Twin Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici 8857500829, 9788857500829

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N. 6

Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università “Insubria”, Varese) Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese) Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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ROBERTO MANZOCCO

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TWIN PEAKS, DAVID LYNCH E LA FILOSOFIA La Loggia Nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici

MIMESIS Il caffé dei filosofi

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© 2010 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Il caffé dei filosofi n. 6 www. mimesisedizioni. it / www. mimesisbookshop. com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 E-mail: mimesised@tiscali. it Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: info. mim@mim-c. net

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INDICE

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INTRODUZIONE. VEDERE L’INDICIBILE I. I REGISTI NON SONO QUELLO CHE SEMBRANO 1. Misticismo, teosofia e TV 2. Il mistico David Lynch 3. Ritorno all’antica India 4. Il “mana” di David Lynch: fuoco, vento, cani ed elettricità 5. La gnosi oscura di David Lynch 6. Un horror spirituale: Eraserhead – La mente che cancella 7. Il teosofo Mark Frost 8. Alla ricerca della Loggia Bianca 9. Lynch/Frost Productions II. È ACCADUTO A TWIN PEAKS 1. I telefilm, porte su altri mondi 2. Fondazione di una città immaginaria 3. I segreti di Twin Peaks: prima stagione 4. Seconda stagione: l’arrivo del Gigante e la cattura dell’assassino 5. In cammino verso la Loggia Nera 6. Ritorno a Twin Peaks? III. L’OSCURITÀ CHE SI NASCONDE NEI BOSCHI 1. Un negozio conveniente 2. Gli Arconti di Twin Peaks 3. La Dimora del Limite Estremo 4. “Riordinare la Terra”: la Loggia Nera e i paradossi dell’onnipotenza

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Julius Evola, Aleister Crowley, Windom Earle L’ineffabile Loggia Bianca Una pausa-caffè con l’Uomo Da Un Altro Posto Massoni a Twin Peaks: i “Bookhouse Boys”

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IV. NELLA LOGGIA 1. Re Artù a Twin Peaks 2. Appuntamento dove finisce il mondo 3. Cooper alla prova del fuoco 4. La carica dei doppelgänger 5. Veicoli recalcitranti V. INCUBI AL GUSTO DI GARMONBOZIA 1. Fuoco Cammina Con Me 2. Gli X-files di David Lynch 3. “Viviamo dentro un sogno” 4. “E così loro stavano là” 5. L’enigma di Judy 6. “Il mondo è un ologramma, Albert” 7. L’uomo con la maschera e la garmonbozia VI. C’È DEL METODO IN QUESTA FOLLIA 1. Un puzzle in corso d’opera 2. Modulare la frequenza del mondo: Lost Highway 3. Un universo attorcigliato: Mulholland Drive 4. Un sogno a più strati: Inland Empire

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Attendono gli uomini, dopo la morte, cose che essi non sperano né immaginano. Eraclito

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INTRODUZIONE VEDERE L’INDICIBILE

Se vi avvicinate, per eccesso o per difetto, ai trent’anni d’età, e se soffrite almeno un po’ di teledipendenza, non potete non ricordare Twin Peaks, il telefilm che nel 1991 furoreggiò per alcuni mesi su Canale Cinque. Se poi avete seguito almeno i primi episodi, sarete stati certamente colpiti da uno degli elementi più surreali e spaesanti di tutta la serie, cioè la bizzarra stanza che l’agente Cooper, il protagonista di Twin Peaks, visita in sogno, con le sue tende rosse, la sua illuminazione soprannaturale, e soprattutto i suoi strani occupanti. Dietro quel delirio visivo c’è un regista che ha fatto e fa ancora parlare di sé: David Lynch. Una delle prime cose che il neofita curioso si chiede è: ma come sarà venuta in mente a Lynch una tale immagine, così lontana dal senso comune? L’origine della stanza rossa, lui la racconta così: Un giorno d’estate mi trovavo in un laboratorio di sviluppo e stampa, le Consolidated Film Industries di Los Angeles. Allora stavamo montando la puntata pilota di Twin Peaks e per quel giorno avevamo finito. Erano circa le sei e mezzo del pomeriggio e ci trovavamo all’esterno dell’edificio. Nel parcheggio c’erano alcune auto. Posai la mano su un tettuccio ed era caldo, molto caldo: non bollente, ma piacevolmente caldo. Stavo lì con la mano appoggiata sul tettuccio quando – puf! – apparve la ‘stanza rossa’. Quindi i personaggi che parlano e si muovono al contrario e alla fine alcuni dialoghi. Ebbi quest’idea, questi frammenti d’idea. Me ne innamorai. Inizia proprio così. L’idea ti dice di costruire la ‘stanza rossa’. Ci pensi su. ‘Aspetta un attimo,’ dici ‘le pareti sono rosse, ma non solide’. Allora continui a pensare. ‘Sono tende. Non opache, ma traslucide’. Quindi appendi le tende. ‘Ma per il pavimento… ci vuole qualcosa’. Torni con la memoria all’idea, e sul pavimento c’era qualcosa: avevi tutto sotto gli occhi. Così aggiungi ciò che mancava. Inizi a ricordarla meglio, l’idea. Procedi per tentativi, sbagli ma aggiusti il tiro, aggiungi altri dettagli, ed ecco che la stanza è pervasa dalla stessa identica atmosfera dell’idea.1

1

D. Lynch, In Acque Profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano 2009, pp.93-94.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

Non sappiamo se le cose siano andate esattamente così – e d’altronde il pavimento a zig-zag della stanza rossa Lynch lo aveva già utilizzato per il suo primo lungometraggio, Eraserhead –, tuttavia ci pare che questo racconto renda bene il personaggio e il suo modo, vagamente mistico e platonico, di lavorare. Lynch vede nelle idee non qualcosa che viene prodotto, ma piuttosto qualcosa di pre-esistente, che può essere catturato, basta immergersi abbastanza profondamente in se stessi. Proprio a questo regista, e soprattutto al telefilm che lo ha reso così noto e che ha rivoluzionato il modo di fare televisione, è dedicato questo libro. I cinefili sanno bene che, nel caso di Lynch, le chiavi di lettura sono numerosissime.2 Potremmo cominciare scomodando Freud, Jung, Lacan o altri esponenti del movimento psicanalitico; potremmo chiamare in causa gli storici dell’arte e far notare le somiglianze tra sequenze di film lynchani e tele di pittori amati dal regista, come Francis Bacon ed Edward Hopper. E ancora: potremmo andare a caccia delle numerosissime citazioni prese dalla storia del cinema e inserite da Lynch nei suoi film per omaggiare le opere che ha apprezzato di più. Oppure potremmo rintracciare i segni dell’influenza di una serie di romanzi e un film molto cari al nostro regista, cioè quelli del Mago di Oz. Si tratta però di un lavoro per specialisti, e questo libro mira invece a fare divulgazione; più in particolare vorremmo far interagire due ambiti, quello del cinema e quello della filosofia, cercando di far emergere un po’ alla volta le concezioni filosofiche implicite nelle opere lynchane. Non è dunque un libro di filosofia, non è un libro su Twin Peaks e non è un libro su Lynch. È invece un libro che, a partire da Lynch e soprattutto da Twin Peaks, vuole parlare un po’ di filosofia – anche se qui la intendiamo in un’accezione molto ampia, e vi includiamo il pensiero orientale, la Kabbalah, e molto altro ancora. È divulgazione filosofica, quindi i filosofi e gli studiosi di tutte le dottrine chiamate in causa non se ne abbiano a male se il taglio che daremo al nostro lavoro non sarà accademico, ma giornalistico. Questo è inoltre un manuale che, basandosi su altri lavori e su analisi accurate, vuole offrire alcune indicazioni per capire meglio i film di Lynch e quindi apprezzarli di più. Anche qui vale il discorso che abbiamo appena fatto: è probabile che gli specialisti del cinema lynchano abbiano da ridire

2

Consigliamo ad esempio la lettura di: C. Rodley, Lynch secondo Lynch, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1998. Oppure: P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, ETS, Pisa 2008.

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Introduzione. Vedere l’indicibile

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sulle intepretazioni che offriamo o che abbiamo elaborato; esse però vanno prese per quello che sono, cioè indicazioni preliminari. Ci limiteremo a giocare con due caratteristiche tipiche del lavoro di Lynch, cioè il suo talento visivo e visionario, e la sua passione per la mistica, per l’inesprimibile, ossia per ciò che non può essere detto, ma solo mostrato. Se saremo riusciti a suscitare in qualche lettore il desiderio di vedere o rivedere Twin Peaks o alcuni dei film di Lynch, o di approfondire le tematiche filosofiche che abbiamo toccato, scrivere questo libro sarà senz’altro valsa la pena.

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I I REGISTI NON SONO QUELLO CHE SEMBRANO

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1. Misticismo, teosofia e TV I fan de I segreti di Twin Peaks – e sono ancora molti, in Europa come in America – sanno bene che i creatori della loro serie preferita non sono due semplici autori tv, due professionisti del piccolo schermo capaci di confezionare un qualunque telefilm di successo. Per certi aspetti, David Lynch e Mark Frost possono essere considerati due esoteristi appassionati di questioni magiche e spirituali, che hanno deciso di trasformare le proprie concezioni e le proprie ossessioni in un’opera davvero peculiare, Twin Peaks, una serie che non si limita a mescolare generi diversi – dal paranormale al thriller, dal noir alla soap opera –, ma che strizza l’occhio alla meditazione orientale, all’occultismo, al pensiero massonico, e a molto altro ancora. I due registi hanno dato fondo alle proprie conoscenze, mistiche e metafisiche, per creare un vero e proprio mondo, il quale, con l’andare del tempo, ha assunto vita propria, spingendo i fan più accaniti a esaminare nel dettaglio ogni singola parte dell’opera, per rispondere a domande sulla natura di BOB e delle altre entità soprannaturali che vi compaiono, sui segreti della Loggia Nera, su cosa sia l’enigmatica garmonbozia. A dirla tutta, Lynch vanta una lunga frequentazione con la Meditazione Trascendentale e il pensiero orientale, Frost con la teosofia di Helena Blavatsky. Prima di addentrarci in questa cittadina a un tempo immaginaria e così reale, e tra gli oscuri boschi che la circondano, dobbiamo capire più in generale chi siano e cosa pensino David Lynch e Mark Frost, quale sia la loro visione del mondo, quali le loro radici, in modo da disporre di una mappa concettuale che consenta di aggirarci con tranquillità nell’inquietante universo di Laura Palmer, Dale Cooper e BOB.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

2. Il mistico David Lynch

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Cominciamo quindi con colui che è considerato, a torto o a ragione, il principale creatore della serie, ossia David Lynch. Nato nel 1946 a Missoula, nel Montana, Lynch ha studiato arti figurative, per poi dedicarsi al cinema. È lui stesso a raccontarci questi particolari, nel libro In Acque Profonde:1 “La mia fu un’infanzia qualunque, trascorsa nel Nordovest degli Stati Uniti. Mio padre era un ricercatore del Ministero dell’Agricoltura, si occupava di alberi. Così trascorrevo moltissimo tempo nei boschi. Per un bambino sono luoghi magici. Vivevo nella cosiddetta provincia americana.” In seguito Lynch decise di dedicarsi alla pittura: Così ero un pittore. Dipingevo e frequentavo l’accademia di belle arti. Non ero per niente interessato al cinema. […] Un giorno mi trovavo all’accademia di belle arti della Pennsylvania, in una grande aula da disegno. Era suddivisa in piccoli spazi di lavoro. In uno ero seduto io, circa alla tre del pomeriggio. Avevo un dipinto per le mani, un giardino di notte. Predominava il nero, con piante verdi che emergevano dall’oscurità. Improvvisamente iniziarono a muoversi e udii il vento. Non ero sotto l’effetto di droghe! ‘Che meraviglia!’ pensai. Così iniziai a chiedermi se il cinema potesse essere uno strumento per far muovere i quadri.2

Da questa esperienza deriva, come si può ben immaginare, l’approccio essenzialmente visivo e visionario e il particolare stile “pittorico” del cinema lynchano. Chi volesse maggiori dettagli sulla vita e sulle opere di Lynch non dovrà far altro che procurarsi qualche libro sul tema o rivolgersi alla Rete; quello che qui invece ci interessa è mettere in luce alcuni aspetti della sua carriera e della sua vita privata che ci aiutino a capire meglio le sue opere, e in particolare Twin Peaks. Innanzitutto un fatto abbastanza noto: a partire dal 1973 Lynch pratica quotidianamente la meditazione, e in particolare la cosiddetta “Meditazione Trascendentale”, una tecnica elaborata e importata in Occidente da Maharishi Mahesh Yogi. Data l’importanza attribuita da Lynch a questa figura e al pensiero indiano in generale sarà allora il caso di partire proprio da tali tematiche. Maharishi Mahesh Yogi è quello che potremmo chiamare un santone indù, e anche molto celebre, visto che, tra i suoi seguaci, troviamo i Beatles, Clint Eastwood, i Beach Boys, i Rolling Stones, Jane Fonda, Mia Farrow, Shirley MacLaine, Stevie Wonder e, ovviamente, il nostro Lynch. 1 2

D. Lynch, In Acque Profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano 2009, p.15. Ibid. p.19.

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I registi non sono quello che sembrano

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Nato in India nel 1918, morto in Olanda novant’anni dopo, questo controverso personaggio ha attinto alla ricca e variegata tradizione indiana per sviluppare un insieme di tecniche che ha battezzato Meditazione Trascendentale e che ha poi diffuso in tutto il mondo tramite predicazione diretta, fondando scuole, tenendo corsi e pubblicando libri. Dopo aver dato inizio nel 1958 ai suoi “tour” mondiali, Maharishi Mahesh Yogi ha attraversato l’India, la Cina, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, finendo con lo stabilire la propria “base” a Vlodrop, in Olanda. Ma in cosa consiste questa tanto declamata Meditazione Trascendentale? In una semplice pratica meditativa, da effettuarsi due volte al giorno per venti minuti, la quale dovrebbe offrire una serie di benefici come il “raggiungimento della pace interiore”, il “pieno sviluppo del proprio potenziale” e così via. La posizione di Lynch su questo tema è molto chiara: “Il programma di meditazione trascendentale che pratico da trentatré anni ha svolto un ruolo fondamentale per il mio lavoro nell’ambito del cinema e della pittura e per ogni sfera della mia vita; è stato il modo per immergermi in acque sempre più profonde a caccia del pesce grosso”.3 Se le promesse si fermassero qua, e se la MT fosse solo una tra le tante tecniche per stimolare la creatività artistica, non ci sarebbe nulla da ridire. I fautori di questa pratica si spingono però oltre, arrivando a dichiarare che chi pratica la MT può addirittura conseguire il “volo yogico”, cioè, in buona sostanza, levitare – il tutto documentato da fotografie rigorosamente autoprodotte, sulla cui bontà si potrebbe sollevare qualche dubbio. Non che la MT e le sue mirabolanti affermazioni rappresentino un’assoluta novità, nel panorama religioso e magico indiano, anzi: in India non mancano, a partire dalle scuole di pensiero più antiche, i sostenitori della pratica meditativa come strumento per procurarsi i cosiddetti “shiddi”, ossia una serie di poteri paranormali che vanno dalla capacità di rimpicciolirsi o ingigantirsi a piacere, al potere dell’invisibilità, a quello di guarigione, D’altronde, chi voglia un buon spaccato di questa mentalità non deve far altro che andarsi a rivedere il classico film di Alberto Sordi Sono un fenomeno paranormale, che, pur in un’ottica ironica, mette in luce il pensiero magico che caratterizza molti santoni indù. La stessa MT si basa su tecniche di meditazione già consolidate da secoli, e sulla cosiddetta “scienza vedica”, cioè l’insieme di conoscenze e concezioni provenienti dai Veda, gli antichi testi sacri degli invasori ariani dell’India. Niente di nuovo sotto il Sole, dunque, visto che anche per la MT tutto ruoterebbe attorno ai Veda, alle Upanishad, alla Bhagavad-Gita e agli altri testi sacri dell’induismo. 3

Ibid., p.8.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

La MT prevede due sedute quotidiane di meditazione in cui il praticante pronuncia ripetutamente un “mantra”, cioè un suono sacro, che ha la funzione di metterlo in contatto con “la realtà ultima” e “più profonda.” A questo proposito è lo stesso Lynch a informarci che “ogni singola cosa esistente proviene da un livello più profondo. La fisica moderna lo chiama ‘campo unificato’. Più la tua coscienza è dilatata, più scendi in profondità verso questa sorgente.”4 A prescindere dal fatto che, di fronte a queste considerazioni, la fisica teorica contemporanea tende in genere a scuotere il capo con fare sconsolato, è interessante notare l’elevato livello di coinvolgimento di Lynch in questa mentalità spiritualistica orientale scientificamente traballante. Secondo i promotori della MT a ognuno degli studenti – e sono moltissimi – verrebbe comunicato un mantra individuale, una sorta di formula mistica insomma, un “suono-vibrazione-pensiero” diverso da tutti gli altri, con l’indicazione di ripeterlo durante le proprie sedute di meditazione e con l’ordine tassativo di non rivelarlo a nessuno, probabilmente perché, così facendo, i praticanti scoprirebbero che tale mantra non è poi così personalizzato. L’idea sottostante a tutto ciò – esposta da Maharishi Mahesh Yogi già nel 1963 nel libro The Science of Being and Art of Living – è che esisterebbero sette livelli di coscienza, e cioè la veglia, il sogno, il sonno profondo, la coscienza pura o trascendentale, la coscienza cosmica, la coscienza di Dio e infine la coscienza dell’unità, o sapere supremo. Manco a dirlo, la MT rappresenterebbe la strada maestra per raggiungere tali livelli di coscienza, uno dopo l’altro: la coscienza pura può essere raggiunta tramite la semplice pratica della MT, mentre la coscienza cosmica può essere raggiunta da chi pratica la tecnica in questione in modo diligente. I livelli superiori possono essere infine raggiunti da coloro che si dedicano con grande energia alla MT; secondo Maharishi il suo maestro Guru Dev sarebbe riuscito a raggiungere il settimo livello. Al lato pratico tali livelli implicano un crescente stato di “beatitudine”. Tale condizione viene così descritta da un entusiasta Lynch, che nel passo seguente illustra la sua “prima volta”: Sedetti, chiusi gli occhi, iniziai a mormorare il mantra e mi sembrò di stare in un ascensore al quale avessero tagliato la fune. Bang! Caddi in uno stato di beatitudine. C’ero proprio dentro. […] Sembrò un’esperienza molto familiare, ma completamente nuova e potentissima allo stesso tempo. Da allora, per me l’aggettivo ‘irripetibile’ dovrebbe essere usato esclusivamente per descrivere questa esperienza. Ti accompagna in un oceano di coscienza pura, di ricettività pura. È familiare, però: quest’oceano sei tu. Immediatamente affiora una 4

Ibid., p.7.

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sensazione di felicità.5 […] ‘Il soffocante costume di gomma da clown della negatività’, ecco come chiamo quel misto di depressione e rabbia. […] Appena inizi a meditare e a immergerti in te stesso, però, il costume da clown comincia a svanire.6

Ad ogni buon conto la MT ebbe all’epoca del suo sbarco in America un successo vastissimo, tanto che, stando a un sondaggio Gallup del 1976, in tale periodo il 4 per cento degli americani aveva avuto a che fare in qualche modo con questa pratica. Dato l’enorme seguito e le affermazioni piuttosto eclatanti, come quella del volo yogico, la MT non poteva non suscitare l’interesse degli scettici organizzati, cioè di tutti quei gruppi e studiosi che si propongono di passare al vaglio della razionalità e del metodo scientifico le affermazioni più straordinarie del paranormale in tutte le sue forme. Tra i critici abbiamo l’americano CSICOP7 – fondato, tra gli altri, dal filosofo Paul Kurz e dal celebre prestigiatore James Randi – e l’italiano CICAP8 – frutto degli sforzi di Piero Angela e di molti scienziati del nostro paese. È fuor di dubbio che il movimento di Maharishi Mahesh Yogi produca un giro d’affari enorme – alla fine degli anni Novanta le cliniche, le scuole e le proprietà terriere in possesso di tale organizzazione erano valutate attorno ai tre miliardi di dollari. L’addestramento di base, che si esegue una tantum, costa 2500 dollari. Ma, al di là dell’aspetto economico, a finire nel mirino degli scettici sono state soprattutto le straordinarie affermazioni dei seguaci della MT, le quali richiederebbero a rigore prove altrettanto straordinarie. Se agli inizi i membri del movimento sostenevano la possibilità per i praticanti di levitare – dichiarazioni “corroborate” da foto di studenti che saltellavano su un materasso a gambe incrociate, immagini che davano effettivamente l’impressione che essi stessero fluttuando a mezz'aria –, successivamente cambiarono linea, e smisero prudentemente di fare tali affermazioni. Un’altra dichiarazione della MT suscettibile di controllo empirico è quella che riguarda il cosiddetto “effetto Maharishi”; in pratica, secondo i suoi proponenti, se in un certo luogo c’è un numero sufficiente di persone che praticano la tecnica in questione, ciò produrrà effetti benefici di vario tipo, ad esempio diffondendo un’atmosfera di pace, riducendo il tasso di criminalità locale e di disoccupazione, diminuendo il numero degli incidenti automobilistici e addirittura favorendo la crescita del grano. Si tratta di un’affermazione molto forte, e soprattutto che può essere sotto5 6 7 8

Ibid., pp.10-11. Ibid., pp.13-14. Committee for the Scientific Investigation of Claims of the Paranormal. Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale.

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posta a verifica sperimentale, tanto che c’è chi ci ha pure provato. Nella fattispecie uno dei membri dello CSICOP, lo psicologo Ray Hyman, si è recato a Fairfield, nell’Iowa, dove ha sede la Maharishi International University e dove ben il 13 per cento della popolazione locale pratica la MT; le sue analisi, basate sui dati forniti dal Dipartimento dell’Agricoltura, dalla polizia locale e dalla Motorizzazione Civile, hanno smentito chiaramente le suddette affermazioni. Tutto ciò non ha impedito a David Lynch di essere coinvolto sempre di più nella MT, tanto che, a partire dal 2005, il regista ha creato la David Lynch Foundation For Consciousness-Based Education and Peace, una ong che mira a diffondere tale pratica – soprattutto tra i bambini, tramite apposite borse di studio.

3. Ritorno all’antica India Come abbiamo detto però, al di là degli aspetti un po’ dubbi e ciarlataneschi, la MT non è una semplice creazione di Maharishi, ma si radica profondamente nel pensiero indù, ed è per questo che, se vogliamo capire la visione delle cose che Lynch vuole trasmetterci attraverso le sue opere, dobbiamo andare noi stessi alla fonte originaria, prestando così un po’ d’attenzione al pensiero proveniente dall’India. L’induismo rappresenta una vera e propria “enciclopedia delle religioni”, in quanto in esso vediamo rappresentate contemporaneamente tutte le fasi dello sviluppo religioso dell’umanità, dall’animismo primitivo alla mistica, dal politeismo al riconoscimento di una deità suprema. In particolare la “realtà trascendente” o “ultima” è ritenuta essere al di là delle limitate capacità di comprensione umane. Dio, se così vogliamo chiamarlo, è inconoscibile, e può essere definito solo per via negativa, dicendo ciò che non è anziché ciò che è. Come è ovvio l’induismo ha sviluppato molte concezioni diverse del divino e della natura della realtà, concezioni che non possiamo ora trattare in modo esteso. Basti dire che questa “religione-filosofia-visione del mondo” viene classificata come “enoteismo”. Con questo termine si indica qualunque approccio religioso di tipo politeista che consideri nel contempo le diverse divinità come manifestazione di un mondo divino più o meno unitario e che consenta ai fedeli di scegliere quale specifico dio adorare e “utilizzare” come via d’accesso privilegiata al mondo trascendente in generale. I culti animistici dei villaggi indiani, l’adorazione di Vishnu o di Shiva, lo svolgimento dei più classici riti tradizionali prescritti dai Veda, la ricerca del congiungimento extra-mentale diretto con il divino propugnato da diverse scuole Yoga o da dottrine come il Tantrismo: tutte queste pratiche, e mol-

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te altre ancora, rappresentano vie ugualmente valide per avvicinarsi, per quanto è possibile, alla divinità. Scendiamo più nel dettaglio, e diamo un’occhiata ai loro principali testi sacri, i Veda, una raccolta molto antica prodotta dagli arii, una popolazione indoeuropea – proprio come i latini, i greci, i germanici e così via – che invase l’India del Nord circa duemila e duecento anni prima di Cristo e che stabilì le fondamenta della religione indù. Come per i greci, anche per gli arii l’atto del conoscere si identificava sostanzialmente con quello del vedere, e infatti la radice sanscrita del nome “Veda” fa riferimento proprio a tale verbo – basti pensare all’assonanza con il latino “video”, cioè “vedo”. Gli arii credevano nell’esistenza di una sorta di legge cosmica, alla quale bisognava adeguarsi tramite la corretta esecuzione dei rituali prescritti nei loro testi sacri; a guardia di tale legge vi era una divinità, Varuna, che gli studiosi di mitologia comparata identificano con il dio greco-romano Urano. Tra i vari riti officiati dai sacerdoti arii ve n’era uno particolarmente importante, che consisteva nel consumo di una bevanda sacra, nota come Soma, la cui composizione è ancora oggetto di speculazione e che comunque pare avesse proprietà allucinogene – un po’ come tutte le altre bevande sacre del mondo antico, dal vino all’hashish, dall’oppio ai vari tipi di fungo psichedelico consumati da molte popolazioni del Vecchio e del Nuovo Mondo. Mano a mano che gli arii si impossessarono dell’India iniziarono ad acquisire le usanze sciamaniche delle locali popolazioni di colore, i dravidi, tecniche come l’uso di formule magiche ripetute, ossia i mantra. Un po’ alla volta le tradizioni arie e le acquisizioni cultuali successive si coagularono nei quattro testi principali che compongono i Veda, cioè il Rigveda, il Sāmaveda, lo Yajurveda e l’Atharvaveda, opere composte tra il 2000 e il 1100 avanti Cristo. Essendo il testo più antico, il Rigveda è anche quello più vicino allo spirito originario degli arii, contiene molte essenziali indicazioni di culto dell’antica religione vedica e ha come protagoniste le più antiche divinità dell’induismo, alcune delle quali sono state poi messe da parte – in particolare il dio guerriero Indra, signore del fulmine, sovente paragonato a Ercole o a Thor. Dopo i Veda i testi sacri più importanti della religione indù sono le Upanishad, termine che deriva dalla frase in sanscrito “sedersi vicino” e che si riferisce all’atto con cui l’allievo si siede accanto al proprio guru e lo ascolta in religioso silenzio. Si tratta di commenti o approfondimenti dei testi vedici, in cui si illustra la filosofia sottostante alla visione induista del mondo e si spiega la pratica meditativa. Composte tra il diciassettesimo e il sedicesimo secolo avanti Cristo, le Upanishad ammontano a più di due-

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cento testi, anche se quelli veramente importanti sono una quindicina – tra cui la Mandukya, la Katha e la Svetashvatara Upanishad. Proseguendo nel nostro excursus attraverso i testi sacri dell’induismo, incontriamo la Bhagavad Gita, cioè il “Canto del Beato”, la cui composizione risale a un periodo compreso tra il quinto e il secondo secolo avanti Cristo; si tratta di un poema contenuto all’interno di un'opera molto più ampia, il Mahābhārata, la cui prima stesura risale probabilmente all’ottavo secolo prima di Cristo. Nel contesto di una guerra che contrappone due potenti famiglie, i Pandava e i Kaurava, il prode guerriero Arjuna, membro della prima, si rivolge a Krishna in preda allo sconforto. Quest’ultimo, manifestazione di Vishnu, gli indica le tecniche necessarie per liberarsi dal “samsara”, cioè dal ciclo delle morti e delle rinascite, e per ottenere quindi la liberazione definitiva dalla necessità di reincarnarsi, gli insegna la virtù del “non-attaccamento” e la fondamentale importanza della “bhakti”, cioè dell’unione con Dio attraverso la devozione e l’amore; il poema può essere visto in sostanza come un manuale spirituale. L’importanza di questi testi per David Lynch non va sottovalutava, un fatto sottolineato anche dalle citazioni della Bhagavad Gita che il regista ha inserito nel suo libro In Acque Profonde. Sui Veda, sulle Upanishad e sulla Bhagavad Gita si fonda dunque l’induismo, il quale poi si è concretizzato in sei scuole di pensiero, dette “darshana”. La più antica è la scuola Samkhya; secondo essa l’universo è composto da due realtà ugualmente eterne, un principio spirituale collettivo, cioè i “Purusha” – in pratica le anime – e la “Prakrti”, ossia la materia, che in un certo senso imprigiona i “Purusha”. Nel caso di questa corrente la liberazione consiste nel riconoscimento del fondamentale dualismo alla base della realtà. La scuola Nyaya risale al secondo secolo avanti Cristo e si basa soprattutto sulla logica, tanto che c’è chi l’ha paragonata al pensiero aristotelico. Lungi dall’essere fine a se stessa, per la Nyaya la conoscenza logica e indubitabile della realtà è l’unica via per liberare l’uomo dalla sofferenza. La scuola Vaisheshika mira invece all’analisi di ciò che esiste o che cade sotto i nostri sensi, e alla sua classificazione in diverse categorie – sostanza, qualità, azione e così via –, anche in questo caso con lo scopo di conseguire la liberazione. Famosissima in tutto l’Occidente, la scuola successiva è quella dello Yoga, un insieme di pratiche meditative e purificatorie che punta al ricongiungimento con la divinità; la prima opera sullo Yoga, lo Yoga Sutra, viene attribuita al grammatico indiano Patanjali. Tali pratiche – che includono le varie posizioni dello Yoga, il controllo del respiro e la meditazione – mirano al raggiungimento di uno stato di coscienza superiore, il cosiddetto “Samadhi”. Contraria alla meditazione

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e alle pratiche ascetiche e mistiche, la scuola Mimamsa promuove invece la scrupolosa osservanza del rituale tradizionale vedico; essa rappresenta l’ortodossia della religione vedica. E infine abbiamo la scuola che, dal punto di vista dell’analisi del pensiero di David Lynch, ci interessa di più, e cioè il Vedanta. Questo termine significa “conclusione dei Veda”, in pratica la sua “summa”; questa scuola di pensiero costituisce la base di buona parte dell’induismo moderno e le sue dottrine formano l’ossatura della visione indù del divino, dell’uomo e del suo posto nel cosmo. Come nel caso degli altri darshana, anche il Vedanta si è suddiviso in numerose correnti, che si differenziano tra di loro per quanto riguarda la concezione del divino e della sua relazione con uomo – ci si interroga in pratica sul grado di identificazione tra il Sé del singolo e il principio assoluto. Le posizioni del Vedanta variano dal teismo sostenuto nel dodicesimo secolo da Ramanuja, per il quale Dio è un’entità del tutto separata dall’uomo, al non-dualismo sostenuto nell’ottavo secolo dalla corrente dell’Advaita Vedanta – movimento rappresentato tra gli altri dal filosofo Shankara, e che costituisce la più importante e diffusa versione del Vedanta. Anche Lynch sembra aderire in qualche modo a una visione non-dualista della divinità: Dentro di sé ogni essere umano è un oceano di coscienza pura, vibrante. Quando “trascendi” con la meditazione trascendentale, ti immergi in questo oceano. Ti ci tuffi a bomba. Ed ecco la beatitudine. Ne puoi fremere. Entrare in contatto con la coscienza pura ravviva, dilata questa beatitudine. Inizia a schiudersi e a crescere.9

Il mondo divino dell’Advaita Vedanta, data la sua assoluta trascendenza rispetto al mondo della nostra esperienza, non può essere definito in alcun modo. A rigore non si può dire né che Dio è uno né che è molti, visto che il divino trascende il concetto stesso di numero. E infatti l’induismo, soprattutto nella sua versione vedantica, definisce il divino come “Immensità non-duale” – il termine “Advaita” significa appunto “non-duale”, cioè qualcosa di cui non si può dire né che sia unitario né che sia molteplice. E di che cosa è fatto il mondo, secondo la filosofia indiana e vedantica? Contrariamente a Cartesio, che elenca due componenti essenziali della realtà, la “res cogitans” e la “res extensa”, il pensiero tradizionale indù ne indica tre, e cioè lo spazio, il tempo e il pensiero. Al di sotto dello spazio relativo che incontriamo nella nostra vita quotidiana c’è lo spazio senza limiti, indifferenziato e indivisibile, chiamato “ākāsha”. Allo stesso modo, il tempo che noi esperiamo ogni giorno ha come sostrato un tempo eterno, chiamato 9

D. Lynch, Op. Cit., p.33.

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“akhanda-dan dāyamāna”. Il terzo elemento è il pensiero: esso sta alla base di tutta la realtà, poiché il mondo che noi esperiamo è il frutto appunto del pensiero di un creatore – un pensiero che trascende il mero pensare umano. Non siamo però ancora arrivati al fondo della realtà. Secondo l’induismo lo spazio dipende da qualcosa che “è” prima di esso, e cioè l’esistenza, o se vogliamo, l’“essere”; l’esistenza, chiamata “sat”, precede e fonda dunque lo spazio, rendendolo possibile. Il tempo poi esiste solo in quanto viene percepito, ed ecco che prima di esso ci deve essere un concetto o un’entità ancora più fondamentale, l’esperienza, battezzata “ānanda”. Affinché ci possa infine essere il pensiero ci deve essere la coscienza, “cit”. Stando però alle Upanishad il nostro viaggio nel cuore del Reale non è finito qui, visto che, al di sotto dell’ānanda, ossia la coscienza individuale, c’è la coscienza universale, il Sé, cioè l’“ātman”. Si tratta di un’immensità senza forma, che l’uomo percepisce quando si immerge in sé, e la esperisce come un vuoto che rappresenta il suo io più profondo e che lo accomuna a tutti gli altri esseri viventi. In parole povere lo potremmo definire come il nostro “Oceano interiore”. Ma il nostro tragitto prosegue: oltre l’eternità, oltre l’esistenza, oltre la coscienza universale, c’è un principio ancora più profondo, che unisce e supera tutti gli altri, e che le Upanishad definiscono “unità indivisibile di Esistenza, Coscienza ed Eternità”: il “brahaman”. Da esso “la mente e la parola recedono perché non hanno più presa” recita la Taittirīya Upanishad. Questo principio è incomprensibile e ineffabile, la sua natura non può essere pensata né tanto meno espressa a parole o in qualunque altro modo. Ci si potrebbe chiedere allora come mai, se sappiamo tutte queste cose, non riusciamo a vedere la realtà per quello che è, cioè infinita ed eterna. La metafisica indù ha però la risposta pronta, e la trova nel concetto di “māyā”, cioè l’illusione, il metaforico velo prodotto dall’ignoranza che, calato sui nostri occhi, ci mantiene in tale condizione e ci tiene imprigionati nel samsara.10 Reso popolare in Occidente nell’Ottocento dal filosofo Arthur Schopenhauer con il nome di “Velo di Maya” – e dai lui usato per sottolineare come la nostra realtà quotidiana non sia altro che un’illusione o un sogno – tale concetto ricorda molto il mito platonico della caverna, per il quale gli esseri umani sarebbero appunto come schiavi incatenati in una caverna, costretti a guardare le ombre illusorie proiettate sul fondo di essa e impossibilitati a liberarsi e a vedere la luce del Sole.

10

Chi volesse approfondire la conoscenza del pensiero indù, può rivolgersi a: A. Daniélou, Miti e Dèi dell’India, Rizzoli, Milano 2008.

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4. Il “mana” di David Lynch: fuoco, vento, cani ed elettricità Sarebbe troppo facile però ridurre la visione del mondo di Lynch a una sorta di epifenomeno del pensiero indiano; c’è dell’altro. A nessuno dei suoi fan è sfuggita l’estrema attenzione che il regista dedica a elementi e fenomeni naturali particolari, che ritroviamo in buona parte dei suoi film. Lynch è affascinato soprattutto dall’energia elettrica, dal vento, dai cani, dal fuoco, elementi che hanno generato un linguaggio visivo ricorrente e molto significativo, che vale la pena di esaminare più da vicino. “Stare seduti davanti al fuoco è ipnotico. Magico”, dice Lynch. “Provo le stesse sensazioni con l’elettricità. Il fumo. Le luci tremolanti”.11 È la magia il tema centrale, e un’analisi accurata rivelerà come il regista ami riempire i suoi film di questi elementi magici, un fatto che emergerà chiaramente in Twin Peaks, dove l’elettricità indica la presenza, nei paraggi, di entità soprannaturali. Non si tratta però dell’elettricità di cui parlano i nostri manuali di fisica, ma della sua versione pre-scientifica, a cui erano abituati i nostri antenati, per i quali tale manifestazione era un segno della presenza divina. Il fuoco poi ha una valenza di tipo magico-emotivo: quando appare, indica che emozioni molto intese si stanno scatenando. I cani infine riacquistano nell’ottica lynchana le valenze profetiche e paranormali attribuite loro dalla tradizione popolare e dalla parapsicologia. Si tratterebbe in sostanza di animali dotati di un sesto senso, in grado di avvertire la presenza di entità demoniache invisibili all’uomo: basti pensare ai cani che abbaiano furiosamente in Fuoco Cammina Con Me durante il confronto “automobilistico” tra Mike e BOB, o ai cani che si odono in lontananza nelle prime sequenze di Lost Highway, i quali segnalano la presenza del pericolo imminente incarnato dall’inquietante Uomo del Mistero. Ora dobbiamo studiare con attenzione la mentalità primitiva che Lynch riabilita e introduce nei suoi film, per vedere se ci offre chiavi di lettura inedite. Innanzitutto dobbiamo chiederci: che cosa passava per la testa degli uomini primitivi? Come vedevano il mondo? Credevano in Dio oppure no? E che ruolo aveva la magia in tutto ciò? Per trovare una riposta a questa domanda dobbiamo fare un tuffo nel passato, ma non in quello preistorico, bensì tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, un periodo caratterizzato da un forte scontro tra scienza e fede e dallo sviluppo delle scienze umane – un particolare la sociologia e l’antropologia culturale. Entrambi gli schieramenti – atei, socialisti, comunisti e agnostici da un lato, religiosi e credenti nell’esistenza di un’intelligenza superiore, creatrice del mondo, dall’altro 11

D. Lynch, Op. Cit., p.139.

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– cercavano di far passare il proprio atteggiamento filosofico come quello più tipico e originario dell’umanità. In altre parole sia i credenti sia gli atei sostenevano che la propria visione del mondo era connaturata all’uomo fin dal principio, per cui, cercando con cura, si sarebbe scoperto che gli uomini primitivi avevano la tendenza a credere spontaneamente in Dio, oppure a non crederci. Rifacendosi al padre della sociologia contemporanea, Auguste Comte, il sociologo Émile Durkheim e l’etnologo Lucien Lévy-Bruhl ritenevano che la religiosità rappresentasse una fase primitiva dello sviluppo storicoculturale umano, destinata a essere superata dalla nascita di una mentalità razionale. Per il marxismo invece gli uomini primitivi sarebbero stati caratterizzati dalla pressoché completa assenza di qualunque sentimento religioso. Contro tutti questi pensatori polemizzava il teologo cattolico Henri de Lubac, per il quale il bisogno religioso faceva invece parte della natura umana. Tornando ancora più indietro troviamo, nel 1870, lo studioso britannico sir John Lubbock, il quale, dopo aver studiato diverse popolazioni della Terra del Fuoco e dell’Australia, concluse, nel suo libro The Origin of Civilization and the Primitive Condition of Man, che l’umanità preistorica era stata del tutto atea, e dunque priva di una qualsivoglia concezione del divino. Un po’ alla volta i nostri antenati avrebbero poi sviluppato, in un’ottica evoluzionista, concezioni sempre più complesse, dal feticismo all’idolatria, dallo sciamanismo alla religiosità vera e propria. Anzi, per Lubbock esistevano popolazioni primitive a lui contemporanee rimaste atee, come gli arunta australiani, gli yagan della Terra del Fuoco, i melanesiani, e così via. Le affermazioni di Lubbock suscitarono la reazione di un altro studioso britannico, l’antropologo Edward Taylor, secondo il quale l’idea che i popoli primitivi non credessero in alcuna entità superiore dipendeva solo dal fatto che i concetti applicati dai ricercatori occidentali alla visione del mondo delle popolazioni extra-europee erano inadeguati. Questi popoli, sottolineava Taylor, non conoscevano la concezione occidentale di Dio o degli dei, ma ciò non implicava affatto che non ne possedessero una propria. Anzi, secondo lui l’idea di una realtà “superiore” o “trascendente” era stata indotta negli uomini primitivi molto presto e da fattori molto diversi, come i sogni, le visioni, il delirio e l’esperienza della morte. Proprio da questo sarebbe nata la concezione dell’anima, prima estesa a tutti gli oggetti viventi e non-viventi, e poi gradualmente ristretta ai soli esseri umani. Altri infine, come Wilhelm Schmidt, giunsero a sostenere in modo piuttosto estremo che la condizione religiosa di base dell’uomo primitivo fosse il monoteismo.

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Insomma, il dibattito tra sostenitori e negatori dell’esistenza di una religiosità dei popoli primitivi andò avanti a lungo, finché non si giunse a riconoscere che tali popolazioni possedevano una propria mentalità – la cosiddetta “mentalità primitiva”, appunto – non riducibile a nessuna delle concezioni contemporanee, atee o religiose che fossero. Gli inizi del Novecento videro allora lo sviluppo di un concetto nuovo, più adeguato di quelli precedenti a pensare la visione del mondo dell’uomo preistorico, e cioè la nozione di “mana”, con la quale si indicava una sorta di forza immateriale che permeava tutto, dagli oggetti inanimati a quelli viventi. L’idea che, per i popoli primitivi, l’universo fosse pervaso dalla forza in questione – chiamata mana dai melanesiani, “hasina” dai malgasci, “orenda” dagli huroni del Canada, “wakenda” dai nativi americani omaha e così via – venne portata per la prima volta all’attenzione degli antropologi dal missionario inglese Robert Henry Codrington nel suo libro del 1891 The Melanesians. Nel 1915 la nozione di mana venne in fine introdotta in pianta stabile nell’antropologia, grazie al lavoro dell’etnologo tedesco Rudolf Lehmann. Nell’ottica di Twin Peaks il mana svolge un ruolo di una certa importanza, per cui è il caso di pensarlo con cura. Non è facile da capire o da definire, questa forza; secondo Codrington si tratta di una “forza o influsso soprannaturale che agisce compiendo tutto quanto è al di là del potere ordinario dell’uomo e al di fuori dei comuni processi naturali”. La definizione del missionario inglese è stata poi abbandonata, però, in quanto sembrava suggerire che per la mentalità primitiva il mondo comprendesse due parti, cioè quella “naturale” e quella “soprannaturale”. In tempi più recenti il filosofo francese Georges Gusdorf ha sottolineato come quella dei popoli primitivi sia una mentalità “monista”, secondo la quale non esistono un mondo naturale e uno soprannaturale, un mondo fisico e uno trascendente, o metafisico, ma c’è piuttosto una realtà unitaria. Chiunque abbia nozioni elementari di filosofia antica si ricorderà che è di Platone il merito – o la colpa, a seconda dei punti di vista – di aver diviso il mondo in due. Da un lato abbiamo il mondo materiale, che diviene, si trasforma e muore, che è composto da entità imperfette, caduche; dall’altro c’è il mondo delle idee, l’Iperuranio, perfetto, immateriale, eterno. Questa suddivisione tra mondo della materia e mondo dello spirito si trasmetterà attraverso tutta la storia del pensiero occidentale, incarnandosi in molte forme diverse, dalla res cogitans e la res extensa di Cartesio – cioè la mente e la materia –, fino alla distinzione di Popper tra Mondo 1, Mondo 2 e Mondo 3 – cioè l’universo materiale, la mente e infine il mondo delle idee e della cultura.

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A questa contrapposizione tra mondo materiale e mondo delle idee si affianca, parallela e collegata, quella tra soggetto e oggetto, cioè la contrapposizione – che deve in qualche modo essere ricomposta dal pensiero filosofico – tra colui che conosce e la cosa conosciuta. Tutte queste contrapposizioni nel pensiero primitivo non ci sono; il mondo è unico, e l’uomo non è separato da esso, ma piuttosto fuso con esso. Egli non pensa al mondo mettendosi di fronte a ciò che osserva, ma si sente parte di esso; se vogliamo metterla in termini più filosofici, l’uomo primitivo non pensa un’ontologia, ma la vive. Fa parte di una totalità vivente e pensante. Ecco cos’è il mana: non una sostanza o una forza, ma semplicemente una caratteristica che l’uomo primitivo attribuisce a tutto ciò che esiste, e cioè la capacità di avere intenzioni. Un albero o una roccia possono avere il mana, cioè possono nutrire intenzioni e possedere impulsi positivi o negativi verso di noi. La coscienza primitiva tenderebbe dunque in modo spontaneo, immediato, a rivolgersi al mondo esterno come se esso fosse cosciente e capace d’agire consapevolmente verso di noi, facendoci del male o, al contrario, aiutandoci. Per semplificare possiamo dire che, se il mana viene attribuito agli oggetti in sé, allora da ciò sorgerà l’idea che tale forza possa essere manipolata, il che porterà poi alla nascita della magia; se invece si riterrà che il mana non appartenga all’oggetto in sé, ma a uno spirito che lo controlla, allora da ciò nascerà la necessità di blandire quest’ultimo, e da questa esigenza si svilupperà successivamente la religione. Ribadiamo che il mana non deve essere inteso come un’idea esplicitamente formulata dagli uomini primitivi, ma come una forma mentis, o una categoria di pensiero, implicita nel loro modo di atteggiarsi al mondo, una caratteristica che precede qualunque concezione atea o religiosa e ci ricorda l’abitudine tipica dei bambini di attribuire volontà e sentimenti agli oggetti inanimati. Questo per dire che, in molti dei suoi film, David Lynch fa riferimenti espliciti o impliciti a una mentalità di tipo primitivo e magico, e a una concezione della realtà di tipo monista, per la quale non c’è una reale distinzione tra mondo materiale e spirituale, ma siamo in presenza di una realtà unica, per cui gli oggetti del mondo spirituale possono passare tranquillamente in quello materiale, e viceversa.12 Per Lynch elementi naturali come l’elettri12

Basti pensare all’anello proveniente dalla Loggia Nera o al quadro che la signora Tremond dà a Laura Palmer in Fuoco cammina con me. Si tratta a rigore di oggetti provenienti da una realtà spirituale, che non dovrebbero nemmeno poter essere toccati e afferrati da mani fatte di materia. In realtà ciò accade, e questo conferma l’idea che per Lynch la realtà non sarebbe divisa in due – spirito da una parte, materia dall’altra –, ma al contrario sarebbe unitaria. Date poi le radici culturali

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cità, il fuoco o il vento non sono quello che sembrano a noi occidentali, ma possiedono quelle qualità magiche e “intenzionali” che venivano loro attribuite dalla mentalità primitiva. Non solo: essi possono anche influenzare in modo occulto il comportamento dell’uomo. È un fatto importante, che ci permetterà di capire meglio che cosa è accaduto a Twin Peaks.

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5. La gnosi oscura di David Lynch Nani che ballano, conigli antropomorfi che ripetono frasi senza senso, giganti che appaiono e scompaiono all’improvviso, tende rosse, fiammate e scariche elettriche; di fronte a tutto ciò gli estimatori di David Lynch vanno in estasi, e passano giornate intere a elaborare interpretazioni su interpretazioni per capire che cosa mai sia successo in questo o quel film, che cosa voglia dire questa o quella frase, insomma quale sia il senso delle azioni compiute dai personaggi principali e secondari ideati dall’insigne cineasta. Ovviamente le teorie non mancano, da chi vede nel cinema di Lynch un personalissimo viaggio nell’inconscio – soprattutto nel suo – a chi lo interpreta come una metafora della contemporanea società dello spettacolo. Dal canto suo Lynch bada bene a non dire una parola, a rifiutare ogni commento, insomma a tenere la bocca ben cucita, onde aumentare l’aura di mistero che circonda le sue opere – tranne in alcune occasioni in cui fornisce al pubblico indizi che sembrano non portare a nulla e generano più domande che risposte, come nel caso di Mulholland Drive. I detrattori accusano Lynch di perseguire la stranezza per la stranezza, di creare storie inutilmente ingarbugliate o fin troppo oniriche – con la complicità, soprattutto nel caso di Inland Empire, delle telecamere digitali, che gli hanno consentito di abbattere i costi e di fare un po’ quello che gli pareva, senza rendere conto a nessuno. Per dire le cose come stanno, tra i detrattori non manca chi si sente preso per i fondelli. Ma è proprio così? David Lynch ci sta prendendo forse tutti in giro? Certo che no: un’analisi più attenta, l’osservazione e lo studio sistematico di tutti i suoi lavori rivelano che, in realtà, tutti i particolari di cui sopra hanno un senso ben preciso, e che nelle ingarbugliate trame dei film lynchani nulla o quasi avviene per caso. Due sono le cose da tenere a mente: la prima è che, sotto sotto, quasi tutti i film di Lynch, e soprattutto quelli di cui lui è l’unico o il principale autore di Lynch, ci sentiamo autorizzati a dire che per lui esiste propriamente solo la realtà spirituale, di cui quella materiale costituisce una semplice manifestazione illusoria o onirica, facilmente plasmabile da chi sa come fare.

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del soggetto, rappresentano variazioni e approfondimenti della medesima trama, e costituiscono in sostanza la riproposizione dello stesso canovaccio, a partire da Eraserhead fino a Inland Empire. La seconda è che, da bravo pittore, e come altri registi prima di lui, Lynch ha sviluppato un codice visivo rigoroso, cioè un insieme di elementi che compaiono in tutti i suoi film e che sovente vogliono dire più o meno la stessa cosa; tali elementi facilitano notevolmente la comprensione della trama – a chi vuol prendersi la briga di osservare con cura e di trattare le opere lynchane come veri e propri oggetti di studio. Qui non pretendiamo certo di dire l’ultima parola sui film di Lynch, anche perché si potrebbe scrivere volumi interi dedicati a singoli aspetti della sua opera; la cinematografia lynchana è insomma estremamente stratificata, e su di essa si può lavorare, e si lavorerà, ancora molto a lungo. In questo paragrafo vorremmo solo fornire, con intento divulgativo, una serie di indizi che, a nostro avviso, favoriscono la comprensione delle opere di Lynch in generale e che ci permettono quindi di leggere con profitto I segreti di Twin Peaks. Cominciamo allora con le trame, e più in particolare con alcuni bizzarri personaggi che sembrano popolare lo strano mondo di David Lynch. Molti dei suoi film ne posseggono almeno uno, e sovente più di uno. Non si tratta mai di personaggi principali, ma sempre in un certo senso secondari, sebbene a conti fatti è da essi che dipendono le vicende in cui rimangono ingarbugliati i protagonisti. Sono figure dotate di poteri molto superiori a quelli umani, e tutto lascia pensare che ci troviamo in presenza di entità soprannaturali, che vengono dall’Aldilà o da un piano metafisico superiore, insomma da un reame ultraterreno o sovraumano. Tale è il loro livello di potere che, in alcuni casi, esse riescono addirittura a plasmare la realtà a proprio piacimento. Posseggono inoltre una conoscenza superiore di ciò che sta accadendo, di un punto di vista “privilegiato” insomma, possono comparire e sparire all’improvviso, essere in due posti contemporaneamente, possono manipolare il tempo, spostarsi nel passato e nel futuro con facilità. Quello che conta di più è che queste creature perseguono una propria “agenda”,13 vogliono cioè portare a compimento un piano articolato che spesso non è chiaro né comprensibile – d’altronde stiamo parlando di 13

Il termine “agenda”, nel suo significato di “insieme di questioni e di progetti all’ordine del giorno,” è di origine inglese e sta venendo utilizzato con frequenza crescente anche nella lingua italiana, ad esempio nell’ambito della politica internazionale. Esso rende molto bene l’idea di una serie costante di intromissioni nella realtà umana da parte di creature soprannaturali, e proprio per questo continueremo usarlo al posto di termini classici quali “piano” o “cospirazione”.

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creature superiori all’uomo, le cui motivazioni potrebbero essere per noi opache e impenetrabili. Sovente per ottenere tali obiettivi si impadroniscono e “posseggono” degli esseri umani, che manipolano in modo da far compiere loro determinare azioni, in genere violente e sanguinarie. Non possono però impadronirsi di chi gli pare, in quanto, un po’ come i vampiri delle leggende esteuropee, devono essere invitati a “entrare” dal diretto interessato. Alcune di esse sono chiaramente malvage, altre sembrano buone, anche se un esame più attento ne evidenzia spesso l’ambiguità morale. Insomma, quello costruito da Lynch nel corso degli anni sembra un vero e proprio pantheon composto da semi-dei strani e crudeli, che ci sentiamo di paragonare in qualche modo ai Grandi Antichi creati dallo scrittore dell’“horror cosmico” americano Howard Phillips Lovecraft. Analizziamo allora alcuni di questi personaggi, prendendo in esame il primo lungometraggio di Lynch, cioè Eraserhead.

6. Un horror spirituale: Eraserhead – La mente che cancella Inizialmente incompreso dalla critica, Eraserhead – La mente che cancella, è un film del 1977 che ha iniziato a farsi conoscere ed apprezzare attraverso un circuito insolito, ossia quello dei film dell’orrore – un fatto paradossale, ma solo fino a un certo punto, date le sequenze splatter contenute nell’opera. Di esso Lynch dice: …è il più spirituale di tutti i miei film. Quando lo dico nessuno lo capisce, ma è così. Eraserhead si stava sviluppando in una certa direzione, e non avevo idea di che cosa volesse dire. Cercavo la chiave d’accesso al significato di quelle sequenze. Qualcosa capivo, ovviamente; ma non sapevo quale fosse il cemento che teneva insieme l’intero film. Una bella fatica. Così tirai fuori la Bibbia e iniziai a leggerla. Un giorno lessi una frase. Chiusi la Bibbia: era fatta. Fine del discorso. Allora vidi il film come un tutt’uno. La frase completò questa visione al posto mio, al cento per cento. Penso che non rivelerò mai quale fosse quella frase.14

La sequenza iniziale di questo film – considerato un vero e proprio cult dagli appassionati e la cui realizzazione ha richiesto diversi anni – si apre con una delle nostre creature ultraterrene, l’Uomo nel Pianeta, il quale, dalla sua posizione sopraelevata, sembra controllare o dare il via, mediante l’azionamento di alcune leve, a ciò che accadrà in seguito. L’entità, se così 14

D. Lynch, Op. Cit., p.39.

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vogliamo chiamarla, guarda fuori dalla finestra e attende il momento giusto per entrare in azione. Le leve e gli ingranaggi da essa attivati causano il concepimento del mostruoso bambino attorno a cui ruoterà il film, e paiono anche terrorizzare il protagonista, Henry Spencer. Il tutto avviene in una inquietante dimensione onirica. Henry è un uomo – elegante e con un taglio di capelli bizzarro – che vive in un mondo squallido, triste e grigio. Ha una fidanzata, Mary, che all’inizio del film lo invita a cena a casa propria. Mentre Henry si avvicina all’abitazione di Mary diversi cani iniziano ad abbaiare. È un avvertimento: qualcosa nella sua vita sta per cambiare, e in peggio. All’interno della casa dove vive Mary assieme alla sua folle famiglia c’è una cagna che sta allattando i suoi piccoli, e questo potrebbe rappresentare un altro presagio di ciò che sta per accadere. Durante la cena – in cui sono presenti elementi surreali o allucinatori – la madre rivela a Henry che sua figlia ha avuto un bambino da lui, dopo una gravidanza insolitamente breve. Il neonato è mostruoso, più simile a un anfibio che a un essere umano, e pare proprio essere il frutto delle macchinazioni dell’Uomo nel Pianeta. Poco prima della rivelazione si verifica un forte brusio elettrico. Mary si trasferisce con l’orrendo figlio nell’appartamento di Henry, che tutto sembra tranne che un posto sicuro – tra tende, pavimenti a zig-zag e brusii elettrici simili a quelli che incontreremo nella Loggia Nera di Twin Peaks. È però possibile che, nel contesto di Eraserhead, molti di questi elementi abbiano una valenza puramente estetica, e che abbiano assunto un’eventuale significato soprannaturale solo con le opere successive. Ad ogni modo, presto Mary si stanca di quella vita, e decide di tornare dai suoi genitori, lasciando Henry ad accudire il figlio da solo. Una notte il protagonista fa un sogno – anzi, un incubo terribile – in cui, tra le altre cose, gli appare un’altra creatura soprannaturale, la Signora del Termosifone – così chiamata per il fatto che fuoriesce proprio da lì. Anch’essa d’aspetto mostruoso – le sue guance sono deformi –, si accosta a Henry in modo amichevole. In piedi su un palco teatrale e davanti a tende molto simili a quelle della Loggia Nera, l’entità balla spostandosi di lato, e schiaccia alcuni feti mostruosi. In pratica fa capire a Henry, in modo simbolico e allusivo, che, se ucciderà il piccolo mostro, egli sarà felice ed entrerà in paradiso – simboleggiato da una schermata bianca e luminosa. Piuttosto interessante la canzone che la Signora del Termosifone intona: “In heaven everything is fine; you’ve got your good things and I’ve got mine”, a indicare che lei non persegue il Bene in sé, ma ha appunto una propria agenda non specificata, ma visibilmente tesa a danneggiare l’Uomo nel Pianeta. Eraserhead prosegue con una lunga scena onirica in cui, tra le altre cose, la testa di Henry viene portata da un bimbo in una fabbrica di gomme da cancellare, dove l’operaio preposto alla fabbricazione di questi

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articoli da cancelleria preleva un campione del suo cervello e lo analizza, concludendo che si tratta di materiale adatto alle loro esigenze produttive – una scena sulla cui interpretazione non ci pronunciamo. Nel film appare anche un altro personaggio, una vicina di casa di Henry, la Bella Ragazza del Corridoio, che di ciò che sta succedendo sembra saperne più di quanto non dica – si intuisce da alcuni suoi sguardi piuttosto eloquenti –, e che forse potrebbe essere un’alleata, una manifestazione o un’ospite della Signora del Termosifone, un po’ come in Twin Peaks Leland Palmer ospita BOB o l’anziano cameriere del Great Northern ospita il Gigante. In sostanza, se la nostra ipotesi è giusta, allora la Signora del Termosifone/Bella Ragazza del Corridoio sta manipolando Henry, prima indicandogli in sogno la ricompensa che avrà una volta ucciso il bambino mostruoso, e poi mettendolo concretamente nello stato d’animo “giusto”: che sia o meno l’incarnazione della Signora del Termosifone, la Bella Ragazza del Corridoio intreccia una fugace relazione con Henry, e poco dopo lo lascia e si fa vedere da lui tra le braccia di un altro uomo. Subito dopo Henry uccide il figlio, mandando così in rovina i piani dell’Uomo del Pianeta, che perde il controllo dei suoi meccanismi e finisce per bruciarsi il volto. Il film termina con una schermata di luce bianca – il paradiso promesso al protagonista – e con la Signora del Termosifone che abbraccia felice Henry. In Eraserhead possiamo trovare diversi elementi su cui il regista costruirà i suoi lavori successivi; anzi, l’opera lynchana può essere paragonata a un processo di stratificazione in cui le diverse opere si appoggiano l’una sull’altra: se nel primo lungometraggio troviamo lo schema di base – i protagonisti vengono manipolati da entità metafisiche per scopi ignoti o incomprensibili –, in Twin Peaks capiamo più chiaramente che siamo in presenza di creature dell’Aldilà e legate al mondo dell’occulto e dell’esoterismo. Mentre in Lost Highway e in Mulholland Drive ci rendiamo conto ancora meglio che non abbiamo a che fare con semplici spettri da film dell’orrore, ma con entità molto più potenti e per nulla umane, in Inland Empire abbiamo l’occasione di addentrarci sempre di più nel loro mondo e dare un’occhiata più approfondita all’Aldilà. Certo, quella qui proposta è solo una delle possibili chiavi di lettura della cinematografia di Lynch, e non bisogna dimenticare che la genialità di questo regista sta proprio nella sua impareggiabile capacità di fondere assieme elementi disparati, dal noir alla commedia, dall’occulto allo spirituale, dall’analisi psicologica della duplicità dell’animo umano alla critica dell’ipocrisia incarnata dal mondo di Hollywood, fino ad ottenere opere che rappresentano molto di più della somma delle loro parti.

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7. Il teosofo Mark Frost Anche per quanto riguarda il secondo autore di Twin Peaks, Mark Frost, offriamo ai lettori alcuni brevi note biografiche e professionali. Regista e romanziere, Frost ha contribuito almeno tanto quanto Lynch alla realizzazione del telefilm in questione, anzi, diversi elementi occulti presenti nella serie possono essere tranquillamente attribuiti al primo. Nato nel 1953, Mark Frost ha cominciato a collaborare con Lynch nel 1986, senza molti risultati però, fino al successo ottenuto con Twin Peaks. Nel 1993 ha pubblicato il suo primo romanzo, The List of Seven, seguito nel 1996 da The Six Messiahs. Entrambe inedite in Italia, sono opere che dovrebbero interessare molto i fan di Twin Peaks, dato il loro contenuto esoterico, che ci consente di capire meglio le vicende descritte nel telefilm, soprattutto per quanto riguarda il criptico finale della serie – anzi, da questo punto di vista è probabile che, aldilà del riconoscibile stile visivo lynchano, gli elementi più esplicitamente esoterici degli ultimi episodi siano dovuti a Frost più che a Lynch. The List of Seven è un impasto di teoria della cospirazione, storia reale e teosofia; il protagonista principale è nientemeno che Arthur Conan Doyle, il celebre creatore di Sherlock Holmes, che interagisce con altri personaggi, immaginari o realmente esistiti – tra cui Bram Stoker, l’inventore di Dracula, e Madame Blavatsky, la creatrice della teosofia. Nel corso delle vicende descritte dal romanzo, Doyle scopre una cospirazione ordita da sette persone, le quali vogliono sottoporre al loro volere tramite la magia il Principe Edward e far sì che un demone si incarni nel corpo del suo futuro figlio, in modo da dare inizio con esso alla conquista del mondo: un piano che, inutile dirlo, è votato al fallimento. Nel romanzo successivo Doyle, assieme ad altri personaggi, si reca in America alla volta di una misteriosa “Torre Nera”, i cui abitanti e costruttori progettano di portare a termine una cerimonia magica durante la quale Dio verrà “distrutto” e la “Bestia” riuscirà finalmente a entrare nel nostro mondo. C’è un particolare curioso in questi romanzi, e cioè il fatto che Arthur Conan Doyle viene inseguito di continuo dai fan di Sherlock Holmes, che gli chiedono con insistenza di far resuscitare il suo personaggio – morto in uno scontro in Svizzera con il suo arci-nemico Moriarty, e poi effettivamente resuscitato dal suo autore. È un riferimento ironico ai fan di Twin Peaks che, dopo l’interruzione della serie, hanno approfittato di ogni uscita pubblica di Frost per chiedergli con insistenza se e quando il telefilm sarebbe ripreso, giungendo alla sua naturale conclusione.

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Ad ogni modo i riferimenti esoterici e teosofici nei romanzi di Frost non mancano e, dato il loro pesante influsso sulle trame di Twin Peaks, è il caso di dare un’occhiata più da vicino alla teosofia e soprattutto al pensiero della sua fondatrice, Helena Petrovna Blavatsky.

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8. Alla ricerca della Loggia Bianca Nata in Ucraina nel 1831, Helena Petrovna Gan sposa giovanissima il vice-governatore della città armena di Yerevan, Nikifor Vassilievich Blavatsky, dal quale fugge dopo soli tre mesi, senza nemmeno aver consumato il matrimonio, e anzi conservando la verginità – bontà sua – per tutta la vita. Conserva anche il cognome dell’ex-marito, e inizia una lunga serie di viaggi in giro per il mondo, dall’Egitto alla Francia, dal Canada agli Stati Uniti, al Sud America, all’India, al Tibet. Nel 1873 emigra negli Stati Uniti, dove comincia a guadagnarsi da vivere come medium, affermando di possedere capacità paranormali, dalla levitazione alla chiaroveggenza, dalla telepatia alla capacità di viaggiare fuori dal proprio corpo. Assieme ad altri occultisti fonda nel 1875 la Theosophical Society, allo scopo di diffondere la propria visione del mondo, per la quale tutte le religioni possiedono un comune nucleo di verità – che consiste ovviamente nelle dottrine da lei predicate. La sua organizzazione assume una levatura internazionale, e la Blavatsky si trasferisce in India. Diventata nota al grande pubblico come “Madame Blavatsky”, la creatrice della teosofia trascorre gli ultimi anni di vita – o meglio della sua presente incarnazione, stando a lei – a Londra, dove muore nel 1891. Le sue opere più celebri, tradotte anche in italiano, sono L’Iside Svelata, La Dottrina Segreta e La Chiave della Teosofia. Le dottrine della Blavatsky rappresentano un miscuglio di approcci esoterici orientali e occidentali, dal buddismo tibetano all’induismo, dalla Kabbalah allo gnosticismo; in sostanza secondo la teosofia – termine che deriva dal greco e significa “saggezza di Dio” – tutte le religioni e le correnti esoteriche non rappresenterebbero altro che tentativi di far evolvere l’umanità a un livello spirituale superiore, tentativi messi in opera da una sorta di “Gerarchia Spirituale” segreta, composta da un certo numero di “illuminati” – alcuni epigoni della Blavatsky li battezzeranno “Superiori Sconosciuti.”15 Ogni religione o fi15

A parlare per la prima volta dei “Superiori Sconosciuti” è stato Talbot Mundy. In uno dei suoi romanzi, Nine Unknown Men, lo scrittore inglese immagina che l’imperatore indiano Asoka abbia creato nel 720 dopo Cristo una società segreta

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losofia spiritualistica è nient’altro che una fase del cammino dell’umanità verso l’Assoluto. Tutto è vivo e cosciente, non solo gli esseri umani, ma anche i pianeti, il Sistema solare, le galassie e il cosmo sono entità auto-consapevoli, ognuna incamminata su un sentiero di crescita spirituale. Le unità spirituali da cui è composto l’universo sono chiamate monadi, e possono incarnarsi in forme molto diverse, dagli esseri umani alle entità metafisiche superiori; ovviamente la teosofia crede nella reincarnazione. Proprio come tutte le parti che compongono l’universo, anche l’umanità si sviluppa seguendo cicli composti ognuno da sette fasi. Nella fattispecie la storia umana si evolve attraverso la manifestazione delle cosiddette “Razze-Radice”, cioè sette “varianti” della nostra specie manifestatesi sul nostro pianeta nel corso di un arco di tempo lungo molti milioni di anni e non ancora terminato. La prima Razza-Radice era composta da creature “eteree”, puri spiriti; la seconda Razza-Radice era costituita da creature asessuate che abitavano su un continente oramai scomparso, Hyperborea. Più sviluppata, la terza Razza-Radice era composta da esseri umani giganteschi e abitò un altro continente scomparso, Lemuria; la quarta Razza-Radice, molto simile all’umanità contemporanea, si sviluppò su Atlantide. Infine la quinta “versione” dell’umanità, la nostra – che la Blavatsky chiama “ariana” –, si evolse sempre su Atlantide, ma si diffuse in tutto il mondo. Secondo la creatrice della teosofia l’umanità contemporanea sta sviluppando capacità paranormali già possedute in passato, e sopite da tempo. In futuro tutto ciò condurrà alla nascita della sesta Razza-Radice, che si verificherà di nuovo su Lemuria – la quale nel frattempo dovrà ovviamente risorgere dal mare. La Blavatsky trasferisce la propria ossessione per il numero sette anche nella sua concezione dell’uomo, che secondo lei è composto da sette corpi, ognuno più “sottile”, cioè etereo o spirituale, dell’altro. In pratica, data la loro crescente “sottigliezza”, i sette corpi dell’uomo possono compenetrarsi l’un l’altro. Alla base c’è il corpo fisico, materiale e decadente, seguito subito dopo dal cosiddetto “corpo astrale.” Il terzo corpo è il “prana”, cioè l’energia vitale, il respiro della tradizione indù, seguito dal quarto corpo, il “kāma”, cioè il desiderio, e il quinto, il “manas”, cioè la coscienza o la capacità di pensare. Poi c’è la “bhuddi”, ossia l’anima spirituale, e infine l’“ātman”. Come si può vedere, buona parte di questa terminologia e di questi concetti sono presi di peso dalla tradizione induista.

composta da nove uomini, ai quali affida altrettanti libri contenenti varie conoscenze occulte che, se diffuse, potrebbero mettere in pericolo l’umanità. L’idea è stata poi copiata e spacciata per vera da alcuni seguaci della teosofia.

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La Dottrina Segreta costituisce in buona parte un commentario a un presunto antichissimo testo esoterico tibetano, Le Stanze di Dzyan, che probabilmente non è mai esistito e che rappresenta nient’altro che il frutto della fantasia della Blavatsky – un testo che va quindi ad aggiungersi al lungo elenco dei libri occulti inesistenti, come il Necronomicon di H.P. Lovecraft. Ne Le Stanze di Dzyan si narra tra l’altro di esseri provenienti dallo spazio, i Signori della Fiamma, che si sarebbero stabiliti nell’Asia centrale, creando un regno segreto che avrà un ruolo centrale anche in Twin Peaks. La Blavatsky si riaggancia qui a una tradizione diffusa in Europa durante quegli anni, e cioè quella del regno sotterraneo di Agarthi. Tale leggenda rappresenta in origine il frutto di tradizioni tibetane autoctone – cioè la religione popolare locale nota come “bon-po” – mescolate con il Buddismo Vajrayana, una variante tibetana caratterizzata dal forte interesse per la magia. In quest’ambito nasce dunque l’idea di un regno segreto, sotterraneo, chiamato Agarthi o Shamballa – e che invece la religione bon-po chiama Olmolungring –, che finisce con l’andar del tempo per identificarsi con la mitica “Terra Pura” sognata dal Buddismo, un luogo più spirituale e trascendentale che meramente geografico e terreno. Qualunque sia l’origine della leggenda di Agarthi, essa è stata diffusa in Occidente a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento da autori come il viaggiatore e scrittore polacco Ferdynand Ossendowski – nel suo celebre libro Bestie, Uomini e Dei – o come l’occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre. In particolare per quest’ultimo Agarthi, o Shamballa, si troverebbe sotto l’Himalaia tibetano – non dimentichiamo che a quell’epoca il Tibet era più inaccessibile di quanto non lo sia oggi, e di esso si poteva dire qualunque cosa senza tema di smentita. A suo dire, Saint-Yves d’Alveydre avrebbe ricevuto tali informazioni da una fonte davvero privilegiata, ossia gli abitanti stessi di Agarthi, che gliele avrebbero comunicate per via telepatica. Per Alice Bailey, seguace della teosofia, il regno occulto in questione non sarebbe un comune luogo geografico, ma piuttosto un luogo extra-dimensionale, spirituale, mentre per altri teosofi Agarthi sarebbe situato tra il mondo della materia e quello dello spirito. La Blavatsky gli attribuisce un altro nome: la Loggia Bianca.

9. Lynch/Frost Productions Questo per quanto riguarda le radici culturali di Lynch e Frost. Come si è detto i due autori hanno iniziato a collaborare assieme a partire dal 1986; ci si potrebbe allora chiedere che cos’abbiano fatto fino all’uscita di Twin Peaks, nel 1990. E la risposta è che hanno lavorato su un certo numero

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di progetti, tutti naufragati; vale però la pena di darci un’occhiata. Prima di Twin Peaks i due autori ideano una sit-com dal titolo The Lemurians. La premessa della serie è che, sebbene Lemuria sia sprofondata in tempi remotissimi, l’essenza dei suoi abitanti si sia in qualche modo conservata, riuscendo anzi a riemergere dal fondo del Pacifico e a minacciare il mondo contemporaneo. L’idea di The Lemurians non piace però al committente, il network televisivo NBC, che la boccia. Un altro progetto incompiuto dei due è Goddess, un film dedicato alla vita di Marilyn Monroe e infarcito di teorie della cospirazione relative ai Kennedy; Lynch però perde interesse per l’idea, sostenendo che non gli va di occuparsi di eventi realmente accaduti. Poco dopo crea Twin Peaks, un prodotto televisivo che presenta diversi elementi in comune con Goddess, e in particolare una figura di donna tormentata e nei guai, cioè Laura Palmer. Un’altra commedia che Lynch e Frost scrivono ma non realizzano mai è One Saliva Bubble; pensata per essere interpretata da Steve Martin, essa avrebbe raccontato di una misteriosa bolla elettrica emessa da un computer che si leva sopra una cittadina del Kansas e trasforma radicalmente le personalità dei suoi abitanti – ad esempio all’improvviso cinque allevatori di bestiame avrebbero iniziato a credere di essere altrettanti ginnasti cinesi, e così via. Nel 1992 Lynch e Frost creano infine una sitcom di breve durata, On the Air. Armati delle nozioni che abbiamo appreso in questo capitolo, ora possiamo avventurarci finalmente tra le foreste e i segreti di Twin Peaks.

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II È ACCADUTO A TWIN PEAKS

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1. I telefilm, porte su altri mondi I telefilm sono universi, che gli autori ci consentono di esplorare un po’ alla volta, scoprendo sempre nuovi particolari, sempre nuovi punti di vista. Al contrario i film generalmente non mirano a introdurci in un’altra realtà – a meno che quello non sia proprio l’obiettivo specifico voluto dagli autori, come capita ad esempio con alcuni film di fantascienza. I lungometraggi, infatti, vogliono soprattutto raccontarci una storia, un pezzo di vita, e lasciano intendere che, nel tempo immaginario che precede gli eventi descritti, tutto cospirava per far sì che si arrivasse proprio a quella trama, mentre il tempo altrettanto immaginario che li segue costituisce il frutto più o meno necessario di ciò che abbiamo appena visto sullo schermo. Il discorso vale anche per i film “in serie”, sia che i sequel siano stati previsti fin dall’inizio, sia che dipendano dal successo commerciale del primo film. Con le serie tv non è così: gli autori sanno bene che ci stanno introducendo in un mondo nuovo, articolato, e che, al pubblico piacendo, l’esplorazione potrebbe andare avanti per sempre. Questo non vuol dire che i film non ci offrano mondi complessi e meravigliosi, anzi, sovente lo fanno, ma i telefilm rappresentano una fonte inesauribile e impareggiabile. I film dipendono soprattutto dalla mano del regista, mentre i telefilm sono quasi un’impresa collettiva, dipendono spesso da molti autori, supervisori e così via. Inoltre, la loro validità non si giudica dai singoli episodi – che, presi di per sé, possono essere belli o brutti – ma dal senso generale, cioè dalla capacità dei creatori di suggerire agli spettatori l’esistenza di un mondo “dietro” gli eventi narrati, un mondo che, una volta interrotta o conclusa la serie, se ne sta ancora lì, pronto a offrire nuove scoperte.1 E poco importa se tali scoperte a volte siano in realtà ope1

A onor del vero bisogna dire che certe serie devono arrivare a una conclusione, pena la perdita di direzione e di significato – per esempio Lost –, mentre altre potrebbero teoricamente andare avanti per sempre. È questo il caso di telefilm come X-files, Fringe o Supernatural, che sono composti perlopiù da episodi auto-

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razioni di “reframing” – cioè se, nello stendere ulteriori episodi, gli autori si inventano nuovi particolari che “cambiano le carte in tavola”, presentando i personaggi e le loro vicende sotto una nuova luce.2 Ciò che conta è che, con l’andar delle puntate, una “mitologia” telefilmica – cioè un insieme di elementi ricorrenti, che gli spettatori si abituano a considerare come strutture fisse del mondo in cui si immergono durante ogni episodio – sembra sorgere spontanea. E così capita che alcuni telefilm siano molto poveri dal punto di vista artistico, con una recitazione mediocre e una regia non entusiasmante, ma che siano basati su un concept mitologico eccezionale.3 Ogni telefilm fantascientifico o fantastico che si rispetti ha la propria mitologia: Lost ha l’isola misteriosa, il fumo nero, la statua, il tempio, le due deità che giocano con il fato umano, e così via; X-files ha la complessa e intricata cospirazione aliena, le diverse specie di extraterrestri, i “rapiti” e l’invasione prossima ventura; Star Trek ha la sua ricca rete di mondi, di civiltà e di misteri in cui si muovono il capitano Kirk, Spock e l’equipaggio dell’Enterprise. Twin Peaks, infine, ha BOB, la Loggia Nera, la garmonbozia e tutto ciò che leggeremo nelle prossime pagine. Anche David Lynch è consapevole di questa fondamentale distinzione tra film e telefilm – una distinzione non netta, certo, e che prevede molte sfumature, sorte soprattutto negli ultimi anni. Sul tema in questione il registra precisa che: “Amo entrare in un altro mondo e amo i misteri. Per questo non mi piace sapere troppo in anticipo. Mi piace invece il gusto

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conclusivi e che, una volta esaurita la loro sottotrama di riferimento – l’invasione aliena, nel primo caso, la guerra tra universi paralleli e la Singolarità tecnologica, nel secondo, e l’arrivo dell’inferno sulla terra, nel terzo – potrebbero facilmente svilupparne un’altra. In sostanza, la loro serialità e la presenza di storie autoconclusive fanno sì che i loro personaggi possano facilmente trascendere le trame in cui sono immersi. Mentre per certi telefilm il significato delle vicende rappresentate era chiaro agli autori fin dall’inizio – ad esempio è probabile che, per quanto riguarda X-files, Chris Carter sapesse benissimo dove andare a parare, visto che, nello stendere l’arco mitologico della cospirazione aliena, non ha fatto altro che pescare nel folklore ufologico contemporaneo, già ben noto agli appassionati del tema –, in altri casi è senz’altro probabile che gli autori abbiano introdotto elementi misteriosi senza avere idea di che cosa fossero, solo perché li ritenevano affascinanti. In altre parole la spiegazione è venuta dopo, e si tratta in realtà di un’idea sviluppata a posteriori. Si pensi alla lunga serie di Highlander – film e telefilm –, in cui le spiegazioni del perché gli immortali siano tali e del perché ne debba “rimanere soltanto uno” variano a volte da regista a regista e da autore ad autore. È il caso, ad esempio, di Stargate: regia piatta, scenari poco convincenti, ma un’idea eccellente, cioè quella di un “portale” di fabbricazione aliena che consente a uomini del tempo presente di esplorare l’infinito, visitando mondi di ogni tipo.

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della scoperta. Credo che sia una delle caratteristiche più eccitanti delle serie televisive: puoi entrare nella storia e addentrarti all’infinito. Inizi a percepire il mistero, e le cose cominciano a succedere”.4

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2. Fondazione di una città immaginaria Per capire la genesi del peculiare universo televisivo di Twin Peaks, bisogna avere ben chiaro il modo di lavorare di David Lynch e Mark Frost, un metodo fatto di idee improvvise, di scelte dell’ultimo minuto e delle suddette operazioni di “reframing”. L’idea di realizzare Twin Peaks è infatti venuta a Frost e Lynch più o meno in questo modo. Dopo i progetti falliti di cui vi abbiamo già parlato, Lynch si mostra interessato a realizzare una serie che racconti la vita segreta di una città di provincia americana, un po’ come già aveva fatto con Velluto Blu. Frost vuole inoltre raccontare la storia di un certo numero di persone che vivono in un ambiente spazialmente limitato, creando una serie che possa almeno in teoria andare avanti per sempre. Frost, Lynch e l’agente di quest’ultimo, Tony Krantz, affittano allora un ufficio a Beverly Hills, si guardano gli episodi di una nota serie tv dell’epoca, Peyton Place, e a partire da essa iniziano a creare la loro città, stendendone una mappa, immaginando una segheria situata in sua prossimità, un hotel, un ristorante e tutto il resto. Dopo di che balza loro agli occhi l’immagine di un corpo arenato sulla riva di un lago. A questo punto a Frost e Lynch viene in mente l’idea di una tipica “ragazza della porta accanto” che conduce una doppia vita caotica e disperata, che finisce per portarla alla morte. Con questo vago progetto si recano negli studios della ABC e sottopongono ai responsabili del canale televisivo l’idea di una serie che mescoli il genere poliziesco con quello della soap opera. I supervisori della ABC commissionano a Lynch e Frost l’episodio pilota. Inizialmente Twin Peaks dovrebbe intitolarsi Northwest Passage ed essere ambientata in North Dakota ma, visto che una città chiamata Northwest Passage esiste realmente, si decide di cambiare luogo e nome, creando Twin Peaks. Si tratta dunque di una città immaginaria, situata nello stato di Washington, al confine con il Canada; in realtà gli esterni vengono girati in due diverse cittadine, Snoqualmie e North Bend, entrambe nel medesimo stato. Per gli interni si decide di utilizzare invece un set nell’area della San Fernando Valley. 4

D. Lynch, In Acque Profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano 2009, p.91.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

A tutto ciò si aggiunga l’abitudine tipica di Lynch di incorporare all’ultimo momento nelle proprie opere elementi estranei, spesso frutto del caso, e si vedrà quanto sia complessa la genesi di Twin Peaks. L’esempio più tipico è il reclutamento di Frank Silva, l’attore che interpreta BOB.5 Inizialmente Lynch e Frost decidono che l’assassino di Laura Palmer debba essere semplicemente il padre, punto e basta. Durante le riprese dell’episodio pilota Silva, che lavora sul set come decoratore, viene accidentalmente inquadrato in uno specchio, nella scena della visione avuta da Sarah Palmer; a Lynch il risultato ottenuto piace e il regista decide di includere Silva nel cast. E così, in modo del tutto casuale, nasce BOB. Discorso analogo per Sheryl Lee, l’attrice che interpreta Laura Palmer. All’inizio Lynch e Frost decidono di scegliere una qualunque ragazza del luogo, tanto deve solo interpretare il ruolo di una studentessa morta; poi però la Lee mostra doti di recitazione tali da convincere i due a concederle più spazio, creando per lei il personaggio di Maddy Ferguson. Anche altri attori sono stati reclutati così: Harry Goaz – che interpreta Andy Brennan, lo svampito assistente dello sceriffo Truman – viene notato da Lynch per caso; Catherine Coulson – la Signora Ceppo – è la sua segretaria di produzione; Eric Da Re – Leo Johnson – un addetto al montaggio del set. A volte Lynch include di proposito nelle versioni definitive delle puntate errori o sviste degli attori, poiché rendono i suoi personaggi più reali e credibili. Allo stesso modo la prima scena della stanza rossa con il nano che balla non viene mai scritta: il regista la gira e decide poi di includerla, a mo’ di surreale “cappello” conclusivo, alla fine dell’episodio pilota, o meglio della sua versione filmica. In pratica la ABC vuole che Frost e Lynch realizzino anche una versione auto-conclusiva dell’episodio pilota, da distribuire sul mercato europeo sotto forma di film in cassetta; i due registi lo fanno e vi includono, senza ulteriori spiegazioni, tale scena surreale, ambientata venticinque anni dopo. In seguito, con il procedere della serie tv, si decide di ripescare tale scena e includerla alla fine del secondo episodio – il terzo, se si conta anche l’episodio pilota –, trasformandola in un sogno criptico e rivelatore che condurrà Cooper a scoprire l’assassino di Laura Palmer. Infine, nel corso della seconda stagione, la stanza rossa subisce un terzo cambiamento di significato, diventando l’anticamera della Loggia Nera. Analogamente il personaggio dell’uomo con un braccio solo viene introdotto nell’episodio pilota come omaggio 5

Inizialmente il personaggio si chiama semplicemente “Bob”, ma poi nel libro Il Diario Segreto di Laura Palmer – scritto dalla figlia di David Lynch, Jennifer – viene introdotta un’altra grafia, cioè “BOB”, che piace di più agli autori e viene mantenuta. Cfr. J. Lynch, Il Diario Segreto di Laura Palmer, Sperling & Kupfer, Milano 1991.

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È accaduto a Twin Peaks

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alla vecchia serie de Il Fuggitivo, in cui l’antagonista era appunto un uomo privo di un braccio; anche il suo nome, Philip Gerard, è preso da uno dei personaggi de Il Fuggitivo – si tratta del poliziotto che insegue il protagonista, ingiustamente accusato di omicidio. Ricordandosi della performance di Richard Beymer nel film West Side Story, Lynch decide di scritturarlo nel ruolo di Benjamin Horne.6 Anzi, a questo proposito Lynch, Frost e Beymer mettono in piedi una falsa pista per sviare il pubblico. Viene girata una scena, mai montata o trasmessa, in cui Benjamin Horne confessa di essere l’assassino di Laura Palmer, di modo che tra la troupe e di conseguenza tra il pubblico si diffonda la voce che il colpevole sia Horne. Questa breve storia della creazione di Twin Peaks è molto utile per i nostri scopi, in quanto ci permette di capire quanto sia complessa la fase di stesura e di produzione di una serie televisiva, e quanto della trama venga deciso all’ultimo momento in seguito a imprevisti ed esigenze di vario genere. Alcuni dei fan più accaniti di Twin Peaks hanno versato i proverbiali fiumi d’inchiostro per spiegare ogni singolo aspetto della serie, soprattutto per quanto riguarda le scene più criptiche; in realtà spesso gli autori – e Lynch in primis – buttano lì un elemento misterioso e incomprensibile solo perché lo trovano piacevole da un punto di vista visivo o perché aggiunge un tocco di mistero in più all’atmosfera generale della serie, e si riservano di deciderne il significato in un momento successivo, o di cambiare quello che hanno scelto in precedenza. E così, nel corso della serie, la celebre stanza rossa è passata dallo status di surreale cappello conclusivo a quello di sogno rivelatore e, infine, di regno extradimensionale. Molti degli interrogativi lasciati aperti dall’ultimo, enigmatico episodio possono essere risolti guardando al background culturale di Lynch e Frost, ma altri devono essere lasciati cadere, in quanto nemmeno gli autori stessi hanno idea di quale sia la risposta – non hanno avuto il tempo di inventarla! Si pensi ad esempio al caso dell’agente Cooper: proprio come Leland e Laura Palmer, viene avvicinato per la prima volta dagli spiriti della Loggia Nera in sogno, e con il proseguire delle vicende finisce con l’essere posseduto. Dall’analisi della serie noi sappiamo che queste creature prima identificano le proprie vittime studiandone le debolezze, poi le avvicinano in sogno, e infine le posseggono; al che diversi fan hanno dedotto che Cooper sia stato fin dall’inizio una vittima designata di BOB, tanto che l’entità avrebbe ucciso Laura Palmer solo per attirarlo a Twin Peaks. Questa interpretazione però non è legittima, in quanto non tiene conto del fatto che la mitologia di Twin Peaks è stata costruita strada facendo – certo, gli autori avrebbero potuto prima o dopo 6

Anche un altro attore di West Side Story, Russ Tamblyn, viene incluso nel cast di Twin Peaks, nel ruolo del dottor Jacoby.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

optare per l’interpretazione in questione, ma non hanno avuto la possibilità di farlo, quindi su di essa bisogna sospendere il giudizio. Parimenti Lynch e Frost hanno introdotto nella serie un certo numero di elementi ricorrenti che caratterizzano da un punto di vista estetico la serie – l’acqua, gli alberi, le felci, i caminetti accesi, il caffè copiosamente consumato dai protagonisti, le ciambelle, i gufi, i ceppi e così via. In seguito alcuni di essi assumono un significato soprannaturale. È il caso dei gufi, che diventano un mezzo di trasporto per BOB; in sostanza viene stabilita la regola secondo cui questa entità demoniaca può uscire dalla Loggia Nera e aggirarsi nel mondo reale solo dopo essere riuscito a possedere un essere umano o, in alternativa, tramite un gufo – animale notturno, tradizionalmente rivestito di significati magici. Menzioniamo infine, a beneficio d’inventario, le speciali direttive date da Lynch a tutti i registi dei singoli episodi: il registra chiede loro di usare nelle riprese delle scene interne speciali filtri rossi in grado di potenziare i colori caldi e conferire alle abitazioni un’atmosfera accogliente, quasi caramellata, in diretto contrasto con gli esterni, caratterizzati da colori freddi. L’effetto così ottenuto è quello di rappresentare le case e gli edifici di Twin Peaks come luoghi caldi e protettivi, che offrono riparo dai pericoli e dalle entità che si nascondono nei boschi, quasi che la cittadina costituisca una sorta di baluardo contro le forze del male. A questo punto ci si potrebbe chiedere: quanta gente vive in questa cittadina di provincia? Secondo il cartello di benvenuto che si vede nella sigla d’apertura Twin Peaks ha 51201 abitanti – anzi, 51200, visti gli avvenimenti con cui si apre la serie –, mentre Lynch e Frost vogliono che la città sia molto più piccola, e ospiti solo 5201 persone. La ABC insiste affinché il numero degli abitanti sia più grande, e si opta quindi per 51201. Tuttavia in seguito Lynch e Frost si prendono la loro piccola rivincita: i due riuniscono le mappe e i materiali prodotti quando hanno immaginato Twin Peaks e scrivono un libro, Welcome to Twin Peaks: Access Guide to the Town, in pratica una sorta di guida turistica alla città, in cui affermano tra l’altro che nel cartello di benvenuto c’è un refuso, e che il numero degli abitanti è proprio 5201.

3. I segreti di Twin Peaks: prima stagione Trasmessa negli Usa tra il 1990 e il 1991, la serie è ambientata nel 1989,7 e ogni episodio corrisponde grosso modo a una giornata nella vita dei suoi 7

Ci sono però diverse discordanze; ad esempio il Diario Segreto di Laura Palmer, che fa parte della “mitologia” ufficiale della serie, situa gli eventi in questione nel 1990.

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personaggi. In principio le vicende narrate da I Segreti di Twin Peaks ruotano attorno a un evento che sconvolge la piccola comunità, e cioè il brutale omicidio di una giovane studentessa delle superiori, nonché locale reginetta di bellezza, Laura Palmer. La ragazza viene ritrovata sulle rive di un fiume, nuda e avvolta in un telo di plastica,8 da un boscaiolo, Pete Martell. L’uomo avverte prontamente lo sceriffo Harry Truman, e presto la notizia della morte di Laura Palmer si diffonde in tutta la comunità, generando un forte cordoglio e sconvolgendo soprattutto i familiari e gli amici intimi. Nel frattempo, un’altra ragazza, Ronette Pulaski, viene trovata a vagare in stato di forte shock dalle parti della ferrovia e, visto che al momento del ritrovamento si trovava oltre i confini dello stato, ciò ne fa un caso federale; sul posto viene allora inviato un agente dell’FBI, Dale Cooper. Poco dopo Ronette Pulaski cade in coma. Le prime indagini di Cooper, Truman e colleghi evidenziano la presenza, sotto un’unghia di Laura Palmer, di un piccolo pezzetto di carta con sopra scritta la lettera “R”. La sera stessa, durante un’apposita riunione cittadina, Cooper informa gli abitanti di Twin Peaks che le modalità di uccisione di Laura Palmer corrispondono al modus operandi di un assassino che ha già colpito un anno prima nel sudovest dello stato. In seguito si scopre che Laura Palmer conduceva una doppia vita: la ragazza tradiva il suo fidanzato ufficiale, il capitano della locale squadra di football Bobby Briggs, con il fascinoso motociclista James Hurley; in più si prostituiva con l’aiuto di un camionista rozzo e manesco, Leo Johnson, e di uno spacciatore e “protettore”, Jacques Renault. Come se non bastasse, Laura era dipendente dalla cocaina, e costringeva Bobby a procurargliela facendo affari loschi con Renault. La sua morte dà inizio a una serie di eventi a catena, che ci permettono di conoscere sempre di più gli abitanti di Twin Peaks: Leland, padre di Laura e importante avvocato, subisce un esaurimento nervoso; l’amica del cuore della ragazza, Donna Hayward, inizia una relazione con James Hurley; la cugina di Laura, Maddy Ferguson, arriva in città per assistere gli zii. Donna, James e Maddy inizieranno poi a seguire le tracce dello psichiatra di Laura, Lawrence Jacoby,9 che scopriranno essere ossessionato dalla sua defunta paziente. L’uomo verrà aggredito da un ignoto assalitore – in realtà il padre di Laura – e finirà in ospedale. Nel frattem8 9

La frase “avvolta nella plastica” diviene all’epoca una sorta di tormentone, tanto da essere usata come titolo della fanzine ufficiale della serie, Wrapped in Plastic. A quanto pare Lynch e Frost, nel creare la figura di Jacoby, uno psichiatra eccentrico e con un aura vagamente New Age, si sono ispirati a Terence McKenna, un “etnobotanico” specializzato in piante allucinogene ed epigono del movimento psichedelico.

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po l’uomo più ricco della città, Benjamin Horne, mette in movimento una complessa trama tesa a distruggere la segheria di Catherine Martell, moglie di Pete, e a uccidere la donna. Lo spietato magnate ha una figlia, Audrey, con cui intrattiene rapporti piuttosto distaccati. Questo articolato filone delle vicende di Twin Peaks ci interessa però poco, in quanto rientra nella classica tipologia delle trame “alla Dallas” e, dal punto di vista della visione filosofica presentata da Twin Peaks, ha poco da dirci. I personaggi più interessanti – e più tipicamente lynchani – sono altri. Citiamo, per cominciare, Margaret Lanterman, una bizzarra donna di mezz’età soprannominata la Signora Ceppo, in quanto se ne va in giro con in braccio un ceppo di legno, a suo dire animato – in pratica la Lanterman parla regolarmente con il suo “ceppo da compagnia” che, secondo lei, sarebbe a conoscenza di molti dei segreti della sonnolenta cittadina. Questa ossessione della donna per il proprio ceppo non è un semplice particolare di contorno. A Twin Peaks il legno sembra avere proprietà particolari, che possiamo senz’altro far risalire al concetto di mana di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Secondo gli abitanti della città immaginaria nei boschi si nasconde un male oscuro; gli alberi inoltre possono ospitare spiriti, un’altra idea proveniente da diversi culti sciamanici, e le anime degli esseri umani possono rimanere intrappolate nel legno – uno dei personaggi della serie, Josie Packard, muore di paura dopo aver incontrato gli spiriti della Loggia Nera, il suo corpo finisce inspiegabilmente per pesare solo ventinove chili, e la sua anima viene intrappolata in un pomello di legno della stanza del Great Northern in cui è deceduta. La Lanterman sostiene che suo marito sia morto nei boschi dopo aver “incontrato il Diavolo” sotto forma di un grande fuoco – altro elemento pre-metafisico caro a Lynch – e diversi fan hanno ipotizzato che l’anima dell’uomo sia rimasta intrappolata proprio nel ceppo in questione. Quello della Signora Ceppo è un personaggio interessante per due motivi. Innanzitutto Lynch lo ha inventato prima di Twin Peaks, e ad esso il regista voleva dedicare una serie autonoma, poi sfumata – l’idea è stata poi recuperata quando Lynch ha chiesto alla Coulson di rivestire i panni della Signora Ceppo per girare brevi introduzioni criptiche agli episodi di Twin Peaks. In secondo luogo quello della donna anziana apparentemente disturbata e che in realtà è a conoscenza di segreti soprannaturali è una tipologia di personaggio che ricorre in diversi film di Lynch, basti pensare alla prima parte di Mulholland Drive e a una delle scene iniziali di Inland Empire, in cui il ruolo della vecchia pazza di turno è affidato a una regular di Lynch, Grace Zabriskie – che in Twin Peaks interpreta Sarah Palmer.

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Ma il personaggio più lynchano di tutti – oltre che protagonista del filone narrativo centrale di Twin Peak – è l’agente Dale Cooper. Cooper è un individuo eccentrico: curato nell’abbigliamento, preciso nei modi, abitudinario, ossessionato dal Tibet, usa metodi d’indagine non-convenzionali – ossia paranormali – tratti proprio dalle tradizioni magiche tibetane e sostiene di possedere il dono della telepatia. Senza tema di smentita, possiamo dire che, all’interno di Twin Peaks, Cooper rappresenta l’alter ego di Lynch – anche perché il personaggio possiede molte delle caratteristiche del suo inventore. Il paragone è corroborato dal fatto che, nello spartirsi i personaggi su cui lavorare, Frost si prende quelli più ciarlieri, come Ben Horne, mentre Lynch si concentra proprio su Cooper. Da ciò si può dedurre che, quando Cooper parla di temi di tipo filosofico, il personaggio esprime con tutta probabilità il punto di vista di Lynch – anzi, lo stesso regista ha ammesso questa frequente comunanza di vedute tra lui e Cooper. Per quanto riguarda l’attore che interpreta Cooper, Lynch dice di considerarlo quasi il proprio doppio: “Ci sono attori cui ricorro sempre; Kyle MacLachlan, per esempio. Lui mi piace, può darsi che sia una specie di mio alter ego”.10 È un particolare da tenere bene a mente, quando cercheremo di chiarire gli aspetti più oscuri e intricati della serie. Mano a mano che le vicende si sviluppano, iniziamo a conoscere sempre di più gli abitanti di Twin Peaks, e scopriamo che la cittadina nasconde non pochi segreti; con il procedere delle indagini di Cooper, cominciamo a intuire che dietro all’omicidio di Laura Palmer ci potrebbe essere una creatura soprannaturale, nota con il nome di BOB. L’entità rivela la propria natura non-umana alla fine del secondo episodio, nel corso di un sogno fatto da Cooper, in cui compaiono, tra gli altri, l’uomo con un braccio solo, un nano e la stessa Laura Palmer. Durante il sogno, ambientato perlopiù nella stanza rossa, all’agente dell’FBI vengono offerti indizi per la cattura del colpevole. Il giorno dopo Cooper avverte i suoi collaboratori di aver individuato l’assassino di Laura Palmer: gli basterà decifrare il sogno. La medesima sera Truman, Hawk e Big Ed – lo zio di James Hurley – si riuniscono al Double R Diner, e lì incontrano Cooper. Lo sceriffo gli rivela che, dalle parti di Twin Peaks, si aggirano forze maligne che rappresentano un po’ il lato oscuro della città, e che i suoi abitanti hanno il compito di arginare “il male oscuro che si nasconde nei boschi”; quella che ai tempi della Guerra Fredda sarebbe stata chiamata “strategia del containment”, insomma. Per questo scopo vent’anni prima è stata creata a Twin Peaks una società segreta, i Bookhouse Boys. 10

D. Lynch, Op. Cit., p.79.

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In seguito lo sceriffo riesce a identificare l’uomo da un braccio solo sognato da Cooper, e scopre che si tratta di Philip Gerard, un venditore di scarpe. Dall’interrogatorio emerge che effettivamente l’uomo conosce un Bob, il quale è un veterinario che ha curato un merlo indiano di proprietà di Jacques Renault. Cooper e Truman scoprono poi che Renault si trova all’One-Eyed Jacks, un bordello canadese di proprietà di Ben Horne; riescono ad attirarlo su territorio americano e ad arrestarlo. Ferito da un colpo di pistola, Renault viene portato in ospedale, ma Leland Palmer, ritenendolo l’assassino della figlia, si introduce furtivamente nell’edificio e lo uccide. La stessa notte Ben Horne fa appiccare il fuoco alla segheria di Catherine Martell – con lei legata all’interno dell’impianto – e Cooper viene aggredito nella sua camera d’albergo da un misterioso assalitore, che gli spara ripetutamente. Con questo cliffhanger termina la prima stagione.

4. Seconda stagione: l’arrivo del Gigante e la cattura dell’assassino La seconda stagione inizia dunque con Cooper che giace gravemente ferito sul pavimento della sua stanza. Poco dopo esser stato colpito, l’agente ha una visione: in una luce surreale, appare un gigante, e gli dà tre indizi, sotto forma di tre frasi a dir poco criptiche: “c’è un uomo chiuso in un sacco che sorride”, “i gufi non sono quello che sembrano” e “senza le sue medicine, lui è perduto”. L’entità poi aggiunge: “Non mi è permesso di dire altro, per adesso”. Prima di scomparire, il Gigante11 si fa consegnare da Cooper il suo anello d’oro, dicendogli che glielo restituirà non appena l’agente avrà capito i tre messaggi. Il primo messaggio fa riferimento a Jacques Renault, e il sacco che sorride è quello utilizzato per trasportare i cadaveri – vedendone uno appeso al muro Cooper si accorge che la sua apertura ha preso una piega che la fa assomigliare a un sorriso. Il secondo enigma non verrà mai chiarito, ma dagli eventi successivi si intuisce che questi animali sono in qualche modo collegati a due reami extra-dimensionali, la Loggia Bianca e la Loggia Nera, e che vengono usati dai loro abitanti come mezzi di trasporto o come strumenti d’osservazione del mondo esterno. L’accenno alle medicine è relativo all’aloperidolo, uno psicofarmaco utilizzato per trattare la schizofrenia e che Philip Gerard assume per tenere a bada Mike, l’entità soprannaturale che lo possiede. La vicenda comincia a farsi sempre più intricata: il maggiore Briggs si reca da Cooper e gli dice che, tra i compiti 11

Da qui in poi usiamo l’iniziale maiuscola, in quanto nella serie il termine “gigante” verrà usato come nome proprio.

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a lui affidatigli dall’aeronautica militare, c’è anche il controllo di un certo numero di telescopi puntati verso alcune lontane galassie, e che proprio la sera in cui l’agente è stato ferito, tali strumenti hanno captato due messaggi incomprensibili: “I gufi non sono quello che sembrano” e “Cooper-CooperCooper”. Nel frattempo, Maddy inizia ad avere visioni di BOB, che la guarda con un atteggiamento famelico, e Leland Palmer torna al lavoro presso Benjamin Horne, apparentemente di nuovo in forma, tranne che per un particolare: i suoi capelli sono diventati completamente bianchi. Le indagini proseguono, e Cooper scopre la verità su Philip Gerard e su Mike; in particolare l’agente viene a sapere che, un tempo, l’entità in questione si divertiva a uccidere esseri umani, e a questo scopo si avvaleva dei servigi di un altro spirito meno potente di lui, BOB appunto. Mike però si è ravveduto, e ora vuole aiutare Cooper e Truman a catturare l’assassino di Laura; per questo motivo l’entità rivela loro che BOB vive in mezzo agli abitanti di Twin Peaks, e possiede uno di essi ormai da decenni. Nel frattempo, grazie all’aiuto di una donna misteriosa, l’anziana signora Tremond, e di suo nipote, un giovane prestigiatore, Donna, James e Maddy scoprono che Laura teneva un diario segreto, custodito da un amico affetto da agorafobia, Harlod Smith. I tre riescono a sottrarglielo, e Smith si impicca. I Tremond sono personaggi piuttosto enigmatici e, come vedremo quando parleremo di Fuoco Cammina Con Me, sono a tutti gli effetti creature ultraterrene. Donna li incontra per la prima volta quando inizia a lavorare per il Double R Diner, portando pasti a domicilio; la signora Tremond fa alla ragazza il nome di Harold Smith, e le spiega che suo nipote sta studiando per diventare prestigiatore; il ragazzo fa sparire la crema di mais dal piatto del Double R Diner, e la fa ricomparire nelle proprie mani – non sappiamo tuttavia se la crema di mais abbia qui lo stesso significato occulto che ha in Fuoco Cammina Con Me. Apparentemente benefiche, queste entità sono in realtà ambigue, un fatto testimoniato da una frase che il nipote, Pierre Tremond, dice a Donna, “J’ai une âme solitarie”, “ho un’anima solitaria”. Si tratta della stessa frase che Harold Smith scrive sul diario di Laura Palmer poco prima di suicidarsi, il che ci fa capire che le due entità sapevano cosa sarebbe successo se Donna fosse andata da lui, e nonostante ciò hanno voluto lo stesso mettere la ragazza sulla strada giusta. Dal diario segreto di Laura Palmer emerge che BOB, che la ragazza definisce come “un amico di suo padre”, la molesta sessualmente e la tormenta in ogni modo da quando lei aveva dodici anni, e che proprio la necessità di sopportare questi abusi l’hanno spinta verso il sesso compulsivo e la dipendenza dalla cocaina. Con l’aiuto di Philip Gerard, Cooper identifica l’assassino in Benjamin Horne, che viene interrogato; poco dopo Maddy

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Ferguson viene ritrovata uccisa secondo le stesse modalità di Laura Palmer e con addosso un ciuffo di peli di un animale impagliato proveniente dall’ufficio di Horne, che viene arrestato. Poco prima dell’uccisione di Maddy, Cooper vede il Gigante, che lo avverte del pericolo imminente, mentre a Sarah Palmer appare un cavallo bianco, sulla cui interpretazione i fan di Twin Peaks si sono sbizzarriti. Se nella mitologia teutonica il cavallo bianco è un simbolo di morte, nel Libro dell’Apocalisse si parla di un cavallo pallido, che simboleggia anch’esso la morte. Cooper non è però soddisfatto dell’arresto di Horne, e riunisce tutti i sospetti, convinto che riceverà un’indicazione soprannaturale su chi sia il vero assassino. A questo punto l’anziano cameriere del Great Northern – probabilmente una manifestazione o un “veicolo materiale” del Gigante – offre a Leland Palmer una gomma da masticare, dicendogli una frase udita da Cooper in sogno; l’agente allora si ricorda che, durante il medesimo sogno, Laura gli ha sussurrato il nome del suo assassino, e cioè suo padre. Il Gigante riappare e gli consegna l’anello: il vero assassino è stato trovato. Leland Palmer viene arrestato; BOB allora si manifesta pienamente, confessa diversi omicidi e spinge Leland a suicidarsi. Prima di morire Leland dice a Cooper che BOB lo possedeva e lo molestava sessualmente fin da quando era bambino; l’uomo gli fa anche capire di essere stato lui stesso a “invitare” l’entità demoniaca a entrare in lui. Seguendo le procedure del Libro Tibetano dei Morti, Cooper allora instrada Leland Palmer verso l’aldilà, dove l’uomo inizia a vedere l’ormai classica luce e Laura che lo attende. Il giorno dopo Cooper e Truman si chiedono se Leland fosse pazzo o se fosse realmente posseduto, e se ora BOB stia cercando un nuovo ospite tra gli abitanti di Twin Peaks.

5. In cammino verso la Loggia Nera Gli eventi misteriosi non terminano qui. Una sera Cooper va a pesca con Briggs, e mentre il primo sta seguendo il richiamo della natura, il secondo viene avvicinato da un’entità misteriosa – che non ci viene fatta vedere – e scompare in un’accecante luce bianca. Poco prima Briggs stava iniziando a parlare a Cooper della misteriosa Loggia Bianca. In seguito Cooper viene a sapere che il suo mentore ed ex-partner all’FBI, Windom Earle, sta arrivando a Twin Peaks con lo scopo di giocare con lui una mortale partita a scacchi, in cui farà corrispondere ogni pezzo sottratto a Cooper a una persona che Earle ucciderà. Cooper rivela inoltre a Truman che durante i suoi primi anni all’FBI era stato incaricato di proteg-

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gere la moglie di Windom Earle, Caroline, in quanto testimone chiave in un processo per un reato federale; durante questo periodo Cooper e Caroline iniziarono una relazione. Windom Earle impazzì, uccise la moglie e accoltellò Cooper; in seguito l’uomo venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dal quale è ora fuggito, recandosi a Twin Peaks – probabilmente con lo scopo di vendicarsi. Mentre la partita a scacchi tra Earle e Cooper procede, l’agente cerca anche di capire chi o cosa sia BOB, e in tale contesto viene a sapere dell’esistenza di due reami extra-dimensionali, La Loggia Nera e la Loggia Bianca, simili al paradiso e all’inferno, e il cui ingresso è situato in mezzo ai boschi di Twin Peaks; è da lì che BOB, il Gigante, Mike e il nano provengono. Cooper, inoltre, si innamora di una ragazza appena giunta in città, Annie Blackburn. Quando la donna vince il concorso di bellezza di Miss Twin Peaks, Windom Earle la rapisce e la conduce fino all’entrata della Loggia Nera, situata in una specifica zona del bosco, Glastonbury Grove. A questo punto Cooper si rende conto che il vero scopo di Windom Earle era proprio quello di riuscire a entrare nella Loggia Nera, al fine di impadronirsi del suo enorme potere; la partita a scacchi era solo un’elaborata copertura. Cooper segue Annie e Windom Earle fin dentro la Loggia Nera, che si rivela essere proprio la stanza dalle tende rosse da lui vista in sogno durante la prima stagione. Lì viene accolto dal misterioso nano danzante, dal Gigante e da Laura Palmer, che gli danno messaggi oscuri sul suo futuro e gli mostrano le caratteristiche della Loggia Nera, un luogo in cui le normali leggi che governano lo spazio e il tempo non valgono. Cercando Annie, Cooper incontra poi i “doppelgänger” di varie persone decedute, come Maddy Ferguson e Leland Palmer, che lo inquietano con dichiarazioni strane o palesemente false. Dopo un po’ i doppelgänger conducono Cooper da Earle, che però viene ucciso da BOB. A questo punto l’agente dell’FBI, per la prima volta da quando è entrato nella Loggia Nera, ha paura, si dà alla fuga e viene inseguito da BOB e dal proprio doppelgänger, che gli salta addosso. Cooper e Annie vengono trovati nel bosco da Truman; la donna viene portata in ospedale e Cooper viene condotto nella sua stanza al Great Northern. Il giorno dopo Cooper si trova a letto, mentre Truman e il dottor Hayward si stanno prendendo cura di lui. L’agente apre gli occhi e dice ai due che in realtà non stava dormendo. Questa frase può essere interpretata in vari modi: forse Cooper era immerso in uno stato meditativo, o forse essa rappresenta un messaggio di Lynch al pubblico e ai membri del cast, che lamentavano di sentirsi abbandonati dagli autori principali della serie. Subito dopo Cooper si informa sullo stato di salute di Annie, ed entra in bagno per lavarsi i denti. Lo specchio rivela allora la verità: Cooper è rimasto intrap-

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polato nella Loggia Nera, mentre ad uscirne sono stati il suo doppelgänger e BOB, che utilizza il doppio di Cooper come veicolo. Con la scena di Cooper che sbatte di proposito la testa contro lo specchio, rompendolo, ferendosi e chiedendosi ironicamente come stia Annie, si chiude purtroppo Twin Peaks, lasciando il pubblico con un gran numero di questioni insolute.

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6. Ritorno a Twin Peaks? La serie è stata interrotta in seguito al forte calo di pubblico, a sua volta provocato dalla rivelazione dell’identità dell’assassino di Laura Palmer. Lynch e Frost erano contrari a questa decisione, imposta loro dalla ABC, in quanto avrebbero preferito mantenere il segreto fino alla fine. È per questo che, subito dopo la cattura del colpevole, la seconda stagione inizia a perdersi in una serie di trame poco convincenti e poco seguite dai due creatori della serie. Dopo un po’ inizia ad emergere una nuova sottotrama, quella della Loggia Nera, attorno a cui avrebbe dovuto ruotare la terza stagione. Per soddisfare la vostra curiosità vi riveliamo a cosa avevano pensato Lynch e Frost. Audrey Horne sarebbe riuscita a sopravvivere all’esplosione che l’aveva investita nell’ultimo episodio – era un personaggio troppo popolare per farlo morire. BOB, attraverso il doppelgänger di Cooper da lui abitato, sarebbe stato libero di agire nel mondo materiale. Il maggiore Briggs sarebbe probabilmente intervenuto per liberare Cooper dalla sua prigionia nella Loggia Nera e sarebbe anche apparsa la Loggia Bianca. Sheryl Lee sarebbe tornata nel ruolo di una misteriosa ragazza dai capelli rossi forse proveniente dal futuro. Come si sa, Lynch ha realizzato poi un prequel di Twin Peaks, ma ciò costituisce una storia a parte, che vi racconteremo in seguito. Interrogato sulla possibilità di riprendere in mano la serie, nel 1997 Lynch ha dichiarato che: “Tutto è possibile, ma prima che ciò avvenga dovrebbero verificarsi eventi molto molto strani. Non credo che possa succedere.” Per un certo periodo Frost ha anche preso in considerazione l’idea di portare a termine la serie in un romanzo, progetto poi abbandonato. Nel 2007 è uscita la notizia che Mark Frost sarebbe interessato a dirigere un film con protagonista proprio Kyle MacLachlan nel ruolo dell’agente Cooper. Ovviamente il film in questione non potrebbe di certo riprendere in mano tutte le sottotrame lasciate in sospeso dalla serie – gli attori sono invecchiati, alcuni sono morti, le scenografie sono state smantellate da tempo –, però almeno il filone principale avrebbe potuto essere ripreso, visto che, dal punto di vista artistico, MacLachlan è tutt’ora attivo e in piena forma.

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Di questo progetto non se n’è saputo più nulla, finché nel 2009 MacLachlan ha dichiarato di essere intenzionato a riportare in vita Twin Peaks e l’agente Cooper tramite una serie di webisodes – cioè episodi girati espressamente per internet – di cinque minuti l’uno. L’attore ha anche aggiunto di avere l’appoggio di Frost e che, al momento attuale, Lynch sembrerebbe più interessato alla diffusione della Meditazione Trascendentale che a Twin Peaks. Incrociamo le dita. Questa a grandi linee la trama di Twin Peaks. Ora però dobbiamo fare ciò che il lettore si aspetta, e cioè prendere in mano gli episodi più bizzarri e criptici della serie, esaminarli a fondo, decifrarli – offrendo un’interpretazione possibilmente convincente – e infine estrarne tutte le implicazioni filosofiche, individuando la metafisica implicita di Twin Peaks.

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III L’OSCURITÀ CHE SI NASCONDE NEI BOSCHI

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1. Un negozio conveniente Cominciamo la nostra analisi della mitologia di Twin Peaks dal primo evento surreale che appare nella serie, ossia il sogno avuto da Dale Cooper al termine del secondo episodio. Un Cooper invecchiato se ne sta seduto in una stanza rossa, mentre un misterioso nano che indossa abiti eleganti dello stesso colore gli dà le spalle, e si sfrega vigorosamente le mani. Una voce gracchiante grida “Laura, Laura” – pare la voce di un merlo indiano, e infatti si scoprirà che il corpo di Laura Palmer porta i segni delle beccate di un uccello, un indizio fondamentale per la cattura dei suoi aguzzini. Il sogno si sposta all’improvviso nei sotterranei dell’ospedale di Twin Peaks, dove un uomo con un braccio solo inizia a recitare un inquietante poema: Nell’oscurità di un futuro passato Il mago desidera vedere Un uomo canta una canzone tra questo mondo e l’altro Fuoco cammina con me

L’uomo da un braccio solo continua: “Noi viviamo tra la gente, tu lo chiameresti un negozio conveniente; noi ci vivevamo sopra. Voglio dire, proprio così com’è, così come sembra. Anch’io sono stato toccato dall’essere infernale. Un tatuaggio sulla spalla sinistra. Oh, ma quando vidi il volto di Dio, ne fui cambiato, e mi staccai da solo il braccio intero. Il mio nome è Mike. Il suo nome è Bob.” Subito dopo vediamo BOB, sempre nei sotterranei dell’ospedale – la scena in questione è stata presa dalla versione filmica dell’episodio pilota ed è stata rimaneggiata, in modo da accentuarne le caratteristiche soprannaturali e far intendere al pubblico che si tratta di un sogno. BOB sembra percepire quasi in modo extra-sensoriale la presenza di Mike: “Mike? Mike, puoi sentirmi? Ti catturerò, con il mio sacco mortale. Tu penserai che io sia impazzito. Ma ti faccio una promessa… Tornerò a uccidere anco-

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ra!”. Dopodiché il sogno cambia registro, riassumendo una connotazione surreale. Siamo di nuovo nella stanza misteriosa; mentre il nano continua a sfregarsi le mani ancora un po’, Cooper vede che c’è un altro ospite, e cioè Laura Palmer, che gli sta sorridendo. Il nano si volta all’improvviso e, con una voce molto bizzarra, gli dice: “Forza, balliamo!” – “Let’s rock”, nell’originale. Poi va a sedersi vicino a Laura e continua a sfregarsi le mani lentamente. Laura indica con un dito il proprio naso, e una piccola ombra scura passa dietro le tende – stando allo script originale dell’episodio si tratta dell’ombra di un uccello. Il nano dice allora a Cooper: “Ho buone notizie. Quella gomma che ti piaceva tanto sta tornando di moda”. E poi, voltandosi brevemente verso Laura Palmer: “Lei è mia cugina, ma non diresti che è quasi esattamente uguale a Laura Palmer?” Al che Cooper risponde: Ma lei.. lei è Laura Palmer. Non sei Laura Palmer?”. La ragazza allora gli risponde con una voce distorta: “Sento di conoscerla, ma certe volte le mie braccia si piegano all’indietro”. E il nano aggiunge: “Lei è piena di segreti. Viviamo in un posto dove gli uccelli cantano un radioso motivo e c’è sempre tanta musica nell’aria”. Parte infine la musica e il nano inizia a ballare; Laura Palmer si avvicina a Cooper, gli sorride, lo bacia e gli dice qualcosa nell’orecchio. Oltre alla voce, anche i movimenti dei due personaggi hanno qualcosa di strano.1 Proprio l’ultima frase detta dal nano ha fatto sì che nei credits egli venisse chiamato l’Uomo Da Un Altro Posto. Come si può vedere è una scena densissima, che richiede un’analisi accurata. Innanzitutto teniamo presente che, in questo specifico episodio, abbiamo a che fare solo con un sogno, per quanto di origine soprannaturale. La sua funzione all’interno del telefilm è quella di fornire a Cooper una serie di indizi che gli permettano di catturare l’assassino. E così le tende rosse, la musica nell’aria e il canto degli uccelli indicano a Cooper alcune caratteristiche della baita dove Ronette Pulaski e Laura Palmer sono state portate da Leo Johnson e Jacques Renault. La gomma da masticare citata dall’Uomo Da Un Altro Posto servirà come chiave per far riemergere dall’inconscio di Cooper l’identità dell’assassino di Laura, rivelatogli da lei stessa durante il sogno. Il dito che Laura rivolge verso il proprio naso potrebbe indicare l’uso di cocaina che la ragazza faceva in vita, oppure potrebbe essere un messaggio di Laura, che gli sta dicendo che il sogno in questione lo porterà nella giusta direzione – cioè gli metterà la soluzione “sotto il naso” (in inglese 1

Il bizzarro tono di voce è stato ottenuto facendo pronunciare agli attori le proprie battute all’incontrario, e poi facendo scorrere il nastro all’inverso. In alcuni casi anche i nastri video hanno subito un ribaltamento; in pratica Lynch ha chiesto agli attori di muoversi e recitare all’incontrario, e da ciò deriva la stranezza insita nei loro movimenti.

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“right on the nose”). Anche qui valgono le considerazioni che abbiamo fatto in precedenza: bisogna stare attenti a non analizzare eccessivamente gli elementi onirici presentati da Lynch, e ciò per il fatto che sovente non hanno un significato specifico, ma il regista li ha inclusi solo perché gli piacevano e contribuivano all’atmosfera in generale. E così può ben darsi che il dito di Laura rivolto verso il proprio naso non voglia dire niente, e che tutti gli elementi della stanza – la lampada, le poltrone e così via – siano lì solo per ragioni per così dire “pittoriche” ed evocative. Il nano presenta la ragazza al suo fianco come “sua cugina” e ne sottolinea la somiglianza con Laura Palmer: può essere un semplice riferimento al fatto che, proprio nella puntata successiva, Maddy Ferguson arriva a Twin Peaks. Si tratta però di un interpretazione almeno in parte contraddetta – o comunque resa più difficile – dal fatto che, durante la seconda stagione, Cooper entra in possesso di una pagina del diario di Laura in cui la ragazza descrive il medesimo sogno fatto da lui. È un particolare interessante, in quanto Laura Palmer racconta di come le fosse difficile parlare, e che le parole le uscivano dalla bocca in modo distorto: ne consegue che non si tratta di un sogno analogo, ma proprio del medesimo sogno, nel corso del quale lei ha cercato di comunicare a Cooper informazioni vitali per la cattura del suo futuro assassino. Il fatto poi che, nel mondo reale, i due personaggi facciano il medesimo sogno in due momenti diversi – Laura prima di essere uccisa, tanto da fare in tempo a scriverlo sul proprio diario, e Cooper dopo l’omicidio della ragazza – indica che questo evento onirico ha uno status ontologico autonomo, ossia che costituisce un luogo d’incontro extra-dimensionale autonomo dalla vita onirica di Cooper e Laura e slegato dal tempo. In buona sostanza la scoperta di Cooper rappresenta una prima indicazione dell’esistenza del reame ultraterreno così caro ai fan della serie, cioè la Loggia Nera. Le affermazioni di Mike sul “negozio conveniente” e sul fatto che viveva sopra di esso assieme a BOB sono a dir poco ambigue, oltre che mal tradotte – uno dei tanti errori di traduzione commessi nell’edizione italiana. Nello script originale si parla di “convenience store”, ossia di un emporio o di un minimarket dove si può trovare un po’ di tutto. Non si riesce insomma a capire se Mike si riferisca a un luogo reale – come sembrerebbe suggerire un successivo episodio di Twin Peaks e il film Fuoco Cammina Con Me –, o se invece il “negozio conveniente” sia una metafora relativa al fatto che Mike e BOB apparterrebbero a un “piano di realtà” superiore, e che vivrebbero tra gli esseri umani trattando il nostro mondo come un emporio, in cui cibarsi di leccornie varie – nella fattispecie la sofferenza umana. Anche l’oscuro poema recitato da Mike è aperto a

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molte interpretazioni, oltre che aver subito i già citati errori di traduzione. Nella fattispecie “chants”, cioè la terza persona dell’indicativo presente del verso “to chant” – ossia “cantare” o “declamare” un poema – è stato tradotto come “chance”, cioè “opportunità” o “possibilità”. Anche questi versi sono stati travolti dall’immancabile fiume d’inchiostro di fan e interpreti. Il “mago” potrebbe riferirsi al nipote della signora Tremond, mentre “Fuoco cammina con me” sembra essere una sorta di formula magica in grado di invocare gli spiriti in questione – e in particolare BOB – o meglio di scatenare la loro furia omicida, guarda caso rappresentata da Lynch tramite il fuoco. Questa interpretazione spiegherebbe anche perché Mike abbia privato il proprio “ospite”, Philip Gerard, del braccio su cui si trovava un tatuaggio con la frase incriminata. Mike rappresenta per noi una fonte preziosa di indizi per capire con che tipo di entità Cooper e soci abbiano a che fare. Da questo punto di vista il dialogo tra Cooper, il suo superiore Gordon Cole – interpretato dallo stesso David Lynch – e Mike è piuttosto interessante. A Philip Gerard è stato impedito di assumere l’aloperidolo, il farmaco con cui l’uomo tiene a bada Mike. L’entità ha allora la possibilità di manifestarsi pienamente, e di parlare: Cooper: “Chi sei tu?” Mike: “Il mio nome è Mike”. Cooper: “Cosa sei tu?” Mike: “Sono uno spirito che vive negli uomini”. Cooper: “Chi è Philip Gerard?” Mike: “È il mio attuale ospite”. Cooper: “In un sogno una volta mi hai parlato di un certo Bob”. Mike: “Lui era uno spirito simile”.

A questo punto dobbiamo fare una rapida digressione, perché nell’edizione italiana l’ultima frase è stata tradotta male. Nell’originale Mike dice infatti: “He was my familiar”. Nella tradizione giudaico-cristiana il termine “famiglio” – in inglese “familiar” – indica un demone di rango inferiore, reclutato da maghi e streghe per effettuare questo o quel compito – nella tradizione popolare sono collegati ad animali come i gatti, i corvi e, significativamente, i gufi. Il messaggio è chiaro, dunque: BOB era una creatura di livello inferiore, asservita a Mike. Nel mondo ultraterreno di cui ci parlano Lynch e Frost c’è quindi una gerarchia di potenze. “Non mi è permesso di dire altro, per adesso” – dice a Cooper il Gigante, lasciando intendere che ci sono altre entità gerarchicamente superiori a lui. Proseguiamo ora con il dialogo tra Cooper e Mike.

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Cooper: “E da dove viene questo Bob?” Mike: “È una cosa che non può essere rivelata”. Cooper: “Puoi dirci che cosa vuole?” Mike: “Lui è Bob, gli piace divertirsi, ed ha un sorriso tale, al quale nessuno può resistere. Sapete che cos’è un parassita? È un essere che sfrutta un’altra forma di vita e se ne nutre. Bob ha bisogno di un ospite umano. Lui si ciba di paura, e a volte di piaceri. Questi sono i suoi figli. Io sono simile a Bob. Una volta eravamo soci. Poi io ho visto il volto di Dio ed allora divenni puro e mi tolsi il braccio, però restai vicino a questo vascello e lo abitai di tanto in tanto per un unico scopo…”. Cooper: “Trovare Bob!” Mike: “Per fermarlo! Il suo vero volto è questo [indicando il ritratto di BOB ricavato dalla visione di Sarah Palmer], ma pochi riescono a vederlo, gli eletti… e i dannati”. Cooper: “Bob è vicino a noi adesso?” Mike: “Da quasi quarant’anni”. Cooper: “Dove?” Mike: “In una grande casa fatta di legno, circondata dagli alberi. La casa è composta da molte stanze, tutte uguali, ma occupate da anime differenti notte dopo notte”.

Come si può vedere il materiale da analizzare non manca; sappiamo ad esempio che siamo alle prese con entità metafisiche trascendenti, che si servono di ospiti umani per viaggiare nel mondo e per nutrirsi di sentimenti quali la paura. Sappiamo inoltre che c’è una gerarchia, cioè che questo mondo trascendente è composto da più livelli. A questo punto possiamo chiederci in modo più specifico che cosa sia BOB: se infatti in questo brano lo abbiamo definito un “famiglio”, cioè un demone minore, nello svolgersi della serie il suo status muta, e il suo ruolo cresce di importanza. Se prendiamo in mano le carte da gioco prodotte dalla Lynch/Frost Productions – materiale autorizzato, e quindi facente parte a pieno titolo della mitologia di Twin Peaks – e diamo un’occhiata alla carta dedicata a BOB, alla voce “data di nascita” scopriremo che il nostro malefico personaggio è nato addirittura all’inizio del tempo, il che fa di lui un’entità metafisica di tutto rispetto. Per riassumere: creature nate all’inizio del tempo, disposte su una sorta di scala gerarchica, molto potenti, e dagli intenti malevoli o per lo meno ambigui. Vi viene in mente niente? A noi sì, ma per illustrare il nostro punto di vista e per procurarci una griglia concettuale adatta a pensare adeguatamente la metafisica di Twin Peaks dobbiamo fare di nuovo un tuffo nel passato, e scomodare la gnosi.

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2. Gli Arconti di Twin Peaks In genere quando si parla di gnosi o di gnosticismo si pensa agli albori del cristianesimo, e in particolare al fatto che quest’ultimo, lungi dal costituire una realtà unitaria, si frammenta fin da subito in un certo numero di correnti, abbastanza diverse tra di loro in quanto a dottrine professate. Una di tali correnti è proprio la gnosi, anche se, per dirla tutta, lo gnosticismo è più propriamente un insieme di correnti e visioni del mondo sorte sia all’interno del cristianesimo sia a fianco di esso, in modo indipendente. Abbiamo così una gnosi cristiana, ma anche movimenti gnostici legati ad altre grandi religioni dell’antichità, come il manicheismo persiano; e così c’è una gnosi iranica, che riprende la religione di Zoroastro, una gnosi babilonese, che recupera anche la sapienza astrologica sviluppata in Mesopotamia, una gnosi egizia, che si rifà al culto di Iside e Osiride, e così via. Inutile dire che, dal punto di vista del cristianesimo “ufficiale”, lo gnosticismo cristiano rappresenta nient’altro che una delle tante eresie. A prescindere da tutte queste distinzioni dottrinarie, possiamo rintracciare elementi comuni a ogni corrente, elementi che ritroviamo sorprendentemente proprio in Twin Peaks e nelle entità soprannaturali che vi operano. Non sappiamo se e quale rapporto intercorra tra Lynch, Frost e lo gnosticismo, ma certo molte delle categorie di questo movimento religioso ci aiutano a inquadrare meglio l’opera dei due autori. Tutte le correnti gnostiche sono in qualche modo legate al tema della salvezza individuale, ossia mirano a liberare l’anima umana da una condizione di minorità causata dalla prigione in cui si trova rinchiusa, cioè il mondo materiale. Altro elemento ricorrente è quello della totale inconoscibilità di Dio: il divino è cioè assolutamente trascendente, al di là della nostra stessa capacità di immaginarlo e pensarlo per concetti. Infine il mondo è caratterizzato da un forte dualismo, espresso tramite la metafora della luce – il mondo spirituale – e delle tenebre – la realtà materiale, imperfetta e, in fin dei conti, causa di ogni male. Il termine “gnosi” deriva dal greco gnosis, cioè conoscenza: è proprio l’atto del conoscere a costituire la via maestra per liberarsi dalle catene della materia, anche se bisogna sottolineare che per “conoscere” qui non si intende il semplice studio o la riflessione razionale sulla realtà – non si dimentichi che stiamo comunque parlando di un movimento religioso. Data infatti la radicale trascendenza del divino, la sua conoscenza dovrebbe essere a rigore impossibile; ciò che in realtà può essere conosciuto sono i cosiddetti “mondi superiori”, o “mondi della luce”, livelli di realtà soprastanti al nostro e ai quali si accede non tanto tramite la conoscenza teoretica, quanto attraverso una forma di “illuminazione” spirituale – in pratica la conoscenza è legata alla Rivela-

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zione e comporta una modificazione ontologica della condizione umana. “Conoscendo”, cioè aprendoci a Dio, veniamo da lui posseduti e trasformati, assurgendo a un livello diverso e finendo con l’essere “salvati”: “vidi il volto di Dio, e allora divenni puro” – ci dice Mike. Se il divino è al di là del mondo, ci si potrebbe chiedere allora da dove venga quest’ultimo, chi lo abbia creato e perché. La risposta è: la realtà materiale è il prodotto di potenze inferiori, creature semi-divine ma comunque imperfette, e soprattutto ostili a Dio, entità note con il nome di Arconti – cioè “governanti”. Nella fattispecie il mondo in cui viviamo viene concepito dagli gnostici come un’enorme e oscura prigione, al centro della quale c’è la “cella” più buia di tutte: la Terra. Il mondo materiale è disposto in un certo senso “in colonna”, ossia al di sopra della Terra ci sono diverse sfere celesti sistemate l’una sull’altra, il numero delle quali varia a seconda dell’autore gnostico che leggiamo: ad esempio per il pensatore gnostico Basilide l’universo conteneva per lo meno 365 sfere. Ognuna di esse è poi controllata dai “Sette”, Arconti particolarmente potenti che corrispondono più o meno alle divinità planetarie appartenenti al pantheon babilonese e alla successiva tradizione astrologica – siamo al cospetto del “gotha” degli Arconti, insomma. Spesso i Sette venivano chiamati con i nomi attribuiti a Dio dall’Antico Testamento, come Sabaoth, Adonai, Elohim e così via. Gli Arconti dunque hanno creato il mondo, anche se, stando ad alcune correnti, a realizzare la nostra prigione è stato in primis il loro capo, chiamato il Demiurgo – un termine greco che significa “fabbro” e che gli gnostici hanno preso da Platone. Il Demiurgo dello gnosticismo viene sovente rappresentato come una versione “in peggio” del Dio severo e geloso dell’Antico Testamento. Per quanto riguarda la natura dell’uomo la gnosi ne propone una concezione tripartita: l’essere umano è infatti composto da corpo, anima e spirito, cioè “soma”, “psiche” e “pneuma”. I primi due corrispondono rispettivamente al corpo materiale e all’insieme di passioni, desideri e forze vitali che lo animano; essi sono il prodotto delle azioni degli Arconti. Lo spirito umano è espressione della sostanza divina, ed è “caduto” nella materia dai “mondi della luce”, un piano di esistenza al quale vuole ritornare. La struttura tripartita dell’essere umano ha dato origine anche alla tipica concezione “anti-democratica” degli gnostici. Il genere umano può essere infatti diviso in tre gruppi: gli “ilici” – uomini completamente schiavi delle proprie brame terrene –, gli “psichici” – che si trovano a un livello intermedio – e infine i “pneumatici” – cioè gli gnostici medesimi, che oramai sanno come stanno le cose e lavorano per ritornare nei mondi della luce. Un’altra distinzione tipica dello gnosticismo è quella tra “svegli” e “dormienti”: l’uomo comune vive infatti la propria vita

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completamente immerso nel mondo materiale, senza neanche intuire la propria condizione di prigioniero; a tutti gli effetti è “addormentato” o “intorpidito”. Gli “svegli” sono ovviamente gli gnostici. Natura di Dio, origine degli Arconti e creazione del mondo: sono questi dunque i temi centrali dello gnosticismo, oltre che la fonte delle loro principali divergenze dottrinali.2 A grandi linee possiamo sintetizzare i miti gnostici sull’origine della Realtà nel modo seguente. Dio è Silenzio, è Mistero, è l’Abisso innominabile e inconcepibile; con un atto di “auto-generazione” si accoppia con il proprio Pensiero – in greco “Ennoia” – e così facendo origina l’intelletto – “Nous” – e la Chiesa celeste – “Ekklesia”. Una serie di atti successivi di auto-generazione e emanazione dà origine a una vera e propria gerarchia celeste, composta – sulla falsariga di Nous ed Ekklesia – da coppie divine. Al livello più basso troviamo due entità: Cristo e Sofia – cioè la Sapienza divina. Quest’ultima decide a un certo punto di muoversi autonomamente e, in completo disaccordo con Cristo, manifesta la volontà di comprendere l’Abisso in modo diretto, facendo a meno della mediazione delle altre coppie divine. Questo atto di ribellione ha tutta una serie di conseguenze, tra cui la creazione del Demiurgo proprio ad opera di Sofia – che infonde al nuovo essere una scintilla divina. Come si è detto il Demiurgo sarà poi all’origine di tutte le succitate entità intermedie o inferiori, dagli Arconti all’uomo. Insomma, tutto questo per dire che il mondo è strutturato in modo gerarchico, che la realtà materiale non è stata voluta da Dio – ma è, in un modo o nell’altro, il frutto di un atto di insubordinazione – e che lo spirito umano proviene dall’originaria scintilla divina, che gli conferisce il desiderio di tornare prima o dopo al mondo del Padre. A questo punto ci dobbiamo nuovamente chiedere: le entità di Twin Peaks sono paragonabili agli Arconti? Crediamo proprio di sì, ma per dimostrarlo dobbiamo proseguire con il nostro cammino verso la Loggia Nera.

3. La Dimora del Limite Estremo Quello della Loggia Bianca e della Loggia Nera è senz’altro l’aspetto più oscuro della mitologia di Twin Peaks, ed è stata proprio l’introduzione di questa particolare sottotrama che ha decretato – purtroppo – la sospensione della serie. A ragion veduta è anche l’elemento più intrigante di Twin Peaks, tanto che è stata proprio la creazione dei due reami extra-dimensio-

2

Cfr. H. Jonas, Lo Gnosticismo, SEI, Torino 2002.

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nali a fare di questo telefilm un cult, soprattutto per gli interrogativi lasciati aperti dall’ultimo episodio. A introdurre per la prima volta questo tema è il maggiore Briggs; l’ufficiale, che in quel momento si trova a pesca con Cooper, chiede all’agente dell’FBI se abbia mai sentito parlare della Loggia Bianca. Il maggiore non fa però in tempo a fornire a Cooper ulteriori dettagli, visto che viene avvicinato da una presenza oscura, che lo fa scomparire in un accecante bagliore di luce bianca. Di Briggs abbiamo già appreso che è un ufficiale dell’aviazione coinvolto nel “Progetto Libro Azzurro”, un programma di ricerca americano – realmente esistito e durato fino al 1969 – che mirava a far chiarezza sul fenomeno dei dischi volanti. A partire dalla fine degli anni Quaranta negli Stati Uniti sempre più persone iniziarono a dichiarare pubblicamente di aver avvistato astronavi provenienti da altri mondi; anzi, in alcuni casi i testimoni dicevano di averne incontrato anche gli occupanti. Si era alle prese in buona sostanza con una forma di isteria collettiva, alimentata anche dalla Guerra Fredda. Fu a questo punto che il governo decise di intervenire, istituendo un progetto di ricerca che indagasse sui vari avvistamenti UFO avvenuti sul territorio nazionale. Ovviamente l’amministrazione Usa non prendeva sul serio i vari resoconti di presunti incontri con creature aliene: ciò che la intimoriva era piuttosto la possibilità che i sovietici fossero riusciti a sviluppare tecnologie avveniristiche che consentissero loro di spiare il territorio americano o addirittura di attaccarlo – una preoccupazione più che comprensibile, visto che, prima dello sbarco sulla Luna, l’astronautica sovietica aveva inferto all’orgoglio americano cocenti umiliazioni, dal lancio dello Sputnik al primo volo umano nello spazio. È chiaro che gli appassionati UFO e i teorici del complotto non accetteranno questa versione dei fatti, e preferiranno sostenere che il governo Usa “sa la verità, ma la tiene nascosta”, e così via. Questa però è un’altra storia. Ciò che ci interessa è invece il fatto che, subito dopo la sparizione di Briggs, arriva a Twin Peaks un suo superiore, il colonnello Riley; il militare fa capire a Cooper che, sebbene i radiotelescopi controllati da Briggs e colleghi fossero diretti verso lo spazio profondo, i messaggi consegnati all’agente dell’FBI dal maggiore provenivano proprio dai boschi di Twin Peaks, anche se il destinatario non può essere rivelato. Par di capire comunque che la scomparsa di Briggs non abbia a che vedere con i classici alieni, e questa interpretazione deriva da una semplice constatazione: Lynch non ama molto il tema dei dischi volanti, e non è interessato a far prendere alla serie una piega “ufologica”; a ciò si aggiunga il fatto che Mark Frost è un amante della teosofia, e si capirà come mai, dopo un accenno iniziale agli UFO, il tema viene lasciato

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cadere. Riley si rifiuta di parlare della Loggia Bianca, invoca il segreto militare e, riferendosi al rapimento di Briggs, si limita a dire che “la sua sparizione ha implicazioni che vanno ben oltre la sicurezza nazionale. La guerra fredda è stata a confronto un semplice raffreddore”. Il maggiore riappare, senza però ricordare bene l’accaduto. Briggs informa Cooper del proprio passato nel Progetto Libro Azzurro:

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Terminò ufficialmente nel 1969, ma alcuni partecipanti al progetto continuarono la ricerca in veste non ufficiale, scrutando il cielo in attesa di un messaggio, e nel caso di Twin Peaks, anche la Terra. Noi stiamo cercando un posto chiamato la Loggia Bianca. […] Io sono sicuro che durante la mia sparizione sono stato portato nella Loggia Bianca da qualcuno. […] La luce intensa che ho visto è l’emanazione di una potenza che vive nei boschi.

Ulteriori informazioni sulla Loggia Bianca vengono offerte a Cooper da Hawk e da Truman:3 Cooper: “Qualcuno di voi conosce un posto chiamato la Loggia Bianca?” Hawk: “Chi gliene ha parlato?” Cooper: “È stata una delle ultime cose che mi ha detto il maggiore prima di sparire”. Hawk: “Cooper, lei può essere coraggioso in questo mondo, ma esistono altri mondi”. Cooper: “Dimmi tutto, Hawk”. Hawk: “La mia gente è convinta che la Loggia Bianca sia un luogo dove vivono gli spiriti che governano gli uomini e la natura”. Truman: “È una leggenda locale. Un’antica credenza”. Hawk: “C’è anche una leggenda su un posto chiamato la Loggia Nera, cioè l’io-ombra della Loggia Bianca. Questa leggenda dice che ogni spirito deve passare di lì, se vuole raggiungere la perfezione. Solo lì potrai incontrare l’io-ombra che ti appartiene. Il mio popolo la chiama anche la Dimora del Limite Estremo”. Cooper: “La Dimora del Limite Estremo…” Hawk: “Ma fa attenzione: se entri nella Loggia Nera e il tuo cuore non è saldo, allora la tua anima sarà incenerita.

Secondo Hawk gli spiriti che vivono nelle due Logge dominano la natura e gli uomini; si trovano a un livello ontologico superiore al nostro e, traducendo il linguaggio sciamanico di Hawk in quello gnostico, possono essere definiti come Arconti.

3

Nel 18° episodio.

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A darci una descrizione ancora più esaustiva – oltre che colorita – è uno dei cattivi più riusciti della storia della televisione, Windom Earle:4 C’era una volta un posto pieno di allegria e felicità. Si chiamava la Loggia Bianca. Teneri cerbiatti saltellavano agili attorno ai sorridenti spiriti del bene. I suoni della gioia e dell’innocenza riempivano l’aria. E quando pioveva, cadeva un dolce nettare che infondeva nei cuori lo struggente desiderio di continuare quella vita di verità e di bellezza. In parole povere un postaccio orribile, che emanava il disgustoso fetore della virtù, intasato com’era dalle biascicanti preghiere delle madri inginocchiate e dal frignare dei neonati, per non parlare dei pazzi di tutte le età, costretti a fare il bene senza ragione. Ma sono lieto di sottolineare che la nostra storia non termina con questo nauseante eccesso di saccarina, perché esiste un altro luogo che è l’opposto del primo. Un posto da cui si sprigiona una potenza inimmaginabile, pieno di forze oscure e segreti maligni. Non c’è posto per le preghiere in questo terribile regno. Gli spiriti non ascoltano le invocazioni e tanto meno giocano con i cervi. Preferiscono piuttosto strapparti la carne dalle ossa mentre ti danno il benvenuto. Ma a chi li sa imbrigliare, gli spiriti di questa terra nascosta di urla soffocate e cuori spezzati offrono un potere così vasto che chi lo detiene potrebbe riordinare la Terra a suo piacimento. Il luogo di cui parlo è conosciuto con il nome di Loggia Nera. Ed io intendo trovarlo.

Una cosa è chiara: la Loggia Bianca e la Loggia Nera sono due luoghi più “sottili” del nostro, e in essi risiedono creature estremamente potenti. Il termine “sottile” dovrebbe aver fatto scattare un campanello d’allarme nella testa dei lettori maggiormente versati in faccende esoteriche, e in particolare nella “cosmologia” che accomuna molte dottrine e concezioni diverse, dall’induismo alla gnosi, dalla teosofia all’antroposofia di Rudolf Steiner. Con il termine “piano” si intende l’idea che il mondo reale sia costituito – proprio come abbiamo visto parlando dello gnosticismo – da svariati livelli o “piani d’esistenza”. Quest’ultimi possono essere caratterizzati ad un tempo come luoghi e come stati di coscienza, o meglio come realtà che si compenetrano e alle quali si può accedere cambiando il proprio livello di consapevolezza. Il mondo materiale è costituito, come dice il nome stesso, da materia, la quale è grossolana; esistono tuttavia altre realtà, o per così dire “sostanze”, più “sottili”, che possono penetrare il mondo della materia e convivere con esso. In origine il concetto di “piani d’esistenza” può essere visto come una derivazione della visione del mondo delle mitologie tradizionali e dello sciamanismo, le quali promuovevano una concezione verticale della realtà, costituita da un piano divino situato nel cielo, posto al di 4

Nel 29° episodio.

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sopra del mondo umano – il quale è posizionato a suo volta sopra il mondo degli inferi. Un esempio particolarmente efficace è quello dell’Yggdrasil, l’albero cosmico che, stando alla mitologia nordica, costituisce l’ossatura della realtà, e sui cui rami si posano i nove reami che compongono l’universo: il regno degli dei, Asgard, il regno dei loro “cugini” Vanir, Vanaheimr, il mondo degli uomini, Midgard, il mondo dei giganti, o Jötunheimr, il mondo degli elfi, Álfheimr, il mondo del ghiaccio, Niflheimr, il mondo del fuoco, chiamato Múspellsheimr, il mondo dei nani e degli elfi malvagi, Svartálfaheimr, e il mondo degli inferi, lo Hel. Infine abbiamo il “settore di competenza” delle Norne – la versione germanica delle Parche, cioè le tre entità metafisiche che tessono e tagliano il filo del destino umano –, le quali risiedono presso le radici del nostro albero cosmico. Da questa interpretazione letterale si è poi è passati a una concezione più metaforica: l’osservazione che gli antichi fecero del respiro umano li spinse a elaborare il concetto di “anima”; ciò originò l’idea che, al di là degli oggetti materiali, esisterebbero entità o realtà più “sottili”, e, per estensione, anche altri piani d’esistenza. Ufficialmente la nozione di “piano” entra a far parte del gergo filosofico grazie al neoplatonismo, e in particolare a Proclo, filosofo vissuto nel quinto secolo dopo Cristo. Questo concetto trova poi una corrispondenza anche nel pensiero induista, che nel frattempo ha sviluppato l’idea di “loka”, cioè di “mondo”, che a tutti gli effetti corrisponde al “piano” occidentale. Con il proseguire delle speculazioni filosofiche, para-filosofiche e occultistiche si è poi arrivati a concepire la realtà come un insieme di piani l’uno più sottile dell’altro e coesistenti nel medesimo spazio, ma raggiungibili solo tramite la meditazione o altre pratiche specifiche. La concezione di una gerarchia di piani metafisici e di una parallela organizzazione gerarchica degli esseri che li abitano arriva fino all’esoterismo contemporaneo, dalla teosofia all’antroposofia, dal pensiero di Georges Gurdjieff a quello di Pëtr Ouspensky. Il discorso di Hawk fa poi assomigliare le due Logge a una sorta di Monte Olimpo in versione indiana; dalle sue parole sembra inoltre che non si tratti di due reami distinti, ma di un unico regno che ha due facce, sia perché la Loggia Nera è l’“ombra” di quella Bianca, sia perché se si desidera accedere alla seconda bisogna passare per la prima.5 In ogni caso l’esistenza di una gerarchia tra le entità twinpeaksiane, la loro ambiguità morale e gli enormi poteri non possono che testimoniare la loro forte affinità con gli Arconti gnostici. 5

Il resoconto di Hawk non può però essere preso per oro colato, dato che, sebbene Cooper non abbia superato la prova a cui gli esseri umani vengono sottoposti nella Loggia Nera, la sua anima non è stata annichilita, ma solo intrappolata.

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Un’altra cosa che colpisce della descrizione di Windom Earle è il fatto che, mentre della Loggia Nera si parla al presente, di quella Bianca si parla al passato, quasi a voler dire che essa non esisterebbe più, e potrebbe esser stata soppiantata dalla sua versione ombra. Visto poi che il Gigante – un personaggio positivo, almeno in teoria – viene visto nella “sala d’aspetto” dell’ultimo episodio, forse se ne può dedurre che tale luogo è tutto ciò che resta della Loggia Bianca. Sempre secondo Windom Earle, ma anche a quanto dice Cooper, in essa vi risiederebbe un potere tale da garantire all’uomo uno status divino. A questo punto ci dobbiamo chiedere: in cosa consiste, più precisamente, questo livello di potere? Per rispondere a questa domanda dobbiamo però abbandonare l’esoterismo e chiamare in causa la teologia.

4. “Riordinare la Terra”: la Loggia Nera e i paradossi dell’onnipotenza Dopo molti anni di lavoro e di studio, che lo hanno portato alla follia, Earle riesce a trovare l’ingresso della Loggia Nera. Ad aiutarlo c’è, sotto costrizione, il maggiore Briggs, ex-collega di Earle nel Progetto Libro Azzurro. Catturato e drogato, Briggs rivela a Windom Earle che: “c’è un tempo in cui, se Giove e Saturno saranno in congiunzione, loro ti riceveranno”. Rifacendosi alla tradizione astrologica, il geniale e folle criminale commenta poi che “i due pianeti sono più che globi lontani, sono infatti un orologio, un orologio che dà il tempo… Dale aveva quasi indovinato… il disegno della caverna è un invito che ci dice quando comincerà la festa, ma quello che Dale non sa è dove si trova la festa, perché quel petroglifo non è solo un invito a un party esclusivo, è anche una piantina, una mappa per trovare la Loggia Nera”. Le motivazioni di questa ossessiva ricerca le abbiamo dette: “a chi li sa imbrigliare, gli spiriti di questa terra nascosta di urla soffocate e cuori spezzati offrono un potere così vasto che chi lo detiene potrebbe riordinare la Terra a suo piacimento”. Insomma, pare che l’ingresso in questo reame conceda ai coraggiosi che proveranno ad entrare una forma di onnipotenza. In che cosa consiste il dono in questione? Con il termine “onnipotenza” si indica in genere un attributo esclusivo di Dio, ossia la capacità di fare assolutamente qualunque cosa. Su questo tema hanno dibattuto pensatori appartenenti un po’ a tutte le religioni, ma è con il cristianesimo che l’analisi dei significati e dei limiti di tale caratteristica ha raggiunto i massimi livelli di sottigliezza; le definizioni di “onnipotenza” vanno da “capacità di fare qualunque cosa sia logicamente possibile” a “potere di fare ogni cosa che si voglia”, a “capacità di fare qualunque cosa sia in accordo con la propria natura essenziale” – così, se

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riteniamo che Dio sia infinitamente buono, siamo autorizzati a pensare che egli non “possa” fare il male o mentire. La definizione più problematica è quella relativa alla “possibilità di fare qualunque cosa, anche logicamente incoerente o contraddittoria”. La Scolastica – ossia l’unico approccio filosofico accettato durante buona parte del Medio Evo, e dedito per lo più a illustrare la corrispondenza tra fede e ragione – si è occupata a fondo di questo problema. San Tommaso d’Aquino riconobbe le difficoltà che incontra chi voglia spiegare in che cosa consista precisamente l’onnipotenza di Dio; il pensatore negava comunque che Dio potesse agire in modo incoerente, andando contro il principio di non-contraddizione. A fargli eco, in tempi più recenti, è il letterato e pensatore inglese Clive Staples Lewis – gli appassionati del ciclo fantasy delle Cronache di Narnia lo conosceranno di sicuro –, il quale, nel suo libro Il Problema della Sofferenza,6 sposa l’idea secondo cui Dio non può agire in modo contraddittorio. In particolare lo scrittore sottolinea come non abbia alcun senso assemblare parole e verbi scelti a caso, farli precedere dalla frase “Dio può…” e poi pensare di aver compreso in questo modo la natura dell’onnipotenza divina. Il fisico e teologo britannico John Polkinghorne è ancora più restrittivo: stando a lui, Dio è per sua natura coerente, per cui, una volta stabilite le leggi fisiche – e quindi non solo quelle della logica – si impegna a non violarle, se non in casi assolutamente eccezionali. Il percorso che abbiamo intrapreso ci porta dunque ad affrontare una questione intimamente connessa a quella dell’onnipotenza, ossia il tema dei paradossi logici in cui incorrerebbe la medesima. Il paradosso più classico è noto a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la filosofia, e si formula più o meno così: può Dio creare una roccia talmente pesante da non poterla poi sollevare? Il problema è chiaro: o Dio non può creare una siffatta roccia, e allora non è onnipotente, oppure la può creare, ma non sollevare, e quindi continua a non essere onnipotente. Nell’opera La Città di Dio Sant’Agostino afferma che Dio non è in grado di fare qualcosa o mettersi in una situazione che ridimensionerebbe la sua natura divina. A tutte queste affermazioni si può rispondere che un essere realmente onnipotente è del tutto libero da qualunque tipo di costrizione, incluse quelle della logica. Da ciò ne deriva che Dio può creare un entità più potente di se stesso, e nonostante ciò continuare a essere “il numero uno”; può esistere e non esistere allo stesso tempo – cioè Egli sarebbe al di là dell’Essere e del Nulla, e perciò superiore ad essi –; può far sì che uno più uno faccia cinque e, per tornare al problema iniziale, può anche creare una roccia così pesante da 6

C. S. Lewis, Il problema della sofferenza, G.B.U., Roma 1997.

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L’oscurità che si nasconde nei boschi

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non poterla sollevare, e nonostante ciò sollevarla. Che Dio si situi al di là del principio di non contraddizione è una posizione promossa, qui in Italia, da Carlo Arata. Docente di filosofia teoretica presso l’Università di Genova, Arata critica l’idea, tipica di quasi tutta la filosofia occidentale, secondo cui il principio di non contraddizione avrebbe l’ultima parola su qualunque altro tipo di considerazione o proposizione. Criticando una tradizione plurimillennaria – da Parmenide a Emanuele Severino –, nell’opera Dio oltre il principio di non contraddizione Arata sostiene proprio la tesi esposta nel titolo. È chiaro che, da questo punto di vista, l’onnipotenza divina viene ammessa nel suo può ampio significato possibile.7 A occuparsi di questo tema è anche il filosofo britannico Peter Geach. Di ispirazione cattolica, Geach è considerato da molti il padre del tomismo analitico, ossia di quell’approccio che rilegge il pensiero di San Tommaso e il neo-tomismo contemporaneo alla luce della filosofia analitica, allo scopo di chiarificarlo. Il filosofo classifica e analizza cinque diverse concezioni dell’onnipotenza divina. La prima è la cosiddetta “onnipotenza assoluta”: essa significa che Dio è in grado di fare qualunque tipo di cosa e compiere qualunque tipo di azione espressa in una stringa casuale di parole, anche se la frase in questione dovesse essere del tutto incoerente o contraddittoria. Si tratta della forma massima di onnipotenza concepibile – anche se, a voler essere pignoli, si potrebbe dire che un Dio veramente onnipotente dovrebbe essere in grado di fare anche cose del tutto inesprimibili attraverso il linguaggio, ma questa questione la lasciamo agli specialisti che volessero affrontarla. In ogni caso accogliere una siffatta posizione implicherebbe l’abbandono di ogni pretesa di comprendere logicamente il mondo divino – per chi ci crede. La seconda definizione di Geach è quella della “semplice” onnipotenza, ossia la capacità di realizzare qualunque stato di cose che sia logicamente coerente. Paradossalmente – i lettori ci scusino questo bisticcio di parole – anche questa idea apparentemente chiara e risolutiva è fonte di paradossi: se accettiamo infatti i dettami della logica incappiamo proprio nei problemi di cui sopra, come quello della roccia così pesante da non poter essere sollevata. La terza definizione di onnipotenza è ancora più limitata, nel senso che essa consiste nel ritenere che non solo il prodotto finale delle azioni di Dio deve essere logicamente coerente, ma che anche il suo stesso agire deve essere sottoposto alla logica. Se vogliamo possiamo sistemare le due ultime definizioni così. La seconda definizione dice: “Dio può fare X se e solo se X è una situazione o uno stato di cose o un entità coerente”. 7

C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Morcelliana, Brescia 2009.

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La terza invece dice: “Dio può fare X se e solo se la frase ‘Dio può fare X’ è coerente”. Si tratta di distinzioni sottili, che riportiamo per completezza. Una quarta definizione di onnipotenza è la seguente: ogni volta che la frase “Dio farà X” risulta essere logicamente possibile, la frase “Dio può fare X” è vera. Per semplificare possiamo dire che questa interpretazione consente di eliminare i paradossi in questione, in quanto, nel definire l’onnipotenza divina, si esclude fin dal principio la possibilità di prendere in considerazione le situazioni paradossali. Anche qui la sottigliezza la fa da padrone – il che non ci stupisce affatto, date le analisi sopraffine alle quali ci hanno abituati la Scolastica e la filosofia analitica. La quinta e ultima definizione di onnipotenza – la più limitata di tutte, e avvallata dallo stesso Geach – è quella che attribuisce a Dio il semplice primato su ogni ente creato. In pratica essa afferma che Dio è talmente potente che nessun altro essere, non importa quale sia la sua potenza, può competere con Lui.8 Geach non è l’unico, in tempi recenti, a occuparsi del problema. Nel 1955 il filosofo australiano John Leslie Mackie tenta di risolvere i paradossi dell’onnipotenza distinguendo tra onnipotenza di primo ordine – illimitato potere di agire – e onnipotenza di secondo ordine – illimitato potere di determinare quale potere d’azione abbiano tutti gli enti. Un essere in possesso di entrambi i tipi di onnipotenza potrebbe effettivamente – giocando con queste due diverse modalità – essere onnipotente e nel contempo rinunciare in certi frangenti alla propria onnipotenza, di modo da sciogliere i paradossi che abbiamo illustrato.9 Chiaramente i sostenitori di un Dio assoluto, eterno, e immutabile storceranno il naso di fronte a questa concezione di una divinità dotata di un’onnipotenza intermittente. Questa lunga analisi ha un solo scopo, e cioè chiederci: che tipo di potere può essere concesso dalla Loggia Nera? Abbiamo detto che, imbrigliando le creature che abitano quel reame, si può “riordinare la Terra”. Se con il termine “Terra” intendiamo il mondo materiale, allora il potere concesso dalla Loggia Nera dovrebbe consistere nel fare tutto ciò che è logicamente possibile, in linea con la quarta definizione di Geach. In pratica chi si appropria di tali capacità può modificare tutte le leggi della fisica, stabilirne di nuove e così via. Inoltre dovrebbe essere in grado di creare cose dal nulla, e gingillarsi con lo spazio, il tempo e il rapporto causa-effetto – cosa che effettivamente vediamo accadere dentro la Loggia Nera. Non siamo dunque in presenza di un’onnipotenza assoluta, al di là del principio di 8 9

P. Geach, Omnipotence, 1973 in: Philosophy of Religion: Selected Readings, Oxford University Press, Oxford 1998, pp. 63–75. J. L. Mackie, Evil and Omnipotence, Mind LXIV n. 254, Aprile 1955.

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L’oscurità che si nasconde nei boschi

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non contraddizione, a meno che non si voglia considerare la concezione onirica della realtà proposta da Lynch in Fuoco Cammina Con Me, il che ci consentirebbe di ammettere anche azioni intrinsecamente illogiche – basti pensare alla logica onirica, così diversa da quella con cui siamo alle prese durate la veglia. L’unico limite sarebbe dato, in questo caso, solo da volontà contrapposte alla nostra. Niente male, il progetto dell’arcinemico di Dale Cooper. Tali propositi ci obbligano però a porci una domanda apparentemente banale: Windom Earle è pazzo?

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5. Julius Evola, Aleister Crowley, Windom Earle Certamente Windom Earle non è del tutto normale, anzi, è decisamente disturbato – visti anche i suoi trascorsi omicidi e psichiatrici. Liquidare però questo personaggio come un semplice squilibrato sarebbe ingiusto nei suoi confronti, oltre che riduttivo. Con la sua ossessione per la conoscenza, il suo desiderio sfrenato di entrare nella Loggia Nera, la sua volontà di controllare in modo diretto l’intera realtà, Windom Earle assurge al ruolo di mago nero, e si ricollega – lo sappia o no – a una lunga tradizione occidentale, quella della magia e della teurgia,10 la quale è poi passata, in corrispondenza della rivoluzione scientifica, alla clandestinità. Noi però andiamo a ripescarla, ricordando ai lettori i discorsi che facevamo sul mana e sulla possibilità di controllarlo quali radici concettuali della magia. Da sempre infatti l’uomo desidera assumere un qualche controllo sull’ambiente circostante, e da questo punto di vista anche la tecnologia può essere vista come una versione moderna dell’antica aspirazione magica alla manipolazione della realtà – anzi, per dirla con il celebre scienziato e scrittore di fantascienza Arthur Clarke, “ogni tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia”. Per i nostri scopi limitati non abbiamo però bisogno di ripercorrere tutta la storia delle scienze occulte dall’antichità ai giorni nostri, ma ci basta chiamare in causa uno dei più celebri maghi contemporanei, Aleister Crowley; come vedrete le similarità tra questo personaggio e Windom Earle non mancano. Inutile dire che la figura di Crowley è piuttosto controversa, e anzi, a dirla tutta, nella vita di questo occultista erano presenti diversi aspetti ciarlataneschi. Crowley ci sembra tuttavia un personaggio piuttosto cu10

La teurgia era una pratica magico-religiosa greco-romana che mirava a evocare le divinità tramite la cosiddetta “Telestiké”, cioè una serie di rituali che “inserivano” il dio in questione in una statua che lo rappresentava.

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rioso, soprattutto per l’energia con cui si è impegnato a creare una sorta di religione o movimento magico moderno, sviluppando allo scopo un sistema di magia sessuale che, nel sottobosco paranormale ed esoterico, è diventato un cult. Nato in una famiglia fortemente religiosa, Crowley si chiude in se stesso dopo la morte del padre, sviluppando uno spiccato scetticismo nei confronti della fede cristiana. La madre, desiderosa di farlo ritornare sui suoi passi, inizia ad aggredirlo verbalmente, appioppandogli l’appellativo di “Bestia” – con riferimento all’Anticristo dell’Apocalisse. Questo nome a Crowley deve piacere, visto che, nel corso della sua carriera magica, decide di adottarlo, ribattezzandosi “La Bestia 666”. In ogni caso l’attività materna ottiene, come capita spesso in questi casi, l’effetto opposto, facendo capire a Crowley che sono proprio le attività e azioni più peccaminose ad attrarlo maggiormente. Dopo aver iniziato a studiare filosofia prima, e letteratura inglese poi, Crowley si dedica sempre di più al misticismo, all’alchimia, all’occultismo e alla poesia. A ventitré anni entra in una nota società di occultisti, la Golden Dawn, dedicandosi alla magia occidentale, al buddismo e al Raja Yoga. In seguito a un viaggio in Egitto si convince che la moglie, Rose Edith Kelly, sia entrata in contatto con un’entità sovrumana e, seguendo le direttive impartitegli dalla donna in stato di trance, esegue un rito che, a suo dire, lo mette in contatto con il dio Horus. Sotto ispirazione di questa divinità scrive un testo di magia, Il Libro della Legge, il cui contenuto consiste in buona parte in un codice che l’autore stesso sostiene di non esser capace di decifrare. Vagabonda molto, Crowley, e le sue vicende lo portano anche in Italia, a Cefalù, dove l’occultista fonda in una villa la celebre Abbazia di Thelema; lì Crowley – che inizia ad autodefinirsi “l’uomo più malvagio del mondo”, anche se avremmo potuto presentargli candidati a questo titolo ben più qualificati di lui – si dedica a diverse pratiche di magia sessuale che gli procurano quella fama di pervertito con cui diviene noto in seguito. Con l’avvento del fascismo Crowley viene espulso dal paese e riprende i suoi vagabondaggi, che lo portano tra l’altro in Portogallo, dove incontra Pessoa. Aldilà degli aspetti biografici, ciò che ci interessa di più è la sua concezione del mondo: contrariamente all’opinione comune, che fa di lui un satanista, Crowley è in realtà ateo, e l’arte magica è per lui solo uno strumento verso stati superiori di potere e conoscenza. La “Bestia 666” mira in buona sostanza a divinizzare l’uomo, e la sua dottrina magica – sfociata in libri come Trattato di Astrologia Magica, Il Libro di Thoth e soprattutto la sua “summa”, Magick – è concepita da lui solo come uno strumento di potere, che funziona indipendentemente dal fatto che i piani metafisici superiori e le entità che li abitano esistano realmente

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o meno. Diamo allora un’occhiata ad alcuni celebri ed eloquenti passi di Magick,11 a partire da questa folgorante definizione: “Il microcosmo è un’immagine esatta del Macrocosmo; la Grande Opera consiste nell’innalzare l’uomo, in equilibro perfetto, alla potenza dell’Infinito”.12 Questa densa frase contiene una delle concezioni fondamentali del pensiero magico – e cioè quella che ritiene che l’uomo sia un’immagine dell’universo, inteso come una totalità organica. Si cita inoltre la Grande Opera, termine che indica l’impresa perseguita dall’alchimia; tale disciplina mirava a produrre la pietra filosofale, che consentiva di trasformare il piombo in oro, e l’elisir di lunga vita, che restituiva la giovinezza e donava l’immortalità – anche se, a onor del vero, diversi cultori moderni di alchimia hanno sostenuto che le procedure alchemiche non avrebbero un significato magico, ma piuttosto di crescita spirituale. E ancora: “Il nostro Mago [..] in quanto Mistico […] sa che tutte le cose sono i fantasmi dell’Unica Cosa, e che possono venire ritratte in essa per uscirne di nuovo in un altro aspetto. Egli sa che tutte le cose sono in lui, e che lui è Uno-Tutto con il Tutto.”13 Insomma, pare evidente che a Crowley l’ambizione non manchi, come si può dedurre anche dalle descrizioni che dà della gerarchia iniziatica da lui elaborata. Nello sviluppare il proprio sistema di magia l’occultista ha infatti creato un percorso iniziatico diviso in vari gradi; il penultimo di essi, quello di “Magus”, include la conoscenza piena e perfetta di ogni forma di magia, mentre l’ultimo, l’“Ipsissimus”, consiste nel raggiungimento di un vero e proprio livello divino: “l’Ipsissimus è interamente libero da qualsiasi limitazione, poiché esiste nella natura di tutte le cose senza discriminazioni di quantità o di qualità. Egli ha identificato l’Essere, il Non Essere e il Divenire, l’azione e la non azione…”.14 In parole povere, è diventato Dio, ed è perciò in grado di “riordinare la Terra”. Questa ambizione sfrenata la ritroviamo in un’altra figura legata in parte al mondo della magia, ma in relazione anche con quello della filosofia, un personaggio che, a causa della sua identificazione con il fascismo, è stato messo da parte dalla cultura ufficiale per moltissimo tempo: Julius Evola. Meglio noto come “il barone magico”, anche il filosofo Evola sostiene una visione delle cose metafisicamente “aggressiva”, che ha come conseguenza la possibilità per l’uomo di assurgere a un livello di potere divino.

11 12 13 14

A. Crowley, Magick, Astrolabio, Roma 1976. Ibid., p.184. Ibid., p.296. Ibid., p.402.

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Inizialmente messo in disparte dal fascismo – a causa anche della sua vicinanza al Terzo Reich –, Evola venne poi recuperato dal regime mussoliniano nella seconda metà degli anni Trenta, in corrispondenza con la nascita dell’Asse Roma-Berlino. È una matrice culturale idealista, quella di Evola. Tutto nasce ovviamente con il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Per lui la realtà intera è Spirito, cioè è in un certo senso Mente divina, o meglio è Idea in sé, che si fa altro da sé – decade, si degrada, si aliena, diventando o dando origine al mondo della natura – e poi ritorna a sé, per così dire si riconquista in modo più profondo, diventando individuo cosciente, società e così via, fino ad arrivare alle massime espressioni dello spirito umano – arte, religione e, in cima, filosofia. Per semplificare ulteriormente possiamo dire che, per Hegel e per i suoi seguaci, il mondo che noi vediamo è illusorio, e dietro di esso vi è una realtà unitaria e più vera, lo Spirito, che non corrisponde però alla mente individuale, anzi: i singoli individui sono solo strumenti nelle mani dello Spirito. Evola và ben al di là di tutto ciò, e fonda quello che lui chiama “idealismo magico”, una concezione filosofica che lo porterà ad occuparsi di ermetismo, alchimia, yoga, magia e filosofia orientale. L’umanità, realizzata nello Spirito Assoluto di cui parla Hegel, non rappresenta per Evola la “fine della corsa”: se infatti il filosofo tedesco riteneva che con lui la filosofia avesse terminato il proprio compito, scoprendo la verità con la “V” maiuscola, il “barone magico” pensava che l’idealismo hegeliano venisse superato da una concezione magica della realtà, una concezione che attribuisce all’individuo la possibilità di controllare in modo diretto l’esistente. Il pensiero filosofico finisce per superare se stesso nell’azione, per sfociare in essa; per trascendersi quindi nella politica e nella magia.15 Ribadiamo che, per gli idealisti come per Evola, la realtà che noi vediamo non è qualcosa di autonomo, ma dipende dall’attività creatrice della mente; da ciò deriva l’idea, sostenuta dal “barone magico”, che tutto ruoti attorno all’individuo singolo, il quale costituisce la realtà ultima. Un Io divinizzato che, proprio come Dio, è causa di se stesso, la cui libertà arriva al punto che “può non essere stato ciò che è stato”, padrone assoluto quindi della propria esistenza. Tramite la magia e le discipline esoteriche l’Io evoliano trascende la propria condizione finita e diventa Individuo assoluto, individuo cioè che assume in sé essere e non essere, e che è caratterizzato da quella che Evola chiama “autarchia ontologica”: il suo essere, la sua esistenza, non dipendono da nessun altro che non sia lui stesso, da nes15

Si veda: J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, Edizione Mediterranee, Roma 2007.

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sun Dio, da nessuna entità superindividuale. Qual è la conclusione di tutto ciò? Che Windom Earle, lungi dall’essere un semplice pazzo, si riallaccia a una tradizione che, pur essendo stata messa da parte con la nascita della Modernità, vanta comunque una storia gloriosa; lo sanno anche Lynch e Frost, che infatti in Twin Peaks sottolineano come Earle sia “versato nelle scienze occulte”. Tra i vari filoni dell’esoterismo occidentale uno dei più interessanti – sia in relazione a Windom Earle sia per capire meglio Crowley – è senz’altro la Kabbalah. Con questo termine si indica un corpus di dottrine occulte e mistiche nato in ambito ebraico e frutto di lunghe meditazioni sui testi biblici. Gershom Scholem, il più noto studioso di Kabbalah del ventesimo secolo, ci tiene a sottolineare l’unicità di questa dottrina rispetto ad altre realtà filosofico-religiose che le vengono comunemente affiancate: ‘Cabala’ è il termine tradizionale più comunemente usato per indicare il patrimonio degli insegnamenti esoterici del giudaismo e del misticismo giudaico, in particolare le forme che quest’ultimo assunse durante il Medioevo a partire dal secolo XII. Nel suo senso più ampio, indica tutti i successivi movimenti esoterici nell’ambito del Giudaismo che si evolvettero dalla fine del periodo del Secondo Tempio e divennero fattori attivi della storia ebraica. La cabala è un fenomeno assolutamente unico, e non deve essere ritenuta identica a ciò che nella storia della religione viene chiamato ‘misticismo’. È misticismo, in pratica; ma nel contempo è anche esoterismo e teosofia. Il senso in cui può venire chiamata misticismo dipende dalla definizione del termine, che è oggetto di controversia tra gli specialisti. Se il termine viene circoscritto alla profonda aspirazione a una diretta comunione umana con Dio attraverso l’annientamento dell’individualità [...], allora soltanto alcune manifestazioni della Cabala possono venire designate come tali, poiché furono pochi i cabalisti che ricercarono tale finalità, e ancor meno furono coloro che la formularono apertamente quale loro scopo finale. [...] Molti cabalisti negavano l’esistenza di un qualunque sviluppo storico nella cabala. La vedevano come una sorta di rivelazione primordiale che era stata concessa ad Adamo o alle prime generazioni e che permaneva, sebbene nuove rivelazioni venissero fatte di tempo in tempo, in particolare quando la tradizione era stata dimenticata o interrotta. [...] Venne largamente accettata la nozione che la cabala fosse la parte esoterica della Legge Orale data a Mosè sul Sinai. [...] Fin dall’inizio del suo sviluppo, la cabala abbracciò un esoterismo strettamente affine allo spirito dello gnosticismo, che non si limitava a impartire insegnamenti sulla via mistica, ma includeva anche idee sulla cosmologia, l’angelologia e la magia. Soltanto in seguito, e in conseguenza del contatto con la filosofia giudaica medioevale, la cabala divenne una “teologia mistica” giudaica, elaborata più o meno sistematicamente. Questo processo portò a una separazione degli elementi mistici e speculativi rispetto agli elementi occulti e specialmente magici, una divergenza che talora era molto netta, ma mai totale. Questo trova espressione nell’uso separato

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dei termini Kabbalah iyyunit (cabala speculativa) e Kabbalah ma’asit (cabala pratica), evidente a partire dall’inizio del secolo XIV, che era semplicemente un’imitazione della divisione della filosofia in “speculativa” e “pratica” operata da Maimonide. [...] La tendenza generale [della Kabbalah] appare evidente sin da una data molto remota; il suo scopo era di ampliare le dimensioni della Torah e di mutare questa legge del popolo d’Israele nella segreta legge interiore dell’universo, trasformando nel contempo il hasid o zaddik ebreo [cioè il santo o il giusto, ma anche colui che può operare miracoli e prodigi] in un uomo con un ruolo vitale nel mondo.16

Basata sull’Antico Testamento, la Kabbalah dispone ovviamente anche di propri testi, e in particolare di un’opera composta tra il sesto e il settimo secolo, lo Sépher Yetziráh. È proprio in questo scritto, relativo alla segreta natura del creato, che viene citato per la prima volta un termine assolutamente centrale nel pensiero cabalistico, cioè quello di “sephiráh” – più noto al plurale, “sephirot”. Se il suo significato letterale è quello di “calcolo”, nella Kabbalah esso assume una valenza metafisica molto più ampia, per cui lo indicheremo in maiuscolo. In particolare le Sephiroth sono manifestazioni o emanazioni della potenza divina, disposte in modo gerarchico. Proprio come nel neoplatonismo, il mondo per i cabalisti è frutto di un atto di emanazione, e il cardine di questo processo è costituito proprio dalle dieci Sephiroth, che qui di seguito elenchiamo: la prima e la più vicina a Dio è Kéter (la corona); ad essa fa seguito Bináh (la conoscenza) e Khokhmáh (la saggezza), entrambe al secondo livello. In seguito abbiamo, al terzo gradino, Gheburáh (la forza) e Hésed (la misericordia); Tiféret (la bellezza) al quarto; Hod (la gloria) e Nétzah (la vittoria) al quinto grado di emanazione, Yesód (il fondamento) si trova al sesto, e Malkhút (il regno) e l’ultima e la più vicina all’uomo. Le Sephiroth vengono spesso rappresentate in un diagramma ordinato chiamato “l’Albero della Vita”, caro a molti occultisti – inclusi diversi non-ebrei, come Crowley. Grazie allo studio e alla contemplazione il cabalista può elevarsi spiritualmente e percepire in modo diretto le Sephiroth, da quella più bassa a quella più alta. A di sopra delle dieci emanazioni c’è Dio stesso, che è infinito e si situa aldilà dell’umana capacità di comprenderlo. Un cabalista del dodicesimo secolo, Isaac il Cieco, lo chiama “Ein-Sof”, cioè “nonfine” o “infinito”. E come nacque il mondo? A questo problema due celebri cabalisti del Cinquecento, Mosè Cordovero e Isaac Luria, risposero sostenendo che Dio

16

G. Scholem, La Cabala, Mediterranee, Roma 1982, pp.11-14.

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operò una “contrazione”, o “tzimtzúm”, di modo da “fare spazio” al mondo e manifestare o emanare in esso la propria potenza creatrice. Vediamo ora cos’altro ci dice a proposito della Kabbalah Gershom Scholem: …la cabala non è un unico sistema con principi fondamentali che possano venire spiegati in modo semplice e diretto, ma consiste piuttosto di una molteplicità di sistemi di approccio diversi, ampiamente separati l’uno dall’altro e talora completamente contraddittori. […] Oltre a questo, si possono distinguere due tendenze fondamentali nell’insegnamento cabalistico. Una ha un forte orientamento mistico, espresso in immagini e simboli la cui vicinanza interiore al regno del mito è spesso sorprendente. Il carattere dell’altra è speculativo, un tentativo di dare ai simboli un significato ideazionale più o meno definito. In notevole misura, questa concezione presenta la speculazione cabalistica come una continuazione della filosofia, una sorta di strato addizionale sovrapposto su di essa mediante una combinazione dei poteri del pensiero razionale e della contemplazione meditativa. […] Dio in Se stesso, l’Essenza assoluta, trascende ogni comprensione speculativa e persino estatica. La posizione della cabala nei confronti di Dio può essere definita come un agnosticismo mistico, formulato in modo più o meno estremo, e vicino al punto di vista del neoplatonismo. Per esprimere questo aspetto inconoscibile del Divino, i cabalisti della Provenza e della Spagna coniarono il termine Ein-Sof (“Infinito”) […] Ein-Sof è la perfezione assoluta, in cui non vi sono distinzioni e differenziazioni, e secondo alcuni non vi è neppure volizione. Non si rivela in un modo che renda possibile la conoscenza della sua natura, e non è accessibile nemmeno al pensiero più interiore del contemplativo. Solo tramite la natura finita di ogni cosa esistente, tramite l’esistenza attuale della creazione stessa, è possibile dedurre l’esistenza di Ein-Sof quale prima causa infinita.17

È da qui che si originano tutte le dieci Sephiroth sopra citate; esse costituiscono, da un certo punto di vista, una “scala verso Dio”, che il cabalista può imparare a percorrere. Inoltre, mentre molti cabalisti promuovono l’idea che Dio sia assolutamente aldilà del mondo finito, altri invece sostengono una forma di panteismo, per cui il Divino è presente nel mondo materiale, e anche l’uomo è parte della Divinità. Di più: essendo la nascita del mondo terreno una sorta di separazione o allontanamento da Dio, l’origine dell’uomo rappresenta un’inversione di tendenza, ossia l’inizio del cammino opposto, un avvicinarsi del finito all’infinito. E, dati i legami che la Kabbalah intrattiene con le pratiche magiche, non c’è da stupirsi se vi è anche chi, tra i cabalisti, taglia corto e afferma che lo scopo dell’uomo è non tanto di avvicinarsi a Dio, ma proprio di assomigliarGli, di diventare 17

Ibid., pp.93-95.

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simile a Lui. È un concetto noto come “teosi”, presente sotto forme diverse in varie religioni – ad esempio tra i Mormoni, i quali credono proprio che, essendo gli esseri umani figli di Dio, sono destinati a raggiungere il Suo livello. Nel campo della Kabbalah contemporanea ricordiamo se non altro il rabbino Michael Berg – tra l’altro maestro spirituale di Madonna – esponente di spicco del Kabbalah Centre di Los Angeles e autore di numerosi testi divulgativi che hanno segnato la trasformazione di queste dottrine in un vero e proprio fenomeno commerciale, affiancabile a un’altra celebre corrente filosofico-religiosa “da supermarket”, la New Age. Di Berg citiamo solo un libro divulgativo dal titolo molto eloquente: Becoming like God. Non c’è che dire, Windom Earle è proprio in ottima compagnia.

6. L’ineffabile Loggia Bianca L’aver introdotto il tema dell’Ein-Sof ci offre il destro per parlare di un aspetto che caratterizza entrambe le Logge, ma che è espresso con più chiarezza soprattutto in relazione a quella Bianca. Ci riferiamo qui all’incomprensibilità o all’impossibilità di esprimere a parole il potere e le verità che si nascondono in quei due reami extra-dimensionali. Quando Cooper, Earle e Briggs parlano di una trascendenza delle due Logge rispetto all’umana capacità di capire, dicono tutto ciò tanto per dire o vogliono indicare piuttosto una qualità oggettiva, intrinseca, di quei piani di realtà sovrumani? Vediamo nel dettaglio le loro affermazioni. Cooper dice: Harry, penso che sia il luogo da dove [BOB] proviene. Penso che la Loggia Nera sia ciò che tu in passato ai chiamato ‘il male oscuro che si nasconde nei boschi’. Se Windom Earle sta cercando una via d’accesso, è fondamentale che noi ci arriviamo prima di lui. C’è la fonte di un grande potere là, Harry. Molto al di là della nostra capacità di comprendere.

Dopo esser stato rapito, il maggiore Briggs ricompare, è fa dell’esperienza vissuta un resoconto molto enigmatico: Briggs: “Ricordo il suono di passi tra le fiamme e un’ombra indistinta nell’oscurità. Poi più niente. Ma io non credo che si tratti di amnesia, dottor Hayward, i miei ricordi sono vivissimi, sento gli odori, vedo i colori, le forme, ma il senso di ciò che è accaduto va al di là della mia comprensione. Ricordo solo un’immagine, un’immagine luminosissima, accecante, di un gufo gigantesco che mi attaccava. Cooper: “Quanto grande?”

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Briggs: “Tanto da offuscarmi la mente e la memoria.” […] Briggs: “Avete mai sentito parlare del Progetto Libro Azzurro? […] Terminò ufficialmente nel 1969, ma alcuni partecipanti al progetto continuarono la ricerca in veste non ufficiale, scrutando il cielo in attesa di un messaggio, e nel caso di Twin Peaks, anche la Terra. Noi stiamo cercando un posto chiamato la Loggia Bianca. […] Io sono sicuro che durante la mia sparizione sono stato portato nella Loggia Bianca da qualcuno.”

Dal discorso di Briggs emerge chiaramente che la realtà con cui è venuto in contatto supera la possibilità umana di comprendere e di esprimere a parole; in filosofia questa impossibilità è nota come “ineffabilità”; si tratta di un’idea piuttosto antica, che ritroviamo ad esempio tra i seguaci di Platone – soprattutto nel medioplatonismo e nel neoplatonismo –, nella gnosi e così via. Secondo Filone di Alessandria, un filosofo ellenistico di origine ebraica vissuto all’epoca di Gesù, Dio è come il Sole, i cui raggi abbaglianti ne impediscono la vista diretta; non solo, essendo Dio “Colui che è”, non può essere compreso dagli esseri umani, che sono immersi nel divenire. Di lui si può conoscere solo l’esistenza, mai l’essenza. Il motivo è che, essendo anche i nomi delle cose immerse nel flusso temporale, essi sono per principio inadeguati a parlare di ciò che sfugge assolutamente alla temporalità. C’è in Filone – ma anche in molti altri pensatori – un certo parallelismo tra ineffabilità, incomprensibilità, inconoscibilità; si tratta di termini che spesso si accompagnano l’uno all’altro, e quindi – pur sapendo che gli storici della filosofia storceranno, e a ragione, il naso – continueremo per comodità a usarli quasi in modo intercambiabile. I lettori più accorti potrebbero chiedersi come mai, visto che Dio è per definizione ineffabile, teologi, filosofi e cabalisti possano così facilmente parlare di lui, dicendo ad esempio che è buono, infinito, eterno e onnisciente. In questi casi, la parola d’ordine è: “via negativa”. Questo concetto consiste nel riconoscere che Dio è aldilà dell’umana comprensione, e nel limitarsi a definire quello che Egli non è: Dio è quindi infinito – cioè non ha limiti –, è eterno – cioè non ha un inizio e non ha una fine – è perfetto – cioè privo di imperfezioni – e così via. Un approccio particolarmente originale alla “via negativa” è il cosiddetto “procedimento aferetico” sviluppato da Alcinoo – altro filosofo medioplatonico, vissuto tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo –, un metodo che si basa sulla geometria. Per fare un esempio, se vogliamo capire che cosa sia un punto geometrico, secondo Alcinoo dobbiamo immaginare una superficie, rimuovere mentalmente la seconda dimensione, ottenendo così una linea, e poi rimuovere anche la prima, ottenendo la figura geometrica adimensionale che stavamo cercando. Contemporaneo di Alcinoo, il filosofo romano Apuleio sembra optare più chiaramente per l’incomprensibilità, piuttosto che per la sola ineffabilità,

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del Divino.18 Arriviamo poi al neoplatonismo, e in particolare alle Enneadi di Plotino, in cui viene stabilita la natura iper-noetica del Principio Primo, cioè il fatto che esso si troverebbe oltre la nostra capacità di pensarlo. Impossibile qui ricostruire, anche per sommi capi, la storia dei concetti di “ineffabilità”, “incomprensibilità” e “inconoscibilità” – dovremmo considerare molti altri autori, come Niccolò Cusano e la sua nozione di “Deus absconditus”, e così via. Qui vogliamo piuttosto offrire alcune tracce che facilitino la comprensione di Twin Peaks, e a questo scopo ci limitiamo a chiamare in causa altri due autori, questa volta a noi contemporanei: Paul Watzlawick e Ludwig Wittgenstein. Importante esponente del Mental Research Institute di Palo Alto e uno dei padri della terapia sistemica, Watzlawick dedica le conclusioni finali del suo libro Pragmatica della comunicazione umana19 proprio al tema del rapporto tra uomo e realtà e all’incomprensibilità o ineffabilità di quest’ultima: A quanto pare l’uomo ha una propensione molto profonda a ipostatizzare la realtà, a farne un’amica o un’antagonista con cui si deve venire a patti. […] La vita – o la realtà, il fato, Dio, la natura, l’esistenza, o qualunque nome si preferisca darle – è una partner che accettiamo o respingiamo, e da cui ci sentiamo accettati o respinti, sostenuti o traditi. A questa partner esistenziale, forse come al partner umano, l’uomo propone la sua definizione di sé che trova poi, dunque, confermata o disconfermata; e da tale partner l’uomo di sforza di ricevere dei segni sulla ‘vera’ natura della loro relazione. Ma che cosa possiamo dire allora di quei messaggi vitali che l’uomo deve decodificare come meglio può per assicurarsi la sopravvivenza come essere umano? […] Anzitutto sappiamo che ci sono due tipi di conoscenza: la conoscenza delle cose e la conoscenza sulle cose. La prima è la consapevolezza che ci viene trasmessa dai sensi […], una conoscenza che non sa nulla sulla cosa percepita. […] Se, dunque, la consapevolezza dei sensi si può definire conoscenza di primo ordine, questo secondo tipo di conoscenza (conoscenza su un oggetto) è conoscenza di secondo ordine; è conoscenza sulla conoscenza di primo ordine e quindi metaconoscenza.20

Le riflessioni di Watzlawick non sono finite qua: accanto alle conoscenze di primo e di secondo ordine, ci sono anche quelle di terzo, cioè quelle relative al rapporto tra soggetto che conosce e oggetto che viene conosciuto – si tratta in pratica della relazione che c’è tra uomo e mondo. Sempre Watzlawick ci dice che: 18 19 20

F. Calabi (a cura di), Arrhetos Theos – L’ineffabiltà del Primo Principio nel Medio Platonismo, ETS, Pisa 2002. P. Watzlawick, Pragmatica della Comunicazione Umana, Astrolabio, Roma 1971. Ibidem., pp.246-247

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L’oscurità che si nasconde nei boschi

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È raro che un essere umano adulto abbia soltanto la conoscenza di primo ordine. Tale conoscenza equivarrebbe a una percezione che né l’esperienza passata né il contesto presente sanno spiegare, e il fatto che sia inspiegabile e impredicibile probabilmente renderebbe la percezione una fonte di angoscia. L’uomo non smette mai di cercare di conoscere gli oggetti della sua esperienza, di capire che significato hanno per la sua esistenza e di reagire ad essi a seconda di quello che capisce. Infine, dalla somma totale dei significati che ha dedotto dai contatti con numerosi oggetti singoli del suo ambiente si sviluppa una visione unitaria del mondo in cui si trova ‘gettato’ (per usare ancora un termine esistenzialista) e questa visione è di terzo ordine. […] È davvero notevole la differenza che emerge quando si confronta la capacità dell’uomo ad accettare o a tollerare un cambiamento a seconda che esso si verifichi al secondo o al terzo livello. L’uomo ha una capacità quasi incredibile di adattarsi ai cambiamenti al secondo livello, e tutti potranno confermare di avere avuto occasione di osservare la resistenza umana alla sofferenza nelle circostanze più atroci. Ma sembra che tale resistenza sia possibile soltanto finché restano intatte le premesse di terzo ordine sulla sua esistenza e il significato del mondo in cui vive. Nietzsche doveva avere in mente qualcosa del genere quando postulò che chi ha un perché per vivere quasi sempre sopporterà come vivere. […] L’uomo non può sopravvivere psicologicamente in un universo che le sue premesse di terzo ordine non riescono a spiegare, in un universo che per lui è assurdo. […] Gli scrittori esistenzialisti, da Dostoevskij a Camus, hanno trattato esaurientemente questo tema, che è vecchio almeno quanto il libro di Giobbe. […] Dolore, malattia, perdita, fallimento, disperazione, delusione, paura di morire, o semplicemente noia – tutto porta ad avere la sensazione che la vita è priva di significato. Ci sembra che la definizione più esatta dell’angoscia esistenziale si trovi nella discrepanza dolorosa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra le proprie percezioni e le proprie premesse di terzo ordine. Non c’è alcuna ragione di postulare che l’esperienza che l’uomo ha della realtà sia limitata a tre livelli di astrazione. Almeno in teoria questi livelli sorgono uno sopra l’altro in una catena infinitamente regredente. Quindi, se l’uomo vuole cambiare le sue premesse di terzo ordine, […] egli può farlo soltanto da un quarto livello. Ma dubitiamo che la mente umana possa essere in grado di affrontare livelli di astrazione più elevati senza l’aiuto del simbolismo matematico o dei calcolatori. Ci sembra significativo che al livello quarto non si possa avere che barlumi di intelligenza e che l’articolazione diventi estremamente difficile se non impossibile. […] Ripetiamo dunque quello che è il punto essenziale: comunicare premesse di terzo ordine o anche solo pensare su di esse è possibile soltanto al livello quarto. Ma il livello quarto sembra assai vicino ai limiti della mente umana e a questo livello è raro che la consapevolezza sia presente, ammesso che si tratti di consapevolezza. Ci sembra che questa sia la zona dell’intuizione e dell’empa-

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tia, dell’esperienza dell’‘ah’, forse della consapevolezza immediata che danno l’LSD o allucinogeni di questo tipo.21

Watzlawick sembra insomma guardare le cose da un’altra angolazione: mentre i filosofi antichi che hanno proclamato l’ineffabilità o l’incomprensibilità del Primo Principio o del mondo nella sua totalità si sono concentrati su questi ultimi, il pensatore austro-americano ha focalizzato la propria attenzione sull’uomo, e sui limiti logici della nostra mente. Prima di rispondere a una domanda che Twin Peaks ci sta ponendo già da un po’ – gli abitanti delle due Logge sono creature che si muovono normalmente al quarto livello di astrazione? –, diamo un’occhiata anche al lavoro di un altro, e più famoso, filosofo, Ludwig Wittgenstein. Wittgenstein, considerato uno dei maggiori pensatori del Ventesimo Secolo, ritiene, soprattutto nella prima parte della sua opera, che il compito della filosofia sia quello di purificare il linguaggio, togliendo di mezzo la metafisica, che va considerata quasi una vera e propria “malattia”. In altre parole, fin tanto che gli esseri umani si accontentano di descrivere il mondo così come lo vedono, tutto va bene; i problemi iniziano quando si cerca di capire il rapporto tra soggetto e mondo, o meglio ancora tra linguaggio – inteso come “specchio” della realtà – e mondo dei fenomeni. La struttura della logica umana può rispecchiare e riprodurre agevolmente la struttura della realtà, ma non può spiegare il rapporto che intercorre tra le due. Chi ci prova finisce per naufragare nel non senso. Non che i temi in questione – il significato della vita, del nostro rapporto con il mondo, e così via – non abbiano alcuna rilevanza, anzi, sono proprio ciò che c’è di più importante per gli esseri umani. Essi però non sono esprimibili o formulabili, e su di essi bisogna tacere. L’unica soluzione sarebbe quella di uscire dal mondo e da noi stessi, per poter così vedere in modo oggettivo il rapporto che lega l’uomo alla realtà – un’azione del tutto impossibile. Dice Wittgenstein nella sua opera più nota, il Tractatus Logico-Philosophicus, e in particolare nelle sue splendide proposizioni finali: 5.61. La logica riempie il mondo, i limiti del mondo sono anche i suoi. 5.621. Mondo e vita sono una sola cosa. 5.63. Io sono il mio mondo. 5.632. Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. 6.4312 La soluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo si trova al di fuori dello spazio e del tempo.

21

Ibid., pp. 247-253.

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6.5. Per una risposta che non si può esprimere, nemmeno si può formulare la domanda. L’enigma non c’è. 6.52. Noi sentiamo che se tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta. 6.521. Il problema della vita si risolve quando svanisce. (Non è questa la ragione perché uomini, cui, dopo lungo dubitare, il senso della vita divenne chiaro, non seppero dire in che cosa consistesse questo senso?). 6.522. C’è veramente l’inesprimibile. Si mostra, è il mistico. 7. Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.22

Degli abitanti della Loggia Nera e di quella Bianca a rigore non si dovrebbe parlare, e le loro esistenze sono per noi inesprimibili, situate come sono a uno o più livelli di astrazione superiori a quelli in cui ci muoviamo noi quotidianamente. È questo che intendevano Lynch e Frost? Impossibile saperlo, anche se i due – e soprattutto Lynch – riescono a convogliare nello spettatore un tale senso di estraniazione e di inquietudine da creare in essi l’impressione di essere alle prese con creature ben al di là dell’umana capacità di comprendere. Non sappiamo se le loro intenzioni fossero proprio queste, ma certo il sospetto che volessero esprimere visivamente l’ineffabilità dei piani metafisici o logici superiori al nostro è davvero forte. E, a proposito degli spiriti in questione, Windom Earle dice: “Queste creature notturne che vivono alle soglie dell’incubo sono attratte da noi quando emaniamo paura. Come mosche con il miele. È una perfetta simbiosi. Ah, natura, comincio a capire la complessità dei tuoi disegni”. Il mago nero di Twin Peaks sembra caratterizzare gli abitanti della Loggia Nera come dei parassiti, ma sottolinea anche che si muovono a un livello di astrazione superiore al nostro, visto che paiono nutrirsi di qualcosa di immateriale come le emozioni – soprattutto la paura. Anzi, è possibile che, dal loro punto di vista privilegiato, le entità in questione riescano a vedere le vite degli uomini “dall’esterno”, godendo quindi di una prospettiva per noi inimmaginabile, un angolo visivo da cui possono poi manipolare le esistenze umane al fine di ottenere ciò che vogliono, secondo agende che continueranno a sfuggirci per sempre. Inoltre, sia in Twin Peaks sia nella cinematografia lynchana successiva, il contatto cognitivo con le entità soprannaturali in questione non pare privo di pericoli. Fateci caso: nei film di Lynch tutti coloro che, pur non essendone vittime, hanno contatti prolungati con le entità metafisi-

22

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009.

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che che tirano le fila delle vicende, finiscono per perdere la ragione, o per lo meno per sviluppare una personalità disturbata e “borderline”. La Signora Ceppo, che ha a che fare con gli abitanti della Loggia Nera, non è proprio equilibrata; quando compare nell’ufficio di Gordon Cole, Philip Jeffries appare visibilmente disturbato; Sarah Palmer, la madre di Laura, è preda di visioni anche prima dell’omicidio della figlia, e diventa uno “strumento di comunicazione” di Windom Earle dopo che quest’ultimo è entrato nella Loggia Nera; anche in Fuoco Cammina Con Me, Mulholland Drive e Inland Empire compaiono personaggi di questo tipo. Sembra insomma che la mente umana non sia in grado di accostarsi a queste realtà soprannaturali senza rimanerne sconvolta e danneggiata in modo permanente. È un po’ quello che capita anche ai protagonisti dei racconti di Howard Phillips Lovecraft: nelle sue storie i personaggi vengono spesso in contatto con divinità malvagie e ripugnati, assolutamente non a misura d’uomo, entità che lui chiama i “Grandi Antichi”. L’orrore che la visione di questi esseri provoca è tale da far impazzire coloro che hanno la sventura di incontrarne uno. Il tema della “pericolosità” della trascendenza è trattato anche dalla Kabbalah, che fa riferimento tra l’altro a un racconto contenuto nel Talmud e risalente all’epoca romana. In esso si narra di quattro saggi, cioè Rabbi Akiva e tre dei suoi allievi, i quali a un certo punto praticarono alcune speciali tecniche meditative e riuscirono ad ascendere fino ai reami trascendentali della coscienza divina – i “palazzi del silenzio”, come li chiamano i cabalisti. Uno degli allievi, Ben Azzai, diede un’occhiata alla Gloria Divina e morì; il suo compagno di studi Ben Zoma fece lo stesso, e perse la ragione. Elisha Ben Avuyah credette di vedere non uno, ma due esseri divini, e divenne un eretico. Solo Rabbi Akiva riuscì a “entrare in pace” e “uscire in pace”. Sulla metafisica della Kabbalah e sulle entità di cui essa si occupa non ci pronunciamo, ma per quanto riguarda le mostruose divinità di Lovecraft possiamo dire che sono senz’altro esseri con cui è non meglio avere a che fare, e che non hanno proprio nulla in comune con gli esseri umani; che dire però degli abitanti della Loggia Nera e di quella Bianca? Hanno tutte un aspetto umano, anzi, in alcuni casi sembrano anche simpatici – basti pensare al nano o al Gigante. Insomma, sembra di avere a che fare con persone più o meno simili a noi. Per porre la questione in un altro modo: andreste a prendervi un caffè e a scambiare quattro chiacchiere con una di esse?

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7. Una pausa-caffè con l’Uomo Da Un Altro Posto Non si tratta di una domanda sterile e, se vogliamo, possiamo riformularla così: gli abitanti della Loggia Nera sono persone, dotate di una vita interiore, con cui si può parlare e che si può conoscere? C’è chi dice di no, e sostiene anzi che gli spiriti in questione rappresentino in realtà l’incarnazione di questo o quel concetto astratto – ad esempio BOB sarebbe la personificazione dell’idea di abuso, e così via. Pur gradendola, è un’interpretazione che non ci sentiamo di condividere pienamente. Certo è che, per procedere in questa analisi, dobbiamo scomodare un altro gigante del pensiero del Novecento, Martin Heidegger. In Essere e Tempo il filosofo tedesco opera una distinzione fondamentale, cioè quella tra esistenza autentica ed esistenza inautentica: in parole povere l’uomo vive perlopiù immerso nelle faccende quotidiane, nelle abitudini, nei luoghi comuni, e si disperde in tutto ciò, senza un’unicità di direzione e di senso – Heidegger chiama questa realtà “il mondo del ‘si dice’ e del ‘si fa’”, proprio perché possiede questo aspetto di generalità e di riduzione dell’individuale al collettivo. A volte però, quando si interroga sul proprio essere e sull’essere in generale, e quando si trova immerso in particolari tonalità emotive – come l’angoscia di fronte alla morte o la meraviglia davanti al fatto che ci sia qualcosa piuttosto che il nulla –, l’essere umano raggiunge una nuova dimensione, quella dell’esistenza autentica, in cui pone fine alla dispersione. I personaggi lynchani hanno sovente una personalità estremamente complessa, che ci ricorda in pieno la distinzione heideggeriana qui citata. Pensate ad esempio all’agente Cooper: sembra quasi una macchietta, con tutte le sue abitudini eccentriche, le sue manie, la passione per le torte e il caffè, la meditazione e così via. A tratti però, quando meno ce l’aspettiamo, Cooper ci fa vedere di essere una persona “tridimensionale”, che riflette sul bene e sul male, e che possiede una vita interiore ricca e tormentata – emblematico è, da questo punto di vista, il discorso che fa ad Audrey quando la ragazza gli si infila nel letto cercando si sedurlo. È non è l’unico personaggio di Twin Peaks a presentare queste caratteristiche: guardiamo ad esempio Albert Rosenfield, che manifesta all’inizio un comportamento molto antipatico verso gli abitanti della cittadina; antipatico sì, ma soprattutto stereotipato, che dileggia in modo quasi meccanico i cittadini di Twin Peaks per le loro abitudini campagnole e la loro presunta stupidità. Tutto questo fino a quando non dimostra, in un momento di “apertura” della propria interiorità, di essere un fervente seguace della non-violenza di Gandhi. Oppure prendiamo in considerazione Ed Hurley, zio di James e sposato con Nadine, una donna isterica, aggressiva e, a dirla tutta, insopportabile. Entrambi i personaggi

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sembrano due macchiette, e lo spettatore non riesce a capire come mai Ed non abbia lasciato già da tempo Nadine, tanto più che è da sempre innamorato di Norma Jennings; in seguito però, in un altro di questi momenti lynchani di “apertura dell’interiorità”, Ed parla di sua moglie con il cuore in mano, raccontando di come, dopo averle fatto perdere un occhio in un incidente di caccia, lei non lo abbia mai fatto sentire in colpa, e abbia continuato ad amarlo nonostante l’accaduto. La presenza nei personaggi di Lynch di una “terza dimensione”, di una profondità che emerge di rado e che possiamo conoscere solo in modo graduale, ci richiama alla mente il lavoro di una pensatrice italiana contemporanea, Roberta De Monticelli, che ha lavorato a lungo proprio su questo tema. La De Monticelli recupera il “principio di identità degli indiscernibili” di Gottfried Wilhelm Leibniz e lo usa per analizzare l’esistenza umana e in particolare il vissuto individuale. Secondo tale principio se non c’è modo di distinguere due enti, allora essi sono in realtà un unico ente; messa in altri termini possiamo dire che due enti non possono differire tra di loro solo da un punto di vista numerico – cioè limitarsi ad essere, appunto, due invece che uno. Una qualche differenza, seppur piccola, ci deve essere. Leibniz applicava tale principio alle monadi, cioè agli “atomi spirituali” che secondo lui costituivano tutta la realtà e che dovevano differire tra di loro in modo essenziale, cioè in un certo senso nella propria costituzione, e non solo da un punto di vista spaziale o numerico. La De Monticelli applica invece questo principio all’analisi dell’esistenza umana: non tutti gli oggetti che esistono potrebbero essere considerati individui allo stesso modo, e alcuni sarebbero “più individui” degli altri. Il grado di individualità varia da ente a ente e, mentre alcuni enti hanno un’individualità molto bassa – come le cose inanimate – altri enti – in particolare gli esseri umani – dispongono di un’individualità essenziale, cioè non possono distinguersi tra di loro solo spazialmente o numericamente.23 È proprio questo il grado di individualità che emerge dai personaggi di Twin Peaks, e se negli abitanti della Loggia Nera c’è una cosa veramente inquietante, è che essi sembrano del tutto privi di tale “terza dimensione” personale. In sostanza, non si tratta di gente con cui andare a prendere un caffè. Al contrario, siamo in presenza di entità psicologicamente opache, impenetrabili, che sembrano non possedere un mondo interiore con cui possiamo metterci in contatto. Anzi, sembra proprio che tra di essi anche l’identità personale non 23

Si veda: R. De Monticelli, La conoscenza personale, Guerini e Associati, Milano 1998; R. De Monticelli (a cura di), La persona: apparenza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 2000.

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sia garantita: a rigore, come emergerà in Fuoco Cammina Con Me, l’Uomo Da Un Altro Posto non è in origine nemmeno un’entità indipendente, ma è semplicemente ciò che resta del braccio che Mike si è staccato – o meglio è la controparte “spirituale” dell’arto in questione. Il suo modo di relazionarsi agli altri è decisamente inquietante e ben poco umano: l’essere comunica solo con frasi apparentemente sconnesse e allusive, o tramite la danza; inizialmente simpatico, assume poi tratti comportamentali che sembrano malvagi. Meglio starne alla larga, quindi.

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8. Massoni a Twin Peaks: i “Bookhouse Boys” Non potendo però evitare di relazionarsi con gli abitanti della Loggia Nera, i cittadini di Twin Peaks hanno deciso di arginarne in qualche modo l’influenza: ecco allora che hanno deciso di creare una società segreta, con connotazioni chiaramente massoniche. Di questo gruppo, i “Bookhouse Boys”, ne sentiamo parlare già agli inizi della prima serie, quando lo sceriffo Truman fa a Cooper uno strano discorso, che suona più o meno così: “Twin Peaks è diversa, lontana dal resto del mondo, lo avrai notato. Ed è proprio per questo che ci piace. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, come in tutte le cose. Forse è il prezzo che paghiamo per vivere qui. C’è una sorta di male là fuori, qualcosa di molto strano tra questi vecchi boschi. Puoi chiamarla come vuoi, un’oscurità, una presenza. Assume forme diverse, ma è qui da tempo immemorabile, e noi siamo sempre stati pronti a combatterla. Noi, come i nostri padri, e non finirà con noi. Poi toccherà ai nostri figli”. Per inquadrare bene il ruolo di questa organizzazione all’interno della serie è però necessario considerare che cosa sia la massoneria – aldilà del manto molto negativo che indossa qui in Italia – e che ruolo abbia nella cultura americana. Se dobbiamo darne una definizione stringata, potremmo dire che si tratta di un ordine iniziatico che mira al perfezionamento spirituale dei suoi membri, e al bene dell’umanità. Un’immagine ben diversa da quella attribuitale nel nostro paese, e cioè quella di una consorteria occulta e semi-mafiosa che mira a concludere affari sporchi e a sovvertire l’ordine dello stato – immagine dovuta senz’altro alle note vicende di Licio Gelli e della loggia “coperta” Propaganda 2. Ricostruire le radici storiche della massoneria è un’impresa abbastanza difficile; dal canto suo, questa società fa risalire le proprie origini a un episodio della storia ebraica, cioè la costruzione del Tempio di Salomone, e a una figura specifica, quella di Hiram Abif. Stando al secondo libro delle Cronache, Hiram era un bravissimo artigiano, capace di realizzare qualsiasi tipo di lavoro in bronzo. Inviato

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a Salomone dal re di Tiro, Hiram costruì due colonne di bronzo da sistemare davanti al vestibolo del Tempio. Nella versione massonica di questa leggenda Hiram divenne l’architetto del Tempio, e Salomone lo pose a capo dei lavori. L’uomo venne poi ucciso da tre capomastri, che volevano carpirgli la parola segreta per passare al livello successivo – Hiram Abif aveva infatti diviso i propri subalterni in tre livelli, in base al loro grado di conoscenza dell’arte muratoria, e cioè gli apprendisti, i compagni e i maestri. Si tratta di una suddivisione che ritroviamo poi nell’organizzazione concreta delle logge massoniche. Accanto a questa versione tradizionale vi sono altre teorie e interpretazioni della storia della massoneria molto più fantasiose: ad esempio vi è chi sostiene la derivazione di questa società dai templari o chi, nell’Ottocento, legava la nascita della massoneria a quella del creato. D’altronde ogni organizzazione iniziatica che si rispetti deve pur intrattenere qualche legame privilegiato con la struttura stessa della realtà, al punto che le stesse logge massoniche riproducono sotto molti aspetti la forma del mondo – con le loro volte che imitano il cielo stellato, i lati del tempio orientati secondo i punti cardinali, e così via. In particolare tra alcuni dei primi massoni era diffusa l’idea secondo cui Dio fosse da considerarsi il primo massone, avendo edificato il mondo a partire dalla Luce; il creatore avrebbe inoltre iniziato alla massoneria l’arcangelo Michele, e tra gli esseri umani il primo massone sarebbe stato nientemeno che Adamo. La maggior parte degli storici fa derivare però la massoneria dalle corporazioni delle arti e dei mestieri che fiorirono nel Medio Evo, e in particolare da quella degli architetti e dei costruttori. Fatto sta che, per tutelare la propria arte, questi ultimi svilupparono un codice segreto fatto di parole d’ordine, da particolari strette di mano e gesti simbolici, che andarono poi a costituire il patrimonio comunicativo dell’odierna massoneria. Nel medesimo periodo queste organizzazioni iniziarono ad attirare un numero crescente di individui che, per vari motivi, erano considerati dal resto della società “outsider” o eretici, persone che trovavano riparo e protezione nel segreto delle logge. A ciò bisogna aggiungere anche il fatto che le corporazioni dei costruttori iniziarono ad assorbire sempre più concezioni di tipo esoterico, alchemico e così via, finendo così per attrarre personaggi – anche di un certo rilievo, come nobili, uomini di chiesa, intellettuali – che nulla avevano a che fare con l’atto materiale di costruire edifici, ma che cercavano piuttosto la conoscenza. Fu così che nacque la prima grande distinzione all’interno di questa società iniziatica, e cioè quella tra “massoneria operativa” e “massoneria speculativa” – come si può intuire fu la seconda, incentrata com’era sul perfezionamento spirituale, a prendere il sopravvento.

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Nella fattispecie l’obiettivo dei massoni sarebbe quello di conseguire il cosiddetto “segreto massonico”, uno stato superiore di coscienza o di illuminazione – definito poi in modo diverso a seconda delle correnti massoniche che interpelliamo – che si ottiene attraverso i rituali officiati all’interno delle logge. Oramai c’è rimasto ben poco di segreto, in tutto ciò che vi stiamo dicendo, visto che per acquisire buona parte di queste informazioni basta rivolgersi a Google o a Wikipedia, o alla vasta letteratura disponibile.24 Ufficialmente la massoneria contemporanea nasce nel 1717, quando quattro logge londinesi decidono di unirsi e di creare la Gran Loggia di Londra, segnando così – in modo convenzionale – il passaggio dalla massoneria operativa a quella speculativa. Importanti sono poi le “Costituzioni di Anderson”, cioè i principi e le basi del pensiero e delle attività rituali massoniche, promulgate nel 1723 dal pastore presbiteriano James Anderson. Le origini corporative e muratorie della massoneria hanno lasciato in eredità a questa società un enorme patrimonio simbolico, che permea la sua visione dell’universo; e così si va da oggetti rituali come la squadra e il compasso alla professione di fede dei massoni in Dio, da loro chiamato il “Grande Architetto dell’Universo”. Tranne infatti che per le logge francesi, che ammettono anche gli atei, in genere per diventare massone bisogna dichiarare di credere in Dio, non importa se si tratta di quello cristiano, ebraico o musulmano. La cultura americana poi è stata pesantemente influenzata dalla massoneria, sia perché i fondatori degli Stati Uniti erano in buona parte massoni, sia perché quella delle società segrete è diventata una pratica sociale assolutamente accettata. Negli Usa si comincia infatti già all’università, con le varie organizzazioni di tipo goliardico rese celebri dai college movie americani, e si arriva fino al Bohemian Club, un celebre circolo che si riunisce ogni anno dalle parti di San Francisco, e vede la partecipazione degli uomini più potenti d’America – e di conseguenza del mondo. Insomma, gli americani amano le società segrete, e le vivono perlopiù come un sistema interessante per stimolare la socializzazione – altra passione di quel popolo. Ne consegue che, soprattutto ai livelli più bassi, la massoneria americana è sostanzialmente un insieme di circoli di tipo quasi goliardico, aperti a professionisti di vario genere, ma anche ad artisti, docenti universitari o a persone assolutamente comuni, purché motivate a frequentare la loggia e a coltivare le tradizioni massoniche. Ai livelli più alti la massoneria rappresenta invece un “corpo intermedio” tra la middle class e la upper class, 24

Chi volesse un sunto conciso ma eloquente del pensiero massonico può leggere: G. Di Bernardo, Filosofia della Massoneria, Marsilio, Venezia 1996.

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quasi un filtro sociale, insomma. Da questa familiarità degli americani con la massoneria derivano i diversi elementi massonici presenti in Twin Peaks, dai Bookhouse Boys, ai nomi attribuiti alla Loggia Bianca e alla Loggia Nera, fino a un’altra associazione massonica presente a Twin Peaks, ma citata solo nel libro di Lynch e Frost Twin Peaks: Access Guide to the Town: la Circular Lodge. A interessarci di più sono ovviamente i Bookhouse Boys, soprattutto per il fatto che la loro organizzazione è consapevole dell’esistenza delle entità metafisiche che popolano l’universo lynchano, e anzi le combatte.

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Ora però che siamo riusciti a sviscerare ogni aspetto della metafisica implicita di Twin Peaks, è giunto il momento di addentrarci finalmente nella Loggia Nera.

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IV NELLA LOGGIA

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1. Re Artù a Twin Peaks Il percorso che porterà Cooper a entrare nella Loggia Nera inizia come una caccia al tesoro. Dopo che il maggiore Briggs è stato riportato indietro dalla Loggia Bianca, il dottor Hyward gli trova addosso uno strano tatuaggio composto da tre triangoli messi in cerchio. Con un colpo di genio, Cooper combina quel simbolo con un segno simile presente sul corpo della Signora Ceppo; da bambina la Lanterman scomparve nel bosco dopo aver visto una luce accecante e ricomparve il giorno successivo, senza ricordare niente e con il simbolo in questione dietro la gamba destra. Il simbolo risultante dalla combinazione dei due tatuaggi ricorda l’immagine di un gufo, e Annie Blackburn lo riconosce, dicendo a Cooper di averne visto uno analogo nella Caverna dei Gufi, situata nella Foresta di Ghostwood. Nella mitologia di Twin Peaks i gufi tornano quindi a farsi sentire, un po’ perché rappresentano un’ossessione di Mark Frost – l’autore dice che fanno parte del proprio immaginario onirico –, un po’ perché in diverse tradizioni indiane questi uccelli notturni hanno un significato infausto – e la Loggia Nera viene appunto presentata come una leggenda indiana. Tra le diverse dicerie che, nelle tradizioni dei nativi americani, circondano i gufi, ricordiamo quella delle tribù del Nordovest, stando alle quali questi volatili pronuncerebbero i nomi di persone che moriranno di lì a breve; tra i Sioux e gli Hin-Han i gufi farebbero la guardia all’entrata del cielo, gettando in un abisso oscuro e senza fondo le anime di coloro che non posseggono i tatuaggi adeguati. Uno dei principali autori di Twin Peaks, Robert Engels, ha dichiarato in un’intervista che i gufi fungono da testimoni degli eventi più importanti per gli abitanti delle Logge. La spedizione alla Caverna dei Gufi porta sia Cooper sia Windom Earle a scoprire l’ormai celebre petroglifo che indica dove si trova l’ingresso della Loggia Nera; in particolare tale luogo si trova all’interno di un cerchio di dodici sicomori, al centro del quale c’è una pozza di una sostanza scura simile a pece, che emana un forte odore di olio per auto bruciato.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

Tale odore rappresenta un segno distintivo della presenza degli abitanti della Loggia Nera: ad esempio Leland Palmer, quando viene posseduto da BOB, emana proprio tale odore; inoltre dopo una delle sue spedizioni nei boschi di Twin Peaks, il marito della Signora Ceppo le ha portato un vaso pieno di tale sostanza, dicendole che si trattava dell’“olio che apre i cancelli”. Il luogo dove si trovano i sicomori ha un nome preciso, “Glastonbury Grove”. Tale il nome del posto secondo gli script originali; in seguito però gli autori decisero di cambiarne la grafia, trasformandola in “Glastonberry Grove” – probabilmente un ironico omaggio alle torte ai frutti di bosco di Norma Jennings. Ad ogni modo il riferimento è chiaro, tanto che a riconoscerlo sono gli stessi personaggi della serie nell’ultimo episodio: in Inghilterra la piccola città di Glastonbury è, secondo la tradizione, il luogo di sepoltura di Re Artù, un posto carico di significati esoterici e circondato da antiche leggende, alcune delle quali risalgono ai celti. In particolare in quella zona risiederebbe Afallach, una delle divinità celtiche del sottosuolo, tradizionalmente sede degli inferi; anzi, proprio a Glastonbury ci sarebbe secondo gli antichi abitatori dell’Inghilterra l’ingresso per il regno dei morti, l’Annwyn. Non solo, ma la collina che sorge in quella zona potrebbe essere stata circondata in un lontano passato dalle acque, e potrebbe quindi identificarsi con la mitica isola incantata di Avalon. A queste leggende pagane si aggiungono quelle di origine cristiana; in particolare proprio qui si sarebbe rifugiato un personaggio del Nuovo Testamento, Giuseppe d’Arimatea, dopo aver raccolto il sangue di Gesù Cristo; una tradizione legata all’idea che il cristianesimo avrebbe cominciato a diffondersi nelle isole britanniche proprio a partire da Glastonbury. Data infine la presenza di antichi megaliti, diversi scrittori dell’occulto ritengono che attorno a Glastonbury si intreccino delle “linee ley”, ossia correnti sotterranee di “energie” non meglio identificate – ma qui siamo già nel campo del paranormale. L’associazione operata da Lynch e Frost tra Glastonbury e il cerchio di dodici sicomori situati, a mo’ di megaliti, a Glastonberry Grove è chiaro: in quella zona c’è la porta d’ingresso verso il mondo dell’aldilà. Un altro particolare degli episodi finali che ha lasciato i fan di Twin Peaks pieni di dubbi è il tremore delle mani che si manifesta in diversi personaggi poco prima dell’entrata di Cooper nella Loggia Nera; a subirlo sono nella fattispecie lo stesso agente dell’FBI, Pete Martell e una donna all’interno del Double R Diner. Sembra quasi una reazione di tipo elettrico e nervoso – una reazione simile a quella che si ha quando il medico verifica, usando un apposito martelletto, la funzionalità dei nervi nelle ginocchia, solo molto più intesa. E, visto che gli abitanti della Loggia Nera

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Nella Loggia

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sembrano connessi all’elettricità, il tremore delle mani può indicare che, in prossimità della congiunzione tra Giove e Saturno e dell’apertura delle porte dell’aldilà, l’influsso di quel reame metafisico è particolarmente intenso. Inoltre dobbiamo ricordare che in uno degli ultimi episodi, quando la tale congiunzione astrologica inizia a far sentire i propri effetti, BOB inizia ad apparire nel mondo materiale senza bisogno di ospiti umani – nella scena in questione, l’entità comincia a far uscire la mano destra dalla Loggia Nera e dice “Sono fuori!”, e ciò poco dopo che abbiamo assistito ad alcuni dei suddetti tremori. Inoltre c’è un possibile collegamento con un particolare di cui parla Fuoco Cammina con Me, ossia il fatto che il braccio sinistro di Teresa Banks e quello di Laura Palmer rimangono come paralizzati per un po’ – in questo caso è un effetto dovuto all’anello della Loggia Nera da loro indossato sulla mano corrispondente. I fan più attenti fanno notare però che, mentre nel prequel siamo alle prese con braccia sinistre, le braccia che tremano negli ultimi episodi della serie sono tutte destre – forse un riferimento alla “mano sinistra” e alla “mano destra”, due diciture usate dalle tradizioni occulte occidentali e orientali per distinguere la magia bianca (“destra”) da quella nera (“sinistra”). Nelle fasi finali di Twin Peaks si respira una forte aria di magia, ma anche di fisica: come quando Cooper dice a un basito Truman che il calendario contenuto nel petroglifo indica “un punto nel tempo” in cui sarà possibile entrare nella Loggia Nera. Qui il riferimento alla fisica di Einstein è palese. In particolare se immaginiamo il tempo come una quarta dimensione geometrica – in pratica accanto a larghezza, lunghezza e altezza dobbiamo aggiungere un’ulteriore dimensione, la durata o il tempo –, allora è possibile concepire la Loggia Nera come una sorta di realtà quadridimensionale indipendente dal fluire del tempo come noi lo esperiamo. Chi entra nella Loggia Nera si sgancia, per così dire, dal normale continuum spazio-temporale, e per lui passato e futuro sono la stessa cosa. Questa caratteristica rappresenta infine un’indicazione ulteriore del fatto che le due Logge si trovano a un livello metafisico superiore al nostro, e si situano al di fuori della nostra esperienza, sia dal punto di vista logico-semantico – come abbiamo visto parlando di Watzlawick – sia da quello temporale. I problemi con il tempo diventeranno inoltre un tema ricorrente della cinematografia lynchana, come vedremo in Lost Highway o in Inland Empire. Per ora limitiamoci a notare come l’aver a che fare con la Loggia Nera o con quella Bianca comporti uno sconvolgimento del normale fluire temporale: ad esempio il maggiore Briggs scompare per due giorni, ma al suo ritorno gli pare di essere rimasto assente per un intervallo di tempo molto più breve. Quando Cooper entra nella Loggia Nera sembra rimanervi per poco tempo,

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

mentre nel mondo esterno passa un giorno intero. Il fenomeno ricorda la tradizione medioevale dei cerchi delle fate, in cui i malcapitati umani che vi incappavano potevano venir invitati a danzare e rimanere lì per un breve periodo, mentre nel mondo esterno passavano anni o decenni. Ma qual è la chiave per entrare nelle due Logge? Briggs, ancora sotto l’effetto dell’aloperidolo somministratogli da Windom Earle, dice che “la paura e l’amore aprono le porte”. Il cancello della Loggia Bianca viene aperto dall’amore, e quello della Loggia Nera dalla paura. Proprio per questo Windom Earle rapisce Annie Balckburn: l’antagonista di Cooper non vuole solo vendicarsi di lui, ma ha bisogno anche della paura della ragazza per poter accedere alla Loggia Nera. Lui, dal canto suo, di paura non ne ha, vuoi perché è pazzo, vuoi perché sembra in parte già in contatto con le forze oscure di quel regno extra-dimensionale: questo fatto ci viene suggerito quando, poco prima di abbandonare la baita di montagna dove si è rifugiato, Windom Earle appare a Leo Johnson con gli occhi iniettati di sangue, la faccia con un colore cadaverico e la dentatura completamente nera.

2. Appuntamento dove finisce il mondo Giunto nei pressi del cerchio di sicomori, Earle vi trascina al suo interno Annie, dicendole: “tu e io abbiamo un appuntamento, un appuntamento dove finisce il mondo”. L’uomo pronuncia una frase sibillina – “Te l’ho detto, loro non sono morti. Con le loro mani uniscono le nostre mani” – e sembra far precipitare Annie in una sorta di trance, che gli consente di condurre la ragazza all’interno della Loggia Nera. Di lì a poco arriva anche Cooper. Non è chiaro come l’agente dell’FBI riesca ad entrare nella Loggia Nera: a rigore l’amore dovrebbe aprire le porte della Loggia Bianca, quindi, per poter entrare nella Loggia Nera, Cooper dovrebbe provare paura; anzi, visto che, stando ad Hawk, al cospetto degli spiriti della Loggia Nera bisogna mostrare un coraggio perfetto, è possibile che Cooper si sia recato lì in preda alla paura, ma anche fortemente determinato a batterla. L’agente dell’FBI dice a Truman che da lì in poi deve procedere da solo, e si reca verso il cerchio di sicomori, dove all’improvviso compaiono le tende rosse del suo sogno. Inizia qui una delle sequenze più criptiche, complesse e oniriche della produzione lynchana – anzi, probabilmente di tutta la storia della tv. Al di fuori della Loggia Nera, la colonna sonora di Angelo Badalamenti contribuisce a costruire un’atmosfera di pura inquietudine; all’interno dà invece una forte sensazione di sospensione, e conferisce alle stanze della Loggia Nera un’inconfondibile aura di sacralità e di sogno. Siamo in presenza di

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Nella Loggia

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una realtà sovrumana, e se i cabalisti avessero potuto musicare i resoconti delle loro ascese nei “palazzi del silenzio”, avrebbero forse optato per un commento sonoro di questo tipo. Cooper viene accolto dall’Uomo Da Un Altro Posto e da un cantante, che fornisce per così dire la “sigla d’apertura” dei lavori rituali della Loggia Nera – non c’è niente di cui stupirsi, abbiamo già visto che gli spiriti delle due Logge hanno un modo tutto particolare, non-umano, di esprimersi e di comunicare il proprio pensiero, che si basa su aforismi, non sequitur, musica e danze. All’inizio l’Uomo Da Un Altro Posto si occupa semplicemente dei convenevoli, accoglie Cooper, gli mostra la Loggia Nera e lo fa accomodare in quella che lui definisce “la sala d’attesa”. Attesa di cosa? Probabilmente della prova di coraggio a cui dovrà sottoporsi Cooper, come vuole la tradizione indiana citata da Hawk; si tratta inoltre di un luogo in cui il “postulante” viene osservato e studiato, in modo da capire quali siano le sue caratteristiche e soprattutto le sue paure. L’Uomo Da Un Altro Posto si premura di fargli sapere che “quando mi rivedrai di nuovo non sarò più io”. Viene introdotto qui uno degli elementi centrali e più bizzarri della Loggia Nera, quello dei doppelgänger. “Doppelgänger” un termine composto dalle parole tedesche “doppel” – cioè “doppio” – e “gänger” – in pratica “colui che va”, o che “cammina”. In sostanza il doppelgänger è “il doppio che cammina”, il “compagno di strada” o “chi cammina al nostro fianco”. In origine il doppelgänger è una figura fantastica di origine letteraria, nata nell’ambito del romanticismo. A coniare questo termine è, nel 1796, Jean-Paul Richter; lo scrittore e pedagogista tedesco si ispira, tra l’altro, al pensiero del filosofo Johann Gottlieb Fichte. Il sistema filosofico fichtiano prevede in un certo senso il “raddoppiamento” dell’io, in quanto all’origine e alla base di tutta la realtà vi sarebbe un Io assoluto, originario, che include in se stesso anche il cosiddetto “non-Io”, cioè il mondo che noi percepiamo come “esterno” – il quale contiene a sua volta anche gli Io empirici, cioè i singoli individui, noi e voi compresi. Nel suo romanzo in quattro volumi Der Titan, Richter include un’appendice comica contenente, a mo’ di parodia, una “Clavis fichtiana”. In essa l’autore dice, tra l’altro: “Il mio Io (empirico) è orrificato dal mio Io (assoluto), questo Démogorgon ripugnante che mi abita”. Successivamente il poeta Adalbert von Chamisso scrive la Storia straordinaria di Peter Schlemihl; nel racconto si narrano le vicende di un giovane molto povero, il Peter Schlemihl del titolo, che cede al diavolo la sua ombra in cambio di una borsa magica che sforna continuamente monete. Lungi dal rappresentare un colpo di fortuna, il patto gli porta solo guai: il giovane viene rifiutato da tutti a causa della sua diversità, e soffre di quella che oggi chiameremmo una “perdita d’identità”. Peter vive poi altre avventure, indossando

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

anche i celebri “stivali delle sette leghe” – che gli consentono di attraversare il mondo in lungo e in largo – e ritrovando infine la serenità. In buona sostanza, a partire da queste elaborazioni letterarie, inizia a coagularsi la figura del doppelgänger, termine con cui si indica il sosia o il “doppio” di una persona, una presunta entità di tipo spettrale che riproduce però una persona vivente e che ne rappresenta la sua parte malvagia; esso viene considerato un presagio di morte. Il doppelgänger può seguire l’“originale” come un’ombra ma può anche recarsi da parenti e amici di quest’ultimo e comportarsi in modo maligno o comunque ambiguo. Varie sono le opere letterarie che trattano di questo tema, da Il sosia di E.T.A. Hoffmann a William Wilson di Edgar Allan Poe, da Il cavaliere doppio di Théophile Gautier a Lui? di Guy de Maupassant, e molti altri ancora.1 Inoltre, nella mastodontica opera dedicata alla vita di Abraham Lincoln2 – ben sei volumi –, il poeta americano Carl Sandburg racconta che il presidente americano, poco dopo essere stato eletto, avrebbe detto alla moglie di aver visto allo specchio due suoi volti, uno dei quali terribilmente pallido – un brutto presagio, quindi. Anche il poeta britannico John Donne incontra – a suo dire – un doppio, non il proprio però, ma quello di sua moglie. Del tema del doppelgänger si occupa anche la parapsicologia: nell’Ottocento lo studioso inglese Robert Dale Owen raccoglie la testimonianza di una nobile lettone, Julie von Güldenstubbe, che, tredicenne, avrebbe assistito all’apparizione del doppio della sua insegnante di francese, Emilie Sagée. Il doppelgänger avrebbe imitato l’atto dello scrivere e del mangiare, ma senza avere nulla in mano, e si sarebbe mosso in modo indipendente dal suo originale – per altro lì presente. Preferiamo non pronunciarci sulla bontà di questi resoconti – che ci lasciano piuttosto scettici –, tuttavia ciò che conta è che, con questo breve excursus, abbiamo mostrato come Lynch si ricolleghi a una tradizione letteraria “alta” e piuttosto articolata, il che prova – se ce ne fosse ancora bisogno – come l’opera lynchana presenti un numero enorme di sfaccettature, che in questo libro abbiamo appena iniziato a sfiorare. Torniamo nella Loggia. L’Uomo Da Un Altro Posto dice a Cooper: “alcuni tuoi amici sono qui”. Comincia allora una sfilata di personaggi connessi in un modo o nell’altro a quel reame. Il primo di essi a entrare nella sala d’aspetto è Laura Palmer, che saluta Cooper e gli dice “Ti rivedrò tra venticinque anni… Nel frattempo…”. Fatto ciò la ragazza fa un gesto con le dita, producendo un rumore che assomiglia a quello di un coltello a scatto, e assume una posa 1 2

Chi volesse leggere alcuni dei più celebri racconti sul tema può procurarsi: G. Davico Bonino, (a cura di), Io e l’altro – Racconti fantastici sul Doppio, Einaudi, Torino 2004. C. Sandburg, Abraham Lincoln: The Prairie Years & the War Years, Harvest Books, Philadelphia 2002.

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Nella Loggia

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bizzarra, con un avambraccio rivolto verso l’alto e l’altro in orizzontale, di fronte a sé, quasi a formare un riquadro. Non sappiamo che cosa voglia dire quella posa – potrebbe anche essere priva di significato –, ma la sensazione che comunica è quella dell’attesa, come a dire che Laura vuole rimanersene lì ad aspettare che gli eventi facciano il loro corso. La ragazza scompare, e nella sala d’attesa entra l’anziano cameriere del Great Northern, che porta a Cooper del caffè; fatto ciò, l’uomo si tramuta nel Gigante. L’entità si siede vicino all’Uomo Da Un Altro Posto e dice “Uno e lo stesso”. Anche questa frase ha suscitato tra i fan diverse interpretazioni; la maggioranza di esse sostiene che il Gigante stia dicendo a Cooper che lui e l’anziano cameriere sono la stessa persona – il che, a questo punto, ci pare però un’ovvietà. Secondo un’altra interpretazione “Uno e lo stesso” – che in inglese si dice “One and the same”, in cui “One” è una parola priva di genere sessuale – potrebbe riferirsi alle due Logge. In pratica il Gigante starebbe dicendo a Cooper che le due Logge sono in realtà una cosa sola, il che sarebbe testimoniato tra l’altro dalla sua presenza lì dentro – l’entità fa parte dei “buoni”, per cui non dovrebbe trovarsi nella Loggia Nera. Che il Gigante appartenga a un gruppo diverso ci viene confermato anche da Mike, il quale, nel corso del suo ultimo incontro con Cooper, parla dell’entità e dice “Si, lui è conosciuto dalla nostra gente”. È infine possibile che la Loggia Bianca sia stata soppiantata da quella Nera e che la sala s’aspetto sia tutto ciò che ne rimane. A questo punto Cooper solleva la tazza di caffè e si appresta a berlo, mentre l’Uomo Da Un Altro Posto inizia a sfregare lentamente le mani; è chiaramente un gesto magico, e infatti l’agente dell’FBI si accorge che il caffè contenuto nella tazza si è solidificato. Cosa può voler dire questo fenomeno? L’ipotesi più logica è che l’Uomo Da Un Altro Posto stia illustrando a Cooper le proprietà fisiche della Loggia Nera, e in particolare il fatto che il tempo può essere fermato da un atto di volontà dei suoi abitanti – più che solidificato, il caffè sarebbe quindi “bloccato” nel tempo. Poco dopo il caffè torna alla normalità, e accidentalmente Cooper ne rovescia un po’ al suolo. Il caffè si tramuta quindi in una sorta di liquido viscoso, che si muove lentamente, e l’Uomo Da Un Altro Posto dice, con un tono seccato, “Wow, Bob, Wow!”. L’ultima trasformazione è quindi opera di BOB, che sembra in vena di scherzare o di mettersi in mostra. Che il liquido viscoso rappresenti “l’olio che apre il cancello” di cui abbiamo parlato in precedenza, o che sia del semplice caffè che si muove più lentamente del normale – mostrando così che nella Loggia il tempo può essere anche rallentato – è tutt’ora oggetto di dibattito. L’Uomo Da Un Altro Posto si tranquillizza, si volta verso Cooper e gli dice: “Fuoco cammina con Me”. BOB sta arrivando, Cooper sta per entrare ufficialmente nella Loggia Nera e il suo esame sta per iniziare.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

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Al di fuori della Loggia, dove il tempo fluisce normalmente, la notte è già passata. Gli abitanti di Twin Peaks stanno iniziando un nuovo giorno, e nel Double R Diner entra Sarah Palmer, accompagnata dal dottor Jacoby; la donna va a sedersi di fronte al maggiore Briggs, e Jacoby gli dice che la signora Palmer ha un messaggio per lui. La traduzione italiana, che menziona Windom Earle e che attribuisce la frase in questione all’Uomo Da Un Altro Posto, è sbagliata – per avere conferma di ciò basta controllare i sottotitoli originali dell’ultimo episodio. A parlare attraverso Sarah Palmer, con una voce che (è il caso di dirlo) sembra provenire dall’oltretomba, è infatti Windom Earle, che dice a Briggs: “Mi trovo nella Loggia Nera con Dale Cooper; ti sto aspettando”.

3. Cooper alla prova del fuoco Nel frattempo, all’interno della Loggia, l’esplorazione di Cooper continua. La frase detta dall’Uomo Da Un Altro Posto, “Fuoco cammina con me”, ha segnato l’inizio della “prova del fuoco” a cui dovrà essere sottoposto l’agente dell’FBI. Tale frase viene letta in genere come un imperativo – “Fuoco, cammina con me!” –, ma, volendo, la possiamo anche leggere come un invito: in inglese infatti la prova del fuoco, un’azione iniziatica che consiste nel camminare sui carboni ardenti, viene detta appunto “Fire walk”, per cui potremmo tradurre il tutto come “sottoponiti alla prova del fuoco con me”. L’interpretazione principale e più valida è senz’altro la prima, tuttavia la frase contiene una certa dose di ambiguità, a sua volta rinfocolata (anche qui è il caso di dirlo) da due fatti: le parole di Hawk, che racconta la leggenda sulla prova a cui vengono sottoposte le anime dei morti prima di entrare nella Loggia Bianca, e il fatto che la pratica del “Fire walking” fosse diffusa tra molte popolazioni diverse. Più in particolare questa prova di coraggio era ed è presente tra alcune tribù africane, in diverse parti dell’India – una performance tipica di molti fachiri –, tra alcune popolazioni della Polinesia e di Bali, e persino in Giappone e tra alcune comunità di cristiani ortodossi del nord della Grecia e nel sud della Bulgaria – una cerimonia nota come “anastenaria”. Diffusosi ultimamente tra i movimenti New Age, il Fire Walking è stato anche promosso da guru come Anthony Robbins – che hanno incluso questa tecnica nei loro seminari motivazionali per manager.3 3

Per la cronaca il rito della passeggiata sulle fiamme è un fenomeno spiegabile tramite la fisica e la fisiologia, senza fare appello a presunti poteri paranormali, come ha dimostrato lo studioso americano Michael Shermer.

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Nella Loggia

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Cooper entra dunque in un corridoio adiacente alla sala d’aspetto – anch’esso racchiuso da tende rosse e con un pavimento a zig-zag – e raggiunge un’ampia stanza simile alla prima, ma vuota. L’agente torna sui propri passi, e rientra nella sala d’aspetto, dove l’Uomo Da Un Altro Posto gli dice: “strada sbagliata!”. Cooper non se ne può andare fino a quando non ha superato con successo la prova, sconfitto BOB e salvato Annie; il senso di questa sequenza di tentativi ed errori è tutto qui. L’agente torna nella seconda stanza e la ritrova arredata, con un Uomo Da Un Altro Posto che sembra manifestare segni di follia e che gli annuncia: “Un altro amico”.4 Entra in scena Maddy Ferguson, che avverte Cooper: “Stai attento a mia cugina”. La ragazza scompare all’improvviso, e l’agente, intenzionato a dirigersi di nuovo verso la sala d’aspetto, riprende i suoi spostamenti all’interno della Loggia Nera – che sembra in realtà costituita da un’unica enorme sala, suddivisa in spazi circoscritti dalle tende rosse, che fungono quindi da pareti fluide5– e finisce di nuovo nella seconda stanza. A questo punto ci sovviene una domanda: Cooper ha un pessimo senso dell’orientamento, oppure è lo spazio all’interno della Loggia ad essere fluido, mutevole e modificabile, proprio come lo è il tempo? Alcune caratteristiche della Loggia, come il fatto che da essa si possano raggiungere posti diversi o lanciare messaggi che sembrano provenire dallo spazio profondo – è ciò che capita al maggiore Briggs nella seconda stagione –, sembrerebbero confermare quest’ultima ipotesi. Giunto per l’ennesima volta nella seconda stanza – anche se, a questo punto, non ci sentiamo di escludere che si tratti della sala d’aspetto, sottoposta a una nuova trasformazione –, l’agente vede l’Uomo Da Un Altro Posto in preda alle convulsioni e a una crisi di nervi, e con in più gli occhi che sembrano coperti da un velo opaco; il nano si limita a pronunciare la parola “doppelgänger!”, confermando così ciò che l’originale Uomo Da Un Altro Posto gli aveva detto all’inizio, cioè che quando Cooper lo 4

5

Una frase molto inquietante: l’Uomo Da Un Altro Posto parla di amici, sembra quasi simpatico, ma questa caratteristica, questo vocabolario infantile o adolescenziale, associato al bizzarro modo di comunicare dell’entità, svolgono quasi una funzione di svelamento/nascondimento, e suggeriscono proprio ciò che mascherano, e cioè il fatto che siamo in presenza di un’entità non-umana, priva di una vita interiore come noi la concepiamo. La Loggia Nera viene presentata da Lynch come un edificio, ma del tutto spoglio: in essa un essere umano normale non può veramente abitare, con tutte le attività quotidiane che questo comporta; può solo limitarsi a stare seduto, in piedi o a camminare. Questo fatto esalta il senso di estraneità che proviamo guardando questa sequenza, e ci suggerisce ancora di più la sensazione che ci troviamo in un luogo non a misura d’uomo.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

avrebbe rivisto non sarebbe stato più lui. Quello degli occhi opachi è un particolare importante, in quanto nella Loggia Nera i “doppi” posseggono tutti questa caratteristica. Sempre in relazione ai doppelgänger sottolineiamo due fatti: innanzitutto Hawk aveva definito in precedenza la Loggia Nera come l’Io-ombra della Loggia Bianca – ciò la prima sarebbe il doppelgänger della seconda. In secondo luogo non è assolutamente chiaro se tutti gli esseri umani posseggano da sempre un proprio doppelgänger nella Loggia Nera, o se invece questo reame funzioni un po’ come una sorta di “generatore di doppelgänger”, nel senso che tali entità verrebbero prodotte nel momento stesso in cui un essere umano ne attraversi l’ingresso. Da notare inoltre che anche l’Uomo Da Un Altro Posto possiede un doppelgänger, mentre le altre entità metafisiche delle due Logge no. Un’ultima nota sul linguaggio: a parte Cooper, gli altri personaggi che compaiono in questa sequenza memorabile parlano con la voce distorta che abbiamo imparato a conoscere; l’Uomo Da Un Altro Posto e le altre entità metafisiche, i personaggi deceduti per mano degli abitanti della Loggia – come Laura Palmer – e tutti i loro doppelgänger. Anche Windom Earle e Annie Blackburn – che sono in vita e non presentano in apparenza alcun doppelgänger – si esprimono in quel modo. Il modo di parlare in questione è forse un marchio apposto dalla Loggia a tutti gli esseri – umani e non – che ne entrano a far parte in pianta stabile? Mano a mano che Cooper si aggira attraverso le stanze e i corridoi della Loggia, lui e lo spettatore cominciano a percepire un senso crescente di ansietà, e forse è proprio questo lo scopo di tale tragitto: far smarrire l’essere umano che si trova in quel luogo, generare una sensazione sempre più grande di paura – e infatti è proprio il coraggio la qualità che viene testata in quel reame – e portare infine il “postulante” ad affrontare la sfida più grande di tutte, l’incontro con il proprio Io-ombra, che incarna la parte negativa e malvagia di ciascuno di noi. Subito dopo l’incontro con la “copia” dell’Uomo Da Un Altro Posto, una poltrona doppia appare all’improvviso, e su di essa si appoggia il doppelgänger di Laura Palmer – distinguibile per i suoi occhi opachi. L’entità lancia un urlo spaventoso, luce e buio iniziano ad alternarsi, e per un attimo, sovrapposta al volto del “doppio”, vediamo la faccia di Windom Earle; l’apparizione fa fuggire Cooper fuori dalla stanza e attraverso il corridoio, e ci lascia con un interrogativo. Che Windom Earle compaia in questo modo può significare solo una cosa: che l’antagonista di Cooper, grazie alle sue profonde conoscenze occulte, sia riuscito nei suoi intenti, e abbia acquistato molto potere. A questo punto però non è chiaro quanto delle esperienze che sta vivendo Cooper dipenda dalla

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Nella Loggia

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Loggia Nera in sé e quanto invece sia frutto dell’attività di Earle. È anche possibile che le entità della Loggia stiano manipolando Windom Earle per i propri scopi.

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4. La carica dei doppelgänger Perso oramai nei meandri della Loggia Nera, Cooper finisce in un’altra stanza, dove inizia a zoppicare e si accorge di perdere sangue da una ferita allo stomaco. Esce di nuovo da quel luogo e attraversa il corridoio, dove vede una serie di macchie di sangue per terra, macchie che lui stesso ha lasciato ancor prima di passare di lì. Visto che Cooper verrà accoltellato subito dopo, è possibile che questa sequenza possa essere interpretata come l’indicazione del fatto che nella Loggia Nera il rapporto di causa ed effetto può essere invertito – ad esempio si può sanguinare prima ed essere accoltellati poi, o lasciare tracce su un pavimento prima di attraversarlo. Solo Lynch e Frost potrebbero rispondere a questa domanda. Cooper entra quindi in un’altra stanza, e vede se stesso disteso al suolo assieme a Caroline, entrambi coperti di sangue. La Loggia Nera è quindi al corrente degli eventi vissuti da Cooper a Pittsburgh – il suo accoltellamento e l’uccisione di Caroline da parte di Windom Earle. È possibile allora che tutta questa scena possa essere interpretata non come un ribaltamento del rapporto di causa effetto – o non solamente così –, ma come il fatto che la Loggia Nera stia rievocando un episodio terribile del passato di Cooper, allo scopo di incutergli paura, e impossessarsi di lui. Subito dopo Caroline si tramuta in Annie Blackburn, la quale, coperta di sangue e con l’aspetto di un doppelgänger, si solleva in parte da terra guardandosi in giro, come si trovasse nella penombra e cercasse di capire da dove proviene la voce che lo sta chiamando. Del tutto privo di ferite – come se non le avesse mai ricevute –, l’agente dell’FBI continua il proprio girovagare, e si ritrova in un’altra stanza, dove compare quella che pare essere la vera Annie. La donna si avvicina e gli parla con la voce tipica degli abitanti della Loggia Nera. Vediamo il loro dialogo: Annie: “Dale, ho visto la faccia dell’uomo che mi ha uccisa”. Cooper (con un’espressione stupita, afferrandola con le braccia): “Annie… La faccia dell’uomo che ti ha uccisa?” Annie: “È stato mio marito”. Cooper: “Annie...” Annie: “Chi è Annie?”

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

Annie inizia a ripete, con un tono ossessivo: “Sono io, sono io”, e nel fare ciò si trasforma nel doppelgänger di Caroline. A questo punto Cooper chiama Caroline per nome, e lei gli risponde: “Ti stai sbagliando. Sono viva”. Poi si trasforma nel “doppio” di Laura Palmer e lancia un altro urlo, che lascia Cooper indifferente. Ciò che invece lo stupisce, tanto che l’agente sembra come risvegliarsi da uno stato di torpore, è la trasformazione successiva: Windom Earle. L’uomo, anche lui con la voce degli abitanti della Loggia, lo chiama per nome, e in quel momento, accanto ai due, appare di nuovo Annie, che oscilla sul posto, quasi che fosse bloccata nella sua posizione; subito dopo la donna svanisce. Non ci è dato sapere se tutte queste apparizioni siano solo proiezioni generate da Earle o se invece siano reali, il che vorrebbe dire che nella Loggia Nera non solo le nozioni di spazio e di tempo sono fluide, ma lo è anche quella di identità, per cui Annie, Caroline e Laura – o i loro doppelgänger – possono mescolarsi l’una con l’altra, fondersi e perdere i propri confini identitari. Con una risata demoniaca, Windom Earle offre a Cooper la vita di Annie in cambio dell’anima dell’agente, che prontamente accetta. Earle allora lo accoltella, e Cooper si accascia al suolo. A questo punto però interviene BOB, che inverte il flusso del tempo e degli eventi, e annulla la coltellata inferta da Earle a Cooper. BOB poi dice a Cooper che Earle non ha il diritto di chiedere l’anima a Cooper, e che al contrario perderà la propria. Prima l’entità blocca Windom Earle e poi gli preleva l’anima, rappresentata come una fiammata. BOB ha detto a Cooper che se ne può andare, e tutto sembra finire per il meglio. Purtroppo non è così. Mentre l’agente si allontana, da dietro le tende spunta il doppelgänger di Cooper, che inizia a ridere selvaggiamente e a seguire il suo “originale”. Cooper nel frattempo incontra nel corridoio il doppelgänger di Leland Palmer, che gli dice sorridendo di non aver ucciso nessuno – potrebbe essere una bugia tesa a confondere Cooper, o potrebbe essere vero, visto che, stando a quanto è emerso fino a qui, a uccidere Laura è stato il Leland originale, posseduto da BOB. L’inseguimento continua, l’agente dell’FBI corre in preda alla paura e, a un certo punto, il Cooper malvagio sembra rivolgere lo sguardo verso il pubblico, quasi per farlo sentire osservato; se si presta attenzione si noterà inoltre che il “doppio” non ha più i suoi tipici occhi opachi – come a dire che sta prendendo il posto di Cooper, o che forse al suo interno si è già insediato BOB. Il doppelgänger riesce a catturare l’originale, e alla fine sullo schermo compare il volto soddisfatto di BOB. Fuori dalla Loggia è passato un giorno intero, è notte fonda, le tende rosse ricompaiono per un attimo e lo sceriffo Truman ritrova, all’interno del circolo di sicomori, Cooper – o meglio il suo doppelgänger, come sappiamo – ed Annie Blackburn; la

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Nella Loggia

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ragazza ha il volto coperto di sangue, anche se nel corso dell’esperienza dentro la Loggia Nera nessuno sembra averla ferita.

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5. Veicoli recalcitranti Prima di passare a Fuoco Cammina Con Me, c’è ancora una questione che dobbiamo affrontare, ossia quella dei vari tipi di possessione presentati dalla saga di Twin Peaks. Le entità metafisiche che popolano le due Logge utilizzano gli esseri umani come veicoli, tuttavia le modalità con cui se ne impadroniscono possono variare; volendo ne possiamo classificare almeno tre, forse quattro. Il primo tipo di possessione è la più diffusa, ed è quella che hanno subìto personaggi come Leland Palmer o Philip Gerard. Le vittime vengono avvicinate in sogno o tramite una visione, dopodiché l’entità metafisica che le vuole possedere le manipola, in modo da indebolirle e trovare in sistema per entrare in esse; in particolare lo spirito maligno deve cercare di “farsi invitare” dal malcapitato. È proprio il resoconto che fa Leland Palmer del suo primo incontro con BOB. Quand’era bambino, Leland iniziò a incontrare l’entità nei boschi, giocando con lei. Forse essa lo avvicinò in sogno, o forse tramite un altro “veicolo” umano – a questo proposito il padre di Laura racconta che BOB gli lanciava fiammiferi, dicendogli: “Vuoi giocare con il fuoco, ragazzo?”. In questo primo caso abbiamo quindi la compresenza di due anime o spiriti nel medesimo corpo, cioè quella del proprietario originale e quella dell’invasore. Cosa succede alla prima durante la possessione? Dai racconti di Leland Palmer pare che, quando BOB agisce, l’anima umana sia per così dire relegata nell’incoscienza, e si risvegli in seguito, senza ricordare nulla. In Fuoco Cammina Con Me, BOB sembra invece possedere Leland attivamente e in modo permanente; nella serie l’uomo sembra in realtà ricordarsi molte cose, ed essere quindi consapevole di ciò che ha fatto sotto l’influsso di BOB. Una seconda modalità di possessione è quella che fa leva sulla forza bruta; è il caso di Laura Palmer. Pur essendo entrato in contatto con la ragazza e avendo abusato di lei, BOB non riesce a possederne il corpo e l’anima, e quindi la trascina nel vagone dove poi la ucciderà. Se facciamo caso in quel posto c’è un cerchio di dodici candele che riproduce il circolo di sicomori di Glastonbury Grove; fa tutto parte di un rituale magico che mira tra l’altro a costringere Laura a pronunciare la frase “Fuoco cammina con me!”. Il senso di essa ci è quindi chiaro: si tratta di un formula magica che mira a invocare la presenza di BOB e a farlo entrare in colui che la pronuncia. E questo è proprio il motivo per cui, quando Laura dice questa frase a casa di

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

Harold, per un attimo assume un aspetto demoniaco. Citiamo qui un particolare su cui ritorneremo parlando di Fuoco Cammina Con Me, cioè il fatto che, mentre BOB sta officiando il suo brutale rito di possessione, Mike si avvicina al vagone e vi getta dentro un anello proveniente dalla Loggia Nera; indossando tale anello Laura diviene in qualche modo “sposata” alla Loggia Nera, e BOB non la può più possedere; di conseguenza, non potendo far altro, l’entità si vede costretta ad ucciderla, in modo da raccogliere per lo meno un po’ di dolore e sofferenza di cui nutrirsi. La terza tipologia di possessione è quella che subisce Cooper dopo il suo ingresso nella Loggia Nera; l’agente viene infatti intrappolato in quel reame extra-dimensionale, mentre il suo doppelgänger viene utilizzato come veicolo da BOB – non è chiaro che cosa succederebbe al “doppio” di Cooper se l’entità maligna lo abbandonasse. In questo tipo di possessione c’è un altro punto oscuro. In Fuoco Cammina Con Me Annie compare in sogno a Laura, dicendole: “Il buon Dale è nella Loggia, e non può uscire”. Qui c’è un’ambiguità nella traduzione, in quanto in italiano il termine “buon” può essere utilizzato come vezzeggiativo. La versione originale dice “The good Dale is in the Lodge, and he can’t leave”; si parla in pratica del “Dale buono”, e questa scena sembra far pensare che Cooper sia stato diviso in due – una parte buona e una cattiva, appunto – e che solo la seconda abbia potuto uscire. Si tratta di un particolare che non è mai stato chiarito, e comunque l’interpretazione che va per la maggiore tra i fan è che il vero e unico Dale Cooper sarebbe intrappolato nella Loggia Nera, mentre l’essere che ne è fuoriuscito sarebbe solo una copia che riproduce in sé esclusivamente la parte oscura dell’agente dell’FBI. Infine possiamo prendere in considerazione un quarto tipo di possessione, anche se gli elementi a nostra disposizione non ci bastano per definirla tale. Stiamo parlando del Gigante e dell’anziano cameriere del Great Northern: quando il primo si manifesta, il secondo sembra scomparire – per andare dove non si sa, però. Può darsi che si tratti di una forma particolare di possessione, o può darsi che il cameriere sia solo una manifestazione esteriore del Gigante, priva di un’esistenza autonoma. Abbiamo citato Fuoco Cammina Con Me, e ora è giunto il momento di affrontare questo film bellissimo e sottovalutato da pubblico e critica, un’opera che ci offre una grande quantità di indizi sulla cosmologia e la metafisica veicolate da Twin Peaks.

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V INCUBI AL GUSTO DI GARMONBOZIA

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1. Fuoco Cammina Con Me Dopo la cancellazione di Twin Peaks, David Lynch si mette subito a lavorare a un film che riprenda in mano le situazioni narrate nella serie; il regista sente infatti di non aver ancora concluso l’esplorazione del mondo creato da lui e da Frost. A differenza di quanto ci si poteva attendere, cioè un film che concludesse le vicende rimaste aperte nell’ultimo episodio di Twin Peaks, Fuoco Cammina Con Me è un prequel; in esso si narra l’ultima settimana di vita di Laura Palmer e la sua morte per mano di BOB. È anche vero che l’opera in questione presenta alcune caratteristiche del sequel, nel senso che rivediamo Cooper imprigionato nella Loggia Nera, veniamo a sapere che cosa è successo ad Annie e così via. Uscito nel 1992, Fuoco Cammina Con Me è stato scritto da Lynch e da Robert Engels, uno dei principali soggettisti della serie, mentre Frost non ha mostrato interesse verso il progetto. Pur trattandosi di un prequel, è meglio vedere Fuoco Cammina Con Me dopo aver visto Twin Peaks, in quanto il film risulterebbe ancora più confuso di quanto non lo sia già per volontà dei suoi autori. Ci si potrebbe chiedere come mai Lynch abbia voluto girare un prequel, invece di soddisfare la curiosità dei fan e offrire loro la conclusione della serie. In realtà Lynch ed Engels avevano sviluppato a vari livelli i canovacci di diversi film futuri ambientati nell’universo di Twin Peaks, una vera e propria serie, in cui i due autori si proponevano di esplorare ulteriormente la cosmologia e la metafisica abbozzate nel telefilm. Da questo punto di vista, partire raccontando da principio le vicende di Laura Palmer aveva assolutamente senso. Non solo, ma i produttori avevano già messo a disposizione i fondi per realizzare altri due sequel; purtroppo però Fuoco Cammina Con Me è stato snobbato dal pubblico e stroncato dalla critica, e il progetto di altri film si è arenato. Un vero peccato, visto che in tempi recenti il film è stato notevolmente rivalutato, e gli è stato riconosciuto lo status di opera di culto. Ma come mai il film non è piaciuto? Per svariate ragioni. Chi si aspettava un film horror – come suggerito dalla campagna pubblicitaria voluta

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

dai distributori – è rimasto deluso; chi si aspettava un film comprensibile è rimasto deluso; chi si aspettava la conclusione della serie è rimasto deluso; chi si aspettava di ritrovare l’atmosfera in parte solare, caramellata e ricca di senso dell’umorismo del telefilm è rimasto deluso. A difesa di Lynch bisogna dire che il regista è costretto dai produttori ad operare numerosi tagli, e purtroppo ciò ha influenzato notevolmente la comprensibilità del film. In buona sostanza se leggiamo lo script originale – reperibile in rete1 –, scopriremo che contiene un numero di scene molto maggiore di quelle incluse nella versione definitiva, per non parlare poi delle scene ideate all’ultimo momento da Lynch e assenti quindi dalla sceneggiatura in questione.2 Accanto a scene e dialoghi poco significativi, ve ne sono alcuni piuttosto importanti, che hanno molto da dirci sul senso generale del film. Prima di immergerci in Fuoco Cammina Con Me, rispondiamo a un altro interrogativo sollevato di frequente dai fan, ossia la ragione per cui nel film l’agente Cooper compaia così poco; ciò dipende non da scelte artistiche, ma dal semplice fatto che Kyle MacLachlan ha voluto espressamente evitare il rischio di diventare un nuovo “capitano Kirk”, cioè di subire un destino analogo a quello di William Shatner, incatenato a vita al ruolo interpretato nella serie Star Trek. Proprio per questo Lynch si è visto costretto a scritturare Chris Isaac nel ruolo dell’agente Chester Desmond, che compare nella prima parte del film e svolge le funzioni investigative che sarebbero toccate a Cooper.

2. Gli X-files di David Lynch Fuoco Cammina Con Me si apre con l’omicidio di Teresa Banks, una ragazza senza fissa dimora uccisa a Deer Meadow, una cittadina nello stato di Washington; il suo corpo viene avvolto in un telo di plastica e gettato in un fiume. Gli eventi si svolgono nel 1988, un anno prima delle vicende narrate in Twin Peaks. Gordon Cole fa chiamare uno dei suoi migliori agenti, Chester Desmond, che in quel momento si trova a Fargo, e gli ordina di presentarsi da lui – a Portland. Nello script – ma non nel film – Cole aggiunge che ha ricevuto una mappa dei sobborghi della riserva indiana di Yakima con sopra il nome di Desmond, e che l’agente farebbe meglio a portare con

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http://www.lynchnet.com/fwwm/fwwmscript.html Se siete fan di Twin Peaks siete pregati di firmare la petizione on-line per il rilascio in dvd delle scene mancanti, cosa che potete fare al seguente indirizzo: http:// www.petitiononline.com/fwwmdvd/petition.html.

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Incubi al gusto di garmonbozia

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se un “pole” – che in inglese può significare “palo dell’elettricità”. In questi messaggi in codice i cultori di Twin Peaks avranno riconosciuto certamente alcuni elementi occulti della serie, ossia l’energia elettrica e una mappa che ci ricorda molto il petroglifo della Caverna dei Gufi. In pratica Cole sta suggerendo a Desmond che il caso che sta per affidargli riguarda le nostre entità soprannaturali, che evidentemente sono ben note anche ad alcune organizzazioni umane, come l’FBI. Cole dice poi a Desmond che ha una sorpresa per lui. I due si incontrano all’aeroporto di Portland, e al meeting partecipa anche l’agente Sam Stanley – fa specie vedere Kiefer Sutherland, il futuro, durissimo Jack Bauer di 24, interpretare il ruolo di un agente dell’FBI intelligente ma goffo e vagamente nevrotico. Secondo i piani originali di Lynch, Chet Desmond e Sam Stanley dovevano dare vita all’interno del film ad alcune scenette umoristiche molto twinpeaksiane – ad esempio uno dei tic di Stanley doveva essere la sua capacità/mania di calcolare a colpo d’occhio il prezzo degli immobili che vedeva, comunicandoli al collega nei momenti meno opportuni. Purtroppo i tagli hanno ridotto i duetti ai minimi termini. Ciò che conta dell’incontro tra Stanley, Desmond e il loro superiore è però la sorpresa, che consiste in Lil, una segretaria di Cole vestita come un mimo; la donna si esibisce in una strana danza che funge da codice di comunicazione. Desmond spiega a un allibito Stanley il significato di questa esibizione: è un codice che Cole usa per comunicare informazioni sensibili ai propri agenti. Per interpretare tutto questo bisogna tener presente che la spiegazione data da Desmond a Stanley rappresenta in un certo senso una concessione di Lynch al pubblico – in un altro contesto il regista si sarebbe limitato a buttare lì la scena senza spiegare niente, proprio come ha fatto nei suoi ultimi film. Nonostante ciò gli spettatori continuano a chiedersi il perché di tutto ciò, e a risponderci è proprio lo script originale, e nella fattispecie una scena tagliata: Stanley: “Che cosa significava la cravatta di Gordon?” Desmond: “Cosa? Quello è solo il cattivo gusto di Gordon”. Stanley: “Ma non poteva dirci tutte quelle cose a voce?” Desmond: “Parla a voce molto alta. Ed ama il suo codice”. Chet Desmond presenta in pratica il codice di Gordon Cole come un espediente da lui usato per evitare di parlare a voce alta – abitudine causata dalla sua sordità, e che potrebbe rappresentare un rischio quando si maneggiano informazioni sensibili. Inoltre tale codice viene presentato da Lynch come una semplice eccentricità del suo personaggio. Possiamo trovare un altro accenno a questo sistema di comunicazione anche nella serie, quando Cole dice a Cooper che assomiglia a un piccolo chihuahua messicano, un’affermazione criptica che non viene però più ripresa dagli autori.

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

Notiamo infine che Lil ha sul petto una rosa azzurra. Desmond si rifiuta di rivelarne il significato a Stanley, ma diversi elementi – ad esempio il fatto che Cooper si riferisca all’omicidio di Teresa Banks come a “uno dei casi ‘rosa azzurra’ di Gordon” – ci mettono sulla buona strada: ci sembra infatti di capire che all’FBI siano consapevoli dell’esistenza e della natura dell’entità metafisiche della Loggia Nera, e che raccolgano tutti i dati disponibili in un’apposita sezione, simboleggiata da una rosa azzurra. E così, in anticipo sui tempi, David Lynch ha creato i propri X-files. Desmond e Stanley si recano a Deer Meadow, per indagare sull’omicidio di Teresa Banks. A ben vedere, la cittadina rappresenta l’opposto di Twin Peaks. Al contrario di Truman e colleghi, le autorità locali, e in particolare lo sceriffo Cable e il vice-sceriffo Cliff, sono ostili. Il ristorante in cui Desmond e Stanley vanno a mangiare è l’esatto contrario dell’accogliente Double R Diner di Norma Jennings – Irene, la proprietaria, è piuttosto sgradevole, fuma, beve, e annuncia ai due agenti che non ci sono specialità locali, a differenza del ristorante di Twin Peaks, in cui le torte ai frutti di bosco e il buon cibo non mancano mai. Il caffè nell’ufficio dello sceriffo è vecchio di tre giorni. Il luogo dove viveva Teresa Banks è uno squallido e fatiscente campeggio per roulotte. L’analisi del corpo della Banks mostra i segni di un anello sulla mano sinistra, e la proprietaria del ristorante dice ai due agenti che, in un’occasione, la ragazza si presentò al lavoro per tre giorni di fila con il braccio sinistro completamente inerte e privo di sensibilità. Nel corso dell’autopsia Stanley recupera anche un pezzetto di carta con la lettera “T” inserito dall’assassino sotto un’unghia della vittima – un ritrovamento analogo avverrà anche nel caso di Laura Palmer, e spingerà Cooper a ipotizzare che il serial killer stia usando tali lettere per comporre il proprio nome. Il giorno dopo i due agenti si presentano al Fat Trout Trailer Park, il parcheggio per roulotte dove ha vissuto la Banks, di proprietà di Carl Rodd – interpretato da un regular di Lynch, Harry Dean Stanton. Desmond e Stanley si fanno accompagnare da Rodd presso la roulotte della Banks, e il primo si accorge di una foto in cui la ragazza indossa lo strano anello verde – sul quale, come scopriremo poi, vi è inciso il simbolo della Caverna dei Gufi che abbiamo esplorato in Twin Peaks. Nelle scene tagliate scopriamo anche che il vice-sceriffo Cliff, che ha avuto uno scontro fisico con Desmond, vive proprio lì, in una roulotte; l’agente dell’FBI e il vice-sceriffo si scambiano alcune battute al vetriolo, e il primo insinua che il secondo potrebbe avere a che fare con l’omicidio della Banks. Questa sequenza spiega un’altra scena, altrimenti incomprensibile, contenuta nel montaggio finale, in cui Desmond torna nel Fat Trout Trailer Park e Carl gli indica dove si trova la roulotte

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di Cliff. Tra l’altro dallo script emerge anche che questo losco individuo spaccia cocaina, e fa affari con Jacques Renault: lo ritroviamo infatti in una scena successiva, dove Bobby Briggs e Laura Palmer si recano a un appuntamento con uno spacciatore. A organizzare l’incontro – che si terrà di notte, nel bosco – è stato lo stesso Renault; le cose però andranno male, e finiranno con una sparatoria in cui Bobby uccide il vice-sceriffo Cliff, che stentiamo a riconoscere proprio perché è in borghese. Inoltre Laura, sotto l’effetto degli stupefacenti, si convince per qualche motivo che la vittima sia in realtà l’amico di Bobby, Mike – anche lui biondo, come Cliff – e inizia a deridere Bobby. Tutta questa scena è stata aggiunta da Lynch solo per giustificare un’affermazione di James all’inizio della serie, secondo la quale, la sera in cui morì, Laura si mise a fare discorsi strani e incomprensibili, in cui parlava anche del fatto che qualcuno era stato ucciso. A causa però dei tagli operati contro voglia da Lynch, buona parte di queste scene è andata perduta, e la sequenza delle indagini di Desmond e Stanley nel parcheggio per roulotte è diventata poco comprensibile. Mentre i due agenti esaminano la roulotte della Banks, la telecamera si avvicina rapidamente dal retro, accompagnata dal vento: la sensazione che trasmette è chiaramente quella di una forza soprannaturale in arrivo, e poco dopo vediamo all’interno della medesima roulotte una donna anziana con una borsa del ghiaccio sul volto. Questa è probabilmente una delle classiche donne di mezz’età che Lynch ama rappresentare nei suoi film, e che in genere hanno rapporti stretti con le creature provenienti dall’aldilà. Potrebbe trattarsi insomma di un personaggio come la Signora Ceppo oppure della manifestazione di un’entità metafisica venuta a dare un’occhiata. Non è dato sapere chi sia l’attrice che la interpreta, e c’è chi ha ipotizzato che si tratti dello stesso Lynch, abilmente travestito – non vogliamo avvalorare tale ipotesi al cento per cento, ma certo una qualche somiglianza c’è. La donna se ne va senza proferire parola, e subito dopo assistiamo a un’altra delle sequenze più discusse dai fan di Twin Peaks. Carl Rodd dice, in preda all’inquetudine: “Sentite, sono già vissuto in molti posti, e ora vorrei rimanere dove sono”. La frase non è presente nello script, ed è probabilmente un’improvvisazione di Lynch o dello stesso Harry Dean Stanton. Non è chiaro cosa significhi, ma par di capire che Carl abbia visto diverse cose paurose, e si potrebbe addirittura ipotizzare che sia entrato in contatto con gli abitanti della Loggia Nera. Le scene ambientate nel parcheggio per roulotte sono ricche di informazioni importanti per la comprensione del film; una per tutte il fatto che Chet Desmond osservi con cura i pali della luce, dimostrando di essere consapevole che per le creature ultraterrene della Loggia Nera l’elettricità funge

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da mezzo di trasporto. Nel caso non bastasse, si noti il bizzarro rumore che possiamo udire in queste scene: sembra quasi un ululato, e lo ritroveremo più avanti nella Loggia Nera, quando l’Uomo Da Un Altro Posto dice a Cooper: “Sono il braccio e suono così – frase alla quale segue un ululato simile al richiamo usato nei film western dei nativi americani e che, mano a mano che svanisce, comincia ad assomigliare sempre di più al suono che udiamo nel parcheggio. Il rumore in questione indica probabilmente che le entità metafisiche delle due Logge sono nelle vicinanze, e si stanno muovendo attraverso i fili elettrici. Ci conferma inoltre, una volta di più, che esistono alcune organizzazioni umane, come l’FBI o la US Air Force, che sono al corrente dell’esistenza di queste creature soprannaturali; esse accumulano informazioni e le trasmettono ai propri membri, affinché affrontino al meglio ogni futuro incontro con tali entità. Che gli esseri umani siano non solo consapevoli di questi semi-dei oscuri, ma che siano addirittura in grado di organizzarsi per cercare di studiarli e di ostacolarli, rappresenta un’eccezione nell’opera lynchana: in genere gli umani non sono coscienti dell’esistenza di tali creature, e quando lo sono, finiscono per subirne passivamente le azioni – è il caso ad esempio di Mulholland Drive, dove le protagoniste non hanno nemmeno mai visto il Vagabondo e il Cowboy. Dopo aver inviato Sam Stanley a Portland perché possa effettuare altre analisi sul corpo della Banks, Chet Desmond ritorna al parcheggio per ulteriori indagini connesse alla “rosa azzurra” di Gordon Cole. Tra le scene tagliate ce n’è una in cui l’agente vede una roulotte al limitare del parcheggio, dentro la quale appare una luce e si vede una mano misteriosa. Sotto la roulotte c’è un mucchietto di terra, sopra il quale c’è l’anello di Teresa Banks. Chet Desmond lo prende in mano e scompare, inghiottito dalla Loggia Nera.

3. “Viviamo dentro un sogno” La scena successiva, famosissima, si svolge nella sede dell’FBI di Filadelfia. Per chi non se la ricorda, è quella relativa all’apparizione dell’agente speciale Philip Jeffries, interpretato da David Bowie, e al resoconto del suo rapimento da parte degli abitanti della Loggia Nera. Lo script è molto più lungo, e il girato della scena del “negozio conveniente” – che nel film occupa sì e no un minuto – dura ben venti minuti. Si tratta di una sequenza estremamente importante, per cui la analizzeremo con cura, considerando sia lo script sia l’edizione definitiva del film. Ci sono inoltre altre sequenze

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girate nell’emporio, scene ideate da Lynch all’ultimo momento, alle quali però non abbiamo purtroppo accesso. Un concetto che Lynch ed Engels volevano introdurre in questa sequenza è quello dell’esistenza di portali sparsi in tutto il mondo, dai quali si può accedere alla Loggia Nera, e viceversa. Tutto comincia quando Cooper entra nell’ufficio di Gordon Cole, dicendogli: “Gordon, sono le dieci e dieci antimeridiane. Oggi è il 16 febbraio. Ero preoccupato per oggi a causa del sogno di cui ti ho parlato”. Cooper si reca prima nel corridoio, fissando la telecamera puntata verso di lui, e in seguito nella sala di controllo delle telecamere a circuito chiuso, per osservare il corridoio dalla medesima telecamera – anche se non nota niente. Allora si piazza sotto la telecamera una seconda volta e, dopo essere tornato nella sala di controllo, continua a non notare nulla di particolare. Nello script c’è un’altra scena tra il primo e il secondo tragitto di Cooper, e si svolge a Buenos Aires. L’agente speciale Philip Jeffries entra in un hotel, il Palm Deluxe. Il responsabile gli dà le chiavi e anche un biglietto con un messaggio, lasciatogli da una ragazza che se n’è appena andata. Arriva un facchino, al quale Jeffries dà la chiave e le valige da portare in camera; i due si recano assieme all’ascensore. Nel frattempo Cooper si reca una terza volta nel corridoio e, mentre l’agente sta tornando verso la sala di tele-sorveglianza, la porta dell’ascensore si apre e da lì esce Philip Jeffries – che pochi istanti prima si trovava nell’hotel di Buenos Aires. Con vivo terrore Cooper vede se stesso sullo schermo, mentre Philip Jeffries si sta avvicinando a lui nel corridoio. La ragione del fenomeno è semplice, ed è legata alla Loggia Nera, e in particolare al fatto che, in quel reame, il tempo è fluido e modificabile. Jeffries è ovviamente legato allo Loggia Nera e, arrivando nell’ufficio dell’FBI, interferisce con il normale corso del flusso temporale, facendo sì che Cooper si trovi momentaneamente sia nella sala di telesorveglianza sia nel corridoio. Cooper si precipita nell’ufficio di Gordon Cole, e Jeffries lo segue a ruota. Cole dice allora a Cooper: “Ti presento lo scomparso Philip Jeffries. Avrai sentito parlare di lui all’accademia”. Jeffries, visibilmente disturbato, dice una frase apparentemente incomprensibile: “Beh, io.. non ho intenzione di parlare di Judy. Preciso, voglio che non si parli affatto di Judy, voglio che lei ne resti fuori, intesi?”. E poi, puntando il dito verso Cooper: “Chi diavolo credete che sia questo qui?”. Abbiamo già imparato che nella Loggia il tempo è fluido, e che passato e futuro si confondono. È probabile che, facendone parte, Jeffries sappia già che Cooper verrà posseduto da BOB, ed esprima quest’informazione in modo caotico e disturbato. Con il suo solito stile sarcastico, Albert Rosenfield dice a Jeffries: “devi aver preso qualche botta

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in testa, eh Phil?”. Questa opinione potrebbe essere facilmente condivisa anche dagli spettatori occasionali del film, ma tra poco vedremo che tutte le affermazioni di Jeffries hanno un significato abbastanza chiaro. Cole cerca di calmare Jeffries, e gli dice: “In nome di Dio, Jeffries, dove sei stato fino adesso? Sei sparito nel nulla per quasi due anni”. E qui inizia il delirante resoconto del rapimento di Philip Jeffries, inframmezzato da sequenze che rappresentano la sua incredibile esperienza: “Sta’ tranquillo, ti racconto tutto. Ma non è che ci sia molto da raccontare”. E ancora: “Credetemi, ho seguito”. Poi Jeffries fa un commento importantissimo, che ci rivela la visione del mondo di David Lynch: “Era un sogno. Viviamo dentro un sogno”. La prima parte della frase suggerisce che, durante gli ultimi due anni, Jeffries abbia vissuto in un mondo onirico; la seconda rilancia, e ci dice che tutti quanti noi viviamo in realtà dentro un sogno, che la realtà ha una natura essenzialmente onirica. Ossessionato da sogni, Lynch si riallaccia a una tradizione molto antica. Volendo potremmo far risalire questa concezione agli aborigeni australiani; queste popolazioni immaginano infatti che, prima della creazione del mondo, vi fosse un’era chiamata il “Tempo del Sogno”, in cui la realtà era ancora “indifferenziata” e ad abitarla c’erano solo entità metafisiche o totemiche. Con il termine “sogno” gli aborigeni non indicano solo la nostra vita onirica, ma tale concetto assume per essi un concetto assimilabile a quello di “mana”. Il “Tempo del Sogno” non è però relegato a un passato mitico, ma costituisce anche quella che noi chiameremmo una “dimensione spirituale”, alla quale si può accedere proprio sognando. Passando a tempi più recenti ci viene in mente Pedro Calderon de la Barca, drammaturgo spagnolo del Seicento, che compose un’opera teatrale divenuta poi molto celebre, La vita è sogno; in essa l’autore affronta le tematiche a lui più care – la vita come un sogno destinato a svanire, come una vana illusione, come un teatro in cui cambiano gli attori ma i ruoli recitati sono sempre i medesimi. Una visione pessimistica dunque, alleggerita però dalla fede religiosa di Calderon. Arrivando al Ventesimo Secolo, come non citare Jorge Luis Borges, che ha fatto di questo tema uno dei suoi capisaldi; e come non citare un altro autore poco conosciuto dal grande pubblico, e che di Borges fu maestro.3 Stiamo parlando di Macedonio Fernandez, autore di opere come Il Museo del Romanzo della Eterna e No toda es vigilia la de los ojos abiertos. Fernandez coltiva una visione prettamente onirica dell’essere; per lui tutta la 3

Si veda a questo proposito: J. L. Borges, Tutte le opere, Vol. II, Mondadori, Milano 2004, p.799 e seg.

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realtà è un sogno, così come lo è la distinzione tra i singoli enti, e quindi la morte non esiste per davvero, e non va temuta. Lynch richiama infine alla mente un altro autore, lo psicanalista cileno Ignacio Matte Blanco, che opera una netta distinzione tra conscio e inconscio, nel senso che il primo si baserebbe su una logica che lui chiama “asimmetrica”, e che si identificherebbe con quella di Aristotele, mentre il secondo disporrebbe di una logica sua propria, diversa da quella che regola la coscienza. Tale logica “simmetrica” non si baserebbe sul principio di non contraddizione, e ci permetterebbe di rendere conto, tra le altre cose, di tutti gli eventi bizzarri a cui assistiamo in sogno – fluidità dello spazio, del tempo e della prospettiva, ribaltamento del rapporto di causa-effetto, mutevolezza dell’identità personale, guarda caso tutte caratteristiche che ritroviamo nella Loggia Nera.4

4. “E così loro stavano là” Il resoconto confuso e frammentario di Jeffries prosegue: “l’anello”. “Era sopra ‘un negozio conveniente’”. Ritorna qui il nostro “convenience store”, più misterioso che mai – un luogo reale dove le entità metafisiche si riuniscono quando posseggono un ospite umano? Una metafora per indicare la loro appartenenza a un piano di realtà superiore? Comunque sia, l’incontro si svolge in una stanza sporca e abbandonata, con teli di plastica affissi alle finestre. Al centro della stanza c’è un tavolo, attorno a cui siedono l’Uomo Da Un Altro Posto e BOB. Accanto a essi ci sono molte altre entità: ci sono i Tremond, c’è un bizzarro individuo con una maschera e un martello, che salta di qua e di là e che non era incluso nello script, e ci sono altri due personaggi – che nei credits vengono indicati solo come il primo e il secondo boscaiolo, e che compaiono a malapena. Uno di questi è interpretato da Jürgen Prochnow, e in passato alcuni fan hanno suggerito la possibilità che si tratti del marito della Signora Ceppo, che era un boscaiolo e che un giorno si recò nel bosco e “incontrò il diavolo”. In realtà, come abbiamo già detto, è probabile che nemmeno gli autori conoscano l’identità di questi personaggi, più che altro perché non l’hanno ancora inventata. Jeffries dice a Cole: “Ascolta, e ascolta con attenzione. Sono stato a uno dei loro incontri.” Ed ecco qui, per intero, i discorsi fatti dai partecipanti al meeting soprannaturale, così come sono presentati nello script, ai quali aggiungiamo però anche le frasi presenti solo nel film: 4

I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino 2000.

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Primo boscaiolo: “Siamo discesi dalla pura aria”. Uomo Da Un Altro Posto: “Andare su e giù. Rapporto tra i due mondi”. BOB: “Luce di nuove scoperte”. Signora Tremond: “Perché non essere composti da materiali e da combinazioni di atomi?” Pierre Tremond: “Non è un caso”. Uomo Da Un Altro Posto (toccando il tavolo): “Garmonbozia. Questo è un tavolo di formica. Verde è il suo colore”. Primo boscaiolo: “Il nostro mondo”. Uomo Da Un Altro Posto: “Con il cromo. Tutto procederà ciclicamente”. Secondo boscaiolo: “Senza ossa”. Mike. “Sì, trova il luogo di mezzo”. BOB inizia a urlare di rabbia: “Ho la furia del mio stesso slancio”. Pierre Tremond: “Un’altra vittima”.

Nel film c’è anche un’altra frase pronunciata dall’Uomo Da Un Altro Posto mentre regge l’anello della Loggia: “Con questo anello ti sposo”. Esaminando queste frasi criptiche e apparentemente sconnesse l’una dall’altra par di capire che l’oggetto di questa discussione sia il rapporto tra il mondo spirituale da cui provengono queste entità e quello materiale; inoltre, l’Uomo Da Un Altro Posto sembra fare riferimento a una concezione ciclica del tempo, per cui il flusso temporale non procederebbe in linea retta, ma si avvolgerebbe su se stesso, tornando sempre al punto di partenza. Sempre nel film si sente Jeffries urlare: “No, non fatemi sparire adesso! So di aver scoperto qualcosa!”. La frase non sembra pronunciata dall’agente durante il suo colloquio con Gordon Cole, ma pare gridata da Jeffries al momento del suo rapimento originario da parte degli abitanti della Loggia – un’interpretazione suggerita anche dal fatto che Jeffries nomina l’anello – che, lo ricordiamo, ha fatto sparire pure Desmond. Poi, nello script, l’Uomo Da Un Altro Posto dice “Fuoco cammina con me!”, e intravediamo la Loggia Nera. L’Uomo Da Un Altro Posto e BOB sembrano trascinarsi attraverso una delle tende rosse. Il secondo boscaiolo dice: “Quindi il tempo va avanti”. Nel film al posto di questa sequenza viene inquadrata una bocca che pronuncia la parola “elettricità”; nei credits questo personaggio, evidentemente un’altra entità metafisica della Loggia, viene indicato come l’“elettricista”. Il riferimento al legame che queste creature intrattengono con l’elettricità è qui molto chiaro. C’è poi un altro particolare, presente solo nel film: il nipote della signora Tremond, Pierre, indossa a un certo punto una maschera, spostando la quale il bambino rivela il volto di una scimmia. Non sapremo mai che cosa volessero dire Lynch e Engels con la maschera e la scimmia. Certo è che a Lynch le maschere

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piacciono, e che in Fuoco Cammina Con Me esse rappresentano probabilmente gli esseri umani. Basti pensare alla sequenza in cui i Tremond si presentano a Laura Palmer e Pierre, che indossa una maschera, le dice che l’uomo che si nasconde dietro la maschera sta cercando il suo diario. Sappiamo che a dare la caccia al diario di Laura è BOB, e se lui è l’uomo a cui si riferisce Pierre, è ovvio che la maschera è in realtà il corpo fisico che l’entità occupa. Questa ipotesi è confermata da un fatto: verso la fine del film, BOB costringe Leland a uccidere sua figlia, e poi si reca nella Loggia Nera. In quel momento possiamo vedere per un istante Leland con il volto dipinto – come se fosse una maschera – che lancia un urlo straziante: consapevole di essere stata costretta a commettere un delitto infame, la maschera umana urla tutta la sua disperazione. L’incontro tra gli abitanti della Loggia Nera dura diverse ore, durante le quali le entità metafisiche se ne rimangono perlopiù sedute in silenzio, quasi a testimoniare l’alienità e l’opacità dei loro processi di pensiero e del loro modo di relazionarsi l’uno con l’altro. A questo proposito Jeffries commenta con un laconico “e così loro stavano là”. Prima di sparire dall’ufficio dell’FBI, Jeffries fa in tempo ad osservare il calendario e ad accorgersi che indica il maggio del 1989, un fatto che lo lascia di stucco, probabilmente perché in realtà l’agente si trovava a Buenos Aires non pochi minuti prima, ma in un periodo del tutto diverso. Inoltre, subito dopo essere scomparso – il film ci fa vedere anche i pali e i fili della luce, mentre lo script specifica che l’interfono di Cole impazzisce, iniziando ad emettere un forte rumore di elettricità statica –, Jeffries si ritrova a Buenos Aires, nel corridoio dell’hotel. Il muro dietro di lui è annerito e fumante, un’inserviente urla di paura e lo guarda come se fosse il diavolo, e il facchino, dopo essere scappato, torna da lui, dicendogli di essersela fatta addosso.

5. L’enigma di Judy A questo punto facciamo una piccola digressione, e rispondiamo a una domanda che tutti i fan si sono posti: chi è Judy? È possibile dedurre la sua identità a partire da ciò che sappiamo della serie? La risposta è sì, ma c’è un problema. Come abbiamo detto, Lynch ed Engels progettavano di realizzare una serie di film ambientati nell’universo di Twin Peaks, e i due si proponevano di introdurre questo personaggio in un film successivo; tuttavia, come sanno coloro che hanno una certa familiarità con la stesura di una sceneggiatura, il processo in questione è lungo e complesso, e lo

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script finale può arrivare ad essere molto diverso da quello che avevano in mente gli autori all’inizio. Questo vale anche Per Fuoco Cammina Con Me. Per cui la risposta è: l’identità di Judy dipende da quale stesura dello script prendiamo in considerazione. In una delle versioni dello script Judy sembra essere la ragazza che ha lasciato un biglietto per Jeffries nell’hotel di Buenos Aires. Jeffries dice inoltre che: “Anche sua sorella è là. O almeno parte di lei”. In un’intervista Engles chiarisce che a un certo punto lui e Lynch pensarono che Judy fossa la sorella di Josie Packard, la quale, come abbiamo visto, morì solo in parte, rimanendo intrappolata nel legno del Great Northern. In quella fase della stesura dello script Engels pensava di far accadere parte del film a Buenos Aires, e di sistemare in quel luogo Judy, Josie e pure Windom Earle. In una versione successiva ogni riferimento a una presunta sorella di Judy viene cancellato, e Jeffries dice anche di aver “trovato qualcosa nell’appartamento di Judy a Seattle”. La città si trova nello stato di Washington, proprio come Twin Peaks e Deer Meadow – dove sono vissute e morte Laura Palmer e Teresa Banks –, e noi sappiamo che quell’area è il terreno di caccia favorito degli abitanti della Loggia Nera. Sembra di capire insomma che Jeffries, mentre si trovava nell’appartamento di Judy, abbia messo le mani sull’anello della Loggia – il “qualcosa” di cui parla – e sia stato rapito dalle nostre entità demoniache. Tale avvenimento si inserirebbe dunque in un ciclo piuttosto regolare: una ragazza disperata – Judy, Teresa, Laura, – viene presa di mira dalla Loggia Nera, un agente dell’FBI – Jeffries, Desmond, Cooper – interviene, ma finisce con l’essere rapito. Originariamente, lavorando a Fuoco Cammina Con Me, Lynch ed Engels si inventarono una complessa mitologia filmica in cui si doveva inserire anche Judy; tuttavia si resero conto che la trama si stava facendo troppo pesante per un solo film, e decisero, in sede di montaggio, di rimuovere ogni riferimento a Judy. Non ci riuscirono del tutto, però: non c’era infatti modo di tagliare via dalla scena nel quartiere dell’FBI la frase di Jeffries, per cui ce la lasciarono – tra l’altro questo elemento fa sembrare Jeffries ancora più disturbato e distaccato dalla realtà.

6. “Il mondo è un ologramma, Albert” Dopo gli eventi di Philadelphia, Cooper viene inviato a indagare sulla scomparsa di Chet Desmond, e si reca al Fat Trout Trailer Park, chiedendo ulteriori dettagli a un seccatissimo Carl Rodd. L’agente ha una strana sensazione, e si reca anche a dare un’occhiata a una piazzola per roulotte al momento non occupata e vicino alla quale c’è un mucchietto di terra – si

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tratta del luogo dove Desmond è scomparso. Rodd gli dice che lì abitava una vecchia, la signora Chalfont, con il giovane nipote, e che stranamente anche gli occupanti precedenti avevano lo stesso cognome. Si tratta ovviamente della signora Tremond e di suo nipote Pierre, che si trovavano lì per perseguire la propria agenda oltremondana. Cooper si avvicina all’auto di Desmond e vede che sul parabrezza c’è una scritta: “Let’s Rock” – “Forza, balliamo” –, la stessa frase che l’Uomo Da Un Altro Posto gli dice in sogno nella prima stagione di Twin Peaks. Si tratta di una firma, insomma, che spinge Cooper a concludere che l’omicidio di Teresa Banks e la sparizione di Chet Desmond sono entrambi legati ai casi “rosa azzurra” di Cole, e che l’assassino colpirà di nuovo. Un anno dopo l’azione si sposta a Twin Peaks. Qui possiamo seguire la vita quotidiana di Laura Palmer, fatta di molti amanti, cocaina, orge sadomasochiste e altre amenità. Della ragazza oramai sappiamo tutto, sia grazie alla serie tv sia grazie al suo diario. Sappiamo che BOB la tormenta da quando era bambina, che vuole possederla, che possiede già suo padre – il quale a sua volta abusa sessualmente di lei – e così via. C’è solo una scena che si svolge ancora a Philadelphia, ed è quella in cui Cooper e Albert stanno parlando della prossima vittima del killer di Deer Meadow e il primo individua telepaticamente Laura Palmer proprio mentre la ragazza sta uscendo dal Double R Diner. Nello script c’è anche un’altra sequenza, filosoficamente molto interessante. Albert e Cooper stanno parlando di una delle tecniche usate comunemente da Cole, cioè la libera associazione, che consiste nel dire ai suoi colleghi e subalterni delle parole relative a un caso su cui sta lavorando e nel chiedere loro di rispondere con la prima cosa che gli viene in mente. Ad Albert, che esprime tutti i suoi dubbi con il suo solito sarcasmo, Cooper risponde: “Il fatto stesso che stiamo parlando di associazione di parole significa che ci troviamo in uno spazio che ci è stato aperto da questa pratica. Il mondo è un ologramma, Albert”. Come al solito Lynch butta lì una frase apparentemente a caso, quasi a scopo folcloristico, e come al solito la medesima nasconde significati profondi e utilissimi per capire il senso generale dell’opera lynchana. In particolare questo passaggio si riferisce alle teorie olografiche di Karl Pribram e David Bohm, che al momento attuale continuano a essere accolte da una parte della comunità scientifica con un certo scetticismo – ma ovviamente non potevano mancare di affascinare Lynch. Neurofisiologo della Stanford University, Pribram arriva alla concezione olografica del cervello a partire dalla memoria; all’epoca – siamo a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta – si ritiene che i ricordi siano immagazzinati in aree specifiche del sistema nervoso centrale. Esperimenti effettuati da Pribram

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con il suo maestro Karl Lashley rivelano che, anche asportando grosse porzioni di cervello da alcune cavie di laboratorio, la loro memoria non viene danneggiata, segno del fatto che si deve trattare di un fenomeno per così dire “diffuso” in tutto l’organo. Grazie ai topi e anche a dati clinici relativi a persone che hanno perso porzioni più o meno estese di tessuto cerebrale, Pribram giunge alla conclusione che il cervello umano funzioni proprio come un ologramma. Per capire questa teoria è necessario avere un’idea di come funzionino gli ologrammi veri e propri. Prendiamo un raggio di luce laser, dividiamolo in due raggi separati, facciamo rimbalzare il primo su un oggetto che vogliamo fotografare e poi facciamolo collidere con il secondo. L’interferenza prodotta da tale scontro può essere immortalata su speciali pellicole. Se illuminate da un apposito raggio laser, le immagini fotografiche prodotte tramite questo processo sembrano possedere tre dimensioni, e a volte risultano essere veramente molto realistiche. Ma questa non è l’unica proprietà degli ologrammi: se infatti tagliamo in due una di queste pellicole e la illuminiamo con il nostro laser, essa ci darà comunque l’immagine completa. In altre parole la sua struttura è tale che, in un certo qual modo, ogni parte dell’immagine contiene la sua totalità. Con una semplice tecnica fotografica siamo riusciti a riprodurre o imitare una delle caratteristiche che i mistici di tutte le epoche attribuivano a Dio o al Cosmo, cioè quella di essere presente per intero in ogni sua singola parte. Per Pribram il cervello funziona proprio come una macchina olografica, e ciò non vale solo per la memoria, ma anche per la percezione. La nostra realtà quotidiana sarebbe dunque un prodotto di tale macchina, e perciò si qualificherebbe in buona parte come illusoria o “derivata”. Noto fisico quantistico, anche David Bohm giunge a conclusioni analoghe a quelle di Pribram, associandole però non al cervello umano, ma all’intero universo. Il cosmo sarebbe dunque un ologramma, e al di sotto della realtà fisica – fatta di oggetti macroscopici e di particelle apparentemente separate – ci sarebbe una realtà unitaria, da lui battezzata “ordine implicato”. Poiché gli ologrammi sono entità statiche, mentre l’universo è una realtà dinamica, Bohm conia per esso un neologismo: “olomovimento”. Tutti gli oggetti del cosmo, noi inclusi, sarebbero dunque il prodotto di questa enorme macchina olografica che è l’ordine implicato; invece che di oggetti individuali, Bohm preferisce parlare di “subtotalità relativamente indipendenti”.5

5

M. Talbot, Tutto è uno – L’ipotesi della scienza olografica, Urra, Milano 1997.

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7. L’uomo con la maschera e la garmonbozia Torniamo a Twin Peaks, e riprendiamo in mano la scena del Double R Diner citata poco fa. Laura lavora lì, e si occupa di consegnare i pasti a domicilio. Le si parano davanti i Tremond. La signora Tremond le offre un quadro, dicendole: “starebbe carino sul tuo muro”. Pierre Tremond invece le dice: “l’uomo con la maschera sta cercando il libro dalle pagine strappate. Si sta dirigendo verso il nascondiglio. Ora si trova sotto il ventilatore”. Nello script si precisa che i Tremond se ne vanno camminando con un passo normale, e quando li vediamo di nuovo sembrano essere arrivati molto più lontano di quanto sarebbe realistico pensare – oltre che lo spazio e il tempo, per queste entità anche la prospettiva sembra essere qualcosa di fluido. Laura corre a casa e, non vista, vede suo padre. La ragazza inizia allora a intuire chi sia BOB, o meglio quale sia la sua identità terrena. Successivamente, dopo cena, Laura va a letto, ma prima di coricarsi appende alla parete il quadro datole dalla signora Termond. L’oggetto è in realtà un portale che, tramite i sogni, conduce direttamente nella Loggia Nera. Laura allora vi entra e vede l’agente Cooper, lì prigioniero, che parla con l’Uomo Da Un Altro Posto. L’entità chiede a Cooper: “sai chi sono?” e a una risposta negativa gli dice: “sono il braccio e suono così”, ed emette l’ululato di cui abbiamo parlato. L’Uomo Da Un Altro Posto porge a Laura l’anello, ma Cooper le dice di non accettarlo. Non è chiaro perché lo faccia ma, visto che indossare l’anello impedirà a BOB di possederla e lo spingerà ad ucciderla, è probabile che Cooper voglia salvarle la vita cambiando il passato. Laura sembra risvegliarsi e vede nel proprio letto Annie Balckburn; la donna, coperta di sangue, gli dice che “il Dale buono è nella Loggia e non può uscire”. La scena viene ripresa alla fine dello script, in cui vediamo Annie Balckburn nella medesima posizione in un letto d’ospedale, subito dopo essere uscita dalla Loggia Nera. La donna indossa un anello, che la rende parte della Loggia Nera, e mente giace nel letto mormora la medesima frase che udiamo nel sogno di Laura, frase che giunge a quest’ultima proprio a causa delle peculiari proprietà spazio-temporali di quel reame.6 Laura vede l’anello nella propria mano, ma quando si risveglia per davvero l’oggetto è scomparso. La sera successiva Laura si reca nel locale dove di prostituisce, il Bang Bang Bar, ma Donna la segue e, contro la volontà dell’amica, decide di par6

Per completezza aggiungiamo che, alla fine dello script, un’infermiera sottrae ad Annie l’anello e lo indossa, ridacchiando egoisticamente, ma forse salvando la donna.

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tecipare all’incontro sessuale in programma; quando la situazione si fa più bollente – con Donna che si avvolge la maglia dell’amica attorno alla vita, e inizia a fare sesso con uno dei due “clienti” –, Laura si arrabbia molto e obbliga l’amica a rivestirsi e a tornare a casa. Le intima inoltre più volte di non prendere mai più le sue cose – vestiti, accessori e così via. Torna qui il tema del “mana” che abbiamo affrontato nel primo capitolo: la mentalità di Twin Peaks è di tipo magico, e gli oggetti portano con sé le “intenzioni” dei propri possessori. In pratica Laura teme che i propri atteggiamenti autodistruttivi passino attraverso i suoi oggetti anche all’amica. Notiamo un fenomeno analogo anche nella serie, quando Donna inizia a comportarsi da femme fatale proprio dopo aver iniziato a usare gli occhiali da sole di Laura, e lo stesso capita a Maddy Ferguson. Il giorno stesso Laura si trova in auto con suo padre e, aprofittando di un ingorgo stradale, Mike si avvicina ai due a bordo di un furgone e urla una serie di frasi confuse che mirano ad avvertire Laura della vera natura di suo padre. Mike fa anche un’oscuro riferimento a del “grano” che gli sarebbe stato sottratto – è la garmonbozia – e mostra a Laura l’anello. Immancabili poi, in questa scena che vede l’incontro di due entità metafisiche, i cani che abbaiano furiosamente. Durante la notte BOB va a visitare Laura in sogno, e lei finalmente si rende conto che l’entità possiede suo padre. La ragazza si accorge inoltre che l’angelo che si trovava su un quadro in camera sua è scomparso. Gli eventi precipitano: Laura partecipa a un’orgia sadomasochista con Ronette, Leo e Jacques, BOB arriva, stende uno dei due uomini e fa fuggire l’altro; l’entità porta le ragazze in un vagone ferroviario per possederle o ucciderle. Ronette viene salvata da un angelo custode, che la protegge, mentre Laura indossa l’anello della Loggia che le era stato gettato tempestivamente da Mike. BOB allora uccide Laura, dopodiché si reca al circolo di sicomori ed entra nella Loggia Nera. Lì l’entità si piazza di fronte a Mike e all’Uomo Da Un Altro Posto; quest’ultimo tocca al primo la spalla corrispondente al braccio tagliato, e i due parlano all’unisono, come un’entità unica che ha ritrovato la propria integrità: “BOB, voglio tutta la mia garmonbozia”. I traduttori italiani hanno optato per il termine “garmonbonzia”, ma noi preferiamo ricorrere – per ragioni estetiche – alla dicitura originale, “garmonbozia”. Comunque la si voglia scrivere, la garmonbozia sembra essere per gli abitanti della Loggia una forma di cibo, di droga o di moneta di scambio; attorno ad essa ruotano tutte le attività che vediamo compiere loro nella serie. Lynch ci fa sapere che il termine significa “dolore e dispiacere”, e rappresenta quindi il modo in cui queste entità di livello superiore visualizzano o percepiscono le emozioni in questione. In

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questa scena vediamo Leland Palmer in stato di incoscienza levitare nella sala d’aspetto della Loggia Nera, con una ferita allo stomaco – che forse rappresenta tutto il dolore sofferto dal “vascello” per essere stato costretto a uccidere la figlia. Dopo la richiesta di Mike, BOB passa la mano sulla ferita in questione e la guarisce, rimuovendo il dolore e scagliandolo sul pavimento della Loggia sotto forma di sangue. Il liquido viene poi assorbito e si trasforma in crema di mais, che l’Uomo Da Un Altro Posto mangia con un cucchiaio. Compare inoltre per una seconda volta la scimmia, e se alzate il volume a sufficienza la sentirete pronunciare il nome di Judy. Che gli abitanti della Loggia si nutrano di sofferenza e la convertano liberamente in sangue, mais e così via, ci spinge ad azzardare un altro paragone, e cioè quello tra garmonbozia e memi. A coniare il termine “meme” è stato il noto studioso britannico Richard Dawkins.7 La sua ipotesi è la seguente: proprio come i geni, che sono le unità base della vita e che si auto-propagano attraverso gli organismi da loro creati, così anche il mondo della cultura, delle lingue, delle idee, delle filosofie e dei luoghi comuni è suddivisibile in unità analoghe. A queste unità Dawkins attribuisce il nome di “meme”. La cultura, nella sua più vasta accezione, è composta da un numero spropositato di memi, che si diffondono, sopravvivono, mutano e si trasformano secondo le medesime regole da cui dipende l’evoluzione. Lo studioso applica le sue conoscenze e i suoi modelli nell’ambito della biologia evoluzionistica allo studio dello sviluppo della cultura, delle lingue e delle idee in generale, creando così una nuova disciplina, la memetica. Dato l’analogo livello di astrazione su cui si muovono i memi e la garmonbozia, potremmo provare – a mo’ di divertissement – a stabilire una connessione tra i due, dicendo appunto che gli abitanti della Loggia maneggiano memi/garmonbozia come se fossero oggetti concreti, per cui per essi la distinzione metafisica/linguistica tra livello simbolico e livello concreto, cioè, se vogliamo, tra le parole e le cose, non vale, e le due realtà sono intercambiabili. Dopo la propria uccisione, Laura si trova nella sala d’aspetto assieme a Cooper; l’angelo che era scomparso si presenta lì e la conduce in paradiso – simboleggiato dalla fortissima luce bianca tipica dei film di Lynch. Da notare che, in tante opere surreali e metafisiche, questa è la prima volta che il regista ricorre alla simbologia ebraico-cristiana. Lo script si conclude in modo diverso. Nella Loggia Nera il vero Cooper parla con l’Uomo Da Un Altro Posto: 7

R. Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano 1994.

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Cooper: “Dov’è l’anello?” Uomo Da Un Altro Posto: “Ora ce l’ha qualcun’altro”. Cooper: “Questo significa che siamo nel futuro”. Uomo Da Un Altro Posto: “Gli ultimi eventi non sono mai stati tenuti segreti”. Cooper: “Dove sono? Come posso andarmene?” Uomo Da Un Altro Posto: “Tu sei qui e non c’è alcun posto in cui andare… [urlando] tranne che a casa!”

Nel frattempo il falso Cooper, poco dopo aver spaccato il vetro del bagno, esce dicendo ad Hayward e Truman di essere scivolato, dopodiché i due lo riportano a letto. Poi c’è la scena di Annie all’ospedale, e infine torniamo nella Loggia Nera, e vediamo Laura seduta in braccio a Cooper – un finale molto meno lieto di quello del film, dunque.

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VI C’È DEL METODO IN QUESTA FOLLIA

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1. Un puzzle in corso d’opera Dopo aver esplorato a fondo l’universo di Twin Peaks, è giunto il momento di vedere se le conoscenze filosofiche ed esoteriche che abbiamo accumulato strada facendo possono aiutarci a capire meglio i film che David Lynch ha girato dopo Fuoco Cammina Con Me, e in particolare il trittico composto da Lost Highway, Mulholland Drive e Inland Empire. Si tratta di tre opere in cui il regista sembra perseguire un crescente livello di stranezza, un progressivo distacco dal senso comune, che lascia gli spettatori occasionali in preda alla confusione. Per chiarire il nostro punto di vista dobbiamo però ampliare la nostra prospettiva, e promuovere l’idea seguente. A nostro parere Twin Peaks e Fuoco Cammina Con Me non sono opere autonome, ma si inseriscono in un progetto narrativo di più vasto respiro, che coinvolge quasi tutta l’opera lynchana e che va da Eraserhead fino a Inland Empire – con poche, notevoli eccezioni, come ad esempio Una storia vera. Questa linea interpretativa – alla quale abbiamo già accennato in precedenza – vede nei film lynchani un progressivo addentrarsi dell’autore in un livello metafisico superiore – l’Aldilà, forse –, che deve essere giocoforza rappresentato secondo modalità sempre più surreali, onde non cadere nel banale e nel ridicolo. Si tratta dunque di una sorta di puzzle mistico-metafisico in corso d’opera, al quale Lynch sembra aggiungere di volta in volta un nuovo tassello. Diversi sono i critici che leggono Lynch – o almeno buona parte delle sue opere – in questo modo; ad esempio è di questo avviso il romanziere americano Mark Allyn Stewart.1 Per cominciare poniamoci una domanda: ci sono nei film succitati entità metafisiche che posseggono caratteristiche analoghe a quelle di Twin Peaks, al punto che non sfigurerebbero affatto sedute sulle poltrone della Loggia Nera? Ma certo che ci sono. Lost Highway ne ha una veramente paurosa, 1

Allyn Stewart, Mark, David Lynch Decoded, AuthorHouse, Bloomington 2007.

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l’Uomo del Mistero, un’entità interpretata da un irriconoscibile Robert Blake – che qualcuno forse ricorderà nei panni del detective italo-americano Baretta. Mulholland Drive ne ha due, forse tre, che agiscono nel mondo materiale, più un gruppo di esse che risiede in un luogo che è impossibile non paragonare alla Loggia Nera, cioè il Club Silencio. Le prime tre sono il Vagabondo – un’entità paurosa, che appare a uno dei personaggi secondari –, il Cowboy – che ha una propria agenda, compare all’improvviso, producendo energia elettrica, e altrettanto rapidamente scompare – e forse zia Ruth. Non è chiaro quale sia il ruolo di quest’ultima, ma da alcuni indizi ci sembra di capire che la donna potrebbe essere morta e che nel film vediamo solo il suo fantasma. Infine in Inland Empire ne abbiamo parecchie: ci sono il Fantasma, i tre conigli antropomorfi, la Ragazza Perduta, le Amiche e così via. Cominciamo allora con Lost Highway.

2. Modulare la frequenza del mondo: Lost Highway Realizzato nel 1997, Lost Highway è stato diretto da David Lynch, ma la sceneggiatura è stata scritta da Lynch e da Barry Gifford. Gifford è uno scrittore americano che in precedenza ha scritto un romanzo dal quale Lynch ha tratto un film, ossia Cuore Selvaggio.2 Per quanto riguarda invece Lost Highway, Lynch e Gifford iniziano a lavorarci su subito dopo il completamento di Fuoco Cammina Con Me, e tra i due film ci sono in effetti diversi elementi in comune – in Rete gira anche una voce secondo cui Twin Peaks e Lost Highway sarebbero ambientati nel medesimo universo narrativo, ma per quanto ci riguarda non siamo riusciti a trovare prove che avvalorino questa tesi. In sintesi, Lost Highway racconta la storia di un sassofonista, Fred Madison (Bill Pullman), il quale viene accusato di aver ucciso la bella moglie (Patricia Arquette) in circostanze piuttosto inconsuete. Tutto comincia con il musicista che, al mattino presto, risponde a una chiamata al citofono, e sente una voce roca a lui sconosciuta che gli dice: “Dick Laurent è morto”.3 2

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Anche in quest’opera troviamo un paio di entità metafisiche – ispirate al Mago di Oz – che se ne rimangono sullo sfondo e tirano le fila della vicenda. Una curiosità: Lynch realizzò Cuore Selvaggio subito dopo aver terminato l’episodio pilota di Twin Peaks e, avendo notato le capacità di Sheryl Lee e di Sherylin Fenn, offrì a entrambe le attrici una parte nel film. Lynch dice che si tratta di un episodio reale, che gli è capitato a casa sua – e tra l’altro il regista ha deciso di arredare l’abitazione di Madison in modo che assomigliasse alla propria.

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Contemporaneamente Madison sente anche le sirene della polizia in lontananza ma, quando si affaccia alla finestra, non vede nulla, e le strade sembrano deserte. Madison è geloso, e sospetta che la moglie Renee lo tradisca – al punto che, durante una delle sue serate al night club dove lavora, l’uomo telefona a casa propria per vedere se la donna è in casa, ma nessuno risponde al telefono. Il giorno dopo i due ricevono a casa un pacco, all’interno del quale c’è una videocassetta che mostra l’esterno della loro abitazione. Lì vicino si sentono i latrati di alcuni cani, e ciò è senz’altro un segno che qualcosa di pauroso sta per accadere. Fred fa poi un sogno: si trova in casa propria e sua moglie lo sta chiamando, ma lui non riesce a trovarla. Poi la trova, però gli pare che Renee non sia più lei, bensì un sosia. Infine gli pare di risvegliarsi nel proprio letto, ma quando guarda sua moglie gli sembra di vedere il volto dell’entità soprannaturale che conosceremo tra poco. Notiamo inoltre che, durante la sequenza del sogno, Renee viene inquadrata sul letto mentre alza le mani per difendersi da un aggressore – sembra un presagio di ciò che Fred sta per fare. Proprio come Leland Palmer, sua figlia Laura e Dale Cooper, anche Fred viene inizialmente avvicinato dai nostri esseri metafisici in sogno. Un fuoco intensissimo sta bruciando nel caminetto, e inoltre in giro per la casa le tende rosse non mancano; solo un caso, o un vezzo estetico di Lynch? Noi crediamo di no. Assieme alle tende, il fumo contribuisce poi a dare l’impressione che nella casa e nella mente di Fred stia accandendo qualcosa, che ci sia stata un’intrusione dall’altro mondo. Passano i giorni, e arrivano altre videocassette, che mostrano l’interno della casa dei Madison e addirittura alcune riprese di loro due mentre dormono. Non resta che chiamare la polizia, che invia due detective a indagare sull’accaduto. Quella sera Fred e Renee si recano a una festa organizzata da Andy, un amico della donna. Si tratta di un personaggio piuttosto losco, forse connesso al mondo della prostituzione o della pornografia; anzi, tutto lascia intendere che il lavoro che Andy procurò anni prima a Renee fosse proprio di quel tipo. Ad ogni modo, a Fred, l’amico della moglie non piace. Nel corso della festa facciamo finalmente conoscenza con l’inquietante Uomo del Mistero. Parlando di questo personaggio, Lynch ha dichiarato che il suo obiettivo era quello di dare al pubblico l’impressione di essere in presenza di un’entità soprannaturale. In più, confermando il proprio amore per gli enigmi, il regista definisce questa entità “un capello di un’astrazione”. Al contrario Gifford descrive l’Uomo del Mistero come un prodotto dell’immaginazione di Fred e il primo segno della sua imminente follia. Il film infatti è giocato tutto sul rapporto tra follia e sanità mentale. Mentre Gifford interpreta le vicende del protagonista come un

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esempio di “fuga psicogenica” – cioè, dopo aver commesso un delitto orribile, Madison si sarebbe creato un’identità illusoria –, Lynch sostiene che questa teoria non basta a spiegare la trama del film. Noi ci sentiamo di concordare con lui, anche perché, in un’intervista, il regista ha avuto modo di definire Lost Highway come “un noir-horror per il XXI secolo”, lasciando così intendere che l’elemento soprannaturale e orrorifico avrebbe un ruolo preponderante nell’economia del film. Eccoci dunque di nuovo alla prese con il nostro Uomo del Mistero. L’entità si avvicina a Fred e, nel momento in cui lo fa, i due si ritrovano immersi in una bolla di silenzio che attutisce i suoni della festa. L’Uomo del Mistero gli fa capire di essere lui l’autore dei videotape che Fred ha ricevuto, e gli dice anche che in quello stesso momento si trova a casa sua; il musicista ovviamente non gli crede. L’Uomo del Mistero allora gli dà il cellulare, dicendogli di comporre il proprio numero di casa: con vivo terrore Fred capisce che, all’altro capo del telefono, c’è proprio l’enigmatica entità, dunque presente in due posti diversi allo stesso tempo. Questa capacità, assieme alla padronanza degli strumenti elettronici che questo personaggio mostrerà, ci fanno capire che siamo proprio in presenza di una delle entità metafisiche tanto care a Lynch. Data l’ostilità e le rimostranze di Fred, l’Uomo del Mistero gli risponde che non è sua abitudine andare dove non è stato invitato. Proprio come BOB con Leland Palmer. Questa potrebbe essere in sostanza un’indicazione del fatto che l’Uomo del Mistero “abita” Fred. L’entità si allontana, Fred abbandona la festa assieme a Renee, alla quale chiede chi sia l’uomo che lui ha appena incontrato. La donna gli risponde di non conoscere l’Uomo del Mistero, ma che si tratta di un amico di Dick Laurent, un milionario che lei conosce superficialmente; inoltre, contrariamente a quello che le dice Fred, Renee nega che Dick Laurent sia morto. Durante la notte, Fred si aggira per la casa, che sta assumendo un aspetto molto inquietante e ben poco accogliente; l’uomo entra ed esce dal buio – un dettaglio che Lynch ha sempre amato molto – e, dulcis in fundo, vede la propria immagine. Semplice riflesso allo specchio o doppelgänger? Il mattino dopo Fred si alza, trova un’altra videocassetta e la guarda da solo: con orrore si accorge che mostra la scena di lui stesso che uccide la moglie; in un lampo la scena diventa realtà, e lui viene arrestato, sebbene non riesca minimamente a ricordare l’accaduto. Con altrettanta rapidità viene processato, condannato alla sedie elettrica e rinchiuso nel braccio della morte. In carcere Fred inizia a essere tormentato da frequenti mal di testa; in seguito ha una visione dell’Uomo del Mistero che esce da una baracca che brucia senza consumarsi, e di un altro individuo che sta percorrendo una strada oscura. Il musicista si trasforma, e diventa il giovane

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Pete Dayton, cioè proprio l’uomo visto di sfuggita da Fred nella sua visione. Incapaci di spiegare che cosa sia successo, le autorità carcerarie non possono far altro che rilasciare Pete, e restituirlo alla sua famiglia e alla sua fidanzata, non prima però di averlo messo a sua insaputa sotto sorveglianza – incaricando due agenti in borghese di seguirlo. La domanda che ora tutti si pongono è: cosa è successo nella cella di Fred? Possiamo darvi due risposte. Se seguiamo la versione di Gifford, dobbiamo dire che, tra sensi di colpa per l’omicidio della moglie, mal di testa e allucinazioni, Fred è impazzito definitivamente e si è inventato una nuova identità. A dire il vero, così le cose non funzionano molto bene. Se accettiamo questa ipotesi dovremo per forza dire che tutta la seconda parte del film è solo un’allucinazione iper-realistica di Fred, il che non ci pare. Se seguiamo invece la traccia soprannaturale lasciataci da Lynch, e decidiamo che l’Uomo del Mistero è un’entità metafisica, una sorta di Arconte che si trova a un livello di realtà superiore ed esterno al nostro, allora possiamo azzardare un’altra interpretazione. L’Uomo del Mistero si gingilla con il tempo: se ripensiamo al suo incontro con Fred alla festa di Andy noteremo che il telefono viene fatto squillare due volte, e quando la stessa sera Fred rincasa, il suo telefono suona appunto due volte – Lynch sembra suggerirci che si tratta della medesima telefonata, la quale avrebbe instaurato un collegamento non solo tra due luoghi differenti, ma anche tra due diversi punti nel tempo. In un certo senso possiamo dire che l’Uomo del Mistero è in grado di essere contemporaneamente “presente” in diversi momenti del passato, del presente e del futuro come li esperiamo noi esseri umani. Una creatura quadridimensionale, insomma – Lynch e Frost accennano a un’ipotesi analoga proprio nella seconda stagione di Twin Peaks, dove Cooper dice a Truman che il calendario situato nella Grotta dei Gufi indica dei punti precisi nel tempo. Se vi è più facile, potete immaginare le esistenze umane come linee o segmenti che si estendono nel tempo: l’inizio del segmento è la nascita e la sua fine coincide con la morte. In pratica, dati i suoi poteri inimmaginabili, l’Uomo del Mistero potrebbe aver prelevato dal mondo umano una “linea di vita” specifica – cioè Pete Dayton – o potrebbe anche averla creata dal nulla; fatto ciò potrebbe aver sovrapposto tale segmento a un’altra “linea di vita”, quella di Fred Madison, consentendo così all’uomo di fuggire dal carcere, senza per altro conservare nulla della sua vera identità – a parte i mal di testa. La nostra è solo un’ipotesi, ovviamente, ma è piuttosto coerente con tutto ciò che abbiamo appreso fino ad ora, dalla concezione olografica dell’universo citata da Lynch alle entità metafisiche della Loggia Nera. A questo proposito vi ricordiamo come la baracca fiammeggiante

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da cui esce l’Uomo del Mistero nella visione di Fred ci sembri a tutti gli effetti un luogo soprannaturale, e certo non adatto ad essere abitato – nella sequenza finale di Lost Highway ci entreremo, e vedremo così quanto essa ci ricordi la sala d’aspetto della Loggia Nera, insomma un luogo posto al confine tra questo e l’altro mondo. Vogliamo inoltre proporvi un’altra lettura. Se ci fate caso, noterete che nel film ci sono parecchi riferimenti alla tecnologia audio-televisiva: le video-cassette non mancano, le telecamere nemmeno, l’Uomo del Mistero interviene sulla realtà maneggiando telefoni cellulari, video-camere e tv portatili. È possibile che, da un punto di vista metafisico – e anche metaforico –, l’entità sia in grado di manipolare la realtà un po’ come si fa con un televisore, cambiando cioè la “frequenza” del mondo a proprio piacimento. A questo proposito è interessante anche l’ostilità nei confronti delle telecamere che Fred manifesta all’inizio del film, quando dice ai poliziotti che questi dispositivi non gli piacciono perché preferisce ricordare le cose a modo suo, e non per forza come sono avvenute. Tornato alla sua vita di sempre, Pete Dayton riprende a lavorare come meccanico e ad uscire con la sua ragazza. Il giovane non riesce però a ricordare nulla di ciò che gli è capitato durante la sua sparizione e prima del suo risveglio in carcere; inoltre i suoi genitori si rifiutano di dirgli che cosa sia successo la sera in cui è scomparso. Come pubblico, noi vediamo solo una scena, ambientata fuori dalla casa di Pete, in cui suo padre, sua madre e la sua ragazza lo chiamano con insistenza; i genitori fanno solo un vago accenno al fatto che, quella sera lì, il figlio si è presentato a casa assieme all’Uomo del Mistero. All’officina presso cui Pete lavora arriva un gangster che lo conosce bene, Mr. Eddy, per fargli sistemare la sua Mercedes. I due poliziotti che stanno seguendo Pete lo notano, e uno di loro dice di conoscerlo con una altro nome: Dick Laurent. Il boss ha una fidanzata bellissima, Alice, che è identica a Renee – a parte il colore dei capelli, bionda la prima, bruna la seconda. Alice e Pete diventano amanti, e iniziano a incontrarsi in motel di quart’ordine. La donna si accorge che Mr. Eddy sospetta qualcosa, e convince Pete a mettere in atto un piano criminoso: derubare un amico di lei, l’Andy che abbiamo conosciuto poco fa, e fuggire dalla città. Nel frattempo Pete riceve velate minacce telefoniche da Mr. Eddy, accanto al quale vediamo sedere l’Uomo del Mistero. Il giovane si reca a casa di Andy, dove trova Alice già lì ad aspettarlo; poi uccide accidentalmente il padrone di casa e i due lo derubano. Per caso Pete trova un film porno dove recita proprio Alice, e vede una foto di gruppo di Mr. Eddy, Andy, Alice e anche Renee – che evidentemente in passato

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aveva fatto parte pure lei del mondo del porno. Alice gli dice che loro due lavoravano assieme e si assomigliavano moltissimo; Pete le chiede quale delle due donne raffigurate nella foto lei sia, e se lei sia in realtà entrambe. Alice risponde indicando solo la ragazza bionda – e un particolare da tenere bene a mente, perché quando la polizia arriva in casa di Andy, tale foto viene inquadrata di nuovo, e possiamo vedere chiaramente che Alice è scomparsa, e che l’unica donna presente è Renee. A ciò bisogna aggiungere che, verso la fine del film, Alice scompare all’improvviso, confermando una volta di più la propria natura eterea e per così dire “secondaria” rispetto a Renee: siamo forse in presenza di un semplice doppelgänger? È un’ipotesi interessante, per di più corroborata dal fatto che, mentre Renee è moralmente ambigua, Alice presenta un comportamento più schiettamente malvagio – organizza un omicidio – e sembra quindi rappresentare l’incarnazione della parte oscura della prima. La dialettica bionda-mora è molto cara a Lynch, che l’ha già usata con Laura Palmer e Maddy Ferguson in Twin Peaks e che la userà di nuovo nel successivo Mulholland Drive. Pete e Alice fuggono nel deserto, e arrivano proprio nei pressi della baracca fiammeggiante dell’Uomo del Mistero; lì la donna gli rivela che Mr. Eddy è in realtà un grosso produttore di film porno di nome Dick Laurent e che l’ha costretta a girare i video che lui ha visto. I due fanno l’amore, dopo di che lei si alza e gli dice: “tu non mi avrai mai”. Alice entra nella baracca fiammeggiante. All’improvviso Pete si trasforma di nuovo in Fred Madison, che si alza ed entra pure lui nella baracca: lì però Alice non c’è – è scomparsa all’improvviso – e al suo posto c’è l’Uomo del Mistero; l’entità, con una telecamera in mano, gli dice che in realtà Alice è Renee, e che Alice è una bugiarda. Fred allora si reca al Lost Highway Hotel, sulle tracce di Renee/Alice, e la vede salire su un’auto e andarsene da quel luogo; a questo punto entra nell’hotel, irrompe nella stanza di Mr. Eddy – che evidentemente si trovava lì con Renee – e lo rapisce. Una volta giunto nel deserto, Fred aggredisce a pugni Mr. Eddy/Dick Laurent, e all’improvviso appare anche l’Uomo del Mistero con una tv portatile. L’entità fa vedere a Mr. Eddy che Fred sapeva della relazione tra lui e Renee; subito dopo lo uccide e sussurra qualcosa nell’orecchio di Fred. L’uomo si reca a casa propria, inseguito dalla polizia, e suona nel proprio citofono, pronunciando la fatidica frase che ha dato inizio a tutto, “Dick Laurent è morto” – è probabile che sia stato proprio l’Uomo del Mistero a dirgli di farlo, per qualche motivo. Qui siamo quindi di nuovo alle prese con una delle caratteristiche principali delle entità e delle persone connesse in qualche modo con l’aldilà, e cioè la capacità di manipolare il flusso temporale. Attraverso un appa-

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recchio elettronico, il Fred del futuro trasmette un messaggio al Fred del passato, dando così il via alla catena di eventi che lo porterà ad essere ciò che è in quel momento. Si noti anche che, nella scena iniziale, Fred sente non solo il messaggio inviatogli da se stesso, ma anche le sirene delle auto della polizia che lo inseguiranno alla fine del film. Fatto ciò l’uomo si lancia in una fuga disperata lungo la strada perduta del titolo, il suo volto si illumina, e Fred inizia un nuovo e caotico processo di trasformazione che lo porterà chissà dove. Tra le varie interpretazioni di Lost Highway ce n’è una abbastanza interessante e piuttosto mondana, e cioè quella secondo cui tutta la seconda parte del film sarebbe un’allucinazione che Fred vive nel periodo che va dalla sua incarcerazione fino alla morte sulla sedia elettrica – anzi, il volto deformato che gli vediamo addosso nella scena finale, con relativo sprigionamento di energia, sarebbe proprio il modo in cui l’uomo interpreta la scarica che lo sta uccidendo. In questo caso Lost Highway riprodurrebbe la trama di un racconto di Ambrose Bierce, An Occurrence at Owl Creek Bridge, in cui il protagonista viene impiccato, la corda si rompe e lui riesce a fuggire e a tornare dalla sua famiglia, ma solo per scoprire che tutti gli avvenimenti da lui vissuti erano illusori, e si svolgevano nei suoi ultimi istanti di vita, durante l’impiccagione. Storia complessa, non c’è che dire. Niente però, a confronto di Mulholland Drive.

3. Un universo attorcigliato: Mulholland Drive Prima di iniziare a parlare di questo film vi proponiamo un semplice gioco. Prendete un foglio di carta e ritagliatene una striscia a forma di rettangolo molto allungato. Prendete questa striscia e chiudetela su se stessa, mettendo in contatto i due lati più corti del rettangolo. Poco prima che questi lati si tocchino, torcetene uno, in modo da fargli fare un giro di centottanta gradi. Ora potete attaccarli l’uno all’altro, magari con dello scotch o della colla. Quello che avete ottenuto è un oggetto geometrico noto come “nastro di Möbius.” Esempi di nastri di Möbius se ne possono trovare fin dall’antichità, ma a studiarne per la prima volta le proprietà geometriche sono stati due matematici tedeschi dell’Ottocento, che hanno lavorato in modo indipendente l’uno dall’altro: August Ferdinand Möbius e Johann Benedict Listing. Quali sono queste proprietà, e che cos’hanno di particolare? Provate a prendere il vostro nastro – magari ve ne siete fatti uno con il cartoncino, così è più resistente – e ad appoggiarci la punta di una penna

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in una sua zona qualunque. Cominciate a tracciare una linea seguendo il percorso del lato più lungo, e scoprirete che, dopo un po’, giungerete al punto di partenza, ma sul lato opposto. Se poi riprenderete il tragitto tornerete esattamente al punto di partenza, e se misurerete la lunghezza della linea che avrete tracciato con la penna, noterete che essa ha una lunghezza doppia di quella della striscia di carta che avete preso all’inizio. Seguendo un percorso continuo siete riusciti a percorrere entrambe le facce della vostra figura geometrica, e ciò perché in realtà esse non esistono: i nastri di Möbius hanno infatti una faccia sola.4 Come mai vi stiamo raccontando tutto questo? Per il fatto che, stando a diversi critici, Mulholland Drive è proprio un nastro di Möbius. Vediamolo assieme. Uscito nel 2001, Mulholland Drive doveva essere in origine l’episodio pilota di una serie tv per la ABC – lo stesso network che ha prodotto Twin Peaks. Anzi, alcune voci non confermate dicono che la serie in questione sia stata ideata come uno spin-off di Twin Peaks, cioè una serie “derivata” dedicata a Audrey Horne e ai suoi tentativi di farsi strada nel mondo di Hollywood. Di conseguenza una porzione molto consistente del film è stata girata da Lynch con l’intenzione di lasciare diverse questione aperte, in modo che potessero essere poi approfondite nel corso dei successivi episodi – vi diciamo questo perché è senz’altro possibile che diversi elementi del film, che sembrano senza spiegazione, siano in realtà avanzi che il regista non ha voluto o potuto rimuovere, un po’ come è capitato per Fuoco Cammina Con Me. Lynch ci lavorò molto, a questa serie, stendendo alcuni archi narrativi attorno a cui voleva costruire il suo telefilm: ad esempio il mistero dell’identità di Rita, la carriera di Betty, i progetti cinematografici di Adam Kesher. Per quanto le vicende narrate in Mulholland Drive sembrino senza capo né coda, Lynch ha insistito molto sul fatto che il film “racconta una storia coerente e comprensibile”. E noi vogliamo credergli, anche se dobbiamo confessare che non ci ha reso le cose affatto facili. Una volta uscito nelle sale, il film suscita nel pubblico molte perplessità; la critica più frequente è ovviamente quella secondo cui il film sarebbe privo di una trama. Insomma, la casa di produzione di Mulholland Drive, la francese Studio Canal, inizia a perdere molti soldi, e perciò decide di fare pressioni su Lynch affinché il regista sveli qualche indizio sul significato dell’opera. Lynch se ne viene fuori allora con i suoi celebri dieci indizi, che vi diamo qui di seguito. 4

Se volete sapere tutto dei nastri di Möbius non dovete far altro che procurarvi il seguente libro: C. Pickover, Il Nastro di Möbius, Apogeo, Milano 2006.

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Non preoccupatevi se ora non vi dicono nulla, mano a mano che procedemo con la trama inizieranno ad acquisire senso.5 Tenete piuttosto a mente il fatto che Lynch li ha dati solo perché vi è stato costretto, e non perché avesse realmente l’intenzione a far capire il proprio film. Ciò vuol dire che potrebbe anche aver fatto in modo di rimescolare le carte, mettendoci su una pista sbagliata o secondaria. Ecco qui gli indizi: 1. Prestate particolare attenzione all’inizio del film: perlomeno due indizi sono rivelati prima dei credits. 2. Fate attenzione a quando compare la lampada rossa. 3. Riuscite a sentire il titolo del film per cui Adam Kesher sta cercando l’attrice principale? È menzionato di nuovo? 4. Un incidente è un avvenimento terribile...notate il luogo dell’incidente. 5. Chi dà una chiave? E perché? 6. Notate il vestito, il portacenere e la tazza. 7. Cosa si sente e accade al Club Silencio? 8. Solo il talento ha aiutato Camilla? 9. Notate le circostanze in cui compare l’uomo dietro il Winkie’s. 10. Dove si trova la zia Ruth? Torniamo ora alla nostra storia, per un primo passaggio. Tutto comincia con la rappresentazione di una gara di Jitterbug, una forma di swing particolarmente scatenato. La scena si svolge in uno scenario etereo – c’è chi lo definirebbe soprannaturale, ma non vogliamo andare così in là. A vincere la gara è una ragazza bionda, che scopriremo essere Betty Helms (Naomi Watts). Ad accompagnarla nel trionfo non c’è però il suo partner di ballo, ma una coppia di vecchietti; è stato suggerito che si tratti dei genitori di Betty, e nel progetto originario del telefilm pare che fosse così. Nel film le cose stanno in modo diverso. Dopo questa scena ci ritroviamo in una camera da letto che impareremo a conoscere bene; si ode un forte fruscio, che sembra quasi l’atto di sniffare della cocaina – non ne siamo sicuri, però. Subito dopo l’ignoto individuo si avvicina al letto con il respiro affannoso e sembra svenire su di esso. La storia vera e propria – o il sogno? – sta per cominciare. Partono i credits – vi ricordate del primo indizio? – e subito dopo vediamo il cartello che indica la strada in cui ci troviamo, Mulholland Drive, a Los Angeles. Per chi fosse interessato, è lì che abita David Lynch. Siamo di notte, e una Cadillac si ferma sul ciglio della strada. Sul sedile posteriore è seduta una bella donna dai capelli neri (Laura Elena Harring). 5

Ve li diamo soprattutto perché possiate andare a rivedervi il film in modo più proattivo.

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Il conducente si volta verso di lei e le punta la pistola, ordinandole di scendere, con l’ovvio intento di ucciderla. Un gruppo di persone a bordo di un’auto si avvicina a velocità folle alla Cadillac, e si scontra con essa, distruggendola. A salvarsi dall’incidente è solo la donna, che però perde la memoria – non sapremo mai qual è il suo vero nome. La donna trascorre la notte all’addiaccio, e al mattino si reca nei pressi di una casa di quella zona, dove una signora di mezz’età – che scopriremo essere zia Ruth – sta facendo le valige e le sta caricando su un taxi. Approfittando di un momento di distrazione di Ruth, la donna dai capelli neri entra in casa. In realtà Ruth sembra vederla, ma per qualche motivo non reagisce in alcun modo. Rientra per un attimo in casa, prende le chiavi e se ne va. Questa scena ha spinto alcuni fan a ipotizzare che la donna dai capelli neri sia in realtà morta. La scena successiva si svolge in un fast food, appartenente a una catena immaginaria, Winkie’s.6 Nel locale ci sono due uomini, Dan ed Herb. Il secondo sembra essere lo psichiatra del primo, ma ciò non viene mai chiarito. Dan è piuttosto inquieto, e racconta a Herb un sogno che ha fatto per due volte, e che si svolge proprio in quel Winkie’s: nel corso di esso Dan vede attraverso la parete, dietro la quale si cela un uomo dall’aspetto mostruoso.7 I due allora si alzano ed escono dal locale proprio per andare a vedere se l’essere è lì per davvero. E lui c’è, tanto che Dan crolla a terra per lo spavento. Un’entità mostruosa, che si manifesta prima nei sogni, e poi nel mondo reale. Vi viene in mente niente? Subito dopo ci troviamo proiettati nel bel mezzo di una vasta cospirazione, in cima alla quale pare esserci un uomo, Mr. Roque, interpretato da Michael Anderson – cioè l’Uomo Da Un Altro Posto. L’attore è stato inserito in una protesi in maniera tale da sembrare un uomo con un corpo normale e una testa molto piccola, ed è stato piazzato in un luogo che sembra moltissimo la sala d’aspetto della Loggia Nera. Il nome che Lynch gli ha dato, Mr. Roque, ci ricorda proprio la frase “Let’s Rock” pronunciata dall’Uomo Da Un Altro Posto. Qualche connessione? Probabilmente è solo la prova che Lynch riesce ad essere originale anche quando decide di citare se stesso. I cospiratori danno il via a una catena di telefonate per passarsi un’informazione vitale, e cioè che “la ragazza non è stata ritrovata”. Si riferiscono ovviamente alla ragazza dai capelli neri, ma il destinatario finale dell’informazione, che ha probabilmente commissionato l’omicidio, non risponde al telefono – che se

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Questo nome rappresenta l’ennesimo omaggio di Lynch al Mago di Oz – in uno dei romanzi di questa serie, scritta da Frank Baum, c’è un luogo che si chiama il “regno di Winkie.” Nei credits viene chiamato “il vagabondo”.

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ne sta piazzato vicino a un portacenere pieno di mozziconi di sigarette e una lampada rossa, una scena che ritroveremo alla fine del film. Ci trasferiamo ora all’aeroporto di Los Angeles, dove è appena sbarcata una ragazza bella e piena di speranze, Betty Helms; è canadese, e viene da Deep River, in Ontario. La donna è accompagnata da una coppia di anziani – che abbiamo già visto nella surreale scena iniziale – e che lei sembra aver conosciuto durante il viaggio. I due la salutano e prendono un taxi; quando sono a bordo del veicolo ci danno però i brividi: i vecchietti si guardano l’un l’altro con un sorriso demoniaco e con un’aria paurosamente soddisfatta. La Los Angeles che ha trovato Betty è eccessiva: tutto è troppo perfetto, troppo colorato, i tassisti sono troppo gentili e servizievoli – un fatto che ha spinto molti critici a considerare questa prima parte del film un semplice sogno, per quanto articolato. Betty si reca a casa di sua zia Ruth, che è impegnata a girare un film in Canada.8 Una volta entrata in casa, Betty incontra la ragazza dai capelli neri; dopo aver visto un poster di Rita Hayworth, la bella smemorata dice all’ignara ospite di chiamarsi così. Eccoci di nuovo nel mezzo della nostra cospirazione bizantina. Questa volta abbiamo a che fare con un regista, Adam Kesher (Justin Theroux), che sta girando un film dal titolo The Silvia North Story. L’uomo sta subendo pressioni da parte della mafia, che vuole obbligarlo ad assegnare la parte della protagonista a una sconosciuta attricetta, Camilla Rhoads. I mafiosi gli presentano una foto della Rhoads, e gli dicono che, quando la vedrà ai provini, dovrà dire: “è lei la ragazza”. A controllare tutta la situazione, tramite un interfono, è sempre Mr. Roque. Kesher rifiuta sdegnato, e per lui le cose cominciano ad andare proprio male: trova sua moglie a letto con un altro, che per di più lo malmena, perde il controllo del suo film e infine si ritrova tutti i conti bancari prosciugati. Il regista telefona alla sua segretaria, la quale gli dice che un tale, che si definisce “il Cowboy”, vuole parlare con lui; anzi, questo individuo potrebbe essere dietro a tutto ciò che è capitato a Kesher, quindi è meglio se il regista accetta di incontrarlo. Per fare ciò Kesher deve seguire un percorso molto lungo e tortuoso, e raggiungere una sperduta zona di montagna. Sul posto c’è una lampadina – piazzata sopra l’ingresso di un recinto –, che all’improvviso si illumina, accompagnata da un brusio elettrico; il Cowboy compare all’improvviso, e gli intima di accettare Camilla Rhoads nel ruolo di protagonista del suo film. Subito dopo la luce si spegne, e il Cowboy scompare proprio come un fantasma. Ecco quindi un’altra delle nostre entità metafisiche, che perseguono la propria 8

Si noti che, nel gergo hollywoodiano, “recitare in Canada” significa “essere morto”. Cfr. http://mulholland-drive.net/studies/10clues.htm.

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agenda, sono legate all’elettricità e così via. Prima di andarsene, il Cowboy fa una minaccia: “mi rivedrai soltanto un’altra volta, se farai il bravo; mi rivedrai due volte, se farai il cattivo”. Entra in scena Joe, un killer professionista piuttosto pasticcione, che sta parlando con un’altra persona, Ed. L’amico ha appena finito di raccontargli una storia su un incidente; si tratta probabilmente dello scontro avvenuto all’inizio del film, del quale Ed pare essere a conoscenza – o forse vi è in qualche modo coinvolto. L’uomo ha anche un’agenda telefonica, che lui dice contenere “la storia del mondo in numeri di telefono”. Joe uccide Ed, assieme ad altre persone, e si porta via il libro – che rivedremo alla fine del film. Poi il killer continua a dare la caccia a Rita. Betty scopre che Rita non è in realtà amica di sua zia Ruth, che la ragazza ha perso la memoria e che probabilmente è in pericolo. Alla ricerca di documenti d’identità, le due donne aprono la borsa di Rita e vi ritrovano una grande quantità di soldi e una strana chiave blu di forma triangolare. Betty e Rita iniziano a indagare, per scoprire la vera identità di Rita. Mentre si trovano nello stesso Winkie’s di Dan ed Herb, le due donne ordinano del caffè, e Rita nota il nome impresso sul badge della cameriera, “Diane.” Allora le viene in mente un nome, “Diane Selwyn”, e Betty lo cerca sull’elenco telefonico, pensando che si possa trattare del vero nome dell’amica. Visto che Diane Selwyn non risponde al telefono, decidono di andare a casa sua. Prima però c’è un altro intermezzo lynchano: una donna anziana e bizzarra, Louise Bonner – la Signora Ceppo di turno –, bussa alla porta di Betty e le dice di aver parlato con sua zia Ruth; quando la ragazza si presenta come la nipote di Ruth, Betty, la Bonner le dice che non è vero. Il giorno dopo Betty e Rita vanno a casa di Diane Selwyn, e si introducono nell’abitazione di nascosto, facendo una macabra scoperta: il cadavere di Diane è disteso sullo stesso letto che abbiamo visto all’inizio del film, e la ragazza sembra morta da diverso tempo. Le due ragazze scappano, e Rita, in preda al panico, si taglia i capelli e indossa una parrucca bionda, finendo per assomigliare molto a Betty. Le due ragazze fanno l’amore, e poi si addormentano. Durante la notte, in uno stato quasi ipnotico, Rita comincia a pronunciare la parola spagnola “silencio”. Sebbene Lynch sia ossessionato dai sogni, e sebbene in Mulholland Drive i riferimenti alle attività oniriche – scene ambientate a letto, resoconti di sogni e così via – non manchino, lo spettatore non dispone mai di chiare indicazioni su che cosa stia accadendo, cioè se le scene a cui sta assistendo accadano nel mondo dei sogni o in quello della veglia. Data la connotazione fortemente onirica della scena che segue, ci sentiamo però di concludere che essa avviene in sogno, o per

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lo meno in un reame onirico. Betty e Rita escono nel cuore della notte e si recano in un bizzarro locale notturno, il Club Silencio. Esageriamo nel dire che il Club Silencio ha una connotazione soprannaturale che ci ricorda fin troppo da vicino la nostra beneamata Loggia Nera? Nel teatro in questione va in scena uno strano spettacolo ad opera di un prestigiatore dall’aspetto demoniaco; pronunciando ripetutamente una frase in spagnolo, “No hay banda”, “non c’è l’orchestra”, il mago sembra voler trasmette al pubblico un messaggio molto chiaro: “è tutta un’illusione”. Poco prima di sparire nel nulla, il luciferino prestigiatore causa un’esplosione di luce blu, in presenza della quale Betty viene colta da spasmi molto violenti, come se stesse andando in pezzi. È possibile che quest’ultimo particolare significhi che Betty è in realtà un’identità illusoria, che si sta dissolvendo per intervento delle entità del Club Silencio. Tra i personaggi che compaiono in quel luogo ce n’è uno che ha fatto molto parlare di sé, ossia una misteriosa donna con i capelli azzurri – probabilmente un’altra delle nostre entità metafisiche – che non parla quasi mai; anzi, il personaggio pronuncia una sola parola, alla fine del film: “silencio”. Subito dopo essere stata irradiata dalla luce blu, Rita si ritrova nella borsetta una strana scatola dello stesso colore, con un foro che pare combaciare proprio con la chiave da lei ritrovata in precedenza. Cosa sarà mai questa scatola e la relativa chiave? A questo proposito Lynch ha dichiarato: “non ho la più pallida idea di che cosa siano”. Probabilmente è vero – si tratta cioè di un’immagine che gli deve esser venuta in mente all’improvviso, un po’ come la stanza rossa di Twin Peaks –, tuttavia nell’economia della storia gli oggetti in questione hanno un ruolo abbastanza chiaro, fungono cioè da “meccanismi” narrativi in grado di modellare gli avvenimenti a cui assistiamo. Forse li potremmo classificare come “oggetti metafisici” non meglio identificati, come l’anello e il quadro di Fuoco Cammina Con Me, “cose” che provengono da una realtà superiore per un qualche scopo che ci sfugge. Le due donne tornano a casa e, subito dopo aver appoggiato la scatola blu sul letto, Betty scompare – sebbene lo spettatore non veda materialmente la ragazza mentre svanisce, Lynch si è assicurato di sistemare le cose affinché l’impressione che ne ricava il pubblico sia proprio quella. Rita chiama Betty, poi afferra la chiave e apre la scatola. Lo sguardo della ragazza e del pubblico si addentra nella scatola, che sembra vuota, e alla fine veniamo assorbiti in essa. La scatola, non più tenuta in mano da Rita – oramai dissoltasi pure lei – cade per terra, e scompare. Subito dopo entra zia Ruth, ed esce senza fare commenti. A questo punto ci ritroviamo nell’appartamento di Diane Selwyn; la donna sta dormendo, il Cowboy si affaccia alla porta e le dice: “hey, bella ragazza, è ora di svegliarsi”.

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Qui siamo entrati però in un altro mondo: Betty è diventata Diane Selwyn, un’attrice fallita, che vive di espedienti, mentre Rita è diventata Camilla Rhoads, un’attrice di successo che ha usato ogni mezzo per fare carriera e che ha procurato alcune piccole parti anche alla prima. Le due hanno avuto una relazione, ma poi Camilla l’ha abbandonata e si è messa con Adam Kesher. Adam e Camilla progettano di sposarsi, e si divertono a prendersi gioco di Diane. Dopo l’ennesima umiliazione a casa di Adam – che è vicina al luogo dell’incidente che avviene all’inizio del film –, Diane decide di vendicarsi, e assolda un killer di professione che abbiamo già conosciuto, Joe. I due si incontrano nel solito Winkie’s, e Diane gli dà una foto di Camilla, dicendo: “è lei la ragazza”. Poi dà al killer una borsa piena di soldi – lo stesso denaro che abbiamo visto all’inizio nella borsa di Rita? Joe, che per qualche motivo ha con sé anche l’agenda telefonica che ha sottratto a Ed, mostra a Diane una chiave azzurra – diversa però da quella che abbiamo visto nella prima parte del film – e le dice: “quando tutto sarà finito, troverai questa dove ti ho detto.” Diane gli chiede che cosa apra quella chiave, ma Joe non risponde e si limita a ridere. Ed eccoci di nuovo alla metafisica lynchana: in un locale fatiscente e illuminato da una luce rossa spettrale e pulsante, incontriamo di nuovo il Vagabondo, con in mano la scatola blu di cui sopra. Dall’oggetto escono due esseri umani in miniatura, la coppia di anziani che abbiamo visto all’inizio; le entità – oramai le possiamo chiamare così – entrano a casa di Diane passando sotto la porta, si ingrandiscono e iniziano a inseguire la donna, che è in preda ai sensi di colpa per aver organizzato l’uccisione di Camilla. Nel frattempo sentiamo qualcuno bussare con energia alla porta: forse si tratta degli agenti di polizia che la stanno cercando già da un po’. Per sfuggire agli inseguitori Diane si uccide, morendo sul letto dove verrà ritrovata da Betty e Rita. Si solleva allora una spettrale nube di fumo azzurro, simile a quella che abbiamo visto nel Club Silencio, e sullo sfondo vediamo il Vagabondo; poi appare una sorridente Betty Helms e un’immagine di Betty e di Rita – che indossa la parrucca bionda vista in precedenza. Infine ci ritroviamo nel Club Silencio, dove la Donna dai Capelli Azzurri chiude la vicenda: “silencio”. Che cosa significa tutto questo? Al solito, Lynch si è rifiutato di commentare. Il quotidiano “The Guardian” ha chiesto a sei noti critici di dire la loro; secondo Neil Roberts del “Sun”, Tom Charity di “Time Out”, Roger Ebert e Jonathan Ross la realtà è quella rappresentata nell’ultimo terzo del film. Diane Selwyn, disperata, fa uccidere Camilla Rhoads e poi, prima di suidicarsi – o mentre sta morendo – si crea un mondo illusorio che soddisfi i suoi desideri. Lei diventa Betty Helms e la donna da lei amata diventa Rita, una persona in difficoltà

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e bisognosa di protezione. Philip French vede in Mulholland Drive una metafora di Hollywood, vista come una pericolosa fabbrica di illusioni. Jane Douglas dice infine una cosa che ci pare abbastanza condivisibile, e cioè che la vita di Betty non può essere ridotta a una semplice illusione di Diane – tesi difesa invece dalla stessa Naomi Watts. Come nel caso di molti altri film di Lynch, fioccano interpretazioni di tutti i tipi, e il lavoro ermeneutico è ben lontano dall’essere concluso. Non intendiamo di certo fornire un’interpretazione definitiva di quest’opera iperstratificata; vogliamo piuttosto confessare la nostra simpatia per una delle interpretazioni più originali, e cioè quella data da una critica cinematografica americana, Jennifer Hudson. In un articolo pubblicato sul «Journal of Film and Video» – e intitolato No Hay Banda, and yet We Hear a Band: David Lynch’s Reversal of Coherence in Mulholland Drive – la Hudson avanza l’ipotesi che la trama di questo film sia proprio un nastro di Möbius. Mescoliamo allora ciò che abbiamo scoperto fino ad ora sulle ossessioni di Lynch con la teoria in questione e vediamo che cosa ne viene fuori. Abbiamo un certo numero di entità metafisiche – il Vagabondo con la sua coppietta di anziani, il Cowboy, la Donna dai Capelli Azzurri – che perseguono un’agenda a noi sconosciuta. È questo uno dei temi filosofici favoriti dall’ultimo Lynch; il regista sembra infatti dirci che la verità – o, se vogliamo, “la storia del mondo in numeri di telefono” – si nasconde a due passi da noi, al di sotto della nostra vita quotidiana, ma continua a sfuggirci. Quando guardiamo uno degli ultimi film di Lynch abbiamo la fortissima sensazione che ciò che abbiamo davanti non sia un caotico insieme di scene slegate l’una dall’altra, ma che ci sia un nucleo di senso altamente problematico, il quale se ne sta lì, sempre in attesa di essere colto ma sempre sfuggente. La vita è così, sembra dirci Lynch; c’è un’agenda perseguita da qualcuno che sta “al piano di sopra”, un progetto che non è, o che potrebbe non essere, a misura d’uomo. A ciò aggiungiamo il nastro di Möbius, e riprendiamo in mano Mulholland Drive. Ci troviamo nel nostro mondo etereo, dove viene generata – sotto la tutela dei due inquietanti vecchietti – Betty Helms. I due personaggi portano la ragazza nel favoloso universo di Hollywood, e la lasciano all’aeroporto di Los Angeles. Betty incontra Rita, la ama, cerca di aiutarla; nel frattempo le nostre entità proseguono con le loro macchinazioni. Il Club Silencio/Loggia Nera fa arrivare a Betty e Rita la scatola blu, l’apertura della quale corrisponde proprio al punto di contatto e di torsione tra le due estremità della striscia di cartoncino che abbiamo ritagliato in precedenza. La realtà/universo/flusso narrativo subisce un capovolgimento di centottanta gradi, le identità delle due ragazze vengono rivoltate da cima a fondo.

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Betty/Diane ordina la morte di Camilla, e poi si suicida. In quel misterioso reame soprannaturale/narrativo in cui agiscono le nostre entità metafisiche e in cui finiscono Camilla e Diane, quest’ultima subisce un “make-up” ontologico e diventa Betty. Eccoci arrivati a metà di questo nastro di Möbius cosmologico/narrativo. I due vecchietti demoniaci, che hanno preso Diane, la riportano poi come Betty all’aeroporto di Los Angeles. E così via, in un ciclo senza fine. Tutto qui? Non proprio. Quando Rita indossa la parrucca bionda finisce per assomigliare moltissimo a Betty, e non dobbiamo dimenticare le nostre precedenti esperienze con Lost Highway, dove Renee e Alice erano la stessa persona – o meglio, la seconda era il doppelgänger della prima. È come se Betty/Diane e Rita/Camilla si trovassero esattamente nello stesso punto del nastro di Möbius, ma sul lato opposto. Muoversi attraverso tale nastro le porta poi a confondersi e a fondersi l’una con l’altra – provare per credere, basta armeggiare un po’ con la penna. Tra gli indizi che ci spingono verso questa conclusione c’è la scena seguente: Betty e Rita entrano nell’appartamento di Diane e ritrovano il suo cadavere disteso sul letto; verso la fine del film la donna si suicida e, presi dalla drammaticità degli eventi, non ci accorgiamo che il cadavere ritrovato in precedenza da Betty e Rita ha la capigliatura di Diane, ma il vestito di Camilla. Aggiungiamo infine che l’ipotesi del nastro di Möbius è l’unica che riesce a rendere ragione della fortissima sensazione di circolarità che ci dà Mulholland Drive. Eccoci arrivati dunque all’ultimo tassello – per ora – del puzzle metafisico che Lynch va costruendo da anni: Inland Empire.

4. Un sogno a più strati: Inland Empire Ciò che stiamo per dire potrà sembrarvi paradossale, ma, a nostro avviso, contiene una buona dose di verità: Inland Empire, l’ultimo grande film di David Lynch, è molto più lineare di Mulholland Drive. Realizzato nel 2006 completamente in digitale, è molto più difficile da fruire delle precedenti opere lynchane, in quanto a prima vista sembra realmente un accozzaglia di scene surreali e insensate. Come se non bastasse, Lynch lo ha realizzato senza neanche aver steso uno script completo, ma progettando le scene volta per volta – il che ha contribuito ulteriormente a diffondere la sensazione che Inland Empire sia un’opera assolutamente priva di significato.9 A 9

Inland Empire resterà celebre anche per la particolare campagna promozionale orchestrata da Lynch; il regista ha infatti sostenuto la candidatura all’Oscar di Laura

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questo proposito Lynch ha ribadito categoricamente che il suo film “vuole avere un senso perfettamente compiuto”. La sua linearità sta nel fatto che non ci pare che la sua trama possa essere disposta su un metaforico nastro di Möbius: in sostanza, se ignoriamo per un attimo il contenuto, e consideriamo solo il contenitore, cioè la struttura narrativa formale che Lynch ha riempito con le scene da lui girate, possiamo riconoscere facilmente tutte le fasi di un film tradizionale. All’inizio vengono presentati gli antefatti della storia, poi si introducono i personaggi e lo scenario, quindi c’è lo svolgimento della trama, poi ancora c’è il climax e infine c’è un tradizionalissimo happy ending, con canti, balli, allegria e chi più ne ha più ne metta. Non ci sembra insomma di intravedere nastri di Möbius; nel caso voi li troviate fatecelo sapere e, seppur con le lacrime agli occhi, vi ringrazieremo. Avventuriamoci allora in Inland Empire. Il nome in questione viene usato per indicare una zona di Los Angeles, proprio come Mulholland Drive, e i due film che ne portano il nome hanno molti punti in comune – una donna nei guai, una profonda riflessione sulla natura del cinema e, come vediamo adesso, un buon numero di entità metafisiche che tirano le fila degli eventi. All’inizio del film vediamo un vecchio grammofono gracchiante, che annuncia “Axxon N, la più longeva trasmissione radiofonica della storia, in onda in tutti i paesi del Baltico”. Per la cronaca Axxon N era il titolo di una serie di webisodes progettata da Lynch e poi accantonata. Subito dopo ci troviamo in una stanza d’albergo dove una donna e un uomo – i cui volti sono stati oscurati – stanno per fare sesso. La donna è una prostituta, e il fatto che Lynch usi il bianco e nero sembra indicarci che l’episodio si svolge nel passato; i due parlano polacco. Subito dopo ci troviamo in un’altra stanza d’albergo, questa volta a colori, dove una ragazza, indicata nei credits come “la Ragazza Perduta”, piange mentre guarda la tv. Sembra proprio essere la medesima donna vista nella scena in bianco e nero. Sullo schermo possiamo vedere alcuni spezzoni di Rabbits, un’agghiacciante sitcom creata in precedenza da Lynch. La serie, composta da nove episodi, si svolge in una stanza oscura e scarsamente arredata; sullo sfondo c’è un rumore di attività industriali, e in particolare sembra di sentire la sirena di una nave. I protagonisti sono tre conigli antropomorfi, Jack, Jane e Suzie Rabbit – ossia Scott Coffey, Dern recandosi sul Sunset Boulevard con una mucca. In quell’occasione Lynch ha dichiarato che “senza formaggio non ci sarebbe Inland Empire”, in quanto durante la realizzazione del film ha mangiato molto formaggio. L’artista ha poi dichiarato che “i membri dell’Accademia degli Oscar amano lo showbusiness, e questo è il tipico approccio dello showbusiness”. Un classico esempio di “guerrilla marketing”.

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Laura Harring e Naomi Watts. Molto meccanicamente, questi personaggi entrano, si siedono o stanno in piedi, pronunciano battute per lo più surreali, rispondono al telefono e così via. Il tutto è accompagnato dalle risate preregistrate tipiche delle sit-com. Attorno a Rabbits sono sorti siti web e forum di discussione, e l’ipotesi interpretativa che si è presentata più di frequente è quella che fa riferimento a una sorta di “purgatorio” o “mondo ultraterreno”. Molte delle frasi pronunciate dai conigli sembrano far riferimento a una vita passata, probabilmente trascorsa in forma umana – ad esempio a un certo punto udiamo la domanda: “eri bionda?”. Spesso questi personaggi sembrano essere quasi costretti a muoversi in quel modo e a recitare frasi prive di senso, e in alcuni casi essi paiono essere consapevoli di tale costrizione: “c’è qualcosa di sbagliato” – dice uno dei conigli. Ci sono poi allusioni a “un posto oscuro” e a possibili vite future – “mi chiedo chi sarò.” Ogni tanto i personaggi sembrano consapevoli di essere osservati – “vorrei solo che se ne andassero da qualche parte”. Sembra che Jack Rabbit abbia commesso un crimine terribile e voglia ad ogni costo tenerlo nascosto. C’è infine una certa confusione temporale, nel senso che i conigli sembrano rispondere a domande poste in passato o nel futuro. Tali caratteristiche, più il particolare arredamento della stanza in cui si trovano, finiscono per riportarci dove tutto è cominciato, cioè nella sala d’aspetto della Loggia Nera. Parti di questa sitcom sono state introdotte in Inland Empire; nella prima di queste scene qualcuno bussa a una porta, e Jack Rabbit va ad aprire – anche se non vediamo chi ha bussato. Il coniglio si reca nella stanza adiacente e chiude la porta. Qui Jack Rabbit sembra dissolversi, la stanza si illumina, e vediamo due personaggi, ai quali forse il coniglio è in qualche modo connesso: un uomo calvo – il cui nome è Janek, e che sembra svolgere la funzione di “guardiano della soglia” – e un uomo con un aspetto maligno, che nei credits è chiamato “il Fantasma”. Il Fantasma fa riferimento al “tentativo di trovare un apertura” – verso la nostra realtà? Nella vita di qualcuno, come BOB con Leland Palmer? – e, data la sufficienza con cui il guardiano della soglia lo tratta, reagisce con rabbia. Ci sono in Inland Empire diversi livelli di realtà, disposti l’uno sopra l’altro, e che però interferiscono l’uno con l’altro in molti modi. Sbrogliare questa complicatissima matassa – e non è detto che sia possibile – richiederebbe un lavoro enorme. Qui noi invece miriamo solo a fornire qualche traccia. Il primo livello di realtà lo abbiamo già introdotto, ed è il mondo soprannaturale, o purgatorio, dove stanno i conigli antropomorfi, la Ragazza Perduta, il Fantasma e così via. Questi personaggi corrispondono in parte alle entità metafisiche tipiche di Lynch – ad esempio il Fantasma – e in parte alle loro vittime umane, che in questo caso sembrano essere state intrappolate in una

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sorta di prigione ultraterrena, dalla quale cercano di fuggire in tutti i modi. In particolare è proprio a questo scopo che i conigli e la Ragazza Perduta interagiscono in modi diversi con il mondo dei vivi, ad esempio osservandolo su uno schermo televisivo o incarnandosi negli esseri umani. Facciamo ora la conoscenza con un altro livello di realtà, il “mondo reale”, se così si può chiamare. Siamo a Los Angeles, e un’anziana donna (Grace Zabriskie) che sembra mentalmente disturbata o ubriaca – il solito clone della Signora Ceppo – si reca a fare visita a una nota attrice, Nikki Grace (Laura Dern). La donna ha un accento polacco e si esprime in modo figurato e allusivo; dice di essere appena arrivata nel quartiere e di volersi presentare ai suoi nuovi vicini di casa. La visitatrice sembra avere il dono della preveggenza, e predice a Nikki Grace il ruolo di protagonista di un film che verrà girato di lì a poco. La donna poi prosegue raccontando la strana storia di un ragazzo che attraversò una porta e, così facendo, causò la nascita del male – è bene tener presente che, quando in un film di Lynch si parla in modo metaforico di porte e cancelli, è molto probabile che si tratti di un riferimento a una zona di passaggio tra questo e l’altro mondo. Il discorso relativo alla “nascita del male” ci ricorda inoltre che in Twin Peaks i “doppi” malvagi degli esseri umani vengono generati proprio quando questi ultimi entrano nella Loggia Nera. Forse la visitatrice sta dicendo a Nikki che entro breve visiterà l’aldilà e incontrerà il proprio doppio? Per verificare la nostra ipotesi non ci resta che seguire le vicende narrate da Inland Empire e vedere se, a un certo punto, la protagonista finisce per attraversare tende rosse e incontrare il proprio doppelgänger. Infine la donna misteriosa allude a un luogo segreto situato in un vicolo dietro al mercato. Si tratta di profezie: la visitatrice sta descrivendo cose che accadranno di lì a poco nel film. Il suo discorso verte inoltre sul tempo, e in esso si citano due momenti o orari che ricorrono sovente attraverso il film, cioè le nove e quarantacinque e dopo la mezzanotte. Ad ogni buon conto la prima profezia si realizza, e Nikki Grace ottiene la parte di protagonista nel film On High in Blue Tomorrows – tradotto nell’edizione italiana come Il Buio Cielo del Domani. L’attore scelto per la parte maschile è Devon Berk (Justin Theroux). Berk è un noto donnaiolo, e i suoi collaboratori gli dicono di lasciar perdere Nikki Grace, visto che è sposata con un uomo estremamente potente e pericoloso. In seguito Nikki e Devon provano una scena con il regista, Kingsley Stewart (Jeremy Irons), e proprio in quel momento si accorgono che c’è qualcuno nascosto in una zona buia del set in costruzione. Devon insegue l’intruso, ma senza riuscire a prenderlo. Un po’ alla volta inizia ad emergere la verità: Il Buio Cielo del Domani è in realtà un remake di un vecchio film tedesco intitolato 47; l’opera non venne mai

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terminata perché i due attori protagonisti morirono entrambi di morte violenta.10 A questo punto Inland Empire comincia a manifestare un carattere sempre più soprannaturale. Da un lato Nikki e Devon iniziano una tresca alle spalle del marito di lei, Piotrek Król – che è polacco. Dall’altro anche i due personaggi corrispondenti de Il Buio Cielo del Domani, Susan Blue e Billy Side, danno inizio a una relazione clandestina, e Nikki comincia a confondere la propria realtà con la trama del film. Nikki e Devon scoprono tutti i retroscena del film che stanno girando: la storia originale di 47 era basata su una leggenda di una tribù di zingari polacchi, e il film era in qualche modo maledetto. Non viene detto esplicitamente, ma par di capire che sia la trama in sé a essere maledetta, per cui chi la mette in scena finisce per essere intrappolato in essa e morire in modo tragico. Come emergerà in seguito, il tutto è legato alla macchinazioni del Fantasma. Qui siamo in presenza di un terzo livello di Inland Empire, quello dell’universo narrativo della leggenda zingara, di 47 e de Il Buio Cielo del Domani. Nel frattempo il processo di fusione delle diverse realtà continua. Nikki e Devon stanno facendo l’amore, ma si chiamano l’un l’altra con i nomi dei rispettivi personaggi cinematografici; oramai solo Nikki sembra aver conservato un barlume di consapevolezza di ciò che sta accadendo. Parlando con Devon/Billy, Nikki/Susan fa riferimento al suddetto vicolo dietro il mercato e ne parla come se si trattasse di una scena del film successiva a quella che stanno girando in quel momento – cioè descrive le cose dal punto di vista di Nikki Grace, non di Susan Blue. Devon/Billy, già prigioniero della trama maledetta, non capisce e dice alla sua amante che quel discorso non ha alcun senso. Da qui in poi si dipanano diverse sottotrame, che riteniamo essere ambientate rispettivamente nel purgatorio che abbiamo incontrato all’inizio del film, nel mondo “reale” presente, in quello passato – in Polonia –, nell’universo narrativo de Il Buio Cielo del Domani e in quello di 47. I personaggi cominciano a oscillare tra questi universi, da un’identità all’altra. Compare Doris, la moglie di Billy Side, interpretata da Julia Ormond, e confessa a un poliziotto che qualcuno l’ha ipnotizzata affichè uccidesse un’altra persona – in una scena molto breve vedremo che è proprio il Fantasma a sottoporla ad ipnosi. C’è poi un’organizzazione polacca di stampo mafioso, alla quale il marito di Nikki/Susan è legato, e che sembra essere controllata dal Fantasma – l’entità vive in Polonia, in una baracca completamente spoglia che ricorda fin troppo la baracca fiammeggiante dell’Uomo del Mistero. 10

Da un dialogo tra due personaggi secondari sembra anche di capire che l’anziana visitatrice giunta a casa di Nikki all’inizio del film avesse avuto una parte proprio in 47.

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A un certo punto Nikki si trova nel vicolo di cui ha parlato la visitatrice all’inizio del film, vede una porta con sopra scritto Axxon N – l’ingresso dell’aldilà? – la supera, si trova in uno studio televisivo e vede se stessa mentre parla con Kinglsey; Devon si alza e la insegue, senza però riuscire a vederla. Nikki è tornata indietro nel tempo, e ha scoperto di essere proprio lei la fonte di quel rumore che ha udito qualche giorno prima negli studios televisivi; la donna riesce ad evitare di essere vista da Devon nascondendosi in una casa finta sul set, una casa che diventa però reale, inghiottendo Nikki – d’altronde è proprio questo il senso della maledizione zingara. In questa abitazione un gruppo di ragazze appare all’improvviso emergendo dal buio; parlano, ballano e alla fine spariscono all’improvviso, mostrandoci quindi di essere anche loro probabili entità metafisiche – nei credits sono indicate come le Amiche, e sembrano figure positive, che cercano di aiutare Nikki a capire che cosa le sta succedendo e come fare per salvarsi. Entra in scena anche la Ragazza Perduta – sotto forma di una voce proveniente da una distanza enorme –, che offre a Nikki alcune istruzioni simili a un rituale magico, che le permetteranno di vedere l’origine di tutto. “Vuoi… vedere?” – chiede a Nikki – “Devi indossare… l’orologio. Accendi una sigaretta… spingila e girala attraverso la seta. Piega la seta… e quindi… guarda… attraverso il buco”. Grazie a questo rituale Nikki riesce a raggiungere il passato, e a vedere gli eventi originari avvenuti durante la lavorazione di 47; può inoltre vedere la prigione dei conigli – anzi, vi pratica un buco proprio con la sua sigaretta. Nel passato Nikki apprende così la storia della Ragazza Perduta, tormentata e uccisa dal Fantasma. Questo è solo una parte delle numerose scene della sezione centrale del film che sembrano appartenere ai diversi livelli di realtà sopraindicati. A un certo punto Nikki/Susan viene ferita gravemente da Doris Side, scappa, entra in un night-club e, attraversando le classiche tende rosse che segnano il confine tra questo e l’altro mondo, si presenta davanti a un’altra delle entità metafisiche lynchane, Mr. K, un uomo grassoccio e occhialuto che sembra ricoprire il ruolo di controllore o contabile del piano di realtà in cui si è introdotta Nikki/Susan. La donna11 gli racconta la storia della propria vita, un’esistenza fatta di promiscuità, abusi sessuali subiti nell’infanzia e

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Laura Dern interpreta i personaggi di Nikki Grace e Susan Blue attribuendo a ciascuno di essi un accento e un modo di parlare diversi. Nella scena in questione l’accento utilizzato è quello di Susan Blue, per cui possiamo dedurre che è questo personaggio a presentarsi di fronte a Mr. K, e non Nikki Grace.

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violenze domestiche – si noti che, poco prima dell’arrivo di Nikki/Susan, Mr. K stava parlando con Jack Rabbit. Dietro a questo oscillare di trame e identità, si muovono le entità metafisiche di cui sopra. A un certo punto c’è una scena riuscitissima in cui Piotrek si trova con alcuni amici polacchi ospiti a casa sua; l’uomo entra in una stanza dove sembra essere in corso una seduta spiritica, che vede la presenza della Ragazza Perduta – a lui invisibile. Quest’ultima fa avere al gruppo una pistola che – lo scopriremo poi – dovrebbe essere l’unica arma in grado di distruggere il Fantasma. Fatto ciò, gli ospiti si dispongono secondo un certo schema, ed ecco che vediamo sovrapporsi ad essi i tre conigli di Rabbits, che, da brave entità metafisiche o anime che dir si voglia, hanno posseduto questi esseri umani per portare a termine i propri scopri – in questo caso liberarsi dalla prigionia. Dal canto suo Nikki sembra essere caduta preda del Fantasma, che è riuscito a trovare un “passaggio” per entrare in lei grazie al fatto che la donna ha tradito il marito e si è indebolita psicologicamente – è un particolare che notiamo quando, in una brevissima sequenza, Nikki appare all’improvviso e presenta un aspetto demoniaco. Deciso ad aiutarla, il marito va alla ricerca del Fantasma fino a raggiungere la sperduta baracca di cui sopra. C’è poi un’altra scena per noi molto interessante, quella in cui Nikki/Susan si trova in strada e vede all’interno di un bar un’altra copia di sé, che sembra possedere un’aria maligna; qui il riferimento ai doppelgänger di Twin Peaks ci pare d’obbligo. Nikki porta a termine le riprese del film, che finisce con la morte di Susan Blue; in pratica l’attrice riesce a entrare nel labirinto della trama maledetta, e a uscirne, morendo solo sul set. Ma non basta: ora è necessario impedire al Fantasma di nuocere ancora; Nikki attraversa di nuovo le tende rosse, raggiunge l’altro mondo e ottiene la pistola soprannaturale. Grazie a quell’arma uccide l’entità soprannaturale, il cui volto comincia a deformarsi orribilmente, assumendo molte forme diverse e infine disgregandosi. Così facendo la donna è riuscita a liberare tutte le anime tenute prigioniere dal Fantasma, inclusa la Ragazza Perduta. E infine abbiamo anche l’atteso happy ending, con la partecipazione delle Amiche. Come abbiamo detto questa è solo una traccia; proprio come Mulholland Drive, anche Inland Empire è un film che richiede studi interpretativi molto più approfonditi. Per riallacciarci al punto di partenza, vi segnaliamo un fatto curioso, e cioè che, alla prima di Inland Empire, David Lynch ha deciso di far precedere la proiezione del film da una citazione tratta dalla Brahma Upanishad e declamata da lui stesso, verso con il quale concludiamo:

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Twin Peaks, David Lynch e la filosofia

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Noi siamo come il ragno. Intrecciamo la nostra vita e poi ci muoviamo lungo di essa. Siamo come il sognatore che sogna e poi vive nel sogno. Questo è vero per l’intero universo.

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IL CAFFÉ DEI FILOSOFI collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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Elettrico Maurizio, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico, 2009, pp. 96, Isbn 9788884837325, Euro 16,00 Bonvecchio Claudio (a cura di), La filosofia del Signore degli anelli, 2008, pp. 282, Isbn 9788884838339, Euro 18,00 Bonvecchio Claudio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo, 2008, pp. 154, Isbn 9788884837110, Euro 16,00 Nannini Sandro, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente, 2008, pp. 228, Isbn 9788884837677, Euro 12,00 De Conciliis Eleonora, Pensami, stupido!, 2008, pp. 172, Isbn 9788884837097, Euro 15,00

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