Aspetti evolutivi nella progettazione delle soluzioni organizzative 9788834847695, 8834847695

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Aspetti evolutivi nella progettazione delle soluzioni organizzative
 9788834847695, 8834847695

Table of contents :
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Quartino
Indice
Introduzione
Capitolo I - L’organizzazione nell’attuale scenario di riferimento
Capitolo II - La progettazione organizzativa
Capitolo III - Linee evolutive in termini di progettazione
organizzativa
Bibliografia
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Aspetti evolutivi nella progettazione delle soluzioni organizzative

Marco Giannini

Aspetti evolutivi nella progettazione delle soluzioni organizzative

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2014 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-348-4769-5

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Indice pag. Introduzione

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Capitolo Primo

L’organizzazione nell’attuale scenario di riferimento 1.1. 1.2. 1.3. 1.4.

La ricerca di competitività Elementi qualificanti del concetto di organizzazione Un’organizzazione che apprende I fattori caratterizzanti di un’organizzazione

1 6 19 31

Capitolo Secondo

La progettazione organizzativa 2.1. Il concetto di progettazione organizzativa 2.2. Alcune riflessioni sulle diverse variabili organizzative 2.2.1. I modelli di soluzioni organizzative 2.3. Dinamiche organizzative e del controllo interno negli scenari della complessità 2.3.1. Verso una visione “postmoderna” 2.3.2. Dinamiche nel controllo 2.3.3. L’azienda come sistema complesso di risorse ed obiettivi

43 51 82 108 108 115 120

 

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pag. Capitolo Terzo

Linee evolutive in termini di progettazione organizzativa 3.1. Premessa 3.2. Il cambiamento organizzativo 3.3. Alcune linee di cambiamento organizzativo 3.3.1. Semplificazione e snellimento organizzativo 3.3.2. Sviluppo di soluzioni organizzative basate sui processi 3.3.3. Il superamento delle barriere organizzative esterne 3.4. Analisi di alcuni fattori critici che condizionano l’organizzazione del lavoro

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Bibliografia

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VI

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Introduzione L’organizzazione si prefigge di studiare le modalità di svolgimento delle attività da realizzare per riuscire a fornire criteri di comportamento atti ad ottimizzare l’uso delle risorse disponibili. In particolare la progettazione delle soluzioni organizzative adottate si fonda su due questioni essenziali:  il modo in cui il lavoro dell’organizzazione viene distribuito tra le persone, fra i vari responsabili delle unità organizzative, ecc.;  le modalità per ottenere il coordinamento delle diverse attività svolte al fine di realizzare gli scopi dell’organizzazione stessa. In questo contesto, «l’importanza della dialettica continua della pratica con la teoria e della teoria con la pratica appare ancora maggiore in periodi come quelli attuali, caratterizzati da alta volatilità ambientale, da intensi processi di internazionalizzazione e di globalizzazione e dalla presenza pervasiva delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’industria e nei servizi. Infatti, specie nell’epoca attuale lo spartiacque fra teoria e pratica organizzativa può essere colmato solo attraverso un processo di apprendimento continuo che implichi la costante individuazione di casi esemplari e la riflessione su di essi, alla luce delle teorie, al fine di produrre delle sintesi, per forza solo provvisorie. In quest’ottica, i casi forniscono delle “tracce” utili a individuare quali siano i problemi davvero rilevanti, le modalità possibili e profittevoli per risolverli e le lezioni che possono risultare d’interesse in chiave più generale» (Daft, 2010). Seguendo questo tipo di approccio, frutto di una stretta integrazione tra teoria organizzativa e pratica, si intende dimostrare come attualmente risultino premiate quelle soluzioni organizzative coerenti con strategie di innovazione, di miglioramento qualitativo non solo dei prodotti/servizi realizzati ma anche delle stesse organizzazioni. Il presente volume intende, così, essere uno strumento di apprendimento e un’occasione di riflessione rispetto ad una materia complessa e di natura interdisciplinare quale è appunto la progettazione organizzativa. VII

Sul piano dei contenuti questo testo ha cercato di delineare un inquadramento sistematico dei vari aspetti di un processo di progettazione di un’organizzazione. In particolare, nel primo capitolo, dopo aver colto le diverse sfaccettature che sono proprie del concetto stesso di organizzazione, sono stati analizzati gli elementi che la caratterizzano, le sue dimensioni strutturali e contestuali. Il secondo capitolo affronta, invece, il tema specifico della progettazione organizzativa: il fatto di definire una soluzione organizzativa può essere interpretato come il risultato di un processo attraverso cui si individuano le caratteristiche dell’assetto grazie al quale la stessa organizzazione può controllare le attività necessarie per il conseguimento dei suoi obiettivi. In tale contesto vengono esaminate le principali variabili organizzative, da coniugare in relazione alla specifica realtà di riferimento, che sono, in primo luogo, costituite dallo stile di direzione, dalla struttura organizzativa, dal sistema di coordinamento e controllo, dal sistema informativo e dal sistema di gestione del personale; a queste se ne sono affiancate altre, quali la cultura propria dell’organizzazione ed il clima organizzativo. Particolari approfondimenti sono dedicati al tema del rapporto tra dinamiche organizzative e controllo interno nei citati scenari di complessità ambientali. Sono analizzate, altresì, le diverse tipologie di soluzioni strutturali adottabili evidenziandone le rispettive caratteristiche, le condizioni di applicabilità e i punti di forza e di debolezza. Nell’ultimo capitolo vengono, invece, delineate alcune linee evolutive in termini di progettazione organizzativa: una prima direzione di cambiamento riguarda la semplificazione organizzativa. Sul piano della singola azienda la ricerca di semplificazione passa, in primo luogo, attraverso uno “snellimento” delle attività realizzate con l’accentuazione dei processi di esternalizzazione, ciò che comporta un mutamento, anche grazie al supporto delle soluzioni offerte dall’Information and Comunication Technology, delle modalità di coordinamento e controllo, nonché con l’adozione di approcci gestionali ispirati al modello “lean”. Una seconda dimensione del tema considerato riguarda la tendenza ad “appiattire” la struttura organizzativa, ciò anche se la riduzione del numero dei livelli gerarchici non è da sola sinonimo, come sarà specificato in questo capitolo, di semplificazione organizzativa: è, infatti, necessario ridefinire le diverse responsabilità, sviluppare le competenze professionali dei soggetti interessati. Una seconda linea evolutiva si può ricollegare allo sviluppo di soluzioni basate sui processi: in effetti, con l’aumento del livello di complessità, le organizzazioni sperimentano i limiti delle soluzioni tradizionali: il coordinamento tra le diverse aree gestionali all’interno della stessa organizzazione diviene più difficoltoso. Non a caso le logiche di progettazione organizzativa vengono a ridisegnare i meccanismi di collegamento al fine di migliorare il coordinamento e la comunicazione, ponendosi l’obiettivo di ridurre le “barriere” organizzative interne VIII

che rischiano di ostacolare il perseguimento di elevati livelli di performance. Se, tradizionalmente, le attività erano svolte in funzioni o unità organizzative diverse ed il problema principale era quello di definire come tali attività potevano essere coordinate ed ottimizzate, l’attenzione si sposta sulle interdipendenze tra le diverse stesse attività. Se in passato, quindi, l’atteggiamento prevalente era quello di ottimizzare le attività all’interno delle unità organizzative, oggi appare proprio la gestione degli spazi inter-funzionali quella in grado di offrire più ampi potenziali di miglioramento. Successivamente viene presa in esame la tendenza ad una progressiva riduzione anche delle “barriere” tra diverse organizzazioni, considerando in primo luogo il crescente ricorso all’outsourcing: le citate scelte di esternalizzazione, strettamente correlate all’obiettivo di migliorare le condizioni di flessibilità, possono ricollegarsi ad una serie di potenziali vantaggi, quali quelli di ovviare alla mancanza di professionalità specifiche all’interno dell’organizzazione, di modificare la struttura dei costi aziendali aumentando l’incidenza di quelli variabili rispetto a quelli fissi, di ridurre il costo dell’attività rispetto all’ipotesi di uno svolgimento interno grazie alla specializzazione dell’organizzazione esterna, di orientare le risorse nelle aree che offrono maggiori vantaggi competitivi (core business aziendale). Sul piano della qualità si presenta la necessità che la realtà esterna sia in grado di garantire adeguati livelli di conformità rispetto ai requisiti richiesti dal committente; al di là di possibili forme di auto-certificazione, una richiesta di certificazione in base alle norme ISO 9001 2008 può fornire una presunzione di garanzia del contributo alla realizzazione di un prodotto finale che presenti complessivamente tutti i requisiti qualitativi richiesti. Occorre valutare con particolare attenzione il rischio di una scarsa affidabilità da parte dell’organizzazione esterna, ciò che richiede un’adeguata selezione, che deve poter dare delle garanzie non solo in termini di costi ma anche in termini di capacità gestionali, di innovazione, di flessibilità, ecc. e sia un puntuale controllo dell’operato della realtà esterna, in termini di prestazioni così come di mantenimento e miglioramento nel tempo delle caratteristiche gestionali iniziali. In secondo luogo si può rilevare il diffondersi delle forme reticolari o a network valutando le relative condizioni di attuazione: questo modello richiede, infatti, nuovi modi di operare, nuove competenze, la capacità di creare contesti più ricchi di feedback, di saper reagire con rapidità e flessibilità per rispondere, in modo sinergico, ai cambiamenti ambientali, di saper apprendere ed innovare a livello interorganizzativo. In altri termini, quindi, il network è una rete di organizzazioni legate tra loro da peculiari relazioni di interdipendenza e da particolari meccanismi di coordinamento. In effetti, nella ricerca di migliori condizioni di competitività ha assunto particolare rilievo la capacità di attivare un “sistema rete” che ha visto incrementare le sue potenzialità considerando la necesIX

sità di confrontarsi con un mercato sempre più globale e le opportunità rese disponibili dall’evoluzione delle tecnologie informatiche e telematiche. A conclusione del capitolo si analizzano, altresì, i fattori che sono in grado di incidere sulle scelte di progettazione a livello anche di organizzazione del lavoro, ove, come meglio sarà specificato, per organizzazione del lavoro si intende la modalità di svolgimento delle attività lavorative con il duplice obiettivo di valorizzare al meglio le risorse a disposizione, con particolare riferimento al personale, e di raggiungere livelli qualitativi delle stesse attività capaci di soddisfare le aspettative dei clienti, siano essi interni o esterni. L’organizzazione, esaminata nelle sue diverse dimensioni, appare, quindi, un sistema di variabili interdipendenti e la sua efficacia sembra legata alla loro coerenza. Da questa caratteristica deriva che non è possibile realizzare un processo di cambiamento se non interessando tutte le componenti del sistema e non soltanto quelle che, in prima battuta, sembrano le sole coinvolte; quando, di conseguenza, un mutamento interviene in una delle diverse variabili del sistema (sia per fattori interni che esterni), occorre rivedere tutte le altre. MARCO GIANNINI Università degli Studi di Pisa Dipartimento di Economia & Management

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Capitolo Primo

L’organizzazione nell’attuale scenario di riferimento SOMMARIO: 1.1. La ricerca di competitività. – 1.2. Elementi qualificanti del concetto di organizzazione. – 1.3. Un’organizzazione che apprende. – 1.4. I fattori caratterizzanti di un’organizzazione.

1.1. La ricerca di competitività Le componenti che determinano il successo di un’impresa, in termini di posizionamento sul mercato e di competitività sono numerose e oltre all’implementazione di una strategia è necessaria una corretta gestione delle risorse umane e una efficace ed efficiente soluzione organizzativa che consideri i fattori ambientali interni ed esterni. In particolare si può parlare del superamento di una visione basata su un insieme di ambiti regionali e nazionali verso un ambito globale, sempre più indipendente dai confini dei diversi Stati. Negli ultimi anni si è assistito, infatti, al rafforzarsi della tendenza al passaggio da parte delle aziende ad un orientamento globale. Questa spinta alla globalizzazione è diretta conseguenza dell’accresciuta interdipendenza tra i diversi paesi, dell’espansione continua di scambi internazionali e dello sviluppo di network informativi e comunicativi su scala mondiale, tali da creare tessuto connettivo di base che lega i vari paesi e che permette una diffusione di dati e di informazioni virtualmente istantanea (Depperu & Cerrato, 2006). La globalizzazione interessa non solo i paesi industrializzati, che possono contare su nuove opportunità di mercato, ma sempre più consistentemente i paesi in via di sviluppo, offrendo l’occasione di fare del commercio e degli investimenti esteri un motore della loro crescita ed innestando un circolo virtuoso tra crescita ed integrazione economica internazionale. Tali paesi possono accedere più facilmente alle tecnologie disponibili a livello mondiale, estendendo 1

così i limiti delle proprie conoscenze scientifiche e tecnologiche, attraverso l’integrazione nei circuiti internazionali e l’adozione di appropriate politiche di istruzione e formazione del personale sia a livello operativo e sia, soprattutto, a livello direttivo. Ciò determina:  opportunità di operare in aree anche molto lontane pur dovendo affrontare i relativi problemi gestionali;  confrontarsi con la concorrenza dei paesi emergenti (problemi di competitività);  riduzione delle barriere istituzionali alla mobilità internazionale: i flussi di importazione e di esportazione si sono sviluppati a tassi sempre più crescenti anche grazie alla progressiva apertura dei mercati; i confini nazionali sono oggi più “permeabili” rispetto al passato in virtù di accordi internazionali sottoscritti dai vari paesi e intesi a ridurre le barriere istituzionali elevate per proteggere le economie nazionali (si pensi al World Trade Organization che determina riduzioni nei dazi e nei vincoli al commercio internazionale);  rapida circolazione di informazioni e tecnologie;  sviluppo di forme diverse di presenza nei mercati esteri: da forme di tipo commerciale (o avvalendosi di intermediari commerciali o creando una propria rete di vendita), a forme di tipo relazionale (sviluppando accordi con organizzazioni operanti nel paese estero), a forme di tipo produttivo (o acquisendo una realtà già operante nel paese estero o creando una nuova unità operativa o delocalizzando un’unità già operante nel paese di origine);  gli input si possono ottenere da fornitori anche situati in paesi diversi, non solo per le materie prime ma anche per parti di prodotto assemblate fino all’intero prodotto (vantaggi in termini di costi in realtà come Cina, Corea, ecc.) generando problemi di coordinamento e di integrazione; così, ad esempio, la divisione della Philips per la realizzazione di attrezzature mediche ha la sede centrale ed i laboratori di ricerca negli USA, la produzione realizzata a Taiwan e una rete distributiva in grado di coprire tutti i paesi del mondo;  la ricerca della soddisfazione dei clienti pone l’esigenza di adattare i propri prodotti alle preferenze dei diversi consumatori;  si riduce la capacità di un’organizzazione di riuscire a tutelare l’innovazione di prodotto e di processo a causa della proliferazione di azioni imitative, mentre resta più difficile imitare un modello organizzativo efficiente nonché la capacità manageriale di gestire i processi di cambiamento;  la competitività si arricchisce in termini di fattori critici (Vitale, 2013). La ricerca di competitività può riguardare diverse dimensioni: di sistema, di settore, di rete, di distretto fino ad investire la singola azienda. 2

In particolare il tema della competitività di sistema appare fondamentale perché condizioni esterne sfavorevoli (si pensi al funzionamento delle attività di ricerca, del sistema educativo-formativo, dell’apparato pubblico, al sistema normativo, alle infrastrutture, ecc.) possono vanificare gli sforzi che le aziende possono realizzare per guadagnare in efficienza e riuscire ad attuare le loro strategie in un contesto di riferimento molto complesso. La ricerca di migliori condizioni di competitività riguarda, in primo luogo, il cosiddetto “sistema paese”. Con il concetto di sistema si intende un insieme di elementi che interagiscono tra di loro per ottenere obiettivi comuni. In tale contesto la vita aziendale risulta contrassegnata da tutta una serie di vincoli. Un elevato grado di regolazione non può non incidere, infatti, sul funzionamento delle organizzazioni: esempi, al riguardo, possono essere individuati nelle circostanze in base alle quali si rileva, secondo l’opinione di un noto giurista, che oggi l’apparato delle leggi sul lavoro è così complesso da richiedere l’intervento di un consulente, o, ancora, quando nella pubblica amministrazione procedure amministrative complicate e farraginose finiscono per sminuire anche provvedimenti eccezionalmente nati con le migliori intenzioni. Di conseguenza, anche le azioni che derivano dalla libertà di iniziativa tipica dell’imprenditore, sancita dall’art. 41 della Costituzione, sono, almeno in buona parte, condizionate dal sistema. Considerando l’impatto della competitività del sistema Italia, rispetto ad altre realtà di riferimento, le istituzioni devono evidentemente cercare le “vie” più “spedite” per muoversi verso l’obiettivo di una maggiore semplificazione: si pensi, ad esempio, all’impatto degli adempimenti burocratici nella fase di costituzione di un’azienda che risultano, al di là di interventi volti a semplificare il relativo processo, ancora farraginosi (Narduzzo, 2003). Sempre con riguardo alla fase di costituzione sono evidenziati, in particolare, specifici adempimenti, ritenuti troppo gravosi, ma che hanno, tuttavia, un loro solido fondamento in una società civile (riferendosi, ad esempio, ai temi della prevenzione incendi, della salvaguardia del suolo, dell’aria, dell’acqua) e che, al di là di possibili semplificazioni, devono essere informati al massimo rigore. Si pensi, al riguardo, ai rischi che potrebbero derivare da inadempimenti circa la prevenzione incendi, le condizioni di sicurezza sia del lavoro che dell’ambiente (si consideri il rischio alluvioni), generando complesse questioni la cui risoluzione richiede onerosi interventi di specialisti esterni (consulenti). Sempre con riferimento alla fase iniziale della vita aziendale, non si può non fare riferimento ai problemi di natura finanziaria: il sistema bancario non sembra oggi sempre offrire quei supporti di finanziamento e di servizi che dovrebbero favorire l’intrapresa medesima. Si tratta di supporti non surrogabili con i 3

“finanziamenti a pioggia” che fino ad oggi sono stati elargiti dallo Stato seguendo, per così dire, un “taglio orizzontale”: si pensi ai finanziamenti agevolati più svariati, come per interi settori di attività, erogati sulla base di una generica ed astratta serie di parametri. Ciò al di là di specifici positivi interventi, a livello statale o regionale, a sostegno di determinate categorie di soggetti interessati (giovani, donne, ecc.). Dopo aver ricordato che ulteriori rigorosi vincoli possono derivare dal recepimento anche di direttive comunitarie, occorre ribadire che la lentezza e la farraginosità delle istituzioni finiscono per comportare il già citato ricorso, con i relativi costi, a tutta una serie di specialisti (fiscalisti, consulenti, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, notai, tecnici, organizzazioni datoriali, ecc.). Si tratta, evidentemente, di una situazione la cui responsabilità è, in massima parte, attribuibile alle stesse istituzioni. Un elemento critico da valutare, sempre in ottica di sistema, con attenzione, è dato dalla presenza di adeguate infrastrutture: è noto come molte iniziative di industrializzazione nel Sud Italia, anche in un recente passato, si siano scontrate proprio con la mancanza o la carenza di infrastrutture. Spostando l’attenzione a livello di settore, emerge la conclamata concorrenza internazionale, specialmente per i prodotti a basso contenuto tecnologico ed innovativo. A ciò si può aggiungere lo sviluppo di un approccio intersettoriale che si concreta in relazioni trasversali tra aziende appartenenti a diversi settori (Giannini & Turini, 2013). Partendo da queste considerazioni si può comprendere come la scelta del settore, dei mercati/prodotti condizionino in materia determinante l’intrapresa. Al riguardo, comunque, l’imprenditore che espande i propri interessi verso i cosiddetti paesi “emergenti” ha ancora l’opportunità di produrre beni che, connotati come “Made in Italy”, possono entrare in tali mercati, rivolgendosi alle classi agiate di potenziali consumatori, disposti ad acquistare prodotti elitari (scarpe, prodotti della moda, automobili, ecc.). Certo, potrà attraversare questo percorso di espansione all’estero solo chi ha, alle “spalle”, una tradizione, una marca e un marchio, una adeguata organizzazione (si pensi agli aspetti distributivi). Sempre nell’ottica della valorizzazione del Made in Italy elementi fondamentali sono la lungimiranza e la creatività dell’imprenditore, in grado di favorire il raggiungimento di risultati eccellenti, come la stessa pratica quotidiana dimostra. Nella ricerca di migliori condizioni di competitività assume particolare rilievo il “sistema rete” che in tempi recenti ha visto incrementare le sue potenzialità considerando la necessità di confrontarsi con un mercato sempre più globale e le opportunità rese disponibili dall’evoluzione dell’Information and Comunication Technology (ICT). Appare evidente come, con riferimento sia alle attività di produzione che a quelle di vendita dei prodotti, tale sistema risulti oggi sempre più 4

efficace ed efficiente, pur in presenza dei connessi problemi di natura logistica. In relazione agli obiettivi perseguiti in questo lavoro, si possono analizzare i fenomeni delle reti che saranno ripresi nell’ultimo capitolo, sotto tre diversi angoli visuali:  le determinanti, cioè le situazioni che rendono conveniente lo sviluppo di forme di cooperazione tra realtà organizzative diverse (quando e perché nascono): si può parlare, al riguardo, dell’esistenza di una relazione positiva tra la formazione di legami di cooperazione tra più organizzazioni e, tra l’altro, il livello di interdipendenza strategica tra le stesse, il tasso di sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche ed innovative, le possibilità di meglio valorizzare le risorse a disposizione e le stesse conoscenze; tutto ciò evidenzia il ruolo delle reti ai fini della competitività delle organizzazioni interessate (Soda, 1998);  le modalità di funzionamento delle forme organizzative fondate sulle relazioni di cooperazione tra più realtà organizzative: l’atteggiamento di ciascuna organizzazione coinvolta, la disponibilità a “vivere” in modo attivo l’esperienza di rete, l’efficienza di azioni di coordinamento a livello interorganizzativo sono tutti elementi che, evidentemente, incidono sulle fonti potenziali di competitività;  gli effetti realmente prodotti (quali risultati sono realizzati), considerando sia la singola organizzazione e sia la rete nel suo complesso: gli elementi citati in termini di funzionamento sono tali da incidere sulle condizioni di efficacia e di efficienza di una forma reticolare i cui risultati non possono non essere influenzati dalle relazioni di effettiva collaborazione, dalla fiducia reciproca tra i diversi membri della stessa rete; in definitiva, si può affermare che proprio dalla capacità di gestire gli aspetti relazionali a livello interorganizzativo possono derivare i maggiori effetti sul piano del miglioramento della competitività della rete e, quindi, di riflesso, delle singole realtà che ne fanno parte (Salvemini & Soda, 2001). Un contributo al superamento di alcune delle criticità individuate è riconducibile al noto fenomeno dei distretti del quale una vasta letteratura in materia ha evidenziato possibilità e limiti. Anche se l’efficacia dei distretti ha fatto registrare ad oggi risultati diversi, in relazione alla loro ubicazione e alle tipologie di prodotti realizzati (elevate criticità possono derivare da prodotti fortemente esposti alla concorrenza), la forza competitiva degli stessi sembra basarsi sempre più su una produzione elitaria, con contenuti qualitativi di altissimo livello rispetto ai prodotti esistenti. Il tema dei distretti è comunemente considerato un livello di indagine intermedio tra il settore nel suo complesso e le singole realtà aziendali interessate ed inserite in un complesso di rapporti con lo stesso distretto. In tale contesto appa5

re lo stretto collegamento tra capacità di successo duraturo delle aziende e sviluppo dei distretti: la qualità, infatti, dei prodotti e la capacità di realizzarli in modo efficace ed efficiente da parte delle aziende sono tali da condizionare le potenzialità competitive di un distretto. Tutto ciò considerando che le condizioni per essere competitivi si evolvono nel tempo. In tal senso emerge sempre più che la vitalità evolutiva dei distretti si ricollega alla loro capacità di modificare, se necessario, la loro configurazione rispetto alle mutevoli esigenze della competizione internazionale, valorizzando le competenze distintive presenti al loro interno. In tal modo il rilancio ai fini competitivi di un distretto deve passare attraverso l’azione di aziende che siano dotate di idee anche originali, efficacemente ed efficientemente attuate, e di competenze distintive tali da creare un posizionamento competitivo sostenibile nel tempo. Certo, tutto ciò deve essere preceduto da una significativa attività di ricerca che non è, però, uno dei punti di forza del nostro paese, fatto salvo il contributo di spiccate genialità, la cui valorizzazione è sempre meno curata. Sul piano della singola azienda si può parlare, come sarà meglio specificato in seguito, della ricerca di maggiori livelli di semplificazione, in primo luogo, attraverso uno snellimento delle attività realizzate con l’accentuazione dei processi di esternalizzazione, ciò che comporta un cambiamento, anche grazie al supporto delle soluzioni offerte dall’ICT, delle modalità di coordinamento e controllo, determinando una sorta di evoluzione del citato ordine combinatorio. Una seconda dimensione del tema considerato riguarda la tendenza ad “appiattire” la struttura organizzativa, ciò anche se la riduzione del numero dei livelli gerarchici non è da sola sinonimo di semplificazione organizzativa: è necessario, come meglio sarà analizzato in seguito, ridefinire le diverse responsabilità, sviluppare le competenze professionali dei soggetti interessati.

1.2. Elementi qualificanti del concetto di organizzazione Daft (2010) definisce «l’organizzazione come entità sociale guidata da obiettivi 1, progettata come sistema di attività deliberatamente strutturate e coordinate che interagiscono con l’ambiente esterno». Partendo da questa affermazione possono essere sottolineati i seguenti aspetti:  le organizzazioni sono costituite in primo luogo da persone, dalle loro competenze e dalle loro reciproche relazioni; 1

L’organizzazione prende origine dall’esigenza di razionalizzare e coordinare gli sforzi per raggiungere più agevolmente l’obiettivo prefissato.

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 il ruolo degli obiettivi perseguiti (missione, strategie, obiettivi tattico-operativi);  l’importanza di un’adeguata progettazione organizzativa, del coordinamento e della valorizzazione in modo sinergico delle risorse a disposizione;  la crucialità delle capacità di interazione con l’ambiente;  i confini tra le unità organizzative così come quelli tra le diverse organizzazioni diventano più labili con l’emergere della necessità di rispondere più velocemente ai cambiamenti dell’ambiente;  l’interdisciplinarietà degli studi sull’organizzazione nel senso che investono aree diverse (ingegneria, informatica, sociologia, psicologia, medicina del lavoro) per trovare nella visione economica una loro efficace sintesi. Un’organizzazione, quindi, può essere considerata come un sistema di risorse orientate al perseguimento di una finalità comune, in un costante rapporto con l’ambiente di riferimento (Golinelli, 2000). L’evoluzione che nel tempo ha interessato le organizzazioni ha visto il passaggio dal fatto di considerare le stesse come un sistema chiuso, cioè che non sembrano dipendere dall’ambiente in cui si trovano ad agire e dove la principale sfida gestionale era quella di operare in modo efficiente al suo interno, alla circostanza di ritenere le organizzazioni come sistemi aperti, cioè che devono continuamente adattarsi all’ambiente e dove la principale sfida gestionale è quella di essere in grado di interpretare i cambiamenti ambientali ed agire di conseguenza. Nei sistemi aperti l’organizzazione, per sopravvivere, deve interagire con l’ambiente esterno e l’efficienza interna diventa solo uno degli elementi da considerare durante la fase di progettazione, successivamente alla quale essa si deve attivare per trovare ed ottenere le risorse che le consentono di mantenersi competitiva sul mercato, monitorando i cambiamenti ambientali e comportandosi di conseguenza. Si può quindi affermare che l’organizzazione interagisce costantemente con l’ambiente che la circonda che, seppur esterno, ne può condizionare l’andamento e i risultati (Barney, 2006). I cambiamenti che derivano dallo stesso ambiente, come la globalizzazione, una sempre più agguerrita concorrenza, la multietnicità della popolazione e della forza lavoro, hanno spinto le organizzazioni a riconoscersi come parte di un sistema complesso ed interconnesso (Daft, 2010). Il concetto di organizzazione come sistema aperto evidenzia l’importanza degli aspetti relazionali. Analizzando i diversi contributi dottrinali, si può osservare come negli studi economico-aziendali le relazioni che collegano le organizzazioni all’ambiente circostante siano da sempre oggetto di analisi: già ad esempio Zappa (1957) riconosceva che «le leggi di sviluppo delle aziende non possono mai investigarsi considerando le aziende in se stesse, separate dalla trama fitta delle relazioni dalle quali sono avvinte». In questo senso si è venuta affer7

mando la convinzione che il vantaggio competitivo dipende non solo dalle risorse interne, ma anche dalle relazioni che l’organizzazione riesce a sviluppare (Costa & Gubitta, 2008). Negli ultimi anni si è potuto assistere ad un notevole numero di cambiamenti che hanno interessato l’economia, le tecnologie, lo stesso ambiente sociale: proprio queste evoluzioni hanno determinato mutazioni, anche molto profonde, nelle dinamiche competitive, nelle strategie adottate, nei sistemi gestionali ed organizzativi. L’insieme di queste evoluzioni e adattamenti hanno portato a considerare il cambiamento come una vera e propria necessità, un elemento cardine dei processi di sviluppo strategico ed organizzativo e non più come un evento eccezionale (Negri & Furlan, 2004). Le organizzazioni attuali devono trovare, quindi, le energie per rinnovare e cambiare, non solo per poter prosperare, ma anche soltanto per sopravvivere in un mondo nel quale la competizione è crescente. Le organizzazioni che dedicano la maggior parte delle loro risorse al mantenimento dell’“esistente” rischiano di non riuscire più a conseguire risultati anche solo soddisfacenti. In un ambiente complesso come quello attuale, caratterizzato da elevate interrelazioni di numerosi elementi, diventano importanti la capacità di innovazione strategico-organizzativa, la capacità di gestire i processi di cambiamento, superando o limitando gli attriti, le resistenze che possono ostacolare la loro stessa attuazione. Non casualmente tali resistenze si possono ricollegare al fattore umano, nel momento in cui il cambiamento stesso genera instabilità ed incertezza, in quanto rappresenta l’abbandono della quotidianità e di quello che è noto. Si può, anzi, affermare, come sarà meglio specificato in seguito, che tanto più il cambiamento organizzativo è significativo, tanto maggiore potrà essere l’impatto sulle stesse persone in termini di modifica dei compiti richiesti, delle modalità di lavoro, dei valori culturali di riferimento; tutto ciò coinvolge inevitabilmente diverse dimensioni, quali quelle cognitiva, emotiva, motivazionale, esperienziale, relazionale ed operativa (Martone, 2007). Oggi i termini cambiamento ed innovazione sono tematiche che stanno alla base del funzionamento di un’azienda che per sopravvivere deve cambiare ed innovarsi. In questo senso molte grandi aziende, per stare al passo con i mutamenti dell’ambiente esterno cercano di continuo modalità in grado di incoraggiare proprio il cambiamento e l’innovazione. Consolidata dall’esperienza è la consapevolezza che in ambienti molto dinamici e turbolenti ogni organizzazione debba cercare costantemente di reagire o anticipare continue spinte al cambiamento, di contrastare minacce, sfruttare opportunità per non correre il rischio di soccombere ad una competizione sempre maggiore. Il futuro è sempre più difficilmente prevedibile, è pieno di incertezze ed emerge la messa in discussione continua delle routine e delle soluzioni organiz8

zative sperimentate in passato (Padroni, 2007). Per interpretare il futuro occorre elaborare schemi nuovi per capire il presente, muovendosi in una realtà che appare sempre più complessa. Come dimostrano le organizzazioni di “successo”, il cambiamento è ormai una dimensione strutturale del divenire piuttosto che, come si è creduto per molto tempo e come già ricordato, un fenomeno occasionale ed eccezionale. In questo contesto la questione è quella di comprendere in quale modo le organizzazioni sono in grado di apprendere, cioè di cambiare sé stesse e le loro modalità di interagire con il proprio ambiente (Negri & Furlan, 2004). L’attenzione degli studiosi e degli esperti di organizzazione, in linea con l’evoluzione del pensiero organizzativo, si muove dalle funzioni ai processi, dalle rigide forme organizzative ai sistemi di relazione, dalle componenti “hard” a quelle “soft”, legate alla dimensione sociale e al fattore umano quale risorsa strategica. Se la ricerca di migliori risultati gestionali si fonda sempre più su competenze e capacità immateriali, un problema organizzativo a cui cercare di dare delle risposte è quello di come sviluppare tali capacità. In questo contesto il tema dell’apprendimento organizzativo è oggetto di studio già da alcuni anni all’interno della teoria organizzativa e manageriale. In particolare si è venuta sviluppando tutta la letteratura sulla Learning Organization, la quale pone il problema della capacità delle organizzazioni di leggere ed interpretare il flusso delle esperienze per attivare costantemente nuovi schemi cognitivi e nuovi sistemi di azione, così come sarà meglio analizzato in seguito. I problemi per il management hanno a che fare sempre di più, sia nella dimensione strategica che in quella operativa, con problemi legati:  alla creazione e diffusione di conoscenze, sia a livello individuale che organizzativo, che richiedono di valorizzare e sperimentare nuovi sistemi di apprendimento;  alla capacità di ridisegnare schemi e regole nelle dinamiche interne ed esterne, governando quindi in qualche misura il cambiamento stesso;  alla gestione delle risorse umane e alla capacità delle organizzazioni di costruire una visione comune in grado di guidare e sostenere i comportamenti delle persone (Auteri, 2009). Molti dei problemi del management hanno a che fare, e la loro efficacia dipende, dalle modalità con cui si governano conoscenze, apprendimento, cambiamento e si rende possibile il coinvolgimento delle stesse persone alla vita e alla gestione dei sistemi organizzati. In tale contesto di cambiamento cogliere le nuove sfide della competizione richiede al management capacità strategiche diverse dal passato. In un’epoca di mutamenti continui occorre pensare al “cambiamento nel cambiamento”, cioè a come sia possibile cambiare mentre tutto muta, venendo a 9

mancare i necessari punti di riferimento attorno ai quali è possibile strutturare l’idea stessa del cambiamento. La presenza costante e multiforme del cambiamento ha condotto all’esigenza di classificarlo per poter meglio identificare l’oggetto dell’evoluzione e della trasformazione. In tal senso si parla di cambiamento organizzativo per identificare la necessità delle organizzazioni di modificare i propri sistemi e sottosistemi organizzativi per sopravvivere nei propri contesti di riferimento, caratterizzati da incertezza e da complessità nonché dalla necessità di un cambiamento costante guidato da una significativa capacità innovativa. Il cambiamento organizzativo, come avremo modo di meglio specificare in seguito, va considerato come un processo, cioè un insieme dinamico di azioni e reazioni dei diversi elementi coinvolti nel cambiamento stesso, un processo per sua natura complesso e non sempre prevedibile, proponendo percorsi alternativi ed occasioni di feedback per essere corretto in itinere, con l’evolversi delle variabili interne ed esterne all’organizzazione (Gabrielli, 2006). Avendo assistito negli ultimi anni a radicali trasformazioni che hanno innescato una pluralità di processi di cambiamento emerge sia nelle organizzazioni pubbliche e sia in quelle private come il cambiamento sia sempre più una dimensione permanente del divenire di tali organizzazioni. Nel valutare il funzionamento di un’organizzazione si possono incontrare le seguenti domande:  cosa si intende quando si parla di buona o cattiva organizzazione?  come si può esprimere un giudizio di validità su un’organizzazione?  rispetto a quali parametri è possibile esprimere un tale giudizio? Negli approcci tradizionali, il giudizio dipendeva essenzialmente dal grado in cui un’organizzazione rispettava i “principi organizzativi” ritenuti validi in tutte le situazioni e per tutte le organizzazioni; negli approcci più moderni, la valutazione è più complessa e legata alle specificità delle singole realtà prese in esame. In questa ottica le variabili che caratterizzano, come vedremo, il funzionamento di un’organizzazione devono essere progettate in modo da contribuire al raggiungimento di una coerenza interna e, nel contempo, una coerenza esterna con l’ambiente in cui opera. Per “costruire” questa coerenza, sia interna che esterna, occorre tener presenti le condizioni che rilevano ai fini della stessa progettazione organizzativa. Non esiste, del resto, un modello ottimale di sistema organizzativo ma appare necessario rifarsi all’indicato concetto di “coerenza”: la sfida per un’organizzazione non consiste tanto nell’essere conforme ad un modello astratto ottimale (One Best Way), quanto piuttosto quella di ricercare una soluzione “coerente”, 10

quella cioè nella quale le diverse variabili sono tra di loro compatibili. L’organizzazione è, allora, un sistema di variabili interdipendenti e la sua efficacia è legata alla loro coerenza. Da questa caratteristica deriva che non è possibile realizzare un processo di cambiamento se non coinvolgendo tutte le componenti del sistema. In tale ottica una soluzione organizzativa adottata può considerarsi il risultato di un insieme di scelte effettuate nell’ambito di quelle che, come vedremo in seguito, costituiscono le possibili variabili del processo di progettazione, coniugate con riferimento, in un dato contesto temporale, ad una specifica realtà organizzativa: è la soluzione che si deve “modellare” sull’organizzazione e non viceversa. «Gli studi e le ricerche degli ultimi anni individuano nella “varietà” una delle principali caratteristiche delle forme di organizzazione. L’idea che esista una sola forma organizzativa ottimale viene oramai scartata per lasciare spazio ad un’idea dove la natura dell’ambiente con cui le organizzazioni si rapportano, viene ad essere l’elemento attraverso cui determinare il modo corretto di organizzare le attività svolte. Si arriva quindi a stabilire un legame stretto tra le caratteristiche dell’organizzazione e l’ambiente di riferimento. In particolare sono state messe in luce le difficoltà che i modelli organizzativi tradizionali, fondati sul controllo gerarchico e fortemente burocratizzati, incontrano nell’affrontare ambienti competitivi e turbolenti segnati da innovazioni tecnologiche, riduzione di costi e tempi di risposta, dalla globalizzazione. L’evoluzione verso nuovi paradigmi organizzativi diventa quindi una premessa necessaria tanto per la sopravvivenza quanto per conseguire quel vantaggio competitivo necessario per la crescita e lo sviluppo dell’organizzazione. Un vantaggio competitivo che si costruisce attraverso la capacità di adattamento e la continua propensione al cambiamento strategico ed organizzativo» (Keidel, 1991). Le soluzioni fondate su un’organizzazione fortemente gerarchica appaiono oggi sempre più inadeguate di fronte alla complessità, alla mutevolezza dei problemi che si presentano. Le aziende devono mettere sotto esame il loro stesso modo di essere organizzate, i criteri tradizionali di divisione del lavoro, i meccanismi di scambio delle informazioni e delle conoscenze, i metodi medesimi di lavoro e di formulazione delle decisioni. In tal modo, dall’incrocio tra la dinamicità delle situazioni da affrontare e la complessità dei problemi che si presentano, emergono forme organizzative che privilegiano il requisito della flessibilità, operando in un’ottica tipicamente interfunzionale. Nel contesto odierno il paradigma dominante si riempie di contenuti più informali, di forti destrutturazioni, di spinte al cambiamento, che divengono punti di forza del sistema. 11

L’imperativo strategico che tutte le organizzazioni devono cercare di seguire per poter stare al passo con il ritmo dei cambiamenti degli scenari competitivi è, come ricordato, la flessibilità (Scarozza & Trotta, 2013): «flessibile è l’impresa che, nell’ambito della propria strategia competitiva e di fronte ai cambiamenti, riesce a guadagnare posizioni di vantaggio competitivo in termini di capacità, costi e tempi di risposta» (Lanzara, 1988). Fino a quando il contesto ambientale di riferimento presentava caratteristiche di relativa stabilità, la ricerca della soluzione organizzativa più coerente poteva procedere per aggiustamenti successivi, contando sul fatto che non ci sarebbero stati significativi cambiamenti non prevedibili in grado di influenzare le scelte adottate; nel momento in cui, invece, l’ambiente è venuto a presentare caratteristiche di turbolenza e di non prevedibilità (sostituendo progressivamente lo stesso termine “prevedibile” con “probabile”) (Padroni, 2007) la ricerca di un sistema organizzativo più coerente ha assunto le peculiarità di un’attività da sviluppare continuamente nel tempo, proprio perché l’ambiente esterno è tale da produrre continui elementi di novità che potranno influenzare, in modo via via differente, ciascuna delle variabili organizzative che in seguito prenderemo in esame. Un’organizzazione se ben gestita può:          

consentire di perseguire gli obiettivi ed i risultati desiderati; permettere di realizzare in modo efficiente prodotti o servizi; consentire di mantenere viva la motivazione del personale; agevolare l’integrazione interpersonale nel perseguimento degli obiettivi dell’organizzazione; rendere possibile una responsabilizzazione ai vari livelli, individuali e di gruppo; facilitare i processi innovativi; consentire una migliore valorizzazione delle opportunità offerte dalla tecnologia; riuscire ad adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali; contribuire a creare valore per i clienti, i dipendenti, i proprietari, la collettività (responsabilità sociale d’impresa); consentire una migliore integrazione con altre organizzazioni.

Le componenti che possono determinare il successo di un’organizzazione, in termini di competitività, fanno riferimento, oltre alle strategie adottate, ad un’efficace ed efficiente progettazione organizzativa, sia in relazione all’ambiente interno che a quello esterno: in effetti, come ricordato, in un mercato sempre più globalizzato e competitivo, i confini tra le organizzazioni stanno diventando sempre più “sfumati” e le stesse organizzazioni tendono ad interagire in modo più 12

integrato con diversi componenti dell’ambiente esterno, come i clienti, i fornitori, gli stessi concorrenti fino a condividere informazioni, conoscenze, tecnologie nella ricerca di vantaggi reciproci (Rullani, 2003). Con riferimento proprio agli obiettivi di competitività emerge sempre più il ruolo, oltre ai fattori “tangibili” come le stesse tecnologie, di quelli che comunemente sono indicati come intangible asset. Il capitale intangibile di una organizzazione comprende, come meglio sarà specificato in seguito, il capitale umano formato dall’insieme delle competenze delle persone che operano al suo interno, il capitale organizzativo, composto dall’insieme delle modalità organizzative adottate per farla funzionare in modo efficace ed efficiente ed il capitale relazionale costituito dall’insieme delle relazioni instaurate con l’esterno. Questi elementi si riconducono al perseguimento di alcuni obiettivi importanti per il funzionamento stesso di un’organizzazione e cioè:  efficacia = capacità di perseguire gli obiettivi dell’organizzazione cercando di migliorare l’esistente;  efficienza = capacità di ottimizzare i costi e l’impiego delle risorse perseguendo i fini dell’organizzazione;  flessibilità = capacità di rispondere alle esigenze esterne adeguando la propria organizzazione;  velocità = capacità di ridurre i tempi decisionali, di elaborazione delle informazioni, di risposta al mercato, di realizzazione di un prodotto, di erogazione di un servizio, ecc.;  economicità = perseguimento di un equilibrio economico a valere nel tempo congiuntamente alla realizzazione dei fini istituzionali dell’organizzazione e con una responsabilizzazione economica diffusa all’interno della stessa organizzazione;  sostenibilità = rendere compatibile la competitività con il rispetto delle condizioni ambientali; si parla di sviluppo compatibile preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle risorse naturali; ciò significa, ad esempio, orientare in campo ambientale le attività di ricerca, cercare di migliorare continuamente le proprie prestazioni ambientali, adottare soluzioni tecnologiche in grado di garantire ridotti impatti ambientali, soddisfare la domanda crescente di “qualità ambientale” da parte del mercato con prodotti ecocompatibili, ecc.;  eticità = rendere compatibile il perseguimento degli obiettivi dell’organizzazione con il rispetto di valori etici condivisi; l’etica organizzativa corrisponde a valori, convinzioni e regole morali che portano a determinare il “modo giusto” secondo cui i membri delle stesse organizzazioni dovrebbero comportarsi gli uni con gli altri, nonché con gli altri stakeholders. 13

In tale prospettiva si può affermare che una soluzione organizzativa sarà tanto più valida nella misura in cui:  riesce a valorizzare le risorse a disposizione (efficienza) per raggiungere i risultati desiderati (efficacia);  riesce ad adattarsi all’ambiente in continua trasformazione (flessibilità);  facilita e supporta la ricerca di soluzioni in grado di migliorare la gestione della variabile tempo (velocità);  riesce a coniugare gli elementi indicati nel perseguimento di condizioni di equilibrio economico (economicità). Le organizzazioni si dividono, in ogni caso, in due categorie: profit e non profit. Nelle prime gli sforzi del management sono diretti al rispetto delle condizioni di equilibrio economico e finanziario che consente una esistenza duratura nel tempo, mentre nelle seconde l’obiettivo è quello di raggiungere un determinato tipo di impatto sociale. L’origine delle risorse finanziarie varia in relazione alla tipologia di organizzazione. Nel profit esse provengono essenzialmente dalla vendita sul mercato dei prodotti o servizi e per questo motivo il management è portato a concentrare gli sforzi sulla ricerca del miglioramento dei prodotti/servizi da offrire. Nel non profit le risorse finanziarie sono erogate in larga misura dagli stanziamenti pubblici, dalle sovvenzioni e donazioni ed i servizi sono forniti a clienti/utenti sovente non paganti. Operare senza scopo di lucro non significa poter essere inefficienti ma riuscire a coniugare il criterio di economicità con la ricerca del soddisfacimento degli scopi istituzionali per mezzo di un efficiente impiego delle risorse, una razionalizzazione dei processi, una riduzione degli sprechi ed il controllo dei costi. Accettare la logica d’impresa significa far propri metodi e tecniche di gestione che consentano di rispettare criteri di efficacia (fare le cose che servono) e di efficienza nell’impiego delle risorse (conseguire il miglior rapporto tra risultati e risorse), massimizzando il valore aggiunto delle attività svolte; ciò consente una maggiore legittimazione dell’organizzazione e migliori rapporti con i vari interlocutori esterni. A fronte di ciò una delle maggiori problematiche delle organizzazioni non profit è quella di garantirsi una continuità nell’erogazione dei fondi che le consenta l’operatività nel tempo. Solitamente tali organizzazioni si devono misurare con obiettivi intangibili come il miglioramento della salute pubblica o le condizioni di vita degli utenti/clienti al fine di riuscire a gestire in modo soddisfacente i molti stakeholder (Daft, 2010). In entrambe le tipologie di organizzazioni si ricerca un uso efficiente delle risorse e un adeguato controllo dei costi, risulta importante la gestione dei rapporti con i diversi stakeholder. È altresì importante una visione manageriale ed 14

una adeguata progettazione organizzativa unitamente ad una gestione del personale e della comunicazione verso l’esterno. In ogni organizzazione è emersa sempre più l’importanza, a fronte degli elementi “tangibili”, per perseguire obiettivi competitivi del citato proprio capitale “intangibile”. Lo scenario economico attuale vede, infatti, svilupparsi una crescente competitività collegata al processo di globalizzazione dei mercati nonché una significativa dematerializzazione delle attività produttive. La società in cui viviamo è sempre più definita società delle informazioni e delle conoscenze e ciò ha determinato significativi cambiamenti nei processi che portano l’azienda alla “creazione del valore” (Bellandi, 2009). L’ampliamento dei mercati e le continue innovazioni tecnologiche hanno mutato quelle che sono le condizioni di cui le aziende devono tener conto ed in questo contesto le risorse intangibili hanno acquisito un’importanza sempre maggiore proprio in termini di competitività. Negli studi economico-aziendali è, del resto, ormai ampiamente riconosciuto il ruolo delle risorse immateriali o intangibili, al tempo stesso come determinanti delle capacità competitive delle aziende e come fattore in grado di riuscire a creare valore per i clienti e per tutti coloro che partecipano alla sua attività. In questo contesto si può ricordare, ad esempio, l’approccio di analisi volto a sviluppare il tema del miglioramento della qualità a livello complessivo di azienda, interessando una serie di fattori intangibili legati proprio alle caratteristiche ed ai comportamenti delle risorse umane (Volpe & Carletti, 2008). Così, ancora, l’azienda che concentra investimenti e risorse nelle proprie core competence fa leva sulle conoscenze possedute, sulle proprie qualità professionali ed organizzative ed è proprio puntando su queste risorse intangibili che è in grado di generare valore per i suoi clienti, di mantenere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, di creare nuovi prodotti, di innovare con continuità nel tempo. Cresce, infatti, la rilevanza di possedere un’adeguata capacità innovativa, di saper creare rapporti stabili e duraturi con clienti e fornitori supportati da forti legami di fiducia nonché di saper gestire al meglio i flussi informativi e di valorizzare il know-how dell’azienda, cioè quell’insieme di conoscenze, esperienze, abilità che possono conferirle un differenziale competitivo. Ma quale è la natura di queste risorse? Quale ruolo rivestono nell’economia dell’azienda? Si possono, in primo luogo, distinguere i beni immateriali e le risorse intangibili: i primi sono autonomamente identificabili e valutabili (si pensi ai brevetti, ai marchi, alle licenze, ecc.), mentre le seconde non presentano questa autonomia. Il capitale intangibile di un’azienda è caratterizzato, come già ricordato, da tre principali componenti:

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 Capitale organizzativo Insieme delle modalità organizzative adottate per far funzionare in modo efficace ed efficiente la stessa organizzazione, nel senso di riuscire a coordinare al meglio le risorse (generando sinergie) cercando di valorizzarle e di perseguire miglioramenti nel tempo, combinando opportunamente, sulla specifica realtà organizzativa, le variabili proprie della progettazione di una soluzione organizzativa (stile di direzione, struttura organizzativa, sistema informativo, sistema di coordinamento e controllo, sistema di gestione del personale, cultura e clima organizzativo).  Capitale relazionale Insieme delle relazioni instaurate con l’esterno dell’organizzazione; in tal senso, ad esempio, driver dell’innovazione divengono le relazioni con clienti, fornitori, concorrenti, produttori di beni complementari, università, altri enti di ricerca pubblici e privati; la fiducia acquisita presso i vari interlocutori rappresenta una componente fondamentale per riuscire a concretizzare potenzialità di sviluppo; l’organizzazione può attivare od essere inserita in network interorganizzativi.  Capitale umano Insieme delle competenze, delle capacità propositive e di relazione delle persone che operano all’interno dell’organizzazione; consiste nella capacità degli individui di affrontare e gestire situazioni che si presentano durante la vita dell’azienda stessa con l’esperienza acquisita, le capacità proprie, la formazione ricevuta, i valori che anche l’impresa contribuisce a trasmettere; si può parlare delle capacità di saper collegare tra loro diverse informazioni, di saper migliorare le conoscenze e gli output dell’azienda attraverso processi di innovazione e di adattamento. L’interazione continua tra capitale umano, organizzativo e relazionale affina e valorizza ciascuna delle componenti, alimentando il valore complessivo dell’azienda. è nell’ambito di questi circuiti virtuosi di interazione tra le variabili considerate che il capitale intangibile si traduce in vere e proprie competenze aziendali e le risorse potenziali diventano spendibili nel “gioco” competitivo. Ciò rappresenta evidentemente un orientamento ed un obiettivo a cui tendere nella prospettiva di un consolidamento nel tempo della competitività della stessa azienda. Le risorse intangibili presentano alcune significative peculiarità. In primo luogo sono sedimentabili all’interno dell’organizzazione, quale risultato di un processo di accumulazione; inoltre, risultando specifiche di quella data realtà organizzativa, sono più difficilmente trasferibili all’esterno, ciò mentre possono essere trasferite nella stessa organizzazione che le possiede e le può impiegare in contesti ambientali e competitivi diversi (Rullani, 2010). 16

Con riferimento al capitale relazionale si può precisare che il punto di partenza di una strategia relazionale è costituito dalla definizione dell’insieme di attività e processi che l’organizzazione intende presidiare direttamente, quelle che preferisce lasciare a terzi e quelle che intende presidiare indirettamente o in partnership con altri. In tal senso la possibilità di trarre dalle relazioni con altre organizzazioni benefici in termini di creazione di valore economico è determinata in primo luogo dalle risorse, dalle competenze acquisibili dall’esterno per la generazione di vantaggi competitivi. Divengono così importanti le caratteristiche dei soggetti con cui l’organizzazione entra in relazione o con i quali potrebbe entrare in relazione; le risorse in termini di competenze, di eccellenze nei processi che tali soggetti possono apportare, la possibilità che tali risorse vadano effettivamente ad incrementare l’intensità (in termini differenziali rispetto ai competitors), l’ampiezza (in termini di trasversalità tra i business dell’azienda) o la sostenibilità (in termini di durabilità nel tempo) del vantaggio competitivo aziendale. Sulla base di queste osservazioni è possibile affermare che i soggetti, le risorse e l’impatto in termini di vantaggi competitivi identificano le potenzialità, i vincoli e le limitazioni proprie del capitale relazionale. Molteplici analisi empiriche, in ogni caso, evidenziano come le organizzazioni che creano, valorizzano e sviluppano un’adeguata rete relazionale riescono ad ottenere performances superiori rispetto ai propri competitors. Avere una molteplicità di contatti può far emergere stimoli nuovi e diversi, tali, una volta combinati insieme, da poter dar luogo a soluzioni innovative. Driver dell’innovazione stessa divengono, in questa logica, i rapporti con i clienti, i fornitori, i concorrenti, i produttori di beni complementari, le università, altri enti di ricerca pubblici e privati (tra cui laboratori, parchi scientifici e tecnologici, incubatori d’impresa, ecc.). Vanno inoltre considerate le opportunità offerte dai network collaborativi in attività di ricerca e sviluppo, soprattutto nei contesti o in quelle circostanze in cui la singola organizzazione non possiede risorse e capacità per sviluppare e realizzare autonomamente l’innovazione (Chesbrought, 2003). Nella misura in cui la stessa organizzazione è caratterizzata da significativi contenuti di creatività le innovazioni possono originare direttamente dall’interno della stessa, secondo la logica del cosiddetto modello della closed innovation, ove le innovazioni realizzate si caratterizzano per un elevato livello di segretezza e sono il frutto di un processo interno, reso possibile da cospicui investimenti in attività di ricerca e sviluppo. Lo sviluppo di un approccio relazionale comporta, invece, che l’organizzazione abbia capacità di entrare in contatto con idee potenzialmente innovative e di cogliere/selezionare le medesime. Si richiama, in questo senso, il concetto di open innovation, in cui i confini dell’organizzazione sono più “porosi” e fanno penetrare al suo interno idee innovative 17

(Chesbrough et al., 2006). Ovviamente è necessaria un’elevata abilità dell’organizzazione nel valutare, assorbire e utilizzare le conoscenze acquisite dai partner. In pratica le organizzazioni che sviluppano innovazione lo fanno mediante un mix di creatività interna e di capacità relazionali. Tuttavia, le aziende che non si limitano al primo meccanismo d’innovazione (la creatività interna), riuscendo a sfruttare anche tutte le opportunità insite nel capitale relazionale, risultano maggiormente innovative rispetto alle altre (Carrus, 2006). Modificandosi il contesto competitivo, è emersa la necessità di trovare nuove formule per stimolare, dimensionare e gestire l’attività innovativa e il modello dell’“open innovation” evidenzia l’opportunità per le organizzazioni di utilizzare a loro vantaggio la permeabilità dei confini con tutte le altre realtà che partecipano ai processi di innovazione. Diventa focale capire quali informazioni esterne portare al proprio interno e quali informazioni interne cedere all’esterno. Diversamente dalla “closed innovation”, in questo modello le organizzazioni e gli altri attori protagonisti dei circuiti di innovazione condividono le rispettive conoscenze creando un network, con il fine di tradurre gli sforzi individuali in reali applicazioni da parte dei diversi attori della rete. La collaborazione rappresenta, quindi, il motore di sviluppo del modello. Le relazioni di scambio consentono l’acquisizione, l’elaborazione e la valorizzazione delle nuove conoscenze, riducendo i rischi connessi agli investimenti delle singole organizzazioni in attività di ricerca e sviluppo e, di conseguenza, i relativi costi di gestione. Dall’attività innovativa possono scaturire elementi nuovi, oggetto di possibili transazioni economiche, rappresentati da licenze, marchi, ecc. che possono incrementare la fonte dei ricavi aziendali, generando valore per l’intero network. Mediante la capacità di comprendere come le intuizioni altrui, organizzative e/o tecnologiche, possano essere efficacemente introdotte all’interno del proprio sistema, l’organizzazione si pone nelle condizioni di riuscire a realizzare innovazioni anche di tipo incrementale, al fine di modificare la propria gamma di prodotti o i suoi processi operativi o, ancora, aprirsi a nuovi mercati. Il meccanismo di creazione di valore mediante la collaborazione trova affermazione anche considerando che i ricercatori dell’organizzazione si arricchiscono di nuove conoscenze: oltre alla capacità di generare valore mediante la loro attività di ricerca, si sviluppano attività di mediazione delle conoscenze disponibili, mettendo in connessione saperi provenienti da fonti diverse. Le modalità con le quali rendere concreta questa logica gestionale sono differenti: a titolo di esempio si possono ricordare la creazione di alleanze strategiche, la partecipazione a progetti di ricerca comuni a più soggetti, la realizzazione di joint ventures, l’adesione a network interorganizzativi. Studi empirici hanno verificato che la soluzione del network risulta particolarmente efficace ed efficiente in presenza di condizioni ambientali in continua evoluzione, nella misura in cui si 18

riesce ad allineare gli interessi dei diversi partecipanti e ad alimentare l’esigenza di condividere in modo corretto i frutti del rapporto di partnership (Lomi, 1991). Il cambiamento di relazione che l’azienda deve porre in essere va accompagnato da un mutamento di natura organizzativa. Diventa necessario, infatti, progettare soluzioni che rendano possibile l’effettivo utilizzo delle idee innovative che si possono reperire dall’esterno. Soluzioni strutturali troppo rigide, che non agevolano i rapporti multidirezionali, si dimostrano un ostacolo allo sviluppo delle logiche dei network dell’innovazione. Le organizzazioni dovrebbero rendersi più permeabili per riuscire a sfruttare al meglio la carica innovativa del network, anche se ciò non è facile da realizzare: i problemi sono essenzialmente legati alla cultura gestionale esistente, agli atteggiamenti e ai comportamenti di figure aziendali che non facilitano la “cattura” all’esterno di idee innovative (Massaroni & Ricotta, 2009). L’elevato grado di discontinuità ambientale, unito ad un’accelerazione notevole nei cambiamenti socio-economici generali, pone l’organizzazione nelle necessità di ampliare la base delle risorse immateriali su cui far leva per lo svolgimento efficace ed efficiente dei propri processi. Gli asset intangibili, come ricordato, sono individuabili in parte nelle competenze e nelle soluzioni organizzative adottate e in parte proprio nella qualità e nell’intensità dei rapporti con soggetti esterni: il fatto di riuscire ad instaurare relazioni con clienti, fornitori, finanziatori ed enti/istituzioni in genere, improntate su una logica di collaborazione, diviene fondamentale per creare asset intangibili più difficilmente imitabili.

1.3. Un’organizzazione che apprende La Learning Organization è un modello di organizzazione che sviluppa modalità che permettono di migliorare conoscenze e competenze in grado di assicurare alla stessa azienda una migliore capacità di adattamento al cambiamento, allo sviluppo e alla crescita. «L’apprendimento organizzativo è il processo attraverso il quale i manager cercano di migliorare il desiderio e le abilità dei membri dell’organizzazione di comprendere e gestire la stessa organizzazione e il suo ambiente, così da prendere decisioni che aumentino continuamente l’efficacia organizzativa. Oggi, è vitale che le organizzazioni sappiano gestire l’apprendimento, proprio a causa del rapido ritmo di cambiamento che le influenza» (Jones, 2012, p. 329). L’ambiente che le organizzazioni oggi, come ricordato, si trovano ad affrontare è cambiato notevolmente rispetto al passato soprattutto in merito a determinati fattori chiave per la competitività, quali la globalizzazione dei mercati, i ci19

cli di vita sempre più brevi dei prodotti, l’evoluzione delle tecnologie, l’avvento di sistemi più potenti di comunicazione, il sorgere di nuove richieste da parte dei diversi stakeholder, il fatto di doversi misurare con situazioni nuove e dinamiche connesse ai mutamenti nelle esigenze dei clienti, la centralità del fattore tempo come elemento chiave capace di assicurare un certo vantaggio competitivo. Le nuove dinamiche competitive hanno portato a rivedere i paradigmi del passato e all’avvento di nuovi approcci correlati ad una gestione più efficace ed efficiente dell’organizzazione aziendale nel mondo moderno. Il cambiamento dei fattori fondamentali della competizione si è tradotto in un processo al quale le organizzazioni si devono necessariamente adattare; valori quali flessibilità, innovazione, apprendimento, assunzione del rischio, condivisione delle conoscenze sono oggi fondamentali per sopravvivere in un’arena competitiva globale. La tradizionale struttura per funzioni, utilizzata come modello base per la progettazione organizzativa (si veda il prossimo capitolo), con il nascere delle nuove dinamiche competitive si è dimostrata talora inappropriata per far fronte alle mutate esigenze ambientali, perché, a causa della sua rigidità di base, può limitare quei comportamenti mirati alla generazione di innovazione, fattore sempre più critico e determinante nel mondo odierno dove chi vuole sopravvivere deve tendere ad una continua analisi del processo di formazione del valore (Porter, 1987). Se si vuole stare al passo con il flusso dei cambiamenti, si devono attivare processi di apprendimento, si devono sviluppare strategie che mettano l’organizzazione in grado di “imparare” ed offrano la possibilità di cogliere gli stimoli del cambiamento provenienti dall’ambiente sia interno che esterno. Per far sì che ciò accada si devono attivare molteplici risorse destinate alla crescita ed al trasferimento delle competenze in una prospettiva di apprendimento continuo, vista come la generazione di un mutamento dei modelli mentali e dei codici di comportamento che hanno caratterizzato le organizzazioni basate su logiche tradizionali. Cooperazione ed apprendimento continuo costituiscono due variabili grazie alle quali “snellire” la struttura organizzativa e le attività da essa previste. L’apprendimento continuo si ottiene grazie alla messa in comune delle conoscenze e dell’adozione di un approccio volto ad una de-gerarchizzazione organizzativa. L’assimilazione di nuovi saperi appare incompatibile con un sapere concentrato in poche figure professionali e diventa necessaria una riduzione del livello di prescrizione delle specifiche attività da svolgere (Fabbri, 2003). Divenuti fondamentali i processi di acquisizione delle informazioni e di trasmissione delle conoscenze all’interno dell’azienda, una learning organization:

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 promuove l’apprendimento tra i suoi componenti ed apprende essa stessa da questo processo;  propone lo sviluppo di una cultura organizzativa in grado di creare un clima ed i sistemi necessari per assicurare un apprendimento continuo;  è in continuo cambiamento;  è dotata delle capacità necessarie per creare, acquisire e trasferire in maniera efficiente e veloce le conoscenze. Una learning organization si propone di operare in maniera innovativa, massimizzando il ruolo delle risorse umane ponendo l’individuo come centro di una fitta rete di relazioni informali al fine di condividere le conoscenze dei soggetti che ad ogni livello operano in essa. In questo modo si potrà reagire e adattarsi al meglio ogni qual volta si percepisce una necessità di cambiamento ricercando il miglioramento continuo delle prestazioni tramite l’apprendimento sia a livello individuale che collettivo. Questo approccio racchiude diversi aspetti, quali l’esigenza di gestire le correlazioni tra apprendimento e cambiamento, la necessità di legare tra loro conoscenza ed azione (l’organizzazione può apprendere se le conoscenze sono trasformate in comportamenti operativi), la verifica di quali competenze e qualità sono in grado di sostenere l’apprendimento. Punto cardine su cui l’organizzazione deve focalizzare il suo raggio d’azione è la trasformazione delle informazioni in conoscenze: la learning organization attinge ad un numero elevato di informazioni sia dall’ambiente esterno che dall’interno cercando di incanalarle in quella che si può definire la “spina dorsale” dell’organizzazione, cioè quel flusso di informazioni, di nuove idee, di conoscenze condivise, che deve attraversarla sia verticalmente che soprattutto in modo orizzontale cercando di mettere i soggetti interessati nella condizione di poter prendere le decisioni migliori e nel miglior tempo possibile (Volpato, 2006). Per rendere ciò possibile la learning organization spinge verso l’utilizzo di team di lavoro orizzontali e trasversali, formati da personale proveniente da aree funzionali diverse, verso la riduzione dei confini all’interno della stessa organizzazione per poter più facilmente condividere le conoscenze. Un’opportuna integrazione di conoscenze esplicite con quelle implicite rappresenta una soluzione in linea con gli obiettivi di apprendimento tipici di una learning organization. Proporre un modello di learning organization significa definire le caratteristiche fondamentali di un’organizzazione che fa dell’apprendimento una delle proprie competenze distintive. Essa ricerca costantemente il miglioramento, si confronta con l’esterno, è aperta ad ogni nuova soluzione, individua nuove opportunità, incoraggia l’assunzione del rischio valorizzando anche gli eventuali insuccessi al fine di trarre insegnamenti per il futuro, enfatizza l’importanza della condivisione delle conoscenze, del lavoro in team nel quale le stesse conoscenze e le informazioni possono essere condivise, cerca di ridurre le “barriere” 21

tra le diverse aree gestionali facendo comprendere i problemi e le necessità di ogni area, diffonde valori culturali che enfatizzano l’importanza del cambiamento, fa perno sulle risorse umane, sulla capacità di sviluppare proficue relazioni con altre organizzazioni, ricerca partner fidati con cui costruire rapporti di collaborazione, enfatizza la responsabilizzazione dei dipendenti dotandoli delle capacità di far fronte alla soluzione di problemi, ricerca innovazioni sia di prodotto che di processo per cercare di stimolare attivamente il cambiamento senza attendere in maniera passiva il succedersi degli eventi, si fa incubatrice di idee facendo si che informazioni, conoscenze, proposte possano liberamente circolare ad ogni livello dell’organizzazione, enfatizza l’importanza di una leadership partecipativa che incoraggi e stimoli i dipendenti ad un impegno comune incentivando atteggiamenti positivi e il miglioramento continuo, cerca di favorire la creazione di un clima organizzativo coerente con le caratteristiche indicate, non si “culla sugli allori” ma cerca di apprendere anche dagli insuccessi, è fortemente orientata ai bisogni dei clienti. Per far sì che tutto ciò possa essere applicato concretamente la learning organization dovrà dotarsi dei mezzi necessari per agevolare l’apprendimento continuo, in modo da generare costanti processi di adattamento alle turbative provenienti dall’ambiente esterno. In questa ottica la ricerca del miglioramento continuo diventa un punto cardine e si può perseguire sia agendo all’interno dell’organizzazione (con interventi in termini di formazione, di comunicazione interna, di capacità di problem solving, ecc.) che tramite l’acquisizione di informazioni dall’esterno, mediante la ricerca di feedback dai clienti e dai fornitori, di alleanze strategiche, ecc. Una delle caratteristiche distintive di una learning organization è una forte cultura adattiva che incorpora valori quali, ad esempio, la consapevolezza che il tutto è più importante delle singole parti, ciò che consente di ridurre i “confini” sia all’interno dell’organizzazione e sia rispetto ad altre aziende; la disponibilità a mettere in discussione lo status quo, aprendo le porte all’assunzione di rischi, al cambiamento (Bonazzi & Negrelli, 2003). Sulla strada dello sviluppo di una learning organization possono, però, emergere degli ostacoli, delle resistenze che si oppongono ai cambiamenti. Proprio la paura del cambiamento può portare, come avremo modo di meglio analizzare in seguito, alla conservazione di certi procedimenti anche quando la ragione della loro esistenza è venuta meno a causa dei cambiamenti esterni. Una condizione fondamentale per la realizzazione di un’organizzazione che apprende è quindi costituita dall’apertura dei collaboratori nei confronti dei cambiamenti. Ma detta apertura in genere non prenderà piede da sola; per favorire questo processo di cambiamento mentale, l’organizzazione deve cercare di creare un sistema di apprendimento che coinvolga il maggior numero possibile 22

di collaboratori e offra l’opportunità di portare nel processo di cambiamento le proprie esperienze e conoscenze. Strumenti come il coaching, il mentoring, i programmi formativi possono essere sfruttati per attivare un processo di apprendimento continuo. Ma quali in concreto possono essere le mosse da intraprendere per incanalare un’organizzazione nel circolo virtuoso dell’apprendimento collettivo al fine di costituire una realtà che migliori continuamente nel tempo? Quali possono essere gli strumenti in grado di contribuire a cambiare un’organizzazione in una learning organization in cui tutti gli attori al suo interno tendono al miglioramento continuo? La risposta a queste domande si può ricondurre all’osservazioni in base alla quale l’apprendimento di un’organizzazione si configura come un processo che si sviluppa nel tempo, collegando l’acquisizione di conoscenze al miglioramento delle performances. Una learning organization è un’organizzazione dotata degli skills necessari per creare, acquisire e trasferire conoscenze e per modificare il proprio comportamento in modo da rispecchiare le nuove conoscenze e le nuove intuizioni di fondo. Come creare un’organizzazione che apprende? Si può cercare di accrescere le capacità del proprio personale, ad ogni livello dell’organizzazione, di analizzare le modalità in base alle quali l’organizzazione sta svolgendo le sue attività e di sperimentare nuovi metodi di cambiamento per aumentarne l’efficacia. Lo stesso apprendimento può essere incoraggiato a diversi livelli:  a livello individuale: l’obiettivo è quello di facilitare i singoli soggetti ad incrementare le propri competenze e abilità personali, contribuendo alla creazione delle competenza distintive dell’organizzazione;  a livello di gruppo: l’obiettivo è quello di far sì che i soggetti interessati possano condividere o mettere in comune le proprie competenze ed abilità per risolvere problemi;  a livello organizzativo: l’obiettivo è quello di definire una soluzione organizzativa in grado di favorire i processi di apprendimento;  a livello interorganizzativo: l’obiettivo è quello per l’organizzazione di riuscire a migliorare la propria efficacia ed efficienza confrontandosi con altre organizzazioni: «le organizzazioni possono incoraggiare l’apprendimento (…) collaborando con i loro fornitori e distributori allo scopo di trovare dei modi nuovi e migliori per gestire gli input e gli output. Sistemi informatici estesi a più organizzazioni, alleanze strategiche, network di imprese sono importanti veicoli per aumentare la velocità alla quale avviare il nuovo apprendimento, perché aprono l’organizzazione all’ambiente e danno ai suoi 23

componenti nuove opportunità di sperimentare e trovare nuovi modi per aumentare l’efficacia» (Jones, 2012, p. 331). In questo contesto emerge l’importanza di una disponibilità alle sperimentazioni, adottando nuovi approcci per la risoluzione di specifici problemi (elementi caratterizzanti della maggior parte dei programmi di miglioramento continuo); ad apprendere dalle esperienze passate (riflettere su successi ed insuccessi, come ricordato, valutandoli in modo sistematico: alla base di questo approccio c’è un atteggiamento mentale che mette in grado le organizzazioni di riconoscere il valore degli insuccessi produttivi rispetto ai successi improduttivi, dove un insuccesso produttivo è quello che determina una capacità di analisi approfondita ed una comprensione che danno origine ad un incremento della conoscenza della stessa organizzazione, mentre un successo improduttivo è quello che si verifica quando tutto va bene, ma nessuno sa come e perché); ad imparare dalle esperienze altrui (attivare azioni di benchmarking, cioè una ricerca di apprendimento che si basa sull’analisi e lo studio delle migliori best pratics del settore); al trasferimento di conoscenze all’interno di tutta l’organizzazione (diffusione di report, spostamenti di personale tra siti o unità organizzative diverse della stessa azienda, interventi formativi, ecc.) (Costa & Nacamulli, 1997). L’apprendimento organizzativo può essere allora sinteticamente descritto mediante tre tappe parzialmente sovrapposte: il primo passo è di tipo cognitivo, nel senso che i soggetti interessati vengono esposti alle nuove idee, estendendo le loro conoscenze ed iniziano a pensare diversamente; il secondo passo è di tipo comportamentale, nel senso che i dipendenti iniziano ad interiorizzare le nuove visioni e a modificare il loro comportamento; il terzo passo consiste nel miglioramento delle prestazioni, con cambiamenti nel comportamento che portano a miglioramenti misurabili nei risultati. Per rendere concreti tali miglioramenti è importante riuscire a sviluppare nell’organizzazione un “ambiente” che sia favorevole all’apprendimento. In questa direzione si inserisce la tendenza, che sarà meglio analizzata in seguito, di rendere più labili i confini sia tra le diverse unità organizzative e sia con altre organizzazioni (fornitori, clienti, ecc.) per assicurare un flusso di idee nuove e per offrire l’occasione di meglio valutare le situazioni correnti. Ciò aiuta a ridurre le citate barriere che possono ostacolare i processi di apprendimento e che spostano lo stesso più in alto nella scala delle priorità dell’organizzazione. Evidente appare ancora una volta la rilevanza del fattore umano per far si che il sistema abbia successo: scarsi, invece, sarebbero i risultati conseguibili dall’utilizzo di specifici strumenti se non si facesse leva sulle risorse umane quale elemento determinante per lo sviluppo di una learning organization. In questa direzione significativi contributi hanno riguardato i temi dell’empower-

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ment, della flessibilizzazione dei comportamenti, del citato lavoro in team, della leadership capace di produrre visioni condivise (Albertini & Leone, 2009). L’accrescimento della centralità delle conoscenze ha contribuito a rivedere le modalità in base alle quali le stesse persone sono formate, motivate, premiate, allo scopo di valorizzare efficacemente le competenze. «Nello scenario attuale governato da mutamenti profondi, che vede l’evoluzione verso un modello di knowledge based economy, basato sul possesso e sullo scambio di informazioni, le imprese mostrano un interesse crescente per l’utilizzo della conoscenza che esiste e si sviluppa continuamente all’interno delle organizzazioni. La capacità delle organizzazioni di gestire attività e processi secondo modalità che favoriscono la generazione di conoscenza, in modo tale che essa possa essere utilizzata e condivisa al proprio interno, è divenuta un autentico asset competitivo. (…) Creare conoscenza è sinonimo di accrescimento del patrimonio di risorse immateriali dell’impresa, di innovazione, di miglioramento della qualità e della disponibilità di informazioni, sia all’interno che all’esterno dell’impresa» (Colurcio & Mele, 2005, p. 247). Al riguardo appare importante ricordare come il conseguimento del vantaggio competitivo non è legato solo alla disponibilità delle diverse risorse, ma alle differenti caratteristiche delle stesse e delle relative modalità di combinazione e di impiego da parte delle singole organizzazioni. In tale contesto, si può sottolineare che «l’essenza del miglioramento continuo è un processo permanente di creazione di conoscenza con lo scopo di imparare e migliorare, nel senso che l’impresa deve essere capace di imparare dall’esperienza e, quindi, di produrre prodotti migliori in modo più efficiente» (Colurcio & Mele, 2005, p. 251). Ciò ricordando che la conoscenza organizzativa non rappresenta la semplice somma delle conoscenze individuali, ma è il risultato delle interazioni tra i vari soggetti interessati. Con il concetto di conoscenza si può intendere un insieme di esperienze, valori, informazioni che definisce un “quadro” all’interno del quale valutare ed incorporare nuove esperienze ed informazioni. Si tratta di un concetto legato alla persona e frutto dell’esperienza, capacità, intuizione della singola persona che lavora nell’organizzazione (conoscenza tacita). Al riguardo emerge il rischio di perdere tale conoscenza a seguito dell’uscita del soggetto dall’azienda. È opinione comune che in un contesto economico come quello attuale, la creazione di valore dipenderà sempre più dalla capacità di un’organizzazione di sviluppare e gestire al meglio il proprio patrimonio di conoscenze. Per far fronte al contesto attuale occorre avere a disposizione una varietà di strumenti e di metodologie gestionali che facilitino un’efficiente creazione e scambio di conoscenze a tutti i livelli dell’organizzazione con il fine di creare valore per l’azienda. 25

La conoscenza non è di per se statica ma va continuamente rinnovata ed accresciuta per far fronte alle sempre nuove esigenze che l’organizzazione dovrà essere in grado di fronteggiare; si parla di disponibilità all’apprendimento, cioè ogni soggetto deve porsi l’obiettivo di aggiornare e rinnovare il proprio bagaglio di conoscenze e cogliere tutte le occasioni di apprendimento durante la sua esperienza di lavoro. Si può parlare di una diffusione a livello organizzativo delle conoscenze create dagli individui generando la citata conoscenza organizzativa o esplicita, ove la conoscenza esplicita è una conoscenza codificata, formalizzata in documenti, procedure, facilmente trasmissibili e conservabili. I soggetti che operano nelle organizzazioni si scambiano e condividono le conoscenze esplicite e ciò può consentire un miglioramento delle stesse nel tempo. Resta il fatto che la conoscenza tacita è la vera fonte della innovazione e delle capacità decisionali e, quindi, è quella che ha maggior valore strategico per l’organizzazione (importanza di riuscire a mantenere all’interno dell’organizzazione tali conoscenze). In definitiva creare conoscenza organizzativa significa attivare un processo di conversione della conoscenza tacita in esplicita. In tale ottica il Knowledge Management è un complesso di politiche gestionali e di strumenti tecnologici attraverso cui l’organizzazione promuove la gestione delle conoscenze utili alle proprie finalità. Studia le metodologie per una corretta gestione e distribuzione delle conoscenze a tutti i livelli organizzativi con l’obiettivo di fare in modo che ci siano le conoscenze giuste nelle persone giuste al posto giusto nel momento giusto per prendere le migliori decisioni possibili (Trevisani, 2007). Occorre cercare di dare risposte concrete alle seguenti domande:     

Come acquisire nuovi portatori di conoscenze? Come valorizzare e fidelizzare i portatori di conoscenze? Come generare nuova conoscenza attraverso l’apprendimento continuo? Come riuscire a condividere le conoscenze all’interno dell’organizzazione? Come attingere alle conoscenze di esperti esterni da combinarsi con le conoscenze esistenti all’interno dell’organizzazione?  Come valorizzare gli strumenti offerti dalla tecnologia informatica nella gestione delle conoscenze? Gestire le conoscenze significa, allora, cercare di attrarre conoscenze (agire sulla ricerca di personale, sui rapporti con il mondo dell’istruzione e della ricerca, ecc.); valorizzare le conoscenze (attribuire attività che consentano ai soggetti di valorizzare le loro conoscenze e capacità, creare un contesto di lavoro adeguato, ecc.); incentivare e mantenere le conoscenze (ricerca di adeguati livelli di incentivazione, monetaria e non, allo scopo di riuscire ad agire sugli aspetti mo26

tivazionali per riuscire a “fidelizzare” i soggetti portatori di conoscenze); diffondere le conoscenze nell’organizzazione mediante processi di affiancamento, di tutorship, i supporti resi disponibili dall’evoluzione dell’ICT (grazie alla rete intranet i responsabili dei diversi stabilimenti produttivi possono non solo scambiare le informazioni ma anche condividere conoscenze per meglio svolgere la loro attività e risolvere eventuali problemi che si possono presentare). In un approccio resource-based l’obiettivo da perseguire è quello di “ricombinare” continuamente e vantaggiosamente le competenze a disposizione. In questa ottica diventa necessario, tra l’altro, migliorare la qualità dell’offerta formativa (l’obiettivo è quello di creare reali competenze professionali e non solo la capacità di eseguire compiti predefiniti), sviluppare tecniche di on-the-job training, come il mentoring e il coaching al fine di supportare il recepimento di approcci comportamentali in grado di favorire processi di auto-miglioramento. L’analisi svolta non sarebbe completa se non si accennasse ad uno strumento oggi assai diffuso per l’analisi del funzionamento del sistema organizzativo: l’autovalutazione (self-assessment). L’autovalutazione è un processo di analisi che l’organizzazione, o una sua unità, compie su se stessa al fine di valutare i risultati ottenuti, le proprie performances, i fattori critici di successo alla base del proprio sistema di gestione, così come anche i propri punti di debolezza. Il suo scopo è quello di comprendere lo stato e le potenzialità della stessa organizzazione, in particolar modo in relazione alle competenze e alle capacità ritenute necessarie per il raggiungimento dei propri obiettivi. Essa «rappresenta l’occasione per effettuare una diagnosi approfondita che avvia ed arricchisce il processo di apprendimento organizzativo, non solo consentendo la verifica di quanto avvenuto relativamente alle prestazioni aziendali, al miglioramento realizzato e al sottostante apprendimento, ma fornendo importanti input al successivo processo di pianificazione del miglioramento di attività, processi, risorse, competenze» (Colurcio & Mele, 2005, p. 236). La natura pervasiva dell’analisi svolta la rende un valido metodo per contribuire a valutare il valore creato per tutti gli stakeholder, interni ed esterni. L’autovalutazione è un processo che può interessare l’intera organizzazione coinvolgendo chi nella stessa lavora quotidianamente e ne conosce i meccanismi di funzionamento per favorire un’analisi critica, in senso costruttivo, dei risultati ottenuti. Da un punto di vista metodologico si può partire da una valutazione di quanto emerge da indagini volte a capire il grado di soddisfazione sia esterna (clienti, fornitori, ecc.) e sia interna (desumibile da precedenti esperienze di autovalutazione) per individuare le criticità su cui concentrare l’attenzione. Una volta individuati questi aspetti occorre cercare di risalire alle cause degli stessi, per 27

poi raccogliere le valutazioni delle persone che nell’organizzazione lavorano, i loro punti di vista, le loro percezioni. Si tratterà poi di fare una sintesi di quanto raccolto per individuare i piani di miglioramento. Il risultato della diagnosi consente al management di disporre di un insieme di indicatori sulle proprie capacità di contribuire al processo di produzione e diffusione del valore. L’autovalutazione può essere considerata come la fase Check di un ciclo PDCA applicato all’intero sistema organizzativo che inizia con la pianificazione annuale delle azioni di miglioramento (fase Plan), si svolge durante l’anno attraverso la relativa implementazione (fase Do); la fase Act, di conseguenza, comporta in primo luogo l’esame dell’output del processo di autovalutazione ed il consolidamento e l’estensione degli eventuali progressi realizzati e, in secondo luogo, la ridefinizione degli obiettivi e delle strategie, ciò che costituisce l’input di un nuovo ciclo PDCA. Si può, quindi, affermare che, nel rendere l’organizzazione capace di cogliere i segnali deboli dall’esterno e dall’interno, per adeguare i propri comportamenti ai cambiamenti di scenario, nel tentativo anche di anticiparli, l’autovalutazione diviene uno strumento che favorisce lo sviluppo di una learning organization, un’organizzazione nella quale le persone possono aumentare continuamente le loro capacità di raggiungere i veri risultati cui mirano, nella quale si stimolano nuovi modi di pensare e le stesse continuano ad imparare come apprendere insieme. Un ulteriore aspetto su cui riflettere riguarda lo sviluppo di reti di apprendimento, tema del quale si è già fatto cenno e che sarà ripreso nell’ultimo capitolo. In termini di learning organization è evidente che l’apprendimento non riguarda solo la compatibilità dei modelli mentali e della condivisione delle conoscenze all’interno del medesimo ambito ma si allarga al confronto/dialogo tra organizzazioni diverse e all’innesco di spirali della conoscenza non riferibili alla stessa matrice culturale. Organizzazioni anche di diverse dimensioni si articolano in reti, funzionali ai processi di condivisione delle conoscenze, nelle quali si possono attivare aggregazioni organizzative volte alla realizzazione di specifiche attività il cui spazio di esplicazione delle competenze è in qualche modo sottratto al rigido controllo di una singola organizzazione (Lorenzoni, 1992). Recenti esperienze mostrano la vitalità di esperienze definite come “learning network”, cioè forme di apprendimento legate al miglioramento delle iterazioni tra le conoscenze di cui sono portatrici organizzazioni diverse. Lavorare, apprendere e innovare, da questo punto di vista, sono tutte attività basate sulla trasformazione di conoscenze nel senso di una continua circolazione ed uso delle stesse possedute dalle organizzazioni interessate e sulla creazione di nuova conoscenza in risposta ai bisogni di innovazione. Conoscenze esplicite ed implicite si sinergizzano a vicenda nel contesto di lavoro per raggiungere un equilibrio 28

dinamico tra know what (il livello teorico) e know how (il livello pratico) senza che l’uno o l’altro vengano dominati. Un simile risultato potrebbe consentire a organizzazioni indipendenti, ma collegate in rete, di operare come un’unica entità e di raggiungere traguardi importanti. Team interaziendali permetterebbero, infatti, la creazione di legami collaborativi, anche se immateriali, più di quanto non possa fare un contratto formale. Se l’ostacolo alla formazione di tali team è costituito esclusivamente dall’impossibilità di frequenti incontri personali dovuti alla distanza fisica delle diverse organizzazioni, queste possono sostenere le comunicazioni attraverso tecnologie informatiche che permettono i collegamenti necessari affinché le diverse realtà possano interagire in tempo reale e, quindi, essere produttive per la rete. I team di lavoro interorganizzativi, a tal proposito, rappresentano uno dei più validi strumenti a disposizione delle reti per attivare quei meccanismi di socializzazione ed integrazione indispensabili non solo per ottenere importanti risultati dal punto di vista operativo, ma anche per aumentare il livello di fiducia tra le diverse organizzazioni. Le caratteristiche proprie di una learning organization possono, quindi, essere riprese e adattate al contesto di una rete di organizzazioni. Se in questa si creano team interorganizzativi, se la fiducia reciproca tra i componenti è elevata, i flussi di conoscenza scorrono fluidi nelle organizzazioni e fra di esse, se esiste una cultura condivisa, allora diventa possibile sviluppare il concetto di learning network. In tale contesto un ruolo determinante, come già ricordato, è assunto dalla creazione di team interorganizzativi, cioè team composti da soggetti appartenenti alle diverse realtà della rete e che possono essere utilizzati per la realizzazione di determinati progetti comuni. Il lavoro in team può altresì contribuire ad avvicinare le culture dei singoli componenti per un’integrazione sempre più profonda tra le diverse organizzazioni (Petitta & Mainardi, 2012). Il team più adatto per la realizzazione di uno specifico progetto può essere composto mediante l’utilizzo di una mappa delle conoscenze presenti all’interno della rete. Questa dovrebbe includere capacità, conoscenze tecniche, esperienze passate e le aspettative lavorative di tutti coloro che operano all’interno delle diverse organizzazioni. Disporre di una mappa delle conoscenze consente di individuare la distribuzione del know how all’interno della rete e permette anche di avere un più facile accesso al patrimonio conoscitivo comune. Un learning network può essere supportato da tecnologie appropriate di comunicazione e, in effetti, la dimensione tecnologica è intrinseca nello sviluppo di questi network ma l’analisi deve puntare non solo sull’identificazione dei fattori di successo di natura tecnica ma anche sulla possibilità che gli attori coinvolti utilizzino le tecnologie con un atteggiamento che le renda effettivamente di supporto alla circolazione delle conoscenze. Le riflessioni svolte sulle caratteristiche di una learning organization, nel29

l’ottica di porre maggiore enfasi sugli aspetti ritenuti fondamentali per la costituzione e l’avvio di un vero e proprio cambiamento organizzativo, si possono ricollegare al centrale concetto di sinergia. Un’analisi approfondita del mondo economico in generale porta alla convinzione che si debbano rivedere i paradigmi del passato in merito alla gestione di un’organizzazione, soprattutto per ciò che riguarda determinati fattori chiave di successo in un contesto competitivo divenuto globale. Lo sviluppo di una learning organization è un buon punto di partenza di un diverso modo di fare impresa, basato su fattori quali le risorse umane, la flessibilità, l’apprendimento, il cambiamento, la sinergia tra i vari attori coinvolti. Il concetto di sinergia nel mondo aziendale viene definito come l’effetto cumulativo che risulta dall’attività simultanea dei vari organi e processi aziendali con un’azione olistica in cui la somma delle parti unitariamente valutata è maggiore del risultato addizionale delle singole parti considerate: l’effetto globale è quindi maggiore di quello strettamente complessivo. La sinergia in questi termini è concetto abbastanza allargato che, per essere utilmente impiegato nell’ambito di una learning organization, merita alcune precisazioni. Innanzitutto si può affermare che una learning organization si basa su alcuni assunti fondamentali che si possono sintetizzare nella capacità della stessa organizzazione di adattarsi ai cambiamenti in maniera positiva e, altresì, nella capacità di apprendere continuamente agevolando lo scambio di conoscenze a tutti i livelli dell’organizzazione. Si può parlare di un’organizzazione flessibile e dinamica, che tende ad uno stato di predisposizione al cambiamento, dove i confini tra le diverse aree gestionali sono molto attenuati; un’organizzazione caratterizzata da una forte cultura interna che enfatizza l’assunzione dei rischi e la responsabilizzazione dei dipendenti, aperta al mondo esterno, sensibile e reattiva ai mutamenti ambientali, attrice e fautrice essa stessa del cambiamento, in cui le conoscenze tacite sono condivise fra i vari attori al fine di accrescere la conoscenza organizzativa, che è aperta ad entrare in network dell’apprendimento, che evidenzi l’importanza di una leadership partecipativa che incoraggi e stimoli tutti i collaboratori e nella quale l’ICT viene utilizzata efficientemente come strumento per tendere al miglioramento continuo delle performances (Profili, 2004). Partendo da questi attributi appare evidente come il sistema interamente considerato risulti sinergico: se le varie parti non tendessero naturalmente ad un unico fine integrandosi tra di esse per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione nel suo complesso, il tutto verrebbe meno. La sinergia tra le varie parti di un’organizzazione è un concetto universalmente riconosciuto e considerato di notevole importanza, ma oggi assume ancor più rilevanza in relazione alle dinamiche competitive, correlate alla dinamicità e complessità ambientale. Se immaginiamo il sistema organizzativo come un insieme in cui risorse umane, tecniche, produttive, finanzia30

rie, di conoscenza, materiali, immateriali, ecc. si combinano tra di esse al fine di perseguire la massimizzazione delle stesse in termini di produttività, lo si può considerare come un sistema di diverse energie che danno vita ad una combinazione in grado di garantire adeguati risultati in termini di efficacia e di efficienza. Sinergizzare tutte le varie energie presenti nella combinazione aziendale vuol dire far sì che ognuna di queste tenda ad un unico obiettivo: l’equilibrio economico a valere nel tempo (Giannessi, 1970). In tale ottica si può parlare di learning organization quando ogni singola parte del sistema abbia ben presente il modo in cui tutto si lega insieme, i rapporti tra le singole parti dell’organizzazione, l’influenza delle proprie azioni sulle altre parti e sulla stessa organizzazione nel suo complesso. In questo contesto la cultura organizzativa e le sue specificità assumono un ruolo molto rilevante per un’implementazione di successo di una learning organization: limitata sarebbe l’efficacia della formazione di team di lavoro, della rotazione del personale, della riduzione dei confini tra le diverse aree funzionali, di soluzioni organizzative in linea con gli obiettivi di apprendimento, cambiamento, innovazione, flessibilità, se il tutto non fosse sostenuto da una forte cultura aziendale che incoraggi i dipendenti ad una modifica dei loro modelli mentali, indirizzandoli verso un obiettivo comune a tutta l’organizzazione (Bodega, 1996). In altri termini, si può affermare che l’applicazione di determinati strumenti organizzativi per costituire una learning organization, per perseguire programmi di sviluppo, per muoversi nell’ottica dell’orientamento alla qualità e al miglioramento continuo, per creare network interorganizzative, sono tutti requisiti necessari ma non sufficienti se non integrati con un’adeguata gestione delle risorse umane.

1.4. I fattori caratterizzanti di un’organizzazione Un’organizzazione si caratterizza per la sua mission 2 che individua gli scopi istituzionali della stessa (che cosa fa? Perché esiste?); essa, cioè, individua le 2

A titolo esemplificativo possiamo fare un esempio di mission di una azienda del settore chimico: “forti delle nostre competenze scientifiche, tecniche e commerciali, forniamo con responsabilità prodotti e servizi innovativi nell’ambito del settore chimico e della salute umana, per offrire ai nostri clienti, azionisti e collaboratori un valore aggiunto in continua crescita, nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile e compatibile con le aspettative legittime di tutti i nostri interlocutori”; mentre un esempio di mission di una azienda del settore industriale che opera su commessa è: “sviluppare con ogni singolo cliente una partnership di lungo periodo, offrire costantemente soluzioni innovative, sostenere la continua crescita professionale delle persone nel rispetto dei valori socio-aziendali, cogliere le opportunità del contesto internazionale, essere discreti ed integri sia in azienda che fuori”.

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motivazioni fondamentali dell’esistenza della stessa organizzazione. La mission comunica ai dipendenti, ai clienti, ai fornitori e agli investitori le finalità della medesima e una legittimazione nei confronti degli stakeholder in merito agli stessi obiettivi dichiarati. Ogni organizzazione nasce ed ha la sua ragione d’essere in una certa finalità primaria che assume il valore di priorità assoluta rispetto a tutte le altre variabili componenti l’organizzazione stessa. La mission rappresenta quindi l’elemento fondamentale sulla base del quale il sistema si organizza al proprio interno; essa orienta tutti i comportamenti, le scelte e le decisioni dei componenti dell’organizzazione (Bartezzaghi, 2010). In una visione pragmatica di un’organizzazione come “mezzo” per raggiungere risultati attesi, si possono acquisire altri elementi di logica organizzativa che consentono di approfondire la natura stessa dell’organizzazione e l’apprezzamento del senso problematico delle questioni legate al fatto di riuscirle a gestire con successo. L’esistenza della citata mission definisce la stessa ragion d’essere dell’organizzazione, conferendo alla stessa le caratteristiche di un’entità unitaria che persegue un fine comune; essa viene a definire le finalità fondamentali che l’organizzazione intende perseguire. Ciò mentre la vision esprime ciò che la stessa si propone di divenire entro un determinato tempo futuro, riducendo il rischio di scelte casuali. La stessa mission si scompone, comunque, in sotto-obiettivi, allo scopo di potersi realizzare. In tal modo l’organizzazione si presenta come un insieme gerarchicamente ordinato di obiettivi (Fontana & Caroli, 2012). Coerentemente con la sua mission l’organizzazione definisce, quindi, i propri obiettivi strategici, cioè proiettati in un’ottica temporale di medio-lungo periodo e definiti valutando le minacce e le opportunità esterne nonché i punti di forza e di debolezza interni. In effetti, la definizione di una strategia parte da un’attenta analisi del contesto esterno (minacce ed opportunità) e di quello interno (punti di forza e di debolezza): ciò consente di realizzare un’analisi, a fronte delle opportunità (opportunities) e delle minacce (threats) ambientali, dei propri punti di forza (strenght) e di debolezza (weaknesses), una swot analysis, che può permettere di individuare le potenziali minacce esterne da considerare nel momento in cui si investe, ad esempio, in un determinato progetto, le potenziali opportunità esterne, cioè le occasioni che possono favorire il successo dell’investimento, i punti di forza potenziali che giustificano lo stesso investimento, i punti di debolezza, ossia gli aspetti da potenziare e su cui investire, nonché di analizzare scenari alternativi di intervento e di supportare l’impostazione di una strategia coerente rispetto al contesto in cui si interviene. La stessa strategia definisce gli obiettivi che si intendono perseguire (ad esempio, in termini di innovazione, di ricerca, di marketing, di riduzione dei costi, di sviluppo 32

del personale, ecc.); valuta la congruenza delle risorse disponibili con il raggiungimento degli obiettivi; cerca di valorizzare al meglio le risorse interne ed esterne; si preoccupa di definire modalità di valutazione delle scelte adottate (controllo strategico), ciò che potrebbe portare, eventualmente, a rivedere gli stessi obiettivi definiti. Sempre rispettando il vincolo di coerenza, si sviluppano obiettivi operativi più specifici che indicano ciò che effettivamente l’organizzazione sta cercando di fare. L’ottica temporale di riferimento è di breve periodo ed essi possono riguardare, ad esempio, le modalità di acquisizione delle risorse necessarie, di svolgimento di determinate attività, di realizzazione delle azioni di addestramento e formazione del personale, ecc. A fronte di questo complesso di obiettivi emerge, per riuscire a perseguire risultati in termini competitivi, l’importanza di adeguate capacità organizzative, legate alla finalità di riuscire a coordinare al meglio le risorse (generando sinergie) cercando di valorizzarle e di perseguire continui miglioramenti nel tempo (Nacamulli, 1993). La presenza di un fine comune e di un’articolazione di sotto-obiettivi può determinare nell’organizzazione situazioni di contraddittorietà, fenomeno considerabile fisiologico rispetto al perseguimento dell’obiettivo comune. Si può affermare, anzi, che fare organizzazione significa saper affrontare situazioni di conflittualità per trovare nuovi punti di equilibrio o controllare i disequilibri. Si pensi, ad esempio, alla criticità dei rapporti tra gli obiettivi dell’area responsabile della produzione e quelli dell’area commerciale relativamente alla possibilità di introdurre significative modifiche sui prodotti realizzati e collocati sui diversi mercati di vendita: la prima area ha come riferimento la minimizzazione del costo unitario del prodotto, la seconda la massimizzazione del fatturato differenziando e adattando i prodotti alle specifiche richieste dei mercati di riferimento. Le tensioni che si determinano sono la conseguenza del fatto che non è plausibile ottimizzare totalmente ogni singolo obiettivo: l’estremizzazione dell’ottimizzazione di un sotto-obiettivo può produrre disottimizzazione negli altri e può limitare il perseguimento dell’obiettivo complessivo. Altri esempi di situazioni che possono generare tensioni nell’organizzazione sono l’allocazione delle risorse, il dilemma tra perseguire obiettivi di profitto a lungo termine o a breve termine, il rapporto quantità/qualità. L’“ottimo” generale non è, quindi, la somma dei diversi sub-ottimi, ma ricercare l’ottimizzazione significa perseguire continuamente punti di equilibrio ove diventa possibile anche accettare un’ottimizzazione inferiore del singolo sotto-obiettivo in favore dell’ottimizzazione dell’obiettivo globale (tornando all’esempio del rapporto tra l’area della produzione e quella commerciale un punto di equilibrio potrebbe rinvenirsi nell’ipotesi in cui l’aumento dei costi, legati 33

alla produzione, sia compensato da un aumento più che proporzionale dei ricavi di vendita). Se un’organizzazione è alla ricerca continua di punti di equilibrio, l’analisi degli elementi di base della stessa logica organizzativa porta a riflettere su un altro importante concetto: nel momento in cui la stessa opera in un contesto caratterizzato da elevate complessità e dinamicità, dalla necessità di dover fronteggiare continuamente elementi di novità, sempre meno prevedibili, emerge la tensione verso un continuo miglioramento. Come già ricordato, la perfezione non esiste come concetto organizzativo, ma ad esso si sostituisce la continua tensione al miglioramento dei risultati ottenuti, combinando opportunamente requisiti di efficacia e di efficienza. Nel perseguire la propria mission, variando il sistema di variabili che compongono l’ambiente di riferimento, è importante la capacità di apprendere da parte della stessa organizzazione, di trasformare i segnali che provengono dall’esterno, così come anche dall’interno, in attività e metodologie in grado di fornire risposte adeguate. Emerge, quindi, il ruolo del citato apprendimento organizzativo (un apprendimento, cioè, che non investe solo i suoi singoli componenti), quale condizione, riflettendo sui suoi successi o insuccessi, valorizzando le conoscenze fatte proprie dalla stessa organizzazione, per perseguire efficacemente i propri obiettivi attraverso modalità di azione efficienti. La logica dell’organizzazione che apprende, del resto, prevede l’esigenza per il sistema di mantenersi aperto, avendo così la possibilità di percepire i segnali che provengono dall’esterno e di attivare adeguate risposte verso l’ambiente, in un’ottica che rende proattiva la stessa mission dell’organizzazione, ciò nella convinzione che una risposta potrà essere tanto più adeguata quanto più sarà stata capace di prendere in esame tutte le variabili che la compongono e su cui va ad agire. Solo, quindi, considerando l’organizzazione in base alle sue logiche di funzionamento diventa possibile intenderla come un sistema articolato e complesso ed esaminarla con completezza nelle sue dinamiche e specificità. Come ricordano Costa e Gubitta (2008) solitamente la scelta di cosa produrre è un onere della strategia mentre il come produrre è un compito dell’organizzazione. Questa ripartizione ha originato il paradigma strategia-struttura di Chandler che postula una relazione lineare. Una volta che l’imprenditore ha stabilito la strategia sceglierà la struttura più idonea ad implementarla. Questa relazione funziona in ambienti stabili e semplici e dove le conoscenze sono accentrate al vertice. Nel caso in cui si sia in presenza di un ambiente complesso e variabile la strategia e la struttura si condizionano reciprocamente e sono esposte alle influenze dell’ambiente. In questo caso si parla di un approccio interdipendente (Costa & Gubitta, 2008). Per meglio comprendere le caratteristiche ed il funzionamento di un’orga34

nizzazione si possono considerare una serie di elementi o dimensioni che ne descrivono i tratti peculiari e che interagiscono nella stessa progettazione organizzativa; essi si dividono essenzialmente in due categorie: strutturali e contestuali (Daft, 2010). Le dimensioni strutturali descrivono le caratteristiche interne di una organizzazione mettendo in evidenza la preponderanza della stabilità o della flessibilità come valore organizzativo dominante e sono rappresentate da:      

formalizzazione; specializzazione; gerarchia; centralizzazione; professionalità; indicatori del personale.

La formalizzazione si riferisce alla tipologia di rapporti interpersonali presenti nell’organizzazione, al livello di definizione delle mansioni e della struttura organizzativa (da semplice, cioè scarsamente formalizzata, fino a diventare ben definita negli organigrammi formali) e alla quantità di documentazione scritta relativa al funzionamento dell’organizzazione. Nella documentazione sono comprese, a titolo di esempio, le procedure (specificano formalmente le modalità da seguire per compiere una determinata attività, indicando il relativo oggetto, ciò che deve essere fatto e chi lo deve fare, quali risorse devono essere utilizzate, cosa documentare formalmente in relazione a quanto compiuto al fine di agevolare la fase di controllo), i mansionari, i regolamenti e i manuali che descrivono i comportamenti che i soggetti devono tenere all’interno dell’organizzazione. La specializzazione individua il grado in cui i compiti organizzativi sono suddivisi tra le varie posizioni lavorative e può assumere una dimensione alta o bassa. Nel primo caso ad ogni dipendente è affidata una ristretta gamma di compiti, mentre nel secondo questi ultimi sono più ampi e quindi il soggetto è in grado di svolgere più compiti. Si tratta di una caratteristica riconducibile al concetto stesso di divisione del lavoro. La gerarchia esprime la relazione che intercorre tra gli organi aziendali (“chi riporta a chi”) ed è rappresentata visivamente dalle linee verticali di un organigramma (linee di dipendenza gerarchica). Ciò consente di individuare, altresì, il numero dei livelli gerarchici presenti in un’organizzazione; questo tenendo presente che più alto è il numero di tali livelli e più si può presentare il rischio che le informazioni subiscano distorsioni man mano che fluiscono lungo la gerarchia: le figure direttive intermedie possono “manipolare” le informazioni facendo circolare solo quelle che rispondono ai loro interessi. Un numero elevato degli stessi livelli può far aumentare anche il rischio che un soggetto eluda mag35

giormente le responsabilità “passando” il problema al superiore, così come si incrementano i costi di gestione della stessa organizzazione. Tutto ciò spinge a cercare di attuare una riduzione del numero dei livelli (Lean Organization). In relazione a questa dimensione è possibile anche individuare l’ampiezza del controllo, ossia il numero di dipendenti che riportano ad un superiore: quando gli ambiti di controllo sono limitati la gerarchia assume una forma “lunga” e tra supervisione e dipendenti sono necessarie frequenti interazioni. Quando gli ambiti di controllo sono più ampi la gerarchia si “appiattisce” e di conseguenza si fa riferimento a più elevati livelli di competenza dei dipendenti. La centralizzazione riguarda il livello gerarchico che ha l’autorità di prendere le decisioni. L’organizzazione è centralizzata quando l’attività decisionale è ristretta ai livelli superiori e ai collaboratori spettano le attività esecutive, mentre è decentralizzata quando le decisioni vengono delegate ai livelli organizzativi più bassi. Delegare significa affidare ad altri attività proprie conferendo, a fronte della relativa responsabilità, la connessa autorità. La delega permette di prendere decisioni più vicine alla linea operativa, di alleggerire il lavoro del superiore e di valorizzare le competenze del collaboratore. Al contempo richiede la disponibilità del superiore a delegare, la fiducia nel collaboratore e la sua disponibilità nonché la definizione dei confini della delega unitamente ad una adeguata attività di controllo. Se consideriamo le strutture decentrate si evidenziano tra i vantaggi il non far gravare sul vertice le problematiche relative alle attività gestionali di breve periodo consentendo di dedicarsi alla strategia di medio-lungo periodo. In questo contesto è presente un maggiore coinvolgimento e motivazione per i collaboratori e una riduzione dei costi organizzativi dovuti alla presenza di minori livelli gerarchici. Le strutture accentrate, d’altro canto, favoriscono il coordinamento, permettono una più semplice pianificazione delle attività e rendono più efficace il controllo. Ciascuna delle due alternative presenta, quindi, dei vantaggi e degli svantaggi: «la situazione ideale è un giusto equilibrio tra accentramento e decentramento, in modo che i manager di livello intermedio, che operano più in prima linea, possano prendere decisioni importanti, mentre la responsabilità primaria del top management è gestire la strategia di lungo termine. Il risultato è un equilibrio soddisfacente tra sviluppo delle strategie di lungo termine e flessibilità/innovazione di breve termine, giacché i manager di livello inferiore possono reagire più prontamente ai problemi e ai cambiamenti che intervengono nell’ambiente» (Jones, 2012, p. 96). La professionalità riguarda il livello di competenze richieste per poter ricoprire una certa posizione nell’organizzazione ed è in relazione alla complessità delle attività da svolgere. È ricollegabile alle attività di formazione (investimento nel “capitale umano” della stessa organizzazione), di addestramento 36

né di aggiornamento formale dei dipendenti ed è generalmente misurata considerando il numero medio di anni di formazione dei dipendenti necessari per poter ricoprire determinate posizioni. Gli indicatori del personale sono l’insieme di indici che consentono di monitorare nel tempo, all’interno dell’organizzazione, l’andamento di aspetti quali:  la composizione della forza lavoro (genere, età, residenza, titoli di studio, ecc.);  il tasso di turnover, indicatore importante per valutare l’efficacia delle azioni di gestione del personale; un certo tasso di turnover è inevitabile: «il flusso naturale di persone che escono o entrano nell’impresa per effetto di normali eventi di pensionamento, assunzione, licenziamento, che non minacciano la continuità produttiva dell’impresa e la sua stabilità organizzativa viene definito “turnover fisiologico”. (…) Accanto alla parte fisiologica del turnover, vi è il turnover che viene definito “patologico” e che segnala un malfunzionamento delle politiche di gestione delle risorse umane (selezione, retribuzione, carriere, organizzazione del lavoro, ecc.) e delle politiche aziendali in generale» (Costa & Giannecchini, 2013, p. 99). La scelta di lasciare l’organizzazione può essere presa dal dipendente nel momento in cui, a suo parere, vengono meno le condizioni proprie del ricordato contratto psicologico. Ciò può essere dovuto a cause:  relative al contesto lavorativo: difficoltà di rapporti con i superiori e con i colleghi, rigidità negli orari e nell’organizzazione del lavoro, scarsa sicurezza del posto di lavoro, mancanza di risorse per lo svolgimento della propria attività, ecc.;  relative al contenuto del lavoro: lavoro monotono, bassa autonomia, bassa motivazione, carichi di lavoro eccessivi, stress, mancanza di adeguati interventi formativi, ecc.;  legate alla mancata valorizzazione: bassa retribuzione, mancanza di opportunità di carriera o avanzamenti di carriera troppo lenti, mancanza di una adeguata valutazione del proprio lavoro, ecc.;  il tasso di assenteismo che identifica le situazioni in cui il lavoratore non si reca sul posto di lavoro o per leciti motivi oppure in modo del tutto ingiustificato; è considerato un significativo indice del clima organizzativo, in quanto possibile sintomo di rapporti conflittuali tra la persona e l’organizzazione: «molte ricerche hanno dimostrato che l’assenteismo, a parità di altre condizioni, è minore dove il contesto organizzativo è privo di tensioni, il contenuto del lavoro è vario, stimolante e offre margini di autonomia e partecipazione, lo stile di leadership è adeguato» (Costa & Giannecchini, 2013, p. 106);  la produttività;  gli incidenti sul lavoro, che esprimono i mutamenti in termini, appunto, di numero di incidenti che si verificano in genere in un anno nell’organizzazio37

ne (indicatore di efficacia delle azioni poste in essere per migliorare, in termini correttivi e preventivi, le condizioni di sicurezza sul lavoro) 3. Le dimensioni contestuali, invece, sono formate dagli elementi che caratterizzano l’organizzazione e descrivono l’ambiente organizzativo che influenza le dimensioni strutturali. Esse rappresentano contemporaneamente sia l’organizzazione sia l’ambiente e sono (Daft, 2010):  la dimensione; 3

Il caso dell’infortunio singolo (si escludono i casi di infortuni plurimi o catastrofici dove le conseguenze, dirette ed indirette, sono ancora più “pesanti” per l’azienda), oltre ad avere ripercussioni negative sul lavoratore, ha riflessi negativi in termini di costi, sulla stessa azienda. Il costo di un incidente sul lavoro non si esaurisce nel pagamento di un indennizzo ma prevede dei costi aggiuntivi per l’azienda che possiamo distinguere in costi per la messa in sicurezza e costi della non sicurezza. Per quanto concerne i primi sono rappresentati da quelli che il datore di lavoro deve affrontare per rendere meno rischioso il lavoro nella propria azienda; ad esempio si possono ricordare:  costi di conformità, cioè tutti costi relativi alla messa in norma di impianti e macchine in base alle norme vigenti;  costi per l’eliminazione dei rischi residui per l’utilizzo di macchine ed ambienti che, al di là della loro rispondenza alle norme di legge, possono presentare un nesso con la tematica della sicurezza del lavoro;  costi per l’informazione, la formazione, l’addestramento e l’aggiornamento del personale. I costi per la non sicurezza riguardano, invece, l’impatto negativo prodotto dagli eventi infortunistici su particolari aspetti gestionali dell’azienda. Rientrano in questa tipologia di costi:  il costo per l’assenza dell’infortunato;  il costo per danneggiamento di impianti e macchinari;  il costo per perdita di produzione, causata dall’interruzione dell’attività sia dell’infortunato sia di altri colleghi eventualmente intervenuti in soccorso;  costi per pratiche burocratiche (ad esempio compilazione del rapporto sull’infortunio, denuncia all’INAIL, ecc.);  costo per le prime prestazioni di soccorso all’infortunato;  costo di trasporto in ospedale e di ospedalizzazione nei casi in cui l’incidente sia di una certa gravità;  costo per eventuali sequestri di impianti e macchinari predisposti dalla magistratura;  costo per le ore di lavoro straordinario a cui possono essere sottoposti i lavoratori per supplire alla mancanza del collega infortunato;  costi per spese legali;  costi per la ricerca e la formazione di nuovo personale che dovrà sostituire il lavoratore infortunato;  costi dovuti all’incremento dei premi assicurativi versati all’INAIL (nel caso siano adottate le misure previste dalle linee guida elaborate, come ricordato, dallo stesso Istituto, sono previsti premi consistenti in una sensibile riduzione del tasso medio praticato);  costi per perdita di immagine aziendale;  … Sommando i costi tipici della sicurezza ai costi della non sicurezza si ottiene il costo totale degli infortuni che l’azienda deve sopportare.

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la tecnologia; l’ambiente; gli obiettivi e la strategia; la cultura.

La dimensione è rappresentata, in prima approssimazione, dal numero di persone che lavorano nell’organizzazione, sebbene oggi è importante tener conto dell’evoluzione che ha interessato la stessa dimensione: si è passati, infatti, da una concezione reale ad una virtuale. La prima è misurata secondo l’ampiezza dello stabilimento, il volume della produzione, il numero dei dipendenti mentre la seconda fa riferimento anche alla rete di relazioni alla quale l’organizzazione ha potenzialmente accesso e nella quale si trova a gestire indirettamente la produzione effettuata da altri (il tema sarà ripreso nell’ultimo capitolo). La tecnologia considera l’insieme dei saperi scientifici e tecnici che si possono applicare ai processi di trasformazione fisica, spaziale e temporale dei materiali e delle informazioni (Costa & Gubitta, 2008) ed è possibile importarla all’interno della organizzazione tenendo conto del fatto che non è neutrale rispetto alle scelte organizzative. Si può, comunque, affermare che la tecnologia riguarda gli strumenti, le tecniche e le azioni necessarie a trasformare gli input in output, ossia, più semplicemente, il modo in cui l’organizzazione realizza i prodotti e/o i servizi che immette sul mercato. L’ambiente considera tutti gli elementi che si trovano al di fuori dei confini dell’organizzazione. L’ambiente organizzativo è formato dall’insieme di tutti gli elementi che sono in grado di influenzare l’organizzazione stessa o una sua parte. Si parla di ambiente di riferimento e ambiente generale. Nel primo caso si considerano i settori con i quali l’organizzazione interagisce in modo diretto e che hanno un impatto immediato sulla capacità dell’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi. Nel secondo caso si fa riferimento ai settori che hanno un impatto più indiretto sulle attività dell’organizzazione ma che possono, comunque, influenzarle. Le relative peculiarità esercitano una influenza sulle strutture organizzative evidenziando il nesso tra ambiente e progettazione organizzativa 4. A tal proposito gli elementi ambientali possono essere raggruppati in di-

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Le condizioni di incertezza ambientale possono far sì che i manager non abbiano sufficienti informazioni riguardanti i fattori ambientali per cui risulta difficile riuscire a prevedere i cambiamenti interni. Le caratteristiche dell’ambiente che influiscono sull’incertezza sono:  complessità ambientale ossia il numero e diversità di elementi esterni che sono rilevanti per le attività dell’organizzazione;  instabilità ambientale che si riferisce al grado di dinamicità degli elementi ambientali che possono subire mutamenti improvvisi.

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namismo e prevedibilità, complessità e ampiezza ed omogeneità 5. L’ambiente si definisce semplice quando sono sufficienti esigue conoscenze mentre è complesso quando sono necessari elementi non strutturati e non facilmente identificabili. Infine per ampiezza e omogeneità si considera la dimensione quantitativa dell’ambiente, il numero degli elementi che lo compongono ed il loro grado di omogeneità. La mission dell’organizzazione ha una forma scritta e definisce lo scopo istituzionale dell’organizzazione, mentre la strategia è rappresentata, come già ricordato, dal piano d’azione che descrive l’allocazione delle risorse e le attività necessarie a raggiungere gli obiettivi stabiliti. Entrambe definiscono l’ambito delle attività e le relazioni con i dipendenti, i clienti e i fornitori. La cultura è formata dall’insieme di valori fondamentali, convinzioni, conoscenze e regole condivise da coloro che fanno parte di una organizzazione. Non ha forma scritta ma è sintetizzata dalla storia e dal comportamento di coloro che ne fanno parte. È possibile riassumere ed elaborare i diversi concetti di cultura organizzativa in tre classificazioni:  cultura come variabile indipendente esterna all’organizzazione;  cultura come variabile dipendente interna all’organizzazione;  cultura come metafora di ciò che l’organizzazione è. Nel primo caso si imputa al contesto complessivo, nazionale, socio-economico o industriale circostante che diventa parte dell’organizzazione per l’influenza di coloro che vi appartengono e per diversi meccanismi di isomorfismo istituzionale 6. Nel secondo caso si classifica la cultura come sintesi della visione di quanti la identificano con una gamma circoscritta di artefatti che, miscelati e manipolati dal management, aumentano la motivazione individuale e la volontà di cooperare dei membri, la coesione e la fedeltà diffusa all’organizzazione. Nel terzo caso la cultura rispecchia il convincimento che essa sia qualcosa che l’organizzazione è. La cultura è parte integrante delle cose che accadono, delle attività che si svolgono, delle relazioni che si intrattengono. Nel corso della vita aziendale è possibile che si manifestino alcuni sintomi di inadeguatezza della soluzione organizzativa adottata, tra i quali ricordiamo a titolo esemplificativo: 5

A titolo esemplificativo il grado di stabilità/instabilità dell’ambiente si determina in base al tasso di cambiamento imputabile alle tecnologie produttive, ai gusti dei consumatori. La prevedibilità si può legare anche alla stagionalità della domanda e alla sempre maggiore sensibilità verso i temi legati all’ambiente. La complessità considera il livello di articolazione delle conoscenze necessarie alla realizzazione del business. 6 Talvolta le organizzazioni sono spinte da un principio di omogeneizzazione interorganizzativa fino ad assorbirne le pratiche e i sistemi di valori consolidati.

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 le decisioni vengono prese con ritardo o senza una adeguata ponderazione;  l’organizzazione non reagisce in maniera innovativa ai cambiamenti ambientali;  la presenza all’interno della struttura di un alto tasso di conflittualità; che sono sintomatici di una inadeguatezza strutturale. Nel primo caso il vertice aziendale non è in grado di gestire tutte le relazioni sia per mancanza di tempo, sia per la carenza di conoscenze. Se non viene posto un rimedio a questo limite l’organizzazione inizierà a perdere competitività sul mercato risentendone anche a livello economico. Nel secondo caso, in una situazione di incertezza ambientale i manager non possiedono sufficienti informazioni sui fattori ambientali e, quindi, risulta difficile prevederne i cambiamenti. I fattori dell’ambiente che influiscono sull’incertezza sono riconducibili alla complessità e all’instabilità dello stesso (Padroni, 2007). Le organizzazioni cercano di reagire ricorrendo all’istituzione di unità organizzative o di posizioni in grado di occuparsi dello specifico settore dell’ambiente (es. unità di marketing, degli acquisiti, ecc.). In questo caso si fa riferimento alle unità di confine e alle relazioni con l’ambiente: si tratta di unità organizzative più a diretto contatto con l’ambiente (unità di confine), come ad esempio l’area approvvigionamenti (da attività amministrativa ad attività strategica), l’area Ricerca e Sviluppo (ad esempio ricercando una più stretta integrazione con enti di ricerca), il Marketing (da attività promozionali/pubblicitarie ad attività strategiche in termini di definizione del proprio marketing mix), l’area del Personale (da attività prevalentemente amministrativa ad attività che gestisce in modo strategico le risorse umane e le relazioni con il mercato del lavoro). I ruoli di confine, invece, sono le posizioni che collegano un’organizzazione con l’ambiente attraverso uno scambio di informazioni che consente sia di acquisire elementi sui cambiamenti che avvengono nell’ambiente, sia di inviare notizie verso l’esterno per promuovere l’immagine dell’organizzazione: si pensi, ad esempio, agli addetti alle Pubbliche Relazioni, agli addetti alle attività di front office (sono in grado di trasmettere un’immagine positiva dell’organizzazione), agli addetti alla gestione dei reclami, agli addetti alle ricerca di mercato, ecc. Nel terzo caso, in presenza di un alto tasso di conflittualità, è importante cercare di individuare le motivazioni che possono dar luogo ad una situazione di tensione. Tra le fonti interne all’organizzazione ricordiamo l’incompatibilità degli obiettivi, la differenziazione, la interdipendenza dei compiti e la presenza di risorse limitate. I rapporti organizzativi sono determinati dai fattori contestuali dell’ambiente, ossia la dimensione, la tecnologia, la strategia e gli obiettivi e la cultura. Se per qualche ragione si altera l’equilibrio tra i diversi elementi è 41

possibile assistere alla nascita di un conflitto sul quale è necessario agire mettendo in atto dei correttivi alla struttura organizzativa che possono determinare anche una sua trasformazione. Il cattivo funzionamento di un’organizzazione, indipendentemente dai parametri secondo i quali lo si consideri (produttività, qualità, incidenti tecnici, infortuni, assenteismo, conflittualità, lentezza nei flussi procedurali, nelle decisioni per citarne solo alcuni), richiede comunque l’attivazione di processi diagnostici e di relativi interventi per riequilibrarne assetti ed obiettivi. Queste situazioni richiedono, quindi, da parte dei ruoli gestionali, la disponibilità di dati, di analisi, di informazioni, soprattutto sui punti di debolezza che l’organizzazione presenta nei suoi ambiti di attività. Le possibili soluzioni possono essere evidenziate nella misura in cui si dispone di una serie di indicatori sulla base dei quali valutare le cause dei problemi di funzionamento dell’organizzazione, rispetto ai vari ambiti che caratterizzano la complessità del contesto di riferimento secondo la quale non vi è mai una sola relazione lineare di causa-effetto. Negli ultimi anni anche aziende di grandi dimensioni hanno incontrato difficoltà ad adattarsi alla realtà della competizione globale e agli effetti provocati da una crisi che è venuta interessando l’intero sistema economico. A seguito di ciò si sono avute riduzioni di personale, degli stessi investimenti in ricerca e sviluppo, dei prodotti in portafoglio. Un elemento di sicura criticità si può considerare legato ad un’eccessiva rigidità di organizzazioni che si sono dimostrate sempre meno in grado di adattarsi ai mutamenti delle condizioni di mercato. «La conseguenza di una cattiva progettazione organizzativa o della mancanza di attenzione agli assetti organizzativi è il declino. I collaboratori più bravi se ne vanno per assumere nuovi incarichi in aziende forti e in crescita. Le risorse diventano sempre più difficili da acquisire e l’intero processo di creazione del valore rallenta. Il perdurante disinteresse per la progettazione organizzativa, protratto fino al profilarsi di una crisi, costringe i manager ad introdurre bruschi cambiamenti nella struttura e nella cultura dell’azienda, che incidono negativamente sulla sua strategia. Allo stesso modo, il ripensamento profondo dell’organizzazione ha rappresentato la chiave di volta nei processi di turnaround che hanno prodotto effetti significativi sui risultati e sulle chances di sopravvivenza di importanti imprese» (Jones, 2012, p. 14). Tutto ciò viene a confermare le interdipendenze esistenti tra strategie, soluzioni organizzative adottate e cultura aziendale.

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Capitolo Secondo

La progettazione organizzativa SOMMARIO: 2.1. Il concetto di progettazione organizzativa. – 2.2. Alcune riflessioni sulle diverse variabili organizzative. – 2.2.1. I modelli di soluzioni organizzative. – 2.3. Dinamiche organizzative e del controllo interno negli scenari della complessità. – 2.3.1. Verso una visione “postmoderna”. – 2.3.2. Dinamiche nel controllo. – 2.3.3. L’azienda come sistema complesso di risorse ed obiettivi.

2.1. Il concetto di progettazione organizzativa Il campo dell’azione organizzativa costituisce l’oggetto dell’analisi e della progettazione organizzativa, dove le stesse determinano una scelta di posizionamento dei confini organizzativi, di individuazione delle attività, degli attori chiave e delle modalità più opportune per un loro coordinamento e controllo. La progettazione è una attività complessa frutto delle scelte effettuate con specifico riferimento alla realtà considerata in quel determinato momento, nell’ambito delle variabili organizzative adottabili. «A causa delle sempre maggiori pressioni competitive e del sempre maggiore utilizzo dell’informatica avanzata, la progettazione organizzativa è diventata una delle priorità del management. Oggi più che mai, i manager sono alla ricerca di soluzioni più nuove e più efficaci per coordinare e motivare i loro collaboratori ad accrescere il valore che possono creare le organizzazioni. Diverse ragioni specifiche spiegano perché progettare le soluzioni organizzative adottate da un’azienda e modificarle per accrescerne l’efficienza, sono compiti tanto importanti. La progettazione organizzativa e il cambiamento organizzativo hanno implicazioni rilevanti per la capacità di un’azienda di affrontare le contingenze, ottenere un vantaggio competitivo, gestire efficacemente l’eterogenericità e accrescere la propria efficienza e la propria capacità di innovazione» (Jones, 2012, p. 12). Progettare una soluzione organizzativa può essere interpretato come il risultato di un processo attraverso cui si definiscono le caratteristiche dell’assetto 43

grazie al quale la stessa organizzazione può controllare le attività necessarie per il conseguimento dei suoi obiettivi. «Progettare un’organizzazione significa stabilire in anticipo come essa dovrà concretamente funzionare, scegliendo in che modo attuare la divisione del lavoro e quali meccanismi di coordinamento impiegare. (…) Per molto tempo si è ritenuto che per una progettazione soddisfacente, se non ottima, dell’organizzazione fossero sufficienti alcuni semplici “ingredienti”: si trattava sostanzialmente di definire con chiarezza gli obiettivi da raggiungere, le strategie da seguire, le attività da compiere, disegnando successivamente una struttura formale dove fossero chiare le responsabilità ed i compiti di ciascuno. Secondo questa concezione il comportamento ed i risultati dell’organizzazione dipendono esclusivamente da quello che succede “all’interno”; per conseguenza, la progettazione deve sforzarsi di rintracciare le soluzioni migliori (o la soluzione migliore)» (Benassi, 1997, pp. 5-6). Secondo questo approccio il problema della progettazione organizzativa era risolto prescindendo dalle condizioni ambientali di riferimento. Evidenti sono i limiti di tale impostazione, nel senso che i problemi che un’organizzazione si trova a dover affrontare non sono di natura esclusivamente interna; così pure un’organizzazione è sempre meno auto-sufficiente, cioè non può prescindere da supporti esterni. Del resto, come ricordato, un’organizzazione è un sistema aperto che interagisce costantemente con l’ambiente che la circonda, il quale è in grado di condizionarne lo stesso funzionamento (Cicchetti, 2004). La ricerca di condizioni di efficacia e di efficienza implica che la stessa progettazione organizzativa tenga conto anche dell’ambiente di riferimento, debba analizzare le caratteristiche esterne, sia attuali che, soprattutto, future. In effetti, le più recenti soluzioni organizzative sono, come vedremo, fortemente influenzate dalla necessità di presentare connotazioni di elevata flessibilità e di adattabilità ad ambienti mutevoli. Uno scollamento tra implementazione delle strategie e progettazione organizzativa può anche mettere in discussione gli effetti dei vantaggi competitivi conseguiti. La progettazione organizzativa può essere analizzata, quindi, come la ricerca delle modalità attraverso le quali definire e realizzare i meccanismi di funzionamento di un’organizzazione al fine di ridurne i tempi di risposta al mercato mediante un miglioramento congiunto della qualità, dell’efficienza, del coordinamento delle diverse parti della stessa organizzazione, operando sulla semplificazione della gerarchia, sull’ottimizzazione dei processi, sulla soddisfazione non solo dei clienti ma anche delle risorse umane attraverso il “disegno” di adeguati processi di lavoro che favoriscano la concezione della propria attività non solo come un insieme di incombenze da assolvere (importanza della motivazione del personale) (Coda, 1977). 44

Secondo l’approccio contingentista ad ogni situazione competitiva corrisponde un assetto organizzativo appropriato nel quale il grado di integrazione/differenziazione conferito si correla a quello di stabilità o instabilità del contesto ove opera (Lawrence & Lorsch, 1967). Tra i principali fattori contingenti in grado di influire, quindi, sulla progettazione organizzativa possiamo ricordare:  le strategie adottate: così, ad esempio, un’organizzazione che voglia crescere e creare nuovi prodotti è caratterizzata da un assetto organizzativo diverso da una che è focalizzata sul mantenimento della propria quota di mercato con prodotti introdotti da molto tempo all’interno di un settore stabile; così ancora coerentemente ad una strategia di leadership di costo, i manager tendono ad adottare un approccio di progettazione organizzativa improntato all’efficienza, mentre una strategia di differenziazione implica un approccio più rivolto alla flessibilità e all’apprendimento (Porter, 1987);  le caratteristiche dell’ambiente: in ambienti relativamente stabili, l’organizzazione può adottare soluzioni più tradizionali, che enfatizzano il controllo gerarchico verticale, l’efficienza, la specializzazione, l’accentramento, la formalizzazione, ecc.; un ambiente in rapido cambiamento richiede soluzioni più flessibili e più integrate a livello orizzontale;  le dimensioni della stessa organizzazione: più le organizzazioni sono piccole, maggiormente si adottano soluzioni organizzative in cui prevalgono gli aspetti informali; se la dimensione aumenta, si ha una maggiore divisione del lavoro, un più elevato livello di formalizzazione, una più puntuale definizione dei sistemi di coordinamento e controllo;  le peculiarità dell’attività svolta: così, ad esempio, in una realtà che realizza una produzione di massa le soluzioni organizzative adottate presteranno particolare attenzione all’obiettivo dell’efficienza, mentre in un’organizzazione che opera in un settore fortemente innovativo maggiore è la ricerca di flessibilità e di creare le condizioni per favorire e stimolare la valorizzazione delle conoscenze;  le caratteristiche culturali: una cultura organizzativa che, ad esempio, promuove il lavoro in team, la collaborazione, la creatività, la comunicazione interna, non risulta coerente con una soluzione organizzativa fortemente gerarchica, con rigide regole di funzionamento. Il termine stesso di “progettazione organizzativa” si può ricondurre allo sforzo del management diretto a perseguire le finalità organizzative con i mezzi disponibili, cercando di anticipare i futuri possibili eventi. Si tratta di un tema rispetto al quale assai attivo è il ruolo svolto proprio da manager e consulenti nella ricerca concreta della soluzione di specifici problemi 45

organizzativi, senza però omettere di considerare che, come già ricordato, un’esclusiva implementazione di soluzioni precostituite significherebbe snaturare l’idea stessa di progettazione organizzativa (Kates & Galbraith, 2007). In tale contesto appaiono importanti:  il già citato obiettivo della coerenza tra soluzioni organizzative adottate e contesti ambientali/strategici: così «ambienti tendenzialmente stabili risultano congruenti con assetti organizzativi accentrati e proceduralizzati; viceversa, in situazioni di dinamismo ambientale risultano più adatti assetti più decentrati» (Costa & Nacamulli, 1997); in questo contesto, a fronte della crescente complessità che le organizzazioni si trovano a dover gestire, una complessità da intendersi non solo come una variabile da controllare ma anche come una risorsa da valorizzare, la stessa viene a collocare in una diversa prospettiva l’attività di chi è chiamato a progettare le interazioni fra i diversi elementi del sistema organizzativo e contribuisce a definire diversi criteri progettuali ricercando un “compromesso” tra opportunità e costi della medesima complessità;  l’obiettivo di un adeguato presidio delle interdipendenze tra unità organizzative della stessa organizzazione e tra diverse organizzazioni che cooperano tra loro: ciò implica l’adozione di adeguati meccanismi di coordinamento sia sul piano interno che esterno;  l’obiettivo di non alterare il delicato equilibrio di complessi processi di apprendimento e di innovazione continua, considerati componenti chiave del patrimonio distintivo di ogni organizzazione. Si può affermare che le forme organizzative adottabili sono più “varie” rispetto al passato così come risulta aumentata, come vedremo successivamente, la gamma delle variabili legate alla progettazione organizzativa, combinando aspetti “hard”, legati alla struttura adottata, alle procedure organizzative formali, ecc., ed aspetti “soft”, quali la cultura, le conoscenze, l’etica, il clima organizzativo. A causa delle sempre maggiori pressioni competitive il tema della progettazione organizzativa è diventato, come ricordato, una delle priorità del management: «oggi più che mai, i manager sono alla ricerca di soluzioni nuove e più efficaci per coordinare e motivare i loro collaboratori per accrescere il valore che possono creare le organizzazioni» (Jones, 2012, p. 12). In particolare la progettazione organizzativa determina significative implicazioni per la capacità di un’organizzazione di:  affrontare, come ricordato, le contingenze: all’aumentare delle pressioni esercitate da un ambiente sempre più complesso in cui si trova ad operare l’organizzazione, diventa indispensabile attivare una sperimentazione diretta a svi46

luppare e testare diverse soluzioni organizzative; tra gli aspetti particolari della citata complessità possiamo ricordare la globalizzazione (obiettivo di diventare un “player” globale), i mutamenti tecnologici (il crescente impiego dell’ICT sta contribuendo a modificare sia gli assetti organizzativi interni e sia la natura dei confini organizzativi);  ottenere un vantaggio competitivo: la progettazione ed il cambiamento organizzativo possono essere fonti di vantaggio competitivo, di opportunità di riuscire a creare più valore con le risorse a disposizione; le modalità con le quali si progettano e si modificano le soluzioni organizzative adottate costituiscono una componente significativa del valore creato dall’organizzazione nella misura in cui incidono sull’implementazione delle strategie definite. In uno scenario competitivo globale appare più difficile “imitare”, rispetto alle stesse innovazioni di prodotto e di processo, una soluzione organizzativa efficiente e ben gestita, in quanto la stessa è propria del modo in cui i membri di un’organizzazione interagiscono e coordinano le proprie attività. La progettazione organizzativa deve essere, quindi, un’attività in continua evoluzione, per permettere all’organizzazione di mantenere un vantaggio competitivo, partendo dalla già citata convinzione che non esiste un assetto organizzativo “ottimo”, cioè che corrisponde ai bisogni di ogni organizzazione. I responsabili dell’organizzazione devono valutare costantemente l’efficacia delle soluzioni adottate, modificandole e riprogettandole allo scopo di introdurre continui miglioramenti (Jones, 2012);  gestire l’eterogeneità: le differenze di razza, genere e origine nazionale dei componenti dell’organizzazione hanno importanti implicazioni per i valori che caratterizzano la sua cultura e per la sua stessa efficacia operativa, anche perché le stesse organizzazioni operano oggi sempre più in paesi che presentano culture profondamente diverse; in tale ottica appare necessario progettare soluzioni organizzative che rendano possibile un impiego ottimale di una forza lavoro eterogenea e lo sviluppo di valori culturali diffusi che incoraggino le persone a collaborare tra di loro;  promuovere efficienza, rapidità ed innovazione: la capacità delle organizzazioni di operare con successo in un ambiente competitivo è funzione della loro capacità di innovare, della rapidità con la quale sono in grado introdurre nuovi prodotti/servizi (si pensi all’importanza di pensare a soluzioni strutturali come i team di progettazione che consentono di integrare, secondo un obiettivo di processo, diverse conoscenze, sia interne che esterne, come nel caso di coinvolgimento di fornitori di parti di prodotto o di servizi). Il riferimento alla progettazione organizzativa come processo porta a riflettere su quelle che possono essere considerate le sue diverse fasi: 47

 determinazione del quadro progettuale: in questa fase si trasformano gli obiettivi in criteri di progettazione; il risultato consente di comprendere i motivi della progettazione, la direzione che si intende prendere, come si presenterà l’assetto organizzativo dopo l’intervento di progettazione;  “disegno” dell’organizzazione: è la fase in cui si identificano gli aspetti in base ai quali si coniugano le diverse variabili organizzative per allineare la soluzione organizzativa alle strategie perseguite;  implementazione: è la fase nella quale tutta l’organizzazione viene coinvolta (attività di formazione) e chiamata ad accettare le nuove “regole del gioco” (Cicchetti, 2004). I rischi connessi ad una non adeguata progettazione organizzativa sono riconducibili ad un declino della stessa organizzazione: i collaboratori più validi, portatori delle migliori conoscenze, possono non sentirsi più adeguatamente motivati e, quindi, ricercare altrove nuove opportunità professionali; le risorse diventano più difficili da acquisire; lo stesso processo di creazione del valore può andare incontro a pericolosi rallentamenti. Esistono diversi livelli di progettazione:  livello micro: come organizzare il lavoro all’interno di un’unità organizzativa;  livello macro: come organizzare l’azienda nel suo complesso;  livello interorganizzativo: come organizzare le relazioni con altre organizzazioni (tema che sarà ripreso nell’ultimo capitolo). A livello micro si devono affrontare all’interno di un’unità organizzativa problemi di:  definizione delle mansioni: insieme dei compiti (il compito è l’attività elementare dalla quale partire per progettare l’organizzazione del lavoro) assegnati ad una singola persona nell’ambito del sistema di lavoro di cui tali compiti fanno parte;  definizione delle modalità di lavoro considerando le interdipendenze delle mansioni che contribuiscono ad un risultato comune ed identificabile (il prodotto/servizio). Con riferimento al primo aspetto il modo in cui i compiti vengono assegnati alle mansioni determina il grado di divisione del lavoro: cosa deve essere fatto da chi opera all’interno dell’unità organizzativa? Il modo in cui i compiti sono attribuiti alle mansioni porta a fare delle scelte in termini di:  numero e varietà dei compiti: un numero molto ridotto può incidere sulla significatività dello stesso lavoro, un aumento della varietà può ridurre la monotonia dell’attività svolta: entrambi gli aspetti sono ricollegabili al livello di 48

capacità richiesto a chi si trova a svolgere quella data mansione;  grado di autonomia: si tratta dell’attribuzione o meno di compiti con contenuti decisionali, di regolazione e controllo, in altri termini del livello di discrezionalità concesso con ricadute come maggiore responsabilizzazione (si pensi ad esempio all’assegnazione ad una mansione operativa di compiti di controllo della qualità);  livello di contribuzione: «si riferisce al fatto che l mansione permetta al lavoratore di identificare chiaramente il contributo che la sua attività porta al risultato finale. Tanto più visibile è il contributo, tanto più la persona percepisce come significativa la sua attività; inoltre, una contribuzione più visibile rende più semplice attribuire uno specifico risultato a un lavoratore e quindi facilita l’osservazione (o il controllo) dei risultati stessi;  livello di feedback: si riferisce al grado in cui il lavoratore può disporre di informazioni di ritorno sull’efficacia e sui risultati dell’attività svolta» (Costa & Gubitta, 2008, p. 296). Così una mansione caratterizzata da ridotta varietà e limitata autonomia si dice fortemente parcellizzata. Una volta definiti i contenuti della mansione in termini formali si definisce la Job Description, cioè una descrizione analitica della stessa mansione in termini di:    

denominazione/inquadramento; contesto (dove si svolge l’attività); attività da svolgere (descrizione dei compiti); collocazione nell’organizzazione (dipendenza gerarchica e rapporti con altre mansioni).

Le diverse Job Description formano il mansionario proprio di quella data organizzazione e forniscono informazioni che sono utili supporti alla gestione del personale (acquisizione dello stesso personale, attività di formazione, valutazione, incentivazione) (Singh, 2008). Le tradizionali attività di definizione delle mansioni nelle aziende di mediograndi dimensioni tendono a considerare la mansione come un insieme ben definito (esigenza di certezza) di compiti stabilmente assegnati a chi occupa una data posizione. In realtà i cambiamenti nel contesto di riferimento (scenario competitivo, mutamenti tecnologici, ecc.) hanno prodotto un aumento generalizzato dell’incertezza e dell’esigenza di flessibilità, ciò che si traduce in una maggiore difficoltà di prevedere e prescrivere i compiti che devono essere svolti per raggiungere un certo risultato (emerge l’esigenza di modificare i contenuti della mansione). Di conseguenza, si parla della definizione del lavoro da svolgere non so49

lo come descrizione dettagliata dei compiti, ma anche in termini di competenze necessarie per raggiungere determinati obiettivi. Circa il secondo aspetto si tratta di definire le modalità di funzionamento dell’unità organizzativa. L’analisi e la progettazione della microstruttura riguardano, infatti, l’organizzazione del lavoro: attraverso la definizione ed il coordinamento delle mansioni l’obiettivo è quello di definire una soluzione che risulti efficace, efficiente, motivante. Organizzazione del lavoro intesa come modalità di svolgimento delle attività lavorative con l’obiettivo di valorizzare al meglio i diversi fattori produttivi con particolare riferimento proprio al personale e di raggiungere livelli qualitativi delle stesse attività capaci di soddisfare le aspettative dei clienti. in altri termini, “l’organizzazione del lavoro fa riferimento alle scelte di base che definiscono come, all’interno di un contesto organizzativo, è stato diviso il lavoro fra le persone attraverso l’assegnazione di attività e quali requisiti e modalità di svolgimento sono state individuate in termini di competenze che le persone devono avere e di discrezionalità, controllo e responsabilità che possono esercitare nello svolgimento delle attività assegnate” (Gabrielli & Profili, 2012, p. 118). Si possono, in questa sede, ricordare, salvo rinviare ulteriori approfondimenti del tema all’ultimo capitolo, alcune linee di cambiamento nella definizione delle soluzione adottate:         

superamento del fordismo; contributi che derivano dagli studi psicologici e sociologici; ricerca di migliori livelli di produttività; concentrazione dell’attività produttiva sulle fasi a più alto valore aggiunto e nelle quali l’organizzazione presenta i suoi punti di forza esternalizzando le altre attività; sviluppo del lavoro in team; trasformazione del tradizionale reparto in una “microimpresa”; cambiamenti nelle figure intermedie; attenzione alla qualità e alla sicurezza; ricerca di una maggiore integrazione tra soluzioni tecnologiche e fattore umano: la ricerca, infatti, di migliori soluzioni in termini di organizzazione del lavoro non è solo un problema di miglior impiego delle tecnologie, di precisa definizione di compiti e mansioni ma ha anche a che fare con le persone, portatrici di conoscenze, ponendosi l’obiettivo di una valorizzazione congiunta.

A livello macro si considera l’organizzazione nel suo complesso. Per la definizione delle soluzioni organizzative adottabili si può fare riferimento a un insieme di modelli a cui ispirare la stessa progettazione organizzati50

va. Tali modelli devono essere evidentemente adattati alle specifiche realtà considerate. La progettazione organizzativa, finalizzata alla definizione di una soluzione che risulti coerente con le esigenze strategiche dell’azienda, non si risolve solo nella scelta di un modello organizzativo di riferimento (funzionale, divisionale, ecc.), «ma si sviluppa attraverso un processo che impone continue modifiche e correttivi organizzativi in ragione delle dinamiche interne (crescita dimensionale, diversificazione strategica, evoluzione tecnologica) e delle influenze dell’ambiente esterno (turbolenza ambientale, crisi di mercato). In primis, quindi, vale la considerazione che da un numero limitato di modelli-tipo sia possibile ottenere infinite strutture organizzative, in ragione delle caratteristiche e delle esigenze aziendali. In secondo luogo, poiché ogni modello-tipo presenta vantaggi e svantaggi, costi e benefici, la progettazione organizzativa deve ricondurre a condizioni di equilibrio, un delicato dedalo di trade-off. Infine, sebbene si concretizzi nello sviluppo di strutture organizzative apparentemente statiche, la progettazione organizzativa deve intendersi come un fenomeno intrinsecamente dinamico che passa attraverso la definizione della struttura organizzativa, dei meccanismi di coordinamento e dei meccanismi operativi che possono rappresentare fattori critici di successo nell’implementazione delle scelte strategiche. Laddove, infatti, i sistemi organizzativi non siano dinamicamente allineati agli assetti strategici dell’impresa, possono emergere quei fenomeni di degradazione organizzativa che rende l’impresa sempre più impreparata a reagire agli stimoli esterni ed esposta alla crescita dei costi gestionali interni (costi organizzativi)» (Fontana & Caroli, 2012, pp. 191-192). Per definire una soluzione organizzativa si possono coniugare le diverse variabili che saranno analizzate nel paragrafo seguente: «esse rappresentano le leve su cui si può intervenire, singolarmente o in combinazione, a seconda della natura del problema di progettazione organizzativa e comunque tenendo della complementarietà, e cioè delle relazioni che esistono tra di esse» (Isotta, 2010, p. 28).

2.2. Alcune riflessioni sulle diverse variabili organizzative Le principali variabili organizzative, da coniugare in relazione alla specifica realtà di riferimento, sono, in primo luogo, costituite dallo stile di direzione, dalla struttura organizzativa, dal sistema di coordinamento e controllo, dal sistema informativo e dal sistema di gestione del personale; a queste se ne sono affiancate altre, quali la cultura propria dell’organizzazione ed il clima organizzativo. 51

Lo stile di direzione Lo stile di direzione individua il modo in cui un dirigente si comporta nei confronti dei propri dipendenti/collaboratori. Tale variabile può assumere diverse configurazioni, passando da forme più autoritarie a forme più partecipative dirette a cercare di:    

motivare maggiormente il personale; valorizzare al meglio le competenze presenti nell’organizzazione; favorire una migliore integrazione con gli obiettivi della stessa organizzazione; favorire lo sviluppo di un rapporto più dialettico e costruttivo.

In altri termini, nell’affrontare un problema e trovare le relative soluzioni una figura con responsabilità direttive può o meno decidere di dare spazio ai propri collaboratori agendo secondo una delle seguenti alternative:  gestire il problema in prima persona e trasferire, mediante un ordine, esclusivamente la soluzione da lui stesso definita;  ricercare un confronto, dopo aver individuato il problema, sulle possibili soluzioni, stimolando ed accettando suggerimenti prima di decidere;  ricercare il coinvolgimento lasciando ai collaboratori la ricerca di soluzioni al problema da lui individuato;  responsabilizzare i collaboratori delegando sia l’individuazione del problema che la ricerca della sua soluzione. Non esiste uno stile di direzione valido in assoluto e lo stesso dirigente può trovarsi nella necessità di adattare il proprio stile in base alle caratteristiche dei propri dipendenti/collaboratori (capacità e volontà di fare). Tra le capacità richieste ad una figura con responsabilità direttive (saper pianificare una linea di azione, saper delegare, saper gestire i propri collaboratori, saper controllare, saper comunicare, capacità di negoziazione) un ruolo significativo è giocato dalla capacità di leadership. Il termine leader deriva da to lead che significa guidare, condurre, dirigere. Il concetto di leadership porta al senso di percorrere una strada, di seguire un cammino lungo il quale il leader è chiamato a dare l’esempio di cosa fare e come comportarsi. Se indica esplicitamente la funzione di guida, ciò che meglio specifica il suo ruolo chiave riguarda la creazione di un diffuso clima di fiducia: infatti è dalla presenza o meno di tale clima che si può desumere o no se è in atto una leadership efficace La leadership è da sempre considerata una risorsa critica rispetto ai diversi problemi che si trova ad affrontare un’organizzazione ed evidenzia quanto siano importanti le relazioni tra responsabile e collaboratori, le capacità di sollecitare 52

le persone verso il raggiungimento degli obiettivi, di potenziare il loro senso di appartenenza all’organizzazione. Sviluppare una leadership efficace significa cercare di coinvolgere tutti i membri dell’unità organizzativa ed è compito del leader creare un clima organizzativo adatto a realizzare tale proposito, a favorire lo sviluppo di uno “spirito di squadra”. Leader è colui che sa guidare, condurre, valorizzare, motivare un gruppo di persone verso il raggiungimento degli obiettivi lavorando con i componenti dello stesso per perseguirli. Leader, quindi, non è un concetto legato alla posizione occupata ma è legato a quello che si fa e a come lo si fa. Il concetto di leadership contiene sia la possibilità di esercitare il potere e sia la capacità di guadagnarsi il consenso ed esercitarlo per scopi comuni e condivisi: il leader utilizza potere e influenza per orientare le attività verso il raggiungimento degli obiettivi Le fonti del potere corrispondono ai fattori che permettono di orientare il comportamento altrui verso il raggiungimento degli obiettivi: possono essere fonti organizzative (l’autorità formale che deriva dalla posizione occupata) o personali (autorevolezza che deriva dalla competenza, dalle abilità possedute) L’influenza è un comportamento del leader che causa cambiamenti nei comportamenti o negli atteggiamenti dei collaboratori (ad esempio, creando reazioni emotive positive, facendo leva sui valori e gli ideali dell’organizzazione, facendo appello alla lealtà, spiegando i motivi del cambiamento ed i possibili effetti benefici, ecc.), potendo ottenere, come risposta, o impegno (cambia il comportamento e l’atteggiamento) o accondiscendenza (cambia il comportamento ma non l’atteggiamento) o resistenza (non cambia né il comportamento né l’atteggiamento). In definitiva per leadership si può intendere la capacità di influenzare i membri di una realtà organizzativa al fine di far conseguire loro un determinato obiettivo esplicitando gli scopi e fornendo i mezzi per raggiungerli, facendo leva sulle motivazioni. Scopo, quindi, della leadership è quello di massimizzare la disponibilità degli individui a perseguire gli scopi dell’organizzazione con senso del dovere, professionalità, ma anche con soddisfazione. Tema strettamente correlato è quello relativo all’alternativa tra accentramento e decentramento che riveste un’importanza fondamentale all’interno della progettazione organizzativa. Si è di fronte ad una soluzione organizzativa accentrata quando il potere di assumere decisioni risiede in un unico punto dell’organizzazione; di contro, una soluzione decentrata è caratterizzata da una diffusione del potete decisionale in più punti che devono, però, essere coordinati e controllati. Il decentramento organizzativo può presentarsi secondo due direzioni. La prima direzione è percorsa quando il vertice dell’organizzazione decide di 53

delegare una parte del potere formale ai livelli sottostanti della line, la linea gerarchica di autorità. In questo caso si parla di decentramento verticale e coloro che vengono ad assumere il potere, con le relative responsabilità, sono i manager di line dei livelli intermedi. La seconda direzione del decentramento si ha quando il potere decisionale passa a soggetti esterni alla line, quali analisti o specialisti di staff: in questo caso si parla di decentramento orizzontale, caratterizzato, appunto, dal controllo di processi decisionali anche da parte di persone che non sono line manager. Nella ricerca di una valutazione di convenienza tra accentramento e decentramento, considerando il continuum di ipotesi tra i due estremi assoluti, si può rilevare come la soluzione accentrata possa essere privilegiata, per esempio, in presenza di significative ristrutturazioni organizzative in quanto in grado di controllare meglio le resistenze al cambiamento e di fornire una maggiore integrazione di fronte ai problemi che si presentano; essa si inquadra bene, altresì, in un contesto di relativa staticità in cui le decisioni da prendere sono più prevedibili. Con questa modalità solo il vertice ha la responsabilità di prendere decisioni in ottica strategica, mentre le figure più operative devono pensare soltanto ad effettuare correttamente il loro lavoro. In una situazione di notevole complessità, invece, l’adozione di una soluzione accentrata comporta il rischio di non riuscire ad adattarsi in modo proattivo alle dinamiche turbolenti del mercato e dell’ambiente in generale, subendo la stessa organizzazione “traumi” in grado di metterla in difficoltà sotto tutti gli aspetti, compresi quelli economici e finanziari. La complessità fa sì che il sistema sia caratterizzato da un sovraccarico informativo e decisionale che un solo soggetto non è più in grado di trattare, per cui diventa necessario avviare un processo di decentramento. Le dinamiche ambientali, non essendo predeterminabili, fanno sì che le decisioni devono essere prese tempestivamente, analizzando i cambiamenti repentini del mercato, in modo da poter cogliere, con più facilità, opportunità di business, rivolgendo una maggiore attenzione ai bisogni e alle attese di una clientela sempre più esigente. In una soluzione più decentrata gioca un ruolo importante una forte condivisione degli obiettivi, dei valori, dei comportamenti da assumere e detenere. Ciò è coerente con soluzioni organizzative caratterizzate da un decentramento verticale orizzontale: fondamentale diviene un continuo adattamento e una continua ridefinizione dei compiti individuali, tramite l’interazione tra diversi soggetti. Tali soluzioni, in grado di far proprio un comportamento non più passivo ma proattivo, appaiono capaci di adattarsi il più velocemente possibile all’ambiente circostante in continuo mutamento. Il potenziale contributo che il personale potrebbe fornire in termini di apporto creativo e propositivo, è sovente sottoutilizzato come conseguenze di scelte organizzative e di approcci gestionali mutuati dal passato, che non appaiono in 54

grado di far fronte alle nuove istanze che emergono dall’attuale complesso quadro ambientale di riferimento. L’inasprimento del contesto competitivo, i numerosi e rilevanti cambiamenti intervenuti a livello di sistema socio-economico, l’avvento di nuove e sofisticate tecnologie, sono tutti fenomeni che dovrebbero indurre a ripensare anche l’organizzazione del lavoro e i tradizionali modelli di gestione del personale alla luce dei vincoli e delle opportunità che si presentano oggi alle aziende, tematiche che saranno oggetto di successivi approfondimenti. Tutto ciò nella convinzione che più elevati sono i tassi di cambiamento, maggiore è la criticità delle risorse umane (Solari, 2004). La struttura organizzativa La struttura organizzativa di un’organizzazione individua l’insieme degli organi (o unità organizzative) tra i quali è suddivisa l’attività svolta dalla stessa nonché delle relazioni formali che collegano tra loro gli stessi organi, individuando relazioni gerarchiche (o verticali) o di staff (o orizzontali). Essa individua i rapporti di dipendenza formale ed il numero dei livelli organizzativi. Le strutture organizzative sono definite da canali di autorità e comunicazione, nei quali si concretizzano le risposte imprenditoriali alle opportunità e ai vincoli presenti in un determinato contesto ambientale, considerando le tecnologie utilizzabili, i mercati, le disponibilità finanziarie, le condizioni legali e l’azione di pubblici poteri unitamente alla disponibilità di risorse tecnico-manageriali interne ed esterne. Appare importante sottolineare i suoi caratteri di strumentalità (una soluzione strutturale è valida nella misura in cui si dimostra un efficace “strumento” per perseguire gli obiettivi dell’organizzazione) e di dinamicità (necessità di valutare nel tempo eventuali cambiamenti strutturali, di natura incrementale o più radicale, ove la misura di tali mutamenti si riflette in misura diversa, come ricordato, sulle altre variabili organizzative). La struttura organizzativa trova la sua rappresentazione grafica e visiva nell’organigramma che mostra le varie parti di un’organizzazione, il modo in cui le stesse sono collegate e come ogni posizione o unità si colloca nell’insieme (Daft, 2010). L’organigramma evidenzia i livelli gerarchici su cui la struttura si articola ed esplicita i rapporti di dipendenza formale esistenti tra le diverse posizioni organizzative. Un’analisi di tipo verticale consente di evidenziare i rapporti di dipendenza gerarchica e l’ampiezza del controllo delle figure con responsabilità direttive; un’analisi di tipo orizzontale permette di focalizzare le esigenze di integrazione, coordinamento, comunicazione tra le diverse unità organizzative. Dalla sua analisi è possibile ottenere numerose informazioni che consentono di ricostruire l’ordinamento gerarchico dell’organizzazione e i suoi rappor55

ti con gli organi di staff 1, individuare i flussi comunicativi esistenti in modo da comprenderne il tipo di interdipendenza, dedurre il grado di accentramento/decentramento del potere decisionale e di specializzazione delle funzioni, stabilire il livello di formalizzazione, la reciproca connessione, le linee di responsabilità e di autorità ed i meccanismi di coordinamento. Le aree sono collegate da linee che congiungono i diversi livelli gerarchici. In questo modo è possibile identificare i rapporti che si creano tra le varie funzioni esplicitando in che termini di dipendenza e di quale autonomia goda una determinata posizione. Dall’analisi dell’organigramma è anche possibile evidenziare i rapporti con il controllo di gestione considerando le singole area dell’attività organizzativa come centri di costo o di profitto. Secondo questa logica il responsabile di un’unità organizzativa ha il compito di realizzare, combinando le risorse umane e finanziarie a sua disposizione, un margine di contribuzione definito a priori. Questo processo consente all’azienda di evidenziare le attività cruciali per lo sviluppo dell’organizzazione e al contempo di responsabilizzare e coinvolgere i responsabili di funzione nel raggiungimento di determinati risultati. Lo stesso organigramma trova, poi, in realtà di medio-grandi dimensioni, il suo completamento nel cosiddetto mansionario dove sono descritte analiticamente le diverse mansioni corrispondenti alle diverse posizioni presenti nelle unità organizzative. Si può affermare che, mentre l’organizzazione abbraccia l’intero insieme delle citate variabili hard e soft, la struttura considera in particolare i rapporti di interdipendenza che si creano all’interno dell’azienda. Il riferimento alla variabile dimensionale è importante in quanto più l’organizzazione è di contenute dimensioni più la struttura è semplificata e prevalgono i rapporti informali; ciò mentre, quando la stessa dimensione aumenta, si formalizzano i contenuti ed i confini dei diversi organi e le relazioni tra gli stessi. Le organizzazioni adottano soluzioni strutturali diverse in quanto sono in un rapporto di stretta interdipendenza con i propri “ambienti” di riferimento nei confronti dei quali devono “adattarsi” per poter sopravvivere e svilupparsi. In questo contesto la scelta del modello di struttura organizzativa costituisce uno dei più complessi problemi di progettazione. Alcune motivazioni che possono contribuire a giustificare le differenze nelle soluzioni adottate sono legate al fatto che lo stesso vertice dell’organizzazione ha propri margini di discrezionalità su 1 Il concetto di staff verrà approfondito successivamente sebbene è possibile anticipare che ha origine dall’organizzazione militare. Nel linguaggio aziendalistico individua un’unità organizzativa composta da specialisti in vari settori e funzioni aziendali, il cui compito è quello di coordinare l’unicità di comando di un’organizzazione mediante attività di supporto o consultive. Lo staff è collegato alle altre funzioni aziendali da relazioni funzionali e non gerarchiche.

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come strutturare e coordinare le diverse attività, nella consapevolezza, comunque, che tali decisioni sono in grado di condizionare i livelli di efficacia dell’organizzazione stessa (Isotta, 2010). Nel momento in cui si decide di approfondire gli aspetti relativi alle strutture organizzative è importante non trascurare i ricordati principi della progettazione organizzativa che hanno portato alla loro implementazione. Le soluzioni organizzative “più moderne” possono essere considerate come evoluzione di quelle più tradizionali e per questo motivo è importante conoscerne i punti di forza, di debolezza e le relative condizioni di applicabilità. Non esiste una struttura organizzativa “migliore” o preferibile in modo assoluto (ogni modello presenta inderogabilmente vantaggi e svantaggi) ma esistono soluzioni strutturali che si possono ritenere coerenti od incoerenti con l’ambiente competitivo di riferimento e le strategie adottate. In effetti, la struttura organizzativa ed il suo organigramma non sono elementi statici ma sono soggetti, come ricordato, a continui cambiamenti che hanno origine dagli stimoli dell’ambiente, dalla tecnologia, dal ciclo di vita dei prodotti, dalla cultura di coloro che ne fanno parte. La struttura deve essere in grado di armonizzare le dinamiche organizzative con l’ambiente esterno sviluppando lo studio e l’implementazione di nuove strategie. Un’analisi più approfondita di questa variabile, nelle sue diverse possibili configurazioni, sarà svolta nel prossimo sotto paragrafo. Il sistema di coordinamento e controllo Coordinare significa riuscire a finalizzare i comportamenti verso gli obiettivi perseguiti favorendone, in tal modo, il conseguimento; l’obiettivo è, quindi, quello di fare in modo che diverse persone o diverse unità organizzative operino sinergicamente, cooperino e lavorino insieme per raggiungere gli obiettivi comuni. Il coordinamento ha, in un certo senso, un ruolo complementare rispetto alla divisione del lavoro, avendo lo scopo di:  armonizzare le attività e le decisioni delle unità organizzative, tra loro e con gli obiettivi dell’organizzazione;  favorire l’integrazione, cioè attivare un processo di interazione di vari compiti, unità organizzative, in modo che operino sinergicamente;  assicurare la fluidità delle attività, senza disallineamenti temporali;  ridurre la variabilità dei comportamenti, ove non sia desiderabile. Si può affermare che il coordinamento risulta tanto più necessario quanto più i compiti sono complessi ed interrelati e quanto più la stessa organizzazione si presenta ugualmente complessa e diversificata e che riuscire a trovare le mo57

dalità più opportune per facilitare la comunicazione ed il coordinamento tra diverse unità organizzative rappresenta una rilevante sfida per i manager (Daft, 2010). Ma come si può realizzare il coordinamento? All’interno dell’organizzazione possono presentarsi diverse tipologie di collegamenti:  collegamenti verticali: sono utilizzati per coordinare le attività tra il vertice e la base di un’organizzazione, per cui i dipendenti dei livelli inferiori devono svolgere attività coerenti con gli obiettivi definiti dai livelli superiori (Daft, 2010); in questo senso sono strumenti di coordinamento:  lo stesso riporto gerarchico (cioè la gerarchia che stabilisce “chi riporta a chi” e, quindi, coordina varie posizioni all’interno dell’organizzazione), nel senso che, se emerge un problema che il dipendente non sa risolvere, lo stesso viene riportato al superiore e, quando il problema viene risolto, la risposta viene trasmessa al dipendente;  la presenza di regole o procedure, in base alle quali il dipendente sa come comportarsi senza la necessità di comunicare con il proprio superiore;  la diffusione all’interno dell’organizzazione di report, circolari, informazioni scritte che “procedono” dall’alto verso il basso (“top down”);  collegamenti orizzontali: si riferiscono, invece, alle esigenze di coordinamento esistenti tra le diverse unità di un’organizzazione e determinano un miglioramento della comunicazione tra le stesse unità, consentendo di attenuare le cosiddette “barriere organizzative”; in questo senso si presentano come strumenti adottabili:  lo stesso sistema informativo che consente a tutti i componenti di un’organizzazione di scambiarsi costantemente ed in tempo reale informazioni (le soluzioni informatiche sono valutabili in relazione ai loro effetti sulle modalità di gestione delle interdipendenze esistenti tra diverse attività. sia all’interno della stessa unità, sia trasversalmente interessando più unità organizzative e sia agendo nelle relazioni tra diverse organizzazioni) e del quale una, sia pure sintetica, analisi sarà svolta in seguito;  un contatto diretto tra i soggetti interessati da un problema, ove lo sviluppo di relazioni interpersonali può anche consentire di affrontare e risolvere problemi che investono diverse unità organizzative (Jones, 2012);  svolgimento di riunioni: creano uno spazio per un’interazione diretta tra persone la cui attività presenta elementi di interdipendenza; possono consentire uno scambio di opinioni, facilitare la comprensione reciproca; possono essere programmate o meno, più o meno formali, con una composizione predeterminata o adattabile ai particolari problemi da affrontare; 58









emerge la necessità di valutare le modalità di svolgimento al fine di garantire una maggiore efficacia (preparazione, svolgimento, chiusura) ed efficienza (problemi legati ai tempi ed ai costi); la previsione di un ruolo di collegamento, situazione che si verifica quando si attribuisce ad una persona, in virtù delle sue competenze (conoscenze, capacità ed attitudini), che opera in un’unità organizzativa, oltre ai compiti che normalmente svolge, anche quelli di contribuire al coordinamento della stessa unità con altre unità; la creazione di Task Force, cioè di comitati temporanei, composti da persone appartenenti alle unità organizzative interessate da uno specifico problema che si intende affrontare e risolvere: si tratta, generalmente, di una soluzione che presenta un basso livello di formalizzazione, che può prevedere anche la presenza di specialisti esterni e che è destinata, una volta raggiunta la soluzione al problema, a sciogliersi (si pensi, ad esempio, alla creazione di una Task Force per l’installazione di un nuovo sistema informativo che coinvolge esponenti delle diverse aree gestionali dell’organizzazione affiancati dal responsabile EDP e da consulenti esterni nella ricerca della soluzione in grado di meglio soddisfare i reali bisogni informativi dell’organizzazione); la previsione di ruoli di integrazione, cioè posizioni organizzative istituite appositamente per migliorare il coordinamento tra più unità organizzative: esempi, al riguardo, possono essere un Product Manager (responsabile dell’andamento di una linea di prodotti e che è chiamato, pur essendo collocato in una certa unità organizzativa, a coordinare le diverse attività che riguardano tale linea, dalla ricerca al miglioramento della qualità, agli aspetti pubblicitari e promozionali e che interessano più ambiti della stessa organizzazione; si tratta di una figura che deve far fronte sovente ad uno squilibrio tra autorità e responsabilità che può generare situazioni di conflitto e che può essere gestito facendo leva sulle sue capacità relazionali, di sapersi “guadagnare” il supporto delle altre unità organizzative interessate), un’Area Manager (responsabile del coordinamento delle attività svolte dall’organizzazione in una data area geografica); la creazione di team, cioè di soluzioni organizzative particolarmente efficaci per lo svolgimento di attività che interessano più unità organizzative e che richiedono un adeguato coordinamento nel tempo; una volta ricordata la distinzione tra lavoro di gruppo e lavoro in team, nel senso che il primo individua un’aggregazione di persone caratterizzate da competenze simili e, quindi, rappresenta una modalità di organizzare le attività svolte all’interno di una stessa unità organizzativa (logica organizzativa funzionale), mentre il team è costituito da un insieme di persone con competen59

ze diverse ma complementari che fanno riferimento a diverse unità organizzative (logica organizzativa per processi), si può ricordare che un team richiede una responsabilizzazione collettiva oltre che individuale, un effettivo lavoro in comune dei soggetti coinvolti superando la propensione all’individualismo ed i sensi di diffidenza nei confronti degli altri, la disponibilità ad accettare il confronto, la costruzione di un rapporto reciproco di fiducia; componenti, quindi fondamentali per il funzionamento di un team e per la sua capacità di perseguire risultati in termini di performance sono le competenze delle persone coinvolte, il loro senso di responsabilità ed il loro impegno a lavorare in modo integrato; gli elementi che generalmente compongono un team sono individuabili nel responsabile del team (o team leader per evidenziare l’importanza delle sue capacità di leadership e che è responsabile dell’attività svolta e delle risorse impiegate, guida e coordina i membri del team, pianifica le azioni da svolgere, gestisce le riunioni e le situazioni di conflitto), nei soggetti che lavorano a tempo pieno nel team (core team) e in quei soggetti che sono chiamati in determinati momenti a fornire un loro specifico contributo (membri di supporto); esempi di tipologie di team possono essere: o team di progetto dove interagiscono esponenti di diverse unità dell’organizzazione (la stessa area della progettazione, quella della produzione, degli acquisti, della qualità, del marketing) con il coinvolgimento anche di esperti esterni e di tecnici dei principali fornitori di componenti del prodotto, per raggiungere gli obiettivi del progetto entro un certo periodo di tempo e sotto la guida del responsabile dell’intera gestione del progetto (Project Manager): tale figura è dotato di autorità gerarchica nei confronti delle persone che fanno parte del team di progetto, per cui i componenti del team si trovano in una situazione di doppia dipendenza non contemporanea, nel senso che dipendono dal project manager per il tempo dedicato alla realizzazione del progetto, mentre tornano alle dipendenze del loro responsabile funzionale per il tempo rimanente. Il suo inserimento è associato alla necessità di mantenere contemporaneamente un’elevata competenza tecnica e un altrettanto elevata pressione sul raggiungimento dei risultati (Costa & Gubitta, 2008). In particolare, egli è tenuto ad identificare gli obiettivi del progetto e le risorse necessarie, a definire il piano di svolgimento dello stesso, ad assegnare compiti e responsabilità all’interno del team, ad assicurare che la qualità del progetto sia costantemente sotto controllo, a monitorare lo stato di avanzamento del progetto (tale controllo può consentire di rilevare eventuali scostamenti rispetto agli obiettivi, ad esempio temporali nelle varie fasi del progetto, comprenderne 60

le cause, definire le opportune azioni correttive valutandone i relativi impatti sul progetto stesso; così come anche di prevedere come potrà evolvere l’iter realizzativo del progetto nel periodo che ancora resta prima della conclusione dello stesso ed intervenire con azioni mirate qualora lo si ritenga necessario) fornendo alla direzione tutte le informazioni richieste, a dichiarare concluso lo stesso progetto non appena sono stati raggiunti gli obiettivi fissati; ciò riuscendo ad abbinare conoscenze tecniche con capacità di leadership, di gestire il budget di progetto, di problem solving, di gestire il team, di verificare tempi, costi e qualità del progetto (Russel, 2004); o team operativi che rappresentano una delle soluzioni adottate nell’evoluzione delle modalità di organizzazione del lavoro a livello, appunto, operativo; o team “virtuali” che sono composti da soggetti appartenenti a diverse unità organizzative o anche a diverse organizzazioni, dispersi geograficamente e che sono tra loro connessi tramite tecnologie di informazione e di comunicazione; grazie a questi supporti tecnologici essi possono comunicare tra loro, condividere basi documentali, utilizzare gli stessi programmi applicativi, pianificare i processi a cui prendono parte, concordare le decisioni nelle varie fasi delle attività svolte utilizzando strumenti in grado di facilitare il confronto e la generazione di idee (Daft, 2010). Le attività di controllo, invece, riguardano la verifica dei risultati ottenuti e l’individuazione degli eventuali necessari provvedimenti correttivi sulla base di un’adeguata opera di responsabilizzazione. Dal punto di vista terminologico, con riferimento al concetto stesso di controllo si possono riscontrare accezioni che vanno da quella originaria, appunto, di verifica a quella di contenuto più ampio, come strumento di guida degli andamenti economico-aziendali, di indirizzo e di stimolo verso il miglioramento continuo. In questo contesto il controllo organizzativo può essere definito come un «processo mediante il quale si cerca di influenzare il comportamento dei membri di un’organizzazione formale in modo tale da realizzare un avvicinamento tra obiettivi personali ed aziendali ed ottenere una loro contestuale soddisfazione, rendendo determinate azioni desiderabili e probabili e coordinando gli organi aziendali verso il raggiungimento degli obiettivi stessi» (Cori, 1997). Sinteticamente, salvo poi riprendere il tema del controllo nel prossimo paragrafo, si può rilevare come lo stesso controllo, con le diverse connotazioni che questa variabile può assumere, possa riguardare:  i comportamenti dei soggetti all’interno dell’organizzazione, con l’obiettivo 61

di ricercare una coerenza dinamica tra gli stessi comportamenti e gli obiettivi dell’organizzazione; in particolare si può controllare o il rispetto di una direttiva (esecuzione di un ordine) o la prestazione del lavoro collegata alla mansione svolta (valutazione della prestazione in termini qualitativi ancor più che quantitativi e legata anche agli aspetti comportamentali) o il grado di raggiungimento di obiettivi predefiniti (sia in itinere che ex-post); tale tipo di controllo può ricollegarsi o alla previsione di premi o sanzioni, o ad un’analisi dei problemi eventualmente emersi, o, ancora, alla ricerca di un miglioramento continuo;  lo svolgimento di un processo, cioè il perseguimento degli obiettivi propri dello stesso processo, inteso come sequenza di attività volta a trasformare elementi in input in elementi in output che hanno valore per il destinatario del processo;  il perseguimento degli obiettivi strategici (controllo strategico): si riferisce alla verifica dei risultati conseguiti a seguito dell’implementazione delle scelte strategiche adottate allo scopo di apportare eventuali correttivi o, nel caso si ritenga ciò necessario, rivedere gli stessi obiettivi perseguiti; più in particolare, si può affermare che tale forma di controllo concerne il monitoraggio delle variabili che hanno alimentato il processo di formulazione delle strategie nonché il controllo del processo di formazione delle stesse strategie; questo controllo riguarda perciò sia variabili esogene (maggiormente monitorabili mediante forme di collaborazione interorganizzativa) e sia variabili endogene che richiedono l’articolazione degli obiettivi strategici in traguardi intermedi significativamente correlati tra loro; la rilevazione, l’interpretazione e la valutazione dei cambiamenti degli assunti chiave che sottendono le stesse strategie alimentano l’aggiornamento del piano strategico ed in particolare la modifica degli obiettivi perseguiti, la revisione delle scelte effettuate, la rimodellazione delle varabili del processo di formazione delle strategie, la riallocazione delle risorse; la sua capacità di orientare i comportamenti organizzativi consente di rilevare come il controllo strategico e quello organizzativo, analizzato in precedenza nelle sue diverse sfaccettature, tendano a configurarsi come due forme di controllo complementari che si influenzano reciprocamente, in relazione agli avvolgenti, organici ed evolutivi legami di causalità circolare che caratterizzano i rapporti tra le strategie e le soluzioni organizzative adottate;  il funzionamento della stessa organizzazione: si tratta della predisposizione di un sistema di rilevazione dei risultati raggiunti che consenta non solo il confronto con i risultati attesi, l’analisi delle cause di eventuali scostamenti, l’attribuzione delle relative responsabilità ma anche la possibilità di porre in essere opportune azioni correttive in modo tempestivo.

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In relazione, invece ai tempi e ai modi con i quali l’attività di controllo viene realizzata si possono presentare:  controlli ex-ante: si focalizzano sugli input delle attività da controllare nella convinzione che input di qualità elevata possono consentire migliori livelli di performance;  controlli correnti o in itinere: sono posti in atto contemporaneamente allo svolgimento delle attività che intendono controllare;  controlli ex-post: sono esercitati dopo che l’attività o il processo ha realizzato il suo output (ad esempio, un controllo di qualità sui prodotti finiti). Il sistema informativo Si tratta del sistema di elaborazione e gestione delle informazioni che permette alle unità connesse di migliorare i processi decisionali, di rafforzare le relazioni reciproche, di agevolare, come ricordato, il coordinamento ed il controllo delle attività svolte (Rossignoli, 2004). Ciò con l’obiettivo di soddisfare le esigenze informative dell’organizzazione (efficacia) valorizzando al meglio le risorse impiegate (efficienza). In tale contesto si ritiene che le informazioni devono risultare tempestive (disponibilità temporale), chiare (nella loro forma e linguaggio), attendibili (corrispondenti alla realtà), rilevanti (utili rispetto agli scopi perseguiti dal soggetto interessato), selettive (tali da evitare eccessi di informazioni), articolate (opportunamente elaborate rispetto agli scopi perseguiti dall’utente). Senza entrare in specifici approfondimenti in merito a questa variabile, si possono rilevare i seguenti aspetti:  le tecnologie informatiche rappresentano una componente essenziale per il funzionamento di un’organizzazione;  si può parlare di una maggiore richiesta di informazioni, in quantità e qualità, da parte delle diverse unità organizzative al fine di riuscire a governare meglio le maggiori complessità gestionali;  l’evoluzione delle tecnologie informatiche ha messo a disposizione strumenti con potenzialità sempre maggiori e software più evoluti che, partendo dall’interessare solo le attività più operative, hanno progressivamente investito le attività di gestione dell’intera organizzazione ed i rapporti tra diverse organizzazioni; in particolare le stesse tecnologie possono essere un importante strumento di supporto in primo luogo per il coordinamento all’interno dell’organizzazione: si pensi allo sviluppo di reti Intranet in grado di migliorare la comunicazione interna, di consentire ai diversi membri dell’organizzazione di ottenere rapidamente le informazioni di cui hanno bisogno nonché di 63

condividere conoscenze e di lavorare su progetti in modo collaborativo; allo sviluppo di sistemi Enterprise Resource Planning che hanno lo scopo di rendere disponibili in diversi punti dell’organizzazione tutte le informazioni che consentono di sfruttare risorse complementari (ad esempio, tali sistemi rendono possibile integrare più strettamente produzione e servizi alla clientela, rendendo disponibili all’area marketing tutte le informazioni sullo stato di avanzamento di un processo produttivo) e che consentono di analizzare come le decisioni e le azioni di una parte dell’organizzazione influiscano su altre parti della stessa: sono composti da singoli moduli specifici per le diverse aree gestionali e da un potente data base centrale che collega tutti gli operatori interessati, per cui ogni operazione in un determinato modulo comporta anche l’aggiornamento automatico dei dati che si riferiscono alla stessa operazione in tutte le altre aree coinvolte; si pensi, ancora, allo sviluppo di sistemi informativi a supporto della gestione delle conoscenze, cioè sistemi che rispondono all’obiettivo di favorire l’acquisizione, la creazione, il trasferimento e la condivisione di conoscenze all’interno della stessa organizzazione (Daft, 2010). In secondo luogo possono supportare il coordinamento rivolto a rafforzare le relazioni esterne con altre organizzazioni (si pensi allo sviluppo di reti Extranet, di sistemi informativi a supporto del Supply Chain Management, di sistemi di Customer Relationship Management volti a potenziare le relazioni con i clienti, tenendo “traccia” delle interazioni con gli stessi e permettendo di richiamare a video i dati sulle vendite, gli ordini in sospeso o i problemi irrisolti, di sistemi di E-business, cioè di attività che hanno luogo tramite processi digitali su un network di computer invece che in un luogo fisico) (Amadio, 2006);  le tecnologie informatiche possono essere utilizzate a supporto delle attività di controllo sia delle performance individuali e sia del funzionamento stesso dell’intera organizzazione sempre confrontando i risultati conseguiti con gli obiettivi stabiliti per intraprendere eventuali azioni correttive: «il ciclo di controllo prevede che vengano fissati degli obiettivi strategici per le varie unità o l’organizzazione nel suo complesso, che vengano stabiliti misure e parametri di performance, che la performance corrente venga misurata e confrontata con i parametri, correggendo o modificando le attività a seconda delle esigenze» (Daft, 2010). In questa ottica si può pensare, secondo un sistema di Balanced Scorecard, di tenere sotto controllo quattro importanti prospettive: le performances economico-finanziarie, il livello di servizio ai clienti (soddisfazione e fedeltà degli stessi), i processi di business, le capacità della stessa organizzazione di apprendere e crescere.

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La gestione del personale Si tratta dell’insieme delle decisioni e delle azioni riguardanti l’impiego e la valorizzazione del personale nell’ambito del sistema organizzativo in modo da realizzare con efficacia ed efficienza gli obiettivi aziendali. Si può parlare del passaggio da una concezione che vede il personale essenzialmente come un costo da ottimizzare (problemi legati al costo del lavoro, attenzione alle dotazioni organiche, limiti al personale da assumere, ecc., con la prevalenza di una concezione volta ad amministrare il rapporto di lavoro con la ricerca della correttezza amministrativa e della rispondenza alle normative legislative e contrattuali), ad una concezione che considera il fattore umano come una risorsa, un elemento critico dal quale dipendono le stesse performance dell’organizzazione (qualità del servizio, capacità di raggiungere determinati obiettivi, capacità di innovazione, ecc.) e che quindi va valorizzata e sviluppata (l’area del personale viene ad assumere una posizione di staff in grado di fornire al vertice e alle diverse direzioni quei supporti necessari per implementare scelte strategiche in termini di personale) (Auteri, 2009). In modo parallelo al passaggio indicato si possono evidenziare le diverse fasi evolutive che hanno interessato l’area che nell’organizzazione si occupa delle tematiche connesse al personale. Si tratta di un processo evolutivo ove le singole fasi sono ancora individuabili nelle diverse realtà organizzative, in base alle differenti dimensioni e a quelle legate alle tipologie di attività svolte. “In una prima configurazione che può essere definita di “amministrazione del personale”, l’unità è caratterizzata da una concezione di tipo contabile, amministrativa, volta ad amministrare il rapporto di lavoro. L’area del personale ha scarsi relazioni con il vertice strategico e con la linea operativa; da questi riceve gli input per tradurre le politiche generali in ordine al personale in atti e rilevazioni coerenti con le norme legislative e contrattuali e con le procedure amministrative. La gestione del personale in termini sostanziali è invece strettamente legata alla gestione tout court ed è quindi effettuata dal vertice strategico e dai capi di line. Dal punto di vista organizzativo l’unità è confusa con la direzione amministrativa, di cui costituisce un’appendice. Una concezione del tipo “amministrazione del personale”, fornisce un servizio indifferenziato e non opera segmentazioni del personale, se non nel limitato grado richiesto dall’articolazione dei dipendenti nelle categorie definite per via legislativa e contrattuale (dirigenti, quadri, impiegati e operai). La professionalità degli addetti è generica sugli aspetti gestionali, mentre è normalmente molto sviluppata sugli aspetti giuridico-amministrativi. Possono riscontrarsi anche in materia amministrativa, soprattutto nelle dimensioni minori, supporti di consulenza professionali e associativi. Il criterio dominante per valutare la performance dell’unità è definito dalla correttezza amministrativa e dalla “legittimità” (rispondenza alla normati65

va legislativa e contrattuale), oppure (solo per gli aspetti amministrativi del personale) è rivolto al costo. È una configurazione che, ancor oggi, si riscontra in prevalenza non solo in imprese di piccola dimensione, ma anche in grandi imprese burocratizzate, in particolare nella pubblica amministrazione. In una seconda configurazione che può essere definita di “gestione del personale”, la direzione del personale ha carattere gestionale e non solo amministrativo, definisce politiche e offre al vertice strategico e alla linea operativa i supporti tecnici per implementare le loro scelte strategiche e gestionali in termini di personale. Tale focalizzazione per gli aspetti direzionali e gestionali del personale non si contrappone a quella tipica della precedente configurazione, in quanto la correttezza giuridico-amministrativa è comunque assicurata. Nella definizione e nella implementazione delle proprie politiche specifiche la direzione del personale può godere di due tipi di autonomia organizzativa, specialistica o politica. L’autonomia specialistica deriva da una collocazione organizzativa autonoma e differenziata rispetto alla funzione amministrativa e alla line. Il suo compito è quello di fornire da una posizione di staff, supporti tecnici alla line, in ambiti che richiedono strumenti professionali specifici (per esempio tecniche di selezione, analisi motivazionali). (…) L’autonomia politica, invece, conferisce ai responsabili del personale un potere diretto sulle politiche delle risorse umane: Dal punto di vista organizzativo, la direzione del personale risponde direttamente ai vertici aziendali e ha un’autonomia funzionale sulla line per tutti i problemi che attengono al personale. (…) Le politiche del personale si collocano, rispetto alla strategia aziendale, in una posizione reattiva e adattiva. La professionalità degli addetti è normalmente generica per quanto riguarda gli aspetti di gestione aziendale, mentre è elevata sugli aspetti tecnici di direzione del personale con uso di strumentazioni che possono essere anche molto sofisticate e formalizzate. La valutazione della performance della direzione del personale si basa su criteri di efficienza e di efficacia nell’impiego del personale, con una prevalenza di un’ottica di breve a periodo e di soluzione di problemi specifici” (Boldizzoni, 2009, pp. 12-14). Questa configurazione è prevalente in aziende di media-grande dimensione che hanno maturato una certa esperienza nella gestione del personale. Una terza configurazione può essere definita come “direzione e sviluppo delle risorse umane” ed è basata su di “un’ottica strategico-sistemica volta a ricercare organicamente compatibilità e coerenze reciproche tra scelte strategiche e politiche del personale. Le politiche del personale sono in questo caso concepite ed evolvono con la strategia dell’impresa. La business idea ha in sé la human resource idea. Entrambe si alimentano inoltre di una visione sistemica del rapporto tra impresa, ambiente e attori sociali. La funzione del personale è focalizzata sulle problematiche strategiche, direzionali e operative ed è integrata nei 66

massimi livelli decisionali dell’impresa. Partecipa al processo di programmazione aziendale non solo ricevendo input, ma anche fornendone. Attraverso le politiche del personale vengono costruiti elementi importanti del vantaggio competitivo. In questa configurazione più globale e integrata, le politiche del personale si collocano rispetto alla strategia aziendale in una posizione proattiva e di anticipazione finalizzata a rimuovere vincoli e a sviluppare opportunità sia per l’azienda sia per i lavoratori. (…) La professionalità degli addetti è elevata, tanto sugli aspetti di gestione aziendale, quanto su quelli tecnici di gestione e sviluppo delle risorse umane, ma probabilmente senza esasperazioni specialistiche che porterebbero, come hanno portato in talune versioni della configurazione definita di gestione del personale, a sofisticazioni autoreferenziali. Il criterio dominante per valutare la performance della direzione del personale diventa la capacità di alimentare il vantaggio competitivo, attraverso lo sviluppo di caratteristiche distintive delle risorse umane aziendali. I professionisti della direzione del personale devono conoscere il business e interpretarne, ma spesso anticiparne, le esigenze. Essi hanno un ruolo centrale nel caratterizzare, consolidare e diffondere la cultura aziendale e, quando necessario, gestirne il cambiamento. Tale configurazione è più diffusamente riscontrabile in imprese di dimensioni grandi, orientate all’innovazione di prodotto e di mercato, operanti in contesti sociali sviluppati che affrontano mercati del lavoro differenziati e ambienti anche molto perturbati che offrono molte opportunità agli innovatori” (Costa & Gianecchini, 2010, pp. 25-28). Il personale può, quindi, essere analizzato secondo:  una diagnosi di costo, tenendo sotto controllo gli andamenti retributivi, valutando il posizionamento, rispetto ad aziende concorrenti, in termini di costo del lavoro;  una diagnosi quantitativa, volta ad identificare le posizioni vacanti, così da attivare una ricerca interna all’organizzazione o esterna, oppure situazioni di esuberi, cioè di personale eccedente (blocco del turnover, incentivazione all’uscita dall’organizzazione, riduzione del personale ricorrendo alla mobilità o alla cassa integrazione);  una diagnosi qualitativa, valutando la disponibilità di personale competente e le più opportune modalità di gestione dello stesso. Si può parlare, così, come ricordato, di “capitale umano” che può essere definito come l’insieme delle competenze degli individui presenti nell’organizzazione. Il suo valore è ricollegabile al ruolo che oggi giocano la creatività e l’innovazione ai fini delle stesse capacità competitive: in effetti, proprio le risorse umane possono garantire queste “doti” all’organizzazione. Non si può, in ogni caso, dimenticare che le competenze “appartengono” alle persone e non alle or67

ganizzazioni, per cui sarà possibile mantenere ed incrementare questo capitale solo mediante adeguate politiche focalizzate sulla loro gestione ed orientate alla fidelizzazione, alla formazione, allo sviluppo professionale. I profondi mutamenti tecnologici, ambientali, economici, sociali e legislativi in atto portano le organizzazioni a dover essere in grado di affrontare una revisione dei tradizionali modelli finora utilizzati per la gestione delle proprie risorse, in quanto questi rischiano di rilevarsi obsoleti. Lo scenario in continua trasformazione richiede altrettante continue innovazioni attraverso l’elaborazione di nuovi modelli e percorsi per una migliore ottimizzazione delle stesse risorse al fine di rispondere più adeguatamente alle sfide strategiche attuali. Proprio il perseguimento degli obiettivi strategici in situazioni di forte instabilità e di scarsa prevedibilità degli scenari esterni, richiede una forte capacità reattiva, una gestione delle persone viste come soggetti dotati di intelligenza emotiva, portatori di competenze di grande rilevanza per il successo dell’organizzazione. Per questo motivo la gestione delle risorse umane è venuta acquisendo una notevole importanza nella strategia “globale” di un’organizzazione, in quanto “strumento” indispensabile per il conseguimento degli stessi risultati organizzativi (Boldizzoni, 2009). Ma, in sintesi, cosa vuol dire gestire il personale di un’organizzazione? Sono individuabili diversi aspetti tra loro collegati e che possono assumere diverse configurazioni:  definire i fabbisogni professionali coerentemente con l’evoluzione delle esigenze organizzative e delle possibilità economiche e normative (programmazione del personale);  definire e gestire adeguati processi di reclutamento e selezione, garantendo l’acquisizione delle risorse umane sulla base dei fabbisogni espressi dall’organizzazione;  curare la fase di accoglimento dei neo-assunti ed il periodo di inserimento;  garantire un’adeguata analisi dei fabbisogni di formazione, definire un piano delle azioni formative decidendo quali gestire internamente e quali esternamente, valutandone i risultati (in termini di reazioni, di apprendimento, di miglioramento delle prestazioni e dei risultati conseguiti dalla stessa organizzazione);  definire come analizzare e valutare posizioni, prestazioni, potenziali;  definire un sistema di incentivazione mirato all’assegnazione di obiettivi, alla valorizzazione dei risultati ottenuti;  monitorare il clima organizzativo interno;  monitorare, garantire la qualità e l’efficienza del sistema di comunicazione interna; 68

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gestire le relazioni sindacali; dare corretta attuazione a quanto definito contrattualmente; coordinare le attività di competenza in termini di sicurezza del lavoro; garantire il corretto adempimento di tutto ciò che attiene all’amministrazione del personale;  gestire i dati relativi al personale;  aggiornarsi continuamente rispetto alle novità normative con riguardo al lavoro;  affrontare i contenziosi sui temi inerenti il rapporto di lavoro. A fronte di questo complesso di attività, con riferimento al tema della gestione del personale, si possono individuare alcune peculiarità:  un’elevata pervasività, nel senso che le diverse strategie poste in essere da un’organizzazione hanno una componente che impatta sulle risorse umane e viceversa (Costa & Giannecchini, 2013);  una significativa despecializzazione, nel senso che la capacità di gestire il personale rientra tra le competenze che investono non solo l’area del personale ma ogni centro di responsabilità dell’organizzazione;  un rilevante cambiamento delle professionalità richieste a chi è responsabile dell’area del personale (sviluppo della figura del Personnel Manager, caratterizzato da una maggiore visione d’insieme della realtà organizzativa, da una costante attenzione verso gli obiettivi della stessa organizzazione, da una maggiore integrazione con le posizioni di vertice);  la tendenza ad esternalizzare alcune attività precedentemente svolte all’interno dell’area del personale, come nel caso di attività amministrative (buste paga), di ricerca e selezione, di formazione (sia come formazione a “catalogo” che come progettazione di corsi di formazione), con vantaggi in termini di costi, di qualità legata ad una migliore qualificazione nelle attività svolte, anche se alcuni limiti possono emergere per una eventuale scarsa conoscenza delle specificità della situazione propria dell’organizzazione. Nell’attuale scenario di riferimento il modello di gestione delle risorse umane non può che essere quello della valorizzazione del capitale umano; in altri termini, l’obiettivo perseguito è quello di alimentare il vantaggio competitivo dell’organizzazione mediante il costante sviluppo del personale, con una continua ricerca di congruenza e di coerenza tra finalità strategiche e caratteristiche del capitale umano. L’accresciuta importanza delle politiche di gestione del personale, in relazione al loro contributo alla creazione di vantaggio competitivo, affida all’area Direzione del personale la responsabilità di supportare l’organizzazione con sistemi gestionali più sofisticati e complessi, capaci di attrarre le migliori risorse, svilupparne il potenziale e massimizzarne la prestazione. 69

Una particolare angolatura sotto la quale analizzare il ruolo della Direzione in questione è quella che la vede impegnata, come vero “agente del cambiamento”, per creare le migliori condizioni per realizzare con successo processi di cambiamento organizzativo. Ogni organizzazione, in effetti, a fronte delle minacce ed opportunità che possono derivare dall’ambiente si trova a dover saper gestire, come meglio sarà analizzato in seguito, processi di cambiamento organizzativo che richiedono l’adozione di strumenti di gestione innovativi e di nuovi modelli di governo. La cultura e il clima organizzativo Definire in modo preciso ed assoluto il concetto di cultura organizzativa non è semplice: sono numerose le relative sfaccettature, le prospettive da cui può essere considerata e ciascuna di esse fornisce altrettante interpretazioni, tali da rendere difficile la costruzione di una definizione che le riassuma tutte in modo esaustivo (Bodega, 1996). Per cultura organizzativa si può intendere, comunque, l’insieme dei valori, delle norme comportamentali condivise dai membri di un’organizzazione e che influenzano le interazioni tra gli stessi e tra questi e gli interlocutori esterni. Secondo Schein (1995) la cultura organizzativa è «un insieme di assunti di base – inventati, scoperti o sviluppati da un determinato gruppo quando impara ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo esterno e di integrazione al suo interno – che si è rilevato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi». La cultura può assolvere nelle organizzazioni alcune funzioni critiche:  integra i membri dell’organizzazione in modo che essi sappiano come relazionarsi gli uni agli altri;  può infondere entusiasmo e motivazione nei dipendenti attraverso il processo di identificazione con gli obiettivi aziendali;  aiuta l’organizzazione ad adattarsi all’ambiente esterno (Schein, 2000). L’“integrazione interna” significa che i membri sviluppano un’identità collettiva e sanno come lavorare insieme in maniera efficace, adottando un comportamento che risulti il più possibile valido ed armonioso. L’“adattamento esterno” si riferisce, invece, a come l’organizzazione raggiunge gli obiettivi e si relaziona ad entità esterne: la cultura può contribuire, infatti, a dirigere le attività dei dipendenti verso il raggiungimento di determinati obiettivi e può aiutare l’organizzazione stessa a rispondere più rapidamente alle necessità dei clienti o alle mosse dei concorrenti. Alla luce di queste considerazioni, oggi si riconosce l’importanza della cul70

tura organizzativa per lo stesso successo di un’azienda. La sua rilevanza appare accresciuta anche nell’attuale scenario globale in cui è indispensabile possedere requisiti di coesione ai fini del miglioramento dell’efficienza interna e anche dell’apparire e dell’inserirsi nell’ambiente esterno. Essa favorisce il processo di interiorizzazione delle modalità di lavoro necessarie per affrontare le svariate e nuove responsabilità, incoraggia ad agire con coinvolgimento, a far proprio un atteggiamento sempre più indirizzato ad operare in una logica orientata al perseguimento di obiettivi ed al raggiungimento di risultati. La cultura di un’organizzazione può mostrare una parte per così dire “visibile”, che costituisce il livello più tangibile della stessa cultura rappresentata dal modo stesso in cui le persone si vestono ed agiscono, da particolari riti, cerimonie, eventi (si tratta di attività collettive, elaborate e pianificate che costituiscono un evento ad elevato coinvolgimento emotivo e che hanno come fine ultimo la diffusione di valori ritenuti fondamentali e quindi da condividere: si pensi, ad esempio, a convention a cui vengono invitati i dipendenti, alle cene sociali, ecc.), dalla diffusione di storie legate all’organizzazione (si tratta di aneddoti basati su eventi che circolano con frequenza tra i dipendenti e che sono tramandati ai nuovi membri per fornire informazioni sui modelli valoriali e comportamentali dell’organizzazione), dallo sviluppo di un linguaggio aziendale comune (si parla di simboli, cioè tutti quei comportamenti, rapporti o strutture linguistiche in grado di condurre i soggetti interessati ad assumere certi atteggiamenti e modi di agire: ne sono esempi i modi di salutare, di parlare, di relazionarsi con gli altri), dalla medesima disposizione dei locali di lavoro (ad esempio sempre più spesso negli uffici sono eliminati muri che separano le diverse aree di lavoro, sostituiti da ampi spazi aperti, così da simboleggiare l’impegno dell’organizzazione nei confronti di valori di apertura, uguaglianza, trasparenza). Tali elementi “visibili” sono, comunque, espressione di valori profondi, radicati nei membri della stessa organizzazione (Daft, 2010) e che rappresentano gli aspetti più significativi anche se costituiscono la parte non immediatamente “visibile” della stessa cultura. Che cosa sono i valori organizzativi e come possono incidere sui comportamenti? «I valori sono i criteri o i principi guida generali in base a cui le persone distinguono i comportamenti, gli eventi, le situazioni e gli esiti desiderabili da quelli indesiderabili. Esistono due tipi di valori: finali e strumentali. Un valore finale è un esito desiderabile che le persone cercano di raggiungere. Le organizzazioni possono adottare come valori finali, ovvero come principi guida, uno o più dei seguenti: l’eccellenza, la responsabilità, l’affidabilità, la redditività, l’innovatività, l’etica, la qualità. (…) Un valore strumentale è una modalità comportamentale desiderabile. Le modalità comportamentali approvate ed incenti71

vate dalle organizzazioni comprendono l’impegno, il rispetto delle tradizioni e dell’autorità, l’atteggiamento conservatore e prudente, la frugalità, la creatività e il coraggio, l’onestà, il supporto ai colleghi, la disponibilità a correre dei rischi e il mantenimento di standard elevati. La cultura di un’organizzazione, pertanto, consiste negli esiti che essa cerca di raggiungere (i suoi valori finali) e le modalità comportamentali che incoraggia (i suoi valori strumentali). Idealmente, i suoi valori strumentali la aiutano a raggiungere i suoi obiettivi finali. Per esempio, un’azienda come Google, la cui cultura pone l’enfasi sul valore finale dell’innovatività, può raggiungere tale esito attraverso valori strumentali come l’impegno verso l’organizzazione, la creatività e la propensione al rischio» (Jones, 2012, p. 169). I valori sono identificabili come convinzioni durature sui modi di agire e sulle loro conseguenze; si tratta di esperienze che, attraverso processi di trasformazione cognitiva e di consenso sociale, diventano appunto convinzioni alle quali si fa riferimento, codici morali utilizzati più o meno inconsciamente per stabilire ciò che è giusto e sbagliato. Con il passare del tempo i valori si radicano e si diffondono tra i membri dell’organizzazione al punto che acquisiscono un requisito di collettività, estendendosi in modo capillare a tutta la stessa. Nel momento in cui i valori si dimostrano efficaci per la soluzione dei problemi aziendali e sono quindi utilizzabili ripetutamente con successo, essi entrano a far parte delle assunzioni di base della stessa organizzazione, valide nel tempo e per le quali i membri della stessa troveranno non accettabile, in quanto non coerente, qualsiasi azione basata su presupposti differenti. Il punto debole di tali assunti di base è il fatto che, talvolta, possono essere talmente radicati da ostacolare l’organizzazione nei casi di necessità di cambiamento: esse comportano, infatti, una sorta di resistenza alla trasformazione, talora negando addirittura il bisogno palese di apportare cambiamenti per favorire un migliore adattamento agli scenari e all’ambiente in cui l’azienda è inserita. La cultura di un’organizzazione è frutto dell’interazione di diversi fattori che spiega le diversità culturali tra diverse organizzazioni e che può determinare, nella stessa organizzazione, con il passare del tempo, dei cambiamenti. Tali fattori sono ricollegabili, ad esempio, alle persone che hanno creato l’organizzazione e che possono influire profondamente sulla sua cultura di partenza attraverso i suoi valori e le sue convinzioni; allo sviluppo di valori diretti a governare il comportamento dei membri dell’organizzazione, quali i valori etici e morali che determinano il “modo giusto” secondo il quale gli stessi membri dovrebbero comportarsi gli uni con gli altri nonché con i diversi stakeholder; alle stesse caratteristiche proprie della soluzione organizzativa adottata: così, in un’organizzazione fortemente stratificata, da un punto di vista gerarchico, ed accentrata, le persone hanno poca autonomia e i comportamenti desiderabili sono ricollegabili all’obbedienza all’autorità dei superiori, al rispetto delle tradizioni, 72

dando luogo ad una cultura che auspica la prevedibilità e la stabilità (cultura burocratica o non adattiva); di contro, in un’organizzazione “piatta” e più decentrata le persone presentano più libertà di governare le proprie attività e i comportamenti desiderabili possono comprendere la creatività, il coraggio, la disponibilità a correre dei rischi originando una cultura che auspica l’innovazione e la flessibilità (cultura adattiva) (Schein, 1990). Una cultura adattiva appare coerente con un approccio diretto a favorire lo sviluppo della citata learning organization, incorporando valori ove:  il tutto è più importante delle singole parti e i confini tra le stesse parti sono assai sfumati: le persone sono consapevoli del modo in cui tutto si lega insieme e dei rapporti tra le diverse parti dell’organizzazione; ciò contribuisce a ridurre i confini sia all’interno dell’organizzazione che rispetto ad altre organizzazioni;  l’incoraggiamento dell’assunzione di rischio, del cambiamento, del miglioramento, mettendo in discussione lo “status quo”, gli assunti esistenti. Si può affermare che la cultura di un’organizzazione assolve ad una funzione di integrazione interna, nel senso che contribuisce a sviluppare un’identità collettiva, una coesione culturale, per cui tanto più è vasto il consenso sull’importanza attribuita a specifici valori, tanto più la stessa cultura è forte. Una cultura forte che incoraggia l’adattamento ed il cambiamento può contribuire a migliorare le performance organizzative stimolando e motivando i soggetti interessati; quando, invece, una cultura forte non incoraggia l’adattamento può comportare notevoli rischi, rimanendo l’organizzazione legata a valori e comportamenti non coerenti con il contesto di riferimento. Una volta precisato che la socializzazione è il processo mediante il quale le persone che entrano in un’organizzazione apprendono ed interiorizzano i valori culturali della stessa, che influenzano i comportamenti di chi ne fa già parte, si può altresì ricordare che per cercare di cambiare la propria cultura (tanto più la cultura è forte quanto maggiori potranno essere le resistenze al cambiamento) un’organizzazione può seguire diverse strade: la sostituzione di diverse figure manageriali (il nuovo manager può essere “portatore” di nuovi valori che dovranno cercare di modificare quelli preesistenti), cambiamenti nelle soluzioni organizzative adottate, una mirata attività di formazione del personale diretta a trasmettere nuovi valori e ad incidere sugli aspetti comportamentali (si pensi all’obiettivo di creare una “cultura della sicurezza sul lavoro” promuovendo comportamenti soggettivamente più sicuri), specifici interventi in termini di diffusione delle informazioni migliorando la comunicazione interna; ciò conferma, ancora una volta, le interdipendenze esistenti tra le diverse variabili organizzative. In ogni caso un mutamento della cultura è un processo difficile e lento, pe73

raltro coerente con il fatto di rappresentare una variabile organizzativa “soft” (Daft, 2010). La cultura gioca un ruolo importante nel creare un clima organizzativo che favorisca i processi di apprendimento, ove lo stesso clima individua le tipologie di rapporti interpersonali presenti all’interno di una data unità organizzativa. In tal senso si può parlare di climi organizzativi più o meno collaborativi con effetti significativi sulla motivazione dei soggetti che nella stessa unità operano e, quindi, sulle performance ottenibili. Importante appare, al riguardo, il ruolo dello stile di direzione proprio del responsabile dell’unità considerata e, non a caso, cambiamenti di clima si possono registrare in occasione di sostituzione del medesimo responsabile. Le prime riflessioni sul clima organizzativo si possono far risalire agli studi sulle dinamiche socio-organizzative. In questo contesto si è iniziato a parlare dell’esistenza di elementi che, pur non appartenendo alle determinanti strutturali delle organizzazioni, sono in grado di influenzare in modo determinante i risultati ottenuti dalle organizzazioni stesse. La percezione dell’importanza del concetto di clima organizzativo si può ricondurre all’affermazione di due aspetti riconducibili all’evoluzione delle soluzioni organizzative. Si può fare riferimento, in primo luogo, al concetto di “benessere organizzativo”, intendendo da un lato lo stato soggettivo di coloro che lavorano in uno specifico contesto, dall’altro l’insieme dei fattori che contribuiscono a determinare il suddetto benessere. Utilizzando una definizione generale, questo è inteso come la capacità dell’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto livello di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori. L’altro aspetto riguarda il tema della qualità totale: l’obiettivo della qualità deve spingere l’organizzazione verso un continuo coinvolgimento dei dipendenti e far in modo che questi accettino il proprio lavoro non come una costrizione ma anche come una propria scelta. Ciò contribuisce al passaggio da un approccio meccanicistico delle attività da svolgere ad una visione più attiva del lavoratore che è in grado di interagire con il proprio ambiente lavorativo (Giannini, 1996). I diversi studi che sono stati condotti al riguardo evidenziano come un buon clima organizzativo sia in grado di generare significativi risultati in termini di maggiori livelli di produttività, una più elevata soddisfazione per le mansioni svolte, migliori condizioni di sicurezza, più bassi tassi di assenteismo e di turnover. Il clima organizzativo diviene quindi anche un valido strumento di consapevolezza, di diagnosi e progettazione partecipata al cambiamento. La psicologia del lavoro sottolinea l’importanza di valorizzare il rapporto tra organizzazione e persone, evidenziando come organizzare un lavoro non voglia dire solamente renderlo più produttivo, ma anche più motivante: è puntando pure sugli aspetti impliciti, informali, simbolici, latenti nelle organizzazioni che si 74

può valorizzare e rendere il lavoro stesso fonte di soddisfazione e benessere, come uno dei mezzi atti a migliorare la qualità della vita. Ciò è vero anche in una pura logica di profitto: se l’azienda riuscirà ad essere lungimirante, tanto da rendere partecipe il dipendente rispetto agli obiettivi di sviluppo aziendale, si potrà realizzare il passaggio da un’ottica di diffidenza ad una vera e propria collaborazione, nella quale gli interessi dei dipendenti acquisterà valore perché va nella stessa direzione dell’azienda stessa (Kreitner & Kinicki, 2004). Si potrebbe rappresentare un’organizzazione prendendo a prestito ancora l’immagine di un iceberg; così facendo si possono individuare due aree: l’area emersa, visibile, che dimostra le caratteristiche della struttura aziendale e un’area sommersa, non visibile, che condiziona la direzione dell’iceberg e ne determina il galleggiamento. Allo stesso modo, prendendo come esempio i termini utilizzati per descrivere la composizione di un Personal Computer, si può affermare che esiste una parte hard, corrispondente all’area emersa, che è costruita con scelte razionali e formata da variabili tecniche tangibili e visibili e una parte soft, corrispondente all’area sommersa, costruita sulla base di processi emotivi, individuali e di gruppo, formata da variabili intangibili, invisibili nelle varie parti dell’organizzazione, ma essenziali per il suo buon funzionamento. In particolare, cultura e clima sono importanti variabili soft che si collocano nell’area sommersa dell’organizzazione. Per queste ragioni, con sempre maggior frequenza, le aziende caratterizzate da un’organizzazione snella (si veda il capitolo seguente) stanno praticando in modo sistematico l’analisi del clima interno, l’ascolto del “cliente interno”. Riguardo alla possibilità di valutare un dato clima organizzativo, il problema sembra ruotare attorno alle modalità mediante le quali gli individui, che sono sottoposti ad una vasta gamma di stimoli, possono arrivare ad avere percezioni relativamente omogenee degli stessi, attribuendo anche i medesimi significati ai tratti fondamentali della vita organizzativa. Si può, in ogni caso, affermare che lo studio del clima ricopre oggi un ruolo importante nell’ambito dell’analisi organizzativa; il clima, infatti, è stato riconosciuto quale importante aspetto della realtà organizzativa in grado di avere rilevanti effetti sulla capacità dell’organizzazione di impiegare e valorizzare al meglio le risorse, con particolare riferimento a quelle umane. Lo stesso clima si può considerare come una percezione delle caratteristiche e degli attributi essenziali di un sistema organizzativo, un fenomeno complesso al quale partecipa una pluralità di forze da un lato e che, dall’altro, si traduce in una pluralità di effetti. Il clima, in altri termini, si presenta come l’insieme delle percezioni, dei vissuti, dei sentimenti propri dei membri di una data unità organizzativa; nasce e perdura nel tempo, vivendo in un equilibrio dinamico in cui media tra le esigenze dell’organizzazione e le ragioni dei suoi membri (Tosi & Pilati, 2008). 75

Si può affermare che il clima organizzativo fa riferimento ad alcuni aspetti, come le impressioni dei dipendenti sul modo nel quale l’organizzazione lavora, così come sulle modalità nelle quali la stessa organizzazione dovrebbe lavorare per essere più produttiva, le loro percezioni di quanto la situazione effettiva sia collegata alla situazione desiderata. Ciò si riconduce al ruolo di alcune variabili, quali l’autonomia personale, la strutturazione dei compiti, l’orientamento del sistema di ricompense, il riconoscimento di quanto svolto, l’ambiente di lavoro e le condizioni che lo caratterizzano, i rapporti con i dirigenti, le relazioni interpersonali con i colleghi, l’equità di trattamento che l’organizzazione riserva alle persone in relazione a ciascun comportamento ed apporto lavorativo, il peso psicologico delle attività svolte, il grado di responsabilizzazione. Un’adeguata gestione di tali variabili, capaci di influenzare il clima, può consentire la creazione di un vero e proprio rapporto di collaborazione tra dipendenti e l’organizzazione, nonché un senso di appartenenza all’organizzazione stessa. Tutto ciò crea degli effetti sul rapporto individuo-organizzazione:  effetti di adesione: livello di accettazione-appartenenza all’organizzazione;  effetti di collaborazione: livello-tipo di impegno rispetto agli obiettivi perseguiti;  effetti di identificazione: livello di interiorizzazione dei valori organizzativi. La rilevanza attribuita alla variabile esaminata è confermata dal crescente ricorso, da parte di organizzazioni operanti in diversi settori di attività, ad apposite “indagini di clima”, dirette ad individuare i relativi punti di forza e di debolezza coinvolgendo in tale valutazione gli stessi soggetti interessati, protagonisti in prima persona delle relazioni che si creano in una certa unità organizzativa. Un’analisi del clima fornisce un esame delle percezioni relative alla struttura, ai rapporti, alle relazioni e alle attività che, all’interno dell’organizzazione, si definiscono. Ogni accadimento organizzativo viene interpretato dai suoi membri e gli individui rispondono alle situazioni nelle quali si trovano ad essere inseriti in base al significato che esse assumono per loro; l’interpretazione che scaturisce determina e condiziona ciò che i membri dell’organizzazione pensano, il loro comportamento ed il funzionamento stesso dell’organizzazione (Tosi & Pilati, 2008). In tal senso, un’analisi del clima fornisce una diagnosi che considera l’insieme degli atteggiamenti, dei sentimenti e delle percezioni, fattori giudicabili critici per la qualità della vita lavorativa. Si tratta di una diagnosi che consente di prendere coscienza del percorso che l’organizzazione sta seguendo mediante la “lettura” dei vissuti e degli stati d’animo delle persone che vi lavorano; essa fornisce, quindi, informazioni sulla realtà organizzativa, aiutando le persone ad acquisire maggiore consapevolezza rispetto a quanto accade nel proprio contesto lavorativo. 76

Gli stessi individui, sentendosi nel contempo soggetti ed oggetti dell’analisi, possono, in caso di clima positivo e collaborativo, vedere aumentare la loro soddisfazione nei confronti del proprio lavoro, essere più disposti ad affrontare i cambiamenti, più stimolati e motivati ad attivare forze ed energie per risolvere eventuali difficoltà. Inoltre, il fatto di dover riflettere sulle percezioni dei fenomeni organizzativi e di condividerle con i propri colleghi, alimenta e sviluppa una visione del complesso costrutto organizzativo condivisa e solidale. Tuttavia, nonostante questo possa risultare un valido strumento a supporto dell’attività dell’organizzazione, presenta anche alcuni rischi, legati al fatto che questo tipo di analisi può generare frustrazione e sfiducia nei confronti della stessa organizzazione qualora le aspettative siano disattese, scatenando tensioni latenti e resistenze, diminuendo il commitment dei dipendenti (clima non collaborativo). In tale prospettiva, si può evidenziare il rapporto tra lo stesso clima ed il fenomeno dello stress correlato al lavoro svolto: le possibili cause dello stress lavorativo sono riconducibili ad un complesso di fattori 2 (cattive condizioni di lavoro, orari troppo pesanti, eccessivi carichi di lavoro, situazioni conflittuali nelle relazioni interpersonali, sfiducia nei confronti dei colleghi, limiti nelle possibilità di sviluppo della carriera, ecc.) che si ricollegano ad un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali derivanti dalla percezione di aspetti relativi all’ambiente di lavoro ed al clima che lo caratterizza, ciò anche se lo stress resta, comunque, un fenomeno soggettivo in quanto ogni persona reagisce in maniera differente agli stimoli, in rapporto alla proprie personalità, esperienza ed interpretazione delle situazioni problematiche. Più in particolare, in termini di progettazione delle mansioni si evidenziano, tra gli altri, i rischi connessi ad un basso valore intrinseco del lavoro svolto, ad un uso limitato delle capacità e delle attitudini possedute, ad un’eccessiva ripetitività e monotonia dei compiti, ad una richiesta elevata di attenzione, ad elevate condizioni di rischio in termini di sicurezza, a carenze nelle possibilità di apprendimento. Riguardo i carichi ed i ritmi di lavoro si sottolineano i rischi collegati agli effetti, sia sul piano fisico che psicologico, di eccessi o difetti dei carichi stessi così come alle carenze di tempo per eseguire il lavoro assegnato; con riferimento all’orario di lavoro elementi di criticità possono riguardare i turni (specie quelli di notte), gli orari protratti, gli straordinari. Con riferimento al contenuto delle mansioni, nel momento in cui le stesse si definiscono, anche in 2

L’European Agency for Safety and Health at Work ha recentemente provveduto ad elaborare un tentativo di schematizzazione dei fattori di rischio psicosociale in ambito lavorativo, suddividendoli tra quelli legati al contenuto del lavoro (progettazione delle mansioni, carichi di lavoro, ritmi di lavoro, orari di lavoro) e quelli relativi al contesto di lavoro (organizzazione del lavoro, autonomia e controllo, rapporti interpersonali sul lavoro, possibilità di progressione di carriera, ambiente di lavoro).

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sede contrattuale, una strada perseguibile appare quella di agire sulle possibilità di rotazioni, allargamenti orizzontali e verticali delle mansioni, sia pure ovviamente nei limiti posti dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori. A fronte di attività dai contenuti potenzialmente stressanti si potrà anche prestare attenzioni specifiche alle prove attitudinali, alle sequenze dei turni di lavoro, ecc. Appare importante, in tale contesto, spostare l’attenzione dal concetto oggettivo di mansione a quello più soggettivo di ruolo che si richiama, come ricordato, alle caratteristiche individuali del soggetto, alle sue aspettative nei confronti degli altri soggetti e dell’organizzazione stessa; ciò può far insorgere situazioni conflittuali quando tali aspettative non sono coerenti con quelle che le altre persone e l’organizzazione hanno nei confronti della persona considerata. L’attribuzione di un maggior livello di responsabilizzazione può essere fonte di stress? Oggettivamente la risposta a questa domanda non può che essere positiva, salvo differenze sul piano soggettivo. Ciò suggerisce, a monte, un’attenta valutazione per cercare di capire se e in che misura il soggetto interessato può essere adatto e motivato ad assumersi un diverso livello di responsabilità. In relazione al contesto di lavoro, gli aspetti legati all’organizzazione del lavoro sono ricollegabili ad un’inadeguata definizione degli obiettivi, ad una scarsa attenzione ai problemi di salute e sicurezza sul lavoro così come alla motivazione dei lavoratori, ad uno stile di direzione eccessivamente gerarchico, ad una non corretta gestione della comunicazione interna e della divisione del lavoro, ad una mancanza, nelle piccole organizzazioni, di una puntuale definizione delle mansioni e di eventuali procedure da seguire, ad inadeguatezze nei sistemi premianti, ad una non adeguata valorizzazione delle risorse umane. In termini di autonomia e controllo si possono ricordare i rischi connessi ad una partecipazione limitata all’attività sociale, ai livelli di responsabilizzazione (troppo bassa o troppo elevata), ad un’inadeguatezza del sistema di supervisione e dei meccanismi di controllo. I rapporti interpersonali in ambito lavorativo possono essere fonti di rischio nella misura in cui vengono a riguardare i rapporti conflittuali con i superiori così come con i colleghi, il fatto di sentirsi isolati, sia dal punto di vista fisico che sociale, eventuali discriminazioni fino ad arrivare a forme, più o meno evidenti, di violenza sul lavoro. Le possibilità di progressione di carriera si possono scontrare con incongruenze della posizione occupata, con una bassa retribuzione, con scarse opportunità di crescita nell’organizzazione, con una scarsa trasparenza ed equità circa i criteri del sistema stesso di sviluppo delle carriere. Le condizioni dell’ambiente di lavoro, ancora, possono generare rischi di natura psicosociale nel momento in cui il soggetto percepisce una scarsa attenzione ai problemi di salute e sicurezza sul lavoro (Giannini & Turini, 2010). Le considerazioni che precedono confermano che i rischi psicosociali sono riconducibili ad aspetti connessi al modo in cui le attività lavorative sono pro78

gettate, organizzate e gestite. In quanto tali, sono potenzialmente presenti in tutte le realtà lavorative anche se con intensità variabile in base al tipo di attività svolta e alle caratteristiche dell’azienda. Ciascuno dei possibili rischi psicosociali presenta un potenziale di stress e di danno per il soggetto, danno che dipende, oltre che dalla capacità lesiva degli stessi, dalle caratteristiche psicologiche dei soggetti interessati. Gli effetti possono sia riguardare, tra gli altri, disturbi psicopatologici (alterazione dell’umore, apatia, insicurezza, irritabilità, perdita di iniziativa, cali di concentrazione, stati di ansia, umore depresso, ecc.) e comportamentali e sia avere ripercussioni sulla qualità della vita familiare, sociale e lavorativa. In particolare conseguenze dannose per la qualità della vita lavorativa possono manifestarsi in termini di assenteismo, ritardi sistematici, infortuni ripetuti, intolleranza al posto di lavoro assegnato, sonnolenza sul lavoro, aumento del numero di errori, ritardi nel completamento di lavori, incapacità di collaborare con i colleghi, rifiuto delle regole interne, mancanza di socializzazione. è evidente come tutto ciò si rifletta in modo negativo sull’organizzazione, in particolare potendo determinare:  un peggioramento del clima interno, inteso come la percezione condivisa dei rapporti interpersonali nell’ambito della stessa realtà organizzativa;  una riduzione del grado di partecipazione alla vita aziendale, ciò che può concretizzarsi in un aumento delle assenze per malattia, dei ritardi al lavoro, del turnover, in uno scarso spirito di iniziativa, in uno scarso rispetto di norme e procedure, in un aumento dei conflitti interpersonali, in una riduzione del grado di “fidelizzazione” alla stessa organizzazione;  una riduzione delle prestazioni dell’organizzazione, in termini, ad esempio, di allungamento dei tempi di produzione, di aumento degli errori, di diminuzione della qualità dei prodotti/servizi;  un aumento dei costi collegati al manifestarsi delle situazioni appena indicate. Nella misura in cui si percepisce la portata di questi effetti emerge l’opportunità di cercare di agire in un’ottica di prevenzione rispetto ai fattori di rischio psicosociali che possono presentarsi nei luoghi di lavoro. Ma come poter valutare questi rischi? Sono adottabili le stesse metodologie utilizzate per la valutazione dei rischi lavorativi fisici, chimici o biologici? Nel processo di valutazione riemergono, inevitabilmente, i due aspetti legati al contenuto e al contesto del lavoro richiedendo specifiche modalità di analisi. Una valutazione preliminare delle caratteristiche dell’organizzazione presa in esame, delle attività svolte e del suo personale può offrire elementi utili per ipotizzare la presenza di fonti potenziali di rischi psicosociali. Diventa così importante valutare il modo secondo il quale, all’interno della realtà che si considera, sono state coniugate le diverse variabili organizzative, 79

nella ricerca della migliore soluzione organizzativa adottabile. Alla luce di un attento esame di come si è realizzata la divisione del lavoro e la definizione delle responsabilità, la gestione dell’informazione e della comunicazione interna, l’attività di supervisione e controllo, la gestione della sicurezza, la gestione e la valorizzazione delle risorse umane, si potrà cercare di individuare alcuni parametri che possono fungere da guida nella valutazione del contenuto e del contesto di lavoro (Giannini & Turini, 2010). A titolo esemplificativo si potrà svolgere una disamina delle caratteristiche dei compiti assegnati in termini di chiarezza nella loro descrizione, di adeguatezza del carico di lavoro, di disponibilità delle informazioni necessarie per svolgere lo stesso, di monotonia e ripetitività, di possibilità di variare l’ordine ed i ritmi dei compiti da svolgere, di rotazioni delle mansioni, di complessità, di concentrazione e attenzione richieste, di rischio di incidenti, di adeguatezza dei ritmi lavorativi, di responsabilità, ecc. Un’attenta analisi della prestazione, sempre meno legata al rigido rispetto dei compiti assegnati e sempre più, invece, rivolta al perseguimento di determinati risultati o obiettivi, può così consentire di attivare azioni preventive nell’ottica di una migliore valorizzazione dei contributi offerti dalle singole persone che operano ai vari livelli dell’organizzazione. Più in particolare, una struttura organizzativa più “snella”, quale tendenza che emerge nei più attuali processi di cambiamento organizzativo, ha sicuramente i suoi vantaggi, in termini di maggiore flessibilità, di minori costi organizzativi, ma può incontrare dei limiti nella misura in cui l’autorità della figura con responsabilità direttive può essere messa in discussione: sta alla stessa figura direttiva cercare di trovare una soluzione in grado di contemperare l’esercizio dell’autorità con lo sviluppo di rapporti di collaborazione, diretti, informali con i propri subalterni. In questa ottica, ad esempio, possono trovare una loro collocazione logiche come quelle riconducibili alle cosiddette “porte aperte” nella gestione dei rapporti con il superiore gerarchico. Oltre l’evidente soggettività della soluzione adottabile non possiamo non citare le differenziazioni che possono emergere a seguito delle diversità culturali, proprie degli specifici contesti regionali del nostro paese, nell’interpretare il medesimo principio gerarchico. Riguardo lo stile di direzione, appare importante cercare di prestare un’adeguata attenzione alla valutazione, tra le qualità professionali richieste, degli aspetti caratteriali e comportamentali. Ciò anche e soprattutto ai livelli intermedi dell’organizzazione. Ricondurre questo aspetto al concetto di etica dei comportamenti e al rispetto di quanto eventualmente contenuto all’interno del codice etico della stessa organizzazione potrebbe non essere sufficiente. Oltre ai requisiti conoscitivi non possono, quindi, non essere valutati i requisiti soggettivi di una figura con responsabilità direttive (saper comunicare, saper ascoltare, es80

sere pacato, ecc.). L’impatto della figura del diretto responsabile è ancora più percepibile, da parte dei collaboratori, nella eventualità, oggi sempre più frequente, di un cambiamento della stessa, ciò che determina un mutamento nello stile di direzione adottato. Il sistema informativo, da parte sua, può svolgere, facilitando un’adeguata comunicazione interna e una maggiore condivisione di informazioni, un ruolo positivo nel fronteggiamento dei rischi considerati purché sia accessibile, chiaro nel linguaggio utilizzato e non “asfissiante”. Anche il sistema di gestione del personale, nelle sue diverse articolazioni, assume un ruolo di primo piano, ciò partendo dal momento in cui la persona viene selezionata, per poi essere formata, valutata ed incentivata, coinvolgendo in queste diverse attività sia la Direzione del personale che tutti i livelli direttivi dell’organizzazione (Auteri, 2009). In merito all’attività di controllo emerge poi, al di là dell’esigenza di valutare il grado di conseguimento di un certo risultato o obiettivo, l’importanza di valutare, in termini soggettivi, le implicazioni delle modalità di controllo utilizzate sui livelli motivazionali, di soddisfazione, di incentivazione economica e non economica. Il riferimento, infine, al citato clima organizzativo, inteso come insieme delle relazioni interpersonali presenti all’interno dell’organizzazione, che può risentire di retaggi culturali e sindacali, è in qualche modo riconducibile all’insieme degli aspetti illustrati consentendo di ribadire che è agendo sul mix delle variabili organizzative che si può cercare di muoversi verso la prevenzione dei rischi psicosociali. Per condurre un’analisi di clima gli studiosi hanno individuato due diversi approcci metodologici, uno qualitativo e uno quantitativo. Per ciò che riguarda l’indagine qualitativa, uno strumento utilizzato è dato dal focus group, che permette di approfondire eventuali aree e circostanze ritenute più critiche: una volta che il gruppo viene riunito, il coordinatore dello stesso è tenuto a chiarire la finalità dell’incontro, deve stimolare il dibattito sui temi in questione (può essere utilizzata la tecnica del brainstorming), deve mantenere una posizione imparziale per evitare che i soggetti coinvolti possano sentirsi influenzati nelle loro risposte, volte a far scaturire proposte di miglioramento. Per quanto riguarda, invece, il metodo quantitativo lo strumento maggiormente impiegato è il questionario, che viene costruito includendo domande o affermazioni che riflettono le principali dimensioni che influenzano il clima e che devono essere valutate dai soggetti interessati sulla base di apposite scale di giudizio (ad esempio da uno a dieci). Il processo di diagnosi dello stesso clima si articola in alcune fasi: nella prima, di natura informativa, è auspicabile che l’organizzazione informi dell’ini81

ziativa che sta per compiere; in particolare si dovrà precisare in che cosa consista l’analisi di clima, i relativi obiettivi, il campione interessato, gli strumenti che verranno utilizzati. Una volta soddisfatte queste condizioni, la seconda fase prevede la raccolta dei dati secondo le modalità previste (ad esempio con la distribuzione del questionario di analisi alle persone coinvolte e alle quali viene garantita la forma anonima delle risposte). In una terza fase si procede all’interpretazione di tutti i dati raccolti e sulla base delle informazioni rilevate si delineano i punti di forza e di debolezza, le criticità, i possibili campi di intervento per poi formulare un piano di azioni per migliorare lo stesso clima. Con una quarta fase si procede alla presentazione dei risultati che devono essere comunicati a tutti i collaboratori mediante opportune modalità, quali apposite riunioni. Sulla base dei dati raccolti ed analizzati, in una fase successiva si dà attuazione alle azioni di miglioramento definite, per poi monitorarne l’efficacia. La predisposizione, poi, a ripetere l’analisi è considerato un indicatore di fiducia nei confronti di questa pratica da parte del management; una debole, invece, attitudine a riproporre la stessa indagine è giudicato un sintomo di una mancata stima nei confronti dei risultati precedentemente raggiunti e di una limitata considerazione della “voce” dei dipendenti.

2.2.1. I modelli di soluzioni organizzative In passato, gli studiosi si erano concentrati sullo studio astratto dei modelli organizzativi che venivano reputati validi per ogni unità produttiva e per ogni stadio del processo evolutivo aziendale. Oggi tutto ciò non è più possibile in quanto l’organizzazione non è qualcosa di statico, precostituito e stabile e di conseguenza i principi non sono universalmente validi (Bertini, 1990). Non esiste più lo “one best way” e ciò è imputabile alla crescente complessità ambientale che ha contribuito ad una evoluzione del modello “universale” non più adatto a strutturare qualsiasi tipologia di azienda. Tale complessità indica la presenza di un numero elevato di variabili e di sistemi ad alta interconnessione di tipo reticolare che producono cambiamenti. L’accentuazione di dinamiche associate a fenomeni quali la competitività e l’innovazione contribuisce alla crescita della complessità che conduce inevitabilmente a differenti modelli organizzativi (Felician, 2006). Le strutture possono assumere diverse configurazioni che risentono di molteplici fattori tra i quali ricordiamo la strategia, l’ambiente, la tecnologia, il ciclo di vita e la cultura; in particolare la molteplicità delle forme organizzative è generata dai diversi fattori di sviluppo e dai vincoli ambientali. A tal proposito è possibile individuare le tendenze evolutive associabili a classi di combinazioni 82

di questi fattori: esistono delle opzioni di progettazione strutturale per il raggruppamento delle attività che consentono di far fronte alle esigenze di adattamento che la realizzazione degli obiettivi e la risposta ai diversi vincoli che si possono presentare determinano (Fontana, 1997). Da una forma iniziale di tipo semplice si passa ad una funzionale, con l’enucleazione di compiti precisi corrispondenti a determinate funzioni: il modello funzionale prevede, infatti, la ripartizione delle responsabilità in base a quelle che sono le aree gestionali (funzioni) fondamentali dell’organizzazione. Tale soluzione tende a privilegiare la ricerca di migliori condizioni di efficienza legate alle specializzazioni funzionali. In questo modello organizzativo, coerente con una produzione ed un mercato di sbocco caratterizzati da condizioni di stabilità, si può evidenziare come nel raggruppamento funzionale siano riuniti tutti coloro che appartengono alla stessa funzione e per questo motivo sono caratterizzati da conoscenze e competenze omogenee. Si tratta di un modello coerente per aziende di piccola-media dimensione, caratterizzate da prodotti indifferenziati. A fronte della crescita delle dimensioni aziendali, dell’adozione di strategie di diversificazione, del proliferare di prodotti/servizi, della complessità gestionale si sono venute affermando soluzioni organizzative divisionali. Nascono così unità divisionali che possono corrispondere a diverse linee di prodotto, diverse aree geografiche, diverse tipologie di clientela. Alcune attività sono concentrate presso la Direzione centrale e svolte in modo accentrato per l’organizzazione nel suo complesso (De Vita et al., 2007). Con la forma a matrice, invece, l’organizzazione adotta due tipologie di raggruppamento strutturale: per funzione e per progetto/divisione. Questo modello è particolarmente indicato nel caso in cui si operi in settori innovativi e si sia in presenza di continui e profondi mutamenti della tecnologia. Questa struttura è adottata principalmente dalle aziende che appartengono al settore ICT nel quale è presente una logica produttiva per progetti accompagnata da una forte componente di innovazione. Questo raggruppamento consente di coordinare operazioni complesse che impiegano parzialmente le risorse a disposizione dell’organizzazione (Dioguardi, 2005). Il modello orizzontale riunisce, invece, le risorse umane intorno ai principali processi organizzativi che creano valore. Coloro che contribuiscono all’output di un processo fanno parte di un unico team, indipendentemente dalla funzione di appartenenza (Daft, 2010). Il raggruppamento a rete o modulare rappresenta, ancora, l’approccio interorganizzativo delle attività aziendali. L’organizzazione è formata da componenti autonome e separate collegate tra loro per mezzo dell’ICT che consentono la condivisione delle informazioni necessarie allo svolgimento delle diverse at83

tività. Questa logica di progettazione organizzativa enfatizza il superamento del concetto di confine organizzativo, in quanto le diverse unità organizzative possono essere dislocate anche su territori distanti geograficamente tra loro. L’organizzazione che adotta simultaneamente più criteri di raggruppamento delle attività origina la cosiddetta struttura “ibrida” che combina al suo interno le caratteristiche di diversi modelli strutturali. Questo le consente di implementare in modo efficace ed efficiente le proprie strategie. Le diverse tipologie indicate danno origine alle configurazioni organizzative adottabili, con gli opportuni adattamenti nelle diverse realtà di riferimento. L’individuazione del modello di struttura ed il suo adattamento alle condizioni di operatività dell’organizzazione costituisce uno dei più complessi e fondamentali problemi di progettazione organizzativa. L’analisi dei molteplici fattori che caratterizzano l’organizzazione consente di definire le soluzioni più appropriate. Di seguito sono brevemente illustrati i principali modelli di soluzioni strutturali, ricordando, in ogni caso, che nella realtà esistono diverse configurazioni organizzative specifiche delle singole organizzazioni. Il modello semplice Questa struttura caratterizza le aziende che si trovano nella fase “embrionale” o istituzionale o comunque con una dimensione ridotta. Essa corrisponde alla forma adottata originariamente dalle aziende nelle quali il capitale economico si concentra nelle mani di una o poche persone, legate da vincoli di parentela e dalle quali hanno origine le linee strategiche dell’azienda (Turati, 1998). Il vertice dell’organizzazione è presidiato dall’imprenditore che esercita direttamente sia il controllo economico sia il potere direzionale e di coordinamento (supervisione diretta) (Fig. 1) (Grandoni, 1995). I ruoli assunti da coloro che ne fanno parte sono intercambiabili in relazione alle esigenze contingenti dell’organizzazione. Fino al momento in cui l’imprenditore è in grado di coordinare tutte le attività aziendali ogni tentativo di formalizzazione attraverso organigrammi e mansionari risulta sostanzialmente inutile. Per questo motivo si adatta bene alle unità di dimensioni “minori” (Padroni, 1993). Ciò è dovuto al fatto che se le dimensioni sono ridotte e le attività da svolgere sono semplici, il sistema organizzativo può funzionare anche senza l’introduzione di regole e procedure, in quanto, molto spesso, i processi decisionali emergono dai comportamenti dell’imprenditore e le comunicazioni si sviluppano in modo informale. La gestione del personale è affidata all’imprenditore che supervisiona direttamente i comportamenti dei singoli collaboratori per la raccolta delle informazioni (Paoletti, 1997). 84

Talvolta il processo di valutazione delle risorse umane si focalizza sulle persone piuttosto che sui contributi reali che essi apportano all’organizzazione. Nel momento in cui le dimensioni aziendali aumentano la struttura semplice evidenzia alcuni limiti imputabili sostanzialmente al fatto che il fondatore, che coincide con il soggetto economico, può risultare carente in alcune aree manageriali. Per questo motivo, come ricorda Padroni (2007), «è importante che il piccolo imprenditore sia consapevole della necessità di ampliare la conoscenza delle diverse funzioni al fine di riuscire meglio a coordinare l’attività dei suoi collaboratori interni ed esterni senza diventare uno specialista in ogni campo». Il soggetto economico deve essere consapevole dei propri punti di forza e di debolezza e della relativa presa di coscienza delle problematiche gestionali che possono essere agevolmente risolte solo affidandosi all’ausilio di collaboratori dotati di specifiche competenze. Nella logica di questa forma organizzativa le decisioni strategiche gravano su un solo soggetto. Quando assumono il carattere della complessità diventa necessario un ricorso alla delega che consentirà ad ogni collaboratore una migliore conoscenza degli obiettivi da perseguire (Padroni, 2007). Il rapporto di interazione diretto che si instaura con il cliente costituisce un elemento che caratterizza l’azienda. La forma semplice presenta, inoltre, un contenimento dei costi di gestione e organizzativi dovuti ad una limitata articolazione della struttura e ad un esiguo investimento in formalizzazione. Rilevante è la capacità di adattamento e di prontezza di risposta ai cambiamenti del proprio contesto di riferimento e ciò sia grazie alla scarsa formalizzazione e sia per la rapidità decisionale resa possibile dall’accentramento dell’autorità decisionale. «La flessibilità che caratterizza l’assetto imprenditoriale si basa sul presupposto che tutte le conoscenze necessarie per coordinare le attività delle organizzazioni siano possedute dalla persona che occupa la posizione di vertice e che la complessità gestionale sia in linea con la capacità di processare le informazioni e di prendere decisioni. Il venir meno di una di queste condizioni rende inefficiente tale forma e spinge alla ricerca di nuovi assetti» (Costa & Gubitta, 2008, p. 176). La forma semplice non è esente, tuttavia, da alcuni punti di debolezza: la principale carenza che possiamo rilevare è la quasi totale assenza del ricorso alla delega da parte del soggetto economico che alimenta il sovraccarico decisionale nelle sue mani, uno sbilanciamento verso le questioni operative, con la conseguente diminuzione del tempo a disposizione per lo studio e l’implementazione della strategia organizzativa. Dato che tutte le decisioni relative alle attività aziendali sono concentrate nell’imprenditore, egli è la figura di riferimento ma, per questa struttura, ciò rappresenta un “rischio” in quanto la “vita dell’azienda” dipende essenzialmente 85

dalla “salute” e dalle competenze di una persona. Quando l’organizzazione vuole rispondere in modo più “dinamico” agli input esterni si evidenzia la necessità di ricorrere ad una maggiore qualificazione delle attività dei collaboratori. Questo accade in particolar modo quando l’organo di governo non ha le competenze per poter interagire con un ambiente sempre più complesso ed incerto. L’aumento delle dimensioni e l’incremento della tipologia delle attività svolte, quando superano certi livelli, saturano il tempo a disposizione dell’imprenditore, con il rischio, quando non sono presenti qualificati collaboratori, di giungere inevitabilmente ad una perdita di controllo. Le potenzialità di crescita dell’organizzazione sono limitate in quanto le ridotte dimensioni favoriscono l’insorgenza di difficoltà operative correlate ai relativi progetti di investimento. Gli accordi interorganizzativi e i network possono costituire, in tale ottica, un possibile elemento per attenuare questi limiti. Figura 1 – Organigramma della struttura organizzativa semplice

Imprenditore

Operaio

Operaio

Operaio

Operaio

La struttura semplice, in ogni caso, è indicata quando l’azienda produce un numero limitato di prodotti, destinato ad un determinato segmento di mercato. L’attività dell’impresa è tendenzialmente monofunzionale ed è caratterizzata da una elevata “semplicità” delle operazioni produttive o distributive, da limitate decisioni di tipo strategico. In effetti, «i fattori che possono portare alla crisi delle forme semplici non implica che esse siano necessariamente instabili e adatte solo ai primi stadi di vita dell’impresa. Le organizzazioni non sono destinate a diventare “grande per forza”. in molti sistemi economici il tessuto produttivo è costituito da migliaia di piccole imprese che adottano la forma semplice e che ricorrano a particolari soluzioni per gestire i problemi evidenziati o per evitare che essi raggiungono un entità tale da non essere più gestibili» (Costa & Gubitta, 2008, p. 182).

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Tabella 1 – Struttura organizzativa semplice: in sintesi Caratteristiche

Accentramento decisionale

Vantaggi Visione unitaria (piena conoscenza di ciò che accade nell’organizzazione e presa decisioni su ciò che è meglio per l’organizzazione)

Svantaggi

Sovraccarico del vertice Dipendenza da una sola persona Difficoltà nella successione

Rapidità di decisione

Compiti e responsabilità non ben definiti

Flessibilità di risposta Intercambiabilità dei Ruoli

Scarse competenze gestionali Personale non apprezza le loro responsabilità e approfittare della mancanza di regolamentazione Insoddisfazioni delle persone che hanno limitate possibilità di crescita

Assenza di formalizzazione

Rapidità di risposta Flessibilità operativa

Dipende dal ciclo di vita professionale delle persone

Scala dimensionale limitata

Investimenti tecnici e in risorse umane limitati e reversibili

Non accesso a competenze elevate e a tecnologi sofisticate

Fonte: G. COSTA-P. GUBITTA (2008), Organizzazione aziendale. Mercati, gerarchie e convenzioni, Franco Angeli, Milano, p. 183 (modificata).

In questa struttura sono, comunque, presenti gli elementi che consentono una sua evoluzione verso forme organizzative più complesse ed articolate. “Il passaggio chiave nell’evoluzione di una forma semplice verso una forma funzionale corrisponde all’introduzione dei principi della delega e della specializzazione decisionale attraverso la creazione di (almeno) un livello intermedio di responsabilità direzionale. Questa scelta si rende necessaria quando lo sviluppo della strategia determina una crescita delle dimensioni aziendali in presenza di un maggiore dinamismo ambientale. In queste condizioni l’imprenditore, che nella forma semplice agisce come “agente centrale”, si trova presto sovraccarico dei problemi legati alla gestione operativa e si accorge di non essere più in grado di svolgere le funzioni previste dal suo ruolo: la formulazione della strategia e il coordinamento operativo dei reparti esecutivi. La risposta organizzativa è l’introduzione di una linea manageriale intermedia con il compito primario di realizzare una sorta di “filtro” fra vertice e nucleo operativo, accollandosi i compiti di direzione (coordinamento, gestione delle eccezioni, supervisione e valutazione delle prestazioni) degli organi esecutivi. La linea intermedia viene pertanto a svolgere la propria funzione in due direzioni: verso il basso, traducendo gli obiet87

tivi strategici in sotto-obiettivi sempre più limitati e precisi, fino a configurarli come ordini da eseguire ai livelli inferiori della struttura; verso l’alto, attraverso la raccolta, la selezione e l’aggregazione delle informazioni relative alle prestazioni del sistema organizzativo, informazioni che rappresentano un input fondamentale nel processo di formulazione della strategia aziendale” (Gabrielli & Profili, 2012, p. 33). Il modello gerarchico-funzionale La struttura funzionale si basa sul principio gerarchico e sulla progressiva suddivisione e focalizzazione degli obiettivi aziendali in sottobiettivi, che vengono assegnati a cascata ai livelli sottostanti l’organo volitivo. Questa forma organizzativa segue il principio del raggruppamento in base alle attività/funzioni omogenee che riunisce i dipendenti che hanno competenze comuni (Jones, 2012). Si può quindi affermare che si trovano in una stessa funzione e sotto il controllo dello stesso manager tutte le operazioni che hanno eguale natura. Ad esempio, il direttore commerciale coordina tutti coloro che si occupano degli aspetti commerciali. Il passaggio a tale forma organizzativa corrisponde ad una progressiva riduzione del grado di centralizzazione e si può ricollegare all’emergere di un maggiore fabbisogno di formalizzazione dei sistemi operativi. Dagli anni cinquanta sino a quasi tutti gli anni settanta questa forma organizzativa è stata considerata la struttura “ideale”, in grado di soddisfare le esigenze di una domanda crescente e di uno sviluppo economico che si basava sulla produzione di massa. Un gran numero di imprese la implementa nella fase istituzionale anche quando le dimensioni crescenti consigliano forme più complesse. Questa struttura è rappresentata graficamente dalla caratteristica forma a piramide, dove al vertice troviamo l’autorità gerarchicamente più elevata, al di sotto della quale vi sono i dipartimenti funzionali e le unità operative. Tutte le competenze e le capacità umane che riguardano specifiche attività sono consolidate e forniscono all’organizzazione una conoscenza approfondita e specialistica. È possibile, quindi, ricondurre l’articolazione della struttura in tre livelli fondamentali (Fig. 2):  la direzione generale o vertice;  i dipartimenti funzionali;  le unità operative. La prima si occupa essenzialmente delle scelte concernenti lo sviluppo dell’azienda, la gestione strategica, il coordinamento organizzativo. Questa struttura è di tipo lineare-gerarchico ed il vertice accentra su di sé il 88

potere decisionale di natura strategica ed esercita una supervisione diretta su tutte le attività dell’organizzazione. Ai responsabili funzionali è affidata la gestione delle principali aree aziendali. Essi devono guidare e coordinare l’attività delle unità operative (terzo livello) di propria competenza. I responsabili funzionali godono, entro un certo margine di discrezionalità, di una autonomia decisionale nel perseguire gli obiettivi individuati dal vertice. Il modello funzionale prevede una ripartizione delle responsabilità in base alle funzioni implementate in azienda. Lo stile direzionale adottato si basa prevalentemente sull’autorità gerarchica e questo facilita la riduzione dei costi di contrattazione ma allo stesso tempo comporta una minore flessibilità per rispondere ai cambiamenti dell’ambiente esterno. Questa struttura è particolarmente indicata quando il numero delle linee di prodotto o dei segmenti di clientela è limitato e l’ambiente è tendenzialmente stabile. Se ciò non si verifica, le singole funzioni sono sovraccaricate dai processi ed il vertice non riesce più ad occuparsi della gestione strategica dell’azienda. Da ciò è possibile evidenziare un primo limite legato alla difficoltà di coordinamento tra le varie funzioni nel caso in cui sia necessaria una diversificazione produttiva o delle fonti di approvvigionamento o dei mercati di sbocco. Ciò non accade quando la linea produttiva, le fonti di approvvigionamento ed i mercati di riferimento sono sostanzialmente stabili. Si può quindi affermare che questa struttura facilita il “consolidamento” delle conoscenze con riferimento alle specifiche attività funzionali. L’organizzazione è controllata e coordinata attraverso la gerarchia ricercando condizioni di efficienza interna favorite dalla concentrazione di interessi su singole aree gestionali. Figura 2 – Organigramma della struttura organizzativa funzionale Direzione Generale o Vertice Produzione

Tecnico

Marketing

Ricerca & Sviluppo

Personale

Commerciale

Unità operative (formate da Manager, Specialisti e Personale lavoratore)

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In aggiunta alle funzioni sono previsti ruoli di staff, a supporto del vertice strategico, che, sebbene con limitati livelli di autorità, ricoprono incarichi di ausilio non solo tecnico. Solitamente questo tipo di struttura è diffusa, come ricordato, nelle aziende di dimensioni medio-piccole, caratterizzate da una tecnologia poco sofisticata e da attività di controllo prevalentemente personale, esercitata direttamente dai diversi proprietari. Tabella 2 – Vantaggi e svantaggi della struttura organizzativa funzionale Vantaggi

Svantaggi

Processo decisionale centralizzato (decisioni strategiche al vertice e decisioni direzionali e operative alle funzioni)

Può causare un accumulo di decisioni al vertice e il sovraccarico della gerarchia

Ripartizione delle diverse attività in singole unità operative con figura direzionale e maggior efficienza organizzativa

Porta ad uno scarso coordinamento organizzativo tra unità organizzative (orizzontale)

Permette all’organizzazione di perseguire obiettivi funzionali e razionali

Si traduce in una minore innovazione

Facilita di economie di scala all’interno delle unità funzionali

Tempi di risposta più lenti di fronte ai cambiamenti ambientali

Permette lo sviluppo di conoscenze e capacità approfondite Facilitato percorsi di carriera e di sviluppo in settori specializzati

Implica una visione parziale degli obiettivi organizzativi

È da preferire in presenza di un solo prodotto o pochi prodotti

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 91 (modificata).

In linea generale si può affermare che quando si supera una soglia dimensionale quelli che prima erano identificati come punti di forza si possono trasformare in punti di debolezza. In un ambiente socio-economico stabile la struttura gerarchico-funzionale consente alcuni vantaggi che derivano essenzialmente dalla separazione tra le responsabilità nelle diverse aree funzionali. In questo modo sono facilitate le economie di scala all’interno delle unità funzionali in quanto si privilegiano le attività in condizioni di efficienza. A tal proposito si può affermare che tutti coloro che si trovano ad operare nella stessa unità funzionale condividono ed usufruiscono delle risorse della medesima struttura. Si raggiunge in questo modo uno sviluppo approfondito di conoscenze nei dipendenti, favorito dall’opportunità di apprendere gli uni dagli altri incrementando la specializzazione e la produttività. 90

I lavoratori hanno l’opportunità di supervisionarsi scambievolmente in modo tale da giungere ad un corretto svolgimento delle attività lavorative (Jones, 2012). Tutte le operazioni aventi la medesima natura e tutti gli specialisti che operano nello stesso campo sono raggruppati nel medesimo dipartimento aumentando, in questo modo, l’efficienza organizzativa, la specializzazione e la produttività dell’organizzazione stessa. Questo modello viene applicato efficacemente, come già ricordato, in organizzazioni che non realizzano una strategia di diversificazione produttiva ma che sono caratterizzate da una limitata gamma di prodotti con un lungo ciclo di vita. Sono favorite le condizioni di efficienza e di razionalizzazione dell’attività produttiva. I principali punti di debolezza che caratterizzano essenzialmente questa struttura organizzativa sono legati alle difficoltà di coordinamento orizzontale delle varie funzioni e dalla visione limitata delle opportunità che si presentano nel corso della sua esistenza. Una organizzazione che basa la sua “forza” sulla specializzazione delle competenze incontra delle difficoltà quando le attività che deve controllare diventano sempre più complesse e, più precisamente, quando realizza più prodotti, quando si differenzia a livello geografico o si trova ad operare in un ambiente sempre più competitivo. Tutto può tradursi in una limitata innovazione. La formulazione delle scelte strategiche risente del fatto che spesso i responsabili di funzione conoscono a fondo soltanto le priorità e gli obiettivi della funzione stessa che presiedono ed hanno una visione parziale delle altre nel loro complesso. I manager maturano la loro esperienza in un solo ambito e ciò li conduce inevitabilmente a giudicare la propria funzione come la più importante dell’organizzazione. Questo limite può essere parzialmente superato ricorrendo ad appropriati piani di sviluppo e formazione delle risorse umane interessate (Fontana, 1997). Ogni decisione che riguarda la strategia aziendale risulta inevitabilmente frutto di una negoziazione tra coloro che hanno interessi ed esperienze diverse. Da ciò si evidenzia il rischio di una lentezza del tempo di risposta di fronte ai cambiamenti ambientali, l’accumulo di decisioni al vertice e il conseguente sovraccarico di lavoro che rallenta la possibilità di rispondere in maniera sollecita agli stimoli esterni. A tutto ciò si unisce una limitata elasticità anche nei comportamenti dovuti ad un rigido ordinamento gerarchico, un forte accentramento decisionale ed una resistenza al cambiamento. Per comunicare tra organi dello stesso livello è indispensabile risalire la scala gerarchica sino ad arrivare al responsabile comune, che coordina le attività dei reparti o degli uffici che intendono tra loro comunicare o collaborare. 91

“La focalizzazione specialistica e la ricerca dell’eccellenza tecnica inducono le unità organizzative ad adottare procedure interne relativamente rigide e ad assumere una mentalità settoriale che, nel tempo, spesso sfocia in una vera e propria conflittualità. Questo effetto è ulteriormente amplificato dal prevalere di sentieri di carriera rigidamente interni alle funzioni. Le decisioni vengono analizzate dai responsabili funzionali considerando soprattutto le conseguenze sulle attività di loro pertinenza e perdendo di vista le esigenze complessive della gestione aziendale. Così, in condizioni di elevato dinamismo ambientale, può accadere che le funzioni raggiungano tutti i propri obiettivi, scaricandosi però l’un l’altra considerevoli “diseconomie esterne” a causa della scarsa collaborazione. Tali diseconomie tendono a sfuggire ai sistemi di controllo e a crescere fino al punto di pregiudicare i risultati aziendali. (…) L’inerzia organizzativa si estende all’alta direzione, che impiega molto del proprio tempo nella risoluzione dei conflitti e nel coordinamento interfunzionale, mentre limitata appare la capacità di leggere i segnali che provengono dai clienti o dal mercato, non essendo questo il riferimento diretto dei processi di coordinamento” (Gabrielli & Profili, 2012, pp. 37-38). Questo tipo di struttura non è adatta agli ambienti complessi ed instabili. A tal fine nel corso del tempo le organizzazioni hanno sviluppato altre tipologie di strutture nelle quali si è cercato di incrementare il coordinamento e la comunicazione orizzontale favorendo l’adattamento ai cambiamenti esterni. Al mutare del contesto di riferimento possono emergere rigidità strutturali che possono essere attenuate con l’inserimento di figure (come ad esempio product manager, area manager, ecc.) in grado di apportare all’interno dell’organizzazione una prospettiva di coordinamento orizzontale diverso da quello verticale (per funzioni) su cui si basa il modello in questione. L’inserimento di un product manager è in grado di soddisfare le esigenze dell’organizzazione di disporre di uno strumento capace di coordinare le azioni relative a combinazione prodotto/mercato relativamente omogenee. Ciò rende possibile una maggiore attenzione verso i prodotti da parte delle diverse unità funzionali, una maggiore capacità di risposta ai cambiamenti del mercato, ma anche alcuni elementi di criticità: in particolare possono emergere «difficoltà di funzionamento dovute alla scarsa autorità formale del product manager (sbilanciamento fra autorità e responsabilità, tensioni di ruolo); ciò riguarda anche i rapporti con le interfacce del product manager qualora, per motivi soprattutto di natura culturale, sia scarsa l’accettazione di basi di potere diverse dall’autorità gerarchica. Questo problema può risultare accentuato se il supporto garantito dall’alta direzione al product manager e alla soluzione organizzativa che prevede questa posizione è scarso» (Isotta, 2010). Tutto ciò rende fondamentali le capacità comportamentali, relazionali e negoziali di tale figura nella mediazione tra le diverse unità funzionali interessate. 92

Il modello divisionale L’organizzazione divisionale è articolata in un complesso di attività autonome, corrispondenti generalmente alle singole aree d’affari (divisioni), all’interno delle quali si ripropone il modello dell’organizzazione gerarchico-funzionale (Fig. 3). Le responsabilità sono decentrate e questo consente all’organizzazione di poter rispondere ed anticipare i cambiamenti che provengono dal mercato riuscendo a gestire simultaneamente le strategie relative ad un’ampia varietà di prodotti e/o servizi. «Nelle forme divisionali si arriva a un ribaltamento della logica di progettazione non più sugli input (che portano alla creazione delle funzioni), ma in base agli output, scegliendo tra i diversi criteri quello che coglie la diversità più importante e significativa. In altri termini, cambia il criterio di specializzazione delle unità organizzative, che può essere dato:  dal prodotto, definito dal bene o dal servizio reso;  dall’area geografica, definita dall’ambito geografico presidiato da ciascuna divisione;  dal mercato, definito dal tipo di clienti o dai bisogni dei clienti» (Costa & Gubitta, 2008, p. 217). Secondo questa struttura il vertice aziendale può dedicare il proprio tempo e le proprie forze alla definizione della strategia complessiva dell’azienda. Per quanto concerne la divisione in base alle linee di prodotto, si procede a raggruppare in una divisione tutte le operazioni riguardanti una certa linea. Affinché si possa adottare questa struttura occorre che i prodotti o i gruppi di prodotto cui fanno capo le divisioni abbiano una relativa autonomia per ciò che riguarda le attrezzature di produzione, le operazioni di vendita e di controllo (Isotta, 2010). I vantaggi sono originati dal fatto che, progettando una struttura basata sulle linee di prodotti invece che sulle funzioni, si favorisce una maggiore diversificazione organizzativa in quanto si ha sotto la responsabilità di un solo manager la produzione, la vendita e lo sviluppo di una stessa linea di prodotto. Questo favorisce una maggiore flessibilità di tutta la struttura organizzativa evitando che le temporanee recessioni del mercato di un prodotto o di più prodotti possano rallentare il ritmo di sviluppo dell’azienda nel suo complesso. Un ulteriore elemento di vantaggio deriva dallo stretto coordinamento al quale tutte le operazioni che riguardano la linea di prodotto possono essere sottoposte e alla possibilità di misurare i risultati di ciascuna divisione e di confrontarli con quelli ottenuti dalle altre.  

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Figura 3 – Organigramma della struttura organizzativa divisionale

Direttore Generale o Vertice Corporate Staff/Servizi Ricerca & Sviluppo Finanza e Contabilità Marketing Progettazione Personale Affari Legali Pubbliche Pubbliche relazioni relazioni ee Comunicazione

Divisione A

Divisione B

Divisione C

Unità operative/Divisioni

Unità operative/Divisioni

Unità operative/Divisioni

Le criticità che si possono manifestare sono riconducibili essenzialmente al fatto che una divisione tenda a prevalere sulle altre o che si verifichino dei conflitti tra singole divisioni. Per quanto riguarda la divisionalizzazione in base alle aree di mercato o alle aree geografiche si può affermare che è generalmente adottata quando le unità organizzative e le aree di vendita sono distribuite su territori molto vasti che possono essere dissimili tra loro. Le aree geografiche possono coincidere con territori regionali, provinciali fino ad arrivare ad interessare interi Paesi, come nelle società multinazionali dove le sfere d’azione sono raggruppate secondo i diversi continenti. I vantaggi sono riconducibili ad una direzione a contatto con tutte le unità operative dell’area, ad una riduzione dei costi di trasporto, ad una maggiore efficienza della distribuzione, alla possibilità di adattare i prodotti alle richieste 94

locali riuscendo ad interpretare più rapidamente il cambiamento dei gusti dei consumatori. Talune funzioni, come finanza, personale, raramente sono decentrate alle singole divisioni. L’ultima tipologia di struttura divisionale fa riferimento a segmenti di clientela e si attua preferibilmente quando questi non sono raggruppabili in categorie omogenee. È importante ricordare che le esigenze di questi segmenti possono differire non solo per la minore o maggiore complessità di trattamento, per la diversa forza contrattuale, ma anche per le stesse caratteristiche dei prodotti/servizi offerti (si pensi all’organizzazione di una banca di grandi dimensioni che prevede divisioni per segmenti di clientela). Questo modello organizzativo tende ad assicurare all’interno dell’organizzazione il criterio dell’efficacia e affinché ciò possa realizzarsi ogni divisione è dotata di una certa autonomia con un significativo decentramento decisionale dal vertice che permette al responsabile di divisione di agire come un “imprenditore”, responsabile nei confronti del vertice stesso dell’andamento della propria divisione. Ciò è dovuto al fatto che le divisioni vengono affidate a dirigenti che sono totalmente responsabili delle decisioni strategiche, amministrative ed operative riguardanti la divisione a loro assegnata. Dall’analisi dell’organigramma di una struttura divisionale è possibile individuare diversi livelli: l’alta direzione o vertice, le direzione di staff, le direzioni divisionali, le direzioni funzionali e le unità operative. L’alta direzione o vertice si occupa di definire le strategie globali dell’organizzazione, alloca le risorse a disposizione tra le diverse divisioni in relazione agli obiettivi perseguiti, coordina, pianifica, valuta l’operato delle stesse. Siamo in presenza di una attribuzione di responsabilità sul risultato economico delle singole unità divisionali. Lo staff di direzione fornisce il supporto all’alta direzione nella formazione delle strategie e interagisce con le divisioni. La direzione divisionale definisce le strategie di divisione secondo criteri di efficacia ed efficienza dimostrando una capacità imprenditoriale nell’utilizzo delle risorse ad essa affidate. Coordina, pianifica, valuta l’operato dei dipartimenti funzionali. In questo caso è presente una autonomia orizzontale che riguarda il grado di discrezionalità attribuito alle singole unità divisionali in merito alle modalità di organizzazione delle stesse. Le direzioni funzionali operano all’interno delle deleghe concesse dai diversi responsabili, coordinano, pianificano e valutano l’operato delle unità operative. Le unità operative rappresentano il “braccio” operativo della divisione. Anche in questa struttura organizzativa è rinvenibile il principio gerarchico in quanto sono presenti sotto-obiettivi divisionali e la divisione del lavoro è ispirata al criterio gerarchico funzionale. 95

La soluzione divisionale presenta anch’essa punti di forza e di debolezza che è necessario valutare considerando i diversi elementi di cui si dispone prima di progettare la struttura dell’organizzazione. Tra i punti di forza si evidenzia la presenza di una maggiore flessibilità che comporta una rapidità nell’attuare i cambiamenti in un ambiente instabile e complesso. Ciò consente di adattarsi in modo più puntuale alle diverse tipologie di prodotto, alle diverse aree geografiche e alle diverse tipologie di clientela che si vuole soddisfare. Questa struttura si adatta alle organizzazioni di grandi dimensioni in quanto consente un recupero, appunto, di maggiori margini di flessibilità. La possibilità di decentrare il processo decisionale consente di ottenere una risposta organizzativa alla diversificazione che conduce a concentrare gli sforzi aziendali su specifici prodotti, mercati o tipologie di clienti. Il vertice dell’azienda può concentrarsi su politiche che coinvolgono l’organizzazione nel suo complesso in quanto coloro che si occupano della direzione divisionale possiedono capacità gestionali ad ampio respiro. La redditività prodotta dalle singole divisioni è facilmente identificabile in quanto ognuna presenta un bilancio autonomo che ne consente una valutazione in termini di profitto. Tabella 3 – Struttura organizzativa divisionale: in sintesi Vantaggi

Svantaggi

Diminuzione della complessità e della dimensione delle unità con autonoma responsabilità di risultato.

Moltiplicazione delle funzioni ed elevati costi di struttura.

Ciascun divisione ha al suo interno le competenze necessarie; migliore coordinamento funzionale.

Perdita delle economie di scala consentite dalla concentrazione funzionale .

Maggiore flessibilità utile per rispondere a rapidi cambiamenti in un ambiente instabile e/o complesso.

Elimina l’approfondimento delle competenze e la specializzazione tecnica.

Migliore capacità di soddisfare i bisogni del cliente in quanto le responsabilità del prodotto e i punti di contatto sono chiari. Cogliere i potenziali di innovazione.

Difficoltà di coordinamento tra linee di prodotto e potenziali conflitti e sviluppo di differenze nella qualità dell’immagine tra divisioni diverse.

Migliore allocazione delle risorse e minimi problemi di condivisione di esse. Riduzione della perdita di controllo della direzione generale.

Possibile incapacità di cogliere le sinergie interdivisionali.

Riserva di competenze manageriali. Spinta alla crescita dimensionale (adatta in organizzazioni di grandi dimensioni con molti prodotti).

Opportunismo manageriale.

Permette alle unità di adattarsi a differenze di prodotto, geografiche, di clientela.

Rende difficili l’integrazione e la standardizzazione tra linee di prodotto.

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 94 (modificata).

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Tra le criticità possiamo evidenziare le ridotte economie di scala dovute alla replicazione delle funzioni presenti nelle diverse divisioni, problemi di coordinamento tra le stesse divisioni, ciò che rende difficile l’integrazione tra le medesime, con il rischio che si possano presentare conflitti tra le stesse divisioni e tra le divisioni e la direzione centrale. Si possono anche ripresentare gli svantaggi della struttura funzionale all’interno della divisione. Inoltre sono presenti maggiori costi organizzativi ed il rischio che i rapporti tra le divisioni possano condurre alla nascita di una competizione per l’assegnazione delle risorse da parte del vertice. Il modello a matrice In un ambiente caratterizzato da complessità e dinamismo o instabilità, dove, come ricorda Bodega (1996), un maggiore livello di turbolenza nei mercati, è causato da rapidi cambiamenti sia nelle linee di prodotto offerte dai concorrenti, sia dalle tecnologie di produzione e dall’evoluzione dei bisogni e dei desideri degli stessi clienti. In questo contesto una soluzione organizzativa adottabile è quella per progetto, nella quale alla struttura organizzativa di base (anche funzionale) si affianca una struttura temporanea, appunto per progetto. L’unità in questione è coordinata da un responsabile (project manager), chiamato a gestire il progetto in termini di costi, tempi e qualità; ad essa possono partecipare soggetti appartenenti alla stessa organizzazione o al di fuori della medesima per la durata del progetto per poi rientrare nei propri ambiti di attività alla chiusura dello stesso; “se è vero che, a differenza del product manager, il project manager esercita autorità gerarchica sulle risorse che compongono il suo team, questa è indebolita dalla situazione di temporaneità dell’organo di integrazione; alla conclusione del progetto, infatti, ogni specialista torna alle dipendenze del responsabile della funzione di appartenenza, che deciderà in merito ai suoi successivi incarichi” (Gabrielli & Profili, 2012, p. 45). «Le caratteristiche distintive di un progetto possono essere così specificate:  unicità dell’output (che si contrappone a output ripetitivo) e della realizzazione (che comporta diversità rispetto a quanto l’impresa svolge normalmente);  temporaneità pianificata, che si contrappone a permanente;  finalizzazione chiara ed esplicita: gli obiettivi vanno esplicitati e tale esplicitazione spesso richiede tempo e risorse; l’esplicitazione riguarda le caratteristiche dell’output, i costi e i tempi di realizzazione; questi obiettivi sono impegnativi;  incertezza: il progetto comporta una differenza anche elevata tra informazioni necessarie ed informazioni disponibili che viene coperta durante la sua realizzazione; 97

 multidisciplinarietà fortemente integrata: il progetto richiede competenze specialistiche diverse che debbono però essere fortemente integrate;  rilevanza o criticità: il progetto ha una forte rilevanza rispetto alla strategia dell’impresa» (Isotta, 2010). Il contemporaneo svolgimento di più progetti porta all’individuazione del modello organizzativo a matrice che rappresenta, infatti, una configurazione particolarmente indicata quando si vogliono realizzare innovazioni e gestire progetti complessi con una limitata disponibilità di risorse. Questa struttura riesce a modificarsi nel tempo quando i progetti si concludono o vengono sostituiti da altri. Si può quindi affermare che i progetti sono il vero oggetto dell’attività dell’organizzazione e che essi richiedono notevole impegno organizzativo e spostamenti di risorse (Daft, 2010) (Fig. 4). Tale struttura è adottabile in particolar modo quando si hanno prodotti o progetti non ottenibili mediante processi ripetitivi. Essa permette una notevole flessibilità che è importante in condizioni di estremo dinamismo del mercato. La struttura a matrice è caratterizzata dall’adozione di due criteri di divisione del lavoro che contribuiscono a migliorare la flessibilità e l’efficacia. Da un lato si assegna la responsabilità funzionale per tutti i progetti e dall’altro si demandano ad altre persone le responsabilità legate ai singoli progetti. Secondo la linea verticale si sviluppa la gerarchia funzionale, mentre in base alla linea orizzontale sono presenti i responsabili del coordinamento del progetto (Project manager o capo progetto). Il modello a matrice massimizza congiuntamente gli obiettivi delle unità funzionali e quelle dei progetti. Questa struttura, grazie alla gestione della dimensione orizzontale, consente di assumere un numero elevato di decisioni anche di natura diversa. Decentrando le scelte al responsabile del progetto e, conseguentemente, al team che lui stesso gestisce si aumenta la velocità di risposta ai problemi incrementando la motivazione ed il coinvolgimento delle persone ai risultati aziendali (Bodega, 1996). La matrice è formata perciò da due linee di autorità, quella orizzontale e quella verticale, che sottopongono il collaboratore all’autorità sia del responsabile della funzione e sia del responsabile di progetto, determinando il rischio di situazioni di conflitto. La struttura a matrice cerca, mediante il principio della doppia autorità, di limitare le rigidità imposte dalla gerarchia a favore di una maggiore flessibilità nell’operatività e negli obiettivi, realizzata attraverso gruppi di progetto, organi entro certi limiti sottratti alla dipendenza di tipo gerarchico. Se da un punto di vista progettuale questa soluzione organizzativa riesce a superare molti limiti, è necessario che siano determinati i confini delle responsabilità, per non incorrere in problemi di non chiarezza nel comando e di confusione dei ruoli. 98

Nella struttura a matrice è possibile evidenziare dei punti di forza tra i quali ricordiamo l’esistenza di un coordinamento per far fronte a richieste duali da parte dei clienti assicurando una condivisione flessibile delle risorse umane tra i progetti. All’interno di questa struttura le persone svolgono una pluralità di ruoli e quindi possono “ruotare” soddisfacendo esigenze diverse collegate alle priorità fissate dall’azienda. Le attività sono organizzate all’interno dei team in modo tale che i partecipanti combinino esperienze, conoscenze, abilità e capacità diverse complementari rispetto all’obiettivo e al progetto da realizzare. Questa struttura consente un utilizzo efficace ed economico delle risorse e delle conoscenze che vengono suddivise tra progetti e obiettivi multipli. Essa, quindi:  si adatta a decisioni complesse e a cambiamenti frequenti in un ambiente instabile in quanto questa struttura sposta l’enfasi sia sulle dimensioni specialistiche e sia su quelle progettuali;  offre opportunità per lo sviluppo di competenze sia funzionali sia di prodotto/progetto; la comunicazione tra i manager garantisce una forte integrazione tra le stesse unità funzionali e di progetto;  è caratterizzata da un basso controllo gerarchico dovuto ad una applicazione diffusa del principio della delega di autorità che motiva ed incentiva lo sviluppo manageriale; Figura 4 – Organigramma di una struttura organizzativa a matrice Amministratore delegato Amministratore delegato o Presidente o Presidente Direttore delle Direttore delle attività di attività di proprodotto dotto

Progettazione Progettazione

Produzione Produzione

Marketing

Controller

Manager Manager approvvigioapprovvigionamento namento

Product Product Manager Manager 11 Product Product Manager Manager 22 Product Product Manager Manager 33 Product Product Manager Manager 44

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 98.

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 favorisce una maggiore motivazione che deriva dall’opportunità di lavorare in modo partecipativo nei team; anche la persona con meno esperienza ha l’opportunità di partecipare alla soluzione di problemi complessi e a problemi decisionali significativi. Tabella 4 – Vantaggi e svantaggi della struttura organizzativa a matrice Vantaggi

Svantaggi

Realizza il coordinamento necessario per far fronte a richieste duali da parte del cliente

Espone i partecipanti a una duplice autorità, può creare confusione, stabilire conflitti e risultare frustrante

Condivisione flessibile delle risorse umane tra i prodotti e i servizi

Necessità di comprensione dai partecipanti e stabilire relazioni collegiali

Facilita l’impiego di personale specializzato, attrezzature e impianti

Mancanza di unità di comando con lo sviluppo di rapporti di lavoro più complicati

Fornisce professionisti con una gamma più ampia di responsabilità e di esperienza e quindi maggiore motivazione

Implica che i partecipanti abbiano buona capacità interpersonale e ricevano una formazione approfondita

Offre opportunità per lo sviluppo di competenze sia funzionali sia di prodotto

Le decisioni possono richiedere più tempo: frequenti riunioni e superare sessioni di risoluzione di conflitti

Adattamento a decisioni complesse e flessibilità ai cambiamenti di un ambiente instabile

Costi di struttura e di funzionamento Richiede grandi sforzi per mantenere un bilanciamento del potere

È da preferire in organizzazioni di media grandezza con molteplici prodotti

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 99 (modificata).

Riguardo, invece, punti di debolezza va precisato che una soluzione matriciale, come tutte le altre tipologie di strutture, presenta degli svantaggi, quali:  espone i partecipanti a una duplice autorità e ciò può creare, come ricordato conflittualità e risultare frustrante  implica che i partecipanti abbiano buone capacità interpersonali e ricevano una formazione approfondita: maggiore è la diffusione in azienda delle capacità di problemi-solving e negoziali, minori saranno i costi legati al tempo e alle energie per raggiungere una decisione.  assorbe molto tempo nel senso che comporta frequenti riunioni per la risoluzione dei possibili conflitti; è importante che le persone dedichino ai processi di comunicazione molto tempo per dialogare con i membri del team di lavoro;  non può funzionare se i partecipanti non la comprendono e non adottano relazioni collegiali, nel senso che tale struttura, per sua stessa natura, necessita 100

di una partecipazione e di una collaborazione tra coloro che ne fanno parte;  richiede grandi sforzi per mantenere un bilanciamento del potere evitando in tal modo i citati potenziali conflitti tra managers funzionali e di progetto; senza tale bilanciamento si possono ottenere dei risultati organizzativi complessivamente inferiori; si può, comunque, affermare che la presenza di una certa conflittualità tra i responsabili funzionali e quelli di prodotto/progetto è fisiologica in quanto non sarà possibile essere sempre in accordo sulle priorità nell’allocazione delle risorse o sui tempi e sui costi connessi alle attività svolte (Bodega, 1996);  tempi lunghi per la definizione delle politiche e delle procedure all’inizio dei progetti. Si ritiene, altresì, che la struttura a matrice non è indicata nelle organizzazioni che basano la propria strategia su costi bassi o in quelle che si trovano in uno stadio di maturità. Il modello orizzontale Oggi la visione del management si è spostata decisamente, come meglio sarà analizzato in seguito, sui processi non solo in termini strutturali ma anche gestionali. L’attenzione intorno ai processi si è manifestata già intorno agli anni sessanta, sebbene gli studiosi sostenevano che la strada che porta al pieno raggiungimento dell’efficienza attraverso un modello organizzativo orientato per processi è piena di insidie ed ostacoli. È possibile definire un processo come l’insieme delle attività che, assumendo input di varia natura, produce un output che sia di valore per il cliente (Fig. 5). Una visione per processi rappresenta la risposta organizzativa alle sfide presenti sul mercato, in termini sia di riduzione dei tempi di risposta alla manifestazione delle esigenze dei clienti e sia di riduzione dei costi. Spostandosi nella progettazione organizzativa il focus verso i processi, emerge una struttura orizzontale della quale è possibile evidenziare tre caratteristiche distintive: 1. unità di governo trasversali (i Process Owners) che hanno il compito di gestire e modificare le attività del processo; 2. le risorse sono organizzate mediante il ricorso a team auto-diretti nei quali sono presenti competenze di natura trasversale; 3. lo sviluppo della logica cliente-fornitore. Considerando che l’obiettivo fondamentale dell’organizzazione è la soddisfazione dei clienti, la stessa deve essere strutturata tenendo conto di tale obiettivo. 101

Figura 5 – Organigramma di una struttura orizzontale

Top Management Team

Process Owner

Team 1

Analisi di mercato

Ricerca

Team 2

Pianificazione di prodotto

Team 3

Testing

Cliente

Processo di sviluppo di nuovi prodotti

Process Owner

Analisi di mercato

Team 1

Acquisti

Team 2

Flusso dei materiali

Team 3

Distribuzione

Cliente

Processo di acquisto e logistici

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 104.

Riguardo i punti di forza di tale soluzione strutturale si può ricordare che:  promuove la flessibilità e la velocità di reazione ai cambiamenti nei bisogni dei clienti;  focalizza l’attenzione verso la creazione di valore per il cliente;  ogni dipendente ha una visione più ampia degli obiettivi organizzativi;  promuove il lavoro di gruppo e la collaborazione;  migliora la “qualità della vita” dei dipendenti offrendo loro opportunità per una maggiore condivisione delle responsabilità, della presa di decisioni, e per farsi carico dei risultati. Punti di debolezza sono, invece, individuabili nei seguenti aspetti:  la determinazione dei processi chiave è difficile e lunga;  essa richiede cambiamenti nella cultura, nella progettazione delle mansioni, nella “filosofia” di management e nei sistemi informativi e di ricompensa; 102

 i manager tradizionali possono essere restii ad abbandonare potere e autorità;  richiede una formazione significativa dei dipendenti per permettere loro di lavorare in maniera efficace in ambienti di team orizzontali;  può limitare lo sviluppo di competenze approfondite (Daft, 2010). Affinché sia possibile implementare questa struttura organizzativa è necessario un cambiamento culturale promosso in primo luogo dal vertice aziendale. Tabella 5 – Vantaggi e svantaggi della struttura orizzontale Vantaggi

Svantaggi

Promuove la flessibilità e la velocità di reazione ai cambiamenti nei bisogni dei clienti

Richiede cambiamenti nella cultura, nella progettazione delle mansioni, nella filosofia di management, e nei sistemi informativi e di ricompensa

Focalizza l’attenzione la creazione di valore per il cliente

La determinazione dei processi chiave è difficile e lunga

Ogni dipendente ha una visione più ampia degli obiettivi organizzativi

I manager tradizionali possono essere restii d abbandonare potere e autorità

Promuove il lavoro di gruppo e la collaborazione

Richiede una formazione significativa dei dipendenti per permettere loro di lavorare in maniera efficace in ambiente di gruppo orizzontale

Migliora la qualità della vita ai dipendenti offrendo loro l’opportunità per una condivisione delle responsabilità, la presa di decisioni e per farsi carico dei risultati

Può limitare lo sviluppo di competenze approfondite

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 106. (modificata).

Il modello a rete Nel corso degli ultimi anni sono “nate” strutture e modalità di funzionamento che si discostano, in maniera anche sensibile, dalle organizzazioni gerarchiche tradizionali (Williamson, 1975; Chandler Jr., 1977). Queste vengono definite organizzazioni a rete o modulari (Miles & Snow, 1986) e rappresentano il modello a cui una impresa anche di piccolissime dimensioni può ispirarsi per rimanere competitiva sul mercato. In questo caso l’unità di analisi è rappresentata dalla rete composta da un nodo centrale e da organizzazioni nodali legate fra loro da relazioni di collaborazione (Fig. 6). Siamo in presenza di un elemento di continuità strategico in quanto vengono identificati degli obiettivi comuni che sono portati avanti grazie alle relazioni che si instaurano tra le diverse organizzazioni. Tale soluzione rappresenta un campo di indagine di peculiare rilevanza scientifica per le discipline che si occupano di imprese, del loro sviluppo e della loro organizzazione. 103

Daft (2010) definisce “la struttura a rete come una organizzazione che appalta la maggior parte dei processi principali ad aziende separate facendo coordinare le loro attività da una organizzazione centrale”. La relazione cooperativa che si genera è definibile come un insieme di processi paralleli dove, in ciascuno di essi, le operazioni sono finalizzate alla realizzazione di obiettivi di performance per ognuno dei soggetti coinvolti (Soda & Comi, 2008). L’impresa non opera più riferendosi esclusivamente alla logica del make, internalizzando fasi ma si apre sempre più verso il mercato nel quale sono presenti un insieme di imprese che costituiscono un vero e proprio sistema orientato verso obiettivi comuni. Figura 6 – Organigramma di una struttura modulare o a rete

Contabilità

Distribuzione

Marketing

Produzione

Fonte: Daft R., (2012) Organizzazione Aziendale, Apogeo, Milano, p. 109. (modificata).

A livello macro organizzativo, quindi, la struttura a rete è caratterizzata da un processo di disintegrazione nel quale le relazioni tra le parti vanno oltre la nota dicotomia mercato-gerarchia (Williamson, 1975; Grandoni, 1999). Si può affermare che il legame tra le parti coinvolte nella struttura a rete differisce da quello ipotizzato nelle relazioni di mercato, poiché nelle organizzazioni reticolari le transazioni economiche sono racchiuse all’interno di una relazione più ampia in quanto le parti condividono idee, informazioni e risorse che vanno ben oltre il rapporto tra il cliente ed il fornitore (Miles & Snow, 1986). Si passa ad una integrazione basata sulla condivisione di informazioni, in quanto un migliore coordinamento si realizza proprio attraverso un potenziamento dei 104

flussi informativi. Per divenire operativa la struttura a rete necessita di una corretta implementazione di un supporto informatico che permetta di garantire la comunicazione in senso orizzontale e verticale tra i vari elementi che la compongono. Le principali caratteristiche distintive sono essenzialmente le organizzazioni interessate, le relazioni interaziendali e l’autonomia delle unità nodali (Lorenzoni, 1992). Le singole organizzazioni sono per definizione le unità componenti l’assetto reticolare, mentre le relazioni interaziendali bidirezionali rappresentano la caratteristica distintiva delle relazioni interorganizzative. L’autonomia delle unità nodali caratterizza la struttura poiché in assenza di questo requisito, ci troveremo in presenza di una forma gerarchica “occultata” dalla apparente separazione della proprietà. L’unità centrale si adopera al fine di esercitare una forte influenza sulle unità nodali attraverso un processo di coordinamento delle attività in quanto in una organizzazione a rete i manager devono gestire le interdipendenze senza poter ricorrere a meccanismi tradizionali fondati sul comando e sul controllo. A livello manageriale nelle organizzazioni reticolari è di fondamentale importanza il lavoro in team ed il diffuso spirito imprenditoriale in quanto le relazioni di autorità non possono venire impiegate come unico strumento per governare le interdipendenze. L’elemento distintivo proprio di questa struttura è dato dalla necessità di dover gestire un elevato numero di interdipendenze di tipo reciproco con attori che non sono governabili per mezzo di linee di autorità (Thompson, 1967). Il “carattere dinamico” delle organizzazioni reticolari comporta una ridefinizione quasi continua delle interdipendenze tra gli attori, come naturale conseguenza della varietà delle risorse ed esperienze che è necessario coordinare al fine di raggiungere gli obiettivi. La flessibilità rappresenta un attributo distintivo dell’organizzazione reticolare sia a livello organizzativo sia a livello manageriale. Nel primo caso la continuità della relazione dovrebbe essere funzionale al beneficio percepito reciprocamente dai partner, che in caso contrario dovrebbero interrompere il proprio rapporto (Miles & Snow, 1992). Nel secondo caso la flessibilità rappresenta un attributo ed un asset di primaria importanza per il management, che deve orientare gli sforzi del coordinamento in relazione all’intensità e alla rilevanza delle interdipendenze. L’efficacia di una organizzazione reticolare dipende largamente dalla imprenditorialità delle sue unità che, peraltro, è condizionata dalla capacità dei manager di creare una struttura “fluida”. In questo caso un supporto di fondamentale importanza ricopre l’ICT che consente la gestione delle attività che si svolgono in luoghi diversi, talvolta anche molto distanti tra loro. 105

Tra i fattori che caratterizzano una struttura organizzativa a rete è possibile ricordare la complementarietà che consente di sfruttare al meglio le proprie conoscenze in una ottica strategica di focalizzazione e specializzazione al fine di migliorare le competenze specifiche. Un altro fattore è il decentramento che consente di spostare la realizzazione di parte del processo laddove può essere svolto al meglio. Questo favorisce la nascita di una organizzazione più flessibile, capace di contenere i costi fissi con il ricorso a specialisti esterni ai quali sono decentrate, con un processo di outsourcing, le attività non legate al core business. Il terzo fattore è il cambiamento della logica che guida l’organizzazione poiché le unità della rete devono agire come un gruppo di specialisti coordinati tra loro, così come sarà analizzato nel prossimo capitolo. Il concetto di rete può assumere tre significati diversi che dipendono da tre diverse interpretazioni: la rete di unità esterne, la rete di unità interne e la rete a livello interpersonale (Lorenzoni, 1992). Nel primo caso si tratta di una forma organizzativa che fa perno su una impresa guida che costruisce una serie di legami e di relazioni con altre imprese o enti esterni. Questi interessano una o più dimensioni dell’attività svolta per realizzare gli obiettivi strategici. Il contributo di terzi risulta quindi decisivo per il posizionamento dell’impresa. Il punto di osservazione e di indagine è l’impresa guida. In questo caso i connotati distintivi delle organizzazioni a rete sono più netti. Questo concetto di organizzazione ha trovato un maggiore sviluppo negli anni recenti, come sarà evidenziato nel capitolo successivo. Nel secondo caso, rispetto al coinvolgimento stabile di unità esterne, è possibile evidenziare una tendenza parallela a disegnare l’organizzazione interna secondo moduli e procedure simili a quelle impiegate per la rete di unità esterne. Non è solo la struttura formale che viene “reticolarizzata” ma lo sono i rapporti fra le diverse unità, le gerarchie, che subiscono una trasformazione sostanziale. Le unità rappresentano il supporto organizzativo di un processo. All’interno di questo le attività sono gestite da gruppi dove prevalgono le relazioni di cooperazione e dove la differenza di status gerarchico è fortemente attenuata. Il gruppo è responsabile del raggiungimento degli obiettivi ed è autonomo nella scelta della strategia e dei comportamenti atti al loro raggiungimento. Se i precedenti concetti di rete si riferiscono al livello della macrostruttura organizzativa, il terzo concetto trova la sua applicazione a livello di gruppi di persone e di rapporti interpersonali, calandosi quindi nell’organizzazione e influendo sul suo funzionamento. Il network interpersonale diventa un elemento essenziale di completamento della organizzazione a rete. Queste tre forme di rete sono presenti congiuntamente in alcune organizzazioni, anche se non si può affermare che fanno parte di un medesimo disegno organizzativo progettato a priori. 106

Al centro della struttura a rete si trova il controllo sui processi di cui si detengono le competenze distintive (core business) mentre vengono trasferite per mezzo dell’outsourcing (tema che sarà analizzato in seguito) le altre attività unitamente al relativo processo decisionale. La progettazione organizzativa, in questo caso, è caratterizzata da un cambiamento di logica, dovuta in parte all’instaurarsi delle diverse relazioni interorganizzative che ne sono alla base. L’impresa facente parte del nodo centrale si concentra sul potenziamento e sullo sviluppo delle proprie competenze specifiche che generano vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti, mentre vengono affidate all’esterno tutte le attività complementari. La struttura a rete consente alle organizzazioni, anche se di piccole dimensioni, di operare su scala globale riuscendo ad attingere risorse sia nazionali sia internazionali. Ciò permette alla stessa organizzazione di agire in un ampio raggio d’azione senza dover ricorrere necessariamente ad ingenti investimenti in impianti, macchinari o strutture di distribuzione. La struttura è disegnata in modo da assicurare la massima flessibilità e rapidità d’azione. Per questo motivo anche la definizione rigida di confini di unità, di funzione e di organizzazioni viene meno a favore della permeabilità e della capacità di relazione. L’organizzazione risulta molto flessibile e riesce a fornire una risposta rapida ai bisogni dei clienti, con vantaggi anche in termini di costi. L’azienda utilizza i supporti tecnologici esistenti sul mercato al fine di coordinare le attività aziendali. Si tratta, del resto, di una forma organizzativa che fa perno, come ricordato, su un’azienda guida che costruisce una serie di legami e di relazioni con altre aziende per realizzare obiettivi di natura strategica. I rapporti interorganizzativi sono di tipo non gerarchico, nel loro insieme tendenzialmente di medio lungo temine, anche se sono attuate delle rotazioni tali da favorire la proliferazione dei flussi informativi. La progettazione organizzativa è volta a creare un ambiente favorevole alla interazione e alla generazione di nuove interazioni. è richiesto un processo attento di selezione e sviluppo dei partecipanti perché condizione di funzionamento è la presenza di dosi diffuse di imprenditorialità. In contrapposizione ai punti di forza possiamo evidenziare alcuni punti di debolezza tra i quali emerge il fatto che i manager non detengono il “controllo” sulle attività oggetto dell’esternalizzazione e ad essi sono richieste capacità e tempo per gestire le relazioni e i potenziali conflitti con i partner. L’azienda è sottoposta al rischio di fallimento organizzativo se un partner non rispetta i tempi concordati o cessa l’attività. La fedeltà dei dipendenti e la cultura aziendale possono risultare deboli a causa dell’esistenza di limitati valori che sono condivisi dall’intera organizzazione.

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Tabella 6 – Vantaggi e svantaggi della struttura a rete o modulare Vantaggi

Svantaggi

Consente anche alle organizzazioni di piccole dimensioni di operare su scala globale e attingere a risorse internazionali

I manager non hanno il controllo su molte attività e molti dipendenti

Consente all’organizzazione di essere altamente flessibile e di fornire una risposta rapida ai bisogni mutevoli

Richiede una grande quantità di tempo per gestire le relazioni e i potenziali conflitti con i partner

Riduce i costi amministrativi

Comporta il rischio di fallimento organizzativo se un partner non effettua le consegne o cessa l’attività La fedeltà dei dipendenti e la cultura aziendale possono essere deboli perché i dipendenti hanno la sensazione di poter esser sostituiti da servizi a contratto

Fonte: R. Daft (2012), Organizzazione Aziendale, 4a ed., Apogeo, Milano, p. 109.

La tendenza a progettare strutture organizzative a rete è, comunque, favorita dalla presenza di una elevata complessità ambientale e dal fatto che l’internalizzazione di tutti i processi aziendali non è più economicamente sostenibile a causa della molteplicità di conoscenze e di investimenti necessari per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi da offrire in modo competitivo sul mercato.

2.3. Dinamiche organizzative e del controllo interno negli scenari della complessità* 2.3.1. Verso una visione “postmoderna” Molte riflessioni teoriche e operative nell’ambito degli studi organizzativi e del controllo continuano a svolgersi secondo schemi riconducibili ad impostazioni “classiche”. Tuttavia fondamentali trasformazioni, concettuali ed operative, scaturiscono sempre più frequentemente dalle tensioni tra approcci moderni e postmoderni della conoscenza (Padroni, 2007). L’osservazione e soprattutto l’approfondimento dei fenomeni in prospettive *

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Di Giovanni Padroni.

più ampie e “distaccate” costituiscono una forte spinta per cercare di comprendere altri elementi, in qualche caso “lontani” ma importanti, per scavare intorno alle radici o alle concause d’alcuni fenomeni di cui noti, od almeno molto discussi, sono soprattutto gli effetti e le condizioni d’evidenza empirica (Sahal, 1976). Nuove sensibilità e linee di cambiamento scaturiscono, lentamente ma significativamente, dalla contaminazione con altre branche della scienza, tentativi d’integrazione di dottrine diverse in una sorta di sincretismo o, allorché si parta da principi speculativamente più solidi, d’eclettismo organizzativo. Il cambiamento sta giocando un ruolo di grande peso: un fenomeno che, se è “sempre” avvenuto, coinvolgendo la combinazione dei fattori, il sistema delle operazioni, la composizione delle forze interne ed esterne, che in maniera lungimirante Egidio Giannessi aveva descritto e penetrato (Giannessi, 1970), è oggi caratterizzato da dinamiche costantemente accelerate, mutazioni anche repentine di prospettive, ciò che impone più attente e consapevoli modalità di ricerca ed intervento e, sempre, una grande umiltà. Emerge uno scenario complesso che interessa sia l’interno sia il mercato e l’ambiente, tanto diffuso e pervasivo da sconvolgere assetti non soltanto aziendali, costringere a ripensare in logiche e filosofie talvolta definite “postmoderne” molte acquisizioni nel tempo sedimentate. Non soltanto all’interno della struttura sono cadute molte pseudo certezze quali la linearità, la razionalità assoluta, la possibilità di “controllare” completamente parti cruciali del sistema. Mutano i singoli elementi ma soprattutto le interrelazioni, con dinamiche riconducibili al mondo probabilistico piuttosto che a quello, più rassicurante, dalla prevedibilità. Inoltre si comprende meglio come l’economia non possa prescindere da un ampio spettro di aspetti qualitativi, con inimmaginabili incidenze sull’organizzazione (Padroni, 1987). Evolvono in questo contesto i sistemi di misure tradizionalmente utilizzati per il controllo, integrando tradizionali strumenti economico finanziari con altri, anche immateriali, capaci di migliorare anzitutto la comprensione dei valori e della cultura aziendale. La complessità ed il dinamismo dei mercati e degli ambienti spingono verso una migliore visione degli elementi che influiscono sulle dinamiche strategiche: dall’evoluzione della corporate governance alle azioni di controllo collegate ad indagini multidisciplinari (Padroni, 2007) capaci di orientare in maniera sistemica i comportamenti (Salvioni & Franzoni, 2009). Emergono “nuove sensibilità” su aspetti fino ad oggi non sufficientemente considerati nell’ambito economico aziendale: dalla business ethics, separata dall’economicità da asimmetrie spesso soltanto temporali ad una nuova ermeneutica del profitto, dal “valore” delle persone alla formazione di legami di solidarietà. 109

La teoria della complessità 3 riguarda essenzialmente, anche in ambito aziendale, lo studio di cause e fattori che determinano modalità di comportamento, totalmente o parzialmente inesplicabili in una logica meramente riferibile alla somma delle parti, collegati ad interazioni tra persone ed ambiente di riferimento (Mendenhall et al., 2000). I sistemi complessi, a differenza di quelli “semplici” per i quali vale una descrizione riduzionistica 4, richiedono approcci sistemici o sinergetici e un nuovo “senso comune” consistente nella lettura e comprensione, in tempo reale, di cause effetti, interazioni (Lissack & Roos, 2000). Sono segnati da una marcata dinamicità associata a realtà “viventi” (Zohar, 1997) come il cervello, le società, i linguaggi, tutti composti di un gran numero d’elementi che operano in modo dinamico e non lineare 5 verso finalità comuni (Dioguardi, 2005). Indicano situazioni con molte variabili e alta interconnessione di tipo reticolare, anche con il mercato e l’ambiente, suscettibili di produrre cambiamenti (Demattè, 1990). Appaiono sempre più “aperti”, risentono di vicende passate che ne influenzano il comportamento, co-determinano le strutture, si configurano come fattore d’apprendimento. 3

Esistono numerose teorie legate alle diverse aree della complessità, dalla biologia alla chimica, dalla matematica alla fisica ai sistemi economico-sociali. Pure in assenza di una singola visione unificante possono rilevarsi alcuni significativi principi comuni alla generalità dei sistemi naturali, non trascurando l’ipotesi suggestiva che la complessità, oltre che una metodologia, rappresenti anche un modo di pensare (Mitleton-Kelly, 1997). 4

Il secolo Ventesimo è stato caratterizzato da una concezione riduzionista della causalità. Com’è noto il riduzionismo, generalmente rifiutato dal pensiero postmoderno, cerca di analizzare le realtà complesse dividendole in singole componenti. La comprensione della natura delle parti prese isolatamente non permetterebbe tuttavia di chiarire come esse funzionino insieme. Fronteggiamo il passaggio da una scienza del passato legata al riduzionismo ad una scienza del futuro che ha per oggetto la materia adattiva complessa, con evidenti le implicazioni per la teoria e le applicazioni più operative dell’organizzazione (Buchanan, 2003). Si deve in ogni caso osservare come la visione riduzionista, verosimilmente senza futuro, abbia spesso rifiutato di considerare “scienza” alcune tipologie di conoscenza riguardanti processi e interconnessioni della natura. 5

In un ambiente che appare sovente iper-complesso le “connessioni” consistono nelle interrelazioni tra organizzazioni e istituzioni che governano i sistemi economici. Una tale condizione genera rapporti non lineari tra le azioni e i risultati. «La non-linearità di questi legami determina, simultaneamente, una riduzione della prevedibilità del comportamento degli attori organizzativi e un’accelerazione dei processi di cambiamento che si ripercuotono attraverso il tessuto relazionale, generando continue reazioni a catena» (Usai et al., 2000). Anche un insigne matematico del ’900, Ennio De Giorgi, ritiene che la strada da percorrere nello studio del cervello non sarà facile: un percorso non lineare con molte difficoltà ma anche con meravigliose sorprese oggi difficilmente prevedibili (Bassano et al., 2001).

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Possono essere, almeno parzialmente, scomposti configurando una realtà non formata dalla mera somma dei propri elementi ma anche da intricati, alti livelli d’interazione, con obiettivi eterogenei che hanno bisogno di approcci sia di tipo quantitativo sia qualitativo 6. Se l’accentuazione di dinamiche collegate a fenomeni quali competitività e innovazione nell’ambito di cambiamenti strutturali generalizzati contribuisce alla crescita della complessità, anche riguardo a ciò emergono differenti modelli organizzativi (Adinolfi, 1999). Accanto alla più tradizionale categoria d’innovazione “progressiva”, segnata da un processo di miglioramento verso l’alto, si propongono le iniziative in grado di cambiare gli scenari, “scardinandoli” come quando si introduca un prodotto più semplice, meno costoso, collocabile in una fascia “imprevista” di mercato, capace di alimentare nuovo sviluppo ed economicità a valere nel tempo (Christensen & Raynor, 2004): magari intravedendo tendenze che la concorrenza non percepisce, sintonizzandosi su necessità inespresse del cliente (Padroni, 1979). Parallelamente alla crescita di complessità le attività tendono a frammentarsi richiedendo sforzi di ricomposizione e collegamento delle parti in successivi insiemi definiti da nuove interrelazioni più o meno gerarchiche, interne ed esterne. I mercati possono divenire veicoli di scambio tra i sistemi, con leggi dettate dalle gerarchie organizzative (Padroni, 2007). La ricerca nei sistemi economico-aziendali si realizza sempre meno all’interno d’ambiti “chiusi”, privilegiando forme che non appartengono a definiti, preesistenti paradigmi (Reale & Antiseri, 2001). D’altronde, proprio alla naturale e crescente complessità dei problemi è connessa la necessità di configurare e implementare soluzioni sempre più innovative. L’attenzione alla complessità, sia intesa come costellazione di credenze condivise sia come insieme di teorie, valori e tecniche di ricerca di una comunità scientifica 7, suscettibile d’interessanti applicazioni anche in ambito organizzativo, si accompagna alla necessità di applicare o almeno considerare alcune fondamentali problematiche in maniera differente rispetto alle visioni tradizionali: 6

La complessità può essere ricondotta ad un sistema comprendente gli aspetti dinamici che hanno la caratteristica di essere aperti e dispersi, costituiti da elementi interconnessi (Fuller & Moran, 1999). Nella visione postmoderna la realtà non sarebbe «qualcosa che ci è dato, ma qualcosa che creiamo, tessiamo continuamente nel comunicarla» (Rifkin, 2000). 7 Introdotto nel lessico dell’epistemologia contemporanea da Thomas Kuhn il termine è riconducibile sia alla matrice disciplinare di una comunità di scienziati sia, più significativamente, alle soluzioni dei problemi collegati (Kuhn, 2009; Abbagnano, 2006). è tuttavia forse importante ricordare come, nella visione kuhniana, al paradigma non sia necessariamente collegata l’aspettativa di risposte finali condivise dagli studiosi di una disciplina.

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dagli aspetti interdisciplinari alle possibilità e limiti del controllo, dalla razionalità 8 all’uso di strumenti e tecniche empiriche (Cunha et al., 2001). Il grado di connessione, associato alla quantità dei flussi d’informazioni esistenti, fa sì che i processi decisionali e di controllo non rimangano limitati a singoli aspetti ma riguardino tutti gli altri, più o meno strettamente collegati (Mitleton-Kelly, 1997). È noto come nella visione “riduzionistica” ogni sistema, sintesi dei suoi costituenti elementari, sarebbe interamente riproducibile con la separata conoscenza delle parti. Nella fattispecie, informazioni su segmenti della struttura consentirebbero di “prevedere” il comportamento d’aziende, aggregati economici, società 9. Gli approcci tradizionali sono incapaci di “gestire” situazioni collegate a forti domande di cambiamento ed adattamento ad ogni livello della scala gerarchica. Tra i più espressivi trends associati sono l’orientamento alla qualità, il maggior bisogno di autonomia, responsabilità, quindi empowerment, il nuovo ruolo dei leader, la richiesta di flessibilità delle strutture (Dolan et al., 2004), con l’orientamento verso sistemi tendenzialmente isostatici. La libertà coniugata con la responsabilità è capace di liberare energie in aree ad ampia latitudine che vanno dalle persone alle famiglie, alle combinazioni aziendali. In questa fase di forte transizione un comune denominatore sembra rappresentato dall’esistenza di modelli d’imprenditorialità amplissimi (Gray, 2002), variegati, “ricchi” rispetto al passato, in stretta connessione con le dinamiche organizzative e culturali. Di fronte ad un mercato-ambiente turbolento è alto il rischio di vuoti o ritardi nelle capacità d’adattamento e recupero. L’organizzazione deve, infatti, acquisire continuamente strumenti e caratteri adeguati in termini di “resilienza”, capacità di assorbire sollecitazioni senza subire apprezzabili traumi, e adeguata “risonanza” con il mercato-ambiente, segnata da dinamiche organizzative e strategiche non meramente adattive, coerenti in termini quali-quantitativi. Ciò, anzitutto acquisendo forte attitudine verso le mutazioni, non soltanto in termini di prodotti e strutture ma anche squisitamente strategici e culturali, generando manager capaci di “facilitare” anziché imporre, valorizzando idee mediante flussi adeguati di capitali e talenti (Hamel & Valikangas, 2003). 8

Come ricorda un attento studioso di organizzazione il problema della razionalità ha un posto importante sia nel dibattito economico sia in quello filosofico. Entrambi sarebbero caratterizzati dall’abbandono della razionalità positivistica, globale, unica e stabile, verso una configurazione qualificata in senso limitato, plurimo, mutevole nel tempo (Biggiero, 1992): verosimilmente più vicina al concetto di pluralismo piuttosto che di relativismo. 9 Ciò non deve nascondere la realtà di frequenti e diffusi errori nel valutare le informazioni a disposizione e nell’operare giudizi di tipo probabilistico (Gigerenzer, 2003).

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Provenendo non di rado le carenze organizzative dal tentativo di trasferire modelli obsoleti all’analisi dell’azione pratica, disattendendone altri essenziali aspetti, occorre relativizzare le rappresentazioni intellettuali rivolgendosi alla effettiva conoscenza delle cose e delle persone 10. Coerentemente, radicale non sarebbe l’oggettività 11 bensì la realtà (Agazzi, 1974; Arecchi, 1986; Stent, 1978). Il coinvolgimento dei detentori di risorse critiche nel governo e nel controllo dell’impresa si allarga dalla tradizionale sfera del capitale alle più recenti, e critiche, fonti di conoscenza e innovazione. Ne deriva un approccio necessariamente multidimensionale basato su integrazione e interrelazione tra responsabilità socio-economiche, ambientali, amministrative (Salvioni & Franzoni, 2009). Essendo una delle più significative finalità del controllo il miglioramento del funzionamento organizzativo è dunque opportuno prevedere – in un’ottica di reale cambiamento – momenti propositivi e propulsivi volti anche alla modifica degli stessi processi. Nella prospettiva postmoderna la metodologia non è coinvolta nella descrizione o interpretazione dei dati. Si rinuncia a rigorose separazioni, decise contrapposizioni, forti dissonanze. Sono accentuati il linguaggio e la comunicazione. La preventiva scelta delle metodologie e dell’impianto teorico condizionerebbe in larga misura i risultati della ricerca: i fenomeni sarebbero carichi di teoria al pari delle metodologie utilizzate per la loro analisi (Gerger & Joseph, 1996). Il termine “postmoderno” 12, usato talvolta per marcare con enfasi differenze con le forme burocratiche, favorisce strutture 13 organiche, fluide, adhocratiche, rivela una notevole latitudine, attento alle motivazioni per realizzare forme a misura d’uomo. Attraversa molti campi del sapere dando vita a problematiche tutt’altro che definite. Ipotizza, sia sul piano teorico sia operativo, l’esigenza di produrre una vera e propria formazione “postmoderna” (Hicks, 1998), favorendo processi d’autosviluppo della conoscenza, sicuro volano di innovazione e promozione sociale. Nel mondo accademico il concetto è talvolta ricondotto ad una vera e propria nuova Weltanschaung, donazione di senso alla propria vita con riflessi nei modi di pensare, agire e riflettere, collegata all’ampio sistema dei fattori di 10

Così le identità politiche non possono più definire le persone in maniera “globale” e, a volte, totalizzante, come è accaduto nella modernità (Donati, 2001). 11 Sarebbe discutibile e priva di fondamento anche la semplice ipotesi sulla quale riposava l’idea stessa di oggettività consistente nella separazione tra il soggetto che conduce la ricerca e l’oggetto di essa (Ferraris Franceschi, 1998). 12 Per una chiara riflessione introduttiva si può utilmente consultare (Hatch, 2006). 13 Gli scenari più recenti non possono attenuare eccessivamente l’attenzione verso la struttura, già sottolineata autorevolmente da importanti Maestri, da Burns e Stalker (1961), a Mintzberg (1989).

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cambiamento presenti nei sistemi socio-economici. Il postmoderno segna la fine delle grandi narrazioni e del “tempo lineare”, aprendosi al “tempo circolare” e ai tanti “tempi della storia”: una storia che enfatizza l’obiettivo di dar voce alle minoranze, alle diversità, ai fenomeni tradizionalmente coperti dal silenzio. Se l’accezione “post industriale” dilata gli aspetti virtuali e connessi ai servizi, quella “post fordista” riguarderebbe principalmente forme produttive “leggere”, flessibili, con ridotte quantità di manodopera, personalizzazione di massa, miglioramento continuo nei processi verso la qualità totale, cambiamenti nella supply chain e nella gestione del personale (Doner & Hershberg, 1999). Secondo la visione di Drucker (1994) la concorrenza in un mercato globalizzato richiederebbe un vero e proprio “post capitalismo” in cui la conoscenza, soprattutto innovativa e riconducibile definitivamente all’area del capitale umano (Scott, 2000), appare come una delle chiavi per il successo, tanto importante da configurare una vera e propria Knowledge Society. La conoscenza non sarebbe un fatto elementare né schematico ma piuttosto caratterizzato da complessità, che si genera considerando molteplici aspetti interrelati tra loro (Ferraris Franceschi, 1998). La logica della complessità spinge verso una più ampia “valorizzazione” delle persone, portando a sintesi il valore intellettuale ed in generale delle risorse immateriali (Amietta, 1998; Padroni, 2000), anche per un più adeguato controllo della gestione. Da uno spettro di attività tradizionalmente limitato all’area contabile e finanziaria ci si sposta verso modalità di “essere” ed operare del “sistema aziendale”. Si genera un potente strumento di assistenza e cooperazione verso il top management che può coinvolgere le soluzioni organizzative, i sistemi di controllo, il grado di attendibilità dei sistemi informativi. Nella determinazione del valore attribuito al capitale umano è importante spostarci verso una dimensione prospettica, considerando aspetti monetari e non monetari capaci di incidere sui livelli di efficacia e di efficienza (ZandaLacchini-Oricchio, 1993). Alla base della creazione del valore vi è la capacità di ogni decisione di generare flussi di cassa. Su questa base è determinato e misurato l’impatto degli obiettivi e decisioni nell’ambito della combinazione (dalle quote di mercato all’efficacia ed efficienza organizzativa, alla struttura finanziaria). In ambienti turbolenti divengono essenziali condizioni di self organization 14, rapportate alla capacità dei membri interni di assumere liberamente modalità 14

«Self-organisation is the spontaneous organization of the system’s elements into coherent new pattern structure and behaviours» (Mitleton-Kelly, 1997).

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decisionali e di comportamento coerenti con set di valori condivisi (DolanGarcia-Diegoli-Auerbach, 2000). Il sistema complesso 15, consistente in un gran numero di forze ed attori che interagiscono tra loro in varia forma, appare ad un meta-livello rispetto alla tradizionale modellizzazione scientifica all’interno di un ben stabilito insieme di norme, ciò che impone la rinuncia di procedure standard a favore di soluzioni maggiormente “adattive”, tipiche degli esseri viventi (Arecchi, 1999a). Questo darebbe vita a strutture e processi frammentati, non legati a modelli predeterminati, talvolta frutto di creatività e impulsi soggettivi 16, generando conoscenze non preesistenti con modalità che richiamano quelle dell’“artista”. In tale sistema, di tipo sintropico, sono valorizzati processi di know why, networks, flessibilità e capacità reattive, economie di scopo. La realtà procede attraverso contaminazioni, attraversamenti, contraddizioni, anziché modelli netti e distinti. La creatività, essenzialmente capacità di generare innovazioni sia sul piano concettuale sia relazionale, appare come punto di partenza di processi aziendali molto complessi: esplicati in periodi di difficoltà e turbolenza, giocati tra realismo ed utopia, comunque difficilmente riconducibili a modelli dinamici tradizionali. L’organizzazione si presenta sempre più chiaramente come un sistema cognitivo, costituito da persone che entrano in relazione con un mercato-ambiente cercando di influenzare sistemi di valori e culture (Gratton, 2000), segnati da progressiva eterogeneità. Fa in alcuni casi eccezione la piccola impresa, luogo d’integrazione e costruzione delle appartenenze (De Bertoli, 2006), anche nel segno di sistemi di valori maggiormente omogenei. La “capacità visionaria” del “piccolo imprenditore” è preziosa nella ricerca dell’efficacia e nella focalizzazione verso le “cose giuste” piuttosto che verso forme di vero e proprio “efficientismo” che non di rado indirizzano l’esasperata managerialità verso la mera attenzione nel “fare bene le cose” invece di “fare in maniera corretta le cose giuste”.

2.3.2. Dinamiche nel controllo Nuovi scenari e dinamiche spesso tumultuose, sia di tipo interno sia esterno alla combinazione aziendale, determinano enormi cambiamenti nei sistemi di 15

Con un profondo e colto studioso ricordiamo come l’azienda si spieghi concettualmente anzitutto come sistema complesso (Dioguardi, 2005). 16 Si giunge a sostenere che la realtà ordinata che pensiamo di percepire sarebbe il prodotto delle nostre procedure d’osservazione.

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controllo. Anche la presenza di sempre più elevate dosi di tecnologia informatica nei processi influisce in questo campo e negli stessi processi decisionali. E la stessa evoluzione del controllo interno, in senso quali-quantitativo, ha contribuito a determinare ed ampliare il carattere di complessità nelle attività di gestione, attribuendo al concetto contenuti sempre più ampi (Cori, 1997; Corsi, 2003), sia in termini di governance sia operativi. Un punto focale della complessità è rappresentato dalla difficoltà di controllare un sistema avente tali caratteristiche (Berreby, 1998), permeando il controllo l’intero sistema aziendale (Salvioni, 2009). Se anche le basi teoriche suggeriscono di suscitare, piuttosto che imporre, le norme di comportamento (Santosus, 1998), la nozione di una facoltà di “comando e controllo” centralizzato, tradizionale nella cultura del “piccolo imprenditore”, è criticata non soltanto come modello applicabile alla produzione, ai servizi e al governo ma anche come strumento intellettuale per la comprensione di altre discipline (Berreby, 1998). Il successo organizzativo dipende in non piccola misura da come i soggetti collegano i loro sforzi per lavorare insieme incoraggiando assunzioni di responsabilità e interrelazioni sul posto di lavoro. Così i manager possono attendersi soluzioni più creative e far funzionare l’organizzazione come un tutto unico (Kelly & Allison, 1999). Si conferma l’importanza di meccanismi di controllo del tipo feed-forward, basati su modelli prospettici capaci di offrire strumenti per azioni tempestive anche di tipo strategico (Amigoni, 1979). Recenti tendenze negli studi economici sono caratterizzate da orientamenti verso filoni vicini ad “altre” scienze. Così mediante la psicologia positiva si tende a superare tradizionali approcci psicoanalitici valorizzando risorse quali ottimismo, autostima, empatia, immaginazione. Cresce l’interesse verso dinamiche non lineari, comportamenti caotici, problematiche interpretate secondo la logica bottom-up meglio che top-down (Berreby, 1998), modificando il tradizionale modello scientifico legato alle relazioni di causa ed effetto. In presenza di difficoltà a pianificare il controllo in modo soddisfacente il manager sente il bisogno di sviluppare una posizione di adattamento e una preparazione a reagire ad eventi inaspettati (Phelan, 1995). Cambiamenti nel ruolo imprenditoriale sono connessi alla pratica impossibilità del vertice di avere per ogni problema e situazione la soluzione “ottimale” ed il controllo immediato. Si deve mettere a punto una più larga “visione” aziendale in modo che la creatività soggettiva possa emergere, in una delicata miscela tra caratteristiche personali e lavoro di gruppo, in processi di cross fertilization capaci di favorire la generazione di idee. 116

Una “cultura dell’attenzione”, piuttosto che basata su “comando-controllo”, è alla base dei sistemi complessi, capaci di generare e alimentare condizioni in cui è possibile modellare lo sviluppo economico guidato dalla crescente diversità economica. Appare opportuno che il capitale umano, ad ogni livello gerarchico, sia coinvolto nell’implementazione dei sistemi di controllo interno, assimilato ad una serie di processi che vanno dalla specializzazione delle competenze professionali al decentramento delle responsabilità, allo sviluppo di autonomia operativa 17. 17

Degno di interesse a questo proposito è il Decreto n. 231/2001, integrativo di sistemi di certificazione della qualità eventualmente già esistenti, divenuto parte integrante del sistema di controllo interno delle aziende italiane. Con esso si introduce un sistema “preventivo” il cui obiettivo è tutelare l’azienda dal coinvolgimento legale in caso di reati commessi da parte dei propri dipendenti e collaboratori evitando forti sanzioni pecuniarie e, nei casi più gravi, la possibile forzata interruzione dell’attività. Il Decreto, interessante mix tra cultura organizzativa e cultura giuridica, mira a far sì che i problemi vengano correttamente affrontati e possibilmente “risolti” prima che si manifestino con gravità talvolta estrema e viene applicato anche alle piccole e medie imprese con esclusione di quelle individuali e degli enti pubblici. Un importante obiettivo, favorito dall’obbligo di assegnare ad un team di lavoro l’incarico di costruire, impiantare, mantenere il modello. è giungere all’esclusione della responsabilità se si dimostra l’adozione, prima della manifestazione dell’evento, di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi. Il modello di organizzazione, gestione e controllo passa attraverso alcune importanti fasi. Anzitutto la manifestazione ufficiale della volontà da parte dell’azienda di adottare un modello di organizzazione gestione e controllo ai sensi del Decreto n. 231/2001, opportunamente verbalizzata, associata ad un’idonea informazione del personale e dei sindacati volta specificatamente ad illustrare la specifica cultura dell’auditing. È prevista quindi una seconda fase di “messa a fuoco” tra cui l’analisi dell’organigramma, dei punti di forza e debolezza, delle aree ritenute a rischio, dei suggerimenti in merito alle soluzione ritenute più facilmente adottabili, meno costose e più efficaci. In una terza fase si realizza la mappatura delle aree a rischio in coerenza con lo spirito della norma e la costruzione di un master plan in grado di fronteggiare i rischi e porre l’azienda al riparo delle responsabilità considerate. La quarta fase è dedicata all’implementazione del modello organizzativo secondo il dettato e lo spirito del decreto, anche mediante una coerente gestione dei flussi finanziari e dei protocolli interni, l’introduzione di un codice etico, di specifici organismi di vigilanza, attività di formazione, sistemi disciplinari, processi informativi. è importante che il codice etico riaffermi esplicitamente il valore sociale dell’intervento di auditing in corso. Ovviamente opportuno è la redazione di un attento bilancio sociale capace di integrare i dati contabili di bilancio con le realizzazioni in altri campi, dal capitale umano al rispetto dell’ambiente e delle norme sulla sicurezza del lavoro. Di particolare criticità e rilevanza è il problema di ricondurre le risorse immateriali nei documenti di bilancio: in termini qualitativi e sotto l’aspetto squisitamente contabile. In una realtà organizzativa e gestionale caratterizzata dal sempre maggior rilievo dei processi, della Learning Organization, del Total Quality Management, pare opportuno non limitarsi alla mera misurazione del costo di acquisto e sviluppo delle conoscenze allargando la prospettiva alla

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Ai fini della creazione del valore il controllo interno può offrire contributi importanti in diverse aree: per prima cosa con interventi sui costi, eliminando attività a basso valore aggiunto, promuovendo miglioramenti nei livelli di rendimento ed economicità mediante attente determinazioni delle criticità e dei rischi connessi che consentano l’eliminazione di attività ed output colpiti da obsolescenza, liberando risorse da destinare altrove. L’orientamento verso i processi, mezzo efficace per lo snellimento delle organizzazioni, richiede peraltro un elevato grado di cooperazione interfunzionale e focalizzazione su obiettivi globali. Interfunzionalità significa, tra l’altro, potenziare il flusso di comunicazioni, anche informali, tra i diversi ruoli, creare un sistema di relazioni trasversali, modificare profondamente la struttura gerarchico funzionale. É importante ricordare come proprio i processi di comunicazione, insieme a quelli di rilevazione e misurazione, volte all’attuazione delle finalità economiche istituzionali costituiscano le basi concettuali ed operative del controllo della gestione (Salvioni, 1997). Se l’attenzione ai processi può consentire la ricostruzione dell’integrità organizzativa del flusso lavorativo che la configurazione funzionale non sempre è in grado di assicurare in modo soddisfacente, i contenuti delle tre complementari dottrine economico-aziendali (gestione, organizzazione e rilevazione) trovano una loro sintesi congiunta proprio con riferimento ai processi ed alla loro combinazione (Ferrero, 1987). Il controllo diviene cruciale anche perché chiamato a collegare in maniera sinergica comportamenti individuali e di gruppo alle politiche della qualità. L’idea base è quella di portare ad unità le attività di amministrazione e quelle di controllo dotando i lavoratori, in ogni posizione gerarchica, di una precisa consapevolezza-responsabilità delle proprie azioni, quindi di capacità di autovalutarsi, correggere le eventuali disfunzioni migliorando le prestazioni, con un profondo significato anche di tipo organizzativo per il forte “coinvolgimento” richiesto ad ogni livello della struttura. Il controllo interno dovrebbe fornire ragionevoli assicurazioni sull’efficacia ed efficienza nella conduzione delle operazioni, l’affidabilità dell’informazione finanziaria, il rispetto delle normative applicabili e la tutela delle risorse presenti nel sistema. valutazione del valore del potenziale anche nella prospettiva della gestione del personale e dei processi organizzativi aperta alle risorse intangibili ed al capitale intellettuale (Alvino, 2000). Nella quinta fase, di verifica, l’attenzione è volta in particolare al planning che fissi le estensioni temporali delle varie fasi, le eventuali revisioni alla luce dello stato di avanzamento delle attività, un feed-back di verifica del modello per monitorizzare i suoi gradi di efficacia ed efficienza. Nella sesta fase si prendono in considerazione le possibili estensioni del modello.

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I sistemi in questo campo appaiono connessi, oltre che a meccanismi normativi-procedurali ed attrezzature tecniche (in primo luogo informatiche), a risorse umane dalle quali dipende, come per gli altri assets della combinazione, l’effettivo funzionamento dei sistemi stessi, il loro livello di rendimento e d’economicità. Ne promana la notevole rilevanza, ad ogni livello gerarchico, delle motivazioni dei vari soggetti, della cultura e dei principi etici di riferimento. Rilevante per migliori livelli di economicità del sistema è sicuramente l’integrazione tra controlli ex-ante ed ex-post anche mediante la creazione di circoli virtuosi oggettivi e soggettivi (Salvioni, 2009). Pur non potendo escludere che codici deontologici e regole di corporate governance possano nascondere difficoltà od impossibilità ad applicare le norme, e talvolta la loro inflazione, non può essere sottovalutata la loro funzione “educativa” nei confronti del personale, utile per far sviluppare la coscienza etica e garantire il corretto trasferimento degli orientamenti di governance all’intera struttura organizzativa (Salvioni & Franzoni, 2009). L’esistenza e la comunicazione di un “corpus” organico di norme etiche costituiscono un requisito fondamentale per l’effettivo funzionamento di un sistema di controllo interno. Norme e meccanismi non sono, infatti, in grado di assicurare, da sole, la corretta conduzione delle operazioni. Un vero e proprio “codice etico” non dovrebbe limitarsi a “fotografare” una certa realtà ma di preferenza essere proiettato verso assetti non completamente realizzati, spingendo verso il cambiamento. Le norme deontologiche, riferibili al comportamento dei lavoratori, potrebbero avere un’utilità interna, quindi estensibile al più vasto universo degli stakeholders, nella direzione di una concezione più ampia della governance. Cresce la coscienza che le norme, da quelle giuridiche a quelle contabili, da sole non siano sufficienti, benché possano essere molto importanti. Occorre, infatti, dotarsi della capacità di applicarle, trasformarle in progetti e programmi organizzativi che tengano conto delle aspettative dei clienti esterni ma anche in generale delle risorse umane e dei valori espressi nella cultura generale e aziendale. Il responsabile del personale incide direttamente sui livelli di performances lungo la catena gerarchica “ottimizzando” l’utilizzo sinergico delle “culture” anche mediante una corretta impostazione e composizione delle risorse immateriali (Salvioni & Franzoni, 2009). Il capitale umano, “risorsa” dai contenuti contabili ma anche strategici, è fonte di valore economico che dal momento dell’assunzione si sviluppa con diverse modalità qualitative e quantitative in relazione alle modalità di impiego. Ciò si accompagna all’esigenza di sistemi informativi capaci di valutare correttamente i contributi alla creazione del valore nel sistema aziendale (Bruni, 1990). 119

L’orientamento al cambiamento nella logica della complessità domanda che siano riservate alle risorse particolari attenzioni adottando valori di coinvolgimento ed effettiva partecipazione, dando spazio a comportamento ed azioni capaci di favorire la creatività, non di rado contemperando aspettative e pressioni contrastanti riguardanti domini che possono spaziare dalla differenziazione all’integrazione, dall’autorità alla persuasione 18, alla visione, ai programmi (Salvemini, 1994): Un segno della profonda trasformazione in questo campo è offerto dai mutamenti che hanno riguardato l’“internal auditor”, vero e proprio creatore di valore il cui profilo si sta gradatamente caratterizzando in termini di consulenza sulle architetture sul sistema di controllo interno, anziché meramente ispettive. Tra le “nuove” caratteristiche dell’auditor spiccano la necessità di acquisire metodologie e strumenti per impostare e risolvere correttamente problematiche sempre più complesse; la capacità di intrattenere rapporti interpersonali e comunicare idee valide convincendo le persone che possono valorizzarle e metterle in atto. Può trattarsi di vere e proprie questione di sopravvivenza, soprattutto in ambienti caratterizzati da elevati livelli di competitività e conflitti di ruolo.

2.3.3. L’azienda come sistema complesso di risorse ed obiettivi Nelle dinamiche economiche e sociali una chiara ed esauriente delimitazione fra scienze “hard” e “soft” (Stent, 1978) non è semplice. Le prime, tuttavia, sarebbero contraddistinte da un oggetto d’investigazione perfettamente individuato, su cui sarebbe possibile formulare previsioni attendibili. In realtà il “mondo galileiano” elaborato per la fisica non sembra trasferibile tout court a tutti i campi d’indagine 19. E ricordiamo come la formulazione newtoniana, alla base del meccanicismo organizzativo, permetterebbe di determinare il moto futuro di un corpo, note che siano le forze che agiscono su di esso e due condizioni iniziali, vale a dire la posizione e la velocità ad un certo istante di tempo. L’estensione di questa possibilità da un singolo ad un numero grande d’oggetti è stata la base del “dogma” deterministico, riguardante il comportamento di fenomeni soggetti alle leggi della 18

«Persuasion instead of control and conversation instead of perfect rationality seem to be a sort of Copernican revolution that human sciences must fulfil, if they wish to learn the essential lesson from the science of complexity» (Biggiero, 2001). 19

«(…) tutto ciò che la vecchia fisica considerava come elemento semplice è organizzazione. L’atomo è organizzazione; la molecola è organizzazione; l’astro è organizzazione; la società è organizzazione (…)» (Morin, 2001).

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meccanica, in cui semplici regole e conoscenze consentirebbero precise previsioni e perfino l’effettuazione di controlli dell’apparente complessità 20. L’esperienza ha dimostrato come il criterio basato sulle regole e le funzioni deterministiche, benché largamente presente nelle argomentazioni teoriche delle analisi organizzative (Clegg, 1990), non si dimostri abbastanza sensibile rispetto alle generali qualità dei sistemi complessi, impedendo una corretta comprensione dei fenomeni (Cilliers, 2002) 21. Occorrerebbe piuttosto ragionare in termini di relazioni, tanto più importanti quanto più le realtà diventano “virtuali”: in molti casi sarebbero proprio esse a determinare la natura dell’oggetto. Il fenomeno della globalizzazione, ovviamente interconnesso con la complessità (Padroni, 2007), impone un ripensamento non epidermico degli indici normalmente utilizzati. Le crescenti mutue relazioni con gli svolgimenti ambientali, dalle crisi negli equilibri internazionali alle emergenze sempre meno “eccezionali” (da quelle climatiche a quelle militari o riguardanti la salute), possono determinare effetti dirompenti (Naisbitt & Aburdene, 1990). Tra le conseguenze della crisi mondiale esplosa nel 2008 c’è la forte caduta di credibilità dei controllori, sia banche centrali sia autorità dei mercati, che avevano contribuito con il loro comportamento miope o permissivo a far dilatare in misura enorme alcuni strumenti finanziari generando vere e proprie condizioni patologiche. La teoria considera la dinamica di un sistema complesso come dovuta all’interazione fra sottosistemi che agiscono ciascuno con una propria individualità 22. Se la nozione di non linearità, riferita a fenomeni che manifestano una reazione difficile da prevedere, si presenta come relativamente semplice, non appare facile tradurla in una teoria matematica pienamente soddisfacente (Bassano et al., 2001). 20

I pensieri rimandano a Newton, Cartesio, Darwin, proiettati su un mondo "lineare" caratterizzato da visioni singole nel quale gli organismi si adattano all’ambiente di riferimento attraverso lenti processi evolutivi e mutazioni “casuali”: casualità peraltro difficilmente compatibile con il carattere di razionalità “assoluta” che per lungo tempo ha segnato il dibattito organizzativo. 21 L’organizzazione avrebbe in realtà recentemente assunto il significato di diffuso cambiamento e generale depotenziamento di regole lungamente sedimentate, verso comportamenti agili e di breve termine (Maggi, 2001). 22 Se in sistemi chiusi pare possibile una descrizione riduzionistica, in quelli aperti lo scambio al contorno sarebbe un “di più” rispetto alle leggi interne. In un vivente, i comportamenti (fenomi) sono un compromesso fra eredità (genoma) e ambiente, e non sono deducibili solo dal genoma (cioè dalla sequenza di basi del DNA). Il vitalismo di vecchio stampo pretendeva che esistessero leggi regolanti il sistema differenti dalle leggi fisiche del mondo. La biologia molecolare ha, in effetti, provato come non sia necessario invocare leggi nuove per passare dal non vivente al vivente, a livello elementare (Arecchi, 1986).

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L’aspetto qualitativo del caos (Peters, 1988), relativo a sistemi deterministici ancorché imprevedibili, riguarda la possibilità di conoscere il carattere generale del comportamento a lungo termine di un sistema, piuttosto che cercare le revisioni numeriche relative ad uno stato futuro (Taylor, 1994). Gli stati caotici sono instabili, poiché non tendono a resistere ad ogni turbolenza esterna ma piuttosto a reagire in maniera espressiva: non passano sopra alle influenze esterne, ma sono parzialmente guidati da esse (Meyer et al., 1994). Il Knowledge management, insieme di politiche gestionali, strumenti organizzativi, tecnologie informative, deve continuamente rappresentare l’interfaccia di confine tra il panorama ostile e gli agenti che operano in termini d’auto organizzazione in ambienti caratterizzati da forte turbolenza. Nell’ampio spettro di una “nuova economia” contrapposta alla “old economy” non può essere trascurata l’enfatizzazione d’elementi, sui quali è necessario un miglioramento continuo ed una disponibilità ad investire: dall’autonomia 23 alla leadership, dai processi di gruppo ai sistemi attivi e proattivi, alle combinazioni di culture e tipologie di relazione, alle modalità di comportamento non convenzionale, ai collegamenti e network anche intesi come efficace strumento analitico di rappresentazione delle relazioni interorganizzative. Gli approcci operativi del management non sempre riescono a configurare uno stretto collegamento tra strategia, comportamento e leadership, riscontrabile con maggiore frequenza nella realtà dell’azienda “minore”. Tutto questo comporta l’idea dell’ambiguità della tecnica e della rivoluzione telematica: ovvero la convinzione che gli stessi fattori che producono omologazione, appiattimento e mercificazione, possono, se guidati, esaltare le diversità, la creatività e dunque la qualità 24, alleggerendo gli obblighi della fatica e della routine ripetitiva e consentendo, con le maggiori possibilità di tempo e di spazio a disposizione, un migliore impiego della propria vita 25. Ciò ricordando che per l’azienda lo spazio fisico è sempre meno rilevante rispetto alle caratteristiche di networking virtuale, capace di trasformare il rapporto con la realtà, evidenziato da strumenti che vanno dai rapporti di cooperazione nel mercato e nell’ambiente, estesi ai competitors, ad Internet. Un ostacolo da superare è costituito dalle necessità di creare un’autentica sintesi tra il valore intellettuale, che segna la maggior parte del lavoro odierno, e 23

Due studiosi caratterizzati da forte attenzione al rigore metodologico definiscono l’autonomia come la capacità di produrre e scegliere le proprie regole, comportando sia aspetti individuali sia collettivi (De Terssac & Maggi, 1994). 24 Tuttavia abituarsi alla diversità dei normali è più difficile che abituarsi a quella dei diversi. 25 «La diversità è un dato di fatto che nessuna organizzazione può permettersi di ignorare» (Daft, 2010).

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le potenzialità tecnologiche, nel segno di una visione del lavoro maggiormente arricchita dalle relazioni sociali e dalla capacità di comprensione delle relazioni reciproche fra persone che interagiscono come produttori-consumatori in un sistema “sociale” reticolare (Donati, 2001). In questa prospettiva l’azienda “minore” ha condizioni vantaggiose, sia a livello della struttura, che continua a rivestire un importante ruolo nell’organizzazione, sia dei processi decisionali (Stewart, 1999). In termini strutturali e di possibilità di sviluppo la combinazione aziendale, invece che da una rigida struttura di potere 26, è meglio assimilabile ad un modello a rete, per alcuni aspetti simile al web informatico 27: un sistema non lineare, dinamico ed integrato, non gerarchico, di relazioni. In quest’ambiente un ruolo chiave per i leader consiste nel favorire lo sviluppo di gruppi e team di lavoro mediante selezione, reclutamento e riunione d’appropriati attori e nello sviluppare metodi capaci di garantire l’utilizzazione della maggior parte della capacità presenti ad ogni livello delle risorse umane, tenuto peraltro conto che le categorie gerarchiche sono sempre meno individuabili in senso rigoroso. Lo sviluppo dimensionale acquista i connotati di un’effettiva crescita solo associandosi ad un miglioramento delle condizioni d’equilibrio durevole, non necessariamente in presenza di macroscopici indici di progresso tecnicoscientifico e “quantitativi”. È rappresentativo il processo di sviluppo della “piccola” unità caratterizzato, anziché da mero ampliamento delle strutture (Raffa & Zollo, 1998; Fiorelli, 2005), da trasformazioni organizzative: un evento dal significato non univoco, anzitutto per le ambiguità insite nello stesso ambito definitorio, talvolta illusorio più che profondo e radicale (Masino, 2005). La conoscenza rappresenterebbe un asset sistemico dell’organizzazione, aperto al mercato ed all’ambiente; ed il postmoderno, in una costruzione post-cartesiana, una possibile nuova matrice disciplinare. Allo stesso manager si può attribuire il ruolo di responsabile dell’applicazione del rendimento della conoscenza (Drucker, 1994). Se non è possibile contare 26

Il potere consisterebbe essenzialmente «nella capacità di regolare il processo in modo da rendere possibile l’accesso alle risorse desiderate (…): il fatto che un certo soggetto abbia accesso a certe risorse non significa necessariamente che abbia capacità di controllo sul processo» (Masino, 2005). 27 Si ricordi come lo sfruttamento delle potenzialità della rete sia legato alla capacità di fare interagire fattori e processi, dalle politiche agli elementi strutturali, dalle tecnologie alla cultura. è importante ricordare che il successo del Web e delle tecnologie collegate dipende in misura importante dal valore del progetto che si introduce nella rete, dunque non necessariamente responsabili di ciò che in essa avviene.

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in modo assoluto sulle capacità possedute da un ristretto numero di soggetti (Kelly & Allison, 1999), tuttavia cresce la sensazione dell’importanza, oltre che di generare innovazioni, di assicurarne la diffusione nell’intreccio di mercati, organizzazioni, luoghi di ricerca e formazione, ponendo in collegamento e a confronto la vasta gamma delle esperienze. Rientrando nelle finalità del controllo – inteso in senso ampio – l’apprezzamento del “buon andamento” della gestione, è comprensibile come il sistema di valutazione debba tenere conto, oltre che dei tradizionali fattori d’economicità, della qualità delle prestazioni e del loro livello di efficacia, sempre collegati alla qualità dell’organizzazione umana. Se è importante fare “bene” le cose, non meno lo è “fare le cose giuste”. Dunque è fondamentale la conoscenza che ogni persona è in grado di acquisire e sviluppare, contribuendo così a far crescere il valore dell’azienda. I tradizionali metodi di valutazione possono apparire non congrui rispetto alle problematiche della complessità, ciò che spinge verso l’utilizzo di strumenti capaci di valorizzare anche in modo non tradizionale le informazioni sui contenuti, come nella Fuzzy Logic 28, “logica sfumata” che sfugge alla dicotomia tra “vero” e “falso” o tra gli estremi 0 e 1, rivalutando il carattere probabilistico dei ragionamenti. La coerenza tra la cultura ed i valori manifestati dai soggetti che fanno parte della struttura 29 si conferma come fattore di grande momento per l’equilibrio durevole. Costante è l’interrelazione tra il comportamento delle persone, risorse organizzative dotate di un preciso valore, e la cultura aziendale di riferimento (Lewin & Regine, 2000), in una prospettiva socio-culturale del lavoro attenta anche all’identificazione etnica, all’appartenenza religiosa, all’impegno sociale e civile 30. Ciò contribuisce a spingere il lavoro fuori dei quadri culturali della “modernità”, tradizionalmente correlata a “ideologia” e “scientismo” (Donati, 2000), verso un’idea di scienza tesa a descrivere ciò che avviene invece che a dare giu28

Nella logica “sfumata”, caratterizzata da rapporti con la teoria della probabilità molto controversi, emerge una teoria di classi con contorni indistinti che si allontana da tecniche tradizionali d’analisi dei sistemi ritenute eccessivamente ed inutilmente accurate per molti dei problemi attuali: ciò nel segno di una realtà sfumata, ancorché deterministica. 29 Le specificità culturali toccano anche questioni squisitamente operative, dalla gestione dei dipendenti alle modalità di contrattazione, dal significato della gerarchia al diversity management, all’atteggiamento verso alcune tipologie di rischio. 30

Come argomenta un profondo studioso d’economia aziendale «L’attività economica (…), mentre si apre ad esigenze comunitarie, non risponde più al solo interesse individuale e specifico di colui o di coloro che l’hanno promossa ma contribuisce ad attivare intensi processi di contaminazione culturale» (Catturi, 2005).

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dizi, che favorisce i comportamenti neutrali e la calcolabilità come punto di riferimento. Se il lavoro, prima di ogni altra cosa, è relazione sociale tra chi esercita un’attività e chi beneficia dei risultati, ciò significa offrire alle persone reali opportunità di impresa ed azione economica condivisa, promuovendo la crescita di una “cultura del contratto” e della “cooperazione” quali strumenti di innovazione, civile ed organizzativa. Ciò, in grado di attivare nuovi e sinergici circuiti di scambi sociali, con il fondamentale obiettivo di accrescere nessi di libertà e responsabilità (Donati, 2001). L’innovazione vuole collegamenti sempre più stretti con gli obiettivi aziendali, coinvolgimenti tempestivi con le “funzioni” maggiormente critiche, dal marketing alla progettazione, un forte recupero del rapporto con la storia e le esperienze 31. Ed è significativo considerare come il sempre maggiore orientamento verso l’innovazione e la responsabilità globale, che configurano l’efficacia come variabile particolarmente critica, si accompagnino ad una polarizzazione verso le risorse immateriali nell’ambito delle variabili di criticità (Salvioni & Franzoni, 2009). Nello sforzo di coniugare innovazione e flessibilità si può ricorrere alla metafora del jazz, in cui l’esecuzione è frutto di un equilibrio dinamico tra arrangiamento e improvvisazione, così come dell’orchestra sinfonica in cui alcuni direttori poggerebbero il proprio potere legittimato sulla capacità di spingere le persone ad interpretare il loro ruolo in modo eccellente (Sicca, 2002) 32 contrastando derive organizzative di tipo meccanicistico. Tra le molte sfide che l’uomo postmoderno deve affrontare vi è la capacità di governare le diversità mediante una migliore capacità di descrivere, raccontare, rappresentare: una cultural sensitivity con la quale è possibile conoscere ed utilizzare le specificità degli altri, che può favorire l’innovazione, la circolazione delle conoscenze, la soluzione anche non tradizionale dei problemi (si pensi al cosiddetto “pensiero laterale”) (De Bono, 2000). Se ogni idea, ancorché non convenzionale, è in grado di migliorare la conoscenza (Feyerabend, 2002), innovazione è prima di tutto educazione fondata su immaginazione, creatività, fantasia che devono far parte dei valori di ogni soggetto, indipendentemente dalla posizione nella linea gerarchica: una cultura che, oltre ai prodotti ed i processi, va ad interessare l’intera combinazione, sia nelle 31

«Any company ultimately is nothing more than a collection of individuals with a collective history» (Scott, 2000). 32

Il jazz rappresenterebbe un’efficace metafora di problematiche e soluzioni organizzative. E l’orchestra può diventare un “modello” esplicativo di collaborazioni, gioco di squadra, dinamiche dei ruoli e gestione dei conflitti, equilibrio tra autorità e responsabilità.

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componenti hard sia soft e che può diventare elemento fondante insieme alla tradizione. È importante riuscire a configurare cose diverse da quelle pensate da altri, acquisire strumenti per trasformare l’immaginazione in dimostrazione e realtà operativa, ricordando che le risorse organizzative, insieme al posizionamento sul mercato e al sistema del prodotto-servizio, continuano a rappresentare, oltre che fattori strategici, fondamentali pilastri dello sviluppo imprenditoriale. L’attitudine al cambiamento rappresenterebbe essa stessa una opzione strategica generatrice di valore. Si deve peraltro osservare la frequente difficoltà di separare il controllo interno da quello di corporate governance, considerato l’imprescindibile condizione di unitarietà del sistema aziendale e degli aspetti organizzativi. Gli organi di corporate governance possono addirittura assumere un ruolo di collegamento tra sistemi di controllo inter-no, svolto secondo indirizzi tracciati dagli organi di corporate governance, ed esterno, sviluppato nel mercato-ambiente da soggetti indipendenti anche collegato a trasferimento di informazione su strutture, processi e risultati (Salvioni, 2009; Salvioni & Franzoni, 2009). Un value driver di forte interesse è rappresentato dalla focalizzazione sul miglioramento organizzativo e degli stessi processi, fondamentale per l’Internal auditing nell’ambito della generazione di cassa nel medio-lungo termine. Dunque è importante che vengano definiti i risultati attesi nonché le modalità per raggiungerli da parte delle diverse aree, precisi strumenti di controllo e valutazione delle performances, con attenzione rinnovata ai sistemi di pianificazione e controllo e ai sistemi multidimensionali di misurazione (Kaplan & Norton, 2004). Talvolta il sistema premiante subordina il bonus legato ai target individuali al raggiungimento degli obiettivi aziendali, interessando soprattutto dirigenti e quadri ma anche parte degli impiegati. Ulteriori “value drivers” sono rappresentati da attività volte a supportare l’“ottimizzazione” di processi di creazione del valore già intrapresi dal top management. Si tratta di leve difficili da configurare e utilizzare, eppure fondamentali. Basti pensare al cambiamento culturale avviato mediante il programma di diffusione della gestione del valore od al salto di cultura per favorire la collaborazione competitiva piuttosto che l’agire individuale. Ciò alla ricerca di forme di relazioni interorganizzative, intermedie tra sviluppo interno ed esterno, in cui prevalgano l’abilità di includere, piuttosto che escludere (Pilotti, 2005). Alla base dello sviluppo, sempre collegato all’innovazione, crescono gli elementi di collaborazione, comunicazione, conoscenza reciproca che affiancano le tradizionali enfatizzazioni su carismi imprenditoriali, politiche di mercato, qualità del sistema Paese. 126

Non sono più eccezioni comunità formate da professionisti delle risorse umane, manager, clienti interni collegati mediante reti Intranet, in grado di canalizzare e condividere le conoscenze aziendali, dare e offrire informazioni. Le relazioni con i clienti si configurano come importanti risorse immateriali di ricreazione di conoscenze. Utilizzando le capacità di altre persone si può migliorare la collaborazione e la competitività, dare vita e forza a network capaci di offrire risposte efficaci ed efficienti alle sfide della globalizzazione, vero e proprio stato “mentale” del mondo attuale caratterizzato dalla complessità.

 

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Capitolo Terzo

Linee evolutive in termini di progettazione organizzativa SOMMARIO: 3.1. Premessa. – 3.2. Il cambiamento organizzativo. – 3.3. Alcune linee di cambiamento organizzativo. – 3.3.1. Semplificazione e snellimento organizzativo. – 3.3.2. Sviluppo di soluzioni organizzative basate sui processi. – 3.3.3. Il superamento delle barriere organizzative esterne. – 3.4. Analisi di alcuni fattori critici che condizionano l’organizzazione del lavoro.

3.1. Premessa Scopo di questo capitolo è quello di analizzare le soluzioni organizzative che si sono sviluppate negli ultimi decenni al fine di realizzare processi di progettazione organizzativa in grado di consentire alle organizzazioni interessate migliori livelli di performance. Ciò nella convinzione che configurazioni organizzative dai confini precisamente definiti, basate su rigide gerarchie verticali, creando altrettanto precise relazioni di dipendenza, sono state messe in discussione da cambiamenti di prospettiva, stimolati dalla dinamicità e dalla complessità ambientale, che hanno riguardato scelte di progettazione in termini di:  soluzioni strutturali;  organizzazione del lavoro. I cambiamenti che hanno interessato il mercato, sempre più globalizzato, hanno determinato il fatto che strategie e fattori competitivi fino a poco tempo fa ritenuti reciprocamente escludentisi siano oggi, soprattutto nei settori ad alto contenuto di competitività, contemporaneamente perseguiti, in quanto la richiesta dello stesso mercato è sempre più orientata su prodotti ad alta qualità e con costi contenuti. Ciò ha spinto a pensare ad elaborare ed adottare soluzioni organizzative in grado di agire simultaneamente su diverse dimensioni delle performances organizzative, quali qualità, tempi e costi. In altre parole, le organizzazioni si trovano a dover perseguire contemporaneamente obiettivi diversi: la 129

soddisfazione del cliente (anche con riferimento ai cosiddetti elementi di “contorno” al prodotto, quali tempi di consegna, assistenza post-vendita, ecc.), la razionalizzazione nell’uso delle risorse (l’attenzione ai costi porta a gestire le attività e le interdipendenze tra le stesse in modo efficiente, riducendo gli “sprechi”, le attività “inutili”, gli errori, l’eccesso di scorte, ecc.), la flessibilità (intesa sia come capacità di adeguare i prodotti all’evoluzione del mercato, sia come capacità di introdurre rapidamente nuovi prodotti e sia di adattarsi rapidamente alle variazioni di domanda dei prodotti esistenti), l’innovazione, partendo, però, da soluzioni organizzative e modelli gestionali definiti ed applicati in contesti molto diversi da quelli attuali (Costa, 2001). In questo contesto una delle “pietre angolari” su cui si basa il funzionamento stesso di un’organizzazione appare individuabile nelle modalità con cui si gestiscono le conoscenze al suo interno, dove per conoscenza si intende un mix di esperienze, valori, informazioni che definisce un quadro all’interno del quale valutare ed incorporare nuove esperienze ed informazioni. Saper gestire le conoscenze, cioè cercare di favorire le capacità di attrarle, di diffonderle, di svilupparle, di valorizzarle, diventa, così, un’esigenza per tutte le organizzazioni, indipendentemente dal settore di appartenenza (Lanza, 2000). Le conoscenze rappresentano una risorsa che però non tutte le organizzazioni riescono a combinare e a trasformare in valore. Talora, infatti, la loro gestione si scontra con “barriere” organizzative non facilmente superabili, con resistenze personali. Ciò può determinare effetti negativi sulla qualità delle prestazioni, sulla capacità di individuare le cause dei problemi che si presentono, sui tempi decisionali (Maggi, 2001). Il legame tra conoscenze e generazione di valore ruota attorno ad alcune questioni fondamentali, quali:  qual è l’impatto dell’insieme delle conoscenze possedute sulle determinanti del vantaggio competitivo?  in che modo, a parità di condizioni iniziali, alcune organizzazioni sono in grado più di altre di accelerare le conversione delle conoscenze in meccanismi di creazione del valore? Le conoscenze, quindi, rientrano tra le citate risorse immateriali che presiedono allo sviluppo e alla sostenibilità di un vantaggio competitivo a valere nel tempo, ma perché ciò si realizzi è necessario attivare un’adeguata gestione delle stesse, processi di progettazione organizzativa orientati verso modelli capaci di creare le condizioni per il loro governo (soluzioni orizzontali, reticolari ove si sviluppano sinergiche modalità di relazioni intraorganizzative e interorganizzative), soluzioni in termini di gestione del personale basate sullo sviluppo delle competenze, processi di continuo apprendimento, non solo individuale ma an130

che organizzativo (sviluppo di una “learning organization”) (Borgogni, 2010). Un prima direzione di cambiamento riguarda la semplificazione organizzativa. Sul piano della singola azienda la ricerca di semplificazione passa, in primo luogo, attraverso uno snellimento delle attività realizzate anche grazie al supporto delle soluzioni offerte dall’ICT. Una seconda dimensione del tema considerato riguarda al tendenza ad “appiattire” la struttura organizzativa, ciò anche se, come sarà meglio specificato la riduzione del numero dei livelli gerarchici non è da sola sinonimo di semplificazione organizzativa: è necessario, infatti, ridefinire le diverse responsabilità, sviluppare le competenze professionali dei soggetti interessati. Una seconda linea evolutiva si può ricollegare al sviluppo di soluzioni organizzative basate sui processi e alla tendenza diretta a ridurre progressivamente le “barriere” esistenti tra diverse organizzazioni. Successivamente si analizzano alcuni dei fattori critici che condizionano le scelte in termini di organizzazione del lavoro.

3.2. Il cambiamento organizzativo Negli ultimi anni si è potuto assistere ad un notevole numero di evoluzioni nei settori dell’economia, della tecnologia, dello stesso ambiente sociale; proprio queste evoluzioni hanno indotto mutazioni, anche significative, nelle dinamiche competitive, nelle scelte strategiche, nei sistemi gestionali ed organizzativi delle aziende. Come già ricordato, l’insieme di queste evoluzioni ed adattamenti hanno spinto nel tempo a considerare il cambiamento come una necessità, un elemento cardine dei processi di sviluppo strategico ed organizzativo e non più come un evento eccezionale. Le attuali organizzazioni devono trovare le energie e le risorse per rinnovare e cambiare, non solo per prosperare, ma anche solo per sopravvivere in un mondo nel quale la competizione è crescente. Le organizzazioni che continuano ad investire la maggior parte del loro tempo e delle loro risorse nel mantenimento dello “status quo” non possono sperare di conseguire buoni risultati in una realtà caratterizzata da un continuo cambiamento e da crescente incertezza (Daft, 2010). L’organizzazione si trova oggi ad operare, come più volte ricordato, in un ambiente complesso, caratterizzato da una interrelazione di più elementi all’interno di un sistema segnato da interdipendenze/interconnessioni che trascendono le proprietà delle specifiche unità (Padroni, 2007). Siamo entrati in un’era dominata dall’incertezza in cui le discontinuità, che hanno caratterizzato il “presente” passato, sono diventate sempre meno prevedibili in un contesto globalizzato ed interdipendente. 131

Per la disciplina manageriale “cambiare” corrisponde all’attitudine di un’organizzazione di individuare nuovi assetti per il proprio funzionamento nell’ottica di migliorare il sistema di creazione del valore. In sostanza, si tratta di mutamenti (imprevisti o pianificati) che modificano il funzionamento del sistema organizzativo. Ogni organizzazione, a fronte delle minacce ed opportunità che possono derivare dall’ambiente, si trova a dover saper gestire processi di cambiamento organizzativo che richiedono l’adozione di strumenti di gestione innovativi e di nuovi modelli di governo. Possiamo, quindi, definire il cambiamento all’interno di un’organizzazione come un insieme di azioni pensate ed orientate, dichiaratamente ed in modo deliberato, verso un obiettivo di mutamento dell’organizzazione: un processo che comporta una rottura dei vecchi schemi, introducendo nuove modalità operative, nuovi equilibri (Butera, 2003). Il cambiamento, piuttosto che la stabilità è oggi sempre più la norma: mentre un tempo il cambiamento si verificava in maniera sporadica, oggi esso è pressoché costante. Per quanto possa apparire una contraddizione di termini, il cambiamento appare sempre più oggi proprio una costante delle organizzazioni in quanto esse fondano la loro stessa ragione di esistere nella capacità di “trasformarsi”, di adeguarsi continuamente per seguire o anticipare l’evoluzione del mercato, delle istituzioni, della società. Tale premessa racchiude una visione positivista del sistema senza tenere in considerazioni quelli che, invece, sono i lati oscuri di un processo di cambiamento, quali le cosiddette tendenze frenanti che spesso possono subentrare rallentando e talora reindirizzando gli obiettivi stessi del cambiamento: si tratta di elementi che inducono, come avremo modo di analizzare, fenomeni di resistenza esplicita ed implicita che non sempre permettono alle soluzioni ipotizzate di affermarsi nella realtà effettiva (Bennis, 1974). Si possono riconoscere nel cambiamento organizzativo i caratteri di un vero e proprio fenomeno evolutivo, nel quale lo stesso non solo si genera per ristabilire equilibri sistemici precedenti, ma è la risultante della combinazione di forze eterogenee che derivano dal contesto ambientale e da quello organizzativo interno. In questa prospettiva il cambiamento è un anche un processo continuo di ridefinizione dei confini aziendali e degli ambiti relazionali, nonché processo di regolazione dei meccanismi di apprendimento, di creazione e di manovra di sistemi simbolici, culturali, di tutti quei meccanismi organizzativi che evidenziano i processi di articolazione, interiorizzazione ed evoluzione delle conoscenze (Nonaka, 1991). Quanto più un’organizzazione è capace di elaborare informazioni più complesse e di diversi tipi, tanto più è in grado di adattarsi ai mutamenti ambientali. Le organizzazioni sono, del resto, oggi complessi sistemi che interagiscono continuamente con il loro ambiente, imparano dalle loro esperienze e si adattano. 132

Nell’era dell’informazione per sopravvivere, per competere e per crescere appare necessario essere in grado di elaborare una quantità sempre più complessa di informazioni valorizzando le opportunità offerte dall’ICT: le stesse organizzazioni diventano sistemi ad alta intensità informativa trovando in ciò continue occasioni di apprendimento (Frassetto, 2003). Di fronte ad un ambiente dinamico, che fornisce in maniera costante stimoli al cambiamento, un’organizzazione innovativa è quella che riesce a rimettere in discussione più facilmente e con più frequenza il proprio modello organizzativo, che percepisce ed attiva, nell’ambiente, continue opportunità di sviluppo; viceversa, un’organizzazione burocratica tende a difendersi dalle pressioni al cambiamento finché non sarà “costretta” a farvi fronte. Il cambiamento organizzativo non può scaturire da azioni frammentate, ma è il risultato di un processo che va opportunamente gestito per favorire il miglioramento delle capacità di risposta della stessa organizzazione alle sollecitazioni, interne ed esterne, che la interessano. Si può pervenire, in tal modo, a cambiamenti programmati nelle loro linee evolutive, in grado di superare le resistenze ed i vincoli esistenti o che possono sopraggiungere (Cesaria, 2003). Per studiare le possibilità di creare le condizioni per meglio raggiungere gli obiettivi ipotizzati e per realizzare effettivamente il cambiamento è nato l’approccio noto come Change Management. Il concetto di Change Management può essere interpretato come un efficace ed efficiente governo dei processi di cambiamento mediante uno sviluppo integrato, e adeguatamente monitorato, delle persone, della cultura, dei processi organizzativi, delle strutture e delle tecnologie; esso cerca di colmare il gap esistente tra cambiamento pensato e cambiamento realizzato. Ciò considerando le fasi di pianificazione, implementazione e messa a regime (Gabrielli, 2006). Nella fase di pianificazione si individua e si accetta il bisogno di cambiamento individuandone i problemi ed i sintomi, si decide se il cambiamento è necessario, si crea un team di coordinamento e si definiscono opportuni meccanismi di supporto, anche esterni all’organizzazione (consulenti), si identifica lo stato futuro desiderato considerando i gap con la situazione esistente e definendo precisamente cosa deve essere cambiato; si valutano le diverse possibili alternative d’azione in base alle informazioni disponibili scegliendo quella che è ritenuta migliore valutandone costi e benefici (Piccardo & Colombo, 2007). Nella fase di implementazione si sviluppa il piano di azione spiegando ai soggetti coinvolti la logica del cambiamento stesso, si precisano gli obiettivi sviluppando ed implementando la strada scelta definendone i tempi, i costi, i processi formativi ritenuti necessari nonché gli aspetti più operativi tenendo conto dei possibili ostacoli che si possono presentare. Nella fase della messa a regime il cambiamento diventa operativo e parte in133

tegrante dell’azienda: si gestisce la transizione monitorandola e valutando i risultati conseguiti. Elementi importanti per il successo di un processo di Change Management possono essere individuati, tra gli altri, nella presenza di un clima organizzativo favorevole al cambiamento, in grado di rompere l’inerzia all’interno dell’organizzazione, di una chiara strategia d’azione, di una leadership forte e lungimirante, di un’attenzione continua all’interpretazione e comprensione del contesto organizzativo, di una gestione efficace delle resistenze al cambiamento (Cesaria, 2003). In un processo di cambiamento appare, quindi, importante:  capire la situazione attuale: è necessaria un’attenta disamina delle criticità esistenti, dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità e delle minacce, delle aree di miglioramento possibili;  riflettere su dove si intende arrivare: quali gli obiettivi che si intendono perseguire?  occorre valutare come poter raggiungere gli stessi obiettivi: quali azioni dovranno essere implementate? È necessario, altresì, ricordare che la dottrina e la pratica manageriale normalmente tendono ad analizzare il contesto del cambiamento organizzativo prendendo in considerazione gli elementi che ne definiscono la qualità, l’entità, l’estensione e le modalità con cui il cambiamento stesso si manifesta. Questa analisi è utile per capire quali sono le variabili che danno origine ed influenzano il cambiamento. Il primo aspetto riguarda che cosa sta cambiando: se l’organizzazione nel suo complesso oppure delle specifiche aree gestionali; poiché sono rari i casi in cui mutamenti in una specifica area organizzativa non interferiscono con altre aree è necessario tener presenti quali possono essere le influenze che il cambiamento in specifiche aree può portare all’azienda nel suo complesso. Un secondo aspetto è l’intensità del cambiamento (quanto si cambia), cioè il grado di impatto che esso ha sull’azienda e le modalità mediante le quali si manifesta, che si riferisce al mutamento di un sistema misurato in termini di caratteri posseduti in un dato momento e di quelli posseduti dopo un determinato periodo, a seguito di un processo di cambiamento. In tale ottica è possibile distinguere le diverse tipologie di cambiamento in:  incrementale: è frutto della ricerca del miglioramento continuo, anche grazie al coinvolgimento dei soggetti interessati: il cambiamento è un processo continuo ma graduale, in cui non sono previsti mutamenti drastici, che può interessare diversi aspetti del funzionamento di un’organizzazione e ogni parte della stessa può affrontare incrementalmente i problemi specifici che la ri134

guardano; è un tipo di cambiamento finalizzato ad un continuo tentativo di migliorare, adattare le soluzioni adottate per adeguarsi ai cambiamenti che si verificano nell’ambiente; in tale ottica il Total Quality Management, la creazione di team di lavoro dotati di adeguati poteri decisionali sono tra gli strumenti del cambiamento incrementale che le organizzazioni possono utilizzare per cercare di apportare miglioramenti graduali al loro stesso modo di lavorare;  per “punti”: si susseguono fasi di relativa stabilità con forti “sbalzi” di cambiamento; ciò si riferisce ad ipotesi di cambiamenti che si sviluppano in un contesto caratterizzato da un susseguirsi di fasi di lenta evoluzione e relativa stabilità a cui seguono fasi di forti cambiamenti;  radicale: si attiva un processo di cambiamento che porta un’organizzazione a rivedere in modo significativo le proprie modalità di funzionamento non giudicate più adeguate: tanto più profondo è il cambiamento tanto maggiore sarà l’attenzione per gestirlo ed indirizzarlo verso gli obiettivi perseguiti per meglio adeguarsi ai mutamenti che interessano il contesto di riferimento; è un cambiamento in cui l’obiettivo è quello di conseguire il più rapidamente possibile nuovi modi per essere efficaci; si può parlare, ad esempio, di reingegnerizzazione dei processi, di ristrutturazioni che possono portare a riduzioni di personale (Downsizing). In realtà, più che di tre prospettive alternative si tratta di tre diverse modalità che possono convivere all’interno dell’organizzazione e affermarsi, di volta in volta, a seconda delle necessità, dell’evoluzione ambientale e degli orientamenti del management; possono coesistere all’interno di un progetto di trasformazione aziendale o essere l’una la premessa dell’altra. Un ulteriore aspetto investe le modalità in base alle quali avviene il cambiamento (come si cambia) e questo è un elemento fondamentale valutando gli effetti sulle diverse variabili organizzative. Più l’ambiente è dinamico e le spinte al cambiamento si manifestano con maggior frequenza ed intensità, tanto più per le organizzazioni si presenta il problema di come riuscire a gestire al meglio i processi di cambiamento; in questo contesto si può affermare che un’organizzazione cambia non solo quando i diversi soggetti che la compongono cambiano, ma anche quando gli stessi sono capaci di strutturare le proprie relazioni in modo diverso rispetto a quello in cui operavano in precedenza (Salvemini, 1981). Ridefinire l’organigramma di un’organizzazione non è certo l’unico momento di un processo di cambiamento organizzativo; questo ha inizio allorché si manifesta una spinta al cambiamento, si percepisce un’esigenza, e termina solo quando si verifica l’attuazione di un diverso modello di funzionamento della medesima organizzazione. 135

Essendo un processo, il cambiamento organizzativo si compone di diversi fasi (pianificazione, implementazione, messa a regime) e chiama in causa diverse variabili interdipendenti. La gestione dello stesso processo non può prescindere dall’idea che il cambiamento non può avvenire semplicemente per “forzature”, ma richiede il rispetto di alcune fasi. Le azioni ritenute opportune per una corretta gestione del cambiamento vanno ordinate cronologicamente in relazione alle specifiche caratteristiche dell’organizzazione. Al tempo stesso è necessario essere pronti a verificare, nel concreto, l’efficacia delle azioni implementate e, ove necessario, rimodulare il programma. L’analisi dei processi di cambiamento non può prescindere dalle ragioni che rendono necessario, o comunque opportuno, intraprenderlo. Riguardo alla provenienza il cambiamento può avere origini interne o esterne: nel primo caso le ragioni che spingono un’organizzazione a cambiare derivano dal management, dalla proprietà, mentre nel secondo caso le spinte traggono origine dall’ambiente competitivo, tecnologico, sociale, istituzionale, normativo, ecc., cioè da fattori non direttamente governabili dall’organizzazione ma che vengono a creare le condizioni perché la medesima decida di cambiare. Si possono ora ricordare le variabili che entrano in gioco in un processo di cambiamento:  le spinte al cambiamento: sono i fattori motivanti, le forze (interne o esterne) che aprono delle prospettive, suscitano degli stimoli, o determinano delle possibilità per l’evoluzione delle forme organizzative; se queste spinte sono ignorate, ciò può rallentare una trasformazione di cui, invece, l’organizzazione può aver bisogno; il cambiamento del sistema d’impresa, nel senso di variazioni nelle caratteristiche della gestione e dell’organizzazione aziendale, può verificarsi a seguito di vari accadimenti: in conseguenza di una modifica delle variabili interne del sistema, quali ad esempio mutamenti strategici, un’alterazione degli equilibri di potere tra proprietari e manager; oppure in relazione a cambiamenti esterni determinati, come già ricordato, da variazioni delle condizioni ambientali in cui il sistema si trova ad operare (spinte competitive, modifiche legislative, dinamiche di mercato, cambiamenti tecnologici, innovazioni nei metodi di commercializzazione e relative alle azioni dei concorrenti, ecc.);  il ruolo del top management: affinché il cambiamento possa avere caratteristiche di successo è fondamentale che il vertice sia pienamente convinto e responsabilizzato sugli obiettivi del processo di cambiamento. Dall’inizio il management, in modo visibile e chiaro, deve far propri i motivi del cambiamento e dimostrare con i fatti un proprio atteggiamento coerente, anche adottando, se necessario, scelte difficili (Piccardo & Colombo, 2007);  l’inerzia organizzativa: comprende tutte le varie manifestazioni nelle quali si 136

esprime la proprietà caratteristica di tutti i sistemi organizzativi, di tendere alla stabilità e alla continuità del funzionamento, anche quando scarsamente efficienti o non funzionali; essa può spiegare sia la lentezza con cui non poche organizzazioni rispondono al cambiamento e sia il fatto che la reazione alle indicate spinte non risulti coerente. Le resistenze al cambiamento organizzativo è riconosciuta da tempo come uno dei fattori che più di altri possono determinare il successo o meno di un’azione di cambiamento (Silvestri, 2006). L’inerzia organizzativa può essere dovuta tanto a fattori comportamentali quanto a fattori sistemici: i primi corrispondono ad abitudini, motivazioni, elementi affettivi e sociali, schemi mentali e di comportamento che spingono gli individui a privilegiare la stabilità del proprio ambiente di riferimento e della propria attività lavorativa, piuttosto che il cambiamento (le persone hanno sempre fatto le cose in un certo modo e ora fanno fatica a cambiare il loro comportamento); diverse sono le motivazioni che possono indurre a manifestare resistenze ai cambiamenti, quali, ad esempio:  predisposizione individuale: è legata alle caratteristiche personali che derivano dalle esperienze personali maturate nel tempo e da come ciascuno ha vissuto ed imparato a gestire i cambiamenti;  paura dell’ignoto: se si introduce un cambiamento troppo repentino, se non si forniscono chiare informazioni si possono generare tensioni e timori per le possibili conseguenze del cambiamento;  clima di sfiducia: se il clima interno e le relazioni capo-collaboratore non sono basate sulla reciproca fiducia e stima professionale e organizzativa le resistenze al cambiamento saranno più forti; se, invece, i collaboratori hanno fiducia nel manager sono anche più disposti ad impegnarsi ulteriormente e a mettersi in gioco con qualcosa di diverso;  paura di non essere in grado di affrontare il cambiamento: ciò può portare a dubitare sulle proprie capacità e ad incidere in modo negativo sulla fiducia in sé stessi;  perdita di status quo e di sicurezza lavorativa: i cambiamenti possono essere percepiti come possibili cause di perdita di potere o di status organizzativo e/o professionale; il soggetto può avvertire una minaccia di natura economica alimentata dal timore di perdere il lavoro o di veder decurtata la propria retribuzione  pressione da parte dei colleghi: può accadere che anche chi non è coinvolto direttamente nel cambiamento si muova per resistere allo stesso mosso da uno spirito di solidarietà nei confronti dei colleghi;  abbandono delle relazioni di gruppo: il cambiamento può richiedere spostamenti o di mettere in discussione relazioni “consolidate” a cui può essere difficile rinunciare; 137

 mancanza di spiegazioni circa la circostanza che il cambiamento possa essere strategicamente importante per la sopravvivenza o il successo dell’organizzazione;  conflitti di ruolo: si può verificare una situazione in cui la persona non si dimostra disponibile ad accettare il cambiamento perché è in una situazione di conflitto con chi lo guida;  sistemi di ricompensa non motivanti: i soggetti interessati possono opporre resistenza quando non prevedono che il cambiamento apporterà ricompense positive: un collaboratore, ad esempio, potrebbe non essere disponibile a sostenere uno sforzo volto al cambiamento se percepisce di dover lavorare di più e maggiormente sotto pressione. I fattori sistemici, invece, non dipendono da scelte consapevoli o meno degli individui, ma si presentano come risultante di un insieme di relazioni gerarchiche, d’interdipendenza che possono coinvolgere più soggetti, risorse, attività e processi: si pensi, ad esempio, ad un’eccessiva attenzione ai costi che potrebbe non far cogliere l’importanza di un cambiamento che non sia focalizzato su di essi; alla mancanza di un adeguato coordinamento per la realizzazione del cambiamento stesso; alla difficoltà da parte dei manager di percepire gli aspetti positivi in misura maggiore rispetto a quelli negativi. «Alcune ricerche hanno messo in luce come l’assenteismo e il turnover aumentino durante i processi di cambiamento, cresce la probabilità che i lavoratori possano mostrarsi meno collaborativi, allo scopo di ritardare il processo di cambiamento o resistere in modo passivo al cambiamento, nel tentativo di vanificarlo. Inoltre, c’è una generica tendenza nelle persone a percepire le informazioni in maniera selettiva e coerente con la visione che hanno dell’organizzazione. Così, quando avviene il cambiamento, le persone tendono a focalizzarsi soltanto su come esso influirà su di loro, sulle loro mansioni o sulla loro unità di appartenenza, tralasciando l’impatto generale. Se percepiscono pochi benefici, potrebbero rifiutare anche l’obiettivo che sta dietro al cambiamento» (Jones, 2012, p. 266). Emerge, in ogni caso, l’importanza di riuscire a gestire in modo corretto i fenomeni di resistenze al cambiamento organizzativo: in tal senso appare importante fornire ai collaboratori adeguate informazioni sul cambiamento, sulle sue motivazioni e sui relativi effetti, organizzare degli incontri per rispondere ai quesiti degli stessi, fornendo la possibilità di discutere su in che modo il cambiamento si ripercuoterà su di loro; si possono prevedere, altresì, momenti formativi anche se, nel momento in cui dovessero interessare molti soggetti, potrebbero comportare notevoli esigenze di tempo con i relativi investimenti; studiare le resistenze al cambiamento 138



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implica entrare, per così dire, nel profondo degli individui, analizzare i loro comportamenti cercando di capire cosa li può aiutare a vedere il nuovo come qualcosa di positivo, di migliore, anche utile per il loro accrescimento professionale; un comportamento ostile può essere ridotto se l’individuo attribuisce un elevato valore all’appartenenza all’organizzazione e al gruppo nel quale opera, valore per cui può decidere di adottare comportamenti maggiormente collaborativi; gli “agenti del cambiamento”: sono gli attori capaci di operare come promotori e partecipanti attivi del processo di cambiamento, venendo così a dare una veste di soggettività alle forze evolutive oggettive presenti in una determinata situazione; essi devono essere in grado di trasmettere verso la base gli obiettivi del cambiamento e di cercare di prevenire e risolvere le problematiche provenienti dalla base; non è possibile, del resto, una mobilitazione degli attori attorno ad un progetto, una responsabilizzazione attiva delle persone senza un loro coinvolgimento come agenti del cambiamento; se si vuole che il sistema organizzativo evolva come un sistema e non come un insieme eterogeneo di parti sconnesse tra loro, occorre che le organizzazioni individuino in tali figure i fattori chiave nel processo di cambiamento (Mercurio & Testa, 2000); i processi del cambiamento: si tratta delle specifiche sequenze di azioni ed interazioni nelle quali si manifesta e s’incanala il percorso evolutivo dell’organizzazione; le leve di attivazione: costituiscono gli strumenti ed i tipi di prassi mediante i quali gli “agenti del cambiamento” possono intervenire nei processi evolutivi cercando di indirizzarli e gestirli: le situazioni di arrivo: sono il risultato dei processi che guidano il cambiamento e che corrispondono tanto più alle intenzioni di chi avvia il processo di cambiamento, quanto più i processi espliciti riescono a prevalere sui fenomeni d’inerzia; il monitoraggio dei risultati ottenuti: tali risultati devono essere costantemente monitorati per evitare eventuali distorsioni e scostamenti dai risultati previsti e per perseguire obiettivi di miglioramento continuo; non tutte le operazioni di cambiamento si concludono con i risultati auspicati ed è sempre presente il rischio che, per una gestione inefficace, le previsione fatte ex-ante non si realizzino.

In particolare, rispetto ai processi di cambiamento organizzativo, appare importante, da parte dei manager interessati da programmi di Change Management, cercare di interpretare, comunicare, facilitare e governare il cambiamento stesso. L’obiettivo non può che essere una comprensione complessiva del fenomeno in oggetto con particolare attenzione alla dimensione individuale (gestione delle 139

resistenze, coinvolgimento, promozione di comportamenti innovativi), alla dimensione culturale (comprensione delle leve di cambiamento culturale) e alla dimensione manageriale (pianificazione, sponsorship e governo dei processi di cambiamento) (Piccardo & Colombo, 2007). Sulla base dei risultati ottenuti da diverse ricerche empiriche si può riscontrare che le cause di diversi fallimenti o, comunque, di forti “rallentamenti” nei processi di cambiamento sono legate a fattori interni alla stessa organizzazione: difficoltà di integrazione e di comunicazione, prevalenza di approcci settoriali, insufficiente sostegno da parte del vertice, carenze di leadership, comportamenti difensivi e attitudini conservative. Proprio per questo si ritiene opportuno focalizzare l’attenzione su una delle variabili del processo citato, gli agenti del cambiamento, in quanto quest’ultimo è un fenomeno organizzativo complesso e continuo che si realizza quando le spinte raggiungono una forza sufficiente a contrastare gli elementi di inerzia. In tale contesto, il sostegno del vertice aziendale fornisce, come ricordato, la necessaria legittimazione affinché il processo di cambiamento possa realizzarsi con successo. Un’azione “calata dall’alto”, volta ad imporre l’attuazione di un processo di cambiamento rischia di non riuscire a superare le resistenze al cambiamento da parte dei membri dell’organizzazione che possono vedere nello stesso una minaccia. Le figure direttive sono chiamate a diventare agenti del cambiamento, con significative capacità di leadership, al fine di favorire azioni concrete e coordinate, coerenti con gli obiettivi di cambiamento (Friedberg, 2007). La stessa norma ISO 9000.2005 sottolinea che «leader è colui che stabilisce e sostiene l’unità d’intento e la focalizzazione dell’organizzazione verso l’obiettivo. è compito del leader creare e mantenere un clima organizzativo nel quale le persone possono dirigere le loro energie coerentemente con l’obiettivo dell’organizzazione». La leadership può essere, così, definita come “una forma di problem solving organizzativo finalizzata a raggiungere gli obiettivi prefissati mediante l’influenza sull’azione altrui”. In tale contesto appare importante chiedersi come gli stili di leadership possano evolversi per affrontare più incisivamente i processi di cambiamento. Una conoscenza diffusa a tutti i livelli organizzativi è sempre meno gestibile, nelle sue potenzialità, con modelli di natura tradizionale (di tipo top-down). L’elevato livello di incertezza è tale da condizionare la validità dei processi decisionali concentrati nel vertice e la loro implementazione a cascata fino alla base della piramide organizzativa (Kugel & Nanni, 2012). In un periodo come l’attuale caratterizzato da intensi cambiamenti, le organizzazioni, come già ricordato nel capitolo precedente, hanno sempre più biso140

gno di capacità di leadership in grado di migliorare la capacità di fare sistema, di motivare le persone, di consolidare il senso di appartenenza. Si può, anzi, affermare che tanto più intensi sono i cambiamenti, quanto più forte è la domanda di leadership, una leadership sempre più vista come una combinazione di attitudini, capacità, esperienze che consente di assumere il ruolo di guida nell’unità organizzativa in cui si opera e di ottenere il rispetto e la fiducia dei propri collaboratori. Essere leader in contesti organizzativi in cambiamento significa:  saper diagnosticare e valutare;  saper programmare, nel senso di affrontare il cambiamento secondo adeguati criteri metodologici;  sapersi adattare, cioè essere flessibili;  saper dirigere le azioni di cambiamento ricercando il coinvolgimento, la valorizzazione delle risorse presenti nei collaboratori;  saper comunicare trasmettendo attenzione, sicurezza, fiducia;  saper ascoltare i propri collaboratori;  saper motivare, cercando di avere attorno a sé persone motivate a perseguire gli obiettivi del cambiamento;  saper lavorare in team, creando uno spirito collaborativo e delegando a ogni collaboratore la sua parte di compiti e di responsabilità;  saper gestire i conflitti che possono insorgere;  sapersi innovare, saper apprendere e favorire i processi di apprendimento, dimostrando apertura mentale verso nuove possibilità di azione. Emerge, così, un profilo di leadership che, coerentemente con i problemi legati alla gestione dei processi di cambiamento organizzativo, abbia una chiara e convinta percezione dei traguardi che si intendono raggiungere, al di là degli aspetti legati alla quotidianità operativa. Assai rischioso sarebbe concepire il futuro come una ripetizione del presente; ciò, infatti, potrebbe portare ad ostacolare il cambiamento proprio da parte di chi deve, invece, cercare di stimolarlo (Maggi, 2001). Il leader, in tale prospettiva, deve talora individuare nuove soluzioni rispetto a quelle già sperimentate, accettando anche i relativi rischi. Altro aspetto importante, nei confronti dei processi di cambiamento, è il fatto di riuscire a motivare le persone verso il raggiungimento degli obiettivi. Il leader deve, quindi, riflettere sulle modalità più opportunamente adottabili per riuscire a motivare i propri collaboratori, quali, ad esempio, l’arricchimento delle mansioni, il coinvolgimento nel miglioramento dei processi, la responsabilizzazione su obiettivi e/o risultati, la delega, le leve premianti, ecc., tutto ciò ricercando un delicato equilibrio tra soddisfazione dei bisogni personali e soddi141

sfazione dei bisogni organizzativi (Bodega, 2002). Motivare il personale nei processi di cambiamento, per operare in modo efficiente nel perseguimento degli obiettivi aziendali rappresenta un compito importante della leadership. In tale ottica il leader deve stabilire obiettivi chiari, raggiungibili e misurabili, favorire l’espressione di proposte, opinioni da parte dei collaboratori, condividere con gli stessi le proprie responsabilità. Sempre nei rapporti con i propri collaboratori, il leader ne deve stimolare lo sviluppo personale, riconoscendo ambiti di discrezionalità e dando loro fiducia. Più che stabilire regole ferree da seguire nell’esecuzione di una mansione, il leader è chiamato a descrivere i risultati da conseguire stimolando il coinvolgimento circa la definizione delle modalità per cercare di raggiungerli. Il leader, quindi, deve avere una chiara visione dei motivi e dei contenuti dei processi di cambiamento per diffonderla, poi, ai suoi collaboratori. Il leader, ancora, deve favorire il lavoro in team che può supportare l’individuo nella sua ricerca di soddisfazione dei propri bisogni di interazione con gli altri, così come anche i bisogni di appartenenza e di riconoscimento. In ogni caso va rilevato che non esiste una risposta universalmente valida in merito al fatto di come essere un “bravo leader” ma tale risposta andrà ricercata caso per caso ed ogni leader potrà dare la propria “impronta” partendo da sé stesso per arrivare ai suoi collaboratori. Si può, allora, affermare che proprio agendo sulle leve della motivazione e delle performance dei collaboratori è possibile muoversi proficuamente lungo il non facile percorso di un cambiamento organizzativo. In questo contesto si può, altresì, affermare che cambiamento e conoscenze si legano tra loro in forma biunivoca: il cambiamento genera nuove conoscenze e nuove conoscenze possono indurre cambiamenti (Gabrielli, 2006). In conclusione si possono ricordare alcune modalità adottabili per realizzare un cambiamento organizzativo:  diffondere un senso di urgenza e di necessità del cambiamento;  creare una visione e delle azioni in grado di guidare il processo di cambiamento: la visione di come il futuro può essere migliore e lo sviluppo di strategie per raggiungere la nuova situazione sono fattori importanti che contribuiscono alla buona riuscita del cambiamento;  creare un team di coordinamento per tutte le attività necessarie per il cambiamento, composto sia da soggetti interni che appartengono alle diverse unità organizzative coinvolte nel processo e che godono di elevata credibilità e sia da soggetti esterni, come consulenti, che possono apportare le loro specifiche conoscenze metodologiche; 142

 elaborare delle linee di azione per cercare di superare o limitare le resistenze al cambiamento: far capire che il cambiamento risponde ad una necessità reale, attivare flussi comunicativi per informare i soggetti interessati sulla necessità del cambiamento e sulle conseguenze dello stesso, prevenendo possibili malintesi (una buona comunicazione costituisce per il management un’opportunità per spiegare quali passi verranno fatti per assicurarsi che il cambiamento non avrà conseguenze negative per i dipendenti); un’adeguata attività di formazione può aiutare gli stessi soggetti a comprendere e gestire anche il loro ruolo nel processo di cambiamento; opportuna è altresì la ricerca di maggiori forme di partecipazione e coinvolgimento: ciò può attribuire alle persone coinvolte un qualche senso di controllo sull’attività di cambiamento e, quindi, dà loro la possibilità di meglio comprenderlo e di impegnarsi per una sua efficace realizzazione (Perrone, 2004);  il miglior “antidoto” alla complessità è dato dalle persone che operano nell’organizzazione, con le loro competenze. Di qualsiasi livello sia la complessità che le organizzazioni devono affrontare nelle varie attività, esse dispongono di conoscenze, capacità e mezzi per analizzarla, capirla, e infine gestirla;  il cambiamento nel comportamento delle organizzazioni sta nel concretizzarsi di atteggiamenti proattivi, ben lontani dall’one best way della teoria classica dell’organizzazione. Punto focale, infatti, è la velocità con la quale le organizzazioni reagiscono agli eventi (interni ed esterni), rivedendo le soluzioni adottate, adattando la loro cultura. Rendere operativi questi aspetti ed essere consapevoli delle dinamiche di processo in cui questi si innescano e si sviluppano costituiscono i presupposti per assicurare che i cambiamenti organizzativi, indipendentemente dalla loro tipologia e portata, abbiano carattere appunto proattivo, anziché risolversi in interventi episodici e reattivi, dettati anche da situazioni di emergenza. In definitiva, la vasta letteratura presente sul tema del cambiamento organizzativo consente di evidenziare quelli che possono essere considerati i punti chiave del mutevole scenario in cui si trovano ad operare le aziende:  il tempo, come variabile sempre più critica;  l’adozione di soluzioni organizzative e modalità di funzionamento sempre più snelli e flessibili (Sciarelli, 1987);  un’attenzione maggiore all’elemento umano nell’organizzazione, sulla cui motivazione e contributo attivo si gioca una parte rilevante del successo delle organizzazioni. La traduzione di questi tre elementi nell’ottica organizzativa ha portato alla definizione di nuovi profili e nuovi modelli aziendali. In generale si tende a 143

identificare il cambiamento organizzativo come un insieme di azioni pensate ed orientate verso un obiettivo di mutamento dell’organizzazione e da questa definizione si può dedurre che un’organizzazione decide di mettere in atto un processo di cambiamento quando diventa in qualche modo critico il suo funzionamento. In definitiva il segno positivo di un percorso di change management non può che essere dato dai risultati ottenuti dall’organizzazione nel suo insieme, considerati non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche in connessione con una valutazione degli asset organizzativi, comprensiva degli elementi immateriali, riferiti al capitale intellettuale, relazionale ed organizzativo.

3.3. Alcune linee di cambiamento organizzativo Negli ultimi anni il mercato ha subito, come già rilevato, notevoli trasformazioni sotto la spinta di diversi fattori che hanno generato una forte pressione competitiva; la conseguenza di questi mutamenti è la messa in discussione del modello organizzativo tradizionale. È necessario quindi ripensare le soluzioni organizzative adottabili in grado di far fronte a questi repentini mutamenti del mercato e dell’ambiente in generale. L’aumento della pressione competitiva dipende, come già ricordato, da alcuni fattori quali:  l’abbattimento delle barriere geografiche che ha ampliato in modo notevole il numero dei concorrenti con i quali ogni singola azienda è costretta a misurarsi;  le liberalizzazioni che dappertutto hanno investito alcuni settori un tempo a gestione monopolistica (telecomunicazioni, energia elettrica, trasporti, ecc.);  una rapidissima innovazione che ha l’effetto di mettere in campo sempre nuovi prodotti e nuovi concorrenti con i quali bisogna misurarsi;  l’avvento e la diffusione di moderni sistemi di telecomunicazione che, oltre ad ampliare gli orizzonti geografici raggiungibili dalle imprese e quindi il numero dei concorrenti potenziali, accresce notevolmente la possibilità di ricerca e confronto dei consumatori aumentando il loro potere contrattuale. In questo contesto soluzioni che basano le proprie fondamenta sulla ricerca ed eliminazione degli sprechi, sulla semplificazione dei processi e degli strumenti al fine di eliminare il fattore variabilità e garantire un livello di servizio e di efficienza costante, mantenendo sempre un buon livello di flessibilità per potersi adeguare alle mutevoli esigenze di mercato, diventano un modello di riferimento per qualsiasi tipo di azienda. 144

Una visione deterministica propria degli approcci tradizionali alla progettazione organizzativa, presta sempre più il fianco a diverse critiche proprio perché non riesce a cogliere le sollecitazioni alle quali l’ambiente esterno sottopone le organizzazioni moderne. «La coerenza tra gli assetti strategici e le strutture organizzative, tra le strategie di sviluppo delle competenze e le caratteristiche del tessuto organizzativo, consente alle imprese di mantenere in continua evoluzione i sistemi organizzativi (cambiamento organizzativo). Affinché risulti efficace ai fini dell’implementazione delle strategie tale allineamento deve realizzarsi in coerenza con gli obiettivi (orientamento strategico di fondo) e con le necessarie esigenze di flessibilità. Il verificarsi di queste condizioni fa sì che il sistema organizzativo costituisca esso stesso una fonte di vantaggio competitivo. esso costituisce, infatti, il terreno nel quale si sviluppano, si integrano e si rinnovano le routine organizzative che incorporano le competenze collettive e dove le strategie trovano la loro formazione attraverso l’implementazione delle scelte deliberate e la fertilizzazione e la valorizzazione delle risposte competitive emergenti» (Fontana & Caroli, 2012, p. 186). Un eventuale scollamento tra la formulazione delle strategie perseguite e la progettazione delle soluzioni organizzative adottate può ridurre gli effetti positivi dei vantaggi competitivi acquisiti. Si possono individuare alcune linee di cambiamento:  semplificazione e snellimento organizzativo;  sviluppo di una visione per processi che determina ricerca di integrazione orizzontale tra le diverse unità organizzative con la riduzione delle barriere comunicative;  riduzione delle barriere organizzative esterne.

3.3.1. Semplificazione e snellimento organizzativo Si parla, al riguardo, di:  semplificazioni procedurali: si tratta di un’analisi degli iter procedurali e di una valutazione delle possibilità di semplificazione: in tale ottica l’informatica è in grado di fornire un significativo contributo per la semplificazione e lo snellimento di molti aspetti procedurali, in precedenza “appesantiti” da vincoli burocratici: si pensi all’ottenimento di autorizzazioni o di documenti della natura più svariata. Tutto ciò potrà consentire l’eliminazione o, comunque, la riduzione di reiterate e parossistiche operazioni, rispetto anche al livello di informatizzazione attuale, permettendo un più proficuo utilizzo delle 145

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stesse risorse umane (significativo è l’esempio della Pubblica Amministrazione) con diretti riflessi sulle aziende in termini di riduzione di costi e di tempi; semplificazioni delle modalità di svolgimento delle attività sempre valorizzando le opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica: si pensi alle attività di archiviazione di dati; “lotta” agli sprechi, alle inefficienze, alle duplicazioni di attività: ciò significa ricercare, riconoscere ed eliminare tutte le forme di spreco presenti nell’organizzazione; esempi di sprechi sono, come meglio verrà specificato in seguito, le non conformità, eccessi di scorte, consumi non giustificati, tempi eccessivi, movimentazioni inutili, ecc.; accentuazione dei processi di outsourcing, ciò che comporta, come avremo modo di analizzare in seguito, un cambiamento delle modalità di coordinamento e controllo; riduzione del numero dei livelli organizzativi: tipicamente una delle manifestazioni più evidenti della gerarchia è il numero dei livelli gerarchici, ove l’articolazione gerarchica di un’organizzazione è in grado di condizionare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi decisionali e di comunicazione. La stessa gerarchia si è presentata nel tempo come depositaria delle conoscenze organizzative e come meccanismo di integrazione.

Funzioni specifiche della gerarchia risultano, tra le altre, quelle di coordinamento delle attività delle persone che nell’organizzazione operano; di assegnazione dei particolari compiti da svolgere; di definizione degli obiettivi per l’unità organizzativa di riferimento; di gestire la comunicazione con i livelli più bassi, dalla trasmissione di ordini al ritorno di informazioni; di svolgere il controllo dell’operato dei dipendenti. La tendenza verso la quale sembrano orientarsi le aziende più innovative è quella di un significativo cambiamento organizzativo, nella direzione di un appiattimento delle strutture organizzative. L’appiattimento delle piramidi organizzative mostra come organizzazione e gerarchia non sono necessariamente sinonimi. Risulta infatti possibile la riduzione del numero dei livelli ed il minore impiego di rapporti gerarchici tramite l’utilizzo di quelli che sono stati definiti “sostituti della gerarchia”, quali la progettazione delle mansioni, lo sviluppo di reti informatiche, del controllo di gestione, ecc. Proprio dal concetto di “sostituti della gerarchia” deriva che un tema significativo per una progettazione organizzativa efficace investe il bilanciamento fra l’impiego della gerarchia e quello dei suoi succedanei. Di certo una certa dose d’intensità gerarchica è non solo inevitabile ma anche fisiologica e necessaria per il governo di organizzazioni complesse. Tuttavia, quando tale soglia d’intensità viene superata, i costi della gerarchia finisco146

no per superare i suoi benefici: infatti un eccesso di gerarchia, da un lato, si riflette su un aumento dei costi generali di struttura, mentre dall’altro tende a ridurre la capacità reattiva dell’organizzazione a fronte di varianze non controllate né talora controllabili oltre che a frenare l’innovazione. Una risposta alle crisi di eccesso di gerarchia è proprio fornita dall’emergere di strutture organizzative più “piatte”, volte a favorire l’autocontrollo, l’imprenditorialità interna e, soprattutto, l’integrazione orizzontale sia fra le unità organizzative sia, ai confini dell’organizzazione, fra quest’ultima ed altre realtà esterne. L’appiattimento attenua la burocratizzazione e si generano così, a livello di interpretazione dei fenomeni ambientali, garanzie di una maggiore rispondenza ad essi da parte dell’azienda: minori sono i livelli di intermediazione e minori sono i filtri tra i segnali provenienti dal mercato e chi deve prendere le decisioni. Nella situazione attuale un livello gerarchico superfluo può rappresentare un rischio di errori, di distorsioni, di ritardi che riducono la capacità di reazione della stessa organizzazione (Mintzberg, 1989). Una soluzione “piatta” consente di perseguire obiettivi di efficienza (contenere i costi di struttura, acquisire le capacità di fare bene le cose la prima volta, evitare inutili duplicazioni) nonché di velocità (caratteristica essenziale nell’odierno scenario competitivo e che si estrinseca nell’accelerazione dei processi di sviluppo dei prodotti/servizi, nel ridurre i tempi ed i cicli complessivi di produzione e di consegna al cliente, nel ridurre i tempi decisionali e di implementazione delle strategie), di flessibilità (capacità di rispondere alle esigenze del mercato e di bilanciare il ricorso a risorse esterne) e di efficacia (finalizzare gli sforzi all’essenziale, concentrare cioè le risorse sulle priorità fondamentali e sul miglioramento dei traguardi raggiunti). La riduzione del numero dei livelli di autorità comporta alcune significative trasformazioni, nel senso che assegna un maggior grado di autonomia alle persone che operano nell’organizzazioni, favorendo lo sviluppo professionale e delle potenzialità di soluzione dei problemi; crea le condizioni per una maggiore integrazione trasversale; comporta uno snellimento dei sistemi di controllo eliminando quelli non necessari e indotti dalla dimensione eccessiva delle strutture gerarchiche; favorisce i processi di comunicazione sia nel senso di uno snellimento del processo e quindi di un più rapido fluire delle informazioni lungo la piramide aziendale, che nel senso di un’espansione orizzontale dei canali di informazione; permette ai singoli soggetti una migliore comprensione degli obiettivi dell’organizzazione e, di conseguenza, una migliore identificazione con quelli personali. Senza analizzare punto per punto questi elementi, appare importante almeno sottolineare alcuni aspetti. L’autonomia indicata in questo modello organizzativo ne costituisce un fattore essenziale ed il processo di delega è lo strumento con il quale attuare la riduzione della catena gerarchica. La delega, 147

che si presenta come la condizione per realizzare una riprogettazione del funzionamento dell’organizzazione, non deve essere intesa come un conferimento di margini di autonomia circoscritti e definiti in una griglia di comportamenti e decisioni prestabilite e standardizzate; deve invece divenire strumento di reale trasferimento di responsabilità, informazioni, competenze, autorità e controllo sulle risorse necessarie per perseguire i risultati che ogni soggetto, in sintonia con l’azienda, si è prefissato. Il fatto di parlare di “azienda corta” non significa assolutamente eclissi della gerarchia: ogni livello gerarchico deve divenire possessore e generatore di valore aggiunto rispetto ai livelli sottostanti. Si può affermare lo sviluppo di una gerarchia diversa, basata su una crescente circolazione di idee ed informazioni, dove l’appiattimento della struttura richiede un’adeguata redistribuzione dell’autorità. Realizzare un’organizzazione più “snella” si caratterizza in definitiva per:  una redistribuzione dei poteri decisionali e l’assegnazione di una maggiore autonomia alle persone interessate, favorendo il loro sviluppo professionale e le loro potenzialità in termini di problem solving;  una maggiore integrazione trasversale;  uno snellimento dei sistemi di controllo;  un miglioramento dei processi di comunicazione. La costante tensione nella ricerca di migliori livelli di competitività e di attenzione al cliente ha fatto progressivamente maturare nelle organizzazioni la necessità di perseguire il duplice obiettivo di migliorare l’efficienza e di ridurre la complessità organizzativa, rivedendo la verticalità di gerarchie e funzioni; è importante, comunque, sottolineare che la gerarchia deve essere “rimodellata” non solo da un punto di vista quantitativo (riduzione del numero dei livelli gerarchici) ma anche, e soprattutto, qualitativo dato che il venir meno di alcuni livelli, in realtà, non mette in discussione la validità del principio gerarchico ma porta le organizzazioni ad operare con una “diversa” gerarchia. L’appiattimento delle strutture organizzative, quindi, è il risultato più che lo strumento, del ripensamento della gerarchia: il potenziamento delle capacità organizzative non deriva semplicemente dalla scomparsa di uno o più livelli gerarchici, quanto piuttosto da un diverso modo di impostare e coordinare le attività. In altri termini la riduzione del numero dei livelli gerarchici non è, di per sé, sinonimo di semplificazione organizzativa, ma è necessario ridefinire le responsabilità, sviluppare le competenze professionali dei soggetti interessati. Un’organizzazione snella consente di perseguire obiettivi di efficienza (contenere i costi di struttura, acquisire le capacità di fare bene le cose la prima volta, ecc.), di velocità (riduzione dei tempi decisionali, di svolgimento delle attività sul piano operativo, ecc.), di flessibilità (migliore capacità di rispondere alle 148

esigenze del mercato), di efficacia (concentrare le risorse sulle priorità fondamentali e sul rinnovamento). La soluzione organizzativa in oggetto è coerente con i processi di valorizzazione delle risorse umane: la maggiore autonomia costituisce un fattore essenziale ed il processo di delega è lo strumento con cui attuare la riduzione della catena gerarchica. Una delega che deve consentire un reale trasferimento di autorità, responsabilità, informazioni, controllo sulle risorse necessarie per perseguire i risultati che ogni soggetto, in sintonia con l’unità organizzativa di appartenenza, si è prefissato (Attolico, 2012). Il modello lean rappresenta una possibile soluzione per soddisfare le necessità individuate. Cos’è lean? Lean – dall’aggettivo inglese “snello” – indica la metodologia organizzativa e gestionale derivata dal modello di produzione Toyota (Toyota Production System). Oggi il termine Lean è sempre più diffuso in qualsiasi settore (dall’industria ai servizi, dal privato al pubblico) e contesto (dall’officina agli uffici e fino alla sala operatoria di un ospedale). Si tratta di un metodo organizzativo e lavorativo che mira a sviluppare dei processi “snelli”, cioè liberati da ogni spreco e pieni di valore nella loro essenzialità. Il Lean non è solo un metodo, ma una forma mentis del fare orientata al miglioramento continuo; per questo motivo è un approccio trasversale, applicabile a qualsiasi processo operativo. È un modello tecnico-organizzativo e gestionale capace di ottenere elevate performance su più fronti; è una leva fondamentale per cambiare le regole della competizione e per acquisire rilevanti vantaggi competitivi; è un sistema che riesce ad utilizzare le risorse nel modo più conveniente (sia nei rapporti con i fornitori sia nel coinvolgimento delle risorse interne) e ad ottenere economie di costi attraverso stretti legami fra molte imprese a monte e a valle (Chiarini, 2010). Questo approccio è quanto mai appropriato nel mondo d’oggi, che può vivere solamente attraverso un’economia sostenibile: non c’è più margine per sprecare, ma occorre fare meglio con le risorse sempre più scarse che si hanno a disposizione (Graziadei, 2006). L’obiettivo dichiarato di questo nuovo modo di pensare e di fare impresa è l’eliminazione degli sprechi: la caccia ai muda. Muda è una parola giapponese che vuol dire appunto spreco (Giannini & Turini, 2013). Qualsiasi attività umana che assorbe risorse e non crea valore è spreco, è muda. Taiichi Ohno, ingegnere ed uno dei fondatori del Toyota Production System (TPS), individuò alcune tipologie di muda: A) Sovrapproduzione non necessaria di beni Con sovrapproduzione si intende una produzione superiore alle richieste, in qualsiasi fase del lavoro. Spesso si produce di più per sopperire a fermi mac149

china, difetti, assenze del personale, ma produrre di più può essere considerato una cosa negativa esattamente come produrre meno. Questo spreco è tipico della produzione tradizionale a lotti, dove la quantità di pezzi da produrre viene definita e pianificata secondo una logica non coerente rispetto agli ordini ricevuti dai clienti finali e spesso comporta, al netto del venduto, la rimanenza (e lo stoccaggio) di una quantità variabile di prodotti finiti (o semilavorati). La rimanenza comporta un aggravio di costi: il valore del prodotto invenduto, lo stoccaggio di una quantità di prodotti non richiesti con il conseguente spreco di spazio. Altri costi aggiuntivi sono dovuti al fatto che producendo troppo si consumano le materie prime in anticipo, cioè prima del necessario, vi è la necessità di una maggiore forza lavoro, di un numero maggiore di macchinari, di più spazio per le lavorazioni e per l’immagazzinamento della merce, inoltre vi sono più movimentazioni e i costi amministrativi lievitano. L’obiettivo è quindi produrre solo lo stretto necessario per evitare di produrre per il magazzino. I principali presupposti irrinunciabili per il raggiungimento di questo obiettivo sono:  pianificazione della produzione: è fondamentale che venga calcolato in modo quanto più preciso la quantità di prodotti da realizzare in funzione degli ordini ricevuti tenendo in debito conto le rese e le variabili dei processi componenti le linee di produzione;  flessibilità dei processi: tutti i processi devono essere progettati e realizzati per consentire la massima flessibilità operativa in termini di impiego delle macchine;  controllo e stabilità dei processi: i risultati di tutte le fasi dei processi devono essere conosciuti e stabiliti nel tempo;  efficienza dell’organizzazione: massima efficienza organizzativa in termini di gestione delle risorse umane, gestione dei processi/materiali a supporto della produzione. B) Movimentazioni di beni non necessari Sono tutte le operazioni di movimentazione da una postazione di lavoro all’altro, da un reparto all’altro, da un ufficio ad un altro che indubbiamente hanno un costo in termini di risorse ma non solo. Le movimentazioni non necessarie sono un’operazione che non genera valore aggiunto per il cliente e, quindi, devono essere ridotte il più possibile. Normalmente vi sono due aspetti da analizzare su cui intervenire:  scovare il motivo per cui è necessaria la movimentazione, riducendo i vincoli che rendono necessaria la stessa (ad esempio modificando il layout della linea); 150

 analizzare e ottimizzare i metodi di movimentazione, in termini di frequenza, distanza da percorrere, tempi necessari. L’obiettivo finale è l’eliminazione di tutte le movimentazioni non necessarie ma. tuttavia, spesso vi sono impedimenti insormontabili ed è quindi fondamentale mirare alla massima ottimizzazione possibile. C) Attese Si riferisce a tutti i tempi di attesa non strettamente necessari al ciclo di fabbricazione del prodotto, in pratica si tratta della differenza fra il tempo totale di attraversamento (lead time) del flusso produttivo di un bene e il suo tempo di fabbricazione. Fra le cause più comuni si possono annoverare:  errori di sincronizzazione delle fasi dei processi (lavorazioni);  ritardo di arrivo dei materiali;  code improvvise;  ritardi dovuti a guasti delle macchine;  mancanza di operatori;  attese per l’attrezzaggio delle macchine. Rimuovere tutte le cause che possono causare ritardi lungo il normale flusso produttivo può essere difficile e costoso. Va anche considerato che ogni unità di prodotto in attesa del ciclo produttivo equivale ad un costo immobilizzato e spesso genera inefficienza del processo. Deve essere svolta, quindi, una attenta valutazione dei tempi di attesa dei prodotti/materiali, possibilmente traducendoli in costi in modo tale da poter fissare obiettivi perseguibili di miglioramento. Problemi simili possono emergere anche in realtà che operano nel campo dei servizi, anche di natura pubblica. D) Scorte Le scorte, siano esse in forma di materie prime, di materiale in lavorazione (WIP), o di prodotti finiti, rappresentano un capitale che non ha ancora prodotto un guadagno sia per il produttore che per il cliente. La presenza di pezzi/materiali nel processo genera una quantità di valore “intrappolato” nel processo (working capital) proporzionale alla numerosità dei pezzi e funzione dello stato di avanzamento del flusso produttivo stesso. L’obiettivo è quindi quello di ridurre al minimo possibile la scorta di materie prime, semilavorati e prodotti finiti in modo tale da minimizzare il capitale immobilizzato. È un’operazione difficoltosa in quanto spesso implica una riorganizzazione aziendale che talvolta coinvolge anche protagonisti esterni (ad esempio è possibile che si debba ridiscutere con un fornitore la quantità minima di un dato materiale). 151

E) Difetti In questo caso lo scarto è inteso come la realizzazione di un bene non conforme alle specifiche e, in alcuni casi, il rigetto da parte del cliente finale; così ancora si può pensare ad errori nell’erogazione di un servizio. Nell’approccio lean viene ritenuto spreco la realizzazione di un prodotto difettoso, sia esso scarto o che necessiti di lavorazioni aggiuntive o rilavorazioni rispetto allo standard (Attolico, 2012). Non sempre è semplice individuare e risolvere tutti i problemi che possono dare luogo a scarti e beni difettosi, ma è innegabile che scarti, lavorazioni aggiuntive e rilavorazioni costituiscano una parte rilevante nella struttura dei costi. Il cliente finale inoltre potrebbe essere direttamente coinvolto da questa difettosità, ricevendo pezzi non conformi e quindi provocando ritorni dal mercato. Quindi deve essere analizzato il prodotto in tutte le sue caratteristiche, coinvolgendo, se necessario, anche i fornitori con lo scopo di minimizzare le possibilità che vengano realizzati beni difettosi. F) Processi e lavorazioni non necessari Si tratta di risorse sprecate per attività che non apportano nessun valore al prodotto finale e pertanto dovrebbero essere eliminate, per cui diventa importante un’attenta analisi e valutazione delle diverse attività svolte nell’ottica del miglioramento continuo. G) Sovraccarichi di lavoro Possono riguardare persone o macchine. Il sovraccarico per le persone può provocare la possibilità di infortuni o, a lungo termine, malattie professionali, dovuti agli sforzi eccessivi a cui sono sottoposti i lavoratori. L’effetto è l’assenza dal lavoro per periodi più o meno lunghi da parte dei lavoratori e un’insoddisfazione generale del personale. Analogamente lo sfruttamento eccessivo dei macchinari può portare, a lungo termine ad una usura accelerata, a rotture con conseguente fermata della produzione, a interruzioni del processo produttivo per la riparazione, o addirittura si può presentare la necessità di cambiare il macchinario. L’obiettivo è quindi quello di organizzare il lavoro in modo corretto, ma anche quello di applicare tutti quei piccoli accorgimenti che possono ridurre il carico di lavoro senza diminuire la produttività. Gli sprechi possono, quindi, nascondersi dietro ogni tipo di attività e da ciò si capisce subito quanto sia di primaria importanza imparare a vedere gli sprechi per eliminarli e produrre di più con un miglior uso delle risorse. Il pensiero “snello” viene a delinearsi come possibile rimedio contro gli sprechi partendo dall’identificazione di ciò che vale, è utile, allineando le attività che creano va152

lore nella corretta sequenza, mettendole in atto quando il cliente le richiede ed imparando ad eseguirle in modo sempre più efficace (Chiarini, 2010). I concetti che sono alla base del lean thinking, riprendono in parte i fondamenti di un altro importante modello: il Total Quality Management. Il modello TQM afferma che il lavoratore deve essere un soggetto che pensa e non soltanto un individuo che si limita ad eseguire particolari mansioni che gli vengono imposte dall’alto, assumendo all’interno dell’organizzazione una posizione assimilabile a quella di una qualsiasi macchina. L’operaio deve pensare a cambiare e migliorare il proprio modo di lavorare e quindi “l’operaio deve diventare un lavoratore pensante perché il lavoratore pensante è un lavoratore produttivo” e non basta più che siano in pochi (il vertice) a pensare, anche se brillanti, ma tutti i lavoratori devono essere coinvolti. Nella stessa logica si muove il modello lean secondo cui bisogna attivare tutte le risorse di esperienza e creatività presenti nell’organizzazione. Dunque il punto di connessione fra i due modelli è molto chiaro: è necessario che all’interno dell’organizzazione vengano coinvolti tutti gli individui a tutti i livelli (Volpe, 2005). Nel modello TQM tutte le persone dell’azienda devono essere addestrate e formate alla qualità. Analogamente, nel modello lean tutti gli individui dell’organizzazione devono essere addestrati e formati al pensiero snello (Fraccaroli, 2007). Per raggiungere la massima qualità è di primaria necessità eliminare tutti i difetti. E come si può ottenere tale risultato? Innanzitutto mettendo in evidenza le inefficienze, abbassando il livello delle scorte. Nel modello lean ci si muove nella stessa direzione: si riducono drasticamente le scorte e si eliminano tutti gli ostacoli (interruzioni, errori, difetti) che impediscono lo scorrimento del flusso. Il TQM introduce il concetto di kaizen, termine giapponese che significa miglioramento continuo a piccoli passi. Tale metodo giapponese incoraggia e caldeggia piccoli miglioramenti da farsi giorno dopo giorno, in maniera continua. Esso si basa sul principio che è necessario agire partendo anche dal basso (secondo la logica bottom-up): la base del miglioramento è quella di incoraggiare le persone ad apportare ogni giorno piccoli cambiamenti nella loro area di lavoro. L’effetto complessivo di tutti questi piccoli cambiamenti, nel tempo, diventa significativo, specialmente se tutte le persone ed i loro responsabili si impegnano in prima persona nel seguire questa “filosofia”. Il kaizen coinvolge ogni collaboratore, dalla direzione agli operai. In particolare, la direzione deve sforzarsi, in prima battuta ad aiutare i collaboratori a fornire suggerimenti per il miglioramento del lavoro del singolo e dell’azienda in generale. Questo modo di fare aiuterà le persone ad essere più critiche e le spingerà ad esaminare meglio il modo in cui fanno le cose. Per raggiungere questo risultato, però, bisogna fornire ai collaboratori le conoscenze e le basi necessarie per riuscire ad analizzare i problemi e l’ambiente. 153

In linea con il concetto di kaizen, il lean thinking introduce il concetto di “perfection”, ovvero ricerca della perfezione attraverso il miglioramento continuo. La perfezione non esiste, ma essa deve essere intesa come un asintoto che, sia pure irraggiungibile, svolge un ruolo di riferimento costante, allo scopo di mantenere attivo un processo di miglioramento sistematico. Il TQM fissa come obiettivo fondamentale dell’azienda il cliente ed in particolare la sua soddisfazione. Ciò è ottenibile solamente attraverso la qualità: attraverso la qualità l’azienda ottiene la soddisfazione del cliente ed il cliente soddisfatto continuerà a comprare i prodotti dell’azienda, l’azienda avrà successo e quindi avrà profitti. Per ottenere un buon livello di qualità da offrire al cliente finale è necessario raggiungere prima un alto livello di qualità all’interno dell’organizzazione. L’idea è quella di creare una catena di qualità lungo tutta la catena del valore. Ma come? Si alza il livello della qualità all’interno dell’azienda e di conseguenza si registra una diminuzione dei costi dovuta ad una minore necessità di rilavorazioni, ad un numero inferiore di errori, di ritardi e di intoppi, ad un migliore uso del tempo macchine e dei materiale; il risultato di ciò è anche un aumento della produttività. Da questi miglioramenti può derivare una maggiore capacità di conquistare il mercato attraverso l’offerta di una qualità migliore e prezzi più bassi; si acquisisce sempre più vantaggio nei confronti dei propri competitors e si rimane con più profitto sul mercato. Del resto la migliore qualità non risponde ad uno standard fisso, ma è mobile come l’asticella del salto in alto e ci può essere sempre qualcuno che riesce a fare meglio e a battere il precedente record. La scelta di intraprendere la strada del miglioramento continuo non è soltanto un’opzione strategica ma sempre più si presenta come una necessità di risposta alla dinamicità dell’ambiente competitivo e delle aspettative dei clienti che portano l’organizzazione a confrontarsi con obiettivi di qualità sempre più impegnativi (Giannini, 1996). La propagazione all’interno dell’azienda di una visione orientata al cliente e alla percezione delle sue esigenze, la conseguente azione migliorativa e riorganizzativa dei processi, non solo produttivi, dall’affinamento delle specifiche alla progettazione, alla produzione, alla vendita e all’assistenza; il coinvolgimento di tutti coloro che vi operano, uniti, indipendentemente dalla funzione di appartenenza e dal livello gerarchico, nell’obiettivo della Customer Satisfaction in un clima di miglioramento costante sono idee base che hanno dato origine alla struttura dell’approccio noto come Total Quality Management. Alla base di questa impostazione vi è da un lato la convinzione della necessità di superare atteggiamenti mentali negativi rispetto alla possibilità di contribuire al perseguimento di obiettivi di miglioramento, dall’altro la fiducia nel personale, nella sua creatività, nell’impegno con cui può partecipare allo stesso miglioramento e renderlo concreto. 154

La qualità, quindi, non deve essere considerata come un problema (si devono eliminare i difetti), ma come un modo per crescere e migliorarsi, evolversi nel tempo in sintonia con le esigenze dell’ambiente, alle quali non basta solo rispondere con comportamenti adattivi, ma occorre cercare di anticiparle con atteggiamenti proattivi. Abbiamo detto che è necessario creare una catena della qualità lungo tutta la catena del valore, ma prima di ogni cosa è necessario che tale catena venga creata all’interno dell’azienda, dopo si può passare al coinvolgimento dei fornitori e dei clienti. L’idea base è la seguente: “il reparto a valle del tuo è il tuo cliente, quindi devi cercare la soddisfazione del reparto che viene dopo di te”. In questo modo si crea una catena fornitore-impresa-cliente. Il modello lean procede nella stessa direzione. Per avere un modello snello completo e trarne tutti i vantaggi, è indispensabile attivare rapporti di partnership sia all’interno dell’impresa che all’esterno fra tutti gli operatori della filiera industriale (fornitori e clienti). È evidente come il pensiero snello si muova in una logica di continuità con la qualità totale ed abbia preso dal TQM tutta una serie di concetti e di metodi di lavoro (fra cui per esempio i gruppi di lavoro kaizen). Oltre alla qualità totale nella pratica della teoria snella hanno grande posto anche altri modelli e strumenti di lavoro tipo i sistemi just in time, la progettazione simultanea (cuncurrent engineering), ecc. Ciò consente di affermare che il lean thinking si muove secondo una logica di continuità rispetto alle metodologie che l’hanno preceduto con il merito di essere riuscito a sistematizzarle, a delineare un quadro di riferimento per tutte le possibili azioni di miglioramento ed a stabilire un ben delineato modo di procedere. Il pensiero snello esprime una logica aziendale che, per dare il meglio, deve essere applicata integralmente e correttamente in tutte le sue componenti (Bonfiglioli, 2004). In particolare i principi su cui si basa il pensare snello sono i seguenti (Attolico, 2012):     

definire il valore (“value”); identificare il flusso del valore (“value stream”); fare scorrere il flusso (“flow”); fare in modo che il flusso sia tirato (“pull”); ricercare la ricordata perfezione (“perfection”). Affrontiamo questi temi uno alla volta.

A. Primo principio – DEFINIRE IL VALORE Il punto di partenza della “caccia” allo spreco non può essere che l’identificazione di ciò che costituisce valore per il cliente. Il consumo di risorse è giustificato solo per produrre valore, altrimenti è spreco. 155

Il valore viene definito dal cliente ed assume significato solamente se espresso in termini di un prodotto/servizio in grado di soddisfare le sue esigenze ad un dato prezzo ed in un dato momento. B. Secondo principio – IDENTIFICARE IL FLUSSO DEL VALORE Il flusso di valore per un dato prodotto consiste nell’intera gamma di attività necessarie per trasformare le materie prime in prodotto finito. In qualsiasi settore (sia manifatturiero che di servizi) si riscontreranno tre attività fondamentali:  definizione del prodotto/servizio (dall’ideazione attraverso una progettazione dettagliata e l’ingegnerizzazione fino al lancio in produzione/erogazione del servizio);  gestione delle informazioni (dalla registrazione degli ordini ad una dettagliata programmazione);  trasformazione fisica dalla materia prima ad un prodotto finito nelle mani del cliente o erogazione del servizio. A queste tre attività fondamentali corrispondono quindi tre flussi/pro-cessi principali:  progettazione/sviluppo del prodotto/servizio;  gestione ordini;  produzione dei beni/erogazione dei servizi. L’analisi del flusso di valore mette in evidenza grandi quantità di spreco attraverso la classificazione delle attività in tre categorie:  attività che creano valore (tutte quelle il cui costo può essere trasferito al cliente);  attività che non creano valore, ma necessarie (non sono eliminabili, si pensi a vincoli normativi);  attività che non creano valore e non necessarie (possono quindi essere eliminate da subito). Tutte le attività indicate dall’ultimo punto sono quindi “muda” e si possono eliminare dopo un’attenta analisi dei flussi. È indispensabile quindi, in questa seconda fase del pensiero snello, eseguire una dettagliata “mappatura dei flussi”. C. Terzo principio – FARE SCORRERE IL FLUSSO Definito il valore (primo principio), identificato il flusso di valore per un dato prodotto o famiglia di prodotti ed averlo ricostruito eliminando le attività inutili attraverso la mappatura dei flussi (secondo principio), bisogna fare sì che le restanti attività creatrici di valore formino, a loro volta, un flusso (terzo principio). Fare scorrere il flusso nei processi di progettazione dei beni o di gestione degli ordini può richiedere anche solo interventi di miglioramento graduale (kaizen), e non necessariamente modifiche radicali nel modo di lavorare. 156

D. Quarto principio – FARE IN MODO CHE IL FLUSSO SIA TIRATO DAL CLIENTE Quando l’azienda (o più in generale l’organizzazione) ha definito il valore (per il cliente), ha identificato il flusso di valore, ha eliminato gli ostacoli e quindi gli sprechi per fare sì che il flusso scorra senza interruzioni allora è giunto il momento di permettere ai clienti di tirare il processo (cioè il flusso di valore). Cosa vuol dire? Vuol dire acquisire la capacità di progettare, programmare e realizzare solo quello che il cliente vuole, nel momento in cui lo vuole. Allora si produce solamente quello di cui il cliente ha bisogno, si fa in modo cioè che sia il cliente a tirare il prodotto che vuole e non l’azienda a spingere verso i clienti prodotti talora indesiderati. È la domanda di un bene o servizio che tira la produzione (o erogazione del servizio) e non più il contrario, come avveniva con la produzione tradizionale di massa. Non bisogna più produrre un certo numero di beni, cercando poi di piazzarli sul mercato. La realizzazione di ogni singolo prodotto (o servizio) deve essere attivata solo nel momento in cui c’è qualcuno che lo richiede esplicitamente. Fare scorrere più velocemente il valore significa fare emergere sempre più il muda nascosto nel flusso di valore e quanto più il flusso è tirato dal cliente tanto più vengono messi in evidenza gli ostacoli che interessano il flusso e possono quindi essere rimossi. Per quanto riguarda il processo di progettazione emerge l’importanza dell’adozione di team dedicati costituiti da un insieme di persone che, in virtù delle loro competenze diverse ma complementari, lavorano assieme, collettivamente responsabili del perseguimento dei relativi obiettivi. E. Quinto principio – RICERCA DELLA PERFEZIONE La ricerca della perfezione rappresenta una vera sfida per le aziende lean, anche se ciò può sembrare presuntuoso e, a prima vista, porta con sé un certo scetticismo dal momento che la perfezione non esiste; però se tale principio viene visto nel suo giusto significato, di ricerca di un miglioramento continuo allora ci si accorge che non è più un obiettivo impossibile. Infatti se si sono applicati correttamente i primi quattro principi, si creano delle sinergie impensabili che mettono in moto un processo continuo di riduzione dei tempi, degli spazi, dei costi. L’applicazione dei principi lean deve essere sistematica e continua per giungere a continui miglioramenti. In questo senso il quinto principio deve essere da sprone per l’incessante applicazione dei principi lean e risultare ogni volta quale un nuovo punto di partenza. Una volta finito si deve ricominciare per fare emergere nuovi sprechi ed eliminarli. 157

Dopo aver esposto uno per uno i principi alla base del lean thinking affrontiamo un ultimo passaggio nell’applicazione del modello lean che può essere considerato il sesto principio: stiamo parlando della “conversione della catena dei fornitori ai principi snelli”. Applicare il lean thinking alla catena di fornitura per creare una lean supply chain rappresenta un nuovo modo di ripensare la rete di fornitori. I principi del lean thinking, infatti, prevedono una collaborazione attiva con chi fornisce i prodotti ed i servizi di cui un’azienda ha bisogno e ciò implica:  relazioni di tipo collaborativo;  meccanismi di coordinamento;  partnership e alleanze strategiche. Per coinvolgere, infatti, con successo i fornitori nel progetto lean è necessario sviluppare con gli stessi rapporti di partnership che li facciano crescere, che prevedano una loro maggiore partecipazione nei processi interni dell’azienda, che spostino l’attenzione dal controllo qualità in accettazione all’assicurazione della qualità (free-pass concordato) e che portino il fornitore a produrre solo ciò che serve all’azienda. Il progetto sviluppo fornitori intrapreso dalle aziende si può considerare la naturale evoluzione del progetto di ristrutturazione della produzione iniziato precedentemente e rientrante nel più vasto progetto di riorganizzazione aziendale impostato secondo i principi lean thinking. Dall’esame dei principi lean si comprende benissimo come questo modello organizzativo possa aiutare molto le aziende, possa creare quel salto di prestazioni che consente all’impresa di competere con i sempre più agguerriti concorrenti a livello mondiale. Ovviamente gli aspetti organizzativi entrano pesantemente in gioco e vanno focalizzati attentamente: l’approccio lean basato sulla semplicità e rapidità, può essere molto efficace se applicato nell’area giusta e nel modo giusto, tenendo conto innanzitutto delle persone. Le risorse umane (e quindi la struttura) in un progetto snello devono godere della massima attenzione e costituire un progetto a sé, un progetto di carattere trasversale che attraversa tutte le funzioni aziendali. Sottovalutare l’impatto sulle risorse umane non creerà il terreno fertile per radicare il nuovo approccio e ciò provocherà nei fatti, dopo l’entusiasmo iniziale, sia un fenomeno di regressione, una sorta di ritorno al passato, sia lo spreco derivante da una formidabile occasione perduta. Pertanto:  i comportamenti organizzativi di base, dati per scontati nel lean (per esempio lavoro in team, leadership, ecc.) vanno verificati, ribaditi e realmente standardizzati; 158

 è bene tradurre i concetti del lean nel “dialetto parlato in azienda” in modo tale da inseririrli con maggiore convinzione nella cultura aziendale;  il modo di intendere e fare formazione va rivisto in un’ottica di pragmatismo, concretezza e immediata sperimentazione (Baldassarre, 2003). È quindi evidente come tutto questo crei problemi nella gestione delle risorse umane e complicazioni nella struttura che richiedono forti capacità di leadership. Sono numerosi gli strumenti utilizzati nel lean thinking per aiutare le imprese ad eliminare gli sprechi e sostenere il processo di miglioramento. In tale contesto vengono usate alcune tecniche molto semplici ma molto efficaci, il cui principio base è sempre la completa trasparenza, per cui chiunque è coinvolto nel processo deve poter vedere e capire in ogni momento ogni aspetto delle attività operative. Tra tali tecniche possiamo ricordare, tra le altre:  Value Stream Mapping (VSM) È il primo e forse il più importante strumento lean. È il primo da utilizzare in ordine di tempo, perché indica dove è più opportuno applicare gli altri, ed è fondamentale per il successo dell’implementazione, perché permette di costruire un solido piano d’azione. Il VSM è un metodo di visualizzazione grafica che fonda le proprie radici nella “filosofia” produttiva della Toyota. Il VSM nacque negli anni ’80 e permise di prevenire ogni tipo di spreco, con l’obiettivo di ridurre al minimo tutte quelle attività che non creano valore aggiunto per il cliente aumentando in modo esponenziale l’efficienza. Il VSM si basa sulla mappatura grafica di tutti i processi ed attività che concorrono alla realizzazione di un prodotto, partendo direttamente dal fornitore, fino alla consegna del prodotto finito. La mappatura del flusso di valore utilizza regole e simboli che hanno la finalità di essere comprese da tutto il personale. Con l’analisi dei flussi si può capire in modo concreto e preciso quali siano gli sprechi ed eliminarli uno ad uno, per poi creare una nuova mappa perfezionata e maggiormente efficiente. L’analisi continua del processo permette, partendo da un progetto di miglioramento VSM, di perfezionare nel tempo la stessa mappatura del flusso del valore ed eliminare tutto ciò che non rappresenta valore aggiunto al prodotto finito.  Metodo 5S Il nome di questa metodologia deriva dalle iniziali delle parole giapponesi seiri (organizzazione), seiton (ordine), seiso (purezza), seiketsu (pulizia) e 159

shitsuke (disciplina); lo scopo è quello di ottenere un’area di lavoro ordinata e gestibile. Si può tradurre liberamente in italiano il nome delle cinque attività nei seguenti termini:  seiri – scegliere e separare: consiste nel classificare il materiale presente in un’area, identificando ed eliminando ciò che non serve;  seiton – sistemare e organizzare: consiste nel disporre ciò che non serve in modo che sia semplice ed efficiente accedervi, e mantenere il materiale in questa maniera;  seison – controllare l’ordine e la pulizia creati: consiste nel pulire tutto, mantenerlo pulito ed utilizzare le attività di pulizia per assicurarsi che l’area di lavoro e i macchinari in essa presenti siano in perfette condizioni;  seiketsu – standardizzare: consiste nel creare principi per tenere l’area in ordine, organizzata e pulita, e rendere tali principi visibili e ovvi per tutti;  seitsuke – sostenere nel tempo: consiste nel formare le persone e dare ad esse le necessarie informazioni affinché tutti in azienda seguano i principi del 5S. I maggiori benefici che derivano dall’applicazione del 5S sono:  sicurezza – un posto pulito, organizzato e ordinato è un posto di lavoro più sicuro, coerentemente a quanto prescritto dalle normative in tema di sicurezza sul lavoro (Giannini & Turini, 2010);  miglior flusso produttivo ed efficienza – eliminando materiale inutile e organizzando ciò che serve, il 5S riduce il tempo necessario per cercare e trovare ciò che occorre. Indicazioni visive mostrano a chiunque dove vanno tenute le cose. Pulire e ispezionare i macchinari e le postazioni di lavoro riduce i tempi improduttivi, in quanto si evidenziano i problemi prima che essi possano provocare rotture o guasti;  miglior qualità – grazie alla pulizia e alle ispezioni giornaliere, e al fatto che il materiale obsoleto non può essere usato per errore, essendo stato rimosso dal luogo di lavoro;  controllo del proprio posto di lavoro – con il 5S ciascuno riorganizza il proprio posto di lavoro mediante: o l’identificazione di ciò che è necessario nell’area di lavoro; o l’assegnazione di un posto logico ad ogni cosa; o il mantenimento delle cose come stabilito. La messa in opera delle 5S inizialmente tende a far emergere alcuni tipi di resistenze. Tra queste si ha la mancata comprensione dell’importanza delle 5S, la resistenza a pulire ciò che verrà di nuovo sporcato, e la considerazione delle operazioni di pulizia e riordino, della postazione di lavoro, come una perdita di tempo. 160

 Visual control Si tratta di un controllo visuale e immediato delle anomalie. Il visual control è un metodo per la generazione di informazioni immediate e visivamente stimolanti, nel quale tutte le informazioni necessarie, sono presentate in una forma chiara e leggibile, usufruibili da tutto il personale. L’obiettivo di una linea di produzione con controllo visivo è che tutto il personale possa in pochi minuti apprendere il processo, sapere se questo è fatto correttamente e capire quale fase dello stesso si sta attraversando. Questo strumento consente al responsabile di vedere cosa sta succedendo, qual è la performance del reparto, se ci sono strumenti fuori posto, se occorre fornire di pezzi i contenitori e quali operatori hanno bisogno di assistenza tecnica o hanno problemi sul controllo della qualità, e quindi di intervenire nel modo più rapido possibile con un notevole risparmio di tempo. Il visual control persegue l’obiettivo di ridurre gli sprechi individuando in anticipo possibili anomalie.  Total Productive Maintenance (TPM) Il total productive maintenance (TPM) è un sistema manutentivo che mira al raggiungimento della massima efficienza aziendale. Rappresenta l’evoluzione della cosiddetta “manutenzione preventiva”, introdotta negli anni ’50 dalle aziende giapponesi e successivamente anche da quelle occidentali. Implementando il TPM si punta ad un uso più efficiente degli impianti e delle macchine, si introduce una metodologia di manutenzione diffusa in tutta l’organizzazione basata sulla manutenzione preventiva, coinvolgendo gli stessi operatori. La manutenzione non si esaurisce più nel singolo intervento operativo e occasionale, bensì l’obiettivo è portare al minimo le emergenze e gli interventi manutentivi non programmati. Per iniziare l’implementazione dei concetti della TPM, l’intera forza lavoro deve essere motivata dal fatto che i più alti livelli manageriali supportano il progetto. Il primo passo è quello di designare un TPM coordinator con il compito di educare i dipendenti ed indirizzarli ai principi del TPM. Successivamente vengono creati team autonomi: operatori, personale di manutenzione, supervisori di reparto. Ogni persona si sente direttamente coinvolta nel processo ed è incentivata a fare del suo meglio per contribuire al successo del team. Il TPM coordinator guida il team finché i membri non familiarizzano con il processo e non emerge spontaneamente un team leader. L’applicazione del TPM all’interno dell’organizzazione avviene attraverso cinque passi fondamentali:  introduzione di attività di miglioramento per aumentare l’efficienza degli impianti e delle attrezzature; 161

 attuazione di un sistema di gestione autonomo della manutenzione a cura di operatori addestrati e resi consapevoli;  attuazione di un sistema di manutenzione programmata con raccolta dati sull’affidabilità dei componenti (manutenzione preventiva); continuo aggiornamento della programmazione degli interventi in base ai dati raccolti;  attuazione di un sistema di progettazione e sviluppo delle attrezzature e delle parti di impianto che richiedono una minore e più rapida manutenzione;  continuo addestramento, enfasi e divulgazione dei risultati ottenuti.  Kaizen Il già ricordato kaizen è una metodologia giapponese di miglioramento continuo, passo a passo, che coinvolge l’intera struttura aziendale. Il kaizen si connette con concetti come il total quality management, il just in time. Il kaizen, presentato inizialmente dalla Toyota e applicato sempre più in tutto il mondo, si basa sul principio che “l’energia viene dal basso”, ovvero sulla comprensione che il risultato in un’impresa non viene raggiunto solo dal management, ma dal lavoro diretto sul prodotto. Il management assume dunque una nuova funzione, non tanto legata alla gestione gerarchica quanto al supporto diretto dei soggetti coinvolti nella produzione. Il kaizen si basa sul sistema dei suggerimenti che consiste in proposte formulate da tutti i dipendenti per apportare migliorie al ciclo produttivo e per evitare l’insorgere di problemi ancora non manifestati ma di probabile insorgenza. Il sistema è semplice quanto innovativo e la forza di tale metodologia sta nella riduzione degli sprechi. La logica del kaizen è quella di ricercare i risultati non attraverso una radicale riorganizzazione o investimenti su larga scala, ma attraverso l’effetto cumulato di una successione di piccoli miglioramenti incrementali. I punti salienti della filosofia kaizen sono:  stabilire delle priorità;  standardizzare;  effettuare misurazioni;  migliorare. Considerare il kaizen semplicemente come “miglioramento continuo” riduce la portata del concetto; si tratta infatti di un nuovo modo di operare che richiede un cambiamento nel management, nel lavoro, nei rapporti relazionali tra manager e lavoratore, nella disciplina, nel decision making e nell’organizzazione del sapere (Attolico, 2012). A livello organizzativo, il rispetto dei principi lean comporta un ripensamento delle attività dell’organizzazione, non più ordinate solo per funzioni ma sempre più orientate alla creazione di team di lavoro interfunzionali secondo una logica per processi che sarà di seguito esaminata. Altri cambiamenti significati162

vi sono l’applicazione di meccanismi di comunicazione diretti a favorire il superamento delle “barriere” comunicative tra le diverse unità della stessa organizzazione, nonché l’adozione di un atteggiamento proattivo da parte delle figure operative, chiamate a mettere in pratica i nuovi concetti. Del resto per cambiare è necessaria una chiara visione di che cosa si vuole fare e di dove si vuole arrivare: gli obiettivi devono essere compresi e condivisi fra tutti gli attori presenti nell’organizzazione per tradurre in fatti concreti i concetti di base dell’approccio lean (Worley & Lawler, 2010). In un ambiente fortemente globalizzato, le aziende devono offrire prodotti e servizi di qualità ottimizzando i processi interni e concentrando le risorse nelle attività che apportano valore. Solo un comportamento di questo tipo permette, infatti, alle imprese di raggiungere la propria mission: creare il massimo valore razionalizzando i processi e le attività in essere. Pianificare e realizzare un’impresa snella significa, inoltre, avviare un processo di cambiamento incisivo nella cultura interna teso all’eliminazione continua di ogni forma di spreco. Ciò si traduce in molteplici vantaggi tangibili in termini di miglioramento delle performance aziendali con conseguenti ed innegabili benefici di natura economica e non solo per tutta la struttura organizzativa. I principali benefici apportati da un’organizzazione snella possono essere riassunti nei seguenti:    

aumento della qualità, aumento della produttività, miglioramento del servizio, riduzione dei costi.

Il raggiungimento di alti livelli di qualità, di produttività e di soddisfazione dei clienti e la capacità di abbattere sostanzialmente i costi sono alcune delle armi di cui le aziende, che decidono di intraprendere un percorso di snellimento, possono disporre per vincere la sfida competitiva e continuare ad operare con successo in un mercato sempre più complesso e dinamico che impone alle imprese di mantenere alti livelli di performance. Un approccio “snello” sembra porre le premesse per un miglioramento continuo delle performance aziendali e per l’evoluzione verso sistemi più evoluti che possono efficacemente ed economicamente utilizzare ed integrare le risorse umane, l’automazione e l’ICT, concorrendo alla creazione del valore. L’obiettivo è duplice: creare un sistema che sia “pilotato” dal cliente e dalle sue aspettative e rendere tale sistema efficace ed efficiente, eliminando gli sprechi e ottimizzando l’utilizzo delle risorse. Se il lean thinking si può considerare un’importante metodologia per riuscire a strutturare soluzioni organizzative in grado di contribuire a giocare la partita 163

della competitività, pur ricordando i principi indicati sui quali tale metodologia si basa, in un panorama come quello attuale, caratterizzato da un preoccupante stato di crisi, tutto ciò può risultare necessario ma non più sufficiente. «Oltre a non poter prescindere da processi senza sprechi, bisogna puntare sia all’innovazione di prodotti, processi, servizi in modo da creare valore per i clienti e ritorni economici per l’azienda, sia alla sostenibilità intesa come capacità di ridurre il proprio impatto sull’ambiente (energia, acqua, rifiuti, emissioni, ecc.), garantire condizioni di lavoro sicure e attivarsi per migliorare il contesto sociale in cui si agisce» (Bonfiglioli Consulting, 2012, p. 38). Per conseguire tali obiettivi la strada è il cosiddetto Lean World Class, una metodologia di gestione che affianca ai tradizionali concetti lean altri due aspetti fondamentali: il Cost Depolyment, una metodologia analitica ed efficace che intende individuare in maniera sistematica le principali voci di spreco e perdita riconducibili alle attività svolte, quantificare i benefici economici potenziali e attesi, nonché orientare le risorse gestite dalla direzione aziendale verso maggiori potenzialità di miglioramento. Se grazie a tale metodologia può essere possibile individuare sprechi e perdite, importante è poi indagare sulle loro cause; così come appare importante poter collegare i miglioramenti sulle performances di qualità, tempi, servizi, ecc., ai benefici che l’azienda ne può trarre in termini economici. Un secondo aspetto chiave e il People Development, cioè lo sviluppo delle risorse umane che rappresentano sempre il valore aggiunto principale di ogni organizzazione: «questa metodologia consente di identificare e ridurre i gap esistenti tra competenze possedute e quelle necessarie e porta in azienda un sistema di sviluppo delle persone strutturato e legato ai piani di miglioramento aziendale, realizzato in maniera individuale e a tutti i livelli dell’organizzazione, dal top management fino agli operatori. La novità consiste nel progettare, pianificare ed erogare in maniera puntuale il training necessario a colmare specifiche lacune formative, individuate e misurate con strumenti creati ad hoc; ne consegue che non si tratta più di interventi formativi “a pioggia”, ma progetti di training focalizzati e mirati anche ad aumentare il commitment e a ridurre l’assenteismo del personale. Valorizzare al massimo le persone capitalizzando le competenze è elemento nodale alla base di un’azienda “eccellente”, che deve essere caratterizzata da persone preparate, responsabili e motivate a lavorare nell’ottica di un miglioramento continuo» (Bonfiglioli Consulting, 2012, p. 41).

3.3.2. Sviluppo di soluzioni organizzative basate sui processi Con l’aumento del livello di complessità, le organizzazioni sperimentano i limiti delle soluzioni tradizionali: il coordinamento tra le diverse aree gestionali 164

all’interno della stessa organizzazione diviene più difficoltoso. Non a caso le logiche di progettazione organizzativa vengono a ridisegnare i meccanismi di collegamento al fine di migliorare il coordinamento e la comunicazione, ponendosi l’obiettivo di ridurre le “barriere” organizzative interne che rischiano di ostacolare il perseguimento di elevati livelli di performance. «L’applicazione della concezione funzionale alla gestione si concretizza nell’individuazione di specifici sub-sistemi (marketing, produzione, R&S, ecc.) omogenei al loro interno in termini di professionalità con un obiettivo comune che si pone in termini parziali rispetto al fine ultimo aziendale. Il principio alla base della concezione funzionale è quello della specializzazione delle conoscenze, delle competenze e delle performance. Essa nasce, infatti per consentire una efficiente ed efficace divisione del lavoro sia orizzontale che verticale, stabilendo compiti e responsabilità e ricorrendo a procedure formalizzate per la risoluzione dei problemi. La direzione per funzione si concretizza quindi da un lato, nel fornire incentivi per il perseguimento dell’ottimizzazione funzionale, data dalla massimizzazione dei sub-obiettivi, e dall’altro, nel definire attività di coordinamento e di controllo del raggiungimento degli scopi. Le performance globali dell’impresa sono date dalla somma delle singole prestazioni dei subsistemi funzionali. La scomposizione del sistema aziendale secondo linee verticali, però, può favorire lo sviluppo di sub-sistemi chiusi, caratterizzati da una cultura propria e da comportamenti opportunistici (si predilige la funzione a scapito dell’intera impresa). Si erigono barriere tra un sub-sistema e l’altro che ostacolano la diffusione delle informazioni e delle comunicazioni, bloccando o ostacolando la generazione di modelli mentali condivisi e dei processi di apprendimento organizzativo» (Colurcio & Mele, 2005, p. 130). L’aumento della complessità esterna ha comportato anche un aumento della complessità interna: l’evolversi della domanda, della concorrenza, della tecnologia ha contribuito a ripensare alla soluzione funzionale, secondo una logica che richiede alle diverse aree gestionali di cooperare insieme per un fine comune. «La gestione interfunzionale si pone quale strumento di supporto alla costruzione di un sistema aziendale basato sull’instaurazione di relazioni sinergiche tra le parti. Lo sviluppo di una logica relazionale mira a superare le eventuali conflittualità presenti fra le diverse funzioni aziendali e a favorire la nascita di una visione condivisa e la consapevolezza della necessità di un impegno corale per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. La focalizzazione sull’organizzazione come sistema deriva dalla consapevolezza che i problemi complessi di produzione di beni e/o servizi richiedono una valutazione realistica di come l’intero organismo aziendale possa contribuire alla loro soluzione. La visione interfunzionale elimina, quindi, la cultura “a silos” che ostacola l’apprendimento organizzativo, impedendo ad una parte dell’organizzazione di apprendere dall’al165

tra» (Colurcio & Mele, 2005, pp. 132-133). Un approccio interfunzionale, basato sulla cooperazione tra le diverse funzioni con riferimento a specifici obiettivi, è coerente con una concezione sistemica sia all’interno dell’organizzazione, come insieme di sub-sistemi, e sia al suo esterno, in cui la stessa è parte di un sistema più ampio dove si generano relazioni che permettono di combinare e rafforzare risorse e competenze per incrementare la creazione di valore. La concreta implementazione di una gestione interfunzionale può prevedere differenti possibili soluzioni: possono essere creati dei comitati formati da alti dirigenti delle funzioni coinvolte, dei team interfunzionali costituiti da soggetti sempre appartenenti a diverse funzioni ma che occupano diversi livelli della gerarchia aziendale (un tipico esempio è un team di progetto formato ad hoc e che è destinato a sciogliersi dopo aver raggiunto i propri obiettivi) che operano sulla base di un rapporto di fiducia reciproco che costituisce la base su cui costruire collaborazioni costruttive e un fattivo confronto di idee, conoscenze ed esperienze. La logica interfunzionale risulta, in ogni caso, strettamente connessa con quella che si rifà ad un approccio per processi. Le soluzioni organizzative che si sono sviluppate negli ultimi anni hanno risposto all’obiettivo di consentire alle organizzazioni interessate migliori livelli di performance; ciò nella convinzione che configurazioni organizzative dai confini precisamente definiti, basate su rigide gerarchie verticali, creando altrettanto precise relazioni di dipendenza, sono state messe in discussione da cambiamenti di prospettiva, stimolati dalla dinamicità e dalla complessità ambientale, che hanno riguardato scelte di progettazione in termini di soluzioni strutturali e di organizzazione del lavoro. Di fronte ad un mercato e ad un ambiente competitivo estremamente turbolenti ed imprevedibili nasce per le organizzazioni l’esigenza di perseguire in modo congiunto obiettivi diversi, quali la soddisfazione dei clienti, la razionalizzazione delle risorse interne, la flessibilità e l’innovazione ma tali obiettivi risultano difficilmente raggiungibili mediante soluzioni organizzative e modelli gestionali teorizzati ed applicati in contesti molto diversi da quelli attuali. In effetti, i cambiamenti che hanno interessato il mercato, sempre più globalizzato, hanno determinato il fatto che strategie e fattori competitivi fino a poco tempo fa ritenuti reciprocamente escludentisi siano oggi, soprattutto nei settori ad alto contenuto di competitività, contemporaneamente perseguiti, in quanto la richiesta dello stesso mercato è sempre più orientata su prodotti ad alta qualità e con costi contenuti. Ciò ha spinto a pensare ad elaborare ed adottare soluzioni organizzative in grado di agire simultaneamente su diverse dimensioni delle performance organizzative, quali qualità, tempi e costi. In altre parole, le organizzazioni si trovano a dover perseguire contemporaneamente obiettivi diversi: 166

la soddisfazione del cliente (anche con riferimento ai cosiddetti elementi di “contorno” al prodotto, quali tempi di consegna, assistenza post-vendita, ecc.), la razionalizzazione nell’uso delle risorse (l’attenzione ai costi porta a gestire le attività e le interdipendenze tra le stesse in modo efficiente, riducendo gli “sprechi”, le attività “inutili”, gli errori, ecc.), la flessibilità (intesa sia come capacità di adeguare i prodotti all’evoluzione del mercato, sia come capacità di introdurre rapidamente nuovi prodotti e sia di adattarsi rapidamente alle variazioni di domanda dei prodotti esistenti), l’innovazione (Gambel, 2010). Con l’aumento del livello di complessità, le organizzazioni sperimentano i limiti delle soluzioni tradizionali: il coordinamento tra le diverse aree gestionali all’interno della stessa organizzazione diviene più difficoltoso. Non a caso le logiche di progettazione organizzativa vengono a ridisegnare i meccanismi di collegamento al fine di migliorare il coordinamento e la comunicazione, ponendosi l’obiettivo, come ricordato, di ridurre le “barriere” organizzative interne che rischiano di ostacolare il perseguimento di elevati livelli di performance (Gabrielli & Profili, 2012). Se, tradizionalmente, le attività erano svolte, come ricordato, in funzioni o unità organizzative diverse ed il problema principale era quello di definire come tali attività potevano essere coordinate ed ottimizzate, l’attenzione si sposta sulle interdipendenze tra le diverse stesse attività. Se in passato, quindi, l’atteggiamento prevalente era quello di ottimizzare le attività all’interno delle unità organizzative, oggi appare proprio la gestione degli spazi interfunzionali quella in grado di offrire più ampi potenziali di miglioramento. Se nell’organizzazione gerarchica le interazioni agiscono in modo piramidale, nuovi approcci prevedono uno sviluppo delle attività in senso “orizzontale”, ottimizzando e velocizzando il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. In questa prospettiva si può far riferimento al concetto di processo, inteso come una sequenza di attività, tra loro interdipendenti, il cui svolgimento può implicare il coinvolgimento e l’operato sia di più unità appartenenti alla stessa organizzazione e sia di unità che fanno riferimento ad altre organizzazioni e che sono finalizzate al conseguimento di un obiettivo comune che, per lo stesso processo, si identifica nella creazione di valore per il destinatario dell’output, che può essere interno o esterno. In tal modo un’organizzazione può essere vista non solo come un insieme di unità organizzative ma anche come un’unitaria combinazione di processi, adottando quella che viene chiamata una logica o un approccio per processi, adottando una visione “trasversale” del funzionamento di un’organizzazione, ove la capacità di gestire le interdipendenze tra diverse unità organizzative si presenta con maggiore criticità in contesti competitivi dove risulta “vincente” il riuscire a creare valore per il cliente. Un’importante implicazione organizzativa della logica in questione consiste 167

nel fatto che l’individuazione di quali sono i propri “clienti” consente di portare chiarezza all’interno di ciascuna attività, nella misura in cui ciascun membro dell’organizzazione può orientare i propri sforzi verso una finalità ben definita e concreta, rappresentata dalla soddisfazione delle esigenze del processo a valle, anziché essere vincolato al rispetto di procedure dettagliate ma che non consentono di scorgere il fine, il senso del proprio lavoro. Definire quali sono i propri clienti ed i propri fornitori permette a ciascuna unità organizzativa di collocarsi all’interno di una rete di rapporti, individuata dai diversi anelli della catena cliente-fornitore in cui la stessa unità è coinvolta. Tutta permeata dall’obiettivo della soddisfazione del cliente sia interno che esterno, si riducono le sclerotizzazioni e gli antagonismi provocati dalla rigidità delle funzioni ed i dipendenti cooperano tra loro per incrementare il valore del prodotto/servizio reso ai clienti, sia in quanto consumatori finali che come utenti aziendali. In questo contesto integrazione significa cooperazione attiva, tesa al soddisfacimento dei clienti, ma tale concetto va anche oltre i confini aziendali e si spinge a comprendere una cerchia di operatori molto più vasta, fra cui i fornitori, i distributori, i collaboratori esterni, gli operatori finanziari. Si instaurano relazioni di cooperazione e di collaborazione che non trovano nella tradizionale logica antagonista della competizione le loro motivazioni, le quali affondano in una nuova logica di sviluppo più consono alle possibilità dell’intero sistema. Tutta permeata dall’obiettivo della soddisfazione del cliente sia interno che esterno, vengono messi in discussione gli antagonismi provocati dalla rigidità delle funzioni ed i dipendenti cooperano tra loro per incrementare il valore del prodotto/servizio reso ai clienti, sia in quanto consumatori finali che come utenti aziendali (clienti interni). Il concetto di integrazione va anche oltre i confini dell’impresa e si spinge a comprendere una cerchia di operatori molto vasta (fornitori, distributori, collaboratori esterni, ecc.). Si instaurano relazioni di cooperazione e collaborazione che non trovano nella tradizionale logica antagonistica della competizione le loro motivazioni, le quali affondano piuttosto in una logica di sviluppo più consono alle possibilità dell’intero sistema e di certo più mirato al perseguimento della soddisfazione dei clienti. Ricollegandoci a temi già analizzati, si può rilevare un’organizzazione per processi rappresenta una risposta coerente con l’esigenza di molte aziende di competere sulla velocità d’innovazione, cioè il tempo che intercorre tra quando nascono nuove idee e la concreta disponibilità sul mercato dei risultati che da esse scaturiscono (il time to market). La traduzione organizzativa della competizione sul tempo è proprio l’organizzazione per processi. In pratica ciò significa superare le barriere della struttura funzionale accentuando la rilevanza della 168

dimensione orizzontale dell’organizzazione. L’esempio tipico di un’impostazione volta all’organizzazione per processi è il concurrent engineering che cerca di realizzare in modo simultaneo tutte le fasi dell’ideazione fino al lancio in lavorazione. Nell’ottica di integrazione organizzativa che è venuta emergendo come la chiave principale di soluzione ai problemi inerenti il processo di progettazione, il concurrent engineering è individuato come uno strumento per la soluzione dei problemi di coordinamento e controllo del processo in questione (lo stesso viene considerato come un caso emblematico del passaggio da modelli di funzionamento gerarchico-funzionali a modelli organizzativi integrati). La sua idea di base è che, per concepire, ingegnerizzare, realizzare un prodotto, l’intero ciclo di sviluppo debba essere condotto con la collaborazione di tutte le componenti dell’azienda mediante l’istituzione di team interfunzionali guidati da leader riconosciuti (project manager). Un approccio per processi implica un’analisi e una progettazione organizzativa che non si incentri solo sui tradizionali concetti di compiti e funzioni, gerarchicamente collegati, ma che si basi su un insieme di attività omogenee dal punto di vista dell’output e correlate tra di loro al di là degli stessi confini delle singole unità organizzative. La lettura delle attività svolte in chiave di processi anziché di funzioni nasce, quindi, dalla volontà di avvicinare sempre più l’azienda al mercato, nel momento in cui mutano sia l’intensità che le caratteristiche della competizione; gli sviluppi che hanno caratterizzato la tecnologia e l’informatica da una parte e la dinamica dei mercati dall’altra hanno determinato, infatti, profondi cambiamenti nell’ambiente competitivo. L’adozione da parte delle organizzazioni di soluzioni di tipo funzionale ha consentito in passato di raggiungere elevati livelli di efficienza all’interno delle singole funzioni, ma nel momento in cui aumenta il numero delle stesse funzioni diventa più difficile riuscire a gestire le interdipendenze che si formano tra di esse. Se prima l’atteggiamento prevalente era mirato ad ottimizzare le attività all’interno delle funzioni, oggi proprio la gestione degli spazi “interfunzionali”, precedentemente trascurati, sono tali da offrire i più ampi potenziali di miglioramento. Lo stesso citato approccio del Total Quality Management considera la gestione per processi uno strumento fondamentale per orientare l’organizzazione verso la qualità ed il suo continuo miglioramento e, non a caso, le norme ISO 9000, in tema di certificazione, precisano che l’individuazione e l’analisi dei processi, finalizzata ad un loro continuo miglioramento, rientrano tra i requisiti specifici di un sistema di gestione per la qualità. In tale prospettiva un’organizzazione può, in primo luogo, individuare i processi che concorrono al raggiungimento dei propri obiettivi strategici, per poi 169

definire il responsabile di ogni processo (Process Owner) ed organizzare ogni processo come una sorta di “catena” fornitore/cliente, scomponendo lo stesso processo in fasi (sotto-processi) ed attività individuali interdipendenti. I processi possono essere classificati sulla base di diversi parametri, tra i quali possiamo ricordare:  quello che si basa sulle unità organizzative coinvolte, per cui si parla di processi interorganizzativi ai quali partecipano distinte organizzazioni e che sono cartterizzati da un forte interscambio di informazioni (sempre più le organizzazioni devono affrontare il problema di coordinare attività che si estendono al di là dei propri confini: si pensi, ad esempio, ai processi di produzione di quelle aziende che hanno effettuato la scelta di decentrare all’esterno fasi della lavorazione), di processi interfunzionali che coinvolgono più unità della stessa organizzazione, come il processo di sviluppo di un nuovo prodotto o interpersonali che coinvolgono gruppi di lavoro all’interno della stessa unità organizzativa (si pensi all’ipotesi di gruppi di lavoro autogestiti per la risoluzione di specifici problemi operativi);  quello che fa riferimento all’impatto sui risultati aziendali, per cui si parla di processi primari, che hanno un impatto diretto sui risultati dell’organizzazione e il cui svolgimento può determinare un differenziale competitivo rispetto alla concorrenza e di processi di supporto che contribuiscono alla creazione del valore in modo mediato, favorendo l’efficacia e l’efficienza dei processi primari (si pensi ai processi di approvvigionamento, di amministrazione, ecc.) (Jones, 2012). In concreto ogni organizzazione si trova a gestire un suo specifico sistema di processi e difficilmente può imitare pedissequamente e con successo le modalità di svolgimento degli stessi da parte di altre organizzazioni. Gestire un’organizzazione secondo una visione per processi significa svolgere le diverse attività avendo ben presenti alcuni principi guida, quali:  la diffusione di una “cultura di processo”, cioè portare le persone con responsabilità direttive a “ragionare per processi”: identificare i processi, valutarne il contributo in termini di generazione del valore, analizzarne le relative prestazioni (in termini di qualità, tempi e costi complessivi), ragionare in termini di miglioramento continuo; in altri termini, i manager devono sentirsi protagonisti di un sistema di processi, orientati al soddisfacimento dei propri “clienti” e se tale percezione è carente le diverse metodologie adottabili rischiano di perdere di efficacia;  attivare le citate catene interne di fornitori/clienti, considerando anche le unità a valle come veri e propri clienti (obiettivo di una loro soddisfazione); in tal modo, partendo dall’ultima fase del processo, le specifiche di output sono 170

tradotte in richieste per la fase immediatamente a monte (il processo è “tirato” dalle fasi a valle); ciò evidentemente implica, da un punto di vista organizzativo, di affrontare e ridurre incomprensioni, eventuali situazioni di conflitto la cui presenza ridurrebbe la probabilità che la catena possa effettivamente funzionare; si tratta, poi, di una catena che richiede flessibilità e tempestività di risposta rispetto alle esigenze del cliente (sia esterno che interno); appare, altresì, necessario agire sulla stessa cultura organizzativa: nel momento in cui questa risulti più orientata ad agire sulla base delle procedure organizzative piuttosto che in funzione delle esigenze di chi opera a valle, ciò comporta il rischio della formazione di “barriere” culturali che possono generare resistenze rispetto all’introduzione della logica per processi; così è importante coinvolgere in una logica di partnership i fornitori esterni, coinvolti non solo nella gestione più operativa ma anche nelle fasi di progettazione di nuovi prodotti (co-design);  ricomporre attività eccessivamente frammentate in quanto svolte da unità organizzative diverse facendo leva sullo sviluppo di relazioni laterali che corrispondono sostanzialmente ad un approccio che consente all’organizzazione di acquisire maggiori livelli di flessibilità; ciò consente anche il fatto che le decisioni vengano prese a livelli più vicini rispetto a dove i problemi si manifestano, consentendo da un lato, alla direzione di veder ridotto il suo carico di lavoro e di focalizzare maggiormente la sua attenzione sui problemi di più ampia portata, e, dall’altro, una maggiore capacità di risposta e di adattamento del sistema;  prevedere un certo grado di delega decisionale per favorire la rapida risoluzione dei problemi quando questi si presentano; il passaggio, infatti, da una struttura gerarchico-funzionale ad una struttura orientata ai processi implica un graduale trasferimento di autorità decisionale dall’alto verso il basso ed in particolare verso i responsabili di processo per quanto riguarda le attività di coordinamento e di gestione dell’intero processo (Daft, 2010);  individuare la figura del “process owner” che, con le sue competenze, avrà la responsabilità del processo e dovrà presidiare le condizioni di efficacia e di efficienza dell’intero processo, promuovere ed indirizzare il miglioramento continuo dello stesso; appare evidente come tale figura operi trasversalmente rispetto alle funzioni che intervengono nel processo stesso ponendosi come tipico ruolo di integrazione; nell’ambito delle sue competenze, oltre a conoscenze specifiche connesse alle attività critiche del processo, sono importanti specifiche capacità di “mediazione”, nel senso che è chiamato a presidiare le interfacce con le diverse unità coinvolte, ad intervenire quando sorgono problemi di coordinamento, a convincere ed incentivare comportamenti coerenti con gli obiettivi del processo (può assumere la figura di project manager come 171

responsabile del processo di progettazione di un nuovo prodotto, o di gestore di commessa nel caso in cui il processo coincida con l’evasione di una data commessa rispettando i tempi ed i requisiti previsti); dal punto di vista delle capacità relazionali tale figura deve essere dotata di buone doti comunicative e di leadership (deve essere convincente, trascinante, credibile, deve saper guidare i suoi collaboratori, orientandoli verso gli obiettivi propri del processo, promuovendo miglioramenti continui nel processo verificandone i risultati);  realizzare un’organizzazione più “snella” il cui funzionamento è sostenuto da una pluralità di leve gerarchiche e non gerarchiche (quest’ultime sono volte a rafforzare l’autocontrollo, l’“imprenditorialità interna”, l’integrazione orizzontale tra le diverse unità organizzative) e si caratterizza per una riduzione del numero dei livelli organizzativi, ciò che può consentire, come già ricordato una redistribuzione dei poteri decisionali e l’assegnazione di una maggiore autonomia alle persone interessate, favorendo il loro sviluppo professionale e le loro potenzialità in termini di problem solving, una maggiore integrazione trasversale, uno snellimento dei sistemi di controllo eliminando quelli non necessari, un miglioramento dei processi di comunicazione; si può affermare che lo “snellimento” organizzativo fa sì che ogni livello gerarchico deve divenire possessore e generatore di valore aggiunto rispetto ai livelli sottostanti in termini di maggiori capacità di integrazione e di leadership, individuando e prevenendo i problemi, sollecitando nuove idee e proposte di miglioramento, rendendo disponibili conoscenze e informazioni, favorendo l’apprendimento individuale e di gruppo; in effetti, la costante tensione nella ricerca di migliori livelli di competitività e di attenzione al cliente ha fatto progressivamente maturare nelle organizzazioni la necessità di perseguire il duplice obiettivo di migliorare l’efficienza e di ridurre la complessità organizzativa, rivedendo la verticalità di gerarchie e funzioni;  valorizzare le opportunità offerte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per ridisegnare e migliorare il coordinamento degli stessi processi (si pensi, ad esempio, ai sistemi workflow che, con la loro applicazione, possono rendere possibili il ridisegno dei processi, la semplificazione dei metodi di lavoro). Partendo da questi presupposti, si può affermare che un approccio per processi può consentire di:  evidenziare eventuali disfunzioni ed individuare i punti critici dello stesso processo sui quali intervenire con apposite azioni correttive o di miglioramento;  rivedere, al fine di una maggiore semplificazione, le regole e le procedure coinvolte nello svolgimento del processo; 172

 attivare azioni volte ad una migliore conoscenza delle esigenze dei destinatari intermedi e finali delle attività svolte nell’ambito del processo;  favorire una maggiore consapevolezza individuale ed organizzativa in merito a ciò che viene svolto e del modo in cui si opera;  individuare tutti gli attori coinvolti nel processo e le relative responsabilità;  riprogettare le modalità di utilizzo delle risorse disponibili nelle diverse unità organizzative in accordo con gli obiettivi del processo;  valutare quali attività introdurre o meno per migliorare la qualità dei risultati del processo nonché per realizzare flussi di comunicazione più intensi ed efficaci. In ogni caso, va precisato che l’implementazione di una gestione per processi non comporta uno “smantellamento” generale della struttura esistente: la forma funzionale e quella per processi possono sovrapporsi, nel senso che lo schema funzionale individua una modalità di attribuzione di posizioni all’interno dell’organizzazione mentre quello per processi rappresenta una modalità di organizzare le attività svolte in modo più efficace ed efficiente (Daft, 2010). L’individuazione dei processi in cui si estrinseca l’attività svolta dall’organizzazione viene comunemente identificata come “mappatura” dei processi organizzativi. Questa “mappa” descrive i processi esistenti così come si svolgono allo stato attuale, evidenziandone le principali caratteristiche (input utilizzati, attività svolte, attori interessati, regole e vincoli, output prodotti). La mappatura costituisce, quindi, una rappresentazione dell’intero flusso di attività svolte dall’organizzazione e permette di esplicitare i processi che essa svolge, le principali relazioni che li legano, i loro obiettivi ed i relativi confini. Successivamente, una volta individuati quelli più critici per la stessa organizzazione, si può procedere ad una valutazione delle modalità attuali di svolgimento e realizzazione di tali processi (analisi dei processi). Nell’analisi di un processo si può cercare di capire:  il flusso (le fasi di svolgimento del processo: trasformazione degli input in output);  l’efficacia (quanto sono soddisfatte le aspettative del destinatario del processo?);  l’efficienza (quanto bene sono utilizzate le risorse nel realizzare l’output?);  l’adattabilità (capacità di gestire situazioni non previste);  il tempo di ciclo (il tempo necessario per trasformare gli input in output?);  i costi (tutti i costi del processo). Grazie ad una Flow Chart è possibile delineare una rappresentazione grafica delle attività che compongono il processo, individuando gli attori che intervengono nello svolgimento delle attività, i data base movimentati, i controlli effettuati, ecc. 173

Si tratta, poi, di decidere come intervenire sugli stessi processi per migliorarne lo svolgimento e in tal senso si possono presentare diverse alternative:  semplificazione dello stesso processo, cioè agendo nel senso di uno “snellimento” del suo iter di svolgimento, eliminando tutto ciò che può apparire “inutile” (tempi di attesa non giustificati, duplicazioni di attività, riduzione dei passaggi gerarchici, ecc.); semplificare significa, in altri termini, eliminare le attività non necessarie per il conseguimento degli obiettivi del processo;  miglioramento graduale e continuo, che consente di ottenere risultati in tempi abbastanza rapidi, di lieve entità ma costanti nel tempo: si parla di un approccio per “piccoli passi”, dove i problemi vengono studiati nei dettagli, al fine di individuare le piccole opportunità che possono contribuire a perseguire obiettivi di miglioramento;  reingegnerizzazione del processo, cioè un ridisegno radicale di un processo, finalizzato a realizzare notevoli cambiamenti e ad ottenere miglioramenti significativi nelle performance ottenute: esso richiede tempi non brevi in quanto risultato di un mutamento significativo nel modo di svolgere il processo. Il reengineering può essere definito come il ripensamento di fondo, il ridisegno radicale dei processi organizzativi finalizzato a realizzare un miglioramento molto significativo nei parametri critici delle prestazioni in termini di costi, qualità e tempestività (Hammer, 1998). Lo scopo perseguito non è quello di ottenere miglioramenti marginali ma piuttosto quello di ottenere miglioramenti significativi e misurabili che si traducono in performance organizzative (miglioramenti rilevanti in termini di produttività, di qualità dell’output, di riduzione dei costi, di diminuzione dei tempi, ecc.). Non si deve, comunque, migliorare quello cha già esiste, ma si devono reinventare le modalità di svolgimento delle attività che creano valore aggiunto a prescindere dalla situazione esistente: ciò determina mutamenti sia nelle diverse variabili organizzative e sia negli aspetti tecnologici. Si tratta di un approccio che ha conquistato rapidamente l’attenzione di molte organizzazioni e che è alla base di numerosi progetti di cambiamento. Il BPR deve essere interpretato e gestito come un progetto: l’intervento deve essere pianificato ed articolato in diverse fasi con una chiara definizione delle responsabilità e con un adeguato sistema di controllo. Più in particolare si possono individuare le seguenti fasi:  individuazione del processo “critico”, valutando l’impatto dello stesso processo sui fattori che influenzano il perseguimento degli obiettivi competitivi dell’organizzazione e sua assegnazione al process owner, che prima guiderà la fase di analisi e di riprogettazione del processo ed in seguito avrà la responsabilità e l’autorità su di esso;

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 la riprogettazione del processo: si può creare un team di riprogettazione, guidato dal process owner, la cui composizione deve rispecchiare il carattere interfunzionale del processo per tener conto dei diversi punti di vista. Questo team può essere formato da soggetti interni o esterni al processo: gli interni sono i rappresentanti di ogni funzione coinvolta nel processo. Si tratta di persone che generalmente conoscono bene il processo o le fasi dello stesso che rientrano nella loro attività abituale. Tale conoscenza approfondita consente di individuare più velocemente i problemi e le loro cause, ma al tempo stesso può essere un ostacolo per intraprendere soluzioni innovative: infatti, un team composto solo da soggetti interni può riuscire a realizzare miglioramenti, ma può incontrare delle difficoltà nel formulare un piano per un cambiamento radicale. Per riuscire a “rompere” con il passato può risultare necessario introdurre nel team anche dei soggetti esterni: questi possono essere persone che fanno parte di funzioni non coinvolte nel processo oppure consulenti che possono consentire di vedere i problemi da una diversa angolazione e di riflettere più criticamente su ciò che altrimenti sarebbe dato per scontato; contributi al funzionamento del team possono derivare da altri soggetti, quali specialisti in informatica o in risorse umane che possono aiutare il team per risolvere problemi specifici. In questa fase i membri del team di riprogettazione sono chiamati alla elaborazione di un flusso per così dire “ideale” del processo da reingegnerizzare. Per prima cosa occorre aver ben chiari quelli che dovranno essere gli output del processo e sulla base dei relativi obiettivi, il team potrà elaborare una descrizione di quella che ritiene la sequenza ottimale delle attività da svolgere. Una volta definito il flusso “ideale” del processo, si passa al confronto con il processo attuale; tale confronto permette di decidere che tipo di interventi attuare in base ai parametri (tempi, costi, qualità) ritenuti più significativi. Dopo il confronto tra i due processi, si possono raggruppare i problemi emersi, individuare i punti su cui intervenire, le proposte di soluzioni, ad esempio, eliminando attività superflue, razionalizzando la stessa sequenza delle attività, semplificando gli aspetti procedurali, ecc., al fine di ridisegnare il processo (Hammer, 1998);  la pianificazione delle risorse: una volta definito il nuovo processo ed i suoi output, con le loro caratteristiche quantitative e qualitative, occorre quantificare le risorse necessarie per svolgere lo stesso; dal punto di vista qualitativo, con particolare riferimento alle risorse umane, si tratta di valutare il gap esistente tra le professionalità esistenti e quelle necessarie per lo svolgimento del processo reingegnerizzato: ciò potrà richiedere di programmare attività di formazione e di aggiornamento che consentano ai 175

soggetti interessati di acquisire la professionalità necessaria per svolgere le attività sia operative che gestionali che riguardano il processo. Sarà altresì opportuno valutare, a fronte del nuovo flusso di attività stabilito, i carichi di lavoro corrispondenti ad ogni step del processo e procedere ad un bilanciamento delle risorse che eviti la creazione di vuoti o, al contrario, di colli di bottiglia (Isotta, 2010).  il monitoraggio del processo: una volta definito ed implementato il processo riprogettato occorre garantire che questo mantenga nel tempo le sue caratteristiche; a tal fine potrà essere individuato un sistema di indicatori di processo che consentano di intervenire sulla sequenza di attività in modo che il risultato ottenuto coincida o si avvicini con quello atteso; questo sistema di indicatori può svolgere anche una funzione di “apprendimento” per i gestori del processo, nel senso che può consentire alle persone che lo gestiscono di conoscere sempre meglio le relazioni che legano tra loro gli elementi del processo; anche se il processo dimostra di poter generare i risultati richiesti, è importante continuare a tenere sotto controllo lo stesso per poter individuare variazioni che sono in grado di modificare i suoi output e per evidenziare ulteriori possibilità di miglioramento. Appare essenziale, in fase di riprogettazione dei processi, valutare, in ogni caso, le difficoltà di conseguire gli obiettivi attesi per effetto di diversi “fattori frenanti” che possono generare resistenze e viscosità rispetto al cambiamento nelle unità organizzative interessate (Jones, 2012). Ciò spiega l’importanza di una particolare attenzione al governo di un intervento di reingegnerizzazione dei processi, prestando particolare attenzione ad alcuni specifici aspetti, quali:  assicurare un adeguato sistema di leadership del progetto di reengineering che deve investire chi possiede l’autorità necessaria per decidere e mettere in atto i cambiamenti previsti nella reingegnerizzazione; ciò implica, generalmente, la definizione di un comitato guida che ha la responsabilità di indirizzare e controllare l’avanzamento del progetto e di rimuovere eventuali ostacoli lungo il percorso; a tale comitato risponde un team di progetto che ha la responsabilità di conduzione delle attività proprie del progetto;  valutare gli effetti in termini di redistribuzione delle responsabilità che presiedono allo svolgimento del processo nonché con riferimento alle modalità di svolgimento del lavoro;  trarre vantaggio dall’impiego dei citati consulenti esterni: nonostante il ruolo chiave nella reingegnerizzazione dei processi svolto da persone interne all’organizzazione, per apportare conoscenze metodologiche e per minimizzare il tempo complessivo di realizzazione del progetto è opportuno che sia176

no coinvolti anche soggetti esterni; i consulenti possono anche apportare utili conoscenze sullo svolgimento del progetto, sulle modalità di raccolta ed elaborazione di dati ed informazioni per l’analisi e la riprogettazione del processo;  poiché la reingegnerizzazione dei processi identifica soluzioni radicali, appare necessario sperimentare le relative soluzioni prima di passare alla loro attuazione completa e definitiva; si possono prevedere, ad esempio, delle sperimentazioni pilota, cioè si realizza parzialmente la soluzione ipotizzata per verificarla sul piano operativo rispetto agli obiettivi predefiniti ed eventualmente modificarla prima di una sua generalizzazione; ovviamente, i risultati della sperimentazione saranno tanto più significativi quanto più la stessa sarà rappresentativa della realtà globale del contesto organizzativo;  effettuare, come ricordato, un’analisi di aderenza delle competenze delle risorse umane a disposizione rispetto a quelle previste dopo l’intervento di reingegnerizzazione, valutando i gap risultanti, da coprire mediante opportune azioni formative; sulla base del gap individuato si dovranno programmare interventi formativi, favorire l’istituzione di gruppi di miglioramento tematici; tutti i soggetti interessati, in effetti, si trovano di fronte ad un nuovo modo di ragionare e di lavorare e per questo motivo è importante intervenire su di essi con interventi di sensibilizzazione e di formazione, in modo che si rendano conto del perché si è deciso di cambiare e di come ciascuno possa contribuire al successo del progetto di cambiamento (importanza della comunicazione nei confronti dei soggetti coinvolti); il coinvolgimento delle risorse umane è, del resto, uno dei fattori più delicati in un processo di reingegnerizzazione in quanto si richiede a tali soggetti un cambiamento importante del modo di lavorare ed una rivisitazione delle proprie competenze; ciò consente anche di prevenire e gestire le possibili resistenze da parte dello stesso personale (Bartezzaghi, 2010);  valutare la coerenza, rispetto alla nuova soluzione organizzativa, del sistema informativo proprio della stessa organizzazione, ciò che può determinare l’esigenza di una revisione del medesimo sistema affinché la sua architettura risulti coerente con la soluzione organizzativa adottata; un aspetto fondamentale di una gestione per processi è costituito da una forte condivisione delle informazioni ed in particolare il loro supporto contribuisce a rendere i processi più efficienti, efficaci e flessibili, perché attraverso le informazioni si possono misurare, controllare e migliorare le performance ottenute; può diventare così necessario rivedere le modalità di gestione dei flussi di informazioni richiesti per lo svolgimento dei processi; in tal senso, il ruolo del sistema informativo non è più solo quello di classificare ed elaborare le informazioni lungo le linee di responsabilità gerarchico-funzionali, ma anche 177

quello di connettere orizzontalmente unità organizzative diverse al fine di condividere dinamicamente le stesse informazioni, valorizzando le opportunità rese disponibili dall’evoluzione dell’ICT.

3.3.3. Il superamento delle barriere organizzative esterne I confini tradizionali tra le diverse organizzazioni, come già ricordato, stanno diventando sempre più “sfumati”. Ogni organizzazione si rende oramai conto che difficilmente può procedere da sola, per la propria strada, a fronte di una concorrenza internazionale, dei cambiamenti di natura tecnologica, di nuove regole competitive. In tal senso la competizione è sempre più la risultante di interazioni tra una pluralità di attori: gli apporti esterni consentono all’organizzazione di impegnare le proprie risorse sulle attività e sulla porzione della catena del valore dove essa ha competenze distintive e abilità di tipo superiore, completandole, in modo integrato, con quelle delle altre organizzazioni che fanno parte di quella che si presenta come una vera e propria rete. Le organizzazioni necessitano di evolversi insieme ad altre organizzazioni, all’interno di ecosistemi organizzativi (Daft, 2010), cioè sistemi formati dalle interazioni di un sistema di organizzazioni, in modo che ognuna di esse possa accrescere le proprie stesse capacità competitive. Per far fronte ad un ambiente sempre più complesso e dinamico si possono attivare, per un’organizzazione, diversi percorsi di crescita:  per linee interne (crescita quantitativa, in termini di dimensioni, e/o qualitativa, in termini di capacità gestionali);  per linee esterne, sviluppando e rafforzando relazioni di tipo collaborativo con altre organizzazioni, ciò che consente di ottimizzare, in modo congiunto, la combinazione dei punti di forza dei rispettivi partner con il già ricordato significativo ruolo di supporto dell’ICT come strumento di coordinamento nell’evoluzione delle forme interorganizzative. Con riguardo a questo secondo percorso di crescita si possono presentare due diverse situazioni:  pensare di essere, per così dire, “costretti” ad allacciare relazioni con altre organizzazioni anche se, in realtà, la singola organizzazione preferirebbe mantenere la sua indipendenza;  vedere nelle relazioni interorganizzative una vera occasione di sviluppo, anche al di là di quelle che sono le tradizionali divisioni in settori, per cui i responsabili delle organizzazioni devono “abituarsi” a riconoscere le diverse 178

opportunità che possono scaturire dalle relazioni di collaborazione con altri attori dell’ecosistema. In questa ottica si possono, in primo luogo, interpretare le relazioni tra le stesse organizzazioni ed i loro fornitori: se tradizionalmente sono state (e in certi casi lo sono ancora) esclusivamente di natura contrattuale, oggi si cerca di creare relazioni più collaborative per diventare maggiormente condorrenziali (migliorare le posizioni di mercato all’interno del settore) e per meglio condividere risorse scarse (condividere rischi e costi per l’ingresso in nuovi mercati o per intraprendere onerosi programmi di ricerca). Le organizzazioni possono perseguire livelli di innovazione e di risultati più elevati adottando una mentalità collaborativa, sviluppando un orientamento alla partnership che si basa su rapporti di fiducia reciproca, sulla ricerca di incrementi di valore per tutte le parti interessate, promuovendo relazioni di tipo continuativo. In questo contesto un elemento che ha caratterizzato la progettazione di molte organizzazioni ha investito la scelta di esternalizzare o meno diverse attività svolte precedentemente all’interno. Per molto tempo si era pensato che il modo più efficiente di organizzare le attività svolte fosse quello di realizzare internamente il maggior numero di fasi delle stesse. Questa scelta fu applicata, ad esempio, in modo assai spinto da Henry Ford nei primi anni ’20 e nei decenni successivi tale modello fu largamente adottato dalle Corporation americane ed europee. In seguito, però, questo approccio è stato rivisto al punto da rendere oggi difficile che un’azienda, ricercando l’efficienza, sviluppi la massima integrazione verticale, fatti salvi alcuni casi nei quali comunque il modello ha subito specifici adattamenti. Le motivazioni di questo cambiamento sono molteplici: si possono ricordare l’ampliamento delle conoscenze richieste per svolgere le diverse attività, il crescente bisogno di flessibilità imposto da mercati in costante cambiamento 1, la necessità di non avere strutture di costi sbilanciate verso i costi fissi (Masino, 2005). Se il mondo del Fordismo è stato segnato dal primato della materialità sull’immaterialità, oggi lo scenario è mutato ed è cambiato Anche il modo di osservare ed interpretare il funzionamento dei sistemi economici (Maggi, 2000). 1

La flessibilità può essere distinta in tre diverse tipologie, in base agli obiettivi da perseguire e le strategie da adottare da parte dell’azienda (Sciarelli, 1987):  flessibilità strategica, intesa come abilità dell’azienda di adattarsi ai notevoli mutamenti dell’ambiente interno ed esterno;  flessibilità strutturale, legata alla capacità della struttura aziendale di adeguarsi al cambiamento di strategia;  flessibilità operativa, legata alla capacità della gestione di adattare le risorse alle variazioni della strategia e della struttura.

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La produzione tende a “dematerializzarsi”, nel senso che non è rivolta solo alla produzione di beni fisici, ma anche a beni “informazione” e più ci si muove verso un’economia di natura immateriale, più le organizzazioni modificano i propri modelli strategici e strutturali spostando il proprio focus sulla creazione e l’impiego di risorse intangibili ed intellettuali, cercando di ottenere l’accesso agli asset di natura fisica e tangibile attraverso lo sviluppo di relazioni con una rete di soggetti esterni, mediante un coordinamento non gerarchico di attività svolte da realtà organizzative, talora anche operanti a grandi distanze geografiche ma che condividono l’appartenenza ad una stessa catena del valore. Si può parlare di un processo di virtualizzazione in base al quale il core strategico dell’azienda industriale moderna si sta significativamente modificando, arrivando in casi estremi ad interessare la sola gestione degli aspetti commerciali. Tradizionalmente, rispetto ad una determinata attività si è presentata e si presenta, in effetti, per l’organizzazione l’alternativa make or buy. Secondo l’ipotesi “make” la stessa attività viene svolta internamente con proprio personale e con la propria struttura e ciò consente un controllo diretto sulla stessa; questa soluzione è preferibile per attività rientranti nel “core business” dell’organizzazione. Secondo l’ipotesi “buy” l’organizzazione decide di far svolgere all’esterno una data attività, attivando con la controparte un rapporto di natura esclusivamente contrattuale (la transazione assume la forma di un contratto che ne regola l’esecuzione); in questo caso i costi di uso del mercato si riferiscono ai costi connessi con la ricerca dell’organizzazione esterna, con la stipula del contratto, con il pagamento del corrispettivo, con i problemi eventualmente collegati alle controversie sull’applicazione delle clausole contrattuali, ecc. L’outsourcing si presenta come una soluzione intermedia, come una particolare modalità di esternalizzazione che si fonda, appunto, sulla costituzione, al di là del rapporto contrattuale, di un rapporto di partnership tra l’organizzazione che esternalizza e quella alla quale l’attività è affidata, coinvolgendo l’organizzazione esterna in misura di gran lunga maggiore di quanto avvenga in caso di “semplice” acquisto dall’esterno (Ballarin & Gervasi, 2006). Negli anni ’70 si è parlato di decentramento produttivo, con l’esternalizzazione di fasi del processo mediante l’attivazione di rapporti contrattuali di subfornitura indirizzati prevalentemente ad imprese locali. Negli anni seguenti il fenomeno è cresciuto sia in volume che in qualità, superando le dimensioni territoriali locali per estendersi verso paesi in via di sviluppo nei quali i costi, in particolare del lavoro, sono inferiori rispetto a quelli del nostro paese. La scelta di esternalizzare, prima intesa come decentramento tattico per razionalizzare l’attività produttiva, si è trasformata in una soluzione collegata a precise scelte strategiche che hanno un forte impatto sulla struttura. 180

In tale ottica «l’outsourcing è una particolare modalità di esternalizzazione che ha per oggetto l’enucleazione di intere aree di attività, strategiche e non, e che si fonda sulla costituzione di partnership tra l’azienda che esternalizza e un’azienda già presente sul mercato in qualità di specialista» (Arcari, 1996). Analizzando tale definizione è possibile cogliere i principali aspetti dello stesso outsourcing:  viene definito il possibile oggetto dell’outsourcing: attività, processi, componenti in sostanza della catena del valore dell’azienda;  viene identificata la valenza economico-strategica del processo: l’outsourcer a cui viene affidata l’attività è riconosciuto come un operatore in grado di soddisfare i bisogni e le aspettative dell’azienda;  viene dato risalto alla circostanza che i due soggetti interessati sono legati da una stabilità e continuità di rapporti, mediante le più opportune forme contrattuali, al fine di gestire con efficacia il processo di fornitura;  viene attribuita particolare importanza all’outsourcer come interfaccia operativa: oltre alla responsabilità oggettiva nell’eseguire le prestazioni richieste, il rapporto con il cliente azienda può anche esplicitarsi mediante trasferimenti di risorse umane ed impiantistiche. L’outsourcing può essere esplicitato mediante diversi aspetti che possono essere ricondotte a tre dimensioni strettamente interconnesse tra loro e cioè (Berta, et al., 2007):  la forma di esternalizzazione. Una strategia di outsourcing può concretarsi o con l’affidamento delle attività ad una realtà esterna che già svolge tali funzioni, oppure con la costituzione di unità aziendali ad hoc, dotate di autonomia giuridica, che hanno come obiettivo quello di realizzare ciò che in precedenza l’azienda faceva all’interno: è questo il caso di un’azienda o di più aziende facenti parte di uno stesso gruppo che decide di enucleare un’attività costituendo un’apposita società outsourcer, controllata dal gruppo e destinata ad operare a favore delle aziende facenti parte dello stesso gruppo, ciò anche se tale soluzione potrebbe evolversi nel momento in cui le competenze e le capacità acquisite dalla società outsourcer potrebbero essere utilizzare per entrare sul mercato esterno e fornire il servizio o il prodotto non solo alle società del gruppo ma anche ad altri clienti;  l’oggetto del trasferimento. In considerazione delle competenze distintive aziendali, l’outsourcing può interessare parti o componenti del processo produttivo, intere fasi dello stesso, attività di supporto, processi di natura interfunzionale, ecc.;  l’ampiezza delle condivisioni tra azienda ed outsourcer. Una strategia di outsourcing può sottendere diverse modalità di legame con il partner-fornitore del servizio o del prodotto che si decide di esternalizzare; in effetti, il rappor181

to può risultare o duraturo, dove i reciproci interessi delle parti coinvolte si concretizzano in forme di collaborazione di lungo periodo con la condivisione di obiettivi economici e strategici, oppure contingenti o occasionali, dove la relazione è finalizzata a risolvere specifiche esigenze, collegate ad attività a bassa complessità e per fini quasi esclusivamente di contenimento dei costi (Gilotto & Calì, 2004). Per un’organizzazione è importante individuare quelli che vengono denominati processi “core” e “non core”. In genere i processi “core” presentano le caratteristiche di «essere critici per la performance del business, di creare vantaggio per il business corrente o per uno potenziale e di essere in grado di guidare crescite future e processi di rinnovamento. Tutti gli altri processi possono essere considerati non primari ed essere assegnati in outsourcing. Ad esempio, per la fabbricazione del SUV Cayenne, Porsche ha deciso di mantenere al proprio interno processi critici quali la produzione del motore e della trasmissione e l’assemblaggio finale, che contribuiscono a circa il 10% del veicolo finito, in quanto core e di ricorrere all’outsourcing per tutte le attività restanti» (Anand & Daft, 2008, p. 75). Il fenomeno dell’outsourcing può essere classificato proprio in base alla vicinanza delle attività da esternalizzare al core business e alla complessità gestionale di tali attività (Ricciardi, 2001). Il primo criterio da considerare è la vicinanza delle attività, oggetto di esternalizzazione, al core business dell’azienda. Esistono in ogni organizzazione processi che caratterizzano il business ed altri che possono essere definiti di supporto. Chiaramente non esiste una rigida e precisa separazione tra le due categorie, dal momento che le attività che per un’azienda possono essere di supporto, in un’altra possono costituire parte integrante del core business (Valentini, 2004). L’altro parametro di riferimento è il grado di complessità gestionale delle attività da cedere all’esterno: la complessità cresce all’aumentare del numero di attività che compongono un processo e all’aumentare del numero di interazioni e di relazioni che interessano le attività dello stesso processo (Comes, 2005). Combinando queste due dimensioni, vicinanza al core business e complessità, si possono individuare quattro diverse tipologie di outsourcing (Ricciardi, 2001):  outsourcing tradizionale: si tratta di attività distanti dal core business e con una bassa complessità; si tratta tipicamente di attività di supporto, come l’amministrazione delle paghe, i servizi di sicurezza, tutte le attività connesse ai servizi comuni, ecc.; la relazione che si crea con l’organizzazione esterna non differisce significativamente dai tradizionali rapporti di subfornitura: 182

non è necessario sviluppare una cooperazione strategica e le relazioni tra le parti sono circoscritte ad un orizzonte temporale di breve-medio periodo, limitandosi a svolgere specifiche attività a basso valore aggiunto; le modalità di esternalizzazione più utilizzabili potrebbero essere il ricorso a società di servizi che già forniscono prestazioni ad altri clienti e che si sforzano continuamente di migliorarsi garantendo servizi di migliore qualità a costi più bassi rispetto alla gestione interna;  outsourcing tattico: si tratta di attività ancora distanti dal core business ma caratterizzate da un certo grado di complessità gestionale, per le quali si presentano finalità di carattere economico come la riduzione dei costi fissi e la loro sostituzione con costi variabili: si pensi, ad esempio, alle attività di formazione del personale o di sviluppo dei sistemi informativi; in genere si viene a generare una significativa interazione tra le parti interessate sotto l’aspetto operativo, sia in sede di definizione delle caratteristiche del servizio reso, sia in fase di controllo e coordinamento dell’attività realizzata dall’outsourcer; nonostante i più stretti rapporti che intercorrono tra le parti, non si manifestano in genere forme di condivisione strategica;  outsourcing di soluzione: riguarda attività caratterizzate da bassa complessità gestionale ma che hanno per oggetto attività vicine al core business: si pensi, ad esempio, alla cessione all’esterno dell’attività di internal auditing; l’attività richiede una durata della relazione di medio-lungo periodo, un adeguato livello di fiducia, la condivisione di obiettivi e una stretta interazione tra le parti in tutte le fasi di svolgimento della relazione;  outsourcing strategico: si tratta di attività vicine al core business e con alta complessità gestionale e che possono essere esternalizzate allo scopo di focalizzare le risorse sulle proprie core competencies; la necessità di contrastare gli effetti dell’incertezza nelle sue diverse componenti, induce le parti a superare l’ottica dell’outsourcing tradizionale informata alla sostituibilità della controparte, per sviluppare rapporti di natura collaborativa caratterizzati da una reciproca interdipendenza, da un’ottica in genere di medio-lungo periodo; nell’outsourcing strategico si sviluppa una serie di relazioni orizzontali costituite da flussi di informazioni, transazioni e collegamenti durevoli tra attori che possiedono e utilizzano risorse complementari; non si instaura un solo rapporto di fornitura ma una relazione di partnership, caratterizzata da reciproca fiducia, fattiva collaborazione e non si ricorrerà soltanto al prezzo come unica variabile discriminante per la scelta del partner; si vengono a creare delle alleanze che prevedono investimenti congiunti, in grado di coinvolgere gli attori interessati sul piano della co-progettazione e della co-produzione di beni o servizi (Ricciardi & Pastore, 2010). Non a caso alcune organizzazioni distinguono i loro fornitori in critici e non 183

critici a seconda dell’importanza relativa del loro contributo, ricercando per i primi relazioni più collaborative mentre per i secondi i rapporti restano più legati agli aspetti contrattuali. Riguardo le aree di attività oggetto delle scelte di outsourcing, le commodity sono le prime oggetto di questo tipo di esternalizzazione, cioè attività ritenute non strategiche. In questi casi l’obiettivo primario perseguito è quello della riduzione dei costi e gli ambiti di applicazione dell’esternalizzazione riguardano, come già ricordato, attività lontane dal core business. In seguito le attività che possono essere esternalizzate si sono progressivamente estese anche ad attività più complesse, più vicine a quelle tipiche dell’organizzazione, rispondendo a motivazioni di carattere strategico: necessità di concentrare le risorse nel core business per migliorare le performances delle prestazioni, recuperare l’efficienza nelle attività a maggior valore aggiunto, rendere più flessibile la struttura dei costi. Aree di attività interessate spaziano dall’Information Technology, alla logistica, al marketing, alla gestione delle risorse umane, all’amministrazione. Tra i motivi che portano alla scelta di esternalizzare possiamo ricordare una mancanza di professionalità specifiche all’interno dell’organizzazione nonché i vantaggi in termini di costi (Pastore, 2011): il ricorso all’outsourcing consente, da un lato, di modificare la struttura dei costi dell’organizzazione aumentando l’incidenza di quelli variabili rispetto a quelli fissi e, dall’altro, grazie alle competenze proprie dell’organizzazione esterna, di ridurre il costo della stessa attività rispetto all’ipotesi di un suo svolgimento interno. Le maggiori capacità ed esperienze del partner esterno, maturate anche grazie ai rapporti con altre organizzazioni, possono consentire, altresì, un maggior livello qualitativo della medesima attività, la possibilità di accedere a soluzioni tecniche che l’organizzazione potrebbe non possedere o che sarebbero difficili da riprodurre internamente. Ulteriori vantaggi sono rinvenibili in un maggior livello di flessibilità della soluzione organizzativa adottata, in una più efficiente allocazione delle risorse sul citato “core business” (orientare le risorse in quelle aree che offrono maggiori vantaggi competitivi, cioè focalizzare l’attenzione su “ciò che si sa fare meglio”, recuperando efficienza nei processi meno critici nei quali l’organizzazione non intende investire le proprie risorse) (Maino, 2008). Il vantaggio competitivo di un’azienda sembra dipendere sempre più, così come è emerso dallo studio di numerosi casi di successo, non solo dal modo in cui ci si pone nei confronti del mercato e dei concorrenti ma anche dalla disponibilità di competenze distintive che le altre imprese non hanno e che difficilmente riescono ad acquisire in tempi brevi e a costi accessibili. Il successo di un’azienda si fonda, pertanto, su competenze sviluppate in maniera superiore a quelle dei concorrenti, in grado di differenziarla e che garantiscono un vantaggio competitivo su cui occorre investire: quanto più elevato è il divario esistente tra le competenze del184

l’azienda rispetto a quelle dei concorrenti tanto più difficile sarà per questi ultimi annullare la posizione di vantaggio di quell’impresa; ne consegue che ogni organizzazione dovrebbe essere indotta ad individuare ed analizzare le proprie core competence ponendo al centro delle proprie strategie quelle più difficilmente imitabili. Ulteriori vantaggi sono di natura finanziaria per il recupero di risorse liberate grazie alla dimissione di investimenti poiché la cessione all’esterno di determinate attività libera risorse per impieghi alternativi, determina la riduzione del fabbisogno finanziario e corrispondentemente favorisce il ridimensionamento degli oneri relativi all’acquisizione delle fonti di finanziamento. Si può parlare altresì di vantaggi di natura sinergica, legati alla condivisione con i partner di competenze, capacità e anche del rischio imprenditoriale sulle attività oggetto dell’esternalizzazione che si presentano nella misura in cui tra le parti si instaurano veri rapporti di partnership, basati su intensi rapporti di fiducia relazionali, tali da riuscire ad innescare un circolo virtuoso per lo sviluppo comune di iniziative innovative con la condivisione di rischi e costi. Gli attori interessati e che partecipano a tali iniziative potranno vedere ampliati i limiti delle proprie capacità innovative e non saranno costrette a farsi totalmente carico di tutti i costi ed i rischi relativi ai risultati dei programmi di ricerca e sviluppo (Tracogna, 2004). Una volta individuate le attività giudicate enucleabili dall’organizzazione senza che essa incorra nel rischio di compromettere le competenze distintive in suo possesso, si tratta di stabilire come selezionare le organizzazioni partner: occorre definire una griglia di parametri, non basati esclusivamente su una valutazione di convenienza economica, ma che prendono in esame elementi quali la solidità economico-finanziaria, il “patrimonio” di conoscenze possedute, le capacità innovative, le capacità di controllare, garantire e migliorare i propri livelli qualitativi, ecc. (Ventricelli, 2004). Nel momento in cui il rapporto è in atto diventa necessario, per un migliore livello di governo delle relazioni, sviluppare interazioni, scambi di informazioni, momenti di analisi congiunta, al fine di consolidare una relazione fiduciaria, destinata a perdurare nel tempo (Farchione, 2006). Si tratterà poi di attivare adeguati momenti di controllo sia sulle modalità operative di svolgimento delle prestazioni, in termini di beni o di servizi, e sia, periodicamente, sull’affidabilità di natura gestionale, strategica ed organizzativa del partner esterno. Ciò per evitare anche i rischi propri delle scelte di esternalizzazione riconducibili a:  difficile quantificazione dei costi, soprattutto quelli connessi alla ricerca e selezione del partner, al coordinamento dei diversi contributi, al controllo delle prestazioni, anche per la presenza di asimmetrie informative che si generano tra fornitore e cliente soprattutto quando è lo stesso fornitore ad avere accesso a determinate informazioni che è restio a comunicare all’acquirente; 185

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poiché il successo dell’outsourcing dipende in larga misura dalla disponibilità ad instaurare rapporti di partnership tra cliente e fornitore, la presenza di queste asimmetrie informative, se non colmate durante le fasi di sviluppo del rapporto, può incrinare le relazioni di cooperazione tra le parti, tanto da poter compromettere la buona riuscita dell’iniziativa (si può ipotizzare la creazione di appositi team composti da soggetti appartenenti alle organizzazioni coinvolte, con il compito non solo di monitorare i risultati conseguiti e valutarli in base agli obiettivi prefissati, ma anche di prevenire e risolvere eventuali situazioni conflittuali tra le organizzazioni interessate); scarsa affidabilità dello stesso fornitore, considerando le tre diverse dimensioni della sua prestazione: tempi, costi e qualità; rischio che l’attività svolta non sia coerente con le esigenze dell’organizzazione committente, ciò che determina, come ricordato, la necessità di gestire adeguatamente l’interfaccia con il fornitore: emerge l’esigenza di interazioni nel senso che il committente deve mettere al corrente il partner delle sue reali esigenze in modo tale che lo stesso possa fornire l’attività richiesta nella maniera più efficace ed efficiente possibile; rischio di perdita di competenze interne relativamente all’attività esternalizzata con la conseguente difficoltà di attuare un’eventuale decisione di reinternalizzarla: quanto più l’attività ceduta all’esterno è caratterizzata da una gestione operativa tecnologicamente avanzata, tanto più difficoltoso ed oneroso risulterà il ripristino delle capacità organizzative necessarie per riavviarla all’interno dell’azienda; rischi connessi alle resistenze che l’operazione di esternalizzazione può incontrare all’interno della struttura gerarchica aziendale nonché da parte delle rappresentative sindacali; lo scorporo di un’attività può essere percepito come un atto di sfiducia soprattutto nei confronti dei dipendenti addetti ai processi che si intende esternalizzare; questo senso di “disagio” rischia di generare costi aggiuntivi difficilmente quantificabili e allo stesso tempo non preventivati ma che possono anche compromettere la convenienza economica di tutta l’operazione; per ridurre tali rischi risulta necessario spiegare al personale le motivazioni che hanno reso necessario il ricorso all’outsourcing nonché le conseguenze che l’operazione determinerà a livello organizzativo; in questa ottica appare opportuno predisporre in anticipo anche adeguati sistemi per incentivare i dipendenti ad accettare i cambiamenti e prevedere, di intesa con le rappresentanze sindacali, idonee misure di ricollocamento (Virtuani, 2005).

Le considerazioni svolte in merito all’opzione di outsourcing come scelta strategica implica, in ogni caso, una verifica del suo allineamento con la visione del futuro della stessa organizzazione, l’individuazione dei target potenziali di 186

opportunità che possono emergere, Così come dal processo di determinazione della direzione strategica e dalla definizioni degli obiettivi dell’azienda discendono le scelte organizzative conseguenti, anche nel processo di outsourcing la fase di architettura del progetto consiste nella definizione di finalità ed obiettivi che l’azienda si propone di ottenere e nella successiva organizzazione del medesimo progetto per quanto riguarda le sue diverse fasi: una buona fase di impostazione del disegno strategico del progetto può portare a più elevate probabilità di ridurre i rischi, cogliere opportunità, benefici e risultati di successo (De Paolis, 2001). Le particolari condizioni di mercato richiedono, in ogni caso, alle organizzazioni di ricercare una “competitività strutturale”, ove «la competitività è intesa come la capacità di raggiungere e mantenere nel tempo prestazioni competitive, realizzando in modo crescente efficienza interna e valore per i clienti; strutturale significa anche che tale competitività deve derivare dalle caratteristiche intrinseche della forma d’impresa e dalle risorse che essa è capace di mobilitare permanentemente, non solo quindi da un contingente programma di ristrutturazioni e/o di riposizionamento sul mercato» (Auteri, 2009, pp. 365-366). In questo contesto si è venuto sviluppando anche il concetto di network costituito da un sistema di organizzazioni, ognuna “eccellente” nel proprio campo di attività e focalizzata sulle proprie competenze distintive, capace di assicurare un livello di efficienza e di efficacia superiore alla somma dei livelli espressi dalla somma dei singoli componenti, rileggendo in chiave esterna il concetto di “sinergia”. Le singole organizzazioni (non solo fornitori ma anche altre organizzazioni collegate, private e non) si presentano come i “nodi” di una rete che sono sistemi vitali, autonomi, capaci di definire proprie strategie e dotati di proprie soluzioni organizzative adeguate per perseguire i loro obiettivi, ma che, al tempo stesso, sono legati tra loro da relazioni di varia natura (giuridiche, economiche, strategiche). Appare importante sottolineare la necessità di una volontà convinta e consapevole di adottare modalità di funzionamento organizzativo coerenti e sempre più in sintonia con il modello di “network”, caratterizzato da maggiore complessità rispetto ai modelli organizzativi più tradizionali (Auteri, 2009). Il modello del network è centrato sul citato concetto di labilità dei confini organizzativi. Come è noto i modelli tradizionali definiscono l’ambiente come quell’insieme di fattori che, pur essendo esterni all’organizzazione, ne influenzano le sorti. Secondo l’approccio della rete, invece, i confini fra ambiente e organizzazione si fanno sfumati poiché le relazioni con altre organizzazioni divengono altrettanto cruciali quanto l’assetto organizzativo interno per il conseguimento delle performance. Ne consegue che lo sviluppo della dimensione aziendale visto in termini di fatturato e di redditività non deve passare necessa187

riamente attraverso processi di crescita e complessificazione organizzativa interna. Quindi l’azienda si limita ad investire internamente nell’area delle proprie competenze chiave mentre le restanti attività sono gestite tramite rapporti di coproduzione, commitment ed alleanze con partner aventi asset complementari. L’analisi delle relazioni interorganizzative mediante la costruzione e la gestione dei network accetta l’ipotesi che il comportamento relazionale delle organizzazioni sia condizionato dall’insieme delle relazioni con altre organizzazioni che costituiscono il contesto entro il quale l’organizzazione stessa è collocata. Lo stesso network è, quindi, un sistema di organizzazioni diverse le cui attività sono coordinate in base ad una serie di accordi, invece che da una gerarchia di potere formale. I “confini” del network possono essere definiti dai limiti della capacità che l’organizzazione che ha promosso lo stesso ha di accedere alle risorse che le sono necessarie e di influenzare il comportamento di altre organizzazioni con cui ha interesse a cooperare (Del Chiappa, 2004). La necessità di un maggior orientamento al mercato e ai clienti rende sempre più necessario riflettere sull’adozione di modelli organizzativi caratterizzati da un minor ricorso a modalità operative rigidamente formalizzate e, invece, dalla definizione di un sistema reticolare di organizzazioni, ciascuna dotata di competenze distintive ed interagente con le altre. Si tratta di far proprio un approccio in base al quale le diverse organizzazioni lavorano assieme e condividono informazioni e conoscenze (Lomi, 1991). Se si prendono in considerazione i principali obiettivi che le organizzazioni cercano di perseguire con la creazione di network questi sono essenzialmente riconducibili:  «alla necessità/volontà di fronteggiare livelli di incertezza, opportunismo, ambiguità e rischio insiti in relazioni di mercato;  alla necessità/volontà di garantirsi l’accesso a risorse critiche (in primo luogo knowledge based) che non sia possibile od opportuno sviluppare internamente;  all’opportunità di ridurre costi e tempi dell’accesso, del trasferimento e dell’appropriabilità delle risorse stesse;  all’opportunità di sviluppare congiuntamente nuova conoscenza o di ricombinare conoscenza esistente;  alla necessità/volontà di entrare in nuovi mercati o sviluppare nuovi business rispetto ai quali l’azione della singola impresa si dimostri inadeguata;  alla necessità/volontà di perseguire più elevati livelli di efficienza e/o di flessibilità produttiva;  all’opportunità di perseguire economie di scala, scopo, apprendimento (learning by imitating, by interacting, by cooperating)» (Bonti & Cori, 2006, p. 168).

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Così, ad esempio, Nike «ha sviluppato un network molto complesso per produrre le sue scarpe. Al centro del network c’è la funzione interna di design dei prodotti e ricerca, che ha sede nell’Oregon, in cui gli stilisti sviluppano continue innovazioni nel design delle calzature sportive. Quasi tutte le altre specializzazioni funzionali di cui l’azienda ha bisogno per produrre e commercializzare le sue scarpe sono state affidate in outsourcing ad altre imprese sparse in tutto il mondo. Come fa Nike a gestire i rapporti fra tutte le imprese del suo network? Principalmente attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie IT. I suoi stilisti usano i sistemi CAD per disegnare le scarpe e tutte le informazioni relative ai nuovi prodotti, comprese le specifiche di produzione, vengono immagazzinate in formato digitale. Quando gli stilisti hanno portato a termine il proprio lavoro, inviano tutto il materiale relativo ai nuovi prodotti tramite posta elettronica al network dei fornitori e produttori dell’Asia sudorientale che lavorano per Nike. Per esempio, può succedere che le specifiche relative al design di una nuova suola vengano inviate a un fornitore di Taiwan e quelle relative alla tomaia di pelle a un fornitore della Malesia. Successivamente questi fornitori producono le parti della scarpa e le spediscono a un produttore cinese con cui Nike ha stretto un accordo per il montaggio finale. Le scarpe vengono poi spedite dalla Cina ai distributori sparsi in tutto il mondo e commercializzate da un’organizzazione con cui Nike ha stretto un’alleanza (contratto a lungo termine)» (Jones, 2012, pp. 161-162). La possibilità per un’organizzazione di trarre dalla partecipazione ad un network un beneficio in termini di creazione di valore economico è determinata in primo luogo dalle risorse, dalle competenze acquisibili dall’esterno per la produzione di vantaggi competitivi. In questo senso divengono centrali:  le caratteristiche delle organizzazioni con le quali si entra in relazione o con le quali potrebbe entrare in relazione;  le risorse in termini di competenze, eccellenze nei processi che, in senso ampio, tali organizzazioni possono apportare;  la possibilità che tali elementi vadano ad incrementare l’intensità (in termini differenziali rispetto ai competitor), l’ampiezza (in termini di trasversalità tra i business dell’organizzazione) o la sostenibilità (in termini di durabilità nel tempo) del vantaggio competitivo. Questo modello richiede nuovi modi di operare, nuove competenze, la capacità di creare contesti più ricchi di feedback, di saper reagire con rapidità e flessibilità per rispondere, in modo sinergico, ai cambiamenti ambientali, di saper apprendere ed innovare a livello interorganizzativo. In altri termini, quindi, il network è una rete di organizzazioni legate tra loro da peculiari relazioni di interdipendenza e da particolari meccanismi di coordinamento. 189

Così, a titolo esemplificativo, si devono sviluppare meccanismi di coordinamento e controllo a livello interorganizzativo, quali:  meccanismi di coordinamento di natura organizzativa, come la creazione di comitati (ad esempio Board di dirigenti che si riuniscono periodicamente), di team per affrontare le diverse problematiche che si possono presentare nello svolgimento dei rapporti di collaborazione;  meccanismi di coordinamento di natura informatica (sviluppo di sistemi informativi interorganizzativi di cui si è già fatto cenno), in quanto tale forma organizzativa richiede, per il suo stesso funzionamento, notevoli flussi comunicativi;  meccanismi di coordinamento di natura interpersonale, basati su contatti diretti tra membri delle diverse organizzazioni partner;  meccanismi di controllo volti ad evidenziare, da parte dell’organizzazione che ha promosso lo stesso network, sia eventuali deviazioni dagli obiettivi predefiniti, adottando eventuali azioni correttive, e sia gli andamenti gestionali delle diverse organizzazioni interessate. Il network, quindi, si presenta come una forma interorganizzativa caratterizzata dalla contemporanea presenza di una pluralità di meccanismi di coordinamento ognuno dei quali, in qualche misura, testimonia la coesistenza di diverse relazioni d’interdipendenza. Si può ritenere che maggiore è il grado di complessità delle attività di creazione del valore che bisogna realizzare per produrre e commercializzare determinati beni o servizi, più complessi diventano i sistemi di coordinamento e controllo per evitare, ad esempio, che le informazioni trasmesse siano utilizzate in modo improprio o, addirittura, cedute a concorrenti. Una simile soluzione può consentire, in ogni caso, all’organizzazione che la promuove una maggiore capacità di esplorare e cogliere opportunità di mercato favorevoli (nel momento in cui tali opportunità dovessero emergere è possibile variare in tempi rapidi la configurazione del network per meglio rispondere al cambiamento), di trovare partner in grado di svolgere una determinata attività in maniera affidabile e a un costo inferiore (se un partner non riesce a soddisfare gli standard previsti, potrà essere sostituito con uno nuovo), di rendere attuabile una struttura dei costi più flessibile ed adattabile alle variazioni del mercato, di mantenere, al suo interno, una soluzione organizzativa più “snella”, di diffondere asset organizzativi tra le diverse realtà partner contribuendo a migliorare i risultati complessivi ottenuti, di variare e plasmare i propri “confini” in funzione delle opportunità che si possono presentare, di favorire lo sviluppo di competenze organizzative “laterali”, cioè legate alla capacità di lavorare con persone appartenenti ad organizzazioni diverse, in team orizzontali con forti doti negoziali. 190

Tutto ciò viene a confermare l’importanza acquisita dalla capacità di gestire opportunamente le relazioni non solo all’interno della stessa organizzazione ma anche a livello interorganizzativo. Avere una molteplicità di contatti può far generare stimoli nuovi e diversi tra loro tali da, una volta combinati insieme, generare l’innovazione. Driver dell’innovazione stessa possono diventare, in questa logica, le relazioni con clienti, fornitori, concorrenti, produttori di beni complementari, università, altri enti di ricerca pubblici e privati. Al di là della possibilità che le innovazioni originano direttamente dall’interno dell’organizzazione (secondo la logica del cosiddetto citato modello di “closed innovation”), emergono le capacità di entrare in contatto con idee potenzialmente innovative e di cogliere /selezionare le stesse. Si richiama, in questo senso, il concetto di “open innovation”, in cui i confini dell’organizzazione sono, appunto, sempre più “porosi” e fanno penetrare al suo interno idee innovative. In un sistema di “open innovation” le organizzazioni protagoniste dei circuiti di innovazione condividono le conoscenze creando un network, con lo scopo di tradurre gli sforzi individuali compiuti in reali applicazioni produttive da parte degli attori della rete. La collaborazione rappresenta, quindi, il motore di sviluppo del modello: le relazioni di scambio permettono l’acquisizione, l’elaborazione e l’utilizzo delle nuove conoscenze, riducendo i rischi connessi agli investimenti delle singole organizzazioni e, quindi, i conseguenti costi di gestione. A causa della rapidità con cui avanza l’innovazione, le stesse organizzazioni non dispongono del tempo congruo per sviluppare internamente le competenze già presidiate e al tempo stesso ampliare lo spettro delle capacità e delle competenze necessarie a mantenere il vantaggio competitivo. Al fine di superare efficacemente tale ostacolo, le organizzazioni possono decidere di perseguire strategie relazionali attraverso un’integrazione delle proprie competenze con quelle anche dei propri competitor. Ciò, se da un lato sembra confermare il fatto che il co-sviluppo di competenze è diventato una delle finalità privilegiate nelle relazioni tra diverse organizzazioni, resta un certo rischio relativo al pericolo di assorbimento di conoscenza da parte di un partner concorrente.

3.4. Analisi di alcuni fattori critici che condizionano l’organizzazione del lavoro L’attuale situazione economica del nostro paese, diretta conseguenza di uno stato di crisi a livello mondiale, non può non avere significative ripercussioni in generale su tutte le aziende ed in particolare sull’esistenza di molte piccole imprese, che costituiscono la quasi totalità del nostro tessuto produttivo, più sensi191

bili rispetto a tale situazione per le loro caratteristiche economico-finanziarie. Al di là, comunque, di rigide classificazioni dimensionali 2, l’attenzione di questo paragrafo viene a concentrarsi, proprio per l’argomento trattato, soprattutto su realtà aziendali di medio-grandi dimensioni. Per queste ultime, nel campo del lavoro umano il tema organizzativo assume, così come del resto ha sempre assunto, un’elevata importanza tattica e strategica in ordine alle condizioni sociali, politiche, tecniche, economiche e contingenti del contesto di riferimento. La concezione del lavoro è stata soggetta ai diversi cambiamenti che, di pari passo con quelli economici e sociali, si sono susseguiti nel tempo. Alla connotazione pratica dell’attività lavorativa come mezzo vitale di sostentamento si è aggiunta con forte evidenza una componente psicologica e sociale. Il lavoro acquisisce un significato pluridimensionale: strumento in grado di garantire un adeguato livello di esistenza, di autorealizzazione, di produzione di beni con e per gli altri, di socializzazione con altri soggetti. Come tale non è in genere un’attività routinaria, non consiste nel fornire risposte identiche a stimoli ripetuti, determina dispendio di energie fisiche, mentali, emozionali, si basa sui rapporti che si creano tra persone ma anche tra il soggetto e gli oggetti di lavoro o le informazioni che deve gestire. Ripercorrendo, in maniera puntuale l’evoluzione che ha interessato nel tempo le forme di organizzazione del lavoro, si cercherà di delineare come le stesse si concretino attualmente alla luce di una “strumentazione” tecnico-produttiva che non ha precedenti storici e che, vieppiù, è destinata a svilupparsi verso soluzioni sempre più avanzate. Ciò dopo aver precisato che per organizzazione del lavoro si intende la modalità di svolgimento delle attività lavorative con l’obiettivo di valorizzare al meglio i diversi fattori produttivi con particolare riferimento al personale e di raggiungere livelli qualitativi delle stesse attività capaci di soddisfare le aspettative dei clienti. La disamina dei diversi aspetti collegati all’organizzazione del lavoro non può non tener conto delle differenziazioni dimensionali delle aziende, passando, come ricordato, da realtà di contenute dimensioni, dove prevalgono elementi di 2

Va precisato, in ogni caso, che il concetto di dimensione non è certamente ascrivibile solo al numero dei dipendenti, anche facendo riferimento alle classificazioni riconosciute a livello europeo per delimitare i confini tra microimprese, piccole, medie e grandi imprese. In effetti, appare evidente l’influenza del settore di riferimento nel quale operano le aziende. Molti sono gli esempi nel nostro paese, come nel settore conciario, di realtà produttive che, pur avendo un limitato numero di dipendenti, sono da considerarsi imprese di grandi dimensioni valutando la loro posizione in un mercato ormai globalizzato. A livello normativo distinzioni in termini di numero di dipendenti sono richiamate essenzialmente per stabilire il limite di inclusione nel campo di applicazione di singole specifiche norme. Resta il fatto che tale impostazione numerica non è in grado, da un punto di vista economico-aziendale, di esprimere il concetto di dimensione d’impresa.

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informalità con i relativi vantaggi (clima collaborativo) e limiti (non precise definizioni delle attività da svolgere), fino ad esempio ad aziende multinazionali, presentandosi, in tale caso, le diverse ipotesi o che un’impresa italiana si trovi ad operare in paesi esteri, oppure che sia una multinazionale estera ad operare nel nostro paese (Giannini & Turini, 2013). Saranno, altresì, esaminati i rapporti di interdipendenza tra soluzioni organizzative adottate, studi sulla psicologia, sulla sociologia del lavoro, sull’ergonomia, sulla legislazione del lavoro e sulle relazioni sindacali. Tutto ciò nella convinzione che solo con un attento esame delle possibilità e dei limiti offerti da tali fattori si può perseguire l’obiettivo di progettare una soluzione, in termini appunto di organizzazione del lavoro, in grado di contemperare le relative esigenze. Del resto, l’azienda, per perseguire le sue finalità di sopravvivenza e di sviluppo, deve ricercare le migliori interazioni con tutti i propri stakeholder, quali il potere politico, i sindacati, la pubblica amministrazione, ecc. Gli elementi indicati, la cui elencazione ha un valore meramente espositivo, comunque, possono presentare aspetti in comune, nel senso che le cause dei condizionamenti sull’organizzazione del lavoro non possono essere in modo esclusivo attribuibili ad uno solo dei fattori indicati. Si parla di ricadute sull’organizzazione di uomini e mezzi in quanto mutazioni nei mezzi impiegati hanno dirette conseguenze sulle condizioni di lavoro, sotto il profilo dell’efficacia e dell’efficienza. In particolare le scelte adottate possono influire su una pluralità di dimensioni con conseguenze sia sui risultati organizzativi e sia sul benessere delle persone interessate:  “efficienza: scelte alternative di organizzazione del lavoro sono in grado di determinare effetti anche significativamente diversi in termini di produttività del lavoro e, quindi, di efficienza organizzativa;  qualità: l’organizzazione del lavoro determina anche le condizioni per supportare l’orientamento al miglioramento continuo: Ad esempio, per migliorare la qualità di un prodotto o servizio non basta vigilare affinché si evitino errori durante l’esecuzione dei compiti; è necessario che il modo in cui si svolge il lavoro metta in grado e incoraggi il lavoratore ad analizzare i compiti che svolge per capire come potrebbero essere migliorati, al fine di ridurre la probabilità futura di errori, l’incidenza di scarti;  flessibilità: l’organizzazione del lavoro influisce anche sul grado di flessibilità organizzativa, vale a dire la capacità di introdurre variazioni quali-quantitative. Ad esempio, variare il tipo e il volume di produzione può risultare più facile quando le persone sono abituate a svolgere mansioni che includono compiti diversi, perché ciò favorisce la polivalenza;  salute e sicurezza: la progettazione delle mansioni, degli strumenti e degli 193

spazi di lavoro determina anche il livello di sicurezza fisica e il rischio per la salute a cui esposti i titolari delle mansioni e, indirettamente, gli altri lavoratori che operano nello stesso luogo o in aree attigue, gli eventuali clienti/utenti presenti durante l’esecuzione della mansione (come nel caso di un paziente durante un intervento operatorio) o di quelli che faranno uso dei prodotti realizzati (come nel caso di un bambino che adopera un giocattolo montato in modo difettoso);  qualità della vita lavorativa: la progettazione di qualsiasi lavoro deve tener conto non solo degli effetti sulla sicurezza e sul benessere fisico del lavoratore ma anche sulla qualità della vita professionale in termini di interesse intrinseco, opportunità di crescita e sviluppo, livello di stress, qualità dei rapporti interpersonali” (Gabrielli & Profili, 2012, pp. 118-119). Nella disamina dell’evoluzione che ha interessato l’organizzazione del lavoro non possiamo fare astrazione dall’enucleare, sia pure in termini sintetici, come storicamente l’indicato percorso evolutivo delle forme di organizzazione del lavoro si è svolto, iniziando questa disamina dal contributo di Adam Smith che ha evidenziato per primo i vantaggi, in termini di efficacia e di efficienza, riconducibili al concetto di divisione del lavoro, cioè la scomposizione di un’attività complessa in più attività semplici con l’assegnazione della responsabilità della loro realizzazione ad attori diversi. La tesi fondamentale di Smith era che la ricchezza era prodotta dal lavoro e che, quindi, l’aumento della ricchezza dipendeva dall’aumento della forza produttiva, la quale a sua volta era una conseguenza della divisione del lavoro Più in particolare, Smith, considerando la produzione di spilli, evidenziò come tali vantaggi fossero conseguibili proprio suddividendo, tra i vari operai interessati, le diverse fasi di realizzazione dello stesso spillo. Appare evidente come la produzione di uno spillo non rappresenti, comunque, un esempio significativo di come oggi si articoli la produzione industriale con una miriade di prodotti che vengono realizzati con l’intervento, oltre che di persone, di tecnologie modernissime. L’opera di Smith segna, in ogni caso, l’inizio di uno studio scientifico dell’organizzazione del lavoro che verrà ripreso successivamente da Taylor e dagli studi dello Scientific Management. Facendo seguito al contributo di Smith, si è venuto, appunto, affermando il Taylorismo. Si può ricordare che Taylor applicò, in forma scientifica, le idee di Smith a livello di produzione industriale. L’aspetto nodale dell’impostazione tayloristica è di natura strettamente tecnica; si tratta di un’impostazione che ha avuto una notevole influenza sullo sviluppo delle attività industriali e che, per certe tipologie di prodotti, viene reiterata anche attualmente, sia pure con sostanziali differenziazioni (come, ad esem194

pio, con riferimento alle tematiche ergonomiche che saranno analizzate in seguito). Scopo precipuo del Taylorismo era quello di rendere più efficaci ed efficienti le prestazioni dei lavoratori. Tra i principi su cui si basa il Taylorismo si possono ricordare:  separazione netta tra progettazione ed esecuzione del lavoro, tra chi pensa e chi agisce;  utilizzo di un approccio scientifico per individuare metodi, strumenti e tempi per eseguire il lavoro più efficacemente, per cui la mansione dell’operaio deve essere progettata specificando in modo chiaro come il lavoro deve essere eseguito;  selezione scientifica delle persone più adatte per espletare ciascuna mansione così progettata e loro addestramento;  controllo che il lavoro dell’operaio sia svolto secondo i principi scientifici definiti e che i risultati raggiunti siano adeguati alle aspettative. In effetti, tutta l’organizzazione era basata su una rigida distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (divisione verticale del lavoro) e su una suddivisione in operazioni molto semplici dell’intero processo produttivo (divisione orizzontale del lavoro). Tutte le operazioni venivano cronometrate e misurate per far si che ogni cosa fosse fatta nel modo più rapido possibile, al punto che venivano persino studiati i singoli movimenti compiuti dagli operai, che si riteneva fossero motivati al lavoro non dal contenuto dello stesso ma solo dalla sua remunerazione. Si può affermare che i lavoratori dell’epoca venivano utilizzati coerentemente rispetto alle loro “caratteristiche” professionali e secondo le loro stesse aspirazioni (“più si produce, più si viene pagati”). I concetti elaborati da Taylor trovarono applicazione pratica nella produzione di massa al cui sviluppo contribuì in maniera decisiva Henry Ford. La fabbrica fordista riuscì a fornire al consumatore prodotti in grande quantità, standardizzati e a prezzi decisamente inferiori rispetto a quelli dei produttori artigianali. Ford fu il primo a vendere un auto progettata in funzione della produzione. Si trattava del famoso modello T, prodotto in un’unica versione di colore nero e risalente al 1908. I metodi produttivi di Ford, con lo sviluppo della catena di montaggio, si diffusero rapidamente nell’industria manifatturiera originando il cosiddetto “Fordismo” che è stato alla base de progresso economico sociale del XX secolo. Con tale termine ci si riferisce ad un approccio che riguarda non solo l’organizzazione della produzione ma anche gli obiettivi stessi dell’attività produttiva. I metodi fordisti possono essere considerati una combinazione di diversi 195

elementi, quali l’organizzazione produttiva tayloristica, la meccanizzazione spinta dei processi produttivi, la standardizzazione dei prodotti finiti 3. Sotto il profilo economico-sociale, si tratta di un’impostazione che, comunque, presenta diversi elementi di criticità che hanno portato ad un progressivo superamento dello stesso Fordismo. In effetti, gli ultimi decenni hanno visto una messa in discussione dei principi tayloristici di organizzazione del lavoro dominanti nella prima e per una parte della seconda metà del secolo scorso, in particolare non il principio in sé della divisione del lavoro ma le sue applicazioni sue più esasperate. L’impostazione tayloristica è stata così ampiamente rivisitata, in particolare con l’affermazione di filoni di studio di natura psico-sociale. Si tratta di studiosi che hanno cercato di coniugare metodi produttivi progressivamente sempre più evoluti con la psicologia e la sociologia del lavoro, analizzando tutte le possibili ricadute che possono riguardare la persona all’interno dell’organizzazione. Dagli anni sessanta si sono sviluppate le teorie motivazionaliste che si sono concentrate sull’importanza dell’individuo e sul tema della motivazione per il lavoro e al lavoro. In particolare, l’approccio motivazionale basa gli interventi sull’organizzazione del lavoro sulla constatazione che il lavoratore è portatore di bisogni che non appartengono solo alla sfera economica (bisogni primari), ma anche alla sfera emotiva e sociale (bisogni di appartenenza e di stima) e alla sfera dell’ego (autorealizzazione). I bisogni di ordine superiore, secondo quanto evidenziato da Maslow, si manifestano man mano che sono stati soddisfatti in misura accettabile quelli di ordine inferiore. Il sistema di incentivazione previsto dall’organizzazione deve così comprendere sia fattori correlati agli aspetti economici in grado di soddisfare i bisogni primari e sia fattori ricollegabili ai bisogni di ordine superiore, capaci di incidere positivamente sugli aspetti motivazionali, quali la varietà del lavoro, una maggiore responsabilizzazione, il riconoscimento di determinati gradi di autonomia. Ciò nella convinzione che i principi di massima specializzazione, di ripetitività, di limitazione dell’autonomia individuale tipici 3

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«Le attività specializzate consentono di accedere a: economie di specializzazione, rese possibili da macchine e unità produttive dedicate e quindi con rendimenti ottimali; economie di apprendimento, in quanto l’operatore, limitando il suo orientamento cognitivo a una gamma ridotta di operazioni, riesce a concentrare le sue attività e quindi ad apprendere più rapidamente attraverso la ripetizione; economie di scala produttive, in quanto gli impianti specializzati possono assumere dimensioni rilevanti e tali da conseguire costi unitari medi minori, anche grazie alla distribuzione dei costi fissi su una produzione maggiore; la scala dimensionale raggiungibile dipende però, oltre che da fattori tecnici, anche dalla dimensione del mercato» (Costa & Gubitta, 2008, p. 3).

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del taylorismo sono alla base di fenomeni di disaffezione, di demotivazione, di rifiuto del lavoro con alti tassi di assenteismo, di bassa produttività, di rigidità comportamentale. Tutto ciò ha comportato, dal punto di vista sociale, una concezione dello stesso lavoratore inserito in un contesto organizzativo che, sia pure in presenza delle tecnologie più moderne, assume, per così dire, un “volto più umano”. Tra le modalità volte ad affrontare le scelte in termini di organizzazione del lavoro si può ricordare anche quella che viene definita “neo-taylorismo”. Tale approccio è legato all’analisi dei costi specifici correlati ai diversi gradi di divisione del lavoro. Se, in effetti, ci sono dei costi che diminuiscono al ridursi del tempo di fase (come, ad esempio, i costi di addestramento del personale), altri possono presentare un andamento diverso (come, sempre a titolo esemplificativo, i costi connessi ai comportamenti dei soggetti, legati alla demotivazione per lavori eccessivamente parcellizzati, ripetitivi e monotoni e che si possono esprimere in termini di assenteismo, scarsa qualità, ecc.). In tale ottica, l’approccio “neo-taylorista” suggerisce una maggiore attenzione nella divisione del lavoro, proponendo, in particolare, di rivedere l’organizzazione, ad esempio, delle attività di montaggio, ancor oggi presenti, in larga scala, in processi produttivi seriali, ridefinendo i tempi di ciascuna fase lavorativa, i contenuti delle mansioni da svolgere senza, comunque, mettere in discussione la validità di tale configurazione produttiva. Del resto, la reazione dell’uomo al tipo di lavoro svolto è in grado di condizionare la ricerca di modificazioni organizzative. Così, l’atteggiamento negativo rispetto ad operazioni estremamente parcellizzate ha stimolato la ricerca di una maggiore “ricomposizione del lavoro” che può assumere varie forme, interessando attività, oltre che di esecuzione, anche di controllo, di manutenzione, ecc. In rapporto ai cambiamenti che si sono verificati a livello politico, sociale, economico e tecnologico, lo studio dei problemi connessi all’organizzazione del lavoro diviene più complesso dovendo considerare, in una visione sempre più sistemica, un mix di elementi frutto della continua interazione dell’organizzazione con l’ambiente di riferimento. Si pensi all’influenza esercitata dai cambiamenti che hanno interessato il mercato di sbocco (importanza della qualità dei beni e dei servizi, richiesta di prodotti sempre più differenziati, riduzione del ciclo di vita degli stessi prodotti, ampliamento delle aree di mercato, ecc.), il mercato del lavoro (grado di scolarizzazione della manodopera, diversità nella stratificazione sociale, scarsità di offerta per lavori dequalificati, ecc.), il settore delle tecnologie (livello di automazione, prevalenza delle operazioni indirette, come regolazione, controllo, manutenzione, su quelle esecutive dirette, ecc.). L’insieme di questi fattori ha reso necessario rivedere il funzionamento organizzativo dei sistemi produttivi 197

allo scopo di perseguire più elevati livelli di flessibilità, cercando di aumentare contemporaneamente la capacità di innovazione e quella di far fronte ai diversi fenomeni “perturbatori”, sia interni che esterni. In tale contesto lo stesso criterio gerarchico di svolgimento delle attività viene progressivamente rivisto, enfatizzando concetti quali la capacità di leadership delle figure con responsabilità direttive, la ricerca di forme di coordinamento (inteso come il fatto di riuscire a finalizzare i comportamenti verso gli obiettivi, favorendone in tal modo il raggiungimento) più “orizzontali”, la riprogettazione del contenuto delle mansioni (arricchimento delle stesse e maggiore responsabilizzazione del personale). In questo contesto è necessario richiamare, in primo luogo, il passaggio da una visione per funzioni alla citata visione per processi. Secondo la prima visione le attività vengono raggruppate in base ad una funzione comune. Così tutti i progettisti sono localizzati nella funzione progettazione, le diverse figure operative sono suddivise nei diversi reparti che dipendono gerarchicamente dal responsabile della produzione, e così via. Nell’ordine gerarchico emerge la figura del capo intermedio, trait d’union tra il vertice e la base, che ha tra i suoi compiti quelli di raccordare le direttive del vertice con le azioni operative e di controllare quanto svolto dagli operai. A fronte di questo sistema organizzativo che si può ritrovare in ogni tipo di azienda, anche indipendentemente dalla dimensione della stessa, si è venuta affermando una visione per processi, ove, come già ricordato, per processo si intende un insieme organizzato di attività tra loro correlate nella trasformazione di elementi in input in elementi in output che creano valore per i destinatari dello stesso processo. L’adozione di questo approccio cambia il modo in cui si pensa alle modalità stesse di svolgimento del lavoro. Anziché focalizzarsi su singole unità organizzative distinte in modo funzionale, l’obiettivo diventa quello di ottimizzare le sequenze di attività che “tagliano” orizzontalmente le unità funzionali per perseguire specifiche finalità gestionali enfatizzando la collaborazione all’interno della medesima organizzazione. Tale approccio implica, in sintesi, anche a livello operativo, a fronte dell’elevata parcellizzazione del lavoro propria del Fordismo, la ricerca di una maggiore integrazione tra le diverse fasi del processo produttivo. Un esempio al riguardo è fornito dallo sviluppo dei team di lavoro, costituiti da soggetti, in numero più o meno ampio, con competenze tra loro complementari e che, in precedenza, operavano in ambiti funzionali distinti, chiamati a realizzare un output generalmente complesso. Così, ad esempio, nel settore automobilistico, troviamo Work Team che, con il riconoscimento di specifici ambiti di discrezionalità decisionale, si occupano dei diversi aspetti, operativi e gestionali, legati ad una fase del processo di produzione. 198

Nel team di lavoro, nelle sue forme più evolute, può emergere un insieme di elementi che ne evidenziano le differenze rispetto a precedenti esperienze di lavori di gruppo all’interno dei processi di fabbricazione: la regolazione e la manutenzione di macchine, impianti ed attrezzature, il controllo e l’assicurazione qualità su quanto realizzato con la rilavorazione degli eventuali pezzi difettosi, le gestione delle relazioni con le unità a monte e a valle nell’ottica fornitorecliente interno, ecc., allo scopo di perseguire obiettivi aziendali in termini di qualità, tempi, produttività. Un esempio, al riguardo, negli stabilimenti Fiat, è fornito dalle Unità Tecnologiche Elementari (UTE). L’UTE sostituisce la tradizionale squadra con l’obiettivo di garantire risultati in termini di qualità, servizio, costi relativamente al segmento di processo assegnato. Le UTE sono paragonabili a tante unità produttive che interagiscono tra loro per migliorare continuamente le prestazioni e la qualità dei prodotti e dove i responsabili dell’ottimizzazione dei singoli micro-processi, sono gli stessi componenti che autocontrollano e autogestiscono la propria attività. Al suo interno troviamo:  il capo UTE che governa le varianze tecniche ed organizzative, ottimizza l’uso delle risorse a sua disposizione, integra l’UTE con le altre unità, ottimizza l’integrazione delle attività di fabbricazione e di controllo della qualità, favorisce la fluidificazione del processo informativo. Per tale figura è previsto in Fiat un percorso formativo su tematiche che riguardano il sistema di impresa, l’analisi dei costi, la statistica, la qualità, l’informatica, la conoscenza del processo e del prodotto, il lavoro in team, il Problem Solving, la gestione delle risorse umane, la sicurezza, la logistica, la manutenzione, ecc.;  il tecnologo di linea, responsabile, per i macchinari di competenza, della produttività degli stessi, della qualità del processo, dei costi tecnici; interpreta segnali di degrado dei mezzi di produzione e definisce gli interventi di ripristino;  una figura impiegatizia, si occupa di tutti gli aspetti amministrativi e del calcolo e dell’analisi dei costi;  il conduttore, figura presente nelle UTE nelle quali l’automazione è presente in modo significativo; addetto ad una linea di produzione automatizzata con compiti di regolazione della linea, manutenzione di primo livello, controllo della qualità, segnalazione a monte e a valle di necessità di interventi correttivi; il suo obiettivo è quello di massimizzare l’efficienza della linea di produzione, con una reale responsabilizzazione, in un’ottica polifunzionale, in un contesto tecnologico in cui la continua regolazione del processo si impo199

ne come leva operativa essenziale per il conseguimento di obiettivi di produzione, qualità, costi. Tale figura operativa deve:  conoscere adeguatamente la linea che deve gestire;  cercare di intervenire in tempo utile per evitare le fermate produttive collaborando con l’area manutenzione;  riuscire a mantenere la linea affidabile;  avere conoscenze di programmazione per sapersi rapportare a macchine di notevole complessità;  operai generici presenti particolarmente nelle attività dove minore è il livello di automazione; si tratta prevalentemente di soggetti assunti in giovane età, privi di esperienze precedenti e sovente in possesso di diploma. In ogni UTE viene predisposto un programma di rotazione allo scopo di avere figure più polivalenti. Nell’UTE è altresì presente la figura dell’addestratore che si occupa degli interventi di addestramento, individua i bisogni di qualificazione dei lavoratori e definisce gli interventi relativi, sollecita gli operai ad intraprendere le azioni dirette a ridurre le difettosità qualitative del prodotto Nelle UTE sono previste delle pareti mobili dove trova attuazione la cosiddetta “gestione a vista”, cioè un’informazione visiva sull’andamento della produzione: esistono tabelloni con statistiche e grafici sui trend produttivi, sulle difettosità, con la descrizione tecnica del prodotto in lavorazione, con l’indicazione delle operazioni svolte nell’UTE, con i piani di addestramento degli operai, con i dati sugli obiettivi, sulla qualità, sui costi, sugli scarti, sui problemi riscontrati dal cliente finale e generati all’interno dell’UTE e con ogni altra informazione che i componenti stessi dell’UTE ritengono importante evidenziare o segnalare. Significativo è il procedimento che prevede, per le figure operative presenti in catena, diverse modalità di maggiore responsabilizzazione in termini di coinvolgimento nell’auto-controllo della qualità: si chiede al lavoratore di verificare la conformità qualitativa del componente montato, di sottoscrivere un’apposita scheda attestante la stessa conformità ed il relativo controllo, di segnalare, con appositi pulsanti posti sulla stessa postazione di lavoro, l’esistenza di specifici problemi qualitativi nello svolgimento delle attività realizzate. Appare evidente come l’adozione di un’organizzazione per processi richieda personale con adeguate caratteristiche in termini di competenze e con una visione più ampia degli obiettivi che si intendono perseguire, come, ad esempio, la figura del capo intermedio, connotato nei contratti collettivi nazionali di lavoro come quadro, che ha visto il suo ruolo significativamente ridefinito 4. 4



Nelle fabbriche moderne a tale figura si richiedono: una maggiore responsabilizzazione gestionale in termini di costi, qualità, tempi di produzione

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Se gli esempi riportati sono riconducibili a processi produttivi legati ad un bene che può essere realizzato separatamente nelle sue singole parti, il fatto di riferirsi a processi di natura continua (si pensi alla produzione del vetro, della carta, ecc.) evidenzia l’importanza esercitata dalle moderne tecnologie automatizzate, che richiedono una scarsa quantità di manodopera, sia pure altamente qualificata. Elemento significativo nei cambiamenti che hanno investito i processi di produzione è stato, in ogni caso, il citato Toyota Production System. Tale approccio, che trae appunto origine dalla Toyota, è caratterizzato dalla necessità di produrre quantità sempre minori di prodotti, sempre più differenziati. Tale sistema ha permesso all’industria giapponese, ad esempio, di “inondare” il mercato mondiale dell’auto facendo leva più che sulle tecnologie innovative, soprattutto sull’impostazione dell’organizzazione dei processi produttivi. Ciò, indubbiamente, anche grazie alle caratteristiche peculiari dei lavoratori giapponesi negli anni in cui lo stesso Toyotismo si è sviluppato. Si trattava di soggetti caratterizzati da una pedissequa osservanza delle istruzioni ricevute, da un forte senso di identificazione con l’azienda, espressioni di un’etica del lavoro che non aveva eguali nel mondo occidentale. Proprio facendo riferimento anche a tali peculiarità, per diverso tempo si è ritenuto che tale approccio non avrebbe potuto trovare concreta applicazione in ambito occidentale, proprio per le significative diversità esistenti sul piano culturale, etico e religioso. Se nel Fordismo era inaccettabile la violazione del principio di separazione tra funzioni di ideazione e funzioni di esecuzione, nel Toyotismo la fabbrica risulta incentrata sul funzionamento dei già citati team di lavoro che svolgevano un ruolo non più “passivo”, ma più “attivo” e consapevole. In questo sistema tutti i partecipanti alla produzione vengono formati e motivati a risolvere i problemi relativi al loro lavoro e a presentare suggerimenti allo scopo di ottenere anche un maggior coinvolgimento dello stesso personale.

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(per l’ottimizzazione del sistema è necessaria la capacità di adattamento e di variabilità di tempi e volumi): egli deve saper coordinare e controllare le attività svolte nell’unità organizzativa al fine di realizzare le quantità di prodotto secondo i programmi stabiliti e nel rispetto degli standard di qualità; conoscenze dei sistemi di programmazione della produzione e delle risorse tecnologiche; la capacità di ricerca di integrazione con l’unità organizzativa a monte e con quella a valle in un’ottica di processo: si tratta di perseguire un’adeguata integrazione tra il sottosistema in cui opera e tutti gli altri sistemi collegati, inserendosi in una rete informativa e svolgendo in essa un ruolo attivo sul piano tecnico-gestionale; una capacità di gestione delle risorse umane e delle condizioni di sicurezza; un adeguato livello di preparazione professionale; la capacità di proporre interventi atti a migliorare la qualità e l’efficienza del ciclo di lavorazione e dei prodotti.

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Il sistema di produzione Toyota si basava, nel momento in cui si è diffuso anche nei sistemi occidentali, quindi, su:  nuove modalità di gestione dello sviluppo di nuovi prodotti (progettazione simultanea, coinvolgimento dei fornitori, ecc.);  una produzione in piccola serie (piccoli lotti modificabili ed eterogenei) con la riduzione dei costi di immobilizzo degli stock di prodotti finiti;  un’elevata sincronizzazione delle fasi della produzione con l’approvvigionamento e nuove forme di organizzazione delle relazioni di fornitura (Just in Time); in questo ambito si presenta l’obiettivo di una razionalizzazione dei flussi logistici che significa, sul piano interno, ridurre qualsiasi forma di scorta nel processo, mentre sul piano esterno l’obiettivo è la riduzione sistematica dei tempi di consegna il che implica la realizzazione di coerenti rapporti di fornitura, cioè rapporti più integrati con fornitori qualificati, in numero molto più limitato rispetto al passato, chiedendo loro di garantire la qualità di quanto fornito;  la ricerca, come già ricordato, della riduzione di ogni forma di “spreco”, cioè qualsiasi cosa che non aggiunge valore al prodotto/servizio o che non contribuisce alla sua realizzazione; oltre alle scorte, si possono ricordare le lavorazioni superflue (ad esempio duplicazioni di attività), le rilavorazioni a fine processo che sono un sintomo dell’incapacità di “intercettare” le difettosità nel momento in cui si manifestano, le sovrapproduzioni, le movimentazioni non necessarie di materiali, i tempi di attesa dei prodotti in corso lavorazione per la carenza di bilanciamento nelle capacità produttive delle diverse fasi del processo;  una ricerca della qualità del prodotto e dei servizi al cliente che trova la sua origine in un corretta definizione delle caratteristiche del prodotto, in un processo produttivo in grado di garantire elevati gradi di qualità e di affidabilità sin dall’inizio della vita del prodotto, in una logistica degli approvvigionamenti, produttiva e distributiva ben organizzata e tempestiva, in azioni efficaci ed efficienti di assistenza post-vendita;  la ricerca di forme di organizzazione del lavoro in grado di conciliare adeguati livelli di flessibilità, di produttività e responsabilizzazione delle risorse impiegate;  una partecipazione attiva dei lavoratori ai fini del miglioramento continuo e nelle stesse attività di controllo, nel senso che sono chiamati a monitorare la qualità del lavoro che svolgono fino alla possibilità di “fermare” la linea di produzione in caso di gravi non conformità (assicurare la qualità in ogni fase riducendo i costi degli scarti).

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Diversi studiosi hanno sottolineato come il Toyotismo abbia determinato, rispetto al Fordismo, una diversa visione dei rapporti all’interno della scala gerarchica con uno spostamento di prospettiva da una visione meccanicistica dell’uomo ad una che evidenzia come lo stesso soggetto, a ogni livello della gerarchia, possa concorrere alla creazione di valore per l’azienda, un’azienda che appare sempre meno un meccanismo perfettamente congegnato e sempre più un’organizzazione dinamica che favorisce e stimola i processi di apprendimento. Un’organizzazione, ancora, che cerca di accogliere e soddisfare le esigenze sempre più individualizzate del mercato facendo leva sulla cosiddetta “politica dello zero”:      

zero scorte; zero difetti; zero conflitti; zero tempi morti di produzione; zero tempi morti di attesa per il cliente; zero burocrazia.

Si tratta di un sistema che, superati i dubbi sulla sua applicabilità al di fuori della realtà giapponese, ha stimolato notevoli discussioni circa il fatto che potesse essere considerato un superamento del Fordismo. Si è parlato, al riguardo, della necessità/opportunità di studiare il Toyota Production System per coglierne le possibilità attuative nella singola organizzazione, nella consapevolezza di dover perseguire una logica di Qualità Totale e di miglioramento continuo che, per essere proficuamente applicata, deve partire sia da una riorganizzazione interna (visione per processi e mutamenti nell’organizzazione del lavoro) e sia da una riorganizzazione esterna attraverso la creazione di adeguate reti di fornitura. Va ricordata, al riguardo, la situazione di crisi che recentemente ha interessato la stessa Toyota all’interno del settore automobilistico: il differenziale di prestazioni tra Toyota ed i suoi concorrenti si è progressivamente ridotto sia perché questi hanno ormai completato il processo di reverse engineering dei principi e delle metodologie proprie del Toyota Production System e sia perché lo stesso “modello” Toyota ha subito significative trasformazioni che ne hanno messo in discussione alcune caratteristiche (Boyer & Freyssenet, 2005). Un sintomo della situazione di difficoltà è stato il significativo recente aumento del richiamo di veicoli in esercizio per problemi di qualità, le cui cause sono da ricercarsi sia nella fase di progettazione che in quella di produzione. Un processo di crescita su scala globale, che ha portato la Toyota dal 2000 al 2007 ad aprire un rilevante numero di nuovi stabilimenti nel mondo, ha profondamente trasformato l’impresa in termini di dimensioni e di dispersione geografica delle attività svolte. Ciò ha aumentato la complessità e la differenziazione organizzativa, ponendo problemi di compatibilità con le strategie e le 203

soluzioni organizzative fino ad allora perseguite (assetto organizzativo assai centralizzato). È emersa, quindi, la domanda se e in che misura il Toyota Production System, nella sua versione originale, sia ancora in grado di generare quelle risorse necessarie per continuare a soddisfare efficientemente le attese del mercato con prodotti di qualità superiore. La pressione competitiva, alla quale ogni azienda è sottoposta, è un fattore in continuo aumento e ha posto l’irreversibile necessità di rivedere i tradizionali modelli di gestione per riuscire a fronteggiare condizioni ambientali sempre più variabili e poco prevedibili. Del resto lo studio dei problemi connessi all’organizzazione del lavoro nei processi di produzione industriale è divenuto sempre più complesso dovendo considerare, in una visione sistemica, un mix di elementi frutto della continua interazione dell’organizzazione con l’ambiente di riferimento. Nell’ottica della Lean Production è fondamentale la consapevolezza, da parte delle aziende industriali, di un profondo mutamento che ha comportato modificazioni nei rapporti di lavoro e nelle relazioni tra le imprese. La produzione snella, quindi, è prima di tutto una “visione” di impresa e di sistema di imprese fra loro coordinate. Le esperienze realizzate recentemente hanno confermato la possibilità di creare forme di cooperazione fra le imprese utilizzando dei modelli di interdipendenza e selezione delle imprese cooperanti consoni alle specificità culturali ed economiche dei vari paesi interessati. Del resto oggi i mercati sono più esigenti in termini di prezzo, qualità, servizio al cliente, ma soprattutto si è diffusa una maggiore attenzione ai concetti di filiera produttiva, di capitale umano, di “customerizzazione” del prodotto o servizio. In tale ottica si sta rapidamente diffondendo, anche sulla scorta delle esperienze giapponesi, il citato modello di “lean thinking” come sistema in grado di consentire alle aziende di raggiungere e mantenere condizioni di flessibilità e di competitività necessarie per la loro stessa sopravvivenza e per la loro capacità di espandersi sul mercato. Esso si basa sulla convinzione che un’organizzazione deve cercare di migliorare continuamente e in modo sistemico le proprie prestazioni in termini di qualità, tempi e costi, dove la valorizzazione delle risorse umane e delle proprie competenze è ritenuta uno dei fattori cruciali per la buona riuscita di una attività. Tra i principi di tale modello ritroviamo, tra gli altri, la centralità del cliente, la tensione all’individuazione ed eliminazione di tutti i più volte citati possibili “sprechi” (lavorazioni superflue, rilavorazioni, movimentazioni non necessarie, tempi di attesa, scorte eccessive, ecc.) presenti nei meandri delle attività che quotidianamente vengono svolte per cercare di soddisfare il cliente stesso nei 204

tempi e nelle modalità più opportune, la riduzione dei tempi di set-up delle linee produttive, l’aumento della variabilità dei modelli realizzabili su ciascuna linea produttiva. Il termine “Lean” è, quindi, sinonimo di ricerca del miglioramento continuo delle performance aziendali: un approccio “snello” sembra porre le premesse per l’evoluzione verso sistemi produttivi più evoluti che possono efficacemente ed economicamente utilizzare ed integrare le risorse umane, l’automazione e l’Information Tecnhology, concorrendo alla creazione del valore. L’obiettivo è duplice: creare un sistema che sia “pilotato” dal cliente e dalle sue aspettative e rendere tale sistema efficace ed efficiente, eliminando gli sprechi e ottimizzando l’utilizzo delle risorse. Il lean thinking può essere considerato come un’evoluzione dei modelli organizzativi che lo hanno preceduto, nel senso che tutti i processi di funzionamento di un’azienda devono concorrere alla creazione del valore, ciò per cui il cliente percepisce nel prodotto o servizio realizzato l’elemento distintivo rispetto alla concorrenza. A livello organizzativo il rispetto dei principi “lean” comporta un ripensamento delle attività aziendali, orientate alla creazione di team di lavoro interfunzionali, in grado di seguire il prodotto lungo tutto il percorso di attraversamento all’interno dell’azienda. Altro cambiamento è il miglioramento della comunicazione tra le diverse aree gestionali nonché la ricerca di un atteggiamento più proattivo da parte di tutti gli attori presenti in azienda (Marchiori, 2001). La situazione di crisi ha richiesto anche alla Toyota di rivedere le proprie scelte gestionali ed organizzative nella direzione richiesta dalla scala globale delle operazioni svolte (riallocazione della produzione tra i diversi stabilimenti in funzione del mix dei modelli richiesti dal mercato), dall’evoluzione scientifica e tecnologica e dalle trasformazioni in atto nel modo stesso di utilizzare il prodotto automobilistico nella società (sviluppo della produzione di modelli meno dispendiosi in termini di consumi e più eco-compatibili). In tale contesto emerge come nel settore automobilistico parti consistenti della produzione siano affidate a fornitori esterni e molti componenti siano preassemblati in “moduli” prima di essere montati sulla linea. Proprio con riferimento ai rapporti di approvvigionamento, prima di continuare la nostra analisi, appare necessario ricordare brevemente l’evoluzione vissuta nel tempo da tali rapporti. In effetti, si può parlare, nel nostro Paese, a partire dagli anni ’70, di una forte tendenza ad una disintegrazione del processo produttivo. Il fornitore, generalmente di limitate dimensioni e ubicato nelle vicinanze del committente, era chiamato ad eseguire materialmente un componente ma senza apportarvi alcun contributo in termini di ideazione e progettazione. In questo caso si parlava anche di “decentramento parcellizzato” o di “Taylori205

smo imprenditoriale”, così denominato perché, nei rapporti tra le imprese, si richiamano alcune caratteristiche proprie del Taylorismo, quali la netta separazione tra le decisioni sulle caratteristiche del bene da realizzare e sulle modalità di produzione (committente) e l’esecuzione dello stesso (fornitore), la massima sostituibilità del decentrato, un forte controllo del committente sui prezzi in modo da stimolare il fornitore alla ricerca della massima efficienza e dei minimi costi. L’unità decentrata non presentava sovente le caratteristiche proprie di un’azienda, diventando, per così dire, un “reparto esterno” dell’azienda committente. Il citato sviluppo delle esternalizzazioni produttive e l’influenza di nuovi approcci gestionali hanno innescato un processo di cambiamento nel quale il fornitore, come già ricordato, può essere coinvolto nella fase di progettazione di un nuovo prodotto (inserimento nei team di progetto insieme ad altri specialisti) e viene maggiormente valorizzato, sulla base delle proprie capacità innovative, gestionali ed operative, nella realizzazione di quanto fornito, che può non limitarsi ad un singolo componente ma riguardare un’intera parte (o modulo) del prodotto. Lo sviluppo di questi rapporti con altre organizzazioni, basati su forti legami di collaborazione e di affidabilità, ha favorito, da un lato la creazione di vere e proprie reti di imprese, dove la divisione del lavoro tra le stesse configura, come già analizzato, forme di integrazione che fanno leva sulle opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione, dall’altro l’affermarsi della cosiddetta citata “organizzazione snella”. La possibilità di contare su una rete di fornitori in grado di garantire la disponibilità di quanto fornito (sia in termini di beni che di servizi) nel momento stesso in cui ciò necessita, consente, infatti, all’azienda committente di poter concentrare le proprie risorse ed i propri investimenti sulle fasi più strategiche del proprio processo di produzione, fino al montaggio finale. Ciò si ricollega, evidentemente, alla possibilità di applicare, ritornando alle esperienze giapponesi, il noto sistema Just in Time, cioè “produrre e consegnare il prodotto nel momento in cui ne è prevista la vendita; i componenti appena in tempo per il loro montaggio; i semilavorati al momento del loro utilizzo per la realizzazione dei componenti; i materiali appena prima della loro trasformazione in semilavorati”. Si tratta di una metodologia di gestione della produzione che cerca di abbinare elementi quali l’affidabilità, la riduzione delle scorte e dei tempi di produzione con un aumento della qualità e un miglioramento del servizio al cliente. Quanto affermato presuppone, evidentemente, una vicinanza, gestionale oltre che geografica, del fornitore con il committente. Si tratta, del resto, di un approccio gestionale che considera le condizioni produttive, interne ed esterne, passibili di continui miglioramenti: la ricerca di 206

un’elevata sincronizzazione tra produzione e mercato, la velocizzazione dei flussi di materiali, il conseguimento dell’affidabilità qualitativa, quantitativa e temporale delle forniture evidenziano la natura organizzativa ed interorganizzativa dell’approccio Just in Time. Nel contesto del presente lavoro è già stato sottolineato come le cause condizionanti l’organizzazione del lavoro solo occasionalmente si manifestino in modo isolato, dovendosi, invece, cogliere le diverse interdipendenze. In tale ambito si inserisce sicuramente la psicologia del lavoro, intesa come quella branca della psicologia che si propone di studiare il comportamento dell’uomo nel suo ambiente lavorativo. Si tratta di una disciplina fortemente centrata sul lavoro e sul contesto in cui si svolge e nel quale le persone operano. Si può parlare, al riguardo, di diversi livelli di analisi:  a livello individuale (atteggiamenti, valori, motivazioni, soddisfazione nel lavoro, ecc.);  a livello di gruppo (aspetti interpersonali, rischio di conflitti, grado di coesione, ecc.);  a livello organizzativo, cioè dell’intero contesto di lavoro. A quest’ultimo riguardo si parla anche di studi sul Comportamento Organizzativo (Organizational Behavior) (Slocum & Hellriegel, 2010), inteso come lo studio di come i pensieri, i comportamenti degli individui e dei gruppi nelle organizzazioni siano influenzati dalla presenza di altri individui. In tal senso l’interdipendenza dei membri di un’organizzazione è un elemento fondamentale dello stesso Comportamento Organizzativo. Tali studi utilizzano ed applicano prospettive teoriche e di ricerca multidisciplinari, di matrice psicologica, sociologica ed economica. L’obiettivo di tali studi è quello di comprendere e predire le determinanti delle prestazioni individuali, di gruppo e dell’organizzazione nel suo complesso, spiegarne il funzionamento ed individuarne le possibilità di miglioramento (Tosi & Pilati, 2008). Del resto, anche da un punto di vista manageriale, l’analisi dell’interazione tra gli individui ed il loro contesto lavorativo rappresenta un tema di grande rilevanza, poiché le persone costituiscono, per le organizzazioni, una delle principali fonti di vantaggio competitivo e vengono considerate, in misura sempre maggiore, un fattore strategico di successo. In linea di massima si può affermare che i temi della psicologia del lavoro concernono tutti gli aspetti propri della stessa organizzazione del lavoro nel momento in cui emergono le ricadute sull’estrinsecazione della prestazione lavorativa. Considerando la letteratura riguardante tali argomenti, un aspetto che si può citare riguarda il concetto di “contratto psicologico”. Tale forma di contratto riguarda «una certa disposizione interiore ad adempiere un’obbligazione di tipo 207

tecnico-giuridico, o a vivere una relazione di altra natura, con spirito di collaborazione, di fiducia e con un forte impegno affinché le attese, implicite ed esplicite, formali ed informali, che sono alla base della relazione, trovino una risposta reciprocamente adeguata. Gli studi sul contratto psicologico analizzano la relazione tra l’organizzazione ed il lavoratore partendo dalla percezione individuale delle reciproche obbligazioni; il contratto psicologico si basa sulle azioni che il lavoratore crede di dover fornire e sulle controprestazioni che si attende da parte dell’azienda ed è costituito dagli elementi taciti del rapporto di lavoro che non possono comparire nel contratto formale scritto» (Costa & Giannecchini, 2013). All’interno del contratto psicologico si possono individuare alcuni fattori determinanti dal lato dell’azienda, quali le opportunità di formazione e di carriera, una retribuzione e un trattamento proporzionali ai risultati, adeguati contenuti del lavoro, buone relazioni di lavoro, un’adeguata stabilità del posto di lavoro. Dal punto di vista del lavoratore emergono elementi collegati alla prestazione svolta, quali la disponibilità a lavorare in team, la condivisione di obiettivi, l’affidabilità della stessa prestazione, un adeguato livello di responsabilizzazione, la disponibilità al cambiamento, alla mobilità, alla formazione, la propensione al miglioramento continuo. Appare evidente come il lavoratore possa percepire dalle modalità stesse in cui si esplicano le politiche di gestione del personale se ed in quale misura il contratto psicologico è stato o meno rispettato. In ogni caso, tale contratto attiene strettamente al coinvolgimento che si può originare e manifestare attraverso il legame che si crea tra l’organizzazione e la persona, il suo impegno ed il suo livello di identificazione con la stessa azienda. Rispetto a tale concetto, comunque, la stessa analisi teorica ha evidenziato alcuni elementi di criticità: così, ad esempio, si rilevano le difficoltà di misurare le obbligazioni assunte dalle parti, di valutarne appieno il rispetto. Entrando più nello specifico del tema in oggetto, possiamo rilevare come la dimensione psicologica dell’organizzazione del lavoro possa interessare una serie di aspetti che, di seguito, esamineremo brevemente salvo, poi, rilevarne le possibilità applicative:  riduzione della ripetitività del lavoro svolto: in particolare nelle lavorazioni seriali e nelle attività di montaggio, grazie alla rotazione delle mansioni, anche se non gratifica né sotto il punto di vista retributivo né dal punto di vista dell’elevazione professionale, è possibile in qualche modo “spezzare” la ripetitività di quanto svolto passando a svolgere un’altra attività, pur non modificando la propria posizione;  coinvolgimento: tale termine, da un punto di vista semantico, esprime chiaramente le sue ricadute sulla psicologia del lavoro; coinvolgere un soggetto 208

significa prima di tutto sviluppare nel dipendente un sentimento di impegno personale nei confronti della combinazione aziendale; alla base di tale concezione vi è l’importante ipotesi secondo la quale i lavoratori coinvolti risulterebbero più soddisfatti, otterrebbero maggiori rendimenti con più elevato grado di flessibilità; la ricerca di coinvolgimento si estrinseca in una serie di comportamenti, iniziative, azioni tutte tese a favorire lo sviluppo di un maggior grado di collaborazione, allo scopo di favorire il passaggio da un atteggiamento agnostico ad uno più “attivo” nei confronti del proprio lavoro, nel perseguimento dei risultati gestionali della combinazione economica nella quale il medesimo lavoratore opera; il potenziale contributo che il personale potrebbe fornire, in termini di apporto creativo e propositivo, è sovente sottoutilizzato come conseguenza di scelte organizzative e di approcci gestionali mutuati dal passato, che non appaiono in grado di far fronte alle nuove istanze che emergono dall’attuale complesso quadro ambientale di riferimento; coinvolgere i soggetti significa sviluppare nel dipendente un sentimento di impegno personale nei confronti della combinazione aziendale e ciò grazie all’impiego di specifici strumenti, quali la raccolta di suggerimenti o la creazione di appositi gruppi di miglioramento;  responsabilizzazione: responsabilizzare significa porre ogni soggetto in condizione di disporre di strumenti, conoscenze ed ambiti discrezionali tali da consentirgli di affrontare problemi relativi a determinate situazioni operative adottando decisioni sulla base del proprio giudizio; ciò può farsi rientrare nella logica stessa di un orientamento alla “Qualità Totale” che impone un cambiamento nel modo di guardare e gestire le risorse umane, richiedendo, in particolare, di avviare un processo di sviluppo delle stesse, finalizzato ad una crescita di professionalità di tutti quanti partecipano all’attività aziendale; appare evidente come questo aspetto sia ricollegabile al precedente;  partecipazione dei dipendenti: partecipare significa attivare le proprie energie psicofisiche nella ricerca dei migliori livelli di efficienza della propria attività; l’obiettivo di tale approccio è quello di arrivare ad ottenere un’organizzazione dove tutti i dipendenti, dai livelli più bassi a quelli più alti, maturino un senso di coinvolgimento, non solo limitatamente all’esercizio dei loro compiti o all’efficienza del proprio gruppo di lavoro, ma con particolare riferimento ai risultati conseguiti dall’organizzazione nel suo complesso;  fidelizzazione dei dipendenti: essa, come si evince dallo stesso sostantivo, si ricollega ad un atteggiamento da parte del lavoratore che lo porta ad una piena condivisione delle scelte gestionali adottate dall’azienda; ciò determina un atteggiamento virtuoso, anche a valere nel tempo, che si concretizza in una fedeltà all’impresa, anche al di fuori della stessa prestazione lavorativa.

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L’insieme degli elementi indicati, che, invero, hanno avuto ed hanno tuttora effettivi riscontri pragmatici, appare, comunque, soprattutto nelle aziende di maggiori dimensioni, condizionato dal fatto che il lavoratore italiano può presentare una limitata sensibilità rispetto agli aspetti individuati dal momento che una larga fascia degli stessi lavoratori riceve una retribuzione sovente inadeguata rispetto allo stesso costo della vita. La crisi economico-finanziaria che sta attraversando il nostro come altri paesi nel mondo, finisce evidentemente per esasperare le condizioni precitate nel momento in cui lo stesso lavoratore può essere assillato dalle preoccupazioni per ciò che concerne il futuro del proprio rapporto di lavoro. In ogni caso si possono, comunque, ricordare particolari circostanze per le quali si richiedono alcuni adattamenti organizzativi che, per certi aspetti, si possono discostare dalle “oggettive regole” di cui si è ampiamente parlato. In relazione a tali circostanze, di seguito, se ne individuano alcune, legate allo svolgimento di attività economiche che, molto più anche in un recente passato, travalicano i limitati confini del nostro paese. A) Tipologie di soluzioni organizzative in relazione al contesto territoriale nel quale opera l’azienda Di seguito si presentano situazioni che richiedono di dover “modellare” le soluzioni citate in relazione al contesto territoriale in cui l’azienda opera. Una prima situazione si presenta quando un’azienda del nostro paese si trova ad operare all’estero con proprie sedi produttive. Sono evidenti le difficoltà organizzative che possono emergere in relazione al paese dove il processo produttivo si svolge. Si pensi, ad esempio, ad un’attività svolta in un paese africano dove manca qualsiasi riferimento a normative che regolino l’utilizzo della manodopera locale (la costruzione di una grande diga per la quale necessiti, oltre ad adeguati mezzi meccanici, un consistente numero di lavoratori evidentemente locali); ulteriori difficoltà possono riguardare la formazione di operai del luogo, sovente analfabeti, a fronte dei compiti che devono assolvere, sia pure tali da non richiedere particolari professionalità. In ogni caso, l’azienda deve decidere come controllarli e retribuirli, provvedere alla loro salvaguardia. Sotto quest’ultimo aspetto, e sempre nel caso ipotizzato, si tratta di attività che espongono tali soggetti a rischi anche assai gravi, considerando che non hanno alcuna dimestichezza con le tematiche della prevenzione antinfortunistica. Appare, allora, evidente come, nell’esempio appena citato, mancando le regole che uno Stato moderno pone agli attori che operano al suo interno, la direzione dell’azienda italiana potrà inviare tecnici esperti che, generalmente, hanno maturato precedenti esperienze in condizioni di contesto simili e che, quindi, sono in grado di affrontare le problematiche che si possono presenta210

re. In tali situazioni, una soluzione organizzativa diretta a supportare la gestione dei progetti da realizzare, se da un lato può fare riferimento a specifiche metodologie gestionali (Project Management), proprio per le ragioni sopra richiamate, necessita di integrazioni ed accorgimenti che solo i citati esperti possono adottare per far fronte all’estemporaneità delle situazioni che si possono presentare. In altri termini, pur in presenza di procedure generalmente applicabili in condizioni “normali”, la situazione in oggetto richiede un prevalente sforzo di adattamento. Ben diversa è l’ipotesi di un’azienda multinazionale che operi in un paese, come il nostro, ove sono presenti, sia pure secondo modalità che possono essere differenziate o differenti, condizioni etiche, politiche, sociali, normative relativamente all’impiego del personale. Si pensi all’ipotesi di una multinazionale estera che opera con uno o più stabilimenti nel nostro paese. È evidente che, in tale caso, sussistono tutte le condizioni per garantire un corretto impiego del personale secondo la nostra legislazione che è una delle più avanzate nel contesto dei paesi industrializzati. Così allo stabilimento italiano possono essere delegati gli aspetti più operativi della gestione del personale, fatte salve specifiche direttive che provengono dalla stessa multinazionale e che vengono a dettare criteri gestionali ed organizzativi in base ai quali viene gestito il medesimo stabilimento, sempre nel rispetto dei limiti stabiliti dalla nostra legislazione nazionale, su temi quali l’ambiente, l’ubicazione produttiva, ecc. B) Le caratteristiche del processo produttivo Nel contesto della attualità degli elementi in grado di condizionare le scelte adottate in termini di organizzazione del lavoro, assumono particolare rilievo le caratteristiche proprie del processo produttivo, così come è stato brevemente accennato in precedenza. In effetti, se si considera la produzione in serie come nel caso del settore automobilistico si può fare riferimento alle linee evolutive che hanno interessato la catena di montaggio. Una catena di montaggio è un processo di assemblaggio, utilizzato nelle aziende industriali sin dai primi anni del XX secolo, teso ad ottimizzare il lavoro degli operai e a ridurre i tempi necessari per il montaggio di un manufatto complesso: ogni operaio può, infatti, assemblare un unico pezzo, tramite movimenti ripetitivi e meccanici, permettendo un notevole risparmio dei tempi di produzione. Henry Ford, fondatore agli inizi del ’900 di una delle maggiori aziende automobilistiche, ebbe, come ricordato, l’intuizione di applicare i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, elaborati da Taylor, in modo tale che sarebbero state le macchine a determinare la sequenza delle diverse operazioni e a fissare i tempi a disposizione di ciascun operaio. 211

Si trattava di un nastro trasportatore lungo il quale avanzavano senza sosta i diversi pezzi meccanici, raggiungendo in successione le postazioni dei lavoratori che provvedevano ad assemblarli. Il principio di Ford era quello di “portare il lavoro all’operaio invece di portare l’operaio al lavoro”. A ogni lavoratore era affidata una mansione elementare che svolgeva ripetitivamente al ritmo del passaggio dei pezzi in lavorazione (il ritmo di lavoro viene imposto meccanicamente dalla velocità della catena di montaggio), al punto da arrivare all’intercambiabilità non solo del componente ma anche dello stesso operaio. I benefici ottenuti, in termini di aumento dei volumi produttivi, di riduzione dei tempi e dei costi, furono tali da spingere molte altre aziende industriali dell’epoca ad adottare questo metodo, contribuendo a creare un nuovo modo di intendere la produzione seriale che prese appunto il nome di fordismo. La catena di montaggio divenne il simbolo della grande industria, della sua enorme potenza produttiva ma, progressivamente, anche del carattere più alienante del lavoro operaio. Il lavoro in linea, infatti, poteva comportare rilevanti inconvenienti, quali disturbi di tipo psicologico, un crescente senso di frustrazione a causa della natura monotona, ripetitiva e alienante delle mansioni svolte, oltre che per la perdita del controllo sul lavoro effettuato e sul prodotto finale. Ford ricevette molte critiche per i problemi che il nuovo metodo di produzione da lui utilizzato produceva nei suoi dipendenti e la sua principale risposta fu legata ad una politica di più alti salari (forme retributive a cottimo per coinvolgere maggiormente i lavoratori). La celebre scena del film Tempi moderni di Charlie Chaplin, in cui un operaio è progressivamente sopraffatto dal ritmo della catena, ha rappresentato, nell’immaginario collettivo, una delle più efficaci rappresentazioni del carattere alienante e spersonalizzante della stessa catena di montaggio. Risalendo alle sue origini, appare evidente come le prime fasi di applicazione del lavoro in catena si potessero scontrare con le abitudini consolidate dei lavoratori americani che, fino a quel momento, erano verosimilmente del tutto diverse da quelle richieste da tale tipo di attività. Ciò contribuì a dar luogo a scioperi e contestazioni rispetto ad un lavoro ripetitivo ed ossessionante che non aveva alcun precedente con riferimento ad attività che magari richiedevano sforzi fisici ed orari di lavoro più pesanti. Si può, al riguardo, evidenziare come ancora oggi, nonostante i continui affinamenti introdotti (si pensi all’applicazione dell’ergonomia), il lavoro a catena sia soggetto a critiche, anche perché non sempre le situazioni applicative presentano tali stessi affinamenti. La rigidità di tale linea, posta a confronto con una sempre maggiore variabilità delle caratteristiche dei prodotti richiesta dal mercato, ha portato le aziende 212

industriali a riflettere sulle loro scelte in termini di organizzazione del lavoro flessibile (il cosiddetto post-fordismo) e sugli interventi da apportare sulla medesima catena di montaggio. In questo ambito possiamo ricordare:  le esperienze delle cosiddette “isole di montaggio” Di origine scandinava, esse consistono in uno “spezzettamento” della catena con stazioni intermedie, nelle quali un gruppo di operai/tecnici provvede all’assemblaggio e al collaudo di una parte di prodotto; l’organizzazione di tali “isole” è dotata di un certo grado di autonomia, come nella definizione della rotazione delle mansioni; le “isole” nell’esperienza Fiat, sono state superate dalla soluzione organizzativa rappresentata dalle UTE (Unità Tecnologiche Elementari), tipico esempio di “Work Team” in un’ottica interfunzionale;  il contributo dell’evoluzione delle tecnologie Stante la verificata “impossibilità di robotizzare” l’intera linea, tale evoluzione ha consentito, tuttavia, di rendere meno faticosi gli interventi del lavoratore; in effetti, l’evoluzione tecnologica, se corroborata in particolare con il concorso di studi ergonomici, ha reso meno pesanti e più armonici i movimenti dei soggetti interessati generando minori conseguenze negative sulla loro salute psico-fisica;  lo sviluppo della presenza di personale femminile In tempi non recenti le attività svolte lungo la catena di montaggio presupponevano attività lavorative in “stazioni” caratterizzate da un significativo sforzo di natura fisica (si pensi, ad esempio, nella produzione automobilistica al montaggio manuale di ruote complete di copertoni) con l’aggravante di prevedere posizioni del corpo, per così dire, “irregolari”, tali da far aumentare sensibilmente la stessa fatica. Si trattava, evidentemente, di lavori faticosi ai quali era destinato personale maschile, in particolare giovane e prestante dal punto di vista fisico; ciò mentre alle donne, già comunque presenti, erano riservate attività che non presentavano le caratteristiche indicate. Quando l’evoluzione tecnologica, come ricordato, ha reso possibile una significativa riduzione degli sforzi fisici rispettando scrupolosi criteri ergonomici (si pensi, ad esempio, al posizionamento degli utensili a “portata di braccia”), l’impiego del personale femminile ha fatto registrare un sensibile sviluppo; ciò anche e soprattutto perché le donne sono, in genere, anche se tale affermazione potrebbe essere giudicata limitativa, riconosciute, tra l’altro, più adatte allo svolgimento con precisione, puntualità e costanza di un lavoro ripetitivo;  lo sviluppo delle soluzioni ergonomiche Circa lo sviluppo delle soluzioni ergonomiche queste potranno trovare si213

gnificative espressioni nel momento in cui specifici progetti di intervento troveranno concrete applicazioni. Del resto, i più recenti sviluppi nei campi dello studio del lavoro e dell’ergonomia rappresentano un’opportunità per rivedere ed aggiornare i sistemi di misurazione del lavoro, utilizzando metodologie che correlino la metrica del lavoro e l’ergonomia. In particolare, con l’approvazione di norme relative alla certificazione del controllo del carico biomeccanico, si rende necessario rivedere il tema dei fattori di maggiorazione. Infatti, mentre questi attualmente vengono assegnati ad ogni singolo elemento di operazione ed al conseguente tempo correlato, nel nuovo sistema sono calcolati in funzione dell’insieme di operazioni assegnate nell’arco del turno di lavoro ed al conseguente tempo correlato. In tal modo è possibile misurare l’esposizione del lavoratore sia al carico biomeccanico statico, sia a quello dinamico relativamente a specifici fattori di rischio, quali, ad esempio, le caratteristiche delle posture, le azioni di forza, la movimentazione di carichi, ecc. Si può sottolineare come questi interventi intendano anche stabilire i tempi ritenuti ergonomicamente rispondenti, sotto i profili dell’affaticamento, della ripetitività delle operazioni svolte in modo da non sottoporre il lavoratore ad eccessivi sforzi psico-fisici;  lo sviluppo di una modularità delle parti di prodotto Il fatto di operare su un prodotto sempre differenziato proprio nelle fasi di montaggio, trasferendo a monte la standardizzazione di parti di prodotto (i cosiddetti “moduli”), potrebbe costituire una sorta di elemento in grado di contenere il parossismo che consegue inevitabilmente dal fatto di dover operare sempre sullo stesso particolare, anche se ciò non sembra, tuttavia, impegnare lo stesso lavoratore sotto i profili del grado di attenzione e dell’interesse nei confronti dell’attività svolta che restano sostanzialmente immutati. Appare, in tale contesto, di maggiore significatività il procedimento, già attivato in diverse realtà aziendali come la stessa Fiat, la Piaggio, ecc., che prevede, come già ricordato, per le figure operative presenti in catena, diverse modalità di maggiore responsabilizzazione in termini di coinvolgimento nell’auto-controllo della qualità: si chiede al lavoratore di verificare la conformità qualitativa del componente montato, di sottoscrivere un’apposita scheda attestante la stessa conformità ed il relativo controllo, di segnalare, con appositi pulsanti posti sulla stessa postazione di lavoro, l’esistenza di specifici problemi qualitativi nello svolgimento delle attività realizzate. Se si considerano attività nelle quali sono impiegate tecnologie automatizzate moderne e modernissime, possiamo ritrovare una manodopera, altamente qualificata, costituita da un numero ridotto di lavoratori, utilizzati essenzial214

mente per attività di conduzione e controllo di macchine e impianti. Si pensi, ad esempio, alla produzione del vetro dove un solo impianto, completamente automatizzato, partendo dalle materie prime, adeguatamente miscelate e, poi, introdotte in un forno fusorio dal quale esce il vetro fuso successivamente raffreddato secondo differenti spessori, consente di arrivare al prodotto finito destinato a varie applicazioni. Emerge, in tale caso, l’assoluta prevalenza degli aspetti tecnologici rispetto all’intervento degli uomini, che lavorano sovente in team, dell’organizzazione in senso tecnico dei mezzi produttivi. Analoga situazione, per portare un altro esempio, riguarda la fabbricazione della carta dove l’intero processo di produzione, dalle materie prime al prodotto finito, avviene attraverso una sequenza di operazioni realizzate dalla cosiddetta “macchina continua”, ancora con un elevato grado di automatizzazione e con un limitato numero di lavoratori, sia pure qualificati. Nei casi sopra indicati appare evidente come l’organizzazione del lavoro risulti in massima parte assai semplificata, anche considerando il numero contenuto di personale, sempre ovviamente nel rispetto di quanto stabilito dalle norme di legge. C) Presenza di lavoratori extracomunitari L’argomento in oggetto è stato inserito scientemente tra gli elementi fattuali che condizionano le scelte in termini di organizzazione del lavoro; la presenza di lavoratori extracomunitari, che negli ultimi anni ha assunto una consistenza di tutto rilievo, resta, comunque, in una posizione, per così dire, “di confine” rispetto al complesso dei fattori che sono stati in precedenza esplicitati. Se in ambito comunitario non si pongono problemi di sorta allorquando venga occupato un lavoratore “europeo”, diversa si può presentare la situazione nel momento in cui le scelte occupazionali riguardano soggetti extracomunitari in una società che appare sempre più multietnica. Quando ciò avviene il datore di lavoro deve essere disposto, per un miglior utilizzo di tali lavoratori, sovente adibiti a mansioni di basso contenuto professionale, a ricercare le condizioni operative più opportune per il loro impiego congiuntamente spesso a lavoratori italiani. Occorre tener presente che ognuno di tali soggetti è portatore di specifici comportamenti, atteggiamenti, credenze religiose, mentalità formate nel proprio paese di origine, per cui il loro inserimento nell’organizzazione può, al limite, comportare la definizione di postazioni di lavoro create ad hoc, nel contesto della generale organizzazione dell’azienda. Nelle realtà di contenute dimensioni il contatto diretto con i lavoratori italiani o con altri lavoratori stranieri la cui presenza nel nostro paese è già conso215

lidata, rende maggiormente realizzabile una migliore armonizzazione organizzativa tra i diversi soggetti interessati. La situazione si presenta ancora diversa in aziende di maggiori dimensioni, soprattutto (al di là di casi in cui particolari condizioni di lavoro possono risultare più adattabili, come per lavorazioni che prevedono alte temperature di esposizione, a soggetti extracomunitari) in attività seriali (come nel caso di lavori di assemblaggio): in tali contesti, in effetti, proprio da un punto di vista organizzativo, si possono presentare dei “condizionamenti” attribuibili proprio a specifiche peculiarità comportamentali dei soggetti in questione. Si pensi, altresì, ai problemi collegati alla mancata o approssimativa conoscenza non solo della nostra lingua ma anche di tutti i vocaboli tecnici che inseriscono al tipo di attività dove gli stessi stranieri sono impegnati. In relazione al tema in oggetto, secondo una visione economico-aziendale, si è cercato di inquadrare alcuni dei più importanti fattori in grado di condizionare le scelte adottate in termini di organizzazione del lavoro. Resta il fatto, come già ricordato in precedenza, che, per quanto analizzati singolarmente occorre valutare gli stretti legami di interdipendenza esistenti tra gli stessi. Se è ovvio come il lavoro comporti per l’azienda un costo, è tautologico giudicarlo in relazione al contributo apportato rispetto al perseguimento degli obiettivi di economicità del sistema azienda. Del resto, l’azienda 5 è un’unità in continua trasformazione e proprio nella costante dinamicità risiede il senso stesso della sua esistenza: essa è chiamata a competere su un mercato sempre più globale, a rispondere tempestivamente ai cambiamenti, ad adattare i suoi output in base alle mutevoli esigenze della clientela, a porre la qualità delle sue performance quale condizione dalla quale non poter prescindere in ogni fase della sua attività. Nel considerare il sistema delle condizioni necessarie per delineare i caratteri stessi dell’azienda occorre, in primo luogo tener presenti i fattori che compongono la sua struttura «in quanto variamente e opportunamente combinandosi secondo relazioni sistematiche generano la dinamica degli andamenti economici, finanziari, tecnici, patrimoniali, organizzativi mediante la quale l’unità tende al raggiungimento della sua finalità primaria consistente nella creazione di ric-

5 Da un punto di vista economico-aziendale l’azienda può essere intesa come «una unità elementare dell’ordine economico-generale, dotata di vita propria e riflessa, costituita da un sistema di operazioni, proveniente dalla combinazione di particolari fattori e dalla composizione di forze interne ed esterne, nel quale i fenomeni della distribuzione e del consumo vengono predisposti per il raggiungimento di un determinato equilibrio economico, a valere nel tempo, suscettibile di offrire una remunerazione adeguata ai fattori utilizzati e un compenso, proporzionale ai risultai raggiunti, al soggetto economico per conto del quale l’attività si svolge» (Giannessi, 1970, pp. 10-11).

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chezza o di valore» (Cavalieri & Franceschi, 2008, p. 7). In tale contesto la risorsa umana assume un ruolo fondamentale investendo contemporaneamente le motivazioni di esistenza e le modalità mediante le quali la stessa azienda può operare. La stessa risorsa umana contribuisce a generare quelle risorse immateriali o intangibili che costituiscono un fattore essenziale dell’azienda moderna: si fa riferimento alle conoscenze, alle capacità professionali, alle esperienze che sovraintendono allo stesso svolgimento della gestione. Si tratta di risorse che costituiscono, in effetti, un importante elemento di differenziazione capace di riflettersi sui risultati che l’azienda è in grado di raggiungere. Appare evidente come tali fattori, in maniera diversa a seconda del tipo di attività svolta e in ogni caso la loro simbiosi, possano incidere sulla stessa produttività del lavoro. A livello di attività artigianali, in particolare, si ha una netta prevalenza degli aspetti collegati al lavoro umano rispetto al capitale nel processo di creazione del valore aggiunto. Considerazioni simili, in termini di contributo del fattore lavoro alla creazione dello stesso valore, sono riscontrabili in realtà aziendali di contenute dimensioni con particolare riferimento ad attività produttive nelle quali un lavoro umano altamente qualificato rappresenta un elemento fondamentale nello stesso processo di creazione del valore. Se, ancora, si passa ad analizzare la realtà delle medio-grandi combinazioni produttive, la medesima creazione del valore è la risultante di un “coacervo” di elementi la cui individuazione, in termini quantitativi, è resa difficile se non impossibile dai reciproci legami di influenza. Considerando i diversi fattori che costituiscono un’azienda, è necessario affrontare anche il tema delle relazioni che legano questi tra di loro, al fine di individuare il complesso di condizioni in grado di garantire il funzionamento del sistema aziendale. Si può affermare che le relazioni che investono i diversi fattori rappresentano elementi indicativi del grado di aziendalità dell’unità considerata (ordine sistematico). Le citate relazioni possono trovare la loro espressione in rapporti di causa ad effetto o di complementarietà, generando, in molti casi, rapporti di concausa ad effetto molteplice: è l’intero complesso dei fattori a determinare un insieme di risultati che si presenta come una molteplicità di situazioni ognuna delle quali non è riconducibile ad una sola causa specifica ma all’intero sistema. Le relazioni che stanno alla base della vita aziendale, oltre a rispondere alle necessità di coordinamento per ipotizzare ed attuare il sistema delle operazioni, sono relative anche alla combinazione dei diversi fattori e alla composizione delle forze ambientali con quelle interne dell’azienda. Mentre, come ricordato, l’analisi del sistema di operazioni rileva l’esistenza di un ordine sistematico, l’insieme dei rapporti tra i diversi fattori della produ217

zione consente di evidenziare l’esigenza di un ordine combinatorio; così ancora l’azione delle forze che scaturiscono dall’interno della stessa azienda, insieme a quelle provenienti dall’ambiente evidenzia l’opportunità di instaurare tra queste un rapporto dal quale scaturisca un ordine di composizione. Così, a titolo esemplificativo, «una macchina non entra a far parte della combinazione perché è tecnicamente la più evoluta disponibile sul mercato oppure perché ha la capacità produttiva più elevata nell’unità di tempo ovvero perché il prezzo d’acquisto è il più basso, bensì perché, ad un giudizio di convenienza globale che prenda in esame la situazione aziendale presente e quella futura, risulta essere la più adeguata a combinarsi in senso qualitativo, quantitativo e temporale con gli altri fattori – materie prime, lavoro umano, modalità di gestione, conoscenze ed esperienze – per ottenere il prodotto idoneo per tipo, qualità e quantità, ad essere offerto sui mercati interni o esteri sui quali l’azienda intende operare» (Cavalieri & Franceschi, 2008, p. 34). Del resto l’economicità non è il risultato di una semplice somma ma la risultante delle utilità dei singoli elementi variamente combinati. L’individuazione di un fattore solo mediante il suo costo non riesce a rappresentare pienamente il contributo apportato dallo stesso fattore nella creazione del valore e che, invece, è legato in maniera determinante anche alle sue caratteristiche qualitative. In effetti, se da un punto di vista contabile il “costo del lavoro” può essere rilevabile sulla base di puntuali rilevazioni, ben diverso appare il problema di valutare il “peso” che il fattore lavoro può svolgere nella creazione del valore. Il concetto stesso di “valore” ha presentato, fin dalle sue origini, diverse sfaccettature. Così, ad esempio, una pietra preziosa può avere un elevatissimo valore di scambio ma risulta tale da soddisfare un bisogno non primario; in tal senso può avere un valore d’uso sicuramente superiore un bene alimentare di base quale il pane, necessario per la sopravvivenza stessa di una popolazione. In termini economici si può tendere ad associare al valore proprio di ogni attività che contribuisce alla realizzazione di un prodotto il relativo costo. Ciò anche se, con specifico riferimento al fattore umano, tale abbinamento non consente di cogliere appieno il contributo che tale fattore può fornire per il perseguimento di obiettivi di competitività delle stesse aziende in un mercato sempre più globale, nel quale si rende necessario il confronto con i cosiddetti paesi “emergenti”, confronto che si basa proprio sulla diversa incidenza dei costi di produzione. Nella letteratura economico-aziendale si parla non casualmente di ciclo del valore delle risorse umane che si basa su quattro nodi fondamentali: le persone, le relazioni, le prestazioni e la valorizzazione (Costa & Giannecchini, 2013). In particolare proprio la valorizzazione delle prestazioni del personale può essere 218

considerata funzione della capacità dell’azienda di inserire il valore generato dalla risorsa umana nella catena del valore aziendale. Anche a parità di “costo contrattuale” differente è il contributo che può derivare dal lavoro umano, dovendo considerare l’influenza di un complesso di fattori, quali, ad esempio, l’organizzazione di uomini e mezzi, le macchine e gli impianti con livelli di tecnologia più o meno avanzati, l’estrazione territoriale e culturale dello stesso personale, i sistemi di controllo, ecc. Si può pensare, anche, nei tempi in cui viviamo e vieppiù in un prossimo futuro, alle possibilità di spostare, grazie alle opportunità offerte dalle moderne tecnologie informatiche e telematiche, il lavoro e non i lavoratori (si pensi alle esperienze di telelavoro), nonché alla crescente tendenza di decentrare parti delle proprie attività, che non appartengono al proprio “core business” aziendale, verso i cosiddetti paesi “emergenti”. Si tratta di un insieme di condizioni in grado di incidere sul modo di lavorare e di produrre e, per molte attività, non sembra più possibile specificare le prestazioni lavorative sulla base del tradizionale “conteggio” delle ore lavorate e dei pezzi realizzati. Appare altresì importante sottolineare che non risulta possibile definire una relazione combinatoria espressa in termini quantitativi che risulti valida a livello assoluto in campo economico-aziendale: si evidenziano in ogni realtà aziendale una serie di condizioni di variabilità della stessa combinazione che, per poter continuare a rispondere alle esigenze di economicità, deve essere costantemente controllata e, se necessario, riveduta. Analizzando le modalità in base alle quali il mutamento di un fattore si riflette sugli altri e sulla combinazione nel suo insieme, si può evidenziare come ogni variazione qualitativa o quantitativa in uno dei fattori provochi sempre variazioni negli altri (n – 1) elementi della combinazione in modo tale da richiedere l’impostazione di un nuovo rapporto combinatorio. In termini, invece, di relazioni di “composizione” emerge l’esigenza, nell’ambito delle condizioni necessarie per il funzionamento dell’azienda, di comporre, come ricordato, l’azione esercitata dalle forze esterne favorevoli o contrarie con quella delle forze interne promananti dai fattori e dalla loro combinazione, ugualmente positive o negative. L’ordine di composizione costituisce una condizione dinamica di funzionamento assai critica da raggiungere e da mantenere, così come assume una notevole importanza in quanto la funzione stessa di creazione della ricchezza e del valore in larga parte dipende proprio dal rapporto con il mercato e con l’ambiente. Si può rilevare come l’area delle relazioni grazie alle quali poter raggiungere l’ordine di composizione rappresenta il campo di azione del management nel quale si esplicano le diverse strategie adottate. Appare, quindi, importante per 219

l’azienda ricercare tale ordine quale condizione per un funzionamento della stessa che porti al perseguimento della finalità generale consistente nell’equilibrio economico durevole ed evolutivo. In effetti, la funzione fondamentale svolta dall’azienda consiste nella più volte citata creazione di ricchezza e di valore per sé stessa e per le diverse categorie di portatori di interesse nei suoi confronti ma tale funzione non può essere limitata ad un periodo definito ma deve estendersi nel tempo: in altri termini, la creazione di valore può essere ravvisata nel raggiungimento, conservazione, miglioramento di posizioni di equilibrio economico durevole ed evolutivo. L’equilibrio economico rappresenta, di conseguenza, una condizione inderogabile per la sopravvivenza della combinazione aziendale ed in esso si riassumono tutti i diversi aspetti della gestione.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2014 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

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