Tutto e niente : i cristiani d’Italia alla prova della storia [Prima edizione] 9788858107409, 8858107403

Troppo a lungo si è pensato che per capire il peso del cristianesimo nella storia italiana bastasse parlare dei rapport

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Tutto e niente : i cristiani d’Italia alla prova della storia [Prima edizione]
 9788858107409, 8858107403

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Sagittari Laterza 190

Alberto Melloni

Tutto e niente I cristiani d’Italia alla prova della storia

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione maggio 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0740-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Se si volesse star nell’antica metafora dei cibi che nutrono la mente, si potrebbe davvero dire che l’Italia è un paese che ha fame di storia: ma che detesta cucinarla. Ne mastica qualche boccone scondito fornito dai famosi intellettuali dei miei stivali, se ne interessa e disgusta quando ne trova pezzetti nella salamoia delle polemiche spicciole dei giornali. Ma ne ha fame. Lo si è visto quando altrove infuriava l’Historikerstreit e da noi si passava la cartavetrata alla ricerca di una memoria condivisa, che nel controluce cattolico sembrava una indulgenza plenaria secolarizzata. Lo si è visto quando con vent’anni di ritardo s’è sfiorato il tema delle leggi contro il negazionismo che in Francia hanno portato in giudizio uno storico di prima grandezza come Bernard Lewis, reo di aver distinto genocidio e terrorismo etnico. E da ultimo lo si è capito bene nel 2011, quando solo la tenacia di Giorgio Napolitano da un lato e di Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato dall’altro hanno difeso il 150° dell’Unità d’Italia da tentativi di liquidazione che hanno viceversa liquefatto chi ne era interprete. Lo si vede e si vedrà ogni qual volta un anniversario tondo ci riporta alle date delle grandi guerre, alle dolorose memorie del terrorismo, ai centenari dei padri della patria. In questa fame gli storici di mestiere non si inseriscono con facilità. Spesso non sanno meritare il rilievo che credono sia loro dovuto. Oppure accade che quando, per averlo guadagnato, avrebbero diritto a un po’ di rispetto, devono sperimentare trattamenti disgustosi: è il caso di uno dei massimi storici dell’Ottocento italiano, Giuseppe Talamo, scomparso nel maggio 2010, al quale Sorella Morte ha risparmiato l’immeritata umiliazione di veder finito un librone celebrativo dei ‘Padri Fondatori’ del Ri-

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Premessa

sorgimento, promosso dal Senato della Repubblica, dove sotto il suo nome di curatore campeggia una dichiarazione di grottesca autoironia: «da un’idea di Bruno Vespa». Poco vale chiedersi se a Capitol Hill o alla Camera dei Lord qualcuno sarebbe mai riuscito a pensare di far discendere il dovere di conoscenza della storia nazionale ‘da un’idea’ di un anziano divo della tv. Quella goffaggine della nostra Camera alta è in fondo obiettivamente espressiva di una convinzione profondissima sulla esistenza, o piuttosto sulla inesistenza della verità storica, su cui vorrei fermarmi un istante. Il carattere più comune, ma non innocuo, degli storici italiani è quello di scrivere per altri storici, preferibilmente coetanei, in un cifrato che essi confondono col rigore, come se scrivere per lodare o farsi lodare, per incensare gli amici o per sputacchiare i nemici, sia ciò che è richiesto dalla deontologia, siano essi studiosi di Artaserse, del Pinturicchio o di Donat Cattin. Se per caso si fanno capire, la cosa puzza a qualcuno dei sinedri di categoria, che si mettono alla ricerca di macchinazioni mediatiche, di immeritate disponibilità di soldi, di ammiccamenti della prosa da stigmatizzare ferocemente. Per lo più – buoni o mediocri che siano – gli storici finiscono così per farsi leggere solo da chi pensa che quel racconto gli darà ragione o darà ragione al suo sentirsi bastian contrario, che è poi solo l’adesione a un conformismo opposto. Nel paese in cui un «Marcel diventa / ogni villan che parteggiando viene», attira l’attenzione chi pettina il luogo comune o chi con la stessa arroganza e faciloneria lo rasa in contropelo. Perché in questo sistema di forze non esiste una verità di cui conoscere frammenti, ombre, aspetti: ma solo un uso della conoscenza, che ha valore in relazione a ciò che produce. Non c’è dunque da meravigliarsi del fatto che nel più recente appuntamento con le ricorrenze – il citato 150° – non si sia neppure messo in discussione il fatto che la data da ricordare fosse quella della legge 1, del 17 marzo 1861, che dava il titolo di re d’Italia alla dinastia poi esiliata e non quella della prima seduta del Parlamento italiano. Questione sottile, si dirà: ma che dimostra come questo paese rischi sempre di accontentarsi della famosa storia ‘condivisa’ anziché chiedersi come raggiungere risultati di conoscenza convincenti per la loro oggettività. Il che fa il paio con i problemi che in questo saggio si vorreb-

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bero trattare: quelli derivanti dalla maggioritaria presenza in Italia di cristiani – per lo più cattolico-romani con minoranze storiche protestanti e sempre più corpose minoranze uniate, ortodosse, presbiteriane, battiste e una seminagione evangelicale di cui si sente appena la presa e si ignora tutto. Un apparente conflitto? Un lettore onesto che legga gli atti ufficiali legati alla celebrazione centocinquantenaria avrebbe diritto di pensare che l’unità nazionale fu ottenuta con un velo di disappunto da parte di Pio IX e di qualche ecclesiastico. Un dissapore di poco conto, presto superato e rovesciatosi in un grande apprezzamento nel momento in cui, ispirando la Costituzione del 1948 alla filosofia del personalismo cattolico, lo Stato e la Chiesa gettavano nuove basi al loro rapporto. Chi lo dice non è un commentatore, ma papa Benedetto XVI, primate d’Italia, in una lettera a Giorgio Napolitano del 17 marzo 2011. Dopo aver rivendicato l’apporto «della Chiesa e dei credenti» alla formazione dell’identità nazionale, il papa scriveva: Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a «fare gli italiani», cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni

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Premessa

Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: «cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa».

Il peso delle scomuniche sui votanti ai plebisciti di annessione dei territori dello Stato della Chiesa, le sanzioni canoniche contro i governanti e i parlamentari del regno, i discorsi di Manzoni senatore contro la ‘casta’ clericale dopo Porta Pia, la condanna dottrinale di Rosmini, tutto viene riassorbito da una citazione di don Bosco che semplifica di molto il problema della lotta contro la «rivoluzione» (così il papato chiamava il Risorgimento) anche prima della cesura del 20 settembre 1870. Scrive ancora il papa che nel 2011 reggeva la Chiesa: La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di «Questione Romana», suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale «Conciliazione», nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il «non expedit», rivolse le real­tà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine del-

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lo Stato Pontificio era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della «Questione Romana» attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: «Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai».

Non c’è bisogno di dire che se la mancanza di un «conflitto» allude all’assenza di un Kulturkampf di stampo bismarckiano, è (parzialmente) vera: la gigantesca spoliazione della Chiesa non si accompagnò, per difetto intellettuale degli spogliatori, a una abrasione intellettuale proporzionata. Ma è altrettanto vero che non fu Pio IX a chiedere che la tutela delle potenze europee negoziasse la consegna di Roma all’esercito italiano piemontese, che il ‘non expedit’ non aveva certo come scopo la costruzione disciplinata di una militanza sociale, che la condanna del ‘modernismo sociale’ o l’esilio di Sturzo o il piano di Tacchi Venturi per salvare la «parte buona delle leggi razziali» sono lì a ricordare che quella vicenda fu ruvidamente storica, fatta di tesi rispetto alle quali la famosa conferenza del cardinal Montini della vigilia del Vaticano II segnava una svolta nettissima. Il vero della storia Perché allora il papa scriveva così nel marzo del 2011? Una forma di apprezzabile cortesia che serve a manifestare il rispetto per lo Stato democratico e il rappresentante dell’unità nazionale? L’eccesso di zelo di un minutante ignaro di storia italiana e corretto solo qualche mese dopo da un discorso del sostituto Giovanni

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Premessa

Angelo Becciu all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede? A me pare di no. Benedetto XVI scriveva così in una circostanza storica molto precisa: cioè mentre l’Italia stava entrando – senza saperlo – nell’ultimo semestre di una formula politica che poteva estinguersi molto tempo prima e che invece era stata blandita e idratata da patti, esitazioni, negoziati che avevano visto la platea ecclesiastica assai attiva. In quel marzo 2011 mancavano ancora centocinquanta giorni al momento in cui il paese stava per catapultarsi all’indietro al dramma del 1992: il combinato disposto fra recessione, crisi politica, corruzione, creerà di nuovo un groviglio (a dipanare il quale, questa volta, l’ex comunista partenopeo Giorgio Napolitano chiamerà un cattolico ambrosiano come Mario Monti). Di questo scenario – che si consuma a due anni dalla rinunzia del papa tedesco e dalle elezioni generali che la seguono di poco – è ovvio che il pontefice di allora non abbia avuto neppur sentore, ma ciò non toglie al suo discorso un significato oggettivo. Esattamente come è vero che la Chiesa non sposta voti, ma semplicemente ne pre-sente gli itinerari attraverso la sua straordinaria capillarità territoriale, anche in quel 2011 essa coglieva ed esprimeva nelle parole del pontefice il bisogno di sospendere i conflitti, di sedare gli animi, di disinnescare ogni potenziale divisività. Come se si fosse inattesamente inculturato nell’Italia di cui era primate, Joseph Ratzinger faceva sua l’idea che non c’è una verità storica – ben diversa per consistenza dalle verità dogmatiche, ma di sostanza consimile – alla quale prestare ascolto, ma solo un mosaico di fatti e fattoidi da comporre in un insieme coerente. Dalla sua, il papa, un po’ di storiografia ce l’aveva. Quella che dice che il papato è rimasto quello dei tempi di Pio IX, di cui Benedetto XVI ha rimesso in auge la ferula. Quella che vede il modernismo cacciato dalla porta nel 1907 rientrar dalla finestra del concilio, causa di disastri che solo una seria ripresa delle devozioni mariane e della pietà sentimentale potrà sventare. O ancora quella storia che vede lampeggiare ovunque la spia di disegni egemonici, tentazioni teocratiche, ambizioni affaristiche, che però durano da così tanto tempo da esser passate dalla storia delle cause a quella del paesaggio. Per chi la vede così, ovvero per chi pensa che anche quando si cimenta con la storia d’Italia il papa o ha ragione o dimostra le

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ragioni opposte, quasi nessuna delle pagine seguenti avrà alcuna utilità: non perché in esse si adotti un punto di vista antitetico o tanto meno polemico, ma perché muovono da due convinzioni – opinabili, modeste, fallibili – che è onesto chiarire subito a chi mi legge. Due convinzioni La prima è di carattere epistemologico. Credo che lo studio del passato sia un modo per attingere a una verità parziale, limitata, incerta, revocabile, ma a una verità. Questa verità mite della storia non è – ci tornerò – quella di un tribunale; non coincide mai con quella di chi quel presente lontano che è il passato l’ha vissuto, né con quella di chi considera quel passato ‘suo’ e dunque deve farlo rientrare in uno schema, sia esso politico o teologico. È una verità che per professio sua cerca dettagli, accetta spiegazioni, ed è indisponibile alle generalizzazioni e alle censure: queste ultime perché (lo scriveva, citando Giobbe, l’8 settembre 1899 Leone XIII) numquid Deus indiget vestro mendacio? E le altre perché sono l’antagonista di ogni conoscenza e violano il principio secondo cui verba generalia non sunt appiccicatoria (questo lo dice Totò vestendo i panni di Mastro Agostino Miciacio ciabattino nel San Giovanni decollato di Nino Martoglio, portato in scena nel 1940). La seconda convinzione è di carattere metodologico. Non è il destino cinico e baro di saragattiana memoria che ha determinato la fragilità della nostra cultura storica. C’è stato un degrado che è stato generale in tutto l’Occidente e che sta spostando sui margini una componente culturale – non fu così per la musica colta alla fine del XIX secolo? – fin lì ritenuta decisiva nella paideia privata e pubblica. Non solo saper d’economia o vantarsi di saperne è oggi un requisito dell’uomo politico e di quello pubblico: serve anche distinguersi dalla voracità di conoscenza storica che alimentava le classi dirigenti del Novecento. Mostrare (anche in ambito ecclesiastico) un’ostentata ignoranza dei grandi processi del tempo è ormai parte della biografia del politico conservatore e non solo di quello. In questo fenomeno degenerativo di scala globale, che coincide con l’eclissi della centralità culturale dell’Europa, l’Italia sente di avere un primato negativo, al quale ho già fatto cenno. Ma se c’è stato un peculiare degrado storiografico italiano la

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Premessa

colpa non è dei lettori o dei padroni, dei politici o dei congegni: sono quelli che lo fanno che hanno corroso il mestiere storico con la propria prosopopea, che hanno formato più generazioni al più feroce servilismo concorsuale, evaso un senso del lavoro che non verrà certo ripristinato dalla quantofrenia degli impact factors. Per far della buona storia bisogna provarci non solo ripetendo i mantra esclamativi di ogni bignamino metodologico – «La centralità della fonte!» «Sine ira et studio!» «Comprendere!» «Nel tempio della coscienza non entra lo storico!» e via dicendo – ma sperimentando un metodo. Il maestro al quale devo quasi tutto del mio mestiere, Pino Alberigo, tramandava l’affezione a un detto medievale, sigla di chiostri che non esistono più, nemmeno nelle loro versioni secolarizzate: in dulcedine societatis quaerere veritatem. Vecchiotto e démodé, esso dice qualcosa di ultramoderno: anche la scienza storica ha bisogno di sforzi collettivi, di apprendere nuovamente a fidarsi, di ritrovare il gusto di fare le cose in compagnia. Come hanno fatto i centosei studiosi (nati fra gli anni Venti e gli anni Ottanta del secolo scorso) che hanno scritto Cristiani d’Italia. Chiesa, Stato e società 1861-2011, un’opera in due tomi apparsa per i tipi della Treccani nel 2011 sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica e di cui alcune delle riflessioni qui raccolte sono state l’introduzione. Le pagine seguenti dunque non serviranno a chi cerca conforto o polemica, ma a porre meglio le domande che percorrono chi cerchi di guardare nell’insieme questa storia d’una unità che ci ha unito, una storia nella quale hanno avuto un ruolo comunità di credenti nei quali le vicende storiche hanno iscritto una dose di politicismo molto diversa da quella dei loro correligionari di altri paesi; comunità di italiani per i quali la fede in Gesù Cristo, la celebrazione dei sacramenti e il dialogo fitto col Maestro interiore hanno prodotto forme di vita e livelli di impegno che forse dicono qualcosa delle debolezze e delle forze di una nazione che ha provato a riaffezionarsi a sé stessa.

Tutto e niente I cristiani d’Italia alla prova della storia

I.

Una ricognizione dall’alto

Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte. Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto speciale, a lei intitolato: un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che – proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard – non potrebbe che arrendersi ad assolverlo davanti all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della sua ‘natura’ oppure al torcersi in bene di ciò che bene non fu1. D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato, a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca su quella base uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere. La storiografia europea e il posto del cristianesimo Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini2, la comprensione storico-critica 1   Cfr. O. Marquard, La tribunalizzazione della storia, in O. Marquard, A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-Bari 2008, pp. 122-141. 2   R. Koselleck, Geschichte/Historie, in Geschichtliche Grundbegriffe. Histo-

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Tutto e niente. I cristiani d’Italia alla prova della storia

di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere. La grande cultura universitaria tedesca elabora già nella prima metà dell’Ottocento una risposta destinata a durare nel tempo: il bisogno di conoscenza sulla vita religiosa va affidato alla storia ‘della Chiesa’, che a partire dalle fonti, come ogni altra storia, conosce un oggetto. Ma tal oggetto d’indagine – la Chiesa, per l’appunto – la storiografia non lo identifica da sé: lo riceve dalla teologia. E a quest’ultima, attraverso la verificabile acribia delle proprie istituzioni confessionali, spetta il compito di perimetrare ciò che si deve studiare, con un metodo che non per questo si concede sconti o accomodamenti e la cui qualità è quella dei Merkle, dei Lortz, degli Jedin, dei Kretschmar3. La ricerca che parla francese imbocca una via diversa e la batte in fitto dialogo con la teologia rinnovata che fiorisce fra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento: la storia ‘religiosa’ applica alla vita cristiana nel tempo i rigorosi principi di un metodo generale conscio delle proprie impotenze e lascia che l’oggetto si proponga da sé allo studioso che sa trovare – da Marc Bloch a Henri-Irénée Marrou lo scavo su questo punto non è parte infima del discorso – nel proprio mestiere un frammento di quell’alta lezione di libertà che viene dallo studio del passato. Su questa traccia si può andare molto oltre la storia delle istituzioni e arrivare, secondo il titolo di un celebre volume collettaneo curato da Jean Delumeau nel 19814, a ridosso della «storia vissuta del popolo cristiano», per applicare a una prospettiva d’autoevidente risches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, a cura di O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, vol. II, Stuttgart 1975, pp. 658-672. 3   Cfr. Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, Bologna 2010. 4   Storia vissuta del popolo cristiano, a cura di J. Delumeau e F. Bolgiani, Torino 1985.

I. Una ricognizione dall’alto

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importanza la sistematicità un tempo riservata alla storia dei papi. E lo sviluppo diacronico del rapporto con il moderno, insegna uno storico del calibro di Émile Poulat, può essere accostato – espressione altrove incomprensibile o sospetta – en sociologue: guardando cioè al modo in cui gli orientamenti del magistero agiscono effettivamente dentro società che a un tale emittente attribuiscono autonomamente un valore. È un percorso che nel 2000 Roger Aubert, canonico e storico belga di prima grandezza su cui torneremo, sintetizza in una specie di dictum: come non esistono due matematiche, una cattolica e una agnostica, così non ci sono due storie5; c’è invece un’unica ricerca di conoscenza che misura effetti, intenzioni – combattendo su un confine ondulato e comunque resistente allo sguardo critico – perché ciò che sta nei precordi della coscienza è inaccessibile. La pragmatica della ricerca britannica e americana del secondo Novecento ha tagliato altrimenti la pietra grezza della nostra questione: dato che il cristianesimo fa parte del paesaggio storico reale delle epoche e delle esistenze, si dovrà fare i conti col cristianesimo ogni qual volta si vorrà ritrarre la grande scena di una epoca, come faranno Walter Ullmann o Henry Chadwick; e ogni qual volta ci si sforzerà di capire una vita al singolare, come faranno Roland Bainton o Peter Brown e via dicendo. Fare i conti col cristianesimo per ciò che esso è: con le sue dottrine, il suo diritto, le sue complessità e i conflitti fra i modi di rappresentarsi proprio e altrui, senza sconti6. La specializzazione su oggetti così peculiari per linguaggio, forme, istituzioni, come quelli relativi alla tradizione cristiana sarà dunque non solo tollerata, ma valorizzata allo stesso modo in cui s’incrementa ogni specializzazione settoriale sulla diplomazia, l’economia, il genere, l’alimentazione, la numismatica, l’esercito e così via: giacché, senza i propri spe5   R. Aubert, Les nouvelles frontières de l’historiographie ecclésiastique, in Deux mille ans d’histoire de l’Église. Bilan et perspectives historiographiques, a cura di J. Pirotte e É. Louchez, numero monografico di «Revue d’histoire ecclésiastique», 95, 2000, 3, p. 775. 6   Un esempio dell’impianto in P. Brown, Scholarship and Imagination: The Study of Late Antiquity, Standford Presidential Lectures in Humanities and Art 2003, stanford.edu/archive, e in Late Antiquity: A Guide to the Postclassical World, a cura di G.W. Bowersock, P. Brown e O. Grabar, Cambridge Mass. 1999, pp. ix-x.

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Tutto e niente. I cristiani d’Italia alla prova della storia

cialismi, la storia generale scivola fatalmente in quadri ideologici o in miniature manualistiche. La peculiarità italiana In questo panorama, che si potrebbe prolungare su altri ambiti culturali, la vicenda italiana ha qualcosa di peculiare. Dalle università del regno spariscono nel 1873 le facoltà di teologia che in qualche parte d’Italia erano state affidate alle autorità religiose durante l’unificazione: vengono travolte dalla legge Correnti del 26 gennaio di quell’anno, ma più profondamente dalla convergenza fra anticlericali e clericali che la accoglie. Gli uni convinti così di spuntare il detestato influsso della cultura ecclesiastica nel regno. Gli altri felici, in nome d’una cultura intransigente, di preservare da contaminazioni il clero, di cui già lamentano il calo quantitativo e qualitativo, e convinti di poterlo formare meglio nei propri seminari o nelle istituzioni romane divenute nel tempo pontificie7. Ma la storia di questi saperi storico-religiosi nella cultura italiana non finisce qui. Infatti nel 1931 non la ‘scristianizzazione’, che da decenni il magistero cattolico combatte con le armi della condanna, ma il papa in persona decide di tagliare con l’enciclica Deus scientiarum Dominus le facoltà teologiche delle regioni conciliari dell’Italia e ne lascia attive, fuori Roma, solo una a Milano e una a Napoli8. Dal canto suo la cultura universitaria, che aveva letto la religiosità dentro la storia della ‘nazione’ e preparato la romanizzazione della fisionomia del cattolicesimo di cui s’impossesserà il fascismo, sigillerà presto le residue fessure: l’insegnamento 7   Cfr. L. Pazzaglia, La soppressione delle facoltà teologiche nelle università dello Stato, in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia 1861-1988, vol. III, 1870-1874. Il periodo della Destra da Lanza a Minghetti, Roma 1989, pp. 193-194, e dal punto di vista della cultura ecclesiastica C. Sagliocco, Il dibattito sulla soppressione delle facoltà teologiche universitarie in Italia (1859-1873) e i seminari vescovili, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 87, 2007, pp. 292-311. 8   K. Unterburger, Vom Lehramt der Theologen zum Lehramt der Päpste?: Pius XI., die Apostolische Konstitution «Deus scientiarum Dominus» und die Reform der Universitätstheologie, Freiburg i.B. 2010; G. Tuninetti, Facoltà teologiche a Torino. Dalla Facoltà universitaria alla Facoltà dell’Italia Settentrionale, Casale Monferrato 1999, pp. 207-208.

I. Una ricognizione dall’alto

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di storia del cristianesimo di cui alla Sapienza era titolare Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato per modernismo, verrà emarginato dal fascismo, mentre tutto quel settore si troverà fagocitato dall’idealismo o dal gemellismo9. Resta così su piazza la retorica clericaleggiante che si vanta di usare la fede per stirare le troppe pieghe della storia ecclesiastica e ne elogia sorti se non magnifiche, comunque provvidenziali, svelta nel far raddrizzare al Padre Eterno tutto ciò che era solo difficile da spiegare o troppo variato per rientrare in una apologetica di bassa lega: una retorica, insomma, estranea alla grande tradizione dell’erudizione ecclesiastica che aveva passato e futuro – da Gaetano Moroni a Giovan Battista De Rossi, da Francesco Lanzoni ad Angelo Mercati, da Angelo Giuseppe Roncalli a Leo­ ne Tondelli – e il cui revival sarà il sogno non innocente d’un Giuseppe De Luca10. Nelle università di Stato, frattanto, si forma una generazione nuova – quella dei Momigliano e dei Ruffini, dei Morghen e dei Cantimori, per intenderci – che affina il senso interiore della libertà studiando ciò che è religioso e si misura con l’insufficienza delle neutralità di un’ideologia positivista del sapere e con l’idea di una conoscenza della realtà per ‘enti’, specie per quella parte che va dal Risorgimento in poi. Nella storia generale, e in ispecie in quella che deve spiegare la parte avuta dai credenti protestanti o cattolici italiani nella formazione e negli inizi dello Stato unitario, prevalgono infatti visioni della rottura e nuovi provvidenzialismi antipapali: se ne adonta non qualche gesuita, ma il Karl Marx del 1851, irritato da quella borghesia mazziniana che «conosce soltanto le città con la loro aristocrazia liberale e i loro citoyens éclairés», mentre «i bisogni materiali della popolazione rurale italiana [...] sono naturalmente troppo triviali per i suoi celestiali manifesti cosmopolitici-neocattolici-ideologici»11. 9   A. Zambarbieri, Il cattolicesimo tra crisi e rinnovamento: Ernesto Buonaiuti ed Enrico Rosa nella prima fase della polemica modernista, Brescia 1979; L. Bedeschi, Buonaiuti, il Concordato e la Chiesa, Milano 1970; per il nodo culturale cfr. l’ormai classico G. Martini, Cattolicesimo e storicismo: momenti d’una crisi del pensiero religioso moderno, Napoli 1951. 10   G. Antonazzi, Don Giuseppe De Luca uomo cristiano e prete (1898-1962), Brescia 1991; L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca, il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989. 11   È il giudizio di Karl Marx su Mazzini, in F. Della Peruta, I democratici e

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La cornice concettuale Su come chiamare la cosa di cui si vorrebbe parlare non c’è un consenso consapevole e meditato nell’Italia studiosa, che affida quei tempi così prossimi alla filosofia della storia, più che alla storia propriamente detta. La porzione di società e cultura, di visioni del mondo e conflitti, d’autorità e fedeli, d’istituzioni e stili, di mentalità e devozioni, di costume e pietà, di filosofie e dottrine, di politiche e partiti, di organizzazioni e associazioni che percorre le stagioni della vicenda nazionale, è volentieri detta ‘la Chiesa’, in qualche caso ‘il cristianesimo’, il cattolicesimo o ‘il cattolicismo’ (così si intitolerà l’edizione italiana del celebre lavoro di Henri De Lubac12) o ancora (con un’espressione che varrebbe un libro per essere adeguatamente ricostruita nella sua altalenante fortuna) ‘il mondo cattolico’13. Un vortice di semantiche discordi che non convince mai tutti: una fantasmagoria di categorie che nasce dalle utopie sul primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, fa tappa nel ‘non potersi non’ dire cristiani di Benedetto Croce, attraversa la storia del pensiero da Francesco De Sanctis ad Antonio Gramsci e giunge fino agli storici accademici. La difficoltà maggiore della storiografia avanzata è infatti problematizzare una vicenda che a chi vive gli esiti e ne studia lo sviluppo appare fin troppo chiara nelle sue linee di fondo: ogni generazione di intellettuali, insomma, ha una sua spiegazione delle cose, una sua idea della parabola che qui ci interessa comprendere14. Per il secondo Ottocento la storia della ‘cosa’ si risolve facilmente nel descrivere la sconfitta d’un oscurantismo clericale battuto dai nuovi ‘san Giuseppe’: sono loro, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi – di cui il 19 marzo in alto Tirreno si festeggia una elitaria solennità repubblicana celebrata per scalzare il la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Milano 2004, p. 27. 12   H. De Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma [1938], Roma 1948 e poi Milano 1978. 13   Mezzo secolo di ricerca storiografica sul movimento cattolico in Italia dal 1861 al 1945. Contributo a una bibliografia, a cura di E. Fumasi, Brescia 1995. 14   G. Ruggieri, Il modello gramsciano della funzione intellettuale ed il suo impiego nella discussione ermeneutico-teologica, in Id., Sapienza e storia. Per una «teologia politica» della comunità cristiana, Milano 1971, pp. 123-139.

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falegname ebreo di Nazareth15 – che hanno tolto al papato il peso d’una potestà descritta dal discorso laico col lessico della malattia. All’opposto è il coevo racconto intransigente di un’usurpazione dei diritti di Dio di cui il ‘regime liberale’, apice dello scempio rivoluzionario degli errori moderni, pagherà il fio: una idea così durevole e penetrante che, quando il 29 ottobre del 1922, all’indomani della marcia su Roma, le campane delle chiese di Faenza suoneranno a morte per lo Stato liberale, qualcuno sentirà con commozione l’ora della rivincita16. Più avanti, nella storiografia fascista e clerico-fascista, l’intera epopea risorgimentale, incluso lo spiritualismo mazziniano e l’agiografia patriottica, diventa premessa inerte per la mirabile conciliazione con cui «Dio viene reso all’Italia e l’Italia a Dio». Un uomo vinto come è Alcide De Gasperi in quel 1929 vede subito il ‘fango’ che schizza da quel patto di potere siglato a spese della democrazia e dei cattolici17. Un diplomatico geniale come Domenico Tardini intuisce il danno che la Chiesa s’è procurata solo sette anni dopo, mentre l’impero torna sui colli fatali di Roma18. Ma per le folle l’11 febbraio 1929, la data che scalza dalle festività il 20 settembre di Porta Pia, palesa   G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010, p. 237.   Lo ricorda parlando di suo padre un futuro rettore del seminario di Faen­za e grande dotto come mons. Francesco Lanzoni: «Mio padre, per norma costante, non prendeva parte ad alcuna delle feste istituite o promosse dal nuovo governo, a nessun corteo, a nessuna commemorazione e sottoscrizione dei ‘liberali’, e voleva che tutti ci uniformassimo al suo contegno, e seguissimo il suo esempio. Quando parlava della coscrizione militare mi diceva: ‘Checco, tu non cadrai nella leva; a vent’anni avrai già veduto la caduta del governo’», in F. Lanzoni, Le memorie, Faenza 1930, p. 131; sul personaggio M. Ferrini, Cultura, verità e storia. Francesco Lanzoni (1862-1929), Bologna 2009, p. 53. Romolo Murri, dopo la sconfitta elettorale e dopo il rifiuto di Turati del 1905 della prospettiva di una alleanza, dice che bisogna «aspettare un’altra generazione di Italiani», non pensava di esserne parte: sul prete maceratese cfr. M. Guasco, in Dizionario biografico degli italiani, della Treccani, ad vocem. 17   Cfr. A. Melloni, Alcide De Gasperi alla Biblioteca Vaticana (1929-1943), in Alcide De Gasperi: un percorso europeo, a cura di E. Conze, G. Corni e P. Pombeni, Bologna 2005, pp. 141-168; A. Erba, «Proletariato di Chiesa» per la Cristianità. La FACI tra curia romana e fascismo dalle origini alla conciliazione, 2 voll., Roma 1990. 18   Cfr. le note del 1° dicembre 1935 in L. Ceci, «Il Fascismo manda l’Italia in rovina». Le note inedite di monsignor Domenico Tardini (23 settembre-13 dicembre 1935), in «Rivista storica italiana», 120, 2008, 1, pp. 313-367 e ora in Id., Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010. Sulla 15 16

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la ‘superiorità’ dell’uomo della Provvidenza e l’intelligenza della Segreteria di Stato – organo emergente della politica papale e via d’ascesa al papato per ben due dei soli quattro papi che (per essere nati dopo l’unità) si possono dire ‘italiani’ in senso strettamente nazionale19. Un quarto di secolo più tardi, dopo la guerra civile e la liberazione, l’Italia, approdata alla democrazia repubblicana, supera le resistenze di quella parte di mondo ecclesiastico e vaticano che vagheggia uno Stato confessionale e si consegna a una doppia e decisiva egemonia: quella culturale dell’anomala sinistra italiana, che inquadra i propri militanti in una ‘Chiesa’ dotata di edifici, funzioni e riti peculiari, e quella politica d’un partito cattolico nazionale che riassorbe in un unico contenitore gli altri progetti e mobilita politicamente i fedeli20. L’influenza dell’una e le tensioni dell’altro domandano il racconto di nuove genealogie: le si va a cercare nelle leghe murriane o nel popolarismo, nel sogno gemelliano o nel progetto montiniano; finché, quasi alla vigilia del tracollo politico della Dc, Pietro Scoppola identifica nel mito della cristianità perduta il motore di quelle ricostruzioni21. Che però interessavano poco la generazione del Concilio Vaticano II, impegnata a trascinare nel rinnovamento e nella riforma della vita cristiana una devozione impermeabile al tempo, la consolidata mentalità di politicizzazione della fede, irrequieti protagonismi e qualche sacca gauchiste alla moda22. Passata quella stagione, in pieno ‘papato polacco’, si torna sui registri antichi. Il tradizionalismo anticonciliare che identifica l’intransigentismo come unica ‘tradizione’ e vera ‘identità’ del sua figura cfr. C. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Roma 1988. 19   J. De Volder, Secrétairerie d’état et secrétaires d’état (1814-1978): Acquis historiographiques sur l’institution et les hommes, in Les secrétaires d’Etat du Saint-Siège (1814-1979). Sources et méthodes, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», 1998, 110, pp. 445-459. 20   A. Giovagnoli, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari 1996. 21   P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Roma 1985. 22   Si legga come una fonte A. Acerbi, La crisi dell’idea di progetto storico negli anni ’60, in L’idea di un progetto storico dagli anni ’30 agli anni ’80, Roma 1983, pp. 111-126.

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cattolicesimo, trova inatteso conforto in una storiografia che vede durare quel modello e giudica incapaci di «intaccare quelle istituzioni e quelle mentalità» gli scarti oggettivamente registrabili23. E il tradizionale linguaggio della diplomazia pontificia, che senza più rimpianti concede all’Italia postconcordataria di aver posto la sua capitale in Roma ‘da tempo’, non fa argine rispetto ai polemisti antirisorgimentali che dipingono l’Italia delle rivoluzioni come una improbabile Vandea saccheggiata da ladri massoni, orde garibaldine e cospiratori mazziniani pronti a sequestrare conventi, opere e benefici. Questa ideologizzazione integrista non ha credito né accademico né politico, ma talora s’accorda sul diapason reazionario che imputa al processo unitario le miserie del Mezzogiorno italiano o le tare dell’ex Mezzogiorno austroungarico, più tardi ribattezzato Nord24. Non è però un caso che le parole d’ordine del federalismo/secessionismo attecchiscano meglio in certe aree ‘bianche’ del Settentrione: cioè là dove antiche diffidenze verso lo Stato e campagne di mobilitazione contro di esso in nome dei corpi intermedi avevano plasmato i linguaggi della sociabilità rurale. La propaganda politica che evoca miti celtici e catechesi antiprotestanti, una vita morale disinibita e azioni crociate contro l’islam porta infatti i segni di una diserzione culturale prodottasi in più generazioni. Giacché si può dimenticare che quel Tito Livio così caro alla cultura ecclesiastica racconta come i veneti chiamarono Roma per difendersi dai celti immigrati; si può rinunciare a chiedersi quando è tramontata la consapevolezza che è la conoscenza araba di Aristotele a fare d’un frate d’Aquino niente meno che san Tommaso25; e si può rifiutare di prendere atto che la geografia degli impulsi riformatori del Cinquecento italiano del Centro-Sud è abrasa da una manualistica poco attenta a questi processi. Ma è un fatto che queste dimensioni religiose si mescolano con apparente naturalezza alle culture politiche 23   Cfr. D. Menozzi, La chiesa cattolica, in Storia del cristianesimo, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi, vol. IV, L’età contemporanea, Roma-Bari 2009, pp. 233-240. 24   Un campionario di queste ideologie in A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Milano 2009. 25   Cfr. Ratio. VII Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo (Roma, 9-11 gennaio 1992), a cura di M. Fattori e M.L. Bianchi, Roma 1994; R. Imbach, A. Oliva, La philosophie de Thomas d’Aquin. Repères, Paris 2010.

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dell’odio e della doppiezza, per fornire una rilettura populistica della storia italiana nella quale è ‘il campanile’ (sic!) che ne orienta l’interpretazione. La realtà di un oggetto di conoscenza Non si devono certo identificare queste vulgate ideologiche o interpretative, pronte a tracimare in politica, con una storiografia ricca, rigorosa, rilevantissima su scala internazionale: ma sarebbe inutilmente lezioso negare che con questi schemi, corretti da sfumature tutt’altro che insignificanti, si batte e si rapporta il grosso della storiografia italiana. Essa si trova davanti il cristianesimo come un ‘oggetto’ cronologicamente contemporaneo, ma con radici in tutti i diciannove secoli che lo plasmano, sociologicamente vistoso eppure, proprio per le sue dimensioni oggettive e l’ingombro pubblico che comporta, difficile da mettere a fuoco in modo rigoroso. Sui modi di afferrare tale ‘oggetto’ la cultura italiana non ha riflettuto molto: ma alla discussione su chi decide del ‘cosa’ si studia quando si affronta l’esperienza cristiana d’uno spazio/tempo (e i cristiani d’Italia sono uno spazio/tempo), dà un contributo decisivo nel 1973 Giuseppe Alberigo, in una serrata disputa col suo maestro Hubert Jedin aperta dalle colonne d’una rivista di grande tiratura come «Concilium»26. Alberigo, allora non ancora cinquantenne, sostiene una tesi netta e, si capirà poi, modellata dai contatti avuti con la storiografia tedesca e con la teologia francese di Marie-Dominique Chenu e di Yves Congar: lo studio storicocritico del cristianesimo riceve il suo ‘oggetto’ – il cristianesimo, dunque – dalla storia stessa, occupandosi di ciò che volta a volta ambisce a essere espressione di una adesione di fede che, pur rimanendo come tale indisponibile agli strumenti dello studioso, si configura necessariamente nel tempo e dentro la storia in un modo singolarissimo. Giacché la confessione dei cristiani è collocata lì, nella storia, non solo da ciò che fenomenicamente la rende percepibile o dalla concretezza esistentiva dei suoi praticanti, ma 26   G. Alberigo, Nuove frontiere della storia della Chiesa?, in «Concilium», 1, 1970, 7, pp. 82-102.

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dall’evento che la fonda e dalla pretesa che la costituisce. Questa lezione sul ‘cristianesimo come storia’, piena d’impliciti euristici ed ermeneutici, non è stata certo accettata da tutti e dovunque: nemmeno nella ricerca italiana di cui dicevo poc’anzi. Eppure quella visione ha accompagnato una stagione d’intenso lavoro storico-critico ed è stata il metro implicito delle formule che nei lustri hanno inteso produrre la ‘storia del movimento cattolico’, la ‘storia religiosa’ italiana, la ‘storia dell’Italia religiosa’ o ‘la storia dei rapporti Chiesa-società’27. Inclusa la scelta della grande Storia d’Italia di Einaudi degli anni Settanta di dire del cristianesimo in quanto esso si fosse inserito in una storia ‘generale’: tesi che voleva esprimere la forza intellettuale d’un impianto storico-critico convinto di essere più avanzato, ideologicamente «non troppo turbato» rispetto alle esigenze di obiettività e di scientificità, ma che finiva per ritrovarsi allineato all’essenzialismo ecclesiologico di scuola romana e alla sua pretesa che la storia della Chiesa possa esser letta provvidenzialisticamente con gli occhi della fede e dunque sia indecifrabile a uno studio diverso28. Fin qui le formule. Formule che, con buona pace del metodologismo assoluto, non hanno certo deciso dei risultati: perché se la storia è «studio degli eventi a partire da ciò che le fonti imprimono in chi le analizza», come diceva Jedin29, le formule decidono dei punti di partenza, non necessariamente di quelli d’arrivo. Lo dimostra, nella stessa opera einaudiana appena citata, il vero e proprio libro sulla storia del cristianesimo italiano dal Medioevo in qua che Giovanni Miccoli pubblica dentro il volume V (I documenti) di quella serie, integrata anni dopo dagli Annali su Chiesa e potere politico o su Roma30. E lo confermano, per pescare qua e 27   Cfr. A. Giovagnoli, La storia religiosa dell’Italia contemporanea, in Società, Chiesa e ricerca storica, a cura di M. Naro, Caltanissetta-Roma 2002, pp. 265-290. 28   E. Ragionieri, Presentazione dell’editore, in Storia d’Italia Einaudi, vol. I, Torino 1972, pp. xix-xxxv. 29   H. Jedin, Storia del concilio di Trento, vol. III, Brescia 1982, p. 12 (ed. or. 1970). 30   G. Miccoli, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I al pontificato di Giovanni XXIII, in Storia d’Italia Einaudi, vol. V/2, I documenti, Torino 1973, pp. 1497-1549; dodici anni dopo esce il volume IX degli Annali, La chiesa e il potere politico. Dal medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1985 e più tardi il volume XVI, Roma, la città del papa. Vita civile

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là, due opere su Pio IX che spiccano come capolavori degli studi storico-religiosi. Penso alla biografia pubblicata da Roger Aubert nel 1952 e causa di vessazioni di parte zelante per il sacerdote belga, oggi guardato come un maestro di prima grandezza31. Oppure al lavoro in tre volumi di p. Giacomo Martina, che su fonti di prima mano, alla fine del secolo XX32, strappa Mastai dagli ideologismi: Martina sviscera il ruolo di quell’uomo nel quale i patrioti di diverso orientamento ideologico avevano creduto e che con il suo ritorno a Roma da Gaeta nel 1849 aveva segnato l’ultima effimera resurrezione del potere temporale del papato prima che il 1870 ne segnasse la fine maledetta (per molti lustri e poi dichiarata ‘provvidenziale’ da Giovanni Battista Montini)33. Non era certo da un ecclesiastico belga, chiamato nella vecchiaia a presiedere una stagione prestigiosa per il Pontificio Comitato di Scienze storiche, o da un dotto della Compagnia tanto odiata dall’anticlericalismo dell’Ottocento, convinto che Pio IX non dovesse essere proclamato beato come invece accadde nel 200034, non era certo da costoro, dicevo, che il narcisismo storiografico fatto di categorie e d’autocertificazioni d’immunità ideologica si sarebbe potuto aspettare una sistemazione al momento definitiva del pontificato più decisivo del Risorgimento e della vicenda dell’intransigentismo: ma così è accaduto, lasciando di lato la più classica ‘formula’ coniata nella cultura occidentale per discettare di tali temi e declinata nella storiografia italiana in modo peculiare.

e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyła, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino 1997. 31   R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), apparso in Storia della Chiesa dalle origini ai giorni nostri, vol. XXI/1, Torino 1969, pp. 49-59; l’ed. francese era del 1951. 32   G. Martina, Pio IX, in tre tomi (1846-1850), (1851-1866), (1867-1878), Roma 1974-1990. 33   G. Martina, Roma, dal 20 settembre 1870 all’11 febbraio 1929 in Roma, la città del papa cit., pp. 1061-1100. 34   Cfr. R. Rusconi, Santo Padre. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2010, anche per la convinzione di Pio X che la beatificazione del predecessore fosse impedita dal fatto di non aver graziato Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, ghigliottinati il 24 novembre 1868 come responsabili dell’attentato alla caserma Serristori dell’anno prima.

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La formula ‘Chiesa e Stato’ Per raccontare la presenza/assenza del cristianesimo, la cultura italiana s’era appropriata fra le due guerre mondiali d’una chiave di lettura che per decenni è sembrata definitiva, grazie alla genialità con cui l’aveva interpretata un cattolico liberale e storico di prima grandezza come Arturo Carlo Jemolo. Il suo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cent’anni non è stato solo un bestseller/longseller dell’Italia democratica o un classico della biblioteca dotta della storia nazionale35. Uscita nel 1948 e rimasta in catalogo per mezzo secolo, l’opera è il condensato d’una ricerca storica intellettualmente indebitata con la cultura giuridica degli ecclesiasticisti come Francesco Ruffini36 e la medievistica della scuola di Raffaello Morghen, a sua volta imparentata col circolo di Ernesto Buonaiuti. Jemolo, dal canto suo, veniva da una ricerca che aveva esplorato il rapporto Stato/ Chiesa nel Settecento, senz’altro decisiva nel renderlo sensibile alle questioni di lungo periodo37; ma non di meno aveva scavato in sé stesso, come mostrano alcune amare pagine di Anni di prova, indagando lucidamente le radici del disastro morale del ventennio fascista che aveva vissuto e poi studiato38. Da quell’humus intellettuale   A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione ai giorni nostri, Torino 1948, poi riedito con prefazione di G. Miccoli almeno fino al 1992. 36   Sulla figura di Ruffini cfr. H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Roma 2000; per i rapporti con Buonaiuti cfr. Lettere di Ernesto Buonaiuti ad Arturo Carlo Jemolo (1921-1941), a cura di C. Fantappiè, Roma 1997. 37   A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, nella nuova ed. a cura di F. Margiotta Broglio, Napoli 1972. 38   A.C. Jemolo, Anni di prova, a cura di F. Margiotta Broglio, Firenze 1991, pp. 156-162: «I regimi totalitari sono deprimenti per l’uomo. Ci sono gli eroi, quelli che affrontano nell’esilio la miseria nera, la morte dei figli per privazioni; quelli che in patria subiscono condanne a trent’anni e non chiederanno mai la grazia. Ma ci sono quelli che hanno troppo contato sulle proprie forze [...]. E ci sono molti che non hanno fiducia in sé, e si rodono il fegato senza osare mai d’impegnarsi a fondo, di compiere l’azione che può costare la prigione o la perdita del pane quotidiano, e talora si disprezzano e perdono la stima del proprio io, che è la preparazione a ulteriori cedimenti; talora finiscono per dubitare di tutto; di porsi la domanda – agisco meglio io che sono come il gatto bianco preoccupato solo di sporcarsi il meno possibile il pelliccino (perché candido nessuno riesce a tenerlo; ci sarà sempre una frase scritta, un gesto compiuto, l’adesione a una sottoscrizione, una onorificenza non rifiutata, che a buon diritto potrà esserci rimproverata come un cedimento) [...]. Talora, in uno di quei grovigli che solo Dio può sciogliere, la paura, il deside35

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ed esistenziale lo stesso Jemolo aveva appreso una finezza di lettura delle fonti che ancora oggi, a decenni di distanza, fa scuola. E adotta per la sua ricerca il più affilato strumento del racconto storico: cioè la distinzione duale – quel tagliare in due settori il campo che fornisce un paradigma ermeneutico al tempo stesso afferrabile e profondo. Jemolo applica dunque alla storia italiana, la dualità classica, che impregna il futuro d’allora: Chiesa e Stato. Singolari, capitali: dove ‘la’ Chiesa è ovviamente la Chiesa romana, con i suoi scontati vincitori e ben più interessanti vinti. E ‘lo’ Stato è quell’insieme di funzioni che consegnandosi alla democrazia, per di più repubblicana, viene investito della salvaguardia del nesso coscienza/libertà che il fascismo aveva prima violentato e poi cancellato. Il paradigma Chiesa-Stato, va da sé, aveva una sua tradizione risorgimentale che iniziava almeno dalle pagine fondamentali di Alexandre Vinet del 1826 sulle libere Chiese (il plurale che Cavour perderà, con conseguenze gravissime) in libero Stato e aveva una letteratura internazionale enorme: ma altrove alludeva al dibattito costituzionale e animava la discussione («Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof», diceva il primo emendamento della Costituzione americana) sulla separazione fra la sfera del religioso rio di vita tranquilla, di vantaggi, l’umiltà di non pretendere di giudicare meglio di tutti gli altri, portano a conversioni, a dire – avevo sbagliato – ad accettare il fascismo. [...] Tutto faceva pensare che nazismo e fascismo dovessero durare secoli. Si ponevano confronti, problemi pericolosi: la caduta di Roma, le dominazioni barbariche, il mescolamento di popoli e la nuova civiltà ch’era scaturita da quelle; dal male attuale non poteva scaturire un gran bene? [...] Il coraggio viene facilmente meno allorché si pensa che tutto sia inutile, che la nostra protesta resterà solitaria, che se potremo ancora sottrarre al Moloch l’anima dei nostri figli, non potremo sottrargli quella dei nostri nipoti, che si è dei superstiti, i seguaci d’una religione destinata a morire. [...] Un regime totalitario è fonte di infinite tristezze. Quella di vedere l’opera di lento pervertimento che riesce a compiere anche sugli uomini che più stimavamo. Povera cosa è la nostra ragione, che cede sempre alla spinta del sentimento, sempre disposta a trovare buoni argomenti per giustificare la conclusione cui si desidera arrivare, cui spinge l’istinto, quella grande molla che è l’istinto della felicità. [...] Più spesso scaturisce invece l’acidità, il non voler ammettere che ci sono dei coraggiosi, dei puri, che non si limitano ad arrovellarsi, ma agiscono, accettano sacrifici che noi non si accetta; ed allora vengono fuori, e più non cambieranno, quelli che dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le più alte figure, quelli come Parri, come Bauer, come Capitini, nella cui vita non c’è un solo neo».

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e quella del diritto39: oppure evocava i confini di una realtà politica – la laicità dello Stato – dogmatizzata in Francia nella legge del 190540 ed entrata nella giurisprudenza costituzionale italiana nel 1989 attraverso la sentenza della Corte che la riconosceva come ‘principio supremo’ della repubblica41. Se il discorso su Chiesa e Stato faceva appello alla storiografia, era per cercare nel conflitto ‘originario’, nato con la riforma gregoriana del secolo XI, quei precedenti che fra Otto e Novecento rendevano il Medioevo oggetto di cronaca politica oltre che di ricerca accademica42. In Italia la formula Chiesa-Stato, jemolianamente intesa, agisce invece come la sola chiave storiografica accettabile e sempre più anelastica. Mentre Jemolo la usa per mettere in luce le opzioni perdute, le voci cadute in disgrazia, le tante occasioni di riforma della Chiesa di cui aveva bisogno lo Stato per poter contare su una cittadinanza più matura, nel discorso pubblico dell’Italia repubblicana essa ricalca linee di confine insuperabili. La divisione fra ‘cattolici’ e ‘laici’, il percolato di quel paradigma, solidifica una semplificazione destinata a dominare la cultura e proiettata in immagini irreali: come le ‘sponde’ del Tevere sulle quali, per scelta dal 1870 – e per scelta della Segreteria di Stato – non si affaccia nulla di papale, ma che, grazie anche alla prosa di Giovanni Spadolini43, diventano un luogo comune44; o come lo stereotipo dell’italiano che governa il mondo dalla Curia romana che – nonostante l’impegno di Paolo VI per internazionalizzare il personale dell’esecutivo papale – si impone senza resistenze45.

  Ph. Hamburger, Separation of Church and State, Cambridge 2002.   É. Poulat, Scruter la loi de 1905, Paris 2010. 41   A. Albisetti, Il diritto ecclesiastico nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano 20104, e L. Guerzoni, Il principio di laicità tra società civile e Stato, in Il principio di laicità tra società civile e Stato, a cura di M. Tedeschi, Soveria Mannelli 1996, pp. 59-63. 42   H. Berman, Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, Cambridge Mass. 1983 (trad. it., Bologna 1998-2010). 43   G. Spadolini, Il Tevere più largo. Da Porta Pia ad oggi, Napoli 1967; sull’andamento dell’occupazione S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina, in «Cristianesimo nella storia», 31, 2010, 1, pp. 33-74. 44   P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino 2008. 45   A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, pp. 223-340. 39 40

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Dalla formula alla politica Questo modo di dire ‘Chiesa’ ha una presa tale da rendere invisibili agli occhi dell’opinione pubblica le presenze di cattolici di rito orientale, di cristiani ortodossi, le semimillenarie minoranze protestanti (per non dire della più antica comunità religiosa d’Italia, quella ebraica, prima e dopo la persecuzione razzista46). La cattolicità della stessa Chiesa dei santi Pietro e Paolo viene declinata nel linguaggio corrente come una variante della retorica fascista della «universalità di Roma»47. ‘Chiesa e Stato’, dunque, si impone come paradigma ermeneutico dell’indipendenza e della sovranità che l’articolo 7 della Costituzione riconosce come base di quella pace religiosa, compromessa ottant’anni prima da soppressioni e incameramenti di proprietà48. Diventerà un modo per calcolare risarcimenti finanziari di non facile gestione né per il papa né per i vescovi49. La formula sarà così forte da imporsi, dopo il concordato Casaroli-Craxi del 1984, in una modellistica di relazioni bilaterali fra l’Italia e altri soggetti religiosi, ai quali – siano essi cristiani o meno – si chiede di presentarsi come corpi unitari per incassare attraverso la fiscalità generale (creatura e creatrice del sovrano pontefice, per ironia della sorte50) il riconoscimento/ dipendenza del finanziamento di Stato51. Ma torniamo al dopoguerra: nell’Italia che esce distrutta dal secondo conflitto mondiale e nella repubblica dei partiti, la for46   G. Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in «Studi storici», 29, 1988, pp. 821-902. 47   Nati nell’ottobre del 1933, i Comitati d’azione per l’universalità di Roma diventano i promotori della propaganda irredentista e coloniale; cfr. M. Cuzzi, L’internazionale delle camicie nere. I CAUR, Comitati d’azione per l’universalità di Roma, 1933-1939, Milano 2005. 48   C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica (1870-1876). Il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Roma 1996. 49   Cfr. M. Pegrari, La finanza bianca e il vescovo Luciani, in Albino Luciani dal Veneto al mondo. Atti del convegno di studi nel XXX della morte di Giovanni Paolo I, a cura di G. Vian, Roma 2010, pp. 411-440. 50   P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 20062. 51   B. Randazzo, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, Milano 20082; si vorrebbe differenziare dal modello concordatario l’intesa valdese, ora in A. Ribet, Per un’alternativa al Concordato, Torino 1988, pp. 25-33.

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mula Chiesa-Stato può bastare: giacché appaga tutti l’idea che fra l’una e l’altra entità non ci sia altro che la mediazione politica52. E la stessa storiografia vede nella storia una ispirata eziologia: niente meno che Chabod scriverà nel 1950 che la fondazione del Ppi è «il più grande evento del secolo XX», come se il rifrangersi nel passato di qualche raggio del potere democristiano risolvesse tutti i problemi critici. Lo stesso attivismo del cattolicesimo fino all’Opera dei congressi diventa un antenato il cui destino viene ricompreso in quel ‘movimento cattolico’ alla cui storia Giorgio Campanini e Francesco Traniello dedicano (proprio negli anni della revisione concordataria provocata dallo scossone referendario e dell’inavvertito spegnersi della Dc) il più gigantesco tentativo di ricostruzione critica in forma di «dizionario storico»53. Il grande sforzo intellettuale di quel dizionario coincide con il tentativo, partito dal centro culturale ambrosiano della Gazzada, di emulare la storiografia francese per fare una storia delle diocesi. Impresa avviata e poi scavalcata da un dizionario delle diocesi54 che, ancor più di quanto non abbiano fatto le monografie affidate di volta in volta a studiosi di rango o a eruditi locali, documenta come sia spontaneo in Italia pensare alle diocesi come circoscrizioni amministrative in lotta per non appiattirsi (come preteso dai concordati) sui confini amministrativi delle province, miniaturizzazioni nel loro rapporto con le città di quel paradigma alto di Chiesa e Stato. Il risultato di quest’ultimo generoso tentativo, insidiato dal localismo autocelebrativo55, patisce però di un deficit non suo: cioè la mancanza d’un lavoro sulle fonti che proprio il pensare per ‘enti’ ha fatto trascurare. Rimasto incompleto il repertorio delle lettere pastorali dei vescovi56, assente un lavoro di edizione delle fonti de52   Rimane quasi come una fonte A. Prandi, Chiesa e politica. La Gerarchia e l’impegno politico dei cattolici italiani, Bologna 1968. 53   Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, a cura di G. Campanini e F. Traniello, 5 t., Casale Monferrato 1981-1984. 54   Le diocesi d’Italia, a cura di E. Guerriero, L. Mezzadri e M. Tagliaferri, 3 voll., Cinisello Balsamo 2007-2008. 55   Cfr. A. Melloni, La storia delle diocesi italiane sullo sfondo postconciliare fra ricerca e ricezione, in Storia della Chiesa di Carpi, a cura di A. Beltrami e A.M. Ori, vol. I, Carpi 2006, pp. 269-284. 56   La proposta in D. Menozzi, Per un repertorio delle lettere pastorali in età contemporanea, in «Cristianesimo nella storia», 5, 1984, pp. 341-366; l’indivi-

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gli anni di convivenza col regime fascista comparabile a quello col quale l’episcopato tedesco ha segnato indelebilmente la storiografia della Germania57, la categoria stessa della diocesi è rimasta un artificio narrativo del locale, come se la storia di una diocesi fosse un museo di carta da tutelare in quanto bene culturale. Rispetto a tali ineluttabili fragilità, il citato Dizionario storico del movimento cattolico si proponeva dunque, all’inizio degli anni Ottanta, con un disegno organico: dizionario d’idee e d’uomini, capace di parlare delle persone che nel concreto ‘fanno’ il cattolicesimo, così come ogni altra esperienza cristiana. Giacché nella storia italiana le Chiese non esistono solo attraverso i propri vertici – le gerarchie non sempre obbedite –, o per parte cattolica nella soggezione a un papato che, perduto il potere temporale, ha guadagnato un credito d’affetto e di devozione che i pontefici precedenti non si potevano neppur sognare. Le Chiese ci sono attraverso quel tessuto di donne e uomini concreti, legati da vincoli di fraternità visibile, interpreti di tensioni personali e collettive58. Gruppi e individui portatori nella loro storia e nella loro vita di disallineamenti muti e fragorosi rispetto a ciò che si crede che essi siano. Sono coloro che non sono stati spettatori inerti quando, nell’ordinamento dell’immaginaria ‘nazione cattolica’, si sono introdotti Roma come capitale, la scuola pubblica, le magistrature secolari, la libertà religiosa, e poi la disciplina per legge del divorzio anche per i matrimoni concordatari o l’assistenza ospedaliera gratuita per l’interruzione di gravidanza. Questi passaggi sono rivendicati da forze culturali estranee alla tradizione cristiana – nel secondo Novecento soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella – come progressi ottenuti dalla loro duazione delle singole edizioni realizzate su numerose regioni italiane in http:// www.fscire.it/; un sondaggio che dà la misura di possibili lacune in A. Manfredi, Vescovi, clero e cura pastorale. Studi sulla diocesi di Parma alla fine dell’Ottocento, Roma 1999, p. 488. 57   Sulla Kommission für Zeitgeschichte - Forschung und Dokumentation zum deutschen Katholizismus im 19. und 20. Jahrhundert, cfr. per le origini R. Morsey, Gründung und Gründer der Kommission für Zeitgeschichte 1960-1962, in «Historisches Jahrbuch», 115, 1995, pp. 453-485 e, sul percorso, Zeitgeschichtliche Katholizismusforschung. Tatsachen, Deutungen, Fragen. Eine Zwischenbilanz, a cura di K.-J. Hummel, Paderborn 2004. 58   Cfr. A. Acerbi, Introduzione, in La chiesa e l’Italia: per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura dello stesso A. Acerbi, Milano 2003, p. 12.

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determinazione a spese di una Italia bigotta e arretrata. Dall’altra parte la pubblicistica integrista e tradizionalista li considera solo riprove del perverso esito di atteggiamenti conciliatoristi e l’approdo di processi di riforma che essi denunciano invocando tali passaggi come prove di una mollezza morale e di una resa alla mondanità. Lo storico, invece, ha un punto di vista diverso: man mano che la ricerca raffredda la materia e la conoscenza della società fornisce nuovi quadri di valutazione, questi processi appaiono prima di tutto come cambiamenti nei quali i cristiani d’Italia non sono stati nemmeno per un attimo puri spettatori o massa di manovra inerte in mano alle strategie di chicchessia, ma protagonisti in una vicenda che non si lascia e non si deve pesare in blocco, piuttosto esercitando con pazienza l’arte della distinzione, cercando nel fascio dei cosa e dei perché ciò che davvero pertiene a un segmento che forma col resto un ‘tutto’ senza confondersi con esso. Uscire dal mondo cattolico Più consapevole, se non disillusa, della categoria di ‘mondo cattolico’ che mostrava i propri limiti negli studi che la assumevano come centrale, la storiografia ha così cercato nuovi modi di raccontare lo spiazzamento delle cristallizzazioni travestite da certezze. Mentre si raccontava un’Italia volta a volta ‘neutra’, ‘sacra’, o ‘religiosa’, il lavoro di scavo analitico d’una nuova leva di studiosi, che per qualche decennio ha popolato il mondo universitario nazionale, mostrava una realtà più limpida e al contempo più profonda. Nell’Italia diventata Stato non orbitavano due mondi, uno di cittadini da un lato e uno di cristiani dall’altro: esistevano soggetti capaci di legarsi e di sciogliersi, portatori d’una formazione spirituale attivata o anche solo residua, di un’educabilità alla Scrittura o ai sacramenti, osservanti o autoemancipati rispetto a discipline morali e dottrinali – insomma: cristiani. Cristiani delle ‘Chiese di Dio che sono in’ Italia, si dovrebbe dire mutuando quella decisiva formula delle lettere di Paolo – τῇ ἐκκλησίᾳ τοῦ θεοῦ τῇ οὔσῃ ἐν [alla Chiesa di Dio che è in]59 – da 59   Cfr. ad vocem il Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di G. Kittel, ed. it. a cura di F. Montagnini, G. Scarpat e O. Soffritti, Brescia 1992.

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cui discende la tradizione che vede nei fedeli d’una città una paroichìa orante in attesa della propria patria, secondo la formula dell’epistola a Diogneto così cara a grandi patrologi come Giuseppe Lazzati e Michele Pellegrino60. Ma la consapevolezza ecclesiologica d’essere una ‘Chiesa di Dio che è in’ gli italiani, che confessano la loro fede in Gesù Cristo, non l’hanno ancora avuta – se non per qualche sprazzo legato alle grandi figure dei vescovi santi, a qualche testimone capace di coagulare attorno a sé una stagione spirituale, a storie comunitarie durate abbastanza per segnare una vita, a qualche momento alto della pratica sinodale valdese. Spaventati dalle prove del tempo, i cristiani non si sono pensati come communio ‘degente’ (se non attraverso la mediazione politica che ha spinto i protestanti nei partiti di sinistra e spiega perché i cattolici non abbiano mai celebrato concili nazionali nell’Italia unita): essi si sono sentiti l’armatura che protegge il papa o la spina protestante rimasta conficcata nel paese che l’Inquisizione avrebbe voluto ‘liberare’ dalla Riforma. Dunque, proprio per astenersi dall’uso di ontologie che non ha il diritto di usare, lo storico non può che vederli esattamente così: come cristiani d’Italia.

60   Cfr. Lazzati e l’Ad Diognetum, a cura di M. Rizzi, in Dossier Lazzati 16, Roma 1999; sulla questione della paroichìa cfr. R.A. Greer, Broken Lights and Mended Lives. Theology and Common Life in the Early Church, University ParkLondon 1986.

II.

Forme della vita cristiana

Chi dunque voglia guardare ai cristiani d’Italia deve prendere atto – sembrerà banale – della loro appartenenza concreta a tempi, luoghi, culture, mode, costumi, letture, devozioni, politiche. Non a una ‘identità’ inventata a tavolino per decifrare disegni politici, sempre legittimi, purché non si confondano col piano della ricerca1. Non a un’efficacia della loro ‘presenza’, giacché il lavoro storico mostra che spesso chi ha cercato di ‘stare basso’ ha lasciato eredità più profonde nel paese di chi s’è innalzato, credendosi misura del mondo, per finire travolto dal disdoro. Nella vicenda dei cristiani si mescolano infatti molte identità e molti destini, scelte di compagnia e vicinanze fatali, lucidi volontarismi e passività estatiche: è dunque la diversità della fede concreta di cui essi sono portatori che deve essere presa in considerazione da chi voglia capire questo aspetto della vicenda nazionale. La devozione popolare La diversità interna alla vita cristiana, anche al di là della più ovvia di tutte che è quella confessionale, ha molti modi di comunicarsi; ma s’enuncia a partire da una dimensione che attraversa tutto il paese ed è forse, nel suo equilibrio fra particolarità degli usi e generalità delle forme di regolazione, un vero tratto nazionale dell’esperienza cristiana della penisola: cioè la cosiddetta devozione popolare, intesa come modo di vivere la fede trasmissibile con o senza mediazioni istituzionali.   Cfr. E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna 20102.

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In questo senso si può dire che esiste una ‘devozione’ della storia valdese in Italia che si esprime attorno alla Bibbia e mette radici, in antagonismo con un cattolicesimo fiero d’un monolitismo che non ha e inesperto del suo stesso polimorfismo. Infatti il cattolicesimo italiano, sia quando è posto come religione di Stato dallo Statuto albertino sia all’ombra del supremo principio di laicità sotteso alla Costituzione, non diventa mai una fede monocolore, un nazionalcattolicismo di tipo spagnolo o una sillaba del patriottismo come in Grecia o in Russia. Esso è variegato dalla storia e tale rimane, dai Savoia alla repubblica, conservando diverse fisionomie istituzionali, spirituali, umane. Non c’è ‘questione’ che divida l’Italia – agraria o bancaria, democristiana o comunista, meridionale o studentesca – che non scavi la Chiesa e la sua pietà con la stessa profondità con cui passa nel paese. Ed è su questa curva della realtà che si fonda il vanto della presunta ‘nazione cattolica’2: perché la presenza ecclesiastica diffusa sul territorio ne ricalca le differenze e s’accontenta di governarla con la duttilità di chi può tollerare tutto, a patto che venga riconosciuto il potere che quella tolleranza amministra. In quel tutto, per fare un esempio, è permessa la presidenza femminile di un atto di culto come la recita del rosario che regola la sociabilità rurale nei mesi della Madonna e accompagna l’agonia dei fedeli: un ministero che, nella articolazione dei ‘misteri’ in poesie dialettali, non ha certo un peso inferiore alla messa, la quale fino alla riforma liturgica del Vaticano II si svolge in uno spazio talmente indecifrabile al popolo da spingere Pio X a lanciare la parola d’ordine della actuosa participatio dei fedeli. Nel tutto, per fare un altro esempio, è permesso un uso del corpo – il corpo nudo nel culto siciliano di san Sebastiano a Noto o quello ferito nelle pratiche penitenziali di mezza Italia – che sfida il disciplinamento intervenuto dopo il Concilio di Trento a imbrigliare e velare la carne ad ogni livello nella pratica religiosa. Tutto ciò che è permesso, dunque, consolida e ipoteca l’autorità che lo concede3: in una   La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano 2004. 3   Cfr. il contributo di G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari 1978. Per la costruzione moderna dell’immaginario ‘missionario’ del Sud, cfr. G.M. Viscardi, Tra Europa e «Indie di quaggiù». Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno (secoli XV-XIX), Roma 2005. 2

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dialettica invisibile fra potere e gesto nel quale si può individuare un popolo preciso, fatto di gente che si conosce e si riconosce, una comunità concreta che proprio in ragione del suo radicamento religioso non trova mai una religiosità ‘nazionale’ (non esiste – per intenderci – la Częstochowa italiana), se non nel discorso sul papa la cui presenza funge da centro gravitazionale e insieme, fino alla ricezione del Vaticano II, da valvola che impedisce alla compagine ecclesiastica italiana di raggiungere come tale una massa critica4. La Chiesa e il senso dello Stato È dunque di matrice ecclesiastica quella debolezza dello Stato di cui la storiografia cerca le cause nella divaricazione fra un bacino centro-settentrionale, nel quale i Comuni creano le basi per piccoli staterelli, e un bacino centro-meridionale, nel quale le monarchie papale e borbonica imprimono il loro stigma sul territorio?5 Di certo la posizione della Chiesa cattolica è decisiva nel far sì che lo Stato rimanga in Italia ciò che è: un erogatore di prestazioni – fossero anche le prestazioni anticomuniste e antidemocratiche dello Stato totalitario – più che un soggetto capace di esprimere una cittadinanza, secondo il sogno di Santi Romano che arriverà fin dentro la cultura dei Costituenti6. L’adesione del cattolicesimo al territorio non ne condiziona la dottrina o il magistero: ne impregna lo statuto materiale svuotando i grandi disegni ‘riformatori’ come quello di Pio XI sull’Azione cattolica, quello di Paolo VI ed Enrico Bartoletti per la riforma della Chiesa italiana o di Camillo Ruini e Giovanni Paolo II per il riposizionamento della Cei dopo la fine del bolscevismo7. 4   Per cogliere la specificità della pietà italiana – oltre al confronto con altri paesi come appunto la Polonia, la Baviera, la Croazia, la Spagna o il Belgio – basta scorrere gli studi sulla devozione al Sacro Cuore, questo tentativo di costruire razionalmente una devozione carica di significati politici tipici del sogno restauratore di Pio XI, su cui cfr. D. Menozzi, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001; Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino 1997. 5   R.D. Putnam, R. Leonardi, R.Y. Nanetti, Making Democracy Work: Traditions in Modern Italy, Princeton 1993 (trad. it., Milano 1997). 6   P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna 1995. 7   Cfr. per ciascun aspetto R. Moro, La formazione della classe dirigente

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È un dato di cui tener conto per uscire dall’idea che il territorio, luogo del culto e della devozione popolare vissuta spesso come una seconda religione, fornisca solo materiale per una galleria di stereotipi etnoantropologici8. La caricatura della donna meridionale che danza qualche pia variante di preesistenti culti dionisiaci, l’ovvio sovrapporsi d’itinerari di peregrinazione e di sacralità del mondo antico nel moderno, la forza dei riti del santo patrono nell’antica Gallia romana, sono stati parte d’una bipartizione del tessuto spirituale del paese troppo semplice. Figure della religiosità d’ogni tempo (lo spazio del femminile, la funzione del sangue, la ritualità collettiva, l’estetica della morte) sono così state identificate in una devozione ‘meridionale’, guardata con sufficienza come un patrimonio di credulità da custodire, non foss’altro che per la sua abitudine a rispettare almeno estrinsecamente le autorità costituite. Per converso i ‘fermenti’ intellettuali giansenisti, quelli liberali, quelli modernisti, e infine la fedeltà al Vaticano II (o all’anticoncilio) sono stati evocati per fare d’altre zone del paese l’incubatore di processi ‘colti’, capaci di orientare sorti se non magnifiche, senza dubbio progressive. Fra guarigione miracolosa e impegno sociale In realtà la geografia del santo magico-terapeutico e quella del riformismo teologico-sociale non si snodano banalmente lungo la dialettica Nord-Sud. Il debito delle Chiese italiane con l’evangelismo cattolico e riformato dell’Italia centro-meridionale moderno non è certo di poco peso. Viceversa, per fare un esempio, l’eccitazione settentrionale che circonda la ‘terapia Di Bella’ che da Modena avrebbe dovuto combattere il cancro con misteriosi cocktail, ha tratti squisitamente sciamanici. Per non dire dell’aura creatasi all’inizio del XXI secolo attorno all’ospedale San Raffacattolica (1929-1937), Bologna 1979; Un vescovo italiano del Concilio. Enrico Bartoletti 1916-1976, Genova 1988; A. Melloni, L’occasione perduta. Appunti sulla storia della chiesa italiana, 1978-2009, in Il Vangelo basta. Saggi sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Roma 2009, pp. 69-122. 8   Per il quadro della disciplina cfr. V. Lanternari, Antropologia religiosa. Etnologia, storia, folklore, Bari 1997.

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ele, sul quale ridonda la fiducia nella variante medicalizzata del miracolo, officiato da un prete che porta pure le ‘stigmate’ di una persecuzione ecclesiastica durata molti decenni e revocata sotto l’episcopato di Carlo M. Martini. Non sto dicendo che non esistono nette variazioni di stile lungo la dorsale Nord-Sud del paese. Per coglierle in tutta la loro solidità basta ripercorrere la storia dell’antagonismo fra Angelo Giuseppe Roncalli e padre Pio da Pietrelcina. Da un lato la devozione asciutta, che tocca il massimo del sentimentalismo in qualche giaculatoria, del bergamasco Angelino, che si rispecchia in un tipo di prete predisposto dall’omogeneizzazione praticata nelle scuole romane a entrare in un episcopato unitario e che quando viene beatificato è per essere stato «papa del concilio»9. Dall’altro la retorica cappuccina della parola e del segno, della voce e dell’immagine, che attira un mondo di disgraziati in cerca di salvezze, di miracoli o comunque d’una pietà imprevedibilmente durevole. Quella pietà che spinge mani ignote a portare sul luogo dove il 20 luglio 2001 Carlo Giuliani viene ucciso da un giovane carabiniere, nelle giornate di follia che accompagnano il G8 di Genova, un santino che raffigura padre Pio e una preghiera per affidare a lui l’anima del defunto10. È insomma evidente che esistono sostrati di religiosità popolare che il cristianesimo primitivo, sortendo dalle città verso i pagi, riassorbe, e che prolunga per secoli ‘gusti’ antichi11; ed è evidente che la divisione del paese aumenta la concentrazione in alcune zone degli strumenti di ricerca intellettuale, come riviste o case editrici o centri di ricerca attorno ai quali si adunano cenacoli significativi. Ma il tessuto dei santuari, la densità della devozione mariana, i pellegrinaggi, i sacri monti, le icone miracolose, i riti confraternali, le reliquie della via Francigena, le processioni rurali, tutto parla d’un territorio nel quale la devozione popolare dissemina differenze che disarticolano divisioni troppo semplici e troppo estrinseche.   A. Melloni, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Torino 2009.   S. Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Torino 20092. 11   G. Otranto, Per una storia dell’Italia tardoantica cristiana, Bari 2010, che si propone una rivisitazione del classico F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), Faenza 1927. 9

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Pratiche e culti interloquiscono di continuo col popolo che li custodisce: hanno appuntamenti di calendario che dicono qualcosa dell’anno che sta per venire, forniscono premonizioni sulla sciagura e sul bene d’una comunità locale, e addirittura esercitano anche una funzione di giudice sulla stessa autorità ecclesiastica. Il caso più eloquente è quello di Napoli dove l’arcivescovo (ma non solo lui) deve essere ‘salutato’ dal miracolo e non può non esporsi a un rito di agnitio senza il quale sarebbe privo di autorità reale: ma tutta l’Italia è piena d’una rete di segnali che mostrano come ogni angolo della nazione ha una devozione, mentre nessuna devozione diventa indiscutibilmente nazionale. È un dato che viene ad esempio sottovalutato nella ricezione del Vaticano II: l’entusiasmo per la riforma conciliare, infatti, s’illude di dover ‘emancipare’ la fede dalla devozione con un ricorso superficiale a Muratori o a Barth. Un’Italia arretrata sul piano teologico spezza così una inculturazione dentro la quale c’erano ruoli, ministeri, dottrine, sensibilità e forse anche qualche scintilla della sapienza popolana che intuisce che mai una cultura genera la fede, mentre ogni esperienza di fede genera una sua cultura. O se si vuole, un’estetica. Una estetica religiosa italiana Ciò che infatti agisce sopra e contro lo strato variegato delle devozioni sono le estetiche del religioso che si sovrappongono le une alle altre, riflettono lo stratificarsi complesso delle generazioni di riferimento, degli ambienti di incubazione. Sono estetiche che vogliono ora liberarsi dalla pia irreligiosità dei riti popolari e imporre loro una metrica rigida in nome d’una misura o d’una ideologia della storia; ora invece esprimono pulsioni a una religiosità più intimistica che, però, non ha stipulato con l’autorità quel concordato pratico tipico del devozionalismo e che insospettisce i superiori; altre volte tali estetiche del religioso cercano in nuovi contesti il credito che otterrà solo nel tempo quel riconoscimento che all’inizio viene loro negato12. 12   Per una storia e un inventario del gusto architettonico cfr. Th. Verdon, Ecclesia. Le Chiese d’Italia nella vita del popolo, Torino 2010.

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È questa la spinta che muove, ad esempio, l’orologio della ‘musica sacra’, anch’essa immaginata come espressione monolitica e invece fatta di tentativi, mode, varianti, stagioni13. Da quando il giovane Giuseppe Verdi suona come organista nella parrocchia di Busseto, a quando la trascrizione dell’aria Di quell’amor arriva sul leggio dell’organista del duomo di Reggio Emilia, per la commozione dei fedeli passano circa cinquant’anni, nei quali un linguaggio musicale si impone al di là del barocchismo caro ai nobili avviati allo stato ecclesiastico e contro il purismo del movimento liturgico che si irradia dai monasteri. Non come una devozione popolare o come una scelta appropriativa: ma per la penetrazione osmotica di un’estetica del religioso che, come in questo caso, commuove sia la borghesia della Scala sia il presule ignaro di dover affidare i suoi ‘pii affetti’ alle note verdiane. Il gusto dominante della borghesia, infatti, entra nelle chiese, nei seminari dove i figli del contado e del proletariato ricevono la loro chance d’ascesa sociale, e diventa canone, in tutti i campi. Lo si potrebbe facilmente documentare a molti livelli. Con la disseminazione del Manzoni nella cultura linguistica del clero (la polemica fra professori che nei seminari impongono I promessi sposi come modello di italiano e quelli che li vietano è un fatto14). Coi ‘santini’ ad acquerello che riempiono la Filotea delle donne e fanno capolino nelle case. Con l’invenzione, travestita da restauro, di un’architettura ‘medievale’ che appare quando si deve metter mano a Santa Maria delle Grazie a Milano o quando si deve far d’Assisi un’icona di francescana simplicitas, in sintonia col rifiuto medievalista del moderno che p. Gemelli aveva lanciato fin dal 191415. Con le linee d’abbigliamento per ‘consacrati’, che, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, escogitano abitini da suora e tristi clergymen con sotto la pettorina lavabile che i cinegiornali Luce registrano, mentre in Europa i professori delle facoltà teologiche 13   Cfr. A. Melloni, Il canto liturgico nella periferia della chiesa italiana: problemi e casi di studio, in «Musica e storia», 13, 2005, 3, pp. 471-488. 14   Lo notava R. Amadei, Appunti sul modernismo bergamasco, in «Rivista di storia della chiesa in Italia», 32, 1978, pp. 382-414. 15   A. Gemelli, Medievalismo, in «Vita e pensiero», 1, 1914, p. 3: «Ecco il nostro programma! Noi siamo medioevalisti. [...] Noi ci sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta ‘cultura moderna’».

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hanno imparato a fare il nodo della cravatta e quelli poveri a metter quel che c’è16. Col Vaticano II e dopo il concilio, questa estetica cambia di titolarità: dall’alta borghesia essa passa le consegne ai giovani baby boomers, che per trasmettere la fede usano gli stessi stilemi generazionali comuni: l’abbigliamento pregrunge, la musica dei cantautori, nuovi parametri spaziali definiti dalla potenza sonora della chitarra Eko (lo strumento di Lucio Battisti e di Claudio Chieffo). Queste fasce di postadolescenti impongono una nuova estetica anche alle chiese, nel momento in cui la costruzione di nuovi edifici di culto paga dazio alla mancanza d’idee e la riforma della messa destina altari, paliotti, balaustre alle soffitte o agli antiquari: un denudamento militante che apre un fossato fra generazioni, favorisce l’autogestione rituale dei neonati movimenti e alla fine crea lo spazio per quel neointimismo fatto di polifonie soffuse, di tentativi di clonare col gregoriano il sentimentalismo del ‘sacro’, nella riabilitazione del barocco. La Bibbia e il suo esilio Entra in questa estetica del religioso, che sia sul lato protestante sia su quello cattolico inizia a misurarsi col fenomeno pentecostale17, anche il rapporto quanto mai decisivo con la Bibbia. Dal Cinquecento essa era stata il rasoio della distanza confessionale fra cattolici e protestanti. Nonostante le armonizzazioni dei Vangeli che da inizio Novecento circolano nelle parrocchie, fino al Vaticano II la Bibbia è un oggetto che abita poche e precise case. Nella primavera ecumenica degli anni Sessanta diventa strumento del dialogo fra Chiese e materia di un lavoro inutile e interessante come la traduzione interconfessionale in ‘lingua corrente’. Ma soprattutto nel primo ventennio postconciliare è oggetto d’un grande entusiasmo di lettura specie nella Chiesa cattolica: tornata dall’esilio controriformista, dovrebbe dominare la predicazione, 16   F. Ruozzi, I concilio in diretta. Il Vaticano II e la televisione tra informazione e partecipazione, Bologna 2012 (in stampa) e Il prete nel cinema, a cura di D. Viganò, Roma 2010. 17   Anche per l’inquadramento di esperienze che poi immigrano in Italia, cfr. E. Pace, A. Butticci, Le religioni pentecostali, Roma 2010.

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centrare la formazione del clero e alimentare una spiritualità dei fedeli comuni. La Bibbia sembra destinata a diventare – prima in ciclostilato e poi in libretto, la riflessione di Enzo Bianchi sulla lectio divina spopola dall’inizio degli anni Settanta – il centro del culto, della catechesi, della vita. Una stagione che produce nuove versioni e innesti di successo, come quello che inserisce la prima traduzione ‘della Cei’ nella pagina finemente annotata dalla Bible de Jerusalem curata dall’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il muro d’ignoranza delle Scritture che angustiava p. Genocchi a inizio secolo, e lo spingeva a una concorrenza emulativa con i predicatori protestanti con la pubblicazione dei ‘vangelini’, non cade. E ciò accade per ragioni precise: la scuola, dove pure c’è un’ora di religione per lungo tempo affidata al clero, si disinteressa al testo; iniziative pilota di familiarizzazione scritturistica, come quelle dell’associazione Biblia a fine secolo XX, rimangono su un piano testimoniale; e la resistenza culturale italiana non dà segni di cedimento marcando in questo una delle tante differenze con quei paesi europei dove l’analfabetismo biblico (curato dopo il giubileo del 2000 con qualche fiction televisiva o maratona di lettura) non sarebbe ritenuto socialmente accettabile nella upper class. Per una lunga stagione, che coincide con l’episcopato del cardinale Carlo M. Martini, è a questo grande filologo del Nuovo Testamento e arcivescovo di Milano negli ultimi vent’anni del secolo XX, che viene affidato de facto il compito di leggere la Bibbia in Italia. La sua finezza austera, la sua autorevolezza dottrinale, l’attenzione con cui interpreta quel ruolo di ‘antipodo’ della Roma papale che da sempre tocca alla Chiesa ambrosiana18, creano le basi d’un successo editoriale senza precedenti per tutta la sua opera e per l’alone di alta divulgazione che, per emulazione, lo circonda. Questa scia di ‘spiritualità’ biblica coincide però col tramonto della Bibbia dall’orizzonte della vita vissuta e la sua riconsegna al piano del gusto e del prodotto. Quando nel 2008-2010 le nuove traduzioni della Conferenza episcopale italia18   G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della Repubblica, in Storia d’Italia Einaudi, Annali, vol. IX, La chiesa e il potere politico. Dal medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1985, pp. 809-854.

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na e la nuova Bibbia in traduzione ecumenica (la Tob) vengono stampate in diversi formati per raggiungere i vari segmenti del ‘mercato’, il riassorbimento della Bibbia nel marketing diventa tangibile e documentato dal più asettico degli strumenti – il catalogo delle merci; una svolta coincidente con lo sbarco in Italia di un fondamentalismo cristiano-evangelicale che porta con sé il mood pentecostale, la guarigione e l’interpretazione letteralistica della Scrittura. Disunione e confessioni Nel dire del polimorfismo del cristianesimo italiano non si può comunque lasciare in secondo piano la disunione confessionale e i dilemmi storiografici che l’accompagnano, prima e dentro l’arco centocinquantenario dell’unità nazionale. La tiritera sul danno causato dalla mancanza della Riforma protestante in Italia ha accompagnato, da Gramsci in qua, intuizioni geniali e snervanti banalità storico-politiche. E ha finito per avallare un luogo comune pervasivo quanto la carnalità della devozione popolare o la sua variante intellettualistica di tipo estetico: ed è il senso di un’appartenenza alla forma cattolica del cristianesimo al contempo ritenuta ‘naturale’ e priva di qualsivoglia obbligazione. Un’appartenenza che si tinge d’affettuosità nostalgiche per la propria infanzia – specie per le generazioni per le quali Pio X introduce il rito collettivo della cresima e della ‘prima comunione’, entrata con lui nella biografia di quasi tutti gli italiani – ma va anche oltre. Come spiegare, altrimenti, che la definizione della forma religiosa e poi concordataria del matrimonio si qualifichi indicando uno spazio – ci si sposa ‘in chiesa’ o no – e non col ricorso a un aggettivo, che invece sarà usuale davanti alle nozze d’altre religioni? Questa modalità di appartenenza che rimbalza sulla dottrina – la tesi di Pio XI secondo la quale la Chiesa è il ‘vero totalitarismo’ (perché solo essa possiede la totalità dei suoi fedeli) – svanisce col 1945, ma perdura nei fedeli l’idea di possedere un diritto: il diritto di essere titolari di una libertà ora dalla legge civile ora da quella ecclesiastica ora da entrambe. È proprio per questo che, nel 2007, l’allora segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Betori, può prendere posizione in una udienza parlamentare a nome dei vescovi contro la «sostanziale omologazione tra realtà

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assai differenziate» di tipo religioso e sostenere che la eventuale equiparazione di fedi diverse non sarebbe «in linea con la tradizione culturale del nostro paese e con il sentimento religioso della maggioranza della popolazione»19. Il protestantesimo italiano Questa declinazione dell’appartenenza cristiana ha contribuito a schiacciare le altre confessioni della Riforma in un generico ‘protestantesimo’ di cui apprendono l’insufficienza le grandi masse di emigranti italiani (se ne occupano figure come mons. Scalabrini o Francesca Cabrini) e i ben più modesti flussi d’immigrazione verso l’Italia che connotano gli ultimi decenni (che di nuovo occupano e preoccupano le Chiese)20. Milioni di cittadini del nuovo Regno d’Italia emigrati negli Stati Uniti, specie negli Stati del Sud, sperimentano infatti la diversità confessionale come una vessazione rovesciata: quella che rifiuta ai ‘papisti’ – e dunque per antonomasia agli italiani – i diritti d’immigrazione di cui invece gode la popolazione Wasp (White Anglo-Saxon & Protestant) e al tempo stesso espone queste masse per lo più venute da ambienti rurali e cattolici a un incontro con la differenza cristiana attraverso la via dei matrimoni misti21. Pure l’emigrazione che più tardi punta verso paesi multiconfessionali del Nord Europa si misura con un modo di appartenere sconosciuto anche quando si tratta della propria confessione: come dimostra la Kirchensteur, la tassa che esprime l’adesione a una Chiesa e che spesso, evasa dagli immigrati italiani, fa sì che essi perdano i diritti pastorali e vengano depennati dalle liste dei fedeli22. Infine, l’immigrazione di cristiani protestanti di diverse denominazioni, arrivati per lo più dopo il 19   Lo rileva A. Giovagnoli, Problemi della «laicità», in Stato e chiesa in Italia. Le radici di una svolta, a cura di F. Traniello, F. Bolgiani e F. Margiotta Broglio, Bologna 2009, pp. 82-85, a proposito dell’audizione del 4 luglio 2007. 20   Storia d’Italia Einaudi, Annali, vol. XXIV, Migrazioni, a cura di P. Corti e M. Sanfilippo, Torino 2009; sulla valenza politica della questione all’inizio del secolo XXI, cfr. la testimonianza-intervista di A. Marchetto, Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana, Brescia 2010. 21   J. Hennesey, American Catholics. A History of the Roman Catholic Community in the United States, New York-Oxford 1981. 22   Cfr. E. Corecco, Dimettersi dalla chiesa per ragioni fiscali, in Ius et com-

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patto d’integrazione fra valdesi e metodisti del 1975, porta in Italia nuove esperienze e rafforza altre presenze di cui si sottovaluta la specificità. Comunità pentecostali e Chiese profetiche, battisti e avventisti del settimo giorno (che firmano ‘intese’ con lo Stato), gruppi anglicani di cui resta qualche traccia nei cimiteri e in opere d’arte come le porte bronzee che a Roma ricordano la storica visita dell’arcivescovo Fisher a Giovanni XXIII, le comunità di scienziati immigrati attorno ai centri di studio, le missioni dei testimoni di Geova e dei mormoni, la plantatio dell’evangelicalismo zingaro e l’arrivo di quello di colore – tutto viene percepito come un isolotto acattolico, talora descritto con quel linguaggio delle ‘sette’ tipico dell’apologetica romana, dentro un mare di cattolicesimo ‘culturale’23. Cattolici non latini e cristiani ortodossi Alle minoranze cattoliche di rito non latino, iscritte nei confini nazionali d’età repubblicana dalla storia dell’unionismo, accade qualcosa di simile. La visione vagamente esotica della comunità di Piana degli Albanesi (oggetto di periodiche curiosità mediatiche sul clero uxorato) o dei mechitaristi di Venezia è però già una forma di protezione paternalistica di Chiese unite pur nella varietà del rito. Più brutale è la vessatoria ‘italianizzazione’ che patiscono comunità di rito latino ma di lingua tedesca o slovena, esposte alle vampate del nazionalismo nel primo dopoguerra, o la drammatica situazione delle diocesi del Sud Tirolo e di Trieste nella lunga coda del secondo conflitto mondiale. Anche più drammatico è il destino delle Chiese ortodosse greche, copte, etiopi che incontra l’Italia coloniale: in queste avventure la posizione dei cattolici non è indifferente. Si pensi al ruolo svolto da Tommaso Tittoni nell’orchestrare le premesse della campagna di Libia, terra nella quale i cattolici moderati e la finanza avevano coltivato interessi corposi attraverso la Banca Romunio. Scritti di Diritto Canonico, 2 voll., a cura di G. Borgonovo e A. Cattaneo, Lugano-Casale Monferrato 1997, pp. 387-429. 23   R. Perin, Il nesso antiprotestantesimo-antisemitismo sotto Pio XI, in Pius XI. Keywords, a cura di A. Guasco e R. Perin, Münster-Berlin 2010, pp. 147-162.

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mana24. Per converso si rileggano le parole inorridite che suscita in uno come mons. Tardini il delirio di consenso popolare, episcopale, clericale attorno alla guerra d’Africa e all’oro alla patria25. I cristiani che vivono in Eritrea, Somalia o Libia, l’impero cristiano di Abissinia, l’ortodossia greca del Dodecaneso e della Grecia occupata – al pari dei musulmani sunniti, bektashiti o dervisci sui quali sventola il tricolore sabaudo – non incontrano l’Italia emancipatrice di minoranze che l’ebraismo e il protestantesimo ottocentesco avevano conosciuto. E neppure la ‘religione della libertà’ del Risorgimento anticlericale. Vedono giungere uno Stato coloniale e confessionale, nel quale la categoria dei ‘culti ammessi’ viene re-interpretata in senso vessatorio26. Lo dimostrano le discriminazioni volte a favorire la ‘penetrazione cattolica’ in terre d’altra tradizione o d’altra fede di cui i diplomatici vaticani (in gran parte italiani) sono testimoni in questi quadranti. È la tragica storia della lotta italiana alla guerriglia berbera in Africa del Nord e forse più di tutti il massacro nel monastero di Debrà Libanòs, compiuto dalle truppe dell’impero fascista nella festa di San Michele del 12 Genbot, anniversario della traslazione delle reliquie di Tècla Haimanòt, fondatore del monastero27. Il massacro non è la norma: ma è significativo che quel massacro non diventi mai 24   F. Margiotta Broglio, La «pace religiosa» del 1929, in Un secolo da Porta Pia, a cura di A.C. Jemolo et al., Napoli 1970, pp. 299-301. 25   Cfr. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010, pp. 139-140 con le note del 1° dicembre 1935. 26   È atteso su questo un contributo di F. Margiotta Broglio, basato sulle carte dell’Archivio Segreto Vaticano recentemente aperte. 27   Com’è noto, dopo un primo assalto compiuto all’indomani dell’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937, il generale Pietro Maletti organizza una spedizione contro il monastero, al quale dal 1881 era riconosciuto un diritto d’asilo e che, per questo motivo, viene individuato come possibile rifugio degli attentatori: così, avuta «l’occasione per sbarazzarsi di loro», gli italiani la usano e il 20 maggio passano per le armi i pellegrini vecchi o disabili imprigionati nell’area del cenobio all’indomani della festa dell’arcangelo, e nei giorni successivi fucilano, fra Zega Weden e Laga Wolde, 297 monaci e 23 laici, per poi liquidare in una seconda fase 129 diaconi, come si vanta prudentemente Maletti. Anche se, sommando i pellegrini e gli studenti, gli storici parlano d’un numero di morti di 1000-1600, oltre alle dieci dozzine di novizi e monaci dei monasteri di Debrà Libanòs, Assabot e Zuquala deportati nel campo di concentramento a Danane. Cfr. I. Campbell, D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debrà Libanòs, in «Studi Piacentini», 21, 1997, pp. 79-128.

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oggetto d’un risarcimento, d’un gesto di perdono come quello fra vescovi tedeschi e polacchi del 1965, d’una riflessione teologica all’altezza della situazione. Spariscono i crimini come tali nello stereotipo degli ‘italiani brava gente’; e svaporano nel nulla le differenze confessionali soggiacenti al crimine, diventate se possibile ancora più irrilevanti nel cliché monoconfessionale e monoreligioso che il cinema e la tv diffondono nel dopoguerra28. Un oblio di cui alla fin fine paga lo scotto la stessa Chiesa cattolica maggioritaria. Un ecumenismo immaginato Dopo aver conosciuto una certa presenza nel movimento unionistico dell’età di Leone XIII – quello che auspicava un ‘ritorno’ alla Chiesa di Roma impossibile e paternalistico, ma che pure rappresentava in tanti ambienti europei un primo incubatore d’aspirazioni ecumeniche all’unità visibile29 – la cattolicità italiana rimane sostanzialmente marginale nel movimento ecumenico che attraversa gran parte del XX secolo. Marginale in termini d’uomini, se il solo italiano nella conferenza cattolica per le questioni ecumeniche che Johannes Willebrands raduna negli anni Cinquanta dove siedono Yves Congar o Joseph Ratzinger è Giuseppe Alberigo, allora giovane studioso formato nella singolare esperienza scientifica e spirituale del Centro di documentazione di Dossetti a Bologna30. Marginale in termini istituzionali, se il Segretariato attività ecumeniche di Maria Vingiani non diventa mai un caposaldo dell’azione pastorale della Chiesa italiana. Marginale in termini di governo, se da quando Giovanni XXIII costituisce il Segretariato per l’Unità dei cristiani 28   I culti non cattolici entrano nel palinsesto solo dopo la riforma della Rai degli anni Settanta, su cui cfr. A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano 1992. 29   É. Fouilloux, Les catholiques et l’unité chrétienne du XIXe au XXe siècle: Itinéraires européens d’expression française, Paris 1982. 30   Y. Congar, La question des observateurs catholiques à la conférence de Amsterdam, 1948, in Die Einheit der Kirche. Dimensionen ihrer Heiligkeit, Katholizität und Apostolizität. Festgabe Peter Meinhold zum 70. Geburtstag, a cura di L. Hein, Wiesbaden 1977, pp. 241-246; A. Melloni, Giuseppe Alberigo. Appunti per un profilo biografico, in «Cristianesimo nella storia», 29, 2008, pp. 665-702.

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nessuno dei suoi presidenti è mai stato italiano e solo pochissimi ne sono stati membri31. Marginale in termini di episcopato, giacché le conferenze episcopali regionali e poi quella nazionale (nonostante il lavoro in età postconciliare di mons. Alberto Ablondi a Livorno, dei vescovi di Bari e Torino attorno alle reliquie di san Nicola e alla Sindone, dei vescovi piemontesi più vicini alle valli valdesi) non hanno certo avuto il ruolo d’altre conferenze nelle grandi svolte del dialogo – a partire dalla redazione di Unitatis redintegratio del Vaticano II fino alla dichiarazione sulla giustificazione che nel 1999 chiude ad Augsburg quasi cinque secoli di controversie fra cattolici e protestanti. Perfino la scelta monastica, che da Amay a Schootenhof, da Chevetogne a Taizé, aveva fecondato l’impegno ecumenico d’intere Chiese, in Italia ha avuto un esito diverso. L’unionismo erudito di Grottaferrata della rivista «Roma e l’Oriente»32, l’eremo di suor Maria di Campello, sospettato d’essere un cenacolo modernista33, i cenobi di Monte Oliveto e di Camaldoli dove passano le idee dell’ecumenismo, la comunità ecumenica di Bose, colpita niente meno che dall’interdetto episcopale nei suoi primi anni di vita – tutti diffondono una sensibilità ecumenica attraverso iniziative di larga partecipazione. Ma la loro presenza e l’intensità della loro esperienza ecumenica è percepita in modo diverso dai tanti attori della scena ecclesiale. Altre presenze (l’insediarsi della fraternità di Gerusalemme in Italia, l’ecumenismo semplice dei focolarini, la diplomazia religiosa di Sant’Egidio) intercetteranno nell’ultimo quarto del Novecento l’attenzione per un senso della fraternità universale. Ma questa dilatazione non coincide più con la passione bruciante per l’unità visibile delle Chiese che aveva spinto tante vite ad anticipare, nella propria, il segno di ciò che si aspettava da una visitazione dello Spirito, non meno forte di quella cantata nel XII secolo. 31   M. Velati, Una difficile transizione: il cattolicesimo tra unionismo ed ecumenismo, 1952-1964, Bologna 1996. 32   G. Croce, La Badia Greca di Grottaferrata e la rivista «Roma e l’Oriente», 2 voll., Città del Vaticano 1990. 33   Su Maria cfr. i carteggi M. di Campello, G.M. Vannucci, Il canto dell’allodola. Lettere scelte (1947-1961), Bose 2006; M. di Campello, P. Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959), a cura di M. Maraviglia, Bose 2007.

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La pluralità interna della Chiesa cattolica Per quanto grande sia la distanza fra sensibilità spirituali e confessionali, la diversità tutta interna al cattolicesimo è quella che appare in primo piano a chi punti l’obiettivo della ricerca non su come il cristianesimo si presenti o si rappresenti, ma su come esso sia effettivamente collocato nella storia italiana. Dipinta come una realtà omogenea, quella cattolica è una massa in costante disallinea­ mento rispetto al mainstream spirituale, ai linguaggi devozionali, alle tendenze pragmatiche (quasi mai dogmatiche): un disallineamento grazie al quale ciò che viene descritto come immutabile per essenza si rivela dinamico34. È un dato tipico della storia unitaria? No di certo: ma il processo risorgimentale permette il formarsi di molteplici letture, che vedono come il realizzarsi d’un sogno o d’un incubo lo sgretolarsi del potere temporale del papa e l’affermarsi d’uno Stato nel quale i principi della modernità, per quanto resi blandi dalla cultura politica piemontese che li veicola, trovano albergo. Sogno delle piccole comunità riformate che uscivano insieme agli ebrei da una ghettizzazione che la cristianità cattolicoromana aveva teorizzato; incubo che il papato aveva immaginato come possibile destino di quella fiumana di errori che i moderni, sulla scia dell’orgoglio di Lutero35, avevano coltivato. E insieme occasione per distinguo, sfumature, storicizzazioni, che non aggiungono nulla alla sordità del mondo anticlericale, ma spiegano come mai il flusso di condanne che scorre fra il Sillabo di Pio IX e l’Humani Generis di Pio XII finisca per erodere l’autorità che le fulminava agli occhi di uomini di sicura tradizione e non meno audace intelligenza: come Tardini che vede a febbraio del 1939 il mondo ignaro dei «vermi» che popolano le strutture di governo della Chiesa, o come il dotto don Giuseppe De Luca, che vede alla 34   Si veda per il piano della politica la lettera di C. De Mita ad A. Moro, per confortarlo davanti all’ostilità dei vescovi, in Aldo Moro. La strategia della persuasione. La corrispondenza di Aldo Moro con i vescovi italiani all’avvento del centro-sinistra, a cura di P. Totaro, eBook, Cliopress 2004, fonte da cui dipendono vari studi, meno originali. 35   Cfr. G. Miccoli, «L’avarizia e l’orgoglio di un frate laido...». Problemi e aspetti dell’interpretazione cattolica di Lutero, in Lutero in Italia: studi storici del V centenario della nascita, a cura di L. Perrone, Casale Monferrato 1983, pp. ix-xxxiii.

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fine degli anni Cinquanta una Chiesa pericolosamente popolata di «avvoltoi» e in papa Pacelli vede l’immobilità di «un bassorilievo assiro»36. L’Italia come chance riformatrice Nelle svolte che dal 1848 al 1948 accompagnano la storia italiana e i suoi rapporti con le Chiese esistono infatti ambienti, centri, circoli, gruppi, movimenti – ‘zone’, per essere generici o neutrali – che non solo non si riconoscono in quegli schemi mentali, ma anzi vedono nello sviluppo dell’aspirazione nazionale in uno Stato qualcosa di tutt’affatto diverso. Una grande chance riformatrice, un’occasione di liberazione o addirittura l’opportunità storica per rivendicare un primato ‘morale e civile’ degli italiani dentro il grande moto che sta per sgretolare l’Europa degli imperi e poi, cent’anni dopo, il mondo bipolare degli imperi globali37. Forze che, pur senza arrivare alla preghiera per la catastrofe della patria che pronuncerà la Chiesa confessante tedesca sotto il nazismo, non leggono le vicende del fascismo in modo convenzionale e ne attendono il crollo. Che nel dopoguerra iniziano a chiamare ‘collateralismo’ quel rapporto con la Dc38 che per tanti è un indispensabile truismo anticomunista; che odorano la muffa della politicizzazione nella chimera dei cristiani ‘per il socialismo’ che imbriglia una generazione; che si sfilano dal cliché del potere come unico farmaco contro il relativismo e il ritorno nelle sagrestie. Sono certamente così i cattolici liberali, i conciliatoristi, i sospettati di giansenismo: figure che avranno nel senatore Alessandro Manzoni l’eponimo, capace di creare la lingua ‘unitaria’ di quel 36   L’espressione di Tardini in C.F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961): l’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Roma 1988. L’espressione di don Giuseppe De Luca in G. Alberigo, Roncalli «privato», in Rivisitare Roncalli, numero monografico di «Cristianesimo nella storia», 25, 2004, pp. 457-481, n. 14. 37   Cfr. F. Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano 1990, e G. Rumi, Gioberti, Bologna 2000. 38   Per la fine della formula sull’unità politica dei cattolici, cfr. A. Melloni, L’occasione perduta. Appunti sulla storia della chiesa italiana, 1978-2009, in Il Vangelo basta. Saggi sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Roma 2009, pp. 69-122.

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manifesto cristiano che sono I promessi sposi, opera di formazione di tutte le generazioni d’italiani; o che troveranno nella lucidità teologica di Antonio Rosmini il segno d’un destino (la condanna prima, lo studio poi e infine la beatificazione sotto il pontificato d’un papa tedesco…) di cui non vedranno l’approdo, ma che come lui riceveranno, da morti, citazioni elogiative profuse a risarcimento di ingiustizie presentate dal dolorismo istituzionale come un eroico «soffrire per la Chiesa»39. Il fascismo e la decerebrazione del cattolicesimo In ogni passaggio decisivo della storia nazionale c’è una parte di cristiani che sperimenta, dunque, la ‘sua’ sfasatura rispetto ai messaggi che premono da fuori o dall’alto. Accadrà all’inizio del Novecento quando Pio X, il solo papa canonizzato del suo secolo, vedrà nei fermenti che percorrono i seminari e la cultura cattolica una nuova eresia, somma di tutte le eresie, alla quale dà un nomen criminis: modernismo. Quel termine sarà evocato, da allora in poi, davanti a tensioni che si immaginerà di dover reprimere: infatti per decapitare questa ‘idra’, il santo di Riese non esita a usare il ‘sacro tavolo’ dell’appartamento papale come un’arma e a decimare la generazione colta del clero cattolico italiano40. Ciò accadrà attraverso la legittimazione della pratica delle denunce anonime, che resuscita una modalità antica d’istruzione del processo inquisitoriale41; e le denigrazioni a mezzo stampa costituiscono un corollario tutto moderno di quell’azione, il cui effetto debilitante sarà misurabile quando la propaganda fascista, con la sua roboante blandizia delle paure cattoliche, penetrerà dentro la coscienza cristiana come un coltello nel burro e sarà tardivamente percepita da Pio XI come il dramma spirituale della sua vecchiaia42. 39   A. Melloni, Soffrire a causa della chiesa: un nodo del cattolicesimo contemporaneo, in «Concilium», 39, 2003, 2, pp. 139-157. 40   Le carte del «Sacro Tavolo». Aspetti del Pontificato di Pio X dai documenti del suo archivio privato, a cura di A.M. Dieguez e S. Pagano, Città del Vaticano 2006. 41   Dizionario dell’inquisizione, a cura di V. Lavenia e A. Prosperi, Torino 2010. 42   E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini, Torino 2008; aveva aperto questa direzione di ricerca lo storico lavoro Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti

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Già depauperato dalla sua storia e inibito a ogni riscossa possibile dalla soppressione delle facoltà teologiche, il clero italiano perde così per sempre la sua intellighentsia e – a differenza di ciò che accade in Francia o in Germania – delega questa funzione ‘intellettuale’ a un laicato senza formazione teologica e con una forte inclinazione politica. I progetti nella prima metà del Novecento lo documentano chiaramente: quello del p. Gemelli si basa su un disegno egemonico che prescinde dalla teologia; quello della Fuci di Giovanni Battista Montini, l’unico perseguitato della Curia romana diventato papa, è un laboratorio di rinnovamento politico anche se non disdegna le letture più alte43; quello di Giuseppe Dossetti e della galassia dossettiana apertasi con Cronache sociali, approda al Centro di documentazione con l’intento di colmare questa lacuna nel lungo periodo e con uno sforzo singolare44. Lo shock delle due guerre mondiali che altrove produce Barth, Guardini, Otto, Bremond, Maritain, Unamuno, Congar o Lonergan, in Italia deve accontentarsi della voce dei Papini, dei Lombardi, dei Guareschi45. Farsi leggere la propria storia L’interpretazione del mondo s’affida così volentieri a intellettuali estranei – da Benedetto Croce fino ad Antonio Gramsci o Pier Paolo Pasolini: letti come fossero falde d’una apologetica perduta, lampi d’intuizione teologica di cui si sente penosa la mancanza. Nessuno, nemmeno l’onnipresente p. Gemelli, è in grado di offrire questo ‘prodotto’: il suo progetto culturale sarà infatti zavorrato dall’illusione che la modernità politica, incarnata dal fascismo, e figure della cultura e della politica dei cattolici nel ’900, a cura di G. Rossini, Bologna 1972. 43   Cfr. R. Moro, Aldo Moro negli anni della Fuci, Roma 2009; su Montini cfr. G. Montini, G.B. Montini, Affetti familiari, spiritualità e politica. Carteggio (1900-1942), a cura di L. Pazzaglia, Roma-Brescia 2010, e Ph. Chenaux, Paul VI et Maritain: rapports entre ‘montinianisme’ et ‘maritainisme’, Roma 1994. 44   A. Melloni, Il filo d’una utopia. La produzione di cultura politica come filo della «utopia» di Giuseppe Dossetti, in Cronache sociali. 1947-1951. Riedizione anastatica integrale e versione digitale in dvd, 2 voll., a cura di A. Melloni, Bologna 2007, pp. xiii-xliii, e A. Melloni, Dossetti e l’indicibile, Roma 2013. 45   R. Gibellini, La teologia nel secolo XX, Brescia 19992.

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sia il luogo nel quale dedicarsi alla fabbricazione d’una nuova classe dirigente, non più formatasi nell’estremismo ed emigrata verso la moderazione (come era comune e sarebbe stato comune nella storia italiana), ma al contrario plasmata dall’etica del crociato e dalla moralità dell’eccellenza. Una drammatica eterogenesi dei fini cambia il destino della sua creatura, l’Università Cattolica dedicata al Sacro Cuore: anziché essere la fabbrica dei restauratori della cristianità perduta nel segno autoritario dell’ideologia mussoliniana – senza neppure bisogno di quella epurazione vagheggiata per fini simbolici dopo il 25 aprile46 – subirà una sorta di trasfigurazione democratica e fornirà alla democrazia repubblicana una classe dirigente di eccezionale livello morale, centrale nella storia del paese dalla Costituente fino agli inizi del secolo XXI. L’ambizione originaria di dare una ‘forma’ alla giovane generazione, di costruire personalità rese adulte da una competenza di primissimo livello, subirà arresti, ma tramonterà definitivamente soltanto negli anni Ottanta. Quando gli ex giovani di don Luigi Giussani47 batteranno Giuseppe Lazzati ed espugneranno i chiostri milanesi, con l’idea che l’Italia sia insidiata dalla penetrazione di un marxismo di cui non si intuisce l’esaurimento ideologico, si adotta una logica rovesciata: formarsi nella conquista di spazi di potere per portare senza infingimenti pseudo-moralistici una presenza che come tale – e non per gemelliana ‘eccellenza’ – sente il dovere di entrare, insieme a chiunque possa garantire un tale accesso, là dove si formano le decisioni politiche e la ricchezza. La povertà intellettuale spiega la mancanza d’una riflessione seria sulla ‘colpa’ del fascismo paragonabile a quella della Chiesa tedesca poc’anzi citata e la stessa fragilità morale di cui il cristianesimo dà prova durante le persecuzioni razziali. Gli effetti corroboranti della cultura del disprezzo verso Israele – sia esso antisemita, come ama definirsi genericamente allora sulle riviste cattoliche, o antigiudaico, come oggi si tende a fare, distinguendo un’attitudine comunque portatrice di conseguenze letali48 – so46   A. Parola, Epurare l’Università Cattolica? Il processo per filofascismo a carico di Agostino Gemelli, in «Passato e Presente», 21, 2003, 60, pp. 81-91. 47   M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005, pp. 706-785. 48   Delio Cantimori nella prefazione a R. De Felice, Storia degli ebrei italiani

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no ben visibili nelle riviste, nei passaggi, nella propaganda, nella amministrazione del razzismo italiano49. Eppure la sensibilità popolare mostra una inclinazione al soccorso degli ebrei, accolti più come povera gente in fuga che in quanto figli d’Israele: una compassione basata su quella che Renzo De Felice chiamò la «coscienza italiana» più che sulla coscienza religiosa50; una forma di solidarietà praticata correndo rischi, che si genera rompendo dentro sé stessi tacitamente o esplicitamente, in tutto o in parte, quella cultura del disprezzo, senza una indicazione dall’alto e dunque senza una riflessione morale a valle degli eventi capace di riconoscere e valorizzare questi vissuti – se non a posteriori in una funzione, tipica della vicenda nazionale, legata alla difesa della memoria di Eugenio Pacelli51. Chi ha vissuto quella rottura interiore e chi l’ha elusa, infatti, avrebbe potuto trovare occasioni per riflettere su questa esperienza, o per essere studiato in questa sua collocazione rispetto alla storia del fascismo: invece quella generazione per prima accetta e al fondo sorregge l’impianto concettuale che, dal 1963 in poi, concentra tutta l’attenzione della stampa e del teatro, del cinema e della storia, dell’agiografia e della fiction televisiva, attorno alle virtù o alle colpe, alle ragioni e ai torti, ai dilemmi e ai silenzi, alle carte e alle intenzioni del solo Pio XII, ex sese come se il grumo della Shoah appartenesse alla storia del papato (e dunque della diminuzione del papato o della difesa del papato) e non alla storia dei cristiani come tali52.

sotto il fascismo, Torino 1961, pp. xvi e xxii, in cui lamenta garbatamente un uso indistinto del termine razzismo, individua un «antisemitismo teologico-religioso», potenzialmente letale tanto quanto l’antisemitismo del razzismo biologico. 49   Storia della Shoah in Italia, a cura di M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard-Bonucci ed E. Traverso, 2 voll., Torino 2010, e D. Kertzer, I papi contro gli ebrei, Milano 2002. 50   De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., p. 258. 51   Cfr. il mio La Chiesa cattolica davanti alla Shoah (1945-2010), in Storia della Shoah in Italia cit., vol. II, pp. 288-318. 52   Nel Natale del 2009 Benedetto XVI ha firmato il decreto sull’esercizio eroico della virtù di papa Pacelli; sulla discussione anteriore cfr. R. Moro, La chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002, e A.A. Persico, Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli, Milano 2008.

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Le comunità cristiane – quelle adunate dallo zelo dei pastori e delle pastore, quelle che gli occhi del parroco (alla fine del XX secolo privato della tradizionale inamovibilità) conoscono in modo penetrante, quelle che i leader di base dei movimenti adattano al carisma fondativo – sono il luogo nel quale pluralità, disallineamenti, gusti si ricompongono in una media che diventa visibile e produce delle costanti. O forse una costante: in un paese con molte ‘rivoluzioni’ (il Quarantotto, l’unità, il fascismo), vari dopoguerra, due postconcili e un boom economico, sembra quasi che solo la politicizzazione della fede abbia l’ambizione e la forza di una continua metamorfosi. A volte si muove all’ombra dell’autorità, vantandosi di esserne l’interprete autorizzata, come nei Comitati civici e nei loro succedanei; a volte tormenta la pastorale, come nel caso della crociata «Per un mondo migliore» di p. Lombardi1; a volte è incalzata dalla gerarchia come accade nel convegno ecclesiale di Loreto dal 1985 al 2007. Comunque si sposta: considerando parte inverante della vita cristiana la sua declinazione politica sia in senso conservatore sia in senso progressista, alimenta l’antagonismo contro i cangianti stereotipi del nemico esterno e soprattutto di quello interno, contro il quale va il grosso delle risorse spirituali. «Viva il papa!» Lo negherebbe l’apologetica cattolica di fine Ottocento, agli occhi della quale distinguo e contrasti sono tutti riassorbiti dalla 1   Cfr. G. Zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, padre Lombardi e i cattolici italiani, Milano 1990.

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sola cosa che li può e li deve unificare: l’amore al papa. Per quella mentalità le varianti interne al protestantesimo non sono la cifra della libertà in Cristo, ma la prova di una frammentazione incompatibile con la verità. Le distinzioni cattoliche vengono invece ricomposte attorno al pontefice anche sul piano istituzionale: il paese ha conferenze episcopali regionali, ma non una conferenza nazionale (fino a che il Concilio Vaticano II non la rende inevitabile e il concordato la consolida) proprio per questo: godendo della presenza sul suo territorio del papa di Roma, primate d’Italia, non c’è bisogno di consigliarsi, ma di suggerire qualora vi sia la possibilità di tanto; e poi, comunque, di eseguire2. E così quando si vuol colpire a morte una esperienza, una istituzione, un vescovo o altro, basta insinuare che in quella che altrove sarebbe una fisiologica assunzione di responsabilità ecclesiologica, o un giudizio legittimamente situato, si nasconde una tiepidezza, una sottovalutazione, una critica al papa. Non certo nella dottrina, ma nella coscienza pratica del cattolicesimo italiano, il papa diventa un supervescovo di rango universale in nome dei dogmi del Vaticano I, o meglio d’un volgarizzamento della ‘infallibilità’ che nel discorso comune dei clericali e degli anticlericali ideologici riassorbe tutto3. In realtà il Vaticano I, attraverso la proclamazione del primato di giurisdizione e la definizione delle condizioni nelle quali si dà una proclamazione infallibile da parte del romano pontefice, incarnava la convinzione storico-politica più cruciale dell’intransigentismo: nel cozzo con la modernità, quest’ultima avrebbe attaccato l’apice della piramide ecclesiastica perno dell’ultima autorità e della più alta verità. Dunque tutelava dal vertice il principio d’autorità, riconoscendogli quelle potestà che si temeva si fossero attenuate con la perdita del potere temporale4. Immaginati per respingere la banalizzazione del ministero petrino, sul quale la satira non si   F. Sportelli, La Conferenza episcopale italiana (1952-1972), Galatina 1994.   Ad esempio il fioretto, palesemente falso, di Indro Montanelli che scrive di essersi sentito dire dal papa: «solo voi laici credete all’infallibilità della chiesa», cfr. la prefazione a L. Bedeschi, Olinto Marella, un prete accattone, Cinisello Balsamo 1998, p. 6. 4   Sulla parzialità del concilio K. Schatz, Vatikanum I. 1869-1870, 3 voll., Paderborn-München-Wien-Zürich 1992-1994. 2 3

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risparmiava nulla, i dogmi del primato e dell’infallibilità del romano pontefice sarebbero stati compresi nei decenni successivi in un senso imprevisto e la perdita di sovranità avrebbe avuto l’effetto opposto rispetto a quello temuto. Smaterializzazione e riforma La teologia e il tempo si sarebbero infatti incaricati di dimostrare che il concilio aveva più che altro circoscritto l’area del magistero infallibile (tant’è che di esso il papato si sarebbe servito pochissimo5) e che una lettura superficiale del primato poteva attirare sul successore di Pietro responsabilità capaci di logorarne l’immagine, come si sarebbe visto dopo la Shoah, negli scandali della finanza vaticana e nella crisi nata sui casi di pedofilia fra le file del clero, di cui la Santa Sede ancora avoca la gestione a fine secolo XX. La perdita del potere dello Stato della Chiesa e su Roma, al contrario, avrebbe conferito al suo vescovo un vantaggio di sessanta anni sulla smaterializzazione del potere in immagine: una risorsa a cui avrebbero fatto ricorso assai più tardi sia le religioni politiche totalitarie, sia le democrazie televisive. Ma la convinzione di dover rintuzzare soprattutto l’arrembaggio all’ammiraglia della flotta cattolica rendeva il discorso Du Pape ancora più forte nel cattolicesimo italiano. Il senso di dover proteggere «l’Augusto Prigioniero» ovvero, nelle parole di santa Caterina da Siena (non a caso elevata a patrona d’Italia nell’anno decennale dei Patti Lateranensi), il «Dolce Cristo in terra» costruiva una spiritualità politica. Per il papa, prometteva la pia marcetta Bianco Padre di Guglielmo Giannini musicata da Mario Ruccione, più noto come compositore di Faccetta nera, la mobilitazione era permanente: «a un Tuo cenno, alla Tua voce» si sarebbe presentata solida e compatta come «un esercito all’altar». La riforma ecclesiologica del Vaticano II modifica questa costruzione mentale, prima ancora che dottrinale. Nel concilio del 1962-1965 non si riprendono i bilanciamenti ecclesiologici che il 5   Cfr. J.-F. Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle sur des vérités non révélées?, Paris 1999, sul piano teologico, e sul piano giuridico E.-W. Böckenförde, Roma ha parlato, la discussione è aperta, in «Regno-attualità», 22, 2005, pp. 739-751.

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gesuita Kleutgen aveva condensato in uno schema della costituzione De ecclesia, mai delibata nell’aula conciliare del Vaticano I a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana del 1870. Quella proposta era invecchiata attendendo la riconvocazione a lungo attesa e sempre fallita dell’assise, ufficialmente ‘sospesa’, e non sarebbe entrata al Vaticano II6. Nel concilio di Giovanni XXIII si imbocca invece la via d’una teologia della Chiesa generata dall’eucarestia, della sacramentalità dell’episcopato, della giurisdizione universale dei vescovi e della collegialità episcopale in una visione della Chiesa come communio adunata «dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», secondo la densa espressione di Cipriano di Cartagine, cara ai teologi e ai padri del Vaticano II7. Eppure – lo dimostra proprio il dibattito del 1963-1964 sulla costituzione Lumen Gentium e il suo definitivo dettato8 – è su come, quando e quanto si deve dire cum Petro/sub Petro che si scatena una lotta che insegue Paolo VI senza pietà e che vede protagonista il ceto conservatore italiano9. Gli anni postconciliari si incaricheranno di sondare il destino di questa concentrazione sul papa che nel postconcilio si ritorcerà contro di lui. Infatti Paolo VI sarà criticato e infastidito da sinistra dalla stessa contestazione che investe, per un istinto di ribellione generazionale, tutte le istituzioni alla fine degli anni Sessanta10. Ma è da destra che verrà dilaniato con l’accusa d’aver mancato di riguardo a nostalgie alle quali si dà il venerando nome di «tradizione»11: non dai leader conciliari come Giacomo Lercaro – che nel 1968 sarà rimosso per una congiura12 – ma dai sedicenti conservatori viene dichiarato eretico (come il suo predecessore 6   Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, ed. it. a cura di A. Melloni, Bologna 1995-2001. 7   Ibid. 8   Cfr. l’edizione critica in The Ecumenical Councils of the Roman Catholic Church, in Corpus Christianorum. Conciliorum œcumenicorum generaliumque decreta, a cura di G. Alberigo e A. Melloni, Turnhout 2009, pp. 296-350. 9   F.M. Stabile, Il Cardinal Ruffini e il Vaticano II. Le lettere di un «intransigente», in «Cristianesimo nella storia», 11, 1990, pp. 83-113; N. Buonasorte, Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio, Roma 2003. 10   L’Italia non ha ancora un lavoro simile a quello di D. Pelletier, La Crise catholique. Religion, société, politique en France (1965-1978), Paris 2002. 11   L. Perrin, L’affaire Lefebvre, Paris 1989 (trad. it., Genova 1991). 12   Cfr. A. Melloni, La verità e l’abbandono. Due lettere di G. Dossetti e G.

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e i suoi due successori, a sentire la propaganda dell’estremismo ‘sedevacantista’), addirittura antipapa insediatosi al posto di Giuseppe Siri che, secondo una leggenda conclavaria, sarebbe stato eletto col nome di Benedetto XVI e subito detronizzato da una congiura a favore dell’uomo più detestato dal ‘partito romano’13. Ed è a destra che si consumerà la provocazione e poi lo scisma lefebvriano, al quale la Santa Sede risponde con sospensione e scomuniche dalle quali gli eredi di quella rottura saranno liberati da un atto di grazia del vero Benedetto XVI, eletto nel 200514. Il papato ‘straniero’ Ma al di fuori di quell’episodio, l’affetto e la devozione che circondano il papa in tutto il mondo non solo non cedono, ma aumentano e in Italia – con i papi ‘stranieri’ – raggiungono un’estensione che non è correlata alla confessione di fede ed è tutt’altro che declinante15. Al punto che il protestantesimo italiano – titolare, in linea di principio, delle più gravi riserve di fede sul papato – ne sperimenterà e ricambierà l’amicizia, dai rapporti fra il patriarca Roncalli diventato papa e il pastore De Michelis di Venezia, fino alla presenza del decano della facoltà teologica valdese alla presentazione ufficiale del libro di papa Ratzinger su Gesù nel 200716. Lercaro dell’aprile 1968, in Tutto è grazia. Omaggio a Giuseppe Ruggieri, a cura di A. Melloni, Milano 2010, pp. 503-519. 13   M. Martin, attivo nelle reti dell’intelligence occidentale a fine Novecento, in Keys of Blood riprende la voce di un’elezione di Siri: il tema, cavalcato dai lefebvriani, doveva essere ancora decisivo dopo l’elezione di papa Ratzinger se il 3 settembre 2005 il cardinale F.M. Pompedda disse al «London Tablet» che i vescovi scomunicati avrebbero dovuto riconoscere l’autorità del Vaticano e la validità dei conclavi dal 1958 in poi. Lasciano sullo sfondo tali voci B. Lai, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, Roma-Bari 1993, e R. Lill, Il potere dei papi. Dall’età moderna a oggi, Roma-Bari 2008. 14   Decreto 126/2009 del 21 gennaio 2009 a firma del prefetto della congregazione per i vescovi cardinale G.B. Re nel sito www.vatican.va sotto la sezione http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cbishops/documents/rc_ con_cbishops_doc_20090121_remissione-scomunica_it.html. 15   A. Zambarbieri, Il nuovo papato: sviluppi dell’universalismo della Santa Sede dal 1870 ad oggi, Cinisello Balsamo 2001, e A. Riccardi, Giovanni Paolo II, Milano 2011. 16   D. Garrone, Tutti uguali di fronte a Gesù, in «Riforma», 143, 2007, 16, 20 aprile 2007.

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Clero e popolo La pluralità costitutiva del cristianesimo in generale e della sua maggioritaria componente cattolica, la mancanza d’una solida base teologica, la concentrazione del discorso ‘sul papa’ non sono fattori a somma zero, né su quello che si chiama volentieri ‘il laicato’, né sui vescovi, né tanto meno sul clero. Il modo in cui i pastori e i pope ottengono l’autorevolezza di cui hanno bisogno è legato alla loro formazione, alla loro storia personale, al rigore spirituale di cui si dota la fedeltà alla chiamata. Per il ministero valdese e metodista questo comporta spesso una formazione, quando non una provenienza, dall’estero. Per il prete cattolico – una teoria di antropotipi distribuiti in modo diseguale sul territorio nazionale – la condizione è diversa: «re e vescovo del suo popolo» secondo una definizione valida per tutto il primo Novecento17, il prete parroco (o l’arciprete, o il prevosto, o il rettore, o il decano, o il priore) ha molte funzioni. Viene usato quando serve per la disciplina dei fedeli, il supporto del consenso politico, l’educazione dei piccoli, la selezione della classe dirigente, il filtro delle vocazioni, la socialità18. Di lui ci si occupa quando si ripensano gli studi nei seminari da Pio X in poi. Solo tangenzialmente, ad esempio, il Vaticano II si cura di raschiare la posticcia patina monastica che ne marca il profilo: ma anche in concilio, così come nei decenni successivi, la discussione si accende solo quando si deve toccare il problema più banale del diritto canonico della Chiesa latina, cioè quello del celibato ecclesiale19: un tema che divide chi pensa che, come s’è fatto per la restaurazione del diaconato, stato di vita e ministero siano connessi da una norma positiva (ignota ai cattolici di rito orientale oltre che agli altri cristiani) che, proprio in una logica tridentina, va subordinata 17   G. Miccoli, «Vescovo e re del suo popolo». La figura del prete curato tra modello tridentino e risposta controrivoluzionaria, in Storia d’Italia Einaudi, Annali, vol. IX, La chiesa e il potere politico. Dal medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1985, pp. 881-928. 18   M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997. 19   Anche la Chiesa cattolica ha un clero uxorato nelle Chiese orientali unite a Roma e nel clero anglicano venuto alla comunione con Roma o passato nel rito romano-anglicano, su cui cfr. Anglicanorum cœtibus, a cura di G. Ruggieri, volume monografico di «Cristianesimo nella storia», 32, 2011.

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alla salus animarum e chi invece vede nella ‘speciale consacrazione’ non un cedimento al monachesimo, ma la radice dell’unica spiritualità presbiterale possibile. Il parroco e il suo pulpito Protetto dalla inamovibilità canonica, destabilizzato dalla decisione dei vescovi di fine Novecento di farne un ministro a tempo (nove anni), il parroco si identifica col pulpito e la predicazione; su questo, infatti, il prete viene giudicato, prima nei concorsi pubblici per l’attribuzione delle parrocchie e poi dal tribunale domenicale che si costituisce sul sagrato dopo la messa. Su come il clero curato italiano interloquisce attraverso la predicazione s’è studiato poco. Non è un fatto isolato; poco si conosce della confessione e della potestà di assolvere, concessa fino al concilio su licenza del vescovo e poi estesa a tutti i preti eccetto che per alcuni crimini riservati come l’aborto; non ci sono studi sulla manualistica e sulla letteratura che orienta la direzione spirituale; niente sull’ora di religione – nemmeno un catalogo dei libri di testo. Ma si tratta di esperienze che, per quanto importanti, sbiadiscono nel confronto con l’ignoranza che circonda l’omelia. Ci sono edizioni di predicazioni dei papi da giovani e di grandi figure episcopali; esistono archivi – si pensi alla Pro civitate christiana di Assisi fondata da don Giovanni Rossi20 – che conservano traccia scritta o audio di una omiletica di passaggio che è come tale un campione nazionale; le prediche dei vescovi sono in linea di principio pubbliche e spesso accessibili sui bollettini diocesani, le numerose beatificazioni del pontificato wojtyłiano hanno favorito la raccolta di omeliari sui molti santi e beati dell’età contemporanea italiana; i predicabili delle riviste per il clero e le raccolte di sermoni precotti, vendute dalle case editrici cattoliche lungo tutto il secolo, forniscono qualche dato; le omelie pronunciate nelle messe televisive della Rai e poi anche delle tv private, e in qualche caso comparabili con la predicazione nel culto delle comunità protestanti, costituiscono al netto delle interferenze dovute al me-

20   Cfr. M. Toschi, Per la chiesa e per gli uomini. Don Giovanni Rossi 18871975, Genova 1990.

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dium21, un tesoro documentario. Ma su di esso manca un lavoro storico, comparabile a quello che abbiamo per il Medioevo e la prima età moderna22. Nell’insieme solo l’arte ci ha parlato sinteticamente della predica, non nella sua dimensione filologica, ma per come è stata vissuta giorno per giorno dai riceventi, sul cui viso inespressivo hanno indugiato le grandi penne della letteratura, del teatro, del cinema italiano. Fonti che vanno tarate del fattore caricaturale di cui si nutre il racconto, ma che pongono il problema di una predicazione che resta alla larga dal testo della Scrittura, perpetuando così l’ambone come luogo dal quale è intuitivo distinguere un culto cattolico romano da uno evangelico o riformato. La predica così come appare in 35 millimetri – si pensi alle interpretazioni di Vittorio Gassman nei Nuovi mostri del 1977, al Marcello Mastroianni della Moglie del prete del 1971, ai vari preti messi in scena da Carlo Verdone o alle scelte registiche di In memoria di me del 2008 di Saverio Costanzo23 – incorpora il senso d’un discorso ormai spogliato dall’eccesso retorico che ancora ‘palpitava’ nell’Italia liberale o fascista. Insieme a questo linguaggio aulico, lascia il campo la predicazione dialettale con la quale il prete del primo Novecento guida le comunità rurali dell’immensa Italia che i confinati del fascismo raccontano con discrezione. Dagli anni Sessanta in poi appare sul pulpito un prete che predica sulla Bibbia in concorrenza con chi resta forte sui temi elettorali e morali: entrambi a valle del Vaticano II, fanno sfoggio d’un nuovo protagonismo oratorio. Non è insensato ritenere che un tale sviluppo segua direttive e mode: ma è certo – lo documentano riviste come «La Palestra del clero» o le ‘lettere al padre’ delle riviste cattoliche – che il predicatore è il primo a sapere che la navata alla quale si rivolge ha le sue zone dure e quelle molli, è politicamente 21   Cfr. Fare storia con la televisione. L’immagine come fonte, evento, memoria, a cura di A. Grasso, Milano-Roma 2006, pp. 129-140. 22   Un riferimento d’insieme sulle diverse confessioni era stato offerto da D.W. Schütz, Geschichte der christlichen Predigt, Berlin-New York 1972; per altro tempo cfr. R. Rusconi, La predicazione: parole in chiesa, parole in piazza, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino, vol. II, La circolazione del testo, Salerno 1994, pp. 563-571, e Id., Predicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma), Torino 1981. 23   D. Viganò, Il prete di celluloide. Nove sguardi d’autore, Assisi 2010.

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divisa, soprattutto vive situazioni politiche o morali che l’omileta stigmatizza come inaccettabili. A questa varietà il parroco autoritario può cercare d’imporsi, anche con successo; più spesso però questa situazione induce a una moderazione sapienziale che tocca ora le indicazioni elettorali, ora la disciplina. Clero in movimento Più tardi in chi riceve la predica appare una differenza non nuova, ma che diventa decisiva: ed è ‘la’ differenza fra tipi di cattolici. I duo genera che il diritto canonico medievale individuava nei chierici e nei laici, nelle comunità di fine Novecento separano i cattolici del territorio, i fedeli che non scelgono nulla e si trovano il clero che la geografia ecclesiastica assegna loro, dai cattolici dei movimenti, che seguono un carisma fondatore, un’esperienza originaria e si organizzano con un loro clero, una loro spiritualità, una loro organizzazione pastorale di reclutamento che di preferenza si rivolge ai giovani, vengono sottratti alle mansioni parrocchiali e in certi casi ai loro seminari. Una divisione che con gli anni Ottanta del Novecento riverbera dentro l’episcopato dove non ci sono più solo preti formati dal seminario diocesano o dall’Azione cattolica o dal collegio romano o da un cocktail di questi, come era stato nel grande ricambio episcopale messo in atto da papa Montini dopo il Vaticano II e dopo l’introduzione delle norme sulla rinuncia dei vescovi, ma sempre più spesso preti formati direttamente dai movimenti24. Al di là delle sigle, la presenza dei movimenti nel background del clero e dei vescovi segna un ulteriore fattore di diversificazione all’interno della comunità cattolica, e tramite il pentecostalismo, anche nella comunità protestante. Appena più spostato in avanti nel tempo, il pentecostalismo che immigra in Italia alla fine del secolo XX è infatti legato a comunità protestanti di denominazioni stabilite o di fondazione profetica d’Africa, d’America Latina e d’Asia25. 24   Cfr. E. Corecco, Profili istituzionali dei movimenti nella Chiesa, in I movimenti della Chiesa negli anni ’80, a cura di M. Camisasca e M. Vitali, Milano 1982, pp. 221-234, e «Movimenti» nella chiesa, a cura di A. Melloni e M. Tomka, in «Concilium», 39, 2003, 4. 25   Su un solo caso cfr. A. Adogame, A Home Away from Home. The Prolife-

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Esso porta nel quieto mondo valdese e metodista sfide nuove e impulsi missionari di rado sensibili alle istanze del dialogo ecumenico. E a questi fa da ‘contraltare’, in senso materiale, la piccola comunità tradizionalista e lefebvriana che, dopo un trentennio di clandestinità pastorale, di emarginazione culturale e di guerriglia teologica, trova nei gesti di riconciliazione di Benedetto XVI e nel populismo identitario del ‘secessionismo’ della Lega Nord (radicata in quella porzione del Lombardo-Veneto che ha da sola la metà del clero italiano) una doppia legittimazione che obbliga tutti i vescovi del paese a ripensare le proprie attitudini di governo. Il prete della carità Poi c’è un altro prete, che se mai predica e si identifica per un’altra funzione, ed è il prete della carità. L’unico che intimidisce gli anticlericali, erede di quella competizione per le masse ai margini dello Stato che vede uno accanto all’altro l’apostolo repubblicano, l’apostolo socialista e – per l’appunto – l’apostolo di Gesù26. Quella del chierico può essere una carità molto profilata sul piano politico, dove anzi la militanza diventa l’unica azione degna di questo nome: è il caso di don Romolo Murri, inventore di quella «democrazia cristiana italiana» che suonava come un tritono nel 1901 e di cui difende il valore quattr’anni dopo in un’epica disputa con Camillo Prampolini, predicatore di un Gesù «primo socialista»27. Ancor più ovvio è il caso di don Luigi Sturzo e della sua polemica contro quei «beghini dell’armonia e dell’unione dei cattolici» che si rivelerà indispensabile al fascismo28. Il profilo ration of the Celestial Church of Christ (CCC), in «Journal of Missiological and Ecumenical Research», 27, 1998, pp. 141-160, e Betwixt Identity and Security: African New Religious Movements and the Politics of Religious Networking in Europe, in «Nova Religio. The Journal of Emergent and Alternative Religions», 7, 2004, 2, pp. 24-41. 26   Cfr. A. Erba, Preti del Sacramento e preti del movimento. Il clero torinese tra azione cattolica e tensioni sociali in età giolittiana, Milano 1984. 27   L. Bedeschi, Il comizio-contraddittorio del 1901 con Don Romolo Murri a Reggio, in Prampolini e il socialismo riformista: atti del Convegno di Reggio Emilia, ottobre 1978, vol. I, Roma 1979, pp. 281-297. 28   F. Traniello, Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990.

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della politica come variante della carità tornerà a più riprese in diversi quadranti. Lo si ritrova nell’esperienza avviata da don Luigi Giussani, partita da un intento educativo e approdata, attraverso la temporanea mediazione del Movimento popolare, a ruoli di responsabilità amministrativa nell’intera Lombardia29. È vistoso nel postconcilio, con don Giovanni Franzoni, abate di San Paolo fuori le Mura, sospeso a divinis per il suo sostegno pubblico al voto per il Pci30. E più tardi riappare nella parabola di Gianni Baget Bozzo, intellettuale dossettiano, teorico della resistenza teologica al concilio con il cardinale Siri, privato nel 1985 della facoltà di dir messa per essersi candidato l’anno prima alle elezioni europee con il Psi di Bettino Craxi, e divenuto la sua ‘pelle’ per ispirazione della «Voce» a cui s’era affidato; riconciliato con la Chiesa, dal 1994 alla morte nel 2009, è l’anima pensante del partito politico fondato da Silvio Berlusconi31. Ma questa variante ‘politica’ non è che una frazione rispetto a una pratica di solidarietà che cammina per le grandi vie della distretta, prima fra tutte quella della guerra. Nel primo conflitto mondiale il clero non ha privilegi, se non quello di indossare la divisa dell’ufficiale di sanità, e dunque si trova catapultato dal febbricitante clima che attende, secondo una espressione di Emilio Gentile, l’apocalisse della modernità, a quello delle trincee. E lì si ‘nazionalizza’, come tante altre componenti della società italiana. In un contesto così estremo s’instaurano rapporti inediti: diversità e perfino devozioni un tempo distanti si incontrano nella esperienza dell’inutilità della vita e all’abbrutimento in cui essa scorre. S’affilano gli strumenti polemici – lo mostrano le caricature di guerra sul pretino – e s’acquisiscono linguaggi di cui si servirà strumentalmente il clericalismo fascista, cancellando ad esempio la memoria della deportazione nei campi di concentramento del Sud di parroci accusati, insieme ai socialisti, di essere agitatori contro la guerra32. 29   Cfr. M. Camisasca, Luigi Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, Cinisello Balsamo 2009, e S. Abbruzzese, Comunione e liberazione. Identité catholique et disqualification du monde, Paris 1989. 30   Cfr. M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano 1983. 31   G. Baget Bozzo, Come sono arrivato a Berlusconi. Dal PSI di Craxi a Forza Italia. Fede, Chiesa e religione, a cura di P. Cappelli, Lungro 2001. 32   Cfr. G. Procacci, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra

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Ma il prete combattente, partecipe del dolore dei suoi commilitoni, acquisisce una credibilità imprevista e spesso la ritorce proprio contro la guerra, come sarà nel caso di don Primo Mazzolari33. Un’attitudine che riappare nella seconda guerra mondiale, nonostante la diversa posizione formale del clero dopo il concordato: ne troviamo traccia perfino al massimo livello istituzionale, in quell’ufficio per l’assistenza sui prigionieri che sarà destinatario di milioni di angosciose richieste di notizie sui tanti uomini inghiottiti dal movimento dei fronti34; e che nel ramificarsi territoriale vede il clero attivo nell’azione di soccorso individuale, nella solidarietà di cui gli antifascisti hanno bisogno e poi in una forma di resistenza che arriva anche alla partecipazione indiretta alla lotta di liberazione35. Su questa tradizione s’inserirà un’altra carità di guerra, anzi antiguerra, di tipo pacifista e antimilitarista che porta a sostenere, come fa don Milani, la battaglia per l’obiezione di coscienza contro i cappellani militari, senza che mai nessuno abbia avuto contezza del fatto che la bozza dell’enciclica Pacem in terris aveva un paragrafo, caduto nella versione finale, che avrebbe legittimato con la forza del magistero papale questa posizione ritenuta inizialmente eccentrica36. Amare l’insopportabile Però il grosso e il proprio del prete della carità consiste nel guadagnarsi rispetto e talora notorietà nella compagnia di coloro che i benpensanti dell’Italia notabile trovano ripugnanti. La galleria, in mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in «Deportati, Esuli, Profughe», 5/6, 2006, pp. 33-66. 33   Cfr. lo stato degli studi e i progetti d’edizione critica nel frattempo venuti a conclusione in M. Maraviglia, Primo Mazzolari. Nella storia del Novecento, Roma 2001. 34   Cfr. ora Inter arma caritas. L’Ufficio informazioni vaticano per i prigionieri di guerra istituito da Pio XII (1939-1947), a cura di S. Pagano, Città del Vaticano 2004. 35   Si veda sui diversi quadranti la serie in sette volumi Cattolici, Chiesa, Resistenza, Bologna 1997-2000, usciti a cura di G. De Rosa, B. Gariglio, B. Bocchini Camaiani, M.C. Giuntella, R. Violi e W. Crivellin. 36   Cfr. la sinossi delle redazioni che ho offerto nel mio volume Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma-Bari 2010. Per gli sviluppi nel corso delle ultime guerre balcaniche di fine Novecento e nelle guerre di Iraq e Afghanistan manca ogni tipo di studio e/o rilevazione.

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questo caso, è assai più vasta e ramificata: ne fanno parte i miserabili del Deposito de’ poveri infermi di don Giuseppe Cottolengo, che inizia sotto Carlo Felice di Savoia, e i ragazzi degli oratori di don Giovanni Bosco, spinti verso le periferie della Torino alla vigilia dei moti del 184837. Poi, su per la storia unitaria, don Luigi Palazzolo e i tanti pastori dei figli del proletariato: i mutilatini di don Gnocchi, i terremotati e i poveri di don Orione, gli antichi Artigianelli, i malati di mente di don Luigi Guanella, gli zingari di don Giovanni Calabria, di don Dino Torreggiani, don Alberto Altana o di don Bruno Nicolini. Poi luoghi di redenzione umana come la Nomadelfia di don Zeno Saltini, le scuole di don Lorenzo Milani, da Calenzano a Barbiana, le Case della carità di don Mario Prandi o i cappellani delle carceri; e ancora, alla fine del secolo XX, don Luigi Picchi e i preti della droga, don Luigi Di Liegro e la Caritas italiana, don Pino Puglisi, parroco ammazzato del Brancaccio38, don Luigi Ciotti col Gruppo Abele e l’associazione contro le mafie Libera, don Virginio Colmegna della Casa della carità nella Milano di Dionigi Tettamanzi39. Inquieti, intoccabili, ineccepibili, sono una parte cospicua dell’immaginario sul prete che il perbenismo non ama, ma che solo l’odio ideologico osa disprezzare. E i laici? Gli uni e gli altri – i preti del pulpito e quelli della carità, i loro omologhi d’altre Chiese – hanno un peso decisivo nel compaginare la carne comunitaria del cristianesimo, che è fatta di presenze aterritoriali come quelle degli ordini e dei movimenti, ma soprattutto di diocesi. A governarle è chiamata una leva episcopale i cui percorsi progressivamente si amalgamano con quelli delle grandi magistrature civili e vedono scendere da Nord a Sud un funzionariato di sentimenti ‘nazionali’40. L’unificante dell’epi37   Per le premesse moderne cfr. Forme di assistenza in Italia dal XV al XX secolo, a cura di G. da Moli, Udine 2002; fu pionieristico il lavoro di P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, 3 voll., Zürich 1968-1969. 38   Sullo sfondo cfr. Chiesa e mafia in Sicilia, in «Synaxis», 14, 1996, 1. 39   Per le figure qui citate si vedano diversi dei saggi, ad indicem. 40   Rimane un classico A. Parisi, Vescovi ed episcopato. Dinamica istituzionale e caratteri strutturali dell’episcopato italiano (da Pio IX a Paolo VI), Padova 1979.

III. L’incubo della visibilità

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scopato cresce mano a mano che la pratica della nomina papale al posto della elezione dei capitoli diventa generale: regolata in modo definitivo la questione del gradimento statale e risolto dal concordato il problema del giuramento di fedeltà di tutti i vescovi (con l’eccezione di quello di Roma e del suo vicario per l’Urbe) al governo poi alla Costituzione, la nomina del vescovo si presta a essere guardata come uno strumento chiave in mano al papa, ma di portata generale. La crisi del modernismo e dell’antimodernismo infatti si presta a selezionare sulla base di una ‘affidabilità’ i presuli; il dopoguerra sembra far crescere qualche vescovo allineato alle grandi angosce teologico-politiche di Pio XII; e soprattutto dopo il concilio Paolo VI si sforzerà di creare un episcopato di ‘montiniani’, con un successo relativo ed effimero41. Si unificano altrimenti, per autorappresentazione e autodefinizione, quei cristiani e quelle cristiane d’Italia che nel vocabolario di Graziano non sono chierici: e dunque ‘laici’. Espressione dominante e amata nel cattolicesimo italiano del Novecento, ignaro sia dello sdegno dell’Anonimo normanno per il quale laicus est nomen ignominiae sia dell’adagio rinascimentale per cui il parlare fuori luogo è per antonomasia quello del laicus idiota. Una formula militare più secca di Pio X li definisce «sudditi», ai quali l’Azione cattolica di Pio XI fornisce però un campo d’impegno, anzi di collaborazione all’apostolato gerarchico – dunque ‘laici’ simmetrici a quelli che il linguaggio biblico della comunità protestante chiama ‘credenti’, per identificare i propri fedeli o quelli altrui ai quali s’indirizza la missione. Ci si sarebbe potuti attendere che dopo il Vaticano II la definizione di ‘battezzati’, coerente con la dottrina conciliare sul sacerdozio comune dei fedeli e la vocazione universale alla santità, avrebbe fatto breccia: ma non sarà così e neppure quando la forma usata nel Codex Iuris Canonici di Giovanni Paolo II (christifideles) modifica il perpetuo interrogarsi di questo ceto: che, quasi in una sorta di variante all’adagio sulla mariologia (de Beata numquam satis), mobilita opere, corsi, serate, convegni sul ‘laico’ giacché de laico, ‘a suo modo’ numquam satis42. 41   Cfr. Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, RomaBari 1992. 42   Cfr. E. Corecco, I laici nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in «La Scuola

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Anche i ‘laici’, come il clero, si possono ovviamente leggere a partire dalle varianti e dalle similitudini che li percorrono. Si potrebbero collocare da un lato le peculiarità geografiche, che vedono definirsi nel corso del Novecento modi diversificati d’accedere alle funzioni di leadership intellettuale, d’intrapresa industriale, di militanza politica, di cui si leggono gli effetti nella storia culturale, politica ed economica del paese. Dall’altro, però, ci sono visioni comuni di sé e della realtà che si trasmettono attraverso le generazioni, con adattamenti e metamorfosi locali, ma che nel loro complesso disegnano degli stili di vita del credente che perdurano, nonostante tutto: anzi sembrano integrarsi perfettamente con quella contraddizione tutta italiana che è il suo muoversi nella immobilità, il suo perdurare nelle lacerazioni, il suo metabolizzare le sconfitte vecchie in attesa di quelle nuove. Cattolica», 112, 1984, pp. 194-218, oltre che Il catalogo dei diritti-doveri del fedele nel Cic, in I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa. Atti del V colloquio giuridico (8-10 marzo 1984), Roma 1985, pp. 101-125.

IV.

I modi di autocomprendersi

Le sfumature necessarie a seguire analiticamente questi fenomeni sono la ragione e il lavoro degli studi degli specialisti che sono le frontiere della ricerca più recente. Ma ci sono tre concezioni di sé che mi pare segnino in profondità il cristianesimo italiano e che penso sia utile evocare qui. Sono i modi di autocomprendersi come una cittadella assediata, come un lievito apostolico e come una presenza orante. La cittadella assediata L’idea che i cristiani vivano in un contesto di conflitto e d’assedio non nasce alla metà dell’Ottocento: ma quella data (‘un Quarantotto’) è diventata proverbiale e crea una paradossale comunanza con i cospiratori e patrioti di mezza Europa, tutti convinti che, dopo mezze vittorie e fallimenti velleitari delle rivoluzioni dei due decenni precedenti, si sia giunti ormai alla battaglia finale. Quella nella quale il potere della Babilonia romana sta per cadere con fragore, come sognano i protestanti, pronti con la Bibbia in mano a evangelizzare quelle masse sottratte alla tirannia del papa-re e assai più svogliate di come se le immaginarono gli evangelizzatori. Ovvero, da parte cattolica, lo scontro decisivo nel quale il nemico – o forse ‘il Nemico’ – si lancia all’assalto finale per poter cancellare la Chiesa e Dio dalla società in nome dei detestati principi rivoluzionari contro i quali il magistero s’era a lungo speso, usando inutilmente la verga. Tutto il Risorgimento – dai suoi prodromi fino a Porta Pia – si incastra come insieme e come singoli episodi in un formidabile schema di lettura dell’età moderna che

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vede in ogni suo passaggio storico un errore concatenato a quelli del passato e premessa di più gravi sciagure per domani. Figlia dei Lumi, nipote della Riforma, la Rivoluzione francese era stata la matrice degli errori sul principio d’autorità, da cui erano nate le aspirazioni rivoluzionarie di Stati nazionali liberali; a loro volta premessa per instabilità ulteriori che poi spiegheranno con lo stesso tipo di ‘logica’ l’insorgenza socialista, i totalitarismi, la guerra fredda e via dicendo. La demonizzazione del mondo Fin da quell’anno-cerniera del 1848, comunque, era chiaro che ci si doveva opporre a minacce, nella cui lettura giocano due paradossi. Il primo è che la ‘demonizzazione del mondo’ che fra Cinque e Seicento spingeva ad avvistare, in ogni universo di fede, segnali di un attivismo diabolico di cui erano portatori gli individui1, si ripropone fra Otto e Novecento in una versione sociale e secolarizzata: è dentro il discorso pubblico – non esorcizzabile perché privo di un’anima da salvare – che si svolge una lotta tremenda e oscura. Il secondo è che le condanne e la sempre più accorata vaticinazione di mali ulteriori destinati ad abbattersi sui sovrani, sui popoli, sulle famiglie – che per l’Italia comportano un uso nuovo della scomunica legata al voto – si fondano nella speranza, invero assai flebile, di chiamare alla riscossa: si dice ogni male di questa società perché si sente il dovere di preparare il proprio popolo a una più grande tragedia che subdolamente s’avvicina attraverso mezzi ingannevoli2. «In tanta perversità di depravate opinioni», scrive Pio IX nella Quanta cura dell’8 dicembre 1864, tutti devono essere avvisati «che nel presente tempo altre empie dottrine d’ogni genere vengono disseminate dai nemici di ogni verità e giustizia con pestiferi libri, libelli e giornali sparsi per tutto il mondo, con i quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono»3.   J.H. Chajes, Posseduti ed esorcisti nel mondo ebraico, Torino 2010.   D. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993. 3   Nel 1948 Igino Giordani ne pubblicò una traduzione italiana nella sua raccolta delle encicliche: di recente cfr. R. De Mattei, Pio IX. Con il testo integrale del Sillabo, Milano 2001. 1 2

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Vivere sotto assedio dunque: è una mentalità e insieme una spiritualità per il cattolicesimo dell’Ottocento, che non gode come i protestanti della sensazione che questa svolta apra le porte di un futuro migliore per l’evangelo. È la spiritualità della mobilitazione febbrile, del ‘fare-fare-fare’ che impone a tutti – incluso il ‘laicato’ – l’obbligo di combattere in tutte le zone della società, specie quelle che sono inaccessibili al clero secolare e regolare. Nella lotta contro la modernità rivoluzionaria è il laico che dovrà affrontare altre prove e nuove obbedienze: anche nel ‘secolo nuovo’, quel Novecento che invoca il bagno di sangue e viene esaudito nella Grande Guerra. Dentro e dopo l’inutile strage che marca una cesura enorme nella storia europea, al ‘laico’ vengono proposti nuovi doveri che indulgono al gergo militare – la crociata, l’assalto, la penetrazione, la difesa, la riconquista, la lotta –, ma se mai usando proprio la modernizzazione dei mezzi di comunicazione e di organizzazione che il progresso sociale e tecnologico rende sempre più insensibili ai contenuti e che dunque possono servire a restaurare la christianitas. Lo scambio anticomunista È infatti un soggetto nuovo, la ‘stampa cattolica’, che stila quotidianamente il bollettino di questa lotta: a partire dall’«Osservatore Romano», il «Quotidiano politico-religioso» che nasce nel 1861 per monitorare il conflitto con l’Italia e che nei decenni cambia i propri fini4, fino agli altri organi locali, regionali, nazionali, che si misurano con i modelli specialmente francesi. Massa di manovra sul teatro della ‘battaglia’, il laicato viene improvvisamente indocilito quando il fascismo camuffa i suoi tratti anticlericali e sfrutta magistralmente la paura del comunismo per un lavoro di ipnosi di straordinaria efficacia, in capite et in membris. Dopo il 1917 la Roma ecclesiastica s’era per qualche momento illusa che la rivoluzione menscevica e poi quella bolscevica potessero essere uno strumento per la distruzione del sistema politico-religioso zarista, 4   Sulla storia del «Quotidiano politico-religioso» cfr. il volume celebrativo dei centocinquant’anni di vita dell’«Osservatore Romano», a cura di G.M. Vian e A. Zanardi Landi, Roma 2010.

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in attesa che si realizzasse quella promessa («la Russia si convertirà»), pronunciata dalla Signora di Fatima il giorno in cui Eugenio Pacelli diventa vescovo. Ma sul leninismo si deve presto cambiare idea: quel movimento, nelle cui file la presenza ebraica conferma i più profondi stereotipi antisemiti, diventa il nemico numero uno in una lista che non ha altre voci. Per sconfiggerlo è necessario sacrificare non solo il mai amato regime liberale, ma anche qualcosa di più: l’esilio a Londra di don Luigi Sturzo è il segno di una ‘apertura’ che dovrebbe favorire le tendenze confessionalistiche del regime fascista, dal canto suo altrettanto attento a distillare piccoli favori in vista dell’apoteosi della Conciliazione. Continuamente mediata e tarata dall’infaticabile p. Tacchi Venturi, homme de liaison fra i palazzi romani di piazza Venezia e del Vaticano, la disponibilità mussoliniana ad adottare estrinsecamente le parole d’ordine della morale cattolica – Dio come obbligo di culto almeno ufficiale, la patria come forma del cattolicesimo nazionale, la famiglia come luogo della subordinazione della donna – appare accettabile alla gerarchia, al clero: e dunque al ‘laicato’, ignaro di tormenti e delusioni che si consumano nelle logge del Palazzo Apostolico dove ha sede la Segreteria di Stato5. Le forze limpide Solo piccoli ambienti, educati a cercare sì una restaurazione del regno di Cristo in senso spirituale, percepiranno l’orrore di questo scambio: sono gli ambienti della Fuci, contro i quali gli squadristi si accaniscono a più riprese; qualche circolo accademico; piccoli mondi di ex modernisti ormai isolati. Per gli altri è un fatto meccanico che fa dell’anticomunismo il motore politico fondamentale di ogni analisi della realtà: e che regge. Regge quando la firma della Conciliazione porta al pettine le ambiguità di Mussolini, che si dice lucidamente «cattolico e non cristiano»; regge mentre dentro la Segreteria di Stato ci si chiede come reagire davanti all’invasione dell’Etiopia, alle leggi razziste, e poi all’entrata in guerra. E regge dentro la catastrofe: al punto che un uomo di 5   E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini, Torino 2008, e L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010.

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rara lucidità come don Primo Mazzolari capisce già nel 1943 che il rischio è proprio quello del perpetuarsi di questo incantamento anche nel futuro. In Impegno con Cristo, un libro che il Sant’Uffizio biasimerà pubblicamente, il parroco di Bozzolo confessava: Temo che anche in un prossimo domani sarà più arduo convenire un accordo tra forze chiare e diritte della politica, che non tra elementi reazionari e obliqui, ai quali non importa transigere e concedere favori materiali, pur di acquistarsi il beneplacito di alcuni elementi religiosi6.

Dopo la liberazione sarà proprio questo il nodo controverso della Dc di Dossetti e De Gasperi. Il leader trentino che guida il governo è consapevole del pericolo che nelle «alte sfere ecclesiastiche» non si veda «il rischio di scivolare verso posizioni conservatrici o addirittura autoritarie che hanno trovato in passato, spesso, consenso presso i cattolici», ma pensa che proprio per questo l’opposizione al comunismo vada perseguita in ogni modo, quasi come escussione di legittimità davanti al papa giacché, a suo avviso, senza di essa «ogni azione contro il fascismo verrà considerata un errore e un pericolo»7. Contro questo basso continuo, alla fine non così innocuo sul piano politico e consacrato dalla prassi magisteriale nelle elezioni del 1948 attraverso i Comitati civici, si ribella Dossetti: convinto che una politica fatta solo d’anticomunismo finirà fatalmente per riaprire le porte al fascismo non nella sua forma nostalgica, ma in quella «sostanziale»8, e ne riconoscerà le ombre in diversi momenti della storia nazionale, di cui, fino al 1996, si sentirà sentinella. Per questo il gruppo dossettiano arriverà a ipotizzare alla fine del 6   In F. Traniello, Verso un nuovo profilo dei rapporti tra Stato e chiesa in Italia, in Stato e chiesa in Italia. Le radici di una svolta, a cura di F. Traniello, F. Bolgiani e F. Margiotta Broglio, Bologna 2009, p. 147. 7   G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti 1945-1953, vol. II, Firenze 1974, p. 401. 8   Così nella lettera a Piccioni del febbraio 1948 ora in G. Dossetti, Scritti politici 1943-1951, a cura di M. Trotta, Genova 1995, pp. 195-196. Gli studi più recenti nei due volumi, usciti a mia cura, Giuseppe Dossetti. La fede e la storia. Studi nel decennale della morte, Bologna 2007 e Giuseppe Dossetti (1913-1996). Studies on a Catholic Italian Reformer, Münster-Berlin 2008, e in E. Galavotti, Il professorino. Giuseppe Dossetti tra crisi del fascismo e costruzione della democrazia (1940-1948), Bologna 2013.

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1948 la nascita di un secondo partito democratico cristiano, alla sinistra di De Gasperi, i cui contorni dovevano essere enunciati in un fascicolo speciale di «Cronache sociali». Nonostante l’idea d’una pluralità di partiti cattolici non fosse sgradita a mons. Tardini, convinto che la disponibilità di più pedine avrebbe migliorato il gioco politico vaticano, riproporre questa tesi dopo le elezioni del 18 aprile si rivelerà impossibile: rimasto inedito, il fascicolo contenente la drammatica proposta sarà messo da parte l’anno dopo, quando si sta preparando, sulla scorta di tracce di lavoro per un concilio che Pio XII non convocherà mai, la cosiddetta «scomunica dei comunisti»9. Tale provvedimento del luglio 1949 è in realtà più articolato di come viene comunemente etichettato e le possibilità di disapplicarlo sono inglobate nel fatto che la più grande scomunica collettiva d’Italia (più grande di quella che aveva colpito i sudditi papalini che avevano votato il plebiscito del 1860 e lo Stato liberale che aveva invaso il patrimonium Petri) colpisce colui che offra un’adesione ‘consapevole’ alla ‘dottrina’ comunista – cose assai difficili da verificare sul campo. Tuttavia quella condanna dice che l’anticomunismo è un linguaggio irrinunciabile, anche dopo Yalta, anzi proprio dopo Yalta e la caricatura di Peppone e don Camillo lo semina in una edulcorazione pedagogica del conflitto fra il parroco e l’antiparroco di Brescello destinata a durare nel tempo. A quel linguaggio non rinuncerà la Dc nemmeno negli anni del suo più solido potere: vi fanno ricorso tutti, da Fanfani a Moro, da Rumor ad Andreotti, da Cossiga ad Andreatta, consapevoli che, vuoi per raggiungere obiettivi politici ambiziosi vuoi per nasconderne la mancanza, l’anticomunismo è un’arma sempre carica. Al punto che l’anticomunismo non solo sopravvive alla scomparsa del Pci nel 1991, ma diventa un ingrediente fondamentale della fortuna del partito che, mutuando uno slogan elettorale di Mariano Rumor, prende il nome di «Forza Italia»: creatura politica 9   A. Melloni, Giuseppe Lazzati e il quaderno mancato di «Cronache sociali», in «Humanitas», 66, 2011, pp. 1-20, e G. Caprile, Il concilio Vaticano II. Cronache del concilio Vaticano II edite da «La Civiltà Cattolica», vol. I, Roma 1966, pp. 15-35.

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nuova per personale e progetto, ma quanto mai tradizionale anche nel far vibrare questa corda profonda della mentalità italiana10. Un destino in difesa La cultura dell’assedio torna puntuale in singoli episodi – come quella del processo a mons. Fiordelli, il vescovo di Prato portato in tribunale per aver definito «pubblici concubini» due ragazzi usciti dall’Azione cattolica e unitisi in matrimonio civile e condannato a una ammenda per diffamazione nel generale sconcerto – e si attenuerà solo fra il Vaticano II e il primo postconcilio11, quando la parola d’ordine montiniana del ‘dialogo’ contagia il rapporto con i non credenti, le altre fedi e le altre Chiese, grazie alla generazione di Sergio Pignedoli, Pietro Rossano, Clemente Riva, Michele Pellegrino. La visione di un cattolicesimo vessato e pugnace – pugnace perché vessato e marginalizzato ad esempio dalla cultura marxista dominante, nell’analisi di Augusto Del Noce12 – non è però destinata a svanire: ritorna nell’esperienza di gruppi come quello di Gioventù studentesca, poi diventata Comunione e liberazione nella Milano della contestazione. Vittime di un antagonismo violento per le loro posizioni counter-cultural, dipinti da chi non li ama dentro il cattolicesimo come ‘estremisti di centro’13, i ciellini escono da quella fase di fondazione con una impronta precisa: corrono il rischio di emarginazione o fors’an10   Cfr. un primo studio di S. Levis Sullam, L’eterno ritorno di Baget Bozzo, in «Belfagor», 60, 2005, 1, pp. 100-105; sulla formazione del partito di Silvio Berlusconi cfr. E. Poli, Forza Italia: strutture, leadership e radicamento territoriale, Bologna 2001. 11   V. De Marco, Le barricate invisibili. La Chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Soveria Mannelli 1994. 12   Su Del Noce un quadro del dibattito aperto dai convegni del 1995, ora in Augusto Del Noce. Il problema della modernità, a cura di F. Barone, Roma 1995 e in Augusto Del Noce. Essenze filosofiche e attualità storica, a cura di F. Mercadante e F. Lattanzi, Milano 2000, è dato da A. Paris, Le radici della libertà. Per un’interpretazione del pensiero di Augusto Del Noce, Genova-Milano 2008 e N. Ricci, Cattolici e marxismo: filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balbo e Franco Rodano, Milano 2008. 13   Così nel pamphlet Gli estremisti di centro. Il neo-integralismo cattolico degli anni ’70: Comunione e liberazione, a cura di S. Bianchi e A. Turchini, Rimini-Firenze 1975.

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che di scioglimento che aveva colpito i Focolari di Chiara Lubich vent’anni prima, subiscono fratture interne legate alla scelta di costituirsi come una corrente dentro la Dc, ma alla fine col 1975 ottengono da Paolo VI un riconoscimento politico ancora più rilevante di quello canonico che arriverà con Giovanni Paolo II14. Riproposta durante le infuocate primavere dei referendum sul divorzio e sull’aborto, la percezione d’una realtà sociopolitica avversa (nonostante la Dc, anzi per colpa della mollezza della Dc, secondo una logica integralista indifferente al valore intrinseco della democrazia contro la quale Aldo Moro combatterà inutilmente) tornerà a fecondare nuove forme d’impegno militante. Si forma nel 1975 il Movimento per la vita di Carlo Casini, che per primo pone il problema d’una ‘unità biopolitica’ dei cattolici, superiore in chi pensa alla questione della qualità della vita cristiana e della communio ecclesiarum. Dieci anni dopo prendono il via le Scuole di formazione politica – a partire da quella di Palermo dove si trasferisce p. Bartolomeo Sorge, già direttore della «Civiltà Cattolica». In questa scia si colloca l’aggressività verso altre zone del cattolicesimo – colpevoli di cedimenti davanti agli ‘assedianti’ – che trovano largo spazio nella rivista romana «Il Sabato» degli anni Ottanta o nel quotidiano milanese «L’Avvenire» degli anni Novanta del secolo scorso e indicano come pericolosi uomini del livello di Giuseppe Lazzati, Pietro Scoppola, Romano Prodi, Leo­ poldo Elia15. Una mentalità che in termini di comunicazione politica ha visto nuovamente l’una di fronte all’altra, sulla fine del secolo XX, due linee speculari che interpretano e si radicano in una storia assai più lunga: una, impersonata dai partiti di Silvio Berlusconi, i quali – a comunismo morto – hanno premuto il pulsante dell’anticomunismo con maggior successo di quanto non fosse riuscito alla Dc ai tempi di Togliatti; è una posizione che implica la denuncia della Costituzione repubblicana per una obsolescenza non tecnica, ma culturale e che in questo si riallaccia a una   M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Roma 2008.   Cfr. A. Socci, R. Fontolan, Tredici anni della nostra storia. 1974-1987, Milano 1988, supplemento a «Il Sabato» n. 13, 1988. Per il quotidiano della Cei il dato traspare anche dalla ricostruzione per l’anniversario del cambio di assetto in E. Versace, I 40 anni di Avvenire, in «Avvenire», 9 maggio 2008. 14 15

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sensibilità profonda del pensiero cattolico16. L’altra impersonata da Giuseppe Dossetti che da monaco, proprio sul finire della sua vita, batteva il tasto della difesa e dello sviluppo della Costituzione, non certo per una indulgenza verso il marxismo ma nella convinzione che la Carta del 1948 fosse il solo strumento capace di dare ai cattolici un senso dello Stato, senza il quale sarebbero stati ancora una volta a disposizione di ogni avventura e di ogni seduzione politica17. Questa concezione dell’assedio, dunque, s’è fortemente orientata in Italia allo scontro politico: almeno fino all’ascesa al papato di Joseph Ratzinger nel 2005. Ponendosi non senza forzature all’ombra di Benedetto XVI – che nella sua carriera aveva più volte dipinto la sua posizione come ‘assediata’ da una moda progressista nel primo decennio postconciliare e poi dall’incuranza dei teologi nel suo governo della Congregazione per la dottrina della fede – nuovi conservatorismi in materia di prassi liturgica o di teologia morale o di dialogo interreligioso hanno potuto così dipingersi come la sanior pars d’una Chiesa il cui deposito deve invece essere affidato a minoranze creative, distaccate dal corpo perduto della società ecclesiale18. I campi da mietere Gli assediati non sono però il tutto: costituiscono certo la quota più vistosa e apparentemente sintonica col magistero sia del papa sia dei vescovi. Non sono pochi né poco autorevoli coloro che innanzi agli stessi eventi non percepiscono solo una minaccia: essi vedono nello sviluppo delle cose una opportunità e nella 16   Ne è interprete l’ultima opera di G. Baget Bozzo, Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica, Milano 2009, dove, al di là dei toni pesantemente denigratori, è su questo che si batte. 17   U. Allegretti, Dossetti, difesa e sviluppo della costituzione, in Giuseppe Dossetti. La fede e la storia cit., pp. 67-146; sul ruolo di uno dei collaboratori di più antica data di Dossetti cfr. E. Balboni, Leopoldo Elia, costituzionalista e cittadino cattolico, in «Quaderni costituzionali», 2009, 2, pp. 431-452. 18   Qualche indicazione bibliografica in A. Melloni, L’inizio di papa Ratzinger. Lezioni sul conclave del 2005 e sull’incipit del pontificato di Benedetto XVI, Torino 2006; cfr. inoltre G. Miccoli, In difesa della fede. La chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Milano 2007.

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storia del dinamismo dottrinale un segno da comprendere. Tutte le posizioni precedentemente evocate – la condanna della libertà di coscienza, la rivendicazione del principato temporale del papa, la rivendicazione del ‘vero totalitarismo’, la distinzione fra antisemitismo buono e cattivo, fra articoli utili e inutili delle leggi razziali, fra costituzioni desiderabilmente confessionali e sopportabilmente democratiche – non sono solo parte della evoluzione della cosiddetta dottrina sociale, il cui scopo è proprio quello di innestare l’una nell’altra le variazioni che il tempo chiede e di ruotare di conseguenza gli allarmi della Chiesa19. Sono anche il segno che le congiunture che suscitano il senso della catastrofe in talune zone della Chiesa possono essere lette meglio: come l’occasione non per accomodare il conflitto col moderno, ma per fare nel moderno il più classico ‘apostolato’. Un nuovo apostolato La stessa congiuntura politica del secondo Ottocento viene colta da alcuni come una chiamata ad agire là dove prima si pensava – e la modernità va a toccare con mano la dimensione di quell’errore – che il regime di cristianità avesse portato tutto ciò di cui c’era bisogno. Questa della filiera ‘apostolica’ orienta vite audaci, per taluni spericolate. Immaginare che la stampa, per di più libera o addirittura quotidiana, possa essere uno strumento di custodia e illuminazione della coscienza vuol dire camminare sul ciglio di esperienze condannate dall’autorità ecclesiastica, pronta a vedere un Lamennais dietro ogni angolo. Ovvero, come accadrà per la generazione dell’Opera dei congressi (sciolta nel 1904), attira non pochi sospetti mettere in piedi un sistema di sociabilità alternativa che mette i contadini in condizione di partecipare all’organizzazione del lavoro, apre la via a un sindacalismo bianco, compete con i socialisti in materia di cooperazione, promuove le donne nel lavoro d’insegnante e, quando arriverà l’università cattolica, le immette nei corsi di laurea con proporzioni che la repubblica toccherà vent’anni dopo20.   E. Benvenuto, Il lieto annunzio ai poveri, Roma 20102.   M. Malatesta, La formazione delle élites cattoliche femminili tra le due

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La stessa Azione cattolica di Pio XI si spacca fra due tendenze – la cultura ‘assediata’ di Luigi Gedda e quella ‘apostolica’ di Giuseppe Lazzati – e viene dilaniata dalla lotta fra due verità, oltre che fra due concezioni del potere21. Si dipartono da lì visioni che non si schermiscono di essere ‘integrali’: da una parte la militanza che vede nello Stato la forza che deve imporre uno standard etico sovrapponibile a una morale confessionale, propedeutico alla presenza e alla visibilità; dall’altra un apostolato che sogna anch’esso una riconquista delle anime, ma pensa che la paidèia della Provvidenza abbia seminato anche nelle aspirazioni della contemporaneità qualcosa che va atteso e che lo Stato pluralista, proprio rimanendo rigorosamente tale, insegna ad attendere22. La contrapposizione fra queste due visioni è durissima: da una parte si accusano gli altri di «coniglismo» (l’espressione viene dal lessico di mons. Olgiati, l’assistente della Cattolica gemelliana), per poi imputare loro un nascondimento «esangue», e infine – era una accusa che ad esempio il Sant’Uffizio aveva preso per buona contro il Mazzolari degli anni Trenta – d’essere «neoprotestanti»23. Dall’altra il rimprovero per l’‘attivismo’, per la sua sostanza ‘semipelagiana’, per quel rifiuto del primato della grazia che apre la porta all’‘integrismo’, e poi alla mera subalternità al potere per il potere. Santi laici Su questa distinzione, in fondo debitrice in modi diversi della stessa ‘teologia del laicato’ giunta a maturazione negli anni Cinquanta, il Vaticano II non incide a fondo: su questo lato, impersonato da Vittorio Bachelet, riposa anzi una scelta di Paolo VI di porsi come ‘principe riformatore’ del postconcilio, che agisce guerre, in Pius XI. Keywords, a cura di A. Guasco e R. Perin, Münster-Berlin 2010, pp. 227-244 e la letteratura ivi citata. 21   L. Ferrari, L’Azione Cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo VI, Brescia 1982; M. Casella, L’Azione Cattolica nell’Italia contemporanea, Roma 1992. 22   L. Pizzolato, Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, nell’opera con lo stesso titolo e curatore, Milano 2007, pp. 13-30. 23   Sul caso Lazzati cfr. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione cit.

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attraverso fiduciari da lontano, col rischio di ritrovarsi estraneo ai suoi amici democratici e ostaggio degli integristi suoi nemici di sempre24. L’intera parabola di questa dimensione apostolica è segnata da una propria forma di santità ‘laicale’, assai più articolata di quella clericale. Senza anticipare ciò che più oltre sarà dettagliato, si può citare Contardo Ferrini, professore di diritto romano a Pavia, ‘assunto’ a posteriori (muore quarantatreenne nel 1902) da p. Gemelli fra i precursori della Cattolica e portato agli onori degli altari da Pio XII nel 1947. O nella ex capitale del Regno delle Due Sicilie, Bartolo Longo, morto nel 1926, fondatore del santuario di Pompei con i fondi propri e della contessa De Fusco, la compagna di vita spirituale che sposerà su ordine del papa, per troncare le chiacchiere paesane sulla loro amicizia. Ferrini o Longo sono solo due esempi d’una santità laicale che si propone come modello autosufficiente alla borghesia cattolica e che in Giuseppe Moscati, Pier Giorgio Frassati, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati e poi nei tanti morti ammazzati del cattolicesimo democratico – da Vittorio Bachelet ad Aldo Moro, da Roberto Ruffilli a Rosario Livatino e oltre – troverà una continuazione, indocile allo stereotipo agiografico classico. Uno slancio contemplativo Ma accanto alla militanza assediata e all’apostolato attivo c’è un terzo modo di comprendersi del cristianesimo italiano ed è quello degli oranti. Coinvolge dei ‘laici’ che rifiutano la continua richiesta di ‘prestazioni’ in termini di azione, di fedeltà, di mobilitazione che viene dalle gerarchie interne ed esterne. Sono cristiani che fanno una loro anacoresi, specifica, vissuta con lo slancio di chi sente di anticipare nella propria vita e pensa così di affrettare un tempo futuro e la città di domani che quel tempo attende. Lo si vede nella fioritura di ordini e vocazioni del secondo Ottocento, e poi in esperienze nuove: a partire da quella di Valeria Pignetti (1875-1961), figlia della borghesia piemontese, maestra,

24   A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, pp. 289-300.

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per quasi vent’anni, francescana prima e poi iniziatrice dell’esperienza di Campello, col nome di religione di sorella Maria25. Punto di riferimento d’un mondo cristiano confessionalmente complesso – da Amy Turton figura di spicco dell’infermieristica inizio secolo, anglicana di stanza a Siena, al pastore valdese Giovanni Luzzi, dal mistico indiano convertito all’anglicanesimo Sadhu Sundar Singh a quel ‘fratel Ginepro’ che altri non è se non Ernesto Buonaiuti – Maria crea una vita cristiana di contemplazione molto originale, priva di un qualsiasi establishment. Altre figure sentono una urgenza di vocazione ugualmente prepotente: attorno al terremoto di Messina, alla Grande Guerra, alla ricostruzione, al postconcilio si colgono i segni di una ricerca dell’assoluto, che brucia come un fuoco nelle ossa di esistenze giovani e appassionate. Passa a volte dall’adesione o dalla nascita di fraternità francescane, da fiammate carmelitane, dal rinnovamento di insediamenti benedettini; o dall’intensità di vita degli istituti secolari che si moltiplicano a partire dagli anni Trenta. Altre volte coincidono con rotture clamorose, come quella che porta Giuseppe Dossetti dalla politica alla condivisione della casa con il proletariato di via Mondo a Bologna, poi al santuario di San Luca, a Monteveglio, e infine a Montesole, alla ricerca di una vita orante per monaci e coniugati. Altri percorsi fanno tappa lontano: come quello di Carlo Carretto, che si ritirerà a Spello dopo aver abbandonato l’Azione cattolica in quelli che vennero definiti «i giorni dell’onnipotenza» e aver appreso nel deserto del Sahara la vita del piccolo fratello di Gesù26. Questa tendenza, che è comodo e insufficiente definire ‘contemplativa’, attraversa realtà distanti fra loro: come la spiritualità delle nuove congregazioni, o gli incubatori vocazionali dei terz’ordini toccata da inquietanti esperienze mistiche come quelle di don Ferdinando Tartaglia o di mons. Angelo Spadoni, che sfon-

25   Vedi sopra cap. II, nota 33, per il rinvio ai carteggi. Un primo ritratto era venuto da R. Morozzo della Rocca, Maria dell’eremo di Campello. Un’avventura spirituale nell’Italia del Novecento, Milano 1999. 26   Cfr. Carlo Carretto a cento anni dalla nascita (1910-2010), a cura di P. Trionfini et al., Roma 2011; inoltre M.C. Giuntella, Cristiani nella storia. Il caso Rossi e i riflessi nelle organizzazioni cattoliche di massa, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 347-370.

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dano i confini dell’ortodossia cattolica alla ricerca d’una riforma spiritualistica della Chiesa e vengono colpite dalla scomunica romana27. La corposità, ancorché di difficile mappatura, di questa priorità della preghiera affiora da più parti, quasi impercettibile nelle esperienze di consacrazione, nei movimenti laicali, nelle comunità, nei romitori che punteggiano la geografia religiosa della fine del XX secolo in maniera assai più percepibile nel nuovo monachesimo italiano, incluso quello di Bose, la comunità della Serra di Ivrea: dalle origini negli anni Sessanta in poi, il monastero fondato da Enzo Bianchi assume in modo sempre più deciso una forma monastica classica; in virtù della primitiva vocazione ecumenica, si lega con i grandi monasteri d’Oriente e d’Occidente, e con un paziente lavoro guadagna la fiducia delle più alte autorità di tutte le Chiese, puntualmente registrata dal sistema dei media28. 27   E. Galavotti, Il giovane Dossetti: gli anni della formazione. 1913-1939, Bologna 2006. 28   Cfr. M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche, Milano 2001 e Id., Il segno di Bose, Milano 2003, e le importanti testimonianze in La vita consacrata a vent’anni dal Concilio, a cura di L. Guccini, Bologna 1986.

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Il cristianesimo italiano – con le sue forme, le sue visibilità, le sue autocomprensioni – vive la sua storia ‘italiana’ nell’attesa, nell’entusiasmo, nella deprecazione, nel rimpianto di grandi occasioni che gli si sono presentate. Un atteggiamento che aveva percepito e stigmatizzato già Gregorio XVI su scala universale nella Mirari vos del 1832: Appare chiaramente assurdo ed oltremodo ingiurioso per la Chiesa proporsi una certa «restaurazione e rigenerazione», come necessaria per provvedere alla sua salvezza ed al suo incremento, quasi che la si potesse ritenere soggetta a difetto, o ad oscuramento o ad altri inconvenienti di simil genere1.

Quello che il papa voleva esorcizzare negli anni Trenta tenderà, invece, a ripresentarsi nella voce di tanti. Il senso delle occasioni sprecate È una lista infinita che va da Antonio Rosmini a Niccolò Tommaseo, da Antonio Fogazzaro a Clemente Rebora, da Michele Pellegrino ad Arturo Carlo Jemolo, da Carlo Bo a Pietro Scoppola, da David Turoldo a Giuseppe Alberigo, e che dovrebbe però includere anche strati anonimi di opinione pubblica che danno 1   Cit. in G. Alberigo, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), in «Cristianesimo nella storia», 2, 1981, pp. 486-521.

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forza a giornali, riviste, iniziative, sulle quali pochi scommetterebbero. Sono coloro che in un preciso momento storico hanno la convinzione, il timore o la sensazione che nel farsi della vicenda italiana sia apparsa un’occasione rinnovatrice, un’opportunità di riforma. Dal «moto piononistico» del 1848 all’inizio del secolo XXI, questa lettura si posa su vari segmenti della storia italiana: accende la speranza che le Chiese la facciano loro o lamenta la loro tiepidezza o ingenuità, davanti all’occasione ricevuta. Il fatto che l’Epistula pro causa italica ad episcopos catholicos di Ernesto Filatete – alias Carlo Passaglia (1812-1877), fondatore della «Civiltà Cattolica», fuggito a Torino e da lì propugnatore della rinuncia al potere temporale del papa2 – ottenga per la sua nuova causa le firme di novemila preti, scomunicati da Pio IX, non è senza significato: non solo le minoranze protestanti, che vedono nella ‘caduta’ di Roma un segno del cielo, ma anche vaste platee cattoliche s’attendono una sorpresa. Non si tratta solo d’astuzie della propaganda politica, come la proposta di un concilio che Mazzini elabora prima in una lettera a Lamennais del 1834, poi in un articolo sull’«Italia del popolo» durante la Repubblica romana3. O di estrapolazioni intempestive sui ‘diritti della nazione’ che proprio Pio IX menziona nella lettera (che inizialmente avrebbe voluto firmare anche come «primate d’Italia», cosa che poi farà) all’imperatore d’Austria del maggio 1848; delle idee giobertiane o di quelle dei cattolici liberali come tali, sconfitti dalle loro ragioni4. Proprio l’errata valutazione degli atteggiamenti di papa Mastai, dopo anni di repressioni cruente e sanguinosi fallimenti dei sogni nazionali, aveva importato in modo definitivo dentro la sensibilità religiosa una idea dura da abbandonare: e cioè che in quel grande processo storico ci fossero idealità non estranee alla matrice cristiana e talmente forti da imporsi allo spiritualismo martiriale dei mazziniani come Goffredo 2   A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e di Cavour, Brescia 1986. 3   Cfr. per la lettera G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, vol. X, Imola 1906, p. 143, mentre l’articolo del 1849 si può leggere in I. Bonomi, Mazzini triumviro della Repubblica romana, Torino 1936, pp. 73-74; entrambi in G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010, pp. 83 e 149. 4   F. Traniello, Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007.

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Mameli, al socialismo utopista dei prampoliniani e alla filosofia idealista, per quanto mandata in blocco all’indice dei libri proibiti con la condanna dell’opera omnia di Gentile e Croce5. Il rifiuto del papato di discernere il buono dal gramo in queste istanze è legato alla difesa sempre meno convinta del principato temporale come diritto e come necessità della sede del principe degli apostoli. Ma a questo fa da contraltare un’altra incapacità, quella della cultura politica di capire per davvero ciò che Giuseppe Montanelli aveva descritto alla perfezione nel saggio del 1856 sul Partito nazionale italiano, concepito non già nelle viscere della Rivoluzione, ma della controrivoluzione, [...] lo straniero contro cui l’Italia si pose per la prima volta il problema della sua personalità, del suo io nazionale, non fu il tedesco, ma il francese. Così fu stretta un’alleanza fra i partigiani del passato e gli apostoli dell’avvenire6.

Incastrata per sempre dal ‘non expedit’ nell’agone politico, la cattolicità italiana non incontra né il suo Kulturkampf né il suo Zentrum, e il protestantesimo non trova la sua consacrazione a religione civile come accadeva in altri paesi: l’una condannatasi perciò a misurare nella politica il proprio stato di salute e dunque – sia prima sia dopo la nascita dei partiti cattolici – destinata a lacerazioni della comunione ogni qual volta le posizioni naturaliter conservatrici vengono messe in discussione da una formula politica diversa; l’altro obbligato a una vicinanza con le formazioni parlamentari socialiste e di sinistra, e dunque collocato lì non per scelta, almeno fino allo sbarco delle nuove comunità evangelicali. Una teologia della liberazione La caduta del fascismo e la fine della guerra nel 1945 costituiscono una entusiasmante occasione di rinnovamento per tutto il paese, dunque anche per le Chiese e il cattolicesimo in ispecie. Non sono 5   G. Verucci, Idealisti all’indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari 2010. 6   Cit. da E. Passarin d’Entreves, Risorgimento, in Enciclopedia cattolica, Roma 1948-1954, ad vocem.

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più gli ambienti della borghesia patriottica che fa il Risorgimento a dover interpretare la realtà, ma le voci della cultura, della politica, dell’economia che si pongono, da cristiani, il problema di parlare con le masse popolari e di comprendere le istanze di giustizia e libertà senza illusioni. La radicalità del rovesciamento avvenuto rispetto al regime e l’incombere della sfida del comunismo sovietico (il cui definitivo containment al di là della cortina di ferro non è affatto dato per scontato da tutti) fanno sì che l’occasione sia vissuta anche come uno scontro, anzi uno «scontro di civiltà» (come avevano già detto i cattolici francesi nel titolo della loro settimana sociale del 1936). Se il protestantesimo approda all’Italia liberata forte della sua partecipazione alla Resistenza, se il cattolicesimo di base può vantare lo sterminato esercito degli internati militari che rifiutano l’arruolamento repubblichino e una presenza di laici e di preti fra i partigiani, è il papa Pio XII che si trova in una condizione di vantaggio. La sua presenza a Roma dopo l’8 settembre viene acclamata come quella del consul Dei: aumenta, se mai ve ne fosse stato bisogno, l’aura di rispetto che lo circonda. Ma il trionfo perpetuo nel quale vive – non dicono questo i tredici anni postbellici del suo pontificato nei quali non tornerà mai sul tema della Shoah? – lo isola da quelle che sono le attese di un mondo mutato7. È per questo che la prima leva di cattolici alle prese con una cosa seria – i costituenti del gruppo dossettiano dei ‘professorini’ – si spende affinché da parte vaticana non ci sia ostilità alla nascita della nuova repubblica. Lo fanno – in un gioco delle parti con Angelo Dell’Acqua e Giovanni Battista Montini – accettando il paternalismo odioso con il quale vengono loro somministrate le tre costituzioni elaborate da zelanti padri gesuiti: la migliore e la più desiderabile di tipo confessionale; la media e apprezzabile di carattere blandamente confessionale e con ampie garanzie privilegiarie; la terza, tollerabile perché aconfessionale, ma per lo meno dotata di garanzie esplicite sul matrimonio, la scuola e il concordato8. Dei modelli confessionali non ci sarà traccia nella 7   Ph. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, Cinisello Balsamo 2003; sul contesto J.-D. Durand, L’Eglise Catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), Rome 1991. 8   Cfr. P. Pombeni, La fine del dossettismo politico, in Giuseppe Dossetti. La

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Costituzione repubblicana e il modo positivo in cui essa viene accolta dice che la circospezione con la quale i giovani professori democristiani hanno monitorato le mosse e gli umori vaticani ha avuto successo. Se hanno dialogato così fittamente col Vaticano, infatti, non è stato per un’incertezza sulle libertà democratiche, ma nella convinzione di poter e di dover guadagnare il sostegno ecclesiastico e papale alle istituzioni nascenti, usando ogni mezzo e in primis quello del più rispettoso ascolto. La cosa doveva evitare all’Italia una nuova lacerazione che, a differenza di ciò che era accaduto alla fine del secolo XIX, non avrebbe avuto modo di essere recuperata: perché la classe dirigente non era più fatta di personaggi formatisi in culture estremiste e poi migrati verso posizioni conservatrici (uno stereotipo destinato a ripetersi nel Novecento9), ma d’apprendisti della democrazia parlamentare che – come cattolici, come socialisti e comunisti – dovevano ancora dimostrare di credere per davvero al valore dei suoi meccanismi e non alla loro funzione opportunistica e transitoria in attesa di svolte rivoluzionarie o di tipo franchista10. Ma c’era anche un più ambizioso disegno, al quale non senza qualche consapevolezza la componente socialcomunista della commissione dei 75, delle sottocommissioni e della costituente si prestarono: e cioè offrire all’Italia che si doveva rinnovare dai propri abiti morali e politici fascisti il supporto della Chiesa cattolica che, assecondando la rigenerazione del paese, avrebbe potuto garantirle una posizione più rilevante su scala internazionale. Quasi che la vecchia utopia giobertiana – il papato dà a Roma e all’Italia un rilievo che essa non saprebbe ottenere da sé – si ripresentasse nel momento in cui si andavano disegnando i blocchi e la testimonianza d’un paese ‘diverso’ potesse fare da riferimento internazionale prima che si cristallizzassero altri equilibri. La congiuntura politica, il contrasto fra Alcide De Gasperi e la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007, pp. 213-257 e, dello stesso autore, De Gasperi Costituente, in «Quaderni degasperiani per la storia dell’Italia contemporanea», 1, 2009, pp. 55-123, che discute a fondo le tesi di G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano 2008. 9   Cfr. S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma 2000. 10   P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna 1979; A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana. 1918-1948, Roma-Bari 1991.

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minoranza di Giuseppe Dossetti, e il consolidarsi di quella visione dell’Est europeo che Pacelli sintetizzò nella formula tanto amara di «Chiesa del silenzio»11, chiudono presto questa possibilità. Una scelta che consegna alla Dc un’Italia e all’Italia una Dc culturalmente antiamericane e politicamente filostatunitensi12: due atteggiamenti tenuti insieme da un anticomunismo durissimo nei toni, ma di fatto indebitato con l’abilità di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni nell’imbrigliare le pulsioni rivoluzionarie e massimaliste delle proprie basi13. Che la svolta costituzionale sia vissuta come l’occasione perduta lo documentano sia alcune amare pagine di preti come don Mazzolari o don Milani, sia l’uscita dalla pratica religiosa di tante donne e uomini che non sanno di aspettare un balzo innanzi, non sanno prepararlo o presentirlo, ma che è imminente. Il concilio, il concilio... Il Vaticano II rappresenta infatti una terza grande occasione di rinnovamento per il cristianesimo italiano: un appuntamento che per la sua profondità ecumenica – l’unità era stata nella convinzione di tutti, all’inizio del 1959, l’unica e decisiva agenda del futuro concilio – coinvolge tutte le confessioni e non solo14. Le sue decisioni sull’antisemitismo cristiano aprono una nuova stagione dei rapporti con l’ebraismo che in Italia era rimasto tema intonso: eppure era stato proprio il rapporto personale fra una pioniera del dialogo come Maria Vingiani e il segretario di papa Giovanni, don Loris Francesco Capovilla (che aveva conosciuto a Venezia quando questi era accanto al patriarca e all’assessore Dc del Co  A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca. 1940-1990, Roma-Bari 1992.   Per le varianti d’oltralpe cfr. R. Philippe, L’ennemi américain: Généalogie de l’antiaméricanisme français, Paris 2002; sulla posizione del Pci cfr. A. Guiso, La colomba e la spada. «Lotta per la pace» e antiamericanismo nella politica del Partito Comunista Italiano (1949-1954), Soveria Mannelli 2006. 13   Cfr. P. Scoppola, Aspetti e momenti dell’anticomunismo, in L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica, a cura di A. Ventrone, Roma 2006, pp. 71-78. 14   Cfr. A. Melloni, Lo spettatore influente. Riviste e informazione religiosa nella preparazione del Vaticano II (1959-1962), in Il Vaticano II fra attese e celebrazione, a cura di G. Alberigo, Bologna 1995, pp. 119-191. 11 12

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mune), ad avere aperto a Jules Isaac la porta dell’appartamento papale nel 1961 e alla Chiesa cattolica quella del pentimento15. Per di più le decisioni conciliari in materia di religioni creano con un anticipo almeno trentennale le condizioni d’uno sguardo di fraternità verso quegli immigrati che riportano l’islam sul suolo italiano, o vi introducono per la prima volta culti e pratiche hindu, sikh, le religioni degli antenati d’Africa e i rituali confuciani cinesi. Eppure non è per questo universalismo nel coinvolgimento di mondi religiosi che il Vaticano II costituisce un’immensa opportunità per i fedeli italiani e per l’Italia, ma per la sua intenzione ecclesiologica e teologica. Lo sforzo conciliare di rimettere al centro della vita cristiana la liturgia, di far tornare la Bibbia da un esilio che per parte cattolica durava dalla Controriforma16, le affermazioni che incorporavano con buona pace del magistero ottocentesco la dignità della coscienza e il principio antiprivilegiario della libertà religiosa nella dottrina cattolica17, chiedevano alla Chiesa italiana di esistere come tale: per assumersi i compiti che il concilio affidava alle conferenze nazionali, pensate non come burocrazie, ma come espressione effettiva della collegialità18. Questo compito non è osteggiato dal papa del postconcilio, Paolo VI, anzi gli è caro. Lo conferma la scelta di destinare alla presidenza della Cei il cardinale Urbani e di individuare nel fiorentino Enrico Bartoletti il segretario di quell’organo che papa Montini vuole diventi il telaio d’una comunione in pericolo19. Non solo, nel decisivo vicariato dell’Urbe – cioè del luogo dove fioriva quel ‘partito romano’ che tanto aveva giocato nella lotta 15   Cfr. Nostra Aetate. Origins, Promulgation, Impact on Jewish-Catholic Relations, a cura di N. Lamdan e A. Melloni, Münster-Berlin 2007, e A. Melloni, La Chiesa cattolica davanti alla Shoah (1945-2010), in Storia della Shoah in Italia, a cura di M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard-Bonucci ed E. Traverso, vol. II, Torino 2010, pp. 289-318. 16   E. Bianchi, La centralità della parola di Dio, in Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. Alberigo e J.-P. Jossua, Brescia 1985, pp. 159-187. 17   S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003. 18   Chiese italiane e concilio. Esperienze pastorali nelle chiese italiane tra Pio XII e Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988. 19   Cfr. Un vescovo italiano del Concilio. Enrico Bartoletti 1916-1976, Genova 1988.

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politica in senso reazionario20 – il pontefice manda niente meno che Angelo Dell’Acqua21, una delle figure più esposte e più aperte della Segreteria di Stato22. Operazione difficile, specie dopo che la chiusura dell’«Avvenire d’Italia» di Raniero La Valle, secondo un disegno costruito nell’ambiente del chiacchierato mons. Bicchierai di Milano, la rimozione del cardinale Giacomo Lercaro dalla sede di Bologna all’inizio del 196823, e poi quella di mons. Salvatore Baldassarri da Ravenna danno il segno che, almeno in Italia (o solo nella regione ecclesiastica Flaminia), o non si sanno mettere sotto controllo le tensioni infraecclesiali o di queste ci si serve per fini politici. Non manca molto a far affondare il disegno di Paolo VI di un episcopato italiano ‘montiniano’, fedele al concilio e docile a Roma, e quel po’ che manca ce lo mettono le morti in sequenza del cardinale Urbani il 17 settembre 1969, del cardinale Dell’Acqua il 27 agosto 1972 e di mons. Bartoletti il 5 marzo 1976 – che lasciano un papa solo, isolato, stremato dalla «chiamata all’inutile eroismo»24 del referendum sul divorzio e infine stroncato dalla ragnatela che lo paralizza durante il rapimento di Moro. Finito prima ancora d’iniziare, il postconcilio italiano risulta così succube delle vecchie abitudini del ‘cattolicesimo politico’ che si manifesta con nuove coloriture, come quelle delle Acli o dei Cristiani per il socialismo, e che resterà ancora per molti decenni il miraggio della politica ecclesiastica25. Apparentemente è così, almeno finché, chiusa la breve stagione del papato italiano, 20   A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Brescia 20072. 21   Angelo Dell’Acqua. Prete, diplomatico e cardinale al cuore della politica vaticana (1903-1972), a cura di A. Melloni, Bologna 2004. 22   Cfr. Un vescovo italiano del Concilio. Enrico Bartoletti 1916-1976 cit.; M. Toschi, Enrico Bartoletti e il suo diario al concilio, in Cristianesimo nella storia: saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri e M. Toschi, Bologna 1996, pp. 397-435; L. Lenzi, Concilio e post-Concilio in Italia. Mons. Enrico Bartoletti arcivescovo a Lucca (1958-1973), Bologna 2005. 23   Cfr. Araldo del Vangelo. Studi sull’episcopato e sull’archivio di Giacomo Lercaro a Bologna, 1952-1968, a cura di N. Buonasorte, Bologna 2004. 24   Così il diario Bartoletti su cui M. Faggioli, Tra referendum sul divorzio e revisione del Concordato. Enrico Bartoletti segretario della Cei (1972-1976), in «Contemporanea», 2001, 2, pp. 255-280. 25   Come una fonte sull’esperienza non ancora studiata criticamente J.R. Re-

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Giovanni Paolo II non si libera d’una presidenza con la quale non trova sintonia e commissaria la Conferenza episcopale italiana affidandola per oltre vent’anni ai propri vicari di Roma: prima il cardinale Ugo Poletti, poi il cardinale Camillo Ruini. Ma questa decisione si sovrappone all’implosione della Dc e attira l’attenzione d’un episcopato che identifica la propria autorevolezza con l’efficacia nella interdizione della mediazione di cui gli eredi del cattolicesimo democratico – fino a Romano Prodi – si sentono titolari. Il Vaticano II scivola così su uno sfondo ormai remoto e forse superato nella prospettiva d’un nuovo concilio (chiesto da un italiano di rango come il cardinale Carlo M. Martini davanti al sinodo dei vescovi del 1999). Il che non spiace a chi, banalizzando una distinzione troppo fine di Benedetto XVI fra continuità ontologica e discontinuità riformatrice, s’impegna a relativizzare il ‘vecchio’ concilio, riducendolo a un pleonasmo nell’immobilità della Chiesa e rendendo vuoto il senso della ‘riforma’26. I miti sull’Italia ‘cattolica’ Infatti solo in poche e supreme occasioni storiche l’Italia, tardivamente e incompiutamente Stato, percepisce che le sue componenti religiose sono capaci di ‘tenere insieme’ il paese, davanti al concreto rischio di disgregazione. Capita attorno a Caporetto, nell’incunearsi della guerra civile nella guerra mondiale con l’8 settembre, nelle ore del rapimento di Aldo Moro. In momenti ancor più rari gli italiani, credenti e non, sapranno andare al di là di una polemica prevedibile, estrinseca o incompetente e mettere alla frusta una Chiesa resa fragile da abitudini ed errori. Ci provano in molti, anche con strumenti letterari, come Fogazzaro; ci riesce uno come Nino Andreatta, che dalla tribuna del governo alla Camera dei deputati sollevò il velo sul caso Ior, aprendo la via di una bonifica morale a dir poco indispensabile27. Eppure il

gidor, A. Cecchini, Cristiani per il socialismo. Storia, problematiche, prospettive, Milano 1977. 26   Cfr. Chi ha paura del Vaticano II?, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Roma 2009. 27   C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano. Fondazione, ascesa e dissesto 1896-1982, Roma-Bari 2002.

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secolo e mezzo di coabitazione fra queste debolezze spingono le due ‘figure’ a ritenersi indispensabili l’una all’altra. Lo si vede, ad esempio, nel processo di costruzione europea. La visione dei tre ‘padri fondatori’ – Adenauer, De Gasperi, Schuman –, che parlano in tedesco e pensano al domani entro categorie cattoliche, entusiasma Pio XII e lo rende un forte sostenitore del progetto europeo28, in una visione che include, ma che non si esaurisce nel cosiddetto ‘cristatlantismo’ filo occidentale29. Dopo di lui il papato del secolo XX non agirà mai come un freno ai processi di unificazione, né a quelli di allargamento dell’Europa verso Oriente, dopo il collasso dell’impero sovietico; ma l’Unione europea non diventerà né la patria né la ‘residenza’ della Santa Sede. All’inizio del secolo XXI essa continua a mantenere una struttura di analisi e di azione diplomatica (la Segreteria di Stato ha un sostituto per l’Italia e un sostituto per il mondo) che non tiene conto del riassetto europeo e dei cambiamenti avvenuti fra il 1919 e il 1989, non certo per ingenuità, ma per la certezza che la penisola sia il contesto della propria azione30. Lo si vede anche nel destino del mito concordatario: atteso come la rivincita contro gli usurpatori e come tale rifiutato dal Regno d’Italia, verrà salutato come una svolta epocale quando Mussolini e Gasparri lo siglano. Come è noto, viene difeso nella discussione costituente quasi fosse il prezzo neppur troppo caro agli occhi del Pci per fidelizzare il Vaticano alla repubblica; subito, però, viene individuato come l’obiettivo, abbattuto il quale si sarebbe aperta una vera stagione di libertà nella società, e invece per molti nella Chiesa la sua sostanza privilegiaria non è altro che un ostacolo al quale rinunciare in nome della libertà. Sarà rivisto solo dopo una serie di negoziati, di rinvii e di resistenze e arriverà alla sua forma finale proprio quando il presupposto che lo regge – lo Stato nazionale moderno come unico regolatore del

28   Cfr. Ph. Cheneaux, Une Europe vaticane? Entre le plan Marshall et les traités de Rome, Bruxelles 1990. 29   A. Acerbi, Pio XII e l’ideologia dell’Occidente, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 149-178. 30   S. Ferrari, Stato e religioni in Europa: un nuovo baricentro per la politica ecclesiastica europea?, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2008, pp. 1-8.

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foro e del mercato31 – giunge al capolinea, lasciando alla società uno strumento di regolazione di interessi leciti e nudi, di cui però sembra abbia più bisogno la politica che non la Chiesa32. E ci sono ‘miti’ – non necessariamente privi di una funzionalità verificabile e di sistemi di consenso che li accreditano – che mi pare necessario citare tra ciò che è utile e tenere presente nel momento in cui si intende chinarsi su un lavoro storico sui cristiani d’Italia, e dunque preoccupato solo di attenersi ai fatti. Nell’Italia che si unifica indebitandosi politicamente con le potenze del teatro europeo, che incassa il prestigio piovutole con l’insperata vittoria del 4 novembre e lo dissipa con l’avventura coloniale del fascismo e la guerra civile, che entra nella guerra fredda come una pedina chiave e dopo l’11 settembre diventa uno dei ‘volonterosi’ alleati dell’amministrazione di G.W. Bush a dispetto della predicazione di Karol Wojtyła – in questo paese la presenza non di credenti, ma quella peculiare del ‘Vaticano’ comporta una visione globale dei problemi politici di rango maggiore e fornisce un supporto alla presenza mondiale del paese. Una diplomazia sui generis La Chiesa di Roma coltiva infatti una propria diplomazia che dopo il 1870 è retta dal segretario di Stato (allora Antonelli33), destinato a diventare fra scosse e crisi il suo braccio politico, il suo ‘primo ministro’. Figura decisiva per la storia nazionale, perché sarà l’arrivo in Segreteria di Stato d’un conciliatorista come Ma31   P. Prodi, Cristianesimo e modernità, in Le religioni e il mondo moderno, vol. I, Cristianesimo, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi, Torino 2008, pp. 3867, sostiene che l’età dei concordati durata dal Cinquecento termina con la fine dello Stato nazionale moderno. 32   Per stare nel secolo XXI, non si può certo dire che lo Stato non legifera sulla libertà religiosa, o che il vertice della Chiesa italiana si distingue da Giovanni Paolo II sulla condanna della guerra nel Golfo per merito o colpa degli accordi Casaroli-Craxi o della forma concordataria che essi hanno; sull’iter parlamentare della trattativa si veda la raccolta di documenti avviata da F. Margiotta Broglio e ora editi con una ampia introduzione da R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, Bologna 2009. 33   Un primo studio in F. Coppa, Cardinal Giacomo Antonelli and Papal Politics in European Affairs, Albany 1990.

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riano Rampolla del Tindaro che dimostra come sarebbe possibile chiudere la questione romana e ricomporre la frattura che aveva tenuto le élites cattoliche poi le masse fedeli ai margini del Nation building34. Da lì in poi gli ‘stranieri’ otterranno più facilmente il papato – che nei primi 150 anni di unità è tenuto per 33 anni da pontefici non italiani come Karol Wojtyła e Joseph Ratzinger – che non la Segreteria di Stato: lì si insedieranno solo lo spagnolo Merry del Val y Zulueta, dal 1903 al 1914, e il francese Jean-Marie Villot, fra il 1969 e il 1979. Tutti gli altri segretari di Stato35 sono legati a doppio filo alla storia italiana36: ne assorbono le culture di riferimento – la Sicilia di Rampolla, la Roma di Gasparri, Pacelli e Tardini, la Romagna anticlericale di Cicognani, l’Emilia occidentale di Casaroli, il Piemonte di Sodano, sarebbero tutti da studiare, per fare un esempio. D’altro canto essi mettono spontaneamente le leadership nazionali a contatto con una esperienza del mondo che solo pochissimi (il conte di Cavour, Giuseppe Mazzini, Galeazzo Ciano, Amintore Fanfani, Romano Prodi) possono maturare in proprio nelle loro carriere politiche. Sono questi ecclesiastici che aiutano a inserire la storia italiana in un modo di guardare al mondo e la loro visione planetaria nella vicenda nostrana. Si pensi alla funzione del cardinale Cicognani – un uomo rimasto un quarto di secolo come delegato apostolico e in carica come segretario di Stato quando Moro e Fanfani 34   È ormai una fonte C. Crispolti, G. Aureli, La politica di Leone XIII da Luigi Galimberti a Mariano Rampolla, Roma 1912; sulla sua figura cfr. L. Trincia, J.-M. Ticchi, L. Civinini, La figura e l’opera del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Caltanissetta 2006. 35   Sui segretari di Stato dell’età unitaria – Giacomo Antonelli (1848-1876), Giovanni Simeoni (1876-1878), Alessandro Franchi (1878), Lorenzo Nina (1878-1880), Lodovico Jacobini (1880-1887), Mariano Rampolla del Tindaro (1887-1903), Rafael Merry del Val y Zulueta (1903-1914), Domenico Ferrata (1914), Pietro Gasparri (1914-1930), Eugenio Pacelli (1930-1939), Luigi Maglione (1939-1944), Domenico Tardini (1958-1961), Amleto Giovanni Cicognani (1961-1969), Jean-Marie Villot (1969-1979), Agostino Casaroli (1979-1990), Angelo Sodano (1991-2006), Tarcisio Bertone (2006-) – cfr. J. De Volder, Secrétairerie d’état et secrétaires d’état (1814-1978): Acquis historiographiques sur l’institution et les hommes, in Les secrétaires d’Etat du Saint-Siège (1814-1979). Sources et méthodes, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée», 1998, 110, pp. 445-459. 36   Un caso è la figura di Gasparri su cui C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, Milano 2008.

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vogliono aprire ai socialisti, in un clima che fra i vescovi suscita allarmi estremi e che invece l’amministrazione Kennedy avvalla senza paranoie. Ma si dovrebbe citare il peso della carriera del cardinale Maglione negli anni della seconda guerra mondiale, o dei cardinali dei due concordati, Gasparri per il 1929 e Casaroli per il 1984, così come quella del cardinale Laghi, ai tempi della prima guerra del Golfo. Con una breve eccezione nella parte finale del pontificato wojtyłiano, è da questo ufficio e dai suoi addetti che passa la politica italiana in cerca d’avalli, consigli, supporti, sfide. A una fila immensa di postulanti, lagnanti, furbi e curiosi, la Segreteria di Stato trasmette una serie d’informazioni sul mondo che non sarebbero alla portata della diplomazia italiana impegnata, nel sessantennio che passa al Palazzo della Consulta, a escludere gli uomini del papa dai consessi internazionali, in nome di giudizi e pregiudizi ereditari. Sia quando fanno base a Palazzo Chigi (19231959), sia nella sede della Farnesina, gli Affari esteri italiani si avvantaggiano di questa diplomazia parallela per mandare messaggi e raccoglierne. Specie dopo la prima guerra mondiale, ciò che l’Italia guadagna dalla Santa Sede è la possibilità d’interloquire con una diplomazia che guarda a tutta la scena planetaria come a una platea di eguali, capace d’attrarre a Roma ambasciatori dedicati ai rapporti col Vaticano (sono le ambasciate ‘presso la Santa Sede’) che fino all’inizio del secolo XXI sono per qualità e carriera di livello non certo inferiore ai loro colleghi accreditati presso il Quirinale. Ma non solo: la diplomazia vaticana fino a dopo il concilio è fatta in grandissima misura di ecclesiastici italiani ‘dati’ dalle diocesi al papa, che li forma in una scuola ad hoc e poi li invia nel mondo. Così quel raddoppio che Francia o Argentina hanno a Roma, dove due connazionali esercitano funzioni simili, lo conoscono tanti diplomatici italiani che nei paesi del mondo trovano accanto a sé un ambasciatore in talare che – col rango di nunzio e talora di decano del corpo diplomatico, di delegato apostolico, di visitatore – rappresenta il papato presso i governi e le Chiese locali presso il papa. Quella pontificia non è una diplomazia di potenza, ma di mediazione37: il ventennio fascista e la guerra mondiale danno modo 37   J.-M. Ticchi, Aux frontières de la paix. Bons offices, médiations, arbitrages du Saint-Siège (1878-1922), Roma 2002.

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di cogliere indulgenze per il regime di questi preti dalla carriera così particolare, ma non così diversi dagli altri in termini di cultura politica e di percepirne la singolarissima lucidità politica. Essi provengono da tutt’Italia: ma con alcune concentrazioni tradizionalmente forti in diocesi dove un nunzio asceso a ruoli di grande prestigio può ‘chiedere’ con maggior persuasività preti per la carriera diplomatica. Il mito del genio di governo Ed è questo addensamento capace di fare massa critica che genera la ‘cordata’ dei piacentini che culmina nell’ascesa alla Segreteria di Stato di Agostino Casaroli; quella piemontese, che fa lo stesso con Angelo Sodano; quella romagnola, che ottiene il premio per Amleto Giovanni Cicognani; quella milanese che perde il turno di Angelo Dell’Acqua per la sua scomparsa o quella romana compresa fra l’impeccabile stile di Pacelli e quello caustico di Tardini. Quelli di loro che arrivano alla Seconda Loggia dove ha sede la Segreteria di Stato o sopra – come capiterà con Ratti, Pacelli, Roncalli e Montini – creano, grazie a questa dimestichezza con un flusso di informazioni e insights globali, un mito italiano tutto particolare. È il mito del genio italiano del governo ecclesiastico: quello che attribuisce ai prelati di curia e in parte di diocesi straordinaria lungimiranza, coessenziale alla lunga durata di cui sarebbe protagonista la Chiesa come ‘istituzione bimillenaria’: un mito che nella storia italiana attribuisce ai politici più astuti caratteri quasi clericali. Questo stile, lo si accennava in apertura, non ha a che fare con l’unità, tema costante della predicazione e barometro dello stato di salute di qualunque esperienza cristiana. Per il protestantesimo, quello originario, quello legato a nuovi flussi migratori, quello evangelicale e pentecostale – l’unità non altera lo statuto minoritario e sinodale: sicché permette differenze e distanze che si registrano soprattutto in campo politico. Nel cattolicesimo romano il riferimento ovvio e scontato al papa permette un’articolazione interna che quando vuole farsi valere o marcare le distanze deve riferirsi all’autorità superiore. Non è dunque dal monolitismo che non c’è, ma dalla dimestichezza con la pluralità che viene l’idea che esista un ‘genio del governo’ dell’episcopato italiano.

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Dopo il 1870 una leva di vescovi non certo privi d’idee o di personalità, spesso più netti delle supreme autorità sia in senso conservatore sia, di tanto in tanto, in senso progressista occupano i posti di comando della curia romana fino ai gradini più alti della carriera. Esercitano un potere che non è tenuto a dar conto del suo esercizio (è una espressione di Montini a Gilson): ma con un tatto tutto particolare. Questo garbo estrinseco, ad esempio, di solito inganna gli stranieri come Yves Congar, che finiscono davanti al Sant’Uffizio di Alfredo Ottaviani con accuse tanto pesanti quanto imprecise, ma che vengono somministrate in un modo che non lascia intendere mai nulla della durezza delle conseguenze38. Sarà viceversa la perfetta conoscenza di questo stile che farà sì che la più feroce reazione di Ernesto Buonaiuti alla sua scomunica sia l’osservanza puntuale degli obblighi ecclesiastici39. I grandi pastori Anche fuori Roma questa cultura di governo si fa sentire in tante diocesi che diventano davvero ‘chiese’, grazie allo zelo di chi le guida e si guadagna così un alone di rispetto. In altre, la presenza invisibile di una abilità mediocre dà al clero e ai fedeli una impronta grigia: e non è un caso che le più serie patologie della Dc, dalla terza generazione in poi, dipendano proprio dall’assimilazione di questo genio del governo che è fatto di mediazione e di compromesso. Quando questo stile ecclesiastico si frantuma – prima per le impennate autoritarie e antiautoritarie degli anni Sessanta, poi nello spaesamento d’un papa ‘inimitabile’ come Giovanni Paolo II, infine nella situazione successiva alla crisi dei partiti – anche il sistema di potere democristiano diventa gestibile solo per chi non ne era stato parte e l’istituzione ecclesiastica prende altre vie di interlocuzione coi fedeli e coi poteri. 38   Y. Congar, Journal d’un théologien. 1946-1956, a cura di E. Fouilloux, Paris 2000. 39   Cfr. A. Zambarbieri, Il cattolicesimo tra crisi e rinnovamento: Ernesto Buonaiuti ed Enrico Rosa nella prima fase della polemica modernista, Brescia 1979.

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La storia di come si sviluppa un’esperienza religiosa specifica, in un quadrante spazio-temporale alla fin fine piccolo come quello nazionale e su un tempo piccino come quello che sta nella memoria d’uomo nonno-nipote, è dunque storia di donne e uomini nelle cui esistenze si consumano svolte che il lavoro critico deve rimpicciolire e che invece sono l’unica cosa che conta in chi le ha vissute. Alle loro figlie e ai loro figli la ricerca storico-critica tenta di dire – senza grande compiacenza dei suoi rari lettori – che il passato – quel passato – agisce come radice, fardello, vela e stampella. Un passato ‘imprevedibile’ e mai univoco che ha in sé l’efficacia degli intangibles. A questo comprendere-così il passato – perché così è stato il suo insieme e il suo dettaglio – si dedica il lavoro storico in una molteplicità di approcci possibili. Si è potuto e si può leggere la storia di questo paese e della sua componente religiosa cercando di ricongiungere prima di tutto e separatamente gli ‘Antichi Stati’, come le aree d’Italia continuano ad essere chiamate nelle rubriche della Segreteria di Stato vaticana ben dopo l’unità; e dunque ricollegare la Milano capitale dell’eresia medievale a quella moderna, la Venezia del Sarpi alla spiritualità del Veneto postasburgico, la Ferrara di Renata di Francia e le Romagne alla geografia dell’Italia rossa, la Napoli dove le correnti riformatrici spariscono senza che vi arrivi lo spirito di Trento, per poi riapparire nel ‘peculiare’ riformismo settecentesco. Ovvero si è potuto e si può fare una storia o dare spazio alle ‘chiese locali’, direbbe l’ecclesiologia del Vaticano II, temperando l’anacronismo della proposta con la esplicitazione dei criteri che rendono volta a volta ‘più importante’ questa o quella città in ragione d’un vescovo, d’un ambiente, d’una esperienza comunitaria: non foss’altro

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che per dar conto di esperienze locali di grande significato – come quella di Bergamo nell’episcopato di Giacomo M. Radini Tedeschi, della Firenze di Elia Dalla Costa, dove si anticipa la primavera spirituale del cattolicesimo con figure senza pari, della Bologna di Giacomo Lercaro, della Torino di Michele Pellegrino, o della Reggio Emilia di Gilberto Baroni, per poi virare a sud verso Bari o Locri. Si è potuto e si può proporre un dizionario biografico dei cristiani: discutendo se affidare la scelta dei nomi all’autoproclamata appartenenza religiosa, alla disciplina delle chiese, alla pratica sacramentale rilevabile con quegli strumenti sociologici utilizzati in modo ambiguo da tutti per dar forza statistica a tesi predefinite sulle crisi o sulle riprese. Si è potuto, ma non si può compromettere l’autorità delle chiese nel lavoro storico – che, quando è rigoroso, a quella autorità non ha nulla da aggiungere; e dal quale l’autorità nulla ha da temere, se davvero non indiget Deum né mendacio né avvocato né guardiano. In questo breve saggio si è cercato di indicare un’altra via: chiedersi dunque in che modo non solo la storia dell’Italia unita in generale, ma anche quella delle sue comunità cristiane abbia trovato ragioni e ritmi non in generiche immutabilità o nel loro opposto, ma in un filo di lungo periodo nel quale le generazioni sentono una loro chiamata, una loro occasione, un loro fallimento. Generazioni per le quali il cristianesimo non è il magistero o le riviste che propalano il magistero né l’eccitazione di quelle che lo impugnano: ma vita vissuta, pratica liturgica, sudditanza inconsapevole alle mode e alle utopie, calate dentro una esperienza in continua metamorfosi. Una esperienza, quella cristiana, che vive il confronto con la politica come ogni altra componente della società – gli industriali, gli intellettuali, le forze armate, le organizzazioni sindacali e via dicendo – ma con una peculiarità. Essa deve decidere per sé, e dunque in parte non piccola anche per il paese, quale via prendere davanti al bivio che divide la strada della legislazione da quella della formazione delle coscienze. Le chiese su questo dilemma consumano e guadagnano o credibilità o potere, raramente tutt’e due. Esse possono infatti pensare che, lasciato agli organi della asfittica democrazia liberale e poi a quelli della matura democrazia repubblicana il compito di mediare e legiferare, il loro dovere sia quello di investire tutto sul lato della formazione delle personalità e delle coscienze, come colui di cui il Vangelo dice et inventa una margarita. Oppure,

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sulla base di una non poco diffusa convinzione antropologica, credere che è meglio per tutti che la legge stessa protegga un insieme di valori, rischiando che essi soffochino perfino il dinamismo evangelico, che devono coartare i deboli e difendere i ‘semplici’: giacché costoro, senza la minaccia al fondo benevola della legge, saranno portati a confondere il lecito con l’etico, ciò che è permesso con ciò che è giusto, e dunque a perdersi. Questo dilemma discende lungo tutti i rami delle gerarchie; dai sinodi ai pastori, dai metropoliti ai pope, dai vescovi al clero cattolico, una massa che per quanto in contrazione quantitativa dal primo Ottocento rimane decisiva anche sull’inizio del secolo XXI quando nuove figure (i leader dei movimenti) assumono la giurisdizione ordinaria e straordinaria di quote vaste di fedeli e ambiscono alle diocesi per mostrare e misurare l’influenza che hanno acquisito. Il parallelogramma Se tutto fosse al suo posto, se la sequenza fattuale che porta dallo scontro fra cattolicesimo liberale e intransigentismo all’antagonismo fra clericomoderatismo e fermenti rinnovatori bollati come modernisti, dall’illusione politicistica dei popolari all’affidamento al fascismo, dalla rottura democratica all’attesa di una nuova dimensione spirituale, dalle esperienze pastorali al postconcilio, dalla declinazione gauchiste della politicizzazione della fede al ruinismo, dalla fine del papato italiano al disastro di credibilità che segna l’antagonismo fra Cei e Vaticano – ebbene se tutto ciò fosse fatto in modo pedissequo e manualistico credo che apparirebbe ancora più chiaro come la comprensione di cosa sia stato e dunque sarà il cristianesimo in Italia si venga a disporre in un parallelogramma di forze che vorrei da ultimo descrivere. I torrenti carsici Su un lato del parallelogramma c’è infatti la questione del destino dei fermenti che percorrono la Chiesa senza diventarne il mainstream. Ché è chiaro che nella vita ‘religiosa’ di questa nazione la relazione fra grossi corpi e dinamismi apparentemente marginali è cruciale per capire i processi che hanno segnato in modo profondo la storia italiana. Dai circoli valdesi del Regno di Sardegna ai

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seminari d’inizio Novecento, dalla cultura fucina sotto il fascismo alla politica del dopoguerra, dai gruppi del postconcilio fino al pentecostalismo emozionale e terapeutico, la storia italiana conosce dei ‘fermenti’: fermenti spirituali e intellettuali, che sognano e spesso anticipano nella loro esistenza nuovi equilibri, stili che appaiono sconvenienti alle autorità e che per questo ricevono sanzioni, emarginazioni. Tali episodi tristi o meschini nell’agiografia che talora subentra (si pensi alla diffidenza dell’episcopato italiano contro Chiara Lubich o al conflitto fra Alcide De Gasperi e Pio XII nell’operazione Sturzo) diventano spesso ‘prove’ che mettono in luce, col senno di poi, virtù di cui far lode; o scarti che nella prosa dell’anziano Jemolo diventavano solo ipotetiche dell’irrealtà – se Dossetti fosse diventato arcivescovo di Bologna e don Milani vicario per la cultura a Firenze... – da esplicitare solo per poterle meglio afferrare e riporle con cura nel famoso museo degli sforzi inutili. Tali fermenti costituiscono a volte un fattore allergizzante di lungo periodo, come dimostra l’uso di neomodernismo come capo d’imputazione agitato da cattolici zelanti d’ogni stagione contro altri cattolici a loro avviso renitenti a qualcosa. Ma in ogni racconto dell’Italia – sia esso denigratorio, apologetico o storicistico – il destino di tali fermenti costituisce una chiave di lettura ricorrente e dà luogo a una storiografia che ricorre volentieri alla metafora del ‘carsico’. Destino dei più diversi fermenti della storia religiosa italiana è infatti inabissarsi: per volontà o per azioni repressive, per scelta o per la forza degli antagonisti. Per questo – ecco il carsico – quei fermenti sono perciò destinati a riapparire in un poi non troppo vicino, non troppo lontano. Nel loro riaffiorare segnaleranno la vittoria di un’idea profetica, la lunga durata dell’intransigenza antirivoluzionaria o il perdurare d’un pericolo per la retta fede. Poco cambia: conta che l’origine d’un punto del processo storico venga non per sequenzialità, ma per riemersione di spinte andate soppresse. Il modello ‘carsico’ della storiografia ha il pregio di tenere sempre aperta una porta alla speranza o all’allarme, giacché ciò che è perduto potrà tornare (e dunque il tanto vituperato cattolicesimo liberale sarà la cifra di cui si vanterà Francesco Cossiga, l’aggiornamento di papa Giovanni verrà denunciato come figlio del modernismo da Indro Montanelli a concilio aperto, e via di questo passo).

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L’eterogenesi dei fini Ma la forza ermeneutica della metafora del ‘carsico’ entra in concorrenza con un altro schema di lettura di queste vicende, che non ragiona per fermenti sconfitti e destinati a risorgenza, ma per eterogenesi dei fini. Ciò che decide di un’età non è un ritorno, ma l’imprevisto deragliamento di un mezzo destinato a ben altra meta. All’origine ci può essere un intento riformatore che rifluisce negli argini della pura conservazione. Non importa: chi considera il prodotto di quello scarto una iattura e chi lo considera come un passaggio progressivo necessarissimo convergono sull’idea che sia sfuggito di mano qualcosa. Per cui, ancora per fare qualche esempio, le caute aperture del pontificato di Leone XIII vengono indicate fra le cause della crisi modernista, ovvero sfociano in una loro naturale esplicitazione che, per colpa di Pio X, verrà recepita e punita come la piovra del modernismo. La ricezione del Concilio Vaticano II, troppo complessa per il governo di Paolo VI, disarticola per forze proprie le grandi organizzazioni di massa della Chiesa pacelliana liberando energie ed esperienze di nuova fattura o al contrario è proprio per ‘colpa’ di Paolo VI che un innocuo ‘concilietto’ che avrebbe potuto far buone cose riformando niente rende esplosiva per la Chiesa la crisi del ’68. Intransigenza e riforma Sull’altro lato del parallelogramma si trova il problema delle ‘spanne’ – un’espressione cara a Giovanni Miccoli – del tempo storico. Spanne che non vanno confuse con la longue durée. Ci sono fenomeni che connotano anche il cattolicesimo italiano che, in una visione estesa come tutto il secondo millennio cristiano, si possono e si devono ricondurre ai grandi processi della storia delle istituzioni e delle mentalità: i dualismi del foro, del mercato, del governo ecclesiastico e dei suoi apparati, gli impulsi di protagonismo di cui sono portatori singoli e il formarsi di comunità che di tutto quanto detto non sono un inerte terminale1. Ma questa visione, pur con la forza intellettuale che dispiega, non è in grado di risolvere un ulteriore dilemma che si colloca entro i confini della modernità, generando due posizioni in ten  G. Alberigo, Il cristianesimo in Italia, Roma-Bari 1997.

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sione fra loro, attorno al nodo decisivo del mutamento storico nel cristianesimo e nel cattolicesimo. Da un lato c’è infatti l’idea che ciò che domina i secoli XIX e XX e probabilmente dominerà, a giudicare dagli inizi, anche il XXI, sia il paradigma dell’intransigentismo: quel rifiuto della modernità come espressione dell’autonomia dell’individuo (nel senso borghese del termine) che nel Partito antirivoluzionario dell’Olanda di Abraham Kuijper passa dal calvinismo, in Germania è luterano e in Italia è reso udibile dal magistero cattolico romano, dai suoi organi di stampa, dalla sua pubblicistica. Questo rifiuto che sogna una christianitas dove la Chiesa regoli la legislazione civile e detti i confini della pubblica moralità sarebbe rimasto dominante non solo in proclamazioni e progetti sempre meno realistici, ma alla fine avrebbe albergato perfino in quelle che di primo acchito potrebbero apparire svolte: dunque poco hanno da dire i papi ‘rampolliani’, nulla rimane delle concessioni venute perfino dai papi Pii, e lo stesso Concilio Vaticano II non avrebbe fatto reali concessioni, ma solo manifestato intenzioni impotenti, risucchiate poi dal côté conservatore dei pontefici postconciliari e di conseguenza dalle ‘gerarchie’, immaginate come una falange rapita dal sogno d’una restaurazione teocratica che non verrà, ma che rimane la stella polare d’una azione pastorale e politica erosa solo dal progresso della secolarizzazione. Dunque l’intransigentismo come cultura dominante forse eterna, in una Chiesa che non ha accettato quella modernità, sostenuta dal protestantesimo italiano solo per polarità rispetto al conservatorismo papista. Dall’altra parte c’è la tendenza a considerare potenzialmente infinite le svolte che hanno segnato la vicenda dei credenti cristiani nella storia unitaria: una lunga teoria di modificazioni piccole, contingenti dirà qualcuno, ma ‘significative’ alla luce del malcerto senno di poi. Non sono gli stupidi che cadono in questo tranello; niente meno che Jemolo, nello scrivere le sue voci per il Dizionario del pensiero politico uscito alla vigilia dell’intervento fascista in guerra e nel quale esalta il concordato, scrive: «La pace durerà: disse il Duce: e pure a questo proposito la storia avallerà ch’Egli guardò lontano con occhio sicuro». Ci vorrà la pagina più bella delle sue memorie già citata per capire la meccanica di chi cadeva nelle spire dell’enfasi celebrativa2.   A.C. Jemolo, Anni di prova, a cura di F. Margiotta Broglio, Firenze 1991.

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A questa visione disponibile ad accogliere le discontinuità fattuali si deve la comprensione del peso che ha la riforma conciliare e l’affermazione d’un nuovo modo di porgersi della Chiesa cattolica stessa nella sua autocomprensione ecclesiologica: la sua vocazione ecumenica, il suo dialogo con le culture e le religioni, la rinunzia alle logiche privilegiarie e la sua visione della modernità – incluso e non escluso il tipo di risposta che suscita nella minoranza valdese e anche più latamente in quella ebraica. Col rischio non del tutto banale di attutire il senso di catastrofe che in momenti specifici di questi anni prende i credenti che si chiedono se davvero le piccole esperienze residuali di fede siano un inizio o una fine. Questo parallelogramma non è destinato a trovare una sintesi e non è nemmeno desiderabile sperare che qualcuno lo appiattisca: esso infatti ‘rende’ sul piano conoscitivo proprio finché le sue cime sono tese da una sete. Ogni opera di storia, infatti, cerca una goccia fragile, rivedibile, infinitesimale di verità storica, non una media. E sa che solo così potrà servire anche quando altri frammenti avranno modificato il giudizio sui termini delle questioni, e nuove fonti avranno chiarito passaggi che oggi sono noti solo nei loro esiti fattuali anziché nelle loro intenzioni, e altre intelligenze si saranno applicate ai che cosa e ai perché. Allora, in quella luce diversa, lo sforzo fatto per inquadrare 150 anni di vita dei cristiani d’Italia e il grande lavoro di scavo analitico che esso ha prodotto saranno superati: nel linguaggio, negli strumenti comunicativi, nelle tematizzazioni, nelle conclusioni. Ma chi vorrà leggerli potrà dire che alla vigilia del 2011 erano questi i risultati e i metodi di studio possibili in questa penisola dell’Europa meridionale, senza parole d’ordine, senza secondi fini, senza compiacenze – e certamente senza il carisma dell’infallibilità. Presto o tardi che sia, quando questo accadrà, si avrà a disposizione un quadro meno parziale di questo oggi nel quale vediamo cozzare il potente rispetto che circonda le Chiese e l’erosione del loro prestigio spirituale, la sfida sulla comunicabilità dell’Evangelo alle giovani generazioni e la ricerca d’una autenticità di vita, i pregi viziati delle élites civili e di quelle politiche, la violenza come strumento di comunicazione e l’astuzia che si traveste da prudenza.

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Le domande forti Quando tutto questo sarà passato ci si potrà chiedere con maggiore distacco e da capo cosa è accaduto dei cristiani. Ci si domanderà, come faceva Giuseppe Donati nel 1929, se è stato il clericalismo di secoli «a rendere gli italiani quali furono e quali, purtroppo, sono sempre» o se viceversa non sono stati gli italiani a rendere il clericalismo qual è3. Forse si vedrà con maggiore chiarezza se l’assioma dossettiano (per cui l’incapacità della Chiesa di sovraordinarsi alle svolte epocali della civiltà la rende responsabile dei mali che da quei mutamenti si producono) si possa applicare ad altri momenti della storia italiana4. In un contesto mutato – certamente mutato – chi studierà questi temi disprezzerà un cristianesimo «tutto conferenze, opere sociali, libri e libercoli, riviste, ritiri annuali semestrali mensili: tutte cose, insomma, che possono avere e fare soltanto i borghesi», come diceva il don De Luca già sferzante e ancora reazionario nel 1939?5 I cattolici che potrebbero addirittura aver celebrato il loro primo concilio nazionale italiano, come nel tremendo Padre nostro di Pier Paolo Pasolini recitato da Vittorio Gassman, saranno costretti a diventare loquaci «come quelli che hanno appena avuto una disgrazia e sono abituati alle disgrazie»? E il protestantesimo che aveva mantenuto la sua fisionomia valdese-metodista, che rapporto avrà con i suoi omologhi profetico-carismatici? Di quel futuro a cui questa fatica storiografica sembrerà uno status quaestionis non ha senso farsi immagini; ma se mai ricordare che qualcuno se l’era fatta e aveva cercato un colloquio postumo con i suoi protagonisti – quei «missionari cinesi del vicariato apostolico dell’Etruria» ai quali don Milani scriveva la lettera finale di Esperienze pastorali. 3   Sotto pseudonimo è G. Donati, L’educazione cattolica e il carattere degli italiani, in «Il Pungolo», 15 maggio 1929, in A. Acerbi, Introduzione, in La chiesa e l’Italia: per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura dello stesso A. Acerbi, Milano 2003, p. 7. 4   Mi permetto di rinviare al mio Qui sitiunt Ecclesiam, in Giuseppe Dossetti. La fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007, pp. 383-405. 5   I. Speranza [G. De Luca], Il cristiano, come antiborghese, in «Il Frontespizio», 11, 1939, 2, pp. 90-91; cfr. P.G. Zunino, Interpretazioni e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Roma-Bari 1991, pp. 143-169.

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Per spiegare a loro, venuti a riportare il Vangelo fra le macerie spirituali di una terra un tempo piena di fede, che la fornicazione con la mediocrità (per lui, bei tempi, impersonata da De Gasperi) era avvenuta senza deliberato consenso e piena volontà. Egli voleva dar ragione d’un tempo che gli sembrava disastroso e che oggi sappiamo essere stata l’ultima settimana di gelo, prima d’una nuova primavera della Chiesa. Arrivata, come sempre, senza alcun segno premonitore.

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A questo punto del percorso penso sia possibile aggiungere qualche considerazione a suo modo conclusiva proprio sul passato prossimo: su quel 2012, anno drammatico per il governo centrale della Chiesa, anno cerniera che ha visto inattesamente tornare alla ribalta italiana il problema del peso, del ruolo, dell’autocomprensione dei ‘cattolici’ – con tutte le ambiguità e sfumature che l’uso di questa categoria impone a chi abbia letto le pagine precedenti, e chi le ha saltate mi farà venia di non ripetere –, e sulla cesura di fine inverno 2013, che ha visto concludersi per rinunzia il pontificato di Benedetto XVI e aprirsi il conclave che ha eletto papa Jorge Mario Bergoglio con il nome evocativo e programmatico di Francesco. Per prima cosa bisognerà dunque provare a capire cos’è stato per il magmatico cristianesimo e cattolicesimo l’anno nel quale è tramontato per la terza volta l’astro governativo di Silvio Berlusconi – senza che questo tramonto fosse accompagnato, come nei casi precedenti, da una sconfitta elettorale inflittagli da una delle coalizioni guidate da un cattolico a tutta prova come Romano Prodi –; e per tentare di farlo con qualche fondamento non si deve smettere di distinguere accuratamente, di datare, di circostanziare, anche arretrando nel tempo. Volendo infatti ripercorrere con attenzione le premesse storiche di questo anno cerniera bisogna iniziare da un Leitmotiv che quattro anni prima il papa e il presidente della Cei avevano introdotto nel linguaggio della comunicazione politico-religiosa: cioè l’auspicio di vedere quanto prima una «nuova leva di cattolici impegnati in politica». Un desiderio poco consolatorio, enunciato in modo molto formale da papa Benedetto XVI a Cagliari, nel set-

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tembre 2008, nel momento iniziale e ancora inusurato del tripartito Berlusconi-Bossi-Fini, di cui inusurati cardini erano Guido Bertolaso e Gianni Letta. La formula, per quanto evasiva nel dire rispetto a cosa o a chi questa generazione avrebbe dovuto essere «nuova» (anagraficamente? culturalmente?), aveva rimbalzato fra organi di stampa e ripetitori vari per mesi e mesi. L’aveva solennemente rilanciata – parlandone però come di «un sogno» – il cardinal Bagnasco a gennaio del 2010, in un momento nel quale la tensione destinata a esplodere con e nel centro del potere vaticano correva ancora sotto traccia. E da lì per tutto quell’anno il ritornello è stato udito a più riprese, mentre lo stringersi della crisi finanziaria del paese e lo sfilacciarsi della maggioranza rendevano sempre più contestata e imbarazzante la cosiddetta ‘equidistanza’ dell’episcopato italiano fra la coalizione Lega-Pdl e l’opposizione Centro-Pd. La crisi mancata Fra la fine di ottobre e la metà di dicembre del 2010, infatti, quando la credibilità personale del premier s’è frantumata non più sotto il peso di accuse relative alla sua condotta d’imprenditore, ma per l’enorme prezzo che il suo stile di vita faceva pagare al prestigio internazionale dell’Italia, ebbene, in quelle settimane, nessuno aveva agito con la determinazione che dodici mesi dopo avrebbe messo in crisi il IV gabinetto Berlusconi, ma non l’astro politico del suo eponimo. Indebolito dall’uscita dal partito di maggioranza relativa di Gianfranco Fini e di un gruppo di suoi parlamentari, il governo non avrebbe potuto che cedere, se fosse stato messo alle strette sul piano parlamentare, istituzionale, morale, politico. Ma né il mondo imprenditoriale, né le grandi voci politico-morali del paese si dimostrarono capaci di andare oltre una severità narcisistica, paga di ascoltare il suono del proprio sdegno; tanto meno le autorità ecclesiastiche furono in grado di prendersi, né come singoli né come ceto, la responsabilità di accelerare quel passaggio che (o perché) sembrava ineluttabile, finendo così in un coro muto. La ragione, ex parte subjecti, stava nella convinzione o nella illusione che non ci fossero reali alternative. Certo mancò a fine 2010 un articolo come quello pubblicato dall’«Osservatore Ro-

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mano» il 25 giugno 1924, all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti: quello che, paventando il «salto nel buio», contribuì a cementare le basi d’un fascismo il cui consenso era stato scosso dal caso. Non ci fu un articolo come quello su La parte dei cattolici nelle presenti lotte politiche in Italia – pubblicato il 15 agosto 1924 sulla «Civiltà Cattolica» –, che costituì per la Santa Sede il programma di soccorso inteso a salvare il governo Mussolini. Eppure, ottantasei anni dopo, ciò che veniva comunicato sia attraverso i canali della diplomazia vaticana sia nei discorsi degli ordinari delle diocesi era un senso di inerte esitazione, quasi che s’affacciasse in un contesto tanto dissimile la stessa incapacità di vedere nella fisiologia democratica la matrice di alternative valide e la stessa ipnotizzata sfiducia verso quelle che già c’erano sul tappeto. Fu figlio sia di questa incertezza sia della proverbiale abilità del premier nell’acquisire alla maggioranza alcuni deputati, in vero scelti dai leader delle forze d’opposizione eppure disponibili al mai dismesso esercizio del trasformismo, il voto di fiducia del 14 dicembre 2010: con quel passaggio parlamentare nasceva, come si disse in aula, il governo Berlusconi-Scilipoti. E su questa nuova maggioranza – la cui esilissima stampella era costituita dal pittoresco deputato un tempo dipietrista pronto a dichiararsi portatore dei valori della famiglia e della «cristianità» – mancò un giudizio di parte ecclesiastica: quasi che l’autorità religiosa fosse incapace di decifrarne il significato intrinseco o anche solo di intuire che il destino di quel rattoppo trasformista era quello di sfarinarsi, sfarinando il paese proprio mentre la crisi dei debiti sovrani incrementava la propria magnitudo. Il negozio del non negoziabile La mancata lucidità ecclesiastica discendeva da abitudini e più ancora dalla convinzione che il compito della Chiesa non fosse quello di comprendere o ascoltare la realtà del paese, ma di sottoporre la politica a frequenti e sommari rapidi ‘test’ su alcuni circoscritti punti – definiti dapprima «irrinunciabili» e più tardi «non negoziabili», con un calco del lessico del fondamentalismo battista americano degli anni Venti – che il magistero indicava come prioritari e dirimenti. Essi si concentravano in una zona biopolitica molto ristretta (diritto di famiglia e diritti delle persone

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omosessuali; statuto giuridico degli embrioni, massime di quelli prodotti in vitro; leggi sulla interruzione di cure o trattamenti in alcuni pazienti). Su questi temi il centrodestra – onestamente senza mai nascondere la strumentalità ideologica dei suoi passi – assumeva impegni che i vescovi giudicavano objective più solidi delle complesse mediazioni di cui sia il Partito democratico sia l’Unione di centro dovevano farsi carico. D’altronde, la polemica contro l’arrivo di Gianfranco Fini nel ‘terzo polo’ – al quale la stampa cattolica imputava di mescolare a quel quantum di ossequio ecclesiastico di cui potevano essere portatori Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli un eccesso di laicità – diceva che quel discrimine valoriale, proprio perché così confuso sul piano teologico e giuridico (quelli da difendere con intransigenza in materia di famiglia, embrione, fine-vita erano principi o valori? comportamenti o limiti? divieti o sistemi di sanzione? e chi e come doveva armonizzare con essi il diritto canonico e il catechismo?), permaneva assai operativo sul piano politico. Questa restrizione ai valori «non negoziabili» comportava infatti proprio l’apertura di un negoziato sui generis con la sola parte politica berlusconiana che, in cambio di un ossequio vero o artefatto, poteva ottenere a prezzi di saldo un ‘accostamento ecclesiastico’ che prendeva forma concreta proprio mentre le autorità ne negavano l’esistenza, come se fosse stato il mondano ad avvicinarsi a loro e non viceversa. Il che non era solo la causa, ma anche l’effetto di un lungo e perdurante rachitismo intellettuale e morale dei cattolici: quella tradizione democratica fatta di giuristi ed economisti, di storici e di politologi sembrava essere svanita con la morte di personaggi della statura di Elia, Andreatta, Alberigo, Scoppola, per lasciare posto ai manifesti elettorali su «famiglia e cristianità» del citato Domenico Scilipoti. Il protagonismo cattolico Nel corso dell’anno 2011 le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia hanno però di fatto suscitato anche in sinu ecclesiae un desiderio di protagonismo legato alla rammemorazione della storia italiana. Dava la traccia di questa spinta il messaggio di Benedetto XVI al presidente della Repubblica citato all’esordio di questo saggio. Dire superata «nella società» una frattura che ha segnato

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con la scomunica tanto popolo cattolico e ha convinto ogni anticlericale dell’importanza tutta politica del «Vaticano» includeva un giudizio sulla democrazia: così come espungere l’apporto costituente dei professorini dossettiani per lodare il contributo ideologico del Codice di Camaldoli non conteneva una forzatura politologica, ma una rivendicazione di protagonismo che lasciava intendere come quell’auspicio per una «nuova generazione» di cattolici al potere ambisse a diventare più che un voto. D’altro canto i vescovi, dopo la lunga stagione della presidenza Ruini che aveva concentrato nelle mani del presidente della Cei i rapporti con la politica e col potere, s’erano fatti sentire in quell’inizio di 2011 su alcuni temi di qualche impatto sociale – la politica dell’immigrazione, la vessazione delle minoranze nomadi, la disattenzione al disagio delle famiglie –, con posizioni certo sgradite ad alcune correnti della maggioranza e della Lega Nord. Anzi – lo si sarebbe saputo solo dopo, quando una delicata lettera del superiore di Cl a sostegno della candidatura di Angelo Scola ad arcivescovo di Milano sarebbe stata rubata e pubblicata – quelle tesi venivano imputate al cardinale Tettamanzi e giudicate da alcuni ambienti ecclesiastici come un torto da riequilibrare, riportando a Milano un porporato al quale si attribuivano simpatie di destra con la stessa disinvoltura con cui si postulavano quelle opposte di altri. Gli attacchi che preoccupavano il centrodestra erano meno energici di quelli che avevano inseguito negli anni precedenti – puta caso quei politici che s’erano schierati per l’istituzione su scala comunale di registri delle unioni civili, che avevano dato credito ad atti di advocacy sulle convivenze fra persone non sposate, o sostenuto le raccolte di dichiarazioni di volontà sulle cure a fine vita basate su formulari ideologicamente molto profilati. Eppure quella predicazione di tipo solidaristico così ambrosiana, di cui Tettamanzi era stato la voce, era sufficiente a incrinare una tesi implicita e indimostrata, che veniva enunciata in modo formale il 22 luglio del 2010 da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera». «Perché non possiamo non dirci di destra» Il politologo del Sum (Istituto italiano di Scienze umane) – pur ammettendo che il mezzo secolo dell’era democristiana non rien-

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trava nel suo schema interpretativo e che il suo giudizio politologico non includeva l’età toniolina, né quella sturziana, né quella montiniana – sosteneva che i cattolici non possono che riconoscersi in un centrismo conservatore e comunque, alla stretta del bipolarismo, nelle forze di destra. A sostegno di questa visione, reperibile nella retorica intransigente tardo-ottocentesca, portava un paralogismo ecclesiologico, un tempo usuale nella prosa anticlericale 1) il papato e l’episcopato hanno titolo per decidere della scala dei valori che sono tali sul piano politico; 2) chi dunque vede il bene politico del paese collocarsi altrove rispetto a tali temi etico-dogmatici deve accettare di essere misconosciuto dalla propria mater et magistra, pur essendo aderentissimo ad essa nella confessione di fede (come ad esempio poteva già essere stato per chi non difendeva la restaurazione del principato temporale del romano pontefice); 3) viceversa chi di quella autorità è interprete non può che prendere atto della discrepanza fra l’adesione almeno ideologica di qualcuno e del suo valore ‘educativo’ da un lato, e dall’altro la distanza degli altri. Per sostenere che i cattolici «non possono non dirsi di destra» Galli della Loggia faceva dunque leva su indicazioni del magistero pontificio. Ma in realtà andava contro la posizione autorevolmente espressa nel 2004 dal cardinale Ratzinger nel dibattito con Habermas sulla fede nella società pluralista. In quel momento il futuro Benedetto XVI aveva sostenuto che nella società pluralista i cristiani agiscono attraverso «minoranze creative» che fanno valere le proprie idee dentro la democrazia (dato che la democrazia c’è ed è costitutiva della società pluralista). La tesi era stata ulteriormente sviluppata dal cardinale Angelo Scola che, prima di essere trasferito da patriarca di Venezia ad arcivescovo di Milano, aveva argomentato che nelle istituzioni democratiche poteva accadere che le istanze di questa o quella «minoranza creativa», riconosciuta o meno come tale dalla autorità ecclesiastica, fossero sconfitte dalla democrazia, nel gioco dialettico fra maggioranza e minoranza; e che quel gioco non perdeva per questo il suo valore, anzi lo vedeva esaltato. Nell’una e nell’altra espressione di questa tesi non era chiaro cosa sarebbe dovuto accadere quando più «minoranze creative» radicate nel cattolicesimo fossero state portatrici di istanze diverse o fra loro opposte. Ancor meno chiaro era in che senso il sostegno,

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teologicamente motivato, della Chiesa come communio dei fedeli, potesse o dovesse andare nella difesa di un assetto sociale che la giustizia del Vangelo può solo giudicare e mai far suo. Tuttavia né il papa né il suo più autorevole interprete italiano avevano mai sostenuto che le ‘istanze’ portassero acqua al mulino della destra europea. Posizionamenti e necessità D’altro canto, al netto del contributo intellettuale Ratzinger-Scola, l’idea di un cattolicesimo naturaliter di destra aveva sostenitori, che però ne derivavano opzioni politiche distinte. La tesi di Galli della Loggia infatti poteva far da sponda a voci come quella di mons. Mario Toso, già rettore del Pontificio Ateneo salesiano, e dunque per questa sola comunanza salesiana ritenuto espressione della linea del cardinal Bertone. Toso aveva ventilato in varie sedi nell’estate del 2011 l’idea non di un partito cattolico o di un partito di cattolici, come si discettava decenni prima, ma di un’aggregazione per cattolici moderati, nel senso dato al termine dal lessico berlusconiano. Una proposta che nel vivo della dinamica politica italiana pareva promettere ai centristi un sostegno ecclesiastico (sub)ordinato a quella riconciliazione fra Pdl e Udc che dal 2001 Silvio Berlusconi considerava il farmaco necessario a energizzare e riequilibrare la propria compagine governativa. Solo apparentemente simile era la visione della Cei sotto la presidenza del cardinale Angelo Bagnasco e nella segreteria di mons. Mariano Crociata. L’episcopato era certo consapevole, nel suo insieme, di aver fornito e di fornire un sostegno al governo fatto di pensieri, parole, opere e omissioni; per sé non era ostile a un allargamento della maggioranza ai parlamentari di Casini e Rutelli. Ma per spiegare questo dato di fatto soleva dire a sé stesso che questa scelta discendeva dalle posizioni assunte dagli attori politici su principi non negoziabili: dato che questi principi si diceva non fossero conseguenza dell’atto di fede o della divina rivelazione, ma espressione della ragione che scruta la legge ‘naturale’, ciò rendeva automatici – e dunque privi di quella piena avvertenza e deliberato consenso necessari all’atto peccaminoso – i comportamenti politici che ne discendevano. Ancora ai primi di settembre del 2011, accettando un invito

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della Fondazione Magna Charta, il think tank più importante del centrodestra, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, spiegava: se è gravemente ingiusto tradurre in termini di ordinamento pubblico certe scelte esclusivamente etico-religiose, è scorretto ridurre ogni posizione assunta dai credenti a scelta «confessionale» e quindi individuale e privata. Certi valori – come nel campo della vita e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato –, anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Per questo [corsivo mio] sono detti «non negoziabili». Si dice che la politica è l’arte della mediazione: è vero per molte cose, e speriamo che si raggiungano sempre le mediazioni migliori, ma vi sono dei principi primi che qualunque mediazione distrugge.

Non senza distinguo e cautele, si finiva però per dire che la politica della Chiesa non la faceva la dottrina cristiana ma la «legge di natura» della Repubblica di Cicerone, poco oltre citata. Il cardinale si distanziava da quella idea feroce della morale cattolica, così spesso usata degli ex radicali passati alla difesa dei valori integristi: ma egli rimaneva fermo nel considerare i temi «non negoziabili» dirimenti e dunque ‘non pensabili’ entro un quadro teologico più ampio. Una idea che ridava lustro alla teologia politica del cardinale Siri in opposizione a quelle mediazioni così odiate nell’odiato Montini. Mentre tale tesi veniva dispiegata il paese iniziava la più grave crisi economico-istituzionale della sua storia repubblicana. Sulla scena politica, nella quale perfino Romano Prodi, a luglio 2012, aveva scritto sul «Messaggero» che «nella tempesta non si cambia timoniere», era infatti piombata la stretta della crisi dei debiti sovrani della zona euro. Essa esacerbava i conflitti dentro il partito del premier, dentro la maggioranza, dentro un governo che attendeva da mesi questo appuntamento con il fragore degli eventi – e seminava in un’Italia, da sempre pietosa con chi ha pietà di lei, l’attesa di un gesto di rottura che, come un novello ‘ordine del giorno Grandi’, segnasse l’inizio di un possibile riscatto. Riscatto al quale i vescovi non avevano modo di applicarsi nel momento in cui – lo si sarebbe capito solo l’anno dopo – uno o più gruppettini iniziavano a raccogliere carte, rubate dal tavolo del papa nel suo stesso appartamento o fotografate negli archivi correnti

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della Seconda Loggia, da usare in una logica eversiva: se lo scopo era quello di indebolire la posizione del segretario di Stato Bertone e ottenerne la sostituzione, con un gesto non meno plateale di quello che aveva defenestrato Montini nel 1953, l’effetto sarebbe stato mancato perché a febbraio del 2013 lo stesso pontefice Benedetto XVI avrebbe alla fine deciso di sostituire sé stesso. Al di là del problema degli intenti, comunque, di materiale su cui costruire questi dossier – di scarso valore intrinseco anche sul piano politico, ma parte di una strategia della tensione che giocherà a rimpiattino con la suprema autorità per mesi – ce n’era parecchio: a partire dalla truffa dell’Ospedale San Raffaele, nella quale la Santa Sede aveva manifestato l’intenzione di intervenire investendo sei volte la somma pagata da Casaroli nell’affaire Ior, per risanare il default causato da un chierico senza scrupoli che il cardinal Montini aveva neutralizzato e al quale il cardinal Martini aveva restituito le potestà sacerdotali. Non era forse senza connessione con questa operazione, poi finita in nulla, la tensione salita all’interno dello Ior, l’istituto di credito vaticano di cui era diventato presidente un uomo vicino all’Opus Dei come Ettore Gotti Tedeschi: un’ascesa che era stata favorita dalla pubblicazione da parte del giornalista Gianluigi Nuzzi delle carte che un prelato, mons. Dardozzi, avrebbe lasciato in eredità ad un congiunto. Quelle carte e il modo in cui venivano presentate mettevano in cattiva luce il precedente presidente, Angelo Caloia, nominato da Casaroli, vero risanatore della tana di Marcinkus, liquidato in modo inurbano nel pieno di quella campagna. I dati economici, l’apprensione nazionale e internazionale di cui il Quirinale era l’antenna, l’angoscia delle famiglie davanti alla progressiva paralisi del bicolore Berlusconi-Bossi non potevano però restare senza risposta o placarsi facendo il tifo in una faida chiesastica. Così il 26 settembre, nella prolusione al consiglio di presidenza della Cei, il cardinal Bagnasco prendeva le distanze dal governo Berlusconi nelle settimane in cui lo stesso atteggiamento veniva assunto da Confindustria e da organi di stampa solitamente indulgenti col governo. Bagnasco usava un linguaggio generalissimo, ma del tutto trasparente: Mortifica soprattutto dover prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui. Non

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è la prima volta che ci occorre di annotarlo: chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole «della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore» che comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda. Si rincorrono, con mesta sollecitudine, racconti che, se comprovati, a livelli diversi rilevano stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Da più parti, nelle ultime settimane, si sono elevate voci che invocavano nostri pronunciamenti. La collettività guarda con sgomento gli attori della scena pubblica e l’immagine del Paese all’esterno ne viene pericolosamente fiaccata. Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili.

L’auspicato passo «responsabile e nobile», esclusivamente motivato sul piano morale, poteva avere molte declinazioni: un cambio di premier a maggioranza invariata, un atto ostile di quegli ambienti ex democristiani del centrodestra da mesi in attesa di un ‘segno’ favorevole, il ‘rimescolamento’ dei gruppi parlamentari, una promessa di elezioni fatta per ottenere il necessario sostegno a provvedimenti dolorosi. Ma nessuno di questi scenari occupò l’inizio di ottobre. Il caso Todi Anche questo combinarsi degli eventi aumentava l’attesa attorno alla riunione del forum delle associazioni cattoliche d’impegno sociale convocata il 17 ottobre a Todi. Nata come mossa preventiva rispetto all’idea di Toso sul ‘partitino’, il forum aveva come baricentro (con la sola eccezione delle Acli) i gruppi vicini al centrodestra che in forza di questa comune spinta ideale avevano abbandonato Reti in opera, la federazione che la segreteria generale Cei di mons. Betori aveva tentato di far nascere per spingere alla cooperazione le mille realtà imprenditoriali-solidaristiche vicine alla Chiesa. Nella percezione pubblica Todi – è stato anche scritto – prendeva così i colori di una convocazione degli ‘stati generali’ del vecchio ‘laicato’: nel momento in cui si capiva che la Cei aveva preso le distanze dal governo (ma non aveva ancora chiesto a parlamentari ad essa vicini di uscire allo scoperto) si pensava che

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quella assise – quasi una via di mezzo fra l’Opera dei congressi e i Comitati civici – sarebbe stata il ‘braccio secolare’ a cui affidare il compito di rompere il doppio asse comunicativo e politico fra Palazzo Chigi, la Cei e una Segreteria di Stato surclassata dalla velocità degli eventi. La lista degli invitati, gestita dall’esperienza sindacale di Raffaele Bonanni, includeva cattolici honoris causa e importanti stake­ holders della reputazione cattolica. Escludeva tuttavia nomi di persone che forse non avevano una associazione propria, ma una esperienza (puta caso Giovanni Bazoli, Giuseppe Guzzetti, Mario Monti, Romano Prodi) non inferiore a quella del leader della Cisl. Non invitava coloro che una leadership l’avevano avuta e l’avevano perduta in manovre di palazzo (come Savino Pezzotta); lasciava fuori istituzioni non confessionali anche se d’impronta nettamente cattolica (come don Luigi Ciotti con Libera), o quelle a base diocesana (come le Case della carità e don Virginio Colmegna). L’incontro – distante come sigla e fattura dal ‘progetto culturale’ di matrice ruiniana e opposto alla tesi del ‘partitino’ – si svolgeva a porte chiuse. Ma il senso di un tale appuntamento lo prefigurava, la mattina del 17 ottobre, un editoriale di Ferruccio de Bortoli. Secondo il direttore del «Corriere» la diaspora postdemocristiana aveva trasmesso ai cattolici la falsa sensazione di contare di più. Come oggetti, però. Promesse generose (si pensi solo alla tutela economica della famiglia) mai mantenute. Impegni solenni, e discutibili, sulla bioetica, subito derubricati nell’agenda politica, e dunque ritenuti solo a parole irrinunciabili.

La fase di ‘pacificazione’ di un dopo Berlusconi ormai iniziato, a giudizio di de Bortoli, avrebbe consentito ai ‘cattolici’ di intestarsi una rinnovata affermazione delle virtù civili, modificando in modo sensibile l’agenda che si erano imposti nell’ultimo decennio: I cattolici possono intestarsi una nuova missione, esserne protagonisti. Dire quale idea dell’Italia hanno in mente. Riscoprire un tratto più marcatamente conciliare dopo l’era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre

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si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l’incomunicabilità con le posizioni laiche all’insieme delle questioni civili ed economiche. Un dialogo va ripreso su basi differenti, nel rispetto delle libertà di coscienza.

Se l’obiettivo del forum fosse stato davvero quello enunciato dalla Cei – dar vita a «nuovo soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni» – l’esito sarebbe stato scarso. Dopo aver portato a sedere nella medesima stanza movimenti ferocemente antagonisti e aver concesso una sorta di nuova verginità a entità legate per storia e uomini al mondo berlusconiano, era ancora il presidente della Cei a dare una linea d’azione, tutt’altro che nuova nei contenuti e perciò altrettanto nota negli esiti. Non per nulla, poche ore prima, monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni-Narni-Amelia e assistente ecclesiastico di Sant’Egidio, aveva parlato in altra sede umbra a un incontro promosso da Maurizio Sacconi. Contro gli auspici del direttore del «Corriere», dunque, il cardinal Bagnasco riproponeva come priorità e discrimine i valori non negoziabili; e così facendo metteva il veto alla seppur remota possibilità che da quel consesso potesse emergere il ‘federatore’ dotato di una propria autorità vagheggiato nell’estate da Giuseppe De Rita e nel cui schizzo si sarebbe potuta riconoscere la fisionomia dello storico Andrea Riccardi. La delega in bianco Nei quindici giorni successivi, il precipitare senza rete del sistema finanziario e della credibilità internazionale dell’Italia avrebbe accelerato, dando alle più nere previsioni di Mario Draghi – insediato per Ognissanti alla presidenza della Bce – la forza di una profezia che si autoavvera. E tutti, ma soprattutto i vescovi, dovevano prendere atto che né fra i cattolici codini né fra quelli todini esisteva quella riserva di leadership e di autorevolezza di cui il paese aveva bisogno per salvarsi dal ridicolo e dalla catastrofe. Sicché anche la Cei – così come i partiti e le imprese, le banche e le cancellerie del mondo Nato – consegnava una delega in bianco al Quirinale, lasciando a Giorgio Napolitano l’onere e l’onore di trovare a sue

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spese una soluzione. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava anche la Santa Sede, che non poteva accettare imbelle l’idea di un papa che vive in un paese in default, e neppure essa dava segni di insofferenza nel veder finire nelle mani del presidente della Repubblica il destino di un governo nel quale gli esponenti ecclesiastici sentivano di avere degli ‘ambasciatori’ affidabili. I modi attraverso i quali ‘la Chiesa’ in senso lato ha interloquito in quei giorni drammatici col Parlamento e soprattutto col Quirinale non sono del tutto noti, ma neppure tutti segreti. È infatti ovvio che fra il 31 ottobre e il 2 novembre, quando si è sfiorato il ciglio dell’abisso politico-finanziario, le autorità ecclesiastiche sia italiane che vaticane abbiano esercitato una moral suasion su figure politiche influenti in sede parlamentare e governativa, così da far toccare con mano a Silvio Berlusconi la propria minorità parlamentare, l’8 novembre 2011. Ma non hanno avuto niente da proporre di persuasivo, maturo e soprattutto dotato della necessaria credibilità europea. Così, dopo le voci di possibili incarichi o coinvolgimenti di Gianni Letta o di Giuliano Amato, Napolitano individuava in Mario Monti l’uomo per chiudere la crisi prima ancora che questa si aprisse, e faceva della sua nomina a senatore a vita il 9 novembre l’inusuale preconio dell’incarico di formare il nuovo esecutivo di salute pubblica. Cattolico ma a-ruiniano, quasi mai invitato dal progetto culturale della Cei, lontano dal meeting di Cl da dieci anni, silente sull’«Avvenire» di Boffo, assente a Todi (pur se rappresentato da qualche invitato), Mario Monti ha cucito con difficoltà il governo passato alle Camere a metà novembre, forte di una maggioranza inusuale perfino nelle elezioni quirinalizie. In esso non mancano figure rilevanti a Todi, come quelle del rettore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi e del fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi: che però rilevanti lo erano ben prima di Todi. Esse hanno se mai avuto dall’incontro umbro un endorsement ecclesiastico raccolto, dicono alcuni, vivae vocis oraculo dagli stessi organi del Quirinale: e ciò ha garantito la loro presenza nel Consiglio dei ministri, ma non è bastato ad attribuir loro i dicasteri ai quali apparivano vocati. Accanto a questi nomi, però, Monti ha scelto o accettato personaggi legati all’esperienza cristiana nel senso più vasto del termine: figure della minoranza anticiellina della Cattolica, come Piero Giarda; l’ex

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presidente del Meic Renato Balduzzi (redattore di quel disegno di legge sui ‘Dico’ che aveva acceso le polveri del conflitto finale fra Ruini e il governo Prodi nel 2007), indicato sia dal presidente della Regione Lombardia sia dal presidente della Regione EmiliaRomagna; altri ancora erano cristiani nel senso più normale e canonico del termine ‘praticante’. La riapparizione di questa compagine variegata dimostrava che, tolto il ‘blocco’ ruiniano, un ceto cattolico era capace di tornare in scena con l’ambizione (e talora qualche eccesso di ambizione) di essere una classe dirigente postdemocristiana. E rimpiazzava con la forza di un fatto politico quel percorso autocritico o penitenziale che i vescovi non sapevano fare, quasi che la liquidazione del governo Berlusconi – la sua presenza politica era altra cosa, come le elezioni del febbraio 2013 avrebbero ricordato – cancellasse senza contropartite un passato lungo quanto la parabola del fondatore di Forza Italia. Accettando ciò che non poteva rifiutare a Monti, e dunque la compresenza di nomi bullati e non bullati, la Chiesa si liberava infine del gravoso compito di confrontarsi in modo nuovo con quei cattolici già presenti nei partiti e colti di sorpresa da un cambio di prospettiva di questa portata. Malebolge Questo momento di penitenza è mancato non solo per una scelta, ma anche per il precipitare quasi contestuale della citata crisi della macchina di governo vaticano, trafitta da fughe di notizie, furti di documenti, ricettazioni di carte e ricatti che hanno gettato nello smarrimento l’opinione pubblica cattolica. Bersaglio dichiarato di questo pandemonio era la figura del segretario di Stato Bertone – l’avocatore dei rapporti fra Santa Sede e governo –, contro il quale era iniziata una lotta senza quartiere che nel corso del 2012 aveva però rafforzato e non indebolito il legame già solidissimo con Benedetto XVI. Alcuni quotidiani, infatti, avevano anticipato documenti riservati rubati o in Segreteria di Stato o nell’appartamento pontificio non solo per mettere in dubbio singole scelte di governo, ma per dimostrare la sistemica inefficienza della macchina vaticana: carte sull’affaire Boffo, il direttore dell’«Avvenire» costretto alle dimissioni, che accusava Bertone di aver favorito la diffusione di una

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sentenza per molestie patteggiata e di una falsa velina di polizia, allo scopo di screditare il giornale che dettava la linea Ruini; la citata lettera al nunzio in Italia del superiore di Cl che non solo lodava Angelo Scola, in quel momento candidato alla sede milanese dove sarebbe stato eletto il 28 giugno 2011, ma attaccava l’emerito Tettamanzi; carte sullo Ior, dove il presidente Ettore Gotti Tedeschi, insediato ruvidamente a spese del predecessore, veniva ancor più ruvidamente licenziato durante le insufficienti manovre di adeguamento della banca vaticana agli standard internazionali di Basilea 2. Carte non particolarmente importanti, in sostanza: ma capaci di dare il senso di uno sfacelo, forse ancora più grave di quello che aveva percorso la Chiesa ai tempi del veto imperiale contro l’elezione di Rampolla al papato nel 1903, o della denigrazione di Giovanni XXIII orchestrata dal Sant’Uffizio nel 1962 usando la penna di Indro Montanelli, o ancora della vicenda Ambrosiano, nella quale toccò a un cattolico pulito come Nino Andreatta salvare la Chiesa dalle sue sozzure. L’arresto del maggiordomo del papa, le accuse mitragliate sui più intimi della famiglia pontificia disegnavano infatti una strategia, sfuggita di mano a chi s’illudeva di orchestrarla o di giovarsene. L’origine di ciò era tutta italiana: era la Chiesa italiana che aveva sfruttato o sottovalutato una specie di ‘polizia’ della denigrazione, organizzata in firme e siti dediti a escogitazioni calunniose, sostenuta da corsivi della stampa cattolica, pettegolezzi e liste di proscrizione recepite da autorità sempre più anemiche, alimentando la bacata morale dell’anonimato. Da qui ai dossier costruiti, come quello pubblicato dal citato Gianluigi Nuzzi, a quelli dove i giornali pescano à la carte, il passo è stato breve. Anche la Chiesa cattolica ha infatti patito del calo del livello intellettuale delle classi dirigenti europee in generale: ma nel cattolicesimo – che negli anni tremendi fra il 1914 e il 1945 a Ovest o nel 1989 a Est aveva confidato in una formazione intensa delle coscienze – quel calo ha segnato un salto maggiore. Per un quarantennio, infatti, un capitale umano, fabbricato nelle canoniche e sulle riviste, è stato immesso senza troppe distinzioni dentro culture intransigenti, clericali, democratiche, confessionali o progressiste: quella riserva talora minoritaria (si pensi alle correnti Dc) era stata sufficiente a tenere in equilibrio le cose o addirittura a sanarle con la pro-

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pria limpidità interiore. La catastrofe del 2012 ha invece illuminato di colpo la dissipazione di quel capitale che s’era consumata nel trentennio da Craxi a Berlusconi: e la distanza psicologica e ontologica di Benedetto XVI da questi modi d’essere ha finito paradossalmente per agevolare coloro che ne tiravano le fila e ha logorato la tenuta stessa di un papa anziano. Gli obiettivi che in quei mesi apparivano plausibili erano infatti tre. La prima possibilità era che davvero queste Malebolge fossero state scatenate contro il cardinal Bertone ovvero contro il papa; così fra coloro che si spacciavano per gli ‘aiutanti’ di una presunta purificazione ratzingeriana e gli alfieri di una radicalizzazione ultraconservatrice del dotto conservatorismo di Benedetto XVI si sarebbe generata una reazione fuori controllo, con tanto di fuoco amico e azioni di copertura. L’altra possibilità è che il guazzabuglio fosse figlio della politica nazionale, quasi che il populismo spregiudicato, mescolato a un rapporto non protetto con la finanza e con la destra italiana, avesse insomma prestato alla Chiesa metodi e brutalità che solo la nostra abitudine a componere cose grandi e piccole poteva saper connettere all’elezione del sindaco di Roma, agli equilibri di qualche holding, alle nomine in qualche azienda posseduta dal Tesoro. La terza possibilità era che questo marasma apparentemente pretesco facesse parte del gioco della grande politica internazionale, il cui attacco all’Europa e all’euro ha bisogno di una certa ‘distrazione’ tedesca (e dunque anche del papa tedesco) davanti al rischio che per la terza volta in cent’anni carichi su spalle germaniche il peso della catastrofe europea. Senza che prendesse forma una sola delle riforme necessarie – quella della Segreteria di Stato, il ripensamento della diplomazia pontificia, l’attivazione della collegialità –, la Chiesa è stata dunque alla mercé dei media, in tutt’altre faccende affaccendata nel pieno della oscillazione dei valori dei debiti e della discussione europea sul fiscal compact. Verso la cesura E non era il grosso di ciò che ingombrava il futuro dei cattolici e dei cristiani in generale. Infatti le Chiese avevano davanti la questione dell’Europa e dunque quella della guerra che la nascita e lo sviluppo dell’U-

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nione europea hanno cancellato dai decenni passati e che senza quel freno potrebbe tornare com’è tornata tante volte. La crisi dalla quale forse l’Europa uscirà, sa Dio come, è una fase nella quale i grandi valori dell’unificazione – la pace e la moneta unica che ne è pegno – erano stati infragiliti da uno scetticismo cinico e dal ritorno di logiche di breve periodo. Come nella costruzione dell’Unione il papato, da Pio XII in qua, s’è sintonizzato su questa speranza di pace, in tempi di crisi dell’Europa sembrava adeguarsi perfettamente allo scetticismo freddo e silente dei peggiori governi. L’Italia di Monti era per natura sua europeista, almeno in senso tecnico: se il cattolicesimo voleva aderire a questa tendenza avrebbe dovuto far sentire una voce che – lo dice l’esperienza – non poteva essere l’eco del silenzio del papa. E se non avesse saputo trovarla sarebbe diventata in breve il capofila della erosione del consenso del governo tecnico e la premessa di un antieuropeismo populista, fiero di dirsi tale. Cosa che si è puntualmente verificata alla vigilia di Natale del 2012 con la decisione di Mario Monti di entrare nella imminente campagna elettorale per le elezioni generali del 24 febbraio come candidato di un partito che, alla prova delle urne, non ha sfondato la quota di un decimo degli elettori e che viene visto o come quello che ha impedito il coronarsi della rimonta berlusconiana o come quello che ha tagliato le gambe alla annunciata vittoria del centrosinistra. L’altra questione riguardava la posizione delle Chiese nell’uscita dalla fase postdemocratica avviata con la caduta del governo Berlusconi IV. Era infatti evidente che, in virtù dei propri insuccessi o dei propri successi, il governo Monti avrebbe dovuto comunque portare il paese alle urne e riattivare la fisiologia democratica o post-postdemocratica della terza economia europea. Questa fase è iniziata il 6 dicembre 2012 con l’annuncio della sfiducia del Pdl e le dimissioni del gabinetto il 21 dicembre e, l’indomani, lo scioglimento delle Camere da parte del presidente della Repubblica. Entrato in campagna elettorale con un ‘marchio’ che riassorbiva solo in una Camera i simboli degli alleati sotto il nome di Monti, il premier uscente otteneva dapprima un plauso vaticano al momento dell’annunzio del suo nuovo status e poi una progressiva freddezza ecclesiastica, diventata più vistosa e politicamente più significativa dopo l’accordo tra Silvio Berlusconi e la Lega Nord: l’alleanza fra Pdl e partito nordista si cementava nella candidatura

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di Roberto Maroni, succeduto a Bossi alla guida del movimento dopo gli scandali sulla gestione familiare dei finanziamenti del partito, alla guida della Regione Lombardia, chiamata alle urne dopo l’ingloriosa fine del lungo dominio di un consacrato di Cl come Roberto Formigoni, memor Domini, sull’amministrazione regionale. Causa o effetto del raffreddamento ecclesiastico verso Monti, alcune figure todine non entravano nella lista Monti, in attesa che un accordo fra il Pd e il partito del premier desse vita a una maggioranza che scoprirà dopo le elezioni del 24 febbraio di non essere affatto tale. La conduzione della campagna elettorale ha fatto il resto: anziché portare in alto l’asticella delle competenze con le quali si sarebbero dovuti misurare i parlamentari eletti, il governo tecnico ha dato l’illusione al Pd di dover solo limitare la vittoria e di poter operare un ricambio che – in ossequio a un tema lanciato dal candidato sconfitto da Bersani nelle primarie che hanno dissanguato emotivamente il partito – si presentava come una ‘rottamazione’. Su questo solco la propaganda del movimento di Grillo ha costruito un grande successo e Berlusconi una folgorante rimonta che ha riconsegnato l’Italia alla instabilità e questa a Giorgio Napolitano. Ma al di là del concreto frangente la crisi politica poneva ai cattolici la sfida di riavviare il motore morale della democrazia, il senso dello Stato, la forza del consorzio civile; riavviare una democrazia bipolare o gross-coalizionista, fatta di federazioni o di cartelli, ma comunque una democrazia di idee di società e di paese, dove tutti, anche i cattolici, potessero dividersi senza infingimenti, ma come titolari di una cittadinanza, al di fuori della quale nessuno possa essere sospinto, tanto meno se religioso o per ragioni religiose. Chiamato a un’analoga prova, il cattolicesimo italiano alla fine della guerra mondiale aveva saputo trovare energie e disinteresse bastevoli allo scopo – anche se quella fase del «roveto ardente», come la chiamava Arturo Carlo Jemolo, si esaurì presto nell’uso del potere per il potere. All’inizio del 2013 i pochi segnali a disposizione dello storico non davano la stessa impressione: nel cupo vibrare di potenze e di suoli, nel ritorno di quelle patrie immateriali vestite di ‘identità’ che nel secolo XX hanno preteso e ottenuto sacrifici umani e che sembravano ritrovare l’appetito, quello della Chiesa sembrava un silenzio fragoroso e meschino.

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Papa Francesco Mentre sulla scena politica si consumava un passaggio elettorale che solo ai dotti ricordava le ‘tre impotenze’ uscite dalle urne il 15 maggio 1921, la Chiesa anche italiana si trovava però davanti a un evento con precedenti così lontani da apparire come un unicum: cioè la rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI. Davanti al concistoro convocato per le beatificazioni e le canonizzazioni dell’11 febbraio 2013 (anniversario dei Patti Lateranensi) papa Ratzinger leggeva un discorso firmato e datato alla sera prima col quale annunciava la propria rinunzia e la sede vacante a decorrere dal 28 febbraio. In quel discorso il papa diceva di aver esaminato più volte la propria coscienza davanti a Dio («conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata»), di esser giunto ad una cognitio certa riguardante la sua vecchiaia e di non essere in condizioni adatte ad amministrare equamente il munus petrino; pertanto, vedendo diminuiti il vigore del corpo e il vigore dell’anima, rinunciava plena libertate. Giovanna Chirri, una corrispondente dell’Ansa in grado di comprendere il latino, ha capito mentre il papa pronunziava queste parole di aver per le mani una notizia bomba: e alle 11.27 l’agenzia collocata, ironia della sorte, proprio ai piedi del palazzo papale del Quirinale che doveva ospitare un conclave, e che mai ne ebbe uno, dava al mondo una notizia senza pari. Poco dopo arrivava la conferma dalla voce del cardinal Sodano che leggeva (dunque era stato reso edotto del passo) un discorso in cui manifestava sorpresa e affetto al pontefice. Un gesto papale di tale importanza e significato non poteva non trovare una risposta sensazionale nei media e accorata nei fedeli, in tutto il mondo e in Italia. Una tensione emotiva prolungata dalla dilazione della sede vacante e poi risoltasi dopo la sparizione nell’ombra di Castelgandolfo dell’emerito e nella preparazione del conclave aperto, in forza di regole promulgate ad hoc da Benedetto XVI, il 12 marzo. Il terzo conclave nel quale un candidato italiano ritenuto favorito – in questo caso il cardinale di Milano Angelo Scola – non riusciva a raccogliere i due terzi dei consensi previsti dal diritto, e dal quale sarebbe uscito papa un non europeo come Jorge Mario Bergoglio, figlio di italo-argentini del Monferrato, che col nome di Francesco e lo stile di un maestro di vita cristiana ha saputo

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fornire una risposta ‘pastorale’ (nel senso roncalliano del termine) alla condizione della Chiesa. Nel dire delle parole taciute come un tabù dal Vaticano II in qua – la Chiesa dei poveri, la Chiesa povera –, papa Francesco ha segnato una cesura che potrebbe incidere profondamente anche sul modo d’essere di un cattolicesimo il cui primate appare così diverso nello stile cristiano da quello di molti dei suoi nuovi confratelli. Quanto questo attrito fra stili e linguaggi produrrà per l’Italia è cosa che non può non trovare attente le confessioni cristiane e le persone pensose di questo paese segnato da un pluralismo spirituale vasto quanto il suo analfabetismo religioso: ma per capirlo fino in fondo serve attendere il tempo in cui le cose accadono, pazientare finché un altro tempo non le distanzi, e poi si renderà necessario il tempo per comprenderle.

Indici

Indice dei nomi

Abbruzzese, S., 54. Ablondi, A., 37. Acerbi, A., 10, 20, 82, 95. Adenauer, K., 82. Adogame, A., 52. Alberigo, G., xii, 12, 36, 47, 73, 7879, 92, 100. Albisetti, A., 17. Allegretti, U., 67. Altana, A., 56. Amadei, R., 29. Amato, G., v, 109. Andreatta, B., 64, 81, 100, 111. Andreotti, G., 64. Antonazzi, G., 7. Antonelli, G., 84. Aristotele, 11. Artaserse, VI. Aubert, R., 5, 14. Aureli, G., 84. Bachelet, V., 69, 70. Baget Bozzo, G., 54, 63, 67. Bagnasco, A., 98, 103-105, 108. Bainton, R., 5. Balbo, C., vii. Balboni, E., 67. Baldassarri, S., 80. Balduzzi, R., 110. Baroni, F., 65. Baroni, G., 89. Barth, K., 28, 41. Bartoletti, E., 25, 79-80.

Battelli, G., 31. Battisti, L., 30. Bauer, R., 16. Bazoli, G., 107. Becciu, G.A., ix-x. Bedeschi, L., 7, 45, 53. Belardelli, G., 9, 74. Bellavite Pellegrini, C., 81. Beltrami, A., 19. Benedetto XVI, vii, x, 36, 43, 48, 53, 67, 81, 84, 97, 100, 102-103, 105, 110, 112, 115. Benvenuto, E., 68. Bergoglio, M.J., v. Francesco (papa). Berlusconi, S., 54, 65-66, 97-99, 103, 105, 107, 109-110, 112-114. Berman, H., 17. Bernardino di Betto Betti, detto Pinturicchio, vi. Bersani, P.L., 114. Bertolaso, G., 98. Bertone, T., 84,103, 105, 110, 112. Betori, G., 32, 106. Bianchi, E., 31, 72, 79. Bianchi, M.L., 11. Bianchi, S., 65. Bicchierai, G., 80. Bloch, M., 4. Bo, C., 73. Bocchini Camaiani, B., 55. Böckenförde, E.-W., 46. Boffo, D., 109-110. Bolgiani, F., 4, 33.

­­­­­120 Bonanni, R., 107. Bonomi, I., 74. Borgonovo, G., 34. Bosco, Giovanni, vii-viii, 56. Bossi, U., 98, 105. Bottazzi, Giuseppe, detto Peppone, 64. Bowersock, G.W., 5. Bremond, H., 41. Brown, P., 5. Buonaiuti, E., 7, 15, 71, 87. Buonasorte, N., 47, 80. Bush, G.W., 83. Butticci, A., 30. Cabrini, F., 33. Calabria, G., 56. Caloia, A., 105. Camisasca, M., 52, 54. Campanini, G., 19. Campbell, I., 35. Cantimori, D., 7, 42. Capitini, A., 16. Capovilla, L.F., 78. Cappellari, Bartolomeo Alberto/ Mauro, v. Gregorio XVI. Cappelli, P., 54. Caprile, G., 64. Carlo Felice di Savoia, 56. Carretto, C., 71. Casaroli, A., 18, 83-86, 105. Casini, C., 66. Casini, P.F., 100, 103. Casula, C.F., 10, 39. Caterina da Siena, 46. Cattaneo, A., 34. Cavour, C.B., conte di, 16, 84. Cecchini, A., 80. Ceci, L., 9, 35. Chabod, F., 19. Chadwick, H., 5. Chajes, J.H., 60. Chenaux, Ph., 41, 76, 82. Chenu, M.-D., 12. Chieffo, C. 30. Chiron, F., 46.

Indice dei nomi

Chirri, G., 115. Chittolini, G., 13, 31, 49. Ciampi, C.A., v. Ciano, G., 84. Cicerone, Marco Tullio, 104. Cicognani, A.G., 84. Ciotti, L., 56, 107. Cipriano di Cartagine, 47. Civinini, L., 84. Colmegna, V., 56, 107. Congar, Y.-M.-J., 12, 36, 41, 87. Conze, E., 9. Conze, W., 4. Coppa, F., 83. Corecco, E., 33, 52, 57. Corni, G. 9. Corti, P., 33. Cossiga, F., 64, 91. Costanzo, S., 51. Cottolengo, G., 56. Craxi, B., 18, 54, 83, 112. Crispolti, C., 84. Crivellin, W., 55. Croce, B., 8, 41, 75. Croce, G., 37. Crociata, M., 103. Cuminetti, M., 54. Cuzzi, M., 18. d’Azeglio, M., vii. da Moli, G., 56. Dalla Costa, E., 89. Dardozzi, R., 105. de Bortoli, F., 107. De Curtis, Antonio, detto Totò, xi. De Felice, R., 42-43. De Gasperi, A., 9, 63-64, 77, 82, 91, 96. De Luca, G., 7, 38-39, 95. De Marco, V., 65. De Mattei, R., 60. De Michelis, T., 48. De Mita, C., 38. De Rita, G., 108. De Rosa, G., 24, 55. De Rossi, G.B., 7.

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Indice dei nomi

De Sanctis, F., 8. De Volder, J., 10. Del Noce, A., 65. Dell’Acqua, A., 76, 80. Della Peruta, F., 7. Delumeau, J., 4. Di Bella, L., 26. Di Liegro, L., 56. Dieguez, A.M., 40. Donat Cattin, C., vi. Donati, G., 95. Dossetti, G., 36, 41, 63, 67, 71, 78, 91, 95. Draghi, M., 108. Durand, J.-D., 76. Elia, L., 66, 100. Erba, A., 53. Faggioli, M., 66, 80. Fanfani, A., 64, 84. Fantappiè, C., 15, 84. Fattori, M., 11. Fattorini, E., 25, 40, 62. Ferrari, L., 69. Ferrari, S., 82. Ferrata, D., 84. Ferrini, C., 70. Ferrini, M., 9. Filatete, Ernesto, v. C. Passaglia. Filoramo, G., 11, 83. Fini, G., 98, 100. Fiorani, L., 14. Fiordelli, L., 65. Fiorentino, C.M., 18. Fisher, G.F., 34. Flores, M., 43, 79. Fogazzaro, A., 73, 81. Fontolan, R., 66. Forgione, Francesco, v. Pio da Pietrelcina. Formigoni, R., 114. Fouilloux, É., 36. Francesco (papa), 97, 115. Franchi, A., 84. Franzoni, G., 54.

Frassati, P.G., 70. Fumasi, E., 8. Gabre-Tsadik, G., 35. Galavotti, E., 63, 72. Galli della Loggia, E., 23, 101-103. Garibaldi, G., 8. Gariglio, B., 55. Garrone, D., 48. Gasparri, P., 82, 84-85. Gassman, V., 51, 95. Gedda, L., 69. Gemelli, A., 29, 41, 70. Genocchi, G., 31. Gentile, E., 54. Gentile, G., 75. Giannini, G., 46. Giarda, P., 109. Gibellini, R., 41. Gilson, É., 87. Gioberti, V., vii, 8. Giordani, I., 60. Giovagnoli, A., 13, 33, 74, 77. Giovanni XXIII, 7, 27, 34, 36, 39, 47-48, 55, 84, 86, 91. Giovanni Paolo I, 19. Giovanni Paolo II, 25, 57, 66, 81, 83-84, 87. Giuliani, C., 27. Giuntella, M.C., 55, 71. Giussani, L., 42, 54. Gnocchi, C., 56. Goetz, H., 15. Gotti Tedeschi, E., 105, 111. Grabar, O., 5. Gramsci, A., 8, 32, 41. Grasso, A., 36, 51. Graziani, R., 35. Greer, R.A., 22. Gregorio XVI, 73. Grillo, G.P., 114. Guanella, L., 56. Guardini, R., 41. Guareschi, G., 41. Guasco, A., 34, 69. Guasco, M., 9, 49.

­­­­­122 Guccini, L., 72. Guerriero, E., 19. Guerzoni, L., 17. Guiso, A., 78. Guzzetti, G., 107. Habermas, J., 102. Hamburger, Ph., 17. Hein, L., 36. Hennesey, J., 33. Hummel, K.-J., 20. Imbach, R., 11. Isaac, J., 79. Jacobini, L., 84. Jedin, H., 4, 12-13. Jemolo, A.C., 15-17, 35, 73, 91, 93, 114. Kennedy, J.F., 85. Kertzer, D., 43. Kittel, G., 21. Kleutgen, J., 47. Koselleck, R., 3-4. Kretschmar, G., 4. Kuijper, A., 93. La Pira, G., 70. La Valle, R., 80. Laghi, P., 85. Lai, B., 48. Lambruschini, L., vii. Lamdan, N., 79. Lanternari, V., 26. Lanzoni, F., 7, 9, 27. Lattanzi, F., 65. Lavenia, V., 40. Lazzati, G., 22, 42, 66, 69-70. Lemennais, F. de., 68, 74. Lenzi, L., 80. Leonardi, R., 25. Leone XIII, xi, 36, 92. Lercaro, G., 47, 80, 89. Letta, G., 98, 109. Levis Sullam, S., 43, 65, 79. Lewis, B., v.

Indice dei nomi

Lill, R., 48. Livatino, R., 70. Livio, Tito, 11 Lombardi, R., 41, 44. Lonergan, B., 41. Longo, B., 70. Lortz, J., 4. Louchez, É., 5. Lubac, H. De, 8. Lubich, C., 66, 91. Luciani, Albino, v. Giovanni Paolo I. Lupo, S., 77. Lutero, M., 38. Luzzatto, S., 27. Luzzi, G., 71. Maglione, L., 85. Malatesta, M., 68. Maletti, P., 35. Malpensa, M., 42. Mameli, G., 74-75. Manfredi, A., 20. Mangoni, L., 7. Manzoni, A., vii-viii, 39. Maraviglia, M., 37, 55. Marchetto, A., 33. Marcinkus, P.C., 105. Margiotta Broglio, F., 15, 33, 35, 93. Maria di Campello, 37, 70-71. Maritain, J., 41. Maroni, R., 114. Marotta, S., 17. Marquard, O., 3. Marrau, H.-I., 4. Martin, M., 48. Martina, G., 14. Martini, C.M., 27, 31, 81, 105. Martoglio, A., xi. Marx, K., 7. Mastai Ferretti, G.M., v. Pio IX. Mastroianni, M., 51. Matard-Bonucci, M.A., 43, 79. Matteotti, G., 99. Mazzini, G., 8, 74, 84. Mazzolari, P., 37, 55, 63, 69, 78.

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Indice dei nomi

Melloni, A., 3-4, 9, 19, 26-27, 29, 36, 39-41, 47-48, 52, 64, 67, 7781, 95. Menozzi, D., 11, 19, 25, 60, 69, 80, 83. Mercadante, F., 65. Mercati, A., 7. Merry del Val y Zulueta, R., 84. Mezzadri, L., 19. Miccoli, G., 13, 15, 18, 31, 38, 49, 67, 92. Miciacio, A., xi. Milani, L., 55-56, 78, 91, 95. Momigliano, A., 7. Montagnini, F., 21. Montanelli, G., 75. Montanelli, I., 45, 91, 111. Monti, G., 14. Monti, M., x, 107, 109-110, 113-114. Montini, G., 41. Montini, G.B., v. Paolo VI. Morghen, R., 7, 15. Moro, A., 38, 64, 66, 70, 80-81, 84. Moro, R., 25, 41, 43. Moroni, G., 7. Morozzo della Rocca, R., 71. Morsey, R., 20. Moscati, G., 70. Muratori, L.A., 28. Murri, R., 9, 53. Mussolini, B., 62, 82, 99. Nanetti, R.Y., 25. Napolitano, G., v, vii, x, 108-109, 114. Naro, M., 13. Nenni, P., 78. Nicola di Mira, 37. Nicolini, B., 56. Nicoloso, P., 17. Nina, L., 84. Nuzzi, G., 105, 111. Olgiati, F., 69. Oliva, A., 11. Ori, A.M., 19. Orione, L., 56.

Ornaghi, L., 109. Otranto, G., 27. Ottaviani, A., 87. Otto, R., 41. Pace, E., 30. Pacelli, Eugenio, v. Pio XII. Pagano, S., 40, 55. Paglia, V., 108. Palazzolo, L., 56. Pannella, Giacinto, detto Marco, 20. Paolo VI, ix, 14, 17, 25, 41, 47, 52, 57, 66, 69, 76, 79-80, 87, 92, 104105. Papini, G., 41. Parisi, A., 56. Parola, A., 42. Parri, F., 16. Pasolini, P.P., 41, 95. Passaglia, C., 74. Passarin d’Entreves, E., 75. Pazzaglia, L., 6. Pegrari, M., 18. Pellegrino, M., 22, 65, 89. Pellettier, D., 47. Pellicciari, A., 11. Pellico, S., vii. Perin, R., 34, 69. Perrin, L., 47. Perrone, L., 38. Persico, A.A., 43. Pertici, R., 83. Philippe, R., 78. Picchi, L., 56. Piccioni, A., 63. Pignedoli, S., 65. Pignetti, Valeria, detta Maria di Cam­ pello. Pio IX, vii, ix-x, 14, 38-39, 60, 74. Pio X, 14, 24, 32, 40, 49, 57, 92. Pio XI, 25, 32, 40, 57, 69, 84-86. Pio XII, 38-39, 43, 57, 62, 64, 70, 76, 78, 82, 84-87, 91,113. Pio da Pietrelcina, 27. Pirotte, J., 5. Pizzolato, L., 69.

­­­­­124 Poli, E., 65. Pombeni, P., 9, 25, 76-77. Pompedda, F.M., 48. Poulat, É., 5, 17. Prampolini, C., 53. Prandi, A., 19. Prandi, M., 56. Procacci, G., 54. Prodi, P., 18, 83. Prodi, R., 66, 81, 84, 97, 104, 107, 110. Prosperi, A., 14, 40. Puglisi, G., 56. Putnam, R.D., 25. Radini Tedeschi, G.M., 89. Ragionieri, E., 13. Rampolla del Tindaro, M., 83-84, 111. Randazzo, B., 18. Ratti, Achille, v. Pio XI. Ratzinger, J., v. Benedetto XVI. Re, G.B., 48. Rebora, C., 73. Regidor, J.R., 80. Renata di Francia, 88. Ribet, A., 18. Riccardi, A., 17, 48, 70-71, 78, 80, 82, 108-109. Ricci, N., 65. Riva, C., 65. Rizzi, M., 22. Romano, S., 25. Roncalli, A.G., v. Giovanni XXIII. Rosa, E., 7. Rosa, M., 57. Rosmini, A., vii-viii, 40, 73. Rossano, P., 65. Rossi, G., 50. Rossini, G., 41. Ruccione, M., 46. Ruffilli, R., 70. Ruffini, F., 7, 15. Ruggieri, G., 8, 26, 39, 48-49, 80-81. Ruini, C., 25, 81, 101, 107, 110-111. Rumi, G., 39. Rumor, M., 64.

Indice dei nomi

Ruozzi, F., 30. Rusconi, R., 14, 51. Rutelli, F., 100, 103. Sacconi, M., 108. Sagliocco, C., 6. Sale, G., 77. Saltini, Z., 56. Sanfilippo, M., 33. Sarpi, P., 88. Sarto, Giuseppe, v. Pio X. Scalabrini, G.B., 33. Scarpat, G., 21. Scatena, S., 79. Schatz, K., 45. Schuman, R., 82. Schütz, D.W., 51. Scilipoti, D., 99-100. Scola, A., 101-103, 111, 115. Scoppola, P., 10, 66, 73, 78, 100. Simeoni, G., 84. Siri, G., 54. Socci, A., 66. Sodano, A., 84, 86, 115. Soffritti, O., 21. Sorge, B., 66. Spadolini, G., 17. Spadoni, A., 71. Speranza, Ireneo, v. G. De Luca. Sportelli, F., 45. Stabile, F., 47. Stella, P., 56. Sturzo, L., 53, 62. Sundar, Singh S., 71. Tacchi Venturi, P., ix, 62. Tagliaferri, M., 19. Talamo, G., v. Tardini, D., 9, 38-39. Tarocci, Camillo, detto don Camillo, 64. Tartaglia, F., 71. Tècla Haimanòt, 35. Tedeschi, M., 17. Tettamanzi, D., 56, 101, 111. Ticchi, J.-M., 84-85.

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Indice dei nomi

Tittoni, T., 34. Togliatti, P., 66, 78. Tognetti, G., 14. Tomka, M., 52. Tommaseo, N., 73. Tommaso d’Aquino, 11. Tondelli, L., 7. Torcivia, M., 72. Torreggiani, D., 56. Toschi, M., 50, 80. Toso, M., 103, 106. Totaro, P., 38. Traniello, F., 19, 33, 39, 53, 63, 75. Traverso, E., 43, 79. Trincia, L., 84. Trotta, M., 63. Tuninetti, G., 6. Turati, F., 9. Turchini, A., 65. Turoldo, D., 73. Turton, A., 71.

Vannucci, G.M., 37. Velati, M., 37. Ventrone, A., 78. Verdi, G., 29. Verdon, Th., 28. Verdone, C., 51. Versace, E., 66. Verucci, G., 75. Vespa, B., vi. Vian, G., 18. Vian, G.M., 61. Viganò, D.E., 51. Villot, J.-M., 84. Vinet, A., 16. Vingiani, M., 36, 78. Violi, R., 55. Viscardi, G.M., 24. Vitali, M., 62.

Ullmann, W., 5. Unamuno, M. de, 41. Unterburger, K., 6. Urbani, G., 79.

Zambarbieri, A., 7, 48, 87. Zanardi Landi, A., 61. Zizola, G., 44. Zunino, P.G., 95.

Willebrands, J., 36. Wojtyła, Karol, v. Giovanni Paolo II.

Indice del volume

Premessa

v

Un apparente conflitto?, p. vii - Il vero della storia, p. ix - Due convinzioni, p. xi

I. Una ricognizione dall’alto

3

La storiografia europea e il posto del cristianesimo, p. 3 - La peculiarità italiana, p. 6 - La cornice concettuale, p. 8 - La realtà di un oggetto di conoscenza, p. 12 - La formula ‘Chiesa e Stato’, p. 15 - Dalla formula alla politica, p. 18 - Uscire dal mondo cattolico, p. 21

II. Forme della vita cristiana

23

La devozione popolare, p. 23 - La Chiesa e il senso dello Stato, p. 25 - Fra guarigione miracolosa e impegno sociale, p. 26 Una estetica religiosa italiana, p. 28 - La Bibbia e il suo esilio, p. 30 - Disunione e confessioni, p. 32 - Il protestantesimo italiano , p. 33 - Cattolici non latini e cristiani ortodossi, p. 34 - Un ecumenismo immaginato, p. 36 - La pluralità interna della Chiesa cattolica, p. 38 - L’Italia come chance riformatrice, p. 39 - Il fascismo e la decerebrazione del cattolicesimo, p. 40 - Farsi leggere la propria storia, p. 41

III. L’incubo della visibilità

44

«Viva il papa!», p. 44 - Smaterializzazione e riforma, p. 46 - Il papato ‘straniero’, p. 48 - Clero e popolo, p. 49 - Il parroco e il suo pulpito, p. 50 - Clero in movimento, p. 52 - Il prete della carità, p. 53 - Amare l’insopportabile, p. 55 - E i laici?, p. 56

IV. I modi di autocomprendersi La cittadella assediata, p. 59 - La demonizzazione del mondo, p. 60 - Lo scambio anticomunista, p. 61 - Le forze limpide, p. 62 - Un destino in difesa, p. 65 - I campi da mietere, p. 67 -

59

­­­­­128

Indice del volume

Un nuovo apostolato, p. 68 - Santi laici, p. 69 - Uno slancio contemplativo, p. 70

V. Leggere i segni dei tempi

73

Il senso delle occasioni sprecate, p. 73 - Una teologia della liberazione, p. 75 - Il concilio, il concilio..., p. 78 - I miti sull’Italia ‘cattolica’, p. 81 - Una diplomazia sui generis, p. 83 - Il mito del genio di governo, p. 86 - I grandi pastori, p. 87

VI. La ricerca delle cose perdute

88

Il parallelogramma, p. 90 - I torrenti carsici, p. 90 - L’eterogenesi dei fini, p. 92 - Intransigenza e riforma, p. 92 - Le domande forti, p. 95



L’anno cerniera, l’anno cesura: 2012-2013

97

La crisi mancata, p. 98 - Il negozio del non negoziabile, p. 99 Il protagonismo cattolico, p. 100 - «Perché non possiamo non dirci di destra», p. 101 - Posizionamenti e necessità, p. 103 - Il caso Todi, p. 106 - La delega in bianco, p. 108 - Malebolge, p. 110 - Verso la cesura, p. 112 - Papa Francesco, p. 115



Indice dei nomi

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