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Umidità domestica cause effetti soluzioni: Cause, effetti, soluzioni
 9781370836918

Table of contents :
Cover Page
Umidità domestica. Cause, effetti, soluzioni
Presentazione
L’acqua fra misticismo e realtà
Introduzione
Significato di umidità
Umidità fisiologica
Umidità patologica
Eccesso di umidità
Le manifestazioni dell’acqua
I diversi tipi di umidità
Acqua liquida
Vapore acqueo
Ghiaccio
Umidità di impregnazione
Origini dell’umidità
Effetti dell’umidità sul degrado delle costruzioni
Effetti diretti e indiretti dell’umidità
Le diverse tipologie di degrado correlate all’acqua
La presenza di umidità negli edifici
Struttura del libro
L’umidità meteorica e infiltrativa
Generalità
Effetti dell’acqua meteorica sul degrado
Le discontinuità di forma e dimensione
Le principali cause di apporto d’acqua meteorica
La pioggia
Protezione dell’edificio dall’umidità meteorica
Umidità proveniente dall’alto
Infiltrazioni dai passaggi degli impianti
Umidità dalle pareti
Umidità dal terreno
Correttivi
Interventi sul nuovo
Interventi sul costruito
L’umidità da impianti e da altri apporti accidentali
Generalità
I danni da impianti
Altri danni accidentali
Principali effetti
Prevenzione e correzione
Prevenzione dell’acqua da impianti
Prevenzione dell’acqua accidentale
Correzione dell’umidità da impianti e accidentale
L’umidità condensativa
Generalità
Edificio ermetico
Edificio non ermetico
L’equilibrio fra vapore immesso ed evacuato
Principali cause della condensa
Abbassamento della temperatura, riscaldamento ciclico
Condensa superficiale e interstiziale
Modalità di manifestazione della condensa
Ponti termici
Barriera al vapore
Condensa invernale e condensa estiva
Principali effetti
Effetti sulle pitture murali
Effetti sugli intonaci
Effetti sulla massa muraria
Effetti sul calcestruzzo
Effetti sui pavimenti
Effetti sui massetti
Effetti sui rivestimenti a cappotto
Effetti sugli isolanti
Effetti sul legno
Effetti sui metalli
Effetti sugli arredi
Prevenzione e correttivi
Fenomeni convettivi
Effetti correlati
Lettura del diagramma psicrometrico
Flussi convettivi sulle murature
La cappa della cucina
Fattore di forma dell’edificio
Panni stesi
Aerazione e ventilazione
L’umidità igroscopica
Generalità
Assorbimento e deassorbimento
Isteresi igroscopica
Adsorbimento e absorbimento
Descrizione del fenomeno
I flussi di calore nei fenomeni igroscopici
La condensazione capillare
Umidità fisiologica
Influenza dei sali
Riscaldamento discontinuo
Casi particolari
Principali effetti
Umidità igroscopica stazionaria
Umidità igroscopica discontinua
Prevenzione
Aumento della temperatura dell’aria
Aumento della temperatura del supporto
Riduzione dell’UR dell’aria
Eliminazione dei sali igroscopici
Umidità proveniente dal terreno
Generalità
Le interazioni fra edificio e terreno correlate all’acqua
La falda idrica
Effetti della falda sulle costruzioni
Le infiltrazioni nei locali interrati
Le cause più comuni di ingresso d’acqua dai locali interrati
Principali effetti
Effetti della pressione idrostatica sull’edificio
Effetti sui terreni
Prevenzione
Le impermeabilizzazioni in falda
Esecuzione delle opere in presenza di falda
Tecniche di prevenzione, esecuzione in spinta e in controspinta
Correttivi
Acqua percolante con impermeabilizzazione danneggiata o assente
Acqua di falda con impermeabilizzazione danneggiata o assente
La velatura
L’umidità da risalita
Generalità
Tensione superficiale
Approfondimenti
Rapporti fra l’acqua e il mezzo poroso
Effetti della risalita capillare sulle murature
Considerazioni generali
Modalità di manifestazione
La risalita capillare
La risalita non capillare
Principali differenze fra i due fenomeni
Risalita primaria e secondaria
Considerazioni
Altri aspetti significativi
Principali correttivi
La barriera fisica
Barriera chimica
Sistemi che agiscono per intasamento dei pori
Sistemi elettrici
Sistemi di barriera termica
Sistemi ausiliari
Sistemi alternativi
Prevenzione
L’umidità residua di costruzione
Generalità
Umidità residua primaria
Umidità residua secondaria
Tempi di asciugatura
Principali effetti
Prevenzione e correttivi
Prevenzione
Correttivi
Appendice. Diagnostica dell’umidità
Meteorica e infiltrativa
Prova di allagamento
Termografia
Tecnica del gas tracciante
Sistema elettromagnetico
Sistema elettrico a Bassa Tensione (circa 35 V)
Sistema elettrico ad Alta Tensione (da 2 a 40 kV)
Sistema TERP
Da impianti e da altri apporti accidentali
Termografia
Videoispezione
Prove di pressione
Condensativa
Termografia
Misurazione della temperatura superficiale
Misurazione della temperatura e dell’umidità relativa dell’aria
Igroscopica
Proveniente dal terreno
Da risalita
Valutazione dei parametri termoigrometrici
Misurazione dell’umidità superficiale con igrometro a contatto
Misurazione dell’umidità muraria con metodo al carburo di calcio
Misurazione dell’umidità muraria ponderale o con termobilancia
Indagine termografica
Misurazione del potenziale verticale di risalita
Umidità residuale da costruzione
Norme di riferimento
Un libro scritto per le donne
Bibliografia
Ringraziamenti

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Marco Argiolas

Umidità domestica Cause, effetti, soluzioni

Proprietà letteraria riservata © 2016 – Marco Argiolas email: [email protected]

Tutti i diritti di riproduzione, adattamento, rielaborazione del testo in qualsiasi forma sono riservati per tutti i Paesi. Ogni violazione sarà perseguita penalmente ai sensi di legge.

ISBN: 9781370836918

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Cover art: Manuela Paric’ http://fiumegiallo.blogspot.it/

Di tutti i liquidi conosciuti, l’acqua è probabilmente il più studiato e il meno compreso. Felix Franks, The Royal Society of Chemistry, London

Indice

Presentazione L’acqua fra misticismo e realtà Introduzione Significato di umidità Umidità fisiologica Umidità patologica Eccesso di umidità Le manifestazioni dell’acqua I diversi tipi di umidità Acqua liquida Vapore acqueo Ghiaccio Umidità di impregnazione Origini dell’umidità Effetti dell’umidità sul degrado delle costruzioni Effetti diretti e indiretti dell’umidità Le diverse tipologie di degrado correlate all’acqua La presenza di umidità negli edifici

Struttura del libro L’umidità meteorica e infiltrativa Generalità Effetti dell’acqua meteorica sul degrado Le discontinuità di forma e dimensione Le principali cause di apporto d’acqua meteorica La pioggia Protezione dell’edificio dall’umidità meteorica Umidità proveniente dall’alto Infiltrazioni dai passaggi degli impianti Umidità dalle pareti Umidità dal terreno Correttivi Interventi sul nuovo Interventi sul costruito L’umidità da impianti e da altri apporti accidentali Generalità I danni da impianti Altri danni accidentali Principali effetti

Prevenzione e correzione Prevenzione dell’acqua da impianti Prevenzione dell’acqua accidentale Correzione dell’umidità da impianti e accidentale L’umidità condensativa Generalità Edificio ermetico Edificio non ermetico L’equilibrio fra vapore immesso ed evacuato Principali cause della condensa Abbassamento della temperatura, riscaldamento ciclico Condensa superficiale e interstiziale Modalità di manifestazione della condensa Ponti termici Barriera al vapore Condensa invernale e condensa estiva Principali effetti Effetti sulle pitture murali Effetti sugli intonaci Effetti sulla massa muraria

Effetti sul calcestruzzo Effetti sui pavimenti Effetti sui massetti Effetti sui rivestimenti a cappotto Effetti sugli isolanti Effetti sul legno Effetti sui metalli Effetti sugli arredi Prevenzione e correttivi Fenomeni convettivi Effetti correlati Lettura del diagramma psicrometrico Flussi convettivi sulle murature La cappa della cucina Fattore di forma dell’edificio Panni stesi Aerazione e ventilazione L’umidità igroscopica Generalità Assorbimento e deassorbimento

Isteresi igroscopica Adsorbimento e absorbimento Descrizione del fenomeno I flussi di calore nei fenomeni igroscopici La condensazione capillare Umidità fisiologica Influenza dei sali Riscaldamento discontinuo Casi particolari Principali effetti Umidità igroscopica stazionaria Umidità igroscopica discontinua Prevenzione Aumento della temperatura dell’aria Aumento della temperatura del supporto Riduzione dell’UR dell’aria Eliminazione dei sali igroscopici Umidità proveniente dal terreno Generalità Le interazioni fra edificio e terreno correlate all’acqua

La falda idrica Effetti della falda sulle costruzioni Le infiltrazioni nei locali interrati Le cause più comuni di ingresso d’acqua dai locali interrati Principali effetti Effetti della pressione idrostatica sull’edificio Effetti sui terreni Prevenzione Le impermeabilizzazioni in falda Esecuzione delle opere in presenza di falda Tecniche di prevenzione, esecuzione in spinta e in controspinta Correttivi Acqua percolante con impermeabilizzazione danneggiata o assente Acqua di falda con impermeabilizzazione danneggiata o assente La velatura L’umidità da risalita Generalità Tensione superficiale Approfondimenti Rapporti fra l’acqua e il mezzo poroso

Effetti della risalita capillare sulle murature Considerazioni generali Modalità di manifestazione La risalita capillare La risalita non capillare Principali differenze fra i due fenomeni Risalita primaria e secondaria Considerazioni Altri aspetti significativi Principali correttivi La barriera fisica Barriera chimica Sistemi che agiscono per intasamento dei pori Sistemi elettrici Sistemi di barriera termica Sistemi ausiliari Sistemi alternativi Prevenzione L’umidità residua di costruzione Generalità

Umidità residua primaria Umidità residua secondaria Tempi di asciugatura Principali effetti Prevenzione e correttivi Prevenzione Correttivi Appendice. Diagnostica dell’umidità Meteorica e infiltrativa Prova di allagamento Termografia Tecnica del gas tracciante Sistema elettromagnetico Sistema elettrico a Bassa Tensione (circa 35 V) Sistema elettrico ad Alta Tensione (da 2 a 40 kV) Sistema TERP Da impianti e da altri apporti accidentali Termografia Videoispezione Prove di pressione

Condensativa Termografia Misurazione della temperatura superficiale Misurazione della temperatura e dell’umidità relativa dell’aria Igroscopica Proveniente dal terreno Da risalita Valutazione dei parametri termoigrometrici Misurazione dell’umidità superficiale con igrometro a contatto Misurazione dell’umidità muraria con metodo al carburo di calcio Misurazione dell’umidità muraria ponderale o con termobilancia Indagine termografica Misurazione del potenziale verticale di risalita Umidità residuale da costruzione Norme di riferimento Un libro scritto per le donne Bibliografia Ringraziamenti

Presentazione Questo libro affronta il problema dell’umidità domestica con l’intento di dare una risposta a quanti vogliono conoscere meglio questo particolare fenomeno, o insieme di fenomeni.

I proprietari di immobili, gli amministratori condominiali, i costruttori e i tecnici potranno trovarvi tutte le notizie utili alla comprensione dell’umidità e dei suoi comportamenti.

Il testo è stato concepito come una guida per facilitare la lettura dei sintomi e, attraverso questi, individuare le cause della presenza d’acqua e gli opportuni correttivi. Nonostante l’argomento sia vario e complesso, si è fatto il possibile per renderlo comprensibile e scorrevole anche per i non addetti ai lavori, evitando lunghe e noiose spiegazioni tecniche. Lo scopo di questo volume non è trattare in maniera approfondita ogni singolo tema, ma fornire al lettore una traccia utile e pratica per potersi districare nel misterioso e difficile mondo dell’umidità domestica.

Al momento non esiste in Italia un metodo approvato o universalmente accettato per la ricerca delle cause dell’umidità, quindi ogni tecnico può procedere autonomamente nell’indagine, adottando criteri propri sia nell’analisi delle cause sia nell’elaborazione delle soluzioni.

Per questo motivo non si potrà fornire un rigoroso metodo diagnostico, ma saranno invece esaminati gli indizi, quasi sempre sconosciuti e di difficile

interpretazione, utilissimi per capire il problema dell’umidità domestica in tutte le sue manifestazioni più frequenti.

Capita spesso che il proprietario di casa abbia una paura profonda della risalita capillare. Quando questa viene diagnosticata nella sua abitazione è convinto di dovere affrontare una patologia grave, dall’esito incerto. La diagnosi di umidità di risalita diventa perciò temuta quanto un referto medico infausto, la peggiore notizia che possa riguardare l’immobile, la sua vivibilità e il suo valore. Al proprietario si prospetta un lungo tunnel buio, del quale conosce l’entrata ma non intravede l’uscita.

Si butta su Internet, non per navigare ma per naufragare in un mare di proposte commerciali, tutte apparentemente uguali, ma tutte altrettanto dubbie e nebulose.

Accetta (erroneamente) il fatto che l’acqua non si possa fermare in alcuna maniera e che un errore di diagnosi sia quasi inevitabile. A quel punto cede e si affida al primo esperto, o presunto tale, che capita. Oppure al più economico.

Questo stato di sconforto è molto frequente in coloro che si trovano ad affrontare i problemi di umidità domestica, anche perché le cifre in gioco sono spesso considerevoli. Soprattutto se si sbaglia la diagnosi.

Non pretendiamo di risolvere l’intero argomento in queste poche pagine, ma dopo avere letto il libro sarete sicuramente più preparati e conoscerete l’umidità domestica meglio della maggior parte di coloro che si presentano a casa vostra proponendosi come esperti, per una diagnosi o un preventivo.

Scoprirete che il fenomeno della risalita muraria è molto raro e che in moltissimi casi i problemi si possono risolvere facilmente e con poca spesa.

Molti concetti saranno ripetuti e spiegati in modi diversi, proprio per far capire nella maniera più chiara possibile alcuni fenomeni non intuitivi, che riguardano l’umidità nei suoi rapporti con le costruzioni.

L’argomento è particolarmente complicato perché necessita della conoscenza contemporanea di numerosi aspetti tecnici e scientifici. Un vero esperto dell’umidità deve essere anche esperto di chimica, fisica, scienza e tecnica delle costruzioni, e deve conoscere abbastanza bene la geologia e gli aspetti meteorologici e climatici del sito in esame. Deve anche avere una conoscenza storica delle tecniche costruttive, capire come ragionavano e pensavano le persone che hanno costruito l’edificio e quindi intuire dove possano aver sbagliato. Occorre poi avere una vasta esperienza di materiali e sistemi correttivi, antichi e moderni, per poter proporre ogni volta il metodo più efficace e meno impegnativo, idoneo a riparare i danni ed eliminare i difetti riscontrati. In questo libro abbiamo cercato per quanto possibile di trasferire una parte di queste conoscenze rendendole fruibili al lettore. Vi troverete inoltre numerose fotografie di casi reali, per illustrare meglio le modalità di manifestazione delle patologie edilizie causate dall’acqua.

L’acqua fra misticismo e realtà

Fig. 1.1 La divina acqua mercuriale (Baro Urbigerus – 1705).

L’acqua costituisce il 70,8% della superficie terrestre ed è l’elemento che rende possibile la vita sul nostro pianeta. Il corpo umano è costituito per l’80% da acqua, la cui carenza anche per brevi periodi provoca seri danni a organi e apparati, fino a determinare esiti fatali per l’organismo.

Senza l’acqua non sarebbe possibile l’esistenza di alcun tipo di attività biologica, tant’è che gli scienziati la cercano su altri pianeti, essendo la sua presenza una condizione essenziale per lo sviluppo della vita. Il progresso di tutte le civiltà umane è avvenuto in insediamenti situati in prossimità di corsi d’acqua, attorno ai quali si sono create le condizioni favorevoli per l’agricoltura e l’allevamento.

Ma l’acqua non è solo benefica. Gli stessi agglomerati urbani la rendevano inquinata e quindi non potabile, al punto che in tutti i documenti antichi, compresa la Sacra Bibbia, non risulta che l’acqua dei fiumi fosse bevuta. Ci si dissetava solo con quella proveniente da fonti di alta montagna. In altre culture, come quelle orientali, l’acqua veniva sterilizzata tramite ebollizione per renderla adatta all’alimentazione umana e da questa usanza deriva la tradizione del tè. Nelle culture occidentali è stato invece l’alcool a consentire la disinfezione dell’acqua, tramite la birra per gli Egizi, il vino per le civiltà mediterranee, e i distillati da fermentati idroalcolici, come il whisky e l’acquavite per i popoli del Nord Europa.

Quindi, fin dai primordi dell’esistenza umana la condizione contraddittoria dell’elemento acqua, indispensabile alla vita al punto quasi da sovrapporsi al suo significato ma in grado anche di provocare malattia e morte, ha sviluppato nell’inconscio umano la convinzione che avesse virtù magiche e sovrannaturali, dal significato duale e incerto.

Come dicevamo, nel corso dell’evoluzione la nostra specie si è costituita in comunità organizzate, che hanno dato luogo alle diverse civiltà, solo ed esclusivamente dove era disponibile abbondante acqua corrente per usi agricoli. Nella civiltà egizia è stato il Nilo a svolgere questo importante ruolo, per gli Indù è stato il Gange, per i Babilonesi il Tigri e l’Eufrate, per i Cinesi il Fiume Giallo, per gli antichi Romani il Tevere e via discorrendo. Si può affermare con certezza che, in assenza di grandi disponibilità d’acqua, non ci sarebbe stata la possibilità di sviluppare civiltà avanzate.

Questa condizione di assoluta dipendenza dell’uomo e delle sue attività dall’acqua ha portato ad attribuire a questo speciale elemento connotazioni di natura mistica, simbologica e religiosa, ancora profondamente radicate nell’inconscio collettivo.

Fig. 1.2 Il Battesimo di Cristo in un’icona della Chiesa Ortodossa. La pratica del battesimo, in cui la morte e la rinascita avvengono attraverso l’immersione nell’acqua, deriva da antichissime usanze religiose ebraiche. L’acqua è sempre stata legata ai più profondi rituali dell’esistenza umana e la sua simbologia è presente in tutte le religioni fin dai tempi più remoti.

Alcune di queste credenze sono quasi identiche in tutte le culture presenti fin dalle epoche più antiche, al punto da fare ipotizzare l’esistenza di un profondo legame psichico di tipo primordiale. Non solo di coesistenza, ma di appartenenza vera e propria, nella sfera di un più ampio rapporto ancestrale archetipico.

L’associazione dell’acqua alla vita è presente già dagli albori della civiltà e segue la visione ciclica dell’universo in cui vita e morte si alternano all’infinito, unite e opposte, scambiandosi continuamente di ruolo.

Basti pensare allo stesso fiume, che portava la vita donando fertilità ai terreni e abbondanza ai raccolti ma in occasione delle alluvioni creava danni e devastazione. Oppure al mare, che assicurava l’approvvigionamento del pesce di cui cibarsi ma era anche causa di naufragi e annegamenti e che rappresentava l’ignoto, la minaccia di una forza nefasta che si manifestava attraverso incidenti e maremoti.

Fig. 1.3 La grande Onda di Katsushika Hokusai (1830-1832), è forse l’opera d’arte giapponese più famosa al mondo.

L’acqua, compresa quella del mare, era un elemento di unione fra i popoli e di collegamento fra le culture. Il mare e il fiume diventavano la “strada” da percorrere per raggiungere altri insediamenti umani. Ma era anche motivo di divisione e conflitto fra tribù, in caso di siccità o carestia. L’acqua è stata considerata la materia liquida (materia: dal latino mater = madre) fondamentale dell’universo in molte filosofie e religioni.

Nelle culture antiche, molti dei e divinità pagani sono strettamente collegati all’acqua nelle loro rappresentazioni e manifestazioni. A causa dei suoi caratteri fortemente identificativi, all’acqua è associato il concetto di femminile, di inconscio, di purificazione e di rinascita.

Molti rituali religiosi, come il Battesimo cristiano e le abluzioni nell’Ebraismo e nell’Islam, o l’immersione dei morti nell’acqua del Gange, rinnovano continuamente questo profondo concetto originario.

Nella filosofia cosmogonica greca, insieme a fuoco, terra e aria, era uno degli elementi essenziali dell’universo. Nello zodiaco l’acqua rappresenta un quarto dei quadranti con i segni dei pesci, del cancro, e dell’acquario.

Fig. 1.4 Viridarium Chymicum, Daniel Stolz von Stolzenberg, Francoforte 1624. Nella simbologia alchemica, l’acqua è uno dei quattro elementi fondamentali dell’universo e viene rappresentata da un triangolo rivolto verso il basso, che è la stessa raffigurazione del femminile mentre in altre filosofie rappresenta la perfezione.

Non mancano poi proiezioni immaginarie mostruose e negative, che sono da collegare alla percezione di potenza sovrana e incontrollabile attribuita a questo elemento.

Lo stesso diluvio universale citato nella Bibbia è motivo di distruzione ma allo stesso tempo di rinascita e purificazione, secondo la visione ciclica precedentemente accennata. Numerose religioni e tradizioni di tutto il mondo credono le acque popolate da mostri, draghi e sirene, ad accrescere la visione negativa dell’elemento. Un esempio moderno ed emblematico è il mostro cinematografico Godzilla, creato in Giappone negli anni ’50 e ’60 sulla scia dell’americano King Kong. In questa vecchia pellicola, un essere che viene dal mare minaccia la sopravvivenza dell’uomo, incarnando e rinnovando l’importante elemento simbolico presente nella millenaria cultura nipponica della distruzione proveniente dal mare.

Una cosa certa è che l’acqua alterna e rinnova continuamente il suo segno positivo e negativo, rassicurante e pericoloso, benefico e dannoso. Lo stesso concetto si ritrova in tutte le culture del mondo, fin dalla comparsa dell’uomo sulla terra.

Fig. 1.5 Mosè divide le acque del Mar Rosso.

Questa breve introduzione, apparentemente inutile, renderà invece più comprensibile l’atteggiamento che molte persone hanno nei confronti dell’acqua nelle costruzioni. Alcuni le attribuiranno facoltà mistiche, altri si convincono che contro l’acqua non sia possibile combattere, altri ancora, non conoscendo le leggi fisiche e chimiche alle quali deve sottostare, la riterranno capace di violarle a piacimento. Con la sua inafferrabile fuggevolezza liquida, la facoltà di mutare continuamente forma, di sparire evaporando per poi riapparire magicamente nel silenzio della notte sotto forma di rugiada, l’acqua ha sicuramente rappresentato uno dei misteri più inestricabili della cultura umana.

Un antico proverbio sardo recita: “Noi non sappiamo dove passa l’acqua, ma l’acqua sa dove deve passare”.

Il significato era riferito in origine ai fiumi, che in occasione di intense precipitazioni meteoriche si riappropriavano improvvisamente e con prepotenza dei loro corsi naturali, che erano spesso territori coltivati o edificati.

Si attribuivano quindi all’acqua forza, potenza e conoscenza sovrannaturali tali da renderla ingovernabile. Contro di essa l’uomo non avrebbe mai potuto opporsi né difendersi. L’acqua che dà la vita ha la facoltà di riprendersela quando vuole.

Purtroppo questa convinzione non perde di attualità neppure al giorno d’oggi.

Le alluvioni in Thailandia nel 2006 e in Giappone nel 2011 a seguito di tsunami o il disastro già dimenticato di New Orleans (USA) del 2005 causato dall’uragano Katrina ripropongono con forza l’antica visione del nostro rapporto conflittuale e bivalente con questo prezioso e pericoloso elemento. Le sempre più frequenti inondazione che colpiscono le città italiane, e si cita solo a titolo di esempio Genova, mostrano quanto l’argomento sia purtroppo attuale.

Nello studio che segue applicheremo l’insegnamento dell’antico proverbio alle costruzioni. Cercheremo cioè di comprendere a fondo quale magica

conoscenza possa avere l’acqua per passare dove noi non sappiamo, e proveremo a raggiungere lo stesso livello di sapienza per poterla fermare.

Possiamo proiettare la visione ciclica più volte espressa anche sulle costruzioni. L’acqua è fondamentale durante la fase di edificazione dell’opera: serve infatti per attivare le reazioni chimiche di presa delle malte, per impastare il calcestruzzo e gli intonaci. Nelle costruzioni di legno è servita per l’accrescimento del fusto. E tutto ciò rappresenta la vita.

Nel successivo periodo di esercizio dell’edificio, l’acqua avrà invece solo effetti negativi sull’opera, tali da innescare e accrescere i processi di degrado e da avviarla verso la distruzione. Tutti i sistemi termodinamici tendono al livello di energia minimo, come afferma il secondo principio della termodinamica. Le costruzioni dell’uomo non fanno eccezione: sul lungo termine anch’esse si disperderanno in materia indefinita e disordinata, che corrisponde al livello energetico più basso.

Vedremo nei capitoli seguenti come, attraverso piccoli e spesso banali accorgimenti, si possa prolungare in maniera consistente la vita utile degli edifici, salvaguardando la loro funzionalità e risparmiando nel contempo rilevanti somme di denaro.

Da questo momento in poi, le nostre considerazioni e analisi abbandoneranno definitivamente le concezioni mistiche, esoteriche e simboliche dell’elemento acqua per passare ad affrontare esclusivamente i suoi aspetti di natura tecnica e pratica nel rapporto funzionale con gli edifici.

Buona lettura.

Introduzione

Fig. 2.1 La convivenza della civiltà umana con l’acqua ha origini molto lontane.

Il rapporto fra l’acqua e gli edifici è sempre stato difficile e conflittuale. La presenza o, meglio, l’eccesso di umidità nelle costruzioni ha rappresentato fin dai tempi più antichi un serio problema per le opere, per quanto viene custodito al loro interno e per la salute delle persone.

L’acqua è responsabile dell’80% del degrado subito dalle costruzioni e, secondo un dato dell’Unione Europea, di oltre il 60% dei contenziosi nell’edilizia. Possiamo quindi immaginare quale sia l’impatto sociale, sanitario ed economico di questo importante problema. Pensiamo inoltre a quale impegno viene profuso in termini di indagine sui danni, di perizie, di valutazione dei lavori da realizzare, di individuazione delle responsabilità e purtroppo, come sempre più spesso accade, di gestione dei contenziosi legali. Vi sono inoltre importanti implicazioni ecologiche e ambientali legate all’aumentata produzione dei rifiuti causati dai lavori necessari per sanare danni o difetti riconducibili all’acqua nelle opere civili.

L’eccessiva umidità in casa è un problema rilevante anche dal punto di vista igienico e sanitario e le nostre attenzioni dovranno quindi essere rivolte al controllo della sua presenza affinché non diventi dannosa o pericolosa per le persone.

L’eliminazione totale dell’umidità non è possibile, poiché qualsiasi materiale edile a esclusione di vetro, porcellana, metalli e alcune plastiche è in grado di assorbirla. E lo farà secondo le modalità che andremo a descrivere nel testo. Il nostro obiettivo sarà dunque quello di eliminare l’umidità in eccesso dove è presente e di impedire che questa possa creare danni agli edifici.

Significato di umidità Formalmente, il termine indica la presenza di acqua in generale, ma nel nostro caso si riferirà al suo rapporto con l’abitazione e i suoi componenti costruttivi, con quanto vi è contenuto compresi l’aria interna, gli arredi e i corredi, e con tutto ciò che si trova nell’ambiente circostante, ovvero l’aria esterna e il terreno.

Viene definita fisiologica o naturale, la quantità di umidità presente sui supporti quando questa è in equilibrio con l’aria ambiente e non crea problemi di degrado o di formazioni biologiche né alcun altro tipo di conseguenza negativa sul breve termine. L’umidità in eccesso è invece definita come patologica, in quanto capace di causare danni diretti e indiretti anche molto seri all’edificio e ai suoi occupanti.

Umidità fisiologica I valori ottimali riferiti all’aria ambiente sono pari a 20/21° C di temperatura con umidità relativa del 50% nel regime invernale e di 24/25° C sempre con umidità relativa del 50% nei mesi estivi.

Più avanti sarà spiegato nel dettaglio il significato di umidità relativa.

In queste condizioni, i fenomeni di degrado dei materiali che costituiscono l’edificio e di quanto vi è contenuto sono molto limitati.

I valori indicati sono quelli più confortevoli per le persone e i meno adatti per la proliferazione delle attività biologiche dannose, come per esempio muffe, batteri e virus. I materiali edili porosi che compongono la costruzione tendono a portarsi in equilibrio con l’aria ambiente, fino ad assumere valori massimi variabili fra il 2 e il 4% in peso. Ciò significa che in ogni chilogrammo di mattone, intonaco o calcestruzzo saranno contenuti fra i 20 e i 40 grammi di umidità.

Attenzione: la percentuale in peso è cosa ben diversa dalla percentuale in volume. Mediamente una muratura di mattoni pieni pesa circa 1.600 kg al m³, quindi il 4% in peso è pari a 64 kg, mentre il 4% in volume d’acqua corrisponde a 40 litri, cioè a 40 kg.

Se esaminiamo materiali leggeri come gli isolanti termici, le differenze sono ancora più marcate. Il polistirolo espanso, noto con il simbolo EPS, è molto usato in varie versioni con diverse densità per la realizzazione dei cappotti e per l’isolamento in intercapedine.

Il suo assorbimento di acqua è pari a circa il 3% in volume, quindi un m³ di EPS può assorbire 30 dm³ cioè 30 kg di acqua. Considerando che un materiale simile può pesare circa 20 kg al m³, gli stessi 30 kg d’acqua assorbiti sono il 3% in volume e il 150% in peso.

Quanto più l’umidità dell’aria è alta, tanto più tende a essere alta anche sui supporti porosi, e viceversa. Fra l’aria e i materiali presenti nella costruzione avvengono continui interscambi che tendono sempre all’equilibrio.

Se il supporto poroso, sia esso un muro o un pavimento, è più umido dell’aria, si avrà un trasferimento di acqua sotto forma di vapore, detto evaporazione, dal mezzo poroso all’aria. Se invece quest’ultima è più umida del supporto, si avrà il processo inverso, che prende il nome di condensazione. In questo caso, l’umidità presente nell’aria si trasferisce sui materiali edili e su quelli contenuti all’interno dell’edificio fino a trovare il suo punto di equilibrio, non necessariamente sotto forma di liquido ma molto più spesso come umidità contenuta nei pori, che generalmente è di natura igroscopica.

Le percentuali di umidità contenute nella casa, sia nell’aria sia nei supporti porosi, oscillano nel tempo e quasi sempre si mantengono sufficientemente basse da non costituire un problema né per i materiali né per gli occupanti. Quando queste percentuali superano determinati limiti, bisogna però

intervenire in maniera adeguata e in tempi piuttosto rapidi, per evitare il progressivo degrado dell’edificio e del suo contenuto.

Umidità patologica È assodato che tutti i materiali usati nelle costruzioni, oltre a quelli che si trovano all’interno degli edifici, sono più o meno sensibili all’umidità. Quando questa aumenta, si realizzano le condizioni che inducono, direttamente o indirettamente, fenomeni di degrado molto spesso a carattere degenerativo, capaci di causare in ultima analisi la distruzione delle opere e dei manufatti. Il comportamento dei vari materiali a contatto con l’umidità varia enormemente e dipende da molti fattori. Anche le reazioni secondarie conseguenti possono essere molto diverse fra loro.

L’umidità patologica è sempre dovuta a quantità di umidità in eccesso rispetto a quella fisiologica.

Eccesso di umidità Una situazione frequentemente riscontrabile nelle strutture edili a uso abitativo è l'umidità in eccesso. Questa può provocare danni seri alla costruzione e a tutto ciò che vi è contenuto compresi gli arredi, coinvolgendo anche la salute degli occupanti.

Si definisce eccesso quella quantità d’acqua che va oltre le funzioni specifiche dell’elemento considerato e che deriva da difetti costruttivi, danni o cause comunque indesiderate che ne pregiudicano la funzionalità e l’integrità estetica o strutturale.

Per esempio, una vasca di accumulo idrico o una piscina saranno normalmente piene d’acqua, ma questa non può essere considerata in eccesso, mentre una percentuale di umidità superiore al 4 % contenuta nelle murature domestiche sarà definita come eccedente. Bisogna inoltre considerare che la quantità d’acqua presente in una costruzione tende a variare con andamento stagionale ciclico dovuto alle diverse modalità di gestione dell’immobile. Dipende quindi dall’uso più o meno intensivo degli impianti di riscaldamento e condizionamento e dalle attività che si svolgono all’interno della struttura.

Fig. 2.2 Molecole d’acqua libere.

Le manifestazioni dell’acqua Per poter comprendere meglio il testo che segue bisogna innanzi tutto fare una distinzione fondamentale fra le diverse forme attraverso le quali l’acqua può essere presente nell’edificio e sui materiali. Come vedremo meglio in seguito, l’acqua si comporta in maniera completamente diversa a seconda del suo stato fisico, che può essere liquido, gassoso o solido, e delle sostanze alle quali può essere unita sotto forma di miscela, di soluzione e di composto idrato.

Si raccomanda vivamente di leggere con cura questa sezione per poter correttamente interpretare i fenomeni che saranno poi approfonditi nel testo.

Le spiegazioni che seguono non hanno la pretesa di essere un trattato di fisica o di chimica. Sono soltanto dei richiami ad alcuni argomenti già conosciuti dal lettore, arricchiti da approfondimenti utili alla comprensione dei fenomeni riguardanti il rapporto fra l’acqua e gli edifici. Perciò saranno descritti solo per quanto riguarda l’umidità domestica, evitando ulteriori considerazioni di carattere generale o non pertinente.

L’acqua, almeno ai fini dell’argomento trattato, può esistere in tre diversi stati fisici, dette fasi.

La fase liquida, che chiameremo acqua liquida, quella aeriforme o di vapore e quella solida chiamata ghiaccio. Esiste un’altra forma di esistenza dell’acqua, che non è propriamente una fase, ma è presente in maniera

diffusa nelle costruzioni, e riguarda l’impregnazione parziale o totale di un mezzo poroso.

Spesso la si descrive con il termine indefinito di umidità ma, come vedremo, si tratta di una condizione particolare, ricca di comportamenti inusuali, che necessita di essere conosciuta un po’ meglio.

I diversi tipi di umidità

Quindi, in ambito domestico, possiamo trovare l’acqua in quattro diverse forme:

Acqua liquida Vapore acqueo Ghiaccio Acqua che impregna un mezzo poroso

Fig. 2.3 Le tre fasi dell’acqua.

Acqua liquida

In termini scientifici, si parla di liquido quando la materia ha massa e volume proprio ma non forma propria e assume quella del recipiente che la contiene.

Perciò l’acqua liquida ha bisogno di essere contenuta in uno spazio definito. L’intervallo di temperatura entro il quale l’acqua liquida può esistere alla pressione ambiente è compreso fra 0°C e 100°C.

L’acqua liquida è soggetta a diverse leggi fondamentali della fisica, alcune delle quali poco note, che incidono in maniera significativa sul suo comportamento in relazione al rapporto con l’edificio.

Per brevità non verranno elencate tutte, ma saranno riportate nelle varie sezioni successive solo quelle utili a spiegare i fenomeni correlati. L’acqua allo stato liquido ha inoltre alcune particolari proprietà fisiche e chimiche, assolutamente uniche in natura, che vedremo man mano nel seguito del libro.

Vapore acqueo

Il vapore è lo stato fisico aeriforme dell’acqua, che si sviluppa per evaporazione della sua fase liquida. Questo processo avviene a tutte le temperature e necessita di una certa quantità di calore, detta appunto calore di evaporazione per potersi realizzare. Il vapore acqueo può miscelarsi con l’aria in diverse proporzioni e può essere saturo o insaturo. Si dice saturo se a una determinata temperatura viene raggiunta la quantità massima di vapore che l’aria può contenere, mentre è insaturo se questa è più bassa. La percentuale di umidità presente nell’aria, riferita a quella di saturazione, è detta umidità relativa. La temperatura incide sensibilmente su questi equilibri. Se aumenta, tenderà a crescere la quantità di vapore che può essere contenuta nello stesso volume d’aria. Viceversa se diminuisce avverrà l’esatto contrario, ma è importante precisare che tutto ciò non segue la legge di proporzionalità.

Il vapore acqueo contenuto nell’aria esercita inoltre una pressione, chiamata più frequentemente tensione di vapore, che ha effetti molto particolari e per nulla intuitivi sul movimento di umidità nei mezzi porosi, e in particolar modo sugli isolanti termici.

Ghiaccio

Il ghiaccio è acqua allo stato solido che si forma normalmente per solidificazione dell’acqua liquida a temperature di 0° C o inferiori. Più raramente, può formarsi per trasformazione diretta del vapore acqueo in brina, fenomeno che prende appunto il nome di brinamento.

Se l’acqua non è pura ma contiene delle sostanze disciolte, la temperatura di congelamento si abbassa; l’acqua cioè resta liquida anche al di sotto di 0° C. Questo fenomeno si chiama abbassamento crioscopico e si osserva spesso anche nell’acqua che interagisce con gli edifici.

L’altra caratteristica interessante del ghiaccio è quella di avere un volume maggiore rispetto all’acqua di circa il 9%.

È noto a tutti che se mettiamo una bottiglia di vetro piena d’acqua nel freezer questa si rompe appena si forma il ghiaccio al suo interno.

Anche le costruzioni subiscono effetti dannosi da questo anomalo fenomeno di espansione volumetrica, che causa diverse forme di disgregazione superficiale dei materiali e in taluni casi anche problemi più seri, come la rottura di tubazioni o di impianti idrici.

La neve è una formazione meteorica di minuscoli cristalli di ghiaccio di forma esagonale, che prendono il nome di fiocchi. Mentre la grandine è una precipitazione formata da chicchi di ghiaccio di maggiori dimensioni, generalmente di forma sferica o similare.

Umidità di impregnazione

Non si tratta di un diverso stato fisico, ma l’umidità di impregnazione si comporta in maniera completamente diversa rispetto alle fasi conosciute dell’acqua. Riteniamo perciò di dover esporre i concetti che seguono per favorire una completa comprensione del tema.

Quando l’acqua impregna un mezzo poroso, per esempio un mattone, un intonaco o il sottofondo di un pavimento, segue leggi fisiche diverse rispetto all’acqua liquida che siamo abituati a conoscere.

I supporti sui quali questa è presente possono essere saturi o insaturi.

Nel primo caso, tutte le porosità sono completamente riempite d’acqua e si tratta perciò di acqua liquida e talvolta mobile, che può cioè spostarsi all’interno delle porosità in maniera relativamente rapida, subendo l’effetto della legge di gravità. Trovandosi però ad attraversare porosità molto fini, i movimenti del liquido sono enormemente rallentati dagli attriti.

Più raramente, questo può muoversi secondo le leggi della capillarità.

Nel caso invece dei supporti insaturi, le porosità sono solo parzialmente riempite d’acqua. In questa condizione, detta appunto di saturazione parziale o incompleta, una parte dei pori conterrà acqua, non più liquida ma aderente

alle superfici, e il volume rimanente sarà costituito da una fase gassosa di aria e vapore acqueo, generalmente saturo.

Le differenze più significative di comportamento fra l’umidità presente in un supporto insaturo e in uno saturo sono le seguenti:

La forza di gravità è praticamente ininfluente sull’umidità insatura, quindi questa può trasmettersi per diffusione (cioè da dove è maggiore a dove è minore) in tutte le direzioni indifferentemente. Sui supporti insaturi non può manifestarsi il fenomeno della capillarità, in quanto non esiste una superficie di separazione netta fra liquido e aria, chiamata menisco. Non esiste quindi nessuna tensione superficiale e il liquido contenuto nei pori non è in depressione barometrica. Le azioni di adesione che si instaurano fra le superfici del mezzo poroso insaturo e le molecole d’acqua sono piuttosto intense e tendono a “fissare” l’umidità. Nel supporto saturo invece l’acqua è generalmente mobile e può spostarsi agevolmente. I movimenti dell’umidità in un supporto insaturo sono estremamente lenti, mentre nel supporto saturo sono molto rapidi.

Fig. 2.4 Porosità in un mattone pieno eroso dall’acqua.

Origini dell’umidità L’umidità può avere diverse origini, che classificheremo come esogene, ovvero provenienti dall’esterno dell’edificio ed endogene, cioè prodotte dalle attività che si svolgono al suo interno. Vedremo come queste sono strettamente correlate fra loro anche in maniera sinergica. L’umidità è la causa prevalente diretta e indiretta di degrado degli edifici e dei materiali che li costituiscono.

I danni generati sono spesso a carattere progressivo evolutivo, tendono cioè a peggiorare incrementando e autoalimentando progressivamente gli effetti del degrado.

Fig. 2.5 L’acqua non deve entrare in casa e il vapore prodotto al suo interno, oltre a quello eventualmente già presente, deve poter essere evacuato. L’involucro della costruzione deve essere impermeabile all’acqua e allo stesso tempo deve consentire la traspirazione del vapore.

Effetti dell’umidità sul degrado delle costruzioni Gli elementi che, a diverso titolo, concorrono allo sviluppo di effetti degenerativi sui materiali edili sono molteplici. I più significativi sono: pioggia, vento, oscillazioni di temperatura, gelo, umidità ambientale, presenza di sostanze chimiche e attività biologiche.

Quasi tutti agiscono direttamente o indirettamente attraverso l’acqua. La posizione del sito costruttivo rispetto all’ambiente circostante espone continuamente l’edificio a tutti gli agenti di degrado noti fin dal periodo di edificazione. La scelta dei materiali, in linea generale, viene fatta all’epoca della costruzione in funzione della tipologia dell’opera e della sua destinazione d’uso, o più semplicemente in base a quanto ci si poteva permettere al momento con le risorse disponibili. Le condizioni climatiche iniziali possono aver subito dei cambiamenti anche rilevanti nel tempo, dai quali sono poi scaturiti effetti significativi per i materiali e per le opere soggette a degrado.

Per esempio, le meravigliose costruzioni della Repubblica di Venezia furono progettate e costruite tenendo conto dell’ambiente aggressivo di tipo marino o lacustre, ma oggi si trovano soggette a forte degrado da atmosfera industriale causato dalle importanti attività petrolchimiche che da diversi decenni si sono insediate nelle vicinanze. Queste condizioni non erano prevedibili o ipotizzabili in fase di progettazione e realizzazione delle opere.

Restando sullo stesso tema, un’altra particolarità più attuale da segnalare riguarda il calcestruzzo a vista, che è stato abbondantemente impiegato nelle costruzioni, anche di rilevante valenza architettonica, senza preoccuparsi della sua protezione. Oggi stiamo pagando le conseguenze dell’errata convinzione radicata in passato che considerava il cemento un materiale indistruttibile. La quasi totalità delle strutture in calcestruzzo a vista necessita attualmente di pesanti interventi di risanamento e di costosi lavori di ripristino, dovuti alla mancanza di idonei rivestimenti protettivi.

Le modificazioni delle condizioni ambientali non sono sempre correlate ad attività antropiche, anzi nella maggior parte dei casi derivano da variazioni del tutto naturali, benché nocive, dei parametri climatici generali, su scala mondiale e locale.

In misura più contenuta, le stesse cause generano danni e degrado anche agli edifici abitativi.

In base a come queste si manifestano nel tempo, le cause di deterioramento possono essere classificate come segue:

Attività in corso, se ancora in essere alla data dell’esame. Esiti, se in conseguenza di azioni pregresse concluse e non più attive. Cicliche, quando si ripetono periodicamente nel tempo. Continue, se perennemente esistenti. Discontinue, se si ripetono nel tempo in maniera non regolare.

Eccezionali, quando si suppone l’unicità o l’estrema rarità dell’evento nel corso della vita utile dell’edificio.

Per esempio, se una costruzione è situata a fronte mare, le azioni derivanti dall’esposizione all’atmosfera marina, alla pioggia, e all’ambiente circostante possono essere considerate in corso e di tipo continuativo. Mentre se la stessa costruzione, sempre a titolo di esempio, dovesse subire danni da allagamento nelle sue parti più prossime al terreno, questo evento sarebbe considerato eccezionale e le conseguenze diverrebbero esiti del danno citato.

Nell’analisi della situazione di danno relativa a una costruzione, ci si dovrà sempre e comunque riferire alla storia sia antica sia recente dell’intera struttura. Comprese le modifiche, i restauri e tutto ciò che può avere inciso in maniera più o meno significativa sui materiali e sui sistemi che la compongono. Sarà inoltre indispensabile conoscere la storia della manifestazione, per poter comprendere appieno come gli agenti di degrado possano avere esercitato i loro effetti, singolarmente o in maniera correlata. Solo attraverso un’analisi effettuata con questi criteri si potrà individuare la causa dei danni esaminati.

Conseguentemente, si adotterà un’adeguata tecnica correttiva atta al ripristino della costruzione sia in termini funzionali sia nel mantenimento dei caratteri identitari che ne contraddistinguono il valore, qualora questi siano presenti. L’edificio dovrà quindi essere considerato come un unico organismo, i cui vari sistemi e apparati siano intimamente connessi fra loro e in cui la sofferenza di un singolo elemento crei un disequilibrio tale da alterare la salute dell’intero insieme.

La regola fondamentale è quella di evitare il più possibile il contatto dell’acqua con l’edificio, e laddove ciò non sia possibile, occorre favorire al massimo la sua rapida evacuazione.

Effetti diretti e indiretti dell’umidità L’acqua può esercitare sui materiali e sui componenti edili effetti che possono essere diretti o indiretti, e reversibili o irreversibili.

Fig. 2.6 Effetti dell’umidità sui materiali impiegati nell’edilizia

Alcuni materiali, per esempio, tendono ad assorbire l’acqua quando questa è in eccesso per poi restituirla quando le condizioni ambientali lo consentono, senza però modificare in alcun modo la loro struttura o il loro aspetto. In questo caso si tratta di fenomeni diretti e reversibili. In altri casi, invece, materiali che si trovano in un ambiente ricco di umidità o di acqua in fase liquida subiscono modificazioni permanenti della loro struttura o delle loro caratteristiche. Possono per esempio essere parzialmente disciolti o deformati, in alcuni casi secondo un processo degenerativo progressivo, mentre in altri si osserverà un arresto spontaneo del degrado dopo le sue prime manifestazioni. Si tratta perciò di effetti diretti e irreversibili. Qualche altro materiale si comporta diversamente. Per esempio, quando il legno si trova a coesistere per lungo tempo in ambienti con elevati valori di umidità subisce un processo irreversibile di marcescenza derivante da attività biologiche secondarie, che ne provoca la totale distruzione.

In questo caso, l’umidità non è la causa primaria del fenomeno, ma è quella che consente e rende possibile l’insorgenza di patologie correlate.

La sua presenza perciò è un evento necessario ma non sufficiente per l’insorgenza del degrado. E l’effetto sarà quindi indiretto e irreversibile.

Occorre prestare particolare attenzione alle situazioni in cui l’acqua può portare alla compromissione di elementi costruttivi strutturali, che sono generalmente irreversibili.

Le diverse tipologie di degrado correlate all’acqua Il degrado e le modificazioni subite dai materiali possono avvenire in conseguenza di azioni chimiche, fisiche o biologiche. Queste cause possono anche agire in maniera congiunta e determinare effetti sinergici, tendenti cioè a rafforzarsi vicendevolmente, o più semplicemente autonome e tali da svolgersi in maniera indipendente. Inoltre bisogna precisare che spesso le varie modalità di alterazione sono a carattere evolutivo progressivo. Tendono cioè ad autoalimentare spontaneamente il processo di degrado, come per esempio la corrosione dei ferri nel cemento armato. Esistono altre modalità di attacco che tendono invece ad arrestarsi ed esaurirsi in maniera spontanea. Citiamo per esempio la passivazione di alcuni metalli, come rame, zinco e alluminio. I rapporti fra cause ed effetti sono più che mai vari e diversificati, anche perché esistono numerosissimi materiali, utilizzati nelle più disparate situazioni e combinazioni.

In ogni caso, le azioni di degrado sono quasi sempre dovute direttamente o indirettamente all’acqua, oppure sono in qualche modo potenziate dalla sua presenza. Possono verificarsi effetti simili dovuti ad agenti diversi, così come lo stesso agente può dare luogo a manifestazioni differenziate. Oppure è possibile che le alterazioni causate dello stesso agente si manifestino solo in determinate e specifiche circostanze.

La presenza di umidità negli edifici Le cause che determinano la presenza di umidità nelle costruzioni sono le seguenti sette:

meteorica e infiltrativa; da impianti e da altri apporti accidentali; condensativa; igroscopica; proveniente dal terreno; da risalita; residuale da costruzione.

Le situazioni citate nell’elenco possono essere presenti sia singolarmente sia in maniera congiunta, con diversi gradi di intensità e gravità.

Possono inoltre presentarsi combinate in maniera più o meno sinergica, tale da esaltare gli effetti reciproci e le relative manifestazioni di degrado sui materiali e sui manufatti edili. Come esempio, si fa riferimento all’umidità da risalita, che parte dal terreno ed è maggiormente presente al piede della muratura, ovvero sul piano orizzontale a contatto con il suolo. In edifici particolarmente colpiti dal fenomeno, si possono misurare anche valori

limite del 15% in peso di acqua sulla muratura nella parte bassa della parete, contro valori di circa il 2% sulla muratura asciutta.

Il valore appena indicato corrisponde alla situazione di equilibrio con l’aria ambiente a 20° C al 50% UR, per un materiale come il laterizio tradizionale.

Quando la muratura delimita due zone con differenti parametri termoigrometrici, per esempio interno ed esterno dell’edificio nei periodi freddi, quando la temperatura esterna è bassa mentre quella interna si aggira sui 20° C, può verificarsi la formazione di condensazione superficiale o interstiziale. Tale fenomeno sarà più probabile proprio in corrispondenza della zona umida, essendo questa anche la più fredda. Come è noto, una muratura fredda è meno isolante, perciò conduce maggiormente il calore rispetto a una asciutta.

Si valuta mediamente che, per ogni punto percentuale di umidità in più sulla muratura, la sua capacità di isolare il calore si riduca del 5%.

Ecco quindi un esempio di effetto moltiplicativo delle cause di umidità, che si rafforzano reciprocamente. L’umidità presente nell’aria si troverà a condensare sulle pareti, che di conseguenza saranno più bagnate e quindi ancora meno isolanti. L’aumentata trasmissione del calore e il conseguente raffreddamento della superficie interna favoriranno la formazione di altra condensa che si andrà a sommare alla prima, innescando in questo modo un processo evolutivo progressivo, tendente ad autoalimentarsi.

Esistono inoltre fenomeni di trasporto e trasferimento dell’umidità non intuitivi ma riconducibili alle cause sopra esposte, che verranno di seguito analizzati e spiegati dettagliatamente.

Struttura del libro Oltre alla Prefazione e all’Introduzione, il libro è composto da sette capitoli nei quali sarà analizzata ciascuna causa di umidità domestica. Ogni capitolo contiene almeno tre paragrafi: il primo fornisce una spiegazione generale del tema trattato; il secondo descrive in maniera più approfondita le cause, gli effetti e le modalità di manifestazione di ogni specifica causa di umidità; il terzo elenca i possibili correttivi al problema lamentato e, dove sia possibile, anche le modalità di prevenzione. Alcuni capitoli hanno richiesto un maggiore approfondimento e perciò sono più lunghi, hanno una documentazione fotografica più ricca e in qualche caso anche paragrafi o sottoparagrafi più numerosi.

L’umidità meteorica e infiltrativa

Generalità L’umidità di origine meteorica è quella che proviene da eventi naturali atmosferici e che, attraverso diverse modalità, può immettersi all’interno della costruzione, generalmente sotto forma di acqua liquida. L’ingresso dell’acqua può avvenire in maniera puntuale e localizzata attraverso un singolo passaggio oppure con immissioni derivanti da accessi multipli, esercitando diversi e spesso inaspettati effetti combinati. È inoltre influenzata in misura considerevole dalle condizioni ambientali interne ed esterne come la temperatura, la velocità del vento, la composizione dei materiali costituenti l’involucro edilizio e il loro stato di manutenzione. L’umidità meteorica è sempre esogena, ovvero proviene sempre dall’esterno, perciò dovranno essere adottati tutti gli accorgimenti possibili affinché questa non possa penetrare nell’edificio.

Effetti dell’acqua meteorica sul degrado

Questa è la principale causa di deterioramento delle costruzioni ed è quella che arreca i maggiori danni in assoluto alle opere edili. L’acqua meteorica si manifesta generalmente sotto forma di pioggia ma, in particolari condizioni climatiche, anche come neve, ghiaccio, brina, rugiada o nebbia.

In climi molto umidi, dove gli inverni freddi sono caratterizzati da aria calma, come per esempio nella Pianura padano-veneta, è frequente che la nebbia si depositi sulle superfici esposte all’esterno, fino a creare uno strato di acqua aderente.

Si tratta sempre e comunque di acqua liquida, che causa sempre e comunque danni importanti all’edificio.

Le parti della costruzione più soggette ad aggressione da acqua meteorica sono il tetto, tutte le parti sporgenti compresi i balconi, le pareti e infine le zone dell’edificio più prossime al terreno. L’azione combinata dell’acqua piovana e del vento risulta particolarmente dannosa per qualsiasi edificio, poiché la spinta generata dal vento è capace di far penetrare la pioggia attraverso le discontinuità presenti sulle superfici, come per esempio crepe, cavillature, attraversamenti e lesioni, fino a portarla all’interno della costruzione. Inoltre, il vento sospinge l’acqua piovana anche dove questa non sarebbe mai potuta arrivare in caso di caduta verticale.

Le discontinuità di forma e dimensione

Estrema attenzione dovrà essere posta in presenza di discontinuità.

Per esempio, qualsiasi elemento che attraversi l’impermeabilizzazione di un tetto o di un terrazzo costituisce una discontinuità e sarà un punto preferenziale dove l’acqua potrà passare. Ovunque sia presente una variazione di forma o dimensione come negli angoli, spigoli, bocchette, gradini e risvolti, ci sarà un punto sensibile e di probabile accesso dell’acqua.

Le discontinuità di forma e dimensione, gli inserimenti di elementi estranei e le connessioni di qualsiasi natura, anche fra sistemi e materiali identici, prendono il nome di punti particolari o singolarità. Vengono chiamati anche dettagli o nodi. Sono singolarità anche le saldature fra i teli impermeabili, così come i fissaggi delle lamiere e le sovrapposizioni fra gli elementi di lattoneria.

La quasi totalità dei problemi riscontrati nei sistemi impermeabili di protezione si verifica in corrispondenza delle singolarità.

Questa maggiore propensione a far passare l’acqua e a creare le condizioni affinché questo passaggio avvenga, resterà tale durante l’intera vita utile dell’edificio. Si suggerisce perciò di ispezionare innanzitutto questi elementi durante la ricerca del danno o del difetto di tenuta, poiché sono i punti dove si ha la massima probabilità di infiltrazione. Dal versante

opposto, quando si deve predisporre o progettare un sistema impermeabile è opportuno evitare per quanto possibile le singolarità. Dove questo non si può fare, occorre tenerne debito conto adottando gli opportuni accorgimenti per aumentare sicurezza, affidabilità e durata dell’elemento di tenuta.

La maggiore attitudine al verificarsi dei danni dipende, oltre che dai materiali e dalle tecniche impiegati, anche dalla gravosità delle condizioni di esercizio e dallo stato di manutenzione generale dell’edificio. La suscettibilità di danno, in ultima analisi, deriva dalla combinazione degli elementi descritti. Per esempio, attraverso una posa e una manutenzione scrupolosa si potrà garantire la funzionalità dell’opera anche se i materiali impiegati in origine non erano tali da sopportare la gravosità di utilizzo richiesta. Oppure, se si prevede che la manutenzione possa essere difficoltosa o non frequente, si dovranno utilizzare materiali di caratteristiche superiori oppure tecniche esecutive di maggiore affidabilità per poter raggiungere una adeguata vita utile di esercizio.

Con una certa approssimazione, i due aspetti sono complementari e si può quindi sopperire parzialmente a determinate carenze tecniche dei materiali o della posa con manutenzioni più frequenti, e viceversa.

Gli infissi e i serramenti esterni sono un importante elemento di discontinuità della muratura e/o della copertura, e rappresentano un serio problema di impermeabilità per l’edificio. Anche una realizzazione a regola d’arte non preclude la possibilità che nel tempo vi possano essere infiltrazioni o perdita di tenuta delle sigillature, soprattutto se non viene effettuata una corretta manutenzione.

Le principali cause di apporto d’acqua meteorica

Le cause prevalenti di apporto d’acqua meteorica all’edificio, che saranno approfondite meglio nel paragrafo successivo, sono le seguenti:

Infiltrazioni dall’alto: tetto, terrazze, balconi e da altri elementi edilizi piani o inclinati, esposti all’acqua piovana. Infiltrazioni dai passaggi degli impianti. Infiltrazioni dalle pareti: elementi verticali, infissi e particolari costruttivi inseriti sui muri. Infiltrazioni dal terreno: relative alla sola azione diretta dell’acqua alla quota del piano di calpestio.

Fig. 3.1 Le diverse possibilità di ingresso dell’acqua meteorica nell’edificio.

La pioggia

Composizione della pioggia

Dal punto di vista chimico, la pioggia è acqua distillata formatasi per condensazione dal vapore acqueo presente nelle nuvole, quando queste incontrano correnti d’aria fredda. Il fenomeno avviene in presenza di particelle solide che innescano il processo, svolgendo la funzione di nuclei di condensazione.

Nel percorso di caduta, l’acqua piovana trattiene i gas e i particolati presenti nell’atmosfera con i quali viene a contatto, provenienti sia da origine naturale sia da attività umane. I gas più significativi sono la CO2 anidride carbonica, la SO2 anidride solforosa e gli NOx o ossidi di azoto, che danno luogo in ultima analisi alla formazione di diversi acidi. I più rilevanti sono: l’acido idrocarbonico H2CO3, l’acido solforico H2SO4, e l’acido nitrico H2NO3. Quindi, quella piovana è un’acqua quasi priva di sali disciolti e moderatamente acida, dal pH medio variabile fra 4.0 e 5.6. Il valore più alto è quello fisiologico della pioggia non acida, dovuto al contatto dell’acqua meteorica con l’anidride carbonica presente in atmosfera, che al momento è pari allo 0,4 %. Ricordiamo che il valore neutro del pH è 7.

I numeri più bassi fino al limite di 0, sono riferiti a soluzioni acide, mentre quelli più alti con il massimo di 14, a soluzioni basiche.

In prossimità di insediamenti urbani o industriali aumentano considerevolmente i valori di CO2, e degli altri gas capaci di abbassare il pH dell’acqua piovana, conferendole acidità. Se si tiene presente che il valore medio mondiale della CO2 atmosferica è misurato in un laboratorio del NOOA (National Oceanic and Atmospheric Administration) situato nella minuscola isola di Mauna Loa nelle Hawaii, in pieno Oceano Pacifico, si può facilmente immaginare quanto l’aria delle nostre città sia notevolmente più inquinata e conseguentemente più acida.

Oltre alla CO2 (che non è considerata un inquinante) e agli altri gas atmosferici capaci di rendere acida la pioggia, nell’aria sono normalmente presenti composti solidi sotto forma di pulviscolo, chiamati anche particolato, e aerosol marino costituito da minuscole goccioline d’acqua di mare che restano sospese in atmosfera per tempi molto lunghi. Queste sostanze possono percorrere anche migliaia di chilometri a causa dei venti presenti alle alte quote, perciò possono precipitare al suolo sotto forma di pioggia anche in luoghi molto distanti rispetto a dove si sono formate.

Acidità della pioggia

Nella maggior parte del nostro paese, l’acqua piovana ha un’acidità media variabile fra un pH 4.5 e 5.0, con i valori più bassi all’inizio delle precipitazioni, che poi si riducono nel corso dell’evento piovoso a causa del lavaggio dell’aria. Questo valore di acidità della pioggia tende ad aumentare (con abbassamento del pH) nei centri urbani, nelle aree industriali e in prossimità di zone dove si svolgono intense attività zootecniche.

Nelle condizioni descritte, la pioggia risulta essere un elemento fortemente corrosivo per i materiali e i componenti utilizzati nelle costruzioni. La purezza, dovuta all’assenza di sostanze disciolte, rende l’acqua molto avida

di sali favorendo fortemente la dissociazione dei composti solubili. Detto in parole povere, è un’acqua che ha maggiori capacità di sciogliere altre sostanze rispetto a quella presente nei fiumi o nel terreno.

L’acidità delle precipitazioni esercita una discreta azione corrosiva su diversi materiali. Inoltre è la principale causa della dissoluzione dei carbonati di calcio nei marmi e nelle pietre calcaree. La presenza di acido solforico H2SO4 in soluzione acquosa nell’acqua piovana innesca, a contatto con la pietra calcarea, la reazione: H2SO4 + CaCO3 → CaSO4 + H2O + CO2 con la trasformazione del carbonato di calcio in gesso, ovvero solfato di calcio, più tenero, idrosolubile e quindi facilmente dilavabile.

Quantità di pioggia

La quantità totale di precipitazione piovosa media italiana è di 763 mm (fra il 2001 ed il 2009 secondo i dati ISTAT), con il massimo di 1.104 mm registrato nella provincia di Udine, contro il più basso, di 465 mm nella provincia di Cagliari, nel periodo di riferimento.

Una pioggia moderata apporta fra i 2 e i 6 mm/h, ovvero fra i 2 e i 6 l/h d’acqua per ciascun mq di superficie orizzontale, mentre una pioggia intensa supera i 10 mm/h fino a raggiungere e superare i 30 mm/h in caso di nubifragio.

Si sono registrati valori estremi di precipitazione di 181 mm in un’ora a Vicomorasso (GE) durante l’alluvione del 2011, di 337 mm in tre ore nella stessa località in occasione di un altro evento particolarmente intenso, e di 948 mm in 24 ore a Genova Bolzaneto.

Negli ultimi tempi si assiste a una sempre maggiore variabilità delle condizioni meteorologiche, dovuta ai cambiamenti climatici. Quindi, le stesse manifestazioni che fino ad alcuni decenni fa potevano essere considerate rare o eccezionali sono purtroppo diventate ricorrenti se non addirittura abituali. Gli apporti medi annuali appena citati, pur se validi in linea generale, possono quindi confrontarsi con episodi estremi del tutto imprevedibili e inattesi. Si citano come esempio le “bombe d’acqua” ovvero precipitazioni localizzate estremamente intense e capaci di scaricare in poche ore enormi quantitativi d’acqua piovana, causando danni molto seri.

Effetti della pioggia sulle costruzioni

Gli effetti della pioggia sulle opere edili sono molteplici, e si suddividono in:

azioni meccaniche; azioni termiche; effetti idraulici; effetti corrosivi; effetti abrasivi; azioni idrostatiche; formazione di depositi.

Le azioni meccaniche sono dovute prevalentemente all’impatto della pioggia sulle superfici, che nel tempo causa il degrado dei materiali. A questo bisogna sommare gli effetti del peso talvolta rilevante delle precipitazioni quando l’acqua piovana o la neve hanno la possibilità di accumularsi. Basti pensare che, su un terrazzo di 100 mq esposto a una pioggia di 200 mm, si scaricano 20.000 litri d’acqua che pesano 20 tonnellate. Se questo avviene in due ore, è facile immaginare che possa sorgere qualche problema. Oltre al proprio peso, tale massa genera nel suo movimento effetti di spinta rilevanti, sposta oggetti, ne fa galleggiare altri e trascina con forza tutto ciò che trova. Questi eventi possono avere effetti talvolta devastanti sulle opere edili e sul loro contenuto.

Le azioni termiche invece sono generalmente dovute al rapido raffreddamento causato da una pioggia improvvisa nelle giornate calde o soleggiate. Un abbassamento repentino della temperatura superficiale, anche di 10/15°C, può avere effetti dannosi su un lastrico solare di grandi dimensioni, in termini di improvvise contrazioni termiche e delle relative tensioni sui materiali.

Gli effetti idraulici sono esclusivamente dovuti alle relazioni fra le superfici e l’acqua liquida apportata dalla pioggia. Se un qualsiasi materiale dalla superficie non impermeabile entra in contatto con acqua liquida, questa tenderà a diffondersi sul supporto per capillarità nel caso di porosità abbastanza grandi, e per osmosi se queste sono invece molto piccole. Sono possibili anche risalite per sifonamento, coerenti con il principio dei vasi comunicanti. Inoltre, il flusso di liquido causato dalla velocità dell’acqua può indurre effetti dinamici di pressione o di depressione sulle superfici.

Gli effetti corrosivi sono principalmente dovuti alla composizione dell’acqua piovana che, come si è accennato, è piuttosto acida e ha

un’elevata capacità di sciogliere numerosi minerali, con prevalenza dei carbonati, e di danneggiare diversi metalli perché è quasi pura.

Le azioni abrasive sono dovute alla presenza di pulviscolo atmosferico, ovvero di particelle minerali normalmente contenute nell’aria, che sono trattenute dalle gocce d’acqua e veicolate dalla pioggia lungo tutto il loro percorso a contatto con le superfici delle costruzioni.

Nell’edilizia abitativa questo fenomeno è relativamente inconsueto, e si verifica solo in casi molto rari.

Le azioni idrostatiche sono principalmente connesse all’acqua piovana che imbibisce i terreni a contatto con l’edificio in occasione di precipitazioni piovose, esercitando azioni di spinta anche rilevanti e talvolta capaci di creare seri problemi alla costruzione. Sulle porzioni fuori terra dell’edificio, tali azioni si verificano molto raramente.

La formazione di depositi si riferisce alle sostanze disciolte e ai particolati presenti nella pioggia, che sono depositati sui materiali porosi e tendono ad accumularsi con l’evaporazione dell’acqua. In prossimità delle zone costiere, la deposizione di solfati e cloruri di origine marina sui materiali porosi è maggiormente significativa. In tutti gli altri casi, si tratta quasi sempre di deposizioni di carbonato di calcio amorfo, sotto forma di calcite.

Protezione dell’edificio dall’umidità meteorica

La difesa dell’edificio dagli agenti atmosferici è affidata principalmente alla copertura. Questo è l’elemento esposto per tutta la sua superficie all’azione diretta dell’acqua in ogni sua forma, che deve inoltre resistere alle seguenti sollecitazioni combinate:

forti escursioni termiche cicliche, stagionali e giornaliere; irraggiamento solare; rilevanti deformazioni dovute a dilatazione termica o forti tensioni meccaniche indotte qualora queste siano impedite; azione dei raggi UV; azione meccanica del vento; aggressioni e attacchi di natura biologica, microbiologica, volatili, fauna e vegetazione; eventuale calpestio o traffico di persone.

Protezione dovuta alla forma

In presenza di sporgenze, costituite dallo sporto di gronda, da lattonerie di completamento oppure da elementi aggettanti come pensiline, tettoie a sbalzo e balconi, la muratura non è bagnata dalla pioggia per una lunghezza sottostante variabile fra circa 2 e 10 volte la sporgenza.

Questo valore dipende in prevalenza dalla ventosità del sito e dall’esposizione del singolo edificio. La bagnatura tende perciò ad aumentare, riducendo la lunghezza di muratura protetta, in caso di costruzioni isolate situate in zone aperte molto esposte al vento. Invece diminuisce in misura sensibile, incrementando la lunghezza di protezione, negli edifici facenti parte di agglomerati urbani nelle zone caratterizzate da aria calma. Il vento, inoltre, a parità di altre condizioni tende ad aumentare al crescere della quota altimetrica del sito in esame.

Fig. 3.2 Vortici e turbolenze generati dal vento sulle superfici di una parete completamente esposta.

Generalmente, nelle zone costiere e nelle isole il vento è sempre piuttosto intenso, mentre in tutta l’area della Pianura padano-veneta, è molto più attenuato.

Proteggere l’edificio dal vento corrisponde in larga parte a proteggerlo anche dall’acqua meteorica. Le costruzioni situate nei centri urbani risentono in misura minore degli effetti causati dal vento, mentre gli edifici isolati sono generalmente più esposti sia al vento sia alla pioggia.

Effetti combinati di pioggia e neve

In occasione di nevicate alternate a pioggia leggera, l’acqua non può allontanarsi agevolmente attraverso gli scarichi, quindi impregna la neve e sale di livello. Gli effetti conseguenti sono fondamentalmente due. Il primo riguarda le possibili infiltrazioni: l’acqua supera i livelli di sicurezza e penetra nell’edificio. Il secondo è invece relativo al peso della neve satura d’acqua, che talvolta è capace di creare danni da sovraccarico localizzati o più estesi, deformando coperture, canali di gronda e altri elementi del tetto o della terrazza.

La grandine

Gli effetti delle grandinate sono da mettere in relazione all’azione meccanica di urto causata dai chicchi sui componenti edili. Quando le sfere di ghiaccio sono particolarmente grandi, si possono osservare sia deformazioni localizzate sotto forma di ammaccature e imbozzamenti di lamiere e lattonerie sia, nei casi più gravi, vere e proprie rotture di vetri e cristalli di

cupolini e lucernari, di tegole e altri particolari della copertura. Le infiltrazioni avvengono in conseguenza dei danni riportati.

Quando invece i chicchi di grandine sono molto piccoli, gli effetti sono del tutto simili a quelli della neve. Diventa più probabile l’intasamento degli scarichi, che fa salire il livello liquido delle piogge sulle coperture.

Rugiada, brina, nebbia

Si tratta di fenomeni condensativi esterni, che depositano sulle superfici esposte un sottile velo di acqua liquida nel caso della nebbia e della rugiada, e di ghiaccio nel caso della brina. Pur non esercitando tutti gli effetti dannosi dell’acqua piovana, queste manifestazioni sono comunque in grado di bagnare le superfici, generando azioni corrosive e impregnando i supporti porosi. Rispetto all’acqua piovana, queste formazioni sono più acide e contengono una maggiore quantità di sostanze inquinanti, a causa di una deposizione più lenta e di un maggior tempo trascorso a contatto con l’aria a livello del suolo.

Fra gli elementi trattenuti vi sono il pulviscolo, l’aerosol marino e vari altri gas presenti nell’atmosfera delle aree urbane, nonché numerose spore vegetali, soprattutto nelle zone agricole e rurali. La deposizione superficiale di acqua condensata apporta sempre maggiori quantità di elementi capaci di indurre fenomeni di degrado chimico o biologico sulle superfici interessate, rispetto alla pioggia battente.

In meteorologia, il processo di deposizione di acqua condensata prende il nome di rainout, mentre quello relativo all’acqua piovana è denominato washout.

L’acqua di condensazione favorisce quindi fortemente le azioni di degrado e la formazione di muffe, nei locali interni, sulle superfici esterne di pareti non riscaldate o su quelle degli isolamenti a cappotto esterno.

Il ghiaccio

I problemi più significativi causati dal ghiaccio sono di due categorie. La prima riguarda le azioni espansive che si sviluppano durante la sua formazione. Queste spesso causano la rottura di tubazioni e la disgregazione dei materiali minerali, compreso il calcestruzzo. La seconda invece è relativa all’otturazione delle tubazioni di scarico. Quest’ultima crea le condizioni per gli allagamenti di terrazze, cortili e altre superfici impedendo la corretta evacuazione dell’acqua meteorica.

Umidità proveniente dall’alto

I maggiori quantitativi di acqua che interessano l’edificio provengono dall’alto sotto forma di pioggia e incontrano per prime le opere di protezione che prendono il nome di coperture. Successivamente, le acque meteoriche sono convogliate verso le canalizzazioni di scarico per evitare che possano penetrare nella costruzione. Lungo questo percorso, l’acqua può trovare diverse possibilità di ingresso indesiderato nell’edificio, se queste non sono adeguatamente impedite.

La copertura è sicuramente la parte dell’edificio più soggetta alle sollecitazioni ambientali. La sua superficie è quella principalmente esposta all’acqua piovana e maggiormente gravata da carichi termici e irraggiamento solare. È inoltre soggetta al carico ciclico della neve e a quello variabile del vento, e all’eventuale calpestio dovuto al transito occasionale di persone. La copertura subisce comunque tutte le deformazioni indotte dalla restante parte della costruzione, compresi i movimenti delle fondazioni, che si trasferiscono inesorabilmente e istantaneamente fino al tetto. Le funzioni di una copertura sono molteplici e riguardano l’isolamento dall’acqua così come dagli agenti atmosferici in generale. Il tetto assolve inoltre ad altri importantissimi ruoli correlati fornendo, per esempio, l’isolamento termico necessario per garantire un adeguato confort abitativo, nel rispetto del risparmio energetico.

Ha un’importante funzione estetica e di caratterizzazione della costruzione, a cui attribuisce una sua connotazione specifica e spesso unica in termini di materiali, colori e finiture, al punto da farla diventare talvolta una vera e propria opera d’arte. Costituisce il naturale supporto per alcune tipologie di impianti, come per esempio le antenne, gli impianti di protezione dalle scariche atmosferiche, le linee di vita, i pannelli solari o fotovoltaici, o

addirittura piccoli generatori eolici. Spesso diventa sede di serbatoi per l’accumulo idrico e talvolta alloggia parti di impianti tecnici, anche di rilevante peso e dimensione, come gli scambiatori di calore, le UTA (Unità di Trattamento Aria) o i recuperatori di energia.

Oltre a gravare con il proprio peso sull’edificio in misura spesso problematica, questi elementi degli impianti possono in casi particolari generare vibrazioni dannose per le impermeabilizzazioni. Non mancano poi le coperture adibite a tetto pensile, orizzontale o inclinato, dove la presenza di vegetazione può costituire un rischio serio se non è correttamente valutata in anticipo. Infatti, le radici e i rizomi di alcune piante sono capaci di perforare quasi tutti i sistemi di impermeabilizzazione, causando infiltrazioni di difficile individuazione e difficilissima riparazione. Le radici più pericolose, da questo punto di vista, sono quelle delle canne di fiume e del bambù.

Lo stesso problema si presenta, a livello del terreno, con i giardini pensili realizzati su box auto o cantine.

Tipologie di copertura

Fig. 3.3 Edifici con tetti di forma diversa

Esistono diverse tipologie di copertura, molto variabili come forma e dimensione. Le più utilizzate sono quelle a falde inclinate, la cui pendenza normalmente dipende dalla collocazione geografica del sito costruttivo. Nelle regioni del Nord e nei climi freddi, l’inclinazione delle falde è maggiore per favorire l’allontanamento dell’acqua e della neve, mentre nelle regioni situate più a sud questa tende a ridursi.

Nell’edilizia residenziale sono frequentemente utilizzate anche le coperture piane, che consentono l’utilizzo della terrazza a uso esclusivo

dell’abitazione, come spesso avviene per gli attici.

Tetti

Con questo termine si definiscono abitualmente le coperture inclinate a falda o di altra forma più complessa. Nell’edilizia tradizionale sono generalmente ricoperti di tegole e alloggiano vari attraversamenti come per esempio camini, tubi di antenna, aeratori e, più recentemente, linee di vita.

La principale problematica che si osserva in questa categoria di coperture riguarda la rottura di uno o più elementi di protezione, come per esempio le tegole, e l’interruzione della continuità impermeabile in corrispondenza delle singolarità, come i camini e gli altri attraversamenti, oppure su angoli, spigoli e bocchette.

Terrazze piane

In linea generale, le coperture piane rivestite con piastrelle e adibite a terrazza, dette anche lastrici solari, sono quelle più sollecitate e perciò sono anche le maggiormente soggette a problemi, e non solo di natura infiltrativa.

Se le dimensioni di una terrazza sono rilevanti, anche su un singolo lato, gli effetti delle azioni meccaniche derivanti dalle dilatazioni termiche diventano importanti e non possono essere trascurati. Un altro elemento di valutazione riguarda la distanza fra gli scarichi, che non può essere troppo grande. Soprattutto in occasione di intense precipitazioni, se la copertura è di dimensioni ragguardevoli e gli scarichi sono distanti fra loro, l’acqua

piovana incontrerà maggiore resistenza nel suo percorso verso l’uscita e tenderà a salire di livello.

Sulle coperture piane con bassissima pendenza questa condizione diventa particolarmente sfavorevole, perché può portare l’acqua a tracimare attraverso gli elementi di tenuta, posti a un’altezza maggiore rispetto al manto. In caso di nevicate, lo spessore di neve depositata sulle coperture sia piane che inclinate si comporterà da freno e, nei casi peggiori, da tappo, ostacolando la corretta evacuazione dell’acqua piovana. Gli accumuli conseguenti potranno essere anche molto consistenti in termini di peso. Non sono rari infatti gli episodi di danni anche seri causati alle coperture da accumuli combinati di neve e acqua.

Balconi

I balconi sono un elemento della costruzione in cui si concentrano più condizioni di rischio contemporaneamente e si riscontra una maggiore frequenza di situazioni problematiche. Nonostante le dimensioni, che generalmente sono piuttosto contenute, sul balcone sono simultaneamente presenti tutte le maggiori cause di danno. L’intero perimetro è da considerarsi come risvolto a salire o a scendere a seconda dei casi. Una o più soglie e la bocchetta di scarico si concentrano in pochi metri quadri di superficie orizzontale. Anche sui balconi la pendenza potrebbe non essere stata correttamente eseguita, ed è inoltre frequente riscontrarvi elementi passanti, come tubi elettrici o parti di impianto, che consentono all’acqua di penetrare nell’edificio.

Fig. 3.4 Le coperture a falde inclinate sono molto comuni in tutte le aree d’Italia e rappresentano un carattere identitario specifico del costruito storico territoriale. Spesso contengono ulteriori elementi funzionali come abbaini, camini, prese di luce, ornamenti e varie appendici architettoniche. Nelle zone alpine, la pendenza dei tetti è abitualmente piuttosto marcata per favorire lo smaltimento della neve, ed è spesso unita a sporgenze rilevanti, che proteggono efficacemente le facciate.

Fig. 3.5 Copertura di una costruzione adibita inizialmente a impiego agricolo e poi riconvertita a utilizzo residenziale, situata nella provincia di Pavia. Pur avendo una pendenza idonea a evitare l’accumulo di neve, la sua sporgenza non è in grado di proteggere adeguatamente la parete dalla pioggia diretta e indiretta. Sono infatti visibili, in posizione bassa delle murature sul lato grondaia, gli effetti degli spruzzi d’acqua meteorica di rimbalzo (frecce nere). Sul lato sinistro invece (freccia rossa), è visibile un’ampia macchia di umidità di origine igroscopica, che non ha alcuna relazione con la pioggia.

Fig. 3.6 Tetto di coppi situato nella zona montana della Valcamonica (BS), sul quale l’assenza di manutenzione ha favorito importanti insediamenti di vegetazione spontanea. Sono presenti inoltre vasti e marcati disallineamenti geometrici delle tegole, causati prevalentemente da scorrimenti e trascinamenti indotti dalla neve. I coppi tradizionali sono particolarmente soggetti a questi fenomeni, che spesso comportano diffusi problemi infiltrativi nelle coperture.

Fig. 3.7 Terrazza piana di un edificio rivestita di piastrelle, detta anche lastrico solare. Questa è in assoluto la situazione più gravosa per una copertura, poiché vi si concentrano e si sommano diversi effetti termici e meccanici, uniti alla difficoltosa evacuazione dell’acqua piovana e al più favorevole accumulo della neve. Sono visibili le efflorescenze bianche di calcare nelle fughe fra le piastrelle e la verniciatura traslucida applicata per tentare di sanare le infiltrazioni. Da notare anche la soglia di ingresso che si trova alla stessa quota del pavimento. Questa condizione favorisce infiltrazioni e danneggiamenti dell’edificio posto allo stesso livello e di quello sottostante.

Fig. 3.8 Manto bituminoso continuo, posto a protezione di un solaio orizzontale. Si notano i numerosi rappezzi e rimaneggiamenti eseguiti in tempi diversi, gli attraversamenti e l’assenza totale di protezione dai raggi UV. In situazioni come questa, una semplice verniciatura protettiva sarebbe stata in grado di prolungare notevolmente la vita utile del manto, riducendo sensibilmente i danni da invecchiamento.

Tipologie di impermeabilizzazione

Le coperture degli edifici si affidano sempre a un efficace sistema di impermeabilizzazione, che è in grado di proteggere la struttura dall’acqua e

dagli agenti atmosferici.

Tali sistemi si suddividono generalmente in due gruppi distinti: continui e discontinui.

Sistemi impermeabili continui

Questa categoria comprende tutti i sistemi che costituiscono un insieme ininterrotto, eventualmente composto da diversi elementi uniti mediante saldatura o incollaggio, che crea un unico complesso impermeabile senza soluzione di continuità.

I sistemi continui maggiormente impiegati nelle costruzioni residenziali sono i seguenti.

Manti bituminosi o di bitume polimero forniti in rotolo. Sono i più utilizzati per via della loro economicità e rappresentano un buon compromesso fra prestazione e prezzo. Sono prodotti utilizzando una miscela di bitume e resine sintetiche armate con Tessuto Non Tessuto (TNT), cioè un feltro di fibra di poliestere, eventualmente unito a una rete o a un tessuto di fibra di vetro.

Generalmente si applicano per aderenza totale, mediante saldatura a fiamma sulla superficie di supporto, previa applicazione di un’emulsione bituminosa con funzione di promotore di adesione, sormontando i giunti per 10 cm sia sul lato sia di testa. Abitualmente i manti bituminosi si utilizzano in doppio strato e devono essere protetti dai raggi solari. Esistono anche nelle versioni

autoprotette, cioè rivestite su un lato con scaglie di graniglia colorata o da una lamina metallica di alluminio o rame.

I manti autoprotetti, granigliati o con lamina metallica, non necessitano di verniciature ulteriori. Devono comunque essere ispezionati con la stessa frequenza dei manti normali, principalmente per assicurarsi che gli scarichi siano liberi da ostruzioni e per individuare precocemente gli eventuali danneggiamenti. La mancata manutenzione è spesso causa di decadenza della garanzia di posa sui manti nuovi.

Le impermeabilizzazioni delle coperture dovrebbero essere ispezionate almeno una volta all’anno, preferibilmente prima della stagione piovosa, con particolare attenzione agli scarichi e a tutte le singolarità presenti. Nel caso di manti bituminosi posati in orizzontale, come nella foto in Fig. 3.8, si suggerisce l’applicazione di una vernice protettiva anti UV ogni 2 o 3 anni al massimo.

Fig. 3.9 Vecchia pubblicità inglese del 1953 di un sistema di impermeabilizzazione antecedente ai manti bituminosi in rotolo, prodotto da un’azienda scozzese con il marchio IBECO. Era costituito da un robusto strato di carta kraft che veniva impregnato in opera con bitume a caldo e applicato in più strati successivi. Il sistema descritto era impiegato con diverse varianti anche in Italia e realizzava un sistema impermeabile molto efficace e durevole.

Manti sintetici di PVC o di altri materiali plastici polimerici (TPO, FPO, FPA, HDPE, EPDM e altri). Di qualità e prestazione superiore rispetto ai manti bituminosi, si applicano in totale indipendenza rispetto al supporto. Sono saldati solo sui sormonti e nelle giunzioni di testa, ad

aria calda o con adesivo. Normalmente, necessitano di essere ancorati o zavorrati con massetti, ghiaia, o quadrotti di cemento.

Malte cementizie elasticizzate armate con rete di vetro plastificata. Si applicano per adesione totale sui supporti, sono molto impiegate per le impermeabilizzazioni sottopiastrella, si prestano bene al rivestimento di superfici di forma complessa e dove si intende evitare le fiamme libere. Generalmente non sono adatte per restare a vista e devono essere protette dagli agenti atmosferici.

Resine sintetiche liquide (EP, PU, UP, PMMA e dispersioni acriliche). Sono prodotti a elevate prestazioni, aderiscono totalmente al supporto e sono molto adatti all’uso sulle superfici di forma irregolare e articolata. Risultano inoltre compatibili con quasi tutti i materiali. Disponibili in varie colorazioni, possono restare a vista e hanno tempi di essicazione molto ridotti. Essendo di costo elevato e di applicazione specialistica hanno una diffusione ridotta.

Resine sintetiche spruzzate, PU e poliurea. Di derivazione industriale, sono adatte per applicazioni di dimensioni rilevanti. Si prestano bene alle ricoperture e possono essere finite con diverse colorazioni.

Sistemi impermeabili discontinui

I sistemi di impermeabilizzazione discontinui sono costituiti da diversi elementi variamente sovrapposti, ancorati o incastrati reciprocamente, che vengono appoggiati o fissati al supporto. Sono di forma e dimensione tale da realizzare la protezione impermeabile, consentendo lo scorrimento dell’acqua sulla loro parte esposta.

La funzionalità dei sistemi discontinui è garantita solo se la pendenza delle superfici è tale da assicurare una rapida evacuazione dell’acqua, impedendo ogni forma di accumulo o sommersione.

Le tegole e le lastre di pietra sono i sistemi impiegati storicamente nelle costruzioni per la protezione dall’acqua. Sono ancora ampiamente utilizzati, non tanto per la loro funzionalità ma per il pregio estetico. Nel corso della storia sono poi stati sviluppati numerosi altri sistemi costituiti da lastre e lamiere variamente connesse, capaci di dare una maggiore affidabilità e sicurezza al rivestimento protettivo.

I sistemi discontinui realizzati con tegole o lastre di pietra, dovrebbero essere considerati come protezioni parziali. Infatti necessitano di un manto impermeabile sottostante al quale affidare la garanzia di tenuta all’acqua in caso di rottura o distacco di un singolo elemento oppure di disallineamento degli elementi di tenuta della copertura.

La loro funzione diventa perciò prevalentemente estetica, poiché detti sistemi non sono in grado da soli di impermeabilizzare le coperture in maniera duratura e affidabile. Lo strato di impermeabilizzazione continuo posto al di sotto del manto di rivestimento di tegole o pietra prende il nome di “sottotegola”.

Di norma, un manto sottotegola ha caratteristiche prestazionali inferiori rispetto a un altro che deve restare a vista poiché, essendo protetto dalla luce diretta e dagli agenti atmosferici, è molto meno sollecitato. Nelle costruzioni recenti, e in particolare nei tetti ventilati, si preferisce utilizzare come sottotegola una membrana traspirante, che impedisce all’acqua di passare ma consente l’evacuazione del vapore dall’isolante.

I principali sistemi discontinui utilizzati nell’edilizia abitativa sono i seguenti.

Tegole di laterizio, cemento, vetro. Si tratta di elementi di piccola dimensione, aventi svariate forme e tipologie, realizzati utilizzando diversi materiali minerali, ceramici o cementizi. Si installano su una sottostruttura, generalmente di legno o metallo, mediante incastro oppure per mezzo di chiodi, viti o specifici ancoraggi.

Fig. 3.10 La copertura di tegole portoghesi è fra le più utilizzate nell’edilizia, perché unisce estetica, funzionalità e sicurezza. Infatti i vari elementi sono connessi fra loro tramite incastri e non possono né muoversi né scorrere rispetto al piano inclinato. Questa caratteristica è vantaggiosa in presenza di neve e di vento forte. Si notano sulla copertura diversi elementi funzionali, che rappresentano attraversamenti: la linea di vita, un camino, un’antenna e un lucernario. Ciascuna di queste singolarità costituisce una specifica situazione di rischio.

Lastre, lamiere grecate e pannelli sandwich. Derivano dall’utilizzo industriale, ma hanno trovato notevoli applicazioni anche nell’edilizia abitativa. Possono essere di metallo, plastica o vetroresina. Sono sistemi economici, di facile e rapida installazione e di grande affidabilità. Esistono alcune versioni utilizzabili anche in sommersione o con pendenza nulla. Al momento, il materiale più utilizzato è l’alluminio preverniciato, che ha il vantaggio di garantire elevate prestazioni e notevole durata a fronte di un costo accettabile.

Lamiere metalliche piane di grandi dimensioni di rame o lega di zinco. Di forte impatto estetico, sono utilizzate prevalentemente su opere di rilevante valenza architettonica a causa del loro costo elevato.

Lastre ondulate di fibrocemento. Molto usate in passato sotto forma di eternit o amianto-cemento, sono state rimpiazzate da analoghi prodotti senza amianto. Hanno un costo molto basso, ma la loro diffusione è minimale a causa delle basse prestazioni tecniche.

Tegole canadesi. Sono sistemi costituiti da sottili strisce di materiale flessibile bituminoso, eventualmente ricoperte da ardesia o metallo, sovrapposte e ancorate al supporto mediante chiodi.

Scandole di legno. Rappresentano una tipologia di copertura storica, molto usata in passato negli ambienti montani. A causa del loro costo elevato, oggi sono impiegate raramente e solo nell’edilizia tradizionale.

Lastre di pietra. Utilizzate in passato soprattutto nelle costruzioni rurali, incontrano ancora i favori di alcuni appassionati. Sono applicabili solo in particolari situazioni ambientali e nel restauro.

Principali situazioni di rischio delle coperture

In generale, i fattori di rischio che rendono problematica una copertura piana o inclinata aumentando considerevolmente la probabilità di danno e di conseguenti infiltrazioni. Sono i seguenti.

Dimensioni complessive elevate. Gli effetti delle dilatazioni termiche sono proporzionali alla lunghezza degli elementi considerati. Su piccole distanze, i movimenti possono essere facilmente assorbiti e ridistribuiti dagli stessi materiali. All’aumentare delle lunghezze, invece, tali effetti si sommano e possono causare danni importanti ai sistemi impermeabili e ai rivestimenti interessati.

Inoltre, all’aumentare delle lunghezze diventa maggiore anche il tragitto che l’acqua dovrà percorrere per essere evacuata. La resistenza di attrito la farà salire di livello, creando le condizioni per farla tracimare sui risvolti se questi non sono stati realizzati correttamente.

Fig. 3.11 L’acqua piovana tende progressivamente ad aumentare di livello lungo la falda e raggiunge il suo massimo all’estremità, rischiando di tracimare sulle sovrapposizioni.

Fig. 3.12 Piano parcheggio condominiale rivestito di pietra, con sottostanti box auto. Le rilevanti lunghezze della copertura, unite alla gravosità dei carichi di esercizio e alla totale esposizione al sole estivo e al gelo invernale, rendono questo elemento costruttivo particolarmente soggetto a danni e conseguenti infiltrazioni. Da notare l’assenza dei giunti di dilatazione.

Errori di pendenza. Nonostante si tratti di un argomento banale e noto fin dall’antichità, quello della pendenza è ancora un problema attualissimo. Capita molto spesso anche sul nuovo, di trovare pavimenti, soglie, gradini e addirittura delle intere terrazze con pendenza minima, nulla, e persino contraria.

Fig. 3.13 Errore di pendenza sui gradini di una scala esterna in un edificio nuovo. Sono chiaramente visibili gli accumuli di acqua piovana che bagnano le pareti, innescando fenomeni di risalita secondaria sugli intonaci. La soluzione di problemi simili è piuttosto impegnativa e prevede la rimozione totale dei gradini e il loro corretto riposizionamento, oppure l’applicazione di un riporto a spessore di resina antisdrucciolo, con idonea pendenza a uscire.

Fig. 3.14 L’accumulo di acqua piovana su una terrazza può anche non dipendere da errori costruttivi. In questo caso c’è stato un cedimento strutturale del solaio dovuto all’invecchiamento, che ne ha modificato le pendenze. L’acqua è raccolta e trattenuta al centro del solaio, dove la deformazione ha danneggiato il manto impermeabile. La soluzione prevede la riqualificazione statica della struttura e il successivo ripristino della tenuta all’acqua per mezzo di adeguate opere di impermeabilizzazione.

Fig. 3.15 Difetto di pendenza in una terrazza esposta. L’acqua piovana e la neve tendono ad accumularsi in una zona priva di scarichi e di bocchette di evacuazione. Il muro di mattoni a vista si bagna, trasferendo l’umidità verso l’alto e causando abbondanti efflorescenze di sali solfatici di colore bianco sulle superfici verticali. La condizione appena descritta, unita all’assenza dello zoccolo perimetrale, porta a ritenere che non sia stato realizzato il risvolto verticale del manto impermeabile. Nelle superfici come quella della foto, che possono favorire depositi di neve a ridosso delle pareti, è opportuno prevedere risvolti verticali più alti, mediamente fra i 25 ed i 35 cm, per garantire maggiore protezione alle pareti.

Assenza o inadeguatezza dei giunti di dilatazione. I giunti di dilatazione sono un elemento essenziale delle costruzioni, perché consentono i naturali movimenti reciproci delle strutture senza trasferire carichi dannosi. Sulle coperture assumono ancora maggiore importanza e devono assolutamente essere realizzati secondo criteri ben precisi. Come concetto generale, la lunghezza di un elemento strutturale senza giunti non deve superare i 17-24 metri lineari. Nelle pavimentazioni a vista con sottostante manto impermeabile è preferibile non superare i 4 metri.

Si suggerisce di realizzare un’interruzione nella continuità del rivestimento, con maglia da 3 x 3 m o da 4 x 3 m al massimo, per consentire alle dilatazioni termiche di scaricarsi senza indurre eccessive sollecitazioni sul massetto e sul sistema impermeabile sottostante. Tuttavia, attraverso una progettazione estremamente accurata si possono realizzare elementi senza giunti anche su luci libere considerevoli.

Fig. 3.16 Giunto di dilatazione correttamente progettato, ma eseguito in modo approssimativo. Il sigillante si è staccato dal bordo sul lato destro.

I giunti di dilatazione

A: Il pavimento è incassato fra le due pareti di estremità, senza interposizione di alcun materiale elastico che lo renda indipendente rispetto alla struttura.

B: Quando si riscalda per effetto dell’irraggiamento solare, il pavimento tende a dilatarsi, allungandosi ed esercitando forze molto intense. Se le pareti perimetrali sono di mattoni, non riescono a sopportare queste spinte e possono o ruotare (caso a sinistra), o scorrere (caso a destra). L’impermeabilizzazione sarà in ogni caso gravemente danneggiata.

C: Se i muri perimetrali sono invece molto resistenti, o di cemento armato, le forze in gioco non sono in grado di deformarli ma rompono il pavimento per compressione, facendolo sollevare rispetto al solaio. Il manto impermeabile subirà comunque danni importanti.

Fig. 3.17 Caso reale di pavimento con rivestimento di piastrelle collassato in mezzeria a causa della dilatazione termica impedita. Si nota la scagliatura superficiale che è specifica di una rottura a compressione (frecce rosse).

Fig. 3.18 Effetti della dilatazione termica impedita su una terrazza pedonabile completamente esposta, con giunti di dilatazione insufficienti. Le forze che si esercitano per effetto delle dilatazioni termiche impedite raggiungono facilmente valori nell’ordine delle decine di tonnellate e sono in grado di fratturare i pavimenti in più punti, oltre a deformare gli inserimenti metallici come le canaline sulla foto. Molto frequentemente, inoltre, le deformazioni da dilatazione impedita possono tranciare tubazioni di scarico, strappare giunzioni saldate e danneggiare in maniera irreparabile i manti impermeabili sottostanti.

Fig. 3.19 Pavimento a quota del terreno privo di giunti di dilatazione, che si è spostato di 17 mm rispetto al solaio sottostante (freccia blu), per effetto delle dilatazioni termiche. Lo scorrimento orizzontale ha causato la lacerazione in più punti del manto impermeabile, con gravi conseguenze infiltrative nei box interrati e ha divelto le ringhiere perimetrali facendo collassare gli ancoraggi sul cemento armato (freccia rossa).

Fig. 3.20 Corretta modalità di realizzazione di un giunto di dilatazione perimetrale. Il pavimento è completamente separato rispetto alla parete, quindi non gli trasferisce carichi da dilatazione o da deformazione. La sigillatura di colore azzurro è realizzata con materiale flessibile, che consente i movimenti senza fare penetrare l’acqua all’interno del giunto. Il materiale arancione è il fondogiunto. Quando possibile, è sempre meglio proteggere il giunto con una scossalina metallica, da fissare rigidamente alla parete.

Fig. 3.21 Il giunto di dilatazione orizzontale deve consentire il libero movimento delle due parti a contatto, senza fare passare acqua, sporcizia e detriti al suo interno. La larghezza del giunto deve essere calcolata in funzione delle lunghezze in gioco e normalmente varia fra i 5 e i 20 mm. Anche i giunti necessitano di manutenzione.

Asimmetria e complessità di forma o variazione di livello. Quanto più la forma di una copertura diventa articolata, tanto più si avrà una concentrazione di tensioni in corrispondenza delle sue irregolarità geometriche come angoli, spigoli, fori e inserimenti di elementi estranei.

In questi punti, gli sforzi indotti sui materiali provocano facilmente maggiori sollecitazioni, scorrimenti di varia natura e rotture localizzate, causando danni al manto impermeabile o agli altri sistemi di tenuta presenti.

Fig. 3.22 Copertura piana con regolare pendenza, che evacua correttamente l’acqua piovana. Man mano che l’acqua procede verso lo scarico, il suo livello aumenta progressivamente.

Laddove si realizzano differenze di livello, la superficie situata più in basso sarà percorsa sia dall’acqua relativa alla propria esposizione sia da quella proveniente dalle superfici soprastanti, con un aumento di livello e possibile sommersione del pavimento.

Presenza di attraversamenti e di particolari costruttivi. Qualsiasi attraversamento costituisce una soluzione di continuità del sistema impermeabile e rappresenta un possibile passaggio preferenziale dell’acqua.

Elementi spesso trascurati, come i tubi corrugati degli impianti elettrici o dei cavi d’antenna e i fori dei tasselli che fissano le piastre di ancoraggio, sono capaci di apportare considerevoli quantità di acqua all’interno dell’edificio. La parte relativa agli attraversamenti degli impianti sarà approfondita nella Sezione 3.2.2.

Fig. 3.23 Copertura di forma articolata, con numerosi inserimenti e diverse variazioni di livello. Si notano i corpi opachi di vetroresina a forma di piramide curva molto degradati, mentre quelli bombati di plexiglass sono lucidi. Le resine poliestere (UP) traslucide sono sensibili ai raggi UV, infatti ultimamente sono meno utilizzate, mentre le resine acriliche, le metacriliche e le PMMA sono praticamente insensibili ai raggi solari e mantengono la lucentezza molto a lungo. Il manto impermeabile mostra i segni delle verniciature protettive, eseguite con vernici bituminose a base di alluminio.

Fig. 3.24 L’inserimento di corpi trasparenti di vetromattone per l’illuminazione naturale dei locali interrati costituisce un attraversamento multiplo, perché ogni elemento è un potenziale passaggio d’acqua. La posizione ribassata dei corpi trasparenti rispetto

al pavimento favorisce l’accumulo e la successiva infiltrazione della pioggia. Si notano numerosi giunti spontanei sulla pavimentazione, caratterizzati da formazioni minerali di calcare ricristallizzato, che sono indicativi della corrosione nei massetti.

Fig. 3.25 Infiltrazione su un balcone, causata dai fori dei tasselli di ancoraggio della ringhiera troppo lunghi, che hanno perforato il manto impermeabile posto immediatamente sotto la lastra di pietra di estremità (freccia rossa). Si può notare il massetto completamente fradicio. In questo caso era stato correttamente realizzato il risvolto a scendere.

Fig. 3.26 I risvolti sono fondamentali per la tenuta all’acqua e devono essere di almeno 10 cm rispetto al pavimento finito.

Fig. 3.27 Il sottosoglia è il punto più difficile da impermeabilizzare nelle terrazze e nei balconi. Nella foto si nota un abbassamento del pavimento che ha sicuramente creato un problema di tenuta, consentendo all’acqua di passare all’interno dell’edificio. Questo punto è particolarmente sensibile ai difetti di esecuzione, poiché non è possibile realizzare il risvolto a salire. Se si utilizzano guaine bituminose, la saldatura del manto sulla lastra è praticamente impossibile. Per la corretta impermeabilizzazione si rende necessario l’utilizzo di idonei mastici o sigillanti, compatibili con la pietra e con il sistema adottato. L’esperienza pratica dimostra che questi accorgimenti non vengono quasi mai rispettati.

Fig. 3.28 Lesione localizzata su un balcone, manifestatasi in posizione centrale rispetto alla lunghezza. Questa tipologia di danno è facilmente riconducibile agli effetti della dilatazione termica impedita. Da notare, la macchia umida che è più intensa sul lato esterno ed è assente a contatto della parete. Ciò significa che c’è una corretta pendenza a uscire.

Esposizione al vento. Il vento costituisce un serio problema a causa della sua capacità di spingere l’acqua in contropendenza, consentendole di penetrare anche in zone protette dalla pioggia diretta.

Fig. 3.29 Il vento spinge l’acqua anche in contropendenza.

Gravosità delle condizioni di esercizio. Oltre alle già citate sollecitazioni ambientali, i pavimenti e i rivestimenti dei manti sono soggetti alle varie condizioni di utilizzo, che possono essere più o meno impegnative. Generalmente si adotta la seguente scala di gravosità:

praticabile (pedonabilità occasionale); calpestabile (pedonabilità limitata);

pedonale (traffico abituale di pedoni); traffico intenso (passaggio continuativo di persone); carrabile (passaggio di mezzi su ruota).

Nelle zone delle coperture soggette a particolare traffico di persone, come per esempio lungo i camminamenti degli addetti alla manutenzione, è opportuno prevedere uno strato protettivo ulteriore, per salvaguardare il sistema impermeabile. Queste zone dovranno inoltre essere dotate di superfici antiscivolo e di una delimitazione fisica tale da impedire il passaggio nelle altre parti della copertura non rinforzate.

Fig. 3.30 I manti impermeabilizzanti bituminosi devono sempre essere protetti da massetti o da quadrotti di cemento affinché possano diventare pedonabili. Questo perché non sono adatti a sopportare carichi puntiformi anche se modesti, o a sostenere oggetti di alcun tipo. La sedia di colore bianco in alto a destra e i piedini metallici del tavolo a sinistra possono danneggiare il manto, causando infiltrazioni al piano sottostante. Da notare, l’assenza di verniciatura protettiva.

Fig. 3.31 Particolare fenomeno di scorrimento viscoso del manto bituminoso, chiamato anche “reptazione”, dovuto all’irraggiamento solare. Sui manti protetti da massetti o quadrotti il fenomeno non si verifica.

Assenza di manutenzione. Rappresenta un’importante causa di danno per i sistemi impermeabili, perché consente ai diversi agenti di degrado la progressione indisturbata delle loro azioni, senza che queste siano individuate, né tantomeno interrotte in tempo.

Fig. 3.32 Formazioni di vegetazione spontanea, dovute a incuria, su una terrazza esposta all’acqua piovana. L’assenza di manutenzione ha favorito la crescita di piante infestanti sulla pavimentazione, in particolare sui giunti e negli angoli, dove i semi hanno trovato le condizioni migliori per la germinazione. Le radici delle piante sono in grado di causare danni importanti ai sistemi impermeabili.

Fig. 3.33 Caso estremo di infestazione da vegetazione spontanea. Da notare che entrambe le piante si sono sviluppate in prossimità dei canali di gronda, dove normalmente si accumula il terriccio trasportato dal vento. Una manutenzione regolare avrebbe certamente evitato le formazioni osservate.

Elementi costruttivi critici

Si sottolinea il fatto che i danni e i difetti di un sistema impermeabile riguardano quasi esclusivamente le singolarità e i dettagli costruttivi. In

questi punti i materiali sono maggiormente sollecitati e spesso la loro applicazione non è stata eseguita correttamente, in quanto più difficoltosa.

Perciò questi particolari sono sempre i più soggetti a guasti e a rotture.

La massima frequenza dei danni ai sistemi impermeabili, riscontrata negli edifici, è normalmente riconducibile ai seguenti elementi costruttivi:

risvolti angoli spigoli passaggi e attraversamenti scarichi camini raccordi con altri edifici collegamenti con elementi diversi soglie gradini scale giunzioni vecchio-nuovo inserimenti di ringhiere

piastre ancoraggi.

Fig. 3.34 Infiltrazioni laterali causate dall’assenza di impermeabilizzazione dei gradini. Le scale sono soggette a notevoli problemi infiltrativi, perché concentrano in poco spazio un gran numero di angoli, spigoli e variazioni di forma e dimensione. Da notare la quantità di umidità crescente dall’alto verso il basso, secondo il percorso dell’acqua.

Fig. 3.35 Questo è un classico esempio di assenza del risvolto verticale a salire sul lato esterno di un balcone, dove l’acqua ha la possibilità di bagnare il muro e di raggiungere anche il piano sottostante.

Fig. 3.36 Un errore frequente è quello di realizzare un risvolto da 10 cm durante la posa del manto, il quale viene poi inglobato nello spessore del massetto e del pavimento. Il risultato è che, a lavoro finito, il risvolto si troverà alla quota del piano di calpestio e l’impermeabilizzazione sarà del tutto inefficace.

Fig. 3.37 Questo invece è un risvolto a salire correttamente eseguito, che si è staccato per scarsa manutenzione. È sempre opportuno ancorare meccanicamente i risvolti sia a salire che a scendere per mezzo di un profilo metallico atto a evitarne il distacco. Oppure si può realizzare un taglio orizzontale di qualche centimetro nella muratura, dove alloggiare una scossalina, fissandola rigidamente. L’eventualità che possano crearsi tasche come quella della foto, che sono fonte di importanti infiltrazioni d’acqua, è molto probabile.

Fig. 3.38 Esecuzione del risvolto a tutt’altezza con manto autoprotetto su una terrazza piana, in assenza del giunto elastico perimetrale. Si nota che la rilevante spinta del pavimento ha schiacciato la guaina contro il muro, estrudendola e recidendola per compressione. L’impermeabilizzazione in questo caso è inefficace e la riparazione del manto risulta molto complessa e costosa.

Fig. 3.39 Questo è un risvolto a salire non correttamente saldato sul muro verticale, realizzato su una rampa carrabile. La tasca che si è creata consente l’ingresso dell’acqua piovana diretta e indiretta. Da notare che un difetto simile non è evidenziato da un’eventuale prova di allagamento. Risulta inoltre assente il giunto elastico perimetrale, che avrebbe dovuto impedire il contatto meccanico del manto con il pavimento. In occasione di movimenti derivanti da dilatazioni o da carichi statici, il manto impermeabile può subire danni o lacerazioni, essendo il più debole fra gli elementi coinvolti.

Fig. 3.40 Attraversamento di due tubi corrugati neri di PVC nel sottosoglia, destinati all’impianto elettrico di alimentazione delle lampade esterne. Questo punto è il più problematico nell’impermeabilizzazione dei balconi. Nella situazione in esame, l’acqua può entrare dall’estremità del corrugato e introdursi nell’edificio, rendendo difficoltosa l’individuazione del problema.

Cause delle infiltrazioni

Le infiltrazioni dal tetto o dagli altri elementi orizzontali sono prevalentemente dovute alle seguenti cause.

Errori di progetto. Si verificano quando non si è tenuto conto di fattori noti, o comunque prevedibili, che avrebbero dovuto garantire contemporaneamente tenuta all’acqua e durata della prestazione impermeabile nel tempo. Comprendono sia l’errata scelta del materiale impiegato, sia l’utilizzo di tecniche non idonee o non applicabili al caso di studio.

Fig. 3.41 In questa terrazza, la soglia è in contropendenza e il pavimento interno è più basso rispetto all’esterno. Si è tentato di far fronte al problema realizzando una canalina di raccolta in prossimità dell’ingresso. Le infiltrazioni sono comunque presenti a causa della

pioggia diretta e di rimbalzo che bagna sia la portafinestra sia la soglia, e si trasferiscono al piano inferiore.

Errori o difetti di esecuzione. Sono piuttosto frequenti e riguardano l’inosservanza delle procedure di applicazione dei materiali, rispetto alla tecnica stabilita in progetto. È importantissimo rispettare sempre le prescrizioni di posa dei materiali stabilite da produttore e indicate nelle schede tecniche e nei manuali di applicazione dei prodotti.

Danni accidentali. Sono relativi a lesioni o danneggiamenti dei materiali, oppure dei sistemi di protezione, dovuti a cause non previste o non prevedibili, in relazione alle condizioni di utilizzo dell’opera.

Invecchiamento del sistema impermeabile. Riguarda il raggiungimento del fine vita utile di esercizio dei materiali, e dipende da come questi hanno svolto la funzione assegnata.

Fig. 3.42 Manto bituminoso invecchiato dall’esposizione agli agenti atmosferici. Si nota la caratteristica superficie a buccia d’arancia, dovuta all’impoverimento di sostanze volatili, unita al degrado causato dai raggi UV. Il colore non è più nero, ma tende al marrone, perché il bitume degradato dagli UV diventa solubile e viene dilavato dall’acqua piovana, lasciando a vista le cariche minerali presenti nel materiale d’origine. Lo stesso fenomeno avviene nei conglomerati bituminosi stradali, che tendono a schiarire con l’invecchiamento.

Principali eventi di danno

Gli eventi più frequenti, derivanti dalle cause precedentemente elencate sono i seguenti.

Rottura del manto o dei giunti fra elementi impermeabili. Riguarda prevalentemente il cedimento della saldatura o della giunzione fra elementi contigui dello stesso manto e, più raramente, la rottura del telo in punti diversi rispetto al suo perimetro.

Intasamento degli scarichi e innalzamento della quota d’acqua fino a tracimare sui sormonti. È un caso ricorrente dovuto quasi sempre ad assenza di manutenzione dei sistemi di evacuazione delle acque meteoriche e, più raramente, all’errato dimensionamento o posizionamento degli stessi. La regola abitualmente adottata in Italia per il dimensionamento degli scarichi, che deriva da una vecchia norma inglese, prevede un elemento da 100 mm di diametro ogni 100 mq di superficie orizzontale esposta all’acqua piovana, con un minimo di 80 mm in caso di superfici inferiori.

Tale accorgimento è sufficiente all’evacuazione dell’acqua meteorica nella maggior parte delle situazioni, purché unito all’uso di apposite griglie protettive, dette anche “pigne”, che impediscono ai fogliami che si accumulano in prossimità degli scarichi di intasarli. È importante inoltre prevedere la manutenzione annuale delle bocchette di scarico, che ne verifichi lo stato di efficienza, da effettuare possibilmente prima delle stagioni piovose. La posizione dello scarico non dovrà essere situata nelle immediate vicinanze dell’angolo della terrazza, ma dovrà distare da questo almeno 50 cm per lato, al fine di evitare l’accumulo di foglie e terriccio.

Le coperture delimitate da muretti perimetrali, o da elementi verticali di estremità, possono costituire una potenziale vasca di accumulo in caso di intasamento dello scarico. Esiste il pericolo che, a seguito di copiose

precipitazioni, il livello dell’acqua possa innalzarsi fino a creare rischi di danno da sovraccarico, oltre che da infiltrazione. Le coperture praticabili sono calcolate per sopportare un peso che va dai 200 ai 400 kg/mq.

In caso di accumulo da intasamento, il primo limite viene immediatamente raggiunto con uno stato d’acqua alto solo 20 cm. Per proteggersi da questo rilevante rischio, se la terrazza si trova confinata da chiusure perimetrali si ricorre all’utilizzo di attraversamenti orizzontali liberi, detti “scarichi di troppopieno”. Questi importanti elementi sono atti a favorire lo scarico rapido in emergenza dell’acqua piovana, qualora questa dovesse raggiungere la quota limite di sicurezza all’interno della vasca venutasi a creare. È da notare che, in presenza di neve mista ad acqua, i fenomeni descritti sono esaltati, quindi maggiormente pericolosi. La neve infatti diviene un mezzo poroso che si impregna d’acqua, rallentandola e ostacolando il suo libero scorrimento. Ciò causa l’innalzamento del suo livello e riduce notevolmente la capacità di evacuazione della copertura. Quando l’accumulo di acqua e neve si protrae per diversi giorni, durante le notti più fredde avviene la formazione di ghiaccio all’interno degli scarichi. Questo fatto è particolarmente pericoloso, perché quando si verifica questa situazione, l’acqua non ha più la possibilità di essere evacuata finché lo scarico non sarà liberato dal ghiaccio. Fino a quel momento tutta l’acqua derivante dallo scioglimento della neve andrà ad accumularsi sulla copertura.

Quando l’acqua non ha la possibilità di allontanarsi e sale di livello, si trova costretta a tracimare sui sormonti laterali, o su quei particolari costruttivi che non erano stati progettati né predisposti per impedire che il fenomeno avvenisse. Si citano come esempio le soglie delle porte, i risvolti sugli zoccolini battiscopa, i sormonti sulle lattonerie dei pluviali ecc.

Un’altra causa frequente di intasamento degli scarichi è la formazione di calcare generata dall’acqua piovana, che dissolve le componenti carbonatiche dei massetti.

Queste formazioni tendono a crescere all’interno delle tubazioni, formando masse di minerale ricristallizzato avente composizione chimica simile a quella delle stalattiti, che ostruiscono il passaggio dell’acqua.

Fig. 3.43 Infiltrazioni laterali da pioggia abbondante, in presenza di scarico intasato o insufficiente.

Infiltrazione per innalzamento di livello dovuto allo scioglimento della neve. Il fenomeno si verifica quando il tetto è coperto da neve in fase di scioglimento e l’acqua generata incontra elevata resistenza al flusso nel

percorso verso gli scarichi o trova gli stessi ostruiti dalla neve o dal ghiaccio. Il livello dell’acqua tenderà a salire finché la pressione idrostatica data dall’altezza del liquido andrà a equiparare le resistenza opposta al flusso dell’acqua in evacuazione. Si possono perciò realizzare le condizioni perché la quota dell’acqua “liquida” salga rispetto alla quota dello scarico, anche di diverse decine di decimetri, dando luogo a infiltrazioni laterali.

Fig. 3.44 Intasamento causato dalla neve, con l’innalzamento del livello liquido.

Combinazione pioggia-vento. Questo in realtà è un caso particolare della situazione descritta precedentemente, in cui la presenza di forte vento unita alla pioggia provoca la risalita del flusso d’acqua che discende lungo la falda, causando infiltrazioni. L’azione del vento è molto discontinua, variabile, e crea turbolenze di difficilissima previsione e determinazione.

Sono quindi possibili concentrazioni di effetti anche rilevanti, difficilmente intuibili, che provocano infiltrazioni talvolta inspiegabili.

Effetti condensativi. Alcuni fenomeni di condensazione sono collegati alla pioggia e avvengono nell’intradosso delle coperture isolate in maniera insufficiente, quando il raffreddamento provocato all’estradosso dalla pioggia battente o dalla neve determina un abbassamento della temperatura tale da generare condensa. È una causa di difficile interpretazione in quanto la presenza d’acqua condensata si verifica solo in occasione della pioggia, facendo ipotizzare la presenza di un danno sull’impermeabilizzazione che, alla verifica della prova di allagamento e di altre indagini, non viene evidenziata. Questo è un vero e proprio rompicapo per i tecnici addetti all’individuazione della presenza d’acqua, che può facilmente essere risolto con opportune verifiche termoigrometriche o con l’indagine termografica.

Principali categorie di danni e difetti

Danni

I danni ai quali sono soggetti un sistema impermeabile di copertura e le opere a esso assimilate possono essere di diversa natura e si riassumono in: danno meccanico, fisico, chimico e biologico.

Danno meccanico. Il manto impermeabile è soggetto a danno meccanico, quando è interrotto, o lacerato, o comunque quando viene meno la sua continuità a causa di forze fisiche che determinano una soluzione di continuità dalla quale deriva la perdita di tenuta. Le principali situazioni di danno meccanico, che abitualmente si verificano negli elementi impermeabili sono le seguenti:

Dilatazioni termiche o deformazioni strutturali sia cicliche che permanenti dei supporti o dei materiali a contatto, che trascinano in movimento il manto fino a superare il suo limite di deformabilità. Il manto impermeabile è generalmente l’elemento meno resistente e più delicato di tutta la copertura. Deve seguire le dilatazioni cicliche giornaliere e stagionali della struttura sottostante e quelle spesso non coincidenti del massetto o del pavimento a essa sovrapposto. In molti casi il manto è posato direttamente sull’isolante termico, e questo fatto accentua ulteriormente il fenomeno descritto, incrementando sensibilmente le deformazioni e le sollecitazioni conseguenti. Cedimento e schiacciamento del materiale isolante, o di qualsiasi elemento deformabile sottostante al manto. Contatto con parti acuminate o taglienti, punzonamento e altri effetti di danneggiamento che sono frequenti nelle coperture. Caduta di oggetti capaci di danneggiare il manto, sia per eventi accidentali sia nel corso di lavori o di manutenzioni. Deposito inadeguato di elementi estranei alla copertura, che agiscono con il proprio peso a danno del manto impermeabile e sono inoltre soggetti a muoversi per azione del vento e delle dilatazioni termiche.

Danno fisico. Il danno fisico avviene in conseguenza di azioni prevalentemente fisiche, come le seguenti:

Stress termico da dilatazioni alternate dovute ai cicli giornalieri e stagionali caldo-freddo, capaci di indebolire sensibilmente lo strato impermeabile per affaticamento e per effetto memoria, rendendolo più suscettibile alle infiltrazioni. Ritiro del manto causato dalla riduzione del suo volume conseguente all’evaporazione delle sostanze volatili contenute nelle mescole bituminose. Questo danno generalmente forma tante piccole fessurazioni superficiali, che accelerano il degrado. Irraggiamento solare senza protezione dagli UV, che invecchia il bitume rendendolo poroso e non più impermeabile.

Danno chimico. Il danno chimico riguarda il contatto del manto con elementi che possono alterare la composizione chimica e ridurre la funzionalità del rivestimento:

Piogge acide e aggressive che favoriscono il degrado dei manti, e degli elementi metallici di tenuta. Escrementi o animali morti che possono ostruire gli scarichi e danneggiare i sistemi di protezione. Solventi occasionalmente utilizzati durante i lavori manutentivi di impianti o di altri elementi presenti sulle coperture, oppure nella verniciatura di ringhiere e telai metallici. Sostanze oleose anche di origine vegetale, che possono sciogliere e danneggiare i manti bituminosi, e alcune categorie di sigillanti.

Aerosol marino contenente sensibili quantità di cloruri e di solfati, particolarmente aggressivi per i metalli.

Danno biologico. Il danno biologico riguarda invece le azioni biologiche che si svolgono a danno del manto:

Presenza di infestanti vegetali e delle loro radici, che generano sostanze acide capaci di danneggiare quasi tutti i materiali e di perforare i manti impermeabili. Insetti che, a causa delle loro dimensioni, riescono a trovare minuscoli fori o passaggi, penetrando all’interno degli isolanti. Possono dar luogo a importanti infestazioni delle coperture. Roditori e uccelli trovano nelle coperture un habitat ideale per proliferare, causando spesso la distruzione di ampie porzioni del tetto. Film biologico dovuto alla presenza di vari agenti batterici e di microrganismi, che si nutrono dei materiali utilizzati nelle costruzioni. Sono in grado di cibarsi di numerosi materiali, compresi il ferro, il bitume e il legno, e di danneggiare quasi tutti gli altri.

Difetti

I difetti possono essere riferiti fondamentalmente al prodotto o alla posa.

Difetti del prodotto. I difetti riconducibili ai prodotti utilizzati nelle opere di impermeabilizzazione sono piuttosto rari, poiché le aziende produttrici oramai si sono dotate di efficienti sistemi di controllo della

qualità in uscita, che assicurano la rispondenza del materiale alle schede tecniche dichiarate. Gli eventuali difetti dei materiali, normalmente sono individuati in fase di applicazione, ma talvolta sono scoperti solo dopo la posa. I casi più frequenti sono:

Prodotto scaduto Stoccaggio inadeguato

Prodotto scaduto. Quasi tutti i materiali impiegati nelle impermeabilizzazioni, compresi i manti bituminosi, sono soggetti a “scadenza”. Questa indica il termine di tempo ultimo per la possibilità di posa del materiale, avente caratteristiche tecniche conformi a quanto dichiarato sulla scheda tecnica.

Per i rotoli di guaina bituminosa conservati in condizioni ottimali, ovvero in luogo fresco, asciutto e ventilato e al riparo da sole, luce e agenti atmosferici, i termini di scadenza sono generalmente di 6 mesi dalla data di produzione. Esiste quindi la possibilità che, in occasione di fermi o sospensione del cantiere, eventuali giacenze precedenti di guaina conservate in maniera inadeguata e ormai scadute siano impiegate per completare le opere di impermeabilizzazione.

Stoccaggio inadeguato. Tutti i materiali da costruzione devono essere conservati in maniera adeguata e tale da preservare le caratteristiche del prodotto, evitando che questo possa rovinarsi. In generale, si dovranno evitare le esposizioni al gelo, alla luce solare diretta, all’umidità e al calore. Alcuni prodotti chimici usati in edilizia, come per esempio i composti poliuretanici usati nelle sigillature, nelle pavimentazioni e nelle impermeabilizzazioni in resina, sono molto sensibili alle condizioni di

conservazione. Occorre rispettare sempre le avvertenze indicate sulle schede tecniche dei prodotti impiegati.

Un’altra ricorrente causa di difetto del materiale, riguarda le emulsioni all’acqua che si utilizzano come primer o come impermeabilizzanti liquidi. Quando la loro temperatura si abbassa al di sotto di 0° C, rompono lo stato di coesistenza della soluzione o dell’emulsione (si dice che si rompe l’emulsione).

In questo caso il prodotto non è più utilizzabile, poiché le sue caratteristiche sono completamente diverse da quanto richiesto.

Difetti di posa. Riguardano tutti gli errori commessi dal personale addetto all’esecuzione delle protezioni impermeabili. Essendo questa categoria di difetti particolarmente estesa e articolata, riteniamo che il presente testo non sia la sede adatta perché la si possa descrivere nel dettaglio.

Rimandiamo quindi ai testi specialistici, l’analisi dell’argomento.

I due documenti più rappresentativi del settore, dai quali trarre le dovute indicazioni sulla corretta regola dell’arte, sono il Codice di Pratica delle Impermeabilizzazioni dell’IGLAE (Istituto per la Garanzia dei Lavori Affini all’Edilizia) e il Manuale dei sistemi di Impermeabilizzazione dell’ASSIMP (Associazione delle Imprese di Impermeabilizzazione Italiane).

Infiltrazioni dai passaggi degli impianti

In questo paragrafo saranno descritte le più comuni situazioni in cui l’acqua piovana può penetrare nell’edificio attraverso il passaggio di un impianto. Questa modalità di manifestazione non è da mettere in relazione con i guasti agli impianti, che saranno invece esaminati nel prossimo capitolo.

Nell’analisi che segue si prenderà in esame ciò che avviene quando l’infiltrazione attraversa lo stesso foro di passaggio dell’impianto, che non è stato idoneamente sigillato in origine o che nel tempo ha dato dei segni di cedimento, perdendo impermeabilità.

I danni e i difetti degli impianti di smaltimento delle acqua meteoriche saranno esaminati per praticità nel paragrafo 3.1.8 relativo all’acqua che proviene dalle pareti.

Questa categoria di cause è abitualmente poco considerata dalla maggioranza degli operatori. Nella pratica quotidiana di diagnosi, invece, capita molto frequentemente di individuare infiltrazioni dovute agli attraversamenti degli impianti tecnici.

Quasi tutti gli impianti hanno la necessità di attraversare l’involucro dell’edificio, dal tetto, dalle pareti oppure dal pavimento e dalle eventuali parti interrate dell’immobile. Molto spesso, l’attraversamento non viene adeguatamente sigillato ma ancora più spesso, e questa è la cosa più grave, non viene neppure considerato un punto critico in fase di progetto.

Gli impianti solitamente presenti in un edificio residenziale, sono i seguenti:

Impianto dell’acqua potabile. Riguarda generalmente un solo tubo di immissione, che porta l’acqua dalla rete idrica cittadina all’abitazione e che attraversa una sola parete dell’edificio nella sua parte bassa. La tubazione può essere di rame rivestito o di ferro zincato nelle costruzioni datate, oppure di polietilene in quelle più recenti.

Impianto di scarico delle acque nere e bianche. Generalmente si tratta di un solo tubo in uscita (o, più raramente, di due) di diametro superiore ai 100/120 mm, che convoglia le acque nere verso la fognatura. Nelle costruzioni pluriedificio i diametri sono generalmente maggiori. Trattandosi di liquido che deve essere allontanato per gravità, questo tubo deve attraversare la parete nella parte più bassa a meno che, per motivi di differenze di quota, si sia reso necessario sollevare le acque di scarico a un livello più alto per mezzo di una pompa di rilancio.

Impianto del gas. Generalmente si tratta di un solo tubo, con rivestimento di colore giallo, che entra nella parete in posizione piuttosto elevata rispetto al terreno.

Impianto di riscaldamento e condizionamento. Può attraversare la parete esterna se la caldaia è posizionata fuori dall’edificio e interessa due o più tubi, normalmente dotati di isolamento termico.

Impianto elettrico di rete. Attraversa le pareti e i solai per mezzo di tubi di PVC corrugato di colore nero o grigio, nelle modalità più varie e

imprevedibili. Essendo possibili numerosi passaggi in posizioni e altezze diverse, si creano le condizioni tali da rendere le tubazioni dell’impianto elettrico un elemento particolarmente insidioso per le infiltrazioni.

Impianto del telefono. Anche questo impianto impiega un tubo corrugato di PVC, ma di colore verde, e presenta lo stesso problema dei corrugati in relazione al rischio infiltrativo. Normalmente si tratta di un solo tubo, situato in posizione bassa.

Cavo dell’antenna. Questo tubo è un corrugato di colore verde o bianco che normalmente attraversa l’involucro edilizio nel tetto o nelle sue vicinanze, ed è perciò potenzialmente quello che rappresenta il rischio maggiore di infiltrazione se non è correttamente sigillato.

Impianto antifurto. Come sopra. Il tubo è di colore marrone.

Rete LAN. Come sopra. Il tubo è di colore verde o bianco.

Videocitofono e audio video. Come sopra. Il tubo è di colore azzurro.

Canna fumaria della caldaia. Si tratta normalmente di un tubo di metallo o di materiale ceramico, quasi sempre dotato di isolamento termico, che spesso attraversa le coperture. È soggetto a movimenti di dilatazione causati dalle alte temperature, che mettono a dura prova la tenuta impermeabile dell’attraversamento. Spesso la sua sigillatura non è idonea alle condizioni di impiego.

Camino. Rappresenta uno dei maggiori problemi di tenuta delle coperture, poiché è sempre di dimensioni considerevoli ed è soggetto sia alla dilatazione termica sia all’esposizione diretta all’acqua e al vento.

Impianti di estrazione fumi cappa. Anche questi sono talvolta situati in posizione sfavorevole, soprattutto quando attraversano verticalmente le protezioni impermeabili. Sono meno problematici dei camini, perché rispetto a questi hanno una dimensione ridotta e non sono soggetti a grosse variazioni di temperatura.

Ventilazione degli scarichi. Questi tubi servono a equalizzare le pressioni nelle tubazioni di scarico. Normalmente fuoriescono dalle terrazze e dalle coperture inclinate in posizioni sfavorevoli.

Prese d’aria statiche. Sono attraversamenti a parete per la ventilazione naturale, che talvolta possono veicolare acqua all’interno della costruzione se non sono adeguatamente protetti. Generalmente sono presenti nelle cucine, sia in posizione bassa, sia in prossimità del soffitto.

Impianto di ventilazione domestica. Si tratta di un impianto per il ricambio automatico dell’aria in casa, che di solito è dotato di uno o più tubi di immissione e di altrettanti di espulsione. Anche questi devono essere idoneamente sigillati.

Ventilazione vespaio. Generalmente si tratta di tubi di PVC lisci o corrugati, di diametro variabile fra gli 80 e i 100 mm, che consentono la ventilazione dei vespai areati posti sotto i pavimenti. Quando possibile,

sono posizionati sui lati opposti dell’edificio. Andrebbero installati ad altezze diverse sui due lati, ma tale accorgimento è spesso disatteso.

Tubazioni dei pluviali. Nonostante sia una pratica che è sempre meglio evitare, frequentemente gli impianti di evacuazione delle acque meteoriche passano all’interno dell’abitazione. In caso di danno o di ostruzione ci saranno delle infiltrazioni di acqua piovana, anche in misura rilevante, all’interno della casa.

Più frequentemente invece, questi impianti sono correttamente collocati all’esterno, ma in posizione tale da interferire con le impermeabilizzazioni, creando talvolta infiltrazioni di acqua meteorica.

Colori dei corrugati di PVC: negli impianti elettrici e di trasmissione dei dati, in passato erano utilizzati anche tubi corrugati di colore diverso, come il rosso, l’arancione e il giallo, che sono caduti in disuso.

I colori dei corrugati di PVC dipendono dal tipo di impianto e sono specificati nella Guida CEI 64/100-2, che non ha valore di norma ma costituisce un’indicazione all’impiego.

Principali problemi dovuti ai passaggi degli impianti

Raramente tutti gli impianti citati sono presenti in un’abitazione, ma in ogni caso c’è sempre, fra quelli elencati, un buon numero di passaggi e di attraversamenti che rendono vulnerabile l’involucro edilizio, mettendo a serio rischio l’impermeabilità complessiva della casa.

Negli edifici datati, che nel corso del tempo sono stati oggetto di modifiche e ristrutturazioni, sono quasi sempre presenti impianti vecchi e non più in esercizio. Questi talvolta diventano vie preferenziali di apporto d’acqua, molto difficili da individuare. Ai fini delle infiltrazioni, questi impianti dismessi si comportano esattamente come quelli in esercizio e sono un possibile percorso facilitato per il passaggio dell’acqua.

Fra agli impianti elencati, quelli che causano infiltrazioni con maggiore frequenza sono senza dubbio le tubazioni corrugate degli impianti elettrici e le tubazioni rivestite con isolante, sia dell’acqua fredda sia degli impianti di riscaldamento e condizionamento.

I tubi di plastica corrugati degli impianti elettrici sono i più insidiosi, perché normalmente non si pensa possano lasciare passare l’acqua. Associare anche mentalmente i cavi elettrici con un’infiltrazione d’acqua sembra una contraddizione, ma spesso l’acqua è più astuta di noi e trova proprio questi percorsi per entrare in casa.

Un’altra particolarità dei corrugati è quella di non essere un prodotto a tenuta d’acqua. Allo stesso tempo però questi tubi possono avere, in maniera del tutto casuale, tratti impermeabili e altri no di lunghezza variabile, rendendo molto complessa l’interpretazione del loro comportamento.

Un altro elemento da non sottovalutare riguarda la loro posizione rispetto al piano orizzontale, che varia nelle maniere più disparate, creando in caso di infiltrazione zone di accumulo, sifoni, e contropendenze molto difficili da interpretare e da individuare. È possibile perciò che un tubo corrugato di plastica sia asciutto a un’estremità, diventi fonte di infiltrazione lungo il suo percorso, e si ritrovi asciutto all’estremità opposta.

Durante la diagnosi è perciò opportuno verificare anche tutti i tubi che attraversano le pareti, i solai e i pavimenti dell’abitazione, che alloggiano impianti elettrici, telefonici, di trasmissione dati, antenne, fibre ottiche e cavi in generale.

Le tubazioni rivestite con isolante diventano anch’esse un problema abbastanza serio, perché spesso l’acqua passa attraverso lo strato isolante in modo del tutto invisibile e imprevedibile. Non si tratta normalmente di quantità importanti di acqua, ma sono spesso casi molto difficili da individuare.

Fig. 3.45 Attraversamento di una canna fumaria di acciaio inox sul manto impermeabile di una terrazza, che andrà successivamente pavimentato. Questo passaggio è particolarmente problematico perché è soggetto simultaneamente a stress termico e alle continue dilatazioni e vibrazioni indotte sul tubo dal vento. Si noti il risvolto a salire insufficiente, sia sulla parete che sul tubo, che sarà quasi interamente inglobato nel massetto della successiva pavimentazione.

Fig. 3.46 Sulla stessa terrazza si nota l’attraversamento dell’unità esterna dell’impianto di condizionamento, costituito da due tubi di rame rivestiti e da un corrugato nero di PVC. La sigillatura realizzata non è assolutamente in grado di garantire la benché minima impermeabilità al sistema. Tanto più che le tubazioni attraversano il manto esattamente in corrispondenza dell’angolo, il quale costituisce di per se una singolarità,

cioè un punto particolarmente problematico. La realizzazione corretta sarebbe stata quella di salire con i tubi oltre il livello del risvolto e di uscire sulla parete con un tubo inclinato a scendere come in Fig. 3.47.

Fig. 3.47 Corretta installazione di un innesto a scendere nelle tubazioni in uscita su pavimenti esterni e terrazze.

Fig. 3.48 Attraversamento di una canna fumaria di acciaio inox su un manto bituminoso autoprotetto con graniglia di ardesia. Si può notare la totale assenza di risvolti a salire, sia sul tubo sia sulla parete. Le tubazioni soggette a notevoli dilatazioni termiche, come quella della foto, necessitano di un apposito giunto impermeabile scorrevole telescopico.

Fig. 3.49 Tubo corrugato nero di PVC che fuoriesce dal pavimento della terrazza. È possibile che questo non attraversi direttamente il manto impermeabile immediatamente sottostante, ma che possa percorrere anche lunghe distanze sulla terrazza prima di farlo. Quando si inserisce all’interno dell’edificio, la probabilità che non sia stato correttamente sigillato è molto alta. Si noti il giunto fra i due pannelli a parete, che consente all’acqua piovana di penetrare da dietro, scavalcando l’impermeabilizzazione (freccia rossa).

Fig. 3.50 Importante infiltrazione di acqua piovana che attraversa la copertura in corrispondenza di un camino, interessando l’intera parete fino a quota del terreno. Sul lato destro della stessa facciata si può notare l’esito di una manifestazione simile, verificatasi in passato su un altro camino.

Fig. 3.51 Due tubi del gas che attraversano la pavimentazione di un marciapiede esterno, nel punto in cui l’impermeabilizzazione orizzontale è raccordata sul verticale. Appare evidente che la posizione dei tubi rende molto difficile la sigillatura dell’attraversamento.

Fig. 3.52 Tubazione di un impianto di scarico dell’acqua piovana che fuoriesce dall’abitazione e attraversa la terrazza. Si notano la posizione problematica del tubo, che è interessato sia dall’acqua diretta sia da quella di rimbalzo, e l’assenza di sigillatura.

Fig. 3.53 Particolare di due attraversamenti in una terrazza esterna, nella zona protetta da un balcone aggettante. Si notano un tubo metallico verticale, che si inserisce nel pavimento senza alcuna opera di tenuta, e un tubo di aerazione, che fuoriesce direttamente all’esterno, alla quota di calpestio. Entrambe le tubazioni comunicano con il locale tecnico della caldaia posto al piano seminterrato.

Fig. 3.54 Pavimentazione di una terrazza esterna attraversata da un pluviale intubato e da un corrugato giallo che alloggia l’impianto del gas, in prossimità di un angolo e di una soglia. In questo punto si concentrano più elementi di rischio per la corretta tenuta del sistema impermeabile. Nelle situazioni come quella evidenziata sono da evitare i manti bituminosi, che non potrebbero garantire adeguata tenuta, mentre sono da preferire le impermeabilizzazioni liquide. In presenza di tubazioni o di particolari di impianti realizzati in plastica o gomma, la saldatura a fiamma non può essere effettuata.

Fig. 3.55 Situazione analoga alla precedente, in cui più impianti attraversano l’involucro edilizio mettendo a rischio la sua tenuta impermeabile.

Fig. 3.56 Tubazione corrugata di colore verde di un impianto telefonico, del tutto priva di sigillatura, che attraversa la muratura in prossimità del terreno. In occasione di piogge intense, l’acqua penetra dal passaggio dell’impianto riversandosi all’interno dell’edificio.

Umidità dalle pareti

Numerose possibilità di ingresso di acqua meteorica sulla muratura sono del tutto sconosciute, inaspettate e capaci di trarre in inganno anche gli osservatori più attenti. Con un po’ di pazienza e applicando correttamente la logica nell’interpretare i fenomeni osservati sarà più semplice scoprire quale sia la causa di alcune forme inconsuete di umidità muraria. L’acqua meteorica è la prima causa di bagnatura delle pareti e in particolar modo della loro base. Più in generale, la pioggia diretta e indiretta è la prima causa di danno riconducibile all’acqua, anche per le pareti.

Il processo è molto semplice: la pioggia giunge dall’alto e bagna le pareti scorrendo verso il basso. Una parte di acqua resta aderente alle superfici sotto forma di velo liquido, un’altra parte è assorbita dagli strati più superficiali della muratura e dal suo intonaco, in proporzione alla loro permeabilità e porosità. Tutta l’acqua che non viene assorbita scorre verso il basso e si accumula al suolo.

Le pareti sono molto più raramente interessate dall’umidità della rugiada e quasi indenni dal contatto con la neve, tranne nei casi di copiosi accumuli alla loro base, nei territori alpini e nelle situazioni eccezionali. In climi molto freddi è possibile che sulle superfici esterne delle pareti di edifici non riscaldati e non occupati, oppure abitati e riscaldati ma rivestiti con un cappotto termico, possano svilupparsi non solo rugiada, ma anche ghiaccio e brina.

Nel corso degli eventi piovosi, le pareti sono generalmente soggette a essere bagnate interamente o parzialmente dall’acqua meteorica, escludendo i rari

casi in cui queste siano adeguatamente protette dalle sporgenze del tetto o da altri elementi aggettanti come per esempio balconi e pensiline.

Le pareti possono inoltre bagnarsi per il contatto con la nebbia o per la formazione di rugiada conseguente alla condensazione del vapore acqueo, se le superfici sono sufficientemente fredde. Come dicevamo, quelle dei rivestimenti a cappotto esterno sono spesso soggette alla formazione di umidità condensativa e alle varie manifestazioni biologiche correlate in climi molto freddi e umidi e in prossimità di attività agricole o zootecniche dove sono più abbondanti le spore e i pollini, che costituiscono nutrimento per le muffe.

La formazione di acqua condensata in superficie non indica un difetto di progetto o di realizzazione del cappotto. Anzi, è la prova che questo sta svolgendo egregiamente la propria funzione, limitando fortemente la dispersione di calore e mantenendo un bassissimo valore di temperatura superficiale esterna.

Lo sviluppo di alghe e di muffe può essere sempre contrastato, per evitare il degrado dei materiali, mediante l’impiego di apposite finiture biocide.

Molto raramente, in climi particolarmente caldi e umidi può verificarsi la formazione di umidità di natura condensativa anche sulle pareti esterne dei locali condizionati e non adeguatamente isolati termicamente.

Un fenomeno simile può avvenire anche su pareti molto spesse, e generalmente fredde, quando l’aria ambiente diventa molto calda e umida, come per esempio con lo spirare del vento di scirocco. Si tratta in questi casi

di formazioni condensative e igroscopiche che verranno esaminate meglio nei Capitoli 5 e 6.

Come già stato sottolineato, Le manifestazioni prevalenti di umidità sulle pareti sono causate dalla pioggia.

L’interazione fra l’acqua piovana e la superficie verticale delle pareti di un edificio segue generalmente lo schema illustrato in Fig. 3.57.

Quando piove, le gocce d’acqua non cadono secondo una perfetta verticale, ma vengono spostate dal vento e da altri fenomeni atmosferici, fino a seguire una traiettoria inclinata.

Una muratura verticale posta sopravento, cioè colpita dal vento, si bagnerà quindi per effetto dell’inclinazione della pioggia perché il vento sospingerà le goccioline sulla superficie del muro prima che queste raggiungano il suolo. La parete opposta si dovrebbe trovare sottovento, cioè in posizione protetta. Tuttavia sono sempre presenti nell’aria turbolenze e vortici che, in misura più o meno marcata, tendono a deviare i flussi di acqua piovana facendoli aderire alle superfici. L’adesione di una corrente d’aria alle superfici che si trovano nelle immediate vicinanze è un fenomeno noto della fluidodinamica e prende il nome di Effetto Coandă dal nome dello scienziato rumeno Henry Coandă che ne studiò gli effetti nei primi anni del ’900.

Durante la discesa, le gocce d’acqua piovana sono quindi spostate verso la superficie muraria dal vento ma anche per effetto dei fenomeni fluidodinamici appena descritti.

Fig. 3.57 La quantità d’acqua totale che bagna l’intera parete è data dalla somma dell’acqua diretta, proveniente dall’alto, e dall’acqua di rimbalzo, che interessa solo la parte di muratura più prossima al terreno. Tenderà a essere tanto maggiore all’aumentare dell’altezza (h), dell’angolo di impatto della pioggia (α°), e della quantità di precipitazione (Q) in mm/h.

Fig. 3.58 Immagine esemplificativa che illustra gli effetti dell’acqua su una parete esposta alla pioggia. Sul lato sinistro, lo sporto di gronda è in grado di proteggere dall’acqua diretta l’intera parete verticale, anche se è molto corto. Le formazioni biologiche di colore verde chiaro (freccia rossa) presenti alla base del muro sono prevalentemente dovute all’acqua di rimbalzo. Nella porzione di destra del muro invece, la parete riceve sia l’acqua diretta, con abbondante proliferazione di muffa nera sulla parte alta (freccia bianca), sia l’acqua di rimbalzo alla base. Come appare evidente, in corrispondenza della freccia azzurra le manifestazioni biologiche sono più intense a causa dalla maggiore quantità di acqua piovana che colpisce quel punto, non protetto dalla pioggia. Quella porzione di muratura riceve infatti l’acqua diretta, quella che scorre dall’alto e quella di rimbalzo.

Da notare che, in corrispondenza della freccia gialla, l’altezza della macchia di muffa verde è maggiore rispetto alla zona indicata dalla freccia rossa a causa del rimbalzo laterale proveniente dalla parte di parete non protetta.

Acqua diretta e indiretta

Fig. 3.59 Parete bagnata dalla pioggia. A = zona che non si bagna. B = zona che riceve l’acqua piovana diretta e di scorrimento.

C = zona che riceve l’acqua piovana diretta, di scorrimento e di rimbalzo.

Come risulta dalla Fig. 3.59, se consideriamo la pioggia come un flusso di materia riferito a 1 mq di superficie orizzontale, si avrà una portata Q espressa in questo caso in litri/h (corrispondenti a mm/h), che indica la quantità di acqua caduta.

In presenza di sporgenze protettive (sporto di gronda, lattonerie di completamento, balconi), possiamo osservare che la muratura non è bagnata dalla pioggia per una lunghezza sottostante variabile fra circa 2 e 10 volte la lunghezza della sporgenza.

Questo valore di protezione dipende in prevalenza dalla ventosità del luogo e dall’esposizione del singolo edificio e può ridursi fino a meno di una volta la lunghezza dell’aggetto.

La bagnatura tende perciò ad aumentare in caso di costruzioni isolate situate in zone aperte molto esposte al vento e a diminuire in misura sensibile negli edifici facenti parte di agglomerati urbani e nelle zone caratterizzate da aria calma. A parità di altre condizioni, il vento tende ad aumentare al crescere della quota altimetrica del sito.

Generalmente, nelle zone costiere e nelle isole il vento è sempre piuttosto intenso, mentre in tutta l’area della Pianura padano-veneta è molto più attenuato. Tuttavia, negli ultimi tempi le condizioni meteorologiche sono sempre più incerte. Le considerazioni appena esposte, pur se valide in linea generale, possono perciò confrontarsi con episodi anomali sempre più frequenti.

La parte bassa della muratura, è quella che riceve la maggior quantità d’acqua piovana.

Se la lunghezza di parete protetta è pari a 10 volte l’aggetto, quando la pioggia bagna la muratura il suo angolo α di inclinazione rispetto alla verticale è di circa 6°, mentre se la lunghezza è di 5 volte l’angolo diventa all’incirca di 11°. Considerando che la velocità media di caduta di una pioggia moderata è di 6 m/s, si può assumere in prima approssimazione che la velocità laterale del vento, capace di inclinare lateralmente la pioggia, sarà rispettivamente di 1/10 e di 1/5 della velocità verticale. Quindi 0,6 e 1,2 m/s corrispondenti a 2,16 e 4,32 Km/h.

Anche i venti moderati sono perciò capaci di deviare la pioggia, bagnando le pareti murarie degli edifici.

I valori riportati sono puramente indicativi, perché in realtà il fenomeno è molto più complesso. L’acqua proveniente dalla pioggia tende sempre a bagnare le pareti, anche in assenza totale di vento, a causa di turbolenze localizzate e delle già citate azioni di adesione dei flussi d’aria alle superfici della costruzione.

Calcolare quanta acqua possa colpire la parete durante gli eventi piovosi è praticamente impossibile, oltre che inutile. Misurarla è possibile, ma non ha alcun interesse ai fini pratici, se non per scopi didattici e di ricerca.

È utile invece considerare quali siano gli effetti diretti e indiretti della pioggia sulle murature in linea generale, nelle loro manifestazioni

macroscopiche.

L’acqua indiretta di rimbalzo colpisce solo la base muraria e in più tende a ristagnare.

Quindi se osserviamo cosa avviene sulla muratura dall’alto verso il basso, vedremo che la parte più alta della parete è protetta dalla sporgenza e non si bagna. La prima porzione successiva, bagnandosi, riceverà il 10% della precipitazione per unità di lunghezza rispetto al piano orizzontale. Man mano che esaminiamo le porzioni di parete che si trovano più in basso vedremo che queste, oltre a ricevere un apporto diretto di pioggia, ricevono anche l’acqua proveniente dalla parte più alta della muratura, che per gravità scorre lungo la parete fino a raggiungere il terreno. In prossimità del suolo, la muratura riceve la sua quota di acqua piovana diretta, tutta la pioggia che cola dalle parti di muratura sovrastanti, oltre all’acqua che rimbalza dal terreno.

Nelle condizioni citate nell’esempio precedente – in cui la pioggia bagna la parete con un’inclinazione di circa 1/10 – sui 10 metri al di sotto della zona protetta un muro molto alto riceverà tanta acqua quanta ne riceve 1 mq di terreno in orizzontale. Sulla zona di rimbalzo, una quantità ancora superiore.

Se l’inclinazione della pioggia dovesse aumentare, il fenomeno sarebbe ancora più accentuato.

Come abbiamo visto, la parte di muratura priva di protezioni ed esposta alla pioggia diretta e indiretta si bagna in misura consistente, raggiungendo spesso la saturazione nelle sue porzioni esterne.

In questi casi, l’acqua proviene dall’alto e non dal terreno e, dopo avere imbibito le porosità della muratura, tenderà a trasferirsi per diffusione da dove è maggiore a dove è minore, bagnando anche l’interno. La manifestazione visibile per l’osservatore sarà quella di un muro che è più umido in corrispondenza del terreno e gradualmente più asciutto negli strati superiori. In questi casi è possibile che si sviluppi la risalita capillare, che non si origina dal terreno, ma dalla pioggia. Infatti si tratta di risalita secondaria da apporto meteorico.

Le sue manifestazioni sono diverse rispetto alla risalita primaria, che invece proviene dal terreno, così come sono diverse le modalità di correzione e di eliminazione della patologia in esame.

Fig. 3.60 Sulle pareti degli edifici sono spesso presenti fessurazioni di varia forma e dimensione, che consentono il passaggio dell’acqua piovana sia per effetto del vento sia in aria calma. Nell’immagine si vede chiaramente che la lesione si trova in corrispondenza della macchia verde di muffa, che indica la zona della parete interessata dall’acqua di scorrimento proveniente dal terrazzino superiore. Nelle condizioni esaminate, l’acqua piovana penetra sulla lesione anche in assenza di vento, perché aderisce alla parete nel suo percorso discendente.

Azioni dell’acqua meteorica sulle pareti

Le principali cause di infiltrazione di acqua meteorica sulle pareti sono le seguenti:

assenza di protezioni e sporgenze; difetti da marcapiani e soglie; difetti nella sigillatura degli infissi; danni e difetti dei sistemi di evacuazione delle acque meteoriche; inserimenti passanti di elementi estranei alla parete; difetti dei rivestimenti esterni; vento; effetti condensativi e assimilabili; capillarità.

Fig. 3.61 Acqua di rimbalzo proveniente da apporti meteorici non correttamente regimentati. Un doccione posto diversi piani più in alto scarica direttamente sul pavimento, provocando abbondanti spruzzi d’acqua, che bagnano la parete. L’umidità è localizzata su una piccola porzione di superficie, e la risalita è del tutto assente.

Fig. 3.62 Parete bagnata in fase di asciugatura, dopo la pioggia e in assenza di vento. In questi casi, la parte bassa della muratura è quella che si asciuga per prima, a causa dell’instaurarsi di moti ascensionali di aria che partono dal basso, creando una corrente convettiva che scorre parallelamente alla parete. Inoltre, il calore irradiato dal terreno favorisce l’evaporazione dell’umidità. In caso di forte vento, invece, si asciugherà per prima la sommità del muro, perché maggiormente esposta all’aria in movimento. Sono ben visibili le zone più calde della parete, che si asciugano per prime. Queste sono dette anche “ponti termici” perché sono appunto meno isolanti e consentono un passaggio più rapido e agevole del calore. In questo caso, il calore interno passa all’esterno più facilmente e asciuga prima l’umidità. Sulla parte interna, le stesse zone saranno però più fredde e favoriranno la formazione della condensa.

Fig. 3.63 Protezione laterale di una parete dall’acqua diretta e di rimbalzo. Sono visibili importanti azioni di degrado dovute all’aggressione dell’acqua meteorica nei suoi ripetuti cicli di asciuttobagnato, oltre alle azioni disgregatrici stagionali causate dal gelo. La pietra arenaria come quella della foto è caratterizzata da una bassa resistenza meccanica, unita a una porosità piuttosto elevata ed è perciò soggetta a sensibili fenomeni di alterazione e di esfoliazione.

Fig. 3.64 Soffitto di un locale posto sotto una terrazza non isolata termicamente. Le macchie nere in prossimità dell’angolo sono causate dall’infiltrazione di una parete, mentre quelle sotto forma di puntini tendenti al verde, sulla destra, sono di origine condensativa.

Fig. 3.65 La foto è stata scattata immediatamente dopo un’intensa pioggia. La parete è bagnata da acqua che si è accumulata sulla soglia, la quale poi si distribuisce per diffusione. La base della muratura è perfettamente asciutta e anche in questo caso la risalita capillare è completamente assente.

Fig. 3.66 Le macchie di umidità sono dovute agli intensi spruzzi d’acqua causati dal traffico veicolare, ripetuti nel tempo.

Fig. 3.67 Effetti di degrado delle superfici esterne causati dall’acqua piovana che bagna le parti sporgenti, diffondendosi poi all’interno. Anche qui la risalita muraria non è presente.

Fig. 3.68 Interessante fenomeno di efflorescenza salina in un pilastro rivestito di mattoni a vista. La superficie verticale esterna riceve sia l’acqua piovana diretta sia quella di rimbalzo. L’acqua che bagna la parete tende poi a diffondersi sui mattoni, causando le efflorescenze saline bianche visibili al centro e in basso. Essendo solubili, alla pioggia successiva i sali che affiorano sulla superficie esterna sono dilavati. La macchia bianca ben visibile, dove i sali non sono lavati via, indica quindi la zona che non si bagna, ma riceve solo umidità per diffusione laterale.

Fig. 3.69 In alcune murature sono presenti lesioni passanti a tutta altezza. Quando le pareti sono di calcestruzzo, le fessure sono generalmente dovute al ritiro in fase di presa o di maturazione oppure, più frequentemente, all’assenza di giunti. Nel caso fotografato, si tratta di giunti spontanei di contrazione. L’acqua ha perciò la possibilità di passare dietro, scavalcando i risvolti verticali delle impermeabilizzazioni e causando infiltrazioni di difficile interpretazione.

Effetti della capillarità orizzontale

In occasione di precipitazioni atmosferiche, in particolare se unite a vento forte, una parete è generalmente bagnata, anche completamente, dalla pioggia diretta, dai rimbalzi d’acqua sui pavimenti o all’azione combinata di entrambi i fenomeni. Questo avviene maggiormente in assenza di coperture aggettanti o in presenza di perdite dagli scarichi che spesso danno luogo a stillicidio o a ruscellamento. Se la superficie bagnata non è sufficientemente impermeabile, l’acqua può penetrare all’interno della parete, trasferendosi da dove è tanta a dove è poca, aumentando il contenuto di umidità del muro.

La porzione di parete maggiormente interessata dal fenomeno è il piede, cioè la parte a più stretto contatto con il terreno, fino a circa 1 m di altezza, che più facilmente è bagnata dalla pioggia diretta e dai rimbalzi. Inoltre, l’acqua che ha bagnato il muro tende naturalmente a scorrere verso il basso per gravità e ad accumularsi al piede, aggravando la situazione.

La presenza di acqua in eccesso sulla parte bassa della muratura non fa altro che accentuare i fenomeni di risalita, se presenti, o innescarli se ancora latenti. Quindi la risalita è l’effetto secondario dell’acqua piovana e non la causa dell’umidità. Spesso si fa confusione nell’accertamento delle cause, confondendole con gli effetti.

L’acqua piovana che bagna la parete di un fabbricato interessa inevitabilmente le microlesioni e le cavillature presenti sugli intonaci o sui giunti di malta dei mattoni a vista. Spesso incontra anche diffuse formazioni fessurative da sofferenza statica o da naturali assestamenti della costruzione, assimilabili a crepe o lesioni di entità anche rilevante.

Su queste lesioni si verifica il fenomeno della capillarità, secondo le stesse modalità che causano la risalita dal terreno. In questo caso il trasporto sarà più evidente e si manifesterà più velocemente e con maggiore intensità. Anche perché si troverà a dover attraversare solo lo spessore della parete,

secondo un percorso orizzontale che è generalmente più breve rispetto alla verticale, a causa della minore distanza in gioco.

Le pareti maggiormente protette dalla pioggia sono quelle che resistono più a lungo alle aggressioni degli agenti atmosferici. Nelle città, le facciate sono spesso rivestite di piastrelle o di lastre lapidee e le pareti di mattoni a vista sono accuratamente stuccate sui giunti di malta per evitare appunto la penetrazione indesiderata dell’acqua.

Fig. 3.70 Evidenti fessurazioni dell’intonaco esterno che consentono all’acqua piovana di penetrare più facilmente e più velocemente all’interno della muratura, anche a causa dell’assenza di un idoneo

rivestimento protettivo. Il fenomeno genera importanti effetti corrosivi sull’intonaco e sulla muratura retrostante. Questi sono più intensi sul cemento armato rispetto al laterizio.

Difetti da marcapiani e soglie

I marcapiani e le soglie si trovano nelle zone di maggiore concentrazione di sforzi meccanici degli edifici, essendo situati in corrispondenza di nodi strutturali, di variazioni di direzione delle tensioni e di riduzioni di sezione che determinano incrementi localizzati dei valori unitari di sollecitazione. Le condizioni citate aumentano enormemente la possibilità che, in corrispondenza di questi punti sensibili, possano verificarsi lesioni, crepe e fessurazioni di varia forma, dimensione e orientamento, capaci di veicolare le infiltrazioni da acqua piovana.

Tutto ciò, unito all’assenza quasi sistematica di adeguati accorgimenti atti proteggere le superfici e all’utilizzo frequente di materiali non idonei all’impiego in situazioni gravose, fa sì che gli elementi architettonici descritti siano una delle zone maggiormente soggette a ingresso dell’acqua nelle opere edili.

La localizzazione delle infiltrazioni è inoltre concentrata in zone dove è molto più probabile la presenza di cemento armato, un materiale particolarmente sensibile all’attacco corrosivo da acqua piovana.

Un altro errore ricorrente riguarda la pendenza dei marcapiani, che spesso è contraria e, anziché fare uscire l’acqua, la fa entrare.

Fig. 3.71 Effetti della risalita secondaria da accumulo di pioggia su un marcapiano. Tutte le parti sporgenti rispetto alle superfici verticali sono possibili cause di apporto di umidità meteorica all’edificio. Anche in questa situazione, la risalita primaria dal terreno è completamente assente.

Fig. 3.72 Marcapiano privo di pendenza a uscire, su cui gli accumuli di acqua piovana hanno favorito la proliferazione di muschio. Da notare le macchie nere di muffa, sulla parte verticale del muro soggetta all’acqua di rimbalzo.

Fig. 3.73 Effetti dell’umidità che penetra da un difetto di sigillatura fra infisso e parete. Questa causa di infiltrazione è molto frequente anche ai piani superiori degli edifici, nelle costruzioni nuove come in quelle datate.

Difetti nella sigillatura degli infissi

Gli infissi sono un punto molto problematico dell’edificio. La loro installazione spesso non è eseguita correttamente e i materiali impiegati per la sigillatura fra l’infisso e il controtelaio e fra l’infisso e la soglia talvolta

non sono adeguati alle sollecitazioni imposte dalle difficili condizioni di esercizio.

Le diverse dilatazioni termiche e le differenze fra i materiali a contatto richiedono l’uso di sigillanti con elevate prestazioni, anche in termini di durabilità, e l’applicazione di questi ultimi richiede una cura particolare, che molto spesso non è adottata.

Danni e difetti dei sistemi di evacuazione delle acque meteoriche

I danni alle pareti causati dagli elementi di smaltimento delle acque meteoriche sono molto frequenti e generalmente dovuti a errori di progettazione o di esecuzione dei sistemi di evacuazione.

Capita abbastanza di frequente che gli impianti di scarico delle piogge siano posizionati, o meglio nascosti, all’interno delle murature per esigenze puramente estetiche. Questa infelice localizzazione aumenta la probabilità di deformazioni e rotture dovute a sollecitazioni meccaniche cicliche, danni da corrosione e danni accidentali dovuti all’esecuzione di lavori da parte di operatori che ignorano la presenza degli scarichi all’interno della parete.

Le infiltrazioni conseguenti a questo tipo di danno possono essere di entità rilevante e quindi immediatamente visibili. Se si tratta di perdite molto ridotte possono invece verificarsi apporti continui e impercettibili, che sul lungo termine causano danni spesso maggiori.

Fig. 3.74 Pluviale di scarico esterno di una terrazza, sul quale sono visibili abbondanti perdite. Le incrostazioni di colore biancastro sono depositi calcarei derivanti dalla corrosione dei massetti, mentre le macchie verdi sono formazioni di carbonato di rame, chiamato erroneamente “verderame”.

Fig. 3.75 In alto a sinistra si notano danni da incompleta evacuazione delle acque meteoriche, causati del pluviale incassato nella muratura. In basso si evidenziano invece fenomeni di risalita secondaria, dovuti all’accumulo di acqua piovana sulla sommità dei rivestimenti.

Fig. 3.76 Danni causati da difetti di evacuazione delle acque meteoriche del pluviale incassato nella muratura. Da notare la distribuzione radiale dell’umidità per gravità e per diffusione, dall’alto verso il basso.

Fig. 3.77 In questo caso, il pluviale incassato nella parete era intasato ed è stato perforato per consentire lo scarico dell’acqua. Le formazioni biologiche di colore verde, assimilabili a muffe (in realtà sono alghe), indicano infatti che l’acqua piovana bagna direttamente le superfici e non proviene dall’interno del muro.

Fig. 3.78 Infiltrazioni interne alla parete causate da difetti di tenuta del pluviale incassato. Situazioni come quella illustrata sono molto frequenti negli edifici datati, ma possono verificarsi anche in quelli nuovi.

Inserimenti passanti di elementi estranei alla parete

Un’altra causa di infiltrazione dalle pareti è riconducibile a elementi estranei posizionati sulle superfici, ma non facenti parte della muratura. Può trattarsi, per esempio, di un’insegna o di un cartellone pubblicitario fissato alla parete. L’acqua potrebbe infiltrarsi veicolata dai fori di ancoraggio delle piastre, se questi non fossero opportunamente sigillati o protetti.

Fig. 3.79 La foto è stata scattata durante la pioggia. È visibile un rivolo d’acqua sulla superficie interna dell’arco, proveniente dall’ancoraggio del fregio sporgente collocato all’esterno.

Fig. 3.80 Nella sua discesa, l’acqua piovana aderisce alla struttura metallica, fino a bagnare la parete. A causa della sua rilevante aggressività, la pioggia è particolarmente corrosiva per il cemento armato. Se trascurata, una situazione come quella della foto può provocare danni da degrado anche molto seri al cemento armato.

Danni o difetti dei rivestimenti esterni

I rivestimenti di una parete esterna sono normalmente studiati e realizzati per resistere all’azione dell’acqua meteorica e per evitare il suo ingresso nella costruzione. È frequente tuttavia che errori di progettazione o difetti

realizzativi siano la causa di ingresso d’acqua a danno dell’edificio. Il caso più diffuso in assoluto è quello del mattone a vista, quando la realizzazione delle fughe fra i filari successivi di mattoni non è realizzata secondo le prescrizioni del produttore.

Un altro evento ricorrente è l’infiltrazione attraverso lesioni passanti esistenti sulla parete, in conseguenza di ritiri o di deformazioni statiche. Un caso molto frequente è quello in cui un rivestimento di facciata si stacca dalla parete, restando però in posizione e andando a costituire una tasca, cioè un vero e proprio elemento di raccolta d’acqua. La pioggia infatti può penetrare nello spazio creatosi fra parete e rivestimento, ma non può uscire all’esterno in quanto il rivestimento è normalmente più impermeabile della parete, ed è stato applicato proprio per questo motivo. Quando si verifica questa situazione, l’acqua si riverserà interamente sulla muratura e, nei casi di infiltrazioni consistenti, tenderà per gravità ad accumularsi alla sua base. La conseguente imbibizione e successiva risalita capillare potranno facilmente trarre in inganno anche un occhio esperto, facendo ritenere che possa trattarsi di umidità da capillarità ascendente, mentre l’apporto di acqua è di tutt’altra natura.

Fig. 3.81 Tasca di intonaco danneggiato, che favorisce l’ingresso di acqua piovana sulla parete. Se non sono riparati velocemente, generalmente i fenomeni di degrado dei materiali alimentano progressivamente le azioni di danno successive. È quindi opportuno individuare e correggere in tempi rapidi qualsiasi difetto riscontrato.

Fig. 3.82 Bordo superiore della zoccolatura correttamente stuccato, con forte pendenza a uscire. Questo è un punto attraverso il quale l’acqua penetra molto frequentemente sulla parete.

Fig. 3.83 Tasca creata dal distacco di una protezione laterale, posta alla base della muratura. In questi casi, è frequente l’ingresso di acqua piovana diretta e indiretta, che si raccoglie fra la lastra e l’interno della muratura e non può poi essere evacuata per evaporazione. Le manifestazioni presenti sul lato interno della parete, dovute all’accumulo di umidità, saranno del tutto simili a quelle della risalita capillare. Sulle pareti esposte agli agenti atmosferici occorre prestare particolare attenzione alla formazione di tasche sugli intonaci e sui rivestimenti in lastre o piastrelle.

Il vento

Il vento agisce sulla parete esercitando una sovrappressione sulla faccia esposta, che può influenzare il movimento dell’acqua spingendola all’interno della parete. Nonostante si ritenga che tale effetto sia trascurabile o addirittura inesistente in ambito residenziale e sulle murature di spessore ridotto, il fenomeno è invece molto frequente oltre a essere particolarmente vistoso. Sulle murature piene di forte spessore, come per esempio quelle delle chiese o dei castelli, l’azione del vento non è tale da modificare sostanzialmente le condizioni di assorbimento d’acqua della parete.

Fig. 3.84 Edificio che ha subito lesioni orizzontali causate da cedimenti del terreno (freccia nera), dalle quali penetra l’acqua meteorica.

Fig. 3.85 Lato interno dello stesso edificio, dove sono ben visibili i danni prodotti dalle infiltrazioni. Da notare che, superiormente alla lesione, la muratura è asciutta (freccia rossa). L’umidità non risale.

L’acqua di scorrimento

È l’acqua proveniente da apporti di diversa natura, che ha la possibilità di scorrere liberamente sulle superfici degli edifici. Può essere dovuta alla pioggia, a eventi accidentali come la rottura di impianti o ad altre cause. Spesso la si descrive anche come acqua di ruscellamento oppure acqua percolante. Entrambe le espressioni derivano dalla geologia: la prima indica

le acque che scorrono sulle superfici del terreno quando questo ha raggiunto la sua saturazione, la seconda è caratteristica dell’acqua che scorre all’interno di un mezzo poroso, che può essere il terreno o la roccia. Quando una qualsiasi superficie dell’edificio è lambita dall’acqua di scorrimento, generalmente si manifestano diversi fenomeni più o meno pronunciati di degrado. Il più significativo riguarda le azioni capillari esercitate dall’acqua liquida che, come sappiamo, sono in grado di veicolare l’acqua all’interno del mezzo poroso. Gli altri effetti sono legati prevalentemente alla corrosione e alle azioni meccaniche di abrasione. Se lo scorrimento dell’acqua è piuttosto lento, cioè tale da non asportare le formazioni biologiche, si possono verificare accrescimenti anche consistenti di alghe, muschi e vegetazione infestante. Un altro caso ricorrente riguarda i depositi minerali di sali ricristallizzati, che si formano per precipitazione dei carbonati trasportati dall’acqua di scorrimento. Si tratta di formazioni calcaree di calcite amorfa molto aderenti, generalmente di colore bianco opaco oppure macchiato di grigio o marrone in presenza di impurità. Depositi consistenti di calcite ricristallizzata possono causare l’otturazione delle tubazioni di scarico quando l’acqua piovana di scorrimento, generalmente nelle terrazze, ha portato in soluzione elevate quantità di carbonati dai massetti. È opportuno evitare il più possibile che l’acqua di scorrimento entri in contatto con le pareti e le superfici verticali degli edifici. Sui tetti, le terrazze e le altre superfici orizzontali o inclinate dell’edificio è invece consigliabile farla evacuare nella maniera più veloce.

Fig. 3.86 Effetti di degrado prodotti dall’acqua meteorica di scorrimento. La colorazione nera delle macchie è dovuta alle muffe xerofile, che si insediano sulle superfici soggette a cicli di asciuttobagnato. Questi microrganismi sono in grado di sopravvivere fino a quattro anni in stato di inattività, per poi riprendere vitalità a contatto con l’acqua. In questo caso, l’inquinamento atmosferico è piuttosto contenuto, trattandosi di un edificio situato a pochi chilometri dal mare, in area collinare priva di industrie e interdetta al traffico veicolare.

Effetti condensativi e assimilabili

Acqua corrente, flusso evaporativo, ponti termici Un effetto poco noto e non intuitivo è la capacità dell’acqua piovana che bagna le pareti esterne di sottrarre alle superfici murarie quantità di calore ben superiori rispetto a quelle generalmente disperse attraverso l’aria. Quindi, se i calcoli di dispersione termica vengono elaborati tenendo conto di determinati parametri dell’aria esterna ai fini della temperatura, quando la parete è bagnata tale dispersione aumenta considerevolmente. Questo avviene per due motivi fondamentali: nel caso di flusso di acqua liquida che lambisce la parete con moto discendente, il calore della parete sarà “lavato via” più facilmente e più rapidamente dall’acqua corrente, aumentando il coefficiente di scambio termico.

Dopo la pioggia, se la parete ha assorbito dell’acqua liquida, questa evaporerà sottraendo ulteriore calore alla muratura. Durante il corso dell’evento piovoso, quest’ultimo fenomeno è quasi assente.

In entrambi i casi si avrà un’aumentata dispersione di calore attraverso i muri esterni, sia mentre questi vengono bagnati dalla pioggia sia quando si asciugano. In condizioni di elevata umidità dell’aria interna e di temperature superficiali piuttosto basse, si possono verificare fenomeni condensativi sulle pareti, dovuti all’abbassamento di temperatura causato dall’acqua di scorrimento o dall’evaporazione del suo residuo. Tali fenomeni sono esaltati in presenza di forte vento, che incrementa sia la bagnatura sia l’evaporazione, e sono maggiormente evidenti in corrispondenza dei ponti termici.

Fig. 3.87 Situazione reale di una parete verticale esposta all’acqua piovana, in cui si vedono chiaramente le varie zone bagnate.

Fig. 3.88 Presenza di muffe xerofile sulla zona interessata da acqua di rimbalzo.

Umidità dal terreno

In questo paragrafo saranno esaminati gli apporti di acqua piovana che interessano le parti dell’edificio a diretto contatto con il terreno e quelle più prossime alla quota di calpestio. Tutto ciò che riguarda il rapporto tra la costruzione e l’acqua di falda o, più in generale, quella che proviene dal sottosuolo, dalle parti interrate e sale dal basso verso l’alto sarà trattato nel Capitolo 7. L’umidità da risalita invece, che si riferisce all’acqua che risale dal terreno attraversando verticalmente il muro dal suo interno, sarà approfondita nel Capitolo 8.

Come è ovvio, l’acqua piovana segue la legge di gravità, perciò proviene dall’alto e tende a portarsi in basso. Il suolo costituisce una barriera fisica che in qualche modo si oppone al transito verticale dell’acqua, rallentandola o bloccandola a seconda dei casi. È quindi normale che sulla superficie del terreno possano verificarsi accumuli momentanei o permanenti di acqua meteorica. Quando raggiunge il suolo, l’acqua mantiene la tendenza a spostarsi verso il basso, attraversando il terreno laddove ne abbia la possibilità fino a trovare uno strato impermeabile.

Se il suolo è sufficientemente permeabile, l’acqua non ha la possibilità di accumularsi, perché facilmente scorre via, andando a finire in profondità. Il movimento di acqua liquida discendente nella massa porosa del terreno si chiama filtrazione verticale. La permeabilità verticale definisce l’attitudine del terreno a farsi attraversare dall’acqua liquida nel suo percorso verso il basso. A parità delle altre condizioni, maggiore è la permeabilità maggiore sarà la filtrazione verticale, ovvero la quantità d’acqua che potrà portarsi in profondità, evitando gli accumuli negli strati superficiali del suolo. Tutto però dipende dalla quantità d’acqua che proviene dalla pioggia e che,

direttamente o indirettamente, si trova a bagnare il terreno in prossimità dell’edificio.

In un terreno sufficientemente drenante, gli apporti d’acqua di modesta entità saranno evacuati in maniera rapida e totale. Quando invece l’acqua in ingresso aumenta, lo stesso terreno avrà maggiore difficoltà a farla scorrere verso il sottosuolo. Questo avviene perché lo scorrimento del liquido attraverso il mezzo poroso è ostacolato dall’attrito. Più cresce la velocità con cui l’acqua attraversa il terreno maggiore sarà l’azione resistente che si oppone al moto. Per ogni terreno esiste un limite di precipitazione oltre il quale il flusso in ingresso non potrà essere completamente evacuato. Quando questo limite è superato, una parte dell’acqua piovana filtra nel terreno alimentando la falda e la parte eccedente si accumula in superficie ed eventualmente scorre via secondo le pendenze. In linea di massima, la permeabilità del terreno non cambia in maniera significativa nel corso del tempo. Può aumentare se, a causa dell’acqua che attraversa il suolo, vengono dilavate le frazioni più fini, creando nella massa porosa un aumento della dimensione dei vuoti. In questo caso, il passaggio dell’acqua sarà agevolato da una maggiore area di transito e da un minore attrito di scorrimento. È possibile che la permeabilità di un terreno possa anche ridursi a causa dell’intasamento dei pori, un po’ come avviene nei filtri quando si otturano. Oppure la permeabilità può ridursi per costipamento, cioè quando il terreno viene compattato. I concetti appena esposti non sono del tutto rigorosi, ma servono per dare un’idea di massima di come l’acqua possa comportarsi all’interno della massa porosa costituita dal terreno.

Normalmente, nel suolo sono presenti varie stratificazioni, formate da materiali aventi varia composizione e inclinazione e caratterizzati da valori di permeabilità differenti. Questa condizione fa sì che l’acqua possa spostarsi anche orizzontalmente, preferendo sempre i percorsi in cui trova meno resistenza, ovvero maggiore permeabilità. I terreni più permeabili che consentono facilmente all’acqua di essere attraversati sono detti anche drenanti e sono prevalentemente costituiti da sabbie e ghiaie di dimensioni grosse, mentre quelli impermeabili e poco drenanti hanno una composizione

mediamente argillosa e limosa, fine o finissima. Esistono stratificazioni, come per esempio quelle di alcune argille o le rocce compatte, che sono del tutto impermeabili.

Fig. 3.89 Rappresentazione di una sezione del terreno, con evidenziata la falda idrica.

La situazione ideale è quella di un terreno molto permeabile e perciò molto drenante tutt’attorno all’edificio, con la quota di falda abbastanza bassa e tale da non interessare le opere di fondazione durante le sue variazioni di livello. In queste condizioni, l’acqua piovana può facilmente filtrare attraverso il terreno raggiungendo velocemente una quota di accumulo

costituita dalla falda, situata sufficientemente in basso da non interferire con l’edificio. Se il terreno è molto drenante e la falda invece è prossima al terreno al punto da poter entrare in contatto con l’edificio, la situazione diventa molto complessa e necessita di interventi piuttosto impegnativi di risanamento.

Quando il terreno attorno alla costruzione non è sufficientemente drenante oppure quando l’intensità di precipitazione diventa elevata al punto che il terreno non riesce ad evacuarla, l’acqua piovana tende ad accumularsi al suolo, saturandolo. In questi casi, la parte dell’edificio alla quota di calpestio sarà bagnata dall’acqua che il terreno non è riuscito a disperdere. Per quanto possa sembrare assurdo, questa causa di umidità non è quasi mai compresa e molto spesso si tenta di correggerne gli effetti come se si trattasse di acqua da risalita.

Le cause più comuni di ingresso dell’acqua piovana a contatto del terreno, sono le seguenti:

errori di pendenza; assenza di idonea protezione impermeabile; danni causati all’impermeabilizzazione in fase di costruzione; danni da movimenti e deformazioni; invecchiamento del sistema impermeabile: danni intervenuti in fase di esercizio a causa di protezioni o manutenzioni inadeguate.

I pavimenti autobloccanti

La causa più frequente di acqua piovana che interessa l’edificio a livello del suolo è da mettere in relazione con l’uso delle pavimentazioni autobloccanti per esterni. Queste vengono normalmente allettate su uno strato di sabbia, che a sua volta insiste su una base in cemento, o sul terreno costipato. Il risultato è che l’acqua piovana attraversa facilmente il pavimento autobloccante e la sabbia, fino a raggiungere lo strato poco drenante di cemento o di terreno posto immediatamente più in basso, che funziona da sbarramento.

L’acqua tende perciò ad accumularsi e a spostarsi lateralmente fino a bagnare i muri a contatto, che generalmente sono sprovvisti di adeguata protezione impermeabile.

Fig. 3.90 Pavimento autobloccante nel cortile di una residenza privata. Sono visibili sia l’abbondante sviluppo di vegetazione spontanea, alimentato dall’acqua accumulatasi nella parte di pavimentazione esposta, sia i fenomeni di risalita secondaria presenti sul muro dell’edificio.

Fig. 3.91 Fabbricato rurale montano il cui marciapiede laterale ha una pendenza contraria, tale da favorire l’accumulo dell’acqua. Si noti inoltre il tirante laterale, che porta l’acqua del tetto a scorrere sulla parete.

Fig. 3.92 Situazione simile alla precedente, con le pendenze corrette. Si nota solo una modesta umidità alla base muraria, dovuta prevalentemente all’acqua diretta e di rimbalzo e a moderati fenomeni igroscopici. La risalita primaria è del tutto assente in quanto i muri poggiano sul calcestruzzo e non sul terreno.

Fig. 3.93 Pavimentazione esterna che ha modificato la sua pendenza a causa di un assestamento del terreno sottostante, creando una fessura attraverso la quale l’acqua bagna la base della muratura. In questo caso i danni si sono manifestati nei locali interrati e nelle cantine.

Fig. 3.94 Questa è la situazione che si verifica più di frequente nelle pavimentazioni esterne a contatto con la muratura. Le manifestazioni di umidità sono particolarmente significative dove sono stati utilizzati gli autobloccanti allettati su sabbia. Sono invece quasi inesistenti se è stata applicata una efficace impermeabilizzazione a protezione del massetto o nel contatto massetto-muro. L’acqua piovana ha la possibilità di passare attraverso il pavimento, accumulandosi nella sabbia o nel massetto sottostante. In assenza di protezione laterale, l’umidità si trasferisce facilmente sulla parte del muro che si trova al di sotto del piano di calpestio. Nonostante la muratura in elevazione sia quasi sempre posata su uno strato di guaina tagliamuro, proprio per eliminare i fenomeni di risalita capillare, l’umidità penetra lateralmente dalla sabbia o dal massetto. Il continuo contatto con l’acqua

favorisce il fenomeno della risalita, che in questo caso è di natura secondaria, perché derivante da apporti laterali e non dal sottosuolo.

Fig. 3.95 Questa è la dimostrazione di ciò che avviene nella muratura a causa del contatto con il pavimento autobloccante. In corrispondenza della freccia blu, il cordolo di calcestruzzo che funge da supporto per la guida del cancello scorrevole impedisce il contatto della sabbia umida con il muro. Dove il cordolo è assente, cioè sotto la freccia rossa, l’umidità può facilmente trasferirsi sulla parete, per poi diffondersi in altezza generando fenomeni di risalita secondaria. Da notare la macchia umida crescente da sinistra verso destra, secondo il senso della pendenza, e gli attraversamenti

degli impianti non sigillati che ricevono sia l’acqua meteorica diretta sia quella di rimbalzo, aggravando il fenomeno. La soluzione, in questo caso, prevede che si realizzi una protezione impermeabile al contatto fra sabbia umida (o massetto) e muratura, con risvolto a salire di almeno 10/15 cm rispetto al piano finito. I manti bituminosi non sono adatti a questo tipo di applicazione, sono invece utilizzabili le resine liquide, le paste bituminose polimeriche o le malte elasticizzate di elevata prestazione.

Fig. 3.96 Esecuzione corretta di protezione laterale in presenza di pavimenti con massetti e di autobloccanti.

Pavimenti tradizionali

Se invece dell’autobloccante si ha un pavimento tradizionale, oltre alla protezione laterale è opportuno realizzare l’impermeabilizzazione sottopiastrella con malta elasticizzata o con resina liquida. Si impedisce così all’acqua di penetrare nel pavimento e di bagnare il massetto.

Il massetto delle pavimentazioni esterne può ricevere importanti apporti laterali d’acqua dal terreno e trasferirla nel tempo su murature distanti anche decine di metri. In fase di costruzione occorre quindi prevedere una corretta protezione laterale della muratura, come illustrato in Fig. 3.100. Quando ciò non è stato fatto, si dovrà assolutamente evitare il contatto del massetto con il terreno umido, proteggendolo con paste bituminose o prodotti impermeabilizzanti specifici.

Fig. 3.97 Questa situazione è frequentissima nelle costruzioni nuove al pianterreno. La terra bagnata trasferisce umidità al massetto, che a sua volta bagna le murature perimetrali, creando abbondanti manifestazioni di risalita secondaria da apporti laterali. L’umidità può facilmente interessare le pareti, anche se sono distanti decine di metri dal punto di contatto fra pavimento e terreno.

Fig. 3.98 L’acqua proveniente dal terreno unita a quella che percola attraverso le fughe delle piastrelle imbibisce il massetto e, trovandosi in posizione più alta rispetto alla sezione di collegamento fra platea e muratura, si trasferisce facilmente per gravità sui muri portanti. Attraverso questi, giunge fino all’interno dell’edificio bagnando il pavimento interno. In questi casi, i dispositivi autoalimentati e quelli a trasmissione di impulsi per la correzione della risalita hanno un effetto limitato. Questo perché l’acqua entra nella casa dall’alto verso il basso in virtù del battente idraulico derivante dalla situazione descritta. Si tratta quindi di risalita secondaria, poiché conseguente ad apporti primari che in questo caso sono dovuti al contatto con il terreno. In ultima analisi, il fenomeno può essere anche considerato come una particolare modalità di evento infiltrativo (Fig. 3.99).

Fig. 3.99 Il massetto saturo si comporta come se ci fosse un’altezza idraulica. Quindi l’acqua passa attraverso l’innesto per effetto di una pressione effettiva positiva. Scorre al di sotto della guaina e bagna la muratura. Non tutti i materiali possono essere impiegati con successo per la sigillatura dei supporti su innesto impermeabile. In questa applicazione le guaine bituminose sono inefficaci.

Fig. 3.100 Modalità di protezione della muratura dal massetto umido. È necessario realizzare l’impermeabilizzazione del collegamento orizzontale-verticale in modo che l’umidità del massetto non possa trasferirsi sulla muratura. Per le applicazioni come quella descritta sono da preferire i prodotti impermeabilizzanti liquidi rispetto alle guaine bituminose in rotolo. Si suggerisce inoltre di applicare uno strato di separazione flessibile fra il massetto e il risvolto impermeabile per proteggere quest’ultimo dagli scorrimenti dovuti a deformazioni e dilatazioni termiche, che potrebbero danneggiarlo irreparabilmente.

Correttivi Le modalità di correzione da adottare per proteggere gli edifici dagli effetti dell’umidità e dall’acqua meteorica si possono suddividere ai fini pratici in due categorie distinte:

interventi sul nuovo; interventi sul costruito.

Nel primo caso le opere si riferiscono alle costruzioni in fase di progetto o di edificazione, mentre nel secondo si tratta di lavori di risanamento e ristrutturazione oppure di semplici riparazioni.

Interventi sul nuovo

Occorrerà adottare tutti gli accorgimenti idonei a minimizzare il contatto della costruzione con l’acqua piovana e, quando ciò non sia possibile, far sì che questa possa essere evacuata con la massima rapidità.

È necessario quindi evitare che i fenomeni di degrado possano innescarsi, ritardandoli il più possibile.

Umidità dall’alto

Accertarsi di utilizzare sistemi di impermeabilizzazione idonei all’impiego previsto. In caso di dubbi consultare il produttore del sistema impermeabile.

Affidare i lavori a ditte di esperienza, che conoscano nel dettaglio i prodotti da impiegare e che siano possibilmente riconosciute dal produttore del sistema utilizzato.

Sui tetti discontinui, di tegole e assimilati, adottare sempre un manto impermeabilizzante sottostante al rivestimento, che sia in grado di assicurare la tenuta all’acqua in caso di danno o difetto del rivestimento esterno.

Verificare tutte le singolarità e accertarsi che siano state sigillate correttamente mediante l’uso di materiali idonei all’applicazione prevista (verificare la scheda tecnica).

Controllare e verificare la pendenza della copertura in ogni suo punto, così da rendere impossibili gli accumuli d’acqua. I valori corretti sono indicati dal fornitore del sistema impermeabile impiegato. Nel dubbio, eccedere.

Controllare che le canalizzazioni e le tubazioni di evacuazione delle acque meteoriche, siano idonee come quantità e come dimensione. Nel dubbio è preferibile aumentare il numero di bocchette, gronde e pluviali e abbondare nelle rispettive dimensioni.

Rispettare rigorosamente i risvolti, sia a salire che a scendere, con un minimo di 10 cm rispetto al pavimento finito. Nel dubbio aumentare la misura del risvolto fino a 20/25 cm. Se si utilizza un manto bituminoso o di materiale sintetico, è necessario ancorarlo meccanicamente all’estremità del risvolto con una lattoneria fissata alla parete.

Sui pavimenti delle terrazze e sui balconi, accertarsi che il giunto flessibile perimetrale sia posizionato correttamente e che sui massetti e sui pavimenti (se presenti) siano realizzati i giunti di dilatazione. In caso di dubbio, consultare il produttore del sistema di impermeabilizzazione.

In ogni caso, la piastrellatura per esterni dovrà essere incollata mediante l’utilizzo di adesivi flessibili in Classe S2.

Laddove ci sia il rischio che la terrazza diventi una vasca chiusa su tutti i lati, realizzare gli scarichi di troppopieno in quantità sufficiente a evacuare eventuali precipitazioni eccezionali. Oppure porre in atto altri accorgimenti capaci di far fronte all’intasamento degli scarichi senza che l’edificio possa subire alcun danno da accumulo d’acqua.

Posizionare sempre griglie parafoglie (dette anche pigne) in corrispondenza delle bocchette di scarico dell’acqua piovana, al fine di evitare intasamenti, e pulirle frequentemente.

Predisporre un servizio di manutenzione e verifica, da ripetere almeno una volta all’anno, preferibilmente prima della stagione piovosa.

Umidità dagli impianti

Evitare il più possibile che gli impianti possano interrompere o attraversare i sistemi impermeabili. Dove questo non si può evitare, disporre idonee protezioni e posizionare i tubi di innesto a scendere (vedi Fig. 3.47).

Utilizzare idonei sistemi di sigillatura negli attraversamenti, rispettando le prescrizioni di impiego stabilite dal fabbricante del prodotto.

Ogni materiale da sigillare necessita di un prodotto specifico, da applicare con regole diverse. Non esiste un silicone universale e, in particolare, i supporti bituminosi hanno bisogno di sigillanti adatti. Le tubazioni di polietilene (PE) e di polipropilene (PP) sono particolarmente difficili da

sigillare, perché la maggior parte dei materiali sigillanti non aderisce sulle loro superfici.

Tutte le sigillature devono sempre essere controllate e verificate nel tempo, ed eventualmente sostituite prima che si danneggino.

Umidità dalle pareti

Proteggere per quanto possibile le pareti con sporgenze, tettoie, pensiline e altre superfici aggettanti.

Durante la posa degli intonaci esterni, inserire al loro interno una rete di fibra di vetro plastificata antifessurazione. Eviterà la formazione di cavillature superficiali e i conseguenti ingressi indesiderati di acqua dalle pareti.

Applicare sempre, su tutte le superfici esposte agli agenti atmosferici, protettivi idrorepellenti silanici, silossanici o nanotecnologici, verificando la loro funzionalità nel tempo. Impediranno il contatto dell’acqua con le superfici, preservandole dal degrado e dagli altri effetti indesiderati.

Prestare attenzione a ogni sporgenza che eventualmente sia inserita sulle pareti esterne dell’edificio e all’occorrenza sigillarla opportunamente.

Umidità dal terreno

Verificare che tutte la parti della costruzione a contatto con il terreno e nelle sue immediate vicinanze siano adeguatamente protette dall’acqua battente diretta, indiretta e di scorrimento superficiale.

Evitare il contatto continuativo delle murature con la sabbia o con il terreno umido. Eventualmente interporre un adeguato strato di materiale impermeabilizzante, correttamente saldato e risvoltato sul supporto fino ad altezze sufficienti.

Interventi sul costruito

Dove si siano verificati danni ai sistemi di protezione, questi andranno riparati quanto prima, adottando le cautele e le disposizioni stabilite dal produttore del sistema impermeabile adottato.

Umidità dall’alto

Si tratta quasi sempre di danni o difetti verificatisi sui particolari costruttivi e sulle singolarità. Rispristinare la tenuta effettuando le riparazioni necessarie, accertandosi di rispettare le modalità di impiego dei prodotti utilizzati.

Effettuare periodicamente le necessarie ispezioni e manutenzioni, avendo cura di aumentare la loro frequenza nel caso di coperture vecchie.

Umidità dagli impianti

Anche in questi casi occorre aumentare la frequenza di ispezione delle sigillature, per verificarne la tenuta e all’occorrenza ripristinarle.

Umidità dalle pareti

Accertarsi che gli infissi siano correttamente sigillati sul foro parete e sulla soglia. Particolare attenzione dovrà essere posta alla continuità di tenuta ermetica fra le soglie e i manti sottostanti. Questi sono elementi molto difficili da impermeabilizzare, che possono causare danni rilevanti alle superfici interne delle pareti, ai pavimenti di legno e a tutti gli altri componenti costruttivi presenti nelle immediate vicinanze.

Controllare che non si siano create tasche sugli intonaci o sui rivestimenti e all’occorrenza ripararle immediatamente.

Applicare protettivi idrorepellenti traspiranti sulle superfici, per evitare il contatto delle pareti con l’acqua.

Umidità dal terreno

Assicurarsi che le opere di evacuazione delle acque meteoriche siano sempre in perfetta efficienza. Proteggere le porzioni di edificio soggette a contatto con il terreno, verificando la loro corretta impermeabilizzazione. Se necessario, ripristinare le tubazioni di evacuazione e le opere di drenaggio.

Fig. 3.101 In fase diagnostica, può vantaggiosamente essere utilizzata la tecnica termografica, utile per individuare la presenza di umidità a distanza, senza necessariamente dover accedere alle superfici interessate. (Immagine gentilmente concessa dalla ditta Termocatania http://www.termocatania.it.)

L’umidità da impianti e da altri apporti accidentali

Generalità L’umidità proveniente dai danni agli impianti e da altri apporti accidentali è quella conseguente a tutti gli eventi imprevisti e talvolta imprevedibili che coinvolgono l’edificio. Riguarda i problemi sia della parte impiantistica sia degli altri elementi costruttivi ed è caratterizzata dal fatto che il danneggiamento e la conseguente immissione d’acqua si manifestano in maniera casuale e improvvisa.

I danni da impianti

Questa tipologia di danno comprende un’ampia varietà di eventi che, con modalità diverse, possono apportare anche considerevoli quantità di acqua alla costruzione.

Fondamentalmente gli impianti si suddividono in due categorie:

impianti in pressione di adduzione e distribuzione; impianti a caduta e di scarico.

La prima categoria riguarda tutte le tubazioni e i serbatoi contenenti acqua, generalmente di rete, a una pressione che può variare dalle 2,5 alle 5 atm (kg/cm²). Sono perciò gli impianti dove circola l’acqua potabile, quelli dell’acqua calda sanitaria, il sistema di riscaldamento (tubazioni calde e fredde), gli scaldabagni e tutte le parti di impianto alimentate direttamente o indirettamente dalla pressione di rete.

La seconda categoria si riferisce invece principalmente agli impianti di evacuazione delle acque bianche e nere, che per gravità convergono verso gli scarichi all’uscita dell’edificio. Si tratta quindi degli scarichi di lavandini, docce, vasche, e bidet che si trovano nei bagni e di quelli del lavello e della lavastoviglie in cucina.

A questi si sommano gli scarichi degli altri elettrodomestici, che comprendono lavatrice e lavastoviglie (se questa non convoglia la sua tubazione in quella del lavello) ed eventualmente asciugatrice e scarico della condensa dell’impianto di condizionamento dell’aria. In ultimo c’è lo scarico del WC o dei liquami, che spesso segue un diverso percorso fino all’esterno. Le situazioni più frequenti di apporti d’acqua accidentali dovute agli impianti che interessano l’edificio hanno le seguenti cause:

Negli edifici nuovi

Errori di esecuzione dell’impianto, con particolare riferimento al montaggio di innesti, curve, raccordi, giunzioni, sigillature e saldature. Serraggio incompleto o eccessivo di giunti, ghiere e nipples. Utilizzo di componenti difettosi, come per esempio tubi, elementi filettati, rubinetti, derivazioni e guarnizioni. Ostruzioni totali o parziali delle tubazioni di scarico, a causa di cartacce, detriti di cantiere e calcinacci. Deformazioni, schiacciamenti e rotture involontari, avvenuti in corso d’opera sulle tubazioni o sui loro innesti e collegamenti.

Negli edifici datati

Perforazione di una tubazione o di un suo particolare causato dalla corrosione (prevalentemente nei materiali metallici). Infragilimento dei materiali plastici dovuto a invecchiamento.

Deformazione o rottura di una tubazione o di un suo particolare, a causa di movimenti di assestamento della struttura o del terreno. Rottura di vecchie tubazioni di gomma in pressione.

Situazioni che riguardano sia edifici nuovi che datati

Rottura di tubazioni a causa del gelo. Intasamento per cause accidentali.

Le infiltrazioni d’acqua causate dagli impianti possono essere particolarmente subdole e difficili da individuare.

Se il danno è di grosse dimensioni, l’apporto d’acqua diventa importante ed è molto semplice localizzarne la posizione.

Invece sono molto più insidiosi i danni di minima entità, con perdite talmente piccole che risulta difficilissimo trovarle. Se queste infiltrazioni avvengono all’interno dei massetti, le manifestazioni saranno del tutto simili a quelle della risalita muraria. Ci sono stati casi di perdite minime, nell’ordine di qualche goccia al giorno, scoperte dopo anni perché si credeva che l’umidità dei pavimenti e dei muri fosse dovuta alla risalita dal terreno.

Altri danni accidentali

In questa classificazione sono comprese tutte le cause di apporto d’acqua dovute a eventi estremi, come per esempio allagamenti e alluvioni. Vi si annoverano anche quelle conseguenti a episodi casuali, come la rottura di un vetro che fa entrare l’acqua in casa mentre piove, l’aver dimenticato un rubinetto aperto, oppure l’ostruzione dello scarico della vasca da bagno o del lavandino.

Entrambi i tipi di evento sono generalmente coperti da forme di assicurazione sulla casa. Occorre però verificare attentamente le coperture previste dalla propria polizza, perché spesso vi sono specifiche cause di esclusione.

Alcuni contratti assicurativi possono riservare sorprese, in relazione per esempio alle franchigie, alle responsabilità nei confronti di terzi o ai costi relativi alla ricerca del guasto.

Fig. 4.1 Bocca di lupo otturata. In questo caso, l’acqua che non riesce a essere evacuata dallo scarico si riversa all’interno del locale interrato, causando gravi danni all’edificio.

Fig. 4.2 Situazione che si riscontra frequentemente nelle abitazioni. Tubazioni di materiali diversi sono variamente connesse e rimaneggiate. Molto spesso le perdite si verificano in corrispondenza di queste giunzioni.

Fig. 4.3 Soffitto di un bagno interessato da infiltrazioni provenienti dal piano superiore. Questa è una frequente causa di lite condominiale.

Fig. 4.4 Porzione di parete esterna su cui sono visibili le macchie di umidità proveniente da un collettore idraulico situato all’interno.

Fig. 4.5 Umidità di risalita secondaria in un locale interrato, causata da un apporto accidentale esterno. L’acqua bagna il massetto e poi risale sul muro.

Fig. 4.6 Efflorescenze saline su un muro affetto da umidità di origine accidentale, che dal massetto si trasferisce sulle pareti. Sono visibili alcune formazioni biologiche di muffe nere assimilabili ad Aspergillus Niger, che molto probabilmente erano antecedenti all’evento. Le muffe non sono quasi mai presenti nei casi di risalita, mentre sono molto frequenti nelle formazioni condensative.

Fig. 4.7 Danni da impianti sulla facciata esterna di un edificio datato. Sono visibili le macchie di umidità sulle superfici in corrispondenza del pavimento dei bagni.

Fig. 4.8 Allagamento di un locale seminterrato, causato da un evento accidentale dovuto a un difetto di evacuazione delle acque piovane. Le acque nere del pozzetto di scarico sono tornate indietro scaricando i liquami all’interno dell’edificio, con le conseguenze visibili nella foto.

Fig. 4.9 Macchia di umidità all’interno di un’abitazione, sulla parete che separa il soggiorno dal bagno. La notevole differenza di altezza fra le macchie umide porta a ritenere che l’acqua provenga da un danno agli impianti, che sono situati nel locale retrostante.

Principali effetti I danni di natura accidentale, compresi quelli dovuti agli impianti, hanno generalmente una modalità di manifestazione intensa e improvvisa. Nella maggior parte dei casi, gli apporti d’acqua all’edificio sono di entità rilevante e interessano la costruzione per tempi molto brevi.

Quando ciò accade, i danni alla costruzione sono in genere modesti mentre tutto ciò che vi è contenuto è spesso completamente distrutto.

Fanno eccezione i danni di entità minima, che generano uno stillicidio talmente ridotto da essere individuato dopo molto tempo, anche nell’ordine di diversi anni. Questi avvengono di solito nei bagni e nelle cucine, a danno delle strutture portanti della costruzione. Si sono verificati casi di corrosione profonda dei ferri d’armatura con rischio di crollo del solaio, causati dallo stillicidio degli impianti del piano superiore protrattosi per molti anni.

La principale causa di danno correlata agli impianti in ambito domestico è da attribuire alla lavatrice. Questo particolare elettrodomestico ha infatti la caratteristica di muoversi e di oscillare più degli altri. Le vibrazioni sollecitano continuamente le tubazioni di gomma di adduzione e di scarico e nel tempo possono creare lesioni, distacchi o rotture vere e proprie.

È opportuno quindi verificare periodicamente la condizione delle tubazioni presenti in casa, con particolare attenzione alla lavatrice.

Un altro elemento impiantistico che causa spesso problemi di infiltrazione è lo scarico della vasca o del box doccia che prende il nome di “piletta”. Si tratta sostanzialmente di un imbuto, dotato di sifone, che raccoglie l’acqua proveniente dall’alto e la convoglia nella tubazione di scarico.

La piletta è situata in una posizione scomoda, dove è generalmente difficile intervenire. Può capitare che la guarnizione di tenuta sia stata montata male in origine o che sia andata in crisi successivamente. Le infiltrazioni che avvengono in questo punto si trasmettono immediatamente attraverso il massetto e normalmente non sono individuate subito, anche perché le superfici dei bagni sono rivestite di piastrelle. Capita quindi di vedere muri umidi in posizioni anche distanti dal bagno, senza minimamente immaginare che la causa dell’umidità sia dovuta alla vasca o al box della doccia.

Fig. 4.10 Impermeabilizzazione del pavimento in una cucina con rivestimento continuo in resina poliuretanica liquida. Le perdite da impianti avvengono quasi esclusivamente nei bagni e nelle cucine. È consigliabile impermeabilizzare il pavimento per evitare il rischio di arrecare danni ai locali sottostanti e per rendere immediatamente visibili le eventuali perdite idriche. (Immagine gentilmente concessa dal Geom. Marco Gusmini www.westwood.eu.)

Prevenzione e correzione Le azioni preventive e correttive riguardanti gli apporti di umidità da impianti e di natura accidentale possono essere suddivise in questo modo:

prevenzione dell’acqua da impianti; prevenzione dell’acqua accidentale; correzione dell’umidità da impianti e accidentale.

Prevenzione dell’acqua da impianti

È necessario verificare periodicamente gli impianti, sia quelli di acqua in pressione sia quelli di scarico, per accertarsi che il loro funzionamento sia regolare. Particolare attenzione dovrà essere adottata nel controllo dei vecchi impianti presenti negli edifici datati.

Una verifica molto semplice è quella di chiudere tutte le utenze idrauliche e di controllare se il contatore dell’acqua si muove. Anche in assenza di manifestazioni di umidità in casa può sempre verificarsi qualche minima perdita d’acqua dagli impianti, che si va a scaricare attraverso percorsi vari e imprevedibili. Negli edifici situati al piano terra, capita abbastanza spesso che le perdite d’acqua dagli impianti, non avvertite per lungo tempo, possano creare danni da smottamento del terreno.

Un’indagine utile a determinare la presenza di danni agli impianti è quella della videoispezione. Consiste nell’uso di una telecamera di ridottissime dimensioni, che si inserisce all’interno della tubazione e fornisce un quadro completo e dettagliato sulle sue condizioni. È in grado di individuare danni e difetti di minima entità, localizzandoli in maniera molto precisa.

Anche la termografia a infrarosso è un’indagine molto utile per verificare danni e perdite da impianti di immissione e di scarico.

Per prevenire i danni da perdite degli impianti, una cosa molto utile da farsi in fase di costruzione è l’impermeabilizzazione del solaio dei bagni e delle

cucine. In questo modo si contiene l’eventuale perdita, rendendola immediatamente visibile, e si evita che l’acqua possa portarsi al piano sottostante o nel terreno.

Fig. 4.11 Perdita da un raccordo di acqua in pressione.

Prevenzione dell’acqua accidentale

Questa modalità di prevenzione è un po’ singolare, in quanto dovrebbe essere in grado di prevedere e prevenire eventi considerati imprevedibili. In realtà basta vedere ciò che capita agli altri edifici per rendersi conto che gli eventi accidentali non sono, in ultima analisi, affatto imprevedibili, ma sono semplicemente accadimenti più rari rispetto ad altri.

Fra questi rari eventi possiamo classificare le alluvioni e gli allagamenti che ne conseguono, oltre alla rottura di vetri, infissi e altri elementi di chiusura che, in occasione di manifestazioni meteorologiche molto intense, espongono l’edificio all’ingresso di abbondante acqua piovana.

Fig. 4.12 Immagine di una videoispezione, in cui si evidenzia l’innesto irregolare di un tubo di PVC che si inserisce su una condotta di scarico. La giunzione non è a tenuta d’acqua e necessita di importanti interventi di riqualificazione.

Le ostruzioni degli scarichi di acqua piovana sono una causa frequente di allagamento delle terrazze e dei locali sottostanti, come è già stato ampiamente descritto nel Capitolo 3.

Correzione dell’umidità da impianti e accidentale

Per ciò che riguarda le modalità di correzione di tali apporti, trattandosi di acqua che si è introdotta nell’edificio in maniera eccezionale, questa dovrà essere trattata come umidità da evacuare, assimilabile a tutti gli effetti all’acqua residua da costruzione.

Nella sezione 9.3 sono illustrati i principali sistemi adottati per l’asciugatura forzata dei supporti porosi presenti nell’edificio.

L’umidità condensativa

Generalità Il fenomeno della condensazione è il passaggio di stato fisico che avviene quando l’acqua sotto forma di vapore (aeriforme) presente nell’aria si trasforma in acqua liquida. A pressione atmosferica costante, quindi nelle condizioni di analisi dei componenti edili, il fenomeno avviene per il contatto dell’aria, contenente un dato valore iniziale di vapore acqueo, con una superficie più fredda. Si verifica anche quando non varia la temperatura delle superfici, ma il contenuto di vapore nell’aria aumenta fino a raggiungere la saturazione. La quantità di vapore che può essere contenuta nell’aria dipende dalla sua temperatura.

A temperature maggiori, corrispondono maggiori quantità di vapore.

Fig. 5.1 Il grafico indica le quantità massime di vapore che l’aria può contenere alle varie temperature, nelle condizioni di saturazione.

Modificando la temperatura di una miscela aria-vapore d’acqua, variano i valori di umidità relativa, ma si mantiene inalterata la quantità di vapore in grammi.

Fig. 5.2 Variazione dei valori di umidità relativa di un m³ d’aria umida, a temperature diverse. Al variare della temperatura variano anche i valori di umidità relativa, ma l’umidità assoluta, ovvero la quantità d’acqua, non cambia. In questo caso il contenuto d’acqua è pari a 9,7 grammi al m³.

La quantità massima di vapore che può essere contenuta nell’aria è definita per ogni valore di temperatura e corrisponde alla sua saturazione, ovvero al 100% di umidità relativa (abbreviata in UR e in RH Relative Humidity). I quantitativi inferiori saranno invece definiti in percentuale della quantità massima. In un sistema chiuso, cioè che non cede o riceve vapore attraverso il suo contorno, come per esempio un contenitore sigillato, la quantità assoluta (in grammi) di vapore non cambia.

Al variare della temperatura, variano i valori di umidità relativa, pur essendo identica la quantità di vapore in grammi presente nel contenitore.

Si chiama umidità assoluta la quantità di vapore espressa in g/m³, o in g/kg, contenuta nell’aria.

In una massa d’aria isolata a una certa temperatura, contenente una data quantità di vapore acqueo, al ridursi della temperatura l’aria tende ad aumentare la sua umidità relativa fino a raggiungere il 100%, ovvero la condizione di umidità satura, cioè lo stato di coesistenza in equilibrio di vapore e liquido.

Abbassando ulteriormente la temperatura, si otterranno la condensazione del vapore che eccede il 100% di UR per quella data temperatura e la conseguente formazione di acqua liquida.

L'umidità relativa è la quantità d'acqua sotto forma di vapore contenuta nell'aria rispetto a quella massima possibile, detta di saturazione, riferita a una data temperatura, e si esprime in %.

Esempio: l’aria a 20° C può contenere al massimo, cioè in condizioni di saturazione (con UR 100%), circa 17,2 g/m³ d'acqua sotto forma di vapore. Se abbiamo dell'aria a 20° C con UR del 50%, significa che 1 m³ della nostra aria contiene circa 8,6 g d'acqua (cioè il 50% di 17,2 g) sotto forma di vapore. Immaginiamo ora di fare abbassare la temperatura di questo m³ d'aria, per esempio fino a 12°C. Per questa temperatura il valore di

saturazione è di 10,6 g/m³, quindi gli stessi 8,6 g d'acqua sotto forma di vapore, che rappresentavano il 50% a 20° C, ora rappresentano l’81%.

Abbassando ulteriormente la temperatura fino a 0° C, la saturazione si ha con 4,6 g/m³ e la quantità iniziale di vapore, pari a 8,6 g, non potrà più essere contenuta interamente nell’aria. Perciò 5,0 g resteranno miscelati sotto forma di vapore nell’aria, realizzando la condizione di vapore saturo con UR 100%, ovvero la coesistenza di liquido e vapore, la restante parte, ovvero altri 3,6 g di vapore, condenseranno trasformandosi in liquido.

La temperatura alla quale si verifica il fenomeno della condensazione, è detta punto di rugiada. La condensazione si manifesta, almeno in ambito edilizio, solo sulle superfici. È da notare che a 0° C l’acqua cambierà ulteriormente stato fisico passando da liquido a solido e trasformandosi in ghiaccio (punto di brina), purché non si trovi ad avere sali disciolti, che ostacolano il fenomeno abbassando la temperatura di congelamento.

Nel caso citato in esempio abbiamo visto che, pur essendo il quantitativo di acqua contenuto nell’aria esattamente identico, la sua percentuale riferita al valore di saturazione (UR%) varia a seconda della temperatura.

Ha senso quindi definire l’umidità relativa UR% dell’aria solo riferita alla sua temperatura.

Le trasformazioni descritte sono di natura termodinamica e si realizzano molto lentamente. Nella realtà quotidiana i fenomeni si osservano durante la loro evoluzione e mentre sono ancora in corso, cioè prima che si siano definitivamente completati. Perciò è normale notare lievi differenze nei

valori misurati o trasformazioni ancora incomplete, oppure dover attendere tempi lunghi per ottenere dati coerenti con la teoria.

Per potere interpretare più facilmente i fenomeni condensativi che avvengono all’interno di un edificio, occorrerà fare alcune semplificazioni, che saranno poi integrate e corrette rapportandole alle situazioni reali.

Edificio ermetico

Dobbiamo immaginare che l’involucro edilizio sia a tenuta stagna e che non consenta alcun passaggio di aria, acqua o vapore da e per l’esterno. In queste condizioni, la quantità complessiva di vapore in grammi presente all’interno della costruzione sarà determinata da quella presente nell’aria interna, che corrisponde come valore a quella esterna (quando questa è entrata nell’edificio), più quella che vi si è aggiunta a causa delle attività che eventualmente si svolgono nei locali.

Il quantitativo di vapore iniziale sarà quindi identico rispetto a quello presente nell’aria esterna (in grammi al m³ di aria). A questo andranno sommate o sottratte le quantità di vapore apportate o condensate in conseguenza delle varie attività svolte all’interno dell’edificio.

Generalmente, il vapore prodotto in casa è in quantità eccedente e si va a sommare a quello già presente inizialmente.

Nell’edificio stagno, la quantità totale di vapore nell’aria può essere ridotta o limitata solo se si utilizza un condizionatore o un deumidificatore. Un’altra possibilità è quella di usare materiali capaci di immagazzinare grandi quantità di vapore al loro interno, che fungono a loro volta da contenitore dell’umidità, svolgendo un effetto tampone (moisture buffering), come per esempio gli intonaci di argilla. La differenza è che i deumidificatori possono funzionare in continuo mentre i sistemi tampone, dopo essersi saturati, hanno bisogno di liberare l’umidità accumulata. I primi sono adatti al funzionamento permanente, mentre gli altri solo per sopperire ai momentanei eccessi di vapore nell’aria.

In tutti gli altri casi, l’aria interna di una casa abitata conterrà sempre quantità di vapore, in valori assoluti, maggiori rispetto a quella esterna.

Fig. 5.3 Nell’edificio stagno, il vapore apportato sarà sempre tale da fare aumentare l’umidità assoluta interna, tranne quando si usa un deumidificatore, che ritrasforma il vapore in liquido sottraendolo all’aria. Se la temperatura non sale, all’incrementarsi dell’umidità assoluta corrisponderà anche un aumento dell’umidità relativa.

Qualsiasi apporto di vapore all’aria interna di una casa, dovuto alla respirazione, alla traspirazione corporea, alla combustione del gas, all’asciugatura degli indumenti e ai fumi di cottura, determinerà inesorabilmente un aumento della quantità di vapore all’interno dell’edificio, intesa come aumento dei grammi. Se il vapore continuamente apportato non viene correttamente evacuato, tenderà progressivamente ad accumularsi, aumentando via via la quantità dei grammi all’interno dell’edificio.

Quando la temperatura interna si mantiene stabile, all’aumento dei grammi di vapore corrisponderà un aumento (non proporzionale) dell’umidità relativa dell’aria, fino alla saturazione.

Con elevati valori di umidità relativa, i fenomeni condensativi sono enormemente facilitati. Nei punti più freddi dell’edificio, l’umidità relativa dell’aria raggiungerà localmente i valori di saturazione e si formerà quindi acqua liquida sotto forma di condensa superficiale.

Quindi la condensazione può avvenire:

per raffreddamento di una superficie a una temperatura pari o inferiore al punto di rugiada, riferito a quella specifica aria ambiente; per aumento dell’umidità relativa della stessa aria ambiente, fino al valore del 100% riferito a una data temperatura superficiale preesistente.

Esempio: in un locale la cui aria interna si trova alla temperatura di 20° C con il 65% di UR, la condensazione avviene sulle superfici che hanno temperature pari o inferiori al punto di rugiada, che corrisponde a circa 13° C. Se nello stesso locale, in conseguenza di apporti di vapore, la temperatura

dell’aria interna si mantiene a 20° C, ma i valori di UR raggiungono il 75%, la condensazione avverrà a partire dalle superfici che si trovano a circa 15,5°C.

La condensazione perciò avverrà perché le superfici sono molto fredde o perché l’umidità relativa è molto alta.

I due parametri sono complementari, cioè per evitare la condensazione possiamo abbassare i valori di UR oppure aumentare la temperatura delle superfici. È importante ricordare che le due grandezze non sono inversamente proporzionali. I loro valori reciproci si possono ottenere con calcoli abbastanza complessi o con la lettura del diagramma psicrometrico, che sarà meglio illustrato nel paragrafo 5.3.

ARIA A 20°C

Fig. 5.4 Valori del punto di rugiada correlati a quelli di umidità relativa dell’aria alla temperatura di 20° C.

Nella tabella in Fig. 5.4 sono riportati i valori del punto di rugiada e dell’umidità relativa riferiti all’aria a 20° C. All’aumentare dell’UR, la condensazione avviene più facilmente, cioè con valori più alti di temperatura superficiale. Questo spiega perché un’elevata umidità dell’aria favorisce la formazione di condensa, anche se gli isolamenti dell’edificio sono stati realizzati correttamente.

Edificio non ermetico

Nella realtà, gli edifici non sono mai a tenuta stagna, anche se la tendenza attuale è quella di renderli sempre più sigillati per ridurre le dispersioni termiche. Le norme attualmente in vigore impongono appunto l’ermeticità della costruzione e la tenuta all’aria delle pareti, dei solai e degli infissi. Nonostante ciò, esistono sempre passaggi d’aria sotto forma di spifferi più o meno importanti, che passano attraverso le finestre, i cassonetti delle tapparelle se presenti, le porte di ingresso e tutti gli altri punti dove è possibile un trafilamento dell’aria.

L’edificio va visto come un recipiente, con un livello che indica quanta acqua contiene sotto forma di vapore. Se il vapore in entrata corrisponde a quello in uscita (in grammi), il livello resterà stabile. Ma se le due quantità non sono identiche, l’acqua presente nella costruzione sotto forma di vapore tenderà ad aumentare oppure a diminuire. Questa rappresentazione non è rigorosa, ma ci aiuta a capire come il quantitativo di vapore in grammi possa esercitare importanti effetti sulla casa. Più avanti si approfondirà il significato di umidità relativa.

L’unica possibilità di ovviare all’aumento del vapore, generalmente apportato dalle attività umane, è quella di consentire o di favorire l’evacuazione del quantitativo in eccesso. La soluzione più semplice ed efficace è quella di garantire una sana aerazione degli ambienti, con l’alternativa di una ventilazione meccanica, possibilmente di tipo controllato o automatico. Il termine aerazione si riferisce al ricambio dell’aria ottenuto naturalmente, per esempio mediante apertura delle finestre, mentre la ventilazione presuppone l’uso di ventole e altri sistemi meccanici. In qualche altro caso si ricorre ai deumidificatori o ai

condizionatori che impiegano una macchina frigorifera, detta anche pompa di calore. Si tratta di un apparato che trasferisce il calore fra due corpi, contenuti al suo interno, creando una superficie fredda e una calda. Su quella fredda si ottiene la condensazione del vapore acqueo eccedente. L’aria è poi riscaldata facendola passare sul corpo caldo e fuoriesce dall’apparato a una temperatura leggermente più alta rispetto a quella ambiente e con un’umidità relativa sensibilmente ridotta. Il liquido condensato è poi raccolto in una vaschetta o allontanato per mezzo di una tubazione.

Negli edifici nuovi il fenomeno degli spifferi è molto meno sentito, ma in quelli datati i trafilamenti d’aria sono spesso cospicui. Ai fini del risparmio energetico rappresentano un danno rilevante, ma per il ricambio naturale dell’aria sono estremamente utili.

Questi difetti di tenuta sono talvolta la salvezza della casa in quanto a prevenzione di muffe e condense, assicurando una certa continuità nel ricambio naturale e spontaneo dell’aria, sostituendosi all’apertura delle finestre o perlomeno integrandone la funzione.

Se a questi ricambi naturali si aggiungono le normali aperture della porta d’ingresso e delle finestre e l’azionamento della cappa dei fornelli, purché questa sia stata correttamente collegata all’esterno, si raggiunge un buon equilibrio fra il vapore generato in casa e quello evacuato. Si evitano quindi gli accumuli.

I muri invece, non respirano e non devono respirare. La loro funzione non è quella di consentire passaggi, flussi o trasferimenti di aria dall’interno all’esterno dell’edificio, e neppure di vapore. Devono invece consentire la traspirazione dell’umidità, non ai fini dell’eliminazione all’esterno di quella

in eccesso, ma solo in relazione a quanta se ne è accumulata al loro interno in fase di costruzione o durante la gestione della casa. Praticamente, i muri devono potere eliminare facilmente il vapore che vi si è accumulato per condensazione o per altri motivi, ma non sono in alcun modo preposti a far evacuare con continuità verso l’esterno il vapore interno eccedente.

Riferendoci all’edificio stagno citato precedentemente, possiamo assimilare il vapore in uscita con l’aria ricambiata a quello condensato nel deumidificatore.

L’equilibrio fra vapore immesso ed evacuato

Cerchiamo ora di capire come si stabilizza il valore di umidità all’interno dell’edificio, in funzione del vapore apportato rispetto a quello evacuato.

Fig. 5.5 Flussi di umidità uguali, che non modificano la quantità di vapore in grammi presente nei locali.

Se la quantità di vapore in grammi contenuta nell’aria in ingresso è pari a quella dell’aria in uscita, il vapore totale presente in casa non aumenta e non diminuisce. Tale quantità si può definire in grammi al m³ d’aria o in grammi per kg d’aria. La prima modalità di misurazione è generalmente adottata nelle applicazioni domestiche mentre la seconda, che valuta il rapporto fra le masse, è più precisa ed è solitamente utilizzata nei calcoli di aerotecnica. Quando varia la temperatura dell’aria, varia conseguentemente anche la sua umidità relativa. La quantità di vapore espressa in grammi, ovvero l’umidità assoluta, resta invece inalterata.

La Fig. 5.5 rappresenta una casa dove non si ha alcun apporto netto positivo di vapore all’aria interna. Ciascun m³ di aria in ingresso contiene esattamente la stessa quantità di vapore in grammi dell’aria evacuata.

In questa situazione, il ricambio d’aria è del tutto ininfluente sul valore dell’umidità interna in grammi. Se i ricambi d’aria sono molto frequenti o del tutto assenti, l’aria interna manterrà costante il contenuto di vapore in grammi al m³, che sarà identico a quello dell’aria in ingresso, cioè di quella esterna.

Esempio pratico: l’aria esterna si trova a 5° C con il 100% di UR (nebbia) e contiene circa 6,9 grammi di vapore al m³. L’aria interna è invece a 20° C di temperatura, con UR del 40%, e contiene anch’essa circa 6,9 grammi di vapore al m³. Ciascun m³ di aria apportata con l’apertura delle finestre, con apparati automatici o con gli spifferi, non provocherà alcun aumento né alcuna riduzione del quantitativo totale in grammi di vapore all’interno della casa.

C’è da notare che l’aria esterna con il 100% di UR, si porta al 40% di UR in interno. Si passa perciò da aria satura di umidità ad aria quasi secca, semplicemente aumentando la sua temperatura.

La situazione appena descritta è estremamente improbabile in una casa abitata, perché qualsiasi attività umana che si svolge al suo interno genera vapore, il quale andrà inevitabilmente ad aumentare il quantitativo di grammi presenti nell’aria. Se invece la casa non è occupata ma è comunque riscaldata, in assenza di ulteriori apporti di vapore, l’aria interna si stabilizzerà sui valori di UR precedentemente indicati. Nelle abitazioni situate al pian terreno, c’è da considerare una certa quantità di vapore proveniente dal pavimento e talvolta anche dai muri umidi. Ci sarebbe poi da valutare un altro aspetto. Quando l’aria fredda entra in casa, riscaldandosi, si espande per effetto della dilatazione termica. Per esempio, un m³ di aria a 5° C riscaldato a 20° C diventa circa 1,05 m³. Questa circostanza modifica i valori di umidità sia relativa sia assoluta rispetto alle nostre valutazioni precedenti. Infatti, poiché a fronte di 100 m³ di aria fredda in ingresso ne escono circa 105, tutti i calcoli andrebbero corretti. Queste piccole variazioni percentuali sono ininfluenti ai fini delle applicazioni domestiche, perciò sono generalmente accettate.

Fig. 5.6 Flussi di umidità, con apporti positivi di vapore all’interno dell’edificio. L’aria estratta contiene più vapore rispetto a quella immessa.

Vediamo ora cosa avviene nelle situazioni più simili alla realtà, nelle quali si verifica un apporto positivo netto di vapore all’interno della costruzione. Come abbiamo già sottolineato, questo è dovuto alla respirazione delle persone, alla traspirazione della loro pelle, alle azioni legate all’igiene personale, alla cottura dei cibi, alle pulizie domestiche, alle piante e a tutte le altre cause di produzione di vapore in casa.

Riferiamoci ai parametri dell’aria esterna descritti nell’esempio di prima, pari a 5° C di temperatura, con UR del 100% (nebbia) e con un contenuto di 6,9 grammi di vapore per m³ d’aria.

Immaginiamo che nella casa siano generati ogni giorno 12 litri d’acqua sotto forma di vapore, pari perciò a 12.000 grammi. Per quanto possano sembrare eccessivi, sono i normali quantitativi prodotti giornalmente dalle attività domestiche di una famiglia di quattro persone. A questo punto è facile prevedere che, se non sono completamente evacuati, tutti questi grammi di vapore porterebbero, sommandosi, a saturazione l’intero volume domestico interno in tempi molto brevi. È necessario quindi creare le condizioni perché questo vapore indesiderato possa correttamente uscire di casa.

Le modalità sono solo due: con il ricambio dell’aria, in modo da fare uscire aria più umida e fare entrare aria più secca, equilibrando così le quantità di vapore in grammi. Oppure facendo condensare l’umidità in eccesso mediante una macchina frigorifera, che può essere un deumidificatore o un condizionatore che funzioni in modalità deumidificazione.

Se la casa ha una superficie di 100 mq, con soffitti alti 2,70 m, il volume totale d’aria in casa è di 270 m³, compreso quello occupato dai mobili.

I volumi non liberi, cioè relativi a mobili, arredi e corredi si conteggiano come se fossero vuoti.

Per semplicità, immaginiamo che i 12.000 grammi di vapore siano generati in maniera continua e costante durante l’intera giornata e uniformemente in tutta la casa. Dividendo 12.000 per 24 si ottengono 500 grammi di vapore generati ogni ora, che devono essere evacuati completamente. Ipotizziamo

ora che la casa possa contare su ricambi d’aria dovuti a spifferi, apertura delle finestre o passaggi d’aria di qualunque tipo, per 50 m³ ogni ora (sempre immaginando flussi continui e costanti).

Nella situazione descritta, il bilancio di umidità nella casa è presto fatto.

I grammi di vapore contenuti nell’aria in ingresso, più i grammi generati all’interno devono corrispondere a quelli in uscita. Perciò se 50 x 6,9 sono i grammi contenuti nell’aria in entrata, e 500 sono quelli generati, quelli in uscita saranno 50 x 6,9 + 500 = 845 grammi ogni ora. La quantità d’aria in entrata sarà uguale a quella in uscita, ovvero 50 m³ all’ora.

Quindi se 845 grammi sono contenuti nei 50 m³ dell’aria in uscita, il quantitativo di grammi di vapore al m³ d’aria dovrà essere pari a 845 : 50 = 16,7 grammi al m³. Riferendoci all’esempio precedente, con l’aria interna a 20° C contenente 16,9 grammi di vapore al m³, questa dovrà stabilizzarsi attorno a un valore di UR del 98%.

In queste condizioni tutto ciò che è contenuto nell’abitazione, compresi mobili, oggetti di legno, capi di pelle, carta e tessuti si riempirà completamente di muffa in tempi brevissimi. E gli occupanti saranno conseguentemente esposti a patologie importanti, perché vivere in un ambiente domestico con UR al 98% è impossibile.

Immaginiamo ora di raddoppiare il ricambio d’aria, per far fronte all’eccesso di umidità, portandolo a 100 m³/ora. In questo caso, il vapore in ingresso sarà 100 x 6,9 ai quali sommiamo sempre i 500 grammi generati in casa, e otteniamo 1.190 grammi. I quali saranno contenuti nell’aria in uscita, in ragione di 1.190 : 100 = 11,9 grammi al m³, che per l’aria a 20 ° C

corrispondono a UR del 69%. Se raddoppiamo ancora i valori del ricambio d’aria, portandoli a 200 m³ all’ora, il valore di UR dell’aria in casa, che corrisponde a quello contenuto nell’aria in uscita, diventa di circa il 54%.

Areare o ventilare la casa è sempre utile per la riduzione dell’umidità.

Se percorriamo a ritroso questo esempio, ci sarà più chiaro capire perché, quando si cambiano gli infissi o si sigilla la casa, la conseguente riduzione dei ricambi d’aria faccia salire bruscamente i valori di UR interna, favorendo abbondanti proliferazioni di muffe sulle superfici.

Riducendo di poco il ricambio dell’aria si innalza notevolmente il valore di stabilizzazione dell’UR interna.

Riassumendo i dati appena analizzati, possiamo facilmente trarre alcune rapide conclusioni:

La necessità di ricambio d’aria non dipende dal volume della casa, bensì dalla quantità di vapore che è generato al suo interno. Durante l’inverno, l’aria esterna è sempre più secca di quella interna, perciò areare o ventilare corrisponde a deumidificare. L’evacuazione dell’umidità non è proporzionale ai ricambi d’aria. Il valore di UR che si stabilizza in casa dipende dai ricambi d’aria che sono effettuati. A maggiori ricambi, corrisponde un valore di stabilizzazione più basso.

Principali cause della condensa

I fattori maggiormente significativi, in ambito edile, per la formazione di condensa sono la creazione di vapore aggiuntivo all’interno della costruzione (apporto) e la temperatura delle superfici al contorno, ovvero pareti, soffitti, vetri ecc., attraverso le quali si disperde il calore nel regime invernale.

Quanto più vapore è prodotto o immesso nell’edificio, tanto più possibile sarà la formazione di condensa, poiché quando apportiamo vapore all'aria aumentiamo la sua percentuale relativa, avvicinandoci alla formazione della rugiada. Se poi alcune superfici si trovano a temperatura più bassa, la formazione del liquido, cioè della condensa, sarà favorita e avverrà principalmente in quei punti.

A livello pratico, descriviamo ora cosa avviene normalmente in un’abitazione. Come già ampiamente documentato, il vapore immesso all'interno della casa deriva dalla respirazione, dalla traspirazione della pelle, dalle piante domestiche, dalle attività di cottura dei cibi (non dimentichiamo che la combustione del gas genera umidità), dalle attività relative all'igiene personale (doccia, bagno, asciugamani) e generale (lavaggio pavimenti, stoviglie, bucato ecc.). Le stufe a gas, ad alcool e a petrolio senza scarico all'esterno sono un’altra rilevante fonte di vapore acqueo.

A queste cause va aggiunta l'immissione di vapore proveniente dai materiali costituenti l'edificio, che può raggiungere valori anche rilevanti se per esempio la casa si trova al piano terra e il sottofondo del pavimento non è

areato (si veda al Capitolo 8) oppure se la casa è nuova o appena ristrutturata. In questi ultimi casi, l'umidità residua di costruzione è liberata gradualmente e, per buona parte, entra in circolo all'interno della casa apportando ulteriore umidità (si veda al Capitolo 9) per alcuni anni. Le murature umide sono in grado di fare evaporare importanti quantità d’acqua, trasferendole all’aria interna e creando ulteriori aumenti dei valori di UR. Ogni individuo a riposo emette circa 100 grammi/ora di vapore solo per le proprie esigenze fisiologiche di respirazione e traspirazione e una doccia può liberarne dai 500 ai 1.000. In una normale abitazione occupata da due adulti e due bambini si generano mediamente fra i 12 e i 20 litri di acqua giornalieri sotto forma di vapore, ovvero fra i 12.000 e i 20.000 grammi. Se questo vapore è allontanato, ovvero “lavato via” con una corretta ventilazione, allora il tasso, cioè la sua percentuale presente nell'aria si manterrà entro valori accettabili.

Se invece, come spesso accade, non si ricambia l'aria con sufficiente frequenza, l'eccesso di umidità tenderà a condensare a partire dai punti più freddi.

A questo punto è opportuno approfondire il concetto di frequenza di ricambio d'aria. In Italia le norme sull’argomento non sono molto chiare.

In particolare occorre prendere in esame la UNI 10339 del 1995, attualmente in fase di revisione.

La UNI EN 15251 del 2008 e la UNI TS 11300 del 2014 sono anch’esse riferimenti importanti per ciò che riguarda i ricambi necessari ad assicurare una buona qualità dell’aria interna negli edifici.

A seconda dei casi, le norme citate indicano per gli ambienti residenziali abitativi valori variabili fra gli 0,3 e gli 0,7 ricambi d’aria completi all’ora. Si intende quindi che l’intero volume dell’aria contenuto in casa debba essere sostituito mediamente ogni 3,3 ore (3 h e 18 minuti) nel primo caso e ogni 1,42 ore (1 h e 25 minuti) nel secondo. Se ci riferiamo all’esempio precedente, nel quale la casa di 100 m² con altezze di 2,70 m aveva un volume di 270 m³, ciò significa che le portate di ricambio d’aria dovranno variare fra i 270 x 0,3 e i 270 x 0,7 m³/ora, cioè fra gli 81 e i 189 m³/ora.

Ai fini di una corretta evacuazione dell’umidità in eccesso, le portate descritte hanno solo un valore indicativo, perché il fattore discriminante è la quantità di vapore apportato in casa. E questo non dipende solo dai m³ d’aria contenuti dalla costruzione, ma prevalentemente dal numero degli occupanti e dalle loro abitudini e attività.

Con un valore medio di ricambio d’aria pari a 0,5 vol./h, l’intera aria contenuta in casa andrebbe sostituita ogni due ore, ovvero bisognerebbe aprire tutte le porte e le finestre per almeno 5 minuti ogni due ore, comprese quelle notturne.

È facile capire che, nella maggior parte delle abitazioni, questo non avviene. Riferirsi ai ricambi d’aria, intesi come sostituzione dei volumi dell’aria interna all’ora, indipendentemente da quanti siano gli occupanti e da quali attività siano svolte in casa non ha molto senso. È invece più corretto valutare sia il volume della casa sia il numero dei suoi occupanti. Negli USA, la norma ASHRAE stabilisce un fabbisogno base di ricambi d’aria dell’edificio, al quale si somma un ulteriore fabbisogno per ciascun occupante. La condizione ideale è quella che consente un ricambio continuo dell'aria, ma senza eccessi. Perché se si tiene una finestra aperta troppo a lungo le pareti della camera si raffreddano sensibilmente. Quando poi si riscalderà nuovamente la stanza, l'aria calda a contatto delle pareti fredde

creerà nuova condensa, con effetti controproducenti oltre a rilevanti e inutili dispersioni energetiche.

È preferibile aprire spesso per pochi minuti anziché aprire a lungo per una sola volta al giorno.

L’alternativa è quella di montare un apparato automatico di ricambio aria, che garantisca una corretta ventilazione nella casa recuperando quasi tutto il calore dall’aria espulsa.

Un altro effetto poco noto della condensa in ambito abitativo è che si forma con grande facilità e in tempi brevissimi, mentre il processo inverso, di rievaporazione, richiede tempi lunghi.

Un esempio: la doccia

Prendiamo come esempio ciò che avviene normalmente nelle case tutte le volte che qualcuno si fa la doccia.

Nel bagno chiuso si ha una notevole produzione di vapore dovuta all'acqua calda e l’umidità relativa aumenta fino a valori prossimi al 100%, finché la temperatura di alcune superfici della stanza non coincide con la temperatura di rugiada riferita al tasso di umidità raggiunto. In quel momento si ha la formazione superficiale di acqua liquida. Se il liquido si forma su superfici non assorbenti come specchi, vetri, metallo o piastrelle, questo sarà perfettamente visibile e si manterrà tale fino a quando non varieranno le condizioni di umidità o di temperatura che lo faranno rievaporare. Sulle

superfici assorbenti, cioè su muri, soffitti, pavimenti di legno, pietra, cotto e altri materiali porosi, la prima condensa che si forma sarà immediatamente assorbita e non sarà visibile. Al formarsi di nuova condensa, questa potrà bagnare le superfici solo dopo averle impregnate fino al punto in cui queste non assorbono più.

La formazione di acqua liquida visibile sulle superfici porose ed assorbenti, è sempre successiva a una prima fase di impregnazione superficiale dei supporti fino alla loro completa saturazione. Capita abbastanza spesso quindi che due superfici vicine, nelle stesse identiche condizioni di temperatura e UR dell’aria, possano essere una bagnata e l’altra no, benché la quantità di vapore condensato sia uguale per entrambe.

Quando poi l’umidità relativa dell'aria si abbassa, riportandosi ai valori iniziali, le superfici tenderanno a restituire all'aria l'umidità in eccesso, ma lo faranno molto più lentamente. Osserviamo lo stesso fenomeno quando immergiamo in acqua un indumento. Mentre per bagnarlo bastano pochi istanti, per asciugarlo occorrono ore, talvolta diversi giorni.

Sui supporti porosi presenti in casa avviene qualcosa di molto simile.

Se si dovesse verificare la formazione di nuova condensa quando ancora la prima non ha avuto modo di evaporare (stesso effetto dell'indumento), si avrà un accumulo progressivo della quantità d'acqua sul supporto poroso.

Praticamente, quando l’umidità vecchia ancora non è stata allontanata, gli si aggiunge dell’altra acqua (condensativa) nuova. A questo punto accade un altro fatto che agisce negativamente in maniera sinergica. Una massa porosa

più umida disperde più calore rispetto a una asciutta. E un muro esterno più freddo, che si bagna a causa degli effetti condensativi, diventerà meno isolante, cioè ancora più freddo e genererà più condensa rispetto a quando era asciutto, attivando anche qui un processo progressivo evolutivo. Quando l'umidità nei muri aumenta dell'1%, la loro capacità di isolamento termico diminuisce mediamente del 5%.

Quasi tutti gli isolanti termici subiscono una riduzione del loro potere isolante, che in alcuni casi può superare il 25% con umidità elevata.

Abbiamo esaminato la situazione del bagno in occasione della doccia, cioè di un locale chiuso nel quale la temperatura interna si è mantenuta stabile, mentre è aumentata notevolmente la quantità di vapore, facendo crescere conseguentemente il valore di UR. Ci siamo avvicinati alla situazione dell’edificio ermetico descritto in precedenza.

Analizziamo ora cosa accade in un locale quando non si aumenta la quantità complessiva di vapore, cioè non si apporta alcuna quantità aggiuntiva di umidità, ma si abbassa la temperatura dell’aria interna.

Abbassamento della temperatura, riscaldamento ciclico

Immaginiamo una situazione iniziale nel regime invernale, con il nostro edificio a valori di temperatura e di umidità relativa dell’aria interna pari rispettivamente a 20° C e al 50 %, che sappiamo essere quelli ottimali. Se la temperatura interna si abbassa, senza che vi sia alcuna variazione della quantità complessiva (in grammi) di vapore al suo interno, si modificheranno conseguentemente i valori di UR.

Alla riduzione della temperatura corrisponde un incremento non proporzionale dell’UR che, a 15° C, si porterà al 67 %. Si tratta di valori piuttosto alti, ma ancora accettabili. Se però la temperatura si abbassa fino a circa 12,5° C, il valore di UR si porta all’80%. Il punto di rugiada con UR al 100% per l’aria avente i parametri iniziali descritti, è di 10° C. In ultima analisi, il punto di rugiada è rigidamente correlato al quantitativo di vapore in grammi contenuto nell’aria, cioè all’umidità assoluta. Variando la temperatura dell’aria interna, senza però modificare i quantitativi di vapore in grammi, il valore del punto di rugiada resta inalterato.

Come risulta evidente, abbassando la temperatura senza apportare altra umidità, vengono comunque favoriti i fenomeni condensativi.

Vediamo invece cosa accade se prendiamo in esame un edificio più vicino a una situazione reale, che si trova in condizioni iniziali di 20° C con UR del 67%. Tale eventualità è molto frequente nelle abitazioni durante il periodo invernale.

Quando la temperatura si abbassa, per esempio dopo avere spento il riscaldamento, i valori di UR saliranno notevolmente.

Con una temperatura di 15°C si avrà una UR del 90%. Il punto di rugiada è di circa 13° C.

Analizziamo ora un caso limite, ma anch’esso reale, nel quale i valori di temperatura e di umidità relativa riferiti all’aria interna di un’abitazione sono molto sfavorevoli. Queste condizioni si riscontrano purtroppo frequentemente nella pratica quotidiana di indagine.

La temperatura iniziale è di 22° C e l’UR del 75%. Se la temperatura si abbassa a 20° C, l’UR si porta all’84%. Il punto di rugiada è di 17°C.

Durante l’inverno, le superfici di un edificio non isolato perfettamente possono facilmente avere questa temperatura, trovandosi nelle condizioni adatte per favorire la condensazione.

Abbassare la temperatura spegnendo il riscaldamento corrisponde a far salire l’UR fino a raggiungere valori talvolta critici.

Quando la temperatura dell'aria si abbassa per avere spento il riscaldamento, si può giungere alle condizioni di saturazione, ovvero alla formazione del liquido sulle superfici per avvicinamento al punto di rugiada.

Questa particolare modalità di formazione della condensa si chiama condensa da riscaldamento intermittente e si verifica quando la temperatura dell’aria interna subisce variazioni cicliche notevoli nell'arco della giornata. Solitamente, la formazione della condensa sui supporti porosi dell’edificio e la sua successiva rievaporazione seguono una ciclicità stagionale e non giornaliera. La condensa si accumula sui supporti porosi nell’arco di qualche mese (generalmente in inverno) ed è poi evacuata nei mesi successivi (generalmente in estate). È anche per questo motivo che il fenomeno risulta di difficile individuazione e comprensione. Altri casi particolari di formazione della condensa sono da mettere in relazione all’aumentata dispersione termica a pari temperatura, dovuta per esempio a un aumento della velocità dell'aria. Una parete esposta al vento tenderà a formare condensa all’interno, cioè a bagnarsi, quando il vento all’esterno aumenta la sua velocità. Questo avviene perché un maggiore movimento dell’aria favorisce la sottrazione di calore dal muro. Un caso molto particolare è la formazione di condensa sul soffitto, quando il solaio è impermeabilizzato ma non isolato termicamente ed è esposto all'acqua piovana nei periodi freddi.

La pioggia invernale normalmente è fredda e asporta il calore dall'edificio molto più velocemente dell’aria. Praticamente lo “lava via”, abbassando così la temperatura interna del soffitto e causando lo sviluppo di condensa che è invece percepita come un’infiltrazione. Per i motivi descritti, lo sviluppo di condensa sotto forma di acqua liquida non avviene ogni volta che piove ma solo quando c'è molto freddo, oppure quando l’UR interna è molto alta. È capitato di vedere intere terrazze smantellate nella convinzione che ci fosse una perdita, mentre il fenomeno era più semplicemente quello descritto, che prende il nome di condensa da pioggia battente (vedi Fig. 5.12).

Condensa superficiale e interstiziale

La condensa si può manifestare su una superficie, e si chiama condensa superficiale, oppure all'interno dello spessore della parete o del solaio, nel qual caso prende il nome di condensa interstiziale. Alcune manifestazioni tipiche della condensa superficiale sono: la formazione di liquido sui pavimenti soprattutto al primo piano con sotto un piano pilotis. Oppure la formazione di liquido sulla superficie interna dei vetri delle finestre, lo sviluppo di muffa conseguente a condensa negli angoli interni, intorno agli infissi e in presenza di zone chiamate ponti termici. La condensa superficiale si forma anche dove vi è una maggiore produzione di vapore, come nelle cucine e nei bagni, oppure dove si verifica la massima dispersione di calore, e nei locali con un minore ricambio d’aria come le camere da letto.

La formazione di condensa si manifesta anche in estate, prevalentemente sulle pareti e sui pavimenti dei locali interrati.

Le formazioni caratteristiche della condensa interstiziale sono invece molto più rare oltre che più difficili da individuare, anche perché necessitano di tempi molto lunghi per rendersi evidenti. Alcuni esempi sono: la formazione di liquido all'interno dei muri in corrispondenza di tubazioni d’acqua fredda non coibentate o di tubi vuoti, la formazione di condensa all’interno dello spessore del materiale isolante interposto nelle pareti esterne e tutti gli altri fenomeni condensativi che avvengono all’interno della massa muraria.

Una particolare modalità di formazione della condensa interstiziale interessa il piede delle murature, che normalmente non è isolato termicamente e insiste sul terreno attraverso le opere di fondazione. In questo punto, la dispersione termica è sempre rilevante e favorisce i fenomeni condensativi, che generano effetti molto simili a quelli della risalita capillare.

Occorre precisare che la condensa interstiziale è estremamente rara e si trova più frequentemente nei testi di teoria e nelle normative che nei casi reali. La normativa italiana impone la verifica delle condizioni capaci di creare fenomeni di condensa interstiziale negli edifici. Ma calcoli e sperimentazioni più accurati hanno recentemente messo in discussione la validità della normativa stessa, che darebbe indicazioni molto diverse dalla realtà.

Abbiamo visto che il fenomeno della condensa segue le leggi termodinamiche legate al comportamento del vapore d’acqua. Si tratta di complesse correlazioni fra funzioni non lineari, che risultano di difficilissima interpretazione anche per i tecnici. L’intero argomento rientra in un’interessante branca della fisica tecnica detta psicrometria, ed è ampiamente studiato da chi si occupa a livello professionale di riscaldamento, condizionamento dell’aria e meteorologia. Si rimanda allo studio di testi specifici per chi volesse approfondire questa tematica, tanto affascinante quanto complicata. Vista la complessità dell’argomento, non è un caso che le liti relative a fenomeni condensativi si concludano molto spesso in tribunale.

Esistono altri casi particolari di manifestazione della condensa che, pur verificandosi piuttosto raramente, rappresentano veri e propri rompicapi per i tecnici incaricati della risoluzione del problema. Un effetto poco noto ma molto problematico si verifica quando in un solaio all’estradosso si ha uno strato impermeabile che racchiude strati porosi aventi umidità elevata. In

occasione di un aumento di temperatura che causa la formazione di pressione per evaporazione dell’acqua, quest’ultima non può fuoriuscire all’esterno a causa dello strato impermeabile citato ed è spinta verso il basso. Quindi il vapore condensa, causando gocciolamenti e vistose formazioni di liquido sui soffitti. Questo fenomeno si verifica frequentemente nelle prime giornate primaverili di sole e risulta veramente molto strano vedere un soffitto che gocciola quando fuori non piove.

Modalità di manifestazione della condensa

Quella condensativa è una forma di umidità di difficile interpretazione, soprattutto perché le grandezze coinvolte sono poco note al grande pubblico e le leggi fisiche che ne regolano i comportamenti interagiscono fra loro in modo veramente complesso.

Nonostante ciò, effettuando alcune semplici misurazioni strumentali e analizzando attentamente i risultati ottenuti, è possibile ottenere informazioni attendibili sui fenomeni in atto. In base all’esito dell’indagine, sarà poi possibile accertare o escludere la presenza di umidità condensativa.

La formazione di condensa si manifesta sempre a partire dalle superfici più fredde, per poi estendersi a quelle che hanno temperature via via superiori.

Nella pratica quotidiana di indagine si osserva facilmente che basta una differenza di temperatura di 1° C per far sì che sulla superficie più fredda si formi la condensa, mentre la superficie adiacente e leggermente più calda resta asciutta. Nell’arco della giornata però, a causa delle normali variazioni di temperatura dell’aria interna e delle pareti, si creano condizioni variabili anche per la formazione di condensa. Il fatto che la temperatura di un punto sulla superficie interna si trovi a una temperatura più alta rispetto a quella di rugiada nel momento della misurazione non garantisce che, al variare anche minimo delle condizioni nell’arco della giornata, la condensazione possa invece presentarsi.

Occorre quindi sapere interpretare i dati ottenuti con le misurazioni, affinché possano essere correttamente utilizzati.

Normalmente, nella pratica, si assume un valore di sicurezza di 3° C rispetto alla temperatura del punto di rugiada, per essere quasi certi che la formazione di condensa sia improbabile. Se per esempio la misurazione della temperatura superficiale indica un valore di 14° C, e contemporaneamente il punto di rugiada misurato con il termoigrometro è di 10° C, si può essere quasi certi che almeno tendenzialmente la condensa non si possa formare su quella superficie. Infatti su molte schede tecniche di prodotti vernicianti che temono l’acqua è indicata la precauzione di non applicare il prodotto se la temperatura della superficie è inferiore a quella del punto di rugiada, aumentato di 3° C. Tale prassi deriva dalla differenza fra la temperatura di bulbo umido e quella di bulbo secco, che non è applicabile ai supporti porosi, perciò non ha nulla di scientifico ed è dettata da osservazioni e conoscenze pratiche. La temperatura di bulbo secco, è quella rilevata da un normale termometro che restituisce l’effettivo valore di temperatura dell’aria. Invece la temperatura di bulbo umido è quella che si ottiene quando il bulbo del termometro è avvolto da una garza umida, e indica il valore di temperatura di equilibrio dell’acqua in fase di evaporazione. Il primo valore è indipendente dall’umidità dell’aria, mentre il secondo varia in funzione di questa. In passato si utilizzava uno strumento chiamato “psicrometro” o “igrometro a fionda”, composto da un termometro a bulbo secco accoppiato con uno a bulbo umido. Dal confronto fra i due valori si poteva ottenere il valore di umidità relativa dell’aria.

Si suggerisce di tenere debito conto di questo ultimo aspetto.

Normalmente si è portati a pensare che la formazione di muffa, localizzata in particolare negli angoli o intorno alle finestre, sia sempre una conseguenza dell’umidità da condensazione. Occorre precisare che la condensazione avviene in corrispondenza del punto di rugiada, cioè a un

determinato valore di temperatura delle superfici, in relazione alla temperatura e all’umidità relativa dell’aria. La condensazione coincide con la formazione di acqua liquida. Perciò se non si forma il liquido, non si è verificata la condensazione. Sui supporti porosi, come è già stato accennato, alla temperatura pari al punto di rugiada il liquido si forma ma viene immediatamente assorbito e non è quindi visibile.

Perciò bisogna stare molto attenti: la formazione di liquido non coincide sempre con il fatto che questo si renda evidente. Sulle superfici non assorbenti, come per esempio vetro, metallo, porcellana, ceramica smaltata, alcune vernici e alcuni tipi di plastica, quando il liquido si forma è immediatamente visibile.

Nei materiali assorbenti invece si forma ma, almeno inizialmente, non si vede.

La muffa prolifera e si sviluppa anche in assenza di acqua liquida. Le prime colonizzazioni operate da muffe, iniziano a formarsi con valori di UR del 70-80%, quindi in assenza di liquido. Perciò è vero che l’umidità da condensa favorisce la formazione di muffa, ma è altrettanto vero che la stessa muffa si forma ben prima della condensa. Anzi, generalmente la precede.

Su alcuni supporti, come per esempio sui tessuti e sui capi di pelle, a causa delle grandi quantità di sostanze nutrienti presenti le muffe iniziano a proliferare a temperature più alte rispetto al punto di rugiada, cioè con valori di UR inferiori al 100%.

È da precisare che le modalità di manifestazione dell’umidità condensativa, pur se non intuitive, sono assolutamente specifiche. Cioè si realizzano solo se i parametri di umidità e temperatura rientrano nei limiti descritti in precedenza. Al di fuori di detti parametri, le formazioni di acqua liquida di origine condensativa sono praticamente impossibili.

Fig. 5.7 Formazioni condensative sugli angoli, con proliferazioni di muffe nere.

Ponti termici

I ponti termici sono le zone dell’edificio che conducono più calore rispetto alle aree circostanti, risultando così più fredde. Possono essere dovuti alla presenza di materiali più compatti e meno isolanti o alla forma geometrica sfavorevole, oppure a entrambe le cause. Normalmente, in corrispondenza degli angoli interni di una casa si trovano anche le strutture di cemento armato, perciò i due aspetti citati si presentano spesso contemporaneamente.

Fig. 5.8 La freccia rossa indica il punto più freddo del muro, all’interno della casa. La sua temperatura più bassa è dovuta al contatto con il basamento, senza alcuna interposizione di materiale isolante. La freccia azzurra indica il freddo (inteso impropriamente come un flusso negativo di calore), che si trasferisce all’interno della casa attraverso il pavimento.

Fig. 5.9 Anche quando si realizza un rivestimento isolante a cappotto esterno, il ponte termico alla base muraria è molto difficile da correggere. La freccia rossa evidenzia un punto freddo, che favorisce la formazione di condensa.

Fig. 5.10 I ponti termici sono spesso presenti dove i materiali più isolanti sono a contatto con altri materiali che disperdono il calore più velocemente. In questo caso, i mattoni sono più isolanti e il cemento armato è più disperdente.

Fig. 5.11 Come nella figura precedente, nel caso di solaio piano anziché inclinato.

Fig. 5.12 Raro caso di condensa da pioggia battente al piede della muratura. La superficie retrostante della parete è bagnata da uno scarico di acqua piovana che sottrae calore abbassando la temperatura della base muraria. È stato accertato che non c’era alcuna infiltrazione d’acqua.

Barriera al vapore

La barriera al vapore è uno strato di materiale generalmente poco o per nulla traspirante, quindi non permeabile al vapore. Ha la funzione di impedire al vapore di attraversare l’isolante termico e la struttura e perciò serve per evitare i fenomeni di condensazione interstiziale.

Il vapore ha la naturale tendenza a migrare spontaneamente da dove la sua pressione è maggiore a dove è minore. Questa pressione è in realtà una pressione parziale, chiamata anche tensione di vapore, perciò non è in grado di esercitare alcun tipo di spinta meccanica. Il vapore nelle costruzioni non sposta nulla, può spostare solo se stesso e solo se trova materiali permeabili che si lascino attraversare.

La differenza fra le tensioni di vapore può perciò favorire il trasferimento dello stesso all’interno degli strati porosi dell’involucro edilizio. Se lungo questo percorso il vapore trova strati più freddi, come normalmente accade durante la stagione invernale nel percorso a uscire, può condensare all'interno dei muri. In estate, molto più raramente avviene il contrario, con il vapore esterno nel percorso a entrare.

La regola da rispettare per evitare questo fastidioso fenomeno, è quella di avere una muratura con permeabilità al vapore via via crescenti dall’interno verso l’esterno.

Praticamente, per impedire i fenomeni di condensazione interstiziale la barriera al vapore deve essere posizionata il più vicino possibile al lato caldo dell’elemento edile che separa l’interno dall’esterno. La parete inoltre deve essere traspirante, non per favorire la fuoriuscita di vapore dall’interno verso l’esterno, ma per consentire al vapore eventualmente intrappolato di essere evacuato senza formare accumuli.

Un altro aspetto da tenere presente è che i flussi di vapore attraverso i materiali porosi sono estremamente lenti, perciò i quantitativi di umidità trasferiti sono molto bassi.

Condensa invernale e condensa estiva

Come abbiamo accennato precedentemente, la condensazione invernale si manifesta in maniera diversa rispetto a quella estiva. La prima è la conseguenza di una superficie fredda che si trova in un ambiente interno riscaldato e generalmente è dovuta a una maggiore dispersione di calore derivante dal basso isolamento di pavimenti, solai e pareti o da ponti termici. Si tratta quindi di flussi di calore a carattere stazionario o permanente.

La seconda invece riguarda una superficie che risulta fredda per inerzia termica, cioè per avere “accumulato freddo”, rispetto all’aria ambiente estiva, che generalmente è più calda e maggiormente umida.

Il fenomeno della condensa estiva è perciò un fenomeno a carattere transitorio o temporaneo.

Negli edifici in generale, ma soprattutto in quelli con muri molto spessi e nei locali interrati, la condensa estiva si verifica più frequentemente nei primi mesi caldi. Questo perché le grosse masse di materiale hanno la tendenza a trattenere a lungo il freddo che hanno accumulato durante l’inverno e si riscaldano molto lentamente. Quindi, durante i primi caldi queste masse di materiale sono ancora piuttosto fredde e creano le condizioni per la condensazione sia superficiale che interstiziale.

Fig. 5.13 Interessante fenomeno di condensazione superficiale, che si è manifestato sulla parete interna di un locale interrato nel periodo estivo. In questo caso, la superficie fredda era idrorepellente e non ha consentito alle goccioline di condensa di depositarsi, lasciandole perciò sospese. Tutte le superfici murarie circostanti, avendo la stessa temperatura, hanno indotto la formazione di identiche quantità di acqua condensata, che è stata però assorbita e quindi non risulta visibile.

L’inerzia termica è appunto la tendenza a non variare la propria temperatura da parte delle masse di materiale costituite dai muri o dai solai, generalmente riscaldate o raffreddate dall’aria ambiente e dall’irraggiamento solare se questo è presente.

Quando si verificano variazioni di temperatura dell’aria, le masse di materiale che necessitano di molto calore per essere scaldate la seguiranno con un certo ritardo, dipendente sia dagli spessori sia dalla loro composizione chimica. All’inizio dell’estate, i muri e i pavimenti si troveranno a essere ancora freddi mentre l’aria esterna sarà già calda. Nel corso delle stagione, questa differenza si assottiglierà sempre di più fino al punto in cui le masse, che si saranno nel frattempo riscaldate, avranno temperature superficiali tali da non causare più la condensazione.

Un ultimo aspetto non banale da considerare riguardo al ricambio d’aria, è che questo non risulta necessario solo per l'evacuazione dell'umidità. Serve a eliminare anche tutti gli inquinanti contenuti nell’aria interna, come per esempio la formaldeide, l’ossido di carbonio, le polveri e tutte le altre sostanze indesiderate, compresa la CO2, che tendono ad accumularsi nell’aria domestica.

Studi condotti inizialmente negli USA e poi ripetuti in tutto il resto del mondo hanno evidenziato che l’aria interna domestica è sempre più inquinata rispetto a quella esterna. Un efficace ricambio dell’aria contribuisce enormemente a ridurre la concentrazione delle sostanze indesiderate, attraverso un processo di “lavaggio dell’aria” più propriamente chiamato di diluizione.

Principali effetti Gli effetti dell’umidità condensativa sono conseguenti alla formazione di acqua liquida. Questa può avvenire sulle superfici fredde o all’interno della massa porosa e in particolare nello spessore isolante.

Nei supporti assorbenti, come per esempio gli intonaci, il calcestruzzo o il legno, l’acqua condensata sarà inizialmente assorbita, facendo aumentare i livelli di umidità di impregnazione in maniera prima localizzata e poi via via più estesa. Solo successivamente si manifesterà come deposito in fase liquida.

Nei supporti non assorbenti, come metallo, vetro, ceramica smaltata, porcellana, superfici verniciate e alcuni tipi di plastica, si renderà immediatamente visibile sotto forma di minuscole goccioline, che accrescendo aumenteranno le loro dimensioni fino a causare il gocciolamento.

Fig. 5.14 Le gocce d’acqua sono immediatamente visibili solo sulle superfici non assorbenti, come vetro, metallo e superfici smaltate e verniciate. In tutti gli altri casi, la condensa si forma ugualmente, ma viene assorbita dai supporti porosi.

Effetti sulle pitture murali

Le prime manifestazioni sono macchie umide, principalmente localizzate nelle zone a temperatura più bassa. Sulle pitture lavabili, a causa della loro ridotta capacità di assorbimento d’acqua, le goccioline di condensa si renderanno visibili più velocemente. Talvolta, ma solo nei casi più gravi, è possibile anche un gocciolamento di acqua liquida. La forma e le dimensioni delle macchie tendono a variare sensibilmente nel tempo, anche nel corso della stessa giornata. Questo perché la quantità di condensa può aumentare o diminuire in funzione della temperatura e dell’UR dell’aria, oltre che della ventilazione. Quindi la condensa può formarsi per un dato periodo di tempo e rievaporare successivamente senza che vi sia alcun tipo di accumulo progressivo. La presenza prolungata di acqua da condensazione sulle superfici pitturate induce fenomeni di degrado, rigonfiamenti, sfogliature, macchie permanenti, formazioni di muffe e di altre attività biologiche.

Alcuni tipi di pittura contengono importanti quantità di metilcellulosa. Questo additivo esalta enormemente l’assorbimento di umidità superficiale, trattenendola a lungo e aggravando i fenomeni di accumulo. Inoltre, la metilcellulosa è il cibo preferito dalle muffe, perciò ne favorisce l’abbondante diffusione.

Effetti sugli intonaci

Inizialmente si formano macchie scure sulle zone più fredde, negli angoli e dove c’è una minore circolazione d’aria. L’umidità condensata andrà poi a diffondersi sugli intonaci, portando in soluzione i sali e rendendoli quindi mobili. Successivamente, i sali solubilizzati tenderanno a spostarsi verso la superficie, depositando polveri o patine biancastre durante la loro fase di evaporazione. Essendo l’acqua condensata piuttosto acida, eserciterà effetti corrosivi sugli intonaci, favorendo la loro disgregazione a partire dalla superficie, per poi aggredire il materiale in profondità. Alcuni componenti utilizzati per realizzare gli intonaci sono più igroscopici di altri e tendono ad accumulare quantità maggiori di umidità al loro interno, rendendone più difficile il rilascio. Il gesso, per esempio, è un materiale che tende maggiormente a trattenere l’acqua rispetto alla calce, esaltando i fenomeni condensativi. Inoltre, la calce è piuttosto basica e questo limita la formazione delle muffe, mentre il gesso è pressoché neutro e non ha la stessa capacità di contrastarle.

Effetti sulla massa muraria

I possibili effetti condensativi che interessano le masse murarie sono da ricondurre a fenomeni di lungo termine. Sono dovuti all’accumulo di condensa superficiale, che si è trasferita per diffusione all’interno delle murature nel corso del tempo, oppure alla formazione di condensa interna alla massa muraria e perciò interstiziale. Entrambi i fenomeni descritti necessitano di lunghi periodi di tempo per potersi manifestare, durante i quali le temperature e i valori di umidità dell’aria siano tali da favorire la condensazione rispetto all’evaporazione. Questo può avvenire se sul lungo termine l’acqua condensata è ampiamente eccedente rispetto a quella che naturalmente tende a rievaporare, creando così accumuli progressivi. Questa eventualità è possibile solo in casi rari, caratterizzati da assenza di isolamento termico, elevata umidità ambientale, murature molto igroscopiche e temperature permanentemente basse. I materiali utilizzati per le costruzioni che tendono maggiormente a trattenere umidità dall’aria sono quelli a base silicea o silicatica, come per esempio i laterizi, la terra cruda a composizione argillosa, le arenarie, i tufi ecc. I materiali meno igroscopici sono quelli a base calcarea o carbonatica, come i marmi, il travertino, le calcareniti, le calci ecc. I sali presenti sui materiali edili hanno sempre l’effetto di favorire l’assorbimento di umidità dall’aria e di ostacolarne l’evacuazione.

Effetti sul calcestruzzo

Normalmente, il calcestruzzo nuovo, correttamente confezionato e lavorato, è poco poroso e ha una moderata capacità di assorbire l’acqua di condensazione in superficie. Quindi avrà la tendenza a inumidirsi inizialmente, per poi bagnarsi quando la quantità di condensa supera la saturazione dei pori superficiali. Se il fenomeno si ripete a lungo nel tempo, si osserva la riduzione del pH del calcestruzzo dovuto all’acidità della condensa. Questo fatto favorisce la formazione di muffe in superficie e consente l’insediamento di altre attività biologiche. Il calcestruzzo vecchio è normalmente più poroso e ha una maggiore capacità di assorbire acqua condensata. La condensa sarà assorbita più velocemente e la formazione di muffe sarà più rapida in conseguenza del pH più basso.

Effetti sui pavimenti

La formazione di acqua liquida da condensa si verifica prevalentemente sui pavimenti molto freddi, in presenza di aria sufficientemente calda e umida. I casi più frequenti sono i pavimenti posti sui piani pilotis senza isolamento termico inferiore, che durante l’inverno hanno temperature superficiali molto basse. Un’altra situazione abbastanza frequente si ha nei mesi primaverili, quando la temperatura e l’umidità dell’aria esterna tendono ad aumentare e i pavimenti posati direttamente sul terreno hanno accumulato il freddo invernale. Questi ultimi fenomeni scompaiono generalmente dopo pochi giorni, appena le superfici interessate dal fenomeno si sono riscaldate.

È invece frequente rilevare formazioni di muffe sulle fughe fra le piastrelle. Le fughe sono più porose e hanno quindi maggiore capacità di trattenere sia l’umidità che lo sporco, facilitando la proliferazione sul lungo termine delle varie attività biologiche.

Effetti sui massetti

In condizioni particolari, è possibile che si verifichino accumuli di umidità condensativa anche sui massetti. Questo avviene solo se ci si trova con elevata umidità relativa dell’aria e con basse temperature dei pavimenti e dei solai sottostanti. In questi casi, la formazione di condensa è di tipo interstiziale. Spesso si assiste alla formazione di efflorescenze saline di colore bianco, che fuoriescono dalle fughe dei pavimenti perché l’umidità dei massetti ha sciolto i sali provocando la loro migrazione in superficie.

Effetti sui rivestimenti a cappotto

Le principali manifestazioni di condensazione che interessano i rivestimenti a cappotto si verificano sulle superfici esterne. Il fenomeno avviene in conseguenza della bassa temperatura dei rivestimenti, dovuta al forte isolamento termico rispetto all’edificio. Non ricevendo calore dal muro proprio perché sono ben isolate, le superfici esterne raggiungono facilmente e velocemente le temperature dell’aria esterna, diventando molto fredde durante la notte e bagnandosi anche copiosamente. I rivestimenti esterni, cioè gli strati di malta o di resina applicati come finitura sull’isolante, hanno una massa molto ridotta e sono impermeabili.

Il loro spessore normalmente si aggira intorno ai 3 mm, quindi non sono in grado di accumulare calore in quantità significativa e si raffreddano molto velocemente. Infatti se durante il giorno sono irraggiati dal sole si scaldano subito, facendo evaporare rapidamente la rugiada. Il problema riguarda lo sviluppo di formazioni di muffe sulle superfici esterne dei cappotti. Il fenomeno avviene maggiormente se i materiali utilizzati per le finiture non sono adatti ed è più presente nelle zone agricole e rurali rispetto alle città a causa delle temperature più basse e della grande quantità di pollini e spore nell’aria, che si depositano con la rugiada alimentando e favorendo le formazioni di muffe. Per ovviare all’inconveniente è necessario utilizzare prodotti specifici antimuffa per la finitura dei rivestimenti esterni, da rinnovare periodicamente nei casi più gravi.

Effetti sugli isolanti

Alcuni isolanti termici o acustici sono più sensibili di altri alla formazione della condensa, prevalentemente di tipo interstiziale. I materiali igroscopici, ovvero quelli che mostrano maggiore capacità di assorbire l’acqua, hanno anche la caratteristica di trattenerla più facilmente e più a lungo. Perciò è assolutamente importante evitare che su questi materiali possa formarsi la condensa. Gli isolanti più igroscopici sono quelli a base di cellulosa, la fibra di legno, la lana di roccia, e le fibre naturali. Quelli meno igroscopici invece sono il vetro cellulare, il polistirene estruso e, fra i prodotti naturali, il sughero.

Effetti sul legno

Generalmente, il legno è poco sensibile ai fenomeni condensativi. Perché è un materiale con buona capacità di isolamento termico e quindi difficilmente potrà avere la superficie abbastanza fredda, da formare condensa. E poi perché l’eventuale condensa creatasi sarebbe velocemente diffusa al suo interno, per diffusione igroscopica. Ricordiamo che il legno è costituito prevalentemente da cellulosa.

In alcuni casi limite, il legno esposto continuativamente a valori critici di elevata UR per tempi molto lunghi tende a portarsi in equilibrio con l’aria ambiente, aumentando la percentuale di acqua nella sua massa. Conseguentemente, si innescano fenomeni di marcescenza che provocano la sua irreversibile decomposizione. Il fenomeno si osserva alle estremità delle travi di legno esposte agli agenti atmosferici, nelle porzioni inserite nelle murature e nei casi in cui le condizioni siano tali da mantenere a lungo degli elevati valori di umidità relativa. È da sottolineare che il fenomeno di degrado irreversibile del legno a causa dell’umidità richiede dei tempi molto lunghi. Infatti rappresenta un serio problema per le costruzioni storiche, ma è poco frequente in quelle moderne.

Effetti sui metalli

Le superfici metalliche sono particolarmente interessate dalle formazioni di condensa, che spesso causa effetti corrosivi molto pronunciati sulle parti esposte, se queste non sono protette o verniciate. In alcuni casi limite sono possibili anche cortocircuiti degli impianti elettrici all’interno dei quali si sia formata acqua condensata. I componenti elettronici sono estremamente sensibili alla formazione di umidità al loro interno e all’ossidazione dei contatti elettrici.

Effetti sugli arredi

Sugli arredi si sviluppano purtroppo numerosi effetti dannosi, legati alla formazione di condensa di superficie e interstiziale. Basti pensare ai tappeti, che spesso si bagnano a causa della condensa che si forma sul pavimento, o ai mobili posizionati a ridosso delle pareti fredde. È frequente trovare la muffa all’interno degli armadi. Le prime manifestazioni colpiscono i capi di pelle e i tessuti, rendendoli inutilizzabili. Non si tratta in questi casi di condensazione vera e propria, perché non si raggiunge il valore limite del punto di rugiada, con UR al 100%.

Più propriamente bisogna classificarli come fenomeni igroscopici. Gli effetti secondari, conseguenti alle formazioni condensative, sono generalmente di degrado e di proliferazioni biologiche correlate alla presenza dell’acqua.

I fenomeni igroscopici saranno ulteriormente approfonditi nel successivo Capitolo 6.

Prevenzione e correttivi Per prevenire i fenomeni condensativi nell’edificio è necessario agire contemporaneamente su due fronti: tenere abbastanza alta la temperatura delle superfici all’interno dell’edificio e ridurre per quanto possibile l’umidità relativa dell’aria interna. Come è già stato ampiamente spiegato, si può agire su entrambi i parametri o su uno soltanto in funzione della specifica situazione da affrontare.

Appare ovvio che, se la temperatura di tutte le superfici interne domestiche si trova sempre al di sopra del punto di rugiada riferito all’aria presente nell’edificio, la condensazione superficiale non può avvenire. È altrettanto ovvio che una situazione del genere è piuttosto difficile da realizzare durante tutto l’anno. Ciò a causa degli inevitabili ponti termici e delle naturali oscillazioni di temperatura, nonostante l’isolamento della costruzione sia stato realizzato in maniera adeguata. Ma è ancora più ovvio che, se non si garantisce un adeguato ricambio d’aria nei locali, le formazioni condensative saranno inevitabili. Questo perché i continui apporti di vapore derivanti dallo svolgimento delle varie attività umane faranno salire progressivamente i valori di UR dell’aria interna fino a raggiungere localmente i valori di saturazione.

In questo caso, l’interno della casa è interessato dalla formazione di liquido a partire dai punti più freddi. All’interno dei locali dove si pratica il bagno turco avviene esattamente un fenomeno simile. Il vapore è continuamente immesso e l’UR è costantemente prossima al 100%, perciò l’aria interna si trova in condizioni permanenti di saturazione, a partire da quella più vicina alle pareti, ai pavimenti e ai soffitti.

La situazione del bagno turco è paradossale, e non si può verificare nella pratica quotidiana delle abitazioni, ma citarla è stato utile almeno per definire quali siano i limiti del sistema di riferimento.

Facciamo ora un ragionamento al contrario. L’isolamento termico di una costruzione non potrà mai essere realizzato in maniera perfetta, avrà limiti oggettivi legati al suo spessore e qualche ponte termico non sarà eliminabile.

In conseguenza della dispersione termica, che determina un flusso di calore in uscita dall’edificio verso l’esterno, ci saranno sempre zone interne più o meno estese dove la temperatura è inferiore. E tanto più questa è bassa, tanto maggiore sarà la dispersione termica. Perciò i fenomeni condensativi si manifesteranno proprio a partire dalle superfici caratterizzate da maggiore dispersione di calore, ovvero più fredde, chiamate appunto ponti termici.

L’altro elemento significativo, ai fini della formazione di condensa, è l’umidità relativa, il cui valore ideale negli edifici abitativi è del 50%. Si ammette una variazione possibile del 10% in più o in meno nell’edilizia tradizionale, mentre nella bioedilizia lo scostamento consentito è del 5%, sempre in più o in meno.

Fig. 5.15 Termoigrometro da parete che mostra valori ottimali di UR e leggermente alti di temperatura, rispettivamente del 50% e di 21,7° C.

Se l’umidità relativa si mantiene su questi valori, le formazioni condensative sono veramente molto rare. Possono avvenire solo se le superfici sono molto più fredde dell’aria ambiente, come per esempio in assenza totale di isolamento termico, in presenza di ponti termici significativi oppure con temperature esterne molto basse. È importante sottolineare che le proliferazioni di muffe e batteri con UR del 50%, sono pressoché nulle. Quindi questo valore è quello che dovrà sempre essere considerato l’obiettivo da raggiungere, anche ai fini della salubrità abitativa.

Le attività che si svolgono nell’abitazione sono sempre tali da fare aumentare il valore di umidità interna. Man mano che sale il valore di UR, si assottiglia sempre di più la differenza fra la temperatura ambiente e quella del punto di rugiada. Per esempio, alla temperatura di 20° C con UR del 50%, il valore del punto di rugiada è di circa 9° C. La formazione di acqua liquida si avrà quindi solo sulle superfici che si trovano a temperature pari a questa o inferiori.

Se invece ci si trova con l’aria avente sempre una temperatura di 20° C, ma a un valore di UR dell’80%, il punto di rugiada diventa di circa 16,5° C.

Ovviamente, se il valore di UR dovesse raggiungere il 100%, la temperatura dell’aria di 20° C sarebbe coincidente con il punto di rugiada e la condensazione avverrebbe dappertutto.

La norma italiana in vigore per gli edifici nuovi prevede che si calcoli il “rischio muffa” ovvero la possibilità che, in corrispondenza dei ponti termici, possa realizzarsi la condizione che innesca la formazione delle muffe, che è pari all’UR dell’80%.

I calcoli termici effettuati in conformità alla normativa sul risparmio energetico tengono conto che l’aria interna di un edificio residenziale debba avere temperatura di 20° C e UR del 65% al massimo.

Perciò anche nelle liti che insorgono fra costruttore e acquirente dell’immobile, o fra locatore e locatario, è importante riferirsi a tale parametro.

Prima di ricorrere contro l’impresa per difetti costruttivi, un proprietario di immobile dovrebbe quindi accertarsi di condurre correttamente l’abitazione, evitando di superare il valore di UR del 65%, che si riferisce al valore di calcolo. La stessa cosa dovrà fare il locatario nei confronti del locatore.

In ogni caso, il valore ottimale dell’umidità relativa in casa nel periodo invernale è sempre del 50% alla temperatura di 20° C, sia per la salute degli occupanti sia per evitare qualsiasi tipo di proliferazione biologica dannosa. Nei climi più freddi, il valore di UR può essere ridotto. L’Ufficio Federale della Sanità Pubblica svizzero (UFSP) indica come ottimale il valore del 40% con variazioni ammesse del 10% in più e in meno.

Le modalità di correzione dei ponti termici sono essenzialmente di due tipi: la correzione attiva e quella passiva.

La prima consiste nell’apportare localmente calore per innalzare di qualche grado la temperatura delle superfici, rendendo impossibili le manifestazioni di muffa e condensa. A tal proposito, è molto efficace il sistema Thermistore, meglio illustrato al paragrafo 8.3.5.2. La correzione passiva invece consiste nell’aumentare localmente la capacità isolante dell’involucro edilizio, attraverso l’applicazione di materiali isolanti opportunamente posizionati.

Fenomeni convettivi

Occorre sottolineare un aspetto non secondario, che deriva dall’instaurarsi di moti convettivi spontanei, detti anche circolazioni, che tendono a creare e ad alimentare differenze di temperatura verticali sui muri a contatto con l’esterno.

Fig. 5.16 Manifestazione di umidità condensativa, più intensa alla base del vetro.

Nella Fig. 5.16 è visibile la condensa che si forma sul lato interno, alla base dei vetri, in un edificio residenziale.

Il fenomeno è piuttosto frequente ed è spesso interpretato in maniera sbagliata. In molti casi si attribuisce la formazione della condensa a un difetto dell’infisso. Più precisamente, all’eccessiva conduzione termica di quel particolare punto della finestra o dell’elemento distanziatore del vetrocamera, che generalmente è di alluminio.

Da questa errata interpretazione nascono poi liti e contestazioni che possono dare seguito anche ad azioni giudiziarie, tanto estenuanti quanto inutili.

La domanda che naturalmente ci si pone è la seguente: “Perché è sempre e solo il lato basso del vetro a essere difettoso?”. Nei casi più gravi, in cui l’intera superficie vetrata è interessata dalla condensa, il fenomeno inizia sempre a formarsi dal lato basso, che rimane in ogni caso il più colpito dalla formazione di liquido.

Ci si accorge poi che, nonostante il vetro o l’infisso sia stato sostituito, il problema permane, sempre e solo sul lato basso. Anche provando a smontare il vetro e a rimontarlo invertito nulla cambia. Il lato che inizialmente era posizionato in basso, cioè che pareva difettoso, trovandosi nella posizione alta ha smesso di esserlo o meglio ha dimostrato di non esserlo. Quello invece che era in alto e senza difetti, nella posizione bassa ha creato problemi così come il lato precedente.

A questo punto è legittimo ritenere che il fenomeno sia dovuto a cause diverse dal difetto di costruzione o di installazione. Il fatto che l’evento sia ricorrente e che determini sempre lo stesso risultato, ci porta a credere che esistano altri fattori specifici, finora non considerati, capaci di causare il problema lamentato.

Cerchiamo di analizzare meglio la fisica degli elementi coinvolti, per capire come ciò possa avvenire. La manifestazione è visibile nei locali riscaldati, solo durante l’inverno, e la parete interessata dalla condensazione superficiale è sempre quella situata sul versante caldo, quindi la parete interna.

Pareti murarie e infissi (oltre a pavimenti e solai) realizzano la separazione fra interno ed esterno, cioè individuano due ambienti a temperatura diversa.

Nella situazione descritta, la parete diventa l’elemento attraverso il quale si instaura un flusso di calore, dall’interno verso l’esterno, cioè dal lato caldo verso quello freddo.

Fig. 5.17 Rappresentazione delle differenze di temperatura nel sistema “aria interna-vetro-aria esterna”.

Nella Fig. 5.17 è rappresentato l’andamento delle temperature, che procede dall’interno verso l’esterno nel regime invernale.

Come è noto, il calore si trasferisce seguendo le differenze di temperatura. Nell’analisi delle dispersioni termiche degli edifici, questo aspetto è molto studiato e ben conosciuto, quindi si tratta di fenomeni noti a tutti i tecnici che operano nel settore.

Si può osservare, come tra l’altro ci suggerisce la logica, che la temperatura dell’aria interna ha un andamento quasi piatto fino a qualche centimetro di distanza dalla parete. Immediatamente prima di incontrare la sua superficie, il calo di temperatura diventa più marcato. All’interno del vetro, che per semplicità abbiamo indicato come parete a singola lastra, l’abbassamento di temperatura è più pronunciato a causa dell’elevata conducibilità termica.

All’esterno avviene esattamente l’opposto. Gli strati d’aria più vicini al vetro saranno più caldi a causa dal contatto con la sua superficie, che si trova a una temperatura più alta. Sulle particelle d’aria più lontane invece, sempre che ci si trovi in aria calma, l’abbassamento della temperatura rispetto alla distanza si riduce fino ad annullarsi, raggiungendo un valore uniforme, rappresentato dalla temperatura media esterna.

La situazione che abbiamo descritto è identica in tutti i vetri del mondo, quando questi delimitano ambienti interni più caldi da spazi esterni più freddi. E lo stesso fenomeno, pur se più attenuato, si verifica anche sulle pareti murarie che si trovino in condizioni assimilabili.

Il fenomeno opposto si verifica, molto più raramente, laddove siano presenti ambienti interni più freddi ed esterni più caldi, come nei locali permanentemente condizionati o refrigerati.

Fig. 5.18 Circolazione convettiva d’aria ai due lati di una separazione fra ambienti a temperature diverse.

Effetti correlati

Lo straterello d’aria interna a contatto del vetro diventando più freddo, perciò più pesante, e tenderà a scorrere verso il basso. Appena questo scende, sarà immediatamente sostituito da altra aria calda, che a sua volta si raffredderà e si porterà anch’essa verso il basso. L’omologo strato esterno invece, inizialmente freddo, sarà scaldato dal vetro, diventerà più leggero e tenderà a salire. Anche in questo caso, lo strato che si sposta sarà prontamente rimpiazzato da altrettanta aria fredda che alimenta la circolazione.

Entrambi i fenomeni possono essere definiti come una circolazione convettiva a carattere stazionario.

Il trasferimento di calore attraverso il trasporto di materia

La Fig. 5.18 esemplifica quanto è appena stato descritto. A contatto del vetro, l’aria interna va a innescare una circolazione convettiva oraria che lambisce la superficie verticale dall’alto verso il basso. Su quella esterna invece avviene l’esatto opposto. L’aria fredda crea un movimento, sempre orario, che scorre sulla parete dal basso verso l’alto.

Nel percorso discendente lungo la superficie del vetro, le particelle d’aria interne trovano temperature via via più fredde. Questo perché la sottrazione di calore causata dalla sempre nuova aria fredda trasportata dalla opposta circolazione esterna B raffredda il vetro partendo dalla sua base.

All’esterno, l’aria a contatto con il vetro tende a salire perché diventa più calda e trova, nel suo percorso ascendente, superfici sempre più calde poiché alimentate dal calore fornito dall’opposta circolazione A.

Le due circolazioni descritte si innescano spontaneamente dove vi è una parete con differenze di temperatura rispetto all’aria. Se l’aria è più calda della parete si innesca la circolazione A, mentre se è più fredda si attiva la circolazione B.

Se invece la parete non delimita due ambienti aventi temperature diverse, e se non è riscaldata o raffreddata continuamente, il fenomeno diventa temporaneo e tende spontaneamente ad arrestarsi non appena l’equilibrio termico è raggiunto.

Per esempio, se prendiamo un vetro e lo scaldiamo per poi posizionarlo in verticale, vediamo che si innescano immediatamente le due circolazioni B su entrambi i lati. Tali circolazioni hanno l’effetto di sottrarre calore alla massa solida e tendono ad abbassare progressivamente la temperatura del vetro, finché quest’ultima non è uguale a quella ambiente e il processo non si esaurisce.

Anche in questo caso, le due circolazioni descritte andranno ad abbassare maggiormente la temperatura del vetro, a partire dal suo lato inferiore, fino al momento del loro arresto spontaneo.

La base del vetro è la parte che si trova sempre alla temperatura più bassa, in quanto la circolazione B sottrae calore, apportando un flusso continuo di aria fredda.

La temperatura minima, quindi, si trova sempre alla base del setto divisorio.

La circolazione A non è in grado di far fronte a tale squilibrio, perché le particelle d’aria discendenti che scorrono sul vetro, avranno già disperso lungo il tragitto una buona parte del loro calore residuo, giungendo alla base quasi fredde.

Sulle pareti non coibentate, le misurazioni sperimentali rilevano una differenza di temperatura fra i 2 e i 3° C misurata tra la base e la sommità dei muri perimetrali. Cioè la base del muro è sempre più fredda della sua sommità, di 2 o 3° C, quando la parete separa l’interno più caldo dall’esterno più freddo. Il fenomeno è accentuato in assenza di isolamento termico. Questa differenza prende il nome di gradiente verticale di temperatura ed è un valore da tenere presente in fase di indagine.

Sulle pareti coibentate, i moti convettivi sono sempre presenti ma in misura ridotta, poiché la presenza dell’isolante limita fortemente i flussi di calore attraverso il muro e di conseguenza tende a mantenere le temperature superficiali più vicine a quelle dei rispettivi ambienti.

Prima di entrare nella circolazione e di far parte del flusso discendente, l’aria interna era caratterizzata dai suoi valori termoigrometrici di t e di UR. Man mano che la sua temperatura durante la discesa si riduce, la sua UR tenderà a salire in accordo con il diagramma psicrometrico.

Quando l’aria raggiungerà il punto più freddo, cioè il più basso, se la temperatura di quest’ultimo sarà pari o inferiore al punto di rugiada, avverrà la formazione di condensa superficiale.

Ecco perché la condensa si manifesta sempre alla base dei vetri: perché questo è sempre il punto più freddo.

E sui muri cosa avviene? Molto semplicemente, si verifica la stessa circolazione descritta in precedenza, con qualche problema in più.

Le manifestazioni condensative si formano sui vetri, sul metallo e in generale su tutte le superfici lisce e non assorbenti, alla temperatura del punto di rugiada o inferiore, che corrisponde al valore di UR del 100%, il quale a sua volta coincide con l’equilibrio fra la pressione di saturazione del vapore e la pressione atmosferica.

In pratica, la temperatura di rugiada è il valore di t al quale avviene l’equilibrio fra evaporazione e condensazione del vapore d’acqua.

Se la superficie si trova a una temperatura più alta, l’evaporazione sarà prevalente rispetto alla condensazione, creando una riduzione netta del quantitativo di umidità contenuto sulla superficie medesima. Se invece questa si trova a una temperatura più bassa, l’apporto di acqua condensata sarà superiore a quello di acqua evaporata, dando luogo a un incremento netto di deposito liquido.

Sui supporti porosi, purtroppo, le cose cambiano.

La superficie reale di contatto fra il solido costituente la massa porosa e l’aria è enormemente più vasta rispetto a quella apparente. Se consideriamo il totale delle superfici, date dalla somma di ogni singola parete di ciascuna porosità microscopica, raggiungiamo valori molto elevati di estensione superficiale.

Quando l’aria umida si trova a contatto di pori molto piccoli, nell’ordine di 0,1 µm (micron) o inferiori, le azioni di adesione igroscopica esercitate dalle superfici diventano significative rispetto a quelle termiche. Il mezzo poroso si trova ad assorbire acqua sotto forma di vapore, anche a temperature più alte rispetto al punto di rugiada.

Quindi è vero che la formazione di acqua liquida avviene sui supporti non assorbenti in corrispondenza della temperatura del punto di rugiada. Ma è altrettanto vero che sui supporti porosi si ha un trasferimento di vapore acqueo dall’aria alle superfici dei pori anche con valori di UR molto più bassi del 100%, in funzione dell’igroscopicità dei materiali.

All’interno dei pori avverrà un fenomeno simile alla condensazione, già a partire da temperature più alte del punto di rugiada.

Pur non trattandosi di condensazione vera e propria, poiché non si forma l’acqua liquida, il fenomeno ha esattamente gli stessi effetti, cioè l’aumento della percentuale di umidità nel supporto poroso.

Per esempio, sulla carta, sul legno e su tutti i materiali che contengono cellulosa, a causa della loro elevatissima igroscopicità l’assorbimento di

umidità dall’aria inizia già a partire da valori di UR del 20%.

Se le murature contengono sali igroscopici nelle loro porosità, la quantità di umidità che queste assorbono dall’aria aumenta ulteriormente. Considerando il fatto che i sali sono sempre presenti sui supporti murari, possiamo affermare che il problema dell’assorbimento igroscopico è sempre potenziato dal contenuto salino dei materiali.

Ovvero, il trasferimento di umidità dall’aria alla muratura avviene anche in conseguenza di azioni igroscopiche, le quali tendono sempre ad accentuare i fenomeni condensativi.

Sui quasi tutti i materiali edili, il fenomeno di maggior assorbimento di umidità dall’aria, che prende il nome di condensazione capillare, inizia già con valori di UR del 50% e diventa consistente dal 65% di UR in poi.

Gli equilibri fra le azioni del vapore e quelle delle superfici sono alterati dalle forze elettrostatiche di adesione superficiale, interagenti fra le pareti dei pori e le molecole di vapore contenute nell’aria.

Il risultato finale è quello di un assorbimento d’acqua da parte del supporto poroso maggiore rispetto a quanto ci si aspetti.

Non è un caso, quindi, che il valore del 65% sia considerato anche dalle norme come percentuale limite indicata nei calcoli, al di sopra della quale le formazioni condensative sono favorite.

La norma UNI EN ISO 13788 successivamente integrata dall’art. 4 del DPR 59/09 e dal D.lgs. 28/11 al comma 17, prevede che i calcoli termoigrometrici di progetto siano elaborati considerando il valore di 20° C di temperatura dell’aria, con il 65% di UR ai fini della verifica dei ponti termici.

Come possiamo facilmente verificare con la lettura del diagramma psicrometrico della Fig. 5.19, l’aria con t = 20° C e UR = 65%, se raffreddata raggiunge il valore di UR dell’80% alla temperatura di circa 16,5° C.

Il valore limite dell’80% di UR corrisponde al cosiddetto rischio muffa, perché è a partite da questa percentuale che iniziano a formarsi le prime infestazioni. In edifici nuovi e correttamente isolati termicamente dall’esterno, comprendendo anche il naturale ponte termico costituito dalla base muraria, una differenza di 3,5° C fra la temperatura dell’aria interna e quella di una qualsiasi superficie al contatto è improbabile.

Anzi dovrebbe essere impossibile, ma sappiamo bene che è estremamente difficile riuscire a ottenere realmente questi risultati. Quindi possiamo dire che tale eventualità, pur se improbabile, è purtroppo possibile.

Nelle costruzioni vecchie, per le quali il valore di isolamento termico è più basso e la coibentazione spesso inesistente, la differenza di 3,5° C fra l’aria interna e la superficie muraria è invece non solo possibile, ma molto frequente.

Se in aggiunta alla dispersione termica per conduzione consideriamo anche gli effetti della circolazione convettiva descritta in precedenza, vediamo che la base di numerosissime murature a contatto con il terreno si trova in condizioni tali da potere assorbire umidità igroscopica dall’aria.

Pur non essendoci i valori termoigrometrici che consentono la condensazione superficiale (UR=100%), facilmente si raggiungono quelli della condensazione capillare (UR >65%) anche all’interno della parete, essendo quest’ultimo fenomeno una particolare forma di condensazione interstiziale.

Perciò ci sarà un assorbimento di umidità da parte del supporto poroso, anche consistente, senza la formazione di acqua liquida.

È verosimile perciò che un supporto poroso, rappresentato da una muratura nelle condizioni appena descritte, possa assorbire dall’aria significative quantità di umidità nel corso del tempo.

La base del muro diventerà più umida e l’eccesso di umidità tenderà a trasferirsi per diffusione da dove questa è maggiore a dove è minore, innescando un movimento di umidità che è assimilato alla risalita.

L’umidità contenuta nell’aria interna sotto forma di vapore tenderà a trasferirsi all’esterno dell’edificio, a causa della differenza di pressione parziale del vapore, attraversando strati del muro via via più freddi. La sua umidità relativa tenderà contestualmente a salire, incrementando gli effetti della condensazione capillare, pur senza avere raggiunto temperature basse quanto il punto di rugiada.

Un ulteriore fenomeno, tendente a peggiorare la situazione descritta, riguarda a questo punto la condensazione interstiziale, con formazione di acqua liquida, che opera in maniera sinergica e complementare rispetto alla condensazione capillare.

Anche in questo caso, la risalita dell’umidità muraria sarà secondaria rispetto alla causa primaria che l’ha generata, ovvero la condensazione capillare

Lettura del diagramma psicrometrico

Questo diagramma mette in relazione i diversi parametri dell’aria e del vapore acqueo. Nelle nostre valutazioni non abbiamo la necessità di prenderli in esame tutti, ma solo i seguenti quattro:

temperatura dell’aria; umidità relativa; umidità assoluta; punto di rugiada.

Tutti gli altri dati disponibili sono superflui, almeno per l’argomento trattato.

Per una lettura più comoda, il diagramma va ruotato di 90° in senso antiorario, in modo che l’asse orizzontale diventi la casella verde e l’asse verticale quella rossa.

I parametri di riferimento sono i seguenti:

Temperatura dell’aria, individuata dalle linee verticali, parallele alla casella rossa. La scala comprende valori crescenti da 0° C fino a 50° C,

disposti da sinistra verso destra.

Umidità relativa, evidenziata dalle linee curve, con valori crescenti da 0% a 100% dal basso verso l’alto. Quella azzurra indica i punti al 50%.

Umidità assoluta in grammi, rappresentata dalle linee orizzontali, parallele alla casella verde, con valori crescenti dal basso verso l’alto da 0 a 30 g/kg

Punto di rugiada, con UR al 100%, individuata dalla linea curva tratteggiata in nero.

NOTA

Le linee verticali non sono esattamente parallele, ma leggermente divergenti. Esistono diagrammi psicrometrici con le linee parallele, ma si preferisce descrivere questo perché è il più utilizzato.

L’umidità assoluta è indicata in grammi per kg di aria secca. Un m³ di aria secca a 15° C al livello del mare pesa 1,225 kg. Per ottenere i grammi per m³ di aria occorre moltiplicare i valori della casella per 1,225. Quando la temperatura aumenta, la densità dell’aria diminuisce e conseguentemente il suo peso per m³ si riduce. Tuttavia, almeno per quanto ci riguarda, non occorre alcuna correzione in quanto i valori non variano in misura sostanziale e l’errore non è significativo ai fini della nostra analisi.

Tabella 1

Tutte le linee verticali individuano punti aventi la stessa temperatura indicata nella scala in basso sulla casella verde. Per esempio, la linea rossa corrisponde ai 20° C.

Tutte le linee orizzontali indicano punti aventi la stessa quantità di vapore in grammi, indicata sulla scala a destra sulla casella rossa. La linea verde corrisponde a 7,5 g/kg = 9,2 g/m³.

Tutte le linee curve si riferiscono all’umidità relativa, con valori crescenti a partire dal basso. La linea azzurra è quella del 50% di UR, mentre la nera tratteggiata è quella del 100%, corrispondente ai punti di rugiada.

Tabella 2

La linea rossa indica l’aria che modifica la sua umidità senza variare la sua temperatura, di 20° C. Il punto più basso della linea corrisponde a un valore di 5,7 g/kg (6,9 g/m³) di umidità assoluta, riportato sulla scala a destra, che interseca la curva del 40% di UR. Con l’aumento dell’umidità, la trasformazione procede in verticale, mantenendosi sempre a 20° C, fino a raggiungere la curva nera tratteggiata del punto di rugiada, con UR del 100%. La quantità di vapore nell’aria corrispondente diventa di 14,5 g/kg (17,8 g/m³).

Tabella 3

La linea verde indica una trasformazione dell’aria che modifica la sua temperatura, senza variare la quantità di vapore contenuto in grammi. Il punto più a sinistra, sul cerchio nero, indica l’aria a 5° C con il 100% di UR, infatti coincide con la curva dei punti di rugiada, corrispondente a 5,6 g/kg (6,9 g/m³) di umidità assoluta, come indicato nella scala sulla destra. Con l’aumento della temperatura, la linea si mantiene orizzontale, spostandosi parallelamente verso destra, nel campo delle temperature più alte.

Il punto più a destra della linea verde corrisponde alla temperatura di 20° C con l’UR del 40% (come da esempio pratico riportato al 5.1.3).

Fig. 5.19 Tabella 1.

Fig. 5.20 Tabella 2.

Fig. 5.21 Tabella 3.

Flussi convettivi sulle murature

Fig. 5.22 Flussi convettivi opposti, aderenti alle superfici della stessa parete. L’aria interna scorre verso il basso raffreddandosi, mentre quella esterna si muove in maniera contraria. La base muraria è sempre il punto più freddo.

Nella disegno in Fig. 5.22 sono rappresentati i due flussi convettivi opposti, aderenti alle rispettive superfici della parete che separa l’interno

dall’esterno dell’edificio. Queste circolazioni sono innescate dalle differenze di temperatura esistenti fra l’aria e la muratura, così come è stato ampiamente descritto in precedenza.

Un ultimo aspetto che vale la pena di evidenziare riguarda l’umidità dell’aria che entra a far parte di tale flusso convettivo.

Sul lato A, l’aria interna si raffredda progressivamente durante il percorso discendente e aumenta conseguentemente la sua umidità relativa. Il punto più alto del muro sarà quindi quello dove l’aria è più calda e meno umida, mentre quello più basso avrà l’aria più fredda e più umida. Nonostante non apporti di fatto umidità aggiuntiva al locale, il flusso A rende però le condizioni dell’aria al contatto più sfavorevoli per il muro. Infatti, facilita il trasferimento di umidità dall’aria alla parete, per via dell’aumento dell’UR, e rende più difficile l’evaporazione di quella residua, a causa della sottrazione di calore e del conseguente abbassamento della temperatura.

Sul lato B invece la situazione è opposta. Nel movimento ascendente, l’aria riceve calore dal muro, aumentando la sua temperatura, e di conseguenza ridurrà la sua umidità relativa. Sarà perciò più secca (anche qui in valore relativo e non assoluto), favorendo il trasferimento di umidità dal muro verso l’aria.

Perciò la circolazione interna è sfavorevole, perché crea condizioni tali da trattenere l’umidità muraria ostacolando la sua evacuazione, mentre quella esterna è vantaggiosa perché tende sempre a “lavare via” l’umidità del muro, asciugandolo.

L’acqua che viene assorbita dalla base muraria a causa dei fenomeni capillari e igroscopici che si manifestano sui materiali da costruzione potrà essere allontanata solo per evaporazione, cioè apportando calore. Quando il calore è fornito solo dall’aria, l’asciugatura richiede tempi molto lunghi ed è fortemente ostacolata dai fenomeni igroscopici e dalla presenza di sali solubili nelle murature.

La circolazione convettiva, invece, nei casi più gravi sarà tale da apportare localmente ulteriore acqua alla base muraria, facendo condensare il vapore presente nell’aria e generando un contributo netto positivo di umidità sulle superfici. Negli altri casi sarà sempre in grado di abbassare la temperatura al piede della muratura, rendendo più difficoltosa o addirittura impossibile la sua asciugatura spontanea.

Un’ulteriore circostanza dannosa è il naturale ponte termico costituito dalla base muraria, che si trova a permanente contatto con il terreno.

La condensazione, a questo punto non più superficiale (al 100% di UR), ma capillare (oltre il 65% di UR) avverrà all’interno della massa porosa costituita dalla muratura, in inverno come in estate. E la circolazione convettiva farà in modo di ostacolare ed eventualmente impedire la sua rievaporazione, sottraendo continuamente calore o, peggio, apportando localmente altra umidità.

È possibile perciò che alcuni fenomeni condensativi siano confusi con l’umidità di risalita. Bisogna sottolineare che, mantenendo abbastanza bassi i valori di UR dell’aria interna, la formazione di condensa superficiale o interstiziale, anche eventualmente di natura capillare, non può avvenire. Le circolazioni convettive non subiranno invece alcuna modificazione.

La cappa della cucina

In numerose abitazioni è frequente che la cappa della cucina non sia collegata con l’esterno, ma che funzioni solo con il ricircolo. Questa condizione non favorisce la corretta evacuazione dei fumi e dei vapori di cottura.

È assolutamente necessario che l’impianto di evacuazione della cappa sia correttamente collegato con l’esterno e che sia utilizzato frequentemente. Questo accorgimento, da solo, è in grado di correggere circa il 30% dei problemi causati dall’accumulo di vapore nell’edificio, oltre a quelli dovuti alla scarsa ventilazione.

Fig. 5.23 La cappa della cucina è un elemento essenziale per garantire la corretta evacuazione di fumi di cottura e vapore in eccesso. Generalmente, le abitazioni che soffrono maggiormente i problemi di condensa sono quelle in cui la cappa non è collegata con l’esterno. La cappa raffigurata nell’immagine è dotata di un dispositivo che funge da VMC (Ventilazione Meccanica Controllata, si veda oltre) a singolo flusso, attraverso un'evacuazione controllata dell'aria interna. Questo accorgimento è molto utile per ridurre gli eccessi di umidità negli edifici abitativi. (Immagine gentilmente concessa da Cappe Baraldi S.r.l. www.cappeberaldi.it)

Fattore di forma dell’edificio

Altri aspetti, spesso sottovalutati, che favoriscono i fenomeni condensativi sono la forma dell’edificio e il suo rapporto fra superfici esterne e volume interno. Le dispersioni termiche e le conseguenti formazioni condensative avvengono sull’involucro, cioè sulle superfici esterne della costruzione. A parità di condizioni climatiche, di materiali costruttivi e di utilizzo dell’edificio, le dispersioni saranno maggiori se le superfici di contatto con l’esterno sono più estese rispetto al volume della costruzione. La forma geometrica solida che ha la minore superficie rispetto al volume è la sfera. Quindi, quanto più l’edificio si avvicina alla forma compatta sferica tanto meno calore potrà disperdere a parità di volume.

Oltre alla forma, anche la dimensione complessiva gioca un ruolo assai importante. A parità di forma geometrica, più le dimensioni sono piccole maggiore sarà il rapporto fra la superficie e il volume.

Esempio: immaginiamo di avere un cubo di un metro di lato. La sua superficie esterna è pari a 6 x 1 x 1 = 6 mq e il suo volume è di 1 m³. Abbiamo quindi un rapporto fra superficie e volume di 6 mq per m³.

Se invece prendiamo in esame un cubo più grande, con il lato di 2 metri, la sua superficie esterna sarà di 6 x 2 x 2 = 24 mq, e il suo volume invece di 2³ = 8 m³. In questo caso il rapporto fra superficie e volume sarà di 3 mq per m³.

Gli edifici più piccoli e quelli aventi forme articolate e complesse sono maggiormente soggetti ai fenomeni condensativi. In questi casi sarà ancora più importante mantenere basso il valore dell’UR interna, al fine di impedire il manifestarsi delle condense.

Panni stesi

Bisogna evitare di stendere i panni dentro casa. Quando ciò non è possibile, è necessario provvedere prontamente a evacuare la maggiore umidità apportata, mediante un incremento di aerazione.

In ultima analisi, la strategia più efficace per impedire la formazione di condensa consiste nel tenere abbastanza bassi i valori di UR dell’aria interna. Questo può essere ottenuto agevolmente attraverso una corretta aerazione o ventilazione dei locali.

Ulteriori risultati vantaggiosi si ottengono anche agendo sulle temperature superficiali interne, evitando il riscaldamento intermittente, e attraverso la correzione dei ponti termici. Una pratica che sta prendendo sempre più piede è quella che prevede l’installazione di rivestimenti interni fortemente igroscopici, come per esempio gli intonaci d’argilla, con la funzione di tampone all’umidità.

Aerazione e ventilazione

Sono i sistemi più efficaci per prevenire e per risolvere la formazione di effetti condensativi negli edifici. Il termine aerazione si riferisce al ricambio d’aria ottenuto naturalmente aprendo le finestre, mentre la ventilazione ottiene lo stesso risultato utilizzando ventole motorizzate.

Aerazione

L’aerazione è il sistema più semplice e noto per evacuare l’umidità dell’aria in eccesso. Consiste nell’aprire le finestre a intervalli più o meno regolari, consentendo all’aria interna umida e viziata di uscire e all’aria esterna più secca e pulita di entrare. Si ottiene così un controllo dei valori di UR interna. Impiegando questo metodo, la perdita di calore è totale. Ogni volta che si aprono le finestre tutta l’aria calda esce e tutta l’aria fredda entra. Il calore disperso in questo modo rappresenta una quota significativa del fabbisogno termico dell’edificio. Nelle costruzioni datate, il ricambio d’aria naturale contribuisce per circa il 30% al totale delle dispersioni di calore e in quelle più recenti e più isolate raggiunge e spesso supera il 50%. Negli edifici ad alta e altissima efficienza energetica, come per esempio in quelli di classe A e superiori, fino agli NZEB (Near Zero Energy Building) ovvero le costruzioni a consumo energetico prossimo allo zero, la modalità di ricambio dell’aria tramite aerazione naturale non è addirittura ammessa, se può determinare una dispersione di calore.

Il fatto che fino alla metà dell’energia necessaria per riscaldare la casa sia letteralmente buttata via dalla finestra ormai rappresenta una soluzione non più praticabile.

Sono stati sviluppati nel tempo diversi sistemi che consentono una corretta sostituzione dell’aria, recuperando buona parte del calore che andrebbe altrimenti disperso con i ricambi naturali.

Ventilazione

VMC Ventilazione meccanica controllata

Fig. 5.24 Schema di uno scambiatore di calore a flussi incrociati. L’aria interna calda è espulsa e cede gran parte del suo calore a quella fredda esterna, che è immessa contemporaneamente. I due flussi d’aria sono separati all’interno dello scambiatore di calore e non entrano mai in contatto. In questo modo si ottiene un recupero energetico che raggiunge il 90%. (Immagine gentilmente concessa da Vortice Elettrosociali S.p.a. www.vortice.it)

Si tratta di apparati che consentono di ricambiare l’aria negli edifici in maniera automatica senza la necessità di aprire le finestre, garantendo nel contempo un efficace risparmio energetico. Generalmente prevedono l’estrazione forzata dell’aria viziata interna e la contestuale immissione di

aria esterna, eventualmente filtrata, in maniera spontanea o per mezzo di elettroventole.

I VMC possono essere a semplice flusso o a doppio flusso.

Sistemi a semplice flusso

L’aria interna è estratta per mezzo di ventole motorizzate e la depressione creata nei locali fa sì che l’aria esterna possa entrare spontaneamente attraverso le bocchette di ripresa. Queste sono eventualmente regolabili in base ai parametri dell’aria interna, come per esempio l’umidità o la presenza di sostanze volatili o di altri inquinanti, oppure sono a portata d’aria costante. Pur essendo classificati come sistemi di ventilazione meccanica controllata, sono più propriamente sistemi di estrazione d’aria leggermente più evoluti di quelli tradizionali.

Infatti non consentono alcun tipo di recupero termico, tengono l’intero edificio in permanente depressione e, in qualche modo, possono essere assimilati a spifferi controllati. Infatti consentono all’aria esterna di penetrare all’interno dell’edificio attraverso le bocchette, in maniera dosata. Tutti gli impianti esistenti prevedono che l’aria sia estratta dai locali dove si genera più vapore, come bagni e cucine, e che invece sia immessa nei locali più nobili come le camere da letto e i soggiorni. Perciò si dovrà tenere conto che in questi ultimi locali, almeno nel regime invernale, vi sia un’immissione continua di aria fredda proveniente dall’esterno. Sono decisamente più economici dei sistemi a doppio flusso e assicurano in ogni caso una corretta stabilizzazione dell’UR interna. Sono però sempre meno utilizzati a favore dei sistemi a doppio flusso con recuperatore di calore.

Sistemi a doppio flusso

Si tratta di sistemi di ventilazione più completi, che realizzano due distinti flussi d’aria forzati, uno in estrazione e l’altro in immissione. Generalmente, gli apparati e gli impianti a doppio flusso utilizzano recuperatori di calore statici a flussi incrociati o in controcorrente.

Il flusso di aria calda in uscita trasferisce il calore all’aria fredda in entrata attraverso uno scambiatore, nel quale i due flussi lambiscono due lati opposti di un setto separatore di plastica o di metallo, senza mai miscelarsi. Gli impianti più evoluti utilizzano scambiatori a disco rotante ad alto rendimento o pompe di calore che trasferiscono l’energia termica in maniera più efficiente.

Esistono diversi tipi di impianto, realizzati in base alle varie necessità di utilizzo degli edifici.

Fig. 5.25 Schema di VMC centralizzata condominiale a doppio flusso. (Immagine gentilmente concessa da Rossato Group S.r.l. www.rossatogroup.com)

VMC condominiali

Sono impianti del tipo pluriedificio, nei quali un’unica unità di ventilazione gestisce più abitazioni dello stesso complesso edilizio e quindi necessita di apposite canalizzazioni d’aria che raggiungano ogni singola unità abitativa nei vari piani, realizzando i ricambi d’aria necessari. Derivano dagli impianti generalmente usati negli uffici e nelle grosse strutture e sono impiegati nei

condomini. Sono utilizzati raramente nei lavori di ristrutturazione, a causa della complessità di inserimento delle canalizzazioni, mentre nel nuovo rappresentano un sistema efficace ed economico di ventilazione meccanica controllata.

VMC per singole unità abitative

Nelle applicazioni più comuni, cioè quelle che riguardano una singola abitazione, si utilizzano normalmente due categorie di impianti, i centralizzati e i decentralizzati.

Impianti centralizzati

Fig. 5.26 Schema di un impianto domestico centralizzato. L’aria viziata è estratta dai bagni e dalla cucina e quella fresca è immessa nelle camere e nel soggiorno. (Immagine gentilmente concessa da Vortice Elettrosociali S.p.a. www.vortice.it)

Rientrano nella categoria dei centralizzati tutti gli impianti dotati di una singola unità di ventilazione, atta a garantire l’intero fabbisogno di ricambi d’aria della casa. Necessitano di due fori comunicanti con l’esterno, uno di immissione dal quale entra l’aria esterna pulita che poi andrà distribuita in tutta la casa, l’altro di estrazione da cui l’aria interna viziata è invece espulsa. All’interno dell’unità di ventilazione sono generalmente presenti alcuni filtri con vari livelli di prestazione ed efficienza, lo scambiatore di calore e sistemi di misurazione e controllo dei parametri dell’aria, sia in

ingresso che in uscita. All’unità ventilante sono collegate diverse canalizzazioni di immissione, generalmente in numero variabile da 4 a 6, e altrettante di ripresa, che raggiungono i diversi locali dell’abitazione per mezzo di tubazioni e terminano con griglie e diffusori di varia forma e dimensione.

Hanno una portata variabile dai 100 ai 400 m³/h, un rendimento di recupero fra il 75 e il 95% e consumi elettrici fra i 30 e i 150 W. Generalmente sono dotati di filtri di categoria fine, in classe F7 o F9, che filtrano efficacemente anche i pollini. Possono facilmente essere installati sul nuovo, mentre nei lavori di ristrutturazione risultano talvolta problematici, perché necessitano di varie opere di canalizzazione e di controsoffittatura piuttosto invasive.

Apparati puntuali o decentralizzati

Fig. 5.27 Schema di apparato VMC domestico puntuale installato a parete. (Immagine gentilmente concessa da Siegenia-Aubi S.rl. www.siegenia.com)

Sono costituiti da piccole unità ventilanti, generalmente di potenza variabile dai 2 ai 40 W, con portate fra i 20 e i 70 m³/h e rendimenti fra il 70 e il 92%, adatti a gestire il corretto ricambio d’aria in un solo locale (Single Room).

Gli apparati disponibili in commercio possono essere di due tipi: a flusso continuo, quando realizzano contemporaneamente l’immissione e l’espulsione, oppure a flusso ciclico se lo fanno in modalità alternata.

Generalmente hanno filtri molto semplici di categoria grossa, in classe G3 o G4, e più raramente di categoria fine in classe F7 o F9. La quasi totalità degli apparecchi esistenti utilizza il foro (o i fori) di comunicazione con l’esterno solo per consentire il passaggio dell’aria e in questi casi il diametro è fra i 100 e i 120 mm.

Tutti i produttori raccomandano che il foro sia leggermente inclinato verso l’esterno (almeno 3%) per consentire l’evacuazione dell’eventuale condensa.

Alcuni fra i sistemi più moderni ed efficienti, invece, sono interamente alloggiati all’interno del foro parete, che in questi casi dovrà essere di maggiore dimensione. Al momento sono presenti sul mercato diversi apparati con diametro dai 150 ai 350 mm, che si installano all’interno del foro parete.

I VMC decentralizzati a flussi continui non possono generalmente funzionare a temperature inferiori a -5° C, a causa della formazione di ghiaccio al loro interno. Quelli a flusso ciclico invece sono attivi fino ai -20° C.

Sistemi bilanciati e sbilanciati

Gli apparati a flussi continui si possono suddividere in due gruppi distinti: bilanciati e sbilanciati.

Se la portata dell’aria in entrata è identica rispetto a quella di uscita, gli apparati sono detti “a flusso bilanciato”, mentre tutti gli altri sono “a flusso

sbilanciato”.

Generalmente, gli impianti a flusso sbilanciato hanno una portata di estrazione superiore a quella di immissione. Infatti talvolta vengono anche chiamati “estrattori con recupero di calore”, perché concettualmente derivano da tali apparecchi.

I flussi sbilanciati a prevalente estrazione creano una depressione nel locale dove sono installati. Questo fatto rappresenta un problema, sia perché aumenta l’entità degli spifferi, sia perché la depressione non è ammessa nei locali dove sono presenti stufe, caldaie, camini o più in generale dove vi sia combustione.

Un altro elemento a sfavore è il rendimento complessivo più basso, perché la differenza fra il flusso in uscita e quello in entrata sarà compensata dall’ingresso di nuova aria fredda non trattata, attraverso gli spifferi alimentati appunto dalla depressione.

Un problema ben più serio è rappresentato dal gas radon, che è richiamato dalla depressione presente nei locali se ci si trova al pianterreno.

Per i motivi descritti, è sempre preferibile non utilizzare apparati che generano depressione nei locali domestici.

Esistono anche dei sistemi a flussi sbilanciati a prevalente immissione, che creano una lieve sovrappressione all’interno dell’edificio, sconosciuti in Italia e impiegati soprattutto in Gran Bretagna. Non migliorano il

rendimento termico complessivo dell’edificio, ma sono efficaci nel prevenire sia l’eccesso di umidità sia gli effetti del radon.

VMC decentralizzati a flussi continui

In questi apparati il flusso di immissione e quello di estrazione sono rispettivamente generati in maniera continua da due distinte elettroventole. Il calore dell’aria estratta è parzialmente trasferito su quella immessa per mezzo di uno scambiatore, generalmente a flussi incrociati.

VMC decentralizzati a flusso ciclico

I sistemi descritti precedentemente, sono anche chiamati “a flussi continui”, perché l’aria in ingresso e quella in uscita realizzano contemporaneamente flussi continui. Uno è sempre in entrata e l’altro è sempre in uscita, anche se eventualmente sbilanciati. Una novità di rilievo nel settore della VMC, è stata l’idea della tedesca inVENTer, brevettata oltre 20 anni fa. Si tratta di un apparato di ventilazione con accumulatore rigenerativo, nel quale una sola ventola aziona un flusso d’aria con ciclo alternato. Per 70 secondi in estrazione e per altrettanti in immissione. L’aria è fatta passare attraverso un cilindro di ceramica a nido d’ape, dotato di numerosi fori longitudinali paralleli fra loro.

Fig. 5.28 Immagine di un apparato decentralizzato a flusso ciclico modello Ventolino, prodotto in Italia. (Immagine gentilmente concessa da Ventolino S.r.l. www.ventolino.it)

Il suo funzionamento prevede due fasi, estrazione e immissione.

Fase di estrazione: l’aria interna calda è estratta dalla ventola e passa attraverso il cilindro ceramico freddo. In questo modo cede il calore sensibile derivante dalla sua maggiore temperatura, oltre a quello latente dovuto alla condensazione del vapore, al cilindro ceramico che funge da accumulatore di calore.

Fig. 5.29 I sistemi a flusso ciclico alternato, derivati dalla inVENTer, generano nel primo ciclo un flusso d’aria in uscita per circa 70 secondi, che accumula il calore nel cilindro rigenerativo di ceramica a nido d’ape. Nel ciclo successivo invertono la rotazione della ventola, così che l’aria esterna fredda possa riscaldarsi attraversando il cilindro. Il lato interno dell’accumulatore ceramico tenderà a mantenersi sempre più caldo rispetto a quello esterno.

Fase di immissione: durante il ciclo inverso avviene l’opposto. La ventola inverte il senso di rotazione e il flusso di aria esterna fredda in ingresso attraversa il cilindro caldo aumentando la sua temperatura.

Oltre al calore, l’aria in ingresso recupera anche una buona parte dell’umidità precedentemente accumulata sul cilindro.

Un apparato di questo tipo ha un rendimento che raggiunge il 91%, e utilizza un solo motore della potenza di 3 W.

Gli apparati VMC a flusso ciclico sono permanentemente sbilanciati, sia nella fase di estrazione sia in quella di immissione. Quindi è vero che il singolo dispositivo ha un rendimento molto alto, ma è altrettanto vero che durante ciascuna delle sue due fasi si realizzano nell’edificio condizioni di depressione e di sovrappressione tali da esaltare l’azione degli spifferi, vanificando gran parte dell’efficienza di tale apparato.

Sono stati perciò sviluppati scambiatori rigenerativi che utilizzano in accoppiata due apparati inseriti nel medesimo foro oppure installati in due posizioni diverse dello stesso locale. Possono inoltre essere montati in locali adiacenti e comunicare fra loro tramite Wi-Fi per funzionare in modalità sincronizzata alternata. Quindi mentre uno immette, l’altro estrae e viceversa. Con l’impiego di due apparati sincronizzati il problema dello sbilanciamento è eliminato.

Bisogna inoltre evidenziare che i recuperatori rigenerativi trattengono una buona parte dell’umidità condensata nella massa del cilindro di ceramica, per poi restituirla durante il ciclo successivo. Quindi non sono efficaci quanto gli apparati a flussi continui nell’estrarre l’umidità dagli ambienti.

VMC decentralizzati integrati nel foro finestra

Una recente innovazione nel settore della VMC decentralizzata è costituita dalla possibilità di inserire un apparato in adiacenza all’infisso, al suo interno, oppure in posizione immediatamente affiancata, ma comunque a scomparsa. Ciò consente di ottenere molteplici vantaggi in termini di praticità e di efficienza, poiché la ventilazione è localizzata esattamente sull’infisso, che appunto nasce da questa esigenza di ricambiare l’aria. Impiegando apparati di questo tipo si ottengono valori molto validi di recupero energetico, filtrando l’aria immessa all’interno dei locali con vari livelli di efficienza. Tali apparati possono anche essere gestiti da appositi sistemi di regolazione e controllo, eventualmente integrabili con gli apparati domotici già presenti nell’edificio.

Fig. 5.30 I sistemi VMC possono vantaggiosamente essere integrati nel foro finestra, coniugando praticità di utilizzo ed estetica. Sistemi come

quello rappresentato in figura sono particolarmente validi negli edifici ad alta e altissima efficienza energetica. (Immagine gentilmente concessa da Alpac S.r.l. Unipersonale www.alpac.it)

HRV e ERV

I sistemi di ventilazione domestica sono inoltre suddivisi in due distinti gruppi, secondo le modalità impiegate per recuperare il calore e cioè:

HRV (Heat Recovery Systems); ERV (Energy Recovery Systems).

La differenza fra gli HRV e i ERV è che i primi recuperano solo il calore sensibile dall’aria esausta mentre i secondi, detti anche entalpici, recuperano anche il calore latente di condensazione e sono quindi più efficienti. Per questo motivo il rendimento dei sistemi ERV può anche superare il 100%.

Effetti del recupero di energia

Un aspetto poco conosciuto dei sistemi VMC è che possono realizzare recuperi di calore veramente molto interessanti.

Esempio: immaginiamo una situazione reale nel regime invernale, in cui l’aria in uscita è caratterizzata da t = 20° C, con una portata di 50 m³/h e

l’aria in ingresso si trova con t = 0° C, con lo stesso valore di portata. Questa condizione si verifica molto frequentemente nelle giornate invernali. La maggior parte dei sistemi VMC attualmente disponibili in commercio è in grado, attraverso il recuperatore, di portare l’aria immessa a una temperatura di circa 15/16° C.

Per garantire lo stesso ricambio d’aria in assenza del sistema VMC si dovrebbero aprire le finestre e l’aria immessa sarebbe quella esterna, a 0 anziché a 15° C. Se dovessimo scaldare l’aria in ingresso, per esempio con una resistenza elettrica, sarebbero necessari circa 250W per portare 50 m³/h d’aria da 0 a 15° C. Un apparato VMC delle caratteristiche descritte consuma, a seconda dei casi, dai 5 ai 30W ed è in grado di recuperarne 250.

L’esempio non è rigoroso, perché occorre considerare che una parte del vapore dell’aria espulsa cede il suo calore di condensazione all’interno dello scambiatore all’aria immessa, andando a incrementare ulteriormente la potenza termica trasferita.

A questo punto è facile comprendere quanto sia vantaggioso l’uso di un apparato VMC, anche ai fini del risparmio energetico.

L’umidità igroscopica

Generalità L’igroscopia è l’attitudine di un materiale ad assorbire umidità dall’aria, mentre l’idrofilia è la facilità con la quale un materiale è in grado di assorbire acqua liquida.

Le due caratteristiche non coincidono: materiali come il legno e i filati di lana, per esempio, sono fortemente igroscopici ma solo moderatamente idrofili. Anche per ciò che riguarda gli edifici si tratta di due fenomeni ben distinti. Il primo si riferisce al contatto delle superfici con l’aria umida e il secondo a quello con l’acqua liquida. I vari materiali utilizzati nelle costruzioni hanno capacità diverse di assorbire umidità dall’aria, in funzione dei parametri seguenti:

Fattori ambientali

Umidità relativa dell’aria UR (non quella assoluta); Temperatura dell’aria e del supporto.

Fattori dipendenti dal materiale

Composizione chimica.

Presenza di impurità sul materiale, come per esempio sali, anch’essi igroscopici. Dimensione e forma delle porosità.

In particolare, i fenomeni igroscopici aumentano:

Per i fattori ambientali

Con UR alta. Con temperature basse.

Per i fattori dipendenti dal materiale

Sui materiali contenenti cellulosa, sui laterizi poco cotti e sui composti del silicio. In presenza di sali igroscopici. Quando i pori del materiale sono molto fini e comunicanti.

Per un dato materiale in equilibrio con l’aria si avranno perciò diversi valori di acqua assorbita, in funzione dell’umidità relativa e della temperatura.

Il raggiungimento dell’equilibrio igrometrico, che in realtà è un equilibrio dinamico, si realizza quando la quantità delle molecole d’acqua che si staccano dalle superfici del supporto poroso per diffondersi nell’aria corrisponde esattamente a quella delle molecole d’acqua che dall’aria si depositano sulle stesse superfici dei pori.

Assorbimento e deassorbimento

Quando un materiale poroso si trova a contatto con aria avente umidità relativa crescente, si instaura un flusso di molecole d’acqua (sotto forma di vapore) detto di assorbimento, che si trasferisce dall’aria al materiale. L’inversione del fenomeno prende il nome di deassorbimento o disassorbimento. Il diagramma che mette in evidenza il fenomeno è detto diagramma isotermo di isteresi igrometrica e individua le due curve in funzione di una data temperatura.

Ogni temperatura ha una sua coppia di curve specifica per ciascun materiale esaminato.

In particolare si osserva che i fenomeni di assorbimento sono più intensi alle basse temperature e tendono ad attenuarsi quando queste aumentano. Un altro aspetto interessante è che la curva di assorbimento non coincide con quella di deassorbimento, ma si trova più in basso rispetto a quest’ultima.

Durante la fase di assorbimento, quando si raggiunge un dato valore di UR dell’aria ambiente il mezzo poroso si troverà a contenere una quantità di umidità ben precisa. Nella fase di deassorbimento invece, per lo stesso valore di UR dell’aria ambiente il quantitativo di umidità contenuta nel mezzo poroso sarà maggiore.

Esistono perciò due diversi quantitativi di contenuto d’acqua nel mezzo poroso, entrambi in equilibrio con l’aria ambiente. Uno più basso, che si

riferisce alla fase di assorbimento, e uno più alto correlato alla fase di deassorbimento.

Perciò i materiali evidenziano una maggiore facilità a legarsi con l’umidità di quanta non ne abbiano a rilasciarla. La assorbono agevolmente e la cedono con difficoltà. Ha poco senso quindi riferirsi all’umidità di equilibrio del sistema “mezzo poroso-aria ambiente”, se non si tiene conto della storia recente dei parametri ambientali nei quali sono inseriti tali elementi.

Un mezzo poroso che si trova in fase di deassorbimento o, se preferiamo, di asciugatura tenderà a portarsi in equilibrio con l’aria ambiente, con una quantità di umidità residua sicuramente più alta rispetto allo stesso materiale posto a contatto della stessa aria ambiente, ma originariamente più asciutto.

Fig. 6.1 Diagramma di isteresi igroscopica. A parità di temperatura, i materiali contengono quantità maggiori di umidità durante la fase di asciugatura rispetto a quella di assorbimento.

Fig. 6.2 Fenomeno dell’isteresi igroscopica nel legno. A parità di altre condizioni, l’umidità di equilibrio raggiunta mediante adsorbimento è diversa rispetto al desorbimento. In condizioni di umidità ciclica, l’equilibrio tende verso uno stato intermedio (Hoadley 1998).

Isteresi igroscopica

Un semplice esperimento sarà utile per capire il fenomeno dell’isteresi igroscopica.

Prendiamo due elementi dello stesso materiale poroso, per esempio due mattoni, uno proveniente da un ambiente più umido e l’altro da uno più secco alla stessa temperatura. Mettiamo entrambi i mattoni in uno stesso ambiente, diverso dai primi due, avente un valore intermedio di UR e la stessa temperatura dei due ambienti precedenti. Il mattone inizialmente più umido tenderà ad asciugarsi, mentre quello che era più asciutto tenderà a inumidirsi.

Al completamento del processo, possiamo osservare che i due mattoni raggiungeranno due diversi valori di equilibrio con l’aria. Non conterranno cioè la stessa quantità d’acqua. Quello che in origine era più umido resterà più umido, pur essendo entrambi in equilibrio con l’aria ambiente e avendo raggiunto ciascuno la propria stabilizzazione.

I fenomeni osservati mostrano che i supporti porosi sono spontaneamente portati più ad assorbire che a rilasciare l’umidità dell’aria.

L’esperimento descritto ci fa capire perché una misurazione di umidità muraria di qualsiasi tipo ha un suo errore implicito dovuto al fatto che non tiene conto dell’isteresi igroscopica. Perciò ha senso effettuare le misurazioni dell’umidità sui supporti porosi, in relazione per esempio alle

verifiche sui lavori di deumidificazione, solo con cadenza annuale. Mentre non ha senso farle ogni sei mesi o a intervalli diversi che non tengano conto della ciclicità termoigrometrica naturale.

Impiegando un termine improprio ma piuttosto comprensibile e intuitivo, possiamo immaginare che l’umidità contenuta nei supporti porosi abbia una memoria, che tende a opporsi ai cambiamenti indotti dall’ambiente, cercando di mantenere le condizioni precedenti. Quindi, se il supporto era umido tenderà a restare più umido rispetto a quanto farebbe se provenisse da una condizione precedente di asciutto, e viceversa.

Adsorbimento e absorbimento

L’assorbimento igroscopico complessivo corrisponde alla totalità dei fenomeni di trasferimento del vapore d’acqua dall’aria alle superfici dei materiali.

L’adsorbimento è l’adesione delle molecole di gas e vapore sulle superfici di un solido, mentre l’absorbimento fisico riguarda la diffusione e l’intrappolamento di una sostanza fluida all’interno di una matrice porosa.

Questi fenomeni hanno origine da tre distinte e specifiche modalità, che intervengono nella realizzazione dei legami di interazione fra la fase solida del materiale e quella del vapore acqueo contenuto nell’aria.

Le prime due, quelle utili alla nostra analisi, riguardano i fenomeni di adsorbimento e di absorbimento e si verificano nel mezzo poroso insaturo, cioè con i pori non completamente pieni d’acqua. L’ultima è citata solo per completezza, e si riferisce a fenomeni nei quali l’UR è prossima al 100%.

Quando il supporto poroso raggiunge la completa saturazione, i fenomeni igroscopici sia di adsorbimento che di absorbimento cessano e si instaura la capillarità, come sarà meglio descritto nel Capitolo 8.

Fig. 6.3 Il diagramma mette in relazione il contenuto d’acqua nel mezzo poroso con l’umidità relativa

Fig. 6.4 Le molecole d’acqua possono essere presenti all’interno di un mezzo poroso secondo diverse modalità, dipendenti dall’UR e dalla dimensione dei capillari. Con valori di UR modesti, queste aderiscono inizialmente alle superfici dei pori più piccoli, sotto forma di strato monomolecolare. Aumentando l’UR, le molecole d’acqua si depositano in strati successivi multimolecolari, interessando pori di dimensioni via via maggiori. Per valori ancora più alti di UR, si forma la condensazione capillare e il vapore all’interno di pori si comporta come se fosse un liquido denso. Oltre un certo limite del contenuto d’acqua nel supporto poroso, l’adsorbimento si completa e si instaura l’imbibizione. L’adsorbimento e l’imbibizione cessano con l’assorbimento capillare (Moisture Storage Function, Fraunhofer Institut, IBP Holzkirchen).

Descrizione del fenomeno

Fig. 6.5 Adesione di una molecola d’acqua alla superficie solida.

Gli atomi disposti sulle superfici di un solido si comportano in maniera diversa rispetto a quelli presenti negli strati più profondi. Le cariche elettriche che determinano le forze di coesione fra atomi o molecole adiacenti sono particolarmente intense e contribuiscono a conferire rigidità e resistenza ai materiali solidi. Come illustrato nella Fig. 6.5, la particella B è

circondata da altre particelle simili e le sue cariche elettriche sono più equilibrate rispetto alla particella A che è invece situata sulla superficie. Lo squilibrio di carica elettrica superficiale del solido è tale da attrarre le particelle mobili dotate di carica squilibrata che si trovano nelle immediate vicinanze, come per esempio la molecola di vapore evidenziata con la lettera C.

Il fenomeno prende il nome di adsorbimento, e riguarda l’adesione sulla superfice solida di atomi o molecole presenti nell’aria ambiente sotto forma di vapore.

Fig. 6.6 Adsorbimento monostrato secondo l’Ipotesi di Langmuir.

Il legame fra le molecole adsorbite e la superficie deriva da forze elettrostatiche di adesione molto intense, che possono essere fino a 250.000 volte maggiori rispetto alla gravità terrestre. I materiali utilizzati nelle costruzioni hanno quasi sempre una composizione silicea, che è caratterizzata dalla presenza di cariche superficiali squilibrate di segno negativo.

Le azioni di adesione superficiale che queste cariche esercitano sulle molecole del vapore acqueo fanno parte della categoria di interazioni complesse che prende il nome di forze di van der Waals.

Si tratta di azioni più deboli rispetto ai legami chimici veri e propri, ma comunque capaci di esercitare significativi effetti sia di coesione fra molecole uguali sia di adesione fra molecole diverse.

Il primo strato di molecole adsorbite aderisce fortemente alla superficie, è estremamente stabile, non è mobile quindi non scorre e può essere allontanato solo per riscaldamento a oltre 105/110° C.

Alle temperature più alte, le molecole sono dotate di maggiore energia data dall’elevata agitazione termica e possono perciò vincere più facilmente le forze di adesione, staccandosi dalle superfici.

Fig. 6.7 Forma di una molecola d’acqua isolata in varie rappresentazioni.

Le molecole d’acqua sono polari, hanno cioè una parte positiv e una negativa. Quindi, il primo strato adsorbito sarà costituito da molecole che aderiscono alla superficie con la loro parte positiva, rivolgendo all’esterno quella negativa. Questa disposizione darà luogo a una superficie esterna ancora negativa, capace a sua volta di attrarre le parti positive delle altre molecole di vapore libere presenti nelle immediate vicinanze.

Al primo strato adsorbito si sovrappone perciò un secondo strato, poi un terzo e tanti altri strati di molecole, via via più distanti dal solido.

Allontanandosi dalla superficie, le forze che attraggono gli strati delle molecole di vapore si riducono progressivamente. La legge di variazione anche qui non è proporzionale, ma esponenziale. Quindi anche allontanandosi di poco, la forza attrattiva si riduce considerevolmente.

I primi strati sono quelli di adsorbimento mentre quelli successivi, che sono più mobili e molto meno aderenti, possono essere di absorbimento o di imbibizione e hanno caratteristiche diverse rispetto ai primi.

Trattandosi, nel secondo caso, di azioni meno intense risulta più facile vincerle. Infatti l’acqua di absorbimento può essere allontanata completamente già a temperature più basse di 100° C.

Gli strati di acqua absorbita dipendono dalla natura del solido, dalla temperatura e dai valori di UR ambiente e possono variare in numero fra i 10 e i 50. Nelle scienze geologiche, questo strato di acqua aderente alle superfici sotto forma di imbibizione del supporto poroso, in fase non liquida, prende il nome di acqua pellicolare.

Le forze in gioco sono più intense rispetto alla forza di gravità, quindi i fenomeni igroscopici non hanno un sopra e un sotto, ma si manifestano con la stessa intensità in tutte le direzioni.

Occorre esaminare un altro aspetto molto importante, che riguarda i flussi di calore correlati ai flussi di materia.

I flussi di calore nei fenomeni igroscopici

Depositandosi sulle superfici del solido, le molecole di vapore originariamente disperse nell’aria perdono buona parte della loro mobilità. Trovandosi catturate dalle forze di attrazione superficiale e perciò incollate al solido, acquisiscono le caratteristiche di un liquido denso, perdendo la mobilità del vapore.

Infatti, la formazione dello strato adsorbito è esotermica e avviene liberando calore. Si verifica quindi un fenomeno del tutto simile alla condensazione, che avviene quando il vapore diventa liquido per raffreddamento. Nei fenomeni igroscopici, per effetto delle intense azioni superficiali esercitate dal solido, il vapore diviene un qualcosa di indefinito che somiglia a un liquido denso. Si muove lentamente e necessita di calore per tornare allo stato di vapore nell’aria.

I processi igroscopici di adesione superficiale sono completamente reversibili, purché nella fase di evaporazione sia somministrato il calore di vaporizzazione in quantità pari a quello che è stato liberato nel passaggio di stato opposto.

Fig. 6.8 I pori di un materiale solido possono contenere acqua un fase sia liquida che di vapore (Fraunhofer Institut, IBP Holzkirchen).

La condensazione capillare

Nei pori di piccolissime dimensioni, il rapporto fra le superfici delle pareti e il volume del poro diventa sfavorevole, perché si ha una quantità di molecole solide squilibrate relativamente grande a fronte di un volume vuoto molto piccolo. Le molecole di vapore presenti all’interno dei pori saranno perciò più vicine alle superfici minerali e maggiormente soggette alle loro forze attrattive. In queste condizioni tenderanno a legarsi più agevolmente ai capillari.

Nei pori più piccoli i fenomeni igroscopici di adesione superficiale sono più intensi.

Quando un mezzo poroso si trova a contatto con il vapore acqueo, all’interno dei suoi pori più piccoli si accumulerà una maggiore quantità di molecole d’acqua rispetto a quella trattenuta nei pori più grossi. Praticamente, per un dato valore di UR dell’aria ambiente, all’interno dei pori l’umidità tende ad aumentare perché le molecole di vapore si addensano per effetto delle citate azioni attrattive.

All’interno dei pori, il valore di UR tende a essere tanto maggiore quanto minore è la loro dimensione. Questo spiega perché l’assorbimento igroscopico cresce all’aumentare dell’UR e al ridursi della dimensione dei pori.

L’assorbimento igroscopico sui mezzi porosi può essere considerato come una sorta di fenomeno condensativo parziale e graduale nel quale il vapore contenuto nell’aria si trasferisce man mano sul solido, in percentuali crescenti all’aumentare dell’UR.

In pratica, sui pori più piccoli si raggiunge la saturazione con valori piuttosto bassi di UR. Man mano che l’UR aumenta, anche i pori di dimensioni via via maggiori sono interessati dalla saturazione.

I valori di umidità complessivamente contenuta nel mezzo poroso saranno quindi dovuti al totale dell’acqua contenuta all’interno dei pori grandi e di quelli piccoli, sotto forma di vapore condensato. Ricordiamo che tale condensazione non è dovuta alla bassa temperatura, ma all’azione attrattiva delle superfici, che esercita gli stessi effetti. All’aumentare del valore di UR dell’aria (o alla diminuzione della sua temperatura), i pori si satureranno gradualmente a partire da quelli più fini.

Il fenomeno è significativo già a partire da valori di UR molto più bassi rispetto al 100%, per il quale avviene la condensazione vera e propria. È chiamata infatti condensazione capillare quella particolare forma di assorbimento igroscopico nel corso della quale all’interno dei pori molto piccoli si raggiunge il valore di saturazione del vapore con il 100% di UR (Fig. 6.4).

Sui materiali particolarmente igroscopici, come il legno, la carta e alcune fibre vegetali e animali, l’assorbimento igroscopico è significativo già a partire da valori di UR del 20%, perciò anche in aria secca (Fig. 6.11).

Sui materiali porosi comunemente impiegati nell’edilizia, come i laterizi, il calcestruzzo, l’intonaco e il gesso, gli assorbimenti di umidità atmosferica dall’aria iniziano a diventare consistenti già superato il 50% di UR, per diventare seri oltre il 65% e gravi oltre l’80%.

Ricordiamo che il diagramma non è lineare e che l’assorbimento igroscopico complessivo cresce in maniera all’incirca esponenziale rispetto all’UR.

Occorre chiarire che tali considerazioni riguardano il benessere abitativo e il corretto rapporto fra i materiali e gli occupanti, non necessariamente il degrado dei materiali. Se si trova in un ambiente con elevata UR, il legno tenderà a marcire in tempi molto brevi mentre alcuni minerali non subiscono alcun danno e il calcestruzzo si conserva addirittura meglio.

Fig. 6.9 Disposizione di molecole d’acqua adese alla superficie di un solido, secondo stratificazioni successive.

Fig. 6.10 A parità di altre condizioni, nei capillari più piccoli la quantità di molecole d’acqua adese alle superfici minerali rispetto al volume vuoto aumenta.

Umidità fisiologica

Questa grandezza esprime la quantità d’acqua presente su un materiale, in equilibrio termodinamico con l’ambiente.

Se è lasciato all’aria senza alcun ulteriore apporto d’acqua, un materiale inizialmente umido si asciugherà tendendo ad assumere un valore stabile di umidità che viene appunto definito fisiologico.

Qualsiasi materiale che si trovi a contatto con l’aria tende spontaneamente a stabilizzare il suo contenuto di umidità fino al raggiungimento dell’equilibrio. Quindi, se il materiale ha un contenuto di umidità diverso rispetto a quello definito dal suo livello di equilibrio con l’aria, necessariamente avverrà un trasferimento, in un senso o nell’altro, tendente a riportare il sistema nelle condizioni di stabilità definite dai parametri ambientali. Se il contenuto d’acqua del materiale è più alto rispetto a quello di equilibrio, si avrà la tendenza a cedere umidità all’ambiente, mentre se è l’aria ad avere valori superiori a quelli di stabilità reciproca, si verificherà il fenomeno opposto.

Ovviamente tutto questo avviene al netto dei fenomeni di isteresi.

Fig. 6.11 Curve di equilibrio di alcuni materiali tessili (Morton and Hearle 1975).

Quanto appena affermato fa comprendere che nella maggior parte delle situazioni avviene un trasferimento alquanto irregolare, di natura alternata, nel quale il flusso di umidità inverte la sua direzione in funzione delle condizioni ambientali con periodicità giornaliera e stagionale, dal materiale all’aria e viceversa. I flussi di umidità esistenti fra l’aria e le superfici dei materiali vanno e vengono continuamente, in funzione delle condizioni di equilibrio istante per istante.

Se invece le condizioni sono stabili e permanenti, i trasferimenti di umidità avranno sempre la stessa direzione. Per esempio, un muro che è sempre umido e a contatto di aria sempre asciutta, realizzerà un flusso più o meno continuo di umidità in uscita sotto forma di vapore, dalle superfici murarie all’aria ambiente. Con temperature più alte, il fenomeno evaporativo sarà più intenso e tenderà a ridursi quando queste si abbassano. Se l’UR dell’aria è più alta il fenomeno si attenuerà, mentre se è più bassa andrà a crescere, ma la direzione del flusso sarà sempre la stessa: dal muro all’aria. Una muratura affetta da umidità di risalita si trova grosso modo in questa condizione.

Le altre murature, dove non c’è risalita, tendono invece sia ad accumulare umidità che a cederla, in funzione del valore di equilibrio di quel preciso momento. La condizione normale quindi è quella di supporti porosi, come muri, solai, pavimenti e tetti, che fanno un po’ da polmone. Quando l’umidità dell’aria aumenta, questi la assorbono e quando diminuisce la restituiscono.

L’attitudine di un materiale a “legare” con l’acqua varia in maniera molto sensibile e dipende dalla sua superficie. Un intonaco molto poroso svolge una buona azione equilibratrice dei picchi di umidità. Se è rivestito con una pittura non traspirante, questa può annullare tali effetti benefici.

Ciascun materiale ha un suo valore di umidità fisiologica, che varia in funzione dalla temperatura.

Il valore fisiologico di umidità, misurata come percentuale in peso su una muratura asciutta, varia dall’1 al 3%, nonostante alcuni materiali, come per esempio il tufo, raggiungano la loro stabilità su valori anche del 6,5%.

Influenza dei sali

Come in altre manifestazioni, anche nei fenomeni correlati all’umidità igroscopica i sali presenti sulla muratura sono capaci di determinare effetti significativi sugli equilibri descritti in precedenza. I sali possono essere più o meno igroscopici a seconda della loro composizione chimica.

Sali molto igroscopici, presenti nella massa o sulla superficie della muratura o del componente edile, esercitano la loro prerogativa di attrarre maggiormente l’acqua presente nell’aria, creando di conseguenza un aumento del tasso di umidità nel materiale. Anche i sali moderatamente igroscopici provocano effetti negativi sulle murature, perché i loro depositi determinano sempre una riduzione della dimensione dei capillari murari. Quanto più il diametro di un capillare è ridotto, tanto più facile è il formarsi delle fasi liquide al suo interno, anche con valori di UR relativamente modesti. Questo fenomeno può intervenire in maniera sinergica con altri fattori capaci di trasferire umidità dall’aria ai materiali della costruzione, come per esempio la bassa temperatura.

Frequentemente si osserva, soprattutto su muri vecchi e molto spessi, che le macchie di umidità aumentano o diventano più scure, evidenziando una maggiore presenza d’acqua, quando cambiano le condizioni di umidità e temperatura dell’aria esterna. In particolare ciò avviene sulle pareti protette da tettoie aggettanti, quindi non soggette a essere bagnate dalla pioggia, nelle giornate umide o subito dopo un acquazzone. Il fenomeno è poco intuitivo ed è talvolta scambiato per un effetto della risalita muraria. In realtà avviene una variazione rapida delle condizioni di equilibrio del muro. All’aumentare dell’umidità dell’aria, le superfici ne assorbono una quantità

maggiore, fino a evidenziare formazioni localizzate o diffuse di umidità igroscopica.

Sui muri vecchi il fenomeno è più presente a causa della grande quantità di sali che si sono depositati sulle porosità nel tempo. Per analogia, basti pensare al sale da cucina che, essendo fortemente igroscopico, lega a sé l’umidità dell’aria fino a bagnarsi completamente. Nelle zone costiere, l’aerosol contenuto nell’atmosfera e composto da minuscole goccioline d’acqua di mare si deposita nel tempo sui materiali e può raggiungere all’interno dei pori concentrazioni saline addirittura superiori a quelle dell’acqua marina.

Un altro fenomeno piuttosto frequente e spesso citato in letteratura riguarda il riscaldamento discontinuo e l’utilizzo saltuario di un edificio. In entrambi questi casi, l’umidità igroscopica potrà manifestarsi precedendo e anticipando l’umidità da condensazione.

Il tema è trattato anche nel Capitolo 5.

Riscaldamento discontinuo

Quando un edificio è riscaldato in modalità discontinua, durante la fase di raffreddamento le murature e le restanti componenti edilizie sono soggette ad assorbire rilevanti quantità di umidità dall’aria, per il verificarsi contemporaneo dell’aumento di UR e della diminuzione di temperatura. Entrambi i fattori tendono ad accentuare i fenomeni di assorbimento igroscopico dei supporti porosi.

Si suggerisce, per quanto possibile, di evitare o almeno di limitare le oscillazioni di temperatura all’interno dell’edificio.

Casi particolari

Esistono casi particolari di formazioni igroscopiche stabili sulle murature, erroneamente attribuite a fenomeni di diversa natura.

Su murature vecchie, molto spesse e non riscaldate e con aria caratterizzata da temperature basse e UR elevata, è possibile che una buona parte dell’umidità muraria sia dovuta a fenomeni di igroscopia. Gli intonaci generalmente contengono maggiori quantità di sali igroscopici, accumulatisi progressivamente durante l’evaporazione dell’umidità da risalita. La base muraria è più fredda rispetto alla sua parte in elevazione, a causa del contatto permanente con il terreno. Si verificano inoltre i flussi convettivi descritti al paragrafo 5.3, che tendono a peggiorare la situazione. Quindi si verificano contemporaneamente molte, se non tutte le condizioni che esaltano i fenomeni igroscopici: bassa temperatura, elevata umidità, componenti silicee porose e presenza di sali.

Numerosissimi casi di umidità eccessiva nelle costruzioni antiche come chiese, castelli, musei e altre opere che si trovano nelle condizioni elencate in precedenza, sono erroneamente attribuiti alla risalita muraria. Si tratta invece quasi esclusivamente di fenomeni pseudo-condensativi, più correttamente classificabili come formazioni di umidità igroscopica dei materiali.

Principali effetti L’umidità igroscopica può manifestarsi fondamentalmente secondo due modalità, quella stazionaria e quella discontinua. È opportuno sottolineare come i fenomeni igroscopici siano molto lenti. Se interessano solo le superfici, necessitano di alcuni giorni per stabilizzarsi. Quando invece coinvolgono quantità maggiori di materiale, si completano nell’arco di alcune settimane. Su pareti molto spesse occorrono anche mesi o anni.

Umidità igroscopica stazionaria

È caratteristica degli edifici o, meglio, delle porzioni di edifici nelle quali le temperature dell’aria e delle murature restano stabilmente basse per tutto l’anno e i valori di UR dell’aria si mantengono permanentemente elevati. Generalmente si tratta di locali interrati, bui o comunque non esposti all’irraggiamento solare diretto, inutilizzati, con forti spessori murari, privi di riscaldamento e di isolamento termico.

Nelle situazioni descritte, le murature porose si stabilizzano su valori di umidità di equilibrio con l’aria piuttosto alti e si trovano perciò a contenere consistenti quantitativi d’acqua, come percentuale in peso. Manifestazioni simili sono frequenti nelle cripte delle chiese, nelle strutture storiche come i castelli, le fortezze e tutte quelle parti degli edifici non soleggiate, con elevati spessori murari che uniscono basse temperature a elevati valori di UR.

Nell’edilizia residenziale è possibile trovare queste condizioni solo nei locali interrati, come le cantine e le altre parti dell’edificio dove l’umidità tende a ristagnare.

Molto frequentemente, l’umidità igroscopica stazionaria è scambiata per risalita, perché è sempre presente nella parte bassa delle murature e spesso interessa anche i pavimenti. Inoltre, a causa della sua azione continua, determina spesso un aumento considerevole delle percentuali di umidità sui muri e sugli altri supporti porosi, in tutto il loro spessore.

Non è raro inoltre che i fenomeni igroscopici evolvano verso forme più o meno definite di condensazione superficiale sulle pareti dell’edificio, unite a varie situazioni di condensazione interstiziale su ciò che vi è contenuto.

Nelle cantine è infatti frequente trovare la muffa all’interno degli armadi o dentro le scatole chiuse, oppure sulle scarpe e su tutti gli altri capi di pelle.

Negli stessi locali si osservano inoltre corrosione dei metalli, marcescenza del legno e, nei casi più gravi, anche danneggiamento superficiale del vetro e delle ceramiche smaltate.

Umidità igroscopica discontinua

Nelle altre situazioni, con parametri termoigrometrici dell’aria e temperature murarie che variano in misura considerevole durante l’anno e presenza anche minima di ventilazione, le formazioni di umidità igroscopica sono piuttosto rare. Si verificano generalmente in maniera episodica o più raramente ciclica e quasi sempre per periodi di tempo limitati.

L’umidità igroscopica discontinua è facilmente individuabile, perché si manifesta in modalità specifica. È caratterizzata da macchie irregolari che si formano quando l’umidità dell’aria aumenta oppure la temperatura si abbassa.

Generalmente, le macchie umide non partono dalla base muraria, quindi si può distinguere facilmente questa particolare modalità di manifestazione dalla risalita muraria, per esempio. Molto frequentemente, le formazioni igroscopiche si sviluppano con maggiore intensità in corrispondenza dei ponti termici e sono interpretate come manifestazioni condensative. Abbiamo detto in precedenza che i fenomeni igroscopici possono a tutti gli effetti essere considerati come condensazioni parziali o incomplete. È verosimile quindi che le manifestazioni igroscopiche possano anticipare e precedere l’insorgenza dei fenomeni condensativi. Perciò le macchie umide di origine igroscopica si possono considerare “pre condensazioni”, in quanto si formano preferibilmente nei punti dove le temperature sono più basse. Ricordiamo che, sui materiali non assorbenti come il vetro e il metallo e sulle superfici smaltate o verniciate, la condensazione è netta e ben definita, mentre sui supporti porosi il fenomeno avviene con gradualità, passando da igroscopico a condensativo in maniera quasi continua (si veda Fig.6.3).

L’umidità igroscopica discontinua si forma in maniera rapida e altrettanto rapidamente regredisce. Generalmente interessa solo le parti superficiali dei supporti porosi e non fa aumentare sensibilmente il loro contenuto d’acqua in percentuale.

Fig. 6.12 Formazioni di umidità igroscopica stazionaria in una cantina completamente priva di illuminazione e ventilazione, con valori di UR molto elevati. Sulle parti basse dei muri sono presenti abbondanti quantità di muffe nere, che nella risalita generalmente non si formano.

Fig. 6.13 Su un'altra parete dello stesso locale si osservano muffe nere assimilabili ad Aspergillus Niger.

Fig. 6.14 Manifestazioni di umidità igroscopica su una parete esterna. La notevole altezza della macchia umida e l’assenza di efflorescenze saline indicano che non si tratta di risalita muraria.

Fig. 6.15 Situazione analoga a quella dell’immagine precedente. Anche in questo caso si tratta di umidità igroscopica discontinua, manifestatasi in una giornata calda e umida di inizio primavera. I muri, ancora freddi dall’inverno precedente, hanno favorito l’assorbimento di umidità igroscopica dall’aria e i Sali, contenuti come impurità, hanno ulteriormente aggravato il fenomeno.

Fig. 6.16 Macchie di umidità igroscopica discontinua sulla muratura di un sottopassaggio non esposto al sole e protetto dalla pioggia. La parte bassa della parete non è umida, tranne che sui gradini per l’accumulo di acqua piovana residuale. La forma irregolare dell’umidità indica che non si tratta di risalita, mentre le macchie saline visibili sono dovute al contenuto di cemento dell’intonaco. Formazioni di questo tipo sono più intense nei primi giorni caldi di primavera quando l’aria molto umida lambisce la parete ancora fredda. I fenomeni tendono poi ad attenuarsi durante i mesi estivi, via via che i muri si riscaldano, per tornare ad aumentare in inverno, quando le temperature si abbassano e i valori di UR aumentano.

Fig. 6.17 Formazioni di umidità igroscopica discontinua su un intonaco realizzato di recente. Sono visibili le macchie di forma irregolare che interessano la superficie. Si nota inoltre che l’umidità non parte dal basso, come avviene invece nei casi di risalita. Esistono diverse cause capaci di determinare un aumento dell’igroscopia in un intonaco. La più frequente riguarda il contenuto di cemento che è additivato per aumentare la resistenza meccanica e l’adesione del materiale alla parete. Il cemento contiene percentuali fino a circa il 7 % in peso di solfato di calcio (gesso), che è un sale igroscopico. Un altro additivo frequentemente utilizzato nella preparazione degli intonaci per aumentarne la lavorabilità è la metil-cellulosa. Si tratta di un prodotto fortemente idrofilo e igroscopico che, a contatto con l’acqua, assume la consistenza di un gel, rendendo l’impasto più scorrevole. A maturazione avvenuta però, l’intonaco si trova a essere molto igroscopico. In situazioni di bassa

temperatura e di elevata UR dell’aria, tende ad assorbire importanti quantità di umidità, manifestando macchie irregolari come quelle visibili nell’immagine. Per evitare l’inconveniente, si suggerisce l’utilizzo di intonaci a base di calce naturale, privi di cemento e di metil-cellulosa.

Fig. 6.18 Interessante fenomeno di assorbimento igroscopico discontinuo in un elemento lapideo inserito nella muratura di mattoni pieni. Si tratta di un piccolo blocco di arenaria con porosità molto fini, che assorbe notevoli quantità di umidità dall’aria ambiente, quasi fino a raggiungere la saturazione. In queste condizioni, il materiale poroso inumidito assorbe anche la CO2 dall’aria facendo aumentare l’acidità della soluzione acquosa e innescando fenomeni di corrosione della

pietra. Si nota infatti l’azione disgregatrice dell’umidità acida che provoca una polverizzazione del supporto minerale. È visibile inoltre l’estensione dell’umidità per diffusione anche ai mattoni circostanti.

Fig. 6.19 Umidità igroscopica discontinua in una colonna di mattoni pieni all’esterno di un edificio. Questo è un caso classico di assorbimento di umidità dall’aria, che si manifesta maggiormente in alcuni mattoni a causa di una loro cottura non uniforme (mattoni poco cotti). In questi casi, i mattoni non raggiungono completamente le caratteristiche del materiale ceramico e mantengono ancora la tendenza ad assorbire l’acqua, tipica dell’argilla. Un fenomeno analogo può avvenire nei mattoni con maggiore contenuto di sali igroscopici, come spesso accade quando si impiegano materiali riutilizzati, provenienti da altri cantieri.

Fig. 6.20 Situazione analoga a quella dell’immagine precedente.

Fig. 6.21 Idem come sopra in un edificio storico.

Fig. 6.22 Degrado dell’intonaco causato dall’igroscopia dei sali.

Fig. 6.23 Manifestazioni di umidità igroscopica discontinua in un intonaco nuovo, apparse in una giornata molto umida. La muratura retrostante di mattoni vecchi ha assorbito rilevanti quantità di umidità dall’aria, fino a imbibire la superficie dell’intonaco.

Fig. 6.24 Formazioni igroscopiche su una superficie muraria, in un cantiere.

Fig. 6.25 Come nell’immagine precedente. Si noti la disposizione irregolare delle macchie umide, con alternanza di zone asciutte. In ambiente esposto all’esterno, queste manifestazioni sono solo temporanee, si formano e scompaiono nel giro di qualche giorno al massimo.

Fig. 6.26 Manifestazioni igroscopiche discontinue nella parte centrale di una muratura mista. Come è visibile dalla foto, i materiali che costituiscono la zona centrale della parete sono diversi da quelli circostanti. Questo è un tipico fenomeno igroscopico puro, senza alcun’altra causa correlata di umidità.

Fig. 6.27 Formazioni igroscopiche discontinue in un intonaco di pura calce. Il fenomeno è dovuto prevalentemente alla bassa temperatura della muratura rispetto all’aria e tende a scomparire con il caldo.

Fig. 6.28 Come nell’immagine precedente. Da notare la classica forma a macchia di leopardo dell’umidità. In questo muro, i sali igroscopici sono assenti poiché estratti con impacchi di cellulosa.

Fig. 6.29 Manifestazioni igroscopiche su una parete esterna. Come si vede nella foto, non c’è un fronte di risalita, le macchie sono irregolari e non partono dal basso.

Fig. 6.30 Umidità igroscopica da sali sulla superficie esterna di una cascina. Si noti che il fenomeno è più intenso sul lato destro, adiacente alla stalla. Gli escrementi animali sono la prima causa di apporto di nitrati alle murature.

Prevenzione L’umidità igroscopica è sempre presente sui supporti porosi e può esserlo in misura maggiore o minore a seconda dei casi. Diventa dannosa solo se la sua quantità supera valori che, come abbiamo visto, dipendono da vari elementi.

La prevenzione dell’eccesso di umidità igroscopica può essere fatta solo limitando o contrastando i fattori che la favoriscono.

Occorre ricordare che questi possono essere di due categorie:

Fattori ambientali

Umidità relativa dell’aria UR (non quella assoluta). Temperatura dell’aria e del supporto.

Fattori dipendenti dal materiale

Composizione chimica.

Presenza di impurità sul materiale, come per esempio sali, anch’essi igroscopici. Dimensione e forma delle porosità.

Non essendo possibile modificare la composizione chimica del supporto e neppure la forma e le dimensioni dei suoi pori, gli unici elementi sui quali si potrà intervenire sono temperatura e UR dell’aria, temperatura del supporto e presenza di sali igroscopici nel mezzo poroso.

In particolare, le manifestazioni di umidità igroscopica tendono a ridursi con:

aumento della temperatura dell’aria; aumento della temperatura del supporto poroso; riduzione dell’UR dell’aria; eliminazione dei sali igroscopici, mediante estrazione o neutralizzazione.

Esistono diverse modalità per influenzare i fattori precedentemente elencati. Forniremo qui di seguito una breve descrizione delle più note.

Aumento della temperatura dell’aria

Per quanto riguarda la temperatura dell’aria esterna, c’è ben poco da fare perché questa dipende dai fattori climatici e metereologici del sito di edificazione, che non possono essere modificati a piacimento.

La temperatura dell’aria interna, invece, può essere gestita in maniera piuttosto agevole mediante la regolazione del riscaldamento. Più la casa sarà calda (a parità di valore di UR) più l’assorbimento igroscopico dei supporti porosi tenderà a ridursi. Questo spiega perché le case fredde sono sempre umide. L’umidità si trasferisce più facilmente dall’aria ai supporti porosi a causa dei fenomeni igroscopici precedentemente descritti.

Aumento della temperatura del supporto

Quando la temperatura del supporto aumenta, i fenomeni di assorbimento igroscopico si riducono sensibilmente. È preferibile che le pareti e le altre parti della costruzione siano esposte almeno parzialmente alla luce solare, perché il riscaldamento che questa determina sulle superfici limita fortemente gli assorbimenti di umidità igroscopica nei mezzi porosi. Infatti, le case soleggiate hanno generalmente pochi problemi di umidità, proprio perché sono mediamente un po’ più calde. Le pareti delle camere da letto, invece, sono generalmente esposte a nord, non ricevono il calore solare e soffrono più spesso di fenomeni di umidità, inizialmente di tipo igroscopico che poi si aggrava diventando condensativo.

Una soluzione vantaggiosa è quella di scaldare artificialmente i supporti porosi per ridurre i fenomeni di assorbimento igroscopico. Sulle murature è possibile installare sistemi di riscaldamento radiante a parete, con circolazione d’acqua calda o reti dotate di resistenze elettriche, che portano i valori di temperatura muraria leggermente al di sopra di quelli dell’aria ambiente.

Sui pavimenti, invece, i migliori risultati si ottengono con i riscaldamenti radianti sottopavimento, anch’essi realizzati con tubazioni a circolazione di acqua calda o con resistenze elettriche.

Riduzione dell’UR dell’aria

Sui valori dell’aria esterna non è possibile intervenire poiché, come è noto, dipendono dalla localizzazione del sito in esame, dalla ventilazione e dalle circolazioni atmosferiche a livello locale e continentale. I parametri dell’aria interna invece possono essere controllati e modificati piuttosto facilmente, secondo due modalità differenti: invernale ed estiva.

Regime invernale

Durante i mesi freddi sarà sufficiente aerare o ventilare adeguatamente per assicurarsi una buona evacuazione dell’umidità in eccesso presente nell’aria interna. In alternativa, si potranno impiegare deumidificatori o climatizzatori in funzione deumidificazione per ridurre l’umidità eccedente. La prima soluzione è senz’altro preferibile alla seconda perché assicura una migliore qualità dell’aria e perché, se si adottano sistemi a recupero di calore del tipo VMC, i consumi energetici si riducono drasticamente.

L’utilizzo delle vaschette contenenti sali igroscopici porta a risultati molto modesti e non permette certo di gestire correttamente il controllo o la riduzione dell’UR interna. Si sconsiglia il loro impiego se non in situazioni poco impegnative e per tempi limitati.

Un’altra soluzione è quella di rivestire l’interno dell’edificio con materiali fortemente igroscopici, come gli intonaci di argilla, che esercitano un effetto tampone: assorbono l’umidità quando è in eccesso e la rilasciano

quando si abbassa. Sono utili in presenza di fenomeni discontinui o ciclici ma controproducenti se l’elevata umidità ha carattere stazionario.

Regime estivo

Nei mesi estivi, invece, l’aerazione e la ventilazione sono generalmente dannose ai fini della riduzione dell’umidità dell’aria interna. Questo perché l’aria esterna contiene quasi sempre una maggiore quantità di umidità assoluta e, quando questa entra in casa abbassando la sua temperatura, il suo valore di UR aumenta sensibilmente. Per abbassare l’UR dell’aria interna nei mesi estivi è preferibile perciò utilizzare deumidificatori o climatizzatori. Ovviamente dovrà essere assicurato anche un minimo ricambio, per garantire una buona qualità dell’aria agli occupanti della casa.

Eliminazione dei sali igroscopici

I sali igroscopici sono in grado di incrementare enormemente gli assorbimenti di umidità da parte dei supporti porosi. Nelle condizioni più sfavorevoli, di temperatura bassa ed elevata UR, questi trattengono importanti quantitativi di umidità sui materiali. Nelle costruzioni storiche aventi muri molto spessi, poco o per nulla soleggiate, l’umidità contenuta sulle murature è spesso confusa con la risalita muraria, ma è prevalentemente di natura igroscopica.

I sali igroscopici possono essere eliminati in due modi, con l’estrazione e con la neutralizzazione.

Estrazione dei sali

Il primo metodo e il più efficace consiste nell’estrazione dei sali mediante impacchi di fibre di cellulosa a perdere, che assorbono la soluzione salina dalla muratura per osmosi.

Neutralizzazione dei sali

La seconda modalità di eliminazione prevede l’impiego di composti chimici che reagiscono con i sali presenti, trasformandoli in composti diversi, non più solubili e meno igroscopici.

Quest’ultima soluzione non è mai completamente efficace, perché i sali della muratura possono far parte di svariate specie chimiche ed essere contenuti in concentrazioni molto diverse fra loro. I prodotti antisale per le murature possono perciò essere applicati in quantità insufficiente per alcuni sali ed eccedente per altri, andando a questo punto a incrementare la quantità di sostanze estranee depositate sui pori. Non esiste un antisale universale che agisca contemporaneamente su tutti i sali contenuti nelle murature in maniera proporzionata. La neutralizzazione è una pratica molto impiegata nei restauri edili, durante i quali si applica un antisale liquido sulle murature prima del nuovo intonaco, oppure si utilizzano intonaci speciali, detti appunto antisale.

Umidità proveniente dal terreno

Generalità Il terreno è un elemento con il quale l’edificio si trova sempre inevitabilmente a contatto. Tale condizione forzata crea la possibilità che quantitativi d’acqua anche ingenti possano introdursi nella costruzione, danneggiandola. Ciò avviene generalmente in misura moderata nelle strutture fuori terra ed è causato dalla risalita o dall’acqua meteorica a contatto con il terreno. Il rischio di ingresso d’acqua e di umidità diventa più significativo nelle parti interrate dell’edificio. In queste ultime possono facilmente verificarsi apporti d’acqua in forma liquida, conseguenti alla pressione idrostatica derivante da battente, quindi in spinta. Nelle scienze idrauliche il battente è l’altezza di uno strato di acqua liquida che si forma per gravità quando questa incontra uno strato di materiale impermeabile o semi-permeabile. La pressione idrostatica del liquido è proporzionale all’altezza del battente idraulico. Inoltre, il terreno è per sua natura umido, perché raccoglie l’acqua piovana e perché le sue caratteristiche fisicochimiche, di igroscopia, porosità e permeabilità, consentono sia l’imbibizione che il trasporto di acqua liquida e di vapore.

Nella spiegazione che segue, classificheremo quindi in maniera distinta le due possibilità attraverso le quali acqua e umidità tendono a penetrare nella costruzione.

Le interazioni fra edificio e terreno correlate all’acqua

L’acqua proveniente dal terreno può interessare l’edificio secondo le seguenti modalità, molto diverse tra loro per caratteristiche ed effetti:

per contatto con il terreno umido e con l’acqua percolante; per effetto di spinta idrostatica.

Il contatto col terreno umido e con l’acqua percolante

Quando una parte della costruzione interrata è posta a diretto contatto con il terreno umido, perciò insaturo, attraverso una superficie non impermeabile, si verificherà inesorabilmente un flusso più o meno rapido di umidità che dal suolo si trasferisce all’edificio. La tendenza è sempre quella dell’equilibrio, che induce lo spostamento dell’umidità da dove è maggiore a dove è minore. Il terreno più umido trasferisce quindi acqua in forma non liquida all’edificio più asciutto, per effetto della differenza fra le due umidità.

Il processo si arresta spontaneamente quando i due livelli si pareggiano e le parti dell’edificio a contatto con il terreno hanno la sua stessa umidità. La descrizione appena esposta non è rigorosa, perché occorre tenere conto dei materiali, della forma e dimensione dei pori, della loro igroscopicità e di altri aspetti per valutare quali siano le relazioni fra i mezzi porosi che determinano i trasferimenti di umidità insatura. Nella pratica il pareggio, che

corrisponde all’arresto del flusso insaturo, avviene con valori di umidità percentuale diversi fra i due materiali a contatto.

Fig. 7.1 Rappresentazione schematica della porzione interrata dell’edificio, a contatto con il terreno umido.

Per quanto ci riguarda, accettiamo la semplificazione. Ci è sufficiente sapere che l’umidità si sposta da dove è tanta a dove è poca, fino a fermarsi al raggiungimento di un equilibrio.

Si tratta a tutti gli effetti di un trasferimento diffusivo di umidità di impregnazione, cioè in fase non liquida, che segue le stesse regole della risalita non capillare. La risalita si riferisce a uno spostamento ascendente, che si verifica di solito sui muri e sui pavimenti. Nel sottosuolo invece il transito avviene anche in orizzontale, dal terreno più umido verso l’edificio più asciutto. Possono anche verificarsi movimenti verticali di umidità insatura, sempre tendenti all’equilibrio. Cioè sempre dal punto più umido a quello più asciutto. L’intero argomento è affrontato per esteso nei Paragrafi 8.1 e 8.2.

Nel caso in cui il terreno sia attraversato da acqua liquida, il contatto di quest’ultima con la superficie dell’edificio può dar luogo a fenomeni di capillarità se l’acqua scorre liberamente e di infiltrazione se invece può esercitare pressione.

Quando l’acqua presente sul terreno proviene dall’alto e ha la possibilità di scorrere via agevolmente, secondo la gravità, verso quote più basse, scivola via sulle superfici dell’edificio e non può esercitare pressione sulle pareti interrate. Praticamente, in questo caso e solo in questo caso, l’acqua bagna la costruzione e scivola via ma non spinge. Può trasferirsi per capillarità e impregnazione, ma non genera infiltrazioni. Se invece durante il suo moto discendente trova una resistenza al flusso tale da rallentarla facendola scorrere più lentamente, essa esercita pressioni idrostatiche sulle superfici poste a contatto con il terreno. Nel caso in cui il terreno sia completamente saturo o perfettamente impermeabile, l’acqua non discende per niente e resta ferma su un determinato livello. In questa condizione, la pressione esercitata dal liquido sulle pareti è massima. Ovvero l’acqua bagna e spinge con tutta la sua forza, che ricordiamo essere proporzionale all’altezza del livello liquido.

Quando l’acqua presente nel terreno a contatto con l’edificio scorre liberamente verso il basso senza esercitare pressioni idrostatiche sulle

superfici, ci si trova nella condizione di acqua percolante. Quando invece staziona perché impossibilitata a scorrere, acquisisce un livello liquido la cui altezza rispetto al punto considerato è chiamata battente o altezza piezometrica.

La situazione più favorevole è quella dell’acqua percolante, mentre la più sfavorevole si verifica quando il liquido non ha alcuna possibilità di drenare verso il basso e tende a mantenere il suo livello. Nelle situazioni intermedie, cioè quando l’acqua incontra una certa resistenza al moto discendente, ma questa non è tale da farle mantenere un livello liquido stabile, anche la pressione esercitata sulle pareti interrate sarà intermedia. Più l’acqua è rallentata maggiore sarà la pressione che esercita sulle superfici. Se è completamente ferma, la pressione diventa massima. Se invece scorre liberamente, la pressione è nulla (in casi limite può anche diventare negativa).

La pressione esercitata sulle superfici verticali interrate dipende dalla resistenza al moto incontrata dall’acqua nella sua discesa attraverso il terreno poroso.

Per semplicità, possiamo considerare una parete interrata come se si trattasse di un tetto posto in posizione verticale. Immaginiamo che su questo tetto verticale l’acqua piovana possa scorrere via liberamente, come avviene appunto con l’acqua percolante. Ben difficilmente un tetto di questo tipo potrà subire infiltrazioni d’acqua. Infatti, i tetti con elevata pendenza sono i più sicuri in tutte le condizioni e un rivestimento impermeabile verticale soggetto ad acqua da scorrimento è da considerarsi particolarmente sicuro.

Le cose cambiano quando su un elemento verticale come quello dell’esempio precedente l’acqua non scorre liberamente, ma trova resistenza e sale di livello. In questo caso, le spinte orizzontali dell’acqua ferma o di

quella che non scorre più altrettanto liberamente tendono a creare infiltrazioni nell’edificio.

Questa condizione è chiamata di acqua in falda o di sottobattente e si verifica quando le parti interrate dell’edificio sono soggette all’azione idrostatica dell’acqua presente nel terreno. In realtà, le infiltrazioni di acqua in pressione non sono sempre determinate dalla falda, ma gli effetti sono identici e spesso non si distingue la differenza.

Il temine falda che indica la presenza di acqua nel terreno non ha alcuna relazione con la falda intesa come superficie inclinata del tetto.

Fig. 7.2 Particolare di una muratura che riveste una parete di roccia umida. In questi casi, il contatto con il terreno crea solo un flusso di umidità insatura, del tutto simile a quello che si manifesta nella risalita non capillare. L’acqua liquida presente nella roccia può scorrere liberamente verso il basso, perciò gli effetti della spinta idrostatica sono nulli.

Fig. 7.3 Il disegno rappresenta una situazione piuttosto frequente, che riguarda le parti interrate delle costruzioni, soggette all’acqua piovana diretta e a quella proveniente dal terreno. A = muratura parzialmente interrata;

B = impermeabilizzazione; C = strato drenante; D = terreno; E = tubo dreno; F = platea o pavimento.

Il sistema illustrato in Fig. 7.3 è realizzato con lo scopo di favorire lo scarico e il successivo allontanamento dell’acqua piovana dalla muratura interrata. Lo strato drenante ha appunto la funzione di fare defluire velocemente l’acqua verso un punto più basso del terreno, dove è posizionato un tubo di dreno, atto a raccogliere le acque e a convogliarle per gravità verso pozzetti di raccolta che si trovano in posizioni ancora più basse. Da questi pozzetti poi le acque possono essere pompate verso impianti fognari o altre canalizzazioni, qualora vi sia la necessità di scaricarle in posizioni più alte. Se invece il terreno è molto permeabile e la quota di falda è sufficientemente profonda, le acque possono essere convogliate verso un pozzo perdente, che scarica direttamente nel sottosuolo.

Attenzione però: il sistema appena descritto è efficace esclusivamente se tutta l’acqua in arrivo può essere velocemente allontanata, e perciò solo se questa non ha mai la possibilità di creare un livello liquido.

Le protezioni drenanti hanno la funzione di rendere più agevole il flusso d’acqua verso le condotte di evacuazione o nel sottosuolo, proprio per evitare che l’acqua salga di livello. Se invece l’evacuazione è impedita o comunque rallentata e se il terreno non riesce a drenare tutta l’acqua in ingresso, si avrà l’innalzamento del livello liquido.

Nel caso in cui l’acqua apportata sia completamente eliminata senza che possa salire di livello, si tratta di acqua percolante.

Quando invece il livello dell’acqua sale esercitando perciò una pressione idrostatica, si tratta di acqua sotto battente idraulico, anche se il fenomeno si verificasse solo momentaneamente.

Nella prima situazione, e solo in quel caso, si potrà affidare la protezione dell’edificio al fatto che l’acqua sia allontanata per semplice scorrimento, un po’ come avviene nei tetti con tegole, dove non si forma livello liquido.

Se l’acqua ha la possibilità di esercitare una spinta positiva, l’impermeabilizzazione avrà efficacia esclusivamente se costituita da un sistema continuo, che realizzi una vasca sigillata a tenuta ermetica, costruita come una piscina al contrario.

Purtroppo sono frequentissimi i casi in cui gli interrati sono impermeabilizzati come se fossero soggetti ad acqua percolante, mentre nella realtà le condizioni che si verificano sono molto diverse e li sottopongono alle spinte positive dell’acqua di falda. Quando si verificano errori di questo tipo, le soluzioni possibili sono piuttosto complesse e spesso necessitano di costose opere aggiuntive, atte a sopportare spinte idrostatiche talvolta particolarmente intense.

Nelle costruzioni nuove, si suggerisce vivamente di impermeabilizzare sempre tutte le parti al di sotto della quota del terreno considerandole come se fossero costantemente soggette all’azione della falda idrica.

La spinta idrostatica

Il comportamento dell’acqua presente nel sottosuolo che “spinge” sulla costruzione è poco intuitivo e non sempre se ne valutano correttamente gli effetti, in termini di possibili conseguenze sull’opera. Questi effetti possono essere simultaneamente di natura infiltrativa e statica. Oltre agli ingressi d’acqua nell’edificio, si devono considerare le spinte che l’acqua esercita sulle superfici, le quali in ultima analisi comportano sempre effetti deformativi sulle strutture interrate.

Fig. 7.4 Rappresentazione della pressione idrostatica che l’acqua esercita sulle superfici interrate della costruzione, quando il livello

liquido corrisponde alla quota di campagna.

Il terreno sul quale sono costruiti gli edifici è costituito da diversi strati sovrapposti di materiale minerale, depositatisi nel corso della storia antica e recente e caratterizzati da diversa natura, giacitura e composizione.

Nella successione dei vari strati è frequente trovarne di più permeabili, ovvero che hanno maggiore attitudine a farsi attraversare facilmente dall’acqua, e di poco o nulla permeabili, cioè che consentono un passaggio dell’acqua minimo o nullo al loro interno.

In conseguenza di questa svariata stratificazione e della diversa risposta dei materiali che formano gli strati sotterranei, possono crearsi zone più o meno ampie e più o meno profonde nelle quali l’acqua proveniente dalla pioggia o dallo scioglimento delle nevi ha modo di accumularsi nel terreno dando luogo a una falda acquifera.

Nei casi più frequenti non si tratta di un volume vuoto, simile a una caverna o a un serbatoio pieno d’acqua. Ma di un terreno caratterizzato da maggiore o minore porosità, contenente acqua mobile negli interstizi fra le particelle minerali. In realtà, se si procede alla perforazione verticale del terreno si trovano diversi strati impregnati d’acqua a profondità variabile, i quali hanno origine e periodo di formazione e deposizione molto diversi.

Si parla per questo di acque fossili, quando queste risalgono a tempi antichissimi e sono intrappolate nel sottosuolo da milioni di anni. Per quanto riguarda la nostra analisi, le falde che ci interessa considerare sono solo quelle superficiali, che interagiscono con le opere edili.

La falda idrica

Esistono due diversi tipi di falda idrica, o meglio di falda acquifera:

falda freatica; falda artesiana.

Fig. 7.5 Sezione del terreno con evidenziate le falde.

Falda freatica

La falda freatica è una formazione che prevede la presenza di acque sotterranee principalmente di origine meteorica, ferme o in movimento, confinate fra strati impermeabili anche di diversa quota e giacitura e aventi una pressione inferiore a quella atmosferica. Quindi, se la falda acquifera si trova esposta all’aria, come per esempio in un pozzo, non dà luogo a formazione di zampilli, ma tende a mantenere un proprio livello, variabile con le stagioni, ma sempre più basso rispetto al terreno. Molto spesso, la falda freatica è soggetta a variazioni di quota rilevanti nel corso del tempo, definendo quindi un livello minimo e uno massimo di stabilizzazione. Questi livelli sono dovuti a cause geologiche naturali o a eventi derivanti da attività umane, intenzionali o accidentali.

Per valutare quali effetti possano avere le falde acquifere sulla costruzione, è necessario procedere secondo uno studio, effettuato in fase preventiva, sulle condizioni del terreno dove si dovrà fondare l’opera. Tale analisi dovrà essere svolta da un geologo professionista, è chiamata Relazione geologica e tiene conto di numerosi parametri che definiscono in maniera precisa le caratteristiche del terreno e del bacino idrografico sul quale è inserito. Considerata la sua importanza, il documento citato è stato reso obbligatorio in Italia dal 1998, quindi da quella data a seguire dovrebbe essere prodotto per tutte le costruzioni nuove. E, sempre usando il condizionale, lo stesso documento dovrebbe anche essere depositato nel Comune che ha rilasciato la licenza edilizia.

Quasi tutti i costruttori, purtroppo, non fanno riferimento alla Relazione geologica del sito di edificazione, fondamentale per definire il corretto

rapporto fra l’edificio e il terreno e garantire la stabilità e la sicurezza di entrambi per l’intero tempo di vita della costruzione.

La Relazione geologica risulta estremamente importante ai fini della valutazione dell’opera, inserita nel contesto geologico del terreno. Infatti indica la sua attitudine a mantenere la stabilità statica, segnalando anche i possibili movimenti e le alterazioni dei caratteri geostrutturali generali. In particolare, per ciò che ci riguarda, dovrà fornire lo schema della “circolazione idrica superficiale e sotterranea”.

Spesso, quando si costruisce un edificio nuovo tale documento è commissionato, pagato e depositato presso un ufficio pubblico senza essere neppure letto.

Molte volte si procede in maniera assai più sbrigativa attraverso la semplice analisi visiva del sito, operata quando lo scavo raggiunge la sua profondità definitiva, cioè un attimo prima che inizino i lavori di costruzione veri e propri. Solo se si individua la presenza di acqua, si considera la realizzazione dei lavori di impermeabilizzazione contro l’acqua liquida, cosiddetta in falda.

Se invece l’acqua in quel preciso momento non è visibile, si procede alla costruzione considerando il problema della falda come non pericoloso. Si attribuisce quindi alla valutazione istantanea, di quel particolare attimo, la caratterizzazione del comportamento presente e futuro dell’acqua sotterranea. Sempre in quel momento, si prendono decisioni che riguarderanno l’intera vita dell’opera edile, che verosimilmente dovrà durare per diverse generazioni. Un altro errore che spesso si commette, è quello di riferirsi alla conoscenza storica del sito, magari chiedendo ai tecnici del posto o, in qualche caso, agli anziani del paese se abbiano conoscenza della presenza di falde nel terreno.

Fig. 7.6 Falda freatica a circa un metro di profondità rispetto al piano di campagna, visibile in fase di scavo.

Questa metodologia, pur con gli evidenti limiti, è ancora la più diffusa al giorno d’oggi nei lavori privati ed è talvolta adottata anche in quelli pubblici.

Il comportamento geologico della terra e le sue interazioni con l’acqua e con gli eventi climatici devono essere valutati sulla base di millenni o, meglio ancora, di milioni di anni. Alcuni eventi ciclici dei quali resta precisa traccia nelle testimonianze geologiche terrestri avvengono con ripetizioni molto

variabili nel tempo. Siamo abituati a misurare il tempo secondo il nostro metro, in proporzione alla durata della vita umana, che è molto diversa dal tempo geologico dell’acqua e dal suo rapporto con la terra.

Il fatto di riferirsi a ciò che è avvenuto negli ultimi venti o trent’anni, magari affidandosi alla memoria, è assolutamente fuorviante e spesso porta a esiti disastrosi. Accade talvolta che gli stessi lavori di costruzione causino modificazioni notevoli del livello di falda, anche in aree molto distanti. Queste variazioni possono diventare definitive, determinando gravi conseguenze da infiltrazione o, peggio, collassi statici negli edifici adiacenti.

La Relazione Geologica è un documento obbligatorio per qualsiasi tipo di opera da edificare sul terreno e le amministrazioni locali non rilasciano l’autorizzazione a costruire in sua assenza. Il più delle volte, quindi, si commissiona la Relazione al geologo professionista, per consegnarla al Comune senza neppure sfogliarla. Per quanto possa sembrare assurda, questa situazione è esattamente ciò che si riscontra da anni nella pratica quotidiana di indagine.

A ciò aggiungiamo i cambiamenti climatici in atto, il dissesto idrogeologico che manifesta i suoi effetti in maniera sempre più preoccupante per comprendere quanto il rapporto fra l’edificio, il terreno e l’acqua sia difficile e problematico.

La falda artesiana

Nella falda artesiana l’acqua si trova racchiusa fra strati impermeabili che le consentono di avere una pressione superiore a quella atmosferica. A contatto con l’aria esterna, quindi, zampilla a causa della sovrappressione,

normalmente derivante dalla maggiore altezza di quota del bacino di alimentazione.

Se il pozzo artesiano non è chiuso, si avrà un continuo apporto d’acqua fino all’allagamento del suolo. Quando la costruzione insiste su un terreno dove è presente una falda artesiana, diventa assolutamente necessario proteggere l’intera parte interrata dell’edificio dall’acqua in falda.

Le tecniche di impermeabilizzazione dovranno essere quelle previste al Paragrafo 7.3 nel caso di opere ancora da edificare e al Paragrafo 7.4 nel caso di edifici già ultimati o in fase avanzata di costruzione.

Effetti della falda sulle costruzioni

Esistono diverse modalità attraverso le quali la falda idrica (o acquifera) esercita i propri effetti sulle costruzioni. Qui di seguito sono elencate le più frequenti:

falda stabile; falda con oscillazioni occasionali; falda con oscillazioni cicliche; fenomeni anomali.

Falda stabile

La falda è stabile quando la sua variazione di quota nel tempo è minima o nulla. Il fenomeno si manifesta quando il bacino sotterraneo è di dimensioni rilevanti o le sue condizioni di alimentazione sono stabili, tali da consentire un pronto ripristino della quota in caso di prelievo e una rapida evacuazione quando si verifica invece un apporto. Un prelievo d’acqua dalla falda, a mezzo di un pozzo o di una qualsiasi opera di presa, richiama lateralmente altra acqua che sarà trasferita dalle zone limitrofe per sopperire a quella emunta e tenderà a ripristinare l’equilibrio esistente.

Tale flusso d’acqua, di direzione prevalentemente orizzontale, è tanto più rapido e agevole quanto maggiore è la permeabilità del terreno. Dipende

inoltre dalla quantità complessiva di liquido contenuto nel bacino e dalla sua estensione. Nelle zone costiere, la quota della falda è spesso influenzata da quella del mare. È infatti suscettibile di alternanza dovuta alle maree con le quali si muove in fase.

La condizione di falda stabile è abbastanza inconsueta. Si verifica in zone distanti dal mare, generalmente pianeggianti e su terreni alluvionali ghiaiosi e sabbiosi, caratterizzati da elevata permeabilità.

Falda con oscillazioni occasionali

Le falde con oscillazioni occasionali subiscono variazioni di quota dovute a eventi non ciclici, cioè non regolari e non dovuti alla normale alternanza delle stagioni. Questa particolarità si osserva per esempio nei terreni dotati di buona permeabilità, vicini a fiumi, canali, dighe, oppure opere che sono in grado di modificare in misura sostanziale la quantità d’acqua trasferita nel sottosuolo e la sua pressione. Questa alterazione delle condizioni idrogeologiche del terreno può avere effetti anche sulle grandi distanze e spesso determina eventi apparentemente inspiegabili per chi non affronta l’argomento con adeguata conoscenza geologica del terreno.

Falda con oscillazioni cicliche

Le falde caratterizzate da oscillazioni cicliche sono le più diffuse. La ciclicità della quota di stabilizzazione è dovuta alle fonti di alimentazione del bacino sotterraneo, principalmente conseguenti ad apporti di acqua piovana o allo scioglimento delle nevi e quindi strettamente correlate all’alternanza degli eventi meteorologici stagionali, come la pioggia e le variazioni di temperatura. In questi casi, la ciclicità è periodica e la quota di

falda generalmente può raggiungere livelli massimi e minimi in funzione della modalità di alimentazione. Si consideri che occorre un certo tempo perché l’acqua piovana penetri nel terreno e lo saturi, ripristinando il livello del bacino sotterraneo. Lo stesso avviene per il suo progressivo svuotamento in assenza di precipitazioni, dovuto al prelievo tramite pozzi o altre opere di presa, oppure a trasferimenti d’acqua di altra natura, che avvengono tramite comunicazioni sotterranee.

Esiste quindi un ritardo fra il manifestarsi del fenomeno che genera l’innalzamento della falda e l’effettivo verificarsi dell’evento.

Un altro aspetto poco conosciuto e non del tutto intuitivo riguarda la modalità di spostamento del liquido nel terreno. Quasi sempre questa è assimilabile a un lentissimo movimento di filtrazione attraverso una massa solida porosa impregnata d’acqua. In queste condizioni, l’effettivo transito idrico è molto più lento di ciò che appare. Quando si colora l’acqua in un punto e si aspetta di vedere l’acqua colorata in zone distanti (è una tecnica di indagine comunemente impiegata) per capire come si muove la falda, l’effetto compare con grande ritardo rispetto a quanto ci si aspetti. Mentre lo spostamento del liquido nelle porosità del terreno è generalmente lento, o addirittura lentissimo, la pressione trasferita a liquido fermo è immediata e non risente in alcun modo della porosità del terreno, essendo del tutto indipendente da questa.

La presenza fisica dell’acqua deriva dal trasferimento di liquido, invece la pressione che questa esercita si trasmette anche ad acqua ferma.

Può quindi esserci trasferimento di pressione senza movimento di liquido. Questo aspetto riveste un’importanza fondamentale nella valutazione degli effetti che l’acqua esercita sulle parti interrate degli edifici. Spesso non se ne

tiene conto o si considera il problema come poco significativo, andando incontro a situazioni di difficilissima risoluzione.

I fenomeni anomali

I fenomeni anomali sono movimenti anche repentini della quota di falda, dovuti a cause accidentali, a eventi non prevedibili, non collegati alle normali condizioni meteorologiche o comunque eccezionali.

Si cita come esempio l’abbassamento intenzionale della falda operato attraverso emungimento mediante opportune pompe, per consentire la costruzione di opere sotterranee nelle vicinanze.

In questo caso si avrà una modificazione locale dell’altezza della falda anche molto accentuata, ma solo per il periodo necessario all’esecuzione dei lavori. Capita abbastanza di frequente che tali modificazioni della falda influiscano anche sulla capacità portante del terreno per il venir meno dell’effetto di galleggiamento derivante dalla spinta esercitata dall’acqua sulle parti interrate, e di conseguenza sulle risposte del terreno ai carichi verticali applicati.

Fig. 7.7 Venute d’acqua in controspinta in una fossa ascensore, apparse improvvisamente con l’innalzamento della falda.

In alcuni casi, lo svuotamento dell’acqua presente sul terreno ha provocato veri e propri cedimenti strutturali con manifestazioni fessurative anche rilevanti su fabbricati distanti decine di metri dal punto di emungimento.

Nelle zone interessate dalla costruzione di nuove opere edili ed in quelle immediatamente limitrofe è sempre opportuno verificare le relazioni esistenti fra acqua e terreno. Un’altra modificazione momentanea della falda si verifica in prossimità dei terreni agricoli situati in zone pianeggianti,

quando si procede a irrigazione tramite canali all’aperto. In questi casi, i terreni sono quasi sempre di natura alluvionale di formazione recente, quindi fortemente permeabili, e l’innalzamento della falda fino a una quota prossima a quella del terreno può risultare problematico e spesso dannoso per le costruzioni abbastanza vicine da essere interessate al fenomeno.

Le infiltrazioni nei locali interrati

Le infiltrazioni nei locali interrati derivanti da eventi atmosferici sono fondamentalmente riconducibili all’innalzamento momentaneo della quota di stabilizzazione locale della falda. Ciò può avvenire in occasione di precipitazioni piovose o per altre cause collegate, che apportino consistenti quantitativi d’acqua al terreno.

Bisogna tener conto del fatto che, nelle immediate vicinanze dell’edificio, la possibilità che l’acqua piovana si allontani attraverso il terreno per raggiungere la falda è alterata dalla presenza dell’edificio stesso, che rappresenta un inserimento impermeabile per il terreno. Inoltre, non sempre i sistemi di evacuazione delle acque meteoriche verso gli impianti fognari sono efficienti. Spesso funzionano per mezzo di pompe di rilancio ad azionamento elettrico e durante i temporali si possono verificare temporanee interruzioni nell’erogazione di energia elettrica. In questi casi, il livello dell’acqua in prossimità dell’edificio tenderà a innalzarsi molto rapidamente perché a una grande velocità di apporto non corrisponde un’altrettanto rapida eliminazione dell’acqua attraverso il terreno o per mezzo delle canalizzazioni di scarico, sempre ammesso che queste siano funzionanti e non intasate.

È quindi frequente che, in occasione di precipitazioni particolarmente intense o molto prolungate, il livello locale della falda si innalzi in maniera consistente e spesso molto rapida a causa dello squilibrio fra l’acqua apportata e quella evacuata. Tutti gli elementi costruttivi dell’edificio situati al di sotto della quota del terreno saranno quindi bagnati da acqua liquida non percolante e sottoposti all’azione della pressione idrostatica dell’acqua

che, come ricordiamo, è pari a 1000 Kg/m² per ogni metro di altezza rispetto al punto considerato (legge di Stevino).

A questo punto insorgono contemporaneamente due problemi distinti.

Il primo è di natura statica e riguarda la resistenza meccanica degli elementi della costruzione soggetti alla spinta idrica e le relative deformazioni indotte da tale azione. Il secondo riguarda invece l’esistenza o meno di opportuni sistemi impermeabili che, già in fase di progettazione e di esecuzione, garantissero la necessaria tenuta in presenza di pressione derivante da battente idraulico.

Quasi sempre, negli edifici costruiti in passato e in quelli recenti non correttamente impermeabilizzati, entrambi i sistemi entrano in crisi. Le rilevanti spinte idrostatiche agenti sulle pareti o sui pavimenti saranno in grado di creare deformazioni rilevanti nelle strutture, anche di natura plastica quindi a carattere permanente, fino a generare lesioni o vere e proprie rotture. Generalmente, le pareti sono correttamente progettate per fare fronte a questa eventualità, i pavimenti quasi mai.

Qualora i sistemi di impermeabilizzazione adottati non avessero previsto l’innalzamento della falda, si verificheranno inoltre infiltrazioni più o meno gravi all’interno dell’edificio.

È da precisare che normalmente passa un po’ di tempo fra il momento della massima manifestazione della causa e la comparsa degli effetti. Il ritardo dipende da numerosi fattori, come la dimensione dell’edificio, la

stratificazione di pavimenti, pareti e massetti e la natura dei materiali utilizzati.

Sono frequenti ritardi variabili tra qualche minuto e qualche giorno. Com’è ovvio, se il ritardo è molto piccolo l’infiltrazione si trova vicina al punto dove si è resa visibile ed è probabilmente di entità rilevante. Mentre, con ritardi più lunghi, si dovrà ritenere più verosimile l’esistenza di infiltrazioni minime e distanti dalla zona dove l’umidità è apparsa.

Queste regole però non sono sempre valide.

Quasi tutti i locali interrati, anche se correttamente progettati e costruiti, presentano passaggi e attraversamenti di impianti nelle pareti e talvolta, ma più raramente, nel basamento. Normalmente si tratta di tubazioni di scarico di impianti idrici e fognari o di tubazioni elettriche, di alimentazione di impianti termici (gas, gasolio ecc.).

La diversa natura di questi impianti e il loro comportamento in esercizio, che può determinare vibrazioni, differenze di temperatura e dilatazioni, costituiscono rilevanti elementi di rischio per la tenuta all’acqua dell’attraversamento e quindi dell’intera costruzione.

Spesso, questi punti sensibili non sono stati né progettati né eseguiti con la dovuta cura e talvolta sono più volte modificati o rimaneggiati nel tempo a causa di errori, sostituzioni o adeguamenti.

Le cause più comuni di ingresso d’acqua dai locali interrati

Assenza di idonea protezione impermeabile

L’errore più ricorrente in assoluto, riferito a questa categoria di cause, riguarda l’esecuzione di sistemi impermeabili inadeguati. In particolare, è spesso realizzata una protezione per acqua percolante quando si sarebbe dovuta eseguire un’impermeabilizzazione totale in falda. Per i motivi che abbiamo già descritto e che saranno ulteriormente approfonditi nei paragrafi seguenti di questo stesso capitolo, i terreni a diretto contatto con l’edificio possono subire innalzamenti della quota di falda tanto rapidi quanto inaspettati.

La cosa più saggia da fare, è quella di considerare sempre l’intera parte interrata della costruzione come se fosse permanentemente a contatto con un livello di falda posto alla stessa quota del terreno.

Realizzare in fase di costruzione un edificio con queste caratteristiche non costa molto di più rispetto a un progetto tradizionale. Ma rappresenta una sicurezza definitiva riguardo a tutte le possibili cause future di infiltrazione.

Un altro errore piuttosto frequente è l’impiego di materiali o tecniche di impermeabilizzazione non adatte allo scopo. Si raccomanda vivamente di attenersi in maniera precisa alle prescrizioni d’uso stabilite dai produttori dei materiali e dei sistemi impiegati.

All’occorrenza e in caso di dubbi è opportuno sottoporre il progetto al produttore del sistema di impermeabilizzazione che si intende impiegare, per un parere vincolante.

Fig. 7.8 Sezione di un locale interrato della costruzione, realizzato secondo la modalità adottata più frequentemente. Sono visibili le opere di fondazione, che in questo caso sono di tipo a travature continue, le murature controterra di cemento armato, lo strato di magrone alla base dell’edificio, il vespaio aerato, le impermeabilizzazioni idonee per acqua percolante e i riempimenti drenanti. Alla base di questi ultimi sono spesso posizionate tubazioni drenanti, come quelle di colore arancione

nel disegno, che hanno il compito di raccogliere l’acqua e di canalizzarla verso un pozzo posto in posizione più bassa.

Fig. 7.9 In questa immagine è rappresentato il corretto movimento dell’acqua nel terreno attorno all’edificio. Le frecce blu indicano l’acqua meteorica o di qualsiasi altra natura che, per gravità, attraversa i drenaggi laterali scorrendo sulle impermeabilizzazioni. I tubi dreno di colore arancione raccolgono l’acqua evitando che questa possa salire di livello all’interno dello strato di riempimento drenante. Da qui in poi l’acqua deve essere canalizzata verso un pozzo di raccolta più basso e generalmente è fatta scaricare nel terreno. Questo pozzo, che prende il nome di perdente, funziona solo se il terreno è sufficientemente permeabile e se la falda idrica è abbastanza profonda. Negli altri casi è necessario pompare l’acqua verso canalizzazioni esterne, o le condotte

fognarie se consentito, evitando sempre che il livello liquido all’interno del riempimento drenante possa alzarsi. Le frecce blu allineate sotto l’edificio indicano il normale movimento di filtrazione verticale, ovvero l’acqua che percola per gravità verso il basso attraverso il terreno permeabile.

Fig. 7.10 Questo è ciò che accade quando l’acqua proveniente dall’alto non ha la possibilità di essere evacuata. Il problema può verificarsi, in diversi casi e con diversi livelli di intensità e gravità, quando la quantità d’acqua che arriva è maggiore di quella che si riesce ad allontanare. Le cause possono essere precipitazioni molto intense, un guasto della pompa di evacuazione, l’ostruzione dei tubi dreno oppure il salire del livello della falda fino a un punto tale da interessare l’edificio. Quando il livello liquido supera quello del pavimento, gli effetti sono devastanti. Le

frecce rosse indicano le infiltrazioni che passano dietro l’impermeabilizzazione e penetrano all’interno dell’edificio. L’acqua passa anche da sotto il magrone, sommergendo totalmente il vespaio aerato, bagnando il massetto e trasferendo importanti quantità di acqua liquida su tutte le murature della casa poste al piano interrato. I danni più gravi sono dovuti alle spinte idrostatiche che sollecitano il pavimento dal basso verso l’alto (frecce nere), cioè in direzione opposta a quella per la quale è stato costruito. Il fenomeno prende il nome di sifonamento ed è particolarmente dannoso.

Fig. 7.11 Quando si realizza una protezione impermeabile dei locali interrati e si ipotizza che la falda idrica possa innalzarsi è necessario che l’intera struttura sia molto rigida per far fronte alle spinte negative dell’acqua.

È d’obbligo, in questi casi, la costruzione di una robusta platea di cemento armato. Inoltre deve essere assolutamente evitato qualsiasi tipo di vespaio. Oltre a offrire una maggiore efficienza e sicurezza dell’impermeabilizzazione, la platea ha l’ulteriore vantaggio di rendere più stabile l’intero edificio, distribuendo il suo peso sul terreno in modo più uniforme. Le costruzioni a platea sono inoltre meno soggette ai movimenti differenziali del terreno e si prestano meglio a essere protette dal gas radon. Un eventuale danno di qualsiasi tipo, che dovesse manifestarsi successivamente sulla platea, si può gestire e riparare più facilmente rispetto a quanto avverrebbe con costruzioni come quella in Fig. 7.8. I vantaggi appena elencati portano a preferire la modalità costruttiva a platea sempre e comunque rispetto alla realizzazione tradizionale. Si consideri che, nelle costruzioni a platea, un allagamento simile a quanto descritto in Fig. 7.10 non può verificarsi.

Fig. 7.12 Nelle costruzioni a platea, l’innalzamento della falda non ha alcun effetto sulla struttura né sull’impermeabilizzazione. I carichi verticali possono essere contrastati molto bene, in parte dal peso proprio e in parte con la rigidità intrinseca del solettone di cemento armato. Il vespaio aerato non ha, in questo caso, alcuna utilità. È opportuno però utilizzare un sistema impermeabile anti radon, così da impedire che questo gas letale possa penetrare nell’edificio.

Danni causati all’impermeabilizzazione in fase di costruzione

Rappresentano un problema abbastanza diffuso e riguardano i danneggiamenti accidentali che si verificano in corso d’opera, prima che l’edificio sia completato.

Le situazioni più frequenti sono la perforazione del manto impermeabile durante il reinterro e le lacerazioni che avvengono in fase di costipazione del terreno.

Entrambi i tipi di danno derivano dall’inadeguata protezione del manto e richiedono costosi lavori di ripristino del sistema impermeabile.

Fig. 7.13 Qualora si debba obbligatoriamente realizzare il vespaio aerato, per quanto inutile, perché richiesto dalla normativa, questo dovrà andare in sovrapposizione al basamento di cemento armato della platea.

Danni all’impermeabilizzazione successivi alla costruzione

In questa categoria sono sicuramente da citare i danni dovuti alle radici, danni che possono insorgere quando non si è utilizzato un idoneo manto antiradice, e quelli causati da altre attività biologiche, come insetti, vermi e batteri, che facilmente perforano i manti impermeabili.

Danni da movimenti e deformazioni

Un’altra frequente causa di danno è da ascrivere ai movimenti del terreno intervenuti successivamente alla posa del sistema impermeabile o, in casi più rari, a deformazioni di particolare entità nella struttura, tali da provocare rotture e lacerazioni nei manti impermeabili compromettendo la tenuta all’acqua.

Invecchiamento del sistema impermeabile

Quasi tutti i sistemi impermeabili sono soggetti a un calo di prestazione nel tempo. Non fanno eccezione le impermeabilizzazioni degli interrati, nonostante siano protette dalla luce e dagli sbalzi termici. Normalmente, nelle opere di protezione dall’acqua e dall’umidità sono utilizzati materiali sintetici polimerici. Alcuni di questi non sono del tutto stabili e presentano

modificazioni del proprio stato fisco e chimico che, nel tempo, ne fanno decadere le caratteristiche, talvolta in maniera drastica. I manti di PVC utilizzati in passato, per esempio, avevano un serio problema di ritiro dimensionale sul lungo periodo, causato dall’evaporazione dei plastificanti. Poteva capitare infatti che i manti letteralmente strappassero le giunzioni a causa della loro contrazione, causando danni economici molto importanti. Per fortuna, al giorno d’oggi tali esperienze hanno consentito di sviluppare materiali molto più stabili rispetto a quelli impiegati in passato.

Principali effetti Gli effetti dell’umidità e dell’acqua liquida sulle parti interrate dell’edificio possono essere suddivisi in due categorie: contatto con il terreno umido ed effetti idrostatici. I fenomeni di trasferimento insaturo di umidità sono del tutto simili agli effetti della risalita non capillare, più propriamente classificabili come diffusione di umidità insatura sul mezzo poroso.

Le interazioni fra acqua mobile e terreno si riferiscono invece prevalentemente alle azioni di natura idrostatica, che saranno approfondite qui di seguito.

Effetti della pressione idrostatica sull’edificio

Al verificarsi della condizione di impregnazione totale del terreno, cioè di saturazione, la pressione idrostatica dell’acqua agente sulle strutture interrate sarà determinata dalla legge di Stevino, vale a dire secondo la formula P = γ·h, (dove P è la pressione, γ è la densità dell’acqua, e h è l’altezza raggiunta dal liquido rispetto al punto considerato). Tale pressione si eserciterà in tutte le direzioni, compresa quella orizzontale (Principio di Pascal).

Quindi, la pressione idrostatica agente sulle superfici sarà proporzionale all’altezza del livello liquido rispetto al punto considerato. Per avere un riferimento, tutti i punti situati alla quota di - 3 m, saranno soggetti alla spinta idrostatica di 3000 Kg al mq. Se tale spinta agisce su un setto separatore che delimita una parte bagnata da una parte asciutta, relativamente a quest’ultima la spinta agisce con verso opposto e diventa “controspinta”.

In questa condizione, l’intera struttura sarà assimilabile a una barca, con lo scafo immerso nel liquido e soggetto alle relative spinte di galleggiamento (o spinta di Archimede). L’acqua eserciterà rilevanti pressioni meccaniche sulle pareti, ma soprattutto sul fondo. Se non correttamente valutato in fase di progettazione, questo effetto può dare luogo a crisi statiche e deformative molto gravi. La situazione appena descritta si verifica frequentemente in occasione di precipitazioni particolarmente intense, durante le quali la concomitanza di un elevato apporto d’acqua piovana al terreno e l’improvviso innalzamento della falda determinano facilmente la condizione di saturazione del terreno. In questo caso, l’acqua agisce con

due effetti, entrambi dannosi: esercita un’azione di spinta meccanica e crea i presupposti per le infiltrazioni.

Effetti sui terreni

Alcuni tipi di terreno a composizione prevalentemente argillosa hanno la capacità di assorbire rilevanti quantità d’acqua aumentando il loro volume, per poi cederla in fase di disidratazione ritornando alla dimensione iniziale. Questi movimenti ciclici del sottosuolo determinano variazioni degli equilibri statici esistenti fra edificio e terreno. Oltre agli spostamenti verticali della costruzione rispetto al terreno, sono possibili anche fenomeni di scorrimento laterale. Più precisamente, se lo strato argilloso interposto è inclinato, diventa un piano di scivolamento a causa della minore coesione dell’argilla umida rispetto a quella asciutta.

Il dilavamento

Un altro fenomeno al quale abbiamo accennato è il dilavamento del terreno. In un normale terreno, la composizione delle particelle minerali varia enormemente di dimensione. Si trovano frazioni finissime e altre di misura via via maggiore, intimamente aggregate fra loro. Si tratta di limi, sabbie e ghiaie di diversa forma e pezzatura, oltre a sassi e ciottoli variamente assortiti. Quando il terreno è attraversato da un flusso d’acqua, questa ne asporta le particelle più minute, trascinandole via.

Il fenomeno descritto prende il nome di dilavamento e indica appunto l’effetto di “lavare via”.

Quando avviene, la sezione di passaggio del flusso nel terreno aumenta progressivamente, facilitando il transito dell’acqua e aumentandone la portata. L’acqua scava via la terra, lasciando spazi vuoti inizialmente piccoli che diventano man mano più grossi. Sugli edifici si possono verificare problemi prevalentemente statici, derivanti da riduzioni anche sensibili della capacità portante del terreno e dall’incremento della deformabilità. La sottrazione progressiva di materiale solido può infatti creare nel sottosuolo zone meno resistenti, fino a formare veri e propri vuoti sotterranei capaci di causare cedimenti e crolli negli edifici.

L’intasamento

In alcune situazioni avviene invece il fenomeno inverso a quello del dilavamento, che prende il nome di “intasamento”. Si riferisce alla progressiva riduzione della permeabilità dovuta al deposito nelle porosità del terreno di particelle fini che tendono a ostruire il passaggio dell’acqua. Un po’ come avviene nei filtri che si intasano con l’uso. La conseguenza è il ristagno superficiale e sotterraneo di acqua liquida in terreni che in origine erano permeabili. Questo può causare saturazione del terreno in occasione di eventi piovosi anche modesti su terreni che in passato drenavano correttamente.

Il sifonamento

Si tratta di un fenomeno poco conosciuto e non intuitivo, che riguarda il movimento dell’acqua nel sottosuolo. Si verifica quando vi è continuità liquida tra zone aventi altezze piezometriche diverse e si spiega con il principio dei vasi comunicanti. Questo fenomeno è responsabile di passaggi d’acqua all’interno dell’edificio in maniera talvolta inspiegabile e dello sviluppo di pressioni spesso distruttive sulle strutture edili non dimensionate per far fronte a tale fenomeno.

Fig. 7.14 Il sifonamento riguarda il passaggio d’acqua da sotto l’edificio ed è un problema molto serio se non valutato in fase di progetto.

Fig. 7.15 Realizzazione di una fondazione a platea in un terreno con livelli di falda idrica prossimi alla quota del suolo. In questi casi la platea è d’obbligo, ma si suggerisce comunque di adottarla per tutte le opere interrate.

Il gas radon

Un aspetto poco noto, riguardante le relazioni fra l’acqua proveniente dal sottosuolo e l’edificio, è quello relativo al gas radon. Si tratta di un gas radioattivo, estremamente pericoloso e molto solubile in acqua, trasportato in superficie attraverso falde acquifere contaminate. Ai fini della salute

dell’immobile il gas radon è del tutto ininfluente, ma altrettanto non si può dire per la salute degli occupanti, che è invece pesantemente minata da questo micidiale elemento, responsabile solo in Italia di circa 4.800 decessi annui (fonte Istituto Superiore di Sanità).

È auspicabile che anche in Italia si adotti una normativa simile a quella vigente negli USA, dove la misurazione del radon è obbligatoria e deve fare parte dei documenti da esibire in caso di compravendita e di locazione dell’immobile. In un futuro abbastanza prossimo si potrebbe assistere alla svalutazione economica anche rilevante delle costruzioni non adeguatamente protette dalla minaccia del radon. Negli edifici nuovi la prevenzione è estremamente semplice ed economica e consiste nell’utilizzo di teli impermeabili al radon da stendere sul terreno prima delle opere di fondazione. In quelli datati, la correzione si effettua mediante sigillature o con la realizzazione di pozzetti di raccolta del radon, che è poi evacuato in atmosfera.

Fig. 7.16 Impiego di un telo antiradon per la protezione preventiva dell’edificio. In questo caso, la membrana è posizionata al di sotto del pavimento (immagine tratta dal sito della società Index S.p.a. www.indexspa.it).

Gli effetti geomagnetici

Un altro elemento di interazione fra l’acqua del sottosuolo e l’immobile è costituito dalle onde geomagnetiche. Anche queste non hanno alcuna influenza sulla vita della costruzione, ma esercitano effetti anche sensibili

sulle persone che la occupano, quindi riteniamo di dovere perlomeno accennare al tema.

Il sottosuolo terrestre è oggetto di numerose azioni e modificazioni di natura elettromagnetica, che determinano effetti misurabili anche in superficie. L’esperienza quotidiana ci insegna che l’ago della bussola indica il nord. Questo fatto è dovuto alla presenza di un forte campo magnetico naturale, avente i suoi poli quasi allineati a quelli geografici.

Il campo magnetico naturale terrestre ci protegge dal vento solare e da numerose altre radiazioni cosmiche alle quali il nostro pianeta è esposto. Un aspetto poco conosciuto invece riguarda la presenza nel sottosuolo di campi geomagnetici, che attraversano strati di materiale compatto senza alcuna attenuazione. Sono però influenzati dalla presenza di metalli e masse d’acqua sotterranee, le quali agiscono da lente e sono in grado di deviare e di concentrare le radiazioni, aumentandone gli effetti in determinate zone circoscritte del terreno.

Queste manifestazioni sono facilmente individuabili con attrezzature da radioestesia, come bacchette o indicatori vari comunemente classificati come attrezzi da rabdomante o strumenti per cercare l’acqua. In realtà, il rabdomante non è altro che un soggetto particolarmente allenato a percepire onde di debolissima intensità utilizzando un’antenna lineare chiamata bacchetta. Queste emissioni sono normalmente più intense sulla verticale dei corsi d’acqua, ma spesso sono dovute ad altre cause. Si spiegano così alcuni clamorosi errori di valutazione dei terreni da parte di rabdomanti anche famosi. La stessa misurazione può essere effettuata con metodo scientifico, riportando dati numerici con l’utilizzo di uno strumento detto geomagnetometro, in grado di tracciare i debolissimi campi provenienti dal terreno.

Fig. 7.17 Innalzamento della falda idrica avvenuto durante la costruzione di un edificio residenziale. Situazioni come questa sono purtroppo frequenti e necessitano spesso di costose opere di adeguamento, di natura sia statica sia di impermeabilizzazione dell’involucro edilizio.

Prevenzione La prevenzione degli effetti negativi causati dall’acqua presente nel terreno deve necessariamente unire una corretta progettazione statica a una impermeabilizzazione totale delle strutture interrate. I calcoli strutturali dovranno essere elaborati tenendo conto che tutte le superfici dell’edificio poste al di sotto della quota del terreno siano soggette a spinta idrostatica negativa, in funzione della loro profondità. Le impermeabilizzazioni, inoltre, dovranno essere idonee a sopportare un battente d’acqua permanente, come se la falda si trovasse costantemente alla stessa quota del terreno.

Le impermeabilizzazioni in falda

Nella realizzazione di un fabbricato capita sempre più spesso di costruirne una parte in posizione interrata, anche per la profondità di diversi piani, per creare un numero sufficiente di parcheggi e cantine, oltre a locali tecnici di varia natura.

In funzione delle caratteristiche del terreno, della sua stratigrafia e della presenza di falde idriche, possono insorgere problemi anche seri derivanti dall’acqua, presente in maniera continuativa, ciclica oppure occasionale.

Come già è stato ampiamente sottolineato, l’errore principale è quello di non considerare la Relazione geologica.

Prima di iniziare i lavori, in ottemperanza alle disposizioni di legge, si dovrebbe consultare la relazione geologica redatta da un geologo abilitato alla professione, dalla quale è possibile ottenere importanti informazioni d’insieme, utili per realizzare una progettazione corretta ai fini sia statici e strutturali sia di impermeabilità e durabilità complessiva dell’opera. Molto spesso, invece, l’unico dato considerato significativo riguarda la portanza del terreno, ovvero la sua capacità di sopportare il carico dell’immobile che vi sarà edificato. Quasi mai si prendono in esame la quota della falda e la sua suscettibilità alle variazioni, ovvero il suo livello minimo e massimo, stimato in base ai dati storici. Questi elementi sono di enorme importanza per valutare correttamente le condizioni del sito dove l’edificio andrà costruito e, se trascurati, possono dare luogo a problemi di difficile soluzione.

Quando si prevede che una parte della costruzione debba stare al di sotto del livello di falda, bisogna analizzare correttamente diversi aspetti della struttura. Il primo e più importante in assoluto riguarda la possibilità di lavorare “in asciutto” in corso d’opera. Se la quota di falda è prossima o corrispondente a quella delle opere, sarà necessario creare un sistema di abbassamento momentaneo della quota di falda negli immediati dintorni dell’area interessata. Questo servirà a ridurne il livello per la durata necessaria all’esecuzione dei lavori. Vedremo poi cosa si intende per durata necessaria.

I sistemi più comunemente utilizzati per abbassare momentaneamente la quota dell’acqua e consentire l’esecuzione dei lavori sotto il livello della falda sono sostanzialmente questi:

pozzi di emungimento; trincee o tubi dreno; impianto wellpoint.

Pozzi di emungimento

Sono praticati nelle vicinanze dello scavo e vi si preleva l’acqua di falda fino a farne abbassare il livello alla quota desiderata. Si tenga presente che la quota della falda nelle vicinanze del pozzo non sarà uniforme, ma si disporrà secondo una curva conoidale detta piezometrica. Questa dipenderà in maniera preponderante dalla permeabilità del terreno e dalla profondità e dal diametro del pozzo. Il calcolo della localizzazione, del diametro e della profondità di questi pozzi nonché della portata delle pompe di evacuazione

dovrà essere necessariamente formulato da un geologo o da un ingegnere geotecnico.

Trincee o tubi dreno

Le trincee sono un’alternativa ai pozzi. Anziché svilupparsi in profondità, si dispongono in linea orizzontale e servono per intercettare flussi d’acqua, anche rilevanti, di provenienza laterale. Sono più adatte per elevate portate d’acqua e per minori profondità o dove la natura del materiale costituente il terreno richieda un’elevata superficie filtrante, come per esempio con argille o limi molti fini.

Impianti wellpoint

Gli impianti wellpoint sono costituiti da tubi, detti aste o aghi, del diametro di 50-100 mm infissi nel terreno e con un filtro all’estremità. All’estremità opposta sono dotati di un attacco collegato a un sistema di pompe aspiranti. Sono disposti a distanze prestabilite e alla profondità necessaria a formare un anello che contiene l’intera area di scavo e hanno la funzione di succhiare via l’acqua, abbassando momentaneamente la falda.

I pozzi di emungimento sono impiegati quando il terreno è costituito da ciottoli di grosse dimensioni (diametri maggiori di 60 mm), mentre per le ghiaie e per le sabbie a matrice ghiaiosa sono preferibili gli impianti wellpoint. Se il terreno è caratterizzato da matrici argillose o limose, l’utilizzo degli impianti wellpoint diventa più difficoltoso e spesso si ricorre all’uso di trincee drenanti e di tubi dreno. In casi particolari possono essere utilizzati contemporaneamente diversi metodi di evacuazione.

Esecuzione delle opere in presenza di falda

La quota della falda dovrà restare bassa per tutta la durata delle opere che si svolgono in zona interrata e le pompe di evacuazione delle acque non potranno essere staccate finché il peso totale della costruzione non sarà superiore alla spinta di galleggiamento esercitata dall’acqua sulla sua parte interrata. Talvolta, il pareggio delle spinte si ottiene solo dopo avere costruito almeno altri due solai fuoriterra. Si rende perciò necessario l’utilizzo di opportuni sistemi di sicurezza comprendenti pompe gemelle e gruppi elettrogeni di emergenza ad avviamento automatico capaci di mantenere in funzione l’impianto anche in caso di interruzione dell’energia elettrica di rete. Se il sistema di abbassamento della falda dovesse entrare in crisi e smettere di funzionare durante una fase intermedia delle lavorazioni, per esempio quando il peso totale dell’opera fosse inferiore alla spinta di galleggiamento o quando i carichi idrostatici agenti sulle superfici non fossero ancora interamente contrastati dalla struttura, si potrebbero verificare danni molto gravi alle opere per effetto delle enormi spinte generate dall’acqua. La realizzazione di costruzioni edili “in falda” ovvero situate in zone del terreno dove la falda entra in contatto con l’edificio, comporta per il progettista la necessità di un’analisi accurata di tutti questi aspetti.

La realizzazione di una platea, unita all’utilizzo di pareti di cemento armato di adeguato spessore e armatura, sarà d’obbligo. In alternativa, quando le condizioni del terreno lo impongono, sono impiegate anche soluzioni diverse, come i diaframmi, le palificate continue dette anche berlinesi, le palancole e altre opere di geotecnica.

Un aspetto spesso sottovalutato riguarda i movimenti reciproci fra terreno e opere in corso di realizzazione, motivo di rischi molto seri per le impermeabilizzazioni.

A titolo di esempio si consideri che, dal momento in cui si inizia la costruzione di un edificio che parte dall’interrato alla sua ultimazione, il terreno può avere assestamenti sotto forma di scorrimenti verticali fino a 5 cm. Le impermeabilizzazioni saranno trascinate insieme all’edificio e tenderanno a scorrere sul terreno per queste lunghezze. I materiali dovranno perciò sopportare tensioni e strisciamenti molto importanti, che spesso ne causano la lacerazione.

Si dovrà pertanto procedere alla corretta valutazione delle spinte agenti sulle superfici, ovvero delle pressioni di natura idrostatica. Queste si esercitano in maniera continua su tutta la superficie interessata e hanno intensità pari a γ·h, ovvero pari a un carico di 1000 Kg/mq per ogni m di altezza dell’acqua. È opportuno ricordare che se la falda si trova a una quota bassa rispetto al terreno, poniamo per esempio a -3 m, e la superficie inferiore della platea interessata dalla spinta si trova a -4 m, il dislivello sarà pari a 1 m. Ne deriva una spinta negativa o controspinta di 1000 Kg/mq sulla platea. Ma è anche vero che, in occasione di precipitazioni particolarmente copiose, la quantità d’acqua apportata dalla pioggia può superare quella che il terreno riesce a evacuare in funzione della propria permeabilità. Quando ciò avviene, si verifica un innalzamento localizzato del livello liquido, che darà luogo all’istantaneo e proporzionale incremento della pressione superficiale agente. Praticamente in un attimo il battente potrebbe diventare di 4 m e la spinta negativa sulla platea passare da 1000 a 4000 Kg/mq.

Questo aspetto è fondamentale: la pressione si trasmette attraverso un liquido anche senza trasferimento di fluido, cioè anche in assenza di portata.

Si dovranno opportunamente considerare i giunti strutturali della costruzione e valutare la possibilità di formazione di lesioni da ritiro e statiche. Si dovrà prestare altrettanta attenzione all’asimmetria dei carichi agenti sul terreno durante il corso della costruzione e alla diversa risposta del terreno alle sollecitazioni indotte dal fabbricato. Solo quando tutti gli aspetti strutturali siano stati valutati e risolti, si potrà procedere all’individuazione della corretta tecnica di impermeabilizzazione da realizzare nell’opera.

Sono possibili due distinte situazioni: l’impermeabilizzazione in spinta e quella in controspinta.

La prima si verifica quando il manto o il sistema impermeabile è spinto dall’acqua contro la superficie resistente. Nella seconda, invece, l’azione dell’acqua tende a staccare l’impermeabilizzazione dalla superficie. Appare ovvio che la situazione “in spinta” è molto più sicura e affidabile rispetto all’altra ma, a causa di problemi realizzativi, non sempre si riesce a realizzare un sistema di quel tipo, con il necessario livello di affidabilità.

I materiali e le tecniche disponibili sono studiati prevalentemente per l’applicazione in spinta, mentre sull’esecuzione “in controspinta” la quantità di soluzioni è molto più limitata. Le attuali tecniche di realizzazione in controspinta risultano comunque altrettanto affidabili di quelle in spinta.

Importante!

Il calcestruzzo impermeabilizzato in controspinta sarà permanentemente immerso nell’acqua. Questo non ha alcun effetto negativo sulla sua durabilità, che è all’incirca pari a quella dello stesso calcestruzzo asciutto, impermeabilizzato in spinta.

Di seguito saranno elencate le tecniche più comunemente impiegate per la realizzazione di impermeabilizzazioni in falda.

Tecniche di prevenzione, esecuzione in spinta e in controspinta

Fig. 7.18 Sistema di impermeabilizzazione “in spinta”: il materiale che realizza la tenuta è spinto dall’acqua sulla superficie del supporto.

Sistemi di impermeabilizzazione impiegabili in spinta:

guaina bituminosa;

manto bentonitico; manto sintetico; Preproof Grace; malta elasticizzata; rivestimenti continui; cementi osmotici; sistema vasca bianca.

Fig. 7.19 Sistema di impermeabilizzazione “in controspinta”: la pressione idrostatica tende a staccare il materiale dalla superficie di supporto.

Sistemi di impermeabilizzazione impiegabili in controspinta:

rivestimenti continui (solo tricomponenti); cementi osmotici; malte elasticizzate (limitatamente); sistema vasca bianca.

Guaine bituminose

Sono simili a quelle usate sulle coperture e sono impiegate anche nelle realizzazioni di locali interrati soggetti a spinta idrostatica. Necessitano di un piano di posa molto regolare e di protezioni del manto piuttosto accurate, essendo molto sensibili ai danneggiamenti. Per le applicazioni nei locali interrati, si devono utilizzare teli specifici rinforzati, maggiormente resistenti al punzonamento e alla lacerazione. Il sistema è funzionale solo se realizza una chiusura completa “a vasca”, comprendente il risvolto del manto impermeabile fino alla quota del terreno o leggermente superiore.

Manto bentonitico

La bentonite di sodio è un’argilla selezionata che a contatto dell’acqua aumenta il suo volume fino a 6 volte, trasformandosi in un gel impermeabile. Può essere confezionata in pannelli di cartone ondulato, riempiti di bentonite negli spazi vuoti, oppure in teli di tessuto non tessuto, adeguatamente trattati e saturati di bentonite al loro interno.

Gli elementi impermeabili, sia in teli che in pannelli, devono essere sovrapposti anche mediante chiodatura ed essere contrastati, ovvero spinti contro la superficie da impermeabilizzare dal terreno o da un massetto. Ciò è necessario per evitare che l’espansione dovuta all’idratazione possa fare decadere la prestazione impermeabile, rendendo poco efficace il loro effetto.

Il manto può essere steso direttamente su terreno, così come sulle pareti se queste sono abbastanza regolari, prima del reinterro. È inoltre possibile effettuare il getto del calcestruzzo contro il manto. Il sistema bentonitico è per sua natura autoriparante, tende cioè ad autosigillare in tempi brevissimi eventuali fori di chiodi o piccoli tagli e lacerazioni che dovessero verificarsi anche dopo molto tempo dalla posa. Il materiale è sensibile alla presenza di sali disciolti nell’acqua, che ne ostacolano il processo di idratazione, riducendo gli effetti dell’espansione. Per applicazioni in ambiente ricco di sali o in presenza di acqua marina dovranno essere impiegati teli di apposita composizione, insensibili a questo problema.

I manti sintetici

Quelli attualmente utilizzati sono di tipo poliolefinico (polietilenico), del tutto simili come aspetto e come applicazione ai manti di PVC utilizzati in passato, rispetto ai quali presentano sensibili miglioramenti, come una maggiore stabilità chimica, assenza di ritiro, maggiore resistenza meccanica e insensibilità alla maggior parte delle azioni aggressive delle acque. L’applicazione prevede la loro stesura sul supporto, previa protezione

meccanica con tessuto non tessuto a elevata grammatura (min. 300 gr/mq), la saldatura sui sormonti ad aria calda o con appositi adesivi e la protezione sovrastante con altro strato di tessuto non tessuto o materiale maggiormente resistente. Sono molto più veloci in fase di applicazione rispetto ai manti bituminosi, non richiedono l’uso di fiamme libere e sono da preferire negli ambienti interrati dove l’utilizzo di fiamme non è consentito. Sono però di spessore inferiore, più delicati e necessitano di grande attenzione per evitare danneggiamenti. Occorre prestare speciale cura nell’esecuzione dei particolari di raccordo, come l’innesto su tubi, angolari o terminali.

Preproof Grace

È un materiale appositamente studiato per le applicazioni interrate, è costituito da un telo molto resistente di polietilene, rivestito su un lato da un materiale che reagisce con il calcestruzzo in fase di presa. È adesivizzato sui sormonti per mezzo di apposite cimose per garantire la tenuta nelle sovrapposizioni. Va utilizzato come elemento di contrasto del getto, sia sugli orizzontali che sui verticali. Durante la presa del calcestruzzo, realizza una reazione chimica che lo fa diventare un tutt’uno con la superficie, rendendolo particolarmente resistente e di difficilissima lacerazione o rottura.

Malta elasticizzata

Le malte elasticizzate si ottengono per miscelazione di una componente di polvere di cemento, inerti e additivi, con eventuali fibre sintetiche di rinforzo e un liquido contenente resine acriliche in dispersione. La miscelazione crea un prodotto pastoso molto adesivo che si stende a cazzuola americana, a pennello o a spruzzo sulle superfici da impermeabilizzare. Si prevede l’uso di una rete in fibra di vetro plastificata con funzione di rinforzo, da interporre fra due strati di malta successivi. I vantaggi sono la velocità di

posa, l’applicazione in aderenza totale sul supporto, che rende molto semplice e immediata l’individuazione di un danno o un difetto, e la possibilità di applicazione su supporti non regolari e di forma complessa. Ne va inoltre evidenziata la facilità di trattamento dei punti particolari, come raccordi, contorno tubi, angolari ecc. Il sistema necessita però di protezioni molto accurate, in quanto il prodotto finito raggiunge lo spessore massimo di 1,5 mm e non ha una grande resistenza meccanica. Quindi è facilmente soggetto alla perforazione e al danneggiamento accidentale. Esistono prodotti di recente formulazione che possono essere impiegati con successo anche in presenza di modeste spinte negative (fino ad altezze di 5 m).

Rivestimenti continui

In questa categoria rientrano tutti quei prodotti, applicabili in fase liquida o pastosa, che aderiscono totalmente alla superficie di posa realizzando un manto continuo. Possono essere monocomponenti oppure bicomponenti e, in casi particolari, anche tricomponenti. Questi ultimi legano meglio con la matrice cementizia e sono adatti anche alle applicazioni in controspinta. Hanno diversi tipi di formulazione chimica e generalmente sono a composizione bituminosa modificata, acrilica, poliuretanica e, più raramente, epossidica, epossidi-poliuretanica o in epossicatrame.

Merita un cenno particolare il sistema a poliurea, che utilizza due componenti da scaldare e spruzzare con apposita macchina sulle superfici per realizzare un manto continuo che polimerizza istantaneamente sul supporto.

Una particolare forma di impermeabilizzazione continua può essere considerata lo spritz-beton o shot-concrete, che utilizza una malta cementizia adeguatamente dosata, a presa rapida o rapidissima, da spruzzare sul

supporto in spessori variabili e tale da formare un rivestimento cementizio estremamente resistente e impermeabile sia in spinta che in controspinta.

Il suo uso è molto frequente nelle gallerie e nei lavori infrastrutturali ed è quasi sconosciuto nell’edilizia residenziale.

Fig. 7.20 Applicazione in spinta di un rivestimento continuo di resina poliuretanica a spruzzo. Questo sistema garantisce un’ottima aderenza al supporto, è molto rapido e ha un corretto rapporto prezzo/prestazione (immagine gentilmente concessa da Magma S.a.s. www.magmamacchine.it.).

Cementi osmotici

Sono cementi di particolare composizione chimica, disponibili sotto forma di polvere da usare tal quale o da miscelare con acqua per l’ottenimento di boiacche. A contatto con il calcestruzzo, fresco o indurito, reagiscono con la calce libera naturalmente presente nella massa cementizia, dando luogo alla formazione di cristalli insolubili all’interno delle porosità del materiale, occludendole. Realizzano quindi reazioni minerali irreversibili che intasano le porosità del calcestruzzo, rendendolo più resistente e impermeabile. Sono applicabili sia in spinta che in controspinta, anche con elevate pressioni di esercizio (fino ad altezze d’acqua di 180 m). Non necessitano di alcun tipo di protezione ulteriore sulle superfici. Si impiegano con successo in situazioni di presenza d’acqua continuativa, anche se marina. Non possono entrare in contatto con oli o solventi, ma sono molto adatti al contatto con acque potabili e di scarico. Essendo materiali particolarmente rigidi, sono da preferire dove i movimenti e le deformazioni strutturali sono assenti o hanno un’entità ridotta.

Alcuni prodotti derivati dai cementi osmotici possono essere usati anche come cristallizzanti in massa, da aggiungere come additivo al calcestruzzo in fase di impasto.

Sistema vasca bianca®

È una particolare tecnica costruttiva che, in fase di progettazione, tiene conto delle azioni di ritiro del calcestruzzo. Attraverso un’accurata analisi e progettazione del materiale a livello di mix-design, di rapporto acqua/cemento, delle condizioni di getto e di maturazione, si riesce a prevedere o a indurre la localizzazione e l’entità delle lesioni da ritiro che si

andranno a creare. Si favorisce la formazione del fenomeno attraverso appositi profili e si creano le condizioni per la sigillatura successiva con l’iniezione di idonee resine acriliche da inserire a pressione con l’uso di una pompa. In questo modo si crea una vasca completamente impermeabile in massa, senza alcun tipo di materiale applicato o di rivestimento superficiale. Per dar luogo a una esecuzione affidabile è necessario uno studio molto accurato dei vari elementi del sistema, che deve necessariamente essere svolto contemporaneamente alla progettazione strutturale. Questa tecnica è adatta a realizzazioni sia in spinta che in controspinta anche in acque marine, ed è praticamente insensibile ai danneggiamenti superficiali, poiché rende l’intera massa del cemento armato completamente impermeabile. Allo stato attuale, rappresenta in assoluto uno dei migliori sistemi di impermeabilizzazione del calcestruzzo, poiché rende ermetico l’intero spessore della struttura. Il sistema non è soggetto a rischi derivanti da danni accidentali né in corso di costruzione né durante la vita utile dell’opera. In caso di danni successivi di altra natura è facilmente riparabile in maniera sicura e definitiva.

Fig. 7.21 Realizzazione di una struttura interrata con fondazione a platea e pareti di cemento armato, dove si vedono i profili arancioni del sistema vasca bianca. Una costruzione come questa non necessita di alcun tipo di manto protettivo, poiché l’intero spessore della struttura è impermeabile. Il fenomeno del sifonamento non ha alcun effetto sulle fondazioni a platea (immagine gentilmente concessa da Drytech S.r.l. www.drytech.ch.).

Fig. 7.22 Stessa costruzione dell’immagine precedente, appena ultimata e pronta per il reinterro. Il sistema vasca bianca si presta bene anche a proteggere strutture sottobattente e a permanente contatto con acqua liquida (immagine gentilmente concessa da Drytech S.r.l. www.drytech.ch.).

Correttivi I correttivi si riferiscono all’insieme di interventi atti a conferire la necessaria tenuta impermeabile alle parti interrate dell’edificio, nel caso in cui questi non siano stati previsti in progetto o non siano stati adeguatamente realizzati. Occorre impiegare opportuni correttivi anche quando le opere di impermeabilizzazione eseguite non hanno dato i risultati attesi.

Quelle relative all’acqua proveniente dal terreno sono situazioni molto complesse, per le quali è assolutamente necessario effettuare un’accurata analisi dell’edificio, partendo dallo studio del terreno sul quale è fondato. Spesso si rende necessaria anche la verifica dei calcoli statici, per valutare se le ipotesi di progetto fossero applicabili o meno al caso reale oppure se siano intervenute variazioni sugli elementi costruttivi che abbiano inciso in maniera considerevole sull’equilibrio complessivo dell’organismo edilizio. In questa sede saranno perciò indicati per sommi capi solo gli accorgimenti adottati più comunemente in situazioni simili. Si suggerisce in ogni caso di rivolgersi solo a tecnici esperti sul tema per la valutazione dei problemi legati al rapporto fra l’acqua del sottosuolo e l’edificio.

Come è noto, sono due le categorie di problemi legati all’acqua proveniente dal terreno: quella relativa all’acqua percolante e quella relativa all’acqua di falda.

Acqua percolante con impermeabilizzazione danneggiata o assente

Si tratta di una situazione piuttosto semplice da affrontare e da risolvere, che si verifica quando il terreno è perfettamente drenante e si è in presenza di falda idrica profonda. In questi casi, le parti interrate dell’edificio sono interessate prevalentemente da un modesto trasferimento di umidità di tipo diffusivo. Più raramente si verificano fenomeni capillari. Il terreno non accumula l’acqua piovana e non ci sono infiltrazioni di acqua in spinta negativa sulle parti interrate. È stato applicato un sistema impermeabile, una guaina liquida o qualche altro materiale sulle superfici esterne della costruzione che non ha dato i risultati attesi. In queste situazioni, le possibilità di correzione sono due: da fuori o da dentro l’edificio.

La prima prevede lo sbancamento del terreno a ridosso delle pareti controterra, l’esecuzione dell’impermeabilizzazione esterna o la sua eventuale riparazione e il successivo reinterro.

È importantissimo effettuare il riempimento solo con materiale a elevata capacità drenante, pari o superiore a quella del terreno precedentemente sbancato.

Si suggerisce l’impiego di ghiaia grossa, previa stesura di una membrana protettiva bugnata sul manto impermeabilizzante o di un tessuto non tessuto di elevata grammatura. Se le pareti interrate sono in cemento armato, è preferibile impermeabilizzarle con il cemento osmotico a penetrazione, che garantisce una maggior sicurezza.

L’altra possibilità prevede invece che si debba operare dall’interno.

Se i muri sono di mattoni o blocchi cavi di cemento, la soluzione più semplice è quella di applicare sulle superfici prive di intonaco un rivestimento impermeabilizzante cementizio a spessore, sul quale si andrà poi a posare un intonaco traspirante (Fig. 7.24). Sulle pareti di cemento armato si potrà adottare la stessa modalità correttiva oppure un cemento osmotico a penetrazione.

Fig. 7.23 Lavori di ripristino dell’impermeabilizzazione su una parete interrata realizzata originariamente in maniera incompleta. L’opera di fondazione non era stata impermeabilizzata sull’orizzontale e mancava

del risvolto a scendere. L’acqua piovana poteva sifonare fra la guaina bituminosa e la parete di cemento armato, penetrando all’interno dell’edificio.

Acqua di falda con impermeabilizzazione danneggiata o assente

Questa è una situazione molto complessa, sia nell’analisi dello stato di fatto sia nella determinazione dei correttivi.

Se l’edifico è stato impermeabilizzato in origine con un sistema adatto all’acqua percolante, risulta piuttosto complicato farlo poi diventare ermetico all’acqua di falda. In questi casi, la sola impermeabilizzazione delle pareti esterne non è efficace perché, in virtù della pressione idrostatica derivante dal battente idraulico, l’acqua può agevolmente sifonare introducendosi nell’edificio da sotto. Gli effetti della spinta negativa sono molto intensi e possono facilmente creare deformazioni e rotture statiche sui pavimenti, che si trovano a sopportare carichi in direzione opposta a quella di progetto. Spesso si utilizzano dei pozzi di emungimento per drenare e raccogliere le acque a un livello più basso rispetto a quello dell’edificio, ma anche questa è una soluzione rischiosa.

Occorre infatti installare una coppia di pompe uguali (dette appunto gemelle) dotata di vari galleggianti di azionamento e di sicurezza e comandata da una centralina con allarme. L’acqua che sale di livello all’interno del pozzo aziona il galleggiante, che a sua volta fa avviare alternativamente una delle due pompe di evacuazione. Le pompe funzionano in maniera alternata, per evitare che possano bloccarsi stando ferme troppo a lungo. In caso di guasto, la centralina di controllo aziona l’allarme. Se il livello dell’acqua sale oltre un certo limite, si aziona un galleggiante di emergenza che fa avviare entrambe le pompe per scaricare più velocemente l’acqua di falda. Per maggior sicurezza, un impianto del genere deve essere dotato di un gruppo elettrogeno, capace di avviarsi automaticamente in caso di interruzione dell’energia elettrica di rete.

I black-out elettrici sono purtroppo frequenti in occasione di precipitazioni molto intense, durante le quali si può verificare un improvviso innalzamento del livello di falda. La scelta del pozzo drenante o perdente è comunque da considerare un’opera rischiosa e di ripiego, da evitare per quanto possibile. Si suggerisce caldamente di realizzare sempre l’impermeabilizzazione di tutte le parti interrate, come se la falda fosse permanentemente alla quota del terreno.

Nei casi di strutture adatte a sopportare le azioni dell’acqua di falda, cioè di opere di cemento armato di adeguata sezione e resistenza, curate nei collegamenti e nelle giunzioni, è piuttosto improbabile che vi siano perdite di tenuta o infiltrazioni.

Esistono diversi materiali sotto forma di malte cementizie rapide adatti ad arrestare velocemente e in maniera definitiva le venute d’acqua in controspinta dalle strutture. Alcune tecniche consentono inoltre la realizzazione di elementi elastici di tenuta in controspinta, da applicare anche su giunti strutturali.

Fig. 7.24 Impermeabilizzazione in controspinta di una venuta d’acqua su parete interrata di cemento armato, con l’uso di cemento osmotico a presa istantanea. Contrariamente a ciò che si pensa, questo sistema di sigillatura è molto efficace e garantisce l’impermeabilità definitiva all’opera.

Fig. 7.25 Modalità di eliminazione degli apporti di acqua liquida e di umidità in controspinta su muratura di mattoni o pietra. È necessario realizzare un rivestimento impermeabile a spessore sul lato interno, opportunamente ancorato alla parete e connesso al basamento. Anche la connessione al pavimento dovrà essere impermeabile. Successivamente, si dovrà applicare un intonaco traspirante o un altro rivestimento con funzione di tampone, per evitare fenomeni di condensazione superficiale.

Fig. 7.26 Realizzazione di un giunto elastico in controspinta. In situazioni particolari, è possibile garantire anche la tenuta all’acqua di un giunto elastico in spinta negativa.

La velatura

Una tecnica molto efficace, da impiegare nelle pareti interrate di muratura, calcestruzzo o pietra, sia con acqua liquida che con umidità insatura, è la velatura. Consiste nella realizzazione di un velo di materiale impermeabile a contatto con il terreno, dietro la parete.

Si praticano alcuni fori per tutto lo spessore del muro, secondo una maglia all’incirca quadrata, da 40 x 40 cm o da 50 x 50 cm a seconda dei casi, sui quali si inseriscono appositi ugelli. Per mezzo di una pompa a pressione, si inietta una resina, generalmente acrilica o poliuretanica, fra la parete e il terreno. Questo composto reagisce con l’acqua in pochi istanti e, dopo l’indurimento, assume la consistenza di una gomma morbida, molto aderente alle superfici e insensibile all’acqua. In questo modo, si può realizzare una corretta impermeabilizzazione direttamente dietro le murature di qualsiasi natura e composizione, senza dovere modificare la superficie a vista.

Questa tecnica ha l’enorme vantaggio di agire istantaneamente, su qualsiasi tipo di supporto, ma necessita di personale specializzato e di attrezzature specifiche.

Fig. 7.27 La tecnica della velatura consente di impermeabilizzare il muro controterra da dietro, senza dover scavare il terreno. È molto efficace e non modifica la superficie a vista. È spesso utilizzata nel caso di pareti di pietra di particolare pregio estetico o dove occorra agire rapidamente con poca invasività. Lo stesso materiale è impiegato con successo per sigillare lesioni e fessurazioni del calcestruzzo, anche con venute d’acqua in controspinta (immagine gentilmente concessa da Drytech S.r.l. www.drytech.ch.).

L’umidità da risalita

Generalità La capillarità è il fenomeno fisico che determina il trasferimento spontaneo di liquido nei materiali attraverso le loro porosità. Deriva il suo nome dai capillari, termine con il quale sono indicate le minuscole cavità “simili a capelli” presenti nella massa porosa.

La legge di gravità applicata ai vasi comunicanti stabilisce che il livello liquido rispetto al piano orizzontale si mantenga identico in ogni contenitore, indipendentemente dalla sua forma e dimensione. Questa regola non è valida per i capillari, nei quali avvengono interazioni particolari fra le pareti e la superficie liquida. Osservando il punto di contatto fra il liquido e la parete di un qualsiasi contenitore, si vedrà che la superficie si incurva fino a risalire per una certa altezza. Nei capillari avviene lo stesso fenomeno e, quando il loro diametro è molto piccolo, questo effetto riguarda l’intera superficie, che si trova così curvata e “tirata su” fino a una certa altezza del tubicino. Minore è il diametro del capillare, maggiore è l’altezza raggiunta dal livello liquido. Analizziamo ora quali sono le forze coinvolte nel fenomeno e in che modo queste esercitano i loro effetti.

Fig. 8.1 Secondo il principio dei vasi comunicanti, il liquido raggiunge la stessa altezza all’interno di tubi di diversa forma, dimensione e orientamento. Non si applica ai capillari.

Tensione superficiale

Se osserviamo una goccia d’acqua nell’aria o, più facilmente, una goccia d’olio nell’acqua, possiamo notare che la tendenza del liquido è quella di disporsi a forma di sfera, che è il solido con la minore superficie esterna rispetto al proprio volume. È come se il liquido fosse avvolto da una sacca elastica, che esercita una forza di tensione sulla sua superficie. Questa azione tende a creare il minimo volume rispetto alla superficie esterna. Lo stato liquido differisce da quello aeriforme perché le attrazioni reciproche fra le molecole sono maggiori e tali da esercitare intense forze di coesione. Per vincere queste forze occorre apportare energia sotto forma di calore, aumentando la temperatura. Questo consente alle molecole, che hanno acquisito maggiore agitazione ed energia, di vincere le azioni di coesione separandosi dalla superficie liquida sotto forma di vapore. Nel liquido, la configurazione di energia potenziale più stabile è quella corrispondente alla superficie minima, cioè quella della sfera.

Nel contatto fra liquido e solido, le azioni di tensione appena citate sono in grado di esercitare una forza tangenziale rispetto alla parete del capillare, dipendente dalle caratteristiche dei componenti a contatto, quindi dal materiale del capillare e dalla natura del liquido. La curvatura conseguente prende il nome di menisco.

Questo sarà concavo se l’acqua tende a salire sul capillare rispetto alla posizione di equilibrio del livello orizzontale, e convesso nel caso contrario. Nei vasi di piccolissime dimensioni come i capillari, le azioni superficiali che interessano le tre interfacce solido-liquido-aria danno luogo a fenomeni diversi e più intensi rispetto ai vasi di maggiori dimensioni.

La configurazione tipica in un capillare di vetro contenente acqua a contatto con l’aria è il menisco concavo, ed è analoga a quella di un capillare murario. Il mercurio tende invece a “non bagnare” le pareti e a creare un menisco convesso. Un capillare di teflon tenderà a “rifiutare” l’acqua creando anch’esso un menisco convesso.

Approfondimenti

Legge di Jurin-Borelli

Questa legge fisica è stata enunciata dal medico inglese James Jurin nella prima metà del XVIII secolo, con riferimento agli studi condotti dallo scienziato italiano Giovanni Alfonso Borelli. Determina la quota massima raggiunta dal liquido in un capillare generico, dove le interazioni esistenti fra il materiale costituente il vaso e la composizione del liquido, formano fra questi un angolo di contatto ben preciso.

In un capillare cilindrico di raggio r il livello del liquido in equilibrio raggiunto nel capillare, rispetto a quello della fonte è:

h = 2τcosθ/ρgr

dove

τ è la tensione superficiale (J/m² o N/m);

θ è l’angolo di raccordo tra la superficie del liquido e la parete del contenitore;

ρ è la densità del liquido (Kg/m3);

g è l’accelerazione di gravità (m/s²);

r è il raggio del capillare (m).

Fig. 8.2 Nel capillare ideale, θ è l’angolo formato fra il menisco liquido e la superficie del vaso. Il raggio è indicato con r e h è l’altezza

raggiunta dal menisco rispetto al livello liquido. Questa rappresentazione da laboratorio della capillarità è molto diversa da ciò che accade all’interno delle porosità murarie.

Riassumendo, l’altezza della risalita è inversamente proporzionale al diametro del capillare e dipende sia dal materiale dei pori sia dalla natura del liquido.

La capillarità nei mezzi porosi

La capillarità può manifestarsi indifferentemente come movimento di liquido verticale oppure orizzontale e si instaura in maniera naturale e spontanea nei materiali, in funzione della loro porosità.

Generalmente, nei minerali le porosità sono quasi sempre presenti in misura maggiore o minore e dipendono da vari fattori. Questi piccolissimi spazi vuoti diffusi nella matrice solida consentono il transito e l’accumulo di umidità. La loro forma è estremamente variabile e molto spesso casuale, quindi ben diversa da quella dei capillari da laboratorio, ai quali sono assimilati. Questi ultimi invece sono sempre di vetro, hanno forma cilindrica liscia e regolare e sono sempre posizionati secondo una perfetta verticale. La precisazione appena fatta è importante per valutare e interpretare correttamente la teoria, che è molto diversa da ciò che avviene nei materiali in opera. Le porosità reali che andremo ad analizzare sono generalmente presenti in quasi tutti i materiali naturali come le rocce nelle varie tipologie di composizione, struttura e tessitura, comprese le loro aggregazioni. Sono inoltre presenti nei prodotti artificiali, come il laterizio e i materiali ceramici, nelle malte, nei calcestruzzi e nei manufatti da questi derivati.

Le porosità possono essere comunicanti e quindi consentire sia il passaggio che lo stazionamento del vapore e dell’acqua (compresi i composti solidi liquidi e gassosi in essa disciolti). Oppure possono essere chiuse e tutto ciò è impedito. I materiali a porosità chiusa sono infatti impermeabili, quindi non trattengono umidità e non consentono il trasferimento di acqua al loro interno. La porosità efficace rappresenta la quantità totale di vuoti che consentono all’umidità di transitare o di essere trattenuta, riferita al volume totale apparente del materiale. Con il termine porometria si intende la classificazione dei pori aperti di un materiale, in funzione della loro dimensione.

Le porosità possono dare luogo a due fenomeni ben distinti: l’assorbimento capillare e il transito di umidità. Quanto più i capillari sono piccoli, tanto più tendono ad assorbire l’umidità, trattenendola. Gli stessi capillari molto sottili, però, ostacolano il movimento dell’umidità al loro interno, rendendolo molto lento. L’assorbimento capillare d’acqua aumenta al crescere della quantità di pori e al diminuire della loro dimensione. Ai fini invece del trasferimento dell’umidità, questo dipende sia dal diametro dei capillari sia dal loro fattore di “tortuosità”, ovvero dall’articolazione di forma e dimensione dei capillari, che è tanto maggiore quanto più questi si discostano dalla linea retta o, più precisamente, dalla forma cilindrica. È da notare che un capillare tortuoso è anche più lungo di uno retto, quindi il tempo necessario per il transito sarà maggiore e il vuoto, potenzialmente occupabile dall’acqua, sarà pure maggiore. Perciò le porosità molto piccole tenderanno a facilitare l’assorbimento rallentando il transito, mentre in quelle di maggiori dimensioni avverrà il contrario.

I pori presenti in un materiale sono classificati come:

micropori con diametro minore di 0,002 mm;

mesopori con diametro compreso fra 0,002 e 0,05 mm; macropori con diametro maggiore di 0,05 mm.

Oltre che sull’attitudine del materiale a contenere e trasportare umidità, la porosità influisce anche su altre caratteristiche come la densità, la resistenza meccanica, la conducibilità termica, la resistenza al fuoco e al gelo. Esistono prodotti tecnici artificiali, come il vetro cellulare o Foamglas, costituiti da una leggerissima schiuma di vetro, le cui porosità sono finemente distribuite nella massa del materiale. La lavorazione conferisce al prodotto caratteristiche particolari, come per esempio un buon potere isolante termico. Pur essendo poroso, questo materiale è del tutto impermeabile sia all’acqua che al vapore, poiché le sue porosità sono chiuse in modo ermetico e non comunicano fra loro. Il calcestruzzo cellulare autoclavato, noto anche come Gasbeton o Ytong, è invece una schiuma di cemento ricchissima di porosità, in questo caso passanti. Oltre ad attribuirgli una grande leggerezza e una notevole capacità di isolamento termico, le sue porosità lo rendono eccezionalmente resistente al fuoco. In questo caso, la dimensione dei pori è piuttosto rilevante, al punto da limitare fortemente i fenomeni di capillarità. Nei calcestruzzi cosiddetti “aerati”, le porosità sono create intenzionalmente per mezzo di additivi per conferire al materiale un’elevata resistenza al gelo, a fronte di una lieve riduzione della resistenza meccanica.

Rapporti fra l’acqua e il mezzo poroso

L’acqua è sempre presente nei materiali porosi, in forme diverse. Le più importanti ai fini delle nostre analisi, relative a fenomeni sia fisici che chimici legati all’umidità, sono le seguenti:

Acqua di absorbimento: deriva da deboli forze elettrostatiche dette forze di van der Waals, che trattengono le molecole di vapore acqueo negli interstizi dei solidi porosi. L’acqua di absorbimento è completamente liberata già a basse temperature, inferiori ai 100° C. Acqua di adsorbimento: è trattenuta sulle superfici dei solidi ed è evacuata completamente a temperature superiori ai 100° C. Acqua di occlusione: è contenuta nei pori chiusi del materiale e quindi non è mobile. Acqua di cristallizzazione: è contenuta nelle strutture ioniche dei composti idrati, delle quali fa parte a tutti gli effetti, in conseguenza di legami secondari. La sua eliminazione può avvenire solo a temperature molto elevate e comporta la modifica della struttura cristallina del composto.

A questo punto è opportuno precisare che esiste una proporzionalità diretta fra la percentuale di vuoti presenti (porosità efficace) ed il quantitativo d’acqua che il materiale può contenere per assorbimento. Invece, gli effetti sulla capillarità sono inversamente proporzionali alla dimensione dei canalicoli e sono influenzati in misura crescente dall’abbassamento della temperatura e dalla presenza di sali minerali in soluzione. La permeabilità è invece intesa come l’attitudine di un materiale poroso a farsi attraversare da un fluido ed è una grandezza diversa dalla porosità, che non è sempre

correlata a questa in maniera diretta. I materiali utilizzati nell’edilizia possono essere impregnati o rivestiti con idonei trattamenti, qualora si intenda ridurre o eliminare la porosità sia superficiale che profonda, con risultati efficaci anche in termini di riduzione della permeabilità e dell’assorbimento. È da notare inoltre che la sezione varia continuamente per tutta la lunghezza dei capillari reali. Come abbiamo visto, la capillarità consente il passaggio dell’umidità. Ma affinché l’attraversamento possa avvenire deve necessariamente esistere una forza capace di attivare questo movimento e di mantenerlo in moto, vincendo gli attriti e le altre azioni come quelle gravitazionali. In presenza di capillarità, si realizza quindi un vero e proprio flusso, assimilabile a una portata idraulica, che vede una massa di liquido sotto forma di umidità attraversare una sezione, orizzontale o verticale, in un’unità di tempo. Generalmente, i flussi di umidità riconducibili a fenomeni di capillarità muraria sono nell’ordine di diversi litri al mese per metro quadrato di superficie attraversata, e variano notevolmente in funzione della temperatura e della ventilazione.

Uno studio condotto recentemente da un’equipe internazionale in ambito UE, ha misurato la quantità di umidità da risalita su due diverse murature piene di arenaria non intonacata. Entrambe erano dello spessore di 1,5 metri, ma situate nei territori di Londra e di Atene.

Nel mese di luglio sono stati riscontrati flussi fino a 3,7 litri al giorno per metro lineare di muratura nei dintorni di Londra, a fronte di oltre 12 litri al giorno nei pressi di Atene. E valori rispettivamente di 0,6 l/giorno a Londra e 2,85 l/giorno ad Atene nel mese di gennaio.

Come appare evidente da questi dati, la temperatura ha un’enorme influenza sull’evaporazione dell’umidità e di conseguenza sulla quantità di acqua che, attraverso la capillarità, alimenta il processo di risalita. Un altro fattore molto importante, capace di incrementare sensibilmente la quantità di umidità che risale sulle murature, è la ventilazione.

Una muratura esposta al vento tenderà a fare evaporare più velocemente l’umidità, favorendo l’apporto di nuova acqua da risalita.

Perciò, i flussi di risalita saranno maggiori in presenza di temperature più alte e con ventilazione più intensa, mentre saranno minori con temperature basse in aria calma. Il livello raggiunto dalla macchia umida, derivante dall’equilibrio fra la quantità di acqua che risale e quella che evapora, sarà ovviamente più alto dove l’evaporazione è ostacolata, ovvero nei climi freddi e poco ventilati, e sarà invece più basso nei climi caldi e ventosi.

Fig. 8.3 Interessante documento tratto da un recente studio di Hall & Hoff della Royal Society of London. I due scienziati sono fra i massimi esperti al mondo sull’argomento e hanno misurato per diversi anni le oscillazioni di altezza del fronte di risalita su due edifici di pari caratteristiche, situati in zone climatiche diverse. Sulla riga orizzontale del diagramma sono rappresentati i giorni, intervallati dalle linee che indicano l’anno solare, mentre sulla verticale sono indicati i mm di altezza della macchia umida. Le due curve si riferiscono ai siti di Londra e Atene.

Fig. 8.4In un capillare contenente mercurio, il liquido non tende a risalire ma, al contrario, respinge la superficie formando un menisco convesso.

Secondo la legge di Jurin, l’altezza di risalita h aumenta al ridursi del raggio del capillare e dipende dalle caratteristiche elettriche del liquido e da quelle del materiale che costituisce il tubicino. Per esempio, la capillarità tende a fare salire il liquido quando si tratta di acqua a contatto con il vetro, ma il fenomeno si inverte quando all’acqua sostituiamo il mercurio. Esistono quindi materiali con una maggiore affinità per l’acqua, che tendono a trattenerla, mentre altri non la fanno aderire. I primi sono detti idrofili o idrofilici, mentre gli altri sono idrofobi o idrofobici. Fra i prodotti naturali, la cellulosa è fortemente idrofilica, mentre molte piante hanno foglie con superfici idrofobiche, sulle quali l’acqua non aderisce e scivola via.

I materiali minerali, compresi quelli impiegati nella costruzione degli edifici, sono quasi tutti idrofili, tendono cioè a fare aderire l’acqua alle loro superfici. Il fenomeno avviene anche all’interno dei pori ed è dovuto ad azioni di natura elettrostatica. Praticamente, l’acqua si incolla alle superfici a causa di forze elettriche. La branca della fisica che studia questo tema è una materia piuttosto complessa che prende il nome di “termodinamica delle superfici”. L’approfondimento dell’argomento richiederebbe una trattazione lunga e meticolosa, che non fa parte dalla nostra analisi.

Effetti della risalita capillare sulle murature

Gli effetti più significativi che la capillarità esercita sulle murature sono i seguenti:

Base muraria permanentemente umida. Altezza piuttosto regolare della macchia di umidità. Percentuali di umidità sul muro decrescenti dal basso verso l’alto. Formazioni saline dovute all’evaporazione dell’acqua.

Considerazioni generali

La capillarità muraria è un fenomeno rarissimo, che si manifesta in maniera molto diversa da come spesso è descritto.

Vediamo quali sono le differenze più significative fra capillarità teorica e reale:

I capillari non esistono nella realtà. La teoria fa infatti riferimento a minuscoli tubicini di vetro, tutti perfettamente cilindrici, dello stesso diametro, paralleli e verticali. Nelle murature esiste invece una massa solida porosa non omogenea. Gli spazi vuoti hanno forma, dimensione, orientamento e composizione chimica estremamente variabili e spesso non noti. La capillarità si verifica solo ed esclusivamente a contatto con il liquido. Vale a dire che, affinché il fenomeno possa manifestarsi, l’intera colonna liquida che riempie il poro deve essere a permanente contatto con un livello liquido. Nel momento in cui questo dovesse mancare, si formerebbe immediatamente un menisco inferiore alla base del capillare, che tratterrebbe l’acqua al suo interno arrestandone il movimento. Ricordiamo dalla teoria che il liquido all’interno del capillare è in depressione barometrica, perché “tirato su” dal menisco in tensione. È piuttosto insolito che una muratura porosa si trovi a permanente contatto di acqua liquida, in modo da poterla assorbire fino alla completa saturazione dei suoi pori. Materiali diversi mostrano velocità di risalita diverse. Come è stato illustrato in precedenza, materiali con porosità molto piccole tendono a trattenere più umidità e a trasportarla più in alto. Allo stesso tempo l’umidità incontra una forte resistenza al movimento, dovendo appunto

scorrere all’interno di spazi molto ridotti. Tutte le murature ricevono l’umidità da risalita attraverso le loro fondazioni, che poggiano sul terreno. Queste opere sono state generalmente realizzate utilizzando materiali più resistenti e meno porosi rispetto a quelli impiegati nelle murature. L’intero flusso di umidità da risalita deve perciò attraversare le opere di fondazione, che sono normalmente poco permeabili. Tale condizione, limita la quantità totale di acqua che può essere coinvolta nella risalita capillare. Se, per esempio, le murature sono fondate su blocchi di pietra compatta, che è impermeabile, la capillarità può passare solo attraverso i giunti di malta o sulle fessurazioni eventualmente presenti nei blocchi. La velocità iniziale di risalita è rapida, ma rallenta progressivamente fino al raggiungimento di un determinato livello, molto diverso rispetto a quello indicato dalla teoria. I valori di equilibrio sono generalmente molto più modesti e raramente superano altezze di risalita variabili fra 1,20 e 1,50 m. Normalmente si mantengono ad altezze inferiori al metro. Livelli superiori sono possibili solo in presenza di fenomeni correlati. Il livello della risalita tende ad arrestarsi a una certa altezza, anche se l’evaporazione laterale è impedita. La teoria ipotizza invece che le azioni di risalita siano tali da portare l’umidità fino ad altezze di 14 m e superiori, in assenza di evaporazione dai lati.

Dall’analisi della teoria e dal suo confronto con la realtà, possiamo trarre le seguenti considerazioni generali.

Il fenomeno capillare che si manifesta in una muratura è completamente diverso da quello che si può osservare in un capillare da laboratorio. Nel primo caso, infatti, abbiamo una grande varietà di diametri, dimensioni, forme e orientamenti dei capillari, nonché diverse composizioni chimiche della matrice solida. Queste condizioni sono tutte diverse rispetto alla teoria.

Al flusso di risalita dell’umidità nella muratura si accompagna anche il trasporto di umidità verso le superfici esterne, dalle quali poi l’acqua ha modo di evaporare. Questo fenomeno rispetta la tendenza all’equilibrio del sistema muratura-liquido-aria. Mentre l’area di passaggio dell’acqua di risalita è verosimilmente proporzionale allo spessore della muratura, la superficie di evaporazione sarà proporzionale all’altezza del fronte di risalita. Riassumendo, si può affermare che il quantitativo d’acqua apportato per risalita alla muratura dipende dallo spessore di quest’ultima, mentre quello evacuato per evaporazione dipende dalla superficie laterale evaporante, che a sua volta è conseguenza dell’altezza della macchia di risalita detta anche “fronte di risalita”. Le condizioni di stazionarietà si raggiungono dopo molto tempo dall’innescarsi del fenomeno, quando l’umidità ha raggiunto un’altezza stabile. Interpretando quindi il sistema muratura-liquido-aria come un sistema in equilibrio, all’interno del quale il quantitativo di acqua in ingresso deve essere uguale a quello in uscita, si possono fare ulteriori considerazioni.

A parità di altri fattori, ci si dovrà attendere altezze elevate dei fronti di risalita su murature di elevato spessore e altezze ridotte su elementi murari meno spessi. Il fenomeno tende a stabilizzarsi su un determinato livello, o quota di risalita, che indica l’equilibrio fra la quantità media d’acqua che risale e quella media evaporata.

Durante il ciclo annuale si hanno variazioni dei due parametri, più o meno regolari, dovute alla maggiore intensità della risalita nel periodo invernale a causa della minore temperatura associata alla ridotta evaporazione. Inoltre, nei mesi freddi il terreno è generalmente più umido, quindi maggiormente capace di alimentare la risalita. Tali circostanze determinano oscillazioni intorno a un livello medio annuale. L’altezza di questo livello medio tende nel tempo a salire, benché molto lentamente, a causa della maggiore presenza di sali trasportati dalla risalita e depositati nei capillari a seguito dell’evaporazione. Come già accennato, la maggiore concentrazione ionica di sali solubili induce una più forte intensità del fenomeno di risalita. Inoltre, la saturazione dei pori dovuta alla precipitazione dei sali in fase

solida tende a ridurre il diametro dei capillari aumentando l’altezza della risalita e rallentandone però il transito. L’unico fattore che contrasta la tendenza all’innalzamento del fronte di risalita è l’evaporazione dell’umidità dalla superficie della parete.

Al realizzarsi della condizione di equilibrio, pur se con piccole variazioni cicliche tendenti sul lungo termine all’aumento progressivo della manifestazione, la muratura si troverà a contenere grandi quantitativi d’acqua e crescenti quantitativi di sali.

Il fenomeno della risalita è dapprima molto rapido e tende a rallentare man mano che il fronte raggiunge altezze più elevate, grosso modo secondo la radice quadrata del tempo in minuti, a parità delle altre condizioni.

L’altezza massima raggiungibile dal fronte di risalita, in condizioni di equilibrio, è inversamente proporzionale alla dimensione dei pori. Nei capillari di raggio pari a 1µ, l’altezza di risalita teorica è di 15 m. Nella realtà questa non potrà essere raggiunta a causa dei fenomeni evaporativi che intervengono evacuando l’umidità prima che la quota di equilibrio sia raggiunta.

Il livello del fronte di risalita è diverso sulla superficie esterna rispetto a quella interna. Se sono presenti rivestimenti che riducano sensibilmente o addirittura impediscano l’evaporazione, l’umidità tenderà a salire ancora fino a trovare una nuova condizione di equilibrio fra acqua in ingresso e in uscita (equiparazione della portata).

La condizione di muratura umida riduce la capacità di isolamento termico della parete e, se questa delimita due ambienti a temperatura diversa, possono crearsi fenomeni condensativi, sia superficiali che profondi.

Un muro più umido è sempre meno isolante rispetto a uno più asciutto.

Le deposizioni saline tendono ad aumentare progressivamente e si avranno danni e rotture come conseguenza dell’aumento di volume prodotto dalla cristallizzazione e ricristallizzazione dei sali, che sviluppa enormi pressioni meccaniche di natura espulsiva all’interno dei pori o sulle superfici d’interfaccia fra materiali aventi diversi valori di saturazione, come per esempio laterizio e intonaco.

L’incremento di concentrazione dei sali, in superficie e in profondità, aumenta l’assorbimento igroscopico di umidità dall’ambiente.

È frequente vedere i vecchi muri saturi di sali, con macchie che divengono più scure durante le giornate umide, indice di maggiore presenza d’acqua proveniente dall’aria ambiente. Queste manifestazioni, come illustrato nel Capitolo 6, sono di natura prettamente igroscopica.

Modalità di manifestazione Esiste la convinzione generalizzata che l’umidità da risalita muraria sia un problema molto diffuso nelle costruzioni edili. In realtà il fenomeno è piuttosto raro. Tale convinzione è dovuta al fatto che, purtroppo, sono molto frequenti gli errori di diagnosi. Spesso la presenza di umidità derivante da fenomeni di altra natura è infatti erroneamente diagnosticata come “umidità da risalita”. Occorre precisare che, nella maggior parte dei casi, coloro che si propongono come esperti dell’umidità non lo sono affatto.

Anzi, quasi sempre si tratta di soggetti che, a vario titolo, vendono apparati, metodi o sistemi più o meno validi, capaci a loro dire di sconfiggere la risalita muraria e di farlo in maniera definitiva. È quindi facilmente immaginabile che queste persone non siano portate a individuare con esattezza la causa dell’umidità. Saranno invece più orientate a vendere il sistema o l’apparato proposto dalla ditta che rappresentano, diagnosticando molto sbrigativamente il problema come risalita, anche quando questa non è presente.

L’atteggiamento dei tecnici che diventano anche venditori o, più frequentemente, di venditori che si propongono come tecnici non è una peculiarità solo italiana, anzi. In Gran Bretagna avviene qualcosa di molto simile. Sono proposte diagnosi gratuite e, nella quasi totalità dei casi, si attribuisce alla risalita l’esclusiva causa dell’umidità, spesso a fronte di indagini frettolose. A ciò segue l’offerta del sistema correttivo, proposto dalla società alla quale appartiene il tecnico. Il fenomeno è talmente diffuso che un (vero) esperto dell’argomento, Jeff Howell, ex docente di tecnica delle costruzioni dell’Università South Bank di Londra, alcuni anni fa ha scritto un libro dal titolo The Rising Damp Myth (Il mito della risalita muraria), nel quale questi comportamenti sono descritti nel dettaglio.

Studi indipendenti condotti per 40 anni dal BRE inglese (che corrisponde al CNR italiano) hanno evidenziato che la risalita era presente nel 5% dei casi esaminati. Confermando che si tratta di percentuali piuttosto modeste.

Se consideriamo che in Gran Bretagna piove più che in Italia e che i terreni d’Oltremanica sono mediamente più pianeggianti, possiamo ipotizzare che, nel nostro Paese, fra tutte le situazioni di umidità presenti la percentuale dei casi di vera risalita possa essere sostanzialmente simile, se non addirittura inferiore.

Fatta questa necessaria premessa, andiamo ora a vedere come si manifesta la risalita capillare e quali sono le caratteristiche che la distinguono da tutte le altre forme di umidità della casa. Soprattutto cercheremo di capire come individuare in maniera certa quando si tratta di risalita e quando no.

Fig. 8.5 Interessante fenomeno di “non risalita” su un muretto di tufo, completamente esposto all’esterno. Come è chiaramente visibile nella foto, la porzione di muratura a diretto contatto con il terreno è umida, mentre quella immediatamente superiore è asciutta. Il fenomeno è spiegabile facilmente. Lo strato di malta cementizia che si usa per legare i mattoni e i blocchi di tufo, come in questo caso, è generalmente impermeabile alla risalita e non consente all’umidità di trasferirsi verso l’alto.

La risalita capillare

Come abbiamo già visto in precedenza e come risulta dall’abbondante documentazione sull’argomento facilmente reperibile in rete che su diverse riviste specializzate, la capillarità si manifesta solo ed esclusivamente se la base muraria è a contatto con acqua in fase liquida. In questa situazione, le porosità delle pareti esercitano un effetto di suzione sul liquido, “tirandolo su” e riempendosi d’acqua fino a una certa altezza, realizzando quindi la saturazione dei vuoti comunicanti.

È piuttosto raro che la base di una muratura porosa possa trovarsi a permanente contatto com acqua liquida, tranne in alcuni casi molto particolari. È invece abbastanza frequente che il contatto con il liquido sia episodico o ciclico, cioè che possa avvenire saltuariamente oppure a cadenze più o meno regolari. Si tratta di due situazioni molto diverse, che a loro volta determineranno effetti differenti e conseguentemente necessiteranno di correttivi specifici.

Base muraria a contatto permanente con acqua liquida

In questi casi, estremamente rari nella realtà, verosimilmente i muri sono stati edificati quando già si sapeva o almeno si riteneva possibile che la loro base sarebbe stata a contatto con l’acqua liquida. I costruttori dovrebbero avere perciò predisposto opportuni accorgimenti affinché le murature non potessero trasmettere l’umidità verso l’alto, semplicemente realizzando uno sbarramento all’umidità, inserendo uno o più corsi di materiale impermeabile così da creare una barriera fisica alla risalita. In passato si utilizzavano generalmente lamine di piombo o rame, più recentemente fogli

di guaina bituminosa o membrane specifiche di PVC o vetroresina. In molti casi si impiegavano invece blocchi di pietra impermeabile alla base, sui quali poi si realizzava il muro in elevazione. Nelle situazioni descritte, se la base muraria si trova a contatto dell’acqua liquida, la capillarità sarà tale da saturare completamente le porosità fino all’altezza dello sbarramento impermeabile. Da quella quota in poi, la muratura non sarà più soggetta a bagnatura proveniente dal basso, purché il sistema impermeabile realizzato non sia danneggiato o interrotto in alcun modo. Lo sbarramento fisico orizzontale eseguito durante la costruzione dell’edificio prende il nome di tagliamuro, in inglese DPC (damp proof course) cioè “corso a tenuta di umidità”.

Esiste invece la possibilità che la costruzione sia stata edificata quando non si prevedeva che la sua base potesse trovarsi a permanente contatto con acqua liquida, situazione presentatasi successivamente a opera già ultimata. La causa potrebbero essere modificazioni geologiche dei terreni, variazioni naturali delle quote di falda oppure interventi sulle acque di superficie, per esempio per attività di bonifica o di irrigazione. È avvenuto quindi che il livello della falda superficiale, originariamente basso e tale da non interessare l’edificio, si sia innalzato a costruzione ultimata.

Questa è una situazione molto spiacevole, che necessita di idonei interventi correttivi, molto difficili e costosi.

Base muraria a contatto episodico o ciclico con acqua liquida

Questa condizione è invece abbastanza frequente e riguarda i casi in cui la base muraria è interessata da bagnatura discontinua. Generalmente si tratta di apporti dovuti a eventi meteorici come la pioggia diretta o indiretta, oppure a innalzamenti momentanei della falda, che occasionalmente si trova a bagnare la base muraria. Ma può anche essere dovuta ad altre cause, come

per esempio a impianti di innaffiamento che bagnano il terreno e quindi la base del muro a contatto, alla rottura di impianti o ad altre cause di diversa natura.

Fig. 8.6 La macchia umida visibile nella foto esemplifica in maniera molto chiara l’effetto della bagnatura discontinua. Si individuano facilmente le linee variamente frastagliate che si diffondono con stratificazioni successive simili agli anelli di accrescimento dei tronchi d’albero. Grosso modo, ciascuna linea corrisponde a un episodio significativo di bagnatura. Quelle più esterne indicano contatti con l’acqua più prolungati e intensi dei precedenti. L’acqua liquida sale per capillarità e scioglie i sali trasportandoli verso la superficie esterna. Quando l’acqua evapora, i sali si depositano per precipitazione, dando luogo alle formazioni visibili nella foto. Questo è un esempio classico di

umidità da risalita capillare secondaria, dovuta a contatto discontinuo della base muraria con acqua liquida. In questo caso vi è stato un maggior passaggio d’acqua attraverso l’intonaco rispetto alla massa muraria.

Fig. 8.7 Altro evidente caso di “non risalita”. Il degrado del pilastro visibile sulla foto è dovuto a un errore di lavorazione del materiale. Se non si provvede a vibrare il calcestruzzo durante il getto, avviene un fenomeno noto con il nome di “segregazione” che consiste nella separazione delle frazioni più grosse (ghiaia), rispetto a quelle più fini (sabbia e cemento). Si ottiene così un materiale con zone circoscritte molto porose, di bassissima resistenza meccanica. In questo caso, la base del pilastro non mostra alcun problema, la parte immediatamente

superiore invece evidenzia notevole irregolarità e porosità e un’importante crisi statica, che si manifesta con la lesione verticale del pilastro (freccia rossa). Come già descritto nei capitoli precedenti, se il calcestruzzo è abbastanza poroso da far passare l’umidità di risalita, è talmente scadente da rappresentare un serio problema in ordine alla sua bassa resistenza.

Escludendo le due situazioni appena elencate, nelle quali esiste una reale ed effettiva presenza di acqua liquida continua o saltuaria alla base muraria, tutti gli altri episodi di umidità presente nella parte bassa dei muri sono dovuti a cause diverse dalla risalita capillare.

Chiameremo perciò “risalita non capillare” l’insieme dei fenomeni di trasporto riguardanti flussi insaturi di umidità ascendente, che attraversano le masse murarie.

La risalita non capillare

Le situazioni in cui la base dei muri non entra in contatto con l’acqua liquida non possono essere classificate come “risalita capillare”, in quanto il fenomeno della capillarità non è presente. L’umidità ascendente esiste, ma è determinata da altre cause, diverse dalla capillarità.

In questi casi, le porosità sono solo parzialmente sature d’acqua, non esistono menischi, superfici di interfaccia solido-liquido né tantomeno forze di trazione.

Non esistono inoltre separazioni nette fra liquido e aria.

Esiste invece una massa muraria porosa, costituita da materiale idrofilo e igroscopico, nella quale si realizza spontaneamente un trasporto di materia, ovvero di acqua sotto forma di imbibizione parziale, che procede da dove questa è presente in quantità maggiore a dove lo è in misura minore.

Le leggi fisiche e chimiche applicabili allo studio dei flussi di umidità attraverso i mezzi porosi insaturi sono completamente diverse da quelle adottate per l’analisi della risalita capillare, che è invece un flusso saturo. Così come sono diversi gli effetti riscontrati sulle murature, in termini qualitativi e quantitativi. Nella risalita non capillare si crea perciò un movimento spontaneo di acqua non liquida, che dal mezzo poroso più umido è diretto verso quello meno umido secondo le leggi dell’equilibrio.

Se osserviamo il comportamento delle molecole d’acqua che si trovano a contatto con le superfici interne dei pori possiamo notare che, nel caso di flussi saturi, l’acqua è in fase liquida, perciò mobile, e può scorrere, nonostante si trovi a farlo all’interno di spazi molto stretti. È più o meno ciò che accade nei nostri capillari sanguigni, dove il sangue è liquido e scorre molto lentamente all’interno dei vasi, in totale assenza di aria.

Fig. 8.8 Situazione molto frequente di “non risalita”. Come avviene in quasi in tutti i pilastri, non è il calcestruzzo a far risalire l’umidità, ma è l’intonaco. Non occorre quindi alcun trattamento di barriera sul pilastro. Basta tagliare orizzontalmente il solo intonaco, in modo da creare un’interruzione, per evitare che l’umidità possa risalire.

Fig. 8.9 Situazione simile a quella in Fig. 8.6, con manifestazioni ancora più evidenti. Si tratta di un muro divisorio di mattoni che poggia su un basamento in calcestruzzo. Sul retro si trova una vasca d’acqua che occasionalmente tracima, allagando il pavimento. Le macchie di umidità visibili sono dovute agli eventi episodici di bagnatura della base muraria. Anche in questo caso si tratta di risalita capillare di natura secondaria, a carattere discontinuo.

A differenza che nei flussi saturi, nei flussi insaturi l’acqua può muoversi solo con grande difficoltà e lentezza, poiché si trova a essere “incollata” alle

pareti interne dei capillari a causa delle azioni di adesione di natura elettrostatica esistenti fra l’acqua e la superficie solida. Non ha quindi la possibilità di scorrere come un liquido, ma tende a spostarsi molto più lentamente, sempre da dove la sua quantità è maggiore a dove è minore. Su scala microscopica, le azioni di adesione che le superfici esercitano sulle molecole d’acqua sono tali da modificarne la viscosità. Possiamo immaginare minuscole goccioline, fortemente aderenti alle superfici interne dei pori, molto dense, che si muovono lentamente e con difficoltà spostandosi, secondo il principio dell’equilibrio, da dove sono più numerose a dove lo sono meno. Le forze che inducono tale scorrimento sono sempre esercitate dalle interazioni superficiali, che hanno origine dagli squilibri elettrici dei materiali costituenti i pori, con i quali l’acqua si trova a contatto.

La prestigiosa rivista scientifica inglese Nature ha pubblicato una recente ricerca condotta dal Politecnico di Torino sul comportamento dell’acqua alle scale dimensionali molto piccole, dal quale abbiamo tratto un breve sunto.

Nuotare in una piscina riempita di miele. Questa è la sensazione che deve “provare” una molecola di acqua entro pochi nanometri da una superficie solida, cioè quando si considerano distanze circa diecimila volte più piccole del diametro di un capello. Il fenomeno di riduzione di mobilità dell’acqua in prossimità di superfici alla nanoscala, già noto nella comunità scientifica come “nanoconfinamento”, è dovuto alle forze attrattive elettrostatiche e di van der Waals, predominanti a quelle scale.

Si può assimilare quindi la risalita non capillare a un trasporto di umidità insatura, di natura diffusiva, in un supporto poroso igroscopico. Praticamente si tratta di una particolare modalità di assorbimento igroscopico che si manifesta in maniera progressiva fra strati adiacenti di materiale, dove il flusso è generato dalle differenze fra le “concentrazioni di umidità”. Tale espressione non è corretta, ma può aiutare a chiarire il concetto.

Fig. 8.10 Il flusso di umidità insatura che si genera spontaneamente in un supporto poroso. La direzione è sempre quella che tende all’equilibrio dell’umidità, da dove è maggiore a dove è minore.

Principali differenze fra i due fenomeni

La risalita capillare è generalmente molto rapida, mentre quella non capillare è sempre estremamente lenta.

La risalita capillare è in grado di trasportare velocemente rilevanti quantità di sali all’interno della massa muraria. Quella non capillare trasferisce invece molto lentamente minime quantità di sali solubili. Tuttavia, sui lunghi periodi di tempo, tali depositi vanno a sommarsi, raggiungendo complessivamente quantitativi anche molto rilevanti.

Nella risalita capillare, la base muraria è sempre alimentata da acqua liquida e il fenomeno tende ad arrestarsi quando l’intera massa porosa è completamente satura d’acqua. Nella risalita non capillare, invece, la causa che determina il trasferimento di umidità è la differenza fra i valori di umidità del terreno rispetto a quelli del muro. Quindi quest’ultima si arresta spontaneamente quando tali valori saranno uguali. La risalita capillare tenderà perciò a saturare completamente il supporto poroso mentre quella non capillare potrà al massimo rendere il muro tanto umido quanto lo è il terreno alla sua base.

Entrambi i fenomeni descritti, pur se genericamente denominati come “di risalita”, nella realtà si manifestano indifferentemente in tutte le direzioni. Sia i fenomeni capillari sia quelli non capillari sono praticamente insensibili alla forza di gravità, perciò possono salire, scendere o muoversi in orizzontale e in qualsiasi altra direzione, quasi allo stesso modo.

Risalita primaria e secondaria

Possiamo inoltre suddividere i fenomeni di risalita in due distinte categorie. Abbiamo ben chiaro che sia la risalita capillare sia quella non capillare partono dalla base muraria per poi diffondersi sulla massa porosa della muratura in elevazione. Ciò avviene quando la quantità d’acqua o di umidità nel terreno è superiore a quella del muro, perciò si trasferisce secondo la legge dell’equilibrio. L’acqua liquida e quella di imbibizione parziale possono però entrare in contatto con la base muraria secondo diverse forme e modalità, che si distinguono fra loro in maniera molto netta.

Si definiscono quindi la risalita primaria e quella secondaria.

Gli effetti delle due forme di risalita sulle murature sono del tutto identici, ma le modalità di correzione sono sostanzialmente differenti.

È perciò importante individuare in maniera certa se la risalita muraria, capillare o no, sia di natura primaria o secondaria.

Quando gli interventi effettuati per correggere la risalita non hanno successo, quasi sempre è stato commesso un errore di valutazione in tal senso. Ovvero non si è stati in grado, durante la diagnosi, di distinguere se la risalita, capillare o no, fosse primaria o secondaria.

Risalita primaria

La risalita è di natura primaria quando l’umidità proviene unicamente dalla superficie di contatto fra la base muraria e il terreno.

Nelle condizioni descritte, l’umidità può passare esclusivamente dal piano orizzontale che mette in contatto il muro con il terreno, attraversando la fondazione.

Fig. 8.11 La figura mostra un caso di risalita primaria, cioè che proviene unicamente dal piano orizzontale a contatto con il terreno. Il flusso di

umidità attraversa la superficie orizzontale di separazione con la fondazion, e risale sul muro.

Le murature necessitano sempre di un supporto consistente, per poter trasmettere i carichi verticali dovuti al loro peso e a quello delle altre strutture in elevazione. Per questo motivo, tutti i muri sono costruiti su una base più compatta e resistente, che prende il nome di fondazione. La sua funzione è appunto quella di sostenere il peso che il muro scarica a terra, evitando (o meglio limitando) deformazioni e cedimenti. Quanto più il terreno è consistente, tanto più la fondazione avrà dimensioni ridotte e viceversa.

Nelle costruzioni recenti le fondazioni sono sempre di cemento armato, mentre negli edifici antichi erano realizzate impiegando materiali più duri e compatti rispetto alla muratura in elevazione, come per esempio blocchi di pietra di varia forma e dimensione.

Attualmente sono impiegate numerose tipologie di fondazione, tutte in cemento armato. Quelle più utilizzate prevedono che le murature portanti siano poggiate su travi di cemento armato con altezze generalmente variabili fra i 30 e gli 80 cm e larghezze diverse in funzione della portanza dei terreni. Dove il suolo è meno consistente si preferisce utilizzare il sistema a platea, che consiste in un unico solettone avente spessore uniforme, variabile fra i 30 cm e il metro e oltre, che occupa la stessa superficie dell’edificio in pianta. In passato si utilizzava il sistema a plinti isolati: i pilastri gravavano il loro peso su blocchi in cemento armato generalmente prismatici a base quadrata o rettangolare e i muri a loro volta erano costruiti su cordoli di calcestruzzo di dimensioni più contenute rispetto alle travi.

Nella risalita primaria, quindi, le murature in elevazione possono ricevere l’umidità solo attraverso la superficie di separazione esistente fra fondazione

e terreno. Nelle costruzioni recenti, come abbiamo visto, i muri gravano sempre su travi, cordoli o elementi di cemento armato di spessore pari o superiore a 20/25 cm.

In questi spessori il calcestruzzo, a maggior ragione se armato, è impermeabile. Non è possibile quindi immaginare che l’umidità, o peggio l’acqua liquida, possa attraversare le porosità del calcestruzzo su spessori del genere andando a bagnare o a trasferire rilevanti quantità di acqua alla muratura. Anzi, se un calcestruzzo si presentasse porosità tali da consentire importanti fenomeni di risalita, capillari e non, sarebbe talmente scadente da non possedere neppure le necessarie resistenze meccaniche. In questi casi, se le fondazioni sono porose al punto da far passare l’acqua o l’umidità in quantità tali da interessare le murature in elevazione, è probabile che debbano essere demolite, per motivi non legati alla permeabilità, bensì alla bassa resistenza meccanica. Tuttavia, nonostante le opere fondazionali siano realizzate in maniera corretta e il calcestruzzo, armato o meno, con le quali sono state costruite sia idoneo, ovvero non poroso, è sempre possibile che vi sia qualche fessurazione o lesione di entità minima, sulla quale i fenomeni di risalita possono avere luogo.

In questo caso, però, le manifestazioni della risalita saranno localizzate in uno o più punti specifici e non diffuse su tutta la lunghezza di contatto fra la muratura e la fondazione. La quantità di umidità o di acqua liquida che può passare dalle cavillature e dalle lesioni è comunque molto modesta e molto raramente le fessurazioni del cemento armato sono passanti.

Risalita secondaria

La risalita secondaria si manifesta quando la base muraria riceve acqua liquida o umidità da cause diverse rispetto a quelle relative al contatto con la fondazione.

Tutti gli altri casi in cui la risalita, capillare e non, deriva da acqua liquida o da umidità che non proviene dal terreno attraverso la superfice di contatto con la base muraria sono riconducibili a risalita secondaria. Quasi sempre si tratta di apporti laterali di umidità, ma possono anche esserci cause di altra natura, come i danni agli impianti e i fenomeni condensativi.

Le fonti di risalita secondaria più frequenti, sono:

contatto laterale della muratura con il pavimento esterno o con il terreno umido; acqua superficiale proveniente dal terreno a causa di errata pendenza; apporti laterali dovuti ad acqua piovana diretta, indiretta e di scorrimento; apporti laterali dal massetto interno; perdite da impianti; fenomeni condensativi alla base muraria.

Fig. 8.12 Questa situazione è la più frequente: il muro non riceve l’umidità attraverso il basamento, ma dal contatto laterale con il terreno. In questi casi, la soluzione migliore è quella di rimuovere il terreno a contatto con il muro, proteggendo successivamente la zona di contatto con un materiale impermeabile. Le barriere non sempre sono risolutive in situazioni simili.

Fig. 8.13 Un’altra situazione ricorrente riguarda il contatto della base muraria con acqua proveniente dalla superficie del terreno. È anche chiamata acqua dispersa e ha quasi sempre origine meteorica. Una protezione impermeabile laterale, raccordata con il basamento, è in grado generalmente di eliminare o ridurre sensibilmente la bagnatura del muro.

Fig. 8.14 Una buona parte dell’acqua che bagna la base muraria è dovuta ad apporti meteorici diretti e indiretti, meglio descritti ai Paragrafi 3.1.8 e 3.1.9.

Fig. 8.15 In qualche caso non proprio raro il muro riceve umidità dal contatto laterale del massetto interno. A causa di perdite dagli impianti o per infiltrazioni di varia natura, il pavimento interno si bagna e trasferisce l’acqua sui muri. Le manifestazioni saranno del tutto simili a quelle della risalita primaria.

Fig. 8.16 Una possibile fonte diretta e indiretta di acqua liquida alla base muraria è rappresentata dalle perdite degli impianti (vedi Capitolo 4).

Fig. 8.17 Anche la condensazione interstiziale può essere in grado di formare acqua liquida all’interno della massa muraria, per poi trasferirla come risalita secondaria. In realtà, il fenomeno è molto meno frequente rispetto a quanto si creda.

Considerazioni

Come appare chiaro, i fenomeni di risalita primaria possono manifestarsi solo su murature vecchie, che poggiano direttamente sulle opere di fondazione senza alcuno strato di materiale impermeabile interposto.

Se invece i muri sono realizzati su una base di calcestruzzo o su cemento armato, come avviene nelle costruzioni nuove, la risalita primaria è generalmente assente.

La quasi totalità dei casi di risalita, capillare e non, si rivela essere di natura secondaria ed è normalmente riferibile a fonti che non sono in relazione con la superficie orizzontale di contatto fra il muro e il terreno.

Fig. 8.18 Edifici correttamente realizzati, con i muri portanti poggianti sulle travi di fondazione di cemento armato. In questi casi l’umidità del terreno non può attraversare il calcestruzzo per tutta la sua altezza. La risalita primaria non può perciò verificarsi su murature come quelle della foto.

Fig. 8.19 Anche le murature antiche come quella della foto erano costruite separandole dal terreno per mezzo di materiali più compatti e meno porosi. L’accorgimento era adottato prevalentemente per garantire una maggiore resistenza strutturale, ma in ogni caso si otteneva nel contempo una buona protezione dall’umidità del terreno. (Torre dei Loschi, Vicenza XIII sec.)

Altri aspetti significativi

L’umidità di risalita si distribuisce all’interno della massa muraria secondo regole abbastanza precise. Quindi è relativamente semplice distinguere le varie forme di risalita presenti nella muratura.

Altezza e forma della macchia umida

Nel caso si tratti di risalita primaria, sia capillare che non, il flusso di umidità ascendente è pressoché uniforme e abbastanza costante su tutta la larghezza del muro. Questo perché l’intera muratura è stata realizzata verosimilmente con gli stessi materiali, dalle stesse persone, nello stesso periodo. Quindi si ritiene che abbia valori di porosità e di permeabilità molto simili o uguali in tutta la sua estensione. L’evaporazione dell’umidità può invece avvenire solo attraverso le superfici laterali, in maniera più o meno simmetrica.

L’umidità nella parte interna del muro raggiungerà perciò una maggiore altezza rispetto alle superfici esterne (Fig. 8.20).

Se una delle superfici esterne della parete è poco permeabile o impermeabile al vapore, tutta l’umidità sarà costretta a fuoriuscire dall’altro lato. In questo caso la sua distribuzione all’interno della massa muraria sarà asimmetrica e raggiungerà la massima altezza in corrispondenza dell’elemento poco o per nulla traspirante (Fig. 8.21). Situazioni simili si verificano quando il muro soggetto a risalita è rivestito, per esempio con un isolamento a cappotto, con piastrelle oppure con pitture o finiture non traspiranti. Se il muro è rivestito

su entrambi i lati con materiali non traspiranti, la risalita raggiungerà altezze sensibilmente maggiori. Sui muri di elevato spessore, la risalita tende a portarsi su altezze maggiori.

Nel caso di risalita primaria o secondaria, se questa avviene in maniera diffusa su tutta la lunghezza del muro, si ha un’altezza uniforme della macchia umida che prende il nome di “fronte di risalita” o “cordone” (Fig. 8.22).

Se invece la risalita è di natura secondaria e deriva da apporti localizzati o puntiformi, la macchia umida assume la caratteristica forma a campana (Fig. 8.23).

Su murature tradizionali di laterizio o pietra, di spessore fino a 60 cm, se proviene solo dalla risalita, l’umidità raggiunge altezze che raramente superano il metro e che più frequentemente si assestano sui 70/80 cm.

Fig. 8.20 La risalita muraria si distribuisce all’interno della parete secondo la forma indicata nell’immagine. Nel percorso di risalita, una parte dell’umidità evapora attraverso le superfici esterne. L’interno della muratura sarà quindi più umido rispetto alle porzioni più esterne. La presenza dell’umidità all’interno della parete non è mai simmetrica, perché l’evaporazione è diversa nelle due superfici.

Fig. 8.21 Quando una delle due superfici murarie non consente l’evaporazione dell’umidità di risalita, come per esempio quando c’è un cappotto non traspirante o un rivestimento di piastrelle, la distribuzione dell’umidità assume una forma asimmetrica come nell’immagine.

Fig. 8.22 La superficie di una muratura affetta da risalita mostra una linea di demarcazione netta, di forma frastagliata e di altezza uniforme, che separa la zona umida da quella asciutta. Il suo nome corretto è “fronte di risalita”, ma è chiamata anche “cordone” o “altezza di risalita”. In inglese si chiama “tide mark” cioè linea di marea. Normalmente sono presenti formazioni saline nella zona umida del muro.

Fig. 8.23 Nei casi di umidità da apporti localizzati, come per esempio in occasione di infiltrazioni o di perdite da tubazioni, non si forma un fronte regolare. La macchia umida assume una caratteristica forma a campana, si manifesta in tempi molto rapidi e interessa solo una parte della muratura.

Velocità di risalita

La risalita capillare primaria e secondaria è generalmente molto veloce, perché l’acqua liquida è in grado di alimentare continuamente il fenomeno ascendente, apportando grandi quantità di umidità in poco tempo. Se la

risalita compare in tempi rapidi, che possono variare da poche ore a diversi giorni con il limite massimo di alcuni mesi, e il fronte progredisce fino a qualche centimetro al giorno, si tratta normalmente di risalita capillare ed è sicuramente dovuta alla presenza di acqua liquida alla base muraria. La risalita non capillare è al contrario piuttosto lenta, e si manifesta nell’arco di anni o di decenni con progressioni che al massimo raggiungono i pochi millimetri all’anno. La risalita è più veloce quando l’altezza del fronte è ridotta. Man mano che l’umidità risale sul muro, la sua velocità tende a diminuire progressivamente. Questo avviene anche perché aumenta la superficie laterale di evaporazione, fino al raggiungimento dell’equilibrio. In linea teorica esiste un livello del fronte che fa corrispondere la quantità di umidità che il muro riceve dal basso con quella che evapora dalle superfici laterali. I fattori che, a parità di altre condizioni, influiscono sulla quantità di umidità evacuata sono prevalentemente la temperatura, la velocità dell’aria e la presenza di sali nella massa porosa. I massimi effetti di asciugatura si ottengono con temperature elevate, in presenza di ventilazione, su muri privi di sali. Viceversa, con temperature basse, assenza di ventilazione e forte presenza di sali, l’evaporazione dell’umidità di risalita è estremamente ridotta o addirittura nulla

Presenza di sali

L’acqua scioglie un gran numero di sostanze che si trovano nel terreno. Lungo il suo percorso di risalita, capillare e non, porta con sé questi composti solubili all’interno delle murature. L’evaporazione riguarda però solo l’acqua pura. Le sostanze minerali disciolte non possono evaporare e si depositano così sulle porosità della muratura e dell’intonaco. Contemporaneamente alla risalita, avviene quindi un fenomeno di trasporto di sali minerali. Dapprima questi sono disciolti, portati in soluzione dall’acqua e trasportati sui muri. Successivamente si depositano per effetto dell’evaporazione all’interno dei pori.

I sali solubili disciolti dall’acqua e trasportati nel percorso ascendente hanno effetti tali da aggravare la risalita. Sia perché aumentano la conducibilità elettrica della soluzione acquosa e sappiamo che i fenomeni della risalita, capillare e non, sono essenzialmente di natura elettrica. Hanno inoltre importanti effetti igroscopici, che si vanno a sommare a quelli delle masse porose che costituiscono le murature. Infine tendono a ridurre progressivamente la dimensione delle porosità, fino a occluderle.

I sali contribuiscono inoltre al degrado dei materiali, in quanto favoriscono processi disgregativi superficiali e profondi. Inducono distacchi di intonaci e fenomeni corrosivi di varia natura, oltre alla fastidiosa formazione di efflorescenze sulle superfici.

L’umidità di risalita, capillare e non, porta sempre sali in superficie. Anche quando l’apporto di acqua proviene dalla rottura di una tubazione dell’acqua potabile, quindi non dal terreno, l’umidità di risalita discioglie i sali che naturalmente sono presenti nei mattoni e nelle malte, causando in ogni caso la formazione di efflorescenze in superficie.

Muffe

Contrariamente a ciò che si crede, la muffa non si forma sulle superfici interessate dall’umidità di risalita. Come si diceva, l’acqua proveniente dalla risalita è sempre carica di sali. Le muffe si sviluppano bene su superfici bagnate da acqua pura o contenente pochi sali, e ciò avviene quando questa è di origine condensativa o infiltrativa. Non si sviluppano invece in presenza di forti concentrazioni saline. L’umidità di risalita che causa la formazione delle efflorescenze è una soluzione satura di sali, che rende praticamente impossibili le manifestazioni di muffe.

In linea di principio, la presenza di muffa nera sulle superfici murarie è la prova che non si tratta di fenomeni di risalita. Occorre però tenere presente che, nei locali affetti da fenomeni di risalita, l’apporto di vapore acqueo proveniente dalle pareti si somma a quello normalmente generato nell’ambiente interno. Questo può favorire i fenomeni condensativi, che si manifestano sulle superfici più fredde, dai quali hanno origine le muffe. Quindi è vero che la risalita favorisce lo sviluppo di muffe (se non si ha un corretto ricambio d’aria), ma è altrettanto vero che sulle stesse superfici rese umide dalla risalita, la muffa non si forma.

Assenza di acqua liquida

Un altro aspetto poco noto, ma a pensarci bene abbastanza banale, è il fatto che la risalita, capillare e non, può rendere umido il muro ma non può mai manifestarsi sulle superfici in forma liquida.

La risalita capillare è causata dalle azioni di tensione del menisco, che è la superficie di contatto fra liquido e solido. La colonna d’acqua compresa fra il menisco superiore e il livello liquido presente alla base si trova in depressione barometrica. Infatti si tratta di acqua sostenuta, che è mantenuta “appesa” dalle forze di tensione superficiale. Quindi l’acqua non potrà mai superare il livello del menisco, che a sua volta si trova sempre più in basso rispetto all’estremità del capillare.

La risalita non capillare, come abbiamo visto, riguarda movimenti di acqua non liquida, che in nessun modo può causare la formazione di liquido sulle superfici.

Se si osserva la formazione di acqua liquida sulle superfici murarie, si può essere certi che non si tratta di fenomeni di risalita.

Principali correttivi Esistono numerose tecniche, più o meno valide, impiegate per eliminare o ridurre il problema della risalita, capillare e non. Nel corso del tempo sono state sperimentate e affinate metodologie sempre più efficaci e adattabili in maniera più precisa alle necessità. Alcune di queste tecniche sono rimaste praticamente inalterate fin dal loro primo utilizzo, mentre altre sfruttano l’applicazione di principi fisici o l’uso di composti chimici noti da tempo ma applicati solo di recente al problema specifico della risalita.

È interessante rilevare come sull’argomento sia costantemente in atto una fervente attività di ricerca e di sperimentazione, che ha sviluppato innumerevoli modalità operative e svariati materiali, appositamente creati per risolvere il problema dell’umidità ascendente muraria. Elencheremo di seguito le tecniche e i sistemi più conosciuti e maggiormente utilizzati, indicando anche i loro pregi e difetti nell’ambito dei vari limiti d’intervento.

Le tecniche correttive più comuni, possono essere così classificate:

barriera fisica; barriera chimica; sistemi elettrici; barriera termica; sistemi ausiliari;

sistemi alternativi.

I primi quattro gruppi riassumono le metodiche atte a fermare la risalita e adottano diverse modalità di sbarramento orizzontale. Gli ultimi due invece si riferiscono rispettivamente a sistemi che favoriscono l’asciugatura dei muri e a interventi che non correggono il problema dell’umidità ascendente ma consentono di avere le superfici asciutte in tempi brevi, per un rapido utilizzo dei locali.

La barriera fisica

La barriera fisica consiste nell’interposizione di un materiale, poco o per nulla permeabile all’umidità, alla base della muratura con lo scopo di interrompere il flusso di risalita. I primi sistemi prevedevano l’utilizzo di blocchi di pietra poco permeabile, poi si è passati all’inserimento di lamine metalliche, recentemente sostituite da materiali artificiali aventi caratteristiche più adatte. Allo stato attuale della tecnica, risultano ancora in uso tutti i metodi di seguito elencati, anche se alcuni di questi sono impiegati solo in casi particolari e nel restauro.

Cuci scuci

Il sistema più antico, e anche il maggiormente invasivo, è chiamato tecnica “a cuci-scuci” o più propriamente “a scuci-cuci”. Consisteva nell’asportare i blocchi di pietra collocati alla base della muratura, per poi ricostruire l’apparato murario con l’uso di materiali più impermeabili o con l’impiego di pietre meno porose, come per esempio granito, basalto, marmo o gneiss. Questa tecnica è chiamata anche “veneziana”, perché la particolarissima situazione delle costruzioni di Venezia ha reso necessario lo sviluppo di questa modalità correttiva fin dai tempi remoti.

In passato, le opere importanti erano costruite partendo da blocchi di materiale più resistente e compatto, quindi meno poroso. Questo accorgimento era adottato principalmente per motivi di stabilità statica, non per ridurre il fenomeno dell’umidità di risalita, ma in ogni caso si ottenevano entrambi i risultati. Quindi i fenomeni di degrado avanzato delle basi

murarie sono più frequenti dove non è stato usato questo metodo o dove le azioni di corrosione sono state particolarmente intense e prolungate.

La lavorazione si esegue in maniera molto lenta, in quanto non è possibile asportare grandi quantità di materiale murario senza incorrere in rischi di instabilità statica o peggio di crollo. Si rende necessario perciò procedere con estrema cautela attraverso la creazione di aperture non più larghe di 50 cm seguita dall’immediata ricostruzione con blocchi nuovi. La funzionalità statica dell’elemento di parete ricostruito sarà ottenuta solo quando la malta di allettamento avrà raggiunto una resistenza meccanica pari almeno a quella preesistente.

Quindi, prima di poter effettuare l’avanzamento sulla porzione di muratura affiancata occorrerà attendere almeno due o tre giorni di tempo affinché la malta appena applicata raggiunga un minimo di maturazione. In funzione delle condizioni generali della costruzione si valuterà se durante questo tempo di fermo obbligato sia opportuno o meno effettuare identiche lavorazioni su altre porzioni murarie, distanti da quella appena ricostruita. Occorre evitare accuratamente fenomeni di assestamento statico e deformazioni permanenti della struttura, che dovessero eventualmente verificarsi in conseguenza dei lavori.

A causa del costo elevato e della notevole lentezza, la metodica appena descritta è utilizzata solo negli interventi di restauro, anche se in alcune situazioni specifiche può essere impiegata con successo negli edifici storici dell’edilizia abitativa e residenziale.

Inserimento di materiale interposto

La tecnica del cuci-scuci è stata migliorata con l’inserimento di una lamina metallica allo scopo di creare uno sbarramento fisico alla risalita dell’umidità. Il materiale utilizzato più frequentemente in passato era il piombo, perché la sua facile lavorabilità e deformabilità consentiva di adattarne la forma alle asperità della muratura. Era relativamente economico e facilmente disponibile, oltre a essere un materiale chimicamente stabile, che resiste molto bene alla corrosione da parte dell’umidità e dei sali presenti nella muratura, anche in concentrazioni elevate. Si è utilizzato anche il rame, ma essendo questo metallo maggiormente sensibile alla corrosione, il suo impiego è caduto in disuso.

Per questa applicazione sono poi stati sperimentati numerosissimi metalli e leghe speciali come acciai inossidabili al cromo nichel, con eventuali aggiunte di molibdeno e titanio, oltre a leghe più o meno segrete, che sono tuttora impiegate. La limitazione maggiore all’uso di metalli e di leghe metalliche in generale, è che la malta di cemento o di calce non aderisce alla loro superficie. Questo rappresenta un problema molto serio, perché se i due materiali non legano si verifica un distacco meccanico che può rappresentare un problema di natura statica e strutturale, oltre a non essere generalmente accettato dalle attuali normative sul rischio sismico.

È sempre meglio utilizzare materiali che siano in grado di ripristinare almeno il livello di connessione statica precedente all’intervento e i metalli non rispondono a questo requisito.

Il materiale al momento maggiormente impiegato è il poliestere rinforzato con fibre di vetro (PRFV), con deposizione di sabbia su ambo i lati. Si presenta in fogli di vetroresina molto robusti, disponibili in commercio nei formati da 1,5 o 2 mm di spessore. È insensibile all’umidità e ai sali, si lavora facilmente e ha un costo ridotto. I fogli aderiscono perfettamente alle malte e non soffrono di problemi di invecchiamento. È possibile utilizzare

anche altri materiali, come fogli o lamine di PVC rinforzato di varia forma e dimensione.

L’intervento dovrà essere diretto e coordinato da un tecnico esperto in strutture murarie. Se viene effettuata correttamente, la lavorazione appena descritta darà luogo a una muratura più resistente dell’originaria, nonostante l’inevitabile stress meccanico subito dai materiali in corso d’opera. L’utilizzo di moderne malte da ripristino, aventi caratteristiche nettamente superiori in termini di adesione al supporto, di resistenza meccanica e agli agenti corrosivi, conferisce maggiore stabilità complessiva alla costruzione anche dal punto di vista della protezione dal sisma.

Taglio mediante fori affiancati

La tecnica è denominata anche “metodo Massari”, dal nome dell’ingegnere che la brevettò e descrisse in un ricercato testo, e “stitch drilling” in inglese. Consiste nella realizzazione di fori ortogonali alla muratura, da eseguirsi alla quota più vicina possibile a quella del terreno, allineati e intersecanti. Gli assi dei fori sono disposti su un piano orizzontale parallelo al terreno, in modo da costituire un taglio vero e proprio, con la separazione netta della muratura sovrastante da quella sottostante.

I fori, di diametro variabile tra 50 fino e 120 mm, sono praticati con una carotatrice a semplice rotazione e senza percussione. Questa macchina è formata da due elementi fondamentali: uno fisso detto colonna o piantone costituente la guida, che è connesso in maniera rigida o tramite snodo al basamento che a sua volta è ancorato al supporto murario. Il corpo motore è dotato di cambio di velocità con mandrino terminale, solitamente filettato all’estremità, o dotato di un diverso attacco di trascinamento dell’utensile. L’insieme di corpo motore e cambio può scorrere sulla guida costituita dalla colonna o piantone e prende il nome di slitta. Il nome della carotatrice deriva

da “carota”, in inglese “core” che è l’elemento cilindrico di materiale estratto dall’utensile a seguito dell’intervento di perforazione, chiamato appunto carotaggio.

La macchina è di tipo portatile, può essere realizzata in alluminio o acciaio, è regolabile su diverse inclinazioni della colonna e ha velocità di rotazione variabile.

Fig. 8.24 Carotatrice che esegue fori affiancati su parete (immagine concessa da Hydro-tec Italia S.r.l. www.hydro-tec.it).

L’utensile è di tipo cilindrico cavo ed è dotato all’estremità tagliente di elementi metallici detti segmenti, ottenuti per sinterizzazione e contenenti granuli di diamante, saldati sulla sua circonferenza frontale. L’utensile prende il nome di foretto, corona o carotiere, più raramente di tazza da perforazione, ed è trascinato in rotazione dal motore attraverso il mandrino. Può raggiungere un numero di giri variabile a seconda del tipo di segmento e della durezza del materiale da perforare. I valori tipici delle velocità di rotazione sono compresi fra i 60 e i 360 g/min. L’utensile deve essere raffreddato ad acqua o, in casi particolari, da aria compressa.

Sono disponibili anche utensili che lavorano a secco. Oltre a tenere bassa la temperatura dei taglienti, i fluidi di raffreddamento provvedono ad allontanare le polveri generate dalla perforazione. L’avanzamento, il posizionamento e la registrazione avvengono manualmente. La macchina carotatrice, è dotata di sicurezza elettrica e di interruttore differenziale (salvavita) poiché è utilizzata quasi sempre in presenza d’acqua.

È dotata inoltre della frizione di sicurezza, che agisce sulla rotazione dell’utensile in caso di sovraccarico o di bloccaggio improvviso. I fori sono eseguiti senza vibrazioni o percussioni e senza produrre polveri e rumori fastidiosi e possono essere di lunghezza rilevante, anche fino a diversi metri, grazie all’impiego di opportune prolunghe sull’utensile.

Nonostante sia meno invasiva, questa tecnica può risultare altrettanto traumatica della precedente per la struttura sulla quale va a operare. Questo perché realizza comunque un’interruzione passante mediante il taglio netto della muratura. Ricorre perciò allo stesso concetto del cuci-scuci mediante l’esecuzione di fori sfalsati sulla muratura per limitare quanto più possibile la condizione di instabilità derivante dall’asimmetria del carico verticale. Dopo avere realizzato il taglio, si stende lo strato di materiale impermeabile, che dovrà preferibilmente essere di vetroresina bisabbiata per i motivi citati in precedenza, e si procederà al riempimento dei vuoti utilizzando una malta

colabile espansiva avente caratteristiche di elevata resistenza meccanica, impermeabilità ed elevata resistenza ai sali.

Una lieve azione espansiva esercitata dalla malta all’interno della cavità, variabile fra lo 0,5 e l’1,5% in volume, sarà in grado di “tirare su” la muratura che inevitabilmente avrà subito un abbassamento per effetto del taglio. Anche utilizzando la carotatrice valgono le considerazioni fatte per il sistema precedente e cioè la necessità di estrema cautela nella valutazione della stabilità complessiva dell’opera e una particolare cura in fase di esecuzione dei lavori.

Fig. 8.25 Realizzazione di taglio su parete mediante fori affiancati. Per evitare cedimenti della struttura, è opportuno non eccedere nelle lunghezze libere (L), e chiudere immediatamente i fori prima di procedere a quelli successivi.

Taglio meccanico

Oltre a essere molto invasive e potenzialmente pericolose per la stabilità della costruzione, le lavorazioni descritte nei paragrafi precedenti sono anche molto lente e di conseguenza piuttosto costose. Sono perciò state sviluppate macchine in grado di realizzare tagli profondi con spessori molto ridotti. Queste nuove tecnologie si sono rivelate notevolmente più veloci e sono capaci di rendere le lavorazioni più agevoli ed economiche, ovviando in massima parte al rischio citato di instabilità strutturale.

Le tecniche sono quella del taglio con sega a catena, con disco diamantato e con filo diamantato. L’infissione a pressione di lamine metalliche rappresenta un’altra interessante modalità di taglio.

Taglio con sega a catena

La sega a catena è una macchina costituita da un carrello dotato di ruote che scorre su un piano orizzontale, solitamente il pavimento, parallelamente alla muratura (Fig. 8.26). Sulla macchina è montato un motore elettrico, che trasferisce il moto di taglio a una catena, la quale scorre esternamente a una guida fissa detta lama, molto simile alle seghe a catena per legno.

Sulla catena sono montati elementi taglienti, realizzati in metallo duro o widia, dal tedesco “wie diamant” ovvero “come il diamante”, a testimoniare la durezza del materiale impiegato, che solitamente è il carburo di tungsteno. Il taglio con sega a catena deve essere obbligatoriamente eseguito ad acqua. Viene realizzato un foro sulla muratura, per consentire alla lama con catena di entrare nella parete e di eseguire il taglio secondo un moto orizzontale. La macchina è dotata di due movimenti: quello di taglio, cioè il trascinamento della catena dotata di taglienti, e quello di avanzamento che consente di procedere orizzontalmente nell’esecuzione del taglio sul muro. La massima lunghezza possibile della lama, corrispondente allo spessore del muro da tagliare è di 160 cm, ma già con spessori di 100 cm o superiori si incontrano grosse difficoltà operative.

La potenza delle macchine varia dai 3 ai 15 kW complessivi. La tecnica descritta è stata sviluppata per la realizzazione di tagli nel giunto di malta fra due filari sovrapposti di mattoni nei muri di laterizio. Occasionalmente può essere usata su materiali diversi, ma comunque teneri.

In nessun caso è possibile tagliare blocchi di pietra o sassi di qualsiasi tipologia natura e dimensione, che determinerebbero immediatamente la distruzione degli utensili e il danneggiamento dell’intero sistema di taglio. Non è inoltre possibile tagliare materiali metallici come tubi o ferri di armatura.

Lo spessore del taglio è solitamente di 8 mm e consente l’inserimento sia del foglio di vetroresina bisabbiato, sia di specifiche zeppe a cuneo di PVC rinforzato, atte a sopportare il peso della struttura sovrastante fino all’indurimento della malta.

Fig. 8.26 La macchina da taglio a catena è progettata per eseguire la sezione orizzontale della muratura, a una quota prossima a quella del terreno (immagine gentilmente concessa Giancarlo Foschini di Foschini S.r.l. www.foschinideumidificazione.it).

Dopo avere eseguito il taglio e avere posizionato il foglio di vetroresina con le zeppe, si dovrà procedere al riempimento della fessura utilizzando apposite malte espansive colabili o resine sintetiche opportunamente formulate.

L’impiego corretto dei materiali di riempimento è fondamentale per creare la necessaria riconnessione strutturale della muratura, interrotta dal taglio orizzontale. È opportuno precisare che il taglio è sempre situato il più vicino possibile alla base della muratura ed è in questa sezione che si concentrano le sollecitazioni statiche della struttura.

Se i lavori di riempimento con malta o resina sono realizzati con la necessaria cura e scrupolosità, il nuovo collegamento risulterà più resistente rispetto alla condizione d’origine e il vincolo sarà assimilabile a tutti gli effetti a un incastro, pur con le limitazioni funzionali dei materiali costituenti l’intera muratura, in ordine alla loro resistenza meccanica.

Per ottenere i migliori risultati da questa tecnica d’intervento è sempre preferibile operare dall’esterno. Sarà quindi necessario che la macchina, durante la lavorazione, possa avanzare su un piano regolare che si trovi adiacente al muro da tagliare. Questa condizione non sempre può essere rispettata per la presenza di alberi, siepi, o più semplicemente per il terreno irregolare. L’esecuzione in corso d’opera, per i motivi già esposti, prevede che si realizzino tagli di lunghezza non superiore a un metro per volta. Si procederà poi all’inserimento del foglio impermeabile e al successivo sostegno mediante zeppatura, per evitare cedimenti o assestamenti della struttura.

Gli eventuali abbassamenti accidentali non potranno in nessun caso superare gli 8 mm complessivi, pari allo spessore del taglio.

Come abbiamo visto, questa tecnica è impiegabile quasi esclusivamente nelle murature realizzate in laterizio o in blocchi leggeri. Dove invece c’è necessità di realizzare un taglio su muratura mista o con la probabile presenza di sasso o comunque costituita da elementi irregolari, sarà

necessario ricorrere all’uso della macchina a disco diamantato o di quella a filo diamantato.

Fig. 8.27 Barriera fisica su muratura di mattoni. La zona sopra la barriera è asciutta, mentre quella sottostante resta umida.

Taglio con macchina a disco diamantato

La macchina da taglio, o sega a disco diamantato, è costituita da una testa di taglio sulla quale è montato il motore, che aziona la rotazione del disco. La

testa di taglio scorre per mezzo di un motore di avanzamento su un binario guida a cremagliera, che dovrà essere rigidamente fissato al muro da tagliare o a un altro supporto fisso.

Il disco di acciaio speciale, utilizzato nei diametri da 600 mm a 2.200 mm, è dotato di segmenti taglienti saldati sulla circonferenza, costituiti da granuli di diamante naturale e sintetico sinterizzati su matrice metallica. Lo spessore dei segmenti sarà di 8 mm per consentire l’uso degli stessi accessori impiegati con la sega a catena, mentre nelle sole esecuzioni di taglio si utilizzano utensili spessi 5 mm.

La macchina può essere alimentata da corrente elettrica in bassa e in alta frequenza oppure da centraline elettroidrauliche, con potenze variabili da 5 a 50 kW e necessita di raffreddamento ad acqua. Con questa tecnica possono essere agevolmente tagliati materiali anche molto duri e compatti, compresi i ferri d’armatura ed eventuali materiali difficili come piombo, legno e altri materiali che spesso si trovano all’interno delle murature.

Per spessori del muro fino a 80 cm, il lavoro eseguito con l’uso del disco risulta abbastanza semplice e veloce, mentre con spessori superiori si ha una grande difficoltà di intervento, tale da rendere preferibili altre tecniche esecutive. Anche in questo caso si dovrà procedere realizzando tagli non più lunghi di un metro per volta, adottando le stesse modalità di posa del foglio impermeabile, delle zeppe di PVC e del riempimento di malta utilizzate con la sega a catena.

Fig. 8.28 Macchina da taglio a disco in funzione. La testa, che aziona la rotazione del disco, scorre sul binario realizzando il taglio. Con questa tecnica si possono tagliare velocemente muri con spessori fino ad 100 cm (immagine gentilmente concessa da Hydro-Tec Italia S.r.l. www.hydrotec.it).

Taglio con filo diamantato

Il taglio con il filo diamantato prevede l’uso di un utensile costituito da un anello di cavo flessibile d’acciaio di circa 6 mm di diametro. Sul filo d’acciaio sono rigidamente fissati, tramite crimpaggio, i taglienti costituiti da

cilindretti di materiale simile ai segmenti del disco, contenente polveri di diamante.

Questi elementi, detti perle, sono generalmente distanziati da una molla e da un altro materiale flessibile come plastica o gomma. Sono posizionati ogni 25 mm lungo il filo e hanno quasi sempre un diametro da nuove di 11 mm. Le due estremità sono unite con un giunto a snodo, in modo da realizzare un anello chiuso continuo, del tutto simile a un rosario. L’anello di filo è trascinato a velocità piuttosto elevata (25m/s) fra una puleggia motrice di trazione collegata a un motore elettrico o idraulico e una o più pulegge folli dette di rinvio. La macchina è dotata di un sistema di avanzamento che esercita una minima pressione continua del filo sul materiale da tagliare ed è in grado di riprendere lo spostamento generato dalla progressione del taglio. La potenza varia fra i 5 e i 50 kW e il raffreddamento della macchina e del filo avviene ad acqua.

Con questa tecnica è possibile tagliare quasi tutti materiali, anche in spessori di diversi metri, in particolare il calcestruzzo fortemente armato e le pietre dure come i graniti e i basalti. Un inconveniente è che il taglio deve essere necessariamente passante e che il suo spessore sarà generalmente di 11 mm anziché di 8. Perciò si dovranno utilizzare zeppe di PVC di altezza maggiore, mentre la colata di malta per la riconnessione risulterà più agevole ed efficace. Questa modalità di taglio è molto più lenta e costosa rispetto alle precedenti e deve essere impiegata quando i materiali costituenti la muratura non consentono l’uso delle seghe a catena o del disco diamantato. In condizioni ottimali, una macchina con due addetti può realizzare al massimo 3 mq al giorno di superficie tagliata (3 m di lunghezza x 1 m di spessore).

Fig. 8.29 Esecuzione di un taglio orizzontale con l’impiego del filo diamantato su muratura. Questa tecnica consente di tagliare quasi tutti i materiali con spessori molto elevati, fino a diversi metri (immagine a cura dell’autore).

Inserimento di lamine metalliche a pressione

Una tecnica che utilizza una barriera fisica, assimilabile al taglio meccanico, è quella dell’infissione a pressione di lamine metalliche. È impiegabile su murature di ridotto spessore sulle quali sia possibile individuare uno strato interposto regolare e meno resistente, come lo strato di malta fra due filari

sovrapposti di mattoni, o su materiali caratterizzati da ridotta resistenza meccanica. Si utilizzano lamine di acciaio inossidabile ferritico, austenitico o martensitico, al Cr-Ni o Cr-Ni-Mo e in alcuni casi con aggiunta di Ti in lega, nervate o ondulate, di qualche mm di spessore. Attraverso rapide percussioni generate da un martello elettrico dotato di un apposito carrello di posa, le lamine sono infisse a pressione orizzontalmente nella muratura a partire dalla parte affilata e sono sormontate fra di loro per qualche centimetro nel senso della larghezza. Il sistema è molto veloce e poco invasivo. Non c’è necessità di acqua durante la lavorazione e non si producono polveri o vibrazioni dannose, in quanto l’inerzia della massa muraria è tale per cui non si ha la minima sollecitazione né il minimo scorrimento orizzontale. Sono inoltre evitati gli assestamenti, poiché la lamina induce una minima compressione della malta, tale da annullare la tendenza allo schiacciamento. In caso di murature molto spesse, il sistema presenta evidenti difficoltà applicative. Ciò è dovuto principalmente all’attrito che si sviluppa fra la lamina e le sue superfici di scorrimento, che può far bloccare l’infissione prima del completamento. La tecnica non è impiegabile quando si suppone vi siano materiali duri o distribuiti in maniera irregolare, come per esempio sassi o blocchi di pietra.

Fig. 8.30 La tecnica a infissione di lamine metalliche è estremamente rapida e non invasiva. La macchina impiega un sistema di percussione che inserisce la lamina metallica nella base muraria. Può essere adottata solo quando la malta di allettamento presente fra due corsi successivi di mattoni è poco consistente. L’ immagine è tratta dal brevetto ormai scaduto di tale tecnica realizzativa.

Barriera chimica

Un’importante categoria di soluzioni finalizzate all’eliminazione dell’umidità ascendente è quella della cosiddetta “barriera chimica”. Prevede l’uso di prodotti chimici per realizzare uno sbarramento orizzontale alla risalita muraria. Le prime applicazioni di questa tecnologia furono sviluppate in Gran Bretagna intorno agli anni ’50 da Peter Cox Ltd, azienda che opera tuttora anche in Italia con una sua organizzazione stabile.

Esistono due distinte modalità di azione per raggiungere il risultato, l’idrofobizzazione e l’intasamento dei pori.

Fig. 8.31 Iniezione a pressione di resina idrofobizzante nel pilastro di una vecchia costruzione (immagine gentilmente fornita da Swissnanotech SA www.swiss-nanotech.com).

L’idrofobizzazione consiste nell’iniezione a pressione o per colata a gravità di composti chimici atti a variare la tensione superficiale dell’acqua sulla superficie del poro, fino a trasformare il menisco concavo in convesso. L’effetto è quello di eliminare e possibilmente invertire l’azione delle forze che provocano la risalita, contrastando il fenomeno fino ad annullarlo.

L’intasamento invece prevede l’ostruzione delle porosità murarie con materiali di diverso tipo, impedendo il passaggio dell’umidità.

Sistemi che agiscono sulla tensione superficiale

Per realizzare l’idrofobizzazione occorre impregnare il supporto secondo un piano orizzontale prossimo al terreno, con prodotti chimici che agiscano sulla tensione superficiale, detti anche tensioattivi. Il loro effetto sarà quello di rendere idrofughi i materiali impregnati, impedendo la suzione dell’acqua sui capillari murari. I pori che inizialmente attraggono l’acqua dopo il trattamento la respingono.

I composti aventi queste caratteristiche utilizzati nell’edilizia possono essere di diversi tipi. Questi i più comuni:

siliconati; silanici; silossanici; siliconici; microemulsioni.

Modalità applicative dei materiali da iniezione e colata

I sistemi di barriera chimica prevedono l’iniezione o la colata dei composti attivi all’interno della muratura. Generalmente, alla base dei muri si realizzano fori paralleli allineati, orizzontali o inclinati. Ogni produttore del composto da impiegare stabilisce le proprie specifiche modalità di esecuzione dei fori, in termini di diametro, di interasse ed eventualmente di inclinazione. Alcune tecniche prevedono l’iniezione senza pressione, detta anche “a gravità”, mentre altri produttori prescrivono che l’iniezione dei composti avvenga mediante pompe, con pressione variabile tra 0,5 e 7 bar. È opportuno precisare che le sollecitazioni indotte all’interno di una muratura dalle iniezioni di prodotti liquidi in pressione possono dare luogo a danni anche rilevanti, dovuti all’insorgenza di carichi idrostatici di entità significativa.

A titolo di esempio, immaginiamo che all’interno della muratura si trovi uno spazio di separazione fra due elementi affiancati, ipotizziamo avente superficie di 1 mq. La circostanza è assolutamente verosimile, per esempio nel caso in cui vi siano due muri affiancati, non visibili dall’esterno. Nel momento in cui, all’interno di questo spazio, andiamo a iniettare un liquido alla pressione di 7 bar, per il Principio di Pascal la pressione si eserciterà con la stessa intensità in tutti i punti lambiti dal liquido. Essendo 1 mq formato da 10.000 cm², la spinta risultante sarà di circa 70.000 Kg per lato e avrà quasi certamente la capacità di divaricare la muratura, con conseguenze inimmaginabili (o anche troppo immaginabili) in termini di danno arrecato.

L’utilizzo di prodotti in pressione, anche se moderata, dovrà essere attentamente valutato da parte di un Tecnico Strutturista. In ogni caso, saranno da preferire i composti più scorrevoli e meno viscosi che non necessitano di elevate pressioni di iniezione o che possono essere colati per semplice gravità. Il sistema che garantisce le migliori prestazioni è però quello a pressione, quindi sarà necessario valutare volta per volta quale tecnica utilizzare. In alcuni casi si realizza un vuoto parziale sulle murature, per mezzo di appositi depressori, proteggendo l’edificio con teloni in plastica adatti. Questa tecnica favorisce l’evaporazione dell’umidità residuale presente nei pori e consente al prodotto idrofobizzante una

migliore penetrazione all’interno della massa muraria. Occorre precisare che i sistemi di barriera chimica hanno limiti operativi dovuti alla difficoltà di saturare, con un qualsiasi prodotto, pori che sono già parzialmente o totalmente pieni d’acqua. Il composto impiegato deve (o dovrebbe) allontanare le molecole d’acqua adese alle superfici dei pori e sostituirsi a esse. Sappiamo benissimo quanto siano intense tali forze e perciò quanto sia difficile che ciò avvenga compiutamente. Ma soprattutto che avvenga in tempi brevi. Inoltre, la presenza dei sali, in fase disciolta o come deposito solido all’interno dei pori, è sempre tale da ostacolare e nei casi più gravi impedire la corretta funzionalità dei sistemi operanti per mezzo di barriera chimica.

I siliconati

I primi prodotti da iniettare nelle murature erano costituiti fondamentalmente da metilsiliconato di potassio o di sodio. Reagivano con l’anidride carbonica dell’aria per formare composti altamente idrofobizzanti. Il loro limite era la ridotta efficacia su murature molto spesse, che la CO2 aveva difficoltà ad attraversare. Erano poi sensibili a valori di pH molto alti, quindi potevano creare problemi su alcune murature e davano luogo a residui secondari salini indesiderati. A causa dei vari effetti collaterali riscontrati, attualmente non sono più utilizzati.

I silanici

Il silano o tetra idruro di silicio, è un gas avente la molecola della stessa forma tetraedrica del metano. La sua formula è SiH₄, e la sua caratteristica principale è l’idrorepellenza. Attraverso opportune tecniche è diluito in acqua o solvente per essere poi veicolato all’interno della muratura. Si può instillare per gravità oppure a pressione per mezzo di idonei trasfusori,

inseriti su fori precedentemente praticati nella parete. È molto instabile e molto volatile, ma presenta il vantaggio di avere una bassissima viscosità e una elevatissima scorrevolezza. Ha quindi la possibilità di penetrare facilmente nelle più piccole porosità dei materiali murari. L’aggiunta di solvente accresce la penetrazione, ma riduce l’efficacia idrofobizzante e comporta un maggior tempo di attesa, necessario per la sua eliminazione. È da precisare che l’evaporazione del materiale colato in eccedenza, sarà in parte riversata all’interno dell’ambiente e che il silano è tossico e irritante per l’apparato respiratorio, oltre a essere infiammabile quando si trova allo stato puro. Le formulazioni più recenti, disponibili al momento in commercio, hanno ridotto drasticamente gli inconvenienti citati in precedenza.

I silossanici

Sono dei composti organici del silicio più complessi, che contengono nella molecola anche ossigeno e idrogeno, diversamente combinati. Non sono solubili in acqua e devono essere veicolati con acquaragia o con altri solventi apolari. Sono molto più stabili dei silani, meno volatili e altrettanto facilmente iniettabili anche per semplice gravità, pur essendo meno scorrevoli. I silossanici conferiscono al prodotto finito delle caratteristiche migliorative in termini di traspirabilità.

I siliconici

I prodotti siliconici sono composti polimerici dei silossani e hanno quindi molecole ramificate di grandi dimensioni. Rispetto ai silossani, sono più resistenti al calore e alle sostanze chimiche, ma sono molto più viscosi, quindi la loro penetrazione risulta ridotta. Si tratta di materiali di difficile applicazione, utilizzati sempre più raramente.

Le microemulsioni

Si tratta di formulazioni complesse, create da miscele di diversi composti a base silanica o silossanica aggregati tramite solubilizzazione in acqua o in solvente organico. Sviluppati inizialmente in Gran Bretagna con il marchio Dryzone®, sono i prodotti più efficaci fra quelli attualmente in commercio. Possono avere valori di scorrevolezza molto variabili, sia molto alti e quindi adatti ad applicazioni a gravità o a pressione, sia tanto bassi da dare al prodotto la consistenza di crema o gel. In quest’ultimo caso sono applicati per semplice riempimento di fori orizzontali con pompa manuale e trasferiscono le sostanze reattive all’interno della muratura per impregnazione e diffusione.

Fig. 8.32 Iniezione di microemulsioni in una muratura con pompa manuale (immagine concessa da Swissnanotech SA www.swissnanotech.com).

Sistemi che agiscono per intasamento dei pori

Le tecniche adottabili per realizzare una barriera di tipo chimico mediante intasamento dei pori possono utilizzare diverse tipologie di prodotto. I sistemi più semplici prevedono l’impiego di riempitivi cementizi ad azione osmotica. Si tratta di prodotti minerali piuttosto fluidi, da colare per gravità su fori precedentemente praticati nella parete, previa bagnatura a rifiuto. Un’altra tecnica di intasamento prevede la colata di paraffina fusa all’interno dei fori della muratura, che deve essere preventivamente riscaldata alla temperatura di circa 60° C.

Cementi osmotici

Un valido sistema osmotico è quello denominato Vandex Vim, che utilizza una boiacca cementizia del tutto priva di solventi e di altre sostanze tossiche o infiammabili. Oltre all’acqua, contiene composti minerali inorganici a penetrazione osmotica. Prevede la realizzazione di fori inclinati a 30°, che vanno poi riempiti di prodotto previo lavaggio e bagnatura con acqua. La particolare composizione chimica del prodotto gli conferisce la proprietà di penetrare all’interno delle porosità murarie. Successivamente, il prodotto reagisce con i composti minerali che la costituiscono, per formare cristalli insolubili che chiudono la struttura capillare. Ha il vantaggio di poter essere utilizzato da personale non esperto, non necessita di particolari attrezzature e garantisce le migliori prestazioni su murature molto umide. Essendo un prodotto a base cementizia, ha il vantaggio di legare le parti incoerenti presenti all’interno della muratura, svolgendo una discreta azione consolidante.

Fig. 8.33 La tecnica applicativa del Vandex VIM è estremamente semplice e non necessita di alcuna attrezzatura. È sufficiente riempire i fori preventivamente inumiditi, per colata a gravità, e attendere il completamento della reazione.

Sistema SAFF®

Si tratta di una tecnica brevettata in Italia, poco utilizzata nonostante abbia dato finora ottimi risultati. Consiste nella realizzazione di fori paralleli affiancati, prossimi alla base muraria, sui quali sono posizionate resistenze

elettriche corazzate che scaldano la muratura fino al raggiungimento dei 60° C circa.

Al raggiungimento della temperatura, sui fori preriscaldati è colata paraffina pura, che in questo modo andrà a riempire completamente tutte le porosità presenti. Quando la paraffina si raffredda, sigilla le porosità in maniera definitiva, impedendo qualsiasi passaggio di umidità futuro. La notevole stabilità chimica del prodotto, insieme alla sua insensibilità ai sali e alla resistenza agli agenti biologici, la rende molto adatta a otturare le porosità in maniera definitiva. Un ulteriore vantaggio è quello della totale asciugatura della base muraria ottenuta con la fase di riscaldamento.

Fig. 8.34 Iniezione di paraffina liquida alla base muraria secondo il sistema Saff® (immagine cortesemente fornita da Grandisol S.n.c. di Cattaneo & C. www.grandisol.it).

Sistemi elettrici

Sono tecniche che utilizzano campi elettrici, elettrostatici ed elettromagnetici per correggere ed eliminare le azioni della risalita muraria.

I sistemi elettrici impiegano proprietà note nel campo della fisica, riguardanti i campi elettrici ed elettromagnetici, che esercitano diversi effetti sull’umidità e sulle sue relazioni con la muratura. Esistono numerose tipologie di prodotto che funzionano secondo principi molto diversi fra loro.

Sistemi ad inversione di carica

Il sistema di correzione della risalita di umidità basato sull’inversione di carica, noto come tecnologia a compensazione di carica D.L.K., utilizza il naturale campo elettrico che si crea fra il terreno e la muratura umida in conseguenza della risalita e lo inverte per mezzo di un astuto artifizio.

Come già visto in precedenza, il fenomeno della risalita capillare crea un movimento di cariche elettriche associate agli ioni presenti nella soluzione acquosa e dipende dal loro livello di dissociazione. Sono abitualmente riscontrabili differenze di potenziale elettrico fra il terreno sul quale è fondata la muratura e il fronte di risalita, variabili fra i 10 e gli oltre 300 mV. Questa differenza di potenziale è detta potenziale di flusso e indica l’intensità del fenomeno di risalita.

L’azienda distributrice del marchio evidenzia che, a causa di alcuni complessi fenomeni fisico-chimici, la stessa differenza di potenziale indotta è a sua volta capace di autoalimentare il fenomeno, esaltando gli effetti di risalita già presenti. Sempre gli studi, il fenomeno della risalita nelle murature sarebbe da attribuire per il 5% alla capillarità e per il 95% ai fenomeni elettrici correlati.

Questa tecnica prevede la realizzazione di fori paralleli inclinati, che interessano l’intero spessore murario e, partendo dal fronte di risalita, terminano sul terreno, penetrando per circa 50 cm al suo interno. I fori hanno un diametro di 30 mm e sono distanziati fra loro in maniera regolare, ogni 50 cm. All’interno dei fori si dispone una barra metallica isolata elettricamente e chimicamente rispetto alla muratura rivestendola con un tubo in plastica o con verniciatura in resina epossidica.

Lo spazio rimanente potrà essere riempito con malta di calce ordinaria.

Per il principio dell’induzione elettrica, la porzione della barra posta nelle vicinanze del terreno, caricato positivamente, si caricherà negativamente. Alla sua estremità opposta, ovvero in prossimità del fronte di risalita, dove il muro ha una carica negativa, la barra assumerà valori di carica elettrica positiva. Come appare evidente, questa tecnica utilizza lo stesso campo elettrico naturale esistente fra la muratura e il terreno per invertire e annullare il fenomeno. Non ha bisogno di alimentazione ed è autoregolata, in quanto le azioni che si esercitano sono conseguenza del campo di eccitazione e ne seguono l’andamento, in modo da ottenere sempre la somma delle cariche pari a zero. Tale tecnica è inoltre reversibile e poco invasiva e non ha bisogno di alcun tipo di verifica successiva o di manutenzione nel tempo. Anche in questo caso, così come in tutti gli altri, dopo l’installazione delle barre il fenomeno della risalita sarà arrestato e la muratura necessiterà di un certo lasso di tempo per la sua asciugatura, variabile da alcuni mesi ad alcuni anni in funzione di svariati fattori.

Fig. 8.35 Tecnologia a compensazione di carica D.L.K. Si tratta di un sistema passivo, che prevede l’inserimento di barre metalliche isolate all’interno di fori inclinati, praticati sulla muratura. Questa tecnica sfrutta il principio dell’induzione per creare un campo elettrostatico opposto a quello naturale.

Sistemi elettrosmotici

L’elettrosmosi è un fenomeno che consiste nel movimento di un liquido attraverso un supporto poroso, per mezzo di una differenza di potenziale

applicata ai suoi estremi. Se la costante dielettrica è superiore nella fase mobile rispetto a quella stazionaria, il movimento avverrà dal polo positivo a quello negativo e viceversa. La quantità di liquido trasferita attraverso il mezzo poroso è proporzionale all’intensità della corrente che attraversa il setto, ed è indipendente dalla sua sezione e dal suo spessore. Le porosità di una muratura sono quasi sempre costituite da una matrice silicea, avente formula minima SiO2, nella quale la costante dielettrica ε è pari a 4,3 mentre quella dell’acqua è di 80,37 a 20° C (e tende ad aumentare al ridursi della temperatura). I sistemi elettrosmotici prevedono l‘inversione della risalita attraverso l’utilizzo di una corrente che si oppone a quella spontaneamente presente sulla muratura.

Ci sono due tipologie fondamentali di sistema: attivo cioè alimentato da corrente esterna e passivo, perciò autoalimentato, che agisce cortocircuitando la tensione del potenziale verticale di flusso.

Sistemi a elettrosmosi attiva

Sono costituiti da una centralina che genera corrente continua a basso voltaggio (fra 1,5 e 4,5 V) e bassa intensità (fra 0,2 e 1,2 A), la quale attraversa la muratura per mezzo di elettrodi inseriti fra la parte alta della parete e il suolo. Per ottenere l’inversione della polarità, il catodo o elettrodo negativo sarà collegato al terreno (che è positivo), mentre l’anodo o elettrodo positivo sarà inserito sulla muratura da sanare (che è negativa). I sistemi indicati risultano piuttosto affidabili e abbastanza efficaci nelle normali situazioni di impiego. Presentano un forte fenomeno di corrosione galvanica sull’anodo, ovvero l’elettrodo infisso a muro, e necessitano di un regolare monitoraggio dei parametri di funzionamento della centralina. La fase di installazione è poco invasiva in quanto prevede l’inserimento di un cavo, o di un fascio di cavi di piccole dimensioni, all’interno della muratura, lungo tutto il perimetro interessato dal fenomeno della risalita. Ultimamente si

utilizzano anodi di materiali molto resistenti alla corrosione, che garantiscono una durata prolungata nel tempo.

Sistemi a elettrosmosi passiva

I sistemi a elettrosmosi passiva sono privi di centralina e non hanno alcun tipo di alimentazione. Utilizzano dei cavi di connessione opportunamente posizionati per creare il cortocircuito elettrico fra la zona della muratura positiva (il piede) e quella negativa (il fronte di risalita). Il suo funzionamento non è efficace quanto quello dei sistemi attivi a corrente impressa, a causa di varie interazioni di natura elettrica.

Lavaggio elettrosmotico

Il lavaggio elettrosmotico consiste nell’utilizzo dell’acqua distillata per portare in soluzione i sali presenti sulla muratura per poi trasferirli verso il terreno, mediante un dispositivo del tutto simile a quelli utilizzati per la deumidificazione. L’eliminazione dei sali dalla massa muraria risulta in alcuni casi molto più importante della sola evacuazione dell’umidità. Ricordiamo infatti che gli effetti dannosi dei sali sulle murature possono essere devastanti, mentre la sola umidità in assenza di sali ha un effetto di degrado molto limitato. Si tratta di una tecnica utilizzata nel restauro, praticamente sconosciuta nell’edilizia residenziale abitativa.

Elettroforesi

È un trasferimento di sostanze polari in soluzione, all’interno della muratura, operato a mezzo di corrente elettrica. Si realizza così una vera e propria impregnazione del supporto poroso, utilizzando la corrente elettrica per veicolare il flusso di liquido. Anche in questo caso la corrente elettrica continua dovrà essere di ridotto voltaggio e di bassissima intensità. Lo scopo è quello di far penetrare in profondità nella muratura sostanze chimicamente attive che dovranno reagire con i materiali presenti nelle porosità per ottenere i risultati previsti. Ricordiamo che il metodo descritto può essere impiegato solo con sostanze chimiche polari, e questa circostanza costituisce una possibile limitazione di impiego.

Centraline elettroniche

Le centraline elettroniche impiegate per correggere i fenomeni di risalita sono apparati che emettono onde elettromagnetiche, basati su un diverso principio di funzionamento rispetto ai sistemi elettrosmotici. Questi ultimi impiegano correnti continue, che sono in grado di spostare e di trasferire le molecole d’acqua all’interno del mezzo poroso e hanno gli elettrodi a contatto del muro e del terreno. Funzionano perciò per conduzione elettrica e realizzano un circuito elettrico chiuso.

Le centraline elettroniche agiscono invece attraverso l’emissione di onde cicliche pulsanti, che hanno l’effetto di far vibrare le molecole d’acqua adese alle superfici dei pori rendendo più labili le reciproche forze di attrazione elettrostatica.

La loro tecnologia deriva da ricerche condotte presumibilmente in Germania intorno agli anni ’80 ed è rimasta praticamente immutata fin da allora. In particolare, questi dispositivi emettono un campo elettromagnetico di bassissima intensità per mezzo di un circuito LC risonante (gli apparati più moderni impiegano oscillatori al quarzo). Questo è caratterizzato da un’onda

quadra pulsante, diversa dalla sinusoidale alternata della tensione di rete, avente una frequenza portante nel campo delle centinaia di kHz e una modulata che spazia dai 30 agli 80 Hz. La pulsazione descritta è inoltre attenuata secondo modalità ben precise.

Fig. 8.36 Schema di circuito LC.

A queste emissioni si uniscono le numerose armoniche successive alla fondamentale, originate dalle frequenze indicate. Gli effetti di questa particolare forma d’onda sono tali da creare, nelle immediate vicinanze del dispositivo, interazioni complesse con le cariche elettriche presenti all’interno della massa muraria.

A causa dell’alterazione indotta, il sistema organizzato delle molecole d’acqua adese alle superfici dei pori assume una nuova configurazione più instabile, diversa da quella precedente e avente forze di attrazione molto più attenuate. Al momento, non sono disponibili in letteratura studi approfonditi sull’esatto meccanismo di azione dei dispositivi a emissione di onde, ma è verosimile che questi operino attraverso effetti capacitivi. Probabilmente, a questi si sommano ulteriori effetti di interferenza e risonanza, aventi luogo fra le superfici dei pori e le molecole d’acqua che si trovano a contatto. L’azione di questi sistemi elettronici è assimilabile a tutti gli effetti a un radiodisturbo, che vede un apparato di emissione generare un’ampia gamma di frequenze variamente assortite, atte a disturbare un campo elettromagnetico inducendo effetti di risonanza e interferenza alle sue frequenze specifiche. In elettronica, la tecnica descritta prende il nome di jamming e ha origini militari. In quel campo, è tuttora ampiamente utilizzata per confondere i radar e gli apparati di comunicazione del nemico. Nel nostro caso il nemico è l’acqua e l’emissione disturba per l’appunto l’adesione delle sue molecole alle superfici dei pori.

Gli effetti a distanza si trasferiscono lungo la muratura e non, come si ritiene erroneamente, per emissione in aria. Infatti, come risulta da esperienze condotte in passato, se l’apparato non è posizionato nelle immediate vicinanze della parete, per esempio se è appeso al centro della stanza, non esercita alcun effetto sull’umidità, nonostante funzioni perfettamente.

Quindi è il muro che diventa l’elemento conduttore attraverso il quale si trasmette la perturbazione delle forze di adesione dell’acqua sui pori.

L’apparato si comporta come se le molecole d’acqua, adese alla superficie dei pori, facessero parte di un sistema in equilibrio simile a un castello di carte, con le cariche elettriche organizzate fra loro in una configurazione

inizialmente stabile. L’oscillazione indotta dalla centralina non fa altro che far cadere le carte più vicine, generando un effetto domino squilibrante, capace di disorganizzare progressivamente la condizione di stabilità precedente.

La vibrazione indotta dall’apparato sulle molecole d’acqua si trasferisce lungo tutta la parete per lunghezze variabili fra i 13 e i 17 metri lineari, agevolando la riduzione dell’umidità sul mezzo poroso.

Perciò, le onde degli apparati a emissione non spostano la risalita, non modificano le cariche, non spostano i potenziali e non eliminano l’umidità. Rendono solo meno efficace il legame elettrostatico esistente all’interfaccia acqua-superficie del poro, favorendo l’evaporazione e limitando il trasferimento in ingresso di nuova umidità per diffusione.

Le emissioni generate dalle centraline elettroniche hanno effetto sull’umidità insatura presente sulle murature, come per esempio quella diffusiva e quella igroscopica, ma non sono efficaci laddove vi sia la presenza di acqua liquida. Questo perché la debole vibrazione indotta dalle onde elettromagnetiche delle centraline non ha alcun effetto sulle intense forze di tensione superficiale del menisco liquido.

I dispositivi in commercio hanno l’aspetto di piccole scatole di plastica, del volume di qualche dm³, sono alimentati dalla rete domestica a 220 V o in bassa tensione e hanno un consumo variabile fra 1,5 e 5 W. Non hanno necessità di manutenzione e non provocano effetti collaterali. L’intensità di emissione elettromagnetica è particolarmente bassa (circa 1/20 rispetto a una comune lampada al neon) ed essendo abbondantemente al di sotto dei limiti imposti dalle attuali normative è innocua per la salute umana.

Generalmente gli apparecchi sono installati sulle pareti portanti dell’edificio, ad altezze variabili fra i 2 e i 2,50 metri rispetto al pavimento. La potenza irradiata da questi dispositivi varia fra i 18 e i 28 mW, alle frequenze citate in precedenza.

Fig. 8.37 Onda quadra pulsante con cicli tutti positivi, dove si evidenziano l’onda portante e quella modulata. La distanza fra due cicli (onde successive) si chiama periodo e la frequenza è il numero di periodi al secondo.

Fig. 8.38 Centralina elettronica da installazione a parete. Gli apparati di questo tipo generano emissioni di onde che si diffondono nell’ambiente (immagine gentilmente concessa da Taglio 2000 S.r.l. www.taglio2000.it).

Sistema TEAM

Una recente innovazione nel settore delle centraline elettroniche è costituita dall’apparato TEAM (trasmettitore elettronico a modulazione). Si tratta di un dispositivo di caratteristiche analoghe alle altre centraline elettroniche, sia come frequenze di emissione sia come potenza irradiata.

La differenza riguarda la sua forma, perché l’apparato è costituito da un cilindro che deve essere installato all’interno della parete, su un foro di piccolo diametro appositamente predisposto. Il dispositivo è in grado quindi di trasmettere più efficacemente l’emissione, dall’interno del muro anziché dall’esterno. È dotato di un’antenna direttiva polarizzata da orientare verso il basso, in modo da aumentare l’efficacia dell’emissione evitando di disperdere energia in ambiente. Un ulteriore vantaggio è quello di essere quasi del tutto a scomparsa, quindi più protetto da eventuali urti o danneggiamenti accidentali. Inoltre, per il suo ingombro ridotto può essere posizionato anche dietro un mobile, un quadro o all’interno di una comune scatola elettrica da incasso.

Fig. 8.39 Apparato TEAM da installazione a scomparsa. Le onde sono interamente convogliate all’interno della muratura per mezzo di un’antenna direttiva.

I sistemi autoalimentati

Contrariamente alle centraline elettroniche, i sistemi autoalimentati non hanno bisogno di apporti esterni di energia elettrica per funzionare, in quanto utilizzano le onde elettromagnetiche presenti nell’ambiente circostante. Il fatto non deve stupire poiché già alla fine dell’800 furono costruite radio prive di alimentazione elettrica, dette radio a galena, che utilizzavano la stessa energia delle onde ricevute per far funzionare gli apparati.

Avvalendosi delle energie emesse naturalmente dal sottosuolo terrestre, i sistemi autoalimentati, ottengono effetti significativi nell’eliminazione dell’umidità muraria.

Questa nuova categoria di apparati utilizza le emissioni elettromagnetiche naturali di origine geologica e geofisica, convertendole in segnale elettrico e convogliandole all’interno del muro. Da diversi millenni si fa uso della bussola, sapendo che il suo funzionamento è correlato ai campi naturali terrestri.

I dispositivi autoalimentati sono costituiti fondamentalmente da una o più antenne riceventi passive, generalmente a forma di spirale o comunque adeguate alla frequenza del campo elettromagnetico proveniente dal sottosuolo e all’intensità del segnale che si intende generare. I primi apparati di questo tipo sono comparsi in Francia e in Svizzera negli anni ’80. Successivamente sono state sviluppate altre antenne simili in Austria e

Germania. I dispositivi di concezione più datata erano costituiti da tre antenne a Spirale di Archimede, ciascuna in grado di captare frequenze diverse, in particolare nel campo delle UHF, delle VHF e delle MO (micro onde). Attraverso artifizi elettronici, gli apparecchi di questo tipo sono in grado di ricevere e trasdurre (trasformare) emissioni con frequenze variabili da 10 kHz fino a 3 GHz.

Il segnale elettrico ottenuto è poi modificato all’interno di un particolare circuito elettronico e trasmesso sul muro per mezzo di un conduttore metallico. I sistemi più moderni invece utilizzano antenne UWB (Ultra Wide Band) ovvero a banda ultra larga, che sono generalmente del tipo a spirale conica logaritmica (Conical Log Spiral Antenna), dotate di uno o più bracci e opportunamente polarizzate (si veda Fig. 8.45). Queste antenne sono in grado di operare su un campo di frequenze molto ampio, varabile da pochi kHz a diversi GHz.

Inventate nel 1960 da John D. Dyson, un ricercatore americano della University of Illinois, le antenne a spirale logaritmica conica, dette anche equiangular broadband antennas sono indipendenti dalla frequenza, cioè sono in grado di convertire in segnale elettrico uno spettro molto ampio di frequenze elettromagnetiche. Attualmente, le antenne di questo tipo hanno svariati impieghi nei settori delle telecomunicazioni e della difesa.

Fig. 8.40 Spirale di Archimede e logaritmica. Nella prima la distanza fra i bracci è costante, mentre nella seconda aumenta secondo una progressione geometrica.

Fig. 8.41 Brevetto dell’antenna a spirale logaritmica conica (John D. Dyson, University of Illinois Foundation, 1960).

Il campo elettromagnetico naturale che alimenta tali apparati non ha dappertutto la stessa intensità. Esiste un valore di fondo, abbastanza stabile su estensioni piuttosto rilevanti della superficie terrestre, che in alcune zone ben precise del suolo diventa sensibilmente maggiore.

Il posizionamento dell’apparato dovrà perciò essere particolarmente accurato, poiché occorre individuare la massima intensità dell’emissione proveniente dal sottosuolo. Questa generalmente si presenta in

corrispondenza di fasce di larghezza variabile da qualche decina di centimetri fino a un metro e lunghe diversi metri.

L’installazione corrisponde a quello che in elettromagnetismo si chiama “puntamento di un’antenna direttiva”.

La ricerca dei punti energeticamente attivi deve essere eseguita con strumentazione idonea, di elevata sensibilità. Si utilizzano i geomagnetometri portatili, che sono in grado di apprezzare variazioni di intensità del campo magnetico fino a 1 µT (microtesla). Si consideri che l’intensità media del campo geomagnetico naturale terrestre dipende dalla latitudine e, in Italia, varia fra i 20.000 e i 25.000 µT. Trattandosi di un campo vettoriale, quindi direzionale, si avranno valori orizzontali distinti da quelli verticali, sempre riferiti alla superficie terrestre.

Alcuni soggetti particolarmente sensibili riescono a individuare le anomalie dei campi geomagnetici con semplici bacchette da rabdomante, che in ultima analisi sono semplicemente antenne lineari a dipolo o monopolo.

Altri operatori, ancora più esperti, riescono a farlo addirittura a mani nude.

Gli addetti ai lavori chiamano questa zona energeticamente attiva fascia oppure falda in quanto la sua posizione coincide spesso, ma non necessariamente, con quella di una o più falde sotterranee. Può anche essere dovuta alla presenza nel sottosuolo di minerali ferromagnetici o banchi di argilla.

Se l’apparato è installato sulla verticale della zona energeticamente attiva, sarà in grado di convertire il campo elettromagnetico presente in un segnale elettrico della stessa frequenza. Mentre se sarà installato in qualunque altro punto non sarà alimentato a sufficienza e perciò non potrà svolgere alcuna funzione efficace. Le emissioni energetiche naturali presenti sul terreno sono quindi trasformate in segnale e convogliate all’interno della muratura. L’effetto è quello di creare un’alterazione degli equilibri elettrostatici che determinano le azioni di risalita sulle murature, annullandone gli effetti. A differenza dei sistemi a emissione di onde, che sfruttano gli effetti dell’induzione elettrica quindi agiscono senza contatto, quelli autoalimentati hanno la necessità di trasmettere il segnale per conduzione.

La potenza trasmessa sul conduttore nei sistemi autoalimentati è circa mille volte più bassa rispetto a quella emessa sotto forma di onda dalle centraline elettroniche. Simulazioni condotte in laboratorio hanno indicato valori di potenza emessa estremamente bassi, che variano fra i 20 e i 28 µW (microwatt), su una gamma di frequenze molto ampia, che rientra quasi interamente nel campo delle microonde.

Durante il funzionamento di un apparato passivo, la sua emissione elettromagnetica è nulla. Ciò avviene perché questo è posto in equipotenziale con la muratura e di conseguenza realizza un circuito chiuso con il terreno. Praticamente, il segnale generato si va a cortocircuitare sul muro e non emette alcun tipo di energia radiante. Gli effetti del dispositivo, è opportuno sottolineare, si esercitano quindi per mezzo di un connettore elettrico e non attraverso onde irradiate. Anche in questo caso, la modalità di azione del segnale sul sistema acqua-superfici dei pori è del tutto simile a quella di un jamming elettromagnetico, con la differenza che non si tratta di un radiodisturbo effettuato mediante onde irradiate, ma per conduzione di una debolissima corrente elettrica ad altissima frequenza.

Sul muro avviene qualcosa di molto simile rispetto a quanto è indotto dai sistemi a emissione. Cioè vengono fortemente attenuate le azioni igroscopiche di adesione, normalmente esistenti fra le superfici dei pori e le molecole dell’acqua. I limiti di questa interessante tecnologia sono dovuti al posizionamento dell’antenna, che dovrà obbligatoriamente essere installata sulla verticale di una fascia energeticamente attiva. Questa prescrizione non sempre è compatibile con l’utilizzo dei locali, tanto più che alcuni produttori propongono apparati piuttosto voluminosi e ingombranti.

La connessione elettrica dell’apparato potrà essere realizzata anche sul soffitto dell’edificio oltre che sulla parete, purché sia in una zona più alta rispetto a quella affetta dall’umidità in eccesso. Le antenne non possono essere installate nelle immediate vicinanze di masse metalliche, di campi elettromagnetici o di emettitori di radiofrequenze, come per esempio elettrodomestici, telefoni cordless, computer o telefoni cellulari, in quanto queste fonti di disturbo ne limitano fortemente l’efficacia.

È inoltre da far presente che la fascia energetica naturale terrestre può spostarsi nel tempo o ridurre la sua intensità a causa di modificazioni geologiche o per altri motivi, come per esempio la variazione dei corsi d’acqua sotterranei. In questo caso, sarà necessario riposizionare il dispositivo affinché questo possa ricevere l’energia necessaria per il suo funzionamento.

I sistemi autoalimentati non sono influenzati dallo spessore delle pareti e neppure dalla quota del fronte di risalita. Hanno un campo d’azione più o meno simile a quello dei sistemi a emissione, che varia fra i 13 e i 17 metri lineari di lunghezza della muratura.

Come per i dispositivi a emissione di onde, anche qui le energie in gioco sono talmente basse da non avere alcun effetto sulle superfici dei menischi

liquidi. Perciò non sono minimamente efficaci nel correggere problemi di risalita capillare, né qualora sia presente dell’acqua liquida, come per esempio nei casi di infiltrazione o condensa.

Sono invece adatti a essere utilizzati in presenza di flussi insaturi, come quelli di risalita non capillare oppure di umidità diffusiva e igroscopica.

Attualmente esistono in commercio diversi dispositivi autoalimentati. Alcuni di questi hanno la forma di un lampadario e devono essere sospesi al soffitto o alla parete, mentre altri hanno la forma di una scatola di dimensioni ridotte o di un cilindro, da installare esclusivamente a parete. Generalmente, i produttori di questi apparati prevedono che le antenne siano posizionate ad altezze variabili fra i 2,00 e i 2,50 metri rispetto al piano di calpestio.

Fig. 8.42 Apparato autoalimentato installato a soffitto per mezzo di un elemento conduttore. Contrariamente a quanto spesso si crede, le antenne di questo tipo sono puramente passive. Sono in grado di trasformare il campo elettromagnetico in segnale elettrico, ma non irradiano alcun tipo di energia. Nei casi in cui la connessione elettrica sia inefficace, l’antenna emette in ambiente le stesse onde destinate al muro e non corregge l’umidità muraria.

Fig. 8.43 Funzionamento elementare di un sistema autoalimentato. L’emissione elettromagnetica naturale terrestre è convertita in segnale elettrico ad alta frequenza dall’antenna passiva e trasmessa per conduzione sulla parete. Per quanto sia estremamente bassa, l’energia trasmessa alla muratura attraverso il conduttore è in grado di disorganizzare le azioni di adesione e coesione delle molecole d’acqua all’interno delle porosità murarie.

Fig. 8.44 Particolare di un vecchio sistema passivo, tratto dai disegni del brevetto ormai scaduto. Le antenne avevano la forma della Spirale di Archimede.

Fig. 8.45 Nei sistemi più recenti si utilizzano più propriamente antenne passive a larghissima banda (UWB) come quelle a spirale logaritmica. Nell’immagine è raffigurata un’antenna a spirale logaritmica piana (Planar Log Spiral Antenna), dotata di tre bracci simmetrici ed equidistanti a 120° (immagine tratta dal sito www.scienceblogs.de)..

Fig. 8.46 Planimetria di un edificio sulla quale sono evidenziate in giallo le fasce di massima intensità geomagnetica. In questo caso è stato installato un apparato E-SCUDO nella posizione evidenziata dal punto nero, all’esterno dell’abitazione.

Sistema E-SCUDO

Un’interessante novità nel settore dei dispositivi autoalimentati riguarda il sistema E-SCUDO. Si tratta di un’antenna passiva alloggiata in un contenitore di forma cilindrica dalle dimensioni ridotte, che deriva da utilizzi militari nel settore della difesa elettronica.

Antenne simili hanno un vasto impiego nella realizzazione di schermi e di scudi elettromagnetici utilizzati nella protezione dei sistemi militari di radiocomunicazione. Il suo principio di funzionamento è del tutto simile a quello degli altri apparati dotati di antenne passive. In questo caso non si tratta di un’antenna a spirale conica logaritmica, ma viene sfruttato un particolare fenomeno di risonanza che si verifica quando diverse antenne aventi forma e dimensione specifica sono posizionate fra loro secondo angoli ben precisi. Il segnale è potenziato spontaneamente per effetto di varie interazioni di natura elettromagnetica.

La differenza fondamentale fra l’E-SCUDO e gli altri sistemi simili è che la sua installazione avviene in posizione interrata, quindi completamente a scomparsa. Essendo stato progettato per esigenze di difesa, è realizzato con materiali molto resistenti ed è sia calpestabile che carrabile.

Inoltre, può restare immerso a tempo indefinito in acqua anche se marina, ed è inattaccabile da insetti, roditori e microrganismi.

Fig. 8.47 L’apparato E-SCUDO di cui all’immagine precedente, subito dopo la sua installazione definitiva. L’antenna è interrata, perciò non visibile, e il connettore elettrico a parete è stato appena murato.

Fig. 8.48 Sistema E-SCUDO installato.

Sistemi di barriera termica

Si tratta di sistemi che bloccano la risalita utilizzando lievi differenze di temperatura ottenute riscaldando leggermente la base muraria.

Sistema Hypothermos®

È una tecnologia apparsa per la prima volta in Germania nei primi anni ’80, con il nome di Temperierung a opera di Henning Großeschmidt, un restauratore di opere d’arte di Monaco di Baviera.

Prevede l’installazione di due tubi di rame alla base muraria, sui quali è fatta circolare acqua calda con lo scopo di aumentarne leggermente la temperatura. In questo modo si favorisce l’evaporazione dell’umidità già presente e si arrestano i fenomeni di risalita non capillare.

Nonostante i brillanti risultati ottenuti, in termini di efficienza e di stabilità termoigrometrica, tale sistema è poco utilizzato a causa della sua complessità, dato che necessita di una caldaia, di un sistema di circolazione e delle relative sicurezze.

Risulta inoltre difficoltoso l’attraversamento delle porte con i due tubi di rame.

Le basi fisiche del fenomeno sono poco note e non sono del tutto banali, per questo motivo meritano un breve approfondimento.

Studi scientifici condotti dal fisico inglese Sir William Crookes alla fine del 1800, poi validati da Maxwell presso la Royal Society di Londra, dimostrarono che nei solidi porosi la temperatura agisce sui fluidi presenti all’interno dei pori secondo le stesse leggi della pressione. Altri scienziati di quel periodo, il tedesco Ludwig e il francese Soret, giunsero indipendentemente agli stessi risultati. Il fenomeno della termoforesi, chiamato anche termodiffusione o effetto Ludwig-Soret, consiste nella migrazione di particelle immerse in un fluido, indotta da un gradiente di temperatura.

È stato quindi accertato che movimenti di fluido, come acqua e umidità, e di particelle in soluzione come i sali, sono causati anche dalle differenze di temperatura. Riscaldando la base muraria si esercita una sorta di pressione termica che contrasta il movimento ascendente dell’umidità. Un ulteriore vantaggio dell’aumento di temperatura è quello di impedire la formazione di condensa in corrispondenza del ponte termico naturale costituito dal contatto muro-fondazione.

Il sistema ad apporto di calore Hypothermos® è in grado di arrestare i fenomeni di risalita non capillare, ma è meno efficace nei casi di risalita capillare.

Fig. 8.49 Rappresentazione del sistema Hypothermos®. Le due tubazioni di rame sulle quali circola dell’acqua calda apportano calore alla muratura per conduzione. Questo si trasmette radialmente sui supporti solidi e genera correnti microconvettive sulle superfici, che agevolano l’evacuazione dell’umidità residua. L’aumento della temperatura alla base muraria svolge inoltre l’effetto di contrastare la risalita di umidità, per il fenomeno della termoforesi (immagine gentilmente concessa da Studio Tecnico Servizi Territorio S.r.l. www.serviziterritorio.it).

Fig. 8.50 I tubi di rame devono preferibilmente essere incassati all’interno della muratura, in prossimità della superficie (a sinistra). Un’alternativa è quella di installarli in aderenza alla parete per mezzo di un battiscopa, avendo cura di colmare i vuoti con della malta. I tubi devono essere sempre racchiusi all’interno di una massa solida per poter condurre efficacemente il calore (immagine gentilmente concessa da Studio Tecnico Servizi Territorio S.r.l. www.serviziterritorio.it).

Sistema Thermistore

Una recente innovazione, che prende spunto dal sistema Hypothermos®, consiste nella sostituzione dei tubi di rame con un cavo elettrico scaldante. Il nuovo tipo di impianto, brevettato in Italia, è molto semplice e non invasivo. Il calore è somministrato alla parete per mezzo di uno speciale cavo resistivo, murato alla sua base e comandato da una centralina elettronica che misura in continuo la temperatura e l’umidità, sia del muro che dell’aria.

Il calore apportato è tale da far aumentare la temperatura superficiale della base muraria di alcuni gradi, impedendo ulteriori fenomeni di risalita. Il sistema risulta estremamente versatile e molto economico e consente di regolare in maniera precisa il calore trasmesso. Il cavo ha solo 5 mm di diametro e può facilmente essere inserito all’interno delle fughe fra i sassi o fra i filari dei mattoni a vista. A lavoro ultimato, l’intero impianto è del tutto invisibile, in quanto è installato immediatamente sotto la superficie della muratura.

Anche il sistema Thermistore combatte efficacemente la risalita non capillare, ma è meno efficace nei casi di risalita capillare.

Fig. 8.51 Thermistore in fase di installazione. La possibilità di inserire un sottile cavo scaldante fra le fughe di mattoni rende questa soluzione molto semplice da realizzare.

Fig. 8.52 Il sistema Thermistore impiega un cavo di soli 5 mm di diametro e può essere installato anche sopra lo zoccolino battiscopa. Eroga potenze variabili tra i 10 e gli 85 W per metro lineare di cavo, consentendo un’ampia possibilità di intervento in funzione dello spessore murario e della sua composizione.

Sistemi ausiliari

Si tratta di tecniche che non bloccano il flusso di umidità sulle murature, ma facilitano l’evaporazione di quella già presente. Sono utilizzate per coadiuvare e completare le opere di risanamento realizzate per mezzo di barriere orizzontali oppure come rimedio temporaneo non definitivo alla risalita. I metodi più utilizzati sono i seguenti:

estrazione dei sali con impacchi; intonaci isolanti; asciugatura forzata; sifoni atmosferici; intonaci risananti; intonaci impermeabili; vespai aerati; trincea drenate; scannafosso .

Le metodiche di sbarramento precedentemente descritte hanno lo scopo di creare un’interruzione al passaggio dell’umidità. Quindi, dopo che sono state correttamente realizzate è verosimile che non consentano più il transito di nuova acqua attraverso la barriera o che perlomeno ne riducano fortemente il

flusso. È altrettanto verosimile però che, dopo la loro posa in opera, occorra allontanare l’acqua in eccesso presente sulla muratura ancora umida.

Affinché l’umidità residua da risalita possa essere allontanata fino a ottenere la “muratura asciutta”, sono necessari tempi piuttosto lunghi. Questi dipendono dai diversi parametri dell’ambiente come il soleggiamento, la temperatura, la ventilazione e l’umidità relativa. Dipendono inoltre da fattori che riguardano la muratura, come per esempio la percentuale d’acqua di partenza, lo spessore e la composizione chimica della parete, la presenza di sali e la loro tipologia e, non ultima, dall’efficacia della barriera.

In alcuni testi sono presenti formule, a nostro avviso inapplicabili, con le quali si dovrebbe poter calcolare il tempo di asciugatura delle pareti, senza tener conto dei parametri elencati.

Ricordiamo che, generalmente, la muratura in equilibrio con l’aria ambiente al 50% di UR contiene all’incirca una percentuale di umidità variabile fra l’1 e il 3 % in peso.

Normalmente si dovrà attendere un periodo di tempo che oscilla da 1 anno fino a 3 anni per ottenere l’asciugatura di un muro dello spessore non superiore a 50 cm, con la possibilità di attese anche maggiori nelle condizioni più sfavorevoli. Se i muri sono saturi di sali e le temperature sono molto basse, è possibile che la condizione di supporto asciutto non sia mai raggiunta, a causa delle azioni igroscopiche esercitate appunto dai sali.

I metodi che descriveremo di seguito sono utilizzati per favorire l’evacuazione dell’umidità dalla muratura, accelerando il processo di risanamento e in alcuni casi rendendo immediatamente fruibili i locali.

Possono anche essere utilizzati da soli, senza alcun tipo di barriera orizzontale o di interruzione del flusso di risalita. Si tenga presente che, in questo caso, il fenomeno non sarà arrestato ma solo attenuato o semplicemente reso non visibile e che la risalita di umidità e di sali dal terreno non subirà riduzioni. Si può quindi affermare che la loro efficacia è generalmente temporanea e non è garantita in assenza di un sistema di arresto della risalita muraria.

Nonostante ciò, in alcuni casi l’impiego dei soli sistemi ausiliari può risolvere definitivamente il problema dell’umidità sui muri. Si tratta di quelle situazioni in cui l’umidità non è da risalita oppure è presente in maniera molto limitata, ma le manifestazioni esterne macroscopiche inducono a ritenere il contrario.

Questa condizione si verifica frequentemente quando la presenza di umidità alla base muraria è dovuta a effetti igroscopici particolarmente intensi, oppure a fattori termici di natura igroscopica e condensativa.

Nel primo caso, gli intonaci saturi di sali tendono a trattenere grosse quantità di umidità, ma il muro retrostante è sostanzialmente asciutto e la risalita è del tutto assente. Anzi, talvolta è presente solo sull’intonaco.

Sostituendo gli intonaci e quindi eliminando buona parte dei sali, l’umidità erroneamente individuata come essere di risalita scompare definitivamente.

Estrazione dei sali con impacchi

Un’interessante e valida alternativa alla sostituzione dell’intonaco è quella di effettuare l’estrazione dei sali per mezzo di impacchi capaci di portare in soluzione i depositi salini presenti nelle murature e di trasferirli all’esterno per essere poi eliminati.

Fig. 8.53 Applicazione manuale di impacco estrattore di sali (immagine gentilmente concessa da Calceforte S.r.l. www.calceforte.it).

Un materiale adatto per tale impiego è l’impacco estrattore di sali. Consiste in una pasta ottenuta miscelando fibre di cellulosa vergine e farine fossili

minerali con acqua distillata e applicata manualmente sui supporti carichi di sali. L’acqua distillata contenuta nell’impacco si trasferisce sulla muratura, dove scioglie i sali. Durante il processo di asciugatura, la soluzione salina precedentemente creata tende a spostarsi per osmosi verso l’esterno, accumulando progressivamente le precipitazioni dei cristalli all’interno dell’impacco. Entro qualche settimana dall’applicazione, il materiale assorbe dal muro la quasi totalità dei sali solubili e può essere facilmente staccato sotto forma di cartone disseccato. Il suo utilizzo consente di assorbire le sostanze saline indesiderate, salvaguardando l’integrità del muro senza arrecare danni meccanici e senza dover demolire e ripristinare l’intonaco.

Intonaci isolanti

Quando invece l’umidità alla base dei muri ha origine condensativa, un rimedio talvolta efficace è quello di sostituire il vecchio intonaco con uno termoisolante. Questi materiali generalmente hanno al loro interno porosità più numerose e di maggiori dimensioni. Inoltre contengono isolanti di diversa natura dispersi in massa. La struttura porosa è ottenuta attraverso un’accurata scelta della dimensione degli inerti e mediante l’azione di additivi schiumogeni. L’incremento di capacità isolante invece è dovuto all’aggiunta di polveri leggere di pomice, perlite, vermiculite, polistirolo, sughero, vetro espanso o altri materiali isolanti.

Oltre agli indubbi vantaggi che si ottengono in ordine alla maggiore traspirabilità, questi intonaci sono sensibilmente più isolanti rispetto a quelli comuni. La loro ridotta capacità di disperdere il calore rende le superfici leggermente più calde e spesso basta anche un solo grado di temperatura in più per impedire la condensazione.

Inoltre, le maggiori dimensioni dei pori e l’uso di materiali selezionati per il confezionamento degli impasti riducono sensibilmente l’assorbimento

igroscopico.

Fig. 8.54 Ciclo applicativo di un intonaco isolante della linea Termoforte (immagine gentilmente concessa da Calceforte S.r.l. www.calceforte.it).

Tecniche di asciugatura forzata

Si tratta di quelle tecniche di evacuazione forzata dell’umidità meglio descritte al paragrafo 9.3, nel quale sono illustrati i principali sistemi di asciugatura artificiale.

Sifoni

Sono chiamati anche sifoni atmosferici, o sifoni REMM e sono elementi cilindrici o prismatici cavi, originariamente costituiti da terracotta porosa, dotati di foro interno longitudinale cieco. Sono stati realizzati nel tempo secondo varie geometrie, a sezione triangolare edesagonale e di varie altre forme. Attualmente sono ancora utilizzati nelle loro versioni più moderne e sono prodotti con diversi materiali come la plastica o l’acciaio inox. I sifoni devono essere inseriti su file di fori realizzati in prossimità della base muraria, paralleli fra loro e inclinati con pendenza verso l’esterno. I fori hanno un diametro di circa 5 cm e sono profondi fino a metà dello spessore murario. Una variante del sistema, sviluppata in Olanda, prende il nome di Schrijver ed è piuttosto diffusa in Gran Bretagna e nel Nord Europa.

Secondo l’inventore, il belga Knapen che brevettò la tecnica nel lontano 1908, tale sistema doveva funzionare secondo la seguente suggestiva teoria.

L’aria esterna entra in alto nel sifone e, a contatto con il muro, diventa più umida e quindi più pesante. Per questo motivo è portata a scorrere in basso verso l’esterno, richiamando nuova aria asciutta e rinnovando continuamente il processo di estrazione dell’umidità dal muro. A favore di questa ipotesi era portato l’esempio di una provetta inclinata piena d’acqua e posta a contatto della superficie di un recipiente contenente dell’olio. L’acqua più pesante tende a scendere, richiamando l’olio all’interno della provetta.

Allo stesso modo si dovrebbe comportare il sifone, facendo entrare al suo interno l’aria asciutta più leggera e uscire l’aria umida più pesante.

Prove e sperimentazioni condotte negli anni, sia dal Massari in Italia che successivamente da Kunzel in Germania e da Macmillan e Boineau in Francia, hanno dimostrato che i sifoni atmosferici non hanno alcuna utilità pratica.

Fig. 8.55 Sifoni Knapen installati su una parete di mattoni pieni. Nonostante l’enorme diffusione, di questi sifoni non è mai stata accertata l’utilità pratica.

La teoria di Knapen non è applicabile ai casi reali, per i seguenti motivi:

A parità di temperatura l’aria umida è più leggera di quella asciutta Le nuvole sono la dimostrazione che il vapore acqueo è più leggero dell’aria, e perciò tende a salire, non a scendere. I movimenti dell’aria umida all’interno del sifone sono dovuti prevalentemente alle differenze di temperatura, che appunto generano i moti convettivi.

Sono possibili tre situazioni distinte. La superficie del muro può essere più calda rispetto al suo interno, più fredda o alla stessa temperatura.

Nel primo caso l’aria presente nel sifone è riscaldata dalla superficie del muro e si porta sulla sommità restando intrappolata. Nel secondo l’aria calda interna è più leggera e non tende a uscire all’esterno, quindi il moto convettivo non si instaura. Nel terzo caso l’aria umida a pari temperatura è più leggera di quella asciutta e tende quindi a portarsi in cima al foro.

I tutti e tre i casi il fenomeno di movimento dell’aria descritto da Knapen non avviene. Appare perciò evidente che la capacità deumidificante dei sifoni sia piuttosto aleatoria. In realtà questi sistemi danno solo un piccolo contributo alla deumidificazione, aumentando leggermente la superficie evaporante del muro, oltre a ridurre la sua sezione orizzontale in corrispondenza dei fori. Possono però essere anche controproducenti. Nei momenti in cui l’aria è più umida rispetto al muro, l’aumento della superficie di contatto reciproca dovuta ai sifoni farà aumentare il trasferimento di umidità igroscopica dall’aria alle superfici, aggravando il problema.

Fig. 8.56 Pubblicità della società inglese British Knapen Ltd (1939).

Intonaci risananti

Un altro sistema ausiliario di correzione dei fenomeni di risalita frequentemente utilizzato è quello che prevede l’impiego di intonaci risananti, che possono avere varia composizione. Il termine risanante è utilizzato in maniera generica, per indicare un intonaco che rende “più sano” il muro. Se si intende che il muro è malato quando è carico di umidità e di sali, si può assumere il concetto che risanare significhi “eliminare umidità e

sali”. In realtà le cose sono un po’ più complesse, anche se la tendenza degli operatori è quella di semplificare e di generalizzare.

Nel momento in cui la muratura cede umidità all’ambiente, asciugandosi, si instaura un flusso di acqua non liquida e di sali in essa disciolti che procede dall’interno verso le superfici esterne. Un intonaco adatto a questo impiego deve perciò svolgere un buon lavoro consentendo, o meglio agevolando, tale flusso. I migliori risultati si ottengono con intonaci molto porosi, con pori comunicanti di grosse dimensioni, detti anche intonaci macroporosi. Questi favoriscono una più rapida evaporazione dell’umidità e nel contempo consentono ai cristalli dei sali che si vanno a formare di alloggiare all’interno dei pori senza fuoriuscire all’esterno e soprattutto senza disgregare l’intonaco.

Sono anche chiamati intonaci deumidificanti, aeranti, oppure osmotici. Ogni definizione stabilisce le caratteristiche dei materiali in funzione delle prestazioni previste.

Durante i lavori di ripristino e di deumidificazione, si usano frequentemente anche prodotti chimici antisale sulle murature da risanare. Possono essere applicati sotto forma di liquido, steso a pennello sulle superfici prima dello strato di intonaco, oppure come componenti dell’intonaco stesso. Ci sono diverse posizioni sull’argomento. C’è chi preferisce neutralizzare i sali sul muro, convertendoli in composti insolubili e perciò non più mobili e non più dannosi, e chi invece propende per estrarli dal muro trasferendoli sull’intonaco. Esistono però tantissime situazioni, tutte diverse fra loro, che necessitano di analisi e considerazioni specifiche da fare volta per volta. Non è possibile perciò trovare la soluzione che vada bene sempre e dappertutto.

I concetti di base che devono generalmente essere rispettati sugli intonaci, sono piuttosto semplici.

Più un intonaco è poroso, più sarà in grado di favorire l’asciugatura del muro umido e maggiore sarà la quantità di sali che potrà contenere senza subire danni.

Maggiore è il suo spessore e maggiore sarà la sua efficacia.

Gli intonaci più traspiranti sono in grado di evacuare l’umidità più agevolmente rispetto a quelli non traspiranti.

I migliori risultati si ottengono utilizzando intonaci di calce naturale, privi di resine, di cellulosa e di cemento.

In linea di massima, e a parità di altre condizioni, un intonaco ideale dovrà quindi essere di calce naturale, molto poroso, piuttosto spesso e notevolmente traspirante. La porosità e la traspirabilità sono due caratteristiche diverse, anche se strettamente correlate, che esercitano effetti differenti sui muri.

Per contro un intonaco sottile, poco poroso e poco traspirante, a base di resine e cemento, se impiegato come sistema ausiliario non risulterà adatto e darà sicuramente qualche problema.

Fig. 8.57 Applicazione di intonaco risanante a base di calce naturale, nella riconversione di un edificio storico a uso abitativo.

Intonaci impermeabili

Una categoria di intonaci eventualmente utilizzabili per correggere alcuni fenomeni, capillari e non, è quella dei rivestimenti impermeabili.

Sulle strutture fuoriterra di muratura, l’umidità deve essere evacuata agevolmente. Quindi gli intonaci e gli eventuali rivestimenti devono favorire l’evaporazione e l’allontanamento dell’umidità. Se le superfici esterne sono soggette a essere bagnate dall’acqua piovana o da spruzzi d’acqua di diversa natura, è opportuno proteggerle con prodotti idrofobizzanti. Si tratta di liquidi trasparenti da applicare sulle superfici esterne, che impediscono all’acqua liquida di entrare ma consentono al vapore di fuoriuscire dai pori.

Sulle strutture interrate prive di impermeabilizzazione esterna, normalmente si realizza un flusso più o meno continuo di umidità insatura o di acqua liquida, che dal terreno procede verso l’interno. In questi casi, l’umidità deve essere per quanto possibile fermata e non evacuata.

Nei locali interrati, è quindi opportuno realizzare intonaci e rivestimenti impermeabili, per impedire all’acqua e all’umidità di entrare in casa.

Se invece il problema riguarda pareti o elementi costruttivi di calcestruzzo o di cemento armato, sia fuoriterra che negli interrati, la soluzione corretta è sempre quella di impermeabilizzare e mai quelle di usare sistemi deumidificanti. Cioè la tecnica è quella di fermare l’umidità e non di favorire la sua evaporazione. Il calcestruzzo e il cemento armato sono praticamente insensibili all’acqua e all’umidità se questa è ferma e se non è a contatto con l’aria. Perciò quando si impermeabilizza dall’interno una parete di calcestruzzo che resta permanentemente a bagno d’acqua non le si arreca alcun danno. Anzi, si ottiene persino il vantaggio di arrestare i fenomeni di ritiro igrometrico di lungo periodo.

Fig. 8.58 Applicazione di intonaco impermeabile su una parete di calcestruzzo interrata.

Vespai e vespai aerati

L’utilizzo di vespai e di vespai con aerazione è una pratica nota e diffusa fin dai tempi remoti, impiegata per impedire il contatto del pavimento con il terreno umido. Una tecnica, utilizzata in opere di un certo pregio, prevedeva la realizzazione del primo pavimento sospeso su muretti, così che non entrasse in contatto diretto con il suolo. Nelle costruzioni più comuni, per raggiungere il medesimo scopo si realizzava una massicciata, disponendo

inizialmente sul terreno pietre e sassi di grosse dimensioni. Negli strati superiori, i materiali avevano dimensione decrescente verso l’alto, così da creare uno strato di pietrame ricco di spazi vuoti di grosse dimensioni dove l’acqua non potesse risalire per capillarità. La tecnica descritta è stata adottata fino a pochi anni fa, ed è stata sostituita solo recentemente dall’uso di casseri modulari di plastica prefabbricati, genericamente noti con i loro nomi commerciali, che sono Iglù, Granchi, Cupolex e altri.

La loro funzione è quella di creare un vuoto sanitario fra il terreno e il pavimento, consentendo eventualmente anche una circolazione d’aria all’interno dello spazio vuoto. Un altro importante vantaggio ottenuto è quello di favorire l’evacuazione del gas radon, che tende a accumularsi nel sottosuolo e nei locali interrati, causando gravi conseguenze per la salute umana. Numerose amministrazioni pubbliche impongono l’impiego di vespai e di vespai aerati nelle costruzioni nuove e ne promuovono l’utilizzo nei lavori di ristrutturazione.

Per ciò che riguarda la riduzione degli apporti d’acqua e di umidità dal terreno all’edificio, sia i vespai normali che quelli aerati hanno effetti piuttosto limitati e molto spesso addirittura nulli.

Fig. 8.59 Vespaio aerato prima del getto di completamento. Sono visibili i tubi verticali arancioni che consentiranno la circolazione d’aria.

Vespai sul nuovo

Nelle costruzioni nuove, l’impiego del vespaio aerato è ormai molto diffuso e generalizzato. A causa di alcuni errori ricorrenti, purtroppo, la sua funzionalità in ordine alla protezione dall’umidità dell’edificio si trova spesso parzialmente o totalmente compromessa.

Se per esempio il vespaio aerato si trova per l’intero volume sotto il livello del terreno, può facilmente diventare una vera e propria vasca di accumulo d’acqua in occasione di innalzamenti della falda. Oppure può funzionare da “pozzo di raccolta” di acque piovane non correttamente regimentate, andando quindi a creare più danni rispetto a quelli che intendeva risolvere o prevenire.

I benefici del vespaio, aerato e non, sulla muratura sono praticamente nulli perché i due elementi non hanno alcun rapporto reciproco. Infatti, il muro portante ha il suo piano d’imposta più alto della zona interessata dall’eventuale ventilazione. Inoltre deve essere necessariamente costruito sulla fondazione di cemento armato per poter trasferire i suoi carichi. E questa ben difficilmente potrà essere così porosa da trasferire umidità dal terreno al muro. Anche perché, nel caso in cui lo fosse, andrebbe demolita. La fondazione è un’opera strutturale, ovvero è un elemento che deve sopportare l’intero carico della costruzione, per tutta la sua vita utile di esercizio. Dovendo assolvere a tale gravoso compito, deve essere realizzata con materiali dotati di precise caratteristiche minime di resistenza, sia meccanica che alla corrosione e alla presenza d’acqua. Se è stato correttamente eseguito, un cemento armato destinato a questo utilizzo deve essere impermeabile. Se invece è abbastanza poroso da consentire all’umidità del terreno di attraversarlo per risalita fino a diffondersi nel muro soprastante, deve semplicemente essere demolito. Non perché fa passare l’umidità, ma perché è troppo scadente. È possibile consolidare un calcestruzzo poroso rendendolo impermeabile all’acqua e all’umidità, ma tale intervento è praticamente inefficace nell’aumentare la sua resistenza meccanica. In conclusione, la presenza del vespaio, aerato o no, è del tutto ininfluente ai fini della protezione dell’edificio dall’umidità proveniente dal terreno.

Fig. 8.60 Questa è la più frequente modalità di realizzazione del vespaio nelle costruzioni nuove. L’umidità del terreno non può in nessun modo trasferirsi al muro o al pavimento, perché c’è una separazione fisica fra i due elementi: il cemento armato da una parte e il vespaio dall’altra. Tuttavia, la migliore protezione in assoluto dall’umidità del terreno è la platea di cemento armato. Se al posto del vespaio si realizza una platea, la diffusione verticale dell’umidità è ugualmente impedita. Si ottiene però l’enorme ulteriore vantaggio di evitare la vasca di accumulo costituita dai volumi vuoti e di mettersi al sicuro dai pericolosi fenomeni di sifonamento nel caso di costruzioni interrate.

Fig. 8.61 La freccia azzurra indica il contatto fra il muro in elevazione e la pavimentazione esterna. Questo particolare costruttivo non è quasi mai impermeabilizzato. Come conseguenza si ha un rilevante trasferimento di umidità secondaria da apporto laterale, che dal marciapiede o dal terreno trasmette l’umidità sulla muratura. L’acqua perciò entra in casa e si manifesta esattamente come se si trattasse di risalita primaria. Appare evidente che in questo caso, così come in tutte le costruzioni nuove, il vespaio non ha alcuna influenza sulla risalita muraria.

Vespai sull’esistente

Nei lavori di ristrutturazione si ricorre spesso all’uso dei vespai aerati, sia perché questo è richiesto dalle normative sia perché le vecchie quote erano spesso sufficientemente alte da consentirne l’impiego. Questa condizione consente quasi sempre di poter alzare il pavimento di qualche decina di centimetri rispetto al piano originario, realizzando nel contempo la circolazione dell’aria e i passaggi per gli impianti elettrici, idraulici e talvolta anche le canalizzazioni del condizionamento. Ha senso perciò realizzare il nuovo pavimento in posizione più alta rispetto alla quota originaria, interponendo un vespaio, che sia aerato oppure no.

Una cosa insensata invece, spesso richiesta in sede di autorizzazione alla costruzione, è quella di inserire il vespaio aerato al di sotto del piano di calpestio d’origine. Ciò comporta che quasi sempre il piano di appoggio del vespaio si trovi molto più in basso rispetto al terreno esterno. Praticamente, per poter alloggiare il vespaio anziché proteggersi dall’acqua la si va a cercare.

Una cosa sicuramente più saggia, e notevolmente più efficace, sarebbe quella di scavare per 20 o 30 cm rispetto al vecchio pavimento per realizzare invece una platea di cemento armato. Questo dovrà essere opportunamente additivato e di adeguata resistenza, meglio se protetto sul lato a contatto con il terreno con un apposito telo antiradon.

In questo caso si può essere certi che né l’acqua liquida né l’umidità avranno alcuna possibilità di passare, per tutta la vita utile dell’edificio. E si otterrà l’ulteriore vantaggio di avere una struttura decisamente più stabile e poco sensibile ai cedimenti e agli assestamenti del terreno.

Principali errori di posa dei vespai

Affinché un vespaio aerato possa essere considerato tale, deve esistere una reale circolazione continua dell’aria al suo interno, con lo scopo di allontanare l’umidità e il radon proveniente dal terreno, evitando il loro accumulo.

Troppo spesso si realizzano vespai in cui l’aria interna non ha la possibilità di muoversi e diventa talmente umida da raggiungere il valore di saturazione.

L’errore più frequente è quello di porre le bocchette di aerazione, che mettono in comunicazione il vespaio con l’esterno, alla stessa altezza. In questo modo, l’aria non è soggetta ad alcun tipo di moto convettivo. Essendo generalmente più fredda all’interno del vespaio e perciò più pesante rispetto all’aria esterna, non ha la possibilità di muoversi. Nei mesi freddi, invece, il terreno è più caldo rispetto all’esterno e l’aria tende a salire, ma se le bocchette sono poste alla stessa quota, ben difficilmente potrà realizzarsi un flusso regolare.

La regola da rispettare e molto spesso disattesa è quella di posizionare le bocchette di aerazione su due lati opposti dell’edificio, in modo da poter sfruttare le differenze di pressione dinamica dovute ai venti dominanti.

Il sistema che funziona sempre è quello descritto da Giovanni Massari nel suo ormai famoso testo Risanamento igienico dei locali umidi, che prevede la realizzazione di un camino, nel quale la bocchetta di evacuazione è posta molto più in alto rispetto a quella di ripresa. In questo modo si instaura spontaneamente una circolazione convettiva, sia invernale che estiva, capace di generare un moto continuo d’aria che allontana l’umidità proveniente dal suolo, evitando il suo accumulo.

Se le condizioni di aerazione esistenti nel vespaio sono tali da creare un vero e proprio moto continuo d’aria al suo interno, avente l’effetto di lavaggio dell’umidità, si può avere un moderato effetto benefico sull’asciugatura dei muri. Questo perché la porzione di muro interessata dal moto d’aria è solo quella compresa fra la fondazione e il pavimento, quindi si tratta di superfici molto modeste.

Invece, nei casi in cui (ovvero quasi sempre) il vespaio originariamente progettato e costruito per consentire e favorire una corretta ed efficace aerazione al suo interno non svolge tale funzione, la sua capacità di ridurre l’umidità sui muri è nulla. Se l’umidità relativa all’interno del vespaio si avvicina o, peggio, raggiunge i valori di saturazione, non solo l’evaporazione di umidità dal muro non può avvenire, ma addirittura questo si trova ad assorbire ulteriore umidità dall’aria, dovendosi portare in equilibrio con essa. Oltre che per l’errato posizionamento delle bocchette di aerazione, questo può verificarsi anche perché spesso i tubi comunicanti con l’esterno sono ostruiti da detriti e calcinacci, caduti al loro interno durante i lavori di costruzione. Nella pratica quotidiana d’indagine è frequente rilevare all’interno dei vespai aerati valori di umidità superiori al 95% di UR.

In queste condizioni, il vespaio non protegge minimamente l’edificio dall’umidità del terreno, ma addirittura aggrava gli effetti dell’umidità stessa.

Un errore dalle conseguenze devastanti è l’installazione di vespai aerati nei locali interrati soggetti a spinte negative di falda. Questa particolare situazione è descritta al paragrafo 7.1, nel quale si approfondiscono gli effetti dell’acqua proveniente dal terreno.

Fig. 8.62 L’immagine si riferisce a un caso di finta risalita effettivamente verificatosi. Il pavimento esterno si trova alla stessa quota del terreno. Al di sotto del pavimento interno è stato correttamente realizzato il vespaio aerato. L’acqua penetra dall’attraversamento dell’impianto fino a bagnare completamente sia la muratura che il massetto interno. L’umidità all’interno dell’abitazione si manifesta in maniera molto simile alla risalita, ma si tratta di un ingresso attraverso il passaggio dell’impianto (vedi par. 3.1.7).

Fig. 8.63 Un caso reale di risalita secondaria. Il terreno va a bagnare la parete priva di protezione impermeabile, consentendo all’umidità di trasferirsi verso l’alto. Il rivestimento a cappotto esterno nasconde l’umidità, che sale sulla parete fino a bagnare il solaio posto a circa un metro di altezza rispetto al terreno. Si tratta di un apporto laterale che genera effetti di risalita secondaria.

Trincea drenante

È una protezione laterale alla muratura, assimilabile a un vespaio posto in orizzontale, realizzata per evitare il contatto fra terreno umido e parete,

mediante interposizione di materiale drenante. Affinché il sistema sia efficiente, è necessario che l’acqua non si accumuli mai all’interno della trincea, ma possa scorrere liberamente per poi essere evacuata. Occorre perciò che sia installato un tubo drenante nel punto più basso della trincea, sotto la quota del muro da proteggere. Questo consente di convogliare l’acqua fuori dal contatto con il muro per poter essere allontanata, per gravità verso dei punti situati più in basso oppure più in alto impiegando pompe di sollevamento.

Si tratta di sistemi adottati largamente in passato, perché le tecniche di impermeabilizzazione moderne consentono di proteggere i muri perimetrali anche in presenza continuativa di acqua liquida fino alla quota del terreno.

Talvolta si rende necessario realizzare trincee drenanti per far fronte a situazioni di pareti controterra, con danni al sistema impermeabile, in presenza di apporti d’acqua liquida proveniente dal terreno.

Se realizzate su edifici già costruiti, sono opere costose e molto invasive, quindi si preferisce evitarle impiegando altri sistemi di protezione.

Fig. 8.64 Trincea drenante posta a protezione della parete interrata. La sua funzione è quella di favorire la filtrazione verticale dell’acqua verso il basso. In questo modo si impediscono gli accumuli e lo sviluppo delle conseguenti pressioni idrostatiche.

Scannafosso

È una tecnica utilizzata in passato per isolare le fondazioni e le eventuali murature interrate dal contatto con il terreno umido. Si tratta a tutti gli effetti di un’intercapedine esterna, che spesso era utilizzata per il passaggio di impianti perché consentiva l’accesso per le manutenzioni.

Fig. 8.65 Lo scannafosso è un cunicolo perimetrale che corre lungo le pareti interrate dell’edificio. Evita che i muri portanti si trovino a contatto con il terreno, impedendo i fenomeni di trasmissione laterale di umidità. Il muro non riceve umidità laterale dal terreno e si mantiene quindi permanentemente asciutto. Anche questa è una tecnica ormai desueta, utilizzata di frequente nelle costruzioni di parecchi anni fa. Oltre a essere molto costosa, questa modalità costruttiva implica la necessità di disporre liberamente del terreno immediatamente adiacente al perimetro del fabbricato. Cosa non sempre possibile, soprattutto al giorno d’oggi, con proprietà sempre più ravvicinate fra loro. Inoltre, lo scannafosso limita la possibilità di utilizzo del giardino.

Sistemi alternativi

Sono sistemi utilizzati quando, per motivi diversi, non si può o non si vuole correggere la risalita muraria, ma si rende necessario coprire o mascherare i suoi effetti. Queste soluzioni non svolgono alcuna funzione benefica sulla risalita. Anzi, tendono talvolta ad aggravarla riducendo in maniera sensibile l’evaporazione dell’umidità dalle murature.

Hanno però l’indubbio vantaggio di rendere i locali immediatamente fruibili, perché le superfici appaiono subito asciutte o sono già asciutte in fase di posa. Comportano però la perdita di un po’ di spazio, perché le nuove superfici saranno arretrate di qualche centimetro rispetto a quelle umide esistenti.

Queste tecniche possono anche essere impiegate come integrazione alle barriere orizzontali, ma la loro funzione principale è quella di creare una nuova parete asciutta, fisicamente separata da quella umida. Sono spesso utilizzate al posto degli intonaci tradizionali, soprattutto per motivi di praticità e di urgenza.

I sistemi alternativi alla correzione della risalita muraria sono fondamentalmente di due categorie, le contropareti e i rivestimenti aderenti.

Se sono realizzati correttamente e nel pieno rispetto delle prescrizioni del produttore, pur non essendo atti a eliminare la risalita muraria possono

spesso essere adottati come alternativa permanente agli altri sistemi correttivi.

Contropareti

Sono nuove pareti completamente indipendenti, separate d quelle umide che si intende coprire per mezzo di una camera d’aria. Possono essere realizzate in muratura di forati leggeri da 6 o 8 cm o in blocchi di cemento cellulare tipo Ytong o, meglio ancora, in vetro cellulare tipo Foamglas. Un’alternativa prevede l’uso di lastre di gesso rivestito resistente all’umidità o di altro materiale idoneo, applicato su apposita struttura metallica indipendente, con o senza isolamento termico interposto. Bisogna considerare che un eventuale isolante termico inserito fra lastra e muro umido dovrà avere una elevatissima resistenza alla presenza continuativa di umidità pressoché satura. Al momento esistono solo due materiali con tali prestazioni e sono il vetro cellulare, conosciuto con il marchio Foamglas, e il polistirene espanso estruso, noto con il simbolo di XPS.

Sono da evitare in maniera categorica le lane di vetro, roccia, e i materiali isolanti igroscopici di qualsiasi tipo, naturali e sintetici.

Essendo le contropareti completamente separate dalla muratura umida, non hanno alcuna relazione con essa e possono restare sane e asciutte per tempi molto lunghi, anche se non risolvono in alcun modo il problema della risalita sulla parete retrostante.

Laddove sia possibile, è opportuno creare fori in alto ed in basso sulla parete esterna, così da creare una ventilazione naturale dell’intercapedine. Questo

accorgimento faciliterà l’evaporazione e l’evacuazione dell’umidità dovuta alla risalita muraria sulle pareti portanti perimetrali.

Fig. 8.66 Realizzazione di controparete su muratura umida. I vantaggi più evidenti di questa soluzione sono la possibilità di pareggiare i muri e di inserire spessori anche rilevanti di materiale isolante e eventuali tubazioni per impianti elettrici o di qualsiasi altro tipo. La superficie finale si presenta liscia e planare ed è immediatamente fruibile.

Rivestimenti aderenti

Un’altra soluzione adatta per coprire le pareti umide senza risolvere la risalita muraria consiste nell’impiego di rivestimenti aderenti, da applicare a diretto contatto con le superfici murarie mediante adesivi o fissaggi meccanici. Possono essere costituiti da sistemi rigidi, composti da un elemento impermeabile resistente all’umidità preaccoppiato a una lastra rigida di gessofibra o materiale analogo, da incollare o tassellare sulla parete umida. In alternativa, esistono i sistemi flessibili forniti in pannelli o in rotoli e costituiti da materiale plastico impermeabile bugnato, generalmente di polietilene ad alta densità (HDPE). Sono fissati meccanicamente alla parete umida per mezzo di tasselli inox e successivamente rivestiti con intonaco tradizionale. La prima soluzione è più adatta su pareti planari e regolari, mentre la seconda è preferibile nel rivestimento di pareti curve o di forma complessa. I rivestimenti aderenti sono preferiti rispetto alle contropareti quando si hanno solo pochi centimetri a disposizione, perché richiedono meno spazio, ma sono più problematici per il passaggio degli impianti.

Fig. 8.67 Soluzione che prevede l’impiego di lastre di gesso rivestito preaccoppiate, aventi uno strato di materiale isolante resistente all’umidità, da incollare sulla parete esistente. La risalita non è corretta, ma si ottiene il grosso vantaggio di avere la superficie interna già asciutta in fase di posa. Risanamento a parete con placcaggio di accoppiati a cartongesso (immagine gentilmente concessa da Tecnasfalti S.r.l. www.isolmant.it.).

Fig. 8.68 Posa di membrana bugnata sulla parete umida, per mezzo di idonei tasselli. Sulla membrana quale sarà poi applicato un intonaco tradizionale. Nonostante siano più complesse da installare rispetto alle lastre rigide, le membrane flessibili hanno il vantaggio di poter essere

impiegate agevolmente anche su superfici curve e irregolari (immagine gentilmente concessa da Dörken Italia S.r.l., società del Gruppo Dörken www.doerken.it).

L’utilizzo di membrane bugnate, come sistema alternativo alla correzione della risalita muraria, era caduto in disuso ma sta lentamente tornando a essere apprezzato. Ha il vantaggio di poter essere applicato in spessori di soli 2 cm complessivi, ma per contro richiede la stesura di un intonaco tradizionale a finire, che generalmente necessita di tempi di maturazione piuttosto lunghi rispetto ai rivestimenti in preaccoppiato.

Prevenzione

La prevenzione della risalita muraria sulle nuove costruzioni è possibile e prevede l’adozione di alcuni accorgimenti molto semplici e poco costosi.

Una soluzione sicuramente efficace è quella di impiegare solo cemento armato di idoneo spessore a contatto con il terreno, rendendolo impermeabile con adeguate tecniche. In questo modo, il passaggio di acqua liquida e di umidità dal terreno all’edificio sarà impedito in maniera permanente e definitiva per l’intera vita utile della costruzione. Occorre inoltre proteggere i muri perimetrali fino a una quota di almeno 20 cm oltre quella del terreno esterno con validi sistemi di impermeabilizzazione. Questo semplicissimo e banalissimo accorgimento sarà cruciale nello scongiurare l’insorgenza di fenomeni di risalita primaria, sia capillare che non.

Un’altra soluzione molto vantaggiosa e particolarmente indicata è quella di inserire uno strato di materiale isolante e impermeabile fra il basamento e la muratura in elevazione. In questo modo si ottengono contemporaneamente più risultati. Innanzitutto si elimina il ponte termico alla base muraria, impedendo definitivamente la possibilità di formazioni di umidità condensativa. Un ulteriore vantaggio è quello di avere un elemento impermeabile verticale, di altezza sufficiente a evitare che la muratura si trovi a contatto con il terreno umido o con il pavimento esterno.

In questo punto sono molto probabili gli apporti di umidità e, quando ciò si verifica, si innescano fenomeni di risalita secondaria non capillare di difficile individuazione e altrettanto difficile soluzione (vedi par. 3.1.8).

Il materiale più adatto per l’applicazione descritta è il vetro cellulare, noto con il nome commerciale di Foamglas, che unisce un buon potere isolante a un’ottima resistenza alla compressione e alla totale impermeabilità. Si tratta di un prodotto minerale ottenuto da materiali naturali, non soggetto a degrado, che mantiene le sue prestazioni per l’intera vita utile della costruzione. Sostituisce le vecchie e inefficaci guaine tagliamuro, assicurando una corretta connessione meccanica fra muratura e basamento, indispensabile per la difesa dal sisma, e garantisce sia l’isolamento termico che l’impermeabilità permanente alla costruzione.

Fig. 8.69 Applicazione di un elemento isolante impermeabile alla base muraria (immagine gentilmente concessa da Foamglas Italia S.r.l.

www.foamglas.com).

L’umidità residua di costruzione

Generalità L’umidità residua da costruzione è quella derivante dall’acqua in eccesso rispetto ai valori di equilibrio con l’aria ambiente, dovuta ai lavori edili svolti nell’edificio. Normalmente è presente sotto forma di umidità igroscopica in eccesso, più raramente di imbibizione, sui supporti porosi della costruzione. La sua origine può essere primaria, se l’acqua è risultante dagli utilizzi necessari all’edificazione, e secondaria se invece proviene da apporti indesiderati. Questi ultimi sono prevalentemente di origine meteorica. Talvolta, ma meno frequentemente, sono dovuti ad altre cause accidentali.

Fig. 9.1 Impermeabilizzazione in controspinta di una fossa ascensore con cementi osmotici. Anche le lavorazioni di questo tipo richiedono l’uso di abbondante acqua, che necessita di lunghi tempi di asciugatura

Umidità residua primaria

Durante la realizzazione delle opere edili, sono abitualmente usate rilevanti quantità d’acqua. La maggior parte è impiegata come acqua di impasto, necessaria per attivare le reazioni di idratazione, presa e indurimento del calcestruzzo, degli intonaci e dei massetti. Vi è da sommare inoltre l’acqua utilizzata per umidificare i supporti prima dell’applicazione di strati successivi di malta o di adesivo. Molti materiali a base acqua necessitano di superfici umide per garantire una corretta adesione al supporto. Spesso occorre infatti bagnare o nebulizzare le superfici prima della loro posa.

Si deve tenere conto anche dell’acqua eventualmente necessaria per il lavaggio delle superfici, che in parte è assorbita dai supporti, e di quella contenuta nelle pitture e nei materiali di finitura. Si consideri che mediamente occorrono dai 180 ai 250 litri d’acqua di impasto per ogni m³ di calcestruzzo impiegato, comprendendo anche il massetto che è lo strato di sottofondo sul quale sono posati i pavimenti. Sempre sui pavimenti, occorrono circa 2 litri d’acqua al mq per miscelare la colla e lo stucco delle piastrelle. A questi si devono aggiungere circa 3 litri d’acqua per ciascun mq di intonaco dello spessore di 1 cm. Mediamente, altri 3 litri d’acqua vanno nella malta impiegata per murare 1 mq di mattoni dei tramezzi interni da 8 cm e circa il triplo per i mattoni portanti e per quelli perimetrali da 25 cm.

Perciò, solo considerando i quantitativi d’acqua strettamente necessari per la corretta preparazione degli impasti, si raggiungono e spesso si superano gli 8.000 litri nella realizzazione di un appartamento di 100 mq. Ne occorrono invece fra il doppio e il triplo per una costruzione singola di pari metratura, perché aumentano considerevolmente le quantità dei materiali impiegati.

Fig. 9.2 Il massetto è il sottofondo sul quale è poi applicato il pavimento. Quello visibile nell’immagine è stato appena ultimato e infatti appare umido. Per realizzare un massetto tradizionale di 10 cm in una casa di 100 mq occorrono circa 1.800 litri d’acqua. Una parte di questa entra nelle reazioni chimiche di indurimento del cemento e l’altra necessita di tempi molto lunghi per la sua asciugatura. Mediamente un massetto libero, senza il rivestimento di piastrelle, si asciuga in tempi variabili fra i 7 e i 10 giorni per ogni cm di spessore. Nei lavori di costruzione e in quelli di ristrutturazione, i massetti sono sempre un elemento problematico per l’umidità. Infatti sono in grado di accumularne grosse quantità e richiedono poi molto tempo per asciugarsi. I massetti rapidi, invece, hanno una diversa composizione chimica e diventano asciutti in pochi giorni.

Fig. 9.3 Quantitativi d’acqua mediamente necessari per costruire un appartamento di 100 mq.

Una parte dell’acqua utilizzata entra a far parte delle reazioni chimiche delle malte, dando luogo a composti idratati nei quali l’acqua non è mobile e non si manifesta più sotto forma di umidità. Un’altra parte invece evaporerà nel corso dei lavori di costruzione, che normalmente richiedono almeno un anno di tempo. La quota rimanente, che si aggira mediamente fra i 3.000 e i 4.000 litri d’acqua, dovrà essere eliminata quando la casa è finita e spesso anche abitata.

In queste condizioni, i supporti più umidi tenderanno a cedere maggiori quantità di vapore all’aria, fino al raggiungimento dei valori di stabilizzazione. L’umidità si sposterà spontaneamente da dove è maggiore a dove è minore secondo le leggi dell’equilibrio, quindi dall’interno dei muri e dei solai verso le superfici. Nel suo percorso, trasferirà anche i sali solubili disciolti. Quasi tutti i sali presenti sui supporti edili nuovi sono riconducibili a solfato di calcio (gesso).

Questo è intenzionalmente aggiunto al cemento per stabilizzare la presa ed è contenuto normalmente nei mattoni e nei laterizi in generale come impurità. Quando l’umidità in eccesso evapora portandosi in equilibrio con l’aria ambiente i sali, che non possono evaporare, tenderanno a depositarsi nelle porosità degli intonaci più prossime alla superficie.

In alcuni casi, i sali disciolti si manifesteranno sulle superfici sotto forma di efflorescenze saline, normalmente di colore bianco e di aspetto pulverulento. Le superfici esterne della costruzione saranno agevolate dal vento e dal sole nel far evaporare più facilmente l’umidità in eccesso verso l’ambiente. L’interno della costruzione invece si troverà svantaggiato, potendo cedere la sua umidità in eccesso solo all’aria presente nell’edificio. Se la costruzione è stata realizzata correttamente, gli spifferi e i passaggi d’aria di qualsiasi tipo saranno del tutto assenti.

Gli apporti di vapore provenienti dai supporti umidi in fase di asciugatura costituiscono un incremento positivo netto di umidità all’aria interna, che si somma a quella generata dalle altre attività che si svolgono nell’edificio. Si consideri che i grammi di umidità eccedenti rispetto all’equilibrio e quindi da evacuare sono fra i 3 e i 4 milioni. Se dovessimo ipotizzare un tasso di evacuazione medio di 3.000 grammi al giorno, per eliminare l’umidità eccedente si rendono necessari tempi variabili fra i 1.000 e i 1.300 giorni, ovvero fra i 3 e i 4 anni. E in effetti è proprio questa la tempistica corretta per portare i supporti porosi dell’edificio in equilibrio con l’aria ambiente.

Fig. 9.4 La realizzazione degli intonaci è un’altra rilevante fonte di apporto d’acqua all’edificio. I rivestimenti a secco, come il cartongesso o il gessofibra, riducono drasticamente i quantitativi di umidità residua di costruzione.

Anche in altre nazioni europee si considera un periodo medio di tre anni per l’asciugatura dell’umidità residua di costruzione negli edifici residenziali.

Come è logico l’umidità residua da costruzione, avrà una sua naturale tendenza a evaporare, gradualmente decrescente nel tempo. Verosimilmente,

quindi, gli apporti di umidità residua che l’edificio trasferisce all’aria ambiente saranno più elevati nel periodo immediatamente successivo all’ultimazione della costruzione. Tenderanno poi a ridursi progressivamente nel tempo, fino a esaurirsi nell’arco di qualche anno. Inizialmente, i supporti saranno molto umidi e perciò trasferiranno tanto vapore all’aria. Durante il processo di asciugatura, e cioè man mano che l’umidità contenuta nelle masse porose diminuisce, si ridurrà (non proporzionalmente) anche la velocità di evaporazione. Occorre ricordare che l’evaporazione può avvenire solo se all’acqua contenuta nella massa porosa umida si apporta energia sotto forma di calore. Il passaggio di stato da acqua a vapore necessita di rilevanti quantitativi di calore detto appunto “calore di evaporazione”. Quindi è normale che i supporti umidi, come per esempio i muri e i pavimenti, durante il processo di asciugatura siano più freddi di qualche grado rispetto all’aria ambiente e ai muri asciutti.

Umidità residua secondaria

Oltre a quella impiegata intenzionalmente, occorre tenere conto di tutta l’acqua che, in maniera accidentale, è accumulata nell’edificio durante lo svolgimento dei lavori. Prima causa di accumulo di umidità residua da costruzione di natura secondaria sono gli eventi meteorici che apportano acqua mentre la casa è ancora priva di protezioni.

Basti considerare che, durante l’esecuzione delle opere e finché non si è realizzata la copertura impermeabile, tutta l’acqua piovana ha la possibilità di impregnare i materiali porosi presenti nell’edificio. Solo come riferimento, si consideri che le precipitazioni medie in Italia corrispondono a circa 763 mm all’anno, cioè 763 litri annuali per ciascun mq di superficie orizzontale. Immaginiamo una casa di 100 mq che necessita di un anno per la sua costruzione e possiamo ipotizzare che in quel lasso di tempo sia bagnata da circa 76.300 litri d’acqua.

Se alla conclusione di lavori dovesse restare al suo interno anche solo un residuo del 5%, si tratta sempre di circa 3.800 litri di acqua che si sommano a quelli da residuo primario, creando talvolta situazioni difficili da gestire.

Una pratica molto diffusa nell’edilizia è quella di realizzare impermeabilizzazioni provvisorie sulle superfici orizzontali, in corso di costruzione. Sono chiamate “guaine di sacrificio” e hanno lo scopo di consentire la transitabilità dei solai e dei balconi durante i lavori, evitando che l’acqua piovana possa bagnarli o inzupparli.

Per motivi di fretta, questa protezione è generalmente applicata sui massetti prima che questi siano asciutti. In questo modo, l’umidità resta imprigionata fra la barriera al vapore, che normalmente è posta sulla superficie inferiore, e la guaina di sacrificio posizionata invece su quella superiore del massetto. In alcuni casi (non rari purtroppo) il massetto alleggerito è considerato in fase di progettazione come un isolante termico. Nel calcolo delle dispersioni di calore si valuta perciò che questo elemento sia capace di ridurre il flusso di calore come da prodotto asciutto. Mentre, per i motivi visti prima, questo è completamente umido.

Può avvenire quindi che, negli strati costituenti l’isolamento termico della costruzione, la presenza di un massetto molto umido anziché perfettamente asciutto dia luogo alla formazione di condensa interstiziale dovuta alla minore capacità isolante, ovvero alla formazione di liquido all’interno dei materiali che separano l’interno dall’esterno. Nell’esempio citato, si tratta di un elemento orizzontale o di un solaio, ma fenomeni simili possono avvenire facilmente anche sui muri perimetrali. In questi casi l’umidità d’origine proviene spesso da apporti indesiderati, accumulatisi sulle pareti perimetrali.

La presenza di umidità residuale può abbassare sensibilmente i valori di isolamento termico dell’involucro edilizio, fino a causare fenomeni condensativi in fase di esercizio, che non potrebbero avvenire sui supporti asciutti.

Fig. 9.5 Corretta modalità di protezione delle murature in corso d’opera con l’uso di un telo impermeabile, come da prescrizione del produttore dei blocchi. immagine gentilmente concessa dal Consorzio Poroton® Italia www.poroton.it).

Un accorgimento indicato dai produttori di laterizi, ma quasi sempre disatteso in cantiere, prevede di proteggere i muri dalla pioggia diretta evitando così che possano inzupparsi d’acqua. Occorre però precisare che la malta di cemento utilizzata per murare i mattoni raggiunge la sua massima resistenza quando è applicata sui mattoni umidi, perché questo evita l’essicazione troppo rapida del legante consentendo alla reazione di idratazione di completarsi in maniera ottimale. In passato, infatti, i mattoni pieni utilizzati per le costruzioni erano immersi in acqua per evitare appunto

la disidratazione precoce della malta di cemento, con il fine di raggiungere le massime resistenze meccaniche delle murature. I tempi di costruzione erano però molto più lunghi e consentivano un’agevole asciugatura successiva dei mattoni. In ogni caso, è sempre opportuno umidificare leggermente le superfici sulle quali si deve applicare la malta di cemento, per garantire una buona adesione e per limitare i fenomeni di disidratazione precoce del legante.

Un’altra rilevante fonte di umidità residua da costruzione di origine secondaria è dovuta ad apporti accidentali dai tubi d’acqua utilizzati durante i lavori nell’edificio, che perdono o gocciolano, oppure da altri sversamenti involontari. Un tubo che si rompe o un rubinetto che bagna il pavimento durante i lavori di costruzione può impregnare facilmente massetti e pavimenti con rilevanti quantitativi d’acqua.

Fig. 9.6 Durante i lavori di ristrutturazione, comprendenti la sostituzione del tetto, la pioggia ha bagnato le murature e gli intonaci prima che fossero realizzate le nuove canalizzazioni di scarico.

Il foro finestra

Altri apporti accidentali di acqua da costruzione di natura secondaria sono, per esempio, quelli derivanti dalla pioggia che penetra attraverso le aperture nei muri prima che gli infissi siano installati. Come spesso accade, la data di consegna degli infissi non può essere determinata in maniera certa e può accadere che l’edificio resti per lunghi periodi con le aperture libere. Dai fori

finesta possono penetrare anche rilevanti quantità di acqua, che sono immediatamente assorbite dai massetti. L’acqua sarà poi evacuata per evaporazione a edificio chiuso, in tempi molto lunghi.

La sostituzione del tetto

Anche questa è una situazione ricorrente nei lavori di ristrutturazione. Quando si prevede la sostituzione della copertura, normalmente passano alcuni giorni (o settimane) tra il momento in cui l’edificio è privato di protezione e quello in cui il nuovo tetto è completato, con canali, converse e pluviali. Durante questo periodo possono verificarsi precipitazioni anche intense capaci di far penetrare abbondanti quantitativi d’acqua all’interno della costruzione. Nel caso di coperture piane o di terrazze, il fenomeno è generalmente ancora più significativo.

Tempi di asciugatura

Il tempo necessario per raggiungere i valori di equilibrio fra l’umidità contenuta nelle masse porose e l’aria ambiente dipende da numerosi fattori e da come questi interagiscono fra di loro.

Di seguito sono elencati gli elementi che maggiormente influiscono sui tempi di eliminazione dell’umidità residua da costruzione.

Temperatura

Una temperatura più elevata sia delle masse porose sia dell’aria favorisce una maggiore velocità di evacuazione dell’umidità residua. Una buona regola è quella di tenere i riscaldamenti leggermente più alti nei primi periodi di utilizzo di un edificio costruito di recente, appunto per velocizzare il processo di asciugatura.

Umidità relativa dell’aria

La velocità di eliminazione dell’umidità residua da costruzione aumenta al diminuire dell’umidità relativa dell’aria presente in casa. Sarà perciò opportuno mantenere i valori di UR dell’aria interna più bassi possibile, attraverso una abbondante ventilazione o per mezzo di appositi deumidificatori o essiccatori.

Aerazione e ventilazione

Si dovrà provvedere a ricambiare più frequentemente l’aria all’interno dell’edificio, per favorire l’evacuazione dell’umidità aggiuntiva proveniente dai materiali in fase di asciugatura. Un altro accorgimento utile è quello di lasciare il più possibile aperte le porte delle stanze, per aumentare il rimescolamento dell’aria ed evitare che l’umidità possa accumularsi nei locali con ridotta aerazione.

Altri apporti di umidità

Si dovrà evitare, per quanto possibile, di apportare all’edificio ulteriore umidità. Per esempio evitando di stendere il bucato in casa, limitando la generazione di vapore in cucina e utilizzando più spesso la cappa aspirante, se questa comunica con l’esterno.

Igroscopicità dei materiali

Alcuni materiali utilizzati nella costruzione dell’edificio hanno una maggiore attitudine a trattenere l’umidità residua, perciò tenderanno a rilasciarla più lentamente. In presenza di materiali igroscopici, il processo di asciugatura sarà più lento, necessitando di tempi sensibilmente superiori. I laterizi, per esempio, sono più igroscopici del calcestruzzo e il gesso è più igroscopico della calce.

Principali effetti Gli effetti derivanti dall’umidità residua da costruzione sono principalmente dovuti all’immissione di vapore nell’aria interna da parte dei materiali impiegati durante la costruzione o la ristrutturazione. Come qualsiasi altra immissione di vapore, anche questa tende ad aumentare i valori di UR e conseguentemente a favorire fenomeni igroscopici e condensativi, sia superficiali che interstiziali.

Un effetto che si verifica sempre è l’abbassamento di temperatura delle superfici, dovuto al raffreddamento evaporativo dei supporti porosi. In queste condizioni di maggiore UR e di temperature superficiali più basse di 2 o 3° C, le condense diventano ancora più probabili. Bisogna precisare che questi fenomeni sono molto intensi nelle case nuove appena ultimate o in quelle appena ristrutturate e tendono a ridursi gradualmente nel tempo. Inizialmente con molta rapidità e man mano più lentamente.

L’umidità residua di costruzione tende ad accumularsi nelle parti basse dell’edificio, anche perché è il massetto che si trova sotto il pavimento a essere il maggiore “contenitore” di umidità. Non si deve sottovalutare l’effetto del ponte termico alla base muraria, che riduce sensibilmente l’evaporazione dell’acqua residuale in quel particolare punto dell’edificio.

In alcuni casi limite, la base muraria si troverà a essere più umida rispetto al resto della costruzione proprio per un effetto combinato di UR maggiore, temperatura media superficiale più bassa, ponte termico alla base muraria ed effetti convettivi stazionari (si veda il paragrafo 5.3.2).

Può quindi accadere che, in una casa nuova o appena ristrutturata, si abbiano manifestazioni di umidità alla base di muri che possono essere confuse con fenomeni di risalita muraria. In realtà si tratta di formazioni condensative che si verificano alla base delle pareti e che non hanno origine dal terreno.

Come è già stato spiegato nel capitolo 8, la risalita primaria nelle costruzioni nuove è praticamente impossibile. È invece possibile la risalita secondaria da apporti laterali o di altra natura, compresi quelli correlati alla condensazione dell’umidità residuale. Generalmente, nei lavori di ristrutturazione la quantità totale di acqua residuale di costruzione è molto più bassa, sia perché quella di natura primaria è molto ridotta rispetto a una costruzione nuova, sia perché anche gli apporti accidentali sono generalmente meno probabili.

È quindi normale aspettarsi che per una completa evacuazione dell’umidità residuale in una casa nuova occorrano fra i 3 e i 4 anni, mentre per un lavoro di ristrutturazione di solito i tempi siano dimezzati. Nel corso del processo di asciugatura dei supporti porosi, come già si è accennato, è possibile che si manifestino efflorescenze saline di colore bianco e di aspetto pulverulento, generalmente presenti sulle parti basse dei muri e fra le fughe delle piastrelle sul pavimento. Se tali manifestazioni tendono spontaneamente ad arrestarsi dopo qualche tempo, ciò significa che l’asciugatura si è completata e che i movimenti di umidità verso le superfici sono ultimatati. Se invece la formazione delle efflorescenze non accenna a diminuire è probabile che possa esserci qualche altro apporto di umidità, dovuto per esempio a infiltrazioni oppure a perdite degli impianti.

Prevenzione e correttivi Le modalità di prevenzione dell’umidità residua di costruzione, ovvero i comportamenti utili a limitare per quanto possibile l’immissione indesiderata di acqua durante la fase di costruzione o di ristrutturazione si suddividono fondamentalmente in due categorie:

riduzione degli apporti primari; riduzione degli apporti secondari.

Mentre l’eliminazione dell’umidità residua potrà essere effettuata in due modi:

evacuazione naturale; deumidificazione forzata.

Prevenzione

Riduzione degli apporti primari

È possibile ridurre sensibilmente gli apporti primari di umidità residuale di costruzione attraverso l’utilizzo di materiali o di sistemi costruttivi “a secco”. Si tratta di soluzioni che non necessitano di acqua di impasto, o per lo meno che ne usano quantità molto modeste. Per esempio, l’utilizzo di strutture di legno rispetto a quelle di cemento armato e muratura, oltre a garantire i ben noti vantaggi termoigrometrici consente di avere elementi costruttivi asciutti già in fase di installazione.

Lo stesso avviene se si impiegano lastre di gesso rivestito o di gesso e fibre di cellulosa oppure di cemento rinforzato per la realizzazione di pareti, contropareti e altri elementi costruttivi interni.

Durante la costruzione di un edificio nuovo o una ristrutturazione si ottengono importanti vantaggi impiegando materiali prefabbricati, come appunto le strutture di legno o i sistemi a secco. Per la realizzazione di pareti divisorie o muri portanti risulta vantaggioso l’utilizzo di blocchi di cemento cellulare tipo Ytong e similari, che si posano con modestissime quantità d’acqua. In questi casi, l’umidità residuale è molto poca, se non addirittura assente, e nell’edificio non si verificheranno i fastidiosi problemi citati in precedenza, come l’aumento dell’UR, il raffreddamento delle superfici e le manifestazioni biologiche correlate come la formazione di muffe e batteri. Non occorrerà attendere tre o quattro anni per raggiungere la condizione di materiale asciutto e non sarà necessario apportare calore per favorire l’evaporazione dell’umidità dai supporti porosi. In ogni caso, è sempre

preferibile utilizzare materiali o tecniche costruttive che non abbiano necessità di grosse quantità d’acqua per la loro posa in opera.

Fig. 9.7 L’utilizzo di sistemi costruttivi a secco, come il cartongesso o il gessofibra, contribuisce a limitare la quantità d’acqua residuale di costruzione di origine.

Riduzione degli apporti secondari

Durante i lavori di nuova costruzione o di ristrutturazione sarà necessario evitare, per quanto possibile, che l’edificio sia bagnato dall’acqua piovana. Un altro accorgimento utile sarà quello di evitare che tubi, rubinetti o vasche di qualsiasi tipo possano rilasciare acqua indesiderata all’interno dell’edificio, aumentando la quantità di umidità apportata ai supporti porosi. Si suggerisce quindi di effettuare i lavori nei mesi meno piovosi e, in ogni caso, di proteggere con teli in plastica tutte le superfici che possano essere bagnate dalla pioggia o dalla rugiada.

È da consigliare anche la protezione dei fori finestra con teli impermeabili di plastica, fino alla definitiva installazione degli infissi. Occorre prestare particolare attenzione durante la posa degli isolanti termici, che normalmente sono materiali porosi e molto spesso fortemente igroscopici. Questi dovranno essere protetti immediatamente dopo la loro installazione per mezzo di impermeabilizzazioni definitive e, quando ciò non sia possibile, si dovranno impiegare teli che impediscano il contatto degli isolanti con la pioggia e con l’eventuale formazione di rugiada.

Fig. 9.8 L’impiego di protezioni impermeabili durante tutta la fase di costruzione dell’edificio può contribuire efficacemente a ridurre gli apporti di umidità residua secondaria.

Correttivi

Evacuazione naturale

La modalità più semplice e intuitiva per eliminare velocemente l’umidità residua di costruzione è quella di aerare maggiormente la casa, cioè aumentare il numero dei ricambi/ora rispetto a quelli che sarebbero sufficienti nella situazione normale. Per facilitare l’evaporazione dell’umidità residua dai supporti porosi esiste anche la possibilità di aumentare la temperatura del riscaldamento invernale di 2 o 3° C.

La prima modalità prende il nome di flush out, che letteralmente significa “lavare via”, “far scorrere” e indica appunto l’operazione dell’evacuazione dell’umidità attraverso i flussi d’aria.

La seconda invece è chiamata bake out che significa “evacuare per mezzo del calore”, “cuocere al forno”.

Entrambe le tecniche sono utilizzate efficacemente, anche in contemporanea, per favorire l’eliminazione dell’umidità in eccesso. Hanno l’ulteriore vantaggio di allontanare più velocemente anche gli inquinanti presenti sotto forma di sostanze organiche volatili (VOC). Questi composti sono contenuti in numerosi materiali impiegati nelle costruzioni, come adesivi, solventi e additivi. In alcuni paesi del Nord Europa le pratiche di flush out e bake out sono addirittura previste dalle norme tecniche di costruzione.

Si suggerisce l’adozione di entrambi i metodi, nei casi in cui si intenda velocizzare il processo di asciugatura dei supporti porosi dopo i lavori di costruzione. Si otterrà un risultato più rapido, oltre al vantaggio di eliminare più rapidamente i VOC residui, rendendo più sano l’ambiente domestico.

Deumidificazione

Nei casi in cui non si possa o non si intenda adottare il metodo dell’evacuazione naturale dell’umidità residua di costruzione o quando sia necessario agire in tempi strettissimi, esiste la possibilità di utilizzare appositi deumidificatori. I sistemi di deumidificazione rapida sono preferibilmente adottati, nelle diverse versioni disponibili, quando i locali non sono riscaldati o in seguito ad allagamenti. Ne esistono di vari tipi, in funzione delle specifiche esigenze operative. Di seguito saranno descritti brevemente quelli più diffusi.

Deumidificatori a condensazione

Si tratta generalmente di macchine frigorifere che, per mezzo di una pompa di calore, creano al loro interno una superficie calda e una fredda. L’aria è aspirata e fatta passare sulla superficie fredda, dove il vapore in eccesso condensa trasformandosi in liquido. La stessa aria passa poi sulla superficie calda aumentando la sua temperatura e abbassando sensibilmente l’UR.

In definitiva, la macchina aspira aria umida ed espelle aria secca, raccogliendo l’acqua condensata in una vaschetta, che può poi essere

eliminata manualmente o per mezzo di una tubazione. Si tratta di soluzioni adatte a trattare grossi volumi di aria umida a temperature non troppo basse.

Deumidificatori ad adsorbimento

Questi apparati impiegano un cilindro rotante e funzionano secondo il principio dell’adsorbimento. Non producono acqua liquida, ma espellono all’esterno aria satura di umidità, per mezzo di una tubazione. Sono in grado di ottenere aria molto secca e possono lavorare bene in ambienti freddi.

Fig. 9.9 La deumidificazione tramite il riscaldamento e la ventilazione: 1) aria eliminata all’esterno; 2) aria aspirata dall’esterno; 3) aspiratore; 4) riscaldatore; 5) aria riscaldata (immagine gentilmente concessa da Master Climate Solutions www.mcsworld.com).

Fig. 9.10 Apparato deumidificatore a cilindro rotante. I sistemi di questo tipo non raccolgono l’acqua condensata, ma evacuano il vapore in eccesso attraverso una tubazione che espelle aria satura all’esterno. 1) filtro; 2) aria umida; 3) rotore; 4) aria deumidificata; 5) ventilatore; 6) aria rigenerata; 7) riscaldatore; 8) aria rigenerata calda; 9) aria rigenerata umida (immagine gentilmente concessa da Master Climate Solutions www.mcsworld.com).

Deumidificatori a microonde

Una tecnica talvolta impiegata quando occorre asciugare rapidamente murature o pavimenti umidi, anche in conseguenza di danni da allagamento, consiste nell’utilizzo di deumidificatori a microonde. Questi apparati emettono energia sotto forma di onde elettromagnetiche ad alta frequenza, con le quali riscaldano l’umidità facendola evaporare istantaneamente. Devono essere utilizzati da personale esperto, perché il calore generato potrebbe creare danni alla costruzione e alla salute degli operatori, in assenza di protezioni idonee.

Fig. 9.11 Sistema di deumidificazione a condensazione. 1) aria umida; 2) filtro; 3) evaporatore; 4) vasca di raccolta; 5) serbatoio della condensa; 6) aria deumidificata e raffreddata; 7) condensatore; 8) ventilatore; 9) aria riscaldata e deumidificata (immagine gentilmente concessa da Master Climate Solutions www.mcsworld.com).

Fig. 9.12 Sistema di riscaldamento della muratura mediante microonde. Gli apparati di questo tipo asciugano molto velocemente le murature, ma necessitano di personale esperto. L’antenna di emissione ha una caratteristica forma divergente ed è detta “antenna a tromba” o, in inglese, “horn antenna”. Le frequenze di emissione sono quelle alle quali l’acqua è più sensibile, cioè 2,45 GHz, e le potenze variano fino a qualche kW. Generalmente si utilizzano più apparati affiancati che agiscono contemporaneamente.

Deumidificatori a depressione

Una tecnica efficace per la deumidificazione di massetti e pavimenti umidi consiste nell’utilizzo di idonee pompe a vuoto, con le quali si realizza una forte depressione nel mezzo poroso favorendo l’evaporazione dell’umidità residua. A pressioni più basse di quella atmosferica, l’umidità si trasforma in vapore più velocemente, rendendo il processo più rapido. Praticamente, l’apparato “succhia via” aria umida dal massetto, favorendo l’ingresso di nuova aria asciutta proveniente dall’ambiente in sostituzione di quella estratta. La macchina è generalmente costituita da una pompa a vuoto a pistoni o a palette, in grado di generare depressioni fino a -0,8 bar. È collegata all’aspirazione con un collettore dal quale si dipartono piccoli tubi in plastica, inseriti in appositi fori creati nelle fughe fra le piastrelle del pavimento. Misurando l’umidità dell’aria estratta si valuta l’efficacia della deumidificazione. Quando l’aria estratta è pressoché asciutta, si considera completato l’intervento e si stuccano i fori nel pavimento, che tornerà a essere quello di prima. Con una minima invasività si può efficacemente deumidificare un massetto in tempi relativamente rapidi.

Deumidificatori a sovrappressione

Sono generalmente costituiti da un deumidificatore ad adsorbimento, che immette l’aria essiccata all’interno del massetto, sul quale sono stati preventivamente realizzati fori di immissione. L’aria asciutta si carica di umidità attraversando il massetto e ritorna nel locale dove è essiccata nuovamente, realizzando un ciclo chiuso. Anche in questo caso, la misurazione dell’umidità residua del massetto si ottiene indirettamente da quella dell’aria processata dall’apparato. Può essere vantaggioso riscaldare leggermente l’aria immessa, al fine di favorire l’asciugatura cedendo il

calore di evaporazione necessario all’umidità del massetto, per trasformarsi in vapore.

Appendice: Diagnostica dell’umidità L’attività di diagnostica è molto importante per la comprensione dei fenomeni di umidità presenti negli edifici e per l’individuazione delle cause che l’hanno originata.

È un tema molto esteso, che non può essere descritto in maniera esaustiva in un solo capitolo. In questa breve appendice si daranno al lettore alcuni utili spunti di riflessione e si rimanda chi fosse interessato ad approfondire la materia alla lettura del libro di prossima pubblicazione, che tratterà esclusivamente gli aspetti diagnostici dell’umidità negli edifici.

La prima diagnosi dovrà sempre essere visiva e sarà utile a comprendere in che modo le manifestazioni più evidenti di umidità siano classificabili secondo le varie cause possibili. Suggeriamo, almeno nella primissima fase di indagine, di ammettere come possibili tutte le cause di umidità e di procedere man mano per esclusione. Perciò, la regola sarà quella di considerare inizialmente possibile qualsiasi causa indistintamente, per poi restringere la ricerca sulla base di quanto riscontrato, tenendo conto anche della probabilità con la quale i vari eventi possano essersi verificati.

Come è stato descritto nel testo, le cause di umidità sono sette e possono verificarsi in forma singola e congiunta. I loro effetti possono sommarsi anche in modo sinergico. Ciascuna di queste cause ha generalmente una o più manifestazioni specifiche, che di solito richiedono tecniche di diagnosi differenti. Di seguito elenchiamo le singole cause di danno, con le relative metodiche di diagnosi.

Meteorica e infiltrativa Le indagini relative all’umidità meteorica e infiltrativa sono generalmente orientate all’individuazione dei danni e dei difetti di impermeabilità dell’edificio, in conseguenza di eventi meteorici. La ricerca è tesa a trovare il punto o i punti dai quali si origina l’infiltrazione. In questi casi sono generalmente impiegati i metodi seguenti.

Prova di allagamento

Consiste nell’otturare temporaneamente gli scarichi, quando questo sia possibile, e nell’allagare la superficie impermeabilizzata con l’intento di evidenziare la perdita di tenuta. Non è applicabile su superfici inclinate e spesso non fornisce indicazioni utili.

Termografia

È una tecnica di indagine non distruttiva che sta diventando molto diffusa negli ultimi tempi e che prevede il controllo delle temperature superficiali dell’edificio, dalle quali si possono valutare e prevedere eventuali presenze d’acqua di natura infiltrativa o di altra origine. Affinché la prova sia valida, è opportuno accertarsi della qualificazione dell’operatore termografico, secondo il livello previsto dalla normativa (primo, secondo o terzo).

Tecnica del gas tracciante

Prevede l’immissione, al di sotto del manto impermeabile, di una miscela di gas contenente idrogeno e azoto o idrogeno ed elio, più leggera dell’aria. In presenza di fori o passaggi, la miscela fuoriesce all’esterno ed è captata da un sensore di gas che individua l’esatta presenza del foro.

Sistema elettromagnetico

Questa tecnica è ormai poco utilizzata, pur essendo ancora valida, e consiste nella misurazione della perturbazione elettromagnetica dovuta alla presenza d’acqua. In caso di infiltrazione e di conseguente imbibizione delle strutture, tramite alcuni sensori è individuata la massa di umidità derivante da impregnazione. Esistono due categorie fondamentali di misurazione: capacitivo, per piccole profondità (fino a 4/5 cm al massimo) e a microonde per profondità maggiori (fino a 30 cm e oltre).

Sistema elettrico a Bassa Tensione (circa 35 V)

Il principio del sistema è piuttosto semplice e prevede il parziale allagamento dell’elemento di tenuta all’acqua e l’inserimento di due elettrodi, uno all’intradosso e l’altro all’estradosso del solaio. Se si realizza il passaggio di corrente, significa che il manto presenta danni. Con opportune tecniche è inoltre possibile individuare il punto esatto in cui avviene la conduzione della corrente, e la presenza del difetto.

Sistema elettrico ad Alta Tensione (da 2 a 40 kV)

Del tutto simile al precedente, anche se basato su principi fisici diversi. Non richiede l’allagamento e utilizza invece una sorta di spazzola conduttiva di bronzo fosforoso che individua i difetti anche in presenza di umidità contenuta.

Sistema TERP

Tomografia Elettrica Ridondante a Puntali, deriva da un’analoga metodologia impiegata nelle ricerche archeologiche e permette di individuare le infiltrazioni di terrazze, locali interrati e giardini pensili. Attraverso l’emissione di impulsi elettrici a bassa frequenza e la successiva analisi dei valori di conducibilità e di capacità dei materiali attraversati dalla corrente, è possibile ottenere dati utili a determinare il danno o difetto di impermeabilità.

Da impianti e da altri apporti accidentali

In questa categoria di ricerca guasti si ricorre generalmente alle seguenti metodologie specifiche

Termografia

Già descritta in precedenza.

Videoispezione

Attraverso l’impiego di una sonda di piccolo diametro, dotata di una minuscola telecamera con illuminazione alla sua estremità, è possibile percorrere le tubazioni dal loro interno, evidenziando qualsiasi danno o difetto anche di dimensioni molto ridotte.

Prove di pressione

Consistono nel porre in pressione le varie porzioni dell’impianto al fine di verificare eventuali perdite di tenuta. Le tubazioni possono essere riempite con acqua oppure con gas tracciante, che si individua con apposito sensore.

Condensativa L’umidità di origine condensativa può facilmente essere diagnosticata attraverso la misurazione della temperatura superficiale dei supporti, in funzione della temperatura e dell’umidità relativa dell’aria che li lambisce. Le tecniche di diagnosi sono le seguenti

Termografia

Già descritta in precedenza.

Misurazione della temperatura superficiale

Può essere effettuata senza contatto, mediante una macchina termografica o un pirometro (semplice strumento che misura la temperatura delle superfici), oppure con termometri a contatto, del tutto simili a quelli impiegati in cucina per misurare la temperatura dei cibi.

Misurazione della temperatura e dell’umidità relativa dell’aria

Per le misurazioni istantanee è preferibile utilizzare un termoigrometro che fornisce contemporaneamente la temperatura e la UR dell’aria. Alcuni modelli calcolano in automatico anche i valori di Bulbo Umido (WB) e di Punto di Rugiada (DP). Quando si effettuano misurazioni di lungo termine, è preferibile utilizzare appositi strumenti dotati di data logger, capaci di effettuare un gran numero di misurazioni (fino a 32.000) consecutive in un anno, memorizzando i valori ottenuti.

Igroscopica La verifica dell’umidità igroscopica utilizza gli stessi dati forniti dalla diagnosi dell’umidità condensativa. In questo caso non occorre che i valori superficiali di UR siano del 100%, ma sono sufficienti percentuali di circa il 70% per dar luogo a fenomeni igroscopici significativi.

Proveniente dal terreno L’umidità proveniente dal terreno è generalmente dovuta a infiltrazioni, che nei casi meno gravi si ridistribuiscono nella massa porosa dei materiali per diffusione insatura (umidità non capillare). Per l’individuazione del danno o difetto sono utili le seguenti tecniche di diagnosi:

Termografia (già descritta in precedenza) TERP (già descritta in precedenza) Prova di allagamento (già descritta in precedenza)

Da risalita Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, l’umidità di risalita muraria può essere primaria o secondaria in base alla modalità di apporto dell’umidità, e capillare o non capillare a seconda della presenza o meno di abbondante acqua liquida.

Quindi sono possibili le seguenti quattro situazioni di risalita muraria:

La risalita primaria capillare si verifica quando la base della muratura riceve abbondante acqua liquida, attraverso la superficie orizzontale di appoggio sul terreno. Può verificarsi quando il livello della falda acquifera è molto vicino alla quota del suolo, in maniera stabile o periodica. Si tratta di una causa di umidità muraria piuttosto rara e riguarda generalmente edifici storici non correttamente protetti in origine dalla risalita, situati in aree dove la falda acquifera è vicina o può approssimarsi alla quota del terreno. Più precisamente, avviene quando la base muraria è a contatto della frangia capillare. Solitamente riguarda tutte le murature portanti della costruzione, perché dipende dalla quota dell’acqua proveniente dal suolo.> La risalita primaria non capillare è invece molto frequente negli edifici storici, dove l’umidità si trasferisce dal terreno alla muratura a causa di un gradiente di concentrazione, da dove è maggiore a dove è minore. Anche in questo caso le murature interessate dal fenomeno sono indistintamente tutte quelle portanti o comunque tutte quelle fondate sul terreno. Si manifesta quando gli apporti d’acqua liquida provengono da fonti diverse, che non attraversano la base muraria a contatto del terreno. Gli esempi più frequenti riguardano gli apporti laterali da acque superficiali

disperse che bagnano la base muraria, o perdite da tubazioni e impianti che interessano le pareti oppure il contatto di acqua meteorica diretta o di rimbalzo. Generalmente riguardano solo le murature interessate da bagnatura diretta, ma non gli altri elementi dell’edificio. È la situazione più frequente e riguarda tutte le cause di apporto di umidità laterale sulle murature non protette, antiche e recenti, provenienti da massetti, pavimenti e da altri elementi costruttivi, comprese le sopraelevazioni del terreno rispetto alla quota d’origine.

Le indagini più comuni sono le seguenti.

Valutazione dei parametri termoigrometrici

È utile a comprendere il fenomeno anche in relazione al rapporto reciproco esistente fra muratura e aria ambiente.

Misurazione dell’umidità superficiale con igrometro a contatto

Si utilizza un igrometro di superficie che misura la conducibilità elettrica tramite due elettrodi a puntale, o con un sistema che rileva la variazione della capacità elettrica, oppure con un igrometro a microonde.

Misurazione dell’umidità muraria con metodo al carburo di calcio

È chiamato anche metodo Hoechst. Si tratta di una misurazione che prevede l’estrazione di un campione di polvere umida dalla muratura per mezzo di un trapano. Il campione è poi inserito in un contenitore dove è messo a contatto con carburo di calcio. La reazione fra l’acqua contenuta nel campione e il carburo di calcio genera acetilene gassoso, la cui pressione è direttamente proporzionale al contenuto di umidità.

Misurazione dell’umidità muraria ponderale o con termobilancia

Questo è il metodo più preciso di misurazione dell’umidità, che consiste nel pesare un campione umido di muratura, prima e dopo la sua essiccazione a 105°C. La differenza di peso è dovuta all’acqua.

Indagine termografica

Già descritta in precedenza.

Misurazione del potenziale verticale di risalita

Consiste nella misurazione della differenza di potenziale esistente fra la base muraria e il fronte di risalita, mediante un semplice voltmetro. Bassi valori di potenziale (50-100 mV) indicano risalita bassa o moderata, mentre valori più elevati (150- 250) evidenziano risalita intensa.

Umidità residuale da costruzione I fenomeni di umidità residuale da costruzione sono riconducibili ad accumuli più o meno significativi di acqua non liquida, che si manifesta in forma igroscopica. Dovranno essere adottate perciò le stesse modalità di diagnosi descritte nella parte dedicata ai fenomeni igroscopici.

Norme di riferimento Al momento non esistono in Italia un protocollo di indagine relativo alle manifestazioni di umidità negli edifici e neppure una norma o una linea guida in tal senso. Chi esamina una costruzione affetta da umidità non ha una procedura da seguire e spesso agisce secondo la propria esperienza o meglio secondo le proprie convinzioni e orientamenti professionali. Perciò capita abbastanza spesso che indagini e perizie atte a individuare problemi di umidità negli edifici siano incomplete al punto da non essere utilizzabili. Generalmente, le indagini condotte da soggetti diversi non sono confrontabili proprio perché non sono coerenti e questo le rende parzialmente o totalmente inutilizzabili. Le uniche normative applicabili in Italia relative a questo argomento riguardano la misurazione dell’umidità muraria con il metodo a carburo e ponderale e i parametri termoigrometrici dell’aria. Si tratta di norme adottate nel settore del restauro e in quello della conservazione delle opere d’arte, quindi in ambiti applicativi diversi rispetto a quelli che si riscontrano più frequentemente.

In particolare, le norme citate relative alla misurazione dell’umidità dei campioni murari sono le seguenti

Il metodo a carburo di calcio: Norma UNI 11121:2004. Metodo ponderale o gravimetrico: Norma UNI 11085:2003.

Per la misurazione dell’umidità dell’aria.

La Norma UNI 11120:2004 sostituita dalla UNI EN 15758:2010 raccomanda le procedure per misurare la temperatura dell’aria e quella superficiale dei beni culturali sia in ambienti interni sia all’aperto. Riporta inoltre le caratteristiche minime della la strumentazione necessaria per tali misurazioni. La Norma UNI 11131:2005 indica invece i parametri fisici e gli strumenti idonei alla misurazione dell’umidità nell’aria ai fini della conservazione del Patrimonio culturale, che si trovi all’aperto o all’interno (per esempio in musei, gallerie, archivi, biblioteche, chiese e palazzi storici). La norma stabilisce indicazioni per effettuare misure accurate dell’ambiente microclimatico e per studiare le interazioni fra l’aria e gli oggetti.

Un libro scritto per le donne Le donne vivono un rapporto unico ed esclusivo con la propria casa, indecifrabile e misterioso. Quasi magico.

Ma gli uomini questo non riescono a capirlo. Come mai? Semplice: perché sono uomini e non donne. Ciò non significa che siano meno abili a capire le cose. Uomini e donne hanno cervelli diversi, specializzati in funzioni diverse, che fanno cose diverse. Detto in termini attuali, al cervello degli uomini manca il programma che consente di interpretare come una donna

viva la propria casa. Il problema nasce da molto lontano ed è un aspetto importante, che può minare seriamente il rapporto coniugale e familiare.

Alcuni milioni di anni fa, quando la scimmia scese dall’albero per dare vita al lungo percorso degli esseri umani, i maschi e le femmine di questa specie erano all’incirca simili. Cambiando habitat e stili di vita, i due sessi hanno differenziato alcune funzioni del loro comportamento, specializzandosi nei rispettivi ruoli. I maschi della specie umana affinarono le loro capacità nella caccia e nella guerra. Svilupparono un fisico più forte e più consono al combattimento. Il loro cervello si adattò ai ruoli della strategia, della cattura, della competizione e della ricerca del risultato. Le femmine della specie umana, invece, avevano un ruolo diverso, che era quello di curare la prole, di preparare e cucinare gli alimenti e di mantenere le relazioni all’interno del villaggio. I maschi si specializzarono nello svolgimento delle loro attività fuori dalla casa, mentre la femmine svilupparono una serie di abilità da svolgere principalmente in casa.

Per alcuni milioni di anni, i maschi della specie umana hanno vissuto la propria casa/villaggio come il luogo fisico in cui non si caccia e non si combatte, cioè dove si riposa. Mentre le femmine umane hanno realizzato con la propria casa/villaggio un rapporto molto più intimo e completo, di coesistenza e di piena appartenenza.

Al giorno d’oggi, manteniamo ancora molti caratteri dei nostri predecessori.

Le donne vivono la casa come un’estensione fisica del corpo, un’appendice della propria individualità, una parte del loro mondo.

Gli uomini invece vedono la casa come il luogo dove disconnettere le proprie funzioni, dove “non fare”. È lo spazio fisico dove non si combatte.

In questa situazione, uguale per tutti gli individui della specie umana, le donne hanno una grande attenzione per tutto ciò che riguarda la casa, il suo stato di salute e il suo aspetto. Gli uomini, invece, neppure si rendono conto di queste cose. Di fronte alla stessa parete scrostata, la donna sentirà il problema come se riguardasse il proprio corpo, avvertendone il fastidio su di sé. L’uomo, avendo scollegato la propria attenzione, non noterà nulla.

Quindi la donna vivrà un problema veramente importante, ritenendo di essere trascurata dal proprio uomo. Lui, invece, crederà di essere perseguitato a causa di motivi futili o inesistenti.

Questa diversa interpretazione degli stessi eventi, è spesso la causa di gravi attriti nella coppia. Sarebbe opportuno che entrambi i componenti della famiglia prendessero per lo meno coscienza di questi aspetti, per poterli meglio comprendere e affrontare.

Mi permetto di dare un piccolo suggerimento.

Per gli uomini: non permettetevi mai, ma proprio mai di scegliere o decidere qualcosa che riguardi la casa. Rischiate il matrimonio.

Per le donne: continuate così, è la vostra natura e la natura non sbaglia.

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Ringraziamenti Intendo ringraziare tutte le persone che, a vario titolo, hanno fornito il loro prezioso contributo per la realizzazione di quest’opera. L’ingegner Edgardo Pinto Guerra di Sarteano (SI), gli architetti Olivia Carone di Milano ed Elisa Villa di Concorezzo (MB), il geometra Oreste La Bella Thovez dell’omonimo studio di Appiano (BZ), la dottoressa Claudia Haupt di Genova per la pazienza e la disponibilità dimostrate. Il signor Sigismondo Leogrande di Tecnologie Top Level di Bari, la professoressa Maria Teresa Lopez-arias Montenegro del Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, il geometra Umberto Bino di Swissnanotech di Manno (Svizzera), l’ingegner Timoteo Galia, l’ingegner Davide Fontana, il signor Mauro Rezzadore di Calceforte S.r.l., il geometra Riva di Drytech S.r.l., l’ingegner Alessandra Boi di Cagliari, il geometra Ezio Dessì di Edicar di Selargius (CA), il signor Sergio Serra di Cagliari, il signor Walter Bellini di Abitest di Buccinasco, stimato amico e collega, lo Studio Tecnico Servizi e Territorio S.r.l. di Cinisello Balsamo (MI) e lo Studio RAL3020 di Bergamo.

Si ringraziano inoltre le seguenti aziende che hanno fornito le immagini utilizzate nel libro:

Alpac S.r.l. Unipersonale www.alpac.it

Calceforte S.r.l. www.calceforte.it

Cappe Baraldi S.r.l. www.cappeberaldi.it

Consorzio Poroton® Italia -www.poroton.it

Dörken Italia S.r.l. società del Gruppo Dörken www.doerken.it

Drytech S.r.l. www.drytech.ch

Foamglas Italia S.r.l. www.foamglas.com

Foschini S.r.l. www.foschinideumidificazione.it

Geom. Marco Gusmini www.westwood.eu

Grandisol S.n.c. di Cattaneo & C. www.grandisol.it

Hydro-Tec Italia S.r.l. www.hydro-tec.it

Index S.p.a. www.indexspa.it

Magma S.a.s. www.magmamacchine.it

Master Climate Solutions www.mcsworld.com

Rossato Group S.r.l. www.rossatogroup.com

Siegenia-Aubi S.r.l. www.siegenia.com

Studio Tecnico Servizi Territorio S.r.l. www.serviziterritorio.it

Swissnanotech SA www.swiss-nanotech.com

Taglio 2000 S.r.l. www.taglio2000.it

Tecnasfalti S.r.l. www.isolmant.it

Termocatania www.termocatania.it

Vortice Elettrosociali S.p.a. www.vortice.it