009). Il tema della vendetta è stato individuato come centrale in diversi interventi di questo volume. Cfr. per esempio il testo di Alberto Brambilla su I corsari delle Bermude (1909). Simmel, Georg, Das Abenteuer, in Id., Philosophische Kultur, Klinkhardt, Leipzig 1911, pp. 11-28 (p. 12). Gioanola, Elio, La tigre della Malesia: aggressività e follia nel personaggio salgariano, in Id., Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Mursia, Milano 1991, pp. 28-40 (p. 28), citato da Galli Mastrodonato, Il “caso” Salgari cit., la quale osserva che la maggior parte dei critici “si adegua a questa strategia minimizzatrice e riduzionista”. Calvino, Italo, Mancata fortuna del romanzo italiano, in Id., Saggi, a cura di Mario Barenghi, vol. I, Mondadori, Milano 1995, pp. 1507-1511 (p. 1511). Si tratta di un testo originariamente inedito, un dattiloscritto di tre pagine con correzioni autografe; Calvino lo segnala come “[r]isposta a un’inchiesta radiofonica della RAI, (…) che non fu

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mai trasmessa”, risalente al 1951 o al 1953 (cfr. ivi, vol. I, p. 1507 e vol. II, p. 2996). Ci sono strutture comparabili in altri romanzi di Salgari, che congiungono storia individuale e storia collettiva. Si può citare L’eroina di PortArthur (Speirani, Torino 1904, con pseud. Cap. Guido Altieri), romanzo che, alla pari di Sulle frontiere del Far-West, coniuga il tema della vendetta individuale, da parte della sedicenne giapponese Shima, contro il fidanzato russo Boris che l’ha abbandonata, con quello della guerra nippo-russa di inizio secolo. Anzi, nella finzione del romanzo, la giovane contribuisce agli esiti del conflitto in favore del Giappone: la vendetta personale si trasforma in un’impresa nazionalista. Salgari, Emilio, Sulle frontiere del Far-West, Fabbri, Milano 2002, p. 47. D’ora in avanti si citerà da quest’edizione. Ivi, p. 7. Le situazioni di accerchiamento sono frequenti anche nell’insieme dell’opera di Salgari. Cfr. Tropea, Mario, Nevrosi, modelli e trascrizione. Terza introduzione, e conclusione, sui Racconti, in Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura e con saggi introduttivi e finali di Mario Tropea, con una nota sulla “Bibliotechina Aurea Illustrata” di Claudio Gallo e Caterina Lombardo, vol. III, Viglongo, Torino 2002, pp. V-XVIII (p. VI). Salgari, Sulle frontiere cit., p. 80. Ivi, p. 92. Ivi, p. 174. Ivi, p. 8. Ivi, p. 18. Ivi, p. 19. Ivi, p. 7. Ibid. Cfr. ivi, p. 60. Ivi, p. 190. Come ha appunto notato Gianni Turchetta nell’intervento, qui presente, su La crociera della Tuonante (1910). Cfr. Salgari, Sulle frontiere cit., p. 101. Ivi, p. 103. Ivi, p. 151. Ivi, p. 160. Evangelisti, Centinaia di Salgari cit.

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Gli ultimi filibustieri (1908). Una chiusura eroicomica per il Ciclo dei Corsari Pietro Benzoni

(...) e i colpi si ripetono ed i passi, e ancora ignoro se sarò al festino farcitore o farcito Eugenio Montale, Il sogno del prigioniero

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i. Tutto l’equipaggio della Folgore osserva in silenzio: sotto un cielo tempestoso, in balia di marosi che anche la fosforescenza fa scintillare, la scialuppa di Honorata va scomparendo contro un livido orizzonte; mentre il Corsaro Nero, solo sul ponte di comando, si accascia tra i cordami e piange. Questo celebre finale – cupo e corrusco, ostinatamente tragico eppure aperto – lo lasciava presagire; e il successo editoriale lo impose: Il Corsaro Nero (1898) doveva avere un seguito.1 Venne cosí La Regina dei Caraibi (1901),2 dove appunto giunge a compimento la trama di vendetta e amore; e vennero quindi gli ulteriori sviluppi garantiti dalla “seconda generazione”: Jolanda, la figlia del Corsaro Nero (1905),3 e il dittico formato dal Figlio del Corsaro Rosso (1908) e Gli ultimi filibustieri (1908).4 Sono questi i cinque romanzi del cosiddetto Ciclo dei Corsari, la cui materia narrativa è data dal vario intrecciarsi delle vicende dei signori di Ventimiglia con quelle dei bucanieri e filibustieri che nel XVII secolo assaltavano navi e possedimenti spagnoli dell’America centrale. Tale fondale è romanzescamente vivo, ma storicamente approssimativo. Le ricostruzioni salgariane, infatti, com’è noto, pur prevedendo un eclettico lavoro di documentazione,5 contemplano poi un utilizzo assai disinvolto (del tutto afilologico) dei dati: ripresi dalle fonti piú eterogenee e assemblati senza troppi scrupoli di coerenza o verosimiglianza.6 Per intenderci, siamo agli antipodi del metodo storico manzoniano.7 Nel Ciclo dei Corsari, poi, l’appropriazione di personaggi e fatti reali è massimamente libera, non solo nella finzione narrativa (si veda per esempio Morgan – il conquistatore di Panama nel 1671 – che qui è prima il luogotenente del Corsaro Nero e poi, non senza sfasature cronologiche, colui che ne sposerà la figlia Jolanda), ma anche nei capitoli d’impostazione didascalica (si veda il quindicesimo, La filibusteria, nel Corsaro Nero; il diciassettesimo, Le audaci imprese dei filibustieri, nel Figlio del Corsaro Rosso; e il nono, Gli ultimi filibustieri, nel romanzo eponimo). Anche qui, infatti, la Storia è ripercorsa in forme affabulatorie ed enfatiche, dando risalto ad aneddoti poco credibili, coll’intento, tutto poetico, di fare della filibusteria una società non solo ardita e sanguinaria, ma anche cavalleresca, perché retta da ferrei codici d’onore.8 Ossia, anche in queste digressioni piú erudite (debitrici della saggistica di Oexmelin, D’Archenholz, Trousset e Compagnoni, come ha visto il già citato Spa-

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gnol), Salgari ricerca una dimensione eroica ed esotica piú che un qualche rigore storiografico, il romanzesco e l’eccentrico piú che una verità. Come tanti suoi forestierismi, usati non tanto per denotare un referente preciso, quanto – con gusto vagamente dannunziano – per il loro alone suggestivo e le loro sonorità incantatorie (per esempio, e li si legga come in un mantra: “sciambaga”, “sima ruba”, “ramsinga”, “mussenda”, “upas” e “jacaré”),9 analogamente dati e inserti storicheggianti sono qui funzionali alla evocazione di un’epoca passata, che deve essere distanziata miticamente prima ancora che conosciuta. Un po’ come nell’epica che – Bachtin insegna – presuppone un passato assoluto; e giusta quella valorizzazione del diverso e lontano in quanto tali (a prescindere da ogni cognizione effettiva) che è tipica di ogni esotismo.10 Ciò premesso, veniamo agli Ultimi filibustieri, opera che ha suscitato reazioni discordanti nella critica;11 e su cui, d’altra parte, noi stessi siamo tentati di formulare un giudizio screziato, fatto, come si vedrà, di apprezzamenti e riserve insieme. Ma lasciamo innanzitutto parlare l’analisi. Negli Ultimi filibustieri, nonostante la dimensione postrema e crepuscolare dello sfondo,12 ci troviamo di fronte a un romanzo di avventure dal tono leggero e dal registro volentieri abbassato: sicuramente il capitolo piú scanzonato e burlesco del Ciclo dei Corsari, che con esso si chiude; in netto contrasto, cioè, con l’apertura ben piú tragica e solenne del Corsaro Nero. La trama – tutta imperniata su personaggi che già figuravano nel Figlio del Corsaro Rosso – è data dalla missione di Ines di Ventimiglia (alias Neala, bellissima meticcia, figlia di secondo letto del Corsaro Rosso), rientrata dall’Italia per raccogliere la favolosa eredità lasciatale dal nonno indio, il Gran Cacico del Darien. Ad avversarla c’è in primo luogo il marchese di Montelimar (già, ma per interesse, suo amorevole padre adottivo); a difenderla tre avventurieri: don Barrejo, Mendoza e Buttafuoco, poi affiancati anche da De Gussac e dagli ultimi “Fratelli della Costa” di Raveneau de Lussau. Questo, schematicamente, il traliccio narrativo portante e il campo di forze in gioco. Non ci si lasci però ingannare dalle apparenze: per quanto contesa e ammirata, la contessina Ines è in realtà un personaggio meramente funzionale, che garantisce un seguito alla saga dei Ventimiglia e innesca la storia, ma risulta poi svuotato di ogni consistenza drammatica, la sua presenza sulla scena limitandosi solo a qualche silente e fugace apparizione (nei capitoli decimo, undicesimo e venticinquesimo). Tutta l’attenzione del narratore è invece focalizzata sulla motteggiante combriccola degli avventurieri. Il trattamento è per lo piú corale, ma c’è comunque un primattore: don Barrejo, un guascone dinoccolato e magrissimo (nonostante le abbuffate pantagrueliche), che si caratterizza come un insieme esplosivo di tratti volentieri divergenti: impavido e chiacchierone,

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ingegnoso e smargiasso, scaltro e irruento, pronto allo scherzo come all’ira, ora cinico ora idealista, all’occasione galante ma sempre famelico e sbevazzone (vorremmo ribattezzarlo don Barrique). È lui – pur entro un sistema vagamente marionettistico di personaggi dai sentimenti elementari e dalla psicologia semplificata, tutta risolta in azione – la creatura piú vitale e composita del romanzo. Certo memore degli illustri guasconi della tradizione francese (il Cyrano di Rostand, il d’Artagnan di Dumas, e il capitan Fracassa di Gautier),13 questo taverniere-guerriero dimostra poi talento istrionico, sprezzo del pericolo e doti strategiche degne del miglior Yanez (anche se di questi non ha né la flemma ironica, né gli aspetti piú tormentati). Entro il Ciclo dei Corsari, invece, il suo umorismo chiassoso e il linguaggio colorito richiameranno, specie quando duetta con Mendoza, caratteri meno modellati e piú caricaturali come quelli di Carmaux e Wan Stiller; e, d’altro canto, la sua personalità solare e fanciullescamente sbrigliata potrà esser definita anche dall’implicita opposizione con quella, malinconica e grave, del Corsaro Nero. Ma va sottolineato il fanciullescamente perché, quasi sempre, nelle avventure di don Barrejo, c’è una forte componente ludica (con punte d’infantilismo ravvisabili per esempio nella burla del capitolo terzo, La caccia ai fantasmi); tanto che la sua figura, malgrado i trentadue anni, è interpretabile anche come quella di un puer effrenatus: di un irriverente monellaccio che si oppone a ogni principio di dovere e realtà (moglie e taverna), cosí come all’ordine costituito (lo Stato spagnolo).14 Significativo in tal senso che il grande antagonista, il marchese di Montelimar (una variazione sul modello di Wan Guld), sia invece un senex atrox, altero e inflessibile, figura del rigore burocratico e della disciplina militare, oltre che di un arcigno privilegio di classe. Istanze contrastanti, il cui cozzo è particolarmente evidente nel diciassettesimo capitolo, là dove don Barrejo, pur imprigionato, non rinuncia a provocare lo spagnolo, che vorrebbe invece interrogarlo seriamente, prima di giustiziarlo. Un assaggio: – Voi osereste opporvi? – Diavolo!... Noi non abbiamo nessuna intenzione di far la conoscenza colla canapa che intrecciano gli Spagnoli. Si dice che sia troppo ruvida e che rovini la gola agli appiccati.15

Se poi Montelimar è tutto compreso nel proprio orgoglio nobiliare, il guascone presenta invece uno status sociale dubbio (“taverniere don Barrejo” ha dell’ossimorico, un po’ come “mastro don Gesualdo”) e mutevole: nelle sue vene – come lui stesso sottolinea, non senza autoironia – scorre il sangue blu della squattrinata casata dei de Lussac; la sua vocazione manifesta è quella di libero avventuriero (“sono un soldato di ventura e null’altro, e come tale posso offrire la mia spada e il mio braccio a chi meglio mi piace”);16 ma la sua parabola contempla sempre approdi piú “borghesi” (e delusivi come può

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esserlo l’acquisita maturità alla fine di Pinocchio). Nel finale del Figlio del Corsaro Rosso, don Barrejo decide infatti, pur con qualche cruccio per lui davvero eccezionale,17 di non seguire i compagni in Europa, per accasarsi invece con l’ostessa Panchita. All’inizio degli Ultimi filibustieri lo ritroviamo dunque taverniere e marito: certo un oste poco affarista e molto incazzoso (prosciugatore della propria cantina, pronto a sbudellare i clienti piú che a servirli), e un marito in fuga dalle troppo placide gioie del matrimonio. Ma il suo ultimo proposito sarà pur sempre quello, ben inquadrato, di tornare ad aprire, con Mendoza e la moglie, un alberghetto a Panama. E la prospettata stabilità di affetti (e commerci) sancisce appunto, topicamente, l’esaurimento dell’interesse narrativo.18 Dimodoché, se pur a ragione si può dire che i personaggi di Salgari tendono a una fissità monovalente, nel caso di don Barrejo l’affermazione dovrà essere sfumata, perché la sua natura, tutta giocata com’è a cavallo di registri e connotazioni diverse, risulta intimamente imprevedibile e metamorfica. Egli è sempre un po’ anche qualcos’altro. E il suo ruolo non è stabilito una volta per tutte (come nel caso del Corsaro Nero), bensí muta, acquistando risalto e spessore man mano che la narrazione avanza (un po’ come accadrà a Testa di Pietra nel Ciclo dei Corsari delle Bermude).19 Tale ascesa era assai evidente nel Figlio del Corsaro Rosso, dove don Barrejo, alla sua prima apparizione (al quarto capitolo), era colto a ronfare e veniva lasciato in mutande e legato; salvo poi, però, nel seguito del romanzo, conquistarsi addirittura un ruolo di coprotagonista (basti pensare al suo eroismo a Nuova Granata, alla presa di Guayaquil progettata da pari a pari con i capi dei filibustieri, o anche al duello finale).20 Ma l’osservazione vale anche per gli Ultimi filibustieri dove, sebbene non ci sia piú nessun signore di Ventimiglia che possa fargli ombra, don Barrejo deve comunque conquistare il proscenio, e lo fa in virtú di un percorso leggibile anche come un larvato processo di formazione. In particolare, se nel primo capitolo, don Barrejo era oggetto delle benevole beffe di Mendoza e Buttafuoco, e poi in quelli immediatamente successivi era il filibustiere dai propositi piú sconsiderati e feroci (annegare il fiammingo Fifferoffih nel vino della botte piuttosto che farlo prigioniero, lasciare in pasto ai pescecani i nemici piuttosto che soccorrerli ecc.), che gli altri riconducevano a piú miti consigli, nel prosieguo, invece, il suo primato è indiscusso: è lui che conduce le imprese, che ha le trovate migliori e compie le azioni piú coraggiose; lui che affronta in duello cavalleresco il marchese. Marchese che, a sua volta, in prossimità del gran finale, si è andato facendo sempre piú terribile e crudele (come nel caso dell’uccisione del vecchio sergente guascone che aveva liberato don Barrejo), addirittura ammantandosi di un coraggio quasi demoniaco, quando, ormai solo nel mezzo dell’alluvione, sfida le archibugiate solitamente infallibili di Mendoza:

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(...) rimaneva ritto a prora, come se volesse sfidare il fuoco. Il suo vestito nero spiccava sinistramente sotto la gran pioggia dei raggi lunari. (...) pareva che assumesse, di momento in momento, (...) delle proporzioni gigantesche. – Quello non cadrà – disse [Mendoza]. – Il diavolo deve proteggerlo. Sparò tre colpi, provando tutti gli archibugi, ma l’uomo nero rimase immobile sulla prora della scialuppa. (...) Mendoza lasciò cadere l’ultimo archibugio, dicendo: – Solo il ferro potrà uccidere quell’uomo. Non oso piú far fuoco.21

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“Solo il ferro potrà uccidere quell’uomo”: è destino infatti che la lama di Toledo dei Montelimar s’incroci con la draghinassa dei de Lussac; ossia, che la glaciale alterigia della grande aristocrazia spagnola si scontri con l’ironica e popolareggiante fierezza di un nobiluzzo guascone. Ed è destino che don Barrejo, dopo aver dato prova di essere un valente spadaccino (potente e tecnico, capace di strategie di difesa e attesa, oltre che d’impeto), squarci infine il cuore del marchese con una stoccata magistrale. Viene cosí mantenuto il suo giuramento di vendetta (pronunciato alla fine del diciottesimo capitolo) e, d’altra parte, si compie cosí quanto lo stesso marchese, alla fine del Figlio del Corsaro Rosso, nel desistere dal combattimento col guascone, aveva prefigurato: “Può essere una partita rimandata”.22 Insomma, questo duello mortale, sapientemente preparato e rallentato, è il culmine drammatico del romanzo, in cui deflagrano piú tensioni narrative e si consacra definitivamente l’eroismo di don Barrejo. Segue poi un capitolo finale piú distensivo (il venticinquesimo, Il tesoro del Gran Cacico), in cui, per lo piú in forma di sommario, vengono sbrigate le ultime pendenze narrative; non senza però aprire, proprio nelle ultimissime battute, una finestrella – a dire il vero un po’ posticcia – su di un nuovo eventuale soggetto: la storia di due donne-corsaro, “Maria Read” e “Anna Bonay” (già menzionate nella General History della pirateria attribuita a Defoe, come Mary Read e Anne Bonny), di cui comunque Salgari non scrisse piú. ii. L’intreccio dunque, non abbandonando quasi mai don Barrejo (fanno eccezione i capitoli quarto e diciottesimo), si sviluppa in forma semplice e lineare; quasi elementare verrebbe da dire constatando la sostanziale uniformità di voce e prospettiva del discorso narrativo, nonché la mancanza di elaborazione del piano temporale (mancano analessi, prolessi o montaggi alternati di una qualche consistenza). Evidente poi l’iteratività dei moduli narrativi (sia nelle micro- che nelle macrostrutture), cosí come una certa artificiosa enfiagione del dialogato, appesantito in particolare da una meccanica riproposizione degli stessi spunti comici (è questo il caso ad esempio del cozzo, sfruttatissimo, tra l’orgoglio guascone di don Barrejo e quello basco di Mendoza).

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Anche da un punto di vista stilistico, d’altra parte, la prosa di Salgari si presenta come un oggetto assai poco rifinito. Il fraseggio, rapido e moderatamente articolato, presenta sí effetti di tensione sintattica che ben assecondano il ritmo del racconto, ma anche qualche sciatteria e ridondanza di troppo.23 La lingua, nel complesso pianamente comunicativa, è ora increspata verso una generica letterarietà (si osservino le costruzioni col gerundio assoluto; alcune enclisi pronominali tipo “narrasi”; o voci come “anelare”, “cagionare”, “empire”, “ispavento”, “lagrima”, “niuno”, “ove”, “seco”, “tosto” ecc.), ora, piú spesso, ravvivata con fraseologia e intensificazioni semantiche di registro familiare-espressivo (“fare un macello”, “ridurre a fettine”, “picchiare sodo”, “scoppiare dalle risate” ecc.). Ma i sintagmi sono prevedibili; il repertorio di immagini e metafore è per lo piú inerte, già lessicalizzato; e l’aggettivazione, sovrabbondante ed esornativa, risulta a basso tenore informativo (“incredibili fatiche”, “ciglioni tremendi”, “palme magnifiche”, e tutto è “formidabile”), volentieri inclinata verso l’epiteto piú ovvio (“la bella castigliana”, “il feroce guascone”, “il terribile marchese” ecc.). Detto con categorie saussuriane, la parole di Salgari sembra interamente acquietata nelle forme già attestate della langue. Significativo in tal senso che l’investimento stilistico maggiore sia tutto vocabolaristico: con la continua ricerca di accezioni idiomatiche e la piú puntuale immissione di vistosi esotismi. Da un lato, ecco quindi – giusta la rilevanza della componente ludico-farsesca – il ricorso, sia nel dialogato che nella diegesi, a usi figurati e iperbolici (“dormire come ghiri”, “correre come lupi affamati”, “sbuffare come foche”, “saldo come una rupe”, “muscoli d’acciaio” ecc.), che possono comunque presentare qualche scarto piú inventivo (“Chiacchierare come dieci scimmie rosse”; “rimpinzarsi come urubu”; “pesante come dieci gomene delle àncore di speranza di un tre ponti” ecc.), o risultare piú mirati e connotanti (si pensi alle esclamazioni di Mendoza: “Tuoni dei Pirenei”, “Fulmini del mar di Biscaglia”, “Ventre di foca” ecc.). Dall’altro, ecco invece i famosi forestierismi salgariani: qui principalmente voci ispaniche o ispanizzate (“caballero”, “caña”, “cañon”, “carramba”, “chimponas”, “coyote”, “lazo”, “mezcal”, “moscas de luz”, “palmito”, “tortilla”, “testudos midas” e “careta”, “toro de puña” ecc.). Parole e cose che, specie se davvero remote, sono quasi sempre chiosate nel discorso narrativo (il tuscan, “mago o stregone della tribú”; le parraneca, “bruttissime rane nere”; gli urubu, “falchi dell’America centrale”; gli a-j, le scimmie “piú poltrone che esista[no] al mondo”; gli jacaré, “alligatori (...) ferocissimi sauriani” ecc.), 24 talvolta però anche con effetti stranianti di familiarizzazione dell’esotico (come nel caso di “un mostruoso serpente d’acqua, che rassomigliava a uno di quei terribili sicuriu brasiliani colle scaglie tutte nere”),25 o di controcanto ironico (i coguari chiamati “gattacci”).

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iii. Come già si poteva intuire, però, la semplicità della struttura e la sostanziale inerzia stilistica sono qui compensate dalla ricchezza della materia e dal rigoglio dell’immaginazione. Le avventure, quasi per una sorta di horror vacui, si succedono con ritmo serrato, entro un continuo mutar di scenari (Panama, l’Oceano Pacifico, l’isola di Taroga, Segovia in fiamme, le boscaglie del Nicaragua, la foresta vergine, la sierra, le pianure sabbiose, le cateratte del Maddalena ecc.); e in un vorticoso accavallarsi dei pericoli, che giungono non solo dai nemici dichiarati, gli Spagnoli, o dalle tribú indigene (i tasarios “mangiatori di carne umana”), ma anche da ogni sorta d’animali (pesci martello, urubu, condor, serpenti, migale, pipistrelli vampiri, coccodrilli, orsi, coguari, ecc.), magari nel mezzo d’un cataclisma naturale (ad esempio, dopo il tornado, nell’isolotto-serraglio trascinato dal fiume in piena, la lotta con giaguari e jacaré). Con minacce che però, in questo loro parossistico moltiplicarsi, possono anche mutare di segno o elidersi a vicenda: cosí come si verifica al ventunesimo capitolo, dove un battaglione di serpenti a sonagli ferma i cannibali, che poi a loro volta ostacoleranno i soldati del marchese; o al capitolo sedicesimo, dove gli eroi, appollaiati in un nido di condor sulla cima di un pinon, sono al tempo stesso assaliti dai giganteschi volatili, braccati dagli Spagnoli e minacciati da quei furiosi tori de puña che diverranno poi loro inconsapevoli alleati: capaci di sbaragliare gli inseguitori e di fornire una groppa per l’atterraggio di don Barrejo (che, aggrappato agli artigli di un condor, stava precipitando). E tutto ciò, ravvivato da note che potremmo chiamare enciclopedico-avventurose: alacri ricognizioni del creato, che comunicano uno stupore ancor prima che un sapere; e che, lungi dall’inficiare la dimensione narrativa, le conferiscono la sua aura piú peculiare.26 Salgari infatti sa integrare l’estasi descrittiva nel discorso narrativo; qui, con un dosaggio particolarmente felice nelle pagine dedicate all’attraversamento della foresta tropicale, vista come natura feroce, gremita di insidie, ma anche come lussureggiante luogo dell’abbondanza che squaderna le sue meraviglie,27 e – quel che piú conta per gli eroi digiuni – offre maternamente i suoi frutti e la sua selvaggina: Si erano internati in un folto bosco di passiflore arrampicanti, (...) si gettarono sulle frutta di quei profumati vegetali, grossi come un piccolo popone, colla buccia giallastra, eccellenti se conditi con vino e zucchero (...). Di quando in quando, quasi sotto i loro piedi, si alzavano dei botauro (...) oppure dei curlam (...). Mendoza (…) seguiva cogli sguardi ardenti un branco di scoiattoli volanti che avrebbero potuto fornirgli una deliziosa colazione (...). – Un palo de vaca!... – aveva esclamato don Barrejo (...). Vibrò un terribile colpo, e dal tronco vide scaturire subito uno zampillo di liquido biancastro, che pareva non avesse nulla da invidiare al latte.28

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Non bisogna infatti dimenticare che questo è sí un romanzo di inseguimenti e duelli, ma anche – ancor piú di quanto di solito non avvenga in Salgari – di gargarozzo e stomaco.29 Qui, fami assolute si alternano a bevute e mangiate colossali; e gli eroi si aggirano, picarescamente, in un mondo concepito come organismo vorace e commestibile, dove si rischia continuamente di essere divorati e dove, d’altra parte, si mangia di tutto: persino uova di alligatore, scimmie a-j e quei tatú (armadilli) che hanno appena divorato una carogna, ma che De Gussac, già cuoco di carne umana per il Gran Cacico, sa comunque rendere appetitosi.30 Nutrita poi la carta dei vini (Aguardiente, Alicante, Madera, Malaga, Megeol, Metzcal e Xeres; ma non Borgogna e Medoc, rimpianti da Buttafuoco), e vario l’uso che se ne fa: all’occasione, alcool per festeggiare, distrarre le guardie, compiacere i frati, allentare le confidenze e stordire i prigionieri (poi trasportati nelle botti); alcool per incendiare Segovia Nuova. Alcool, forse, anche come surrogato di quell’eros che non può esser detto; questo se – come ci sembra lecito – cosí si interpretano due episodi della carriera galante di don Barrejo: 1) il suo giocare di seduzione con la serva mulatta Carmençita (bella e disponibile), che sfocia però non in una scappatella, come pure il testo pareva prefigurare, bensí in una bevuta alla taverna; 2) il suo corteggiare Panchita che, nato e risoltosi in osteria, sarà etilicamente smodato, ma appunto casto negli atti e nelle parole.31 Detto altrimenti: sí agli eccessi della gola (e della spada), ma nessuna concessione agli appetiti della carne. Salgari infatti, forse anche perché attento al suo pubblico piú giovane, bandisce ogni esplicito rinvio alla dimensione fisica dell’amore, ora incanalandola in oneste prospettive di matrimonio, ora, tutt’al piú, lasciandola nascostamente vibrare in qualche nota piú sensuale della ritrattistica.32 Solo che qui tale rimozione risulta particolarmente vistosa, perché siamo di fronte, non agli amori assoluti e sublimanti di Sandokan o del Corsaro Nero, bensí alla ben piú terragna umoralità di don Barrejo, il quale non vede l’ora di lasciare la pur appetitosa Panchita, per tornare a gettarsi nella mischia e sguainare la draghinassa che arrugginiva in cantina. Insomma, anche su questo versante, anche in questa bizzosa commistione di bisboccia e pudicizia, si può leggere la natura ibrida e ondivaga di un romanzo tutto giocato su tonalità eroicomiche, che fonde materia corsara e guasconeria, distanza epica e abbassamento prosaico, glossa erudita e trasfigurazione fantastica, per dare vita a una vivacissima rêverie, tropicale e domestica insieme, che potremmo considerare post-moderna ante litteram.

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Salgari, Emilio, Il Corsaro Nero, Donath, Genova 1898. Id., La Regina dei Caraibi, Donath, Genova 1901. Id., Jolanda la figlia del Corsaro Nero, Donath, Genova 1905. In precedenza, il romanzo appare a puntate in “Per Terra e per Mare”, 1904, 1, nn. 1-22. Entrambi pubblicati in volume dalla fiorentina Bemporad, nel 1908. Precedentemente, Il figlio del Corsaro Rosso esce in dispense allegate al settimanale “Il Giornalino della Domenica”, dal 16 dicembre 1906 al 29 dicembre 1907. Cfr. Marazzini, Claudio e Soletti, Elisabetta, Carte inedite di Salgari: “L’Enciclopedia del Corsaro”, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino s.d. [ma 1981], pp. 396-441. Cfr. Spagnol, Mario, Filologie salgariane, in Id., L’isola Non-trovata, Emme Edizioni, Milano 1982, p. 159: “Ogni elemento scenico del grande presepio salgariano è garantito da una fonte; gratuito e assurdo qualche volta sarà magari il loro assemblage”. Ma, per una piú ampia problematizzazione, si veda Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia, in Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 315-378. Semmai è la lezione di Manzoni narratore che potrà agire in Salgari: cfr. l’ampio movimento d’apertura dei Misteri della jungla nera (Donath, Genova 1895), che certo si rifà, per concezione e intenti stilistici, a quello dei Promessi Sposi. Cfr. Jacomuzzi, Stefano, Il furfante riabilitato: filibustieri senza macchia e senza paura, in Scrivere l’avventura cit. pp. 38-48. Per approfondimenti, cfr. Mancini, Marco, Viaggiare con le parole: l’esotismo linguistico in Salgari, in Il “caso Salgari”, Atti del Convegno (Napoli, 3-4 aprile 1995), CUEN, Napoli 1997, pp. 67-103. Cfr. la voce Esotismo in Ceserani, Remo, Domenichelli, Mario e Fasano, Pino (a cura di), Dizionario dei temi letterari, 3 voll., UTET, Torino 2007, pp. 751-753. Se Palermo ha parlato di romanzo “di serie B”, costruito su fondali “già consumati in precedenti avventure” e gravato da “elefantiasi dialogica”, Tamburini e la Lawson Lucas hanno invece decisamente apprezzato l’umorismo e l’umanità degli Ultimi filibustieri; la seconda addirittura sostenendo che qui la caratterizzazione comica di Salgari raggiunge “la piena maturità e l’espressione piú completa” (cfr. rispettivamente Palermo, Antonio, La giungla e il mare, in Id., La critica e l’avventura. Serra, Salgari, il primo Novecento, Guida, Napoli 1981, p. 60; Tamburini, Luciano, Una lama e un’orchidea, in Salgari, Emilio, Il figlio del Corsaro Rosso, Viglongo, Torino 1993, pp. LXIII-LXIV; Lawson Lucas, Ann, La ricerca dell’ignoto. I romanzi d’avventura di Salgari, Olschki, Firenze 2000, pp. 22 e 77). Apprendiamo infatti che “[l]a filibusteria (…) si spengeva lentamente”: nel golfo del Messico “era morta”; mentre nell’Oceano Pacifico i duecentottantacinque filibustieri rimasti “altro non chiedevano che andarsene a loro volta a disperdersi”.

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Citiamo da Salgari, Emilio, Gli ultimi filibustieri, Fabbri, Milano 2002, pp. 60, 81 e 87. D’ora in avanti si farà riferimento a quest’edizione. Lo ha mostrato con precisi riscontri Tamburini, Una lama e un’orchidea cit., pp. LXII-LXVI. Questo fondo di giocosità infantile, che sempre anima l’epica salgariana, trova poi una curiosa manifestazione nei divertiti allestimenti domestici che Alberto Della Valle ideava e fotografava, a mo’ di cartoni preparatori per le proprie illustrazioni (cfr. Pallottino, Paola, L’occhio della tigre. Alberto Della Valle fotografo e illustratore salgariano, Sellerio, Palermo 1994). Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 120. Id., Il figlio del Corsaro Rosso, Fabbri, Milano 2002, p. 58. D’ora in avanti si citerà da questa edizione. Cfr. ivi, p. 305: “pareva avesse perduto il suo buon umore”. Come sembra suggerire anche Tolstoj nel sentenzioso incipit di Anna Karenina (“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”), la serenità ha poca storia. Non per nulla il matrimonio felice (l’“E vissero felici e contenti”) è un topos conclusivo. Questo vale anche per Salgari, dove però il matrimonio è sí uno scioglimento frequente, ma dalla euforicità intimamente indebolita: incrinata ora, come nel caso di don Barrejo, da una gestione comico-prosaica; ora, da un trattamento eccessivamente sbrigativo del tema, volentieri – e sintomaticamente – associato a eventi luttuosi (si pensi a come Honorata e Marianna, una volta sposate, vengano prontamente fatte morire). Cfr. Foni, Fabrizio e Gallo, Claudio, I nuovi corsari del ciclo delle Bermude: la rivincita (non solo morale) dei caratteri secondari, in Galli Mastrodonato, Paola, (a cura di), Il tesoro di Emilio. Omaggio a Salgari, Bacchilega, Imola 2008, pp. 109-112. Emblematica la scenetta seguente che, metanarrativamente, ci dice come Enrico di Ventimiglia debba quasi difendere il proprio spazio dalla pur generosa esuberanza di Don Barrejo: “Stava per spingersi in alto, quando un uomo gli si gettò dinanzi, dicendogli: ‘Lasciate che vi faccia scudo, signor conte’. Era il guascone. ‘Grazie! (...) Ma il primo devo essere io. Voi passerete dopo di me’” (Salgari, Il figlio del Corsaro Rosso cit., p. 224). Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 223. Id., Il figlio del Corsaro Rosso cit., p. 301. Solo un esempio: “Una densa nebbia fu loro propizia, in quanto che poterono scendere inosservati, però quella nebbia nel medesimo tempo toglieva loro la vista dei trinceramenti” (Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 105). Da notare però l’attenzione al colore locale, per cui se qui gli alligatori si presentano come jacaré, nelle Figlie dei Faraoni (Donath, Genova 1906) erano invece souq o temsah. Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 135. Cfr. Mari, Michele, Un mondo dove tutto è fiero, in Salgari, Emilio, Le Tigri di Mompracem, Einaudi, Torino 2003, p. V: “A differenza di quanto avviene in Verne, che non perdendo mai di vista l’obiettivo pedagogico si rifiuta categoricamente di contaminare il piano scientifico e quello avventuroso,

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in Salgari la digressione (…) non è mai giustapposta alla narrazione vera e propria”. A titolo esemplificativo: “Delle palme magnifiche sorgevano dinanzi a loro (...). Sulle cime cadevano elegantemente delle immense foglie dentellate, che portavano una spola d’un bel violetto iridescente, listata di porpora, e fiocchi di frutta che sembravano mele verdi. Ai piedi crescevano (...) delle trigidie, che spiegavano al sole i loro fiori in forma di coppa, chiazzati ed occhialuti come il pelame del giaguaro o le penne d’un pavone” (Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 133). Ivi, pp. 132-133. “Sappiamo che Salgari, scorrendo le pagine di De Amicis, vi trovava troppo sentimentalume. Certo è che, fra cuore e stomaco, Salgari mirava allo stomaco, esattamente il contrario dell’altro. Anche perché, come ha rilevato con finezza Luciano Tamburini in una analisi delle pagine di Cuore, mentre i buoni sentimenti potevano svolgere una funzione sociale unificante, la presenza del cibo, ben diversamente distribuito tra i muratorini e gli enrichi della classe del maestro Perboni, avrebbe prodotto soltanto lacerazioni imbarazzanti” (cfr. Leonardi, Ruggero, Nella giungla di Salgari, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo s.d. [ma 1992], p. 43). Quelle lacerazioni che invece Salgari può qui

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sottolineare: si consideri il contrasto tra l’ottimo pasto del marchese, “un coniglio selvatico, splendidamente arrosolato”, e il poco invitante intruglio dei soldati, una “olla podrida composta di chissà quali vegetali o radici raccolte nella foresta” (Salgari, Gli ultimi filibustieri cit., p. 160). Cfr. ivi, pp. 184-186. Cfr. rispettivamente il cap. VI degli Ultimi filibustieri e i capp. XXIV e XXVI del Figlio del Corsaro Rosso. Valga qui la testimonianza di Vigolo, che ricorda il suo turbamento d’adolescente per l’eros, “indistinto ma inebriante”, “niente affatto sensuale, ma tendente a sublimazioni di ideale esaltazione”, delle eroine salgariane. Si cita da Vigolo, Giorgio, Le ispirazioni poetiche dell’adolescenza, in Gallo, Claudio (a cura di), Viva Salgari! Testimonianze e memorie raccolte da Giuseppe Turcato, prefazione di Agostino Contò, Aliberti, Reggio Emilia 2005, pp. 189-190. Ma si veda anche Gioanola, Elio, La Tigre della Malesia: aggressività e follia nel personaggio salgariano, in Scrivere l’avventura… cit. pp. 267-268, dove si sostiene che la donna, in Salgari, è a priori esclusa da ogni concreta “mira genitale”, avendo soprattutto una funzione di “appoggio narcisistico” o di “oggetto di culto, preziosissimo e intoccabile”.

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Il romanzo, secondo volume del Ciclo del Far West, è uscito nel 1909,1 subito dopo Sulle frontiere del Far-West.2 Salgari ha inaugurato un nuovo filone, diversamente esotico, che, tra l’altro, gli ha permesso di innovare il proprio repertorio.3 In questa seconda puntata lo scrittore mette al centro del racconto un episodio storico preciso, risalente al 1876. In quell’anno il governo americano incalzava gli Sioux perché abbandonassero i loro territori, e questi avevano risposto con una rivolta, capitanata da Sitting Bull (Toro Seduto) e Crazy Horse (Cavallo Pazzo, personaggio assente nel romanzo), che a Little Bighorn distrussero la colonna militare guidata dal generale Custer. L’epilogo è ben noto, e il pubblico popolare di Salgari non si emoziona certo per l’infelice sorte del generale e delle sue truppe. Il perturbante, che scatena quel senso di incertezza e di paura necessario al successo di un racconto d’avventura ben fatto, pesca infatti, piuttosto che nella storia, nelle inesauribili riserve dell’inconscio collettivo, come ben sapeva uno dei primi teorici del fantastico popolare, Howard Phillips Lovecraft.4 Infatti, non sono i pellirosse a terrorizzare il manipolo dei “bianchi”, ma Minnehaha, una donna indiana dalle lunghe trecce e dal candido mantello, con un inquietante tomahawk in mano, in sella a uno scalpitante cavallo: è lei l’incubo di un pugno d’eroi incalliti, che affrontano avventure davvero terrificanti pur di scampare dalle mani della fanciulla. Se fino ad ora Salgari aveva cercato di tradurre in psicologie semplificate i sentimenti elementari dell’onore, dell’amicizia, dell’amore, ora sembra voler toccare altre corde dell’emotività popolare. La Scotennatrice, infatti, non racconta, come nei cicli orientali, storie d’amore, né di rapporti complessi tra personaggi capaci poco a poco di svelare la reale consistenza dei loro legami reciproci, ma scova qualcosa di nuovo per scuotere i sentimenti del lettore. La protagonista cui allude il titolo, la scotennatrice, è la stessa Minnehaha, che nel volume precedente era una bambina; ora, cresciuta, vuole vendicare la morte della madre Yalla, uccisa e scalpata da John Maxim, integerrimo e coraggioso indian agent, che pare proprio non voler nascondere il suo razzismo: “Voi sapete la repulsione istintiva che proviamo tutti noi uomini bianchi per la razza rossa”.5 È lui che guida un piccolo gruppo d’uomini: i fratelli Harry e Giorgio, scorridori della prateria, alti, robusti e sempre abbronzati; lord James Wylmore, nobile inglese venuto in America per dar la caccia ai bisonti, vivo grazie alla

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fortuna che assiste gli incoscienti; Bud Turner, amico di Buffalo Bill; Sandy-Hook, alias Mocassino Rosso o Mocassino Sanguinoso,6 un pezzo d’uomo, bianco seppur tinto di rosso, amico dei pellirosse, che finisce per tradire. Il milord inglese è un personaggio comico, che cacciando i bisonti pensa di guarire dalla malattia letteraria del secolo appena trascorso, lo spleen, e non sa nulla degli esotici abitatori d’America; vuole imitare lord Byron, che è guarito dopo aver ucciso quei “cani di turchi (…) con fez rosso guerreggianti contro bravi greci”.7 Il suo razzismo è dunque up to date: prototipo del colonialista da tavolino, è un personaggio comico che serve a Salgari per alternare, alla suspense di alcuni episodi, pagine che muovano al sorriso e che, oltretutto, traghettino il lettore dalla lontananza del Far West alla vicinanza di un incontro sotto casa: Una partita di boxe nella prateria, come titola il sesto capitolo, è infatti assai piú verosimile in un’ambientazione urbana. Niente di ciò che è narrato nel romanzo, del resto, rimanda alla realtà lí descritta, nonostante la documentata mappatura della geografia del territorio, ricostruita grazie al Tour on the Prairies di Washington Irving;8 praticamente nullo è anche lo sforzo di una realistica ricostruzione storico-ambientale, sebbene le informazioni per gli scenari derivino dalle Aventures d’un gamin de Paris au pays des bisons di Louis Boussenard;9 assai poco chiaroscurata è la figura di Minnehaha, che lo scrittore veronese trae dalla Song of Hiawatha, lungo poema epico indiano di Henry Wadsworth Longfellow. 10 Forse il testo salgariano è piú vicino a ciò che sta esibendo nelle sue tournée Buffalo Bill (William Frederick Cody), il cacciatore di bisonti per antonomasia, che, dopo quello del Barnum, aveva calpestato la polvere di un altro palcoscenico, presentando uno show tutto suo.11 La fictio è, ovviamente, a uso turistico. Eppure su questo fondale di carta si agitano paure reali, che il lettore coglie benissimo, anche se non le porta alla coscienza. La piú evidente è la paura della donna, della cavallerizza Minnehaha che insegue l’uccisore della madre per infliggergli la stessa pena, l’asporto dello scalpo. La metafora è abbastanza trasparente e credo non valga neppure la pena di analizzarla. Tutto il periodo tra i due secoli ci consegna un immaginario femminino da Gorgone, la cui bocca vorace e i cui capelli ricci come serpi non hanno bisogno di esplicazioni successive. D’Annunzio, per restare in area italiana, l’aveva chiamata, per molte ragioni, “Nemica”, e anche Svevo, in Senilità, esibisce ritratti pennellati con un misoginismo spiegabile anche alla luce delle battaglie femministe di fine secolo. Carolina Invernizio ha addirittura fondato la sua fortuna sulla lotta tra donna angelo, tradizionale custode della casa e dei suoi miti, e la donna diabolica, fascinosa e perversa, carnefice di un uomo vittima della sua forza erotica. Quando Salgari scrive La Scotennatrice, Sibilla Aleramo ha già pubblicato Una donna, e dunque la battaglia per l’emancipazione femminile da ruoli tradizionali ha già le sue prime eroine. Anche Minnehaha

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potrebbe diventarlo, visto che vuole vendicarsi del torto subito dalla madre, esprimendo cosí un bisogno di compensazione generazionale; solo dopo la vendetta, infatti, Yalla potrà entrare nelle praterie celesti del grande Manitou. È questo pericolo incombente che agita i quattro uomini (ma non milord, che pensa sempre ai bisonti), consapevoli, evidentemente, d’essere in colpa, e per questo timorosi per l’integrità dei loro scalpi. Non per nulla ella ha lasciato un chiaro segno delle sue intenzioni, disegnando col sangue, sul petto delle vittime, l’Uccello della Notte, allusione alla morte del fratello, ucciso da una fucilata nella gola del Funerale, durante la prima insurrezione delle cinque nazioni indiane.12 Il giovane era il figlio indiano del colonnello Devandel, presente in quella battaglia. L’uomo, abbandonata la prima moglie, ha sposato una ricca messicana, con la quale ha avuto altri due figli, Mary e Giorgio; proprio quest’ultimo, arruolatosi al seguito del generale Custer, è prigioniero nel campo Sioux.13 Passioni elementari non danno tregua al lettore, che però, questa volta, è piú subdolamente, ed efficacemente, coinvolto in una serie di avventure capaci di risvegliare in lui incubi ben piú immediati e reali che il risveglio della donna. Era stato Edgar Allan Poe ad aver magistralmente descritto ed enfatizzato le fobie della modernità. Salgari sembra ispirarsi proprio alle paure collettive scatenate dalla crescita della città, con la scoperta dell’angustia dei suoi spazi, e con il timore che la natura, violentata dall’uomo, possa vendicarsi: la sensazione claustrofobica (The Pit and the Pendulum), l’incubo di essere sepolti vivi (The Premature Burial), il terrore degli elementi scatenati da forze naturali incontrollabili (A Descent into the Maelström) avevano fatto sí che quelli di Poe venissero chiamati “racconti del terrore”; viceversa, nessuna paura per le bestie selvagge, nel caso specifico gli orsi (Hop-Frog), che si incontrano addomesticati piú negli zoo.14 La rivoluzione industriale e la crescita delle metropoli avevano contribuito a modificare non solo il paesaggio, ma anche la consapevolezza del proprio rapporto di forza con il mondo animale: ma nuove ossessioni sono a disposizione del lettore salgariano, che compie un viaggio iniziatico verso un immaginario ignoto eppur familiare per quanto riguarda le situazioni vissute. Infatti l’autore può scrivere i suoi racconti senza muoversi da casa, sfruttando abilmente i nuovi terrori metropolitani, ormai ben sedimentati nella tradizione letteraria. Con l’avanzarsi della civiltà industriale, infatti, le nuove tecniche di produzione predisposte dal mercato culturale finiscono per annullare il valore dell’esperienza diretta, unica, a favore di una ripetitività tanto piú efficace quanto piú diffusa. Non è l’ignoto che nei testi popolari attrae, ma il noto, seppur mascherato. Salgari descrive la sterminata prateria americana come se fosse un territorio labirintico ma ben circoscritto, un parco sotto casa, al punto che i suoi personaggi, per quanto cambino percorso, non temono mai di perdersi. Ogni avvallamento, ogni cocuzzolo, ogni passo è impresso nella mente degli scorridori che prevedono al minuto la durata di ogni

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percorso. Dunque non la vastità del territorio spaventa i nostri eroi, ma altro: la forza distruttiva del fuoco che, seppur appiccato in una pianura immensa, è avvertito nel romanzo come se avvenisse in uno spazio assai ridotto, da cui non si può fuggire. La paura di essere sepolti vivi viene percepita nella miniera abbandonata, luogo in cui la forza distruttiva dell’uomo deve venir punita dall’imprevedibilità delle reazioni della natura; qui i quattro amici sono presi dal terrore dei topi, che sciamano, e che sono ben noti agli abitanti di città, abituati a vederli uscire da un altro sottosuolo, quello delle fogne. Sono, ovviamente, molto piú temuti del gigantesco grizzly, l’orso, che in città si vede allo zoo o riprodotto sui libri, e che dunque non spaventa tanto è lontano dal nostro orizzonte. Infatti, in questo romanzo, è creatura addirittura salvifica, che aiuta il gruppo ad allontanare gl’indiani inseguitori: sta, involontariamente, a guardia della sua tana, la stessa dove si sono rifugiati gli inseguiti e viene sacrificato. Anche il coyote, di cui Salgari parla, è avvertito come presenza lontana, mentre vengono descritti con piú precisione i grilli che “cant[ano] e fischi[ano], essendovene in America anche di quelli che zufolano come le vaporiere”.15 Poe aveva creato Dupin, il primo detective, personaggio che poi sarà replicato con tutte le varianti possibili dai giallisti di tutto il mondo, e che gode ancora di grande popolarità: è, insieme al delinquente, alla prostituta, al flâneur, uno dei personaggi tipici dei romanzi di città. Ebbene, Sandy-Hook, l’astuto falso pellirossa ricopre questo ruolo: è un infiltrato che sta dalla parte dei giusti, in questo caso dei bianchi, che salva col piglio di un consumato sceriffo, anticipando in qualche modo i tratti comportamentali dell’eroe tipico dell’epopea western futura, dal passato forse un po’ torbido, ma redento nel presente e dal futuro limpido. La Scotennatrice, tuttavia, non appartiene al genere inaugurato da James Fenimore Cooper. Lo scrittore statunitense aveva saputo creare infatti nei suoi romanzi la suggestione della mitica wilderness, spazio non tanto fisico quanto mentale, dove sfidare gli altri e se stessi per rilasciare, nella storia, la propria prova di valore. Ma l’universo leggendario indiano, nel 1909, non è piú quello di The Last of the Mohicans, bensí la sua riduzione e banalizzazione, a uso turistico, offerto da Buffalo Bill nel suo Wild West and Congress of Rough Riders of the World. La wilderness è diventata repertorio popolare attraverso le riduzioni progressive operate da illustrazioni e racconti di riviste a basso costo (le dime novel negli Stati Uniti e i penny dreadful nel Regno Unito). Nel 1902 è stato Owen Wister, con The Virginian, a inaugurare il canone di un’epopea western cui arriderà il successo soprattutto al cinema. La Scotennatrice salgariana, nonostante l’ambientazione e la lunga sequela di crimini, inseguimenti e sfide, esula tuttavia dalla struttura narrativa di quel genere: non c’è una vittoria dell’eroe che sottrae il suo spazio al nemico, o che mostra la natura superiore del suo valore; non c’è una sfida tra due culture, ma la conferma che la trasformazione della

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natura selvaggia in una diversa, ordinata e protetta condizione civile è già definitivamente, e irreversibilmente, avvenuta. Sandy-Hook non disprezza, come lord Wylmore, i pellirosse, ma certo non è uno di loro e dunque, appena comprende la forza della volontà di vendetta degli indiani nei confronti dei bianchi conquistatori, tradirà la loro amicizia, senza subire alcuna conseguenza morale. Del resto il senso antico dell’onore, tipico di una mentalità arcaico-contadina, sta svaporando in un’Italia intenta a gettare le basi per trasformarsi in una potenza industriale: la FIAT comincia a motorizzare il paese, la rete ferroviaria si trova decuplicata rispetto a com’era dopo l’Unità, le guide Touring nel 1907 raggiungono un milione e trecentomila copie, le gare ciclistiche infiammano le tifoserie, dopo Adua le campagne coloniali si scatenano, e si moltiplicano le iniziative di studi cartografici per fare cicloturismo in Africa e in Asia, come propone il veneto Luigi Masetti. Salgari è inserito in un’industria culturale che lo obbliga a gareggiare con altri strumenti d’evasione, tanto da obbligarlo a richiamare l’attenzione dei suoi lettori, e potenziali turisti viaggiatori, consumatori di guide e Baedeker. Ricorda che i suoi sono racconti ben concatenati tra loro: “Minnehaha non era piú la piccola monella che i lettori di Sulle frontiere del Far-West hanno conosciuta e che pure, fino da allora, aveva dato tanto da fare agli scorridori di prateria del disgraziato colonnello Devandel”.16 Ha bisogno della cornice esotica, ma tiene i piedi ben piantati in patria, cercando cosí di far viaggiare il proprio lettore verso qualche meta sconosciuta, dove, al di là di qualche stranezza antropologica e geografica, possa confrontarsi con le paure e gli incubi della sua quotidianità. Ci sono personaggi veri, quali Bud Turner, Man Killer of America (“Campione… degli uccisori d’uomini”),17 compagno d’avventure di Buffalo Bill, quando ancora cacciava uomini e bisonti. La sua storia viene raccontata secondo il cliché del racconto popolare: cercatore d’oro, diventa killer prima per difendersi, poi sottosceriffo a Gold-City, carica offerta in cambio di numerose prove di valore.18 Insomma un self made man, privo del buonismo esibito da Samuel Smiles nel suo già celebre e fortunato Self-Help. La figura storica di Bud Turner si confonde con la tipologia letteraria dell’eroe del West, ma il racconto interessa non in quanto vero, bensí in quanto fictio. Ma come si presenta la natura di un Far West dichiarato selvaggio? “Gli alti fusti degli asfodeli e le racchette armate di spine emergevano gradatamente dall’ombra. / Le tenebre lottavano tenacemente fra le erbe contro la luce che scendeva attraverso le mille vie del cielo e cedevano poco a poco, dileguandosi silenziosamente”.19 Si insinuano dunque atmosfere tipicamente, e letterariamente, decadenti: gli asfodeli sono i fiori dannunziani per eccellenza, trionfano in Alcyone, poema in cui si fronteggiano varie cosmogonie classiche: luci e ombre rimandano a una dimensione esistenzialisticamente complessa. Eppure lo spleen, che Baudelaire aveva elevato a spirito dell’epoca moderna, viene ridicolizzato insieme all’altra situazione

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decadente, la malattia: “Io essere qui venuto per uccidere i bisonti e li ucciderò. Io essere molto malato di spleen, come lord Byron”,20 sillaba continuamente il rimbambito milord. Né viene tralasciato qualche ricordo omerico, come quando Turner suggerisce all’indian agent e ai due fratelli di uccidere i bisonti piú grossi, nascondersi nelle loro viscere e aspettare che il fuoco, appiccato dagli indiani per stanarli, passi sopra di loro: non solo potranno salvarsi protetti dall’involucro di carne, ma anche ritrovarla arrostita a puntino, riserva di cibo per parecchi giorni. Un inedito cavallo di Troia, dunque, salva il quartetto da morte certa. Accanto a un’epica classica non mancano accenni a una moderna, naturalmente legata alle vicende che facevano notizia, come fallimenti o crolli finanziari. Ancora viva nella memoria collettiva doveva essere lo scandalo della Banca Romana. Cosí SandyHook, dopo aver pestato e ripulito l’inglese, raccoglie anche un suo libretto d’assegni: “Se per ora questi foglietti non hanno valore – disse – potranno averne un giorno. L’American Bank è solida”.21 E ancora: “Per loro il tempo non è moneta. Non sono yankees”.22 Lord Wylmore prigioniero di Minnehaha, a sua volta, non si mostra preoccupato del suo scalpo, ma scandalizzato che la giovane indiana non conosca la grande Inghilterra: “Ma dovevano saperlo perfino i negri dell’Africa centrale, i cannibali del Congo, i fuegini della Terra del Fuoco, i tobas del Gran Chaco dell’America del Sud, gli esquimesi ed anche gli orsi grigi”.23 L’attacco all’Impero inglese passa attraverso l’arma infallibile, e politicamente corretta dell’ironia. Oltretutto, in questo testo, il ridicolo personaggio è l’unico a non saper colloquiare con gli indiani, tanto da far sorridere addirittura Minnehaha, alla quale milord sussurra: “Io non conoscere voi. Essere probabilmente anche voi poco di buono. Tutti birbanti nella prateria”.24 Salgari squaderna tutta una serie di luoghi comuni che avvicinano un’avventura straordinaria al quotidiano, quasi il narratore fosse un padre che biasima figli e lettori schizzinosi: lo schifo per la carne cruda, allorché, in fuga e dunque impossibilitati ad alimentare fuochi che li segnalerebbero al nemico, devono cibarsi della carne cruda del grizzly: “Signor schizzinoso, vada a farselo arrostire al campo di Minnehaha, se non le garba. Giú le casse e andiamo a fare le nostre provviste finché gli sioux ci lasciano un momento tranquilli. Saranno due giorni di cibo guadagnati”.25 Anche di fronte al pericolo di restare chiusi nella miniera, l’osservazione pertiene all’immaginario di un pubblico che ama racconti fiabeschi, piú di altri storicamente documentati: “Se fosse una donna istruita direi che ha letto la storia degli antichi egiziani. Anche quelli usavano seppellire vivi i loro nemici entro le loro gigantesche piramidi”.26 Ma nonostante il pericolo “il buonumore non f[a] difetto a quei quattro diavoli, quantunque la loro situazione non accenn[i] ancora a migliorare, anzi!”.27 Il lieto fine è annunciato. Quando Sandy-Hook e lord Wylmore sono catturati dalle avanguardie di Custer, sul cui destino il narratore si pronuncia immediatamen-

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te, il dialogo tra il finto indiano e il generale mostra tutta l’abilità del narratore a ribaltare la situazione: Minnehaha, sulla cui capigliatura grava una taglia di cinquemila dollari, diviene a sua volta la ricercata, mentre Sandy-Hook, amico per gli indiani, è ritenuto invece un furfante dai suoi. Ma poi, fidandosi di questo bandito che assale i treni, Custer concede una scorta per liberare i suoi amici sepolti nella miniera, promettendo, in cambio, di fargli ottenere la grazia dal Presidente dell’Unione. Deve però riuscire a liberare anche Giorgio Devandel, prigioniero di Sitting Bull. Ma a cosa mira questo furfante che è disposto a rischiare la vita per ottenere la grazia? Il sogno ovviamente piú comune che si possa avere, almeno per il lettore italiano, il rientro al nido e al calore materno: “Poter rivedere le verdeggianti colline del Maryland, rivedere il cimitero dove mio padre e mia madre riposano ed i cui spiriti hanno pregato per me… che sogno!”.28 Poco importa che qualche pagina dopo Salgari si pentirà, e dirà che la mamma di Sandy-Hook è ancora viva:29 sono i miracoli dell’appendice! Poi, poco prima della fine, in posizione simmetrica a quella della biografia di Bud Turner, che si poneva poco dopo l’inizio, ecco la storia di Toro Seduto, qui menzionato in italiano come traduzione di “Tatanca Jotanca”,30 da ragazzo rivale di Buffalo Bill, il famoso colonnello Cody, ricordato dall’indiano come imbattibile nella caccia ai bisonti. Salgari qui sembra concedere l’onore delle armi al pellirossa, che aveva affrontato ben ventitré combattimenti, e rifiutato i “trenta milioni di lire” (sic!),31 offerti dal governo di Washington per deporre le armi e cedere i territori Sioux. Il capo supremo delle orde è visto con grande rispetto, cosí come con rispetto il grande capo indiano considera i nemici valorosi. Mocassino Sanguinoso ingannerà Toro Seduto, proponendo di scambiare Giorgio Devandel, il figlio del colonnello scotennato da Yalla, con tre indiani prigionieri. Ma prima di scatenare la battaglia fatale in cui Custer viene sconfitto, Salgari rassicura il lettore, con parole pronunciate da Sitting Bull in persona: “Se è scritto sul libro del destino che la nostra razza debba scomparire da questo gran paese che apparteneva ai nostri padri, il fato si compia, ma l’ultimo indiano morrà colla scure di guerra in pugno e il winchester pronto a bruciare la sua ultima cartuccia”.32 Il lettore sa bene che nel giro di pochi anni, gl’indiani vennero definitivamente sconfitti, chiusi in riserve e resi inoffensivi. Quasi per giustificare il massacro di Little Bighorn, il narratore ricorda il massacro di uomini, donne e bambini Cheyenne e Apache – in realtà Cheyenne e Arapaho – a Sand Creek (“Ruscello delle Sabbie”).33 Dunque quella spaventosa sconfitta dei visi pallidi è vista un po’ quale espiazione di colpe ben piú pesanti da un Salgari che fa assistere alla battaglia i suoi eroi dall’alto di una collina, come se fossero, tranquilli, intenti a registrare la scena dietro a una indifferente macchina da presa. A un certo punto deve chiudere la storia di Minnehaha che, con Nube Rossa, guida intanto la riscossa dei pellirosse. È chiaro che ormai è la meta della ragazza, piú che l’esito della bat-

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taglia, a interessare il lettore, intrattenuto con la descrizione accurata del modo superbo in cui gli indiani cavalcano, meglio degli “allievi delle vecchie corse di scuola europea”.34 Data quest’informazione educativa, Salgari racconta la battaglia, dipinta in ogni particolare agghiacciante, compresa la scena finale che vede Sitting Bull spaccare il torace di Custer e levargli il cuore. Il commento è degno di un antropologo: “lo divorò coll’avidità d’un antropofago, fra le urla entusiastiche dei suoi quattromila guerrieri”.35 Rammentata cosí la crudeltà degli Sioux, e la loro irrimediabile diversità, ci si può avviare al finale, che vede John Maxim, colpevole di aver scotennato Yalla, subire la stessa sorte. Poteva andare peggio e, date le premesse, la vendetta di Minnehaha è stata, in sostanza, ragionevole, anche perché il forte indian agent è sopravvissuto e, con una parrucca, potrà fare ancora una discreta figura. I lettori si tranquillizzino, basta non far torto a nessuno, e nessuna seria minaccia potrà turbare il pacifico andamento di una vita in cui il rispetto reciproco deve essere garantito. Certo, è Minnehaha adesso a dover tremare, perché i quattro uomini, giunti in luogo sicuro, hanno giurato di unirsi per vendicare il torto subito da uno dei compagni. Solo lord Wylmore pensa ancora e solo ai suoi bisonti, per sfuggire a uno spleen davvero recidivo. 55

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Salgari, Emilio, La Scotennatrice, Bemporad, Firenze 1909. Nel presente intervento, le citazioni dal romanzo si riferiscono all’edizione Fabbri, Milano 2005. Id., Sulle frontiere del Far-West, Bemporad, Firenze 1908. Prima del ciclo, compatto e strutturato secondo i criteri della serialità, già presentano però un’ambientazione western singoli romanzi quali Il re della prateria (Bemporad, Firenze 1896), Avventure fra le Pelli-Rosse (Paravia, Torino 1900, con pseud. Guido Landucci), I minatori dell’Alaska (Donath, Genova 1900) e La sovrana del Campo d’Oro (Donath, Genova 1905, e precedentemente in “Per Terra e per Mare”, 1904, 1, nn. 22-41, come inserto). Cfr. Lovecraft, Howard Phillips, Supernatural Horror in Literature, Ben Abramson, New York 1945 (trad. it. L’orrore soprannaturale in letteratura, a cura di Malcolm Skey, Theoria, Roma-Napoli 1992). Questo saggio venne richiesto a Lovecraft dall’amico William Paul Cook, nel 1925, per la

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rivista amatoriale “The Recluse”, da lui diretta (vi apparve nel 1927). Il testo fu in seguito ampliato e revisionato, e ripubblicato solo dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1937. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 41. Il nome richiama il protagonista eponimo de Il Mocassino Sanguinoso, che Salgari aveva precedentemente pubblicato a puntate su “Psiche. Letture Moderne Illustrate”, nel 1905 (nn. 4, 8, 12, 14), firmandosi Guido Altieri. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 9. Irving, Washington, A Tour on the Prairies, Carey, Lea & Blanchard, Philadelphia 1835 (trad. it. Viaggio per le praterie occidentali degli Stati Uniti, 2 voll., Tipografia e libreria Pirotta e C., Milano 1837). Originariamente il romanzo compare sul “Journal des Voyages et des Aventures de Terre et de Mer”, dal n. 442 del 1885 (27 dicembre) al n. 458 del 1886 (18 aprile). In traduzione italiana, sul “Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare”, dal n. 574 del 1889 (29 agosto)

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al n. 503 del 1890 (20 marzo), con il titolo Avventure di un birichino di Parigi nel paese dei bisonti. Longfellow, Henry Wadsworth, The Song of Hiawatha, Ticknor and Fields, Boston 1855 (trad. it. Il poema dei Pellirosse, Sandron, Milano-Palermo 1920). Molto probabilmente, Salgari aveva letto il componimento di Longfellow (che, tra l’altro, aveva soggiornato a Verona) in lingua originale: presso la Biblioteca Civica del capoluogo scaligero, ad esempio, è reperibile nel Fondo Luigi Messedaglia un volume che raccoglie The Poetical Works dell’autore statunitense (George Routledge & Sons, London 1867), di cui The Song of Hiawatha occupa le pp. 228-290. D’altronde, Salgari ebbe modo di assistere personalmente, in veste di cronista dell’“Arena”, a uno degli spettacoli di Buffalo Bill, la cui compagnia fece tappa nella città scaligera nel 1890, per due rappresentazioni (15 e 16 aprile). In proposito cfr. Salgari, Emilio, Arriva Buffalo Bill!, nota introduttiva di Claudio Gallo, commento di Sergio Bonelli, Perosini, Zevio (Verona) 1993. Cfr. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 12. Cfr. ivi, pp. 40-44. Non si dimentichi l’incubo del contagio, piú facile in spazi ristretti (The Masque of the Red Death), o le morti apparenti di eroine rese esanimi per la mancanza d’aria in luoghi chiusi ecc. Cfr. inoltre

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Fioraso, Roberto, Salgari e Poe, in Cagliero, Roberto (a cura di), Fantastico Poe, Ombre Corte, Verona 2004, pp. 177-187 (intervento già in parte sviluppato da Fioraso in Poe e Salgari tra botole e gorghi marini, in “Bollettino della Biblioteca Civica di Verona”, Autunno 1997, n. 3, pp. 159-164). Salgari, La Scotennatrice cit., p. 14. Ivi, p. 57. Ivi, p. 20. Cfr. ibid. Ivi, p. 24. Ivi, p. 27. Ivi, p. 52. Ivi, p. 98. Ivi, p. 58. Ivi, p. 116. Ivi, p. 106. Ivi, p. 125. Ivi, p. 139. Ivi, p. 157. “Voglio rivedere il mio Maryland!... Voglio rivedere mia madre, prima che ella chiuda gli occhi per sempre, maledicendomi” (ivi, p. 170). Ivi, pp. 195 e 196. Ivi, p. 195. Ivi, p. 198. Ivi, p. 200. Ivi, p. 206. Ivi, p. 210.

Innanzi tutto, ammetto e premetto di non essermi mai occupata di Emilio Salgari prima d’ora (eccettuate le doverose e classiche letture delle scuole elementari, e qualche stralcio della “Bibliotechina Aurea Illustrata”),1 e di non esserne assolutamente una grande conoscitrice: forse ciò vale anche per altri partecipanti a questa iniziativa, ma ritengo ugualmente doveroso specificarlo, in modo da anticipare a tutti, esperti salgariani o meno, che la mia breve dissertazione sul romanzo affidatomi sarà una sorta di istantanea, piú o meno fedele, scattata da una mano inesperta. La prima impressione che tuttora conservo di Una sfida al Polo (1909) è quella di un romanzo che riesce a unire,2 sotto la piú classica patina salgariana di esaltazione della forza, digressione didattica e gusto dell’avventura, due elementi che storicamente e tematicamente si potrebbero facilmente definire inconciliabili: il romanzo cavalleresco e il futurismo. Prendendo in esame la trama essenziale del romanzo, infatti, spogliata di intrighi e complicazioni, non può non saltare agli occhi un particolare ben evidente: l’archetipo di base che regge la vicenda è infatti quello del piú classico amor cortese. I favori di una splendida e distaccata dama, la signorina Ellen Perkins, sono contesi da due prodi pretendenti: si tratta del canadese Montcalm, di nobili natali, ma ormai squattrinato, e del ricco possidente statunitense, ma privo di titolo nobiliare, Torpon. I due uomini, quali impavidi cavalieri, anche se non sempre mossi da una totale onestà, tenteranno ogni sorta di singolar tenzone, dalla competizione di boxe al duello con i coltelli da caccia, per misurare quale dei due possa ritenersi il piú forte, il valoroso cui la signorina Ellen ha promesso di concedere la sua mano. Nulla di piú tradizionale e quasi scontato, un classico della storia del romanzo fin dai suoi albori, ed è proprio in questo ben rodato – e oserei dire abusato – quadretto cavalleresco che Salgari inserisce elementi assolutamente innovativi e per nulla volti alla celebrazione del passato, strettamente legati al progresso scientifico, e alle relative derive socio-consumistiche della contemporaneità. Infatti, fin dalle prime pagine, Una sfida al Polo risulta, sia a livello tematico che a livello lessicale, pesantemente influenzato da un insolito gusto per le meraviglie della tecnologia e segnato da un’insistita esaltazione della meccanica, marcata da onnipresenti tecnicismi:

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tutti elementi, questi, che nel febbraio dello stesso anno di pubblicazione del romanzo, il 1909, erano esplosi nel Manifesto del futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e, ancor prima, nel 1905, nella sua lirica All’automobile da corsa. Una sfida al Polo ci mostra palesemente come all’interno del classico, e chiaramente casto e virtuoso triangolo d’amore tra dama e contendenti, si inserisca prepotentemente colei che si rivela essere la reale protagonista della vicenda, l’automobile, ivi citata nell’arcaico sostantivo maschile. Essa non riveste soltanto il ruolo di mero mezzo di trasporto, né di semplice strumento con cui i due contendenti si sfideranno nella competizione definitiva (la spedizione in automobile per raggiungere il Polo Nord). Appare piuttosto come un vero e proprio emblema, un elemento conturbante che contiene in sé simbologie di sesso e di morte, che da una parte sbandiera la potenza schiacciante della scienza, e dall’altra sussurra il costante e incombente rischio mortale dell’alta velocità. In Una sfida al Polo l’automobile è un oggetto mutevole, che diviene ora strumento di distruzione, ora gioiello che si fonde alla bellezza della donna; è la ripetizione ossessiva di terminologia tecnica e descrizione ammirata delle forme, è simbolo di uno stato sociale, e legame tra la ‘vecchia’ società lenta e la nuova accelerazione frenetica. Non solo “segn[a] l’inizio della velocità artificiale dell’individuo”, ma si offre “sin dalle sue origini come strumento di trasporto che anticipa alcune caratteristiche della radiotelevisione in quanto esternalizzazione del nucleo domestico e allo stesso tempo interiorizzazione del territorio e del mezzo che ne consente la praticabilità”.3 E non può che risultare degna compagna del coprotagonista del romanzo, lo sportman, individuo idealizzato, che assume un valore astratto, un sembiante mediatico. Lo sportman, in questo testo, è descritto ai limiti del superomismo, è esaltato nelle sue capacità atletiche, nel suo utilizzo ginnico del corpo, nella sua meritata notorietà, che assume, recuperando quanto citato per l’automobile, aspetti radiotelevisivi ante litteram. Lo sportman è una creatura neutra, che assume tanto le sembianze dei forzuti e allenati contendenti, quanto dell’“indiavolata” e tenace donna del desiderio,4 dama angelicata e spostata su un piano diverso del reale, non piú dalla bellezza divina e dalla grazia gentile, ma proprio da questa modernissima accoppiata di capacità fisica e tecnologia. La bellezza di Ellen, infatti, al di là dei capelli biondi, degli occhi azzurri e delle forme eleganti, è qualcosa di strettamente connesso alle sue ottime capacità di chauffeur/chauffeuse e alla sua spregiudicatezza al volante, spregiudicatezza che non si rispecchia nella sua condotta morale, morigerata e ancora una volta riconducibile all’archetipo cavalleresco: l’automobile è per Ellen un impeccabile feticcio coordinato all’eleganza degli abiti, ma anche il tramite verso una sorta di parità e di liberazione sessuale, una sorta di elemento maschile e perverso nella sua fascinosa ma prevedibile femminilità.5 E la terribile

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avventura tra i ghiacci dedicata ai suoi “begli occhi”,6 nel suo implicito rischio mortale, la rende a tutti gli effetti una femme fatale, una donna pericolosa.7 Ellen, fin dall’inizio, al di sotto della spavalda e sbandierata foga sportiva, è foriera d’un presagio di morte; presagio peraltro già esplicitato nel suo sentito e promanato “sex appeal dell’inorganico”, nel suo sterile rapporto con la macchina, suo unico, vero e inanimato partner, cifra del futurismo nascente e, con le parole di Mario Perniola, feticcio di una “categoria sotto la quale la cultura moderna (…) ha pensato la sessualità neutra e impersonale della cosa che sente”.8 Ma il clima culturale in cui vede la luce l’atmosfera tecnofila di Una sfida al Polo non deriva soltanto dai letterari fermenti futuristi e dalle speculazioni innovative, bensí anche dal complesso sociale ed economico di una realtà già concretamente e stabilmente motorizzata, nel piú filosofico e nel piú consumistico dei significati. Non è un caso che il romanzo veda la luce in quella città in cui la FIAT, prima azienda italiana percepita come un colosso industriale – nei suoi aspetti positivi e negativi – fin dal 1899 lavorava a pieno regime produttivo. Come informa Elena Fornero, nel suo volume Gli automobili, “[i]n sostanza, nel 1906 a Torino si conta[va]no una ventina di stabilimenti automobilistici (…) con 5 mila addetti, che produc[eva]no una media di 4 mila vetture l’anno”.9 È facile dunque immaginare come, solo tre anni piú tardi, la recente – ma ancora un po’ minacciosa – carrozza senza cavalli si trovasse nella posizione di qualcosa di piuttosto conosciuto, almeno nel capoluogo piemontese, al punto di essere ormai parte dell’interesse collettivo, ma conservando ancora un alone sufficientemente misterioso e quasi alchemico, da giustificarne fascinazione e curiosità quasi esotica da parte del lettore salgariano. Perché al di sopra del piú tradizionale gusto per l’esplorazione geografica, per l’avventura in territori ostili, per le piú mirabolanti – e salgarianamente prevedibili – gallerie di tribú minacciose e animali feroci (dal piú banale orso bianco all’inverosimile esemplare di mammouth miracolosamente scampato all’estinzione), Una sfida al Polo è dopotutto una storia che fotografa la sua contemporaneità. È un ritratto delle smanie capitalistiche della sua epoca, dei suoi nuovi divertimenti e dei suoi nuovi rischi, delle sue ascese e discese sociali (rappresentate in modo scoperto dai ruoli dei due pretendenti), delle sue aspirazioni mediatiche. E non è privo di una vena che si divide tra ironia e autocelebrazione, sottesa alle frequenti iterazioni lessicali esterofile (iterazioni che sembrano mimare una sorta di ripetitività industriale). Anche lo stesso, risibile mammouth sembra ribadire il legame tra il romanzo e il substrato di certa cultura popolare coeva, legando l’onnipresente spunto didattico salgariano all’insistito interesse della pubblicistica del periodo per le presunte o possibili prove della sopravvivenza di animali preistorici nelle piú remote regioni della terra.10 Salgari, addirittura, si auto-osserva come romanziere popolare, e si

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proietta metaletterariamente nel testo con un fugace quanto significativo passo dell’ottavo capitolo, La caccia all’automobile, allorché Montcalm e i suoi compari sono alle prese coi lupi, che li vogliono divorare: – Saliamo sulla capote di cuoio e fuciliamo queste noiose canaglie. Lassú non ci prenderanno. – Meravigliosa idea!... – esclamò Walter, afferrando innanzi tutto le due cassette contenenti le cartucce dei mauser e delle Colt. – Assedio in piena foresta!... Ecco un bel titolo per un capitolo d’un romanzo straordinario. – Lasciate stare i romanzi e salite presto!... – gridò il canadese prendendo le armi.11

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Narratore di fatti serrati, dai tempi di consegna altrettanto serrati, Salgari sembra qui avvertire, o quasi giustificare il sincronismo tra scrittura e racconto, tra ideazione e realizzazione: racconti di azioni che vengono trascritte cosí come concepite, perché non c’è tempo, il cui ritmo di stesura sembra impedirne la riflessione, la revisione, in sostanza lo stile, ciò che a regola dovrebbe qualificare un autore per tale.12 Restando nell’ambito delle riviste contemporanee, spicca vistosamente l’analogia tematica e lessicale tra Una sfida al Polo e un racconto apparso su “La Domenica del Corriere” nel luglio dello stesso anno, il 1909, dimostrazione di come Salgari, che già vantava una folta schiera di epigoni,13 avesse aperto la strada in ambito popolare agli argomenti in odor di futurismo. Il racconto si intitola Il matrimonio di Miss Clark, opera del fiorentino Attilio Leonardi,14 il quale sembra attingere a piene mani dal romanzo. Anche qui si hanno due contendenti, il duca di Santerano, “ingegnere italiano”, e il capitano Henriot, “francese pilota”, alla conquista d’una giovane avvenente e motorizzata, la miss Clark del titolo, emancipata vincitrice del “primo Grand-Prix americano di aviazione”.15 Miss Clark è un perfetto clone della Ellen Perkins salgariana: se l’autore veronese aveva definito la sua eroina “la piú indiavolata sportman di tutti gli Stati dell’Unione americana”, parimenti Leonardi ci descrive la sua come “la regina dei motori, la miliardaria ammaliatrice che pass[a] per una delle piú pure bellezze dell’Unione Americana”, “intrepido pilota”, “intrepida sportwoman”.16 E anche questa raffinata ma aggressiva signorina ci appare come il simbolo di una nuova femminilità, e nella sua tensione – forse un po’ esasperata – a un femminismo che sembra farsi forte solo dell’appropriarsi di stereotipi maschili,17 ci dimostra l’immediata penetrazione dell’accoppiata bellezza-tecnologia nell’immaginario popolare. Ma esempi di fascinazioni motoristiche non si lasciano attendere neppure sul côté letterario piú estetizzante, su tutti spicca l’esempio di Gabriele d’Annunzio, che l’anno seguente a Una sfida al Polo apre il suo Forse che sí, forse che no con la descrizione di una corsa in automobile. La chiusura del romanzo, infine, nella sua atmosfera amara e

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oscurata dalla morte del pretendente Torpon e dal secco rifiuto della mano di Ellen da parte del nobile Montcalm, ci porta a compiere un piú ampio salto temporale, evocando uno dei piú brillanti e conturbanti esempi di letteratura automobilistica attuale. Si tratta di Crash (1973) di James Ballard,18 romanzo che piú di ogni altro ha esplicitato senza metafore e senza sottintesi lo stretto rapporto tra i vertici di un triangolo amoroso formato da sesso, tecnologia e morte. Crash è la storia dell’omonimo personaggio Ballard, vittima di un grave incidente stradale e succube di un torbido rapporto con l’artista pazzo Vaughan, personalità al limite della psicopatologia che lo conduce in un pericoloso vortice in cui turbinano droghe, eccessi etero e omosessuali, disastri automobilistici e abnorme fissazione per le celebrità cinematografiche. Al di là delle ingenuità buonistiche di Salgari, e degli eccessi pornoerotici ballardiani, il messaggio essenziale dei due romanzi è il medesimo: la tecnologia, nella sua costante carica di un desiderio che non è destinato a trovare compimento, è una medaglia, ha due facce. La prima è il sesso, fonte e istinto primario della vita; la seconda è la distruzione, causa di morte. Ed entrambe le facce sono strettamente connesse alla mediaticità, alla fama, alla notizia, trovano il loro compimento supremo sulle pagine dei quotidiani e sugli schermi televisivi. In entrambi i romanzi, le figure femminili sono mere sovrastrutture estetiche al feticismo meccanico; in entrambi i romanzi vi sono due uomini che rischiano la vita, invischiati in questa sempre piú pericolosa e fatale fascinazione; in entrambi i romanzi, uno dei due è destinato alla morte e all’altro non resta che la contemplazione di un simulacro ormai svelato e svuotato d’ogni desiderio. In entrambi, il percorso che porta alla consapevolezza è costellato di colpi inferti e ricevuti, ed è segnato sul corpo dei personaggi nelle cicatrici.19 E in entrambi, nessuna delle donne presenti è davvero il centro di tutto questo affanno, sentimentale, sessuale, arrivistico, ma solo l’automobile è regina indisturbata della scena, quasi una divinità che soltanto alla fine ci appare, spoglia di ogni sensualizzata e sensualizzante sembianza, nel suo vero e spietato aspetto di negazione e morte. In Una sfida al Polo, il rifiuto finale di Montcalm, trasformato dalle avversità in un’apoteosi del superuomo, risponde in pieno ai dettami del già citato “sex appeal dell’inorganico”, e la sua vittoria ne sancisce irrimediabilmente la liberazione, o meglio, l’esclusione, dal desiderio:20 Sebbene (…) nell’atletismo ma ancor piú nello sport, sia implicita una reificazione, uno spostamento dallo spirito alla cosa sacra e dal corpo vitale al corpo-cosa, tuttavia è solo con l’ingresso in un mondo in cui è caduta la differenza tra il sacro e il profano, tra agonismo sportivo e attività parasportive estreme, che questo processo va verso il suo compimento. Ora la performance di una cosa senziente non è

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la prestazione competitiva di un soggetto nei confronti di altri (…). Quando si passa nel territorio neutro e impersonale della cosa senziente, l’eccellenza acquista un altro significato: è superamento di se stessi e dei propri limiti, non degli altri.21

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Il romanzo si chiude infatti nel gelo della consapevolezza che nessun sentimento può prosperare sul terreno segnato dalla morte e dalla vuota ricerca della fama. Ellen, rimasta sola insieme alla sua potente “60 cavalli”, esplode in una sterile rabbia, per nulla delicata e attraente, e sfoga la sua frustrazione “spezz[ando] con un pugno un magnifico vaso giapponese”,22 frustrazione cui sembra irridere la celebrazione mediatica della vera vittoria e del vero vincitore: ancora una volta l’automobile: “L’indomani tutti i giornali degli Stati dell’Unione e del Canadà salutavano con grande entusiasmo la nuova vittoria dell’automobile e la conquista del Polo Artico”.23 Cosí anche in Crash, alla fine dell’estenuante fiera di sesso e incidenti stradali, quasi una gara di nervi e perversione tra i due protagonisti, non resta che la celebrazione, questa volta in termini piú simili a un’oscena ritualità pagana, della trionfante automobile, glorioso simulacro di lamiere e capitalismo, di inappagato desiderio e compiuta distruzione, sordido ricettacolo, umido di ogni secrezione organica, e sublime cristallizzazione di ogni proiezione estetica, mentale, filosofica e quasi spirituale dell’umana (e poi post-umana) tensione all’eccellenza.

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Si tratta di una fortunata serie per l’infanzia dell’editore Biondo di Palermo, la quale propose, tra il 1901 e il 1906, ben sessantasette storie del narratore veronese, celato dal nom de plume di Capitano Guido Altieri. Questi racconti sono state raccolti in tre volumi, apparsi separatamente: Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura di Mario Tropea, Viglongo, Torino 1999 (vol. I), 2001 (vol. II), 2002 (vol. III). Salgari, Emilio, Una sfida al Polo, Bemporad, Firenze 1909. Nel corso del presente intervento si citerà dall’edizione Fabbri, Milano 2007. Abruzzese, Alberto e Borrelli, Davide, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma 2000, pp. 121 e 122. Salgari, Una sfida al Polo cit., p. 8, ma anche pp. 9, 10, 25, 39, 42 e 49; piú avanti si trova “demonio” e “indemoniata” (ivi, pp. 9 e 11), e poi: “Io credo che quella fanciulla abbia il sangue del demonio nelle sue vene” (ivi, p. 25), “Quella non è una donna, è una diavolessa” (ivi, p. 39).

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Sganciati dal volante, i personaggi, riacquistano le loro valenze e i loro ruoli sessuali/sociali: l’uomo torna a essere un gentleman, la donna una miss (cfr. ad esempio ivi, p. 10). In auto o, piuttosto, in simbiosi con essa, il conducente perde la propria specifica sessualità, divenendo appunto una creatura neutra, e in certo modo Salgari, utilizzando la qualifica di sportman anche per Ellen Perkins, sembra lessicalmente rimarcare una tale ibridazione, sorta di metamorfosi: “Diamine! Non vi era da indugiare un solo minuto se si trattava dell’automobile della bellissima Ellen Perkins, la piú indiavolata sportman di tutti gli Stati dell’Unione americana” (ivi, p. 8). E poi: “Quella splendida creatura maneggia il suo automobile meglio del piú famoso chaffeur [sic] d’America e d’Europa” (ivi, p. 9). La stessa fanciulla, affascinata da una “grande corsa intorno al mondo in automobile”, dichiara: “Se io fossi un uomo invece di essere una donna, mi farei subito iscrivere” (ivi, pp. 43 e 44). Quanto all’automobile (e agli sport estremi in genere) come mezzo di sfogo e libera-

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zione delle pulsioni, si legge che Ellen Perkins è “già perfino troppo nota anche nel Canadà dove [ha] storpiate, nelle sue pazze corse, una mezza dozzina di persone”, e viene ritratta alla stregua di un “demonio!... Amazzone intrepida che sfida e vince perfino i famosi cow-boys del lontano FarWest, canottiera insuperabile, automobilista, spadaccina, lottatrice e che so io?... È la regina dello sport” (ivi, rispettivamente p. 8 e pp. 9-10). L’espressione “begli occhi”, riferita a Ellen Perkins, ricorre nel testo quasi alla pari d’un epiteto: lo si trova alle pp. 12, 13, 22, 29, 118, 182, con la leggera variante, a p. 160, di “occhi (…) bellissimi”. Verso la chiusura del romanzo, infatti, i celebrati “occhi” di Ellen Perkins si rivelano per Torpon, impazzito, dal “naso gelato e già intaccato dalla cancrena”, quelli di una “terribile e crudele fanciulla” (ivi, p. 193). Piú avanti, è lo stesso Montcalm a non parlare piú di “begli occhi”, ma di “occhi di tigre”, e ad annoverare espressamente la donna tra quante “esigono delle vittime e (…) cercano di spingere degli uomini ad uccidersi in imprese arrischiate”; la percezione poi muta completamente circa la donna al volante: si parla infatti di “spoglie poco simpatiche delle automobiliste” (ivi, pp. 198 e 199). Perniola, Mario, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p. 67. Fornero, Elena, Gli automobili. Il lessico delle prime quattro-ruote tra Ottocento e Novecento, Marsilio, Venezia 1999, p. 46. A titolo esemplificativo, in proposito, cfr. Foni, Fabrizio, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane (18991932), Tunué, Latina 2007, pp. 157-158, 166-167 e 276-278. Si veda pure il racconto L’avventura del capitano Wilson di Mario Contarini, originariamente apparso il 15 luglio 1906 su “Il Vascello. Giornale di Avventure di Terra e di Mare”, edito dalla fiorentina Nerbini, e riproposto in de Turris, Gianfranco (a cura di), Le aeronavi dei Savoia. Protofantascienza italiana (1891-1952), con la collaborazione di Claudio Gallo, Editrice Nord, Milano 2001, pp. 227-234. D’altronde, l’ispirazione fornita dal Voyage au centre de la Terre (1864) di Jules Verne sarà di lí a poco rafforzata da The Lost World (1912) di Arthur Conan Doyle. Salgari, Una sfida al Polo cit., p. 67. A brevissima distanza inoltre si trova, analogamente, benché la metaletterarietà sia piú attenuata: “– Io non ho mai veduto animali cosí ripugnanti!... / – Rimettete a domani le vostre riflessioni e consumate invece delle cartucce – disse il canadese. – Non vedete che l’orda, invece di diminuire, continua ad ingrossare, malgrado i grandi vuoti che abbiamo fatto?”, e nella stessa pagina: “– Ed allora avanti. Pum!... Patatum!... Come cadono bene!... Ottime armi questi mauser!... I boeri avevano ragione a provarli contro i miei compatrioti in cambio dei loro vecchissimi röers. / – Chiacchierate troppo, Walter – disse il canadese. – Guardate invece Dik: non pronuncia una parola, ma ammazza invece continuamente” (ivi, p. 68). Cfr. Pozzo, Felice, Emilio Salgari e dintorni, premessa di Antonio Palermo, Liguori, Napoli 2000, passim e in particolare pp. 177-295.

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Leonardi, Attilio A., Il matrimonio di Miss Clark, in “La Domenica del Corriere”, 4-11 luglio 1909, pp. 14-15. In coda, accanto alla firma dell’autore, si segnala la provenienza, Firenze. Ivi, p. 14. Ibid. Ben tre volte, a p. 14, ricorre “regina dei motori”, in corsivo, e una volta è pure presente a p .15. Tre volte, a p. 14, si ha “miliardaria ammaliatrice”. “La prima vittoria dell’aviazione americana segnava dunque anche una grande vittoria del femminismo, poiché l’intrepido pilota del ‘Colorado’ altri non era se non miss Clark” (ivi, p. 14). Piú avanti, lo stesso personaggio afferma: “Dal momento che vi ostinate a chiamarci il sesso debole, non potremo confessare una volta tanto una piccola debolezza?”. Si legge, poi: “Appena calmato l’entusiamo della corsa aerea New York – Albany, miss Clark aveva rispedito il suo biplano al quale contava far subire alcuni perfezionamenti suggeriti dalla recente prova; era montata sulla sua rossa automobile, e impugnando sicura il volante era partita attraverso il continente per raggiungere la grande officina di Denver. Cosí l’intrepida sportwoman, la miliardaria ammaliatrice regina d’ogni bellezza, ritornava l’operosa industriale, la regina dei motori” (ibid.). Ballard, James G., Crash, Jonathan Cape, London 1973 (trad. it. Crash, Rizzoli, Milano 1990). “– E qual è il piú forte [tra i due contendenti]? / Non si sa ancora, perché pare che un perverso destino perseguiti ostinatamente i due campioni. Si sono sfidati alla spada e si sono feriti reciprocamente; si sono sfidati a cavallo e sono caduti entrambi nel salto agli ostacoli; hanno fatto una corsa in canotto-automobile e le loro macchine sono scoppiate in alto mare, e non si sa per quale miracolo si sono salvati… / – Ed ora? / – Si sfidano a pugni” (Salgari, Una sfida al Polo cit., p. 11). È quindi la volta di un combattimento con dei “solidi bowie-knifes [sic]”, nelle trenta stanze dell’ultimo piano d’un albergo, appositamente affittate e immerse “nell’oscurità” (ivi, p. 27). Il duello, tuttavia, non sortirà l’esito sperato, ossia l’eliminazione definitiva di uno dei contendenti (che si piantano a vicenda l’arma nel petto, senza però raggiungere un punto vitale); è cosí che si arriva, come soluzione finale, alla sfida al Polo. “– Io prendo possesso di te, o Polo Artico, che per secoli e secoli sei stato il sogno ardente dei piú arditi naviganti dell’America e dell’Europa. Io solo ti ho domato e sei mio!... / Guardò la cima della montagna, guardò a lungo il mare libero che la circondava, poi scese lentamente verso la spiaggia, balzò nel canotto e ritornò verso i compagni, i quali lo aspettavano in preda ad una viva emozione. / – Partiamo, amici – disse. – Ormai non abbiamo piú nulla da fare qui. / (…) / L’automobile pulsava fragorosamente come se fosse impaziente di tornare verso il sud, orgogliosa, nella sua anima d’acciaio e di fuoco, d’aver aggiunta un’altra vittoria alle tante guadagnate dall’automobilismo su tutte le piste del mondo” (ivi, pp. 196-197). Perniola, Il sex appeal cit., p. 184. Salgari, Una sfida al Polo cit., p. 199. Ivi, p. 200. Si tratta dell’effettivo explicit.

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La Bohème italiana (1909): il romanzo dell’avventura scapigliata Roberto Fioraso e Claudio Gallo

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La Bohème italiana è ritenuto l’unico romanzo salgariano non d’avventura,1 e tale deve esser stato inteso anche dagli editori. Lo si comprende dalle non poche difficoltà incontrate da Salgari nel pubblicarlo, determinate anche dai vincoli che lo impegnavano a scrivere solo romanzi d’avventura, come, peraltro, ben evidenziato nel contratto sottoscritto a Firenze, il 7 giugno 1906, tra lo stesso Salgari ed Enrico Bemporad: “(...) Il signor Emilio Salgari si obbliga di comporre e scrivere per conto della Società Bemporad durante gli anni 1906 e 1907 numero sette libri originali e non ancora pubblicati, cioè inediti di avventure di Terra e di Mare e della mole media di quelli ultimamente forniti alla casa A. Donath di Genova”.2 L’autore consegna il romanzo a Bemporad nel luglio del 1907, ricevendone il compenso di duecento lire, e poi di altre trenta per la correzione delle bozze. Molto poco rispetto alla media di duemilacinquecento lire che riceveva per gli altri romanzi: (...) io sottoscritto (...) ho ceduto e cedo alla Ditta Editrice Bemporad, (...) la proprietà letteraria in assoluto e perpetuo e senza alcuna restrizione del volume intitolato Bohème italiana, ricevendone in compenso per una volta tanto la somma di £. 200 (lire ital. Duecento), della quale somma dichiarandosi compensato e soddisfatto, rilascia in favore della Ditta Bemporad ampia e regolare quietanza col presente atto. Fatto il presente in Torino, li 22 luglio millenovecentosette. Cap. Emilio Salgari3

La Bohème italiana verrà stampata soltanto due anni dopo, nel 1909. L’editore fiorentino, dunque, considerava questo romanzo non in sintonia con gli accordi contrattuali, mentre Salgari teneva particolarmente a quest’opera di chiara derivazione scapigliata, tanto da imporla all’editore che tergiversava sull’eventuale pubblicazione. Anche l’illustratore delle otto tavole interne in bianco e nero – la copertina a colori è di Gennaro D’Amato – sembra imposto da Salgari: è infatti Arnaldo Tanghetti, con il quale aveva lavorato nella redazione del settimanale “Per Terra e per Mare”, ma che non risultava tra i collaboratori della Bemporad. È una convinzione diffusa tra i ricercatori che Emilio Salgari scrivesse in fretta senza rivedere alcunché, inviando direttamente il

La Bohème italiana

manoscritto all’editore perché fosse stampato, cosí com’era. Ciò è verosimile solo per una parte della sua produzione, considerato che per vincoli contrattuali era, il piú delle volte, tenuto alla correzione delle bozze. Su La Bohème italiana, per esempio, è ritornato piú volte apportando modifiche e correzioni. Sappiamo delle revisioni operate grazie a due preziosi quaderni di appunti di Giuseppe Turcato, il noto studioso salgariano morto nel 1996, il cui ricco patrimonio documentario e librario è conservato presso la Biblioteca Civica di Verona. Turcato ha potuto consultare il manoscritto originale trascrivendo le correzioni autografe di Salgari, e inoltre sottolineando le differenze di stile e di contenuto con il testo della prima edizione a stampa.4 La Bohème italiana è solo apparentemente un’anomalia nella storia letteraria di Emilio Salgari. Con essa egli vuole dimostrare di saper sperimentare nuovi ambiziosi percorsi letterari, e che la sua opera, perciò, non è estranea alle grandi correnti letterarie del tempo. Il romanzo, ventuno capitoli di lunghezza variabile, è narrato in prima persona da uno squattrinato pittore provinciale, riunitosi a Torino con un brioso, vivace e scanzonato gruppo di artisti spiantati come lui. Insieme a loro si reca in campagna per fondarvi una “colonia artistica”. In realtà le colonie artistiche saranno due, coincidendo con le due parti in cui è chiaramente diviso il romanzo; abbastanza simili tra loro, con qualche ripetitività. L’allegra compagnia bohémienne si insedia nella cosiddetta “Topaia artistica”, una casa di campagna negli immediati dintorni del capoluogo piemontese, dove, gioviale e spensierata, alterna digiuni forzati a scorpacciate e bevute senza ritegno. Il gruppo di amici ricorre a un’infinità di espedienti per sbarcare il lunario, ma non per questo rinuncia a divertirsi e a divertire, giocando a carte, bevendo e fumando, architettando scherzi atroci, organizzando spettacoli. Dei cinque protagonisti della prima parte (dal primo al nono capitolo) rimangono, nella seconda (dal decimo capitolo alla fine), solo il narratore e il pittore Ferrol, i quali formano una nuova compagnia con altri personaggi tra cui ha particolare rilevanza lo scrittore Roberto, che una volta ha il cognome che inizia con la lettera M, e un’altra volta con la B. Il romanzo si svolge tra il 1898 e il 1899 e si conclude al grido di “A Parigi! A Parigi!”, con lo scioglimento definitivo anche della seconda compagnia. All’origine de La Bohème italiana vi è il notissimo romanzo di Henry Murger, Scènes de la vie de Bohème (1845-49 e 1851),5 da cui nel 1849 lo stesso Murger, in collaborazione con Théodore Barrière, trarrà una versione teatrale, Vie de Bohème.6 Da quest’ultima, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica ricaveranno il libretto d’opera per La Bohème musicata da Giacomo Puccini.7 Riteniamo tuttavia che sia proprio il melodramma il piú diretto ispiratore della Bohème salgariana, nella quale ritroviamo quel disordine e quella sciatteria che diventano stile di vita nei cenacoli di pittori e letterati, di cui lo stesso Murger aveva fatto parte, contrassegnati da una fiera ostilità verso l’ordine borghese,

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“il disprezzo della civiltà industriale e dei suoi prodotti, il rifiuto del lavoro e di una vita socialmente utile, la simpatia per tutto quanto potesse risultare emarginato, refrattario all’integrazione, eccentrico. Proprio da questi elementi di ribellismo anticonformistico furono attratti gli autori italiani della scapigliatura e, con un leggero ritardo, anche Emilio Salgari: tutti si sentirono in qualche modo eredi di quell’esperienza d’oltralpe”.8 Willy Burguet, in un suo saggio, accosta direttamente i personaggi de La Bohème italiana al ritratto che Cletto Arrighi (alias Carlo Righetti), nel romanzo La scapigliatura e il 6 febbrajo (1862),9 fece degli scapigliati:

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Les acteurs de La bohème italiana (1909) incarnent le désordre, l’ironie et l’insouciance de la “Scapigliatura”, que Cletto Arrighi avait défini comme un groupe d’individus de vingt à trente-cinq ans au plus, brillants et d’avant-garde, inquiets et turbulents, qui vivent d’une manière excentrique et désordonnée, “indipendenti come l’Aquila delle Alpi”, libres comme l’air, tiraillés “tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca”, entre leur savoir et leur avoir, et qui constituent “una nuova e particolare subdivisione della grande famiglia sociale”, une nouvelle sous-classe sociale. Pour Giuseppe Petronio et Vitilio Masiello, quand Cletto Arrighi parle de la “Scapigliatura”, il traduit bien la parole française bohème, cette forme d’anarchie bourgeoise parfaitement illustrée par les héros de Salgari.10

Le fonti d’ispirazione per Salgari sono il romanzo di Murger e il melodramma pucciniano, entrambi menzionati piú volte dallo scrittore,11 cosí come piú volte è richiamato esplicitamente Giacosa. Nel manoscritto c’è anche un accenno a Puccini e alla “gelida manina”, espunto poi, non si capisce perché, in fase di stampa.12 Il romanzo è impreziosito da richiami musicali: c’è, per esempio, “il grande sconcerto, terminato colla fuga degli spettatori” del diciannovesimo capitolo, e nel manifesto promozionale dello stesso “sconcerto” si cita “la Lucia de lo maestro Verdi”, nella quale “lo artista nomato Alfonsio sosterrà la parte de prima donna”. E qui è assurdo aver la pedanteria di precisare che la Lucia di Lammermoor (1835) non è di Verdi ma di Donizetti,13 visto che il tutto è evidentemente giocato sull’equivoco scherzoso: la parte di prima donna è affidata a un uomo e, subito dopo, si cita Rossini storpiandolo in “Rospini”. Nel romanzo si richiamano anche l’operetta comica La fille de Madame Angot (1872), del musicista francese Charles Lecocq (“sembravamo i cospiratori di Madama Angot”), allora molto in voga anche in Italia, e il Rigoletto (1851) di Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, con la “tremenda vendetta” giurata, in questo caso, contro Fra Angelico. Non mancano i canti popolari come Viva Noè e Addio morettina, piú nota con il titolo Con che core (morettina), che si dice fosse l’unica canzonetta conosciuta da Giosuè Carducci;14 o romanze allora molto note, come

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Mia sposa sarà la mia bandiera (1876) di cui Salgari cita parte del primo verso, “[M’hanno detto che] Beppe va soldato”, opera del maestro Augusto Rotoli. 15 L’episodio in cui Quintino prende la zimarra di Ferrol per andare a impegnarla, onde ricavarne il necessario per imbastire una cena,16 è certamente ispirato alla romanza Vecchia zimarra, cantata dal basso Colline nell’opera pucciniana; anche perché un episodio analogo non c’è nel romanzo di Murger. Lo stesso Colline impegna la sua zimarra per procurare il necessario alla morente Mimí. Il contesto è diverso ma, per scendere in particolari, Colline alla fine della romanza, come recita la didascalia nel libretto, “fattane fagotto” se ne va con la sua zimarra; cosí anche Quintino, prima di uscire, “ripiegò per ben bene la zimarra” e, mentre si allontana, Ferrol, quasi a sottolineare la musicalità della scena, canta Addio sante memorie, dal secondo atto dell’Otello (1887) di Boito e Verdi.17 All’interno del corpus della produzione salgariana, La Bohème italiana è giudicata un’opera inconsueta anche da Giovanni Arpino e Roberto Antonetto: “C’è forse solo un momento in cui il grandioso mitomane smarrisce il filo della sua testimonianza monocorde su se stesso e cede – sarà il caso, sarà un rivolo d’inchiostro che gli sfugge – al gusto dell’autoironia. Lo si nota in un accenno buttato in quell’incredibile libro che è La Bohème italiana, ambientato interamente a Torino, in un clima scanzonato, completamente agli antipodi del Salgari eroico”.18 Anche Willy Burguet considera un’eccezione il romanzo salgariano: “un livre atypique, le seul qui ne soit pas un roman d’aventure”.19 Sono in molti a condividere questa visione, forse solo Bruno Traversetti se ne discosta e, non a caso, lega direttamente il testo al ciclo caraibico, temporalmente vicino alla pubblicazione del romanzo: Fra i grandi cicli che piú a lungo e doviziosamente hanno impegnato il suo [di Salgari] immaginario, quello dei corsari presenta caratteristiche assai marcate che lo distinguono dagli altri sotto il profilo dell’ethos personale, dell’obliquo rispecchiamento di intime tensioni esistenziali, e lo apparentano al piú anomalo e isolato dei suoi romanzi: quel La Bohème italiana che costituisce l’unica, inattesa prova salgariana di narrazione non avventurosa e l’unica incursione del nostro autore nell’universo cittadino. L’elemento che lega il classico ciclo dei cinque romanzi caraibici, dominati come al solito dall’epopea del mare e del clangore delle armi, al piccolo interludio borghese nella Torino del primo Novecento, è appunto l’indizio di una segreta inclinazione personale alla nostalgia, al sogno di un appartato paradiso da raggiungere attraverso il rischio della fuga.20

La Bohème italiana, dai toni a prima vista sommessi, e dove in fondo succede poco o nulla, è solo apparentemente – come abbiamo già accennato – un’opera atipica nella produzione salgariana. È invece, per lo scrittore veronese, una dichiarazione di appartenenza let-

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teraria. Per mezzo di questo romanzo egli salda il debito culturale con chi aveva dispiegato, innanzi ai suoi occhi, il meraviglioso e infinito scenario dell’avventura, simbolicamente conservato in quella misteriosa cassetta che il romanziere Roberto non abbandona mai. Dunque ha ragione Bruno Traversetti a non separare questo romanzo dal resto del corpus salgariano, e a evidenziarne invece gli intimi legami. Non possiamo tuttavia leggere la narrativa di Salgari come un unicum. La curiosità intellettuale dello scrittore è assai ampia. Lettore onnivoro e attento, fa suo un modello letterario che trova ispirazione, nel secondo Ottocento, in Edgar Allan Poe, l’inventore dei generi (il giallo investigativo, il fantastico scientifico, l’orrorifico...). Non a caso l’autore americano è autorevolmente introdotto in Italia proprio dal movimento scapigliato, che si appropria delle istanze di libertà di scrittura e di sperimentazione narrativa che si discostano dalla tradizione romanzesca italiana del tempo. Le anomalie e le sperimentazioni letterarie, in Salgari, sono numerose e diverse: Cartagine in fiamme e Le figlie dei faraoni sono romanzi peplum;21 I Robinson italiani è una robinsonade e anche un singolare omaggio al positivismo;22 Le meraviglie del Duemila è un romanzo d’anticipazione;23 lo storico Capitan Tempesta,24 fondato sul dialogo, venato di tenue e ambiguo erotismo, è accentuatamente vicino agli schemi del libretto d’opera. Senza dimenticare l’esotismo e l’orientalismo, che fanno di Salgari il maggior scrittore italiano di una tendenza assai diffusa in tutto il mondo occidentale. La rivista da lui fondata nel 1904, “Per Terra e per Mare”, non si era limitata a tenere a balia tanti giovani scrittori raccolti sotto il generico segno dell’avventura. Salgari li lascia liberi di scandagliare vari filoni letterari e generi diversi con cui non si era mai misurato: dal poliziesco al naturalismo.25 Come sempre, per Salgari non parlano gli editoriali, le dichiarazioni d’intenti, le corrispondenze con gli editori o segreti intimi lettori, che non esistono, ma l’assemblaggio dei materiali, le opzioni narrative, la scrittura e la scelta dei testi. Adesione consapevole, espressa secondo il consueto criterio dello scrittore che non si presenta per mezzo di dichiarazioni d’intento poetico, ma attraverso l’opera. Salgari condusse un’esistenza disordinata, allegra, al di fuori delle regole, e bohémienne, nel corso della sua giovinezza. Lavorava nelle redazioni dei giornali veronesi, frequentava le rappresentazioni di opere e di operette, seguiva gli spettacoli delle filodrammatiche (in una delle quali si esibiva la sua futura moglie), partecipava a scampagnate, alle passeggiate di ginnastica, ai tornei di scherma e organizzava ingegnosi scherzi pubblici. Prendeva parte anche alle letture artistiche nella “Topaia” dell’impetuoso e brillante Francesco Serravalli, a suo dire legato a Emilio Praga, e che aveva portato in scena con successo alcuni romanzi salgariani. Le cruente e macabre descrizioni delle prime appendici, miravano proprio a sconvolgere il pubblico borghese. In quella Verona di tardo Ottocento, Salgari poté

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seguire i suoi istinti randagi e la sperimentazione scapigliata, già ben presente non solo nel raffinato mondo dei salotti scaligeri di Vittorio Betteloni o di Lionello Patuzzi, ma anche in riviste come “La Ronda” e la “Cronaca Rosa”, nate a Verona quando a Milano il movimento era ormai declinato.26 L’influenza che la Scapigliatura esercitò su Salgari non si limita, pertanto, solo a una vita irregolare e alla denuncia sociale, promossa da una rivolta letteraria spentasi troppo presto. È – vale la pena di sottolinearlo ancora – l’innovazione letteraria, la libertà di creazione e di sperimentazione della Scapigliatura che Salgari fa proprie, fondando un originale genere avventuroso italiano. Egli riconosce di avere un debito culturale con quella tendenza che aveva introdotto nel nostro paese la possibilità di scrivere al di fuori dei modelli dominanti, in direzioni diverse dall’ipoteca manzoniana, il cui fascino stilistico Salgari aveva pur subito (ricordiamo il determinante apporto alla stesura di Angiolina dell’abate Pietro Caliari,27 il frammento Sul lago, apparso sull’“Arena”,28 o l’apertura de I misteri della Jungla Nera).29 Non solo, allora, Salgari è figlio legittimo della Scapigliatura, ma è questa la chiave di volta che gli permette di far sue le piú diverse e variegate esperienze letterarie, musicali e visive. Per questa ragione sarebbe giusto riservargli un posto nella storia della Scapigliatura, estendendolo a quanti ne hanno assimilato la libertà di scrittura, superando il varco che la corrente aveva aperto nella letteratura italiana, e suggerendo cosí una nuova poetica che, prima, non esisteva. Tuttavia l’immenso lavoro svolto, la creazione d’un universo avventuroso, non sono stati sufficienti a farlo accettare tra le file dei letterati piemontesi cui fa riferimento Traversetti: La sofisticata Scapigliatura torinese non lo accoglie nei suoi ranghi, ma l’ancor giovane romanziere va scoprendo in questa Torino che egli non sentí mai veramente come una patria, la presenza e il gusto di un’altra scapigliatura, piú modesta e familiare, che si raduna in improvvisati cenacoli da osteria e attrae bizzarre figure di viaggiatori, di sognatori, di pretestuosi artisti che cercano nel calore della reciproca complicità la fuga dall’algido, mediocre perbenismo umbertino, ovunque sonnecchiante e trionfante. Sarà questo l’ambiente che, piú tardi, negli ultimi anni della sua vita, egli trasfigurerà nella Bohème italiana: l’unico suo romanzo non avventuroso e l’unico in cui prevale il tratto autobiografico.30

Perché dunque insistere (e non solo da parte di Traversetti, ma praticamente di tutti coloro che di questo romanzo si sono interessati) nell’affermare che questo non è un romanzo d’avventure, quando Salgari stesso, in qualche modo, lo definisce tale? All’inizio del diciassettesimo capitolo (Una grande idea) gli artisti della “Topaia” passano quindici giorni lavorando assiduamente. E il narratore commenta: “Come si può resistere due settimane? Era quello

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che si chiedeva con insistenza Ferrol. E nessuna avventura in questo tempo, nessuna trovata degna della famiglia artistica e tanto meno dei topi”.31 Perché la non-avventura è il lavoro, la quotidianità, la rispettabilità borghese, mentre l’avventura è improvvisazione, scherzo, ricerca disperata di denaro, vita irregolare, viaggi a dorso di cammello; sia che avvengano nel deserto del Sahara, sia in Malesia o alla periferia di Torino... Salgari sente La Bohème italiana come un romanzo d’avventure fatto di viaggi, fughe, strane feste, fantasmi, animali, musiche, in cui manca soltanto l’ambientazione esotica, ma che rispetto a questa ha forse una chance in piú per essere, ancora una volta, una fuga dalla quotidianità della vita. Mancano solo gli amori, ma su questo ritorneremo. I personaggi tratteggiati da Salgari sono figure letterarie chiamate a interpretare un ruolo allegorico, simbolico, all’interno dell’intreccio, e questo elemento fondamentale permette di comprendere che l’aderenza dell’autore alla Scapigliatura è un’operazione consapevole, anche e soprattutto quando scrive romanzi di avventure. Molti ricercatori e studiosi, invece, interpretano La Bohème solo dal punto di vista biografico, rispetto all’insieme degli altri testi salgariani, apparentemente uguali fra loro. Ed è proprio sul piano della biografia, o meglio dell’autobiografia, che si gioca un altro equivoco intorno a questo romanzo. Tutti, ma proprio tutti, sostengono che questo è l’unico romanzo autobiografico di Salgari: per esempio Felice Pozzo e Luciano Tamburini considerano realistica l’ambientazione torinese,32 mentre Silvino Gonzato è indotto a credere che la Torino di fine Novecento celi la Verona degli anni giovanili salgariani.33 E tutti si affannano a riconoscere, individuare, illustrare luoghi e personaggi, che con i loro veri nomi o con nomi appena mascherati, sono presenti nel romanzo. Occorre aggiungere che Salgari, nei suoi libri, presenta sovente accanto a personaggi d’invenzione, personaggi reali e ambientazioni geografiche attendibili, se non veritiere. Egli ha trascorso la propria vita illudendo i lettori che le sue avventure sulla carta fossero vere; e in questa autobiografia fantastica, molto probabilmente, aveva finito per identificarsi. La Torino descritta ne La Bohème italiana, pur con le sue vere vie e piazze e campagne, non è né Torino né Verona: è il luogo dell’avventura, il luogo dell’anima, è l’isola-che-non-c’è, la gozzaniana Isola Non-Trovata, che è la piú bella di tutte, ma che “se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza…”.34 Ciò vale per i personaggi: Quintino sarà pure il Quintino Pene davvero esistito, ma cosí è anche per il Mahdi, i thugs, James Brooke, il pirata Morgan ecc. E non per questo andiamo a cercare nella loro vita reale le avventure raccontate da Salgari. La Bohème italiana è prima di tutto un romanzo, non un’autobiografia: non è vero che Salgari racconta se stesso nelle vesti del narratore e/o del letterato Roberto, e poco importa che nel manoscritto originale si chiami dav-

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vero Emilio Salgari. È vero l’inverso, come succede per molti altri personaggi salgariani: l’autore si identifica colla propria creatura, tanto da renderla a lui simile (“Un omettino magro, fra i trenta ed i quaranta, dai baffi biondi, tutto nervi e muscoli”).35 Basti pensare, per fare un altro esempio, al personaggio di Yanez, che col trascorrere del tempo egli rendeva sempre piú simile a sé.36 Ricordiamo che Salgari colloca esattamente nello spazio e nel tempo i suoi romanzi, proprio per conferire una parvenza di realtà. Certamente ci sono degli spunti autobiografici, riferiti sia agli spensierati anni giovanili di Verona, sia agli anni di Torino e di Genova, ma rimescolati anche cronologicamente, e rivisitati e rielaborati alla luce della creazione letteraria, nel tentativo di far sí che la vita diventi letteratura, e viceversa. Ancora una volta, in Emilio Salgari, la finzione letteraria è assoluta, per questo credibile e veritiera, quasi un sincero palpito di vita. Ma in Salgari la vita è un grande mistero, l’opera non è la vita, bensí assorbe la vita, la oscura. Perché questo vuole lo scrittore. Persino la sua morte è espressione emblematica di una straordinaria e unica messa in scena. Giuseppe Turcato, come abbiamo detto, ebbe modo di analizzare il manoscritto de La Bohéme italiana (probabilmente in possesso di qualche collezionista), trascrivendone scrupolosamente le varianti, chiarendole con attente postille. Non crediamo appagante operare, in questo caso, filologicamente, anche perché nel manoscritto ci sono correzioni apportate con grafie diverse da quella di Salgari; altrettanto difficile è attribuire le varianti nel volume a stampa (in cui quasi certamente hanno messo mano coloro che oggi chiameremmo gli editor di Bemporad); soprattutto, per buona parte, ci riescono incomprensibili i motivi che hanno spinto a effettuare tali variazioni. Le modifiche piú importanti riguardano prevalentemente i luoghi e i personaggi (ce ne sono anche altre che potremmo definire di tipo stilistico),37 alle quali si aggiungono espunzioni di parole e di frasi, che spesso, come dicevamo, risultano poco chiare: perché cambiare, ad esempio, il Ferrante del manoscritto con il Ferrol del volume? O perché invertire tra loro le località di Lucento e Madonna di Campagna? Perché infine tagliare da una certa frase (“Disse il letterato che masticava la punta dell’asticciuola credendo forse di mangiare qualcuno dei suoi antropofagi. Finirà col farmi girare la testa”), le parti da noi evidenziate in corsivo?38 C’è invece una modifica – tre in realtà, ma legate fra loro – che ha una spiegazione: nel manoscritto il personaggio del letterato, poi Roberto nel volume, si chiama Salgari e vi sono citate anche due opere dello stesso romanziere, La Favorita del Mahdi e I Robinson italiani.39 Perché cancellare questi titoli e modificare il nome del letterato? Per una sola ragione: evitare che il romanzo fosse percepito dal lettore come autobiografico. È probabile che la modifica sia stata suggerita dall’editore e accettata dall’autore, perché come Salgari o come Roberto, il narratore de La Bohème è soltanto un personaggio

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letterario, tanto quanto il capitan Salgari che compare in alcuni racconti di avventure di mare.40 Se c’è un’anomalia in questo romanzo rispetto all’intera opera salgariana, è che in esso non compaiono personaggi femminili né storie d’amore, a parte alcuni fuggevoli cenni del tutto insignificanti. Le storie salgariane sono quasi sempre ardenti vicende amorose che emergono fra i suoi sogni esotici di viaggiatore mancato: fanno eccezione, ovviamente, i romanzi appositamente scritti per i ragazzi e pubblicati dall’editore milanese Treves, come La scimitarra di Budda, (1892), I pescatori di balene (1894), I naufraghi del Poplador (1895), La città dell’oro (1898). La Bohème italiana è un romanzo corale in cui manca un vero protagonista, un eroe, un superuomo come Sandokan o il Corsaro Nero. Solo ad essi è concesso amare, seppure nella consapevolezza che l’amore e l’avventura non possono coesistere: la donna, per Salgari, quasi sempre, mutila il superomismo dei protagonisti annullandone l’eroicità. Ne La Bohème italiana invece i protagonisti sono tutti alla pari, paghi dell’amicizia, della solidarietà maschile, che annulla qui la possibilità di amare una donna. 41 Non amano i tigrotti, non amano i pirati, non ama neppure questa brigata di artisti scapigliati, fra i quali non c’è un capo o un eroe di riferimento. Solo quando si scioglie la prima compagnia, in attesa di formarne una seconda, il narratore ci comunica fuggevolmente: “andai a cercarmi una Mimí artista”;42 ma è solo l’intervallo tra un’avventura e l’altra... Salgari, fin dalla scelta del titolo, è ben consapevole (o almeno nutre la presunzione) di essere scrittore autorevole e importante sul piano nazionale: se Murger e Puccini hanno cantato la Bohème francese, Salgari ha cantato la Bohème italiana.

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Salgari, Emilio, La Bohème italiana, Bemporad, Firenze 1909. Si riporta da Gallo, Claudio e Lombardo, Caterina, Emilio Salgari ed Enrico Bemporad. Appunti e documenti riguardanti il carteggio storico della casa editrice fiorentina, in “Bollettino della Biblioteca Civica di Verona”, Primavera 2000 – Autunno 2001, n. 5, pp. 203-291: 263. Ivi, pp. 266-267. La Bohème italiana e gli appunti di Turcato sono stati recentemente oggetto di una tesi di laurea: Fiorentini, Manuel, La Bohème italiana (1909) di Emilio Salgari, Università degli Studi Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere Moderne, relatore prof. Mario Allegri, anno accademico 2006-2007.

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Murger, Henry, Scènes de la vie de Bohème, Michel Lévy, Paris 1851 (trad. it. La Bohème. Scene della Scapigliatura parigina. Precedute dai Paradossi del Pessimista, dai cenni biografici e dagli studi critici raccolti dal medesimo su Enrico Murger e sulla Bohème, Sonzogno, Milano 1872). Originariamente, a cadenza irregolare, le scènes compaiono sul parigino “Corsaire – Satan” (e piú avanti “Le Corsaire”), tra il marzo del 1845 e l’aprile del 1849. Il “pessimista” dell’edizione italiana è Felice Cameroni. Prima rappresentazione il 22 novembre 1849, al Théâtre des Variétés di Parigi. Prima rappresentazione il 1° febbraio 1896, al Teatro Regio di Torino. Fiorentini, La Bohème cit., p. 48.

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Arrighi, Cletto, La scapigliatura e il 6 febbrajo (Un dramma in famiglia). Romanzo contemporaneo, Giuseppe Redaelli, Milano 1862. Burguet, Willy, Échos romanesques et mélodramatiques entre Scapigliatura et bohème. Notes sur une vie de bohème à l’italienne d’Emilio Salgari, in “Interval(le)s. La Revue Électronique du CIPA”, 2008, n. 3 (Emilio Salgari, il mare, l’interdisciplinare, a cura di Luciano Curreri e Fabrizio Foni), pp. 97-101: 97, www.cipa.ulg.ac.be/intervalles3/burguet.pdf (ultima visita: 27 maggio 2009). “Il pezzo della Bohème suonata dal nostro grafofono”. Citiamo da Salgari, Emilio, La Bohème italiana 1898-1899, edizione critica e annotata a cura di Felice Pozzo, Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo 1990, p. 161 (d’ora in avanti, per le citazioni, si riporterà da questo testo). E “grafofono” non è un calembour, come sostiene Pozzo (ivi, p. 122, nota 42), ma è semplicemente un sinonimo di “fonografo”, poco usato ma attestato dal 1892, mentre “fonografo” lo è dal 1875, e sappiamo che Salgari amava talvolta usare parole desuete (cfr. De Mauro, Tullio e Mancini, Marco, Dizionario etimologico, Garzanti, Milano 2000, alle rispettive voci). Cfr. Fiorentini, La Bohème cit., pp. 63, 105,134. Cfr. Salgari, La Bohème italiana cit., p. 159, nota 48. Cfr. Carducci, Giosuè e Vivanti, Annie, Addio caro orco. Lettere e ricordi (1899-1906), saggio introduttivo e cura di Anna Folli, Feltrinelli, Milano 2004, p. 79, nota 85. Cfr. Sanvitale, Francesco (a cura di), La romanza italiana da salotto, EDT, Torino 2002, in particolare le pp. 110-111, 321, 337-338, 371. Cfr. Salgari, La Bohème italiana cit., pp. 27-28. Occorre ricordare che Salgari seguí molte di queste opere come cronista teatrale della “Nuova Arena” (cfr. Gallo, Claudio, Salgari cronista teatrale, in “Bollettino della Biblioteca Civica di Verona”, Autunno 1996, n. 2, pp. 193-246). Arpino, Giovanni e Antonetto, Roberto, Vita, tempeste, sciagure di Salgari il padre degli eroi, Rizzoli, Milano 1982, p. 32. Burguet, Échos romanesques cit., p. 100. Traversetti, Bruno, Introduzione a Salgari, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 57. Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, Donath, Genova 1908, ma precedentemente come inserto in “Per Terra e per Mare”, 1906, 3, nn. 11-31; Id., Le figlie dei faraoni, Donath, Genova 1906. Id., I Robinson italiani, Donath, Genova 1897. Id., Le meraviglie del Duemila, Bemporad, Firenze 1907. Id., Capitan Tempesta, Donath, Genova 1905. Cfr. in proposito Gallo, Claudio, Le avventure immaginarie di Emilio Salgari, in Salgari, Emilio, Per terra e per mare. Avventure immaginarie, a cura di Claudio Gallo, Aragno, Torino-Racconigi 2004, pp. 7-28. Il volume raccoglie i racconti e gli articoli realizzati da Salgari (anche con pseudonimo) sulla

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rivista omonima, e presenta una Bibliografia di Per Terra e per Mare (1904-1906) redatta dal curatore assieme a Vittoriano Bellati (pp. 297-315). Forse è opportuno rilevare che del fenomeno scapigliato sono stati studiati gli sviluppi nei grandi centri letterari (Milano, Torino, Genova ecc.), e assai poco invece nelle sue successive e piú tarde esperienze nella grande provincia italiana, esaminando gli influssi e le relazioni con la letteratura popolare. Caliari, Pietro, Angiolina, Drucker e Tedeschi, Verona-Padova 1884. Salgari, Emilio, Sul lago. Frammento, in “Arena Aymo”, numero speciale di “Arena”, 14 luglio 1886, p. 2. Salgari, Emilio, I misteri della Jungla Nera, Donath, Genova 1895. Una prima versione, come appendice, appare con il titolo Gli strangolatori del Gange su “Il Telefono” di Livorno, dal 10 gennaio al 15 aprile 1887 (riproposta in volume a cura e con prefazione di Roberto Fioraso, Viglongo, Torino 1994). Traversetti, Introduzione a Salgari cit., pp. 29-30. Salgari, La Bohème italiana cit., p. 133. Si vedano il risvolto di copertina e il saggio di Pozzo, Il mare a Torino (pp. 181-194), nella citata edizione Lubrina de La Bohème italiana. Cfr. quindi Tamburini, Luciano, Bohème Salgari, in Tuttolibri, supplemento a “La Stampa”, 3 marzo 1990. Gonzato, Silvino, Quell’orribile museo anti-artistico, in “L’Arena”, 19 febbraio 1993. Gozzano, Guido, La piú bella, in Id., Opere, a cura di Carlo Calcaterra e Alberto De Marchi, nuova edizione riveduta e aumentata, Garzanti, Milano 1956, p. 879. Originariamente in “La Lettura”, 1913, 13, n. 7, p. 623. Salgari, La Bohème italiana cit., p. 118. Cfr. Fioraso, Roberto, L’evoluzione letteraria di Yanez l’avventuriero, in “Yorick Speciale” n. 19 bis, Atti del Convegno Emilio Salgari e la tradizione del romanzo d’avventura, fasc. I, Firenze, 28 marzo 1998, pp. 27-34. Ricaviamo tutte queste informazioni, e le seguenti, dalla citata tesi di Fiorentini. Cfr. Fiorentini, La Bohème cit., p. 131. Ivi, pp. 82 e 72. In volume, La Favorita del Mahdi esce nel 1887 per i tipi del milanese Guigoni, ma precedentemente viene pubblicato su “La Nuova Arena” dal 31 marzo al 7 agosto del 1884, e poi sulla “Gazzetta dell’Emilia”, dal 24 aprile al 26 settembre 1886. I racconti che hanno tra i protagonisti il personaggio “Emilio Salgari” sono stati raccolti in Salgari, Emilio, I racconti del capitano, a cura di Felice Pozzo, Magenes Editoriale, Milano 2006. In proposito cfr. Fioraso, Roberto, Sandokan amore e sangue. Stesure, temi, metafore e ossessioni nell’opera del Salgari “veronese”, Perosini Editore, Zevio (Verona), 2004. Salgari, La Bohème italiana cit. p. 79.

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i. Emilio Testa di Pietra? Trovandomi tra esperti, preferisco trascurare ogni preambolo, tuffandomi subito nel testo, a cominciare dalla prima pagina, quella destinata, secondo una risaputa tecnica dell’autore, a immergerci, sia pure gradualmente, nell’ambiente naturale, geografico e insieme storico.1 La sensazione è sempre la stessa, rassicurante (perché ci colloca da subito all’interno di un contesto narrativo per molti aspetti noto, e che si sa già a priori gradevole), ma insieme eccitante, perché comunque motore di una nuova avventura. Il piacere della lettura è generato appunto da questa situazione solo in apparenza paradossale, che oppone riconoscimento e scarto, norma e deviazione. Vediamo dunque come Salgari orchestra tutto ciò: Il sole tramontava fra una nuvolaglia grigiastra che si era distesa, a poco a poco, gonfiata dal vento di ponente, sopra l’Atlantico. Le onde, che riflettevano gli ultimi bagliori di luce, rumoreggiavano, correndo liberamente fra quell’immensa distesa che si allarga fra le coste americane e le quattrocento Bermude poste, come tanti ridotti, intorno alla Grande Bermuda, che è l’unica isola abitata di quel grosso agglomeramento di terre perdute in mezzo al grande oceano orientale. Due navi s’avanzavano, coperte di vele fino al pomo degli alberetti, rollando dolcemente sotto i colpi delle onde che le investivano sul babordo, sollevandole con un fragore misurato, che sonava come la grande poesia del mare. Il vento di libeccio, abbastanza fresco, gonfiava le tele, sibilando fra le centinaia e centinaia di cordami, paterazzi, sartie, manovre scorrenti e manovre fisse e dentro le griselle. Una era una splendida corvetta, lunga, sottile, ma pure di portata abbastanza grossa, perché ventiquattro pezzi di cannoni uscivano dai suoi babordi, mentre sul cassero e sul largo castello di prora si allungavano, disposti in barbetta, quattro grossi pezzi da caccia. Era coperta di vele, come abbiamo detto, dal ponte ai contrapappafichi. Perfino gli scopamari ed i coltellacci erano stati spiegati al di fuori dei pennoni bassi, delle gabbie e dei pappafichi. L’altra invece era una grossa giunca, larga di fianchi, pesante, di stazzatura assai inferiore alla corvetta che la precedeva, con pochissime artiglierie piazzate tutte in coperta.

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Entrambi i navigli portavano un numero considerevole di uomini, come se fossero veri legni da guerra. Sulla corvetta, sulla cima dell’albero maestro, sventolava una bandiera rossa, segnale di fuoco permanente, ad ogni ora, ad ogni istante, contro tutti e contro tutto; sulla giunca una bandiera rigata, bianca ed azzurra, senza stelle, perché gli Stati Uniti allora non si erano ancora collegati e non avevano fisse le orgogliose stelle della confederazione. Era l’ora della cena. Sulla coperta della corvetta, centocinquanta uomini, di razze diverse (…) stavano divorando, in piedi, la cena, con quell’invidiabile appetito marinaresco che i terragnoli hanno sempre ammirato. Colle gambe allargate per reggersi ai colpi delle onde (…), il piatto posato sul berretto, ingollavano avidamente il merluzzo, sognando la guardia franca. D’un tratto un grido scende dall’albero maestro e li fa sussultare: – Vela al tribordo!2

È naturalmente con quel grido del gabbiere, Piccolo Flocco, che prenderà il via la narrazione vera e propria. Nel frattempo, però, Salgari ci ha già messo a nostro agio, costruendo una pagina ben calibrata sul piano sintattico, con studiati effetti prospettici, che hanno come un corrispettivo sensoriale fondato sulla vista e l’udito; la pagina si apre dunque con il tramonto del sole sull’Oceano, e subito dopo irrompono i movimenti del “vento” e delle “onde”; poi ci presenta “due navi”, descrivendole separatamente, poi insieme. Piú avanti ecco lo zoom sulla “coperta della corvetta”, con i marinai che mangiano voracemente, infine si ode il “grido” di Piccolo Flocco. Intanto Salgari ha provveduto a rendere credibile il suo racconto, non solo dandoci precise coordinate spazio-temporali (l’Atlantico, l’“immensa distesa che si allarga fra le coste americane e le quattrocento Bermude poste, come tanti ridotti, intorno alla Grande Bermuda”; “sulla giunca una bandiera rigata”… “perché gli Stati Uniti allora”…), addirittura abusando – in una sola pagina! – del linguaggio tecnico nautico, davvero ostentato a ogni piè sospinto: “Due navi s’avanzavano, coperte di vele fino al pomo degli alberetti, rollando dolcemente sotto i colpi delle onde”; poi incontriamo: “babordo”, “vento di libeccio”, “cordami, paterazzi, sartie”, manovre “scorrenti” e “fisse”, “griselle”, “babordi”, “cassero”, “castello di prora”, “barbetta”, “contrapappafichi”, “scopamari”, “coltellacci”, “pennoni bassi”, “gabbie”, “pappafichi” e altro ancora. Insistendo nell’elencazione minuziosa è come se Salgari volesse convincerci che in fondo non sta raccontando solo una storia fantasiosa, ma qualcosa che avrebbe potuto accadere realmente. Noi lettori ci facciamo ingannare volentieri, sappiamo che Emilio non ci deluderà. Torniamo ora al momento dell’avvistamento dei legni inglesi, che gettano nello scompiglio i marinai, che si preparano all’assalto. È a

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questo punto che entra in scena uno dei personaggi principali, il secondo di bordo, Howard, “un bell’uomo sulla trentina, piuttosto alto, con una ricca barba nera che gli copre quasi interamente il volto e con due occhi che sprizzano lampi”; egli, nonostante l’imminente pericolo, “non ha staccato dalle labbra la sua pipa, né ha interrotta la sua passeggiata sul piccolo ponte di comando”.3 La nave è dunque in buone mani, come conferma la presenza dell’altro ufficiale di bordo, Testa di Pietra: “Un uomo di forme massicce, che poteva rivaleggiare per sviluppo di muscoli con un gorilla africano, colla barba brizzolata ed irta come quelle di certe bestie selvagge, la testa enormemente grossa (…). / Pareva un vero orso grigio, per le sue forme, come per le sue mosse pesanti”.4 Se Howard rappresenta un personaggio di rilievo, è Testa di Pietra a costituire la vera spalla (alternativa o, meglio, complementare da ogni punto di vista fisico, caratteriale ecc.) del personaggio principale; anzi, per molti aspetti egli è un vero e proprio co-protagonista alla pari, certo piú sciolto e meno prevedibile del Corsaro.5

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Il piacevole inganno che Salgari ci offre (e noi ne siamo consapevoli, anzi, ne godiamo), ci invita a prendere sul serio ogni sua indicazione, almeno fino a prova contraria. Alla luce del testo cerchiamo dunque di capire meglio l’origine (geografica e insieme psicologica) di Testa di Pietra, anche per la sua posizione di assoluto rilievo all’interno del romanzo. Egli, a detta di Salgari, proviene dalla “vecchia Armorica”,6 una regione non del tutto identificabile con i confini dell’attuale Bretagna (e infatti Testa di Pietra è spesso definito genericamente “bretone”). L’aggiunta di questo luogo specifico ma obsoleto, appunto l’Armorica, peraltro non necessario nel contesto geografico, invita a qualche indagine supplementare (come già detto, sarebbe stato sufficiente parlare solamente di Bretagna). Come al solito, tra gli studiosi non c’è unanimità di pareri sull’etimologia di un termine, ma Armorica, grossomodo, parrebbe comunque significare una “terra che si affaccia sul mare”. Quindi un ottimo luogo per produrre pescatori e marinai come Testa di Pietra. Va aggiunto che già anteriormente alla conquista romana, l’Armorica (questa forse la pista storica suggerita dalla doppia aggettivazione “vecchio” / “vecchia”) era abitata da tribú di origine celtica che facevano capo a una sorta di Confederazione armoricana.7 Mi pare curioso che tra i popoli di tale confederazione fossero presenti i Veneti (c’è probabilmente un legame etimologico con l’attuale città francese di Vannes), omonimi ma non quelli del nostro paese, anche se parrebbero avere qualche legame in comune. Di essi scrive Giulio Cesare in un passo del De Bello Gallico (III, 8), che traduco: I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode di maggior prestigio in assoluto, sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno rotta verso la Britannia, sia in quanto nella

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scienza e pratica della navigazione superano tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti abituali di quelle acque versano loro tributi.8

L’ipotesi (piuttosto azzardata, lo so, ma d’altronde con Salgari si è naturalmente portati all’eccesso, seguendo gli indizi disseminati… e non solo) è che lo scrittore conoscesse questo brano, e consapevolmente effettuasse il collegamento Testa di Pietra-bretone-armoricano(-veneto). Senza necessariamente equivocare su di un’identità di origine tra Veneti-Armoricani e Veneti italici, che però non è da escludere, forse Salgari voleva comunque rendere un omaggio indiretto alla sua terra d’origine, il Veneto.9 Ciò potrebbe essere dettato dalla evidente simpatia con cui lo scrittore veronese modella il personaggio Testa di Pietra. Il quale, come è indicato fin dall’attacco del romanzo, sarebbe nato precisamente a Batz (e questo borgo natio compare piú volte come una specie di ritornello in bocca a Testa di Pietra: “Per il borgo di Batz!” ecc.). In effetti, consultando le carte della zona, il nome Batz risulta essere attualmente presente in due località della Bretagna: a Batz-sur-Mer, nel sud, mentre l’isoletta di Batz è a nord della Bretagna, di fronte a Roscoff, e sembrerebbe la maggior candidata all’identificazione.10 In entrambi i casi, Salgari collegherebbe esattamente Batz in Bretagna, rafforzando dunque il concetto di una terra di marinai e di pescatori. Qui sorge però un piccolo problema, che riguarda un’affermazione un po’ sibillina (e comunque non indispensabile rispetto al contesto, dunque perché introdurla?) che vale la pena di riprendere. È Testa di Pietra, durante un colloquio con Howard, a seminare dubbi: “– Va’ Testa di Pietra! – disse il tenente. – Chiacchieri come le donnicciole del borgo di Batz. / – Il mio borgo! – rispose il bretone con un sorriso misto a un sospiro. – Sempre sul mare, sotto o sopra le onde, e Batz non si trova sul mare”.11 A meno di un refuso mai corretto (l’introduzione di un “non” in piú), non è facile comprendere il motivo della precisazione, ossia che Batz non si trova sul mare; perché questa frase, cosa significa? Anche perché, l’abbiamo visto, Batz è davvero in Bretagna (l’antica Armorica), ma si affaccia sul mare o addirittura è un isola in mezzo al mare! Chiedo aiuto a chi mi legge per decifrare il rebus, ma intanto vorrei proseguire nella mia ipotesi interpretativa. Mi pare che quella precisazione non richiesta possa rinforzare la supposizione d’una sorta di gioco di rimandi, effettuato da Salgari, attraverso un percorso tortuoso, una sorta di enigma appunto. Il messaggio che io leggo in filigrana è piú o meno questo: lettore, stai attento, cerca di capire il mio intendimento: Testa di Pietra sono io, un marinaio veneto, nato sul mare e insieme sempre lontano da esso; io sono un comandante della fantasia o forse della realtà, cosí come Testa di Pietra è reale e insieme immaginario.12 Testa di Pietra, e Batz: una sorta di ponte tra terra e mare, gioco di

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specchi, destini paralleli (giusta l’analogia con il capitano Salgari). Si potrebbe poi continuare l’indagine sul piano geografico e folclorico del nome Testa di Pietra, che in primo luogo sembra alludere alla sua testardaggine e forza (peraltro egli è fornito di una testa “enormemente grossa”),13 connotazioni peraltro tipiche dei Bretoni, molto legati alla loro terra e alle loro tradizioni. La Bretagna, straordinario forziere di leggende, è però anche la terra di Re Artú e di dolmen e di menhir (basti pensare a Carnac): quindi “Testa di Pietra” potrebbe indirettamente riferirsi a ciò; o comunque al carattere roccioso del territorio (“noi bretoni abbiamo le zucche dure come le nostre montagne”),14 tanto piú che non di rado anche il paese di Batz viene nel testo definito come borgo di pietre (“Nostra terra di pietre”).15 Alcuni elementi iconografici – a cui Salgari poteva facilmente accedere, come per esempio alcune cartoline raffiguranti la costa rocciosa di Roscoff – sembrano confermare questa ipotesi. In Testa di Pietra dunque convergono e si intrecciano diverse fonti; legate alla conformazione del paesaggio (con la presenza di enormi rocce, anche zoomorfe – si ricordi quanto detto in proposito delle metafore di cui è oggetto il marinaio di Batz – o antropomorfe) e al carattere tenace e ostinato dei residenti. Al di là del personaggio narrativo, facilmente leggibile e collocabile all’interno di una precisa tipologia, Testa di Pietra ci si rivela dunque, alla lettera, come una vera e propria sfinge; una sorta di testo misterioso e composito dietro cui Salgari sembra ora nascondersi, ora palesarsi.16 ii. Una questione di sangue Lo spazio a nostra disposizione ci impone di passare a un secondo e del tutto diverso argomento, occupandoci del protagonista (almeno apparente) del romanzo. È giunto perciò il momento di conoscere William Mac-Lellan. Lasciamo dunque ancora il campo a Salgari, che ce lo mostra, attraverso gli occhi di un osservatore esterno (e non poteva essere altri che Emilio-Testa di Pietra!), in un ambiente particolare, ricavato all’interno della nave: Un salottino elegantissimo, alle cui finestre, che servivano di sabordi, erano delle tende di seta azzurra guarnite di pizzi di Bruxelles, illuminato da un alto candeliere d’argento reggente sei candele, si offrí ai suoi sguardi. In mezzo, fra i divani di seta a fiori rossi e gialli, seduto dinanzi ad un tavolino d’ebano incrostato di madreperla e d’avorio, stava un bel giovane di ventisei o ventisette anni, di statura piuttosto alta, dal colorito pallido, gli occhi azzurri e la barba ed i capelli biondo fulvi. Invece di portare la bianca parrucca, come si usava a quell’epoca, aveva i capelli sciolti sulle spalle, come cinquant’anni prima, e leggermente ondulati, che gli davano un aspetto strano ed insieme grazioso. Vestiva elegantemente, come un cavaliere della corte di Versailles o

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di Westminster. Casacca di panno finissimo azzurro con larghi alamari d’oro, calzoni di pelle, stivaloni alla scudiera, un tricorno gallonato sul capo. (…) Vedendo entrare il mastro della cor vetta, il giovane, che pareva immerso in un dolcissimo sogno, aveva avuto come un leggero soprassalto.17

Per una legge consueta nei romanzi popolari (e che potremmo forse definire retorica della fenomenologia psicologica e dei caratteri), colui che diventerà il suo rivale, vale a dire il Marchese di Halifax, avrà dei tratti fisici assai diversi: “Un uomo di media statura, pallidissimo, con una barba rossastra che gli dava un aspetto sgradevole, e con due occhi quasi neri ed imperiosi”, la “voce ruvida” ecc.18 Al contrario, colei che condividerà il sentimento amoroso, ossia Mary di Wentwort, parteciperà a una sorta di linguaggio comune (qui e sopra evidenziato con il grassetto), che si espanderà persino nell’ambiente esterno: In un salottino minuscolo, colle pareti coperte di seta rossa damascata, con piccoli divani all’intorno ed un tavolino d’ebano nel mezzo, sul quale fumavano quattro candele di sego, montate però su candelieri d’argento massiccio, stava seduta su di una comoda poltrona Mary di Wentwort. Vedendo entrare il marinaio, si era alzata di colpo fissando su di lui i suoi occhi d’un azzurro profondo, che nemmeno i mari o gli oceani avrebbero potuto agguagliare nelle loro diverse, anzi infinite, tinte. Era una bellissima fanciulla di appena diciott’anni, alta, slanciata, con un vitino da vespa, racchiuso in un accappatoio di percalle azzurro guarnito con pizzi di Bruxelles. Aveva i capelli biondi, che davano i riflessi dell’oro di miniera, le labbra piccolissime, rosse come il corallo del Mediterraneo, le gote rosee come le grosse mele di Normandia.19

Per quanto concerne il linguaggio amoroso, e il suo alfabeto speciale, nel romanzo salgariano esso si sostanzia di due elementi naturali, la luna ed il mare (con la persino banale assimilazione fonica di “mare” / “Mary”), che hanno come elementi complementari la notte e la musica; tutti segnali che vengono puntualmente ribaditi nel testo: Mary di Wentwort mi aveva giurato, di fronte al mare, durante le notti di luna, il suo amore, gridandolo alto in un momento in cui la risacca si rompeva fragorosamente contro le scogliere dell’isola. Ah! quella notte!... Abbracciati sulle dune di sabbia, in faccia alla luce della luna che sorgeva sull’orizzonte (…) ascoltavamo il ritmo sonoro delle onde. Voi, colonnello, non siete mai stato marinaio e perciò non potete aver compreso la grande poesia del mare. Quando l’onda monta, la costa ha dei suoni che voi non potreste comprendere. È

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una musica divina, una musica che vale tutte quelle create dagli strumenti d’ottone, di rame, di bronzo.20

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E poi: “L’onda sale, dolce, dolce, rumoreggiando pian piano, poi scatta e si rompe sulle rive. Che musica divina! In una notte di luna, ognuno rinuncerebbe ai piú grandi maestri della nostra epoca. Che suoni dà la risacca quando s’avvicina alla costa! La udite da lontano, la udite avvicinarsi lieve lieve con un suono che sembra un’armonia di mille strumenti. Ah! bisogna essere nati marinai! La gran voce dell’oceano noi soli sappiamo comprenderla”.21 Le note dell’amore condiviso intessono una “musica divina” che non tutti possono intendere; allo stesso modo “la grande poesia del mare” (già celebrata nella prima pagina del romanzo) necessita di cuori puri che ne sappiano decifrare le pause e il ritmo segreto. A parte queste osservazioni, forse poco sistematiche ma – spero – suggestive, derivate dalla ricchezza della trama salgariana, è indubbio che il motore centrale del romanzo (e poi della cosiddetta trilogia, che comprende, non dimentichiamolo, anche La crociera della Tuonante e le Straordinarie avventure di Testa di Pietra) sia la classica ricerca (complessa e piena di ostacoli) della soddisfazione del desiderio amoroso, in cui si innesta un’altrettanto tipica situazione di offesa / vendetta. Ciò detto, vale comunque la pena di ricostruire gli antefatti utilizzando in una sorta di collage di citazioni le parole stesse del protagonista, William Mac-Lellan, cosí come appaiono in successione nel libro. Qui incontriamo già nelle prime pagine una sorta di anticipazione del nucleo centrale: – Mary! – mormorò. – Sposa di lui? Mai, mai!… L’infame che ha pure nelle sue vene il sangue di mio padre, me l’ha rapita; ma io saprò riprendergliela. Sono un bastardo, dicono nella Scozia; sono un bastardo, dice mio fratello, perché sono nato da un’altra donna che non si chiamava lady Anna dei duchi di Lorne. Quale colpa ne ho io se mio padre si è innamorato di un’altra donna che non era inglese e che non poteva sposare? Un marchese d’Halifax io non sono, è vero. Giorgio IV mi ha creato nobile, eppure sono costretto, io, scozzese, a volgere le armi contro l’Inghilterra... Succeda quello che deve succedere, io riavrò Mary o mi uccideranno dentro le mura di Boston.22

Il lettore non può fare a meno di stupirsi per quel “bastardo”, termine su cui insiste William; è come se per un verso egli riconoscesse il fatto oggettivo, ed infamante; dall’altro, come se volesse giustificare quella che agli occhi di tutti (e di se stesso) appare comunque come una colpa.23 Ma non anticipiamo troppo le possibili interpretazioni, piuttosto chiniamoci ancora sul testo: – Voi non siete un figlio del marchese d’Halifax? – chiese l’americano. – Sí, mio padre, rimasto vedovo e passato in Francia, s’innamorò di

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una giovane e bellissima castellana, la quale gradí subito i suoi omaggi. Io nacqui nel momento in cui ferveva la guerra nelle Fiandre. Mio padre cadde sul campo di battaglia, spento da una palla di cannone che lo tagliò a metà, prima d’aver avuto il tempo d’impalmare la bella francese. Mia madre poco dopo moriva anch’essa, lasciandomi solo al mondo, ma possessore d’un castello nella Turenna e di vaste tenute. Un vecchio scudiero, che era stato nella sua gioventú un famoso spadaccino, si occupò della mia educazione. Col tempo però quel paese mi divenne odioso, ed avendo ereditato anche un piccolo castelluccio in Bretagna, andai a stabilirmi sulle rive del mare. A quindici anni ero un valente marinaio, oltre a essere un abile uomo d’armi. Quante volte io ho guidato le barche di contrabbandieri! E quante volte, durante la guerra, ho dato la caccia alle orde spagnole fino in mezzo al Mare di Biscaglia!24

E poco piú avanti: Avevo venticinque anni e spadroneggiavo la Manica col mio Tuonante, che avevo armato a mie spese e che batteva i colori di Francia, quando un giorno, mentre mi riposavo nel mio castelluccio, di ritorno da una lunga crociera (…), venne a trovarmi un gentiluomo inglese incaricato di rimettermi dei documenti da parte del marchese d’Halifax. Fino allora ben poco avevo saputo intorno a mio padre ed avevo sempre ignorato che avesse avuto un figlio dalla sua prima moglie, una duchessa d’Argyle. Il marchese mi rimetteva la mia nomina di baronetto inglese, sotto il nome di William Mac-Lellan, firmata dal Re d’Inghilterra, come mio padre ne aveva espresso il desiderio nel suo testamento, e nel medesimo tempo m’invitava a lasciare la marina francese e a raggiungerlo nel suo castello d’Alstal, situato in un’isola delle Ebridi. Fino allora avevo creduto di avere nelle mie vene sangue puramente francese. Il sangue inglese ebbe in me un momentaneo risveglio e partii per le isole scozzesi.25

Come sappiamo, dopo un colloquio col fratello, William diviene corsaro sotto la bandiera inglese; a questo punto si colloca il fatidico incontro d’amore, che in qualche modo pare riscattare il bastardo dalla colpa e dal senso d’inferiorità rispetto al fratello di sangue puro. Riprendiamo dunque il testo: Passarono altri anni, pochi però, e durante le tempeste invernali, che battevano i fianchi delle Ebridi con una furia formidabile, ritornavo al mio nido, al castello d’Argyle, la cui baia era profonda e sicura. Appunto durante uno di quei ritorni trovai Mary di Wentwort, una gentildonna scozzese imparentata ai duchi di Fife e di Lorne, le due piú alte nobiltà dell’Inghilterra settentrionale. Vederla ed amarla fu per me una sola cosa. Mi sapeva corsaro intrepido e mi amò. Il marchese d’Halifax, come seppi poi, aveva già messo gli occhi su quella

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pallida perla del nord. Egli credeva che il bastardo non potesse competere con lui. Il corsaro vinse e fu deciso il nostro matrimonio.26

Dunque, riassumendo: William, nato da una relazione illegittima (ma solo perché non sancita dalle nozze, in quanto il padre era comunque vedovo) del duca di Halifax con “una giovane e bellissima castellana” francese (che dobbiamo forse supporre agiata ma non nobile), è sul punto di ottenere una sorta di risarcimento morale (e quasi genetico) unendosi con Mary di Wentwort, non a caso “imparentata ai duchi di Fife e di Lorne”, che – Salgari tiene a precisarlo – costituiscono “le due piú alte nobiltà dell’Inghilterra settentrionale”. Attraverso Mary, William potrà in qualche modo purificare il suo lignaggio, trasfondendo in esso lo stesso sangue della madre del fratello, una non dimentichiamolo “lady Anna dei duchi di Lorne”. Sarà dunque il sangue dei Lorne (a cui partecipano Anna e Mary) a rigenerare William. Questa possibile – ma narrativamente sterile27 – soluzione viene però subito interrotta da un’altra circostanza, il rapimento di Mary da parte del fratello, anch’egli innamorato “alla follia” (e questo termine potrebbe giustificare molte cose…) della giovane.28 Ma seguiamo ancora le parole di William: 82

– Ero partito per Edimburgo, dove volevo acquistare dei gioielli per colei che doveva diventare la mia sposa. Non l’avessi mai fatto! Quel viaggio, durato appena una settimana, spezzò la mia vita. – Perché? – domandò il colonnello Moultrie. – Perché quei sette giorni bastarono al marchese d’Halifax per compiere il piú infame dei tradimenti. (…) – Me l’aveva rapita – gridò – cinque giorni prima del mio ritorno ed era partito per l’America insieme col generale Howe, che conduceva laggiú una grossa partita di fanti tedeschi assoldati nell’Assia e nel Brunswick.29

Da qui, come è ovvio, la decisione del corsaro di veleggiare alla volta di Boston (dove si era trasferito il fratello), passando dalla parte degli Americani, nel tentativo di impedire il matrimonio di Mary con il marchese di Halifax. A questo punto però la situazione è già cambiata radicalmente: la rigenerazione potrà avvenire solamente attraverso il sangue della vendetta.30 Come al solito, Salgari aveva già in parte anticipato tale soluzione, spargendo nel testo degli indizi che ora divengono tasselli fondamentali di un vasto disegno. Esemplare è in quest’ottica il passo seguente, in cui il lettore s’imbatte, non senza difficoltà di interpretazione, all’inizio del romanzo; passaggio che invece risulta come una chiave di interpretazione dell’intera macchina narrativa: “Si riempí per la terza volta il bicchiere e vi guardò a lungo dentro. / – Ecco i suoi occhi azzurri che scintillano nel fondo, sopra l’eterna macchia di sangue. È il sangue dei marchesi di Halifax e dei Lorne fusi insieme, o il mio? L’avvenire me lo dirà. Bevo gli occhi e il sangue insieme”.31

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Se la realizzazione del progetto di William dovrà essere forzatamente rimandata (per esigenze editoriali), ne I corsari delle Bermude troviamo comunque una sorta di momentanea risoluzione: un duello appunto all’ultimo (o, meglio, penultimo) sangue. Che si risolve con il fratello malvagio ferito, e lo sguardo attento di Testa di Pietra che osserva la “casacca rossa del colonnello macchiarsi d’una tinta piú cupa”; mentre il corsaro significativamente commenta: “Non è sangue azzurro quello degli Halifax! (…) È rosso come il mio”.32 Nella medesima pagina partecipa all’evento (che pare comunque risolvere la trama romanzesca fondata sulla vendetta, con soddisfazione del lettore) Mary, che cosí viene descritta da Salgari: “La bionda miss aveva mandato un grido di spavento ed i suoi occhi azzurri come la profondità del mare, si erano fissati sulla macchia rossa che andava sempre piú allargandosi sulla casacca del marchese”.33 Ecco riapparire dunque l’azzurro e il rosso, e la geniale con-fusione tra descrizione realistica ed interpretazione simbolica.34 Un gioco di riflessi che frastorna e seduce, come il “grande specchio di Venezia”,35 in cui William-Emilio-Testa di Pietra cercava(no) disperatamente i segni della propria identità. Appendice iconografica Per rendere piú convincente la mia ipotesi interpretativa relativa alla possibile confusione biografica, tra autore e personaggio (in particolare Testa di Pietra), propongo tre documenti: una cartolina – presumibilmente di fine Ottocento / inizio Novecento – in cui sono raffigurate le caratteristiche rocce di Roscoff (di fronte all’isola di Batz), che potrebbero facilmente richiamare alla fantasia immagini antropomorfe o zoomorfe (fig. 1); e poi due cartine che mostrano la quasi sovrapponibilità geografica fra la zona abitata dai Veneti (nel sec. I a.C.) e l’attuale territorio bretone nei dintorni di Roscoff e Batz (figg. 2 e 3).

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Mi arrischio qui, incoscientemente, a un pericoloso esercizio al trapezio, senza rete di protezione, ignorando peraltro ciò che diranno i colleghi che tratteranno gli altri due testi del ciclo dedicato alle Bermude, ove certo torneranno i temi da me affrontati. I corsari delle Bermude esce in volume nel 1909, per i tipi della fiorentina Bemporad. Nel medesimo anno, in dispense allegate a “Il Giornalino della Domenica” (pubblicato sempre da Bemporad), il romanzo compare a partire dal 10 gennaio, e si protrae fino al 23 ottobre 1910. Le citazioni sono tratte dall’edizione Fabbri, Milano 2002. Nel corso della mia lettura ho costantemente tenuto presenti i suggerimenti contenuti in Foni, Fabrizio e Gallo, Claudio, I nuovi corsari del ciclo delle Bermude: la rivincita (non solo morale) dei caratteri secondari, in Galli Mastrodonato, Paola I. (a cura di), Il tesoro di Emilio. Omaggio a Salgari, Bacchilega Editore, Imola 2008, pp. 97-112. Salgari, I corsari cit., pp. 7-8. Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. Il paragone o la metafora zoologici sono

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ripresi subito dopo (“L’orso della Bretagna”, ibid.; “Passo pesante d’orso grigio”, ivi, p. 10), e sarà ricorrente anche negli altri capitoli. Non a caso il terzo romanzo del Ciclo dei Corsari delle Bermude sarà intitolato Straordinarie avventure di Testa di Pietra (Bemporad, Firenze 1915). Si legge: “Guai però se uno si fosse imbattuto in quel vecchio figlio della vecchia Armorica, la terra delle pietre e delle teste quadre della Bretagna, quella terra che ha sempre dato alla Francia i suoi migliori marinai” (Salgari, I corsari cit., p. 9); piú avanti, poi, si trova: “cuori di pietra dell’Armorica” (ivi, p. 97). Come gentilmente mi suggerisce l’amico Mario Tropea, nell’opera di Arthur Rimbaud non mancano richiami a questa origine gallo-celtica. E in particolare vorrei qui ricordare un passaggio di Mauvais sang (sezione iniziale di Une saison en enfer), ove Rimbaud immagina di trovarsi “sur la plage armoricaine”; ma, fatte le debite distinzioni, è qui notevole il medesimo passaggio ipotizzato in Salgari (ovviamente con tutt’altri intendimenti poetici), ossia il ritorno alle origini celtiche: “J’ai

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de mes ancêtres gaulois l’œil bleu blanc, la cervelle étroite, et la maladresse dans la lutte. Je trouve mon habillement aussi barbare que le leur”. E ancora in una prospettiva diversa, si licet parva componere magnis, è forte la tentazione di usare i versi geniali e disperati del Bateau ivre per attraversare tutto il corpus dell’opera salgariana. Trascrivo il passo nella lingua originale: “Huius est civitatis longe amplissima auctoritas omnis orae maritimae regionum earum, quod et naves habent Veneti plurimas, quibus in Britanniam navigare consuerunt, et scientia atque usu rerum nauticarum ceteros antecedunt et in magno impetu maris atque aperto paucis portibus interiectis, quos tenent ipsi, omnes fere qui eo mari uti consuerunt habent vectigales”. Salgari potrebbe aver consultato Loth, Joseph, Chrestomathie Bretonne (Armoricain, Gallois, Cornique), Émile Bouillon Libraire-éditeur, Paris 1890, studio precedentemente apparso “par fragments successifs” negli “Annales de Bretagne”, tra l’aprile del 1886 e il novembre del 1889. Nel primo capitolo de La crociera della Tuonante (Bemporad, Firenze 1910), secondo romanzo del Ciclo dei Corsari delle Bermude, Testa di Pietra parlando con Piccolo Flocco gli ricorda che in gioventú “facev[a] girare la testa a tutte le ragazze non solo di Batz, ma anche di Roskoff” (dall’edizione Fabbri, Milano 2002, p. 12, dalla quale si citerà anche piú avanti). A sua volta Piccolo Flocco condivide con Testa di Pietra la regione geografica di nascita, ma egli è “di Poulguen” (Salgari, I corsari cit., p. 59), non distante da Quimperlé. Bretone sarà anche il boia, e la comune origine geografica sarà determinante per la salvezza del baronetto (cfr. ivi, p. 144). Salgari, I corsari cit., p. 10. In questo caso – e proseguendo liberamente nel gioco delle allusioni, e delle illusioni: non è a ciò in fondo che mira Salgari? – il nome Testa di Pietra rappresenterebbe dunque in maniera sintetica e oppositiva sia la parte fantastica e sognatrice (Testa), sia quella invece legata al principio di realtà (Pietra). L’interpretazione generale, ripeto, non è comunque semplice, anche perché in un luogo diverso Testa di Pietra afferma che “i [suoi] avi dormivano sempre sul mare” (ivi, p. 71), come a ribadire la posizione di Batz, sopra clamorosamente negata. Ivi, p. 9. Ivi, p. 123. Ivi, p. 10. Seguendo (incautamente?) una libera associazione di pensieri, verrebbe di legare il nome sfinge al nome dell’omonima farfalla, l’acherontia atropos, definita anche “Testa di morto”. Il cortocircuito a livello simbolico e interpretativo diventerebbe dunque pericolosamente assai piú ricco, sprofondandoci in un complesso labirinto, quasi un rito funebre di passaggio. Ivi, pp. 10-11 (miei i grassetti). Ivi, p. 99. Ivi, p. 94. Del tutto diversa (e in qualche modo alternativa) sarà ovviamente l’immagine di Mary anticipata da Testa di Pietra: “Lí sotto c’è la donna, ne sono sicuro. Mary! Quante volte l’ho udito questo nome sfuggire dalle sue labbra! Mary! Che strega infernale sarà costei? Ma io a vent’anni

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sono scappato in mare per non rompermi il collo con quelle streghe e mi sono trovato bene. Vento, luce, sole, azzurro infinito, valgono piú di tutti gli occhi azzurri delle fanciulle della nostra terra di pietre” (ivi, p. 10). Ma in tutt’altra prospettiva (quella della possibile confusione biografica tra autore e personaggio) si rilegga la parte finale, che sembra una sorta di programma esistenziale di Emilio: vento, luce, sole, azzurro infinito... Ivi, p. 21. Ibid. Chi parla è ovviamente William Mac-Lellan (e/o Salgari?). In effetti però – come si vedrà tra poco – neppure lui è nato sul mare, né da marinai (si ricordi il sibillino “e Batz non si trova sul mare”). Ivi, p. 14. Possiamo almeno accennare a un altro versante che in qualche modo riafferma – sia pure da posizioni assai diverse: cfr. per esempio ivi, p. 55 – il tema della paternità; alludiamo al rapporto affettivo che si instaura tra Testa di Pietra (un cinquantenne – come del resto Salgari – che potrebbe essere padre di William) e il giovane Piccolo Flocco, di cui, non a caso, si dirà (nel romanzo successivo) che è stato “adottato come figlio” (Salgari, La crociera cit., p. 12). Salgari, I corsari cit., p. 20. Compare in questo racconto di William una feconda contraddizione; contrariamente a quanto affermato poco sopra, egli non nasce marinaio, ma lo diventa da adolescente. Una distrazione probabilmente volontaria, ma che insiste sul medesimo tema di Testa di Pietra-Emilio, cosí da ampliare lo spettro della ricerca di un’identità, confondendo autore e personaggi. Ibid. Ivi, p. 21. Affiora qui, per ora senza soluzioni, il problema dell’ideazione complessiva del romanzo, forse già pensato (ma a quanto pare non abbiamo dati sicuri) come parte di una sequenza piú lunga, infine conclusa in trilogia. Salgari, I corsari cit., p. 21. Ivi, pp. 21-22. Ciò non comporta necessariamente – almeno ne I corsari delle Bermude – l’uccisione del fratello (esemplare al riguardo il passo in cui il baronetto si preoccupa di non aver colpito a morte il marchese di Halifax: cfr. ivi, p. 110) ma sí la ferita per provocarne una sorta di confronto (visivo e insieme simbolico) ematico, in grado di cancellare l’onta di bastardo. D’altra parte la morte del rivale avrebbe inesorabilmente bloccato la macchina narrativa, che invece doveva distendersi in altri episodi. Ivi, p. 14. Ivi, p. 105. Ibid. È lo stesso Salgari ad autorizzare questa lettura simbolica, facendo cosí dialogare Testa di Pietra (in veste di aiutante del boia) e Howard: “– Ora guardate un po’ il costume che indosso, tenente – rispose il bretone. – Non vedete che sembro un vero carnefice? Tutto rosso come il sangue che i boia fanno spillare in un modo o nell’altro ai poveri condannati. E questo mantello nero? Oh, che lugubre bandiera!” (ivi, p. 154). Ivi, p. 14.

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L’intento del presente saggio è di rilevare le analogie esistenti tra Le Selve Ardenti di Emilio Salgari e la concezione leopardiana dei “californii”,1 espressa in diversi scritti del poeta, tra cui il componimento Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano (1824, ma la cui stesura risale al 1822). In altre parole, i nativi d’America descritti da Salgari nelle sue opere corrispondono per molti versi ai “californii” di Leopardi, e in entrambi i casi, all’orizzonte, si prospetta l’arrivo della civiltà bianca, portatrice inesorabile del progresso, che attuerà la distruzione di un preesistente stato di felicità. A prima vista, l’accostamento tra Leopardi e Salgari potrebbe sembrare azzardato, persino offensivo per alcuni, considerate le barriere all’apparenza insormontabili, soprattutto in Italia, tra la cosiddetta cultura alta e la cultura popolare. Ed è precisamente a tale dicotomia che Antonio Gramsci dedicò una delle sue analisi piú lucide della società italiana, in Letteratura e vita nazionale: ovverosia, alla distinzione tra il “nazionale” e il “popolare” che esisteva – e che per alcuni aspetti permane tuttora – in Italia. Alla non diffusione tra il popolo della letteratura “artistica”, Gramsci affiancò la mancanza di una letteratura italiana autenticamente “popolare”, capace in altre parole di “elaborare i sentimenti popolari”.2 Nonostante tale affermazione, la tesi qui sostenuta è che Salgari, benché autore borghese che scriveva soprattutto per borghesi, produsse una letteratura riconducibile al genere “popolare” in quanto i suoi romanzi, e nella fattispecie le opere in esame, sviluppano impulsi presenti negli strati popolari della società italiana. In altre parole, i personaggi salgariani del Ciclo del Far West rivestono un ruolo molto simile a quello attribuito da Gramsci ai personaggi dei romanzi d’appendice, nel senso che essi esprimono alcuni sentimenti diffusi tra i lettori della letteratura popolare dell’epoca. Nonostante la popolarità del suo lavoro tra le masse, o forse proprio a causa di essa, Salgari venne perlopiú considerato negativamente, soprattutto se paragonato a Verne, De Amicis e persino a Collodi: una negligenza della critica, che solo di recente ha iniziato ad analizzare a fondo il corpus immenso dell’autore veronese. Eppure, per generazioni di giovani i romanzi salgariani erano letture d’obbligo, e sono stati d’ispirazione per gli individui piú disparati, quali Sergio Leone, Federico Fellini ed Ernesto “Che” Guevara.3 L’enorme successo dei romanzi è in parte attribuibile alle descrizioni – in pre-

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valenza orchestrate mediante una lingua stereotipica – di identità culturali extraeuropee, cosí insolite per i lettori dell’epoca. Come ha rilevato Bàrberi Squarotti, uno dei temi centrali della narrativa di Salgari è la guerra “degli irregolari”,4 non gli scontri tra eserciti ben organizzati, come avveniva in Europa, ma un conflitto in cui uno degli avversari esula da tali schemi e si contrappone a uno schieramento che, invece, spesso rappresenta proprio l’egemonia dell’imperialismo di stampo europeo.5 Questa parte altra, extraeuropea ed emarginata, che incarna virtú tradizionali, è conscia dell’inevitabilità della propria disfatta, della propria sconfitta “storica”: un mondo antico, una società “dei prodi”, dovrà piegarsi all’espansione europea basata sulla tecnologia, e ciò rende “l’eroismo dei protagonisti e le loro imprese piú belli, li stacca dal piano reale per proiettarli in quello dell’immaginario e del mito”.6 Una delle caratteristiche piú singolari dei romanzi salgariani scritti tra il 1880 e il 1911 – ossia quando l’Italia si addentrava nelle prime avventure coloniali – è che le storie tendono a difendere la causa dei combattenti per la libertà, e indirizzano le simpatie dei lettori proprio verso questa parte perdente nella lotta coloniale contro le potenze imperiali.7 Come spesso avviene nelle opere di Salgari, i protagonisti amerindi della trilogia western sono in lotta contro un impero di origine europea, e tendono cosí a riscuotere una certa popolarità tra i lettori dell’epoca, anch’essi angariati dagli ideali positivistici di ordine e di disciplina proposti dalla società italiana di allora.8 In questo ciclo, tuttavia, Salgari rompe gli schemi dell’età umbertina-giolittiana e dell’impero nascente,9 presentando il West non come una terra vergine da mettere sotto l’aratro, un Altrove esotico da civilizzare, ma come una terra di una natura impenetrabile, popolata da “scotennatori” pagani, disposti a morire piuttosto che sottomettersi all’invasore bianco. Se è possibile quindi definire Salgari creatore della figura mitica dell’amerindo nell’immaginario collettivo italiano, una rappresentazione che tuttora permea la visione degli amerindi in Italia, è altrettanto vero che una rappresentazione molto simile a quella salgariana apparve anni prima con Leopardi. Per quanto riguarda i “californii”, come accennato sopra, la principale descrizione di questo popolo proviene dall’ultima parte dell’Inno ai patriarchi: “Tal fra le vaste californie selve / Nasce beata prole, a cui non sugge / Pallida cura il petto, a cui le membra / Fera tabe non doma; e vitto il bosco, / Nidi l’intima rupe, onde ministra / L’irrigua valle, inopinato il giorno / Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro / Scellerato ardimento inermi regni / Della saggia natura! I lidi e gli antri / E le quiete selve apre l’invitto / Nostro furor; le violate genti / Al peregrino affanno, agl’ignorati / Desiri educa: e la fugace, ignuda / Felicità per l’imo sole incalza.”10

Nella visione leopardiana del Nuovo Mondo, i “californii” vivevano ancora allo stato primitivo puro, e costituivano per il poeta il simbolo di un residuo di umanità ancora incontaminata dalla cultura

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occidentale. L’età dell’oro leopardiana, ben distante dal naturalismo di Rousseau, coincideva quindi con uno stadio pre-sociale dell’uomo sulla terra, quando qualsiasi ordine era sconosciuto. Il rancore contro l’oppressione della società a lui contemporanea, infatti, spinse Leopardi a negare ogni forma di organizzazione sociale e a esaltare uno stato primordiale, in cui la felicità era conseguenza diretta della libertà da ogni coercizione.11 Con i “californii”, Leopardi propose l’associazione di qualità umane con un mondo idealizzato e irrecuperabile, un passato ordinato caratterizzato da una conscia comunione di proprietà e di intenti.12 Nella distinzione che il poeta fece tra il primitivo e il barbaro,13 la definizione della civiltà assunse una connotazione negativa di corruzione, con la felicità dei “californii” considerata come il risultato dell’assenza di ogni forma di civiltà. È possibile constatare come Leopardi valutasse in modo negativo il contatto con i primitivi californii, “a cui non sugge / pallida cura il petto”, destinati a essere corrotti dallo “scellerato ardimento” dei civilizzatori europei. I californii sarebbero inevitabilmente destinati all’incivilimento e alla corruzione, le qualità caratteriali e culturali che il poeta assegnava loro sarebbero dunque andate perse, cosí come le tribú delle pianure erano divenute barbare in seguito al contatto corrompente della civiltà occidentale, la quale a sua volta si era allontanata volontariamente e ripetutamente da uno stato di “felicità”.14 Sebbene nella tripartizione leopardiana dei popoli delle Americhe – cosí come viene rappresentata da Stefania Buccini – sia messa in evidenza una distinzione tra i californii e le società tribali che appaiono nella Scotennatrice e nelle Selve Ardenti, le qualità attribuite da Leopardi ai primitivi trovano forti corrispondenze nelle qualità amerinde descritte nel ciclo da Salgari, il quale ricalca la visione dello stesso Leopardi, sovrapponendo tuttavia le due categorie leopardiane dei primitivi e dei barbari. Nello Zibaldone Leopardi parla della superiorità fisica, della robustezza e della forza dei californii, “doppi nel fisico piú sani, forti, allegri d’aspetto, e certo nel morale e nell’interno felici, che non questi europei”.15 Altrove, tuttavia, tali qualità vengono estese ai popoli amerindi in generale; ad esempio, ai capi indiani della Georgia di cui il poeta include una descrizione nell’appendice al Dialogo di un cavallo e un bue (databile al 1820): “questi avevano un’apparenza di vigor muscolare superiore ancora a quella degli Americani”.16 Inoltre, nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (1824), gli abitanti della nuova terra appaiono descritti come “molto maggiori di corpo, piú gagliardi, piú destri”.17 Infine, nel commento al già citato Inno ai Patriarchi, Leopardi rileva la robustezza fisica e la tranquilla vecchiaia dei californii: “I loro corpi sono robustissimi (…). La gioventú è robusta e lieta; la vecchiezza riposata e non dolorosa”.18 Nel ciclo salgariano, queste caratteristiche fisiche assegnate agli amerindi emergono ripetutamente, ad esempio in riferimento a Nube Rossa, “robusto ancora, malgrado il gran numero di primave-

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re che gli pes[a]no sulle spalle”,19 oppure a Sandy-Hook, personaggio bianco che si traveste da indigeno. Tuttavia, è specialmente con Minnehaha, la vera protagonista del ciclo,20 che tali qualità si delineano chiaramente. La superiore prestanza fisica della donna viene spesso messa in risalto, assieme a qualità caratteriali fuori della norma. Minnehaha è fisicamente uguale alla madre, Yalla, descritta dall’autore come una “bellissima indiana” e “vera bellezza”,21 e come Yalla mostra “qualche cosa di duro, d’imperioso, che si adatt[a] meglio ad un guerriero anziché ad una donna”.22 Donna di carnagione scura e dai “lineamenti energici”,23 è presentata in una posizione di autorità e per questo risulta attraente agli occhi dell’uomo bianco, sebbene John Maxim precisi la “ripulsione istintiva” per la razza rossa diffusa tra tutti gli uomini bianchi.24 Inoltre, le qualità di Minnehaha non si limitano al livello fisico ma si estendono anche alla personalità e all’intelletto: è una donna che “ha superato sua madre per valore, per audacia”,25 sebbene crudele, che parla un inglese “abbastanza pur[o]”.26 La superiorità degli amerindi, nei testi, si estende anche al fantastico, persino con accenni fantascientifici,27 specificamente nel terzo capitolo delle Selve Ardenti (L’isola delle belve), che ricopre diverse funzioni narrative. La figura centrale di questa parte del libro è una giovane indiana – l’ultima degli Atabask, cui l’autore non assegnerà mai un nome – che esibisce poteri misteriosi, simbiotici con la natura. Infatti, la giovane salva i personaggi bianchi dagli animali carnivori presenti sull’isola, controllando questi ultimi con la sola volontà. Tale capacità sovrumana conduce all’associazione di questa donna con la figura del superuomo che, come ricorda Gramsci, era una concezione connessa alla letteratura d’appendice.28 Nel capitolo, Salgari attribuisce tale capacità non solo a un extraeuropeo, ma addirittura a una donna extraeuropea. Descritta con “lineamenti bellissimi”,29 la giovane è tuttavia vista dai personaggi bianchi come selvaggia, non solo per l’etnia ma anche per l’accostamento al mondo animale che suscita in loro una certa diffidenza, la medesima diffidenza che la civiltà bianca dimostra nei confronti della Natura. Nell’arco della storia, la giovane verrà uccisa dalle belve in precedenza controllate: quindi, il legame con la Natura è simbolicamente frantumato proprio in seguito all’arrivo dei bianchi sull’isola, situazione che ricalca il fenomeno piú ampio della colonizzazione del West. L’elemento fantastico del capitolo, in associazione a una superiorità misteriosa degli amerindi, viene anche enfatizzato dalla presenza di una tecnologia ignota ai personaggi bianchi: una fonte di luce inspiegabile (e mai spiegata), denominata “la fiamma eterna del Grande Spirito”: “Un’asta di rame pendeva dal soffitto fra una moltitudine di stallattiti [sic] e terminava in un vaso di pietra entro il quale ardeva quella sostanza sconosciuta”.30 Il gruppo degli occidentali è consapevole che questa “fiamma” sarebbe di estremo interesse per gli scienziati della società statunitense ma, a causa di un certo oscuranti-

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smo derivante dalla sottintesa opinione che nulla degli amerindi può essere di valore, si decide infine di ignorare la straordinaria risorsa. L’ultima funzione narrativa dell’isola delle belve deriva dal fatto che essa è anche un mausoleo contenente centinaia di mummie degli Atabask. Come tomba atavica, l’isola conferma l’antichità della civiltà Atabask, ma le mummie verranno successivamente usate per alimentare le fiamme con cui il gruppo dei bianchi si proteggerà dalle belve inferocite,31 in seguito alla morte della giovane. L’incenerimento delle mummie corrisponde alla profanazione del luogo sacro e anche alla distruzione simbolica della memoria collettiva della cultura amerinda, delitti che andranno ad aggiungersi al genocidio, di cui la civiltà bianca è causa, simbolicamente reso nel capitolo con la morte dell’ultima degli Atabask, come conseguenza del contatto con la civiltà bianca. Per quanto riguarda i tratti negativi attribuiti agli amerindi, questi compaiono quasi esclusivamente nei dialoghi dei bianchi e divergono in modo significativo dalle opinioni espresse nei brani del narratore extradiegetico. Nel primo caso, le pellirosse della trilogia posseggono “caratteri violentissimi”,32 che si materializzano nel “barbaro spettacolo” del palo della tortura.33 Moralmente gli amerindi sono protettori di “canaglie”,34 “maledetti” e traditori,35 privi di alcun senso di riconoscenza.36 Il narratore invece si sofferma soprattutto sulle qualità negative dell’“uomo bianco [che] ormai consider[a] l’uomo rosso, legittimo proprietario del suolo, come un intruso destinato presto o tardi a scomparire”.37 Infatti, il narratore descrive la civiltà statunitense con toni leopardiani, come “distrutt[rice] inevitabile della razza rossa”, rea di massacri,38 il cui comportamento è comprensibile solo alla luce di un genocidio sistematico: oltre allo sterminio fisico, Salgari narra del rifiuto americano di permettere l’emigrazione degli Sioux in Canada, accompagnato dalla volontà ir removibile di rinchiudere le tribú nelle riser ve, 39 per “distruggerl[e] poi lentamente con dei torrenti di vetriolo”.40 Accanto al genocidio, quindi, Salgari sottolinea anche il lento processo di isolamento e degradazione,41 a causa della diffusione dell’alcool, addirittura inventato secondo il narratore dagli “spietati yankees”, con lo scopo preciso di “abbrutire completamente gli ultimi superstiti della grande famiglia della razza rossa”.42 È rilevante in questo senso che gli effetti deleteri dell’alcool, come simbolo dell’influenza negativa della civiltà sulla cultura amerinda, fossero già apparsi nello Zibaldone: “Le tribú selvagge d’America che (…) si spengono altresí da se medesime a forza di ebrietà, non fanno questo perché sono selvagge, ma perché hanno un principio di civiltà”.43 Come Melville in Moby Dick, Salgari tenta di fornire ai lettori e alle sue narrazioni dei fondamenti storici mediante capitoli informativi, come La pineta dei giganti (nono capitolo della Scotennatrice) e Le guerre indiane (nono capitolo delle Selve Ardenti), basandosi, come aveva fatto Leopardi, su fonti piuttosto attendibili per l’epoca. Nonostante questo

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tentativo, tuttavia, come rileva Ilaria Crotti, sovente i libri presentano un “caotico e spesso inesatto lavoro di riporto di termini plurilinguistici”,44 e un collage di tribú.45 In effetti, una specie di appiattimento delle culture indigene avviene, per esempio, con l’uso inappropriato del termine sackem, parola indicante il “capo” solo nelle tribú dell’Est. Tuttavia, è spesso difficile stabilire se la fusione delle etnie, senza distinguere tra le tribú della costa orientale e i popoli delle praterie, sia da attribuire a Salgari oppure all’ignoranza dei personaggi bianchi che enunciano tali errori.46 Inoltre, nel ciclo è riscontrabile un intreccio tra la verità storica e la finzione narrativa: per esempio, Nube Rossa non era un Crow come lo descrive Salgari, né Toro Seduto era un antropofago presente alla battaglia di Little Bighorn. Nondimeno, come ricorda Gramsci, il personaggio storico e il personaggio finzionale spesso si fondono nella letteratura popolare, tant’è che per i lettori di tale narrativa viene meno la capacità di distinguere “tra mondo effettuale della storia passata e (…) il mondo fantastico [che] acquista nella vita intellettuale popolare una concretezza fiabesca particolare”.47 Tornando al commento dell’Inno ai Patriarchi, il poeta offre la seguente descrizione dei californii: Tale anche oggidí nelle Californie selve, e nelle rupi, e fra’ torrenti ec. vive una gente ignara del nome di civiltà, e restia (come osservano i viaggiatori) sopra qualunque altra a quella misera corruzione che noi chiamiamo coltura. (…) Dall’alto delle loro montagne contemplano liberamente senza né desiderii né timori la volta e l’ampiezza de’ cieli, e l’aperta campagna non ingombra di città né di torri ec. Odono senza impedimento il vasto suono de’ fiumi, e l’eco delle valli, e il canto degli uccelli, liberi e scarichi e padroni della terra e dell’aria al par di loro.48 La situazione presentata è quella di un popolo libero, in sintonia con la Natura, a cui è permessa la serena contemplazione dell’esistenza, che non va studiata secondo i criteri dell’illuminismo ma semplicemente ponderata. Mentre il desiderio di sapere è fonte di corruzione per l’uomo e lo allontana dalla natura, secondo Leopardi la vera “sapienza” appartiene proprio al selvaggio, come scrive nello Zibaldone: “sapientissimo è (...) il selvaggio della California, che non conosce il pensare”.49 I concetti di sapere e pensare però, che il contatto con la civiltà avrebbe portato, sono chiaramente di stampo utilitaristico-illuminista, a cui gli amerindi salgariani risultano essere del tutto alieni. Infatti, come afferma esplicitamente l’autore veronese, essi mancano della scaltrezza dei bianchi,50 i cui schemi capitalistici – “Per loro [gli amerindi] il tempo non è moneta”51 – appaiono incomprensibili per la cultura indigena a stretto contatto con la Natura. Com’è risaputo, la visione leopardiana della Natura subisce una trasformazione tra il componimento dell’Inno (1822) e quello delle Operette morali (tra il 1824 e il 1832). Se al tempo dell’Inno, Leopardi

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credeva ancora nella felicità dello stato naturale, al momento delle Operette non imputava piú l’infelicità umana alla conversione alla civiltà, ma a un incomprensibile meccanismo ostile all’umanità. In questa luce, neanche la vita dei californii sarebbe stata capace di garantire la felicità, e il primitivo sarebbe divenuto testimone dell’indifferenza della natura per i suoi figli.52 Se da una parte l’implacabile Natura leopardiana viene rappresentata anche da Salgari – ad esempio, nella Scotennatrice, mediante l’immagine dell’orda sterminata dei bisonti migranti, indifferenti all’azione umana – dall’altra il romanziere enfatizza come la civiltà bianca sia distruttrice non solo dell’amerindo, ma anche della Natura con cui le tribú delle praterie vivevano un rapporto di simbiosi,53 cosí come i californii nel brano riportato sopra. Nella concezione amerinda dell’universo, opposta all’antropocentrismo positivista della cultura anglo-americana, il Creato dipendeva dalla coesistenza dell’essere umano con la Natura: la distruzione dell’una comportava ineluttabilmente la distruzione dell’altro. Qui Salgari rovescia quindi gli elementi leopardiani, o meglio aderisce alla prima teoria leopardiana: la natura non è nemica dell’umanità intera, ma è la civiltà bianca imperialista che si presenta come nemica sia della Natura sia dell’amerindo. L’identificazione tra Natura e Amerindo nel ciclo è riflessa nella sovrapposizione della lotta contro la Natura all’antagonismo razziale,54 in cui la Natura e l’amerindo sono considerati come ostacoli al progresso della società statunitense, e sono quindi elementi da addomesticare, da sottomettere o, se necessario, da eliminare. In altre parole, la Natura del West salgariano non abbandona leopardianamente i suoi figli “rossi” alla civiltà occidentale, ma è essa stessa soggiogata dagli invasori bianchi. Un discorso a parte merita la figura di lord Wylmore il quale, malato del suo spleen come Byron, viene descritto come un pazzo (e come tale è definito piú volte da diversi personaggi), a causa di un comportamento che mal si addice alla vita sulla frontiera, come lanciarsi contro una mandria di bisonti con un solo coltello da caccia in mano. Wylmore è un esempio di quegli eccentrici europei che talvolta viaggiavano attraverso il West americano a caccia di emozioni. Egli è un uomo lontano dalla Natura, e come tale rappresenta l’uomo civilizzato leopardiano per eccellenza, o meglio una versione parodica del tentato ritorno alla Natura dell’uomo civilizzato. Nello Zibaldone, infatti, Leopardi asserisce: “Non è dubbio che l’uomo civile è piú vicino alla natura che l’uomo selvaggio e sociale. Che vuol dir questo? La società è corruzione. In processo di tempo e di circostanze e di lumi l’uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s’è allontanato”.55 Il razzismo arrogante di Wylmore (“Indiani scappare sempre davanti uomini bianchi”), 56 convinto per di piú della superiorità intrinseca dei nobili britannici rispetto alla plebe, è controbilanciato da diverse caratteristiche del personaggio. Il primo è l’accennato desiderio di attuare un ritorno alla Natura, perché egli possa guarire

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dal suo spleen, sostituto narrativo del malessere che per vade la società giolittiana. Inoltre, Wylmore viene dipinto in termini animaleschi, un aspetto che in certo modo lo associa agli amerindi,57 ai quali egli tenta di avvicinarsi, cacciando come loro (ossia senza l’ausilio delle armi da fuoco), e cercando di unirsi alle loro donne, Minnehaha e l’ultima degli Atabask. Inoltre, Salgari attribuisce al personaggio la particolarità di parlare senza la coniugazione dei verbi (si pensi alla citazione poco sopra riportata), il che lo accomuna ai californii leopardiani.58 Infine, Wylmore condivide con gli amerindi una marginalità essenziale: egli infatti non è inglese, ma gallese, ossia è membro di una minoranza periferica, anch’essa vittima del colonialismo e della pulizia etnica. Perciò al desiderio di avvicinarsi alla natura mediante gli amerindi, si affianca un’affinità di popoli sottomessi in epoche diverse dalla medesima potenza imperialista. Un successivo filo conduttore che collega le opere di Salgari alle teorie di Leopardi e di Gramsci è il concetto della vendetta. I barbari leopardiani, usciti da uno stato primitivo, diventarono i fondatori di “società strette” caratterizzate per l’appunto da uno spirito di vendetta.59 Come rammenta Visioli, Salgari nasce come scrittore di romanzi d’appendice,60 e Gramsci vedeva nel romanzo d’appendice lo stimolo del fantasticare tra i ceti popolari – “lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati”61 – derivante da un complesso di inferiorità sociale. Se è possibile estendere a tutto il ciclo la definizione di Claudio Gallo, presente nella prefazione alla Scotennatrice, la trilogia risulta essere quindi un “romanzo a tratti epico e corale”,62 in cui Salgari racconta la storia degli Sioux attraverso la storia della loro “sackem”, Minnehaha, consumata appunto da un forte desiderio di vendetta nei confronti della civiltà bianca.63 La vendetta personale di Minnehaha nasce dallo scotennamento della madre, Yalla, per mano di John Maxim, poi a sua volta scotennato da Minnehaha, e che pertanto porta una parrucca confezionata con i capelli di Yalla. Da personale, la vendetta di Minnehaha diventa collettiva proprio attraverso l’immagine dello scotennamento, come appare nelle seguenti parole della donna: “Io non ho veduto altro che dei visi pallidi massacrare e scotennare gli uomini rossi”.64 Il desiderio di recuperare i capelli della madre, affinché questa possa entrare nel paradiso amerindo,65 e la condanna di Yalla a una specie di purgatorio, simboleggiano l’appropriazione da parte della società americana degli aspetti materiali della cultura indigena, e le conseguenze a livello spirituale che ne risultarono. Se da una parte i primi lettori proletari della Scotennatrice e delle Selve Ardenti avevano maturato una coscienza razziale nel mondo dell’espansionismo imperialista, dall’altra non potevano non identificarsi con gli indigeni, repressi da una società industriale ed espulsi dalla loro patria. La cacciata degli amerindi dalle loro terre tradizionali, infatti, corrisponde alla cacciata nel primo decennio del XX secolo delle masse italiane dalle loro terre ancestrali, in una emigrazione

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Salgari, Emilio, Le Selve Ardenti, Bemporad, Firenze 1910. Insieme a Sulle frontiere del Far-West (1908) e a La Scotennatrice (1909), quest’opera fa parte del Ciclo del Far West, incentrato su un unico gruppo di personaggi bianchi – John Maxim, l’agente indiano, i fratelli Harry e Giorgio, “scorridori della prateria”, l’ex-sceriffo Turner, l’ex-bandito Sandy-Hook, i Devandel, padre e figlio, legati all’esercito statunitense e Wylmore, lord britannico a caccia di avventure – al quale si oppongono i principali personaggi amerindi: Yalla, la figlia Minnehaha e il marito Nube Rossa. Gramsci, Antonio, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 122 (I ed. Einaudi, Torino 1950). Paco Ignacio Taibo II, biografo del rivoluzionario

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argentino, indica Salgari come fonte dell’antiimperialismo guevariano. Cfr. Taibo II, Paco Ignacio, Ernesto Guevara, también conocido como el Che, Editorial Planeta-Joaquín Mortiz, Ciudad de México 1996 (trad. ingl. Guevara, also known as Che, St. Martin’s Press, New York, 1997, p. 62 – trad. it. Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, il Saggiatore, Milano 1997). Bàrberi Squarotti, Giorgio, Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino s.d. [ma 1981], p. 3. Marc Ferro descrive l’imperialismo come il terzo dei totalitarismi moderni accanto al nazismo e al

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comunismo, e rammenta che le politiche razziali di Hitler furono sconvolgenti solo perché applicate in Europa. Nelle zone coloniali costituivano la prassi comune: la migrazione forzata di gruppi etnici, il genocidio, la conquista di un Lebensraum, l’internamento dei colonizzati in spazi ristretti e l’assenza di leggi a protezione degli indigeni. Cfr. Ferro, Marc, Le colonialisme, envers de la colonisation, in Id. (a cura di), Le livre noir du colonialisme. XVIe – XXIe siècle: de l’extermination à la repentance, Laffont, Paris 2003, p. 9. Visioli, Ivan, Dalle appendici al libro. Su Salgari scrittore d’avventura, in “Belphégor”, 2006, 5, n. 2, http://etc.dal.ca/belphegor/vol5_no2/articles/05_02_visioli_dalle_fr.html (ultima visita: 22 giugno 2009). Cfr. Lawson Lucas, Ann, The Pirate Chief in Salgari, Stevenson, and Calvino, in Ambrosini, Richard e Dury, Richard (a cura di), Robert Louis Stevenson: Writer of Boundaries, University of Wisconsin Press, Madison 2006, p. 345. Cfr. Palumbo, Patrizia, Orphans for the Empire: Colonial Propaganda and Children’s Literature during the Imperial Era, in Ead. (a cura di), A Place in the Sun: Africa in Italian Colonial Culture from Post-Unification to the Present, University of California Press, Berkeley 2003, p. 247. Non si dimentichi che i romanzi in analisi vengono pubblicati poco prima della guerra italo-turca (1911-1912). Leopardi, Giacomo, Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano, in Id., Poesie e prose, Hoepli, Milano 1998, p. 28, vv. 104-117. Cfr. Biral, Bruno, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1974. Cfr. Williams, Raymond, The Country and the City, Oxford University Press, New York 1973, pp. 3645. Se i “californii” si trovano allo stato primitivo puro, e le società tribali corrispondono ai barbari, gli Incas e gli Aztechi sarebbero per Leopardi popoli “civilizzati”. Cfr. Buccini, Stefania, Il dilemma della Grande Atlantide. Le Americhe nella letteratura italiana del Settecento e del primo Ottocento, con prefazione di Franco Fido, Loffredo, Napoli 1990 (trad. ingl. The Americas in Italian Literature and Culture, 1700-1825, traduzione di Rosanna Giammanco, Pennsylvania State University Press, University Park 1997, p. 196). Cfr. Leopardi, Poesie e prose cit., p. 214: “perché abbiamo perduta per nostra colpa la felicità destinata a noi né piú né meno dalla natura, saremo noi cosí barbari che la vorremo torre anche a quelli che la conservano, e farli partecipi delle nostre conosciute e troppo sperimentate miserie? Che diritto n’abbiamo?”. Id., Tutte le opere, 4 voll., con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1989, vol. II, p. 914. Definiti “giganti” in precedenza. Si cita da Id., Dialogo di un cavallo e un bue, in Id., Opere, a cura di Giovanni Getto, commento di Edoardo Sanguineti, Mursia, Milano 1966, p. 457. Id., Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, in Id., Poesie e prose cit., p. 442. Ivi, p. 214.

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Salgari, Emilio, Le Selve Ardenti, Milano, Fabbri 2003, p. 14. D’ora in avanti si citerà da questa edizione. La conferma di ciò è il fatto che Minnehaha segue il percorso del tipico eroe salgariano delineato da Visioli, Dalle appendici al libro cit.: da un passato felice, solo accennato nella narrazione (in questo caso la fanciullezza della protagonista) si passa, con un trauma violento, alla perdita della famiglia (l’uccisione del fratello Uccello della Notte e della madre Yalla) e all’allontanamento dalla patria (ossia dalle terre ancestrali degli Sioux, cui è seguita la costruzione di una nuova patria – nelle Selve Ardenti gli Sioux sono in viaggio per il Canada), che però ha comportato una sostanziale solitudine e chiusura in se stessi (l’ossessione di Minnehaha nei confronti di John e il recupero della capigliatura della madre), quando non addirittura una regressione a uno stato semi-bestiale (che emerge nel carattere brutale della donna). Id., La Scotennatrice, Fabbri, Milano 2005, p. 41. Id., Sulle frontiere del Far-West, Fabbri, Milano 2005, p. 142. Id., La Scotennatrice cit., p. 57. Ivi, p. 41. Ivi, p. 43. Ivi, p. 58. Non si dimentichi come Salgari sia anche uno dei pionieri della fantascienza in Italia. Gramsci, Letteratura e vita cit., p. 144. Salgari, Le Selve Ardenti cit., p. 26. Ivi, pp. 29 e 30. “Le mummie scoppiettavano allegramente e si vuotavano con dei colpi secchi che parevano fucilate” (ivi, p. 51). Id., La Scotennatrice cit., p. 107. Ivi, p. 65. Ivi, p. 92. Id., Le Selve Ardenti cit., p. 8. Si trova oltre: “Sangue indiano, sangue traditore” (ivi, p. 10). Si pensi però a questo scambio di battute tra John Maxim e Minnehaha: “– Eh, la monella che io ho portato sulla groppa del mio cavallo dalla gola del Funerale alle rive del Lago Salato, proteggendola contro gli assalti dei lupi e contro le furie del fuoco, è diventata ben terribile – disse John, con voce amara. – Se io allora ti avessi scagliata, piccina come eri, fra i denti o le zanne di quelle fiere, non saresti mai diventata una donna, né una sackem, né la Scotennatrice. Io, vedi, Minnehaha, mi sarei ricordato di quell’uomo che a piú riprese mi ha salvata la vita. / – Sí, per interesse – rispose la Scotennatrice, con ironia. / – Sia pure, nondimeno io ti ho salvata. / – La riconoscenza non è mai stata una virtú delle donne indiane” (Id., La Scotennatrice cit., p. 114). Id., Sulle frontiere cit., p. 33. Id., La Scotennatrice cit., p. 25. Si considerino inoltre i seguenti passi: “Le donne furono sventrate, i fanciulli uccisi senza misericordia, schiacciando loro il capo contro le pietre” (Id., Sulle frontiere cit., p. 194); “gli americani avevano agito peggio dei selvaggi durante la repressione, non risparmiando né le donne né i figli degli insorti” (Id., Le Selve Ardenti cit., p. 71); “Tutti

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quelli che si erano rifiutati di essere internati nelle riserve erano stati massacrati giorno per giorno” (ivi, p. 69). Mentre gli agenti governativi, incaricati di proteggere gli interessi indiani, invece derubavano dal tesoro pubblico ciò che era destinato alle tribú: “Grandi torti avevano però anche i bianchi e soprattutto da parte degli agenti delle riserve, specie di banditi che il governo americano aveva mandato a sorvegliare le tribú rosse e che rubavano insieme al tesoro pubblico quello che spettava ai disgraziati visi bronzini per arricchirsi sfacciatamente” (Id., Le Selve Ardenti cit., p. 69). Ivi, p. 43. Ma cfr. pure Id., La Scotennatrice cit., p. 117. Cfr. Id., Le Selve Ardenti cit., pp. 73-74. Id., La Scotennatrice cit., p. 55. Leopardi, Tutte le opere cit., vol. II, p. 1102. Crotti, Ilaria, Salgari: l’America in eccesso, in Caracciolo Arico, Angela (a cura di), L’impatto della scoperta dell’America nella cultura veneziana, Bulzoni, Roma 1990, p. 50. Cfr. Busatta, Flavia, Il fabbricante di universi, in “Hako”, 1996, n. 8, www.hakomagazine.net/ (ultima visita: 27 maggio 2009). Si pensi al seguente passo: “Lord Wylmore era rimasto un po’ sconcertato dall’ignoranza della giovane indiana e di Nube Rossa. / Non si ricordavano piú dunque quelle terrecotte, che i loro avi avevano combattuto contro gli yankees anelanti d’indipendenza a fianco dei gloriosi granatieri di re Giorgio e dei fortissimi e saldi hessiani? È vero che era trascorso quasi un secolo!” (Salgari, La Scotennatrice cit., p. 59). Gramsci, Letteratura e vita cit., p. 152. Leopardi, Poesie e prose cit., p. 213. Id., Tutte le opere cit., vol. II, p. 688. Cfr. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 93, dove si legge che il “furfante” Sandy-Hook è “piú astuto ancora delle pellirosse”. La malizia dell’uomo bianco si profila comunque superiore. Ivi, p. 98. Tuttavia è ancora presente un’eco dell’Inno nelle Operette, e precisamente nella Storia del genere umano: “laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidí alcuni popoli, e particolarmente quelli di California” (Leopardi, Poesie e prose cit., p. 335). Viene sottolineato come l’uomo bianco faccia strage di bisonti non per sostentamento, ma per “le sole folte pellicce assai apprezzate sui mercati

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dell’Est e dell’Ovest” (Salgari, La Scotennatrice cit., p. 17). Cfr. Carloni, Massimo, Nazionalismo, eurocentrismo, razzismo e misoginia nel Ciclo del Far West di Emilio Salgari, in “Problemi”, 1993, n. 97, pp. 170-181 e in particolare le pp. 174 e 179. Leopardi, Tutte le opere cit., vol. II, p. 953. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 9. Con le parole di Sandy-Hook: “È solido come un vero bisonte”, e poi: “Che questo animale d’inglese mi abbia fatto perdere troppo tempo” (ivi, p. 52). Sebbene con toni spregiativi, i personaggi bianchi sovente rappresentano gli amerindi con metafore o similitudini tratte dal mondo animale, ad esempio “rettili” (ivi, p. 91) e “cani” (ivi, p. 13; ma anche Id., Le Selve Ardenti cit., p. 10). “[I californi hanno] nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio” (Leopardi, Tutte le opere cit., vol. II, p. 953). Buccini, The Americas cit., p. 192. La Scotennatrice e Le Selve Ardenti risentono fortemente di questo taglio, ad esempio nel ritmo narrativo. Cfr. Carloni, Nazionalismo, eurocentrismo cit., p. 171. Gramsci, Letteratura e vita cit., p. 43. Gallo, Claudio, Introduzione. La leggenda di Minnehaha, in Salgari, La Scotennatrice cit., p. 6. Se è vero, come sostiene Carloni, che in Salgari la separazione razziale tra bianchi e indiani rimane netta, è importante notare che l’odio di Minnehaha non è la causa ma il risultato di una convivenza pacifica tra le razze resa irrealizzabile proprio dal comportamento della civiltà bianca (cfr. Carloni, Nazionalismo, eurocentrismo cit., p. 178). A questo proposito, Flavia Busatta e Francesco Spagna individuano nell’ipotesi di un incrocio tra le razze il “peccato capitale” del ciclo, contro cui il messaggio “chiaramente razzista” dell’autore si configura come ammonimento (cfr. Busatta, Il fabbricante cit. e Spagna, Francesco, L’indiano composito, in “Hako”, 1996, n. 8, www.hakomagazine.net/ - ultima visita: 27 maggio 2009). Tuttavia, se l’unione tra Devandel padre e Yalla descritta in Sulle frontiere del Far-West è destinata al fallimento, è indicativo come lo scioglimento dell’unione avvenga per l’abbandono del bianco Devandel, il quale addirittura uccide il proprio figlio, il mezzosangue Uccello della Notte, sancendo cosí l’impossibilità di una coesistenza tollerante tra i due popoli. Salgari, La Scotennatrice cit., p. 59. Secondo le usanze degli Sioux, cosí come sono descritte da Salgari (cfr. ivi, p. 104), il Manitou, divinità amerinda, al guerriero scotennato negava l’ingresso al paradiso se non veniva sepolto con la propria capigliatura.

Il Leone di Damasco (1910). Meditazione breve circa un approccio molto tardivo Giuseppe Papponetti

Debbo innanzitutto confessare di non aver mai letto una pagina di Salgari prima che il convegno di Liegi me ne offrisse occasione coatta. Cosa grave e, sotto certi punti di vista, addirittura inusitata e riprovevole per uno della mia generazione: ma del pari non ho neppure mai letto allora una riga dell’odiato libro Cuore di De Amicis (il bravo marito e padre che picchiava e sputava in faccia alla moglie, ed educava sessualmente il figlio affidandolo alle cure amorevoli di compiacenti amiche prostitute) se non in età avanzata e per obblighi professorali. Eppure ero un gran lettore, se a nove anni mi feci regalare I promessi sposi di Manzoni, che lessi tutto benché con molta noia; il fatto è che ero attratto da Dumas da un lato (I tre moschettieri, l’inarrivabile Conte di Montecristo, ma anche il postumo Robin Hood),1 dall’altro dalle riduzioni per l’infanzia di Iliade, Odissea, Eneide, Orlando furioso e Gerusalemme liberata. E ancora, qualche dimenticato romanzo d’appendice di Luciana Peverelli sottratto infelicemente a mia madre, o le dispense dei Misteri di Parigi o della Vita di Salvatore Giuliano, prestatemi da un complice nonno materno. C’era dunque innanzitutto da tornare a chiedersi, responsabilmente, cosa fosse e cosa sia ancor oggi il romanzo popolare d’avventura e di semplice intrattenimento, se non l’opera laboriosa di un solerte “operaio della parola”(per dirla alla d’Annunzio), capace di inventare racconti quasi usa e getta. E la vicenda di Emilio Salgari è al proposito esemplare, perché, al di là di un destino familiare di suicidi e di cento e piú sigarette fumate ogni giorno, c’è la continuità esemplare di una fertilissima immaginazione che, seppur costretta dall’urgenza degli impegni editoriali, era chiamata a funzionare ininterrottamente negli anni e a produrre senza posa storie, vicende, racconti capaci in qualche modo di soddisfare l’esigenza di evasione avventurosa di lettori grandi e piccoli, fornendo loro una sequenza-rifugio che li affrancasse in qualche modo dalle angustie del grigio quotidiano. Si capisce allora la fortuna di un Salgari, capace di far spaziare la fantasia fra Oriente e Occidente, dall’Estremo Oriente al Far West, passando per l’Africa nera e le sue intatte risorse esotico-narrative, scorrendo i grandi oceani sulle orme della filibusta. Caratteri semplicemente ma efficacemente delineati, personaggi chiamati ad agire seguendo istinti elementari e ben definite coordinate comportamentali, capaci in tal modo di fornire d’immediato l’impressione decisiva a coglierne senso, pensieri, azioni.

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In fondo, è proprio in questa schematica semplicità che consiste il segreto del successo salgariano, e della sua capacità d’impatto immediato nella fantasia e nei sentimenti repressi del lettore; perché sta tutto qui l’effetto straordinario di uno scrittore spesso trasandato e poco attento ai canonici rigori formali, e comunque impagabilmente comunicativo. E allora siamo di fronte a un particolare fenomeno, quello appunto del lettore che non valuta letterariamente la qualità della scrittura, ma ne percorre attento e ansioso le vie d’ingresso alla storia che sola gli interessa, fino alla fine. Dunque, heri dicebamus, per un caso strano, quando mi fu assegnata d’autorità la trattazione del Leone di Damasco,2 ci fu d’immediato una sorta di lontana insorgenza memoriale, che riguardava il cinema dell’oratorio “don Orione” dove la facevano da padrone il Tarzan interpretato dal grande Johnny Weissmuller e filmetti western con l’antipaticissimo Randolph Scott (quelli del gigante John Wayne non sembra che fossero educativi); e riguardava uno o due film fuori delle abituali sequenze, con la figura prorompente di Carlo Ninchi (detto poi “cœur de sas” per le parti del cattivo, interpretate spesso prima del ridicolo ruolo di Pepè nel parodico Totò le Moko) e un titolo che mi suonava come L’assedio di Famagosta. Un minimo di ricerca sui repertori mi ha presto portato a individuare invece due riduzioni da Salgari, appunto Capitan Tempesta e Il Leone di Damasco, entrambe del 1942, realizzate in soli tre mesi con l’approssimazione ma anche con il sano artigianato di quegli anni di guerra.3 Come ben sanno, e certo meglio di me, gli abituali lettori di Salgari, il primo romanzo del dittico (Capitan Tempesta) offre antefatto e funge da prodromo al secondo:4 alla fine dei conti quasi un introibo a un’azione piú serrata che di necessità doveva, dopo molteplici intrecci, portare all’attesa conclusione felice della complicata vicenda, di esito abbastanza scontato e dai lettori sicuramente richiesto. È allora quanto la fantasia fa muovere attorno a Famagosta, quale ultimo baluardo cristiano di fronte all’avanzata saracena (“lo nero periglio che vien da lo mare”, avrebbe poi recitato l’impagabile Brancaleone di Vittorio Gassman), mettendo in campo – e orecchiando un po’ la Clorinda del Tasso5 – una Eleonora Bragadin duchessa di Eboli in celata armatura maschile, consolidata nell’immaginario collettivo dal suo valore guerriero. Ma il suo scopo iniziale, cioè il tentativo di liberazione del fidanzato conte di Le Hussière, subisce scarto e variante di trama nell’incontro e duello con Muley-el-Kadel, il “Leone di Damasco”; nasce cosí, dalla sua non onorevole sconfitta in duello, l’ammirazione per lei del Leone; e all’inevitabile caduta di Famagosta quest’ultimo salva Eleonora ferita finendo per mettersi al suo servizio, dopodiché l’intreccio complesso degli avvenimenti successivi dà luogo alla nascita di un sincero legame sentimentale. La critica recente ha individuato alcuni punti nodali, fra cui la necessità di cominciare a indagare le relazioni fra il tempo storico e quello narrativo (ma perché non la biblioteca effettiva di Salgari, fra

Il Leone di Damasco

libri posseduti e quelli sicuramente letti?) e ha pure indicato una suggestiva relazione – anch’essa però da verificare punto per punto – fra la struttura dei testi narrativi e certe sequenze del melodramma italiano, unita alla capacità di colorare i fondali degli eventi storici, beninteso – aggiungerei – liberamente manipolati, come pure l’assenza di fedeltà a fedi o ideali, e piuttosto invece i rapporti di solidarietà o inimicizia fra i personaggi.6 Tutto questo, e ne spiega l’indugio, vale anche, se non ancor piú, per Il Leone di Damasco, naturalmente con opportune modifiche e rilievo di certe differenze, che però non intaccano in continuità le premesse implicite – e non solo per il primo tempo della storia in Capitan Tempesta – facendo tesoro di quella esperienza per continuare, al di là della trama e della vicenda dei personaggi, nell’allestimento (generalmente inusuale nei romanzi salgariani piú famosi) di uno sfondo rigorosamente storico su cui impiantare verosimilmente, secondo la lezione manzoniana, le coordinate del racconto che va dalla caduta di Cipro del 1570 in mano turchesca fino al definitivo rovesciamento delle sorti nella battaglia di Lepanto dell’anno successivo. Pur se erano trascorsi cinque anni dall’uscita del primo romanzo, e il nuovo impegno con l’editore fiorentino Bemporad aveva spinto Salgari alla ripresa di saghe e argomenti già positivamente sperimentati, con ritorni a Mompracem, al Far West, alle scorrerie dei suoi familiari pirati, nondimeno la ripresa non toglie al nuovo, al Leone appunto, un notevole dinamismo, fertilità immaginativa e articolato quanto complesso intreccio, cui dà rinnovato impulso la nuova situazione dei personaggi, soprattutto Eleonora e Muley sposi con figlioletto, ma sempre al consueto livello di capacità guerresca, di imperterriti quanto indomabili duellanti capaci di sconvolgere ogni trama degli avversari, naturalmente subdoli e antieroici, e di sconfiggerli definitivamente al pari di quanto avviene nel conclusivo scontro generale a Lepanto fra cristiani e infedeli (e qui dispiace, se mi si consente una ulteriore trasgressione, che Salgari non abbia pensato ad almeno accennare a un importante protagonista storico dello scontro, quel “monco di Lepanto”, per dirla tutta con Carlo Emilio Gadda, che rispondeva al nome e null’altro era che Miguel de Cervantes, il futuro grande autore del Chisciotte). Anche qui, dunque, come in tutti i migliori romanzi salgariani, già nel nome consiste l’oggetto del narrare, in una ricerca di effetto scenico che pure tende spesso a mettere in risalto, se non addirittura a preferire poi, al fianco dell’eroe l’eroina; il che comporta, del pari, secondo schema consolidato, il ritratto dell’avversario/a che non può essere al contempo che traditore o traditrice, e pertanto destinato inevitabilmente a soccombere. Se è vero che “la narrativa salgariana è un’elementare epica, o meglio un’elementare introduzione all’epica” in cui “sempre rinasce l’avventura, il combattimento la rivincita la cattura la vittoria e la nuova minaccia; gli eroi non invecchiano e non si sviliscono (…).

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“– Serata d’arrosto o di naufragio?”. I cattivi odori dell’Apocalisse e La crociera della Tuonante (1910) Gianni Turchetta

Nessuna tragedia incrina l’armonia totale, nessuna morte rende assurda la vita né inficia le leggi che reggono il mondo, gl’immutabili codici di comportamento e ordini di valori”,7 è altrettanto vero che qui manca di fatto la voce di fondo del rapsodo, che coordina, cuce e innanzitutto spazializza il racconto; cosa che non può certo ottenere uno stile affastellato da una sintassi altrettanto sbrigativa delle esigenze e urgenze editoriali. Ma per Il Leone, a sconfessare certa critica recente che insiste sulla presenza di moltissimi fatti e di poca analisi, c’è la realtà dei dialoghi che, ad onta delle loro insistenti spezzettature, riescono a ben vedere a soddisfare del tutto tale esigenza. Per altro verso, è da sottoscrivere quanto si è fatto rilevare a proposito di un Salgari “ampiamente corrisposto da lettori e non-lettori, che penseranno ai suoi personaggi indipendentemente dai romanzi”8 – ed è stato anche il mio caso; comunque sia, è pienamente da sottoscrivere quanto lui stesso ebbe a confessare riguardo al suo voler narrare esclusivamente ciò che il lettore vorrebbe essere. Su questo si fondò certamente il successo all’epoca, e su questo stesso cardine si spera si sia già dischiuso – editori permettendo – il successo rinnovato del futuro.

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A voler essere precisi: di Alexandre Dumas père, sulla figura del nobile brigante, apparvero postumi due romanzi, Le prince des voleurs e Robin Hood le proscrit, rispettivamente nel 1872 e nel 1873, per l’editore Michel Lévy di Parigi (ciascun titolo in due volumi). Di fatto, i due testi sono la traduzione di Robin Hood and Little John, or the Merry Men of Sherwood Forest, opera di Pierce Egan, pubblicata a dispense nel 1838 e poi in volume nel 1840 da Foster and Hextall di Londra. Dumas si sarebbe limitato a firmare il lavoro, allestito dalla collaboratrice (e amante) Marie de Fernand, meglio nota sotto il nome d’arte di Victor Perceval. Salgari, Emilio, Il Leone di Damasco, Bemporad, Firenze 1910. Capitan Tempesta (Italia-Spagna, 1942) e Il Leone di Damasco (Italia, 1942), entrambi per la regia di Corrado D’Errico, su sceneggiatura di Alessandro De Stefani, produzione Scalera Film. Salgari, Emilio, Capitan Tempesta, Donath, Genova 1905.

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Cfr. Grasso, Mario, Il Leone di Damasco, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino s.d. [ma 1981], pp. 270-274. Cfr. Gallo, Claudio, e Bonomi, Giuseppe, Di Hamid o del bel Capitan Tempesta, ovvero di Eleonora duchessa d’Eboli, in “Interval(le)s”, a cura di Luciano Curreri e Fabrizio Foni, 2008, n. 3 (Emilio Salgari, il mare, l’interdisciplinare), pp. 9-33: 910 e 32. Magris, Claudio, L’avventura di carta ci segna per la vita, in Cusatelli, Giorgio (a cura di), L’isola non-trovata. Il libro d’avventure nel grande e nel piccolo Ottocento, Emme Edizioni, Milano 1982, pp. 153-154. Mari, Michele, Un mondo dove tutto è fiero, in Salgari, Emilio, Romanzi di giungla e di mare, a cura di Ann Lawson Lucas, con uno scritto di Michele Mari, Einaudi, Torino 2001, p. X.

Dal lettore bambino al critico professionista Non riesco a resistere alla tentazione di cominciare con una piccola nota personale, non priva però di risonanze metodologiche. Mentre rileggevo Salgari in una prospettiva professionale, la mémoire involontaire è riuscita a farmi ancora balenare la sensazione di felicità che provavo quando, bambino, divoravo un romanzo salgariano dopo l’altro. Allo stesso tempo, tuttavia, ho percepito di nuovo fino a che punto i romanzi di Salgari, lungi dal rappresentare soltanto un mondo di evasione, in cui perdersi smemorati, fossero, per me come, ne sono certo, per numerose generazioni di lettori, anche una privilegiata, fondamentale chiave di accesso alla realtà. In questo senso, probabilmente proprio l’irregolare, ma a suo modo implacabile istruzione offerta dagl’innumerevoli inserti enciclopedici andava proponendosi, nell’embrionale coscienza intellettuale del giovanissimo lettore, non solo come un primo assaggio di futuri manuali, e atlanti, e poi magari anche documentari, ma, di piú, come una specie di impulso fondativo: un impulso, fortissimo, al costituirsi, appena abbozzato e tuttavia già irreversibile, di un modo di appropriazione della realtà e al tempo stesso di riconoscimento di sé. Del resto Salgari ha sempre professato, in modo del tutto esplicito, una poetica, in definitiva, del docere delectando, in cui l’intrattenimento fantastico e avventuroso doveva fare tutt’uno con un’intenzione educativa. Valgano per tutte le parole della lettera scritta ai figli il 22 aprile 1911, tre giorni prima di uccidersi: “Miei cari figli, sono ormai un vinto (…) Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti e istruiti, provvederanno a voi”.1 La seconda, breve premessa al mio discorso ha a che fare con un’altra questione di metodo, già evocata dal titolo del convegno. Nel momento in cui l’indagine sugli ultimi anni di Salgari si sviluppa analizzando uno per uno i romanzi di quel periodo, mi pare piú che mai necessario domandarsi fino a che punto, e attraverso quali cautele, si possa procedere a delineare l’individualità stilistica di un singolo romanzo, a fronte di un corpus come quello salgariano. Al di là infatti delle diverse valutazioni complessive che ne sono state proposte, e al di là anche della piú specifica valutazione del periodo che va dal 1908 alla morte, Salgari si presenta indubbiamente come un autore ad alto tasso di ripetitività, stilistica e strutturale. Che cosa succede allora se si muove dall’esigenza di mettere a fuoco la specifi-

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cità di una singola opera, privilegiando a priori una prospettiva fortemente individualizzante? Posso già anticipare una sintetica conclusione: un romanzo come La crociera della Tuonante, per quanto tardo, anzi quasi estremo, e per quanto sottoposto a rischi accentuati di serializzazione (anche perché già sequel, seconda puntata di un ciclo, quello iniziato con I corsari delle Bermude, 1909, e proseguito poi con l’incompiuto Straordinarie avventure di Testa di Pietra, completato da Aristide Marino Gianella, e pubblicato postumo nel 1915),2 presenta comunque, sul piano strutturale e tematico, una miscela con tratti peculiari abbastanza ben visibili, se non vistosi. E questa è già una constatazione di un qualche rilievo critico-interpretativo. D’altro canto, viste le caratteristiche della scrittura salgariana, è bene guardarsi dalla tentazione di sovra-interpretare, sia nel senso di attribuire eccessivi significati a scelte dettate da contingenze narrative relativamente casuali, sia nel senso di sopravvalutare le specificità di certe scelte, che viceversa confermano tratti ricorrenti: rischi che una prospettiva fortemente individualizzante acuisce.

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Rivoluzione americana e Political correctness Le prime obbligatorie cautele, ma associate alla constatazione di una significativa peculiarità, riguardano la scelta, decisamente rilevante, di mettere, al centro non solo di La crociera della Tuonante, ma di tutta la trilogia dei Corsari delle Bermude, un evento storico come la Rivoluzione americana. Il background culturale risorgimentale, e piú specificamente garibaldino, di Salgari, corroborato dalla tradizione del melodramma, specie verdiano, è certo alla radice della sua aspirazione alla giustizia e alla libertà: un’aspirazione cui si legano sia l’antipatia per il colonialismo, sia la complementare simpatia per i moti indipendentistici, oltre che per i ribelli solitari, specie se vittime di conquiste e usurpazioni. Da questo punto di vista la Rivoluzione americana, dove la rivolta individuale si salda alla rivoluzione borghese, si presenta come un tema esemplare, oltre che dotato di un’indubbia peculiarità nel complesso del corpus salgariano. D’altro canto, non è il caso di attribuire alla scelta di rappresentare la Rivoluzione americana troppi significati: sul versante ideologico è particolarmente sconsigliato sovra-interpretare le scelte salgariane. Agli entusiasmi per la lotta di liberazione degli americani dal giogo dei soliti imperialisti inglesi, possiamo infatti immediatamente contrapporre i casi, piú numerosi, in cui Salgari non si mostra per nulla filoamericano, anzi: basti pensare alla calda partecipazione alle lotte per l’indipendenza del Messico (in La capitana dell’Yucatan, 1899) o alla per nulla scontata, coraggiosa rappresentazione del terribile massacro compiuto dalle truppe nordiste sul fiume Sand Creek, ai danni di indiani inermi (in Sulle frontiere del Far-West, 1908).3 Di nuovo, però, non è neanche il caso di pensare a Salgari, anacronisticamente, come a un autore già preoccupato di essere politically correct. Nella maggior parte dei suoi testi egli rappresenta infatti

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gli indiani d’America nella maniera piú stereotipa, abbandonandosi senza remore all’occidentalismo piú becero e sprezzante: basti pensare soltanto ai romanzi sull’epopea del Far West, e in particolare a un titolo terroristico come La Scotennatrice (1909), ma anche a non poche pagine di La crociera della Tuonante.4 In fin dei conti, Salgari si preoccupa soprattutto di far funzionare le sue storie: tant’è vero che in Straordinarie avventure di Testa di Pietra (già nelle pagine sicuramente scritte da lui) non esita a far scontrare indiani cattivi (cioè alleati degl’inglesi) e indiani buoni (cioè alleati degli americani). Andrà semmai notato che, almeno in I corsari delle Bermude, lo scenario della Rivoluzione americana si accompagna a una relativa robustezza dell’impianto da romanzo storico, anche grazie all’impiego massiccio, ai limiti del plagio, della Storia delle colonie inglesi in America di Carlo Giuseppe Londonio.5 Un eroe eclissato e un ritmo bestiale Sul piano della struttura narrativa La crociera della Tuonante esibisce alcune caratteristiche molto marcate: anzitutto, in modo un po’ paradossale, lo spazio relativamente scarso dedicato proprio al viaggio della “magnifica corvetta” evocata dal titolo e quindi al suo comandante,6 il baronetto William Mac-Lellan, che in teoria dovrebbe essere l’eroe protagonista; in secondo luogo, il ritmo narrativo particolarmente serrato, che accumula quasi senza sosta eventi forti e spesso decisamente straordinari. Mi si potrebbe obiettare che questo è un tratto normale della narrativa salgariana: sí, ma fino a un certo punto. In particolare, colpisce qui la clamorosa differenza di ritmo con il primo romanzo della trilogia, I corsari delle Bermude, dal ritmo tutto sommato abbastanza lento, significativamente ambientato quasi tutto in una città, Boston, e ricco di sequenze in interni: a fronte della forsennata cavalcata narrativa di La crociera della Tuonante, che invece si sviluppa quasi sempre rigorosamente en plein air. Fra l’accelerazione narrativa e la sparizione dalla scena di MacLellan, “il Corsaro”, c’è una pressoché perfetta corrispondenza. Complementarmente, il ritmo indiavolato fa tutt’uno con il predominio narrativo crescente del cannoniere e timoniere bretone Testa di Pietra, che fa sempre coppia con il giovane gabbiere Piccolo Flocco, a sua volta bretone. A ben vedere, anche ne I corsari delle Bermude la presenza dominante della coppia dei marinai bretoni coincide, almeno a tratti, con un ritmo serrato delle peripezie: solo che MacLellan resta spesso in scena insieme a loro. Invece in La crociera della Tuonante “il Corsaro”, con la sua corvetta, sparisce semplicemente di scena per quasi due terzi del romanzo: resta infatti fuori campo da p. 51 a 144 e da p. 172 a 199 (il testo del romanzo, nell’edizione citata, va da p. 7 a p. 202). Sappiamo, a dire il vero, che spesso nei romanzi di Salgari si verifica l’ellissi, e dunque anche l’eclissi dell’eroe principale: ma qui questa sparizione ha proporzioni abnormi, e determina di fatto un cambio di protagonista. In pratica, Mac-Lellan

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sparisce dopo solo un quarto del romanzo, ricompare verso la metà ma poi sparisce di nuovo verso i tre quarti del testo, e ricompare ancora soltanto per il fulmineo finale (tre pagine!). Va peraltro sottolineato che, coerentemente con l’indiavolato ritmo narrativo, si registra una Spannung molto intensa, che lascia incerto l’esito fino alle ultimissime pagine: lo scioglimento (parziale) arriva infatti soltanto fra la terzultima e la penultima pagina. Resta, peraltro, un non trascurabile margine di incertezza sulla sorte dell’antagonista e fratellastro del Corsaro, cioè sul perfido marchese di Halifax: che viene ferito gravemente in duello da Mac-Lellan, ma potrebbe essere ancora vivo, perché non viene detto esplicitamente che è morto: analogamente, il marchese di Halifax era stato ferito, in modo grave ma dichiaratamente guaribile, già in un precedente duello di I corsari delle Bermude… Come si sa, è negl’interstizi dell’incertezza narrativa che mette radici la possibilità del sequel appendicistico: e infatti Halifax è ben vivo, e tornerà a muoversi, e a nuocere, in Straordinarie avventure di Testa di Pietra, dove riceverà il colpo finale.7 In La crociera della Tuonante, la sequenza di peripezie a cui va incontro per quasi due terzi del romanzo il terzetto composto dalla coppia Testa di Pietra / Piccolo Flocco, accompagnata dall’assiano Hulbrik (a tratti coadiuvato dal fratello Wolf), raggiunge vertici di accumulo strutturale parossistici, collocabili nei territori piú estremi dello stesso paradigma appendicistico. Qualcosa di simile avviene anche in un altro romanzo degli ultimi anni, Gli ultimi filibustieri,8 che non a caso ha come protagonista quel don Barrejo che è probabilmente il parente piú prossimo di Testa di Pietra. I segnali testuali mostrano, peraltro, che Salgari era pienamente consapevole delle proprie scelte narrative. Prendiamo in considerazione, in particolare, la parte centrale di La crociera della Tuonante (pp. 51-143): anche una sommaria rassegna degli eventi può dare l’idea della densità delle peripezie. La Tuonante ha accostato la fregata del marchese di Halifax, e comincia l’abbordaggio: i primi a saltare le murate sono, manco a dirlo, Testa di Pietra, Piccolo Flocco e Hulbrik; ma, appena sono saliti sulla nave inglese, una violenta ondata spezza i cavi di abbordaggio, lasciandoli soli e in balia del nemico. Rischiano ovviamente di essere impiccati, ma sulla fregata c’è Wolf, deus ex machina della situazione, che li aiuta a fuggire, fornendo loro un’agile baleniera. È in corso però una tempesta, che sbatte la baleniera sugli scogli, schiantandola e rischiando di uccidere i tre occupanti; Salgari approfitta spudoratamente della situazione per reiterare ben tre volte la dinamica angoscia / sollievo. Il lettore, infatti, prima vede la scogliera deserta, e teme che i tre siano tutti morti: poi però vede rialzarsi il piú coriaceo, Testa di Pietra (rivelato allo sguardo dal tragicomico scontro con “un grande albatros bianco”, che lo attacca “grugnendo come un maiale”).9 Poi Testa di Pietra vaga per la scogliera, perlustrandola angosciato, perché teme che i due compagni siano morti: ritrova Hulbrik, e già si appresta a piangere Piccolo Flocco, quando questi ricompare, con “Una risata”.10 A questo punto

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si profila all’orizzonte una nave deserta, che dà luogo a un episodio decisamente straordinario, pur nell’ordinaria straordinarietà delle avventure salgariane. Testa di Pietra, Piccolo Flocco e Hulbrik saltano sulla nave, che passa senza governo vicinissima alla scogliera, e vi trovano, si fa per dire, rifugio: scopriranno infatti che la nave è piena di belve, che vi venivano trasportate in gabbie e che la tempesta ha liberato. Si salvano salendo su una coffa, e di fatto ammazzando quasi tutte le belve, che per il resto provvedono ammazzandosi fra di loro. Torneremo fra poco su quest’episodio. Sul piano narrativo, la tempesta però non si placa, e anche la nave-serraglio fa naufragio, anche perché priva ormai di timone. Sbattuta su una scogliera, diventa teatro di un altro episodio sorprendente, annunciato dal titolo del capitolo, Una pioggia di squali: il ponte della nave, incastrata nella scogliera e squassata dalle onde, si riempie infatti di squali, che vi restano imprigionati, e, pur destinati a morte certa, non sono per questo meno pericolosi. I nostri tre eroi li accoppano tutti, ma, appena arrivati a terra con una scialuppa, si trovano a combattere contro ferocissimi pellirossa: ne ammazzano un po’, poi scappano con la scialuppa, e mandano la canoa degl’inseguitori a fracassarsi sulla scogliera. Tornano a terra, da dove vedono che la fregata del marchese di Halifax si è arenata. Dopo avere immobilizzato due marinai inglesi discesi a terra, decidono di raggiungere a nuoto la fregata per incendiarla, dopo aver liberato e portato con sé Mary di Wentwort, la fanciulla amata e contesa dai due fratellastri. Testa di Pietra decide di andare da solo: ma viene scoperto, e deve scappare; mentre nuota, deve fare i conti con un orribile diavolo di mare, cioè con una specie di enorme manta, che riesce miracolosamente a accoltellare. Tornato a riva, va coi compagni a recuperare la scialuppa, lasciata vicino alla spiaggia: solo che sulla barca si sono comodamente piazzati due grossi orsi neri, che “si divertono a farla oscillare”,11 come un bilico o un’altalena… Salgari non è nuovo all’uso comico delle belve,12 ma certo siamo di fronte a un’invenzione narrativa particolarmente bizzarra e paradossale. Finalmente, i tre si ricongiungono al Corsaro e alla nave amica: salvo poi ripartire da soli verso l’isola di Sandy Hook, per un’altra spedizione, che avvia la peraltro assai laboriosa e spettacolare soluzione finale. Ma nella parte centrale del romanzo il susseguirsi di peripezie è cosí selvaggiamente irrefrenabile, che persino Salgari, solitamente assai parco di indicazioni meta-narrative, si sente quasi costretto a commentare, per il tramite di Testa di Pietra: “Corpo di tremila campanili!... Testa di Pietra perde la memoria!... Sono avvenuti però cosí tanti avvenimenti in cosí breve tempo, da scombussolare il cervello meglio conformato”.13 Differimento, proliferazione, amplificazione: il melodramma e l’effetto reale Il susseguirsi delle peripezie di Testa di Pietra e dei suoi compagni avviene sempre sullo sfondo della vicenda principale: il tentati-

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vo, da parte di Mac-Lellan, di ricongiungersi a Mary, con il complemento del possibile castigo dell’antagonista. Da questo punto di vista, la struttura del romanzo si presenta come un differimento assai protratto della vicenda principale, che viene avviata, complicata e poi messa da parte per un tempo molto lungo. Questo tipo di gestione della narrazione è frequente in Salgari,14 e un po’ tutto il Ciclo dei Corsari delle Bermude è imperniato su questa struttura di differimento di quella che dovrebbe essere la vicenda principale. Ne I corsari delle Bermude, infatti, la battaglia per la liberazione di Boston è lo scenario del ritrovamento e della liberazione di Mary di Wentwort, lungamente rimandata: tutto il romanzo serve a raggiungerla, ma poi alla fine Mary verrà rapita di nuovo dal marchese di Halifax. La crociera della Tuonante, come si è visto, si configura come un’ancora piú marcata dilazione del ricongiungimento fra i due giovani innamorati. Alla fine il lettore immagina che finalmente Mary e Mac-Lellan possano essere convolati a giuste nozze: ma non ne potrà essere certo fino ai primi capitoli di Straordinarie avventure di Testa di Pietra, dove tuttavia la struttura del differimento si ricostituisce di nuovo, andando stavolta a gravitare (almeno in parte) sul marchese di Halifax, che dovrà essere, ancora una volta, raggiunto e punito. Un altro tratto strutturale costante in Salgari è la costruzione di coppie di personaggi simmetrici, per analogia o per contrasto: anche questo tratto ricorre accentuatamente in tutto il Ciclo dei Corsari delle Bermude, specie nel finale, dove la reiterazione oltranzistica diventa decisamente un po’ meccanica. Eppure l’invenzione di partenza, per quanto elaborata in modo schematico, aveva una sua indubitabile, potente suggestione: l’antagonismo tra fratelli, o sia pure tra fratellastri, chiama infatti in causa narrazioni mitico-arcaiche (da Caino e Abele a Eteocle e Polinice), cui in tempi recenti lo Stevenson del Master of Ballantrae (1889) aveva restituito profondità e ambiguità modernissime. Come molto spesso in Salgari, anche nella trilogia delle Bermude l’eroe positivo vive una condizione di spaesamento e di esilio, che fa tutt’uno con le sue propensioni libertarie: come accade anzitutto a Sandokan. William MacLellan, tanto per cominciare, nasce scozzese, e dunque già non integrato nel dominio inglese. Inoltre, come figlio di secondo letto, non viene considerato pienamente legittimo, tanto piú che il padre si è dimenticato di farlo dichiarare marchese di Halifax, e ha cosí spezzato in due la famiglia (prima di essere a sua volta spezzato in due da una per nulla ironica palla di cannone…). Per di piú, Mac-Lellan ha una mamma francese: e dunque, quando si schiera con gl’inglesi, è due volte, direbbe Pirandello, “fuori di chiave”. Il fratellastro, nato invece da una “purissima” duchessa di Lorne, lo chiama addirittura “bastardo”. La differenza di nascita si riverbera cosí anche sulla differenza di schieramento politico-militare: il marchese di Halifax, che si considera unico figlio legittimo, non può che stare con gl’imperialisti inglesi; mentre il baronetto semi-legittimo diven-

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terà Corsaro e fatalmente sposerà la causa dei ribelli americani, decisamente piú vicini alla sua condizione di déraciné. L’antitesi fratricida è però soltanto l’inizio della dinamica di sdoppiamento: le coppie, infatti, tendono irresistibilmente a moltiplicarsi, obbedendo all’impulso dinamico e meccanico verso l’allargamento delle possibilità d’intreccio, ma collaborando anche a un complessivo processo di valorizzazione dei personaggi minori, cui corrisponde, come vedremo meglio fra poco, una forte spinta verso l’abbassamento stilistico e tonale. Cosí il cinquantenne marinaio bretone Testa di Pietra ha come inseparabile compagno un altro marinaio bretone, il giovanissimo Piccolo Flocco, con il quale configura un rapporto comicamente affettuoso, e ruvidamente paterno. Già nella seconda parte di I corsari delle Bermude, i raddoppiamenti procedono con il tedesco, o meglio assiano Hulbrik (che apre il fronte smaccatamente comico-farsesco, oltre che stereotipo, delle parole storpiate alla tedesca), presto bissato dal fratello Wolf, un po’ meno comico, ma non meno affidabile, e pressoché indistinguibile sul piano fisionomico e caratteriale. La proliferazione per sdoppiamento continua poi con “il boemo”, titolare della “tavernaccia” dove i nostri eroi trovano asilo nell’isola di Sandy Hook:15 anch’egli, benché di aspetto balcanico e zingaro, cioè connotato con i tratti piú caratteristici dell’infedeltà e della temibilità, si rivelerà pienamente affidabile; e anch’egli verrà rapidamente dotato di un doppio, che in questo caso è un cognato sagrestano, altrettanto affidabile, nonostante una fisionomia non meno marcatamente sospetta (“aveva piú l’aspetto d’un brigante (…) che d’un sagrestano”):16 il boemo bis aiuterà infatti i corsari a nascondersi nel grande sotterraneo della chiesa dove sta per officiarsi l’esecrato matrimonio tra Mary e Halifax. Colpisce che, a fronte della condizione di bastardo ed esiliato di Mac-Lellan, tutti gli altri amici, inesorabilmente a coppie, possiedano un’identità geografica, etnica e culturale ben precisata, e insistentemente rimarcata: i bretoni, gli assiani, i boemi. La loro condizione di appartenenza, di solidità identitaria, è perfettamente funzionale a ribadirne i tratti di stereotipia, e dunque di abbassamento comico: laddove l’in-appartenenza del Corsaro capo, e il suo irriducibile sradicamento, contribuiscono, con ogni evidenza, a delinearne il profilo nobilmente romantico, e dunque stilisticamente sublime. Per altri versi, però, sia la germinazione quasi automatica di strutture analoghe (delle quali le coppie di personaggi sono solo uno dei casi piú flagranti), cioè i procedimenti di dilatazione del testo, sia le strategie di intensificazione tonale convergono coerentemente verso una piú generale, e generalizzata, strategia di amplificazione: cioè, direbbe Lausberg, di amplificatio orizzontale, ovvero di ampliamento fisico del testo, nel primo caso, e verticale, cioè di intensificazione semantica, nel secondo. Queste scelte tecnico-ideologiche ci riportano di filato al paradigma melodrammatico, magistralmente definito e delineato da Peter Brooks. Il tratto fondamentale, costitutivo

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dell’“immaginazione melodrammatica”, è l’aspirazione alla totalità: “Il desiderio di esprimere tutto (…). Niente viene risparmiato perché niente viene lasciato inespresso”.17 Di nuovo: amplificatio orizzontale (“Niente viene risparmiato”) e verticale (a cominciare dalla tensione a “esprimere tutto”). Da questo punto di vista, l’assolutismo romantico delle passioni e dell’eroismo si rivela perfettamente coerente con l’infaticabile sciorinamento di dettagli e informazioni (storiche, geografiche, etnologiche, botaniche, zoologiche, mediche e altro ancora), cui l’ancoraggio scientifico-enciclopedico conferisce un crisma di assolutezza poco meno, o forse ugualmente totalizzante.18 Non possiamo certo parlare di realismo, e neanche di verosimiglianza: ma non possiamo neanche dimenticare che l’accumulo di dettagli e informazioni ha il compito di conferire peso di verità e di realtà alle affermazioni e alle rappresentazioni del testo. Nel suo straordinario libro sulla nascita del romanzo fra XVII e XVIII secolo, The Rise of the Novel, Ian Watt torna a piú riprese sull’importanza della minuziosità (oggi per noi assai difficile da digerire) e persino della prolissità nella costruzione e diffusione del paradigma del nascente novel: l’accumulo e anzi persino l’eccesso di dettagli collabora infatti, anzitutto, a costruire un equivalente testuale dell’“actual experience”.19 In altre parole, l’accumulo di dettagli di per sé contribuisce a fornire una certificazione di realtà, costruendo un certo tipo di effet réel. Inoltre, almeno due altri ordini di considerazioni “were likely to encourage the author to prolixity: first, to write very explicitly and even tautologically might help his less educated readers to understand him easily; and secondly (…) speed and copiousness tended to become the supreme economic virtue”.20 Anche mettendo qui da parte la questione (per molti versi cruciale) delle motivazioni economiche di un certo modo di scrivere, merita di essere ricordata la convergenza fra un certo tipo di “effetto reale” e la scarsa acculturazione dei lettori dei primi romanzi. Questa convergenza potrebbe, a ben guardare, riportarci proprio alla questione di partenza: alla capacità cioè che i libri di Salgari hanno avuto, per molte generazioni di lettori, di costituire non solo uno svago, ma anche una fondamentale chiave di accesso alla realtà. Dopotutto, il lettore bambino o ragazzo di una modernità ormai avanzata non potrebbe assomigliare, sul piano cognitivo, al lettore adulto della prima rivoluzione industriale? L’ingenuità individuale del singolo lettore ripercorre, almeno in parte, la naïveté dei primi lettori di romanzi? Esagerando: forse anche nel campo della lettura l’ontogenesi ricapitola, sia pure in parte, la filogenesi? Il punto di vista del naso e l’ombra della morte Torniamo ora ai dati strettamente testuali. Abbiamo visto che l’affermazione progressivamente sempre piú irrefrenabile di Testa di Pietra sulla scena del romanzo coincide con una crescente accentuazione delle componenti comiche. Uno dei riscontri piú evidenti di questo abbassamento stilistico-tematico è lo spazio dedicato al mangiare e

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al bere. Una volta di piú, come ben sapeva il grande Bachtin, l’insistenza su un aspetto materiale come il cibo rimanda a una piú generale concessione di legittimità rappresentativa al basso corporeo. Se già I corsari delle Bermude aveva allargato vistosamente lo spazio concesso proprio alla rappresentazione del mangiare, con le lunghe scene nella taverna “delle trenta corna di bisonte” (con reiterato scialo di vino e salsicciotti, fino alla ciucca a rischio di morte del povero Hulbrik, che ignaro s’ingolfa di Aguardiente scorpionato), La crociera della Tuonante concede invece moltissimo spazio a un basso corporeo decisamente piú sgradevole, dove il comico assume ben altre connotazioni. In particolare, Salgari insiste in continuazione sugli odori, cioè quasi esclusivamente sui cattivi odori: fra i quali rientrano sia, per cosí dire, semplici puzze comuni, sia meno consueti fetori nauseabondi. La differenza non è di poco conto: infatti la puzza, lo sanno tutti, scatena risate; ma, dove la puzza si fa fetore, il cattivo odore diventa presagio di morte. Piú in generale, l’infittirsi di scene in cui i protagonisti sono investiti da odori e talvolta persino da umori nauseanti contribuisce a creare un’atmosfera angosciosa, in cui il disagio fisico tende irresistibilmente a farsi correlativo oggettivo di un disagio morale, che pervade insistentemente il testo, a dispetto dello scontato trionfare degli eroi su pericoli e nemici. I passi in questione, concentrati quasi tutti nella parte centrale del romanzo, sono cosí numerosi da lasciare solo l’imbarazzo della scelta: si va dal comune “odore di selvatico che tramandano tutti i felini”,21 magari accentuato in “Un tanfo orribile di bestie selvagge”,22 al piú inquietante “odore del sangue” che scatena l’aggressività delle belve della nave-serraglio,23 fino alle scene in cui vediamo Hulbrik che vomita per il mal di mare o,24 assai peggio, alla “puzza orrenda” della “poltiglia verdastra e cosí puzzolente, da mettere in fuga perfino dei giaguari” vomitata sempre addosso al povero Hulbrik da un grosso avvoltoio.25 Con ogni evidenza, l’insistito ed esibito dispiegarsi di cattivi odori ha a che fare con la presenza massiccia di animali, e soprattutto di bestie feroci. È già stato notato che in molti suoi romanzi Salgari non si accontenta di mettere in scena l’assalto di una belva, ma ne fa comparire coppie, gruppi, e talvolta branchi, magari di dimensioni sconvolgenti e dove si mescolano belve diverse; come scrive Traversetti, “In certi luoghi narrativi dominati dall’istituto, cosí tipico in lui, dell’accumulo, il romanziere chiama a raccolta le belve e le fa convergere, a minacciare gli eroi assediati, in un’assemblea innaturale, in un affollamento ringhiante, come un esercito compatto e organizzato secondo le gerarchie del valore”.26 Ma davvero in La crociera della Tuonante il topos della belva, cosí come il topos subordinato dell’adunata di belve, attinge livelli di parossismo forse inarrivabili, attraverso appunto la bizzarra invenzione della nave-serraglio fantasma, dove Testa di Pietra, Piccolo Flocco e Hulbrik sono costretti ad affrontare in un sol colpo giaguari, coguari (cioè puma), lupi, orsi; ci sono in realtà anche tre coyote, ma restano chiusi in gabbia, accon-

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tentandosi comunque di dare il loro vigoroso contributo alla salubrità dell’aria e al generale disgusto: “puzzavano spaventosamente, (…) tutti coperti di vermi”.27 Non si dimentichi che i nostri eroi salgono sulla nave-fantasma per scappare dai pericoli della scogliera e riprendere la navigazione: proprio la nave salvatrice si trasforma cosí in una trappola infernale, sorta di arca di Noè maledetta, teatro di una violentissima, piccola apocalisse. In Salgari le scene apocalittiche sono tutt’altro che rare: basti pensare all’esemplare rogo finale di Cartagine in fiamme, e a quell’immagine dell’incendio che, come ha mostrato persuasivamente Luciano Curreri, con straordinaria ricchezza di riferimenti, percorre l’immaginario e la pratica artistica del Novecento.28 E certo non è un caso che le apocalissi salgariane siano contemporanee delle tante apocalissi dei primi anni del Novecento, quando già, dietro le luci della Belle époque, si profilava l’ombra della Finis Europae, con il rogo orrendo della Grande Guerra. La scena della nave-serraglio, una delle piú singolari, credo, di tutta la narrativa salgariana, si protrae per una ventina di pagine (pp. 85-103), producendo uno spettacolare dispiegamento di effettacci violenti e grandguignoleschi: anche perché la rappresentazione dei corpi degli animali, che si massacrano tra di loro, oltre a essere massacrati dai nostri eroi, è vistosamente piú spregiudicata della rappresentazione dei corpi umani. Quando parla di esseri umani, infatti, anche laddove allude a violenze e a tremende mutilazioni, Salgari si limita a considerazioni generiche, ma guardandosi bene dal rappresentarle nei dettagli. Qui invece le belve feroci, e per di piú puzzolenti, si azzannano e si lacerano orrendamente, mutilandosi e mangiandosi fra di loro, anche da vive. Comunque Salgari giunge ai confini estremi delle sue possibilità di rappresentazione della violenza fisica, mescolando senza soluzione di continuità innalzamenti melodrammatici e abbassamenti comici che lo portano negli immediati dintorni di uno splatter ante litteram: si vedano, per esempio, la cruentissima lotta tra un giaguaro e un coguaro contro un orso grigio;29 la tremenda fine del giaguaro, divorato “ancora agonizzante”;30 l’assalto alla coffa, dove si sono rifugiati i protagonisti, da parte di un giaguaro, cui Testa di Pietra spacca la testa col calcio del fucile, che ci appare “lordo di sangue e di brani di cervello”.31 A conferma sia della rilevanza del campo semantico del mangiare, sia della mescidanza di livelli stilistici, l’ultima belva, un orso nero, viene uccisa nella cambusa, e, mentre cade “vomitando sangue”, viene mutilata al volo di una zampa, con un “colpo terribile” d’ascia, perché si sa che i prosciutti d’orso sono prelibati: cosí che, mentre la tempesta non si placa, l’episodio può chiudersi su una demenziale, memorabile questione: “– Serata d’arrosto o di naufragio?”.32 Come se non bastasse, l’arca di Noè maledetta troverà subito un’eco, particolarmente fantasiosa e non meno bizzarra, nell’episodio della “pioggia di squali”, a loro volta imprigionati sul ponte della nave, che diventa di nuovo spazio reclusorio. Pazzi di furore, gli

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squali saltano “furiosamente, rompendosi i musi contro gli alberi e le murate”;33 inutile dire che verranno sterminati a fucilate dai nostri eroi, dando peraltro luogo a un secondo, e ravvicinatissimo, sfoggio di violenza, costellata di non poche cruente amenità e dichiarata del resto a chiare lettere: “La tolda sembrava una macelleria”.34 Certo colpisce l’aumento, in molti degli ultimi romanzi, dei tratti di orrore e di angoscia. D’altro canto, questo stesso incremento va di pari passo con una non meno percepibile accentuazione del côté comico: proprio mentre Emilio Salgari medita ormai di mettere fine tragicamente alla propria vita. Non si può dimenticare che Salgari amava disseminare, nei suoi assai poco autobiografici romanzi, “autoritratti talvolta ironici o allusivi”,35 o piú sottili tracce autobiografiche dissimulate. Queste tracce riconducono spesso ai personaggi fumatori: a cominciare dall’eterna sigaretta di Yanez, e proseguendo, senza dubbio, con l’eterna pipa di schiuma di Testa di Pietra, che peraltro ha piú o meno l’età dell’autore. Allegro e smargiasso, fortissimo, grosso, con i tratti fisici stereotipati del bretone, il comico e anche per questo certamente un po’ autobiografico Testa di Pietra diventa sempre piú protagonista, ridanciano e vincente, proprio mentre il suo inventore medita il suicidio, che lo lascerà a mezzo delle sue Straordinarie avventure: quasi alter ego compensatorio, improbabile eppure a suo modo non dubbio, resistente contrappeso al buio incombente. La letteratura, si sa, è troppo piú debole della vita, e alla fine impotente contro la forza preponderante degli eventi. Ma pure, nonostante tutto, alla letteratura è ancora lecito affidare il carico di un impossibile risarcimento dagli orrori della vita: anche e proprio perché ci fa assistere alle vittorie impossibili degli eroi contro nemici e orrori troppo iperbolici per essere davvero reali. Dopo tutto, dobbiamo constatare che, almeno da qualche parte, la letteratura ha vinto, e continua a vincere: è per questo che siamo qui, no?

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Citata in Arpino, Giovanni e Antonetto, Roberto, Vita, tempeste, sciagure di Salgari il padre degli eroi, Rizzoli, Milano 1982, p. 71. Tutti e tre i romanzi della trilogia vengono pubblicati in volume da Bemporad, Firenze. I corsari delle Bermude escono anche a dispense con “Il Giornalino della Domenica”, dal 10 gennaio 1909 al 23 ottobre 1910. Il 29 novembre 1864, il 3° Reggimento dei Volontari del Colorado, al comando del colonnello John Mortimer Chivington, assaltò a tradimento, nonostante precedenti accordi di pace, un accampamento Cheyenne situato in un’ansa del

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fiume Sand Creek, massacrando e seviziando la maggioranza delle seicento persone che vi si trovavano. L’episodio, fra i piú orrendi della terribile storia del massacro delle popolazioni indigene americane, è stato raccontato anche in una celebre canzone di Fabrizio De André, Fiume Sand Creek (nell’album Fabrizio De André, 1981, spesso citato proprio come L’indiano, perché sulla copertina compare l’immagine di un pellirossa). Nel sedicesimo capitolo (La caccia ai naufraghi) Testa di Pietra, nel giro di poche righe, apostrofa l’indiano che si appresta ad ammazzare come “cane rosso rognoso”, “scimmia rossa”, “buffone”:

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cfr. Salgari, Emilio, La crociera della Tuonante, illustrazioni di Gennaro D’Amato, introduzione di Caterina Lombardo, Fabbri, Milano 2002, p. 122. D’ora in avanti tutte le citazioni dal romanzo saranno tratte da questa edizione. Londonio, Carlo Giuseppe, Storia delle colonie inglesi in America, dalla loro fondazione, fino allo stabilimento della loro indipendenza, 3 tt., Tipografia di Giovanni Giuseppe Destefanis (t. I) e Tipografia di Giovanni Pirotta (tt. II e III), Milano 1812-1813. Salgari, La crociera cit., p. 8. Quasi certamente però la cruentissima eliminazione del marchese di Halifax non è opera di Salgari, ma di Gianella. Salgari, Emilio, Gli ultimi filibustieri, Bemporad, Firenze 1908. Salgari, La crociera cit., p. 73. Ivi, p. 76. Ivi, p. 140. Penso, per esempio, a certe scene di La città del re lebbroso, uscito in prima edizione presso Donath, Genova 1904. Salgari, La crociera cit., p. 115. Come mostra la puntualissima e per certi aspetti esaustiva indagine narratologica di Clerici, Luca, I Robinson salgariani, in Mazza, Donatella (a cura di), Molti, uno solo. Tipologie della letteratura giovanile, introduzione di Giorgio Cusatelli, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 125. Salgari, La crociera cit, p. 179. Ivi, p. 196. Brooks, Peter, The Melodramatic Imagination, Yale University Press, New Haven-London 1976 (trad. it. L’immaginazione melodrammatica, traduzione di Daniela Fink, Pratiche, Parma 1985, p. 19). Peraltro, come mostra bene Clerici, I Robinson cit., p. 129, “La soluzione piú efficace adottata da Salgari per introdurre contenuti extra-narrativi (…) è comunque la forma narrativa, la sceneggiatura delle informazioni didascaliche (…): didascalismo e narrazione risultano indissolubilmente intrecciati”.

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Watt, Ian, The Rise of the Novel. Studies in Defoe, Richardson and Fielding (1957), Chatto and Windus, London – Penguin Books, Harmondsworth 1983, p. 27 (trad. it. Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, traduzione di Luigi Del Grosso Destreri, Bompiani, Milano 1997, p. 22). Ivi, p. 62 (trad. it. p. 52). Salgari, La crociera cit., p. 91. Ivi, p. 101. Ivi, p. 94. Cfr. ivi, p. 106. Ivi, pp. 120-121. Sulle funzioni e i significati dell’accentuazione dei dati olfattivi nella rappresentazione letteraria, mi permetto di rimandare al mio Il punto di vista del naso: effetti di una focalizzazione molto corporea nella letteratura contemporanea, in Vallorani, Nicoletta e Bertacco, Simona (a cura di), Sul corpo. Culture / Politiche / Estetiche, Atti del Convegno Internazionale di Sesto San Giovanni, 17-19 maggio 2006, Cisalpino, Milano 2007, pp. 243-260. Traversetti, Bruno, Introduzione a Salgari, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 71. Salgari, La crociera cit., p. 101. Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in fiamme (1906) di Emilio Salgari, in Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001. La prima edizione in volume di Cartagine in fiamme esce da Donath, Genova 1908. Cfr. Salgari, La crociera cit., pp. 92-93. Ivi, p. 95. Ivi, p. 97. Ivi, p. 103. Ivi, p. 112. Ibid. Pozzo, Felice, Emilio Salgari inedito, in Viglongo, Andrea e Spagarino Viglongo, Vannucci (a cura di), Almanacco Piemontese 1983, Viglongo, Torino 1982, p. 93.

Angoscia crescente: I briganti del Riff (1911) tra guerre coloniali e ansia personale Donatella de Ferra

I briganti del Riff,1 l’ultimo romanzo di cui Salgari vide le bozze prima del suo suicidio, non ha incontrato un grande successo di pubblico o di critica, forse perché è pervaso da un’atmosfera cupa e oppressiva che riflette l’angoscia crescente suscitata dalle disavventure famigliari dello scrittore. Con qualche riserva, gli studiosi lo attribuiscono senz’altro a Salgari, probabilmente con l’apporto di altre mani.2 Se i critici ne parlano è in genere velocemente, come di un romanzo minore, o piú estesamente per studiarne le fonti. Lo scopo di questo saggio è invece quello di indicare alcuni punti di continuazione e di diversità che ne caratterizzano la scrittura. La trama de I briganti del Riff è del tutto inverosimile, e come accade spesso nei romanzi salgariani si svolge in un paese, il Marocco, che in quel momento si trovava nel mirino della stampa europea. Dalla fine dell’Ottocento il Marocco era stato infatti sede di continui conflitti tra le popolazioni locali e diversi paesi stranieri che nutrivano aspirazioni coloniali, e dal 1907 era in preda all’anarchia.3 Al centro del romanzo troviamo Zamora, “una meravigliosa gitana di sedici o diciassette anni, alta e slanciata come una palma, dai grandi occhi nerissimi sotto le ciglia lunghe, il viso bruno, la capigliatura che le scend[e] al disotto delle anche”.4 Zamora giunge in Marocco alla ricerca del totem del primo re zingaro, che è sepolto in una caverna segreta sulle pendici del Gurugú, montagna dell’altopiano del Rif. Questo totem, che naturalmente alla fine Zamora ritrova insieme al tesoro del re, le “darà il supremo comando su tutti i gitani spagnoli”.5 Nella sua missione l’accompagnano due studenti dell’università di Salamanca, Pedro e Carminillo, e inoltre Janko, un gitano affiancatole dall’attuale re degli zingari con il pretesto di proteggerla, ma in realtà per impedirle di conquistare il fatidico totem. Carminillo ama follemente Zamora, che ha per lui molta simpatia, ma il loro rapporto continua a essere piuttosto formale e fino alla fine lei continua a chiamarlo señor. Nella conclusione del romanzo i lettori apprendono che, dopo aver superato insieme tante disavventure, Zamora e Carminillo decidono che i loro destini sono legati, e una volta rientrati in Spagna si sposano e “filano l’amore come due colombi”.6 La loro vicenda amorosa tuttavia non viene approfondita e interessa lo scrittore solo per le complicazioni cui dà origine; a questo fine Salgari si serve di alcuni degli elementi piú collaudati: rivalità e gelosia tra due antagonisti che appartengono a etnie diver-

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se. Anche Janko infatti vorrebbe sposare la bella gitana e cerca pertanto di disfarsi dei due studenti spagnoli con la complicità di Siza Baba, una vecchia, gitana pure lei, nota come “la Strega dei Vènti”, che vive sulle pendici del Gurugú, e che può contare sull’aiuto dei briganti berberi della montagna. Ad aumentare le complicazioni della trama e a rendere il romanzo di grande attualità, la vicenda è ambientata nell’estate del 1909. I due gitani e l’estudiantina, cioè il complessino musicale formato da Pedro e Carminillo, arrivano in Marocco con la mappa del totem e con le loro chitarre proprio mentre la Spagna dà inizio a una campagna militare contro le tribú del Rif, fatto di cui i quattro sono ignari.7 Il casus belli di quella che poi divenne la seconda guerra del Rif fu, il 9 luglio 1909, l’uccisione di sei minatori spagnoli impegnati nella costruzione di una ferrovia nei pressi di Melilla, nelle vicinanze del Gurugú. L’avventurosa ricerca del totem del re gitano si intreccia cosí alle vere battaglie tra i berberi dell’altopiano del Rif e le truppe spagnole.

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Il Romanzo e la Storia L’andamento della campagna militare veniva seguito con molta attenzione dalla stampa europea che riportava gli avvenimenti principali e le profonde ripercussioni che i fatti del Marocco avevano in Spagna. A partire dall’11 luglio il richiamo di riservisti per la guerra coloniale scatenò dimostrazioni e scioperi in Spagna, che culminarono con la cosiddetta “settimana tragica” a Barcellona.8 L’opinione pubblica spagnola riteneva infatti che i riservisti venissero sacrificati non per il bene della Spagna, ma per proteggere gli interessi economici di pochi speculatori. Tali avvenimenti non erano indifferenti all’Italia dove nel 1896 avevano già avuto luogo proteste contro il servizio coloniale, che si sarebbero poi ripetute nel 1911.9 La stampa italiana descriveva l’insurrezione come anarchica e dava particolare rilievo all’assalto a un convento e alla profanazione di tombe; sulla “Domenica del Corriere”, in data 8 agosto 1909, appariva anche una tavola di Achille Beltrame sulle manifestazioni di Barcellona cui si diceva avessero partecipato anche delle “sgualdrine”. Ne I briganti del Riff la guerra non resta sullo sfondo, ma come in un romanzo storico personaggi inventati e personaggi reali interagiscono: Zamora e compagni restano intrappolati tra il fuoco incrociato dei berberi e degli spagnoli e alla fine del romanzo, per salvare i suoi compagni, l’audace Zamora sfida il pericolo posto da briganti, soldati e granate per recarsi in persona dal governatore di Melilla, il generale Marina, personaggio storico al comando delle truppe spagnole: “Le granate cadevano sugli alberi, schiantandoli di colpo e producendo, nello scoppio, grosse vampate le quali potevano provocare qualche disastroso incendio. Regolandosi sulla voce del cannone, Zamora continuò a scendere”.10 È solo grazie all’intervento del generale Marina che i due studenti spagnoli potranno essere liberati, dopo che sono stati murati vivi

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dai riffani. Il generale resta infatti comprensibilmente colpito dalla ragazza: “Ammiro il vostro coraggio, bella figliuola” – le dice – “e m’incarico io di mettere in salvo tutte le vostre ricchezze e di liberare quei due disgraziati. Voglio che prima di mezzogiorno la nostra bandiera sventoli orgogliosamente sulla piú alta cima della montagna (...). Con questi briganti la si finirà...”.11 Le due trame del romanzo si concludono felicemente: Zamora, Carminillo e Pedro rientrano in Spagna con il totem e con numerosi gioielli trovati nella caverna del re gitano, e i soldati spagnoli sotto il comando del generale Marina piantano la loro bandiera sulla cima del Gurugú. Salgari seguiva attentamente l’andamento della campagna militare spagnola sull’altopiano del Rif. Riporta infatti con minuzia e accuratezza molti particolari, e inserisce nella sua narrazione non soltanto quelli piú spettacolari ma anche dei dettagli minori, come quello del contrabbando d’armi grazie al quale i berberi erano in possesso di fucili moderni.12 Il 27 luglio 1909 i soldati spagnoli, ai quali mancava la conoscenza del territorio, subirono una grave sconfitta nella gola del Gran Lupo (Barranco del Lobo).13 L’eccidio fu riportato dalla stampa europea provocando una fortissima reazione, al punto che il 31 luglio il “London Times”, su richiesta dell’ambasciata spagnola a Londra, dovette precisare che la Spagna non aveva una legione straniera e che pertanto non poteva accettare l’offerta dei numerosi volontari. In Spagna, a pochi giorni dalla sommossa di Barcellona, l’alto comando persuase il governo a inviare un ulteriore contingente di fanteria, cavalleria e artiglieria, questa volta ben provvisto di mappe e con il supporto di palloni da osservazione.14 Anche la stampa italiana dava risalto all’istituzione di un parco aerostatico di supporto, e quello del pallone era un particolare cui la fantasia di Salgari non poteva resistere. Lo scrittore cambia perciò la cronologia degli avvenimenti per inserirlo nella trama. Pedro, Carminillo e Zamora assistono cosí impotenti allo sterminio delle truppe spagnole nel cañon del Gran Lupo, avvenimento che è stato spostato da luglio a settembre, e poi riescono a sfuggire al massacro proprio imbarcandosi su un pallone militare che trovano abbandonato. A ulteriore conferma che Salgari seguiva con attenzione gli avvenimenti del Marocco, il pallone su cui i nostri salgono porta il nome di Numancia, cioè il nome di una delle navi inviate dalla Spagna in Marocco con rinforzi.15 Il colonialismo Anche per il suo ultimo romanzo, Salgari trae dunque ispirazione da episodi di attualità sulla scena internazionale e li romanza in tempo reale come aveva fatto in altre opere già all’inizio della sua carriera letteraria.16 La novità che colpisce e sorprende ne I briganti del Riff è piuttosto l’atteggiamento di Salgari verso le popolazioni autoctone. Se i suoi articoli di gioventú, quelli pubblicati col sobriquet Ammiragliador, sono colonialisti, espansionisti e auspicano un inter-

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vento italiano in Africa, è pur vero che nei romanzi lo scrittore prende solitamente la parte delle popolazioni indigene contro i loro sfruttatori coloniali. Secondo Ann Lawson Lucas, non solo Salgari era “esplicitamente contrario ad ogni appropriazione”, ma pure “presentava sempre il colonialismo europeo come un male”, al punto che la studiosa lo definisce “uno scrittore postcoloniale ante litteram”.17 Anche all’inizio de I briganti del Riff Salgari sembra condannare le imprese coloniali quando scrive: “I marocchini nulla vogliono dalle cavallette europee che in qualche ora attraversano il Mediterraneo per calare sulle loro spiagge, intuendo che non è solamente la sete di guadagno che li spinge, bensí per preparare il terreno a nuove conquiste”.18 Dopo questa dichiarazione il lettore si aspetterebbe che Salgari prenda la parte dei riffani contro gli spagnoli, ma accade proprio il contrario; alcuni passi rivelano una certa ammirazione per il coraggio e per lo spirito indipendente dei berberi, ma in definitiva l’autore sta interamente dalla parte degli spagnoli. I riffani, già definiti “briganti” nel titolo, vengono accusati di inciviltà, di ferocia gratuita e anche di scarsa competenza militare.19 Le loro donne poi sono bellissime e seminude, secondo formule voyeuriste tipiche della scrittura e della pittura coloniale. All’inizio del romanzo sembra inoltre che Salgari voglia distinguere tra berberi e arabi; in realtà, come ha fatto notare Mario Tropea, la celebre descrizione dei berberi nel capitolo Un po’ di storia è tratta da Marocco (1876) di De Amicis:20 “I barbari del Riff non somigliano affatto ai mori. Sono uomini biondi, di carnagione quasi bianca, che non conoscono né sultano, né caid, e che non hanno altra legge all’infuori di quella del loro fucile”.21 Al di fuori di questo riferimento intertestuale, la distinzione tra i due gruppi scompare. All’inizio del romanzo si legge per esempio che Janko è “bruno come un berbero”,22 e altrove lo scrittore usa il termine generico di “mori” sia per i berberi che per gli arabi. Mentre in altri romanzi salgariani ogni schieramento comprende eroi e vigliacchi, ne I briganti del Riff si nota una divisione piú netta tra forze del bene e forze del male, tra spagnoli e riffani. Dalla parte dei riffani troviamo un unico “prode”, lo sceicco noto come “la Pantera del Gurugú”. Nel breve interludio intitolato appunto La Pantera del Gurugú Salgari ricrea un’atmosfera cavalleresca. Lo sceicco accetta la sfida a singolar tenzone proposta da Carminillo, con l’approvazione dei suoi “mori, grandi ammiratori della gente risoluta e battagliera”.23 Si tratta di un duello a cavallo e i riffani offrono a Carminillo una splendida bestia scelta “con cura (...), per dimostrare al giovane animoso la loro ammirazione pel suo indomito coraggio”.24 La Pantera del Gurugú tuttavia muore in questo duello, e il suo successore, che non ha un alto concetto dell’onore, non rispetta i termini concordati e condanna i due studenti a morire di una morte lenta e terribile, meritandosi il soprannome programmatico di “Jena del Gurugú”.25 Non ci sono altri momenti in cui i riffani vengano

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elogiati, mentre i soldati spagnoli sono “bravi ussari”,26 e il loro comportamento viene ripetutamente descritto come cavalleresco,27 non solamente dalla voce dei personaggi principali che si identificano con la Spagna,28 ma anche da quella dello scrittore quando per esempio abbandona i personaggi per rivolgersi ai suoi lettori e insegnar loro un po’ di storia.29 Nella conclusione del romanzo, dopo aver descritto il combattimento finale in cui le forze berbere vengono sgominate, Salgari conclude: “I terribili banditi, che per due secoli avevano fatto continuamente tremare Melilla, si erano finalmente dichiarati vinti, e si arresero al valoroso generale, consegnando tutte le armi. / La Spagna ormai era padrona del Riff e minacciava i confini del Marocco, scorrazzati da altri banditi non meno pericolosi dei riffani”.30 In realtà la conclusione fu diversa, sotto parecchi aspetti e in primo luogo quello cronologico. Nel romanzo tutti gli avvenimenti sembrano svolgersi in un lasso di tempo piuttosto breve, ma per essere ignari della campagna militare spagnola in Marocco gli studenti avrebbero dovuto lasciare la Spagna all’inizio di luglio. Nella realtà storica la bandiera spagnola fu piantata definitivamente sulla cima del Gurugú appena il 27 settembre, e la resa dei riffani avvenne solo in novembre e comunque non rappresentò che una cessazione temporanea delle ostilità. Nel 1911, quando il romanzo venne pubblicato, la crisi marocchina era ancora di grande attualità e l’idea che dei guerriglieri potessero tener testa a un esercito regolare bene organizzato continuava a essere motivo di profondo stupore:31 “The Moroccan difficulties aroused general bewilderment. A writer for ABC, an influential, ultra-conservative daily published in Madrid and Seville, stated on October 11, 1911, that he was at a loss to understand how Moorish irregulars utterly without modern organization and lacking proper equipment or leadership could halt supposedly well-trained, well-disciplined, and adequately equipped European troops”.32 Quando l’articolo cui si riferisce la citazione fu pubblicato, Salgari si era ormai tolto la vita, ma fin dal 1902 i fatti del Marocco avevano una particolare risonanza in Italia. In quell’anno infatti l’Italia aveva stretto un patto con la Francia con cui si impegnava a sostenere le ambizioni coloniali francesi in Marocco, in cambio dell’appoggio francese in Tripolitania. Si trattava tuttavia di una difficile alleanza.33 Che Salgari avesse poca simpatia per le grandi potenze coloniali in generale e per la Francia in particolare è un fatto noto, che si rispecchia in altri suoi romanzi, e il suo appoggio al colonialismo spagnolo ne I briganti del Riff esplicitamente diretto contro i berberi può essere visto come implicitamente ostile alla Francia, che contendeva alla Spagna il dominio del Marocco.34 Una lettura in questa chiave suggerisce che quegli “altri banditi non meno pericolosi dei riffani” che scorrazzano sui confini del Marocco potrebbero essere le truppe francesi, e forse contribuisce a spiegare perché i berberi del Maghreb siano ritratti in una luce negativa.

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Anche se, come ho già suggerito, Salgari finí per essere coinvolto nell’ideologia dell’orientalismo, alcuni commenti di tipo razzista ne I briganti del Riff sembrano comunque provenire da un’altra penna, come il seguente, con cui viene liquidata l’ultima resistenza dei riffani, i quali “dopo essersi lasciati per bene cannoneggiare per quarantott’ore (...), avevano finito col riconoscere la supremazia della razza d’oltremare, e se n’erano andati a gruppi, fuggendo come cervi fra le foreste”.35 La frase stona, perché nel descrivere gli europei come cavallette, Salgari aveva indicato di non credere alla superiorità della razza bianca, e anzi aveva associato il colonialismo alle piaghe d’Egitto piuttosto che al fardello dell’uomo bianco di cui versificava Rudyard Kipling. Le amicizie e i matrimoni tra personaggi appartenenti a etnie diverse e anche nemiche come Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e alla fine anche l’Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia, suggeriscono che Salgari credesse nella possibilità di un’armonia razziale almeno sul piano personale.36 Ma il 1909 era un anno poco adatto per promulgare in Italia idee antirazziste, anticolonialiste e pacifiste, soprattutto con riferimento all’Africa. Era proprio in Africa che l’Italia pensava di ritentare l’impresa coloniale, e proprio nel 1909 aveva trovato nella Russia un nuovo alleato disposto ad appoggiarla in Libia.37 Nel mondo della cultura, dal mese di febbraio, i futuristi invitavano i giovani alla violenza e alla guerra. In campo scientifico il razzismo era un argomento di scottante attualità e si favoleggiava addirittura di differenze razziali tra le popolazioni delle regioni italiane.38 E proprio Torino, dove Salgari risiedeva, si trovava nel 1909 al centro di alcuni di questi dibattiti.39 I gitani Per affermare la sua fiducia nella possibilità di un’armonia tra etnie diverse, pur condannando in toto i berberi, ne I briganti del Riff Salgari adotta una singolare via di mezzo. Ai berberi, Altri con la A maiuscola, affianca i gitani rappresentati da Zamora, dal traditore Janko e da Siza Baba la “Strega dei Vènti”. Nonostante Zamora sia l’unico personaggio positivo di questo gruppetto, i gitani in senso lato sono presentati in modo positivo.40 Sono altri anch’essi, gente con costumi e una storia diversi, e motivazioni a volte incomprensibili. Per Salgari sono diversi anche dal punto di vista biologico: egli parla infatti dei loro sensi molto sviluppati e addirittura di un odore caratteristico che li distinguerebbe e permetterebbe loro di rintracciarsi. “Razza strana” dunque, sempre in moto, alla ricerca della “patria che hanno smarrita e che non riescono piú a ritrovare”,41 come spiega Carminillo. Si tratta tuttavia di altri con cui è possibile stabilire una convivenza armoniosa, e quando alla fine Carminillo sposa Zamora lo fa con il consenso di tutti i capi gitani. King Solomon’s Mines La storia a lieto fine di Carminillo e Zamora è la rielaborazione di una storia dalla conclusione tragica che Salgari conosceva assai bene,

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cioè quella tra il capitano della marina britannica Good e la bella kukuana Foulata, in King Solomon’s Mines (1885) di Henry Rider Haggard,42 una delle fonti principali de I briganti del Riff. Nel 1899, ne Le caverne dei diamanti e con lo pseudonimo E. Bertolini, Salgari aveva tradotto e plagiato Le miniere di Re Salomone.43 Da quella libera traduzione egli aveva omesso però la storia d’amore tra Good e Foulata. Nel romanzo coloniale di Haggard la storia d’amore tra un bianco e una donna nera non poteva avere una conclusione felice, e non è sorprendente che Foulata muoia tragicamente. La ragazza stessa sa che si tratta di una relazione impossibile, tanto che in punto di morte dichiara: “Say to my lord, (…) that – I love him, and that I am glad to die because I know that he cannot cumber his life with such as I am, for the sun may not mate with the darkness, nor the white with the black”.44 Con notevole freddezza e distacco Allan Quatermain, pseudo-scrittore del romanzo e portavoce di Rider Haggard, ripete gli stessi concetti:45 “I am bound to say, looking at the thing from the point of view of an oldish man of the world, that I consider her removal was a fortunate occurrence, since, otherwise, complications would have been sure to ensue”.46 Per Rider Haggard la morte di Foulata rappresenta una facile via d’uscita che conferma i suoi lettori nei loro pregiudizi. Ne Le caverne dei diamanti Salgari elimina questa storia d’amore interrazziale gravata da commenti razzisti, ma non la dimentica del tutto e dieci anni dopo la rielabora come la storia d’amore a lieto fine tra una principessa gitana e uno studente spagnolo. 47 Mentre Foulata muore pugnalata dalla strega Gagool, nel tentativo di salvare i suoi amici, Zamora può uscire vittoriosa dal confronto con Siza Baba ed è quest’ultima invece a precipitare in fondo a un burrone. L’introduzione dei gitani e lo sdoppiamento dell’altro permettono cosí a Salgari di ispirarsi a fatti di attualità che interessavano l’Italia, e di mantenere l’atteggiamento di apertura che è suo proprio pur senza condannare esplicitamente ogni forma di colonialismo, o la politica estera dell’Italia.48 Il sentimento della fine Nonostante il lieto fine, I briganti del Riff è un romanzo tutt’altro che lieto; l’atmosfera che lo pervade è cupa, oppressiva e forse, come ho suggerito all’inizio, fu la causa del suo scarso successo. Quando lo scrisse, Salgari era già provato da una serie di disavventure famigliari e il suo sentimento di angoscia e di impotenza si riflette ne I briganti del Riff in una tensione da incubo sottolineata dai motivi ricorrenti dell’assedio, della prigionia e della sensazione di soffocamento. Basterà qualche esempio: per sfuggire ai briganti che li inseguono i quattro personaggi principali cercano rifugio in una caverna, che però risulta abitata da leoni e da pitoni. Per difendersi da essi Janko dà fuoco alle alghe che coprono il fondo della caverna, e insieme a Zamora trova riparo dal fumo e dal fuoco su un costone, ma non

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appena le fiamme si estinguono ecco che comincia a salire lentamente la marea. Solo quando tutto sembra ormai perduto e la morte per annegamento certa, le acque si ritraggono. Anche per Pedro e Carminillo la liberazione dalla caverna è tormentosa. I due riescono a strisciare verso la volta seguendo un cunicolo che alla fine permette loro di emergere con la testa, ma non di estrarre il resto del corpo, per cui rimangono appesi “come impiccati” o “destinati ad affumicare come le aringhe”.49 Per i due studenti questa è solo la prima di una serie di situazioni angosciose e parallele in cui si avvicendano l’immobilizzamento, i morsi degli insetti e la minaccia delle belve. Dopo l’assedio dei riffani e il duello con la Pantera del Gurugú, Pedro e Carminillo vengono infatti cuciti dai briganti dentro le carcasse di due vacche, e abbandonati a cuocere lentamente al sole; Zamora arriva appena in tempo per liberarli, mentre vengono morsi dalle formiche e i leoni sono sul punto di divorarli. Alla fine saranno nuovamente catturati e questa volta legati entro tappeti invasi dalle pulci, e poi murati vivi. È Zamora, giovane, bellissima e coraggiosa che li libera dalla morte sicura. Ma neanche questo personaggio salvifico è in grado di mitigare l’altro tema che domina il racconto, cioè l’orrore della solitudine e della vecchiaia. Anzi, è proprio attraverso la rappresentazione dei due personaggi femminili Zamora e Siza Baba e attraverso la loro relazione che Salgari elabora questo tema. È significativo che mentre Pedro e Carminillo vivono insieme l’avventura, e sono legati da una profonda amicizia maschile, la bella Zamora, che è molto piú in gamba di loro, è del tutto sola. Sempre rappresentata da un punto di vista maschile, Zamora vede sé stessa attraverso gli occhi degli uomini che la circondano, e che sono pronti a riconoscere la sua superiorità in tutti i campi. “Certe volte vale piú una donna che tre uomini insieme”, esclama Pedro.50 “Che tiratrice straordinaria!... (…) Tu vali un uomo ed anche piú”, gli fa eco Carminillo,51 e anche Janko riconosce: “sei sempre stata la migliore bersagliera della tribú”,52 e poi: “Tu sei piú coraggiosa d’un uomo”.53 Ben diversa dalle eroine salgariane dolci e passive come Marianna e Honorata, Zamora è il vero eroe de I briganti del Riff, ma per ricoprire questo ruolo d’azione il personaggio deve diventare parte di un mondo maschile e in definitiva viene mascolinizzato. Zamora stessa, che non ha dubbi sul proprio valore, ripete spesso di valere quanto un uomo. Poiché i suoi compagni la apprezzano per il suo valore, per la sua capacità di destreggiarsi con le armi e per la sua intelligenza, Zamora non sembra quasi rendersi conto di vivere in un mondo in cui le qualità che contano, per una donna, sono in primo luogo la bellezza e la gioventú. È in tarda età che questa verità diventa ineluttabile come dimostra la vecchia Siza Baba. Anche per questo personaggio la fonte è King Solomon’s Mines, ma nella rappresentazione della strega Salgari si discosta dal modello per rielaborarlo in chiave tragica. In primo luogo va notato che Gagool, la strega di King Solomon’s Mines, è un personaggio potente, descritto come “the wise and terrible woman, who does not die”;54 è

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lei il vero, feroce capo dei Kukuana mentre il sovrano Twala, che le deve il suo regno, è un re fantoccio che obbedisce ai suoi ordini. Gagool è una creatura demoniaca e misteriosa, i Kukuana pensano che sia vissuta per generazioni, e lei alimenta la propria leggenda senza fornire alcuna spiegazione, limitandosi a ridacchiare in modo malevolo. Inoltre Gagool è temuta e rispettata da tutti per la sua conoscenza della medicina. Non è, come Siza Baba, una vecchia abbandonata, ma è il capo di un gruppo di dieci, terribili guaritrici (Isanusi) cui ha insegnato la sua arte e che la chiamano “old mother”, antica madre: “These were women, most of them aged, for their white hair, ornamented with small bladders taken from fish, streamed out behind them. Their faces were painted in stripes of white and yellow; down their backs hung snake skins, and round their waists rattled circlets of human bones, while each held a small forked wand in her shrivelled hand. In all there were ten of them”.55 Paradossalmente nel romanzo di Haggard, imperialista e colonialista, incontriamo una società, quella dei Kukuana, che per quanto primitiva rispetta e stima gli anziani, uomini e donne, e non solamente le streghe, mentre il romanzo di Salgari riflette la tristezza e la solitudine della vecchiaia nell’Italia del primo Novecento. La Siza Baba di Salgari non è un personaggio temibile, quanto un personaggio patetico, bella e coraggiosa in passato, ma ora una vecchia sola il cui compagno e il cui figlio sono ambedue morti. All’inizio Janko spiega ai compagni che “Siza Baba è la Strega dei Vènti dei briganti della montagna, da tutti rispettata e da tutti temuta”.56 Ma Siza Baba stessa dice di essere stata piú temuta che rispettata, e non sembra aver piú fiducia nei propri poteri. Questo è evidente quando Janko si meraviglia che la protezione della vecchia non costituisca per i riffani una difesa sufficiente contro gli spagnoli. E le chiede: “– Malgrado la tua protezione? / La Strega dei Vènti fece un gesto vago”.57 In una società che valuta le donne soprattutto per la loro bellezza, per Siza Baba la vecchiaia è un continuo tormento. I suoi discorsi vertono solo sul suo splendore passato, e sui suoi trionfi di gioventú: anche Siza Baba è stata infatti una grande ballerina come Zamora, allorché aveva il nome di Sonora. L’unico conforto la vecchia lo trova nell’alcool, in quell’aguardiente che beve in grandi quantità; morirà infatti ubriaca, dopo essersi scagliata contro Zamora in un pauroso raptus di invidia e gelosia: “Voglio i tuoi denti da sostituire ai miei e non sembrare piú una lupa affamata!... Voglio il lampo ardente dei tuoi occhi da imprigionare tutto nel mio solo rimastomi!... Voglio la tua giovinezza!... Voglio diventare la bella Sonora applaudita a Siviglia ed a Granata. Dammi i tuoi capelli, Zamora, dammi il tuo sangue giovanile, dammi le tue carni fresche dorate dal sole...”.58 Se in alcuni romanzi salgariani si avvicendano due eroine, un personaggio femminile positivo e l’altro negativo, ne I briganti del Riff il personaggio femminile è in realtà uno solo, ritratto in gioventú e nel declino della vecchiaia e dell’alcolismo, un fatto che la somiglianza

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dei due nomi delle gitane, Zamora e Sonora, sembra confermare. Quando il corpo senza vita di Sonora viene rinvenuto da Zamora, Pedro e Carminillo in fondo a un burrone, il volto della vecchia è già stato divorato dagli avvoltoi. “Come si diventa brutti quando s’invecchia!” – esclama a questo punto Pedro – “Io spero di non raggiungere l’età di quella strega...”.59 Sarebbe un commento ridicolo, se nella sua tragica assurdità non contenesse un elemento autobiografico. Né Salgari né sua moglie potevano dirsi vecchi nel 1909, ma anche questo particolare rivela lo stato d’animo alterato e il tormento dello scrittore, ormai prossimo alla fine.60 Alla luce degli avvenimenti successivi colpisce che nelle parole di Pedro non è la morte a essere temuta, ma il declino della vecchiaia, e il declino di quel corpo che i romanzi salgariani celebrano in azione. Dopo assedi serrati e imprigionamenti sempre piú stretti, l’ultima prigione da cui non è possibile scappare s’identifica con il corpo stesso.

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Salgari, Emilio, I briganti del Riff, Bemporad, Firenze 1911. D’ora in avanti si citerà dall’edizione Fabbri, Milano 2005. A Salgari lo attribuisce, seguendo la bibliografia di Felice Pozzo, Ann Lawson Lucas che dichiara di essere “disposta a credere nell’autenticità (almeno approssimativa) de I briganti del Riff” (Lawson Lucas, Ann, La ricerca dell’ignoto. I romanzi d’avventura di Emilio Salgari, Leo S. Olschki, Firenze 2000, p.178). In una lettera privata la studiosa mi scrive però che “è ormai impossibile determinare quanto sia dovuto alla penna dello scrittore e quanto all’input di altri.” Cfr. Payne, Stanley G., Politics and the Military in Modern Spain, Stanford University Press, Stanford 1967, p.105. Salgari, I briganti cit., pp. 8-9. Ivi, p. 9. Ivi, p. 238. All’inizio del romanzo Carminillo fa riferimento alla “guerra che sta per scoppiare nuovamente” (ivi, p. 35), ma piú innanzi Zamora si meraviglia: “Come può essere avvenuta questa improvvisa rottura fra i riffani e gli spagnoli, mentre quando ci siamo imbarcati non si sentiva odor di polvere?” (ivi, p. 144). Cfr. Payne, Politics cit., p.107. “La Domenica del Corriere” dell’ 8 agosto 1909 riportava centoventi morti e trecento feriti. Cfr. Payne, Politics cit., p. 109. Salgari, I briganti cit., p. 233. Ivi, p. 234. Era un fatto che faceva notizia e su cui la stampa speculava, anche perché si riteneva che i berberi impiegassero pallottole “dum dum” che violavano

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le convenzioni internazionali. Cfr. “London Times”, 12 luglio 1909, p. 5. Il “London Times” del 31 luglio 1909 riprendeva le notizie pubblicate a Parigi e riportava che le perdite erano molto estese: “two companies were massacred to a man in a gorge, and out of a column of four companies which was recently in action only one company returned to camp” (ivi, p. 5). Il numero delle perdite riportato da Salgari, cioè piú di ottocento soldati, corrisponde a quanto veniva riferito. Payne, Politics cit., scrive che le fonti ufficiali fecero ammontare le perdite a mille uomini e quelle ufficiose a millecinquecento. Cfr. “London Times”, 2 agosto 1909, p. 3. Cfr. “London Times”, 30 luglio 1909, p. 5. Cfr. Pozzo, Felice, L’Africa di Emilio Salgari. L’eurocentrismo e il problema delle fonti in “I Sentieri della Ricerca. Rivista di Storia Contemporanea”, a cura di Angelo Del Boca, 2005, 1, n. 1, pp. 169187: 176 (reperibile anche all’indirizzo www.centroginocchi.it/index.php?option=com_docman&t ask=doc_view&gid=53&Itemid=18 - ultima visita: 2 giugno 2009). Cfr. inoltre Lawson Lucas, La ricerca cit., p. 15. Lawson Lucas, La ricerca cit., pp. 149 e 158. Salgari, I briganti cit., p 104 (il corsivo è mio). La citazione proviene dal capitolo decimo, intitolato Un po’ di storia. La stampa italiana, per quanto ho potuto controllare, parlava piuttosto di “tribú”: l’appellativo di “briganti” è una creazione di Salgari e rispecchia il titolo di un suo racconto precedente, I pirati del Riff. Si tratta di una delle sessantasette narrazioni realizzate da Salgari per la “Bibliote-

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china Aurea Illustrata” dell’editore palermitano Salvatore Biondo, tra il 1901 e il 1906, con lo pseudonimo di Capitano Guido Altieri. Cfr. Tropea, Mario, Titoli, nomi, note, congetture e qualche plagio. Indagini e ricognizioni sull’universo dei Racconti, in Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura e con saggi introduttivi e finali di Mario Tropea, con una nota sulla “Bibliotechina Aurea Illustrata” di Claudio Gallo e Caterina Lombardo, vol. III, Viglongo, Torino 2002, pp. 271-279. Sono grata a Mario Tropea per avermi gentilmente fornito queste indicazioni. Cfr. ivi, p. 275. Salgari, I briganti cit., p. 107. Ivi, p. 8. Ivi, p. 156. Ibid. Ivi, p. 160. Ivi, p. 236. Ad esempio, si legge: “Noi tutti, nati sulla terra del Cid, siamo troppo cavallereschi per non aiutarci a vicenda, specialmente in terra straniera” (ivi, p. 215). Zamora si dichiara spagnola, mentre Janko si definisce gitano e quindi senza patria. Anche in questo caso Salgari concorda con quello che scrivevano le grandi testate europee. In un articolo del corrispondente del “London Times” a Parigi, a proposito delle truppe spagnole in Marocco, si legge per esempio che “la stampa francese è unanime nel lodare la galanteria di questi esperti reggimenti coloniali” (31 luglio 1909, p. 5, traduzione mia). Salgari, I briganti cit., p. 237. È legittimo chiedersi se l’interesse della stampa italiana non fosse alimentato anche dal doloroso ricordo delle sconfitte militari subite in Etiopia. Payne, Politics cit., p. 114. L’intervento italiano in Libia può essere interpretato come una conseguenza della vittoria francese in Marocco. Lo storico Martin Clark fa notare che l’invasione della Libia ebbe piú a che fare con il Banco di Roma che con la seconda crisi marocchina, ma anche questa ebbe il suo peso. Cfr. Clark, Martin, Modern Italy 1871-1982, Longman, London 1984, p. 154. Le grandi potenze coloniali europee con cui l’Italia voleva competere non erano la Spagna o la Germania, bensí la Francia e la Gran Bretagna. Cfr. ivi, p. 153. Salgari, I briganti cit., p. 235. Cristina Della Coletta ha evidenziato inoltre come in alcuni di questi rapporti – è il caso di Sandokan e Yanez – è l’uomo di colore a essere il leader in tutti i sensi. Cfr. Della Coletta, Cristina, World’s Fairs Italian Style: The Great Exhibitions in Turin and Their Narratives, 1860-1915, University of Toronto Press, Toronto 2006, p. 145. Cfr. Di Scala, Spencer M., Italy from Revolution to Republic: 1700 to the Present, Westview Press, Oxford 1995, p.196. Cfr. Wong, Aliza S., Race and the Nation in Liberal Italy, 1861-1911: Meridionalism, Empire, and Diaspora, Palgrave Macmillan, New York 2006, in particolare il capitolo Science and the Codifica-

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tion of Race: Physiognomy and the Politics of Southern Identity (pp. 48-77). Il 19 ottobre vi moriva Cesare Lombroso, e nello stesso anno veniva fondato un nuovo quindicinale nazionalista, cioè “Il Tricolore”. Il figlio di Salgari Omar, infatti, parla di una simpatia di suo padre per questo gruppo. Salgari, I briganti cit., p. 137. Si citerà da Haggard, H. Rider, King Solomon’s Mines, with thirty-two illustrations by Russell Flint, revised edition, Cassell and Co., LondonNew York-Toronto-Melbourne 1911. Bertolini, E. (Emilio Salgari), Le caverne dei diamanti, Donath, Genova 1899. Cfr. Lawson Lucas, La ricerca cit., p. 16. Haggard, King Solomon’s cit., p. 267. Per il razzismo cfr. Katz, Wendy R., “A Negro excepted”: Racism, in Ead., Rider Haggard and the Fiction of Empire: A Critical Study of British Imperial Fiction, Cambridge University Press, Cambridge 1987, pp.131-152. Haggard, King Solomon’s cit., p. 286 I briganti del Riff e King Solomon’s Mines hanno una serie di piccoli particolari in comune, dalla mappa del tesoro rispettivamente tessuta e ricamata su un pezzo di stoffa, alla descrizione del monte con due cime (il Gurugú e Sheba’s Breasts), al fatto che solo una piccola parte del tesoro viene recuperata, elemento questo destinato ad alimentare l’interesse dei giovani lettori. In tutti e due i romanzi, inoltre, la ricerca del tesoro è uno scopo secondario e i personaggi principali sono impegnati in una missione personale: per Zamora e per Ignosi la missione è quella di conquistare il trono che loro spetta di diritto. Per il colonialismo nei libri per la gioventú, cfr. Palumbo, Patrizia, Orphans for the Empire: Colonial Propaganda and Children’s Literature during the Imperial Era, in Ead. (a cura di), A Place in the Sun: Africa in Italian Colonial Culture from PostUnification to the Present, University of California Press, Berkeley 2003, pp 225-251. Salgari, I briganti cit., p. 60. Ivi, p. 31. Ivi, p. 32. Ibid. Ivi, p. 68. Haggard, King Solomon’s cit., p. 113 (capitolo ottavo, We enter Kukuanaland). Ivi, pp. 150-151 (capitolo decimo, The WitchHunt). Salgari, I briganti cit., p. 130. Ivi, p.131. Ivi, p.177. Ivi, p. 236. Ann Lawson Lucas ravvisa nei personaggi femminili negativi degli ultimi romanzi un riflesso del turbamento mentale dello scrittore: “the state of Salgari’s mind in his last years, a mind tormented by fears, including fear for – and perhaps fear of – his wife in her tragic decline” (Lawson Lucas, Ann, Salgari’s Women, in Nikolajeva, Maria (a cura di), Voices from Far Away: Current Trends in International Children’s Literature Research, Stockholms Universitet – Centrum för Barnkulturforskning, Stockholm 1995, p. 90).

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La condanna e la detrazione, talvolta, la dicono piú lunga e meglio di quanto vorrebbero. Piuttosto a lungo una buona parte di critici e manualisti (di cui molti impegnati nel campo della letteratura per ragazzi e per l’infanzia) ha ritenuto che Emilio Salgari “ebbe del poeta solo la febbre”, con il risultato di una produzione romanzesca fondata sull’“incalzar di fatti espressi in uno stile duro, disadorno, a volte convulso o contorto, non costruiti, a incubo come nel sogno”.1 In sostanza, un naïf dalla sensibilità infantile, ma appunto per questo non proprio innocuo, perché capace d’insinuare, nei “ragazzi di psiche un po’ torbida e di natura un po’ turbolenta”, degli “istinti non buoni, che portano alla morbosa curiosità per ciò che è crudele, selvaggio, efferato”.2 I giovani lettori, pubblico dalla “mentalità elementare”, si sarebbero “entusiasma[ti] fino alla frenesia” per questa narrativa,3 dimostrandone una “febbrile sete emotiva”.4 E anche chi, invece, di questa prosa ne riconosceva la “forza”, e un “valore positivo”, non si è potuto esimere, e a ragione, dal sottolineare una scrittura a tratti “allucinante”, in cui “la violenza (…) non conosce limiti, il sangue corre a fiotti, i cadaveri sono a mucchi”, un universo innegabilmente “macabro”.5 Ne emerge un autore o perlomeno uno stile febbrile, un immaginario pervaso da una frenesia capace di contagiare alcuni lettori. Ma il frenetico, anzi, il “frénetique”, è pure un filone storicamente codificato, una vasta gamma tematica che si può nondimeno riassumere nella declinazione francese del gotico e dell’horror anglosassoni, nonché dello Schauerroman tedesco, tra nequizie sadiane, humour noir, fantasmagorie e perversioni frenologiche.6 Per primo, a individuare una “école frénétique”, sarebbe stato nientemeno che Charles Nodier, nel 1821, scagliandosi contro una “détestable littérature” all’insegna di “extravagances monstrueuses”, falsamente etichettata come romantica, e che rispondeva ai bisogni seriali del pubblico attraverso “secousses fortes et rapides”: una tipologia di romanzo, sempre secondo Nodier, “dont il faut demander le modèle aux rêves effrayants des malades”.7 Che poi lo stesso Nodier abbia partorito alcune tra le piú espressive pagine gotiche, fantastiche e frenetiche dell’Ottocento francese, è un altro paio di maniche, e sarebbe fuori luogo appurarlo in questa sede. Tra i sogni spaventosi dei malati e i salgariani “fatti (…) non costruiti, a incubo come nel sogno”, sembra correre, almeno stando

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alle rispettive ricezioni, un legame. Un Salgari che propone un gotico di terza, o forse anche quarta mano? Una constatazione lapalissiana. E sullo scorcio della fine, un romanzo come Il bramino dell’Assam,8 edito postumo, ripropone quelle influenze gotiche già distillate in chiave esotica nella primissima appendicistica, da Gli strangolatori del Gange (1887) a La Vergine della pagoda d’Oriente (1891-1892).9 A proposito de Gli strangolatori, d’altronde, Roberto Fioraso ha chiaramente mostrato come vi si possano rintracciare alcune caratteristiche essenziali del genere, quali il motivo della “fanciulla rapita” e perseguitata, “l’ordine religioso che ordisce nell’ombra oscure trame”, sostituito dalla setta dei thugs, e si domanda, con un confronto abbastanza convincente, se il “truce capo” Suyodhana “non deve qualcosa al malvagio monaco Schedoni, creato da Ann Radcliffe” per The Italian (1797); e poi le imprescindibili e “raffinate torture particolareggiatamente descritte”, nonché “tutti gli ingredienti del lugubre e del macabro: dai cadaveri putrefatti ai fuochi fatui”; ma anche “il patto che l’eroe del romanzo nero stringe con il diavolo, il nemico per antonomasia, per ottenere i suoi – spesso turpi – scopi”, rimpiazzato da quello stipulato da Tremal-Naik con i thugs, per “possedere la donna desiderata”; infine, si ricorda come la “pagoda sotterranea con i suoi dei, i mostri, i crani, i rituali dei thugs, il rogo preparato per Ada, le condanne di morte per Tremal-Naik” possano riportarci “alle solenni e lugubri liturgie cattoliche e ai processi dell’Inquisizione entrambi cosí cari al romanzo gotico”.10 A ben guardare, senza abbandonare l’originario contesto inglese, non è una novità neppure la localizzazione esotica, con i suoi effetti di meraviglia e straniamento: William Beckford, scrivendo Vathek (1786), era efficacemente ricorso all’armamentario orientale, ma già i piú canonici Horace Walpole, Radcliffe e Matthew Gregory Lewis, ambientando i romanzi in Italia e in Spagna, avevano servito ai lettori un mondo stravagante e selvaggio perché, non si scordi, questi due paesi e il meridione in genere rappresentavano “una direzione simbolica culturalmente regressiva” secondo la “prospettiva settentrionale protestante”,11 e a prescindere in fondo da quale epoca fungesse realmente da quinta nella storia. Il bramino si svolge a Gahuati, capitale dell’Assam, “che racchiude dentro i suoi vecchi eppure ancora saldi bastioni, piú di trecentomila anime”.12 Il palazzo reale è naturalmente fastoso e mastodontico, con “un immenso cortile, circondato da porticati di stile moresco” che conducono a “una vasta sala” dalle “pareti di marmo verde, luccicanti quasi come enormi smeraldi”.13 Le lanterne dell’illuminazione appaiono “gigantesche” e “monumentali”.14 In misura fiabesca e realistica insieme, l’edificio si snoda in “parecchie gallerie, tutte splendenti d’armi disposte a grandi gruppi assai artistici, poi altre sale immense, debolmente illuminate”.15 Infine, come si riscontra nelle piú tradizionali narrazioni gotiche, o goticheggianti, “[s]otto il

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palazzo ci sono dei sotterranei in quantità”, e “oscuri”,16 a cui si accede attraverso “parecchie scale” e “massicce porte di bronzo”; 17 anch’essi “grandi”, dalle “profondità immense”, popolate da “battaglioni e battaglioni” di topi.18 In questi luoghi paurosi il bramino verrà assicurato con delle catene e, nel tentativo di estorcergli il nome dei suoi mandanti, Yanez e i compagni di fiducia non si faranno troppi scrupoli nel ricorrere a varie forme di tortura. All’occasione, di rinforzo, Salgari ricorda che l’intero palazzo, per chi non lo avesse capito, è nel suo complesso “gigantesco”,19 e per dimensioni e anche torva imponenza non sfigura rispetto all’Udolpho di Radcliffe, il cui “portale” ha “enormi battenti” che i servitori “apr[ono] a fatica”,20 costruzione che induce a “credere di nuovo ai giganti, e a cose del genere, perché (…) è proprio come uno dei loro castelli”, con un “atrio immenso che sembra una chiesa”, con i soffitti delle camere talmente slanciati che, “reggendo alta la lampada per illuminare”, i raggi di luce “non arriva[no] neppure a metà altezza”.21 Scenografie, queste, che lo scrittore veronese aveva piú convenzionalmente dispiegato per un racconto ambientato in Bretagna, apparso nella seconda annata di “Per Terra e per Mare”, e firmato “Bertolini E.”: Il castello degli spiriti.22 Qui, lo sfondo naturale risponde alle tipiche immagini di paesaggio orrido-sublime, e lo stesso maniero è dipinto a memoria delle rappresentazioni consuete, con parti piú o meno pericolanti o distrutte, dall’aria lugubre e ostile. Sebbene, da fuori, il castello sembri “di proporzioni piuttosto modeste”,23 all’interno ci si imbatte “in un ampio salone, colle pareti coperte di legno scolpito, con una tavola annerita dal tempo e cosí vasta da permettere di sedersi intorno almeno una trentina di convitati. / Vi erano dei seggioloni coll’alta spalliera abbellita da uno stemma ancora un po’ dorato, delle credenziere immense e delle mensole”.24 Nel Bramino dell’Assam, quella vastness che si fa prossima all’infinito, e che per Edmund Burke, mista all’oscurità, è funzionale allo spavento e al sublime25 – se non a uno spavento sublime – viene riflessa e ingigantita nel labirinto di fogne che corre, ai piú sconosciuto, al di sotto di Gahuati. Per scoprire il sedicente bramino del titolo, presunto cospiratore e avvelenatore dei ministri di corte, Yanez e soci devono avventurarsi dentro le “immense cloache che corrono e che si diramano”, città “sotterranea”,26 metropoli rovesciata e infernale, un po’ di dantesca memoria. Una serie di gironi ignoti che possono essere affrontati soltanto con la guida d’un novello Virgilio, un “superbo” e ossuto cacciatore di topi,27 il cui ingresso principale è “un gigantesco fognone”, “gigantesca apertura, tutta buia, esalante miasmi e odori da non dirsi”,28 al di sotto d’una “vecchia moschea priva della sua cupola”, “decapitata”.29 Un dedalo di “gigantesche cloache che non si sa nemmeno quanti canali abbiano, né dove comincino, né dove finiscano”,30 completamente immerse nel buio. Di rinforzo, quasi per suscitare la vertigine, Salgari fa precisare al vecchio cacciato-

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re di topi: “laggiú, fra tutti quei canali che s’incrociano e che si tagliano, che salgono e scendono, scaricando le loro acque fangose nel grande fognone, si perde subito l’orientamento (…) Quanti disgraziati, che non avevano una casa, io ho incontrati là dentro morti di fame e poi spolpati dai topi. Ne ho veduti degli scheletri io!...”.31 Forte, e poi anche sfiorato, è allora il rischio di morirvi imprigionati, in una condizione che, come riferisce Freud, per alcuni si guadagnerebbe “la palma del perturbante”, ossia l’inumazione prematura:32 – E non esistono altri passaggi? – Sí, sull’altra banchina però. Ve n’è uno anche qui, stretto come la cappa d’un camino, che sbocca a fior di terra e che è chiuso da una robusta inferriata di bronzo che nessuno di noi potrebbe rompere. Ho trovato un giorno, colla testa cacciata entro le sbarre, un giovane indiano, il quale doveva essersi smarrito per morire poi di fame poiché nessuno, a quanto pare, ha udito le sue grida strazianti ed i suoi ultimi rantoli. – Sicché noi siamo come sepolti vivi – disse Tremal-Naik.33

A proposito delle fogne, è pure interessante rilevare come sia proprio lí che vive e si nasconde la manovalanza al servizio della congiura contro il maharajah Yanez e la sua consorte, la rhani Surama. Mediante la dislocazione esotica, Salgari ricorda ancora una volta i “misteri”, il fortunatissimo filone inaugurato da Eugène Sue con Les Mystères de Paris (1842-1843), vero e proprio sottogenere narrativo, destinato a durare a lungo e a proliferare pure nel nostro paese, grazie alla penna di numerosi emuli italiani. I “misteri” erano il quadro ideale per mostrare i bassifondi piú pericolosi, gli ospedali, le carceri, tutti quei luoghi cittadini da incubo dove la povera gente era immersa nella malattia e nel delitto. E se a tale produzione si riallacciava, nel titolo, il volume dei Misteri della jungla nera (1895), già la sua prima versione d’appendice (Gli strangolatori del Gange, del 1887), a suo modo, le era consonante: “lo Strangolatore”, infatti, era uno dei piú inquietanti personaggi de I misteri di Napoli (1869) di Francesco Mastriani,34 il piú felice degli epigoni di casa nostra. Nelle giungle urbane dei “misteri”, l’uomo sembrava essere ritornato alla primitiva condizione ferina. Nello stesso periodo in cui Mastriani scrive i Misteri, Lombroso elabora la teoria dell’“uomo delinquente”, che avrebbe poi esposto con lo studio omonimo del 1876:35 attraverso accurati esami condotti personalmente, in particolare sul cranio, Lombroso aveva concluso che specifiche “note somatiche” dovevano contraddistinguere il criminale, indotto al delitto dalla sua stessa natura deviante. L’aspetto e il carattere del delinquente, attributi congeniti, allo scienziato “ricordano soprattutto l’uomo preistorico”, per la “permanenza dei (o il ritorno ai) costumi barbari e selvaggi”.36 Non è forse un caso che, su “La Provincia di Vicenza”, nel 1893, una versione degli Strangolatori del Gange figurava con l’eloquente titolo Gli amori di un selvaggio.37 Ma anche Cartagine in fiamme (1906), narrazio-

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ne storica, pare volersi riagganciare ai ben noti “misteri”, con il quadro dei “vecchi quartieri della città” fenicia, dalle “viuzze tortuose e cosparse (…) di avanzi d’ogni specie, veri semenzai d’infezione”, in cui ci si può facilmente imbattere in un cadavere dagli “occhi sbarrati ed un orribile squarcio alla gola coperto di sangue raggrumato”.38 Le cloache del Bramino dell’Assam sono rappresentate con gli attributi tipici dei bassifondi metropolitani: un luogo dall’“atmosfera corrotta” in cui “vivono centinaia e centinaia di persone che non hanno altro tetto”, “in mezzo alle tenebre, ai topi, ai miasmi ed alle febbri”.39 Ovvero, come il volto oscuro, ignorato e formicolante dell’espansione urbana, ben evidenziando l’incolmabile divario che intercorre tra le diverse classi, e di conseguenza tra i rispettivi spazi:

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– Vi dico che qui, nella vostra capitale che sembra tanto tranquilla, si congiura per strapparvi probabilmente la corona. – Ma dove sono questi congiurati? – gridò Yanez. – Dimmelo e li farò arrestare immediatamente. – Sarà un affare un po’ difficile – rispose l’indiano [il cacciatore di topi], sedendosi su una poltrona a dondolo. – Conosci tu il sottosuolo della tua capitale? Scommetterei una rupia contro mille che lo ignori. – Io so che il terreno che regge i nostri palazzi, le nostre pagode, i nostri monumenti, è composto di buona terra mista a lastre di pietra. – Non hai mai udito parlare delle immense cloache che corrono e che si diramano sotto questa città? – Sí, ma io mi sono ben guardato di cacciarmi dentro a quei budelli pieni di microbi pericolosi. Oh!… Le cure dello stato!… Non mi lasciano mai un momento di tempo. Surama e Tremal-Naik erano scoppiati in una risata. – Già, – disse l’indiano, – tu conduci il carro dello stato cacciando e massacrando quasi ogni giorno bufali, tigri, orsi ed elefanti. – Un principe deve ben svagarsi – rispose serio il portoghese.40

Di fatto, nella storia i veri cospiratori sono figure senza scrupoli e malvagie, l’esatto contrario del maharajah Yanez, che si dimostra magnanimo e persino alla mano nei confronti dei suoi sudditi. Nondimeno, nella totale ignoranza e nel disinteresse verso gli strati piú bassi (e il piano fisico viene a coincidere con quello metaforico), affiora come una sorta di denuncia sociale, fors’anche involontaria, ma comunque presente. A giudizio dello stesso cacciatore di topi, gli abitanti delle fogne “non sono che dei poveri diavoli, sia pure cospiratori, malamente armati”, forse “cacciatori di coccodrilli”, perché “[q]ualche mestiere lo eserciteranno per guadagnarsi almeno da vivere”, dal momento che “in queste cloache non spuntano i banani”.41 Sono tutti “paria che non hanno né tetto, né patria, né da vivere”, “non troppo bene in carne”, e dai “fianchi coperti da uno straccio d’un colore indefinibile e che puzz[a] or ribilmente di

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muschio”.42 Persino il bramino sobillatore, al vaglio della fisiognomica, è da subito scoperto per un impostore, “poiché tutti i sacerdoti indiani hanno i lineamenti puri delle alte caste”, e quest’ultimo ha invece impressi “lineamenti piuttosto angolosi, la fronte bassa come l’hanno tutti i paria dell’India, quei maledetti, senza colpa e senza peccato, da tutte le divinità”.43 In materia di ripetizione, in almeno due casi, Il bramino dell’Assam offre l’ennesima conferma del notevole influsso esercitato sulla fantasia di Salgari dal “Giornale Illustrato dei Viaggi”,44 delle cui pagine si era dimostrato un consultatore instancabile. Prima dell’identificazione e dell’arresto del bramino, allorché i ministri di corte vengono avvelenati uno dopo l’altro, il maharajah Yanez auspica una condanna davvero atroce, quanto estrosa, da riservarsi ai colpevoli: “Tanti ne prenderò e tanti ne farò fucilare. Fucilare!… Ma che!… Li farò legare alla bocca dei cannoni e manderò in aria i loro stracci di carne insieme alle ossa”.45 Una tale applicazione di pena capitale era stata ampiamente descritta in un resoconto proposto dalla prima serie della testata Sonzogno, Un’esecuzione a Teheran, dove all’orribile martirio era significativamente destinato il capo di alcuni ribelli, Giahl Agha, “che si era sollevato, colla folle credenza di rovesciare il re dei re”, ossia lo scià di Persia.46 Mario Tropea ha segnalato come alcune tracce di quest’articolo siano reperibili in uno dei racconti che Salgari scrisse, sotto la maschera del “Cap. Guido Altieri”, per la palermitana “Bibliotechina Aurea Illustrata” diretta da Emma Perodi.47 Piú consistente è il richiamo o, meglio, il riutilizzo di un altro resoconto, intitolato Un re dell’estremo Oriente.48 Siamo ai limiti della riscrittura; l’episodio e, piú in generale, l’intera storia si ricollegano a un altro romanzo del cosiddetto ciclo indo-malese, Alla conquista di un impero,49 in cui Sandokan e Yanez restituiscono il trono dell’Assam alla legittima rhani Surama, spodestando il crudele zio, Sindhia; episodio e storia si ricollegano cosí anche a Le due Tigri,50 dove la bella fanciulla, esiliata e venduta ai thugs come bajadera, viene messa in salvo. La tragica vicenda familiare di Surama viene cosí riassunta dal cacciatore di topi, all’epoca “un valletto del rajah”: – Hai conosciuto tu il rajah Sindhia? – Sí, Altezza. Regnava prima di voi e della rhani, mettendo a dura prova la pazienza del suo popolo colle sue pazzie. – Credi tu che quel malvagio che ha assassinata tanta gente, possa avere ancora dei partigiani? – È stato troppo cattivo per averne. Valeva suo fratello, il distruttore di tutti i parenti durante i banchetti, tuttavia chi lo sa? (…). (…) – Signora – disse il cacciatore di topi. – Io ho assistito dall’alto di una terrazza alla distruzione di tutti i vostri parenti, e non so per quale miracolo voi siate sfuggita ai colpi di carabina che quell’alcolizzato sparava senza contare.

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– Tu!... – esclamò Surama con viva emozione. (…) – Narraci quella scena spaventosa – disse Yanez. – La conosco, ma preferisco udirla dalle tue labbra.51

La “scena spaventosa” è una ripetizione di ripetizioni: ripete in parte Le due Tigri, ripete in parte Alla conquista di un impero, e ripete – ma, questo, occultamente – il resoconto del “Giornale Illustrato”, a sua volta proposto come “narrazione di un inglese appena arrivato dall’Indie”, riportata (e quindi, ripetuta) in prima persona:

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Io ero stato presentato ad un primo ministro che mi domandò se volevo fare conoscenza col re del paese. “È un originale”, mi disse; “quantunque appartenga alla religione di Maometto e che gli sia proibito di ubriacarsi e di fare la tale o la tal altra cosa, pure ad onta di ciò, questo buon sovrano non viene meno alla sua maniera e dopo essersi abbandonato a mille follie senza nome, lo si vede sovente vuotare una, due, tre, molte volte anche quattro bottiglie di Moët et Chandon, e s’ubbriaca come… un figurante dell’Assommoir. Tutto porta a credere che di qui a poco tempo, questo piccolo re morrà di un attacco di delirium tremens.” (…) “Ma questo uomo è veramente pericoloso: costui è un pazzo che bisogna mettere nelle piccole case, nell’oscuro asylum di Calcutta.”52

È per l’appunto all’“ospedale dei pazzi di Calcutta” che, nel Bramino dell’Assam, è stato “internato” Sindhia, “eterno ubriacone”. 53 Merita entrare nel vivo del ragguaglio del “Giornale Illustrato”: Guardai fuori della finestra, e vidi uno spettacolo che non scorderò mai. Nella corte interna del palazzo reale, correvano qua e là donne, fanciulli, vecchi, giovani, tutti parenti del re che, senza alcun motivo, erano diventati il punto di mira del loro capo di famiglia, il quale tirava su di essi a palla, con un fucile Remington. Ritto vicino al balcone, avendo ai lati i due ministri che allontanavano da lui le mosche, il re, ubbriaco, continuando a bere acquavite mista a champagne per aumentarne la forza, caricava il suo fucile, tirava nella corte, trangugiava una coppa di vino alcoolizzato, e ricominciava questo orrendo giuoco, senza ascoltare i lamenti, le disperate preghiere dei sopravviventi smarriti, che nulla comprendevano di una simile accoglienza. “Che essi muojano! che scompajano questi avidi eredi del mio trono e della mia fortuna!” esclamava il pazzo diventando sempre piú furioso. Ed i colpi di fuoco rintronavano alla piú bella, e le vittime cadevano pesantemente sul suolo. Infine su ventitré persone viventi al mattino, che erano venute come

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invitate ad una festa, non rimaneva piú che un giovane, il quale seppi essere il fratello del re. (…) “Fatemi la grazia della vita,” disse a suo fratello, “e partirò domani per la Francia a bordo d’una nave su cui ho degli amici.” “Accetto,” replicò il sovrano, “ma ad una condizione, ed è che tu prenda quest’arma e colpisca a volo una moneta d’oro che getterò in aria.” “Sia!” “Ma! ti prevengo che se manchi il colpo, ti farò mozzare il capo.” “È convenuto.” “Prendi! ecco il mio Remington. Sei pronto? Attento.” Il re gettò infatti una moneta d’oro, ma, nello stesso istante, cadde colpito in pieno petto. Suo fratello invece di mirare il pezzo d’oro, aveva rivolto l’arma contro il carnefice di tutti i suoi.54

Uno “spettacolo”, per quanto sanguinoso, che neppure Salgari deve aver scordato, tanto da riscriverlo, piú dettagliatamente, enfatizzando la fonte, pur avendone già fornito un riassunto di per sé sufficiente alla comprensione (ma non forse alla fantasia) del lettore: 131

– Il banchetto offerto a tutti i parenti stava per finire, quando il rajah, che aveva bevuto una enorme quantità di liquori, scomparve coi suoi ministri per apparire poco dopo su un terrazzino, armato di carabina. Echeggiò un colpo ed il capo dei kotteri fu il primo a cadere colla testa attraversata da una palla. Lo stupore, causato dall’assassinio, che per tutti i banchettanti riusciva inesplicabile, non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava, ed un altro convitato stramazzava addosso alla tavola, bruttando la tovaglia di sangue e di materia cerebrale. Il rajah pareva un demonio. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite e fiammeggianti come quelli d’una pantera, i lineamenti spaventosamente sconvolti, e sghignazzava, l’assassino. Intorno, i suoi ministri erano pronti a porgergli altre carabine ed a versargli altri liquori per maggiormente eccitarlo. I disgraziati banchettanti, uomini, donne e fanciulli, si erano messi a correre pel cortile, cercando invano una uscita, mentre il rajah, urlando come una belva od un pazzo, continuava a sparare facendo nuove vittime. La strage durò mezz’ora: due soli erano miracolosamente scampati all’eccidio, il fratello del rajah e la vostra signora. (…) – Sindhia, il giovane fratello del rajah, era stato fatto segno a tre colpi di carabina andati tutti a vuoto (…). In preda ad un folle terrore aveva gridato piú volte al fratello: “Fammi grazia della vita, ed io abbandonerò per sempre l’Assam (…)”. (…). “Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato, io ti accorderò la vita, però ad una condizione”.

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“Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai” rispose subito Sindhia. “Io getterò in aria una rupia e se la bucherai con un colpo di carabina ti lascerò partire per il Bengala senza farti alcun male.” “Accetto.” “Ti avverto però,” urlò il rajah, “che se mancherai la moneta subirai la medesima sorte degli altri.” “Gettala!...” gridò Sindhia. Gli fu calata una carabina, poi il rajah fece volare in aria il pezzo d’argento. Si udí subito uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensí il petto del tiranno. Il giovane principe aveva voltata rapidamente l’arma contro il fratello, ed essendo un bravo tiratore, lo aveva fulminato con una palla al cuore.55

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In realtà, oltre a conferire un maggior vigore espressivo, Salgari non fa altro che realizzare, sulla carta, quella che sul “Giornale Illustrato” era soltanto un’ipotesi, ossia che pure il nuovo sovrano avrebbe potuto, “in un dato giorno, diventare crudele quanto suo fratello”.56 Detto fatto. Da ultimo, credo che un discorso a parte, anche se un po’ azzardato, debba essere riservato per le facoltà d’ipnotizzatore possedute dal bramino, che per taluni aspetti paiono addirittura piú soprannaturali che psichiche, come la visione a distanza, attraverso le pareti: una capacità che, stando alla variegata e difforme tradizione del mesmerismo, sarebbe appannaggio del soggetto magnetizzato, e non del magnetizzatore.57 Gli occhi del falso bramino “posseggono una potenza incredibile, anzi, terribile”,58 e riescono a piegare la mente di Surama, obbligandola a compiere azioni contro il suo volere, tra cui appiccare il fuoco al palazzo reale e gettare il figlioletto in pasto agli arghilah, enormi e ributtanti uccelli carnivori. Tale pericolo potrà essere sventato solamente grazie a un’attenta sorveglianza. Surama, affascinata dallo “sguardo fatale”, assume un contegno perturbante, da “automa”, appunto da “sonnambula”.59 È vero che, stando alle vulgate in materia – ad esempio un pluriristampato manuale Hoepli – “[g]l’indiani fin da tempi remoti praticano l’ipnotismo”,60 ma è altrettanto vero che proprio a Torino, dove Salgari si trasferí nel 1892, il fascinatore belga Donato (al secolo Alfred Edouard D’Hont) aveva furoreggiato in teatro, nel 1886, fomentando la stampa e soprattutto le preoccupazioni degli psichiatri e delle autorità.61 Lo sguardo di Donato era percepito come “selvaggio”, da cui promanavano “due raggi convergenti in un globo luminoso”.62 Credo però che nella figura del bramino ipnotizzatore vi sia qualcosa di piú profondo, forse apotropaico, forse addirittura curativo. Non va scordato che siamo un po’ prima della fine. È noto come Salgari, da ultimo, fosse perseguitato dallo spettro della cecità. Strumento potente, e insieme tallone d’Achille, è nell’occhio che si concentra

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la forza del bramino, orditore di trame. Tuttavia, una volta catturato da Yanez e compagni, il bramino si rivela impotente di fronte agli uomini forti, che non solo resistono al magnetismo, ma per farlo confessare minacciano piú volte di accecarlo. Donato, al contrario, senza troppe difficoltà, era in grado d’ipnotizzare numerosi soggetti maschili. Yanez, disperato per il terrificante contegno di Surama, esclama che “[q]uell’uomo deve morire e prima gli far[à] strappare gli occhi”, e a breve si ripromette di “picchi[are] sui suoi occhi e (…) chiuder[gli] per sempre le finestre”.63 Alla prodigiosa resistenza dell’ipnotizzatore, segue la parziale attuazione del proposito: “Era troppo. Il pugno del portoghese, robusto (…), scese rapido colpendo il miserabile in mezzo al viso. Quando levò la mano vide guizzarsi sotto le dita un occhio. Il paria era stato a metà accecato. / – Voi mi pagherete, Altezza, questo pugno!... – gridò il paria che perdeva sangue in abbondanza dalla vuota occhiaia, sinistramente spalancata”.64 Spetta a Kammamuri, dopo la minaccia del completo accecamento,65 esplicitare la vera paura del sedicente bramino, che preferisce la morte alla perdita dello sguardo: “Ho capito finalmente qual è il tuo punto debole. Non vuoi perdere completamente la vista”.66 Con il pamphlet intitolato Spiritismo? (1884), e la novella Ofelia (1893), Luigi Capuana aveva ben messo in luce come, tra il mesmerismo e la creazione artistica in genere, corresse un’affinità particolare.67 Per Schopenhauer, poi, il magnetismo non era altro che un mezzo per veicolare, imporre, fissare la propria volontà.68 Castrazione, privazione della vista, della visione, della volontà: Salgari sembra presagire e insieme tentare di esorcizzare la fine, la fine della creatività (che è capacità di visione), la fine del suo tutto. È forse sintomatico che il fascino del bramino agisca sul cosiddetto sesso debole,69 sugli animali (in particolare i topi, la folla di topi), e sui paria, la massa socialmente infima. Penso che il simulacro del bramino, che prostrato dai tormenti si deve confessare un paria al soldo di Sindhia, sia una proiezione e una reificazione di quelle angosce che hanno ossessionato Salgari prima del gesto estremo, allorché getta la spugna, o meglio, la penna, e specchiandosi si scopre anche lui un assoldato, un salariato anziché un grande romanziere, di quelli che contano, e che vengono letti nelle alte sfere della cultura: lui, un paria della letteratura che incanta solo donne e ragazzi.

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Visentini, Olga, Libri e ragazzi. Sommario storico di letteratura infantile, Mondadori, Milano 1933, p. 120. Tibaldi Chiesa, Maria, Letteratura infantile, Garzanti, Milano 1944, p. 88. Sacchetti, Lina, La letteratura per l’infanzia. Nello sviluppo degli ideali educativi e delle correnti letterarie, Le Monnier, Firenze 1954, p. 261.

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Bitelli, Giovanni, Scrittori e libri per i nostri ragazzi. Esposizione e critica, Paravia, Torino 19542, p. 116 (I ed. Paravia, Torino 1952). Galante Garrone, Virginia, Incontri con autori ed opere di letteratura per l’infanzia. Ad uso degli istituti e dei concorsi magistrali, Loescher, Torino 1964, p. 173. In forma piú estesa, e con altra finalità (ripercorrere cronologicamente le tappe di

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certa critica nei confronti del corpus salgariano), questa e le precedenti citazioni sono presenti in Faeti, Antonio, La valle della luna, in Beseghi, Emy (a cura di), La valle della luna. Avventura, esotismo, orientalismo nell’opera di Emilio Salgari, La Nuova Italia, Firenze 1992, pp. 4-11. Si vedano in proposito Hartland, Reginald, Walter Scott et le roman ‘frénétique’. Contribution à l’étude de leur fortune en France, Honoré Champion, Paris 1928 (di cui segnalo la riproposta in facsimile: Slatkine, Genève-Paris 1975); l’antologia a cura di Steinmetz, Jean-Luc, La France Frénetique de 1830, Phébus, Paris 1978; la voce Frénétique School, firmata da Terry Hale, in Mulvey-Roberts, Marie (a cura di), The Handbook to Gothic Literature, New York University Press, New York 1998, pp. 58-63; Hale, Terry, A Forgotten Best Seller of 1821. Le Solitaire by the Vicomte d’Arlincourt and the Development of European Horror Romanticism, in “Gothic Studies”, 2000, 2, n. 2, pp. 185-204; Id., French and German Gothic: the Beginnings, in Hogle, Jerrold E. (a cura di), The Cambridge Companion to Gothic Fiction, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 6384; Glinoer, Anthony, Du monstre au surhomme. Le Roman frénétique de la Restauration, in “Nineteenth Century French Studies”, 2006, 34, n. 3 & 4, pp. 223-234. Fonte: Des Granges, Charles Marc, La Presse Littéraire sous la Restauration 1815-1830. Le Romantisme et la Critique, Société du Mercure de France, Paris 1907, pp. 215-216 (in facsimile: Slatkine, Genève-Paris 1973). Salgari, Emilio, Il bramino dell’Assam. Avventure, Bemporad, Firenze 1911. Nel corso del presente saggio si citerà dall’edizione apparsa nel 2002 per i tipi della milanese Fabbri-RCS. Il primo romanzo, che sarebbe poi divenuto I misteri della jungla nera (Donath, Genova 1895), comparve per la prima volta su “Il Telefono” di Livorno, tra il 10 gennaio e il 15 aprile 1887; il secondo, rielaborato successivamente per I pirati della Malesia (Donath, Genova 1896), su “La Gazzetta di Treviso” tra il 6 ottobre 1891 e il 29 gennaio 1892. Entrambe le versioni in appendice sono state ripubblicate a cura di Roberto Fioraso, rispettivamente: Viglongo, Torino 1994 e Aragno, Torino 2005. Fioraso, Roberto, L’horror positivista di Emilio Salgari, in “Yorick Speciale”, 1998, n. 23 bis (L’Horror fra cinema e letteratura. Dai precursori italiani a H. P. Lovecraft), pp. 17-31: 24-27. Orlando, Francesco, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1994 2, p. 173 (I ed. Einaudi, Torino 1993). Salgari, Il bramino cit., p. 23. Attualmente le grafie accolte sono piuttosto Gauhati e piú spesso Guwahati; la capitale è ufficialmente Dispur, in cui vivono meno di diecimila abitanti, ed è in pratica un piccolo sobborgo di Guwahati, popolata da oltre ottocentomila persone. Ivi, p. 24. Ivi, pp. 26 e 27, e a p. 23 si ha “maestosi e pittoreschi lanternoni”.

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Ivi, p. 27. Ivi, pp. 70 e 80. Ivi, pp. 75 e 88. Già prima si parla di “pesante porta di bronzo”, a p. 76. Ivi, p. 78 e 84. Sempre a proposito dei sotterranei, si trova “immensi” alle pp. 75 e 77. Ivi, p. 75. Ma già si legge a p. 24: “palazzo imperiale, un edificio (…) di dimensioni gigantesche, con cupole, terrazze e vasti cortili”. Radcliffe, Ann, The Mysteries of Udolpho. A Romance Interspersed with Some Pieces of Poetry, 4 voll., London, Robinson, 1794 (trad. it. I misteri di Udolpho, 2 voll., Mondadori, Milano 1998, vol. I, p. 306). Ivi, vol. I, pp. 311 e 312-313. Bertolini, E. (Emilio Salgari), Il castello degli spiriti, in “Per Terra e per Mare”, 1905, 2, n. 25, pp. 193-196. Salgari, Emilio, Il castello degli spiriti, in Id., Per terra e per mare. Avventure immaginarie, a cura di Claudio Gallo, Aragno, Torino-Racconigi 2004, p. 142. Ivi, p. 143. Cfr. Burke, Edmund, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, Robert and James Dodsley, London 1757 (trad. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985, Parte IV). Salgari, Il bramino cit., pp. 30 e 33. È una domanda rivolta da Tremal-Naik all’anziano cacciatore che, sposando la metafora, potenzia la rete delle fogne di attributi esplicitamente sulfurei: “Ma quanto hai vissuto in quell’inferno?” (ivi, p. 33). Piú avanti, lo stesso vecchio: “Se non attraversiamo il fiume e rimettiamo a posto la scala, chissà quando noi usciremo da questo inferno” (ivi, p. 63). L’uscita dalle cloache, infine, equivale a un “riveder le stelle” (Inferno, canto XXXIV, v. 139), con un ritorno “alla luce ed all’aria pura” (Salgari, Il bramino cit., p. 67). Ivi, pp. 32, 31 e 42. Ivi, pp. 41 e 68. Ivi, p. 32. Ivi, p. 33. Freud, Sigmund, Das Unheimliche, in “Imago”, 1919, 5, n. 5-6, pp. 297-324 (trad. it. Il perturbante, Theoria, Roma-Napoli 19935, p. 64). Nondimeno, Freud aggiunge: “Se non che la psicoanalisi ci ha insegnato che questa fantasia terrificante non è che la trasformazione di un’altra fantasia, che non aveva in origine nulla di spaventevole, ma che era anzi il portato di una certa lascivia: mi riferisco alla fantasia della vita intrauterina” (ibid.). Sull’argomento rimando a una monografia di Bondeson, Jan, Buried Alive: The Terrifying History of Our Most Primal Fear, W.W. Norton, New York-London 2001. Salgari, Il bramino cit., p. 63. Mastriani, Francesco, I misteri di Napoli, 2 voll., Stab. tip. Gaetano Nobile, Napoli 1869. Sui “misteri” nostrani segnalo Palermo, Antonio, Da Mastriani a Di Giacomo. Aspetti del discorso narrativo post-unitario, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972; Id., Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Liguori, Napoli 1972; Zaccaria, Giuseppe (a

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cura di), Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa «popolare» nei secoli XIX e XX, Paravia, Torino 1977; Ghidetti, Enrico, Per una storia del romanzo popolare in Italia: i «misteri» di Toscana, in Id., Il sogno della ragione. Dal racconto fantastico al romanzo popolare, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 85-117; Reim, Riccardo (a cura di), L’Italia dei misteri. Storie di vita e malavita nei romanzi d’appendice, Editori Riuniti, Roma 1989, antologia di cui ben trentacinque dei quarantuno estratti presenti sono confluiti, senza una debita segnalazione, in Id. (a cura di), Il cuore oscuro dell’Ottocento, Avagliano, Roma 2008; Marini, Quinto, I «misteri» d’Italia, ETS, Pisa 1993; Sue, Eugène e Mastriani, Francesco, Sangue e orrore, a cura di Quinto Marini, ETS, Pisa 1994; Gallo, Claudio, I fabbricatori di storie che trafficavano con le anime dei morti. Paura ed orrore tra appendice, Scapigliatura e spiritismo: da Francesco Mastriani a Carolina Invernizio, in Id. (a cura di), Paure ovvero di come le apparizioni degli spiriti, dei vampiri o redivivi, etc., gli esseri, i personaggi, i fatti, le cose mostruose, orrorifiche o demoniache, nonché gli assassinii e le morti apparenti furono trattati nei libri e nelle immagini; e in particolare in Dylan Dog, Colpo di fulmine, Verona 1998, pp. 79-119; Moloney, Brian e Ania, Gillian, «Analoghi vituperî»: la bibliografia del romanzo dei misteri in Italia, in “La Bibliofilia. Rivista di storia del libro e di bibliografia”, 2004, 106, pp. 173-213. Lombroso, Cesare, L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Ulrico Hoepli, Milano 1876. Frigessi, Delia, Cesare Lombroso, Einaudi, Torino 2003, pp. 107-108. Precisamente, dal 21 agosto all’8 dicembre. Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 81-82. Originariamente a puntate in “Per Terra e per Mare”, 1906, 3, nn. 11-31, come inserto. In volume, quindi: Donath, Genova 1908. Salgari, Il bramino cit., pp. 32 e 35. Ivi, p. 30. Ivi, p. 52. Ivi, pp. 54 e 56. Ivi, pp. 58-59 e 58. In seguito, esclama Kammamuri, rivolto al bramino: “Finiscila, imbroglione. Devo ripeterti ogni cinque minuti che tu non sei altro che un paria? (…) / Ah!... Gli uomini della vostra razza si conoscono subito” (ivi, p. 93). Il “Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare” era uscito in Italia dal 1878 per i tipi del milanese Edoardo Sonzogno, che aveva rilevato i diritti del francese “Journal des Voyages et des Aventures de Terre et de Mer”, nato l’anno precedente. Oltre al titolo, il settimanale nostrano riprendeva dal modello estero i resoconti di viaggio su cui avrebbe fondato la prima serie, esauritasi con la fine del 1891. Dall’estate 1896 partiva la seconda serie, che propose romanzi avventurosi a puntate di autori francesi quali Louis Boussenard e Alfred Assolant. Nel 1910, tuttavia, la rivista si arenava nuovamente, per risorgere nel 1913 sotto la direzione di

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Guglielmo Stocco, con una formula che ebbe un certo successo, e cioè far convivere le narrazioni di genere italiane con quelle straniere (avventurose, poliziesche, orrorifiche, d’anticipazione scientifica e del mistero). Infine, nell’aprile del 1931, la rivista sarebbe confluita ne “Il Mondo”, altro periodico Sonzogno, che fino al 1937 avrebbe mantenuto il sottotitolo di “Giornale Illustrato dei Viaggi”. Sui racconti fantastici editi nella terza serie (nonché su altre pubblicazioni analoghe e coeve) rinvio a Foni, Fabrizio, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, Tunué, Latina 2007. Salgari, Il bramino cit., p. 21. E piú oltre, a p. 95, sempre Yanez: “Io finirò per far legare quell’uomo [il bramino] alla bocca d’un cannone e mandare in aria la sua carcassa in cento pezzi sanguinanti”. A tornare sull’argomento è quindi Kammamuri: “Yanez a quest’ora l’avrebbe fatto legare alla bocca d’un cannone e lo avrebbe fatto saltare ben alto in cento e piú pezzi, ma io non ho voluto” (ivi, p. 103). Pare essere una figura ossessiva, tanto che ritorna piú avanti, sempre per bocca di Kammamuri, a proposito della fine d’un thug: “Fu legato alla bocca d’un cannone, ed alla presenza di centomila persone, lanciato in aria a brandelli” (ivi, p. 124). Infine, di nuovo Yanez: “E quanti avvelenatori prenderò, li metterò sulle bocche dei cannoni” (ivi, p. 149). Anonimo, Un’esecuzione a Teheran, in Schiaffino, Gualtiero (a cura di), Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare. Drammi, popolazioni, scoperte geografiche, supplizi, notizie e varietà, Sonzogno, Milano 1980, p. 20. Nel resoconto si legge: “il carnefice ed i suoi ajutanti legarono solidamente il colpevole alla gola del cannone (…). / Il colpo partí ed il corpo di Giahl Agha, lacerato istantaneamente in mille brandelli, fu scagliato in aria per ricadere ai piedi della folla” (ibid.). Schiaffino propone un’ampia selezione di articoli e resoconti tratti dal celebre periodico, prevalentemente dalla prima e dalla seconda serie, purtroppo senza riportare numeri e date. Cfr. Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), Un eroe persiano, in Id., I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura e con saggi introduttivi e finali di Mario Tropea, con una nota sulla “Bibliotechina Aurea Illustrata” di Claudio Gallo e Caterina Lombardo, vol. III, Viglongo, Torino 2002, pp. 149-158: “Non si trattava già del solito spettacolo di legare un uomo alla bocca d’un cannone e di sfracellarlo” (ivi, p. 154). Si veda poi Tropea, Mario, Titoli, nomi, note, congetture e qualche plagio. Indagini e ricognizioni sull’universo dei Racconti, ivi, pp. 224-225. Anonimo, Un re dell’estremo Oriente, in Schiaffino (a cura di), Giornale Illustrato cit., pp. 141-144. Donath, Genova 1907. Donath, Genova 1904. Salgari, Il bramino cit., p. 37. Anonimo, Un re dell’estremo cit., p. 141. Salgari, Il bramino cit., p. 14. Anonimo, Un re dell’estremo cit., pp. 141 e 144. Salgari, Il bramino cit., pp. 38-39. Anonimo, Un re dell’estremo cit., p. 144. La bibliografia degli studi sul magnetismo è incredibilmente vasta. Segnalo qui Zweig, Stefan, Die

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Heilung durch den Geist. Mesmer, Mary BakerEddy, Freud, Insel-Verlag, Leipzig 1931 (trad. it. L’anima che guarisce. Mesmer, Mary Baker-Eddy, Sigmund Freud, Sperling & Kupfer, Milano 1931); Darnton, Robert, Mesmerism and the End of the Enlightenment in France, Harvard University Press, Cambridge 1968 (trad. it. Il mesmerismo e il tramonto dei Lumi, prefazione di Giulio Giorello, Medusa, Milano 2005); Thuillier, Jean, Franz Anton Mesmer ou l’extase magnétique, Laffont, Paris 1988 (trad. it. Mesmer o l’estasi magnetica, Rizzoli, Milano 1996). Per il panorama italiano è imprescindibile la monografia di Gallini, Clara, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Feltrinelli, Milano 1983. Salgari, Il bramino cit., p. 110. Ivi, pp. 73 e 93. Belfiore, Giulio, Magnetismo ed ipnotismo, Ulrico Hoepli, Milano 1898. Cito dalla settima edizione ampliata (1928), p. 26. Sull’affaire Donato e le conseguenti risonanze mediatiche cfr. Gallini, La sonnambula cit., pp. 188-227. Fonte: ivi, p. 190. Gallini cita a sua volta da Franco, Giovanni Giuseppe, L’ipnotismo tornato di moda. Storia e disquisizione scientifica, terza edizione arricchita di nuove osservazioni e fatti recentissimi, Giachetti, Prato 1888, pp. 34 e 33 (I ed. 1886). Salgari, Il bramino cit., p. 97. Ivi, p. 99. Il trattamento non si è esaurito: alla pagina seguente, dunque, si legge: “Tremal-Naik (…) stracciò un fazzoletto, prese al rajaputo la sua fiaschetta piena di tafià, forte quanto l’aguardiente spagnolo, e bagnò abbondantemente i pezzi di cotone, cacciandoli senza misericordia nella vuota occhiaia del paria”, e ci si riferisce all’occhio estirpato come “finestra sfondata dal maharajah”. “Continua pure la commedia e noi continueremo a far fioccare pugni sempre piú terribili. Anche l’altro tuo occhio un giorno o l’altro finirà fra i becchi di qualche filosofo [arghilah]” (ivi, p. 100).

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Ibid. La minaccia ritorna, per bocca di Kammamuri: “Vuoi, padrone, che gli faccia mangiare l’altro occhio da qualche arghilah? Glielo assorbirebbero come l’uovo di un uccello” (ivi, p. 102). Successivamente: “Anche questa storia finirà, perché anche l’altro occhio glielo spegnerò io con un colpo di spillo” (ivi, p. 132), e “In quanto all’occhio se ne vada pure. Anche senza vederci può parlare” (ivi, p. 139). Capuana, Luigi, Spiritismo?, Giannotta, Catania 1884 e Id., Ofelia, in “La Tribuna Illustrata”, 1893, 4, n. 5, pp. 139-140 e 142-145. Si veda in proposito Foni, Fabrizio, Lo scrittore e / è il medium. Appunti su Capuana spiritista, in Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati. Contributi della Classe di Scienze Umane e della Classe di Lettere ed Arti, a. 257 (2007), ser. VIII, vol. VII, A, pp. 397416. Rimando inoltre alle riproposte piú recenti di Spiritismo?, a cura di Mario Tropea (Lussografica, Caltanissetta 1994), e all’interno di Capuana, Luigi, Mondo Occulto, a cura di Simona Cigliana, Edizioni del Prisma, Catania 1995, pp. 55-162. “Infatti in ogni atto magico, cura simpatica, o in qualsiasi altra occasione, l’azione esterna (il mezzo di fissazione) è quello che appunto nel magnetismo è il ‘passo magnetico’: non cioè propriamente l’essenziale, bensí il veicolo, ciò attraverso cui la volontà, che è l’unico agente in senso proprio, riceve la sua direzione e la fissazione nel mondo fisico e trapassa nella realtà; per questo il veicolo è, di regola, indispensabile”. Cito da Schopenhauer, Arthur, Animalischer Magnetismus und Magie, in Id., Über den Willen in der Natur, Siegmund Schmerber, Frankfurt am Main 1836 (trad. it. Magnetismo animale e magia, in Id., Memoria sulle scienze occulte, a cura di Elena Tavani, Studio Tesi, Pordenone 1992, p. 24). Si consideri il seguente scambio di battute tra Kammamuri e un possente rajaputo, a guardia del magnetizzatore: “– Bada solo che non fugga e bada di non farti magnetizzare. / – Io non sono la piccola rhani e perderebbe inutilmente il suo tempo” (Salgari, Il bramino cit., p. 94).

Caduta come fine? Cultura delle fiamme e sovracomprensione: fascino e rifiuto dell’apocalisse in La caduta di un impero (1911) Luciano Curreri

Il mio sottotitolo tende a sposare una cultura delle fiamme – che mi era capitato di avvicinare e frequentare curando l’edizione di un romanzo salgariano del 19061 – con una specie di interpretazione estrema. Sono sempre piú convinto, con Jonathan Culler, che, “come la maggior parte delle attività intellettuali, l’interpretazione è interessante solo quando è estrema”, ovvero, in un certo senso, che c’è interpretazione solo quando c’è sovrainterpretazione; anche se, con lo stesso Culler, penso che l’opposizione tra, diciamo, i due gradi di ermeneutica sia alquanto tendenziosa. Forse, con Wayne Booth, bisognerebbe parlare piuttosto di “sovracomprensione (overstanding)”, che per Culler è anche una bella ruse per sganciarsi dal Lettore Modello di Umberto Eco e discepoli: “Il sovracomprendere (...) sta nel perseguire delle domande che il testo non pone al suo Lettore Modello (...) Come riconosce Booth, può essere molto importante e produttivo farsi domande che il testo non incoraggia”.2 Certo, c’è il rischio di connettere il fascino sempiterno della cultura delle fiamme – cosí come mi si è presentata in un atipico testo di Emilio Salgari, un peplum particolare come Cartagine in fiamme (1906) – alla lettura di un romanzesco piú tradizionalmente salgariano – per quanto ultimo, estremo – come quello cui fa ricorso La caduta di un impero (1911). Insomma, c’è il rischio di stiracchiare in avanti convinzioni maturate a stretto contatto con un’altra testualità, piú lontana dal corpus di Emilio nel suo insieme – specie per motivi di ordine storico-contestuale – che dalla cronologia ultima tracciata in questo lavoro (1908-1915).3 E senza dimenticare che, in senso inverso, c’è la possibilità di sovrapporre all’unicum di Cartagine in fiamme la ciclicità raccolta in La caduta di un impero. Ma è proprio questo che ci intriga e interessa: far interagire una novità della narrativa salgariana con la ripetizione tipica del ciclo e cercar di vedere come i due fattori possano giocare insieme, avanti e indietro nella Storia, dall’antichità romana all’Otto-Novecento delle derive imperialiste e, ormai, quasi totalitarie. In questa estesa prospettiva, speriamo di gettare un po’ di luce non su “ciò che l’opera ha in mente” ma su “ciò che dimentica”, chiedendoci “non ciò che dice ma ciò che dà per scontato”. E cosí, fin dal titolo del romanzo del 1911, cercheremo di dire qualcosa “sugli elementi (...) su cui inizialmente non sembra ci sia niente da dire”, ma provando via via a frantumare le attese del lettore e ad aprirle – per frammenti, scheg-

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ge, approssimazioni – a “nuove possibilità contestuali”.4 In questo modo, rinunciamo, ovviamente, a far quadrare il cerchio, cioè tendiamo a rifiutare – in linea, e piú di quanto non si pensi in genere, con l’ultimo Salgari – il matrimonio ermeneutico dello sviluppo (economico) del testo e della sua (perduta) coesione.

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Partiamo, per l’appunto, dal titolo. Il declinarlo parzialmente con una sorta di comparaison interrogativa – Caduta come fine? – esprime, non a caso, una perplessità; una perplessità da cui germina tutto il saggio. Mi pare che la caduta non possa essere percepita tout court come sinonimo di fine, ovvero che non sia scontato che la caduta corra in stretto parallelo con l’idea di fine. Anche se non fosse stata scritta, La rivincita di Yanez, pubblicata postuma nel 1913, è già in La caduta di un impero, uscita due anni prima, in quel 1911 che offre una cronologia postuma agli ultimi romanzi di Salgari, in quell’anno suicidatosi. Detto questo, per quanto divisa in due parti da Bemporad – che ne fa uscire la prima con il titolo di Il bramino dell’Assam nello stesso 1911 – La caduta di un impero resta un titolo forte. Di piú. Resta il titolo regolarmente retribuito e quindi riconosciuto e in qualche modo inverato dalla pratica editoriale, divisioni e derive commerciali a parte. Insomma, si tratta di un titolo in cui Emilio Salgari, un po’ prima della fine, ha creduto e che ha depositato. Ancora: nei titoli dei volumi che tracciano la parabola del romanzesco salgariano nella sua totalità il termine “caduta” non è ripetuto e si presenta come una novità, come una non banale novità, azzeccata o meno che sia. Certo, anche il termine “rivincita” non ha doppioni ma si presta piú facilmente a rientrare in una serie sinonimica quale “riscossa”, “riconquista”, “rivincita”, rinvenibile grazie ai non lontani – sia per la cronologia che per il Ciclo Indo-malese cui appartengono tutti – Sandokan alla riscossa (1907), La riconquista del Mompracem (1908) e, per l’appunto, La rivincita di Yanez (1913). Forse anche grazie a queste prime e piú o meno evidenti considerazioni possiamo trarre qualche pista ermeneutica: il fatto che negli ultimi romanzi di Emilio Salgari, e segnatamente nel ciclo piú esteso e importante, ritorni l’idea di rivincita a tal punto da proiettarsi nella posterità, può dirci qualcosa non tanto sulla scelta leggendaria e reale a un tempo del suicidio quanto sul concetto di caduta, sul suo richiamo, sul suo fascino ma anche sulla sua diluita e, di fatto, rifiutata metamorfosi apocalittica in fine: in fine di un impero, di un mondo, ovvero anche, vista l’epoca, del mondo. Perché la forma politica dell’impero, nel bene e nel male, da una parte e dall’altra, fa il mondo; ovvero lo rende leggibile anche agli eroi, ai buoni, e lo immette a tal punto nel loro DNA che finisce per farlo diventare l’oggetto del desiderio (ché le donne muoiono o vengono allontanate). Certo, Sandokan dice sovente che l’impero di Yanez procura piú problemi che altro. E Yanez dice che si è lanciato in quest’avventura

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per la moglie. Ma al di là delle tirate, delle scuse piú ripetute, il dato nuovo ed esplicitato è che i due eroi hanno mutuato dai loro nemici, specie dagli inglesi, la stessa forma di potere e la realizzazione immediata e tendenzialmente infinita dello stesso con la guerra: e poco importa che dietro ci siano spinte, sempre piú deboli, che giustificano e legittimano il percorso dei due fino a quel momento della vita e a quel punto della carta che è l’Assam. Insieme – lo dicono i loro aiutanti a piú riprese – Sandokan e Yanez potrebbero conquistare e volgere in impero, e sotto il loro impero, tutta l’Asia, tutto l’Estremo Oriente. E poi chissà! Insomma, siamo ben lungi da una narratività che assolutizzi il concetto di caduta in quello di fine: si cade ma ci si rialza, e la fine è sempre foriera di un altro inizio. Certo, la si marca fortemente, mentre l’inizio è piú sfumato, rapidamente evocato. Del resto, come insegnano Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, “le categorie dell’‘inizio’ e della ‘fine’ (...) non costituiscono affatto un’opposizione binaria in tutti quanti i sistemi”.5 E nell’ultimo Salgari l’origine di Sandokan, di Yanez e di molti altri personaggi sfuma a vantaggio del valore associato all’evento fine: e se il valore si dimostra con la rovina, non è poi detto che in essa si assolutizzi, ovvero che si identifichi sempre con l’esito tragico, ché “il modello del mondo a ‘lieto fine’” può essere in agguato.6 Ora, se pensiamo al fatto che molti dei discorsi imperialistici relativi a Sandokan e Yanez vengono proposti dagli stessi eroi o dai loro aiutanti in tempo di duro assedio, per un attimo si può dubitare e del lieto fine e della ragione dei personaggi salgariani. Specie durante la lettura degli ultimi capitoli della Caduta di un impero e dei primi della Rivincita di Yanez, non è difficile riandare col pensiero alla follia di Hitler, negli ultimi giorni della Berlino nazista: dentro un bunker che ha le proporzioni di una piccola città sotterranea, che si sviluppa dall’inizio degli anni Trenta alla prima metà dei Quaranta, secondo modalità tipiche delle catacombe, il dittatore fa piani folli mentre, sopra la sua testa di novello Nerone, Berlino è in fiamme, con rovine che riprendono piú volte a bruciare, soffocare, uccidere. In Salgari, il vizio delle fiamme c’è, almeno tanto quanto in Yanez c’è quello delle sigarette; e i corti circuiti della storia e geopolitica passata e futura – un po’ come le scorribande di Intolerance (1916) di David Wark Griffith7 – sembrano accordarsi a tale vizio in seno a una sorta di antropologia culturale del mondo moderno, basata, per l’appunto, su fiamme e rovine. In essa, a mio avviso, non opera tanto la mitologia antica o la letteratura omerica quanto la modernità otto-novecentesca di Cartagine. È la ricezione della caduta e dell’incendio della grande città punica a imporsi nel primo Novecento,8 e con propaggini nel secondo. Certo, il rilancio ottocentesco di Gustave Flaubert e la coppia novecentesca del Rapagnetta (alias Gabriele d’Annunzio) e di Piero Fosco

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(alias Giovanni Pastrone) – con a monte Salammbô (1862), a valle Cabiria (1914),9 e la possibile mediazione di Il fuoco (1900) dannunziano e delle fiamme del catalogo dell’Itala Film – disegnano un universo tanto sublime quanto mutilo e silente, specie se assolutizzato. Uscire dai confini del disegno prezioso, avvertito, colto, e raccogliere le tracce, finanche le crasses, è quello che invece possiamo fare grazie a un romanzo salgariano cronologicamente non lontano: nel 1906 in rivista e nel 1908 in volume. Cioè possiamo avvicinare e frequentare, sintetizzare e proiettare un immaginario alquanto articolato, anche nelle sue derive meno sublimi e piú urlate. Penso, ovviamente, ancora una volta, a Cartagine in fiamme, un testimone chiave se si riesce a sottrarsi un po’ ai soliti luoghi comuni circa la sua genetica e/o il DNA dell’autore.

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Perché Cartagine e non Troia o, via Troia, Roma? Roma, in fin dei conti, meglio di Cartagine, potrebbe ben rappresentare una caduta diluita e una fine sempre rinviata. E del resto ci rimanda alla “caduta dell’impero romano” quella “decadenza” con cui Salgari flirta, tra Ottocento e Novecento, e che “ha avuto sempre, piú o meno, un riferimento attuale”, specie attraverso “due idee antichissime, impero universale e decadenza dello stato”. Di qui anche il declinarsi di una caduta come fine o crisi; declinarsi cui presiede un’interrogativa insieme apocalittica e ciclica: “fine del tempo o crisi di un impero?”.10 Ecco che la congiunzione di novità e ripetizione di un dato romanzesco volge in alternativa nel farsi della Storia, che non contempla fine del tempo se non in sé stessa, ovvero riducendola a crisi, decadenza, caduta; periodi, momenti, episodi che offrono, comunque, “continuità”;11 e comunque si voglia percepire tale continuità e, in un certo senso, ovunque la si voglia percepire. Ecco allora che Cartagine può rappresentare la crisi di un impero ma anche, in via sotterranea e traslata, la continuità transitiva di un impero, sposando e rimodellando a “lieto fine” un esteso e particolare ciclo dei vinti che – affidandosi a mari e oceani per sfuggire alle fiamme12 – va dalla città punica all’Assam e contempla forme depistanti di rivincita (guerra batteriologica compresa); e con traiettorie che potrebbero pure partire dagli input di certa narrativa postunitaria impegnata, e finanche da un Giovanni Verga. Quando i vinti sembrano vincitori – specialmente in una situazione di assedio, in un microcosmo piú o meno trasceso – a che scopo continuare e secondo quali modalità? Forse per ovviare a una sottomissione codarda del passato – di natura politica, militare, economica, sociale, culturale – o forse per assolutizzare una caduta in quella fine figlia del futuro in cui il mio io, necessariamente, non sarà piú? E se l’assedio impone il ritorno,13 di quanti ritorni si avrà bisogno per non essere piú assediati? E se il ritorno è disordine – ché non c’è linea retta e rotta sicura né per Ulisse né per “La Provvidenza” né per Kammamuri e Timul – di quanto ordine si avrà bisogno perché la rivincita non si trasformi in smarrimento?

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Anche il romanzo salgariano, di fatto, collassa, come la Storia, e produce quel mélange di tragico e di grottesco che pare necessario esito, nel Novecento, della “tradizione di tragedia” propria di tutta la letteratura occidentale – secondo il recente e forte suggerimento di Pierpaolo Fornaro14 – e però, con piú inquietante evidenza, insieme anticipa forme della propaganda politica totalitaria piú estrema. Ora, per quanto strano e fuor viante possa apparire, non è mossa cosí azzardata riandare all’ultimo capitolo del Mein Kampf (1925-1926), dove Adolf Hitler parla della caduta di Cartagine, la descrive come la lenta agonia di un popolo consumato dalla propria colpa e la ricerca nel presente, pensando alla Germania del primo dopoguerra e facendo “riferimento ai concetti clausewitziani della ‘macchia della sottomissione codarda’ e della rinascita tramite una ‘lotta onorevole’”.15 Vent’anni dopo, Harry Hopkins, consigliere di Roosevelt e poi di Truman, scopre le rovine di Berlino e le associa subito a quelle di Cartagine.16 Ne subisce, affranto, il fascino apocalittico ma di fatto rifiuta l’apocalisse: l’America nel presente, come Roma nel passato, è pronta a prendere il relais, immediatamente. Ci sarà un altro impero, perché la caduta è solo provvisoria e Berlino verrà ricostruita, proprio come la Gahuati della Caduta di un impero. E Yanez, in tal senso, eredita la vendetta di Hiram, l’eroe di Cartagine in fiamme, e la triste contemplazione e il futuro impero di Scipione Emiliano (che è poi già in nuce all’epoca di Scipione l’Africano). Insomma, il trono di Yanez vacilla ma l’esercizio dell’apocalisse, per dirla con André Malraux,17 è sempre rinviato. Yanez, poi, non è certo il dittatore tedesco, non è quell’estremo Mazzarò che sostituisce la roba con il popolo e che vorrebbe far sparire un’intera nazione con sé al momento della sua dipartita. Yanez fa evacuare la città, nasconde il tesoro e poi via nelle fogne, quasi come certi personaggi del Kusturica di Underground (1995).18 E qui l’ironia di Salgari – figlia naturale di un’iperbole tragica che gli scappa di mano e che di fatto produce grottesco – ha grandi momenti: le abbuffate di topi, la sorgente d’acqua pura, incontaminata, il freschetto che, almeno inizialmente, protegge dall’incendio di superficie, le imprecazioni di Yanez quando le sigarette cominciano a scarseggiare. Manca, al solito, un po’ di sesso, ma è anche vero che chi fa la guerra non fa l’amore (almeno in Salgari, che non è d’Annunzio e nemmeno Hemingway). Ma l’ironia salgariana non può assumere su di sé il vuoto che strutturalmente deriva alla narrazione dal fatto di voler rinviare continuamente l’esercizio dell’apocalisse. In tal senso, anche l’assedio non aiuta, proprio perché come esercizio dell’apocalisse è poco gettonato e sostenuto. Fra l’assedio e il ritorno,19 Salgari, anche il Salgari di Cartagine in fiamme, sceglie la dinamica che è sottesa al secondo archetipo, al secondo modello, pur declinandolo a suo modo, nei dintorni dell’as-

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sedio, e con sempre maggiori difficoltà verso la fine della sua produzione, come avremo occasione di ribadire. Sia in La caduta di un impero (1911) che in La rivincita di Yanez (1913), la parte importante della narrazione (quantitativamente e non solo) – con almeno due terzi del racconto senza Yanez, che in fin dei conti dovrebbe essere il protagonista – è costituita dai viaggi di Kammamuri e dell’ultimo, fedele rajaputo, che spostano l’assedio e la tensione del racconto altrove, anche lontano, in altre città o nella jungla: in treni, alberghi, prigioni improvvisate, alberi scavati, vecchie torri in rovina, ecc. Del resto, lo stesso assedio principale, quello relativo alla già citata capitale dell’Assam, è spostato: dalle fogne si passa a una collina. Ovvero, se si vuole, dal dedans dei “Misteri” si passa al dehors della Guerra e dell’Impero:20 la rivincita è un piatto che si serve all’aperto.

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A questo punto del discorso, si fa fatica a non legare il dato biografico che rende l’autore sempre piú prigioniero della scrittura, del tavolino da lavoro, al dato narrativo che già nel primo ma, con maggiore e significativa insistenza, mi pare, nell’ultimo Salgari,21 vede gli eroi salgariani rinchiusi sovente in qualche piú o meno angusta trappola o prigione: buche, tombe, necropoli, catacombe, sotterranei, labirinti, templi, passaggi segreti, che magari si allagano o prendono fuoco. Allora, la scelta di un sito all’aperto, magari collinare, alto, dominante, per far morire eventualmente un eroe e/o sé stesso, si carica di un significato non trascurabile a livello biografico e letterario a un tempo; perché non si tratterebbe soltanto di affrancarsi in extremis da una scelta di genere o sottogenere – ovvero e per esempio dai “Misteri” sopra citati – ma di lasciare un testamento meno ingenuo delle lettere del suicida. Detto questo, non c’è in Salgari una extrema ratio di questa tipologia o, se si vuole, una razionalizzazione forte di tale scelta. Ma è proprio questo che, in qualche modo, intriga e affascina. Insomma, è troppo facile pensare che la distruzione – che l’ultimo Salgari sposa, specie nella forma dell’autodistruzione della capitale, promossa dallo stesso Yanez – sia una metafora del suicidio. Certo, l’intreccio di cultura delle fiamme e di letteratura dei misteri che il finale di La caduta di un impero offre nell’anno della morte del Nostro non è banale, ma ripetuto e iterato lo è certamente. Basta ripensare ancora, nei dintorni dell’ultimo Salgari, a certe situazioni esemplari, in tal senso, di Cartagine in fiamme.

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mari e Timul, il fedele rajaputo, dall’altro. Se i primi sono schiavi della loro alta eroicità, del loro passato, ovvero, in ultima analisi, dell’assedio, che li rende un po’ statici e indolenti, come il buon Emilio al tavolo da lavoro, i secondi possono liberarsi non da uno ma da una pluralità indefinibile di assedi, fino a perdersi completamente nella realtà, ovvero fino a correre il rischio contrario rispetto a quello imposto dall’assedio. Cosí Kammamuri e Timul, postini perfetti nella Caduta, quando l’assedio della capitale dell’Assam si deve ancora produrre, non lo sono piú nella Rivincita, perché fuggire l’assedio significa smarrirsi, non sapere neanche piú in quanti si è, dove si è e dove si va. Perché l’assedio è certo terribile ma la libertà del ritorno, mascherata da missione, peraltro interrotta piú volte e di fatto inconclusa, può esserlo ancora di piú. L’assedio impone una sua staticità, è monolitico, ma offre un’identità tout court, anche a chi la sta smarrendo o a chi non ne può piú della sua.

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Se invece pensiamo che la Caduta, come si diceva fin dall’inizio, inglobi già la Rivincita, e non come semplice seguito e finale della prima, il discorso presenta una sua novità: ecco che la caduta serve, piú di altre volte, a riunire le forze e a iniziare un gioco di squadra piú complesso e déguisé, con almeno due coppie significative (e aperte) di eroi e di aiutanti: Yanez e Sandokan, da un lato, Kamma-

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Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in fiamme (1906) di Emilio Salgari, in Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 315403; in particolare pp. 377-378. Culler, Jonathan, In Defence of Overinterpretation, in Eco, Umberto, Interpretation and Overinterpretation: Umberto Eco with Richard Rorty, Jonathan Culler, Christine Brooke-Rose, a cura di Stefan Collini, Cambridge University Press, Cambridge 1992 (trad. it. In difesa della sovrainterpretazione, in Eco, Umberto, Interpretazione e sovrainterpretazione. Un dibattito con Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose, a cura di Stefan Collini, Bompiani, Milano 1995, pp. 133-150; citazioni da pp. 134, 135, 139). Cfr. qui, alle pp. 9-14, Curreri, Luciano, Un po’ prima della fine? Appunti per una critica e una cronologia salgariana. Culler, In difesa cit., pp. 140, 149, 147. Cfr. Secchieri, Filippo, Polarità ermeneutiche, in “Ermeneutica Letteraria”, 2009, n. 5 (di prossima pubblicazione; visto grazie alla cortesia dell’autore). Lotman, Jurij M., O modelirujusˇcˇem znacˇenii ponjatij ‘konca’ i ‘nacˇala’ v chudozˇestvennych tekstach, in Id., Stat’i po tipologii kultury. Materialy k kursu teorii literatury, fasc. I, Tartu 1970, pp. 52-57 (trad. it. Valore modellizzante dei con-

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cetti di “fine” e “inizio”, in Lotman, Jurij M. e Uspenskij, Boris A., Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1987, pp. 135-141; citazione da p. 136 – I ed. 1975). Ivi, p. 138. Intolerance: Love’s Struggle Throughout the Ages (USA, 1916), regia di David Wark Griffith, produzione Triangle Film Corporation e Wark Producing. Curreri, Luciano, Il mito culturale di Cartagine nel primo Novecento tra letteratura e cinema, in Alovisio, Silvio e Barbera, Alberto (a cura di), Cabiria & Cabiria, Museo Nazionale del Cinema-Editrice Il Castoro, Torino-Milano 2006, pp. 299-308. Cabiria. Visione Storica del Terzo Secolo a.C. (Italia, 1914), regia di Giovanni Pastrone, produzione Itala Film. Riutilizzo liberamente alcuni input di Mazzarino, Santo, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 15-30, 31-42, 176-183 (I ed. Garzanti, Milano 1959). Cfr. ivi, pp. 176-183. Curreri, Luciano, Per sfuggire alle fiamme bisogna affidarsi al mare (ovvero saper nuotare), in “Ilcorsaronero. Rivista Salgariana di Letteratura Popolare”, 2007, n. 4, pp. 32-35, poi, con qualche modifica, in “Interval(le)s. La Revue Électronique du CIPA”, 2008, n. 3 (Emilio Salgari, il mare, l’in-

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terdisciplinare, a cura di Luciano Curreri e Fabrizio Foni), pp. 34-39, www.cipa.ulg.ac.be/intervalles3/curreri.pdf (numero monografico in francese e in italiano, con una storia a fumetti inedita di Giuseppe Palumbo, che si ripropone qui nell’Appendice II). Cfr. Ferrucci, Franco, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione, Bompiani, Milano 1974 e Mondadori, Milano 1991. Fornaro, Pierpaolo, Tradizione di tragedia. L’obiezione del disordine da Omero a Beckett, Arcipelago Edizioni, Milano 2009. Ryback, Timothy W., Hitler’s Private Library: The Books that Shaped His Life, Alfred A. Knopf, New York 2008 (trad. it. La biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Führer, Mondadori, Milano 2008, p. 170). Ma cfr. Hitler, Adolf, Mein Kampf, 2 voll., Verlag Franz Eher Nachfolger, München 1925, vol. I, Eine Abrechnung, e 1926 [ma con data 1927], vol. II, Die nationalsozialistische Bewegung (trad. it. La mia battaglia, Bompiani, Milano 1934, pp. 399-400) e, per la ricezione di questo volume (“considerato, piú che un libro razzista e antisemita, un testo revanscista, un pericoloso figlio del vecchio ‘furor teutonicus’”), i tagli, la vicenda dell’edizione italiana, il contesto, il traduttore, si legga Fabre, Giorgio, Il contratto. Mussolini editore di Hitler, Dedalo, Bari 2004 (citazione da p. 51). Cfr. infine gli input contenuti in Mazza, Donatella, «I giovani hanno bisogno di eroi come del pane quotidiano» (A. Hitler): Karl May negli anni del nazionalsocialismo, in “Il Confronto Letterario”, 1993, 9, n. 19, pp. 169-175. Su Karl May, ritorna a piú riprese, ovviamente, anche Ryback, La

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biblioteca cit., pp. 4, 44, 170-171, 181, 223. L’informazione è proprio all’inizio, nel primo paragrafo della prefazione di Fest, Joachim, Der Untergang. Hitler und das Ende des Dritten Reiches, Alexander Fest Verlag, Berlin 2002; ma cfr. la trad. fr., Les derniers jours d’Hitler, Perrin, Paris 2002 e «tempus», 2003, p. 7: “Ce n’est pas sans raison qu’en découvrant les immenses champs de ruines de Berlin, Harry L. Hopkins, conseiller du président Franklin Delano Roosevelt puis de son successeur Harry Truman, a évoqué une image apocalyptique venue d’un lointain passé, celle de la chute de Carthage”. Malraux, André, Exercice de l’Apocalypse, in Id., L’Espoir, Gallimard, Paris, «Folio», 1972 e1989, pp. 141-303 (I ed. 1937). Underground (Francia-Jugoslavia-Germania, 1995), regia di Emir Kusturica, produzione CiBy 2000, Komuna e Pandora. Cfr. ancora Ferrucci, L’assedio cit. Marini, Quinto, I «Misteri» d’Italia, ETS, Pisa 1993. E cfr. poi Bachelard, Gaston, La dialectique du dehors et du dedans, in Id., La poétique de l’espace, P.U.F., Paris 1992, pp. 191-207 (I ed. 1957). E potremmo farvi rientrare, tra passato e futuro, quello egiziano di Le figlie dei faraoni (1905) o quello verniano e fantascientifico delle città sottomarine e delle gallerie polari di Le meraviglie del Duemila (1907). Per l’altro peplum salgariano cfr. Curreri, Luciano Tra roman-péplum e voyage en Orient: appunti e ipotesi per Le figlie dei faraoni (1905) di Emilio Salgari, in Villa, Luisa (a cura di), Emilio Salgari e la tradizione del romanzo d’avventura, ECIG, Genova 2007, pp. 139-152.

Ma le tigri possono invecchiare? Note sparse su La rivincita di Yanez (1913) Giuseppe Traina

A Mario Tropea e Luciano Curreri, amici e maestri salgaristi

L’impostazione cosí suggestiva che è stata data a questo convegno mi impone, parlando della Rivincita di Yanez,1 di considerare non soltanto la vicinanza di questo romanzo alla fine della vita di Salgari ma anche la circostanza che questo titolo segna la fine del Ciclo dei pirati della Malesia. E se sulla prima di queste due circostanze non mi sento di aggiungere nulla, ignaro, come sono, degli snodi piú minuziosi della biografia salgariana, è invece sulla seconda circostanza che vorrei parteciparvi alcune impressioni. Non è, d’altronde, cosí semplice separare le due circostanze: La rivincita di Yanez è un romanzo che, pur con i suoi innegabili difetti (accresciuti da qualche lacuna e da goffe interpolazioni testuali), tuttavia promana il fascino dell’incompiuto e della stanchezza; della fine, appunto. Ed è facile pensare che tali sentimenti invadessero – con la stessa pervasività, lenta ma inesorabile, dei bacilli del colera che il medico olandese Wan Horn diffonde nell’accampamento dell’usurpatore Sindhia – anche l’animo di Salgari mentre scriveva, credo assai faticosamente, questo romanzo. Non mi soffermerò su lacune, zeppe, dimenticanze, incastri mal riusciti, sia perché non è possibile attribuirne con certezza la paternità allo stanco Salgari o a Lorenzo Chiosso o ad altri eventuali redattori dell’editore Bemporad, sia perché, tutto sommato, tali elementi talvolta non mancano anche in altri romanzi che sono invece del tutto attribuibili alla responsabilità dell’autore. E dunque, sorvoliamo serenamente sul dialogo che si svolge nel sepolcreto della pagoda, a metà romanzo, all’inizio del capitolo In trappola, e che ha per interlocutori Kammamuri, il rajaputo fedele, il gurú, un Timul comparso dal nulla e il capo del drappello di fedeli a Sindhia che tiene sotto scacco i nostri eroi: un dialogo cosí insipido da apparire surreale, oltre che noiosissimo.2 È questo, a dire il vero, il punto peggiore del romanzo: l’unico in cui si sente una penna del tutto diversa da quella salgariana. È probabile che davvero Salgari si riservasse di ritornare su alcune aporie testuali in sede di correzione di bozze, e che non abbia fatto in tempo: lo sostengo in via puramente ipotetica ma d’altronde trovo incomprensibile il fatto che l’unico rajaputo rimasto fedele a Yanez resti anonimo per tutta la durata di un romanzo in cui ha una parte di assoluto rilievo e nel quale, per usare una terminologia teatrale, rimane in scena molto piú a lungo degli stessi Sandokan o Yanez

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(per non dire di Tremal-Naik, che è ridotto a mera comparsa). Insomma, anche il persistente anonimato di questo personaggio – di volta in volta identificato come “rajaputo fedele” o “rajaputo gigantesco”, o “erculeo rajaputo” – mi pare riveli la stanchezza o l’imminenza della fine, in un maestro della nominazione e della variazione sinonimica, seppure stereotipa, qual era Salgari. È stato autorevolmente sostenuto che i due precedenti romanzi del Ciclo Indo-malese, Il bramino dell’Assam e La caduta di un impero, sono come due parti artificiosamente separate di un unico romanzo. Ma è altrettanto evidente quanto siano stretti i legami tra La caduta di un impero e La rivincita di Yanez: cosí stretti che nelle primissime pagine stranamente il narratore dice che “noi sappiamo chi era Kammamuri, l’indemoniato maharatto, il fedelissimo servo di Tremal-Naik, il famoso Cacciatore della Giungla Nera”,3 mentre di Sandokan ci dà addirittura una descrizione fisica, come fosse un personaggio ignoto o, per lo meno, come se non lo si incontrasse da tempo. E infatti nella Caduta di un impero Sandokan, atteso come un deus ex machina, veniva soltanto nominato e Kammamuri finiva per essere il vero protagonista del romanzo. Un notevole elemento di simmetria strutturale tra La caduta di un impero e La rivincita di Yanez è dato, all’inizio del secondo, dal procedere della “colonna infernale” guidata da Sandokan, un procedere che ci appare rettilineo e inesorabile quanto il viaggio in treno di Kammamuri e Timul nella Caduta di un impero.4 E anche nella Rivincita, come nel romanzo precedente, il viaggio prosegue nonostante le minacce, ai lati, di quella massa informe che è l’esercito degli “sciacalli” di Sindhia. Ma questo passaggio dalla centralità di un viaggio in treno alla centralità di un viaggio sull’elefante è solo un aspetto di una piú complessa dialettica fra spinte regressive e spinte progressive, su cui tornerò alla fine di quest’intervento. Un altro legame forte è la funzione svolta da Kammamuri in entrambi i testi, quasi in omaggio a una sorta di principio redistributivo per il quale Salgari sembra assegnare al meno fascinoso dei suoi “quattro moschettieri” una sorta di risarcimento tardivo,5 un ruolo di primo piano proprio quando, nella Caduta di un impero, Yanez, quasi ridotto all’impotenza, è costretto a presidiare e poi incendiare la capitale del suo impero nell’attesa del soccorso provvidenziale di Sandokan. Soccorso che arriva proprio all’inizio della Rivincita di Yanez: ma pure Sandokan non potrà fare altro che asserragliarsi, con Yanez e Tremal-Naik, nelle fogne della distrutta capitale Gahuati, mentre a Kammamuri e all’anonimo rajaputo spetta il compito di far da tramite con i soccorritori accorrenti, ossia le truppe dei fedeli montanari di Sadhja. Poco importa – ennesima incongruenza – che il compito non venga assolto a causa dei mille ostacoli che i due eroi incontrano sul loro cammino e che, d’altronde, misteriosamente i montanari di Sadhja stiano già muovendo al soccorso di Yanez, guidati da Kham-

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pur e dalla stessa Surama. Qui semmai conta di piú chiedersi perché quest’incarico spetti, in entrambi i casi, a Kammamuri. C’è naturalmente una ragione gerarchica ma c’è anche, forse, la necessità di rimettere in gioco un personaggio che, pur non godendo di un particolare approfondimento psicologico,6 torna utile a Salgari non solo perché non ha subito quel processo di imborghesimento coniugale già segnalato a suo tempo da Mario Tropea.7 Ma Kammamuri fa gioco a Salgari anche per la sua duttilità di personaggio: il coraggio, l’intelligenza, il senso dell’umorismo, la conoscenza della jungla e l’abilità nel fronteggiare i pericoli che essa nasconde, ma anche la sua apertura verso il nuovo (si pensi alla disinvoltura con cui viaggia in treno nella Caduta di un impero) lo rendono, in entrambi i libri, il personaggio ideale per svolgere un compito mal precisato ma cosí importante da occupare gran parte del romanzo. In generale, è abbastanza difficile che i protagonisti del ciclo dei pirati provino sentimenti diversi da quelli che stereotipicamente li contraddistinguono: in questi due ultimi romanzi si può però osservare in Yanez la comparsa di un’ansietà che era sempre riuscito a nascondere dietro la sua proverbiale flemma e il suo galvanizzante senso dell’umorismo. Umorismo che, beninteso, in questo romanzo non viene meno ma cede talvolta il passo all’ansia, 8 soprattutto in relazione alle sue nuove responsabilità di capo di Stato e, soprattutto, di padre. Ma si tratta, in qualche modo, di sfumature. Kammamuri, dal canto suo, e pur nella sua coraggiosa duttilità, arriva a provare sentimenti altrettanto sconosciuti e molto piú intensi, segnando in tal modo una sorta di innovazione, sia pur tardiva, nel profilo dell’eroe salgariano. Si badi: non siamo di fronte alla tempestosa e tragica melanconia del Corsaro Nero o al mostruoso istinto violento che agita il Sandokan dei primissimi romanzi; i sentimenti di Kammamuri appaiono piú normali: lui, “che tante belve aveva abbattute, insieme a Tremal-Naik, nelle Sunderbunds del Gange, cominciava a sentirsi invadere da un terrore invincibile”.9 Gli succede, nella jungla, quando ritrova il cadavere del conducente del mail-cart, orrendamente dilaniato dalla tigre che li minacciava: ma prima di questa disavventura – in uno splendido crescendo di emozioni nel quale Salgari dimostra di non avere affatto perduto il suo smalto di grande narratore d’avventura10 – il maharatto e il rajaputo, incalzati da un gruppo di guerrieri di Sindhia, erano stati assediati dai serpenti mentre s’erano rifugiati su un alto tamarindo, erano stati inseguiti da un rinoceronte, poi erano caduti in una grande trappola di caccia.11 E dopo l’uccisione della tigre, ecco l’assalto di un orso, anche se questa minaccia, in confronto, è risolta quasi come una formalità da Kammamuri. Il quale, “risollevatosi ripartí come l’ebreo errante, colle pupille dilatate, il cuore palpitante, come un ebbro. Si sentiva ormai completamente sperduto e non sapeva piú da quale parte dirigersi”:12 la vera e propria paura è durata poco, ora è subentrata l’angoscia di perdersi nella jungla.

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Vorrei sottolineare l’affioramento di quest’angoscia, e tuttavia devo rilevare che anche questo nuovo timor panico dura poco e Kammamuri ritrova presto il suo umorismo, che Salgari gli fa esprimere in soliloquio, utilizzando, cioè, come di consueto,13 una tecnica di origine teatrale: “Mi rincresce, ma la mia pelle credo che valga ancora qualche cosa. Un gurú mi ha predetto che avrei raggiunto una età pari a quella dei coccodrilli. È vero che non so quanto vivono quelle bestiacce”.14 Mi sia permessa una piccola digressione: in questo romanzo colgo almeno una volta, e non so quanto sia frequente in Salgari, un momento in cui l’umorismo appartiene alla voce narrante: è il momento in cui, per presentare la casta sacerdotale dei gurú, la voce narrante afferma che “alcuni vivono ritirati in piccole pagode, per lo piú vecchie e cadenti. Gli altri invece preferiscono la vita randagia, e se ne vanno attraverso le campagne ed i villaggi mendicando, non sempre veduti volentieri, poiché la prima cosa che fanno è di cacciare di casa il padrone ed i figli per fare compagnia alle mogli ed alle figlie”.15 Qui non c’è, di sicuro, l’ironia sprezzante di Yanez, anzi avvertiamo un tono amaro e un timbro di assai probabile matrice manzoniana: come pure manzoniana è la pudicizia del riferimento, che tuttavia mi pare spicchi ugualmente per audacia nell’asessuato universo salgariano. Torniamo a Kammamuri e alle sue avventure. L’abbiamo visto angosciato all’idea di smarrirsi nella jungla: e, di fatto, egli vi si perde, costretto com’è a muoversi un po’ alla cieca, a ritornare sui suoi passi, a ripassare dov’è già stato, perfino a rischiare di cadere di nuovo nella trappola dove ancora giacciono i cadaveri dei cavalli e del rinoceronte. Si badi: l’elemento perturbante non è dato tanto dalla mera possibilità di perdersi nella jungla, luogo intricato per antonomasia, ma piuttosto dall’idea che vi si perda proprio il prode maharatto che di quest’ambiente, fin dai Misteri della jungla nera, è conoscitore esperto quant’altri mai. Insomma, se mi è permesso di parafrasare a sproposito un titolo un tempo famoso, in questo caso non si tratta della consueta forma salgariana della ripetizione seriale, ma di una “ripetizione differente”, connotata sotto il segno del declino, della senescenza, del rischio di non saper piú fare quello che un tempo si faceva con grande nonchalance. Con quest’osservazione siamo, d’altronde, al cuore del problema, cioè ai motivi del fascino autunnale di questo romanzo peraltro cosí strano: motivi che ho provato a riassumere, nel titolo di quest’intervento, con la domanda “Ma le tigri possono invecchiare?”. Mettiamo insieme, innanzitutto, un po’ di dati testuali. Salgari non ha timore nel tematizzare l’invecchiamento dei suoi eroi: certo, non lo fa sempre in modo esplicito e talvolta il tema emerge un po’ obliquamente. Come quando Sandokan, rivelando una prospettiva ideologica decisamente senile e immobilista, non è disposto ad ammettere che un figlio possa far meglio del padre, anzi sospetta che, al posto del figlio, il padre avrebbe senz’altro fatto

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meglio. Siamo proprio all’inizio del romanzo, quando la Tigre della Malesia dialoga con Kammamuri, il quale commenta la piú recente impresa dell’esercito raccogliticcio di Sindhia: “– Eppure quei banditi hanno espugnata e saccheggiata Goalpara, battendo i duemila montanari di Sadhja che erano guidati dal figlio di Khampur”. E Sandokan risponde: “– Se fossero stati comandati dal padre, Goalpara apparterrebbe ancora alla rhani e quindi anche a Yanez”.16 Per rendere questo timore della senescenza, Salgari ricorre anche, ed è cosa per lui consueta, al paysage moralisé, come in questa descrizione: “tutta la campagna però, che si estendeva intorno alla distrutta capitale, interrotta da folti gruppi di banani e di tamarindi che il grande calore aveva ingialliti e forse spenti per sempre, era ancora bruna (…)”.17 Qui, insomma, i segni della vitalità perdurante convivono con quelli dell’invecchiamento incipiente. Altrove, però, il narratore è piú esplicito, come quando commenta cosí una frase di Sandokan che, ancora accorrendo con la “colonna infernale” e non sapendo nulla della sorte di Yanez, arriva a dubitare che l’amico possa essere morto, e almanacca sull’eventuale necessità di vendicarlo: “La sua fronte si era corrugata tempestosamente, ed i suoi occhi nerissimi avevano mandato dei baleni terribili. La Tigre della Malesia non era ancora invecchiata”.18 Non a caso, insomma, di fronte alla possibilità della vendetta – che, come è ben noto, è un motivo fondante della narrativa salgariana19 – si risveglia il tremendo istinto omicida della Tigre. Il tema della vecchiaia può ricorrere in una di quelle espressioni formulari che sono cosí care a Salgari, e che dunque potrebbero non essere particolarmente significative: penso a quando Sandokan e i suoi tigrotti sono presentati come “vecchi guerrieri incanutiti fra il fumo di tante battaglie terrestri e marittime”.20 Mi pare piú significativo, invece, perché piú circostanziato, il commento di Kammamuri a una frase elogiativa del rajaputo (“tu sei un giovane guerriero che non ha paura di dieci banditi”):21 “Una volta sí, ma ora tutti siamo invecchiati: il maharajah, la Tigre della Malesia, Tremal-Naik, il mio padrone. Tuttavia se siamo insieme, siamo ancora capaci di conquistare dei regni e degli imperi”.22 Al di là di queste tematizzazioni esplicite, il tema della vecchiaia incipiente riemerge in modo traslato anche altrove, e in modo dialettico. Per esempio nei tanti luoghi del romanzo in cui si intrecciano dialoghi sulle prospettive future: sulla possibilità di resistere all’assedio di Sindhia o sulla possibilità di arrivare in tempo ad avvertire i montanari di Sadhja. Sempre, comunque, sulla sorte imminente, sulla possibilità di scampare alla morte. Ecco perché i dialoghi ridondano, piú del consueto, di ipotesi ansiogene, di rassicurazioni reciproche, di deduzioni e di controdeduzioni: non è solo un modo di farsi forza, per questi eroi ormai un po’ stanchi per le troppe avventure vissute. È anche, naturalmente, una preparazione prolettica del lettore (e soprattutto del lettore ragazzo) agli eventi futuri,

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che talvolta possono risultare un po’ inquietanti: la prospettiva, per esempio, di soffrire la fame o la sete, che Sandokan risolve serenamente con il progetto di nutrirsi dei cinque elefanti e dei quasi cento cavalli che li hanno accompagnati nelle fogne di Gahuati e che Yanez e i suoi pochi fedeli,23 dal canto loro, avevano già affrontato, cedendo all’idea ripugnante di nutrirsi di topi. Un altro momento che mi pare significativo di questa dialettica energia/vecchiaia riguarda, appunto, lo scopo di tutta l’avventura, il mantenimento di Yanez e Surama sul trono dell’Assam. È Sandokan, e non potrebbe essere diversamente, che rivela, con rude ma pratica ragionevolezza, l’assurdità di questo progetto, che per Yanez, ovviamente, riguarda il diritto dinastico della moglie e il suo orgoglio ferito (ma noi potremmo anche spiegarlo come un mero trucco d’autore, privo di reali necessità narrative ma buono soltanto per prolungare la saga dei pirati): “Già, questo maledetto impero dell’Assam non ci voleva proprio e non era necessario!”.24 Piú avanti è ancora Sandokan a farsi portavoce della disillusione ma anche di una specie di inevitabile necessità di riscatto: “ormai questo famoso impero, per il quale non darei piú di cento rupie, poiché rende piú noie che utili, è da riconquistare da cima a fondo”.25 D’altronde, il risvolto positivo della vicenda è, proprio per lo stesso Sandokan, il senso di vitalità che promana da quest’impresa effettivamente un po’ inutile: “a Mompracem, ora che gl’inglesi mi lasciano tranquillo, cominciavo ad annoiarmi mortalmente”.26 Sono momenti in cui Sandokan ci appare quasi vittima dell’atrabile tipica del Corsaro Nero, sia pure corretta dall’umorismo che ha appreso da Yanez e soprattutto dal suo nativo vitalismo. Insomma, anche alla luce di queste considerazioni, La rivincita di Yanez ci appare – nella flotta di Emilio Salgari – come un praho un po’ piú fragile del solito, eppure ancora con quasi tutti gli elementi giusti al posto giusto: c’è perfino spazio per la menzione del vecchio Sambigliong, ormai piú stratega di azioni altrui che uomo d’arrembaggio e di lotta corpo a corpo. Ma soprattutto ci sono, in un sapiente gioco di simmetrie, ripetizioni e reduplicazioni, i grandi temi della narrativa salgariana: a cominciare dal tema dell’assedio, che non riguarda solo Sandokan, Tremal-Naik e Yanez chiusi nella grande cloaca, ma si reduplica quando Yanez e il rajaputo, durante una sortita, vengono accerchiati dentro una fattoria, e poi quando Kammamuri e il solito rajaputo sono assediati dai serpenti e soprattutto quando entrambi si nascondono, con il gurú e Timul, prima dentro un grande albero cavo e poi dentro la torre mongola, finalmente raggiunta dopo la lunghissima fuga sugli argini e sulle acque stesse del fiume. Un tema addirittura ossessivo, replicato con intelligenti variazioni, ma che finisce per comunicare un identico, costante, senso di soffocamento e di angoscia.27 Identico l’effetto provocato dal tema del fuoco, cosí caro in sede critica a Luciano Curreri:28 si veda il modo ingegnosissimo con cui Kammamuri sfugge ai serpenti riuniti sotto il tamarindo che ha dato

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ricovero a lui e al rajaputo. Egli svuota le cartucce addosso ai rettili e poi spara su di esse, provocando cosí un piccolo incendio sufficiente ad arrostire gli animali; ma si veda anche, subito dopo,29 l’espediente delle pentole mefitiche che rischiano di asfissiare Kammamuri e il rajaputo, e, molto piú avanti, l’incendio della pagoda, che potrebbe davvero essere letale per i quattro assediati se non ci fosse il provvidenziale arrivano i nostri dei montanari di Sadhja. Non meno angosciante, infine, anche se quasi sempre risolto in chiave comica, è il tema della fame,30 che appartiene soprattutto al personaggio del rajaputo fedele, con le sue “fantasie alimentari” e le sue eterne lamentele sulla mancanza di cibo sufficiente a sfamare il suo corpo gigantesco.31 Salgari, in tal modo, fa ricadere su di lui la necessità di variazione comica che aveva già sperimentato con successo nel Corsaro Nero col personaggio eternamente affamato di Carmaux. Ma ci sono altri due, ultimi, elementi che vorrei sottolineare e che ci riportano, in qualche modo, alla dialettica di consuetudine e innovazione, di vecchiaia e di vitalità, di ripetizione rassicurante del già noto e di ripetizione differente all’insegna dell’insicurezza, che caratterizza La rivincita di Yanez e che ho cercato finora di tratteggiare. Mi riferisco in primis al ripiegamento verso un’indefinita dimensione fiabesca e archeologica, verso qualcosa che c’era prima e che non si sa se c’è ancora: se ne fa portavoce l’inconsueto personaggio del vecchio gurú, che guida Kammamuri, il rajaputo e Timul lungo la strada che porta dalla sua pagoda all’antica torre mongola; ma la sua è una guida quantomai incerta: la sua memoria funziona a corrente alternata, la sua stanchezza rallenta la fuga, la sua senescenza a tratti fa sorridere i tre uomini ma piú spesso li indispone, divorati, come sono, dalla fretta e dal bisogno di informazioni sicure. Alla figura del gurú, insomma, sono legati i segni di un immaginario – ripeto – tra il fiabesco e l’archeologico (sacrale, in definitiva), popolato di pagode e torri isolate nella jungla, dove si trovano misteriosi sepolcreti di sapore gotico e vecchi trucchi del trovarobato da feuilleton, come le molle che fanno scattare porte nascoste e meccanismi segreti. Sono, questi, i segni rassicuranti che ci garantiscono la persistenza di una certa idea dell’India, piú fascinosa perché piú vaga: l’India delle tigri e dei thugs, cioè dei primordi del ciclo dei pirati, della giovinezza di Tremal-Naik e Kammamuri, di Sandokan e Yanez. Un’India che resiste all’avanzata del progresso, dei treni e degli alberghi di lusso che caratterizzavano la dimensione anglofila, moderna e metropolitana, di Calcutta nella Caduta di un impero: un’India, insomma, che, nella dimensione protettiva di un luogo chiuso ma antico, prova a resistere ai segni inesorabili della storia, cosí giustamente evidenziati da Tropea come una costante della narrativa salgariana.32 Malgrado tutto, però, il progresso entra anche nella Rivincita di Yanez, e invade pesantemente proprio il campo piú congeniale ai nostri eroi, quello del combattimento, perché riguarda l’innovazione delle tecniche belliche. Proprio all’inizio del romanzo, vediamo la

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“colonna infernale” che passa indenne attraverso torme di nemici che si agitano inutilmente e questo avviene perché gli uomini di Sandokan utilizzano “grosse carabine da mare cariche fino a mezza canna di piccoli chiodi di rame”, tanto efficaci perché i nemici “non sapevano resistere ai morsi crudeli di quel nuovo genere di mitraglia, usato solamente dai pirati malesi”:33 e poco piú avanti Sandokan preciserà con orgoglio a Yanez che queste mitragliatrici sono “molto piú potenti” di quelle che Yanez aveva usato a bordo del “Re del Mare”.34 Ma fin qua sono i tigrotti a volgere a proprio vantaggio il progresso nelle tecnologie belliche: Sandokan, insomma, si dimostra piú aggiornato dei suoi nemici. Quello che apre una prospettiva del tutto inedita e spaesante, nel romanzo ma soprattutto nella mentalità dei nostri eroi, è l’introduzione del concetto di – chiamiamola cosí – guerra batteriologica, grazie alla presenza del medico olandese Wan Horn. È quasi comico il primo dialogo in cui si parla dei microbi del colera trasportati dall’olandese: Sandokan ne parla a Yanez e conclude “che cosa vuoi che ne sappia io? – rispose Sandokan. – Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parang e di kampilang. Lui ti spiegherà meglio”.35 Qui il pirata sembra candidamente confessare la propria ignoranza di quasi selvaggio; ma anche Yanez, che si suppone piú colto semplicemente perché europeo, non si dimostra particolarmente a suo agio parlando con Wan Horn. Ciò potrebbe forse dipendere dall’interessante somiglianza che c’è tra i due: il medico olandese è imperturbabile e ironico quanto Yanez, tanto che Salgari gli attribuisce i sintagmi che ha sempre usato per il portoghese: “la sua solita flemma” o “la sua eterna flemma”;36 e se Yanez soffre e si agita nelle fogne di Gahuati per la mancanza delle sue sigarette, l’olimpico Wan Horn fuma serenamente la pipa, un signum che veicola ancora piú calma e serenità. In ogni modo, a proposito dell’uso dei bacilli del colera, Yanez e Sandokan alternano per un bel po’ il ruvido scetticismo del guerriero che ha già fatto fatica a sacrificare l’arma bianca per la mitragliatrice, e un atteggiamento in certo qual modo possibilista, soprattutto da parte di Yanez che arriva a dire: “– Da questi scienziati tutto si può aspettarci”.37 L’olandese, dal canto suo, è anche comicamente presuntuoso: “– Per Giove!... Questo è un nuovo genere di guerra. [dice Yanez] / – Che darà dei risultati meravigliosi – rispose freddamente l’olandese. – Altro che le vostre carabine, le vostre mitragliatrici e i vostri kampilang!... Vedrete!... Vedrete!... / E quel brav’uomo che si proponeva di assassinare, col suo strano metodo di colture, se ne andò colle mani sprofondate nelle ampie tasche, fumando come una vaporiera”.38 A prescindere da queste schermaglie iniziali, il tema della credibilità della guerra batteriologica viene ripreso piú volte lungo tutto il romanzo ed è interessante osservare che, gradualmente, la fiducia di Yanez e dei suoi amici aumenta. Tanto che, in fin dei conti, anche per Kammamuri la diffusione del colera nell’accampamento di Sindhia è considerata un’arma non meno importante dell’atteso

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arrivo dei montanari di Sadhja. I nostri eroi, insomma, e con loro certamente l’autore, si sono rassegnati ad accettare il nuovo strumento bellico, tanto piú inquietante anche perché invisibile. È vero che, in omaggio alle regole della serialità, Sandokan si congeda da uno Yanez piú che mai in pantofole (che spera “ora di regnare finalmente tranquillo e di dedicarmi tutto a mio figlio”), dicendogli: “– Ricordati, fratellino, che io sarò sempre pronto. Queste corse mi piacciono. Ormai a Mompracem non si combatte piú ed i miei Tigrotti ingrassano enormemente”.39 Ma è anche vero che “tre settimane dopo un dispaccio giungeva a Yanez. Annunciava che la traversata era stata felice e che Sandokan aveva ritrovata la sua amica olandese piú bella che mai”.40 Ed è questo, mi pare, non meno dell’accettazione dei bacilli di Wan Horn, l’indizio definitivo della capitolazione dei due amici alla modernità scientifica e borghese. Come dire, il principio della fine.

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Il romanzo, com’è noto, uscí postumo, nel 1913, presso Bemporad: le bozze furono riviste da Lorenzo Chiosso, al quale “molto probabilmente sono da addebitare alcune incongruenze che saltano all’occhio nella parte centrale. Si notano infatti dei salti logici e la presenza di alcuni personaggi che sembra siano stati calati in scena dal nulla” (Tassi, Massimo, Introduzione, in Salgari, Emilio, La rivincita di Yanez, Fabbri, Milano 2002, p. 6 – d’ora in avanti si citerà da questa edizione). Tassi pensa, dunque, soprattutto a un intervento, maldestro, di Chiosso sulle bozze approntate evidentemente su un testo scritto interamente da Salgari; invece Pozzo afferma, senza apparentemente dubitarne, che La rivincita di Yanez, cosí come le Straordinarie avventure di Testa di Pietra, è stato “completato a cura della casa editrice” (Pozzo, Felice, La bibliografia delle opere salgariane, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino s.d. [ma 1981], p.108). Rinvio alla nota di Tassi (a p. 122 dell’ed. cit.) per le opportune osservazioni sulle incongruità narrative presenti in questo capitolo. Salgari, La rivincita cit., p. 8. Sulla presenza del treno nella narrativa salgariana cfr. Guidobaldi, Laura, Il treno: simbolo del progresso nell’opera di Emilio Salgari, in “Ilcorsaronero. Rivista Salgariana di Letteratura Popolare”, 2007, n. 5, pp. 32-36.

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Cfr. Palermo, Antonio, La giungla e il mare, in Scrivere l’avventura cit., poi in Id., La critica e l’avventura. Serra, Salgari, il primo Novecento, Guida, Napoli 1981, p. 50. L’unico dato emergente è l’orgoglio di casta del maharatto rispetto agli altri indiani, meno nobili e coraggiosi di lui, che incontra nel corso delle sue avventure. Cfr. Tropea, Mario, L’esotismo coloniale nel mondo di Emilio Salgari: il “ciclo di guerriglia”, in Scrivere l’avventura cit., poi in Id., Capitoli della Sicilia e dell’esotico, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992, pp. 93-112, dove si parla di “un’aura di idillio borghese e coniugale, pur tra gli obici degli incrociatori e il fumo delle cannoniere” (p. 95). Vorrei citare l’esempio piú divertente, quando parla dei topi, dei quali si sono nutriti per diversi giorni durante la permanenza nella grande cloaca, e che poi “ci hanno vigliaccamente abbandonato” (Salgari, La rivincita cit., p. 16). Ivi, p.105. Per il “flusso di casi e di avvenimenti spezzati, incatenati all’infinito, una corrente da cui i personaggi sono trascinati”, costante narrativa necessaria in Salgari, cfr. l’eccellente studio di Rinaldi, Rinaldo, L’avventura subita, in Scrivere l’avventura cit., pp. 170-186: 172). Mi pare importante che su questi aspetti intrinseci della scrittura salgariana si sia continuato a riflettere e dibattere anche durante il convegno di Liège, soprattutto attraverso gli interventi di Giudicetti, Benzoni, Turchetta e Curreri, ai quali segnatamente rimando.

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Che viene efficacemente descritta come una “fossa peggiore di una prigione” (Salgari, La rivincita cit., p. 92). Ivi, p. 107. Cfr. Savoca, Giuseppe, Punto di vista e personaggi nelle Tigri di Mompracem, in Il “caso Salgari”, Atti del convegno (Napoli, 3-4 aprile 1995), introduzione di Carmine Di Biase, CUEN, Napoli 1997, p. 50. Salgari, La rivincita cit., p. 107. Ivi, p. 118. Ivi, p. 9. Ivi, p. 28, corsivo mio. Ivi, p. 11. Cfr. almeno Pagliano, Graziella, Modalità e obiettivi dell’agire: duelli e vendette, in Il “caso Salgari” cit., pp. 183-194. Salgari, La rivincita cit., p. 22. Ivi, p. 180. Ivi, pp. 180-181. Cfr. ivi, p. 12. Ivi, p. 17. Ivi, p. 56. Ibid. Che è poi tipico della narrativa salgariana, come aveva già notato Rinaldi nell’importante intervento già citato. Cfr. almeno Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in fiamme (1906) di Emilio Salgari, in Salgari, Emilio, Cartagine in

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fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906, a cura di Luciano Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 315-403. Cfr. Salgari, La rivincita cit., pp. 80 e ss. Cfr. Pagliano, Modalità e obiettivi cit., p. 191. Cfr. Faeti, Antonio, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Einaudi, Torino 1972, p. 135. Cfr. Tropea, Mario, Salgari e la storia. La storia antica: Le figlie dei faraoni e Cartagine in fiamme, in “Moderna”, 2006, 8, n. 1-2, pp. 187-203, e Id., Salgari e la storia: la storia contemporanea, in Cavalluzzi, Raffaele, De Nunzio, Wanda, Distaso, Grazia e Guaragnella, Pasquale (a cura di), La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospettive del decennale (1996-2006), 3 tt., Atti del X congresso ADI (Monopoli, 13-16 settembre 2006), Pensa Multimedia, Lecce 2008, t. II, pp. 807-822. Ma si può dire che il tema del legame tra il nostro autore e la storia sia affrontato da Tropea in tutti i suoi studi salgariani. Salgari, La rivincita cit., pp. 10 e 11. Ivi, p. 17. Ivi, p. 18. Ivi, pp. 21 e 30. Ivi, p. 27. Ivi, p. 40. Ivi, p. 223. Ibid.

Straordinarie avventure di Testa di Pietra (1915): un romanzo a due mani* Willy Burguet e Alessandro Viti

i. Pur scrivendo l’ultimo volume del Ciclo dei Corsari delle Bermude in circostanze personali e familiari difficili, Salgari vi esprime la sua abituale inventività. Il romanzo comincia sul lago Champlain, con l’affaire di due lettere da consegnare: Testa di Pietra, mastro della Tuonante, le deve recare al comandante del forte americano di Ticonderoga. La sua guida, Davis, lo tradisce; si succedono dialoghi spavaldi, pistolettate, l’apparente fine del traditore, l’incendio e il naufragio della fusta su cui si trovano il marinaio bretone e i compagni. Riescono a salvarsi su una zattera, vengono raccolti da un colono canadese, Riberac, che si dichiara “estraneo” alla “guerra maledetta” tra Stati Uniti e Regno Unito, e “traffic[a] colle pellirosse”,1 ma che in realtà collabora con gli inglesi, avendo “dovuto cedere dinanzi all’oro (…) per non morire di fame”,2 e nello specifico con gli agenti dell’infido e “feroce” marchese di Halifax.3 Alla fine, si risolve per aiutare i nostri a fuggire l’insidia tesa loro da un brigantino inglese, per un risveglio di orgoglio, e soprattutto spinto dalle ragioni del sangue: il padre, “morto a Montreal, mentre respingeva gl’inglesi”,4 era bretone come Testa di Pietra. Non mancano i colpi di teatro, la scoperta di un passaggio segreto, poi della cavità alla base d’un gigantesco pino, dove si è rifugiato uno dei traditori, Jor, che da oppositore si farà aiutante, perché anche lui canadese; quindi il rapimento di Oxford, segretario del marchese di Halifax, e lo stratagemma di far rombare i tamburi per gabbare i nemici, e far loro credere di aver di fronte “mille americani (…) nascosti nella foresta”,5 e pronti alla carica. Infine, le cannonate degli inglesi. Gli eroi si addentrano nella foresta canadese, dove imperversano la bufera e la neve. Incontrano un indiano minaccioso, Aquila Bianca, “che ha scotennato piú di venti persone”, e i suoi cinque “giganteschi” orsi neri. Con sorpresa e divertimento del lettore, domano i “plantigradi” ricorrendo dapprima ai tamburi,6 per farli ballare,7 e poi addirittura al magnetismo, in cui si cimenta lo stesso Testa di Pietra.8 L’intermezzo umoristico però si esaurisce (anche se non del tutto, a dir la verità), cosí come il potere dello “sguardo affascinante” del mastro,9 e le bestie ritornano aggressive. Tra uno scontro e l’altro, il lettore ripercorre la storia dei due fratelli antagonisti (anzi, la ripete, dal momento che in buona parte si presume abbia letto i precedenti due romanzi del ciclo): il marchese di Halifax, e il baronetto William Mac-Lellan, tutti e due innamorati

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di Mary di Wentwort, la donna che si sono disputati tra le Bermude e Boston a colpi di cannone. È Mac-Lellan, corsaro onesto, e alleato degli americani durante la rivoluzione, che l’ha spuntata; se il cuore di Mary gli apparteneva da subito, è solo dopo due romanzi (I corsari delle Bermude e La crociera della Tuonante) che è riuscito a sposarla. Ma il marchese non ha perdonato nulla. Testa di Pietra e compagni sono anche circondati dai pellerossa della tribú dei mandani: senza troppo scomporsi, il bretone accetta la sfida del loro capo, Orso delle Caverne, gli spacca la testa con la sua ascia e diventa cosí il gran sackem.10 Si guadagna la fedeltà di oltre cinquecento “valorosi” mandani, che hanno “vinto piú volte gli algonchini ed anche gli irochesi” e,11 in piú, le tredici vedove del capo (ma non sa che fare di queste squaw, lui, misogino, che non si è “mai imbarazzato con delle donne né bianche, né negre, né gialle, né olivastre, né rosse”).12 Con la sua nuova truppa d’indiani, Testa di Pietra arremba il brigantino inglese da cui era stato inseguito, “andato ad arenarsi sulle stesse scogliere” su cui era naufragata la fusta. Altri indiani però, gli irochesi, spuntano all’attacco, condotti dalla guida Davis, miracolosamente rientrato in scena: la battaglia è cruenta e volano le scotennature.13 Il mastro e i suoi compagni vengono salvati da un francese “emigrato in gioventú (…) ed ormai divenuto canadese”,14 il barone di Clairmont, che assieme a Mac-Lellan è alla testa di una compagnia di marinai americani e un manipolo di corsari (che arrivano come la cavalleria nei film western). Si sistemano nel castello, dove è ospite pure la moglie del baronetto, Mary di Wentwort (un troppo forte richiamo per il marchese di Halifax, che attende la vendetta). Come è buona norma nei romanzi di cappa e spada – o, meglio, nell’appendice tout court – tutti ritrovano tutti, e nel castello ricompaiono due personaggi usciti di scena, e assai di rilievo nei precedenti titoli del ciclo: i fratelli Hulbrik e Wolf. Il lettore apprenderà allora di una fantastica galoppata del “bravo hessiano” Wolf,15 dapprima alle prese con due enormi e furibondi alci, poi finito rocambolescamente in groppa a uno di essi, e infine salvato dal barone. La storia si complica con l’arrivo nel castello dell’abietto marchese di Halifax, che recupera le lettere sottratte a Testa di Pietra dal viscido segretario Oxford. Inevitabile il duello tra il baronetto e il marchese, che si trasforma in una lotta generale. La situazione peggiora con i rinforzi inglesi: i nostri devono darsela a gambe attraverso un sotterraneo segreto, e il prode barone non esita a far saltare in aria il suo castello con tutti gli occupanti. Raggiunta finalmente la corvetta di sir William Mac-Lellan, circondata dai ghiacci, ci sarà l’ultimo e decisivo duello tra i fratelli nemici, e il ritorno di Testa di Pietra per sconfiggere definitivamente gli inglesi. La narrazione moltiplica dunque le sorprese; si susseguono senza sosta le vicende ora terrificanti, ora addirittura umoristiche. Nel primo caso, tuttavia, la penna conferisce un senso davvero

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drammatico, che si tratti di un naufragio o di un incendio, ma anche di eventi sostanzialmente piú banali. D’altronde, pensando all’autore veronese, quando descrive nella sua Bohème italiana (1909) il lavoro del romanziere, egli parla di un uomo sempre pronto a immaginare le nuove peripezie di un dramma “sanguinosissimo”, con “qualche scena di banditi, qualche scontro terribile”:16 “colava a fondo una nave ogni ventiquattro ore o faceva mangiare un paio di fanciulli dal suo re Dunza”.17 Eppure, in questa storia movimentata, non tutto è chiaro. Il traditore Davis, come trasformato in “un spettro umano”,18 resiste ai colpi di carabina di Testa di Pietra. La voce del Grande Spirito interviene per fermare gli irochesi:19 in realtà sarebbe stato il barone di Clairmont, a fare da ventriloquo. Non si sa poi come gli orsi, a un certo punto, irrompano sulla scena con i tamburi al collo.20 C’è dunque un pizzico di fantastico in questo romanzo d’avventure (o comunque di strano, per dirla con Todorov).21 Il linguaggio, pur limpido, sa diventare pittoresco: a proposito del colore della pelle dei bianchi, si ha: “dicono [gli indiani] che il Grande Spirito ci ha male biscottati, mentre invece ha lasciato abbruciare troppo i negri”;22 e degli Inglesi: “quella gente è sempre assetata piú delle spugne”;23 si parla d’un “bicchiere di vino scorpionato”,24 ossia di aguardiente. I dialoghi occupano la parte piú importante del testo, soprattutto nella prima metà del libro. D’altronde, Salgari fa dire all’eroe eponimo: “Noi di Batz non possiamo frenare la nostra lingua”.25 Le battute si scambiano, fanno progredire la storia e mascherano l’inverosimiglianza di certe vicende. A volte, nei dialoghi, sono sorprendenti le lunghezze e le ripetizioni quando, di fronte a un nuovo pericolo, Testa di Pietra deve prendere una decisione, forse un trucco per angustiare il lettore. Fin dal capitolo tredicesimo (Tra irochesi e mandani) i dialoghi, pur sempre presenti, diventano piú corti. Le descrizioni al contrario si allungano: per riportare un esempio, i fiocchi di neve che “cad[ono] dal cielo come farfalle sperdute e tramortite, o vola[no] qua e là, travolti dalle raffiche che tratto tratto soffia[no] impetuosamente”.26 La scrittura è meno rapida, i dettagli storici piú corposi. Sembra per l’appunto di sentire la mano di un altro: presumibilmente, quella di Aristide Marino Gianella (1878-1961), che ha terminato il romanzo, lasciato incompiuto alla morte di Salgari. Roberto Fioraso scrive che Salgari, come “scrittore per ragazzi”, è stato anche un “imitatore” di Jules Verne.27 Il francese, in effetti, ha scritto tre avventure canadesi,28 ma ha preferito per la maggior parte dei suoi testi un carattere piú scientifico. Fioraso ricorda anche come modelli Gustave Aimard, James Fenimore Cooper, Edgar Allan Poe, Alexandre Dumas, Alessandro Manzoni e Giovanni Verga. Si potrebbe allora aggiungere che l’opera di Salgari si avvicina ai Reiseerzählungen di Karl May (1842-1912), racconti di viaggio e avventurosi che sono stati letti da generazioni di ragazzi tedeschi.29 Per taluni aspetti, il romanzo

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di Salgari richiama anche Jack London, e in particolare White Fang (1906), che si svolge nel Nord del Canada alla fine dell’Ottocento. A differenza di London, che è vissuto piú anni nel Klondike, Salgari non ha probabilmente mai lasciato l’Italia. Il primo ha ricordato la sua esperienza sul campo, il secondo ha dovuto documentarsi su fatti storici e luoghi a lui sconosciuti. Eppure, al di là delle iperboli verbali e non solo, Salgari – e talvolta Gianella, laddove è subentrato – riesce a creare uno scenario del tutto verosimile. Descrive con acutezza i costumi delle diverse tribú, la differenza di comportamento tra orsi bianchi, neri o grigi, il modo di costruire le scialuppe indiane con scorze di betulla e resina,30 e inserisce le vicende in un contesto storico abbastanza rigoroso. Si narra cosí, nei dettagli, della battaglia di Brandywine dell’11 settembre 1777, scontro epocale che segue la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie, proclamata il l4 luglio dell’anno prima. Viene precisato che, un anno prima della nostra storia, il Congresso aveva stabilito nella seduta del 4 ottobre 1776 che la nuova confederazione prendesse il nome di Stati Uniti d’America.31 Un’occhiata ai libri di storia confermerà per l’anno 1777 l’offensiva del generale Burgoyne, sul lago Champlain, che ha un ruolo di non poco conto nella trama. Le vicende di Testa di Pietra sono allora situabili in quel 1777, all’inizio della guerra d’indipendenza americana (1775-1783), con le colonie guidate da Washington contro le truppe britanniche. Quanto ai personaggi delle Straordinarie avventure di Testa di Pietra, sono perlopiú tutti d’un pezzo. Testa di Pietra è una figura senza sfumature, pronto a sacrificarsi per i suoi amici, e a scagliarsi sui nemici senza complessi né rimorsi. Tutta la storia emana un manicheismo definitivo. Ci sono i buoni e i cattivi: i coraggiosi americani e i perfidi inglesi, il generoso baronetto e l’infame marchese, i bravi mandani e i crudeli irochesi. Certo, in questo modo le vicende sono piú chiare per il lettore. In generale i francesi sono qui gente perbene, e la francofilia si esprime tra l’altro con un omaggio a Lafayette.32 Se il colono Riberac mostra dei dubbi di coscienza, non c’è però reale tormento psicologico, ma solo esitazioni brevi, che contribuiscono a creare la suspense (un discorso a parte, tuttavia, lo si riserva piú avanti per Oxford). Una figura già piú fantasiosa è il gabbiere Piccolo Flocco, anche lui bretone, che non esita a prendere bonariamente in giro Testa di Pietra, e che s’innamora di una cameriera del castello. Nella Bohème italiana, Salgari ritrae il romanziere come un “lavoratore indemoniato”, che fa “stridere per delle ore intere la sua penna senza (…) un istante di riposo”,33 innamorato del tavolo che usa per scrivere, che ha licenziato “lavori noti o ignoti”, e soprattutto sprovvisto di denaro: “la sua tavola, un vero oggetto d’arte che io non avrei pagato trenta soldi e che lui non avrebbe ceduto per mille scudi”.34 Quando Salgari vergava l’ultimo romanzo, era ridotto in gravi difficoltà economiche, o almeno questo era quanto egli percepiva, come ne testimonia la commovente lettera all’editore Enrico

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Bemporad, in data 20 aprile 1911.35 Aveva ricevuto i pagamenti delle prime due parti del testo, e si suicidò prima d’incassare un acconto di trecento lire sulla terza rata, di lire seicento. Leggendo il romanzo, eppure, non si sente la disperazione di chi, fino al suicidio, ha continuato a scrivere, facendo probabilmente, come il romanziere della Bohème, “ondeggiare spaventosamente la sua tavola come si trovasse in piena tempesta”.36 La scrittura delle avventure di Testa di Pietra non basterà a far dimenticare una realtà ogni giorno piú crudele e, come scrive Fioraso, “l’identificazione con i propri sanguinosi eroi vinti e piangenti porterà Emilio a darsi l’ultima sconfitta squarciandosi il ventre sulle colline di Torino”.37 ii. Al di là di allusioni fugaci, di cifre, di spie – criptiche, almeno per il lettore in cerca d’intrattenimento – che sono d’altronde ben emerse nel corso di questo convegno, le macchine romanzesche architettate da Salgari non hanno lasciato trasparire niente di una condizione personale che con gli anni si faceva sempre piú difficile. Questa sua notevole capacità di distacco professionale deve aver raggiunto il culmine negli ultimi mesi di vita quando, pur in una situazione familiare vicina al collasso, riesce a consegnare le prime due parti di Straordinarie avventure di Testa di Pietra all’editore Bemporad, tra il 12 marzo e il 7 aprile 1911, prima di togliersi la vita la mattina del 25 aprile.38 I manoscritti di Salgari con il seguito del romanzo finiscono nelle mani di Lorenzo Chiosso (1877-1949), che, in una lettera a Enrico Bemporad del 24 agosto 1911, si offre di portare a compimento l’opera. Per motivi non precisati il compito sarà invece svolto, tra il settembre e il novembre del medesimo anno, dal già ricordato Aristide Marino Gianella, giornalista, scrittore e poeta, che di lí a qualche anno avrebbe ideato e curato “La realtà romanzesca”, ben nota rubrica de “La Domenica del Corriere”.39 È destinata a rimanere insoluta la questione se Gianella abbia basato il suo lavoro sulle carte salgariane, purtroppo poi andate disperse. Il fatto che sia stato tra i collaboratori piú assidui di “Per Terra e per Mare” (1904-1906), suggerisce come egli fosse comunque molto vicino a Salgari, direttore della rivista, perlomeno nelle tematiche affrontate. Le differenze tra le due parti del romanzo sono state quindi cercate sul piano formale e stilistico: “Non è necessario essere a conoscenza dell’intervento di Aristide Gianella per notare una profonda differenza di stile fra le due parti del testo. Gianella ha completato con molta abilità il romanzo salgariano ma il ritmo, i dialoghi appaiono molto diversi”.40 Considerando come probabile linea di demarcazione il decimo capitolo (Testa di Pietra sackem),41 si può in effetti notare nella seconda parte un maggiore utilizzo delle didascalie informative, come si è già accennato, che interrompono il flusso narrativo. Con il passare degli anni Salgari aveva imparato a tenere sotto controllo ogni tendenza digressiva per

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avvicinarsi a una “limpida misura del racconto” priva “di inutili indugi e dispersioni”.42 Per dare un saggio del mutamento del ritmo narrativo si possono confrontare due interruzioni dell’azione in favore di divagazioni sulle usanze indiane, simili nello scopo informativo ma assai diverse per estensione e scorrevolezza: Attraversarono parecchie macchie foltissime composte per la maggior parte di betulle delle cui scorze gl’indiani si servono per fabbricare dei bellissimi canotti resistenti anche ai salti delle rapide e finalmente si trovarono dinanzi al rifugio, che, come sappiamo, era capace di contenere anche venti persone.43 Cinque minuti dopo, venti guerrieri guidati dallo stregone giungevano a gran corsa, portando sulle spalle dei grossi rotoli di scorza di betulle e delle pertiche. Gl’indiani canadesi non fanno uso di tende di pelle (...). Piantano pochi pali, svolgono le pezze che si adattano in qualunque modo e si formano talvolta perfino delle vere casette che però sono sempre aperte da un lato, onde lasciar sfogare il fumo. I venti guerrieri in pochi minuti alzarono una specie di tettoia (...).44 160

Le pagine del romanzo attribuibili a Salgari sono fortemente incentrate sui dialoghi, caratteristica che va affievolendosi nella parte redatta da Gianella; probabilmente questo è però dovuto a un naturale sviluppo dell’intreccio, comportante tra le altre cose la progressiva perdita di centralità del gran chiacchierone Testa di Pietra, piú che a una mancata capacità o volontà di riproduzione del discorso diretto da parte di Gianella, che anzi dimostra all’occorrenza di saper ricreare efficacemente gli scambi di battute tra il mastro e Piccolo Flocco, e che contribuiscono a dare verve e vivacità all’intera trilogia.45 Addirittura, nella resa delle forme dialogiche, Gianella pare riprendere dal modello anche i difetti: nelle pagine iniziali del quindicesimo capitolo (I tre incogniti), che separano il primo grido lanciato in lontananza dal baronetto Mac-Lellan dalla sua fatidica apparizione, si ha uno scambio di battute tra protagonista e aiutante in mezzo all’infuriare della battaglia, cosí inverosimilmente lungo da confermare le osservazioni di Traversetti sull’illogicità e l’inattendibilità di certe “elaborate dissertazioni compiute in tempo fulmineo da personaggi sui quali incombe un imminente pericolo di morte”.46 Il dislivello – anche qualitativo – tra i due tipi di scrittura andrà quindi cercato piuttosto negli interstizi del testo, in piccoli dettagli come il frequente ricorso da parte di Gianella a macchinosi appelli al lettore, per introdurre ricapitolazioni o digressioni: “Strada facendo, sir William Mac-Lellan spiegò le cause della sua improvvisa comparsa sulle rive del Champlain, cause che noi riferiremo anche perché serviranno a delineare la situazione delle ostilità fra i due stati belligeranti”.47 Inoltre, forse per un senso d’insicurezza, Gianella

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abbozza una goffa excusatio non petita sull’eccessiva lunghezza della descrizione di uno scontro (“Frattanto attorno a questa scena, che si svolgeva molto piú rapidamente di quel che appaia dalla nostra narrazione”,48 ecc.) e interrompe la descrizione dell’importante duello tra i due fratelli antagonisti con una puntualizzazione della differenza tra corsari e pirati che, ormai sul finire della trilogia, suona quanto meno superflua: “Come siete asino, milord; confondete per vera ignoranza i corsari, che sono leali soldati, con i pirati che son dei volgari banditi d’acqua. Non sapete dunque la storia, nemmeno quella contemporanea?”.49 Passando al piano dei contenuti, l’eventuale fedeltà all’originale progetto salgariano non impedisce comunque a Gianella di apportare lievi variazioni all’inquadramento ideologico del romanzo, come sembra ad esempio di intuire a proposito della causa americana, certo sposata da Salgari nei precedenti romanzi, ma senza particolare enfasi.50 Nei capitoli che possiamo ritenere gianelliani, invece, nei confronti degli Stati Uniti si attribuisce a Testa di Pietra un sincero entusiasmo, che non trova riscontro altrove: “– Evviva l’America!... – tuonò allora il bretone al colmo dell’entusiasmo, mentre gli altri facevano eco”.51 In piú, nonostante in Salgari si sia potuta notare “la quasi totale assenza di un’inclinazione razzista”,52 nella prima parte del romanzo viene suggerito piú volte che l’inaffidabilità del traditore Davis derivi dal suo essere meticcio (“– E di Jor possiamo fidarci? / – Ora sí. Di Davis non risponderei, ma quello era un meticcio”),53 mentre nella seconda parte questa connotazione razziale del personaggio viene meno. La variazione di prospettiva piú significativa è certamente quella riservata agli indiani d’America, che, in linea con gli orientamenti dominanti dell’epoca, erano generalmente solo una massa indistinta di barbari assetati di sangue. Da quando Testa di Pietra diventa sackem della tribú dei mandani, invece, si apre alla possibilità che tra di essi possano trovarsi anche valorose individualità, come quella del sotto-sackem Macchia di Sangue. A fronte di definizioni stereotipate come “diavoli inferociti”,54 si sottolinea anche la loro insospettata lealtà (“– Hum!... fidatevi di questi uomini rossi. / – No, v’ingannate, sono piú leali di quello che credete”).55 Il classico schema dell’arrivano i nostri viene addirittura rovesciato nel finale di romanzo, quando all’equipaggio della Tuonante in difficoltà contro gli inglesi, giunge in soccorso Testa di Pietra proprio in compagnia degli indiani. La portata di questo stravolgimento di ruoli non va comunque sopravvalutata, se persino il canadese Jor, il personaggio del romanzo piú vicino alla causa dei nativi, riconosce in perfetta logica eurocentrica che la funzione dei mandani è in fondo solo quella di costituire un esercito disposto a sacrificarsi per Testa di Pietra (“Inoltre, questo esercito di selvaggi ci è utile ed è utile anche alla causa americana... È un po’ carne da cannone”).56 Parafrasando Eco a proposito di Ian Fleming, si potrebbe dire che Salgari e Gianella sono di volta in volta razzisti o antirazzisti per ragioni operative e narrative.57

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Di fronte al dubbio sull’effettivo e attento utilizzo delle carte salgariane da parte di Gianella, può apparire fuori luogo insistere ulteriormente su una logica di confronto tra autorialità. Volendosi limitare alle informazioni derivanti dal testo, emerge comunque tra i dati notevoli della seconda parte del romanzo l’ascesa nelle gerarchie d’importanza di un personaggio come Oxford, il segretario del marchese di Halifax. Dopo la sua cattura, egli pare avviato a diventare l’ennesimo ex-antagonista che nel corso della trilogia passa al fianco di Testa di Pietra, al pari dei due assiani, il carnefice di Boston, Jor, il trafficante Riberac ecc. Nel prosieguo del romanzo si fa però sempre piú chiaro come egli assuma un suo spessore peculiare, benché dapprima limitato al ruolo macchiettistico del pusillanime che si nasconde durante le battaglie. Il ritorno in scena di Mac-Lellan fornisce lo spunto per un salto di qualità nel livello di complessità del personaggio: il narratore suggerisce con un piccolo indizio come egli si senta offeso dai dubbi del baronetto sulla sincerità del suo passaggio dalla parte dei buoni (“il segretario del marchese d’Halifax si morse un labbro, mentre un lampo che nessuno vide gli passava negli occhi velati dalle ciglia”).58 Da quel momento in poi l’ambiguità della sua posizione è espressa sin troppo insistentemente per mezzo di simili giochi di sguardi, anche se il lettore viene abilmente tenuto nel dubbio sulle sue reali intenzioni: “L’accento di Oxford era sincero e fermo”.59 Incertezza del resto condivisa dal personaggio stesso, che solo all’ultimo momento si decide a tornare dalla parte del marchese, non solo opportunisticamente, perché in quel momento sembra essere quella vincente, ma anche per la genuina amarezza provata nel non sentirsi pienamente accettato nel campo opposto. La misura dell’alto grado di ambivalenza del personaggio è data non tanto dal suo ulteriore pentimento in punto di morte, quanto dalla confessione di aver sottratto a Testa di Pietra le due lettere poste al centro dell’intreccio, anche quando si era schierato sinceramente dalla sua parte: “in verità gettandomi dalla parte dei vostri nemici io ero sincero, perché mi vedevo abbandonato da Vostro Onore. Ma un giorno Testa di Pietra, facendo inavvertitamente un brusco movimento, lasciò cadere le due lettere preziose, e io, che le vidi, me ne impadronii di nascosto, pensando che potevano essermi utili”.60 È del tutto evidente come un personaggio di tale complessità esuli dalle distinzioni manichee del romanzo di genere, essendo infatti costruito su un ordito di reminiscenze manzoniane. Oxford ricorda in primo luogo Don Abbondio, del quale condivide la codardia verso i potenti e la spinta ad anteporre il proprio quieto vivere a ogni valutazione di tipo morale. Un breve monologo interiore del personaggio è mutuato quasi letteralmente dal celebre modello: Ah (…) in che razza di pasticci ho da trovarmi proprio io che non sono uomo di guerra. E tutto per colpa di quel maledetto marchese d’Halifax, mio ex-padrone, che potrebbe vivere tranquillo e beato,

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ed invece va a cercare dovunque il suo malanno, e quello degli altri. Che il diavolo se lo porti!...61 Quel matto birbone di Don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il piú felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri.62

Da semplice ignavo travolto dagli eventi, Oxford assumerà poi il ruolo di traditore, analogamente alla Gertrude de I promessi sposi, da cui sembra infatti derivare l’epiteto di “sciagurata”, volto naturalmente al maschile (“Lo sciagurato segretario si contorceva al suolo nel suo sangue, rantolando in modo penosissimo”).63 Un carattere cosí sfaccettato risulta incomprensibile a un personaggio certo ben delineato, ma in ultima istanza monodimensionale come Testa di Pietra, che non a caso viene meno alla sua infallibilità proprio nel fidarsi troppo della conversione di Oxford. Questa défaillance è un segnale della progressiva emarginazione di Testa di Pietra dal centro dell’intreccio. Il personaggio aveva acquisito il diritto di essere il protagonista anche nominale del terzo romanzo, dopo esser stato ben piú che un semplice comprimario nei primi due,64 ma nell’ultima parte della trilogia deve fare i conti col ritorno del baronetto, introdotto gloriosamente con un’analogia sin troppo scoperta: “– Infine... silenzio nei ranghi e tutti sull’attenti, poiché il baronetto William Mac-Lellan, nostro comandante, è qui!... / Albeggiava”.65 In ottica narratologica, la prima parte del romanzo ha natura centrifuga. L’evanescenza dello scopo manifesto dell’azione (la consegna delle due lettere al forte di Ticonderoga, oltretutto, diventa ben presto inutile) lascia via libera alla tendenza digressiva, già suggerita nel riferimento del titolo a una pluralità indistinta. Testa di Pietra diventa strumento malgré soi di questa vocazione alla peripezia, della preminenza dei tomasevkijani motivi liberi;66 la dilazione rispetto all’azione principale è simboleggiata dalla sua costrizione a muoversi nei boschi intorno al lago, senza potersi ricongiungere con la nave che è invece il suo habitat (“io sto bene soltanto fra pezzi d’artiglieria, alberi di trinchetto e di maestra, sartie e paterazzi e odor di catrame e di polvere”).67 Nell’ultima parte urge però arrivare a una risoluzione del tema conduttore dell’intera trilogia, cioè la lotta tra i due fratelli, decisiva resa dei conti che avverrà in assenza di Testa di Pietra, il quale scompare nel diciannovesimo capitolo (Una visita importuna) col pretesto non troppo convincente della ricerca del trafficante Riberac, e ricompare solo nelle ultime pagine.68 Il ruolo di “‘mente’ del romanzo, dell’azione”69 passa piuttosto al barone di Clairmont, col figlio Enrico che sostituisce Piccolo Flocco nella funzione di aiutante.70 Caduta la trama storica di contorno, il climax del romanzo viene a coincidere con la risoluzione definitiva della questione privata, che

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pareva essersi chiusa col matrimonio tra William e Mary alla fine della Crociera della Tuonante. La Lombardo scrive che a differenza di Gianella, Salgari, “probabilmente, non avrebbe fatto sporcare di sangue fraterno le mani del suo eroe”;71 in realtà, la morte dell’antagonista pare essere l’unica possibilità di scrivere la parola fine all’intreccio della trilogia. L’ennesimo duello tra i due rivali è un esito inevitabile, largamente preannunciato sin dai primi capitoli, col marchese che cerca il baronetto “per restituirgli i due colpi di spada che ha ricevuto a Boston prima ed all’Isola Lunga piú tardi”,72 e lo trova come se fosse spinto dal fato: “– Mio fratello... il mio peggior nemico qui, sotto lo stesso tetto che ospita me e la mia Mary!... – disse MacLellan tutto sconvolto. – Ma è dunque il destino che lo vuole?...”.73 Esemplare figura salgariana – e invero già byroniana – di eroe tragico e tormentato, il baronetto è conscio che, pur non desiderandolo, sarà costretto a cercare di uccidere il fratello: “Ah, è ben triste la sorte che vuole mantenere un odio sí mortale fra due uomini che han nelle vene lo stesso sangue (...). / Ancora una volta i nostri ferri cercheranno la via delle nostre carni per ferirla a morte. Ma sarà l’ultima: uno solo dovrà uscir vivo da questa lotta selvaggia, uno solo”.74 Credendolo morto nell’esplosione del castello, William lo piange comunque dimostrando tutta la sua nobiltà d’animo (“Ed ora dinanzi al suo tragico destino, sento tutto il mio rancore sciogliersi come neve al raggio del sole, dileguare rapido e intenerirsi nel perdono, nel rammarico, nel pianto”).75 Ma il terribile congedo del marchese di Halifax, “anima bassa e chiusa ad ogni sentimento nobile”,76 che spira al modo di Capaneo, maledicendo tutti (“Ora posso morire, giacché cosí ha voluto il mio infelice destino... Ma... muoio... male... maledicendo a tutti... Che possano essere... infelici in... eterno... Ah!...”),77 non lascia dubbi sulla necessità della sua morte per garantire ai protagonisti quel futuro sereno prospettato da un lieto fine fedele ai canoni di genere, tratto in comune tra il “sollievo dell’armonia riconquistata”,78 tipico degli explicit dei cicli maggiori di Salgari, e il “carattere decisamente ottimistico” delle storie di Gianella.79

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Dei due paragrafi di cui si compone il presente intervento, il primo è opera di Willy Burguet, il secondo di Alessandro Viti. Salgari, Emilio, Straordinarie avventure di Testa di Pietra, Fabbri, Milano 2003, pp. 34 e 33. Per le citazioni, in questo intervento, si farà sempre riferimento a questa edizione. Il volume, postumo, viene per la prima volta pubblicato dall’editore Bemporad di Firenze, nel 1915. Ivi, p. 51.

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Ivi, p. 74. Ibid. Si legge inoltre: “voi siete francesi ed io devo ben pagare la cattiva azione che ho commessa insieme ai canadesi di Davis. Ho delle bellissime carabine inglesi ed anche delle pistole dal tiro assai lungo. Metto tutto a vostra disposizione” (ivi, p. 54). Quando Testa di Pietra afferma: “Signor Riberac, conto sulla vostra lealtà”, il canadese risponde: “La Francia aiuta gli americani e noi, canadesi, ossia francesi, cercheremo di fare

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altrettanto. Tenetevi tranquillo e pienamente rassicurato delle mie buone intenzioni” (ivi, p. 56). Riberac in seguito ribadisce: “Io sono canadese che è quanto dire francese e non già inglese. Oggi per la libertà americana” (ivi, p. 67). Ivi, p. 70. Ivi, pp. 81 e 82. “Si vide allora una cosa assolutamente straordinaria. I cinque orsi, udendo quelle battute dell’istrumento, si erano messi a danzare intorno all’indiano, facendo gravemente dei grandi inchini. / Testa di Pietra era scoppiato in una fragorosa risata. / – (…) Guardate come ballano quei bestioni!... Ci tengono alla musica (…). / L’indiano aveva mandato un urlo di furore e si era slanciato risolutamente innanzi, impugnando la scure di guerra. / – Cani di visi pallidi!... – urlò. – Voi mi avete stregate le mie bestie!...” (ivi, p. 83). “Si avvicinò [Testa di Pietra] a uno, al piú gigantesco, gli sollevò l’enorme testa e lo fissò intensamente. / – Che cosa fai? – chiese Piccolo Flocco. – Vuoi farti strappare un braccio? / – Voglio provare se il mio sguardo è cosí potente come quello di mio nonno. Non sai tu che quel bravo marinaio, a Jean Mayer durante uno svernamento fra i ghiacci, riuscí ad ammaestrare non so se millecinquecento o duemila orsi bianchi? / – Solamente cogli occhi? / – E null’altro. Qualche cosa mio nonno deve aver trasmesso a mio padre della strana potenza dei suoi sguardi, ed essendo io figlio di mio padre avevo pure il diritto… / – Di diventare un famoso domatore invece che un famoso cannoniere. / – Toh!... Guarda come questo bestione cerca di abbracciarmi e di leccarmi. Io l’ho affascinato di colpo. Credo ora alla storia di mio nonno che ha fatto tanto chiasso a Brest ed a Caneale” (ivi, p. 84). Ivi, p. 87. La morte del capo indiano è piuttosto granguignolesca e, oltre ai resoconti di periodici quali il “Giornale Illustrato dei Viaggi”, ci riporta forse al Salgari delle origini, e delle appendici: “L’Orso delle Caverne, quantunque avesse avuto il cranio spaccato, era rimasto tuttavia ancora in piedi. Un largo getto di sangue gli scendeva sul volto, misto a brani di materia cerebrale” (ivi, p. 108). Ibid. Ivi, p. 113. Lo scontro tra mandani e irochesi è una “sanguinosa festa” (ivi, p. 147), anche questa degna del piú truculento reportage di viaggio: “Il sangue correva a rigagnoli (…); morti e feriti giacevano ovunque. / Qualche guerriero, dopo aver atterrato il suo avversario e averlo finito con un ultimo colpo di tomahawak, inebbriato dalla sua vittoria, dalla vista del sangue, dall’esaltazione selvaggia della battaglia, s’accaniva sul cadavere, scalpandolo, aprendogli il petto per estrarne il cuore fumante e levarlo in alto come un trofeo” (ivi, p. 150). Ivi, p. 160. Ivi, p. 171. Id., La Bohème italiana, Edizioni e/o, Roma 1993, pp. 130 e 99. Ivi, p. 103. Id., Straordinarie cit., p. 134. Piú avanti, ci si domanda sul conto di Davis, che sembra non

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morire mai: “È dunque il demonio in carne e ossa?” (ivi, p. 146). Si trova: “una voce profonda e forte, che pareva scendere dal cielo, gridò: / ‘Io sono il Grande Spirito, al quale tutti gl’indiani devono obbedienza. Tornino indietro i guerrieri irochesi e chiamino a raccolta la loro tribú, poiché molti sono i pericoli che la minacciano. (…) Hug!... Hug!... Il Grande Spirito ha parlato’” (ivi, pp. 135-136). “Una violenta esclamazione gli sfuggí d’un tratto dalle labbra: / – Per centomila diavoli!... – gridò [Davis] – Cosa sono quelle due masse nere che s’avanzano? / Infatti due esseri informi, mostruosi, nerastri, si facevano largo tra gl’indiani, correndo a sbalzi sulla neve in direzione di Davis, e trascinando ciascuno un oggetto che a tratti, urtando in qualche ostacolo duro, mandava un suono prolungato, profondo, vibrante. / Appena quelle due masse semoventi ebbero raggiunto Davis, s’arrestarono e si sollevarono ritte sulla neve, emettendo delle voci rauche, ferine. / (…) – Degli orsi!... – balbettò alzando con atto piú macchinale che cosciente la scure ond’era armato. – Degli orsi, e per di piú recanti al collo dei tamburi. Per le corna di Belzebú, io credo proprio di sognare” (ivi, p. 147). Todorov, Tzvetan, Introduction à la littérature fantastique, Éditions du Seuil, Paris 1970, passim. Salgari, Straordinarie cit., p. 25. Ivi, p. 56. Ivi, p. 180. Ivi, p. 29. Ivi, p. 138. Fioraso, Roberto, Sangue, follia e lacrime: dal romanzo di appendice al Corsaro Nero, in Galli Mastrodonato, Paola I. (a cura di), Il tesoro di Emilio. Omaggio a Salgari, Bacchilega Editore, Imola 2008, p. 89. Sono, in ordine cronologico: Le Pays des fourrures (1873), ambientato nel 1859, dove si raccontano le inverosimili avventure di una spedizione inglese tra i ghiacci canadesi; Famille-sans-nom (1889), a proposito delle ribellioni del Québec negli anni 1837-1838; Le Volcan d’or (1906), che tratta della corsa all’oro del 1896. Ancor prima che in volume, l’editore Hetzel di Parigi faceva comparire i romanzi a puntate, sul “Magasin d’Éducation et de Récréation. Journal de Toute la Famille”. Rispettivamente: 20 settembre 1872–15 dicembre 1873; 1° gennaio–1° dicembre 1889; 1° gennaio–15 dicembre 1906. Karl Friedrich May è uno degli scrittori tedeschi piú venduti nel mondo, tra l’altro per i suoi romanzi ambientati nel Far West, aventi per eroi il bianco Old Shatterhand e l’Apache Winnetou. La sua opera ha ispirato molti film. Cfr. Salgari, Straordinarie cit., p. 118. Cfr. ivi, p. 169. Cfr. ivi, p. 167. Nonché, ad essere precisi, al conte Kazimierz Pulaski, “eroico difensore della libertà della sua patria, la sventurata Polonia”. Id., La Bohème cit., p. 98. Ivi, pp. 98-99. Si utilizza come fonte Foni, Fabrizio e Gallo, Claudio, I nuovi corsari del ciclo delle Bermude: la rivincita (non solo morale) dei caratteri secondari,

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in Galli Mastrodonato, Il tesoro cit., pp. 97112:101. Salgari, La Bohème cit., p. 103. Fioraso, Sangue, follia, lacrime cit., p. 89. Per le informazioni sulla vicenda editoriale si rimanda a Foni e Gallo, I nuovi corsari cit., pp. 97103. Assai utile poi il piú ampio scambio di lettere tra autore e editore reperibile in Gallo, Claudio e Lombardo, Caterina, Emilio Salgari ed Enrico Bemporad. Appunti e documenti riguardanti il carteggio storico della casa editrice fiorentina, in “Bollettino della Biblioteca Civica di Verona”, Primavera 2000–Autunno 2001, n. 5, pp. 203-291. Cfr. in proposito Mariani Ciampicacigli, Franca, «Realtà romanzesca» nella «Domenica del Corriere» (1922-1941), Longo, Ravenna, 1976. Benché il saggio analizzi i testi a partire dal 1922, in realtà la rubrica ebbe origine nel 1917. Lombardo, Caterina, Introduzione. L’ultima avventura, in Salgari, Straordinarie cit., p. 6. Considerazione cui si perviene in seguito a uno scambio di e-mail con Claudio Gallo, che pertanto ringraziamo. Zaccaria, Giuseppe, La fabbrica del romanzo (1861-1914), Slatkine, Genève-Paris 1984, p. 167. Salgari, Straordinarie cit., p. 65. Ivi, p. 109. Si riporta un passo, a titolo esemplificativo: “– Mozzo del Poulguen, metti fuori dalle coltri un’orecchia e te la farò diventar lunga come quella di un asino. / – Cioè... come la vostra. / E il gabbiere scoppiò a ridere, contento della battuta. Testa di Pietra fece udire un sordo brontolío. / – Brigante, tu mi manchi di rispetto perché sai che ti voglio troppo bene – soggiunse poi. – Ma io mi vendicherò lo stesso” (ivi, p. 180). Traversetti, Bruno, Introduzione a Salgari, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 76. Salgari, Straordinarie cit., p. 166. Ivi, p. 149. Ivi, p. 202. Si ricordino del resto le dure parole che, ne La capitana dell’Yucatan (Donath, Genova 1899), Salgari aveva riservato a ciò che gli Stati Uniti sarebbero poi diventati, secondo lui, e cioè una nazione senza ideali governata dalla cinica logica mercantile. Salgari, Straordinarie cit., p. 167. Traversetti, Introduzione cit., p. 49. Salgari, Straordinarie cit., p. 54. Ivi, p. 129. Ivi, p. 111. Ivi, p. 165. Eco, Umberto, Le strutture narrative in Fleming, in

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Barthes, Roland, Greimas, Algirdas J., Bremond, Claude et al., L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969, pp. 123-162: p. 148. Il volume di Bompiani propone, in italiano, i testi apparsi in “Communications”, 1966, 2, n. 8 (L’analyse structurale du récit), dove l’intervento di Eco è presente alle pp. 77-93, come James Bond: une combinatoire narrative. Originariamente in Del Buono, Oreste e Eco, Umberto (a cura di), Il caso Bond. Le origini, la natura, gli effetti del fenomeno 007, Bompiani, Milano 1965, pp. 73-122. Salgari, Straordinarie cit., p. 164. Ivi, p. 187. Ivi, p. 198. Ivi, p. 143. Manzoni, Alessandro, I Promessi Sposi (1840), in Id., I romanzi, 3 voll., saggio introduttivo, revisione del testo critico e commento a cura di Salvatore Silvano Nigro, Mondadori, Milano 2002, vol. III, p. 443. Salgari, Straordinarie cit., p. 199. Cfr. Foni e Gallo, I nuovi corsari cit., p. 111. Salgari, Straordinarie cit., p. 156. Tomasˇevskij, Boris, Sjuzˇetnoe Postroenie, in Id., Teorija literatury, Politika, Mosca-Leningrado 1928, pp. 131-165 (trad. it. La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, a cura di Tzvetan Todorov, prefazione di Roman Jakobson, Einaudi, Torino 1968, pp. 305-350). “Chiamiamo legati i motivi che non si possono omettere, liberi quelli eliminabili senza danno per l’integrità della connessione causale-temporale degli avvenimenti” (ivi, p. 316, corsivo nel testo) . Salgari, Straordinarie cit., p. 183. Una certa insicurezza sulle gerarchie dei personaggi è testimoniata anche dal fatto che il capitolo del duello decisivo tra i fratelli, il ventitreesimo, è intitolato Il ritorno di Testa di Pietra, con riferimento effettivo solo alle ultime righe. Foni e Gallo, I nuovi corsari cit., p. 111. Anche Piccolo Flocco infatti perde affidabilità nel momento in cui si lascia sfuggire Oxford per fare la corte alla cameriera Lisetta. Lombardo, Introduzione cit., p. 6. Salgari, Straordinarie cit., p. 58. Ivi, p. 189. Ivi, p. 159. Ivi, p. 213. Ivi, p. 220. Ibid. Traversetti, Introduzione cit., p. 31. Pozzo, Felice, Emilio Salgari e dintorni, premessa di Antonio Palermo, Liguori, Napoli 2000, p. 181.

Appendice i

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I Predoni del Gran Deserto (1911), vicenda di “vita eccentrica” Mario Tropea

Piú che di un romanzo, si tratta, in realtà, di un racconto lungo – di non piú di quaranta pagine, comunque, in sette capitoli e una breve Conclusione, al modo di Salgari – che narra di un viaggio, questa volta in aerostato, e di una stasi, un soggiorno nel Gran Deserto (il deserto per eccellenza, cioè il Sahara), in cui il protagonista, William Fromster, un americano ricchissimo, come da cliché, e malato di spleen, di noia esistenziale che lo attacca con ricorrenze frequenti, era rocambolescamente atterrato; restandovi, prima per forza di cose, fatto prigioniero com’è dai Tuareg ( i “Predoni del Gran Deserto” del titolo, appunto), poi sempre piú convinto e entusiasta, avendo accettato di sposare la figlia del capo, Afza, “la piú bella ragazza del deserto”,1 e chiamando anzi dall’Europa l’amico Ernesto, la vecchia domestica di lui, e anche Puff, l’affezionatissimo cane di Terranova. Uno dei tanti riassunti sintetici, questo, che si potrebbero fare di questa storia edificante, svolta qui sul pedale comico piú che su quello drammatico (melodrammatico) piú usuale in Salgari, e che può essere un riassunto indiziario, volto a scoprire, cioè, la vena piú sotterranea che, globalmente, sembra legittimo andare a rintracciare, al di là anche delle riuscite piú o meno compiute a volte, in romanzi, racconti, narrazioni lunghe o brevi dell’opera di Emilio Salgari. Si tratta, a dirla immediatamente questa linea che si può scoprire anche sotto l’aspetto sempre presente e piú palese del racconto d’avventura, dell’ennesimo incontro di popoli e di razze, di usi e costumi, di tipi e personaggi, percorsi e itinerari, tra Oriente e Occidente; un incontro/scontro di civiltà, insomma, le quali si affrontavano, ripeto, in modo globale e planetario in quella che è stata definita l’età espansiva dello sviluppo commerciale, tecnologico e del progresso, delle scoperte scientifiche e di nuove terre. Storicamente e politicamente l’età del colonialismo e dell’imperialismo e dei riflessi osmotici, degli interscambi che producevano questi conflitti e questi incontri. Sembra un troppo largo orizzonte di implicazione per un racconto di peripezie e avventure e di non grande portata come questo, ma si ribadisce che il discorso va valutato in blocco riportandolo comunque, dentro lo sfondo generale, al significato che ha l’opera salgariana nel suo complesso. William Fromster, dunque, il personaggio principale della vicenda, incontra nell’oasi in cui è atterrato cosí fortunosamente un tipo non meno bizzarro di lui: John Weddel di Edimburgo, che se ne sta –

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altro bianco in mezzo al deserto, magrissimo e con la barba nera e arruffata, senza giacca e in sole mutande, per giunta lacere, un compasso e un ramo d’albero appuntito in mano, e arrivato lí da qualche tempo – a studiare “l’effettuazione d’un progetto grandioso destinato ad immortalare la fine di questo secolo”, e cioè la “trasformazione di questo grande deserto in un immenso lago”, come dice allo stupito, prima ilare, e poi sempre piú interessato americano che lo ascolta.2 “Tutto è possibile in questa fine di secolo”, continua Weddel, dicendo che “[g]ià Roudaire e Lesseps hanno fatto degli studi, ed hanno dimostrato che con duecento milioni ed in dieci anni si potrebbe realizzare la cosa. I francesi non hanno accettato l’idea: ebbene la facciamo nostra e spetterà all’Inghilterra l’onore di aver vinto la natura in quest’ultima e grandiosa battaglia”.3 E qui viene fuori la parte d’epoca, per cosí dire, quella positivistica e didattica di informazione, verniana, immancabile in Salgari, con le notizie scientifiche, a suo modo, che il narratore si sente in dovere di intercalare, come quinte di un sipario, o come pezze d’appoggio costituite, nello svolgimento dell’azione. Per esempio quando parla delle “aloè somiglianti a lance gigantesche emergenti da un fascio di foglie larghe, acute, e rigide”; o dei “gruppi di fichi d’India, chiamati dagli indigeni kermus del Inde, con grandi foglie irte di leggerissimi pungiglioni”; delle bacche “chiamate nàbak e mangiabili, quantunque siano assai insipide”; o dei “macchioni di segúl e di alfeh, graminacee lunghe, dure, amare che perfino i cammelli disdegnano”; o delle “superbe camerope a ventaglio (camerope humilis) col fusto cilindrico, del diametro di quindici o venti centimetri, nudo verso la base, ma piú sopra coperto di squame regolari e coronato alla sommità d’un magnifico ciuffo di trenta a quaranta foglie piumate” ecc.; o quando parla del Sahara che, “pur essendo sabbioso nella maggior parte, è ricco d’acqua nel sottosuolo, ha numerosi posti dove crescono ubertosi pascoli e dove allevansi milioni di pecore e di capre (…) I Tuareg hanno assicurato al signor Duvegrir, che sulle cime dell’Haggar la neve si conserva per alcuni mesi dell’anno, e che in alcune oasi degli altipiani, durante la stagione invernale, si forma qualche volta perfino il ghiaccio!...”.4 In fondo, tutte quelle notizie che si trovano nei suoi libri, e qui attinenti alle oasi e alla abitabilità e alla eventuale estensione di colture nel deserto, in questo caso, e che si possono rinvenire pari pari, con la stesse parole, per esempio nel libro che subito viene in mente per confronto, anche al solo titolo, I Predoni del Sahara, del 1903, su cui torneremo (e per le quali, come si è accennato, Salgari attingeva al “Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare” o al “Tour du Monde”, che costituivano la fonte perpetua di informazione e di incentivo e stimolo alla sua vena narrativa e affabulatoria). L’altra parte d’epoca è quando, in questa storia, non tardano ad arrivare i predoni del Sahara, o del Gran Deserto che, avendo scorto il pallone scendere, vengono a vedere, come dice ironicamente lo

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scozzese “se si tratta della luna o del sole”,5 e a far gesti di sorpresa e di spavento al cospetto di quell’uccello straordinario, come credono, che emana potenti scosse elettriche al toccarne i fili, e dalla voce meravigliosa, dato che William ha messo in opera, per difendersi, il fonografo che ha in cabina, con “pezzi dell’Aida, dell’Ernani, della Traviata, ottenendo un successo colossale” tra gli incuriositi e poi sbalorditi predoni: “Tutti volevano ascoltare e si disputavano i tubi a spinte ed a calci, minacciando di frantumare l’istrumento. / – Basta – disse William, vedendo che stavano per porre mano alle armi. – L’uccello è stanco di cantare, e se va in collera vi ucciderà tutti. / Quella minaccia bastò per calmare anche i piú furiosi”.6 Né duole molto dire, tornando a quella linea del confronto di razze che si è indicata, che qui anche in Salgari ci sono i riflessi, come non poteva non essere, in fondo, dell’ottica dell’uomo bianco in confronto dello stupore del buon selvaggio (siano pure essi i bellicosi Tuareg) di fronte a quel prodotto (pallone aerostatico o fonografo, o quant’altro…) del superiore ingegno dell’uomo della civiltà. A parte i facili risvolti corrivi che il tono generale scelto da Salgari imponeva, per cosí dire, a tutta l’impostazione del racconto, sembrerebbe incongruo che egli non sfruttasse questo espediente narrativamente, popolarmente suggestivo, ad allettare l’ottica o, come si dice con facile divulgazione oggi, l’orizzonte d’attesa del suo pubblico (e del resto, quello scegliere brani d’opera cosí cari dei prediletti melodrammi, mostra piú che una spia di quella consonanza che rese Salgari autore cosí diffuso presso il pubblico piú ampio dei lettori medi del suo tempo e per vari decenni ancora dopo la sua morte).7 Ma la rivincita, per cosí dire, se la prende il capo Tuareg (lo scièk, come conviene meglio chiamarlo con le stesse insistite ricorrenze di ripetitività care a Salgari), non solo – che sarebbe legittima preda di guerra, in fondo – quando ordina di portare al suo duar (accampamento) il pallone ormai semisgonfiato di William,8 ma quando, con inopinata proposta (come del resto sottolinea il titolo del capitolo stesso, Una strana proposta, appunto) impone senza tanti complimenti al titubante, oltre che sorpreso William, di prendere in sposa sua figlia. E William, sempre piú splenetico per l’occasione, e in odore di misoginia, se non proprio di antifemminismo fino allora, non può su due piedi che porre un pur temporaneo rifiuto (“L’ho sempre detto io che le donne dovevano farmi disperare”, esclama).9 E prima, quando è sul pallone in preda all’uragano, in fondo piú divertito che spaventato da quella avventura che lo porta lontano dalla sua miss Odowna, la fidanzata bianca in patria, un po’ opprimente e persecutoria, e solo rammaricato per l’amico Ernesto, aveva esclamato nel suo linguaggio pittoresco e, secondo convenzione, sufficientemente sgrammaticato, dato che è un americano che parla una lingua del vecchio continente (ma quale?, ci si chiede: se è l’inglese, dovrebbe saperlo; e comunque, qui, l’americano parla con se stesso; sappiamo tuttavia, come ci informa lo stesso Salgari, che conosce la

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lingua araba con cui si rivolge al capo tuareg):10 “Se io aver saputo prima questo, io non avrei mai avuto spleen e mia milza non aver mai sofferto!... Se non fosse per Ernesto, io continuerei viaggio sempre, e miss Odowna aspettare ancora molto tempo, perché io sento non amare molto le donne ed essere guarito dalla mia passione”.11 Non sa ancora, il fortunato eccentrico americano, che Afza, la nuova promessa sposa araba o tuareg, la figlia del capo, suona meravigliosamente la tiorba, sa preparare eccellentemente il medjum, “pasta dolce, ma inebbriante (…) di burro, di miele e di foglie di kif dalle quali si estrae l’hascisc”, come spiega ancora l’autore, che gli “farà sognare dolcezze sconfinate”; “sa ricamare i tappeti meglio di tutte” e, come abbiamo detto, è “la piú bella ragazza del deserto”;12 e nessuna racconta meglio di lei le storie del Sahara: alcune maliose e feroci, astute e sapienziali del profeta e di costumi e vendette e ospitalità orientali che la affascinante fanciulla narra al sempre piú interessato, e anzi rapito William, nel capitolo appunto intitolato Le leggende del Sahara.13 E siamo (con la descrizione di Afza, o con quella dell’interno della tenda dove sono “accumulati alla rinfusa tappeti, balle di mercanzia, vesti d’ogni specie, arabe, od europee, od algerine (…) denti d’elefante rubati certamente alle carovane provenienti da Tombuctu, penne di struzzo, chincaglierie, armi d’ogni specie”;14 o con qualche scorcio dell’oasi e del deserto), nel pieno di quell’altro aspetto d’epoca che – con quello dello scientismo positivista sopra rilevato – conviene sottolineare: cioè l’esotismo (orientalista, qui, nel caso) immancabile nei libri di Salgari.15 E che era uno degli aspetti e delle tendenze, e quasi una moda diventato, nel gusto del tempo, con i riflessi che se ne avevano, anche nelle suppellettili, negli arredamenti, e, naturalmente, in arte e in letteratura, nella cultura dell’età del colonialismo, e affermatosi per lo meno dalla conquista dell’Egitto da parte di Napoleone in poi (e si possono fare nomi grandi e medi di questa tendenza, dal Delacroix, per esempio, degli schizzi e disegni del deserto e di leoni, o delle grandi scene di lussuria dei quadri come La Mort de Sardanapale; a Ingres con i suoi bagni turchi e odalische, fino alle vere e proprie carovane archeologiche e dei vedutisti del deserto dei pittori orientalisti, appunto, specialmente in Egitto e sulle coste della Barberia). E, per riportarlo al piede di casa nostra, si può ricordare Marocco (1876), il libro di Edmondo De Amicis, che i Treves avevano mandato lí come descrittore e reporter, per cosí dire, con le belle illustrazioni di Stefano Ussi e Cesare Biseo, anch’essi al seguito, e il quale ci interessa specialmente perché è una delle fonti di Salgari nei romanzi africani (di quest’Africa della fascia settentrionale, piú propriamente), da La Favorita del Mahdi, primo libro africano, se non il primo in assoluto di Salgari;16 a I Predoni del Sahara;17 a Sull’Atlante,18 e fino a I Briganti del Riff,19 ultimo volume pubblicato; ai Predoni del Gran Deserto, naturalmente (e c’è anche I Pirati del Riff, un racconto databile ai primi del Novecento, di quelli stampati dall’editore Bion-

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do di Palermo, che va messo ancora in conto in questa trafila).20 Insomma, tutta una serie di temi e di ricorrenze, peraltro ovvi in narrazioni che descrivono usi e costumi orientali, che non potevano mancare e che si ripresentano nei libri africani di Salgari nominati. Primo fra tutti il Simun (qui, nel capitolo Il Simun del Sahara; nei capitoli tredicesimo e quattordicesimo, intitolati, rispettivamente, Gli uragani del Sahara e Sepolti dalle sabbie, nei Predoni del Sahara). Ancora: il numero dei morti a causa di questo vento, flagello del deserto (“di milleduecento persone e di tremila cammelli”, qua, con le solite iperboli enfatiche, per una carovana “partita da Tripoli”;21 e “di duemila persone e di milleottocento animali fra cammelli e asini” nei Predoni del Sahara);22 le discussioni di riferimento scientifico (botanico-geografico-ambientale) come l’idea del deserto coltivabile e serbatoio di acque, che sopra abbiamo visto tra William Fromster e John Weddel, che riconducono, piú in sintesi, a quelle analoghe tra Ben Nartico e il marchese di Sartena nei Predoni del Sahara; la composizione (e preparazione) dei cibi, specialmente il kuskussú (come è qui la grafia);23 kuskussú nei Predoni del Sahara;24 cuscussú in Sull’Atlante;25 la preparazione del caffè: “Non lo macinano, ma lo pestano fra due sassi, mescolandovi un’abbondante porzione d’ambra grigia per profumarlo. / Usano servirlo in una vecchia pentola di ferro od in una gamella da soldato, ma lo versano entro delle tazze conservate gelosamente, vecchie di parecchi secoli e perciò screpolate, coi margini rotti, od ammaccate in dieci luoghi se sono di stagno invece di essere di terra o di porcellana”.26 Particolare, questo delle tazzine scompagnate e dell’ambra grigia immessa nel caffè, cui Salgari pare essere specialmente affezionato se lo riporta anche con quasi le identiche parole nella Favorita del Mahdi o nei Predoni del Sahara.27 E ancora si parla del massacro della spedizione Flatters che,28 nei Predoni del Sahara, è, anzi, il motivo tematico ricorrente e il movente della trama. Ci sono le “fantasie”, cioè quelle specie di parate, di balli figurati, di finte battaglie dei cavalieri berberi nordafricani che troviamo, ancora, nei Predoni del Sahara e che ricordiamo, come il particolare delle tazzine, perché il tutto deriva, oltre che da certi spunti del “Giornale Illustrato dei Viaggi” e dal “Tour du Monde”, ancora da Marocco di De Amicis.29 Ma, piú, interessa qui il ritratto di Afza, la figlia del capo, forzata promessa sposa di William, fino a questo punto: una ragazza di quindici anni, di taglia svelta, elegante, flessuosa e di una bellezza veramente sorprendente, quantunque avesse la carnagione leggermente bronzina, con certi riflessi d’oro antico. Aveva i capelli lunghi, neri, raccolti in due grosse trecce adorne di monete d’oro e di perle di vetro, gli occhi tagliati a mandorla velati da lunghe sopracciglia, languidi, vellutati (…) un vero tipo di quella razza moresca conservatasi pura ormai solamente nel deserto di Sahara, e sui confini del Marocco e dell’Algeria.

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Un fazzoletto di seta rossa le avvolgeva graziosamente il capo come un pezzuola, adorno di monetucce d’oro; una veste lunga, con maniche larghe e cadenti, le copriva il corpo, stretta da una larga cintura di seta ricamata, lasciando vedere i calzoncini che scendevano fino alle babbucce di pelle gialla a punta rialzata.30

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Afza, per cui abbiamo citato abbondantemente per confermare, se ce ne fosse bisogno, quel costume orientalista; perché è abbastanza ricalcata da Marocco; e perché diventa, con lo stesso nome e connotati, l’eroina, una protagonista, di Sull’Atlante, tanto da meritarsi una splendida copertina di Alberto Della Valle, con lo jatagan semisnudato, pronta alla vendetta sul comandante del bled che ha imprigionato il suo sposo, il conte ungherese Michele Cernazé, e anch’essa figlia di un capo tuareg (scièk, come curiosamente scrive Salgari al posto di sceik = sceicco nei Predoni del Gran Deserto,31 e nella Favorita del Mahdi),32 che sposa, per tornare a quell’intreccio di razze sopra accennato, un europeo bianco, quel magnate finito, per le vicende della vita, nella Legione Straniera; come Esther, la bella ebrea sorella di Ben Nartico, sposerà il sardo Marchese di Sartena nei Predoni del Sahara. E a questo punto bisogna dire, come andava detto dall’inizio, forse, in risposta alla domanda un po’ divertita un po’ inquietante che è la linea del convegno, che siamo, con I Predoni del Gran Deserto, non un po’ prima della fine, ma nel 1896, cioè in un periodo piú centrale, dato che questo breve romanzo, o racconto lungo, comparve a puntate su “Il Novelliere Illustrato” dell’editore Speirani, tra il 29 novembre e il 27 dicembre di quell’anno, prima di essere pubblicato dalla editrice “Urania” dei fratelli Ciolfi, a Napoli, nel 1911. Tirando la corda da questa parte, e al modo un po’ iperbolico salgariano, né solo per amor di causa, potrei dire che quindi si tratta di un romanzo centrale, non solo cronologicamente, e non finale. E centrale per vari temi nodali che vi si intrecciano: per quel tema delle invenzioni attualizzanti delle macchine volanti, appunto l’aerostato, qua, con cui William Fromster, spezzatosi il cavo che lo teneva a terra a causa di un formidabile uragano, arriva dalla Francia, sorvolando il Mediterraneo, nell’oasi del deserto da cui abbiamo iniziato e da cui inizia il romanzo. Una macchina volante e della moderna civiltà, come abbiamo visto, che si colloca lungo la trafila di queste invenzioni che percorrono i romanzi salgariani, e quasi agli inizi, dopo Il tesoro del Presidente del Paraguay del 1894 in cui i due protagonisti attraversano in pallone aerostatico tutta intera la Pampa e la Patagonia;33 accanto all’altro romanzo Attraverso l’Atlantico in pallone del 1896, in cui è il miliardario americano Ned Kelly – non per nulla – a mettere a punto uno di questi mezzi aerei;34 prima del dirigibile de La montagna d’oro del 1901;35 dello “Sparviero” de I figli dell’aria (1904) e de Il Re dell’aria (1907);36 libri di mare, di terra e di aria, naturalmente, e di attraversamenti planetari e aerostatici, e fino a quelle Meraviglie del Duemila (1907) in cui si arriva, volando, nel

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futuro.37 E ci sarebbero, per lo meno, altri tre racconti: Un dramma in aria, in cui è uno scienziato pazzo a tentare la salita, cercando di scaricare come zavorra il peso degli altri occupanti; Alla conquista della luna, in cui sono due savants, due pionieri scientifici a tentare l’impresa; La “Stella Filante”, dove un ricco americano, un po’ originale anch’egli, come William, e come tutti gli americani ricchi, secondo cliché, fa costruire un dirigibile volante per il diletto di chi vuol fare viaggi interplanetari a prezzo di milioni.38 Uguale il discorso per il tema del deserto, in cui il nostro racconto si colloca: dopo La Favorita del Madhi, e prima dei Predoni del Sahara, di Sull’Atlante, e dei Briganti del Riff, in cui il tema è il Marocco e la Barberia e i territori ai margini, appunto, del deserto. E ancora a proposito di anticipazioni e di spleen, e di tipi eccentrici, va ricordato lo stravagante lord Wylmore de La Scotennatrice,39 malato di spleen anch’egli come il William del nostro racconto, che viene a curare il suo tedio esistenziale e la sua irrequietezza di sciagurato giramondo, mezzo lord e mezzo avventuriero, tra le pellirosse del West. Insomma, avviandoci verso la conclusione, si vuol dire che in questo breve romanzo che non pare essere tra i piú memorabili, ma che è per vari versi interessante, anche per i motivi elencati, Salgari intrecciava, sotto il segno costante, al solito, dell’avventura, coi risvolti comici che non gli erano estranei, e a suo modo, quindi, di piú facile presa fra i lettori, temi e miti tipici, portanti, anzi, come si diceva una volta, della sua età: il positivismo scientistico e utopista delle macchine e invenzioni mirabolanti e dei progetti di trasformazione eccezionale che fiorivano in quello scorcio di secolo, quali la convertibilità del deserto e la conversione dei selvaggi Tuareg, nel caso, come si è visto; la tendenza esplorativa e di conoscenza di terre spesso in parte ignote o non bene esplorate, i cui costumi affascinavano l’uomo contemporaneo della civiltà europea; l’incontro di razze e civiltà qui quasi emblematico in quella unione di un rappresentante del continente piú intraprendente e dinamico, l’America, e di una figlia di una parte del mondo sempre attraente e suggestiva come l’Africa, quella sahariana nel particolare, insidiosa e naturale al tempo stesso, con la civiltà di usi e costumi barbari e sconfinati che presentava. Come chiudere funzionalmente, allora, da parte dell’autore, questa storia a suo modo esemplare in cui egli amalgamava tutti questi temi e perciò – quasi paradossalmente – centrale, ripeto, della sua cultura e della sua narrativa? Allo sfortunato lord Wylmore del Ciclo del Far West, venuto a curare il suo spleen con quella specie di fuga dall’Europa e munito di buone intenzioni verso le pellirossa, andrà male, accoltellato come sarà, nudo e legato a un palo, dalla inflessibile scotennatrice. All’altro splenetico William Fromster va molto meglio in questo libro. Con la sapienza istintiva e insieme consumata dello scrittore di tempra, Salgari concludeva il racconto con un finale che tematicamente, strutturalmente, narrativamente, insomma, ha il tono un po’

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da favola, un po’ da considerazione scherzosa, un po’ da apologo filosofico-esistenziale. Conquistato da quella vita e, si può aggiungere ora, senza tema, dai fascini di Afza, William richiama, come si è detto, il suo amico e la domestica dall’Europa. “Dopo tutto amo meglio questa vita selvaggia che quella civile” dice, spogliandosi dei suoi abiti diventati ormai laceri, e indossando, cioè trasmutandosi nelle “vesti (…) pittoresche dei figli del deserto”.40 “Voi sarete sorpreso” – conclude con l’amico nel suo comico linguaggio di uomo del Mondo Nuovo – “di aver io dato un addio alla civiltà europea, ma, mi credete, sono molto piú felice che laggiú: questa vita quasi primitiva ha per me delle seduzioni che non avevo mai sognate, e quello che piú importa per me è che qui io non soffrire piú lo spleen”.41 E c’erano anche quei buoni propositi di far convertire i Tuareg, non solo Afza, al cristianesimo: “Date anche voi un addio alla vecchia Europa, Ernesto: qui avere noi una grande missione da compiere: la civilizzazione di questi abitanti del grande deserto. Ditemi: non vi tentare questa nuova vita?... (…) io essere piú che mai deciso a sposare la mia buona Afza ed a diventare un benefattore della tribú del Sahara. Rimanete con me, amico (…)”.42 Con sfumature filantropiche, come si vede, di cui si ammantavano a lor modo, in buona o cattiva fede, i sogni coloniali di quell’età. Come possono essere anche, queste, piú plausibilmente, le concessioni di Salgari a un editore cattolico quale era Speirani, che pubblicava il periodico su cui comparve il romanzo; e concessioni, in fondo, le quali faceva, senza rimetterci troppo da parte sua, lo scrittore laico ma attento al grande pubblico, chiudendo coerentemente, sul tono affabulatorio sopra accennato, la sua narrazione: “In quanto a William è rimasto nel deserto, a fianco della sua Afza, che ama piú che mai, dopo che ha promesso di diventare cattolica, come lo ha promesso l’intera popolazione dell’oasi. / Egli è felice e, cosa piú importante, egli è guarito completamente dallo spleen”.43 Una favola non troppo fuori coro, dopo tutto, da parte del nostro autore, rispetto a quello sfondo corrusco, drammatico e sanguinario che è, nella maggior parte dei suoi libri, la cifra reale del secolo: quella della aggressività commerciale espansiva e di conquiste, di conoscenze, anche, e coloniale, della prevaricazione dei popoli e delle razze (la bianca sulle indigene, naturalmente), e delle lotte che ne derivavano. Aggressività e prevaricazioni (epocali, storiche, esistenziali) che fin qui riuscí perfettamente allo scrittore di contenere nella maestria sapiente ed elementare al tempo stesso (affabulatoria, appunto) della sua scrittura; ma che non riuscí all’uomo Salgari di protrarre per tutto il tempo, fino alla drammatica, tragica fine di autosoppressione il 25 aprile del 1911.

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Salgari, Emilio, I Predoni del Gran Deserto, introduzione di Claudio Gallo, Fabbri, Milano 2004, p. 25. Ivi, p. 16. Nel piú ampio romanzo I Predoni del Sahara (1903) le discussioni su questo tema scientifico sono sviluppate ampiamente tra due dei protagonisti del romanzo, il Marchese di Sartena e Ben Nartico: “– È il principio della trasformazione del deserto, – disse il marchese. – Fra qualche secolo una buona parte del Sahara sarà resa produttiva mercé l’attività e il genio degli europei (…) – Ho anche udito parlare d’un progetto grandioso, ossia della trasformazione d’una parte del deserto in un mare (…) Si tratterebbe d’inondare 8000 chilometri quadrati di deserto, ossia tutta la parte bassa, mediante un canale lungo centosessanta chilometri (…) Dieci anni di tempo e duecento milioni, ecco quanto sarebbe necessario per attuare questa grandiosa idea”. Si cita da Salgari, Emilio, I Predoni del Sahara, Mondadori, Milano 1973, p. 70; il romanzo, assieme a La Favorita del Mahdi (1884 e 1887) e Sull’Atlante (1907-1908 e 1908), costituisce la raccolta in cofanetto Romanzi d’Africa, 3 voll., edizione integrale annotata a cura di Mario Spagnol, con la collaborazione di Giuseppe Turcato, Mondadori, Milano 1973. Anche i rimandi per gli altri due titoli si riferiscono a questa edizione. Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., pp. 16-17. Come annota Mario Spagnol, la fonte di queste notizie era il “Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare” del 18 giugno 1891, nell’articolo L’avvenire del deserto del Sahara, e, per la notizia sui progetti di Lesseps, quello del 27 febbraio 1879. Questa e le precedenti citazioni: Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., pp. 15-16. Ancora nei Predoni del Sahara cit., p. 69: “Il generale Desvaux, convinto che l’acqua non mancasse, ha voluto fare degli esperimenti i quali hanno dato dei risultati sorprendenti. Accertatosi che il sottosuolo del Sahara era come un immenso lago sotterraneo compreso fra due strati impermeabili, diede all’ingegnere Jus l’incarico di aprire un pozzo artesiano”. Sui pozzi, e sull’acqua nel Sahara, si continua ancora, ivi, a p. 87. Spagnol segnala un trafiletto del “Giornale Illustrato dei Viaggi” del 28 dicembre 1881, Geologia del Sahara, che Salgari non si lasciò sfuggire, sulla conformazione geologica dei deserti. Per quel ricorrente patrimonio di piante esotiche si veda, a confronto (da brano a brano, e da romanzo a romanzo, e anzi spesso nello stesso romanzo), I Predoni del Sahara cit., p. 48, con parole quasi identiche: “Quella macchia formata da una trentina di piante, era composta di splendide camerope a ventaglio, dal fusto cilindrico e sottile, nudo verso la base e piú sopra coperto da grosse squame regolari (…) Le cime erano coronate da un immenso ciuffo di trenta o quaranta foglie adorne di grappoli di fiori disposti a pannocchie”. E a p. 146 dello stesso libro: “Il terreno (...) era coperto da macchie di splendide aloè, di fichi d’India, chiamati dagli abitanti del deserto kermus del Inde, di es-segiar, arbusti spinosi che producono delle bacche insipide; di agul e di alfeh, erbe dure e amare che

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perfino i cammelli disdegnano e di piccole mimose (…) erano delle camerope humilis, dal fusto cilindrico, nudo alla base e piú sopra difeso di squame regolari e la cima coronata da un ciuffo di trenta o quaranta foglie piumate”. Spagnol rileva che “in un appunto manoscritto Salgari annotò che i segiàr sono ‘arbusti il cui frutto è una bacca chiamata nàbak’”. Quanto alle aloè “somiglianti a lance gigantesche (…)”, la loro provenienza è dal libro di De Amicis di cui parleremo, in cui sono paragonate, appunto, a “lance gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve”, le cui punte sono usate dagli arabi per cucire le ferite. Cfr. De Amicis, Edmondo, Marocco, Treves, Milano 1879 (I ed. 1876); citiamo dalla edizione anastatica con prefazione di Marco Pagani, Messaggerie Pontremolesi, Milano 1989, p. 65. Ritroveremo queste aloè in Sull’Atlante: “Di quando in quando [Afza] si fermava davanti alle lunghe file di aloè come se si divertisse a contemplare quelle lance gigantesche confitte, per dir cosí, fra un fascio di enormi daghe e delle cui fibre si servono gli abitanti dell’Algeria meridionale per cucire le loro ferite, oppure per spiccare qualche grosso e ben maturo kermers del sud” (Salgari, Sull’Atlante cit., p. 51). Ancora da Marocco (p. 65) viene il kermus del Inde (qui kermers per errore tipografico, come ipotizza Spagnol), cioè il fico d’India menzionato in tutti e tre i romanzi di Salgari. Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 18. Ivi, p. 21. Salgari morí suicida, come si sa, nel 1911. La moglie Ida (Aida) era inferma di mente. Si vuol dire che il melodramma (il dramma) costituisce parte della esistenza stessa dello scrittore. “Il duar era composto di quaranta tende (…) sorrette da pali e coi margini rovesciati in su per lasciare che l’aria circolasse liberamente. / Non erano bianche, non essendo niente affatto di tale colore, come generalmente credesi, quelle degli abitanti del Sahara, come non lo sono quelle dei beduini, ma di grossa stoffa di peli di cammello, di color bruno sporco a strisce giallastre” (ivi, p. 26). Nei Predoni del Sahara cit., p. 41, c’è una piú ampia descrizione di duar e di costumi marocchini e algerini: “sono formati esclusivamente da tende grossolane di fibre di palme nane tessute assieme a pelo di capra e di cammello, e sostenuti da pali e da corde (…)”; e in Sull’Atlante cit., p. 40: “Il duar di Hassi-el-Biac si componeva di due ampie tende di stoffa, color della cioccolata, tessute con fibre di palme nane e con peli di capra e di cammello onde renderla assolutamente impenetrabile alla pioggia (…)”. Il tutto derivante da Marocco di De Amicis, che si avrà occasione ancora di citare: “consistono in un gran pezzo di stoffa nera o color di cioccolata, tessuta con fibre di palme nane o con pelo di capra o di cammello” (ed. cit., p. 178). Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., pp. 25-26. E ancora: “L’ho sempre detto io, che le donne sono tutte vipere e che mi farebbero ammattire. Basta!... Lasciatemi andare o mi tornerà lo spleen!…” (ivi, p. 29). Cfr. ivi, p. 19, dove si apprende appunto che William “conosceva l’arabo”.

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Ivi, p. 10. Vale sapere, a parziale giustificazione dello splenetico misoginismo del nostro eroe, che la sua vicenda sentimentale con miss Odowna volgeva al termine. Dilapidata la sua fortuna, a trentotto anni, William aveva deciso di bandire una lotteria premiando chi lo avesse guarito dal suo spleen esistenziale. Con Ernesto, il vincitore della lotteria, si era rifugiato in un castello in Francia, vivendo tuttavia isolato in una mongolfiera, a sfuggire gli inseguimenti della miss e della zia che gli avevano dato la caccia per mezza Europa, anche in bicicletta. Questi sono i precedenti della storia, che Salgari assunse – caso piú unico che raro, a dirlo con termini suoi consueti – da un racconto firmato “Fabiola” (nom de plume di Vincenzina Ghirardi-Fabiani), pubblicato dal 24 novembre al 29 dicembre 1895 su “Il Novelliere Illustrato” dell’editore Speirani, e che egli si impegnò a continuare sullo stesso periodico. Il titolo del romanzo, che rimase anche alla continuazione di Salgari, era Vita eccentrica. Scene fin di secolo. Questa e le precedenti citazioni: Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 25. Raggruppo in un’unica nota derivazioni, consonanze e analogie con gli altri tre romanzi africani di Salgari, e con Marocco di De Amicis. La tiorba è strumento musicale immancabile che emana suoni dolcissimi, nei Predoni del Sahara (ed. cit., p. 34), come qui (pp. 29-30), dove è suonata da Afza al prima “distratto e corrucciato” William, “poi fatto attento” e che “provava ora una specie d’estasi mista ad una sonnolenza inesplicabile, affatto nuova per lui”. Afza racconta qui a William le storie del deserto; come, nei Predoni del Sahara, è Esther a raccontarne altre al marchese di Sartena, anzi una in cui la protagonista, bellissima tuareg infedele al marito, porta lo stesso nome: Afza, rimasto alla rupe da cui è stata precipitata per punizione (nel capitolo dodicesimo, Una vendetta nel deserto). Ancora, nei Predoni del Sahara il governatore fa servire dei gelati e del madjum (sic), “pasta dolcissima, molle, di color violetto, composta di miele, droghe e di fogliette di kife che prese in piccole dosi produce una gaia ebbrezza mentre facendone invece abuso istupidisce e fa molto male” (ed. cit., p. 29). In Marocco cit., p. 204, da cui quasi con certezza sono mutuate queste informazioni per la quasi identità di espressione (pasta dolciastra di color viola, il misto con miele ecc.), il composto è chiamato madjun, e De Amicis vi descrive la esperienza diretta che ne ha fatta. Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 27. Suggestiva, per esempio, questa descrizione di un notturno nel deserto che rientra pienamente in quello stereotipo d’epoca accennato, pur nella rapida efficacia che contraddistingue la narrazione salgariana: “Un silenzio profondo, che faceva una viva impressione, regnava sull’immensa distesa del deserto. Non un alito di vento soffiava da alcun punto dell’orizzonte, ma dalle sabbie, riscaldate da quel sole ardente, pareva che scaturissero fiamme, le quali lanciavano in viso agli uomini come dei soffi ardenti, soffocanti. / La luna, che splendeva in un cielo purissimo, proiettava i suoi raggi azzurrini, d’una dolcezza infinita,

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su quelle sabbie, allungando smisuratamente le ombre dei cammelli (…)” (ivi, p. 24). Salgari, Emilio, La Favorita del Mahdi, Guigoni, Milano 1887, originariamente su “La Nuova Arena” di Verona, dal 31 marzo al 7 agosto 1884. Id., I Predoni del Sahara, Donath, Genova 1903. Id., Sull’Atlante, Bemporad, Firenze 1908, originariamente su “Il Secolo XX”, dal luglio 1907 al giugno 1908. Id., I Briganti del Riff, Bemporad, Firenze, 1911. Per questo ultimo riferimento cfr. Salgari, Emilio (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata, a cura e con saggi introduttivi e finali di Mario Tropea, con una nota sulla “Bibliotechina Aurea Illustrata” di Claudio Gallo e Caterina Lombardo, vol. III, Viglongo, Torino 2002, pp. 189-197, e Tropea, Mario, Titoli, nomi, note, congetture e qualche plagio. Indagini e ricognizioni sull’universo dei Racconti, ivi, pp. 271-275. Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 37. Id., I Predoni del Sahara cit., p. 66. Id., I Predoni del Gran Deserto cit., p. 23. Id., I Predoni del Sahara cit., p. 31. Id., Sull’Atlante cit., p. 43. Id., I Predoni del Gran Deserto cit., p. 23. “Ve n’erano di tutte le grandezze e di tutte le forme; di porcellana europea, di finta porcellana chinese, di ferro o di argilla, un campionario infine di quanto di triviale e di orrendo si fabbrichi in tutto il mondo. Un bricco indescrivibile, di piombo, tutto sformato e coperto d’ammaccature, conteneva il caffè mescolato con un’abbondante porzione d’ambra grigia” (Salgari, La Favorita del Mahdi cit., p. 56). Spagnol annota che queste notizie vengono da una recensione a un libro di Maupassant, Au soleil (1884), che Salgari lesse sulla “Nuova Arena” del 10 febbraio 1884. Nei Predoni del Sahara si ha pressappoco la stessa descrizione: “Ciò che invece è buffo presso gli arabi del deserto è il servizio il quale consiste ordinariamente in un vecchio vassoio di ferro e in poche tazze che contano secoli, in tutte le forme, di tutte le grandezze e di tutte le specie, alcune d’argilla, altre di porcellana e altre ancora di stagno, coi margini rotti e poco puliti” (ed. cit., p. 44). Si veda anche, per contro, e per riscontro, in Sull’Atlante: “La giovane negra ritornò subito portando un vassoio d’argento massiccio, un bricco dello stesso metallo e due tazze che non avevano nulla di comune a quelle informi, screpolate e disparate che si usano fra gli abitanti dell’Algeria meridionale e del deserto” (ed. cit., p. 43). Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 20. Si possono aggiungere: il “By-God!...” di esclamazione dello scozzese, qui a p. 18; e nella Favorita del Mahdi: “By-Good! [sic] – bestemmiò O’Donovan” (ed. cit., p. 174); la descrizione degli “sberegrig (merops), uccelli grossi come una gazza col dorso e le ali d’un azzurro carico e il ventre e la coda d’un azzurro piú pallido” (Salgari, I Predoni del Gran Deserto cit., p. 16, e a p. 18: “si distesero all’ombra d’un cespuglio e si addormentarono tranquillamente, invitati dal caldo eccessivo e dal canto melodioso degli sberegrig”); che è piú sintetica, invece, nella Favorita del Mahdi: “Il canto melodioso dello sberegrig (merops) vi rispose

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subito” (ed. cit., p. 74), ma piú sviluppata in un appunto che Spagnol riporta in nota a questo romanzo: “grosso come una gazza, il sottoventre blu magnifico, dorso e ali interne blu, piume e coda blu chiaro, vive di fiori e mele, vive solitario e canta melodiosamente”. Ma è evidente che su questa linea si potrebbe andare all’infinito; ed è chiaro ancora che era operazione perfettamente legittima, quella di Salgari, di utilizzare, come gli conveniva al taglio, in ognuno dei suoi libri, gli appunti e le notazioni che si trovava a disposizione nel cassetto. Semmai queste segnalazioni possono dare un indizio del metodo, del come scriveva Salgari, per cosí dire, con oculatezza e al risparmio, se pur ripetitivamente; in fondo, da buon lavoratore della penna qual era. Id., I Predoni del Gran Deserto cit., pp. 27-28. Cfr. ivi, pp. 20-29, 33-35, 39-40, 42-44 (con almeno un’occorrenza di scièk in ciascuna di queste pagine). Cfr., per esempio, il nono capitolo (Lo scièk Abu-el Nèmir), in Id., La Favorita del Mahdi cit., p. 152. Id., Il tesoro del Presidente del Paraguay, Speirani, Torino 1894, ma precedentemente sul “Novelliere

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Illustrato”, dal 7 gennaio al 15 luglio dello stesso anno. Id., Attraverso l’Atlantico in pallone, Speirani, Torino 1896, ma precedentemente in “La Biblioteca per l’Infanzia e per l’Adolescenza”, dal novembre 1895 all’ottobre 1896 (le prime due puntate hanno per titolo Attraverso all’Atlantico in pallone). Altieri, Guido (Emilio Salgari), La montagna d’oro, Biondo, Palermo 1901. Salgari, Emilio, I figli dell’aria, Donath, Genova 1904; Id., Il Re dell’aria, Bemporad, Firenze 1907. Id., Le meraviglie del Duemila, Bemporad, Firenze 1907. Rimando ancora, per questi tre racconti, a Salgari (Cap. Guido Altieri), I racconti della Bibliotechina… cit., vol. II (2001), pp. 115-128 (Un dramma in aria), 219-230 (La “Stella Filante”), e vol. III cit., pp. 15-26 (Alla conquista della luna). Id., La Scotennatrice, Bemporad, Firenze 1909. Id., I Predoni del Gran Deserto cit., p. 41. Ivi, p. 43. Ivi, pp. 43-44. Ivi, p. 45.

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Appendice ii La consacrazione di Emilio Salgari Giuseppe Palumbo

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Postfazione Salgari ovvero dell’impotenza degli italiani Alberto Abruzzese

Emilio Salgari come “vinto” ovvero come partecipe di quelle vite vissute che, nella forma di un’arte loro, in tutto originale, si sono offerte come vittime e exempla dell’impotenza degli italiani, forse anche del genere umano che sul nostro territorio si è spesso messo piú brutalmente in mostra, a nudo. Questo è in effetti un incipit azzardato. In riferimento all’Italia e in riferimento a un autore che i canoni letterari riconoscono come scrittore “di evasione”. Eppure, non c’è alcun dubbio che ci siano autori italiani in cui vita privata e lavoro di scrittura hanno trovato un unico punto di collasso, inconfondibile, risolutivo e per nulla evasivo, tale da collocarli su una stessa linea per quanto siano stati tra loro diversissimi. Si suole percorrere questa linea di fallimenti eccelsi solo nell’ambito della cultura alta. Ma perché mai essa non dovrebbe riguardare la cultura “bassa”? Credo anzi che proprio un’ottica di questo genere, cosí aristocraticamente e letterariamente restrittiva, finisca per mortificare l’esperienza negativa che cultura d’élite e cultura di massa, in alcune loro punte di estremo disagio, hanno manifestato partecipando a uno stesso dramma: la loro impotenza a fronte del proprio ambiente e l’impotenza di questo a fronte della loro vita di scrittori. Penso, ad esempio, a Pier Paolo Pasolini, in cui una storia privatissima, la storia della sua viva carne, e una storia in tutto pubblica, la storia del suo impegno civile, si sono tuttavia intrise del corpo della Prima Repubblica, dei corpi del sottoproletariato urbano, e dei corpi dell’industria culturale italiana. Sino a un olocausto notturno, solo apparentemente casuale. In tutto deliberato. Per quanto si possa credere impensabile un confronto con Salgari, questa stessa impossibilità di accostarli l’uno all’altro è infissa su una differenza che è anche una estrema vicinanza: Salgari si spegne schiacciato da un mito di rivalsa e emancipazione sociale, mentre Pasolini si gioca la vita oppresso dal suo rifiuto della civiltà industriale. Lo scenario, pur a tanti anni di distanza, è il medesimo: una Italia sempre sospesa tra il passato monco e irrisolto dei suoi processi di modernizzazione e il presente della loro inarrestabile brutalità. Il mio è dunque un titolo che avrebbe bisogno di molto spazio per essere esposto. Queste poche mie pagine sono invece soltanto la proposta di due tracce che spero possano contribuire ad aprire qualche inatteso percorso alla ricerca, riprendendo in diversa chiave qualche tema canonico sull’industria culturale di massa, sui modi per inter-

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pretarla e sul sistema mediatico italiano in cui Salgari ebbe la sventura di vivere ovvero la sorte di consumarsi assai piú che riprodursi. La scena madre che ho davanti agli occhi è il suicidio di Salgari. È in questa scena che intendo cercare un senso. Sono attratto da questa immagine. Da un gesto insieme perfetto e goffo, da eroe e da perdente, da personaggio della realtà e da personaggio della finzione. Tra miti e bricolage domestico, sofferenza familiare, professionale. Una messa in scena tragicomica. Con i tratti appunto di una tragedia che entra nella commedia e di una commedia che entra nella tragedia. Una contaminazione di genere, che – quando riesce – è piú della tragedia e piú della commedia. E secondo me Salgari ci è riuscito. Il suo gesto – il guizzo di una decisione, forse azzardata forse provvisoria, eppure fissata nella scrittura, che trova forza in uno stato di depressione indelebile, sino all’ultimo istante – è la grande eredità che ha lasciato.

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Non dispongo delle specifiche competenze di chi ha sin qui trattato la figura di Emilio Salgari. E dicendo figura mi riferisco a uno spessore simbolico, affettivo e amatoriale, collettivo e intimo: a tutto ciò che in una figura esorbita dal ritratto. Immediatamente riconoscibile eppure lontana dai limiti dell’originale. Piú estesa e profonda. E con questo voglio anche dire che non ho a disposizione neppure gli strumenti di chi, in questa raccolta di contributi su uno dei pochi grandi miti dell’immaginario popolare italiano, è andato al di là – o ai margini – dei modi in cui si suole analizzare un autore e la sua opera, cercando appunto di raffigurare l’aura che avvolge ognuno dei suoi testi liminari, noto o meno che sia, grazie a qualcosa di piú emblematico dei canoni istituzionali della letteratura e della critica. Qualcosa che sfugge tanto alle misure della qualità quanto a quelle della quantità. Ma che non sfugge a chi, dalla figura di Salgari, è stato a lungo abitato. Non è per celia che mi sottraggo al ruolo di studioso di Salgari. Tutt’altro. Su di lui sfioro l’incompetenza. Potrei dire che della sua figura ho frequentato a tratti soltanto la sua ombra. Di certo un’ombra possente, piú forte di me e delle mie abitudini: del resto, ho sempre temuto di perdermi (o chiudermi) in studi di tipo monografico proprio per evitare il rischio di non sapere vedere le tante ombre in cui l’immaginario ci immerge. Ecco perché, pur essendomi da sempre occupato di culture e mitologie di massa, non mi sono mai messo a studiare Salgari, che di quelle culture e mitologie è stato un grande protagonista. Peggio: non sono stato e non sono diventato un suo accanito o sistematico lettore. E allora perché sono qui a scrivere di lui? In virtú della sua ombra, ho detto. Ma cosa significa? Se ho indugiato sulla mia sostanziale impertinenza nei confronti dell’autore di cui questo libro è invece un attestato di grande riconoscimento e anzi di profonda riconoscenza culturale, la ragione c’è:

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vorrei cercare di fare funzionare da strumento analitico proprio questa mia confessione di inesperienza a fronte di cosí tanti esperti della produzione salgariana. Data la mia sempre dichiarata adesione ai metodi di indagine adottati da studiosi che – affrontando un prodotto dell’industria culturale – mettono al lavoro soprattutto la propria passione amatoriale, le forme di culto del collezionista, la psicologia del feticista, persino il gusto del fan-atico, sono convinto che possa servire anche un approccio fondato su sentimenti in tutto opposti. Anche approcci piú distratti e episodici – o semplicemente altri – possono funzionare da paradigmi indiziari. E questo perché, alla pari di analisi piú direttamente coinvolte e coinvolgenti, fanno parte integrante dell’esperienza di consumo della lettura. Di ogni strato e margine e risonanza di lettura. Lettura di tutti quei testi che, secondo le leggi di mercato dell’industria culturale, vivono non tanto per se stessi quanto piuttosto per come i lettori – anche soltanto sfiorandoli – li producono e li rimettono in circolazione dentro altre forme relazionali, visibili e invisibili, dette e non dette, pubbliche e private. Esattamente come a sua volta fa l’autore, il quale – di quella rete di relazioni intertestuali e ipertestuali – è esso stesso un lettore che funziona da snodo, un lettore forse uguale ai lettori suoi simili, ma di certo piú sensibile e dotato nel trasmettere ad altri la propria esperienza di consumo. 191

Scelta questa ipotesi di lavoro, e sperando che chi mi legge la condivida o almeno accetti qualcuno dei suoi risultati, ho pensato di partire da uno spunto in tutto autobiografico, l’unico che posso accampare come attendibile “documento” delle occasioni che i giovani della mia generazione – si deve dunque risalire alla metà degli anni Cinquanta – avevano di leggere i romanzi di avventura scritti da Salgari. Quella di allora – c’erano ancora i giocattoli di legno e di latta – era un’infanzia ben diversa da quella di oggi, che è invece tanto rigurgitante di mondo da apparire narcotizzata (meglio dire “scoppiata”, per non rischiare di assecondare il passatismo di chi crede i giovani di oggi assenti solo perché sono altrove, lontano dalla nostra inutile presenza). Era Salgari, magari, a essere a suo modo l’infanzia di oggi: inventava in biblioteca i suoi racconti nel tempo e nello spazio, attingendo informazioni che, minuto per minuto, sono ora alla portata di chiunque consumi cinema, televisione, computer e videogames. Salgari aveva di fronte un pubblico desideroso di futuro e bombardato di segnali metropolitani e tecnologici, ma, rispetto a ora, certamente assai meno immerso nel mondo. E dunque era lui a farsi mondo, mentre oggi il desiderio dell’infanzia non passa piú per la letteratura sul mondo ma da tutto ciò che a essa è stato strappato, polverizzato e trasformato in magia mediatica (la quale a volte torna miracolosamente a illuminare qualche libro scritto, a produrre qualche raptus di lettura, ma per farsi immediatamente di nuovo cinema: in sala, sul televisore, nel computer, e cosí via). Insomma, tutto questo per dire che, quando sono arrivato a leggerlo io, Salgari era ancora Salgari.

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Ho letto Salgari in una mia lunga e solitaria convalescenza. Costretto a letto, alternavo sonno e lettura. Né felice né disperato. Sospeso tra presenza e assenza. Era una estate in montagna: i mesi di vacanza in cui l’obbligo delle letture scolastiche veniva finalmente revocato. Affiancato a quello di altre estati passate a leggere saggi e romanzi di alta letteratura (non piú malato ma pur sempre malinconico), questo ricordo mi ha rivelato la traccia da cui partire. Salgari lo sfogliavo di corsa, rapito dai suoi plot di gran mestiere, da qualche sua ricorrente, sempre diversa e sempre uguale, eroica e maschia immagine; da qualche illustrazione esotica che appunto “faceva mondo”; da qualche primo tremore dei sensi che, in tempi come quelli, “faceva vita”. Mentre invece – di lí a poco e sempre in quelle pause estive – Lukács o Mann o Musil presi a leggerli a pezzi, come si aprono a caso le pagine della Bibbia: un solo periodo del testo, anche brevissimo, quasi un versetto, mi bastava per abbandonarmi un’ora o due a pensieri sulla civiltà e sulla società, rimandando a chissà quale mio domani l’occasione per onorare quei libri immensi con una lettura che fosse davvero integrale. Li leggerò in vecchiaia, mi dicevo. Se il mondo è quello di cui mi parlano queste opere, non c’è tempo da perdere, bisogna sbrigarsi a viverlo. 192

Ecco, la mia prima traccia parte proprio da qui: quella promessa di futuro – promessa di un tempo in cui avrei avuto il tempo di leggere, dopo avere avuto il tempo di vivere e agire – aveva il marchio dell’esperienza precedentemente vissuta nel consumare Salgari in uno stato quieto e rassegnato di convalescenza. Nella stanza tirolese in cui giacevo, andavo cercando – ora mi è chiaro – di immaginare che in vecchiaia sarei finalmente riuscito a leggere la grande cultura borghese mitteleuropea non perché arrivato a compimento di ciò che quella tradizione mi aveva promesso, ma perché, indebolito e reso inerme dalla vecchiaia, mi vedevo ricaduto in quello stesso stato di finta veglia e finto sogno – appunto di convalescenza ovvero apertura tra malattia e guarigione, tra vita e morte – in cui mi era accaduto di leggere Salgari. Ma quale era il perché di questa sovrapposizione? Costretto a ritornare alla mia infanzia salgariana, invitato a ricordarmene per capire, ora credo di saperlo. Alzavo continuamente gli occhi – mi distraevo – dalle pagine che mi consegnavano le forme piú alte e avanzate dell’Occidente per il semplice fatto che sentivo di stare leggendo qualcosa che sarebbe restato per sempre alle mie spalle. Quelle pagine tanto ripiene di senso si rovesciavano in una percezione di vuoto. Disincanto. E – da italiano – capivo che quel senso mi sarebbe stato sempre precluso, reso inagibile. Di piú: mi era stato e sempre mi sarebbe stato vietato di tradurlo in realtà perché di fatto l’anima e le forme di quell’esperienza occidentale non erano mai appartenute al nostro passato nazionale. Ecco dunque la verità: volevo riuscire un giorno a leggere sino in fondo – rapido e leggero – i grandi libri della civilizzazione e ciò

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che essi avevano narrato, cosí come avevo fatto, felicemente, con Salgari. Arrivando alla fine. E speravo di ottenere questo risultato proprio perché Salgari mi aveva offerto letture che vivevano esse stesse di un doloroso scarto tra passato e presente, potenza e impotenza, entusiasmo e delusione. E infatti: se un testo – la trama dei sentimenti condivisi, di cui la scrittura è intrisa per ottenere i suoi effetti emotivi sul pubblico – contiene davvero molto dell’ambiente in cui l’autore opera, vuol dire che allora, leggendo Salgari nella condizione specifica di cui ho detto (infanzia e insieme convalescenza), avevo avuto una qualche forte, istintiva, percezione di quella sua scrittura intrisa di sogni di gloria, riscatto e giustizia, volontà e passione, persino buon governo su popoli, comunità e conflitti, che in Salgari facevano da oggettiva compensazione del fallimento e della delusione, dei presupposti destini dell’Italia Unita (Salgari è nato con la nascita della nazione italiana… non poteva essere altrimenti!). Quella mia percezione di Salgari si era dunque fusa con la percezione di me stesso o da questa era stata ispirata. Quel Salgari, non altrimenti interpretato che attraverso una particolare situazione di consumo, aveva a sua volta trasformato, ri-mediato, quel mio stato di spossatezza e desiderio di guarigione, nostalgia di ciò che ormai mi ero perso e attesa di quanto era di là da venire, qualcosa dunque di estremamente personale e ordinario, in qualcosa di già vicino a una consapevolezza critica sui limiti della tradizione italiana. La stessa che ha recluso la vita di Salgari nell’infelicità. Il testo è stranoto: “A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche piú, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.” Bellissimo! È tale per la sintesi accusatoria e per il secco gesto di commiato. La rottura di Salgari con la vita passa qui attraverso la rottura di un contratto editoriale. Che è anche rifiuto di un contratto sociale: la penna si trasforma in spada. Dimentichiamo allora tutti gli eventi di forte impatto psicologico – tra i tanti, la follia della moglie, l’indigenza, un crollo nervoso? – che possono avere portato Salgari al suicidio. Facciamolo essere il semplice e per ciò stesso agghiacciante risultato di un insostenibile rapporto tra autore e editore nel sistema industriale e sociale italiano (e poco importa allora che, dal carteggio con lo scrittore, Bemporad ne esca umanamente diverso dalla canaglia che l’ultima lettera induce a pensare, e che la tradizione ha accolto ed emotivamente romanzato: si sta parlando di un sistema piú allargato). Qui si apre la seconda mia traccia. Riguarda qualcosa che ricavo dalla fortuna postuma di Salgari soprattutto come serbatoio di immagini e narrazioni in cui si sono attinti – in modi diretti e indiretti,

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dichiarati o truccati, consapevoli e inconsapevoli – caratteri, situazioni, trattamenti e sceneggiature per il fumetto e per il cinema: è la dimostrazione vivente del patrimonio che Salgari era stato capace di accumulare non in un senso genericamente “culturale” ma in quanto articolato insieme di dispositivi di successo, cioè di prototipi dotati di grande presa sul pubblico. Assodato il valore di mercato che la macchina di Salgari aveva raggiunto in termini di lunga durata, e soprattutto di traducibilità multimediale, è inevitabile arrivare al confronto – obbligato, per motivi che è persino inutile elencare – tra il suo immaginario (già innervato su un rapporto strategico tra illustrazione e scrittura) e l’immaginario elaborato e sviluppato qualche decennio dopo dalla Famiglia Bonelli. Da quella piccola bottega industriale di editori-autori – unica a livello nazionale e internazionale – che ancora oggi domina le edicole, per quanto in tempi cosí difficili per il fumetto popolare. Ecco, sono proprio Bonelli padre e Bonelli figlio a offrirci una chiave interpretativa che rimette in campo il rapporto tra un autore prolifico e fantasioso come Salgari e l’impotenza degli italiani.

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La tragedia di Salgari è stata quella di non avere saputo o potuto trasformare le sue straordinarie doti di narratore in spirito imprenditoriale. Di non avere lavorato in proprio (la risorsa che lo sviluppo delle piccole e medie imprese ha offerto alla vita economica italiana sino ad oggi), e di essersi invece interamente affidato a un sistema editoriale gracile e quindi (perché quindi?) profittatore (non molto diverso, purtroppo, da quello attuale). Un coacervo di apparati per nulla in grado di costruire un sistema di consumo stabile, che sarebbe stato possibile solo in condizioni di sviluppo sane e prosperose, ricche di apparati di produzione e distribuzione efficienti e bene organizzati, di flussi di pubblico metropolitani, vasti e costanti, alimentati da un volume di merci al quale si potessero agganciare anche i mercati del libro. Un’ultima considerazione, che ci riporta alla scena del suicidio di Salgari, un gesto che si rifiuta di appartenere alla banalità di un rituale italiano e sceglie invece la “citazione esotica”. Il suo inevitabile effetto di straniamento. Bene: con quel suo ultimo atto Salgari inaugura la cifra – il contenuto espressivo latente – di quell’unico genere di produzione cinematografica che nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta riuscirà ad avvicinarsi a uno standard industriale: la Commedia all’italiana. Perché? Quella sua cerimonia di morte esibisce – si è detto all’inizio – un carattere saturnino, insieme tragico e comico, pieno di frustrazione e tuttavia di eroismo. Non vi pare che siano appunto gli ingredienti di film come La grande guerra? L’epopea di un popolo che non ama la nazione ma ha cura del proprio orgoglio. Che non vorrebbe essere infelice ma che di fronte all’impotenza del mondo riesce persino a scegliere di morire.

Profili bio-bibliografici degli autori

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Alberto Abruzzese è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università IULM di Milano, dove è anche direttore dell’Istituto di Comunicazione e pro-rettore per le relazioni internazionali e l’innovazione tecnologica. I suoi campi di ricerca: comunicazione di massa, cinema, televisione e nuovi media, con un interesse particolare verso i cambiamenti sociali collegati all’uso diffuso dei media. È stato per anni professore di Sociologia della comunicazione presso l’Università “Sapienza” di Roma e presso l’Università “Federico II” di Napoli. Tra le sue pubblicazioni: Forme estetiche e società di massa (Marsilio 1973), La Grande Scimmia. Mostri Vampiri Automi Mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione (Roberto Napoleone 1979 e Luca Sossella editore 2007), Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo (Costa & Nolan 1995), Lessico della comunicazione (Meltemi 2003), L’occhio di Joker. Cinema e modernità (Carocci 2006), Sociologie della comunicazione (Laterza 2007, con Paolo Mancini), Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media (Mondadori 2008, curato con Roberto Maragliano). Felice Italo Beneduce è dottorando presso l’Università del Connecticut, con specializzazione nella letteratura fantastica contemporanea. Attualmente tiene corsi di Lingua e letteratura italiana presso il Trinity College di Hartford, e ha insegnato alla Brown University, al Rhode Island College e all’Università del Rhode Island. Tra le sue aree d’interesse vi sono, inoltre, la cosiddetta “letteratura di prima generazione” sia statunitense che italiana, le opere di Giovannino Guareschi, i Cultural e Translation Studies e l’arte sequenziale. Tra le sue pubblicazioni si segnalano articoli su Italo Calvino, Vittorio De Sica e Luigi Pirandello, nonché il Dizionario del Mondo Fantastico. L’universo di J.R.R. Tolkien dalla A alla Z, in collaborazione con Fabio Calabrese, Davide Salvador, Franco Tauceri, Raffaella Vignoli, edito prima da Rusconi (1999) e poi da Bompiani (2003, come Dizionario dell’universo di J.R.R. Tolkien). Cristina Benussi, attualmente preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Trieste, è ordinario di Letteratura italiana contemporanea. Presente in molte delle istituzioni culturali della regione Friuli Venezia Giulia, è membro del Consiglio di amministrazione del suo Teatro Stabile. La sua attività di ricerca l’ha portata a occuparsi, come critica letteraria e storica della letteratura, di narrativa e poesia moderna e contemporanea secondo angolazioni che si sono modificate col tempo, dall’Ottocento ai giorni nostri. Ha pubblicato monografie sugli autori piú significativi del periodo. Molti suoi lavori coniugano letteratura e antropologia, letteratura e filosofia, letteratura e mercato, e sono sfociati in volumi oggetto di dibattito in numerosi convegni nazionali e internazionali. Visiting professor in molte università europee e alla New York State University, ha affiancato all’indagine testuale della narrativa moderna la ricerca sulla cultura delle minorities, e sulle prospettive di “genere”, tema su cui dirige una collana di saggistica.

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Un po’ prima della fine? Pietro Benzoni (1972), ha studiato a Padova sotto la guida di Pier Vincenzo Mengaldo ed è dottore di ricerca in Teoria e analisi del testo. È stato docente a contratto nelle Università di Venezia e Udine, e attualmente insegna all’Università di Liegi. Si è occupato prevalentemente di lingua e letteratura italiana contemporanea, con studi di taglio stilistico e comparatistico. Ha pubblicato la monografia Da Céline a Caproni. La versione italiana di “Mort à crédit” (Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti 2000) e numerosi saggi su autori dell’Otto e del Novecento italiano (d’Annunzio, Sbarbaro, Saba, Montale, Caproni, Campanile, Baldini, Raboni e Pusterla). È autore di studi su temi e questioni di teoria della letteratura (di prossima pubblicazione la tesi di dottorato La fine nei testi letterari. Chiuse, strategie conclusive e forme del compiuto). Collabora regolarmente con la rivista “Stilistica e metrica italiana” e partecipa al progetto di ricerca “Morfologia del sonetto novecentesco. Repertorio metrico e analisi storica”. In preparazione la raccolta di saggi Dettagli e sistemi. Esercizi di stilistica.

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Alberto Brambilla è attualmente impegnato in una ricerca sulla fortuna di De Amicis in Francia, presso l’Università della Franche-Comté (Besançon). Laureato in Filologia medievale e umanistica con Giuseppe Billanovich all’Università Cattolica di Milano, si interessa principalmente di storia della cultura e della letteratura fra Otto e Novecento, come testimonia la sua maggiore fatica, Professori, filosofi, poeti (ETS 2003). Ha curato l’edizione del carteggio Nolhac-Novati (Antenore 1988) e della corrispondenza CroceNovati (il Mulino 1999), ed è autore di volumi su De Amicis (Mucchi 1992), Ascoli (Istituto Giuliano 1996), e sul rapporto tra Irredentismo e letteratura (Del Bianco 2003). Ha inoltre dedicato diversi interventi a Carducci, e in particolare Carteggi con gli amici veronesi (Mucchi 2005, per L’Edizione Nazionale) e il volume Rovigo Carducciana (Minelliana 2008). Si occupa da tempo anche di letteratura popolare, indagando soprattutto il versante, finora poco o punto noto, della scrittura sportiva (La coda del drago. Il giro d’Italia raccontato dagli scrittori, Ediciclo 2007). Willy Burguet (1940) è medico e umanista. Consulente all’ospedale universitario di Liegi in Medicina Nucleare, si interessa alla cultura italiana. Socio della Dante Alighieri, ha frequentato le Università per stranieri di Perugia e di Siena. In campo medico è autore di diverse pubblicazioni, in francese e in inglese. Allievo della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Liegi, ha partecipato a seminari e a monografie in rivista sulla letteratura dell’emigrazione in Belgio e sull’opera di Salgari. Luciano Curreri (1966) è professore ordinario all’Università di Liegi, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea, Storia della critica e Civilisation. Specialista dell’Otto-Novecento, ha pubblicato di recente: Metamorfosi della seduzione (ETS 2008); gli atti del convegno D’Annunzio come personaggio nell’immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa (P.I.E. Peter Lang 2008); l’antologia Pinocchio in camicia nera. Quattro “pinocchiate” fasciste (Nerosubianco 2008); Mariposas de Madrid. Los narradores italianos y la guerra civil española (Prensas Universitarias de Zaragoza 2009; ed. or. Le farfalle di Madrid. L’antimonio, i narratori italiani e la guerra civile spagnola, Bulzoni 2007); La consegna dei testimoni tra letteratura e critica. A partire da Nerval, Valéry, Foscolo, d’Annunzio (F.U.P. 2009). Sta ultimando un’edizione dei Racconti di Collodi per “I novellieri” della Salerno. Collabora a “L’Indice”. Donatella de Ferra dirige la sezione d’Italiano del Dipartimento di Lingue Moderne dell’Università di Hull. La sua principale area di ricerca sono i gender studies applicati al romanzo dell’Otto e del Novecento. In questo ambito si è occupata soprattutto dell’uso del gotico e del fantastico da parte di scrittrici, come modo per affermarsi entro un canone prevalentemente maschile, e di come questo uso rifletta gli sviluppi degli studi di genere in campo teorico. È impegnata da sempre nelle

Profili bio-bibliografici degli autori attività del Centre for Gender Studies del suo ateneo, ed è tra i fondatori del nuovo polo di ricerca della medesima università per lo studio della popular culture. Il suo work in progress è rivolto alla rappresentazione di esperienze traumatiche nella cultura popolare. Roberto Fioraso, classe 1949, si è laureato con una tesi su Emilio Salgari, e si interessa di letteratura popolare e d’avventura. Della produzione salgariana ha particolarmente studiato l’appendicistica, e ha curato la pubblicazione in volume di tre romanzi apparsi solo in appendice: La Tigre della Malesia e Gli strangolatori del Gange (entrambi per Viglongo, rispettivamente 1991 e 1994), e La Vergine della pagoda d’Oriente (Aragno 2005). Ha dato alle stampe la monografia Sandokan, amore e sangue. Stesure, temi, metafore e ossessioni nell’opera del Salgari veronese (Perosini 2004). È tra i fondatori e redattori de “Ilcorsaronero. Rivista salgariana di letteratura popolare”. Fabrizio Foni (1980) si è laureato nel 2004 a Pisa in Letteratura italiana e nel 2008 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Italianistica presso l’ateneo triestino (tesi vincitrice della sesta edizione del concorso “Lama e Trama” di Maniago). Attualmente lavora all’Università di Liegi con una borsa di post-dottorato, e collabora con l’Università di Trieste come cultore della materia. Tra i suoi contributi: Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932 (Tunué 2007, finalista al Premio Italia 2008 come saggio in volume) e le antologie Il gran ballo dei tavolini. Sette racconti fantastici da «La Domenica del Corriere» (Nerosubianco 2008) e Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele (Aragno 2009, curata assieme a Claudio Gallo). Con Luciano Curreri ha in preparazione il volume di studi salgariani Peplum & Fantastico (Nerosubianco). Vittorio Frigerio, nato a Mendrisio nel 1958, è professore di letteratura e direttore del Dipartimento di francese presso la Dalhousie University di Halifax. Le sue principali aree di ricerca sono l’Ottocento e il Novecento francesi, con particolare interesse per la letteratura di massa e gli scrittori libertari. Ha pubblicato numerosi articoli su Dumas, Diderot, Barbey d’Aurevilly, Maurice Leblanc, Rosny aîné, Zola, Han Ryner e sul romanzo popolare. È autore de Les fils de Monte-Cristo. Idéologie du héros de roman populaire (PULIM 2002) e di Émile Zola au pays de l’Anarchie (ELLUG 2006). Dirige le riviste “Belphégor”, pubblicazione telematica multilingue dedicata allo studio della letteratura popolare e della cultura mediatica (http://etc.dal.ca/belphegor/), e “Dalhousie French Studies”, consacrata alla letteratura francofona di ogni tempo. Il suo ultimo romanzo è La cathédrale sur l’océan (Prise de Parole 2009). Claudio Gallo (1950) è bibliotecario, docente di Storia del fumetto presso l’Università di Verona, studioso della letteratura popolare, fondatore e redattore della rivista salgariana “Ilcorsaronero”. Ha diretto la collana “Emilio Salgari. L’opera completa” per Rizzoli-Fabbri, ha dedicato vari saggi a Salgari narratore e giornalista, alla letteratura per ragazzi del primo Novecento e alle origini del giallo italiano. Ha allestito l’antologia Per terra e per mare (Aragno 2004), contenente i racconti salgariani apparsi sulla rivista omonima, ha riscoperto I ladri di cadaveri (Aliberti 2004), il primo vero poliziesco italiano, scritto nel 1883 da Jarro, e con Viva Salgari! (Aliberti 2006) ha riportato alla luce testimonianze e documenti raccolti da Giuseppe Turcato. Con Giuseppe Bonomi ha pubblicato Tutto cominciò con Bilbolbul. Per una storia del fumetto italiano (Perosini 2006) e Il Giornalino della Domenica. Antologia di fiabe, novelle, poesie, racconti e storie disegnate (Edizioni BD 2007). Assieme a Mario Allegri ha curato Scrittori e scritture nella letteratura disegnata italiana (Fondazione Mondadori 2008), e con Fabrizio Foni l’antologia Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele (Aragno 2009).

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Un po’ prima della fine? Gian Paolo Giudicetti è nato nel 1975 a Berna. Ha studiato a Zurigo e ha difeso la sua tesi di dottorato, sulla narrativa di Giuseppe Antonio Borgese, a Louvain-la-Neuve nel 2003. Si è occupato soprattutto di narrativa italiana della prima metà del XX secolo, di Italo Calvino, di letteratura svizzera, dell’Orlando Furioso e dell’intercomprensione, un metodo di apprendimento delle lingue. Tra le sue pubblicazioni si ricordano La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese (Cesati 2005), Scrittori svizzeri (Salvioni 2004), articoli su Borgese e sull’Orlando Furioso comparsi su “Studi e Problemi di Critica Testuale”, “Otto/Novecento”, “Studi Novecenteschi”, “Versants”, “Cenobio”. Recentemente ha curato l’edizione di Il sole non è tramontato di Borgese (Nerosubianco 2009). Irene Incarico è nata a La Spezia nel 1981. Si è laureata nel 2004 a Pisa in Filologia italiana e ha collaborato con il Dipartimento di Studi italianistici dello stesso ateneo, per un progetto di ricerca sul lessico filologico nel volgare italiano coordinato da Livio Petrucci. Da alcuni anni a questa parte s’interessa dell’industria culturale attinente il postumano e il cyberpunk (in particolare nelle loro propaggini italiane), argomenti cui ha dedicato la tesi di dottorato in Italianistica, discussa all’Università di Trieste nel 2009. È redattrice de “Ilcorsaronero. Rivista salgariana di letteratura popolare”.

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Giuseppe Palumbo (Matera, 1964) ha cominciato a pubblicare a fumetti nel 1986 su riviste come “Frigidaire” e “Cyborg”, sulle cui pagine ha creato il suo personaggio piú noto, Ramarro, il primo supereroe masochista. Nel 1992 entra nello staff di “Martin Mystère” della Sergio Bonelli Editore, e nel 2000 in quello di “Diabolik” della Astorina; per queste due serie popolari disegna numerose storie speciali, tra cui il remake de Il re del terrore, numero uno della collana “Diabolik”. Sue opere sono apparse in Giappone, Grecia, Spagna e Francia. Dal 2000 coordina il lavoro dello studio “Inventario, Invenzioni per l’editoria” di Bologna; in questa attività ha convogliato il suo lavoro di illustratore e copertinista. Dal 2005 la bolognese Comma 22 gli dedica una collana di volumi aperta da Diario di un pazzo, adattamento di un racconto di Lu Xun, seguito da CUT Cataclisma (che raccoglie tutte le storie di Cut prodotte fino al 2006 per l’editrice giapponese Kodansha) e da Tosca la mosca, che contiene tutte le avventure dell’eroina eroticomica. Tra le sue pubblicazioni piú recenti: Tomka, il gitano di Guernica (2007), su testi di Massimo Carlotto, e Un sogno turco (2008), su testi di Giancarlo De Cataldo, editi da Rizzoli, ed Eternartemisia (Comma 22 2008), realizzato in collaborazione con Palazzo Strozzi di Firenze. È docente di disegno e fumetto, in particolare presso la fiorentina Scuola Internazionale dei Comics. Ha vinto numerosi premi in Italia, tra cui lo “Yellow Kid”, il “Bonaventura” e l’“Attilio Micheluzzi” come miglior disegnatore italiano. I suoi link: www.giuseppepalumbo.blogspot.com; www.palumbo-troglodita.blogspot.com; www.giuseppepalumbo.com Giuseppe Papponetti è presidente della sede regionale autonoma in Sulmona della Fondazione “G. Capograssi”, nonché del Centro Ovidiano di Studi e ricerche; dirige l’Istituto Nazionale di Studi Crociani e il Centro Nazionale di Studi dannunziani. Ha organizzato convegni internazionali, in cui è stato spesso relatore, nonché mostre librarie e documentarie nell’ambito delle sue specifiche competenze. Studioso di Filologia umanistica fra Trecento e tardo Cinquecento, con specifico riferimento alla fortuna di Ovidio, a Petrarca, Boccaccio, il Filalite, Valla, il Panormita, Pio II e i Manuzio, si è pure occupato a lungo di folclore e storiografia meridionale ottocentesca (Antonio De Nino, Nunzio F. Faraglia ecc.). I suoi studi di italianistica vertono da anni su Gabriele d’Annunzio, Carlo Emilio Gadda e Ignazio Silone, con numerose pubblicazioni al riguardo. Ricordiamo soltanto Gadda - d’Annunzio e il lavoro italiano (Fondazione Ignazio Silone 2002) e l’antologia siloniana Ai piedi di un mandorlo (Nerosubianco 2009).

Profili bio-bibliografici degli autori Giuseppe Traina insegna Letteratura italiana presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Catania, sede di Ragusa. Si è occupato di letteratura italiana, prevalentemente degli ultimi tre secoli. Ha pubblicato tre volumi su Leonardo Sciascia: La soluzione del cruciverba. Leonardo Sciascia tra esperienza del dolore e resistenza al Potere (Salvatore Sciascia Editore 1994), Leonardo Sciascia (Bruno Mondadori 1999), In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia (La Vita Felice 1999). In autunno ne pubblicherà un quarto, che raccoglie studi degli ultimi dieci anni. È inoltre autore della monografia Vincenzo Consolo (Cadmo 2001) e ha raccolto nel volume Le varianti dell’io. Intersezioni tra vita e finzione (Salarchi Immagini 2008) studi sulla letteratura della reclusione, su Da Ponte, Bini, d’Annunzio, Ortese, De Robertis, Brancati. Ha curato edizioni di d’Annunzio, De Roberto e Bufalino. Scrive su “L’Indice” e altre riviste. Mario Tropea è professore ordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Catania. Si è interessato, con monografie e saggi, di Pascoli (Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza 1976 e 1980) e dei problemi del Decadentismo (“Classicismo”, Estetismo, Decadentismo. Saggi su Leopardi, Carducci, Pascoli, De Bosis, Bonanno 1992); dei rapporti tra colonialismo e letteratura; di Verga e Pirandello (Ironia e realtà, Marra 1992); degli autori minori siciliani (Capitoli di Sicilia e dell’esotico. Studi su Domenico Tempio, Pirandello, Gozzano, Salgari, Bonaviri, Santo Calí, Rubbettino 1992; Nomi, “ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento, Lussografica 2000). Su Salgari ha scritto numerosi saggi, relativi specialmente all’esotismo e al rapporto coi temi del melodramma, della storia antica e del suo tempo, e ne ha ripubblicato i Racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata in tre volumi (Viglongo 1999-2001). Dirige la “Biblioteca di Cultura Mediterranea” per l’editrice Lussografica di Caltanissetta e fa parte del comitato scientifico della rivista “Le Forme e la Storia”. Gianni Turchetta è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano. Il suo lavoro critico cerca di conciliare specialismo e militanza culturale, storiografia e impegno nel presente, con una particolare attenzione alla teoria della letteratura. Ha pubblicato, fra gli altri, i volumi Dino Campana, biografia di un poeta (Marcos y Marcos 1985 e 1990, poi Feltrinelli 2003), Gabriele d’Annunzio (Morano 1990), La coazione al sublime (La Nuova Italia 1993), Il punto di vista (Laterza 1999), Critica, letteratura e società (Carocci 2003). È autore di saggi su “Il Conciliatore”, Pinocchio, Moravia, Cassola, Sciascia, Mastronardi, la narrativa comica, la poesia sperimentale; ha curato edizioni di Pirandello, Campana, d’Annunzio, Svevo, Consolo. Ha inoltre dato alle stampe studi di storia dell’editoria e svolto attività di traduttore dall’inglese, dal francese (ricordiamo in particolare le traduzioni di due romanzi di Boris Vian, La schiuma dei giorni, Marcos y Marcos 1992, e Lo strappacuore, ivi 1993) e dal serbo-croato. Alessandro Viti è detentore di un assegno di ricerca post-dottorato presso l’Università di Siena. I suoi ambiti di competenza sono la letteratura italiana otto-novecentesca, la comparatistica, la storia della critica e la teoria della letteratura. Ha compiuto studi sulla figura dell’esule nella letteratura europea dell’Ottocento e sul tema dell’estraneità nella poesia italiana del primo Novecento. Ha partecipato in veste di relatore a convegni internazionali di critica, e ha trascorso periodi di studio in Germania e negli Stati Uniti. Fa parte di un gruppo di ricerca sulla novella dell’ateneo pisano, per il quale sta preparando una bibliografia delle antologie di racconti italiani novecenteschi. Pubblicati o in via di pubblicazione sono suoi saggi su Pirandello, Thomas Mann, Tondelli, Campana. Attualmente sta lavorando a una monografia sulla critica tematica e a un’antologia di poesie d’esilio del periodo risorgimentale ("Ascoltate degli esuli il canto…", Nerosubianco).

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