Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 9791254691922, 9791254692493

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Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940
 9791254691922, 9791254692493

Table of contents :
Copertina
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Indice
Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione
1. Prostituzione globale: una storia di migrazioni e lavoro femminile
2. Il circuito delle case di tolleranza e l’internazionalizzazione della prostituzione
3. Politica, istituzioni e società: tratta delle bianche e prostituzione globale
4. Struttura del volume e uso delle fonti
I. Rotte
1. Attraverso il Mediterraneo
1. Malta
2. Tripoli e Bengasi
3. Il Cairo e Alessandria d’Egitto
2. Le Americhe
1. Stati Uniti
2. Souteneurs e trafficanti
3. Argentina
4. Panama
II. La prostituzione globale in Italia
3. Politiche italiane e prostituzione internazionale
1. Le prime misure contro la tratta delle bianche
2. I nuovi scenari del periodo tra le due guerre
3. La «terza via» fascista
4. Prostitute globali in Italia
1. Le prostitute straniere nel dibattito politico internazionale
2. Interrogare
3. Interrogate: straniere «di dubbia moralità» negli anni Dieci
4. «Si dichiara di professione prostituta»
5. Prostitute straniere in Italia tra le due guerre
Conclusioni
Indice dei nomi

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I libri di Viella

439 Turpi traffici Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 Questa è la storia della prima globalizzazione della prostituzione vista dalla prospettiva del caso italiano. È una storia di corpi, di migrazioni, di lavoro, costruita attraverso fonti originali e che copre un ampio arco cronologico, dove l’interesse per le vicende personali si intreccia con quello per le politiche, le iniziative diplomatiche e le misure di polizia. Studiare il mondo della prostituzione nel suo divenire mercato transnazionale significa guardare da un punto di vista nuovo, laterale e perciò meno frequentato dalla storiografia, alcune delle pagine più significative della storia contemporanea: i fenomeni migratori, l’espansione coloniale, i processi di costruzione della nazione.

Laura Schettini Turpi traffici

Turpi traffici

Laura Schettini insegna Storia delle donne e di genere all’Università di Padova, dove è ricercatrice di Storia contemporanea. Per i nostri tipi ha curato nel 2017, con Simona Feci, La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI).

Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 www.viella.it

423 Violenza sacra. 2. Guerra santa, sacrificio e martirio in età contemporanea. A cura di M. Paiano. 2022, 334 pp. 424 Le maschere della realtà. Satira e caricatura nell’Italia contemporanea. A cura di L. Benadusi ed E. Serventi Longhi. 2022, 244 pp. 425 G. Turi, Progettare il futuro. La cultura dei socialisti italiani 1890-1915. 2022, 136 pp. 426 Enrico Berlinguer, la storia e le memorie pubbliche. A cura di M. Ridolfi. 2022, 236 pp. 427 M. Cini, Un’integrazione nazionale imperfetta. Élite e culture politiche in Corsica nella prima metà dell’Ottocento. 2022, 248 pp. 428 V. von Falkenhausen, Studi sull’Italia bizantina. A cura di M. Di Branco e L. Farina. 2022, 404 pp. 429 L. Capo, Longobardi, Franchi e Roma. A cura di U. Longo. 2022. 152 pp. 430 G. Girardi, I beni degli esuli. I sequestri austriaci nel Lombardo-Veneto (1848-1866). 2022, 304 pp. + 12 pp. ill. col. 431 A. Basciani, L’impero nei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania (1939-1943). 2022, 304 pp. 432 G. Lucaroni, Architetture di Storia. Fascismo, storicità, cultura architettonica italiana. 2022, 172 pp. + 16 pp. ill. col. 433 Les congrégations féminines missionnaires. Éducation, santé et humanitaire : une histoire transnationale (XIXeXXe siècles). Sous la direction de B. Dumons. 2022, 500 pp. 434 V. Prisco, Eleonora d’Aragona. Pratiche di potere e modelli culturali nell’Italia del Rinascimento. 2022, 296 pp. 435 M.T. Rachetta, L’Histoire ancienne jusqu’à César. Saggio di storia della cultura francofona del XIII secolo. 2022, 300 pp. 436 G. Sasso, Fra gli invidiosi. Nuovi saggi su Dante. 2022, 500 pp. 437 Lo spettacolo del brigantaggio. Cultura visuale e circuiti mediatici fra Sette e Ottocento. A cura di G. Tatasciore. 2022, 416 pp. 438 F. Antonelli, Scrivere e sperimentare. Marie-Anne PaulzeLavoisier, segretaria della “nuova chimica” (1771-1836). 2022, 284 pp. 439 L. Schettini, Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali, 1890-1940. 2023, 184 pp.

Laura Schettini

Laura Schettini

ultimi volumi pubblicati:

ISBN 979-12-5469-192-2

€ 22,00

viella

In copertina: particolari dei cartellini segnaletici di una prostituta e di un trattiere conservati in ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, cat. 10900.21.

I libri di Viella 439

Laura Schettini

Turpi traffici Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940

viella

Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: gennaio 2023 ISBN 979-12-5469-192-2 ISBN 979-12-5469-249-3 ebook-pdf

Questo volume è stato pubblicato originariamente nel 2019 da Biblink, Roma

SCHETTINI, Laura Turpi traffici : prostituzione e migrazioni globali : 1890-1940 / Laura Schettini. - Roma : Viella, 2023. - 181 p. ; 21 cm. (I libri di Viella ; 439) Indice dei nomi: p. [179]-181 [Nuova ed.] ISBN 979-12-5469-192-2 1. Tratta di donne e di minori - Influssi [delle] Migrazioni - 1890-1940 306.740904 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler

viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione 1. Prostituzione globale: una storia di migrazioni e lavoro femminile 2. Il circuito delle case di tolleranza e l’internazionalizzazione della prostituzione 3. Politica, istituzioni e società: tratta delle bianche e prostituzione globale 4. Struttura del volume e uso delle fonti

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I. Rotte 1. Attraverso il Mediterraneo 1. Malta 2. Tripoli e Bengasi 3. Il Cairo e Alessandria d’Egitto

2. Le Americhe 1. Stati Uniti 2. Souteneurs e trafficanti 3. Argentina 4. Panama

35 35 42 59 77 77 88 98 107

II. La prostituzione globale in Italia 3. Politiche italiane e prostituzione internazionale 1. Le prime misure contro la tratta delle bianche 2. I nuovi scenari del periodo tra le due guerre 3. La «terza via» fascista

4. Prostitute globali in Italia 1. Le prostitute straniere nel dibattito politico internazionale 2. Interrogare

117 117 120 134 143 143 149

Turpi traffici

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3. Interrogate: straniere «di dubbia moralità» negli anni Dieci 4. «Si dichiara di professione prostituta» 5. Prostitute straniere in Italia tra le due guerre

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Conclusioni

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Indice dei nomi

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Alle donne e agli uomini che attraversano il Mediterraneo, ai porti aperti

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

Nell’ottobre 1894 al nuovo console appena insediato a Malta, Eduardo Bonelli, si parò davanti agli occhi una situazione decisamente incresciosa «per il buon nome della nazione»: da Palermo, Catania e Siracusa, con ogni vapore in arrivo, sbarcavano decine di giovani siciliane che poi si prostituivano sull’isola. Grazie alle arti di «abili ruffiani» tra loro abbondavano le minorenni, che con dichiarazioni e documenti falsi riuscivano spesso ad aggirare le leggi che vietavano l’impiego di prostitute con meno di 21 anni.1 Ci aveva provato pure la diciassettenne Giuseppa G., proveniente da Catania, che era sbarcata all’inizio del mese in compagnia di un’altra prostituta di 22 anni, entrambe indirizzate a Malta da una ruffiana catanese, chiamata «la Madama». Giuseppa era riuscita a imbarcarsi mentendo sulla sua età ed esibendo un passaporto valido solo per l’interno, indizi del modo approssimativo con il quale le autorità italiane controllavano le partenze. Nondimeno la ragazza «non fu ricevuta in alcuna delle case di prostituzione» dell’isola, evidentemente più attente a rispettare il divieto di iscrivere e impiegare minorenni. Di fronte all’insuccesso del suo progetto, Giuseppa si rivolse al Consolato italiano, raccontando candidamente come fossero andate le cose e chiedendo di essere rimpatriata a spese delle autorità, cosa che effettivamente avvenne con le risorse del Ministero dell’Interno. Intorno a questi fatti ognuna delle autorità coinvolte reagì a suo modo. 1. Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Direzione Generale Pubblica Sicurezza (DGPS), Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s. fasc. Miscellanea, Regio console a Malta al Ministero dell’Interno, 11 ottobre 1894. Fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte.

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Turpi traffici

Il Consolato italiano alla Valletta si rivolse al Ministero dell’Interno lamentando lo sconcio causato dall’arrivo massiccio di prostitute siciliane sull’isola e invocando misure più restrittive nel rilascio dei passaporti. A sua volta il Ministero dell’Interno si rifece sulla prefettura di Catania, deplorando il costo economico di vicende simili e suggerendo di controllare meglio la regolarità dei documenti di queste particolari emigranti.2 Dal canto suo, la prefettura rassicurava Ministero e Consolato di aver impartito ai sindaci locali severe disposizioni perché non venissero rilasciati passaporti a minorenni, se non quando fosse assolutamente giustificato. Allo stesso tempo, tuttavia, ci teneva a puntualizzare che nel caso specifico di Giuseppa G. le responsabilità andavano cercate altrove.3 La ragazza era già nota come prostituta a Catania e con lei la polizia aveva ripetutamente avuto a che fare; difficilmente avrebbe ottenuto un passaporto per l’estero, ma Giuseppa, come accennato, si era imbarcata addirittura con il solo passaporto valevole per l’interno, rilasciato dal sindaco di Catania. La vicenda ci introduce ad alcune importanti questioni che saranno sviluppate in questo volume. 1. Prostituzione globale: una storia di migrazioni e lavoro femminile In primo luogo, essa apre uno spiraglio sulla nuova dimensione internazionale della prostituzione e sulle sue rotte viste a partire dal caso italiano, tema al centro del libro. Oltre a Giuseppa G., che da Catania si è recata a Malta, in questo volume incontreremo donne che dall’Italia si sono dirette a Sfax e Tunisi, Alessandria d’Egitto, Il Cairo e Porto Said, l’isola di Creta e Cipro, Tripoli, Bengasi, Costantinopoli, Città di Panama, New York, Buenos Aires. Allo stesso tempo vedremo come l’Italia è stata anche un Paese di transito, da cui francesi, austriache, romene, tedesche si imbarcavano per altri centri del Mediterraneo (soprattutto nelle isole e in Nord Africa). Infine, in questo libro l’Italia compare anche come luogo di arrivo e immigrazione: per tutto il periodo analizzato il numero di prostitute straniere, provenienti in gran parte dai Paesi limitrofi, è rimasto costantemente alto.

2. Ivi, MI a Prefetto di Catania, 24 ottobre 1894. 3. Ivi, Prefettura di Catania a MI, 10 novembre 1894.

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

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L’ultimo scorcio dell’Ottocento è stato teatro di importanti mutamenti di scala del mercato della prostituzione, oggetto già da diversi decenni di riflessione storiografica in ambito internazionale e per lo più ignorati dalla storiografia italiana.4 Testi divenuti ormai dei classici, come Les filles de noce di Alain Corbin, e ricerche più recenti come Global Women, Colonial Ports di Liat Kozma, hanno ricostruito come a cavallo dei due secoli il mercato del sesso si sia allargato in modo impressionante sia in termini geografici che per numero di persone coinvolte. La mobilità, lo spostamento su scala locale e internazionale delle prostitute e delle altre figure coinvolte in questo commercio – tenutarie imprenditrici, intermediari, procacciatori – sembra rappresentare inoltre uno dei suoi nuovi tratti distintivi.5 In sostanza, è a partire dalla fine dell’Ottocento che la prostituzione si sarebbe progressivamente integrata nel mercato transnazionale, facendosi propriamente globale.6 Delle grandi migrazioni dall’Europa verso le Americhe, dei flussi che si muovevano tra i Paesi europei e di quelli che attraversavano il Mediterraneo verso i nuovi centri produttivi, commerciali, coloniali in espansione, hanno fatto parte anche migliaia di donne che si sono spostate per impiegarsi come prostitute in posti diversi, e spesso molto lontani, da quelli da cui provenivano. Molte altre, partite alla ricerca di lavori diversi (nei servizi domestici o nel circuito dell’industria dell’intrattenimento, per esempio), sono finite a fare le meretrici nelle società di arrivo. Ingrossando le fila delle «prostitute emigranti». Oltre alle prostitute si sono spostate le tenutarie, spesso le prime ad aprire queste particolari catene migratorie con l’avvio di attività nei Paesi coloniali del Nord Africa, a Malta, a Creta, a Rodi, solo per nominare 4. Alcune riflessioni sviluppate in questa introduzione le ho abbozzate in Laura Schettini, Prostitute migranti, società e misure di polizia in età liberale, in La donna delinquente e la prostituta. L’eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiane, a cura di Liliosa Azara e Luca Tedesco, Roma, Viella, 2019, pp. 122-148. 5. Cfr. Alain Corbin, Les filles de noce: misère sexuelle et prostitution, XIXe et XXe siècles, Paris, Aubier Montaigne, 1978 (trad. it. Donne di piacere: miseria sessuale e prostituzione nel XIX secolo, Milano, Mondadori, 1985); Liat Kozma, Global Women, Colonial Ports. Prostitution in the Interwar Middle East, New York, Suny Press, 2017. 6. La storia della prostituzione internazionale sta incontrando crescente fortuna storiografica, come testimonia anche la recente uscita del numero speciale Prostitution in Twentieth Century Europe, a cura di Sonja Dolinsek & Siobhán Hearne, di «European Review of History/Revue européenne d’histoire», 29, 2 (2022).

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Turpi traffici

qualcuno dei luoghi interessati. Sulle stesse rotte si sono mossi in misura considerevole anche i «procacciatori», uomini incaricati di trovare donne da impiegare nelle case di prostituzione e di sbrigare, in modo legale o meno, la burocrazia necessaria agli spostamenti. Le circostanze che spiegherebbero la nascita di questo primo mercato globale della prostituzione sono molteplici e complesse, nonché ancora oggetto di ricerca e discussione. Inizialmente gli studiosi lo hanno considerato la risposta diretta allo spostamento di popolazione lavoratrice maschile che, nei Paesi di arrivo e insediamento, spesso svincolata dagli affetti e dalle reti familiari, avrebbe prodotto una crescita impetuosa della domanda di prostituzione. Sebbene in alcuni frangenti e contesti questa domanda sia stata in parte soddisfatta anche attraverso la prostituzione delle donne locali o attraverso varie forme di relazioni interrazziali, è stato notato come le preoccupazioni e le politiche razziali imperiali e nazionali avrebbero reso necessari i traffici e la mobilità delle donne. Lo spostamento, forzato o volontario, serviva a garantire una sorta di concordanza etnica o nazionale tra prostitute e clienti: donne italiane sono arrivate in Argentina, Malta, Egitto o Germania, ad esempio, per essere impiegate in case di meretricio gestite e frequentate da compatrioti in quei Paesi; le francesi sono state ampiamente presenti nei bordelli del Belgio, della Tunisia e in generale in Nord Africa e Medio Oriente; le polacche sono state numerose in Austria. Analogamente, soprattutto tra le due guerre, c’è stato un massiccio spostamento di donne russe verso il Nord della Cina, in particolare in Manciuria, impiegate come prostitute per la folta schiera di lavoratori ed esponenti delle élite in esilio dopo la rivoluzione; donne giapponesi hanno abbondato nei postriboli dei centri produttivi e commerciali asiatici dove i loro connazionali si insediavano per affari; europee di diverse nazionalità si trovavano in Siria, Libano, a Malta, a Creta.7 In questa ricostruzione del ruolo fondamentale svolto dalla dinamica domanda/offerta nella nascita del mercato globale della prostituzione, tuttavia, alcuni elementi sembrano essere stati sacrificati a favore di altri, anche dagli studi storici.

7. Cfr. Stephanie A. Limoncelli, The Politics of Trafficking. The First International Movement to Combat the Sexual Exploitation of Women, Stanford, Stanford University Press, 2010, in particolare pp. 28-38.

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

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In particolare, si riconosce pure in questa occasione un robusto pregiudizio nei confronti delle migrazioni femminili, a lungo considerate quasi solamente come ancillari a quelle maschili. Le donne, secondo una convinzione a lungo diffusa, si sarebbero spostate in misura minore e solo in un secondo momento rispetto agli uomini, prevalentemente per ricongiungersi a essi; tutt’al più sarebbero partite all’interno di progetti migratori familiari o – come in questo caso – per soddisfare una domanda maturata e avanzata dalle comunità maschili di emigranti. Per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento la statistica, la demografia e, successivamente, la sociologia hanno considerato le migrazioni prevalentemente come un “affare di uomini”, costruendo l’immagine di un emigrante tipico maschio, giovane, europeo e spinto a partire da ragioni economiche. Le donne migranti lavoratrici sono rimaste essenzialmente invisibili, sottostimate in termini quantitativi e la loro autonomia e capacità di agency nei progetti e nelle esperienze di mobilità del tutto oscurata.8 Studi più recenti hanno proposto un quadro ben più complesso. È emersa innanzitutto la consistenza e la varietà delle migrazioni di donne lavoratrici del passato e il modo in cui queste esperienze, soprattutto quando la donna migrante era il principale sostentamento della famiglia (the main breadwinner), abbiano messo in tensione gli equilibri familiari e comunitari e le politiche di welfare.9 Utilizzando le statistiche relative alle grandi migrazioni elaborate negli anni Settanta, studiose come Donna Gabaccia hanno messo in discussione la sex ratio dei flussi, evidenziando come non solo nell’insieme le donne hanno rappresentato il 30-40% della popola8. Si possono approfondire queste considerazioni attingendo, tra gli altri, a Women, Gender and Labour Migration: Historical and Global Perspective, a cura di Pamela Sharpe, London-New York, Routledge, 2001. Per una panoramica delle dinamiche migratorie delle lavoratrici italiane a cavallo tra Otto e Novecento si veda Bruna Bianchi, Lavoro ed emigrazione femminile (1880-1915), in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 257-274. Due importanti contributi per la storia delle migrazioni femminili in Italia sono Maddalena Tirabassi, Trent’anni di studi sulle migrazioni di genere in Italia. Un bilancio storiografico, in Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Stefano Luconi e Mario Varricchio, Torino, Academia University Press, 2015, pp. 19-39 e Alessandra Gissi, Donne e migrazioni, in Storia delle donne nell’Italia contemporanea, a cura di Silvia Salvatici, Roma, Carocci, 2022, pp. 237-258. 9. Fondamentale a questo proposito è: From Slovenia to Egypt. Aleksandrinke’s TransMediterranean Domestic Workers’ Migration and National Imagination, a cura di Mirjam Hladnik, Göttingen, V&R Unipress, 2015.

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zione emigrata, ma anche come a partire dalla Prima guerra mondiale in alcuni sistemi migratori si sia verificato un vero e proprio capovolgimento, laddove le donne hanno superato gli uomini.10 Ulteriori importanti aggiornamenti sono venuti, poi, da quegli studi che hanno invitato a prendere in considerazione non solo le grandi migrazioni verso il Nord America, ma anche le traiettorie più brevi, le migrazioni stagionali e temporanee, dove il numero delle donne lavoratrici è stato storicamente molto alto.11 Per i temi al centro di questo volume le considerazioni appena fatte ci servono per aggiungere alcuni elementi. Accanto alla forza attrattiva esercitata dalla popolazione maschile emigrata, nella storia del processo di globalizzazione della prostituzione hanno svolto una parte importante anche i progetti migratori femminili “autonomi”,12 in modi molto diversi tra loro ma per noi ugualmente significativi. Da una parte, la prostituzione all’estero ha rappresentato un affare per molte donne, che hanno intrapreso la via dell’emigrazione autonomamente, consapevoli delle condizioni del mercato nei Paesi di arrivo e alla ricerca di migliori e più veloci guadagni, possibili soprattutto nelle colonie del Mediterraneo. In questo caso, dunque, sono le donne, quelle già prostitute in patria, come Giuseppa G., o le tenutarie che partivano per aprire una casa di tolleranza, che hanno incentivato la dimensione globalizzata della prostituzione otto-novecentesca, compiendo lunghi e molteplici spostamenti da un Paese all’altro. Dall’altra parte, così come succedeva contemporaneamente con le migrazioni interne delle giovani ragazze che si spostavano dalle zone rurali ai centri urbani, non di rado tra le domestiche, artiste o bambinaie emigrate attraverso l’Oceano o il Mediterraneo in Paesi stranieri, c’era chi di fronte alla perdita del posto di lavoro, all’assenza di reti familiari e sociali, in seguito a cattivi incontri o all’esposizione pericolosa alle “voglie” dei pa10. Donna Gabaccia, Women of the Mass Migrations: From Minority to Majority 1820-1930, in European Migrants: Global and Local Perspectives, a cura di Dirk Hoerder e Leslie Page Moch, Boston, Northeastern University Press, 1996, pp. 90-111. 11. Cfr. Dirk Hoerder, Cultures in Contact. World Migrations in the Second Millenium, Durham, Duke University Press, 2002. 12. «Autonomous agents», «autonomous migrants», sono espressioni largamente utilizzate in Women, Gender and Labour Migration, per evocare la realtà storica di esperienze migratorie femminili da opporre allo stereotipo delle donne migranti trainate solo da un progetto di coppia o familiare.

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

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droni e dei loro familiari, finiva con il passare al mestiere di prostituta, per scelta, costretta o ingannata.13 Le intersezioni tra la storia dei grandi spostamenti di popolazione di fine Ottocento e la storia della prostituzione globale diventano ancora più visibili se prendiamo in considerazione un altro elemento. La prima rete di intervento contro la tratta e i traffici di donne approntata in Italia si è basata in maniera sostanziale sulla struttura messa in piedi dal Commissariato generale dell’Emigrazione (CGE), istituito nel 1901, per governare e vigilare i flussi di emigranti. Piuttosto che di personale specifico, il Ministero dell’Interno si è avvalso per la vigilanza sulle donne nelle stazioni ferroviarie, nei porti e nelle città di confine, durante i viaggi e nei porti, nelle città e nei Paesi di arrivo, dei funzionari del Commissariato, sensibilizzati al nuovo compito di prestare attenzione a questa classe particolare di lavoratrici emigranti. La storia della prima prostituzione globalizzata, dunque, in questo volume si intreccia con la storia delle migrazioni. Essa, tuttavia, è anche letta come parte della storia del lavoro femminile. Attingendo alla riflessione messa a disposizione dall’International Institute of Social History (Amsterdam) con il progetto, e poi pubblicazione, Selling Sex in the City: A Global History of Prostitution,14 ho preferito questo approccio per diverse ragioni. In primo luogo, è quello più vicino al modo in cui la prostituzione è rappresentata nelle fonti con le quali ho lavorato, laddove di meretricio si parla esplicitamente come «professione», o istituzioni e autorità si interrogano sulle «condizioni di lavoro» delle prostitute, per fare solo degli esempi. In secondo luogo, «the labour approach» permette di evitare alcune eccessive semplificazioni verso le quali mi sembra conducano altre prospettive: mentre il «paradigma oppressivo», che guarda alla prostituzione 13. Devo a Raffaella Sarti il suggerimento iniziale a guardare anche ai nessi tra lavoro domestico e prostituzione nel mercato globale e i suoi studi sono stati fonte di diversi spunti sviluppati in questo libro. Altrettanto importante, anche per le piste interpretative che mi ha suggerito, è stato il volume What is Work?: Gender at the Crossroads of Home, Family, and Business from the Early Modern Era to the Present, a cura di Raffaella Sarti, Anna Bellavitis e Manuela Martini, New York-Oxford, Berghahn Books, 2018. 14. Selling Sex in the City: A Global History of Prostitution, 1600s-2000s, a cura di Magaly Rodriguez Garcia, Lex Heerma van Voss, Elise van Nederveen Meerkerk, LeidenBoston, Brill, 2017.

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come esito della diseguaglianza di genere e della povertà femminile, considera le prostitute solo come vittime, spesso delle «schiave sessuali», per un verso opposto il più recente «sex work approach» mette particolare enfasi sulla capacità economica e imprenditoriale delle prostitute, privilegiando opinioni e rappresentazioni di chi ha scelto o sceglie questo lavoro come alternativa ad altri lavori sottopagati o pericolosi.15 Mi sembra che guardare alla storia della prostituzione anche come a una storia di lavoro permetta di prendere in considerazione la molteplicità di esperienze attraversate dalle donne coinvolte, i vari gradi di sfruttamento e le diverse condizioni di lavoro vissute a seconda dei contesti politici e culturali, della provenienza, ma anche della biografia personale delle protagoniste. Parimenti, parlare di prostituzione, preferendola ad altre categorie di recente lievitate nel dibattito scientifico e politico, come «sex work», mi è sembrata la scelta più appropriata. Non solo perché nelle fonti sulle quali ho lavorato è il termine adoperato, ma anche perché – in relazione all’oggetto dello scambio – esso restringe il campo alla fornitura di sesso fisico in cambio di pagamento (mentre «sex work» apre anche a servizi sessuali immateriali). In relazione alla considerazione sociale, poi, la categoria della prostituzione incorpora la storia secolare dello stigma che invariabilmente ha colpito le prostitute, anche in contesti nei quali la prostituzione godeva di forme di istituzionalizzazione e legittimazione. 2. Il circuito delle case di tolleranza e l’internazionalizzazione della prostituzione Giuseppa G. si era recata a Malta per trovare impiego in una casa di prostituzione. La circostanza aiuta a mettere sotto i riflettori un’altra questione che in questo volume ritroveremo frequentemente: il circuito delle case di meretricio, in particolare di quelle autorizzate, regolate da leggi del governo centrale, locale o di polizia a seconda dei contesti, che nel nuovo mercato internazionale della prostituzione ha giocato un ruolo sostanziale. 15. Per un approfondimento dei diversi approcci alla storia della prostituzione, arricchito da riferimenti bibliografici, si veda Magaly Rodriguez Garcia, Lex Heerma van Voss, Elise van Nederveen Meerkerk, Selling Sex in World Cities: An Introduction, ivi, pp. 1-21.

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

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A partire dall’esperimento napoleonico, che aveva introdotto forme di regolamentazione della prostituzione intenzionate a tutelare la salute nell’esercito dalla diffusione massiccia della sifilide e di altre malattie veneree, molti Paesi hanno via via adottato nel corso dell’Ottocento sistemi di regolazione della prostituzione in genere. Pur nelle sue varianti nazionali, la regolamentazione ha significato la registrazione e autorizzazione con licenza delle case di meretricio, la fissazione di regole circa la loro dislocazione nello spazio urbano, la schedatura delle donne che erano iscritte nella casa e il loro numero massimo consentito, l’imposizione di visite mediche periodiche per le prostitute e il loro allontanamento o ricovero coatto quando trovate infette, le procedure di cancellazione dai registri in caso avessero voluto riabilitarsi, vale a dire abbandonare il mestiere e dedicarsi ad altra attività. Nel sistema regolamentato la prostituta viveva nel bordello, alle dipendenze di una tenutaria che le forniva usualmente gli abiti, non sceglieva il numero di clienti giornalieri né poteva rifiutarne alcuni, le era vietato sostare o intrattenersi all’esterno nel postribolo, di norma non poteva uscire dopo il tramonto ed era sottoposta a controlli sanitari. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale decine di Paesi nel mondo hanno sperimentato per periodi più o meno lunghi e in modo più o meno pacifico sistemi di regolamentazione della prostituzione: Argentina, Austria-Ungheria, Brasile, Turchia, Italia, Belgio, Francia, Spagna, Romania, Polonia, Russia, Giappone, per citarne alcuni. Ampiamente coinvolti, spesso in modo più duraturo e fino al secondo dopoguerra inoltrato, i territori colonizzati, i protettorati, i mandati: Algeria, Libano, India, Eritrea, Egitto, Malta, Tripolitania e Cirenaica, Hong Kong, Manciuria, Siria, Libano, Palestina, Indocina.16 Nelle colonie e nei mandati, i bordelli sono stati generalmente divisi seguendo criteri razziali, a seconda che dovessero servire agli europei o agli indigeni, che vi lavorassero donne europee o autoctone, e in base agli stessi criteri sono stati distribuiti nello spazio urbano, prevalendo generalmente l’intenzione di ostacolare le forme di promiscuità razziale, sia tra cliente e prostituta sia tra 16. Per una fotografia del sistema della regolamentazione nei diversi Paesi si veda Magaly Rodriguez Garcia, Ideas and Practices of Prostitution around the World, in The Oxford Handbook of the History of Crime and Criminal Justice, a cura di Paul Knepper, Anja Johansen, Oxford, Oxford University Press, 2016, pp. 132-154; cfr. anche Limoncelli, The Politics of Trafficking, pp. 23-28.

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clienti. La storiografia ha ampiamente ricostruito come sia stata la presenza europea, anche in virtù dell’espansione urbana provocata dallo sviluppo dell’amministrazione coloniale e dai commerci, nonché dall’arrivo di lavoratrici e lavoratori in cerca di occasioni, ad aver innescato un aumento notevole del mercato della prostituzione nei Paesi coloniali.17 Le fonti d’archivio, dal canto loro, testimoniano limpidamente come l’apertura di case di meretricio abbia rappresentato un affare particolarmente redditizio per tenutarie ed ex prostitute europee pronte a farsi imprenditrici globali. Sono queste attività, spesso vere e proprie succursali di case di tolleranza primigenie di Napoli, Roma, Genova, Catania, Milano, solo per fare degli esempi, a risultare nei documenti dell’epoca in qualità di snodi delle rotte della prostituzione internazionale, come vedremo nelle prossime pagine. L’esistenza della regolamentazione è un tassello fondamentale, dunque, nella mappa della prima prostituzione globalizzata e proprio per questo oggetto di un’accesa disputa politica tra coloro che ne chiedevano l’abolizione, considerandola la causa dei traffici e della tratta di donne, e coloro che invece ne invocavano il mantenimento, vedendo in essa al contrario lo strumento per dare delle regole a un fenomeno sociale, la prostituzione, che altrimenti sarebbe comunque esistito ma sottratto a qualsiasi forma di controllo. Le posizioni dei governi di molti Paesi, così come di fette importanti di società civile, sono cambiate nel corso dei decenni e man mano che i dati e le inchieste si accumulavano; fino al punto che si può senz’altro affermare che nel periodo tra le due guerre mondiali, nei consessi internazionali hanno finito per prevalere le posizioni abolizioniste. Le forme di regolamentazione adottate in Italia sono state tra le più longeve: inaugurate all’indomani della nascita del Regno d’Italia con la cosiddetta legge Cavour, che nel 1860 aveva allargato a tutto il territorio le disposizioni in materia già vigenti nel Regno Sabaudo, sono state modificate più volte nel corso del tempo, ma semmai secondo un orientamento più restrittivo nei confronti delle libertà delle prostitute. Ad eccezione, in17. Per una panoramica a largo raggio delle questioni inerenti la prostituzione in colonia si vedano le considerazioni di Liat Kozma, Prostitution and Colonial Relation, in Selling Sex in the City, pp. 730-747. Spunti importanti in Ann Laura Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power: Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley, University of California Press, 2002.

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fatti, del regolamento Crispi del 1888 che aveva ridimensionato il controllo poliziesco sulle meretrici, una decisa politica segregazionista, di vigilanza e di imposizione di disposizioni sanitarie coatte venne ribadita già nel 1891 con il regolamento Nicotera e poi via via con il nuovo Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 1926 e con quello successivo del 1931.18 Come vedremo nel corso del volume, nella penisola, come in gran parte dei Paesi regolamentazionisti, il sistema della prostituzione autorizzata e vigilata è stato voluto soprattutto perché ritenuto fondamentale per il mantenimento dell’ordine familiare e quindi sociale. Le case di tolleranza erano pensate come strumento per soddisfare l’incontenibile sessualità maschile in un regime di (presunta) osservanza delle norme sanitarie e come freno alla ricerca di relazioni extramatrimoniali stabili e sentimentali. 3. Politica, istituzioni e società: tratta delle bianche e prostituzione globale La vicenda di Giuseppa G. contiene utili elementi per discutere anche altre questioni intorno a cui è costruito questo volume e che si legano a quanto appena evocato: il modo in cui le società del tempo hanno risposto all’espansione della prostituzione e le sollecitazioni che la diffusione delle prostitute straniere e delle emigranti prostitute ha posto in termini politici e culturali. Intorno a Giuseppa G. abbiamo visto attivarsi il Consolato a Malta, la prefettura di Catania, il Ministero dell’Interno. Siamo nel 1894 e di lì a breve oltre alle autorità nazionali faranno la loro comparsa sulla scena di vicende simili anche altri soggetti: la stampa, ma anche le organizzazioni internazionali. La nascita del mercato globale della prostituzione ha infatti rappresentato una delle grandi emergenze delle società contemporanee. Un fenomeno che ha sconvolto e mobilitato l’opinione pubblica e la società civile 18. L’abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia si ebbe con l’omonima legge 20 febbr. 1958 n. 75, conosciuta come legge Merlin dal nome della sua prima firmataria e paladina, la senatrice socialista Lina Merlin, che ne aveva proposto una prima versione già nel 1948. Cfr. Liliosa Azara, Lo Stato lenone: il dibattito sulle case chiuse in Italia, 1860-1958, Melzo, Cens, 1997.

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e che ha provocato reazioni diplomatiche e delle autorità giudiziarie di enorme portata. In alcuni ambiti in particolare l’allarme è stato cristallizzato inizialmente nella fortunata formula della tratta delle bianche. Stampa, cinema e associazionismo sintetizzarono così l’esistenza di un vero e proprio commercio, dilagante, di giovani donne a scopo di prostituzione nell’ambito dei flussi migratori del periodo, tanto interni (dalle campagne alle città) che internazionali.19 L’espressione è stata lanciata negli ambienti del movimento abolizionista, precisamente dall’International Abolitionist Federation, fondata da Josephine Butler nel 1875 per chiedere l’abolizione della regolamentazione di Stato della prostituzione, prima in Gran Bretagna e poi negli altri Paesi europei dove nacquero comitati affiliati. Per le militanti di questa organizzazione le case di prostituzione autorizzate erano nient’altro che un luogo di schiavitù, dove le donne venivano vendute e comprate, oppresse, imprigionate e lentamente uccise: l’unica differenza con il sistema schiavistico appena abolito negli Stati Uniti era che tutto ciò non avveniva per il profitto di un ricco proprietario di piantagioni di cotone ma per assicurare gratificazione alla «lussuria degli uomini».20 In questo ambiente politico l’espressione tratta delle bianche era sinonimo di prostituzione, ed era tanto quella internazionale, quanto quella che avveniva all’interno dei confini dello Stato, non faceva distinzioni di età, né era interessata a interrogare il consenso delle donne: l’obiettivo era chiudere le case di tolleranza autorizzate e abolire le misure punitive e stigmatizzanti, di polizia e sanitarie, a cui erano sottoposte le meretrici. Negli anni Novanta dell’Ottocento l’allarme si è concentrato sempre di più sulla nuova dimensione internazionale della prostituzione e anche tratta delle bianche, nella campagna stampa così come nelle organizzazioni 19. Sulla campagna contro la tratta delle bianche in Italia e in Gran Bretagna si veda l’importante volume di Sara Ercolani, La tratta delle bianche in Italia e in Gran Bretagna: dall’associazionismo alla Società della nazioni (1885-1946), Bologna, il Mulino, 2022. 20. Così si era espressa Josephine Butler in una lettera del 1875 alla Ladies National Association (prima cellula della IAF) che si può leggere in Josephine Butler and the Prostitution Campaigns: Diseases of the Body Politic, 5 voll., a cura di Jane Jordan, Ingrid Sharp, London, Routledge, 2003, vol. 3, The Constitution Violated, p. 158. Per una storia dell’uso dell’espressione «tratta delle bianche» si veda Keely Stauter-Halsted, The Devil’s Chain: Prostitution and Social Control in Partitioned Poland, Ithaca-London, Cornell University Press, 2015, pp. 119-122.

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internazionali di volontariato, ha iniziato ad alludere sempre più esclusivamente alla prostituzione all’estero. È significativo che l’International Bureau for the Suppression of the White Slave Traffic, anch’essa di matrice britannica, sorta nel 1899 e diventata in breve tempo l’organizzazione leader del primo movimento internazionale contro la tratta, patrocinasse una concezione della tratta delle bianche secondo la quale il problema da risolvere in quel frangente non fosse tanto il dilagare della prostituzione tout court, quanto lo spostamento attraverso gli Stati delle prostitute. Erano le prostitute straniere e le prostitute emigranti, in questa prospettiva, a porre problemi, seppure diversi, a tutti i governi. Nei paesi di arrivo l’afflusso massiccio di prostitute, tenutarie, sfruttatori e lenoni era avvertito come una minaccia all’integrità sociale e morale della nazione. Nei Paesi d’origine delle prostitute, invece, la reputazione di Stato esportatore di prostitute e souteneurs (sfruttatori di donne) era legittimamente considerato un duro colpo al buon nome della nazione all’estero. Secondo la storiografia più recente, dunque, l’International Bureau avrebbe messo al centro delle politiche antitratta non la questione della regolamentazione, che difese come questione di politica interna, ma l’emergenza migrazioni, propendendo per misure di vigilanza e controllo sulle donne, soprattutto lavoratrici e delle classi popolari, oltre che delle prostitute.21 Nei primi anni del Novecento il discorso sulla tratta delle bianche circolava ormai diffusamente in Europa e nelle Americhe. La stampa, con quotidiani e riviste, ha rappresentato certamente la fonte più prolissa di racconti, ampiamente drammatizzati e non di rado occhieggianti allo scabroso. Secondo Edward Bristow, tra i primi storici a studiare «the white slavery panic», nei primi anni del Novecento negli Stati Uniti sono state tributate un miliardo di pagine alla tratta delle bianche;22 analogamente, Alain Corbin ha contato 22 testate che nel solo 1902 si sono occupate del tema in Francia quasi ogni giorno.23 21. Cfr. Rachael Attwood, Stopping the Traffic: The National Vigilance Association and the International Fight against the “White Slave” Trade (1899-c.1909), in «Women’s History Review», 24/3 (2015), pp. 325-350. 22. Edward J. Bristow, Vice and Vigilance: Purity Movements in Britain since 1700, Totowa (NJ), Rowman and Littlefield, 1977, pp. 188-189, cit. in Stauter-Halsted, The Devil’s Chain, p. 120. 23. Corbin, Donne di piacere, pp. 313-315.

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Accanto alla stampa vanno conteggiati anche gli opuscoli, bollettini e i cartelli informativi distribuiti nei luoghi dell’emigrazione (stazioni, porti, istituti di ricovero, ecc.) dalle associazioni di volontariato, religiose e laiche, che in quei frangenti si stavano occupando di «protezione delle fanciulle»; un ruolo altrettanto decisivo, inoltre, nella costruzione della paura collettiva per la sorte delle «schiave bianche», lo hanno avuto le arti figurative e visive. Grande scalpore, per la sfrontatezza con cui rendeva visibile l’interno di un postribolo, ha suscitato ad esempio Le nostre schiave di Domenico Ghidoni, del 1894, una scultura che rappresentava tre prostitute in attesa dei clienti sedute discinte su un divano. Uguali polemiche ha sollevato la scultura White slave di Abastenia St. Leger Eberle, che raffigurava un uomo sanguigno nell’atto di vendere una giovanissima e prostrata ragazza nuda, esibita per la prima volta a New York nel 1913. Secondo alcuni studiosi, inoltre, nel cinema proprio il filone dei white slaves films avrebbe determinato un passaggio fondamentale, sbancando ai botteghini, sia nella definizione dello spazio cinematografico come luogo di esibizione separato dal teatro, sia nella trasformazione di alcune case di produzione, come la Universal, in grandi major.24 Traffic in Souls di George Loane Tucker (1913), uno dei primi titoli del genere, registrò il tutto esaurito fin dal suo debutto, quando al Joe Weber’s Theater a Broadway (New York), 1000 posti a sedere non bastarono per il pubblico accorso. Nei giorni seguenti la polizia dovette intervenire più volte per governare la folla in attesa delle proiezioni; nel giro di un mese il film era in programmazione in ben sei teatri cittadini contemporaneamente. Prodotto con un budget di circa 5700 dollari ne fruttò oltre 400.000. Questa battente campagna d’opinione popolarizzò una rappresentazione precisa della tratta delle bianche che paventava l’esistenza di una rete (prefe24. Per un più compiuto inquadramento dei white slave films nel contesto della storia del cinema, per un’analisi accurata del loro impatto, delle polemiche che suscitarono (anche relative al gran numero di donne che ne furono spettatrici) si vedano: Lee Grieveson, Policing Cinema: Movies and Censorship in Early-Twentieth-Century America, BerkeleyLos Angeles, University of California Press, 2004, cap. 5; Shelley Stamp Lindsey, Is Any Girl Safe? Female Spectators at White Slaves Films, in «Screen», 37, 1 (1996), pp. 1-15; Ead., “Oil upon the Flames of Vice”: The Battle over White Slave Films in New York City, in «Film History», 9, 4 (1997), pp. 351-364; Ead., Movie-struck Girls: Women and Motion Picture Culture after the Nickelodeon, Princeton (NJ), Princeton University press, 2000, pp. 51 e sgg.

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ribilmente internazionale) di trafficanti che con la violenza o l’inganno (false promesse di lavori rispettabili) trascinavano le giovani europee – per lo più minorenni, ingenue, oneste emigranti – in remoti bordelli nelle colonie, nelle grandi città del vecchio continente, nelle Americhe, in Oriente. In quegli stessi anni, tuttavia, non poche delle associazioni impegnate intorno al dilagare della prostituzione denunciarono i pericoli insiti nello sbilanciamento dell’attenzione verso la dimensione estera/internazionale dei «commerci». In Italia, il Comitato italiano contro la tratta guidato da Ersilia Bronzini Majno e nato nel 1900, si è strenuamente impegnato ad affrontare la questione della tratta non come un fenomeno esogeno, che sarebbe arrivato a guastare i costumi e la vita di migliaia di giovani donne per opera di oscure organizzazioni di trafficanti, meglio se straniere, ma come un fenomeno che era profondamente annidato nelle condizioni di miseria e oppressione giuridica, sociale e familiare vissute dalle donne.25 Molte volte il Comitato italiano è tornato a deplorare la costruzione quasi immaginifica del losco trafficante internazionale come figura che serviva a offuscare le «molteplici cause morali, sociali ed economiche, né le varie responsabilità» della tratta,26 e intorno a questa lettura politica del fenomeno ha costruito le sue attività. In particolare è per questa ragione che il Comitato italiano, pur presente nella rete internazionale che si è attivata per combattere la tratta, ha concentrato il suo lavoro quasi esclusivamente sulla prostituzione delle italiane all’interno dei confini nazionali, circostanza che spiega anche come mai in questo volume compare solo occasionalmente. L’organizzazione sottolineava in particolare il nesso tra mancato riconoscimento del lavoro femminile (salari inferiori, instabilità, scarse tutele, informalità) e diffusione della prostituzione. Una conclusione alla quale le donne del comitato erano giunte dopo anni di lavoro svolto nel campo dell’assistenza alle (ex) prostitute che avevano mostrato come gran parte 25. Per approfondire il tema mi permetto di rimandare a Laura Schettini, Il Comitato italiano contro la tratta: impegno locale e reti internazionali, in Attraversando il tempo. Centoventi anni dell’Unione femminile nazionale (1899-2019), a cura di Stefania Bartoloni, Roma, Viella, 2019, pp. 37-60. 26. Archivio Unione Femminile Nazionale (Milano), Fondo Unione Femminile Nazionale. Archivio storico, b. 10, fasc. 63, Comitato italiano contro la tratta delle donne e dei fanciulli, Relazione per gli anni 1902-1922, Milano, Ditta Perola, 1923, p. 19. Corsivo nell’originale.

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delle donne di «malaffare» fossero immigrate dalle aree rurali ed ex lavoratrici domestiche. Oltre ad oscurare la prostituzione interna agli Stati europei, la campagna contro la tratta delle bianche vista però dalla parte dei Paesi colonizzati o meta delle grandi migrazioni avrebbe anche prodotto una sovrarappresentazione delle europee, le «schiave bianche», a discapito dell’interesse per la sorte delle native, ugualmente coinvolte nella crescita del mercato.27 Le inchieste e i viaggi di ricerca realizzati per verificare le reali caratteristiche della tratta delle bianche sono stati, infatti, in gran parte voluti da organizzazioni europee, condotte da persone che parlavano solo lingue europee e che si sono mosse principalmente negli ambienti della prostituzione regolare, dove le prostitute provenienti dal vecchio continente abbondavano. Queste stesse inchieste, inoltre, hanno costituito una delle fonti preferite dalla storiografia successiva, condizionandone quindi le deduzioni. La tratta delle bianche, dunque, appare come una formula con un forte contenuto razziale che va problematizzato e che, come ha sostenuto Jo Doezema,28 fino agli anni Duemila è stato sostanzialmente sottovalutato dalla storiografia nonostante la forza con cui ha operato. Oltre a incorporare un ordine gerarchico tra europei/e e nativi/e, tratta delle bianche ha agito, a seconda delle storie nazionali, anche in altre direzioni. È stato notato come negli Stati Uniti l’enfatizzazione dell’identità bianca delle vittime della tratta, nonché la costruzione del binomio indissolubile tra schiavitù e bianchezza («white slaves trade») avrebbe risposto all’intenzione di convincere l’opinione pubblica che quella delle bianche fosse una schiavitù diversa, e peggiore, di quella che era stata la schiavitù dei neri: un modo per minimizzare e liquidare definitivamente il passato schiavista degli Stati Uniti.29 27. Diverse considerazioni su questo sono espresse, guardando al caso argentino, in Cristiana Schettini, A Social History of Prostitution in Buenos Aires, in Selling Sex in the City: A Global History of Prostitution, pp. 357-384. Per una prospettiva della questione dal punto di vista del femminismo egiziano, si veda Margot Badran, Feminists, Islam, and Nation: Gender and the Making of Modern Egypt, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1995, in particolare cap. 10, Traffic in Women. 28. Jo Doezema, Loose Women or Lost Women? The Re-emergence of the Mith of White Slavery in the Contemporary Discourses of Trafficking in Women, in «Gender Issues», winter 2000, pp. 23-50. 29. Una discussione dei significati che potrebbe avere il termine white slaves trade in relazione alla storia degli Stati Uniti è in Frederick K. Grittner, White Slavery: Myth, Ideology and American Law, New York-London, Garland Publishing, 1990.

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Dal canto suo, analizzando la campagna contro la tratta delle bianche in Gran Bretagna, Cecily Devereux arriva alla conclusione che essa debba essere storiograficamente letta non come espressione di fenomeni diffusi di rapimento e induzione alla prostituzione di giovani europee nei Paesi esteri, soprattutto nelle colonie. Piuttosto, l’allarme sarebbe un «costrutto imperiale» utile a tenere sotto controllo l’ansia per la condizione delle “razze dominanti” nel contesto dell’espansione imperiale di fine Ottocento. La schiava bianca avrebbe in questo senso operato sia nella direzione di incarnare l’innocenza violata e da difendere delle donne britanniche, sia i pericoli a cui lo sgretolamento delle strutture familiari e sociali tradizionali, l’incontro con l’alterità, esponeva l’integrità della nazione.30 In Italia, lo vedremo nel corso delle prossime pagine, il successo della campagna contro la tratta delle bianche sembra rimandare piuttosto al rilievo che l’emigrazione ha avuto nella storia del Paese e, ancor di più, nella costruzione della reputazione nazionale all’estero. Reputazione che le prostitute emigranti, come Giuseppa G., compromettevano duramente. Nel 1894 il prefetto di Catania aveva parlato di «gran disdoro che deriva al nostro paese pel fatto di giovani Siciliane che si recavano nella detta isola con lo scopo di prostituirsi»31 Il console italiano a Malta a sua volta aveva denunciato come vicende simili a quelle di Giuseppa rappresentassero «una vergogna per il nostro paese». In Italia, è la mia ipotesi, “bianche” ha operato quasi come una sublimazione: serviva a costruire e a diffondere nel discorso pubblico un’immagine delle italiane lontane da casa quali innocenti e vittime, da opporre a quella rappresentazione degli immigrati italiani, uomini e donne, poveri, delinquenti e immorali, fondamentalmente colpevoli, che si stava imponendo nei Paesi di arrivo.32 Come anticipato, in una prima fase l’espressione tratta delle bianche è stata adottata anche negli ambienti diplomatici e istituzionali che – solle30. Cfr. Cecily Devereux, “The Maiden Tribute” and the Rise of the White Slave in the Nineteenth Century: The Making of an Imperial Construct, in «Victorian Review», 26, 2 (2000), pp. 1-23. 31. ACS, MI, DGPS, Div. Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s.fasc. Miscellanea, Prefettura di Catania a MI, 10 novembre 1894. 32. Per lo studio dell’emigrazione italiana rimangono fondamentali i due volumi della Storia dell’emigrazione italiana curati da Pietro Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001-2002, il citato Partenze e il suo complementare Arrivi. In particolare, per questi temi, si veda Gian Antonio Stella, Emilio Franzina, Brutta gente. Il razzismo anti-italiano, in vol. 2, Arrivi, pp. 282-311.

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citati dalla battente campagna d’opinione – si sono mobilitati intorno alla diffusione della prostituzione su scala globale. Quello che è comunemente considerato il primo atto di riconoscimento ufficiale e formale dell’emergenza, vale a dire il congresso internazionale tenuto a Londra nel giugno 1899 a cui parteciparono non solo rappresentanti di associazioni di volontariato ma anche di diversi governi europei, si intitolò infatti International Congress on the White Slave Trade. All’evento seguì una prima conferenza diplomatica, a Parigi nel 1902, e negli anni successivi si susseguirono a ritmo serrato congressi, conferenze, trattati e accordi che per lungo tempo mantennero il riferimento alla tratta delle bianche. Il primo accordo, di natura amministrativa, intitolato Accordo internazionale inteso a garantire una protezione efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di tratta delle bianche,33 siglato a Parigi nel 1904, ha rappresentato una tappa fondamentale, in particolare perché con l’art. 1 tentava una prima definizione istituzionale della tratta delle bianche, identificandola come «incetta delle donne e fanciulle a scopo di prostituzione all’estero». Il testo veniva rivisto con la Convenzione internazionale per la repressione della tratta delle bianche (Parigi 1910) che nei primi due articoli eliminava l’esclusivo riferimento «all’estero»: secondo la nuova convenzione, dunque, era imputabile di tratta «chiunque, allo scopo di favorire l’altrui libidine, arruola, sottrae o rapisce una donna o una fanciulla minorenne, sia pure col loro consenso» oppure chiunque, sempre per favorire l’altrui libidine, «con inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o altro mezzo di costrizione, arruola, sottrae o rapisce, una donna o una maggiorenne». I due documenti davano inoltre indicazioni perché gli Stati contraenti uniformassero il diritto penale in materia e istituissero uffici centrali incaricati dell’analisi e repressione del fenomeno. Negli anni Venti e Trenta la regia della lotta alla tratta è passata nelle mani della Società delle Nazioni (SdN) che già nel suo Patto costitutivo del 1919, all’art. 23, sanciva che da quel momento in poi gli Stati membri avrebbero deferito a essa «l’alta sorveglianza sull’esecuzione degli accordi 33. L’accordo è consultabile all’indirizzo http://hrlibrary.umn.edu/instree/whiteslavetraffic1904.html (ultimo accesso 30 settembre 2022). Diversi materiali relativi alla partecipazione dell’Italia al congresso del 1902, compreso il resoconto dei lavori ad opera della delegazione governativa sono in ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 19131915, cat. 10900.21, fasc. Congressi.

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relativi alla tratta delle donne e dei fanciulli, al traffico dell’oppio e di altre sostanze nocive». La prima conferenza patrocinata dal nuovo organismo dedicata alla tratta è stata organizzata a Ginevra nel giugno 1921 ed è indicativo che, lanciata con il titolo International Conference on the Suppression of the White Slave Traffic, si concludesse dando vita all’International Convention for the Suppression of the Traffic in Women and Children (1921).34 Lo slittamento nella terminologia da «commercio di schiave bianche» a «traffico delle donne», secondo alcune letture corrisponderebbe finalmente all’allargamento dell’interesse a favore dei traffici che coinvolgevano tutte le donne, senza distinzioni razziali.35 Come vedremo nelle prossime pagine, tuttavia, sembra altrettanto realistico ipotizzare che il passaggio nel linguaggio diplomatico da tratta delle bianche a traffico delle donne corrisponda anche alla consapevolezza, frutto delle indagini sul campo, che i fenomeni in atto fossero molto più complessi di quanto rappresentato dal mito della tratta delle bianche e che dentro questa espansione del mercato della prostituzione convivessero giovani ingenue irretite e sfruttate, così come prostitute d’esperienza, familiari complici, scaltre imprenditrici, spietati reclutatori, mariti profittatori. La Convenzione del 1921, a questo proposito, è ricordata anche perché istituiva un comitato di esperti che avrebbe dovuto raccogliere dati e informazioni sulla reale natura dei traffici e stabilire se esisteva un nesso tra l’esistenza delle case di tolleranza autorizzate e la tratta. Il Traffic in Women and Children Committee, così, dopo anni di investigazioni sul campo in tutto il mondo nelle quali erano stati coinvolti centinaia di funzionari ed esperti, rendeva pubblici due rapporti: il primo, nel 1927, sulla tratta in Europa, Nord e Sud America; il secondo, nel 1932, che si focalizzava invece sulla tratta e i traffici in Asia.36 Sebbene tratta delle bianche abbia rappresentato una formula a effetto, buona per guadagnare consensi presso un’opinione pubblica sempre più allarmata, negli ambienti istituzionali e nei documenti di polizia si è pre34. Il testo della convenzione è consultabile all’indirizzo https://www.admin.ch/opc/ it/classified-compilation/19210044/index.html (ultimo accesso 30 settembre 2022). 35. Katarina Leppänen, Movement of Women: Trafficking in the Interwar Era, in «Women’s Studies International Forum», 30 (2007), pp. 523-533. 36. Report of the Special Body of Experts on Traffic in Women and Children, Genève, League of Nations, 1927, 2 voll.; Commission of Enquiry into Traffic in Women and Children in the East: Report to the Council, Genève, League of Nations, 1932.

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ferita una terminologia promiscua, che dava conto delle vittime innocenti, ma anche delle prostitute di mestiere, di famiglie disperate, ma anche di parenti sfruttatori. In Italia, ad esempio, ricorrevano formule quali «turpe commercio», «turpi traffici», «prostitute emigrate». Ho scelto di richiamare nel titolo di questo lavoro «turpi traffici» perché mi sembra rappresenti bene un fenomeno di straordinaria complessità: turpi venivano considerate le donne che si prostituivano (all’estero), ma turpi venivano appellati anche gli sfruttatori di giovani irretite e trascinate nel mercato della prostituzione, vendute come «merce»; traffici, per un altro verso, evoca la natura commerciale del fenomeno ma anche gli affari illeciti, sia a livello organizzato che informale e familiare, compiuti intorno a esso, così come una dimensione di mobilità, fondamentale in questa storia. Infine, una nota importante. Proprio per il peso che l’ideologia e le politiche razziali hanno avuto nelle questioni al centro di questo libro, ho scelto nel mio lavoro di non evitare la categoria della “razza”, pur consapevole dell’enorme dibattito politico e scientifico e delle posizioni, soprattutto negli studi antropologici, che ne richiedono la rimozione. Nel solco della critical race theory mi è sembrato tuttavia più opportuno non silenziare e interdire la razza, per poterne rendere visibile senza eufemismi e giri di parole l’operato, in particolare i dispositivi di naturalizzazione delle gerarchie.37 Per analoghe ragioni mi riferirò all’occorrenza a uomini e donne indigeni o nativi, parlando delle popolazioni autoctone soprattutto dei territori colonizzati, per evocare anche la dimensione razziale ed etnica della alterità e inferiorità loro attribuita dallo sguardo europeo. 4. Struttura del volume e uso delle fonti Il libro è organizzato in due parti: Rotte e La prostituzione globale in Italia. 37. Cfr. Richard Delgado, Jean Stefancich, Critical Race Theory: An Introduction, New York, New York University Press, 2001. Per una ricostruzione del dibattito in corso, corredata di utili riferimenti bibliografici, si veda Anna Scacchi, Nodi e questioni intorno al “parlare di razza”, in «From the European South. A Transdisciplinary Journal of Postcolonial Humanities», 1 (2016), pp. 63-73, disponibile on line in http://europeansouth. postcolonialitalia.it (ultimo accesso 30 settembre 2022).

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Nella prima ho seguito le emigranti italiane nel mercato della prostituzione in particolare di sei piazze/contesti: Malta, Libia, Egitto, New York, Buenos Aires, Panama. Nonostante l’Italia abbia rappresentato uno dei principali Paesi di provenienza delle europee coinvolte nella prostituzione globale, la storia di questi flussi e di queste esperienze è stata finora sostanzialmente ignorata dalla ricerca, sia nazionale che internazionale. Con il mio lavoro, dunque, pur consapevole che molti altri temi e luoghi vanno ancora esplorati, vorrei prima di tutto contribuire a colmare questo vuoto storiografico. I sei contesti scelti ci permettono di seguire le italiane nelle migrazioni attraverso il Mediterraneo e verso le Americhe, due sistemi migratori molto diversi tra loro, anche in relazione alla storia della prostituzione globale. Malta ha rappresentato un’importante piazza della prostituzione internazionale dei primi decenni del Novecento, nota per una fiorente industria dell’intrattenimento nella quale le italiane erano tra le più numerose. Come hanno reagito le autorità coloniali britanniche, quelle italiane e quelle locali maltesi di fronte a questa particolare vocazione commerciale dell’isola? Tripoli e Bengasi, diversamente, ci permettono di guardare alla storia dell’Italia nella prostituzione globale a partire da un’altra prospettiva: quella della sua esperienza di Paese colonizzatore e delle sue politiche razziali. L’Egitto, considerato allora l’Eldorado del Mediterraneo, ci conduce invece negli scenari della prostituzione europea in un Paese coloniale in rapida espansione, dove la dimensione del lavoro viene in primo piano. Ad altri temi aprono le grandi emigrazioni verso le Americhe. Diversamente dal Mediterraneo, in questi luoghi non incontreremo tanto meretrici di mestiere partite verso nuovi mercati in crescita, quanto donne finite nei giri della prostituzione fioriti a ridosso delle comunità degli immigrati. Qui, inoltre, si stagliano con maggior nitidezza storie e profili di uomini coinvolti in questo genere di affari, a cui ho scelto dunque di dedicare un approfondimento tematico. Da New York possiamo guardare a come l’emergenza prostituzione fosse legata all’emergenza immigrazione, prima che a quella morale, e come essa sia stata nella storia una questione profondamente politica. Buenos Aires è una delle città preferite dagli emigranti italiani in cerca di occasioni, che proprio da qui organizzano in modo progressivamente più strutturato l’arrivo di europee da impiegare nel circuito delle case di prostituzione.

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Panama, dal canto suo, con un’economia vivace che ha goduto dell’apertura del canale, della massiccia presenza di soldati nordamericani e di imprenditori e affaristi di mezzo mondo, è il luogo da cui accostarsi a un altro scenario dell’Italia nella prostituzione globale: quello dello sfruttamento delle giovani locali o indigene a beneficio e per mano degli europei. La seconda parte, La prostituzione globale in Italia, è costruita intorno al nodo della prostituzione internazionale e straniera in Italia, tra politiche nazionali ed esperienze femminili. Con il capitolo Politiche italiane e prostituzione internazionale ci inoltriamo più propriamente sul terreno politico. È analizzato il modo in cui l’Italia ha partecipato ai lavori della Società delle Nazioni, contribuendo ad ampliare una fiorente stagione di studi che si occupa della missione sociale dell’organizzazione. Seguiremo poi le posizioni – peculiari e molto significative – che il Paese ha maturato durante il ventennio fascista in materia di tratta internazionale e prostituzione interna, condensate in una ipotetica “terza via” fascista in materia. È questa un’altra occasione per discutere l’ampio spettro di questioni politiche che si addensano intorno all’emergenza prostitute straniere e prostitute emigranti dalla fine dell’Ottocento. Infine, nel capitolo Prostitute globali in Italia è analizzato in primo luogo il processo di costruzione della categoria della prostituta straniera nei contesti diplomatici e nel dibattito politico e le posizioni dell’Italia al riguardo. Successivamente è dato ampio spazio alle esperienze delle prostitute straniere in Italia, prima in età liberale e, dopo, durante il fascismo. Se al centro della prima parte del volume ci sono le italiane all’estero, nella seconda parte l’Italia compare soprattutto come Paese di arrivo, che grazie al suo consolidato circuito di case di tolleranza ha rappresentato uno snodo importante nel circuito globale della prostituzione. In questa veste, il caso italiano consente di guardare alle politiche intraprese nei confronti delle prostitute migranti sia dalla prospettiva di un Paese di arrivo, sia da quella di un Paese fornitore e di verificare eventuali differenze nel modo in cui le autorità e la società civile hanno considerato il fenomeno nell’uno o nell’altro caso. Gran parte di questo lavoro si basa sullo studio di una raccolta di fonti molto ricca e complessa intitolata Tratta delle bianche, parte del Fondo In-

Prostituzione, lavoro, migrazioni globali. Introduzione

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terpol (polizia internazionale) del Ministero dell’Interno conservato presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Ampiamente utilizzate, presso lo stesso archivio, sono state anche altre buste relative agli anni precedenti al fascismo, intitolate ugualmente Tratta delle bianche (attraverso la categoria 10900.21) e conservate nel Fondo Polizia giudiziaria. All’interno di queste due raccolte di buste si trovano molti documenti di polizia, prodotti intorno a inchieste o indagini particolari; corrispondenze tra ministeri e altre autorità di governo, comprese quelle consolari; documentazione molto estesa della Società delle Nazioni e soprattutto relativa alla partecipazione dell’Italia all’organizzazione (quindi rapporti, relazioni sui lavori svolti, corrispondenze relative alle posizioni da assumere, ecc.); pubblicistica e materiali a stampa delle associazioni di volontariato impegnate per la protezione delle giovani all’estero. La varietà del materiale conservato ha permesso di indagare il tema adottando molteplici prospettive e a me di combinare, come prediligo, le esperienze biografiche con le politiche o le misure di polizia. Si tratta ovviamente di fonti che raccontano soprattutto il modo in cui istituzioni e polizia hanno reagito alla nascita del mercato globale della prostituzione e prodotte in questi ambienti. L’esperienza delle donne coinvolte è a tratti accessibile attraverso i verbali di interrogatorio, in cui sono raccolte le loro dichiarazioni, o in relazione a indagini giudiziarie specifiche. Anche in questo caso si tratta di fonti condizionate dall’ambiente giudiziario nel quale sono prodotte e per questo trattate con i dovuti accorgimenti. Nelle note le fonti non saranno citate sempre in modo omogeneo, dal momento che per alcuni documenti si hanno dei riferimenti più precisi e completi (fascicolo, sotto fascicolo ecc.), mentre altri si trovavano semplicemente nelle buste. Oltre al lavoro svolto presso l’Archivio Centrale dello Stato, in alcuni passaggi di questo libro sono ricorsa ad altre fonti, frutto di ulteriori ricerche svolte a Milano presso l’Archivio storico dell’Unione femminile (Fondo Comitato italiano contro la tratta delle bianche) e a Napoli presso l’Archivio di Stato. Per ragioni di cura dei dati personali ho scelto di non riportare i cognomi delle donne e degli uomini raccontati in questo libro, anche per le vicende più remote.

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Ringraziamenti I miei sono prima di tutto dei ringraziamenti personali, a chi in modi molto diversi ha permesso che potessi lavorare a questo libro, aiutandomi a trovare il tempo necessario, sostenendomi, ma anche e soprattutto facendomi pensare ad altro: Giusi Libonati, Cristina Petrucci, Elena Petricola, Annamaria Licciardello, Grazia Valenzano, Livia Aromatario, Silvia Bonanni, Leila Spignese, Silvia Gallerano, Sara Marini, tutta la squadra di pallacanestro delle Lokomotive, fonte inesauribile di buonumore e le amiche e gli amici della Certosa. Un grazie speciale a Michele Colucci, Francesca Socrate e anche in questa veste di nuovo a Elena Petricola, Cristina Petrucci e Annamaria Licciardello per avermi aiutato con la loro lettura a migliorare il testo, anche se so di non aver saputo raccogliere tutti i loro consigli. Devo molto a Margherita Pelaja e a Cecilia Palombelli per la fiducia che mi hanno dato e per come mi hanno accolta e alle amiche della Società italiana delle storiche, spazio per me indispensabile di crescita, scambio e progettazione. Grazie ad Andrea Settis Frugoni per il lavoro redazionale. Senza la disponibilità del personale dell’Archivio centrale dello Stato di Roma e della Biblioteca di storia moderna e contemporanea – con un pensiero speciale per Gisella Bochicchio – questo libro, come molti altri, non sarebbe stato possibile. Infine, un grazie pieno di amore ad Adriano, il fossetta, e Alice, furiachiara, perché accompagnarci è una esperienza meravigliosa.

I Rotte

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1. Malta L’isola dei caffè-concerto Malta ha rappresentato una delle piazze più importanti per la prostituzione internazionale. Protettorato e poi colonia britannica per tutto l’Ottocento e buona parte del secolo successivo, in posizione strategica rispetto al Canale di Suez e al passaggio verso le Indie orientali, importante scalo commerciale e porto di stanza della Royal Navy, il più grande centro medico del Mediterraneo durante la Prima guerra mondiale, per vicinanza geografica e per vicende storiche l’isola ha mantenuto anche una relazione privilegiata con l’Italia. Oltre alla diffusione dell’italiano, a lungo lingua ufficiale dell’isola e la più diffusa tra le classi elevate e negli ambienti letterari, testimoniano questa prossimità anche il movimento irredentista filoitaliano che si è sviluppato negli anni Venti e la costante affluenza di uomini e donne dalla penisola, che a Malta hanno formato una comunità nutrita. Secondo il censimento fatto dal Commissariato generale dell’Emigrazione relativamente agli italiani residenti all’estero nel periodo 1871-1924, in questo lasso di tempo il loro numero sull’isola è triplicato, passando dai 778 rilevati nel 1871 ai circa 2000 del 1911 e 1924.1

1. Commissariato generale dell’Emigrazione, Annuario statistico dell’emigrazione italiana, 1926, disponibile in formato elettronico nella biblioteca digitale dell’Istat. Per i dati riportati si veda Tav. I, Popolazione italiana all’estero alla fine degli anni 1871, 1881, 1891, 1901, 1911 e 1924, p. 1538.

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A rendere Malta un luogo significativo nella mappa della prostituzione internazionale, tuttavia, non è stata solo la sua posizione geopolitica e commerciale, ma anche una particolare e massiccia presenza di music halls (anche conosciuti come cabaret o tabarins). Pur affondando le loro origini nel teatro tardosettecentesco questi locali hanno conosciuto il periodo di massima fioritura nei primi decenni del Novecento. Si trattava di luoghi di intrattenimento, dove si faceva musica dal vivo e teatro, si poteva mangiare, bere e fare incontri, presi d’assalto soprattutto nei fine settimana, quando migliaia di marinai e soldati scendevano a terra (circa 10.000 contati alla fine dell’Ottocento).2 Nei music halls maltesi, i più famosi concentrati a La Valletta, si esibivano per lo più artiste e artisti forestieri: inglesi, ma anche italiane, francesi, ungheresi. Già nel corso dei primi anni del Novecento era opinione diffusa – largamente condivisa dalla stampa locale e britannica – che a Malta i locali di intrattenimento non fossero altro che una copertura per giri di prostituzione, anche di infimo ordine. Secondo queste voci le giovani donne arrivavano attratte con la falsa promessa di contratti ben remunerati nel mondo dello spettacolo e poi erano ingaggiate con paghe da fame, costrette a vivere in tuguri e baracche e a intrattenere gli avventori dei locali notturni con prestazioni sessuali. Man mano che la cattiva fama dell’isola cresceva, di pari passo al numero di soldati che scendevano a terra e foraggiavano il mercato dell’intrattenimento e del sesso a pagamento, in Gran Bretagna prese forma una violenta campagna di opinione che deplorava la sorte riservata alle giovani inglesi sull’isola. Questa campagna rappresentava le inglesi come ingenue ragazze partite con il miraggio di trovare occupazione come artiste o cameriere e poi, invece, sfruttate sessualmente. Messe alle strette, le autorità coloniali britanniche si impegnarono in un’oculata politica di difesa degli interessi e della reputazione imperiale, cercando di limitare drasticamente l’arrivo e l’impiego di donne inglesi nella prostituzione. Contemporaneamente, promossero l’idea che a essere coinvolte in questi giri fossero soprattutto donne straniere e autoctone, maltesi. Addirittura, secondo alcune rilevazioni statistiche diffuse ad arte dopo una serie di operazioni di polizia contro la prostituzione, durante il

2. Si veda Paul Knepper, The “White Slave Trade” and the Music Hall Affair in 1930s Malta, in «Journal of Contemporary History», 2 (2009), pp. 205-220.

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primo trentennio del Novecento le meretrici (inglesi) erano progressivamente scomparse dall’isola. Come ipotizzato da Paul Knepper, la rappresentazione del mondo della prostituzione maltese come un mercato nel quale non erano in servizio le donne inglesi ma solo le altre europee o le locali è un’operazione che la Gran Bretagna ha proposto in molti altri “suoi” contesti coloniali. Essa serviva a proteggere la reputazione e l’immagine degli e delle inglesi come razza dominante, superiori anche in termini di civiltà e moralità.3 È per noi significativo, in questo quadro, che tra le forestiere che godevano di peggior fama, anche perché tra le più numerose, c’erano le italiane. Pur in assenza di una storiografia che abbia finora analizzato il fenomeno, attraverso le fonti di archivio emerge come questo primato abbia implicato, a sua volta, per il governo italiano, preoccupazioni di ordine pubblico e nazionalistico. Proprio questo intreccio tra interessi nazionali diversi e talvolta contrapposti intorno alla prostituzione globale rappresenta uno degli aspetti della sua storia più rilevanti. Italiane a Malta Dieci anni dopo l’arrivo sull’isola di Giuseppa G., precisamente nel febbraio 1904, il console generale a Malta scriveva nuovamente al Ministero dell’Interno per segnalare che «il traffico delle minorenni è nuovamente cominciato in Malta, provenienti dalla prossima Sicilia». La cosa più grave – continuava il console – era che per eludere i controlli e i divieti al momento dell’imbarco a Siracusa, in particolare quelli ad opera del personale di un piroscafo austriaco che faceva il servizio giornaliero su questa rotta, erano i parenti stessi delle giovani ad accompagnarle sull’isola «dove son poi abbandonate alla prostituzione».4 È questa una circostanza, qui solo accennata, che merita di essere sottolineata. Contrariamente a quanto diffuso nella campagna d’opinione sulla tratta delle bianche che in quegli stessi anni tiranneggiava sulla stampa internazionale, che voleva le giovani europee, ingenue e innocenti, vittime di trafficanti oscuri e sconosciuti, ciò che le fonti di polizia e le corrispondenze tra le autorità restituiscono è piuttosto un importante coinvolgimento 3. Ibidem. 4. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s.fasc. Miscellanea, da Regio consolato in Malta a MI, 8 febbraio 1904.

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delle figure familiari (prevalentemente mariti e padri) nella prostituzione delle donne. Sono decenni di transizione: mentre si fa globale, la prostituzione mantiene al suo interno caratteri artigianali e familiari. Così, se mete e piazze sono scelte in buona misura grazie al passaparola, nell’organizzazione dei viaggi, in particolare nel trasbordo e nella “vendita” delle minorenni, sono determinanti i parenti: le sorelle maggiorenni cedono i loro stati di nascita per facilitare la concessione dei passaporti; padri e fratelli accompagnano le ragazze oltre confine; i genitori rilasciano autorizzazioni all’espatrio. Torniamo a Malta nel 1904. Dopo aver ricevuto le lamentele del Consolato, il Ministero dell’Interno diramava una comunicazione indirizzata a tutti i prefetti delle città portuali (da Siracusa a Venezia, Livorno, Lecce, ecc.) perché aumentassero la vigilanza sugli imbarchi delle minorenni che in gran quantità partivano per prostituirsi non solo sull’isola, ma anche in Egitto, a Tripoli e Tunisi.5 Nel 1913, dopo qualche anno di silenzio, l’affluenza di prostitute italiane a Malta diventava oggetto di una nuova accesa diatriba tra le autorità consolari, i Ministeri degli Affari esteri e quello dell’Interno, e i prefetti delle città portuali italiane. In questa occasione anche nelle fonti italiane compaiono i celebri caffè-concerto disseminati nell’isola. Il nuovo console italiano in loco, Stefano Carrara, nell’ottobre del 1913 aveva scritto direttamente ai prefetti di Siracusa, Catania e Messina, perché aveva saputo che nelle tre città erano presenti «incettatori maltesi di artiste destinate ai vari caffè-concerto di Malta stessa per l’imminente arrivo della squadra britannica». In seguito aveva dovuto tuttavia constatare come gli incettatori fossero venuti a conoscenza di queste notizie confidenziali. A fronte anche dei criteri più che discutibili con cui continuavano a essere permessi gli imbarchi di donne sospette, mentre erano vietati per un nonnulla «a persone anche visibilmente dabbene», il console aveva avanzato sospetti sulle prefetture, che evidentemente in più di un caso erano state corrotte. Due, in particolare, sembravano le questioni da affrontare. Da una parte, ancora una volta, veniva esplicitamente evocato il danno che derivava al buon nome della nazione e della comunità degli italiani di Malta da «un così poco onorevole commercio» che faceva sì «che il lupanare e i caffè concerto maltesi, i quali sono del lupanare ivi puramente il vestibolo, con5. Ivi, da MI ai prefetti […], 12 aprile 1904.

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tinuino ad essere, per la guarnigione inglese, scuola di idioma italiano».6 Dall’altra, bisognava trovare un equilibrio tra i diversi interessi in gioco: quello del governo britannico a tollerare la prostituzione straniera e la tratta delle bianche «per le necessità o per i vizi della sua numerosa guarnigione»; quello italiano a intervenire e fare qualcosa «in ordine al quasi esclusivo contributo che alla tratta delle bianche forniva da lunghi anni in quest’isola l’elemento italiano»; quello degli impresari e della malavita locale che, spesso con la complicità delle forze dell’ordine, traevano guadagno proprio dall’approvvigionamento dei caffè-concerto. Una miscela di interessi che proprio nel 1914-15 avrebbe dato luogo a una sequenza di colpi e contraccolpi diplomatici e giudiziari. Fin dal suo insediamento nel 1912, il console Carrara si era convinto che un ruolo speciale nell’arrivo di minorenni italiane e più in generale nel mercato della prostituzione illegale sull’isola lo avesse la polizia locale, in combutta con gli agenti nei porti siciliani. In ragione di questo «convincimento» aveva più volte richiamato il Ministero dell’Interno perché ordinasse inchieste sull’operato delle brigate di mare di Siracusa, Messina, Catania, così come aveva preteso che tutte le comunicazioni tra le due isole fossero cifrate. Parimenti, aveva agito sulle autorità coloniali britanniche affinché abbandonassero l’opportunistico disinteresse per le sorti delle ragazze italiane e si risolvessero a reprimere la corruzione dilagante. Il suo dito era puntato in particolare contro Tancred Curmi, capo della polizia maltese dal 1902, arbitro della vita sull’isola e, stando agli esposti di Carrara, uomo legato alla malavita.7 Nel gennaio 1914 Curmi fece arrestare un esponente di primo piano della comunità italiana sull’isola, il celebre latinista Alfredo Bartoli, professore di lingua e letteratura latina all’Università di Malta e insegnante anche al liceo governativo de La Valletta. Le accuse, secondo Carrara immotivate, parlavano di un coinvolgimento del professore nei giri di prostituzione delle minorenni sull’isola e l’operazione venne letta dal console come un atto di vendetta e una intimidazione rivolta alle autorità italiane sull’isola per la «tempesta» che stavano scatenando contro Curmi. 6. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s.fasc. Malta, da MAE a MI, 3 dicembre 1913. 7. In relazione alla vicenda qui narrata si veda in particolare ivi, il rapporto indirizzato dal R. Consolato generale in Malta a MI, 15 aprile 1914. Le citazioni se non diversamente indicato provengono da qui.

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Lo sgomento, infatti, aveva invaso la comunità degli italiani, anche per la sensazione di essere esposti alle arbitrarie angherie della polizia. La viva protesta del console aveva portato al rilascio immediato del professore e alla destituzione del capo della polizia Curmi, ritenuto responsabile di fatti che stavano per sfociare in una vera e propria crisi diplomatica. Non passava un mese tuttavia, che la contesa tra Stefano Carrara e le autorità locali si riapriva. Ad aprile gli veniva notificato un invito a comparire in giudizio, di fronte a una Corte maltese, su denuncia di Velia C.. La donna era «artista di canto e suddita italiana» e si era vista negare da Carrara il passaporto, documento indispensabile per rimanere sull’isola, perché sospettata di essere in verità una prostituta. Carrara difendeva la propria decisione sostenendo che «a simile categoria femminile il mio Governo ha disposto – come provvedimento di ordine generale – di non concederlo». L’invito a comparire veniva immediatamente interpretato dal ricevente, e così comunicato ai Ministeri dell’Interno e degli Affari esteri, come una chiara ritorsione, una «diretta conseguenza del colpo irreparabile che detta organizzazione [quella per la tratta delle bianche, n.d.a.] ha subìto da detto consolato generale con la ottenuta destituzione dell’exSopraintendente di Polizia».8 I documenti di archivio non ci consentono di stabilire come sia terminata la vicenda, tuttavia essi bastano a mettere in luce alcune questioni. In primo luogo, come accennato, emerge la relazione complessa che sulla scena della prostituzione internazionale si determinava tra il buon nome, la reputazione, l’onore dei diversi Paesi coinvolti: in questo caso il Paese teatro dei traffici, quello esportatore di prostitute, quello colonizzatore. In secondo luogo, questi documenti contengono nuovi ulteriori indizi sulle donne di cui si occupano, ma anche sulle politiche attivate intorno ai «turpi traffici». Velia C., di fronte al diniego ricevuto alla sua richiesta di passaporto, si era rivolta alle autorità per avere giustizia e ricevere un documento che ad altre artiste, come fece notare, era stato accordato pacificamente. Anche lei, come Giuseppa G., mostrò una certa capacità di misurarsi con le istituzioni e autorità, spingendosi ad agire come una lavoratrice a conoscenza delle norme e delle procedure e, sembrerebbe, dei propri diritti. 8. Ibidem.

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Ancora più significativo, alla luce di quanto successe di lì a breve, è il riferimento in questa vicenda a un confine, discusso e considerato dalle autorità consolari discutibile, tra prostitute e artiste. Velia C. si era appellata alla giustizia maltese rivendicando la propria identità professionale di attrice e avocando per sé il diritto di ricevere il passaporto, invece negato alle prostitute italiane dirette a Malta. Il console, dal canto suo, considerava le une assimilabili alle altre, coerente con la campagna di opinione che voleva i caffè-concerto dell’isola un ricettacolo di lenoni e prostitute e, fondamentalmente, un terminale della tratta delle bianche. Il mese successivo Carrara tornava a dare battaglia sullo stesso tema con il Ministero dell’Interno, il Commissariato per l’Emigrazione, con le prefetture delle città portuali siciliane. Instancabile affermava con un telegramma del 15 maggio che «da circa due mesi ricominciò qui per sedicenti caffè concerto dell’isola arrivo canzonettiste italiane destinate forzatamente alla prostituzione» e chiedeva che ne fosse impedito l’imbarco e il rilascio dei passaporti.9 Era il Commissariato per l’Emigrazione, questa volta, a rispondere che effettivamente i passaporti continuavano a essere rilasciati ma a donne che esibivano regolari contratti teatrali o che andavano a raggiungere parenti e che in mancanza di disposizioni diverse non si poteva né impedirne l’imbarco né la concessione del passaporto.10 Dopo un ulteriore giro di rimostranze e consultazioni, la faccenda veniva chiusa a luglio, con un sostanziale successo del Consolato a Malta, che non solo vedeva accolto il suo teorema, ma incassava anche nuovi poteri di controllo sui flussi migratori. Il 20 luglio 1915 il Ministero degli Affari esteri, nella figura del Commissariato dell’Emigrazione, emanava nuove disposizioni a tutti i prefetti del Regno. La circolare premetteva che il rifornimento di canzonettiste per i locali dell’isola, dove si esercitava più o meno palesemente la prostituzione, era fatto soprattutto tra le italiane e, quindi, era urgente «nell’interesse del buon nome del nostro Paese far cessare la vergognosa incetta». Per questa ragione disponeva che non potesse essere «rilasciato il passaporto per Malta a giovani donne che non siano accompagnate o non vadano a raggiungere parenti stretti (marito, padre e fratelli costituiti in famiglia) nonché alle canzonettiste 9. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s.fasc. Malta, Telegramma al MI 13 maggio 1915. 10. Ivi, Commissariato dell’Emigrazione a MI, 8 giugno 1915.

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ed in genere, alle artiste di caffè concerto, se le medesime non esibiscono un certificato del Consolato Generale di Malta dal quale risulti che nulla osta da parte di quel R. Ufficio all’espatrio della persona che ha richiesto il passaporto».11 2. Tripoli e Bengasi Una questione di ordine pubblico Alla fine dell’estate del 1913 proprio da Malta partirono diverse giovani italiane, arruolate da una certa Lucia A., lì dimorante, dirette a Tripoli, dove un’altra donna italiana le avrebbe aspettate. Munite di falsi passaporti, che le facevano passare per donne europee ma di altra nazionalità, si sarebbero potute così iscrivere nelle case di prostituzione dei nuovi possedimenti italiani.12 Tanto si era appreso intercettando la corrispondenza tra le due organizzatrici del traffico e tanto si era premunito il Ministero dell’Interno di comunicare all’ormai a noi noto console generale di Malta. Se dal canto suo Carrara si affrettava a rassicurare che la vicenda non lo coglieva affatto di sorpresa, perché già conosceva da lungo tempo Lucia A. avendole più volte rifiutato il passaporto e che «anzi […] onde non essere tratto in inganno [il consolato] ha sempre rifiutato il passaporto ad ogni donna non accompagnata dal marito o dalla famiglia diretta a Tripoli»,13 gli accenni a questa breve vicenda ci traghettano verso un altro importante centro del mercato del sesso di inizio Novecento. Nella mappa della prostituzione internazionale vista dalla prospettiva italiana, Tripoli e Bengasi, ma anche Merg e Misurata, hanno rappresentato uno snodo fondamentale, prima di tutto in virtù della relazione di dominio coloniale che ha legato l’Italia alla Libia.14

11. Ivi, Circolare del Commissariato dell’Emigrazione, 20 luglio 1915. 12. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 54, fasc. Lucia A. 13. Ivi, Regio consolato generale in Malta a MI, 18 settembre 1913. 14. Attinto dal patrimonio classico, il termine Libia tornò in uso proprio nei documenti e nella pubblicistica italiana all’indomani dell’occupazione per indicare le due regioni, e future colonie, della Tripolitania e della Cirenaica. Ufficialmente alla colonia, compresa la regione del Fezzan, venne dato il nome di Libia solo nel 1935.

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Il riferimento, dunque, non è tanto alla dimensione quantitativa del fenomeno, laddove le prostitute italiane sono state sicuramente più numerose in altri centri del Mediterraneo (come Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Tunisi), quanto piuttosto alle questioni politiche sollevate dalla loro presenza. Tracce degli sbarchi di prostitute italiane a Tripoli si hanno anche per gli anni precedenti all’occupazione e vanno inserite nel quadro di una generale mobilità tra i Paesi del Mediterraneo delle prostitute, in cerca di migliori opportunità e nuove esperienze nei centri dove le comunità degli europei crescevano. Prendiamo in considerazione, ad esempio, il rapporto che il Regio console generale d’Italia in Tripoli, Augusto Medana, inviò al Ministero dell’Interno nel 1903.15 L’autore apriva il testo segnalando come «da tempo si va riscontrando un accorrere a Tripoli di donne italiane da Tunisi, da Malta e dall’Italia, che appena qui giunte vanno a popolare i lupanari della città». Alcune arrivavano sole, altre accompagnate da «protettori», quasi tutte prive dei necessari documenti, compreso il visto consolare. Medana aveva ordinato diverse perquisizioni dei postriboli tripolini e in più di un’occasione erano state trovate delle minorenni. Delle quattro di cui indicava le generalità nel rapporto, fatte rimpatriare a Siracusa perché il prefetto le restituisse alle loro famiglie, si apprende che avevano tutte intorno ai 20 anni, erano siciliane o napoletane e mentre due avevano regolare passaporto, due erano prive di documenti. Per evitare l’emigrazione a Tripoli «di un elemento che non è di natura ad accrescere onore e prestigio al nome italiano», il console chiedeva che la società Navigazione generale italiana (NGI), incaricata in modo esclusivo della tratta Italia-Malta-Tripoli, fosse istruita a non imbarcare sui suoi piroscafi donne sprovviste dei necessari visti. Chiarito, tuttavia, come la NGI non fosse tenuta – né avesse interesse – a espletare operazioni di controllo di questo tipo, il Ministero degli Affari esteri faceva notare a quello dell’Interno16 come la soluzione non fosse facile. La legge sull’Emigrazione (l. 23 del 31 gennaio 1901), la prima legge che in Italia aveva provato a governare in modo sistematico il fenomeno, dava 15. In ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s. fasc. Prostitute italiane a Tripoli, Tunisia, Cairo, Malta. 16. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s. fasc. Prostitute italiane a Tripoli, Tunisia, Cairo, Malta, MAE a MI, 16 febbraio 1904.

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potere alle autorità di impedire la partenza per l’estero solo delle prostitute minorenni. Diversamente, nessuna norma vietava l’emigrazione delle meretrici maggiorenni, tanto più che in Italia come in molti Paesi di arrivo esistevano forme di prostituzione autorizzata e regolamentata dalle autorità. Si tratta di un’indicazione molto importante: fino alla vigilia della Grande Guerra, infatti, il governo italiano non ha adottato alcuna misura di limitazione dell’espatrio delle prostitute maggiorenni, evidentemente ancora impreparato di fronte ai nuovi scenari della prostituzione globale. In questo vuoto normativo, di fronte alle preoccupazioni per la reputazione della nazione legate all’alto numero di meretrici emigrate, si è provato a rispondere di volta in volta con strumenti emergenziali. Così, nel 1903, per governare l’afflusso di prostitute italiane a Tripoli, l’unica strada percorribile sembrò ai due ministeri quella di appellarsi a un’interpretazione mirata del regolamento sul rilascio dei passaporti per l’estero, fissato nel Regio decreto 36 del 31 gennaio 1901.17 In particolare l’art. 3 elencava le circostanze e i soggetti per i quali i sindaci dovevano negare la dichiarazione di nulla osta e i prefetti il rilascio del passaporto. Tra questi vi erano i minorenni e le minorenni che sarebbero stati impiegati in industrie e lavori pericolosi all’estero e nella prostituzione, ma figurava pure una classe indefinita (al punto 10) che comprendeva tutte «le persone alle quali per altre disposizioni sia fatto espresso divieto di espatriare». L’art. 9 risultava ancora più appropriato per le circostanze in questione, laddove precisava che «il Ministero degli Affari Esteri, d’accordo con il Ministero dell’Interno, può temporaneamente sospendere il rilascio dei passaporti per una determinata destinazione, per motivi d’ordine pubblico […]». Secondo il Ministero degli Affari esteri, per risolvere la situazione allarmante che si stava registrando nelle città dell’altra sponda del Mediterraneo, non rimaneva che appellarsi a questi articoli e «sospendere il rilascio dei passaporti per Malta, la Tunisia e la Tripolitania a donne che notoriamente ed esclusivamente esercitano il meretricio, ed ai turpi speculatori che le accompagnano».18 17. Pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 14 febbraio 1901. 18. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s. fasc. Prostitute italiane a Tripoli, Tunisia, Cairo, Malta, MAE a MI, 16 febbraio 1904.

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Pochi mesi dopo una nota del Ministero dell’Interno era indirizzata ai prefetti del Regno, intitolata «prostitute italiane a Malta, Tunisi e Tripoli».19 Dopo aver fatto riferimento alle continue lamentele che provenivano dalle autorità consolari per «l’inconveniente» causato «dall’affluire di donne di mal’affare, specialmente minorenni, e di lenoni» nei tre luoghi, il ministro invitava a non rilasciare i passaporti alle suddette donne, così da impedirne l’imbarco. La direttiva, tuttavia, suscitò le perplessità della prefettura di Catania, che la trovava troppo ambigua (“invitava”, non “disponeva”) e in più non chiariva come si dovesse agire nei confronti di quelle donne che dal resto dell’Italia arrivavano a Catania già munite di passaporto, solo per imbarcarsi. A giugno il Ministero degli Affari esteri esprimeva il suo parere e ammetteva che nel caso di donne che arrivavano nel porto siciliano con un passaporto valido per Malta, Tunisi e Tripoli, a meno di gravi motivi, non se ne poteva vietare l’imbarco. Più in generale, al sottosegretario di Stato che firmava, sembrava «eccessivo vietare il passaporto per l’estero alle prostitute, qualunque sia la loro destinazione».20 L’ambiguità e mutevolezza degli atteggiamenti istituzionali nei confronti delle prostitute migranti italiane registrata nelle fonti non sono casuali. Esse in parte riflettono il grande dibattito che ha interessato le potenze europee nel corso dell’espansione coloniale e commerciale nel Mediterraneo e in Asia circa il rapporto tra costi e benefici della prostituzione “bianca” all’estero. Come in parte si è già detto, da una parte e verso il divieto di espatrio spingeva la preoccupazione per il danno di immagine e il disonore che queste donne, dissolute e vendute, acquistabili e disponibili, arrecavano alle nazioni europee, che sarebbero dovute essere campioni di civiltà e di moralità superiori. Dall’altra, e verso l’opportunità di questo genere particolare di emigrazione, lavorava la pragmatica consapevolezza che la massa di uomini europei “soli”, soldati o lavoratori, che si trovavano nelle colonie domandavano prostituzione e servizi sessuali a pagamento e che in assenza o limitata disponibilità di donne europee si sarebbero rivolti alla popolazione femminile locale. In questa prospettiva, sono maggiormente comprensibili sia la varietà di posizioni che potevano coesistere tra esponenti anche di uno stesso 19. Ivi, MI ai Prefetti del Regno, 12 aprile 1904. 20. Ivi, MAE a MI, 30 giugno 1904.

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governo, sia i cambiamenti nell’indirizzo delle politiche che pure si sono registrati nel tempo. A tal proposito, come anticipato, il caso della Tripolitania e della Cirenaica, per l’Italia, si rivela particolarmente illuminante perché teatro di diversi mutamenti di indirizzo nelle politiche adottate nell’arco di pochi anni. I carteggi e rapporti istituzionali finora analizzati ci hanno raccontato di una presenza importante di prostitute italiane in Tripolitania, in particolare a Tripoli, prima dell’occupazione. La stessa situazione sembrava esserci a Bengasi e più in generale in Cirenaica. La viaggiatrice e archeologa autodidatta Emilia Rosmini nel 1910 intraprese un viaggio a Creta accompagnando il marito, lo storico antichista Gaetano De Sanctis, seguito a breve da un altro tour della Cirenaica, dei quali ha lasciato una memoria letteraria.21 A Bengasi, fotografando la popolazione europea nel momento di transizione dal governo turco a quello italiano, notava come questa comunità fosse composta da moltissimi maltesi, francesi, tedeschi e, soprattutto italiani, che con le loro scuole diffondevano «a dispetto del padrone di casa - la lingua e lo spirito della nostra terra». Purtroppo, doveva notare subito dopo, «non ultimo simbolo di civiltà sono anche quelle brave signore, le quali edificano, specie quando sono per di più canzonettiste, con le loro movenze più o meno procaci e coi loro canti più o meno equivoci, questi buoni barbari».22 Si tratta di una delle ultime immagini disponibili degli ambienti, ancora informali e promiscui, della prostituzione delle italiane in Cirenaica prima dell’occupazione e della regolamentazione e irreggimentazione che ne seguì. Scenari della prostituzione ai tempi dell’occupazione coloniale A condurci nella perlustrazione degli scenari successivi è un funzionario di polizia in servizio a Tripoli dal 1913, Luigi Salerno, autore di La polizia dei costumi a Tripoli del 1922.23

21. Emilia De Sanctis, Dalla Canea a Tripoli. Note di viaggio, Roma, Bernardo Lux, 1912. 22. Ivi, p. 241. 23. Pubblicato a Lugo, editore Trisi. Un profilo di Luigi Salerno è in Jonathan Dunnage, Mussolini’s Policemen: Behaviour, Ideology and Institutional Culture in Representa-

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Nato nel 1885 a Gallipoli (Lecce), delegato di Pubblica Sicurezza nel 1907, grazie alla sua conoscenza dell’arabo venne mandato in Libia dopo l’occupazione, nella Divisione della polizia giudiziaria e sotto il Ministero delle Colonie. Qui rimase, a esclusione del periodo bellico, fino al 1920, quando la sua condotta poco limpida (venne accusato di aver insabbiato un’indagine) ne provocò il rimpatrio in Italia, a Lugo. Nel comune del ravennate diede alle stampe i risultati del suo studio del mondo della prostituzione a Tripoli, esito della sua partecipazione a una commissione di inchiesta che nel 1919 aveva cercato di porre rimedio alla prostituzione clandestina e alla diffusione delle malattie veneree in città. Lo stile che aveva scelto era fortemente ispirato a quello degli studi che già da qualche anno circolavano sulla prostituzione a Tunisi e redatti da autori e osservatori francesi, più volte citati da Salerno. La prostituzione in Tripolitania, chiariva l’autore, fin dal 1913 venne disciplinata con lo stesso regolamento valido nella madrepatria, quello del 1891, pur con qualche deroga. Erano confermate le disposizioni riguardanti i controlli sanitari, la registrazione delle prostitute, i permessi necessari per aprire una casa di tolleranza e gli obblighi di misure igieniche e di riservatezza (le prostitute non potevano prendere parte a spettacoli pubblici, frequentare caffè o teatri, e dovevano viaggiare in vetture coperte). Una prima distinzione, tuttavia, riguardava l’età minima necessaria per esercitare il mestiere: mentre per le prostitute europee le tenutarie avevano l’obbligo di esibire un documento che attestasse la loro maggiore età, per le indigene era richiesto solo un certificato di idoneità al meretricio. Altra prescrizione specifica per la colonia era quella secondo cui le tenutarie di case di tolleranza, in concorso tra loro, dovevano provvedere all’affitto della casa sita a Sciara El Bas n. 49, adibita alle visite mediche periodiche. Vale la pena notare, per inciso, che l’autore si riferisce alla figura della tenutaria sempre al femminile, evidentemente subendo l’influenza delle sue letture francesi sulla prostituzione a Tunisi. Infatti, mentre il regolamento italiano non operava distinzioni o fissava requisiti di genere ed età per aprire e gestire una casa di tolleranza, il sistema francese prevedeva per Tunisi «che le case di tolleranza non possono essere tenute da uomini celibi o vecchi […]».24 tion and Practice, Manchester-New York, Manchester University Press, 2012, pp. 147149. 24. Salerno, La polizia dei costumi a Tripoli, p. 40.

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All’indomani dell’occupazione italiana a Tripoli c’erano 24 case di tolleranza, quasi tutte concentrate nelle vie malfamate e strette di quella che sarebbe diventata l’area della città vecchia. Da subito si mostrarono insufficienti a soddisfare il numero di militari presenti in città. Nel 1913, a fronte delle pessime condizioni edilizie e igieniche, l’Ufficio tecnico municipale ne ordinò la demolizione e ricostruzione, sperando di ottenere così situazioni più salubri. Nella maggioranza, circa 15, erano case arabe, le altre gestite e frequentate da ebrei e francesi. Accanto alla prostituzione regolamentata, Salerno chiariva che durante i suoi anni di permanenza a Tripoli non erano mai mancate sacche di prostituzione clandestina, indotte anche dai rigidi e costosi controlli sanitari altrimenti obbligatori. Nella scala etnica delle prostitute di cui si dava conto nella ricognizione, il gradino più basso era ovviamente occupato dalle «indigene», ritratte da Salerno come luride, vestite di stracci, malate e brutte. A un gradino più alto erano le prostitute ebree, «pubbliche o clandestine, [tra le quali] si trovano tipi più attraenti, spesso bellezze vere, ed hanno maggiore confidenza con la pulizia e una certa ricercatezza nel vestire».25 Prezzi più alti, maggiore eleganza, clienti più raffinati, infine, si trovavano nei bordelli dove lavoravano le francesi. In questo elenco non compaiono le italiane. Salerno chiarisce finalmente come interpretare quel riferimento, seppur fugace, che nel caso delle giovani che da Malta sarebbero state portate a Tripoli, citato in apertura di questo paragrafo, era fatto alla falsificazione dei passaporti per “cambiare” la nazionalità delle italiane. Una «sana politica di governo» aveva implicato che dal momento dell’occupazione alle donne di nazionalità italiana fosse vietato di esercitare il mestiere, per salvare il buon nome della nazione. La misura, tuttavia, non aveva portato ai risultati sperati, capovolgendosi da subito nel suo contrario. Non era bastata a impedire che «mentre si chiudeva la porta alle prostitute patentate, si apriva il portone ad un esercito di artiste da teatro, canzonettiste, domestiche ecc. che sotto un’etichetta diversa facevano più di quello che avrebbero potuto fare le altre».26 Per quello che aveva potuto verificare Salerno, inoltre, il provvedimento aveva compromesso il principale obiettivo del governo: quello di impedire le relazioni interrazziali o, meglio, di favorire la concordanza 25. Ivi, p. 53. 26. Ivi, p. 54.

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etnica tra prostitute e clienti. «L’intendimento – vale a dire – che gli europei non debbano aver contatto con le prostitute indigene e gli indigeni con donne europee».27 Un progetto inattuabile, che poteva «essere enunciato soltanto stando molto lontani dalla colonia», perché una volta vietata l’immigrazione delle prostitute italiane, contate in non più di 15 le prostitute di altre nazionalità in servizio regolare a Tripoli, veniva da sé che militari e coloni si rivolgessero alle indigene e al mercato clandestino. Nonostante gli sforzi delle autorità e la promessa di più lauti guadagni, l’arrivo delle francesi, candidate a essere le naturali sostitute delle italiane, non raggiunse mai livelli soddisfacenti. Che a Tripoli ci fosse una cronica deficienza di meretrici era noto anche negli ambienti della prostituzione in Europa e tramite il passaparola diverse, ma non abbastanza, videro nell’emigrazione in Libia un’occasione di lavoro. Alcuni indizi delle storie di queste donne provengono dalla documentazione di polizia prodotta quando richiedevano di iscriversi regolarmente a una casa di tolleranza a Tripoli.28 Nelle poche righe a disposizione, la ventiseienne cittadina francese Giulia Gabriella J. raccontò ad esempio di aver vissuto prima a Grenoble, dove aveva iniziato a esercitare il mestiere, e poi a Ginevra: «ove mi decisi a recarmi a Tripoli ove sapevo si ricercavano prostitute straniere».29 A Tripoli arrivò, ottenendo l’autorizzazione a restare, nel giugno 1913. Nello stesso periodo sbarcò Clementina G., anche lei francese, 24 anni. Partita da Parigi e passata attraverso la linea di Modane, era arrivata a Torino nella primavera e aveva «saputo che a Tripoli si ricercavano prostitute francesi». Fece con successo «le pratiche per essere autorizzata a recarmi qui».30 Nel giro di pochi giorni fu la volta di Girardi G., ventiduenne francese, che seguendo evidentemente gli stessi canali e frequentando lo stesso giro di

27. Ivi, p. 55. 28. All’Archivio Centrale dello Stato di Roma sono conservati centinaia di verbali di interrogatorio di prostitute straniere, redatti su un modello prestampato quando finivano in un ufficio di Pubblica Sicurezza perché fermate o perché vi si rivolgevano spontaneamente per segnalare la casa di tolleranza a cui si sarebbero iscritte, come prevedeva il regolamento. Cfr. ACS, MI, DGPS, Div. Polizia Giudiziaria, 1913-15, cat. 10900.21, bb. 54-59, fascicoli nominali. I nomi propri delle straniere e degli stranieri sono stati italianizzati nelle fonti italiane e così saranno riportati nel testo. 29. Ivi, b. 56, fasc. nominale. 30. Ivi, b. 56, fasc. nominale.

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Clementina, si trasferì da Parigi a Torino «ove chiesi e ottenni il passaporto per Tripoli sapendo che qui si ricercavano prostitute francesi».31 La colonia italiana, quindi, già nei primi anni dell’occupazione si era guadagnata la fama di una piazza dove era possibile fare affari redditizi. Ne approfittò anche, tra gli altri, Leonardo A., quasi quarantenne nel 1915. Nato a Mazzara in Sicilia, l’uomo risiedeva da diverso tempo a elMerg (oggi Al-Marj), ma aveva anche alloggio a Roma. Tra il centro della Cirenaica e la capitale italiana faceva la spola proprio per reclutare giovani straniere, preferibilmente francesi, da impiegare nel suo postribolo. Alle autorità di P.S. romane che si interessarono a lui su segnalazione di quelle francesi, Leonardo A. non esitò, infatti, a dichiarare «di condurre a Merg in società con certo Giuseppe G. un postribolo debitamente riconosciuto e di essere tornato in Italia per condurre con sé n. 6 donne per uso di detto postribolo, giusta l’unita autorizzazione del 5 aprile decorso, accordatagli dall’Ufficiale incaricato delle funzioni politiche del presidio della località stessa».32 Escluso con ulteriori indagini che l’uomo «avesse cercato di ingaggiare donne di minore età», si interrogarono le tre francesi e la spagnola da lui già contattate ed in procinto di partire da Roma. La polizia voleva capire se erano a conoscenza delle ragioni del viaggio o erano state ingannate e che intenzioni avessero. Le quattro vennero descritte dalla questura romana «tutte di facili costumi», ma mentre due si dichiararono ignoranti del vero scopo della trasferta e chiesero di essere rimpatriate nei loro Paesi d’origine, altre due confermarono la volontà di seguire l’uomo. Giovanna T. raccontò di aver incontrato Leonardo A. tramite un’amica comune prima a Genova e poi di averlo rivisto a Roma. Proveniente dalla Francia, ventunenne, la giovane donna si era già impiegata in Italia come prostituta, ma privatamente. L’uomo le aveva promesso un ingaggio come cameriera di un caffè («kellerina») a el-Merg, dicendole che poi se avesse voluto avrebbe potuto «a sua volontà» anche prostituirsi; non le disse mai però di volerla «collocare in una casa di prostituzione». Se lo avesse fatto, chiariva lei, avrebbe comunque «liberamente accettato, trovandomi in critiche condizioni economiche».33

31. Ivi, b. 56, fasc. nominale. 32. Ivi, fasc. nominale intestato a Leonardo A., Giovanna T., Sylvia D., Reyne F., Montoya L., Regia Questura di Roma a MI, 6 maggio 1915. 33. Ivi, Verbale di interrogatorio a Giovanna T., 5 maggio 1915.

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L’altra protagonista di questa vicenda, la trentenne francese di Algeria Reyne F., nubile e di professione artista di canto, rispose a sua volta di essere arrivata a Roma da pochi giorni proveniente da Bengasi. Qui, dove era approdata venendo da Malta dopo essere stata anche a Rodi e a Smirne, per sei mesi aveva esercitato la prostituzione «in una casa per borghesi e ufficiali». Aveva conosciuto Leonardo A. in un periodo imprecisato (ma forse proprio facendo sponda nel tragitto tra Smirne, Rodi e Malta) in Egitto. Intendeva seguirlo a Merg perché lui le aveva promesso di «associarla» a una casa di tolleranza.34 La scarsità di prostitute europee in Libia, insufficienti a coprire la domanda proveniente da una comunità di uomini italiani (soldati, commercianti e lavoratori, personale dell’amministrazione) in progressiva crescita, indusse ciclicamente le autorità coloniali e il governo centrale a discutere sull’opportunità o meno di aprire anche all’impiego regolamentato delle prostitute italiane. Tanto più che esse, come si è visto anche dalle lamentele del Consolato, comunque andavano a ingrossare il mercato clandestino. Nel 1918 fu tentato un primo esperimento di revoca del divieto: per le «prostitute metropolitane» divenne possibile andare a lavorare in colonia e venne aperta una casa di tolleranza italiana, inizialmente riservata a funzionari civili e ufficiali, ma progressivamente frequentata da chiunque, a esclusione degli indigeni. «Trattavisi di un postribolo di primo ordine, con tariffe alquanto elevate, frequentato da buono elemento».35 Dopo un anno, la tenutaria ottenne l’autorizzazione ad aprire una succursale a Zuara, ugualmente con ragazze italiane, destinata ai militari della zona. Alla fine del 1920, tuttavia, il Governatore della Tripolitania cambiò indirizzo e tornò al divieto di prostituzione per le italiane in colonia. Una decisione ribaltata ancora tre anni dopo, nel febbraio 1923, quando furono definitivamente aperte le porte della Tripolitania e della Cirenaica alle meretrici italiane. La decisione del 1923, se da una parte è espressione di valutazioni che erano già state fatte in età liberale, dall’altra è decisamente figlia dell’approccio adottato da Mussolini e dal fascismo in materia. Questo sostanzialmente ruotava intorno a due obiettivi di ordine generale: incanalare e governare la prostituzione, promuovendo e migliorando la regolamentazione e perseguendo, quotidianamente e anche brutalmente, quella clandestina; 34. Ivi, Verbale di interrogatorio a Reyne F., 6 maggio 1915. 35. Salerno, La polizia dei costumi a Tripoli, pp. 56-57.

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minimizzare, in colonia, le occasioni di relazioni interrazziali, favorendo la concordanza etnica tra cliente e prostituta.36 Benché la questione della prostituzione coloniale in riferimento alla Libia sia stata quasi del tutto ignorata dalla storiografia, a eccezione dei riferimenti che le dedica Barbara Spadaro,37 essa emerge come un laboratorio di politiche cruciale, campo di sperimentazione di misure e provvedimenti che saranno poi riproposti nelle altre colonie italiane, Etiopia ed Eritrea soprattutto, più studiate negli importanti lavori di Giulia Barrera, Giulietta Stefani, Barbara Sorgoni. Pur nella diversità delle storie coloniali dei tre Paesi e dei tempi con cui si impose l’imperativo di governare la dimensione razziale delle relazioni sessuali, essi sono accomunati dall’adozione di regimi segregazionisti, che hanno avuto nella promozione della prostituzione delle bianche, comprese le italiane, un perno fondamentale.38 Prostitute italiane in colonia In Tripolitania, dunque, dopo che un decennio di sperimentazione di “proibizionismo” verso le meretrici italiane aveva solo portato queste a ingrossare il mercato clandestino e, da parte loro, i clienti a rivolgersi anche alle indigene, si optò per una politica di vigilata apertura di case di tolleran36. Una ricostruzione a grandi linee delle politiche fasciste nei riguardi della prostituzione e della presenza delle prostitute italiane in colonia, in particolare le più studiate Etiopia ed Eritrea, è in Limoncelli, The Politics of Trafficking, pp. 133-143. 37. Barbara Spadaro, con il suo Una colonia italiana. Incontri, memorie e rappresentazioni tra Italia e Libia (Firenze, Le Monnier, 2013) ha portato nella storiografia italiana un’analisi, anche di genere, dell’immaginario coloniale suscitato e costruito intorno alla conquista della Libia. Per i temi qui trattati si veda in particolare la parte Genere. Sessualità e definizione della bianchezza nella costruzione della Libia italiana, pp. 30-40. 38. Giulietta Stefani, nel suo Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere (Verona, Ombre Corte, 2007) discute il tema soprattutto nel terzo capitolo, dove si trovano anche delle interessanti testimonianze e memorie di soldati che raccontano la penuria di prostitute bianche in Africa orientale, il ricorso alle clandestine e alle indigene, le politiche di favoreggiamento della prostituzione italiana a partire dal 1935. Per l’Eritrea, dove a lungo ha lavorato la distinzione tra prostituzione e concubinato e sono sopravvissute diverse sfumature di tolleranza verso le unioni miste, si veda tra i suoi tanti lavori Giulia Barrera, Sex, Citizenship and the State: The Construction of the Public and Private Spheres in Colonial Eritrea, in Perry Willson (a cura di), Gender, Family and Sexuality: The Private Sphere in Italy 1860-1945, New York, Palgrave Macmillan, 2004, pp. 157-172. Fondamentale per il tema anche Barbara Sorgoni, Parole e corpi: antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea, 1890-1941, Napoli, Liguori, 1998.

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za italiane. In breve, come era prevedibile, il numero di italiane aumentò e, soprattutto, iniziò a essere rilevato con maggiore efficacia. Nel 1925 il Governo della Cirenaica compilò un primo elenco delle prostitute italiane arrivate nel biennio precedente che può fornirci elementi utili per quantificare e qualificare meglio il fenomeno.39 Complessivamente erano arrivate 40 prostitute che avevano chiesto di iscriversi nelle case di tolleranza: 15 nel 1923 e altrettante nel 1924, 10 solo nei primi cinque mesi del 1925, quando fu redatto l’elenco. In gran parte avevano tra i 25 e 30 anni (5 più di 30 e 7 tra i 22 e i 24 anni) ed erano arrivate tutte non accompagnate e direttamente dall’Italia. Altri due documenti, forniti questa volta dal Governo della Tripolitania al Ministero dell’Interno nel 1939, forniscono ulteriori indizi sull’esperienza delle prostitute italiane in colonia.40 Si tratta di due “censimenti”, uno di maggio e l’altro di luglio, in cui sono segnalati gli arrivi e le partenze di prostitute italiane nei due mesi, con l’indicazione anche della provenienza e della destinazione. Informazioni utili per farsi un’idea più precisa del tempo medio di permanenza e lavoro in colonia per queste donne e delle loro traiettorie. Nel primo elenco, relativo al periodo 1-31 maggio, sono censite 35 donne. 11 sono le nuove arrivate e solo una, giunta a Tripoli da Castel Benito (oggi Ben Gascir, cittadina situata a circa trenta km a sud della capitale libica) ripartì prima della fine del mese, andando a Verona. Delle altre 10 sappiamo che cinque arrivarono da città portuali italiane (Catania, Siracusa, Taranto, Messina e Palermo), e cinque da altri centri della Tripolitania (Misurata, Iefren, Giado, Homs). Molte più di quelle che arrivarono furono quelle che a maggio lasciarono Tripoli: 25. Analizzando le poche informazioni a disposizione si ricavano alcune suggestioni. La maggior parte delle donne rimase a Tripoli per un periodo di 2-3 mesi (16 su 25), mentre qualcuna andò via dopo un mese (2) e solo 3 donne prolungarono il loro soggiorno per 6-7 mesi. Si trattava dunque di una destinazione provvisoria, da cui spostarsi verso altre mete della prostituzione coloniale, o temporanea, prima del rientro nella penisola. Incrociando i dati relativi ai luoghi da cui provenivano arrivando a Tripoli e alle destinazioni dichiarate al momento della partenza, ricaviamo altri indizi. 15 donne provenivano dall’Italia «metropolitana» (Palermo, 39. In ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 6, fasc. 41. 40. In ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 6, fasc. 40.

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Siracusa, Napoli, Trieste prevalentemente) e 13 di loro lì tornarono dopo la parentesi tripolina. Delle 10 provenienti già dal territorio coloniale, 6 proseguirono le loro peregrinazioni dirigendosi soprattutto in altri centri della Tripolitania (Castel Benito, Homs, Giado, Misurata, ma anche Bengasi in Cirenaica). Disegnavano traiettorie che univano, ad esempio, Misurata-Tripoli-Homs, come nel caso di Isabella P., della quale sappiamo solo che nel 1939 aveva 41 anni, o Homs-Tripoli-Castel Benito, come per la ventiquattrenne Stella C., o ancora Bengasi-Tripoli-Giado percorsa dalla trentenne Jolanda G. I movimenti registrati per il mese di luglio confermano questo scenario, con delle piccole variazioni. Le donne segnalate sono in questo caso 46 e tra queste ci sono 23 nuove arrivate, 12 in più di quante se ne erano contate a maggio. Avevano quasi tutte tra i 25 e i 30 anni, a eccezione di 5 più giovani (3 ventiquattrenni e 2 ventitreenni) e di 8 oltre i 30, tra le quali una trentanovenne e una donna napoletana di 55 anni, molto probabilmente una tenutaria piuttosto che una prostituta. Dai dati delle 27 che lasciarono Tripoli nel luglio 1939, si evince che anche tra loro solo due donne rimasero in città per un periodo più prolungato (Caterina P., 39 anni, proveniente da Siracusa e poi diretta a Milano vi rimase per 15 mesi, mentre Giovanna M., 29 anni, arrivata da Siracusa e diretta a Firenze, 7 mesi). Le altre rimasero quasi tutte 2-3 mesi, a eccezione di 4 donne che ripartirono dopo pochi giorni dall’arri vo e che sembrano però aver avuto esperienze tra loro diverse. Giulia S. soggiornò a Tripoli solo per 20 giorni, proveniva e ritornò a Sirte e anche se le poche informazioni disponibili non permettono di elaborare ipotesi, è lecito sospettare che si trattasse di una tenutaria, con l’attività a Sirte, magari venuta a Tripoli a reclutare nuove arrivate; al contrario Sandra S. e Adriana P., 23 e 25 anni, erano arrivate rispettivamente da Catania e Palermo e si reimbarcarono per Siracusa dopo poche settimane, lasciando presumere che a Tripoli non avessero trovato ciò che si aspettavano. Anche in questo elenco di donne, infine, ne compaiono diverse per le quali Tripoli è stata una tappa, non la sola, di un tour della prostituzione coloniale: Angiolina R., ad esempio, dopo essere stata tre mesi a Tripoli si diresse a Garian, verso sud; Olga S. fece lo stesso percorso, ma dopo un solo mese dall’arrivo; Virginia P., invece, andò a Bengasi, mentre Iolanda M., proveniente da Homs, si fermò tre mesi a Tripoli e poi proseguì verso Castel Benito. Le traiettorie ricostruite attraverso questi elenchi credo permettano di fare un’ulteriore considerazione rispetto alla topografia della prostituzione

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internazionale e coloniale in Tripolitania e Cirenaica. Si è trattato, come si è visto, di un fenomeno decisamente urbano, che ha avuto come perno Tripoli, tra le poche realtà controllate dagli italiani già al termine delle operazioni di conquista iniziate nel 1911. Nonostante la Pace di Losanna del 1912, che poneva fine alla guerra italo-turca, il dominio italiano nel resto del territorio della Tripolitania e della Cirenaica rimase a lungo precario e debole, quando non assente. L’accanita resistenza araba venne piegata solo a partire dai primi anni Venti, con l’avvio di una rinnovata stagione di azioni militari e di polizia patrocinate dal nuovo Governatore della Tripolitania Giuseppe Volpi e rafforzate poi dal Governatore generale di Tripolitania e Cirenaica Pietro Badoglio. L’apertura di nuove piazze e di nuovi itinerari della prostituzione coloniale, che univano ad esempio Tripoli e Bengasi a Misurata, Homs, Zuara, Tarhuna, si ebbe quindi in modo più consistente solo in un secondo tempo, negli anni Venti e Trenta. Da Napoli a Tripoli: tracce di una piccola impresa Al pari di Malta, dunque, la piazza tripolina, ma anche i centri della Cirenaica, erano negli anni Venti e Trenta mercati a cui prostitute e tenutarie guardavano con interesse. Le case di meretricio qui aperte di solito erano succursali di case già attive nelle città del Regno, un investimento che la tenutaria faceva per allargare il suo giro e aumentare i guadagni. Generalmente dunque erano frutto dell’iniziativa di singole persone, che avviavano così piccole imprese transnazionali. È il caso di Virginia P. una donna di 57 anni nata e vissuta a Napoli che nel 1924 risultava tenutaria di due case di tolleranza a Tripoli, dove viveva almeno dal 1920, e di una a Misurata Marina. Dagli atti di un processo che la vide imputata con l’accusa di avere con l’inganno tentato di far prostituire a Tripoli la cameriera napoletana Rosaria P., provengono diversi indizi sulle dinamiche che si creavano intorno alla prostituzione in colonia. Un primo elemento di grande interesse è nelle dichiarazioni rese dal maresciallo dei carabinieri Mario Muti, addetto alla squadra del Buon costume e responsabile delle indagini sul caso. L’uomo fissava come punto di innesco della vicenda un accordo che sarebbe stato raggiunto tra il Questore di Tripoli e quello di Napoli secondo cui «data la scarsezza di donne di piacere nelle case gestite da P.», il Questore partenopeo facilitava «il

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rifornimento di tali case» semplificando le procedure per far passare le donne da Napoli a Tripoli. Virginia P., dunque, prese l’abitudine di recarsi di tanto in tanto a Napoli «allo scopo di ingaggiare prostitute destinate al rifornimento delle suddette case di piacere». Rassicurata che le ragazze da lei reclutate non avrebbero avuto bisogno del passaporto, ma solo del foglio di via che le autorizzava a espatriare, Virginia si recò a Napoli anche nel dicembre del 1924 e ingaggiò due donne. Una, Ida F., era una sua conoscente ed era già stata a Tripoli per esercitare la prostituzione; l’altra, Rosaria P., 31 anni, un figlio di 12, un marito emigrato negli Stati Uniti da 10, era invece una cameriera e l’aveva incontrata in una casa dove era stata ospite. Il meccanismo si inceppò proprio per lei. Quando Virginia P. si recò in questura per fare istanza del foglio di via per le due donne, espletate alcune indagini di rito, in questura si accorsero che nessuna di loro era segnalata già come prostituta a Napoli. La cosa apparve subito sospetta perché solitamente quelle che si decidevano «a farsi iscrivere in una casa di tolleranza autorizzata, e per di più lontano dalla propria terra, hanno già superato i precedenti stadi del mal costume, consistenti prima nel concedersi a pochi uomini con una certa riservatezza, e poi nell’esercitare la prostituzione vagante e libera, che non le costringe, come nel lupanare, all’amplesso di chiunque si presenti e paghi il prezzo di tariffa. Il fatto, adunque, che la F. e la P., immuni da precedenti del genere, si fossero indotte a recarsi in un postribolo, apparve inverosimile, e si dubitò fossero state ingannate dalla lurida lenone, P. Virginia, richiedente per loro il foglio di via, sul vero scopo del viaggio per Tripoli, che avrebbero dovuto intraprendere».41 Sentite, allora, le due donne, Ida F. raccontò di aver già esercitato il mestiere a Tripoli e di voler tornare lì allo stesso scopo volontariamente, mentre Rosaria P. si disse assolutamente contraria a questo genere di impiego e di essere stata ingaggiata da Virginia P. per fare la cameriera. Nonostante in sede processuale Virginia P. affermò di aver voluto condurre la trentunenne a Tripoli proprio per impiegarla come cameriera e di non aver mai sostenuto il contrario, la donna fu condannata a sei mesi di reclusione e a una multa di 300 lire. 41. Questa e le citazioni precedenti sono in Archivio di Stato di Napoli, Tribunale Penale, Processi, 1925, fasc. 10382, Relazione della Regia Questura di Napoli al Procuratore del Re di Napoli, 18 dicembre 1924.

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Al di là dell’esito processuale questa vicenda mostra alcuni meccanismi del mercato internazionale della prostituzione degli anni Venti. La benevolenza con cui il sistema regolamentato dei postriboli era accolto e il suo approvvigionamento favorito; la funzione attrattiva esercitata dalle case di tolleranza all’estero e quindi il ruolo da esse avuto nella crescita dei commerci e della mobilità delle prostitute e delle altre figure coinvolte nell’impresa; la centralità della figura della tenutaria, che emerge come una imprenditrice a tutti gli effetti, che governa l’espansione geografica dell’attività, con l’apertura di nuove sedi, e presiede al suo “rifornimento” facendo la spola con la madrepatria e tra le diverse sedi locali. Infine, questa vicenda racconta anche qualcosa delle donne che si recavano nelle colonie europee nel Mediterraneo per prostituirsi: di norma, come ricordava la nota della Questura, erano donne che avevano già avuto esperienze di prostituzione in patria e che solo come successiva tappa nel mestiere andavano a lavorare all’estero. “Altre europee” nella colonia italiana L’apertura del mercato libico alle prostitute italiane non significò naturalmente la scomparsa delle altre, in alcuni casi più consolidate, comunità nazionali di meretrici. Semmai si creò un ambiente ancora più promiscuo, dove non era raro che, ad esempio, prostitute francesi, romene o austriache, lavorassero per tenutarie italiane. Le reti, quindi, si allungavano e tendevano a legare più Paesi insieme: non solo la madrepatria e la “sua” colonia, ma anche il Paese fornitore di prostitute. Un caso dei primi anni Trenta ci accompagna in questi scenari. Nell’ottobre del 1932 il Ministero dell’Interno della Romania si rivolse alla Società delle Nazioni, in particolare al Comitato contro la tratta delle donne e dei fanciulli, da un decennio organo preposto al contrasto dei commerci illegali ai fini della prostituzione e della tratta. Il governo romeno segnalava che diverse donne dei dintorni di Arad venivano ingaggiate e condotte, via Trieste, nelle colonie italiane in Nord Africa. Seguirono mesi di consultazioni e interrogazioni che coinvolsero soprattutto il Ministero delle Colonie e quello dell’Interno italiani e le questure delle città portuali, in primis Trieste. Una presenza sospetta di prostitute romene venne infine localizzata in Cirenaica, in particolare a Bengasi. Gli interrogatori di diverse donne, finalizzati soprattutto a verificare se esse si trovassero in colonia spontaneamente o perché costrette o ingannate,

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aiutano a ricostruire dinamiche ed esperienze di queste particolari migrazioni femminili. Nel report in cui dava conto delle indagini eseguite, compresi gli interrogatori, il governo della Cirenaica rassicurava prima di tutto il Ministero dell’Interno del fatto che tutte le donne sentite dichiaravano di non essere state né ingannate né attratte con lusinghe e di non voler «altro che di essere lasciate ad esercitare la prostituzione» a Bengasi. Stando ai loro racconti, si erano risolte a mettersi in viaggio perché negli ambienti della prostituzione in Romania si magnificavano le fortune che le prostitute avrebbero potuto fare nella colonia italiana. Motivo principale di queste voci era il successo incontrato da una certa Rosalia R., tra le prime a recarsi a Bengasi, la quale dopo un periodo di lavoro in una casa di tolleranza italiana era tornata in Romania con una fortuna, aveva comprato un appartamento e vissuto nell’agio. A vederla, le sue colleghe e concittadine avrebbero deciso di seguirne le orme e «diverse lettere di offerta risulta siano successivamente pervenute alla tenutaria B. Giuseppina, presso cui la predetta aveva lavorato, da parte di donne di Arad o di Deva le quali dicevano di volersi trasferire a Bengasi per esercitarvi la prostituzione». Dai documenti apprendiamo che era consuetudine per la tenutaria mandare alle future dipendenti il denaro per il viaggio, ma che dopo vari inconvenienti (alcune intascarono la somma senza partire) decise di affidarsi proprio alla mediazione di Rosalia R. Al di là della narrazione offerta dalla tenutaria, in questa vicenda è accertato che Rosalia trovò lo spazio per elevarsi da prostituta a reclutatrice. Lei aveva l’incarico di contattare le prostitute ad Arad, di dare loro il denaro per il trasferimento, di vigilare sulle partenze.42 Gli accertamenti non diedero luogo a procedimenti giudiziari, dal momento che, ancora una volta, il sistema della prostituzione regolamentata consentiva e legittimava il meretricio e lo spostamento delle donne da una piazza all’altra. I documenti prodotti in questa circostanza, come nelle altre evocate precedentemente, rimangono tuttavia a testimoniare la varietà di figure 42. Questa e le precedenti citazioni relative a tale caso sono nella Relazione dell’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta delle donne e dei fanciulli al Ministero degli Affari esteri del 4 aprile 1933 (ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, busta 8, fasc. 47, s.fasc. Rumenia [sic] – Italia e colonie).

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coinvolte nel mercato internazionale della prostituzione della prima metà del Novecento, il modo in cui funzionava, le sue caratteristiche. In particolare, emerge come gli ambienti della prostituzione nelle colonie europee del Mediterraneo fossero popolati di donne di diverse nazionalità che arrivavano e partivano attraverso catene migratorie in gran parte spontanee. In Libia, alle italiane e francesi, grandemente richieste anche perché considerate più raffinate e spregiudicate delle altre, si unirono con il tempo donne provenienti dall’Europa centrale e dell’Est. Da una richiesta di informazioni inoltrata dal governo ungherese a quello italiano per sapere se in Tripolitania fossero presenti case di tolleranza gestite da cittadini di quel Paese, apprendiamo che nel 1933 ve ne era almeno una a Tripoli, aperta e gestita dalla cinquantenne Marianne J., nella colonia italiana dal 1928 e in Italia già da 15 anni. Con l’occasione il governo della Tripolitania elaborò un elenco delle prostitute straniere qui arrivate nei primi sei mesi dell’anno, dal quale risulta che delle dieci donne segnalate solo due erano francesi (una arrivava da Tunisi e l’altra da Pisa), mentre tre erano austriache (provenienti due direttamente dall’Austria, una da Bolzano), tre romene (arrivate da Arad, Timișoara e Palermo) e poi figuravano una jugoslava e una cecoslovacca, entrambe provenienti da Firenze. Avevano in media 30 anni.43 3. Il Cairo e Alessandria d’Egitto L’Eldorado del Mediterraneo Tra le destinazioni delle prostitute europee che tra Otto e Novecento attraversarono il Mediterraneo, l’Egitto è certamente tra le più celebri e le più studiate. Considerato una sorta di “Eldorado” del Mediterraneo, come ha raccontato Francesca Biancani nei suoi lavori dedicati alla prostituzione nell’Egitto coloniale,44 il Paese conobbe un impetuoso processo di trasfor43. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 6, fasc. 40, Direzione di Polizia, Governo della Tripolitania, 31 agosto 1933. 44. Francesca Biancani, Sex Work in Colonial Egypt: Women, Modernity and the Global Economy, London-New York, Tauris Academic Studies, 2018; Ead., International Migration and Sex Work in Early Twentieth Century Cairo, in Globalization and the Making of the Modern Middle East, a cura di Liat Kozma, Cyrus Schayegh, Avner Wishnitzer,

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mazione che partì dal governatorato di Muhammad Alì (durato dal 1805 al 1849), autore dell’ammodernamento amministrativo, economico e culturale del Paese. Una ulteriore accelerazione in questo processo si ebbe con l’apertura del canale di Suez nel 1869 e si consolidò con l’occupazione britannica del 1882. Diventato un centro fondamentale nelle rotte verso le Indie, nel volgere di pochi decenni guadagnò fama di mercato dalle potenzialità enormi, attraendo investitori, imprenditori, commercianti, uomini e donne in cerca di lavoro. Non meno importante, relativamente all’appeal che esercitò per gli stranieri, era il fatto che fino al 1937 (e in un regime di transizione fino al 1949) in Egitto sopravvisse il sistema capitolare, secondo cui gli europei che vi risiedevano rispondevano penalmente, ma anche in materia commerciale, civile, fiscale, alle autorità consolari del loro Paese. Uno status, che tra protezioni e ritrosia a procedere contro propri cittadini in terra straniera, rappresentò di fatto una sorta di garanzia di immunità. In concomitanza con la trasformazione economica e amministrativa, anche le città dell’Egitto vennero radicalmente cambiate da progetti di ampliamento e rinnovamento urbanistico, così come da flussi importanti di immigrazione, sia interna che estera. La popolazione urbana aumentò a ritmo vertiginoso nel corso dell’Ottocento, soprattutto nella sua parte finale. Gli abitanti del Cairo passarono dai 374.000 censiti nel 1882 ai 1.312.000 del 1937. La quota di popolazione immigrata registrata in città sarebbe stata nel 1927 pari a più del 42% del totale. Il contributo che gli stranieri, in particolare gli uomini e le donne provenienti dai Paesi europei, diedero a questa crescita fu significativo e possiamo quantificarlo ancora una volta grazie alle notizie a disposizione per Il Cairo, dove essi passarono dai 18.289 del 1882 ai 76.173 del 1927. Alessandria d’Egitto crebbe con ritmi simili. Affermatasi già all’indomani della costruzione del canale di Mahmudiyya nel 1820 come una delle città portuali più importanti del Mediterraneo, fu promessa di occupazione e mobilità sociale per generazioni di immigrati provenienti dai Paesi dell’Europa del Sud. Nel giro di 30 anni la sua popolazione passò da London-New York, Tauris Academic Studies, 2015, pp. 109-133; Ead. Globalization, Gender, and Labour in Cosmopolitan Egypt, 1860-1937, in From Slovenia to Egypt, pp. 207-229. Si veda anche la sua dissertazione dottorale Let Down the Curtains Around Us: Prostitution in Colonial Cairo, 1882-1952, London School of Economics and Political Science (LSE), Department of Government, 2012. I dati sull’accrescimento della popolazione urbana riportati di seguito sono tratti da questi testi.

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12.000 abitanti a più di 100.000 e alla fine dell’Ottocento ne contava già oltre 320.000.45 La massa degli europei che arrivava in Egitto, principalmente nelle sue città, non era tuttavia né indistinta né omogenea. Inglesi e francesi, rispettivamente circa 11.000 e 9000 nel 1927, occupavano nella nuova società posizioni apicali, erano per lo più professionisti e di classe medio-alta; il resto degli stranieri europei, la parte più consistente, proveniva dai Paesi del Sud Europa (Grecia e Italia, principalmente, con circa 20.000 abitanti provenienti dalla prima e 18.000 dalla seconda al Cairo nel 1927) ed era più stratificato dal punto di vista sociale. Non mancavano commercianti, imprenditori, professionisti, ma in gran parte erano lavoratrici e lavoratori manuali.46 Grazie ai dati provenienti dai censimenti redatti dal Commissariato generale dell’Emigrazione ricaviamo un’immagine più puntuale della grande affluenza di italiani e italiane in Egitto tra il 1871 e il 1924. Il loro numero passò da 10.679 presenze registrate nel 1871 alle 45.106 del 1924, con una maggiorazione stimata del 322%. Secondo il Commissariato per l’Emigrazione la comunità degli italiani era seconda solo a quella dei greci tra gli stranieri presenti in Egitto nel 1921, superando anche inglesi, francesi e turchi e rappresentando lo 0,34% dei 13.400.000 abitanti complessivi.47 Che si trattasse di un’immigrazione in gran parte di persone dedite in patria ai lavori manuali lo conferma anche questa raccolta. Nella classificazione degli emigranti per sesso, professione e Paese di destinazione, leggiamo che nel 1920 partirono dall’Italia verso l’Egitto 876 uomini e 503 donne e che in gran parte si trattava di operai (211 uomini e 59 donne), muratori e manovali (196 uomini, nessuna donna), artisti di vario genere (96 uomini e 60 donne), lavoratori agricoli (45 uomini e 27 donne), ma anche un gran numero di donne che si dichiarava attendente alle cure domestiche o di mestiere imprecisato (254).48 45. Cfr. Nefertiti Takla, Prostitution in Alexandria, Egypt, in Trafficking in Women 1924-1926. The Paul Kinsie Reports for the League of Nations, a cura di Jean-Michel Chaumont, Magaly Rodriguez Garcia, Paul Servais, Genève, United Nations, 2017, vol. 2, pp. 7-11. 46. Questi i dati riportati in André Raymond, Cairo, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2000, citati in Biancani, Let Down the Curtains around Us, pp. 69 e sgg. 47. Annuario statistico dell’emigrazione italiana, pp. 1535 e 1538. Secondo questa fonte i greci erano lo 0,42% della popolazione, i turchi lo 0,23%, gli inglesi lo 0,18%, i francesi lo 0,16%. 48. Ivi, p. 340.

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Sono informazioni che rimandano a un’emigrazione italiana tutto sommato marginalizzata, profondamente diversa da quella che il nostro Paese aveva espresso nel corso dell’Ottocento e prima del decennio Settanta-Ottanta, quando gli italiani in Egitto avevano occupato importanti ruoli nel campo dell’amministrazione pubblica, della sicurezza, delle professioni, dei servizi, mentre molti altri avevano trovato lavoro e stabilità in un settore cotoniero fiorente.49 Un’inversione di trend che non sorprende tenendo conto che gli anni Settanta hanno rappresentato uno spartiacque nella storia demografica, economica e delle condizioni di vita della popolazione egiziana, compresa la massa degli immigrati europei che qui erano affluiti e continuavano ad arrivare. Nefertiti Takla individua almeno tre fattori di cambiamento: le politiche antischiaviste intraprese con più forza in quel decennio e che portarono uomini e donne appena affrancati, ex schiavi, principalmente etiopi e sudanesi prima impiegati nel settore agricolo e nei lavori domestici, a riversarsi nelle città egiziane in cerca di mezzi di sopravvivenza; le crisi e rivolte balcaniche con il loro lascito di fuoriusciti e profughi che pure in una certa misura influenzarono gli equilibri demografici del Mediterraneo; soprattutto, il veloce capovolgimento nelle sorti del mercato cotoniero egiziano: protagonista di un vero e proprio boom durante la guerra civile americana, quando la produzione degli Stati del Sud era crollata e nuovi fornitori furono chiamati ad alimentare il mercato internazionale, all’indomani della fine della guerra la domanda crollò, lasciando molti lavoratori agricoli egiziani e dell’Europa del Sud in una condizione incerta e precaria.50 L’Egitto, soprattutto quello urbano, alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento si presentava dunque come una società in profonda trasformazione, cresciuta impetuosamente di dimensioni e fortemente diversificata al suo interno, lungo la linea sia della classe sia della “razza”. L’affluenza al Cairo e ad Alessandria d’Egitto di una gran massa di lavoratori e lavoratrici non qualificati esponeva i nuovi arrivati da una parte a una dura competizione nel mercato del lavoro e dall’altra a un generale indebolimento sociale.

49. Cfr. Francesco Surdich, Nel Levante, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, pp. 181-191. 50. Takla, Prostitution in Alexandria, Egypt, p. 7.

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La minore professionalizzazione delle donne, la loro maggiore vulnerabilità negli scenari ad alto tasso di competizione sociale, così come un aumento considerevole di popolazione maschile svincolata dai legami familiari e con un certo potere di acquisto, sono probabilmente i fattori principali che hanno concorso alla crescita della prostituzione femminile nelle città egiziane durante l’età coloniale, al pari di quello che contemporaneamente avveniva in altri Paesi del Mediterraneo. Anche in questo caso alla prostituzione locale e indigena, che esisteva anche prima dell’arrivo degli europei in forme meno strutturate e formalizzate, si aggiunse un fenomeno significativo di prostituzione delle europee. Anche in Egitto, inoltre, il colonialismo portò con sé la regolamentazione della prostituzione e, quindi, case di tolleranza registrate e autorizzate, controlli medici obbligatori e sorveglianza della polizia. Nella capitale la vendita di sesso fu organizzata anche dal punto di vista urbanistico, con la nascita di un vero e proprio quartiere a luci rosse, nel centro cittadino (vicino al quartiere Azbakiyyaha), a sua volta diviso in una parte riservata alle prostitute europee e in una dove lavoravano le egiziane, le nubiane, le sudanesi. Le europee “regolari” nel 1927, secondo le fonti di polizia, erano 325 mentre le locali 859. Gran parte dei commerci, tuttavia, stando alle stesse fonti, avveniva al di fuori dei circuiti della prostituzione regolamentata, in centinaia di case di prostituzione clandestina disseminate nella città. In un solo decennio, tra il 1926 e il 1936, vennero smascherati dalle forze dell’ordine più di 2600 luoghi illegali di prostituzione.51 Ad Alessandria, parimenti, nel corso del tempo alcune aree divennero veri e propri distretti della prostituzione, soprattutto clandestina, come Kom al-Nadura, Kom Bakir e Al-Tartushi. In Egitto, sia nel mercato regolare sia in quello informale o clandestino, tra le straniere primeggiavano le italiane, uno dei gruppi più visibili e discussi. Lenoni e prostitute italiane in Egitto Secondo alcune lamentele dell’agenzia consolare di Alessandria d’Egitto del 1882, già a quell’epoca e solo in quella città si contavano più 51. Queste e le informazioni precedenti relative al Cairo, quando non diversamente indicato, sono tratte dai lavori di Francesca Biancani, in particolare si veda Hanan Hammad, Francesca Biancani, Prostitution in Cairo, in Selling Sex in the City, pp. 233-260.

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di 500 prostitute italiane, detentrici quasi di un controllo monopolistico dell’offerta.52 Pur ritenendo necessario trattare questi numeri con cautela, è da notare che comunicazioni del genere si intensificarono negli anni seguenti, sintomo di una crescente preoccupazione per la presenza massiccia di «donne di malaffare» italiane (anche) in Egitto. Nel 1896 in un rapporto sulla prostituzione al Cairo indirizzato al Ministero degli Affari esteri, il Regio console faceva il punto sulla situazione esistente e su quanto si era fatto fino a quel momento «per far cessare questo scandalo che torna a danno e disdoro gravissimo del nome e della colonia italiana in Egitto».53 Lamentando all’inizio della missiva come negli ultimi anni fosse aumentato il numero delle prostitute italiane e dei loro sfruttatori presenti in città, il console non mancava di far presente le diverse, energiche, misure intraprese già a partire dal 1894. Nel corso di due anni, dunque, erano stati istruiti cinque processi penali, presso il tribunale consolare, contro «proprietari di postriboli e lenoni», quattro già conclusi con altrettante sentenze di condanna; erano state chiuse diverse case di prostituzione e, su richiesta della polizia egiziana, era aumentata la vigilanza «sui nostri connazionali che vivono nell’ozio e sono sospettati di trarre i loro mezzi di sostentamento da fonti disoneste»; alcuni lenoni, inoltre, erano stati espulsi, mentre molti altri almeno interrogati e ammoniti. Sebbene i risultati fossero stati soddisfacenti, le azioni di repressione e sorveglianza non erano bastate però a porre fine «allo sconcio» e il console auspicava di essere coadiuvato dalle autorità centrali nella sua opera di pulizia della colonia. In particolare, chiedeva che alle Questure di Napoli, Reggio Calabria, Messina, Catania, «che sono appunto le città cui appartiene la grandissima maggioranza delle prostitute e dei lenoni italiani qui dimoranti», venisse impartito l’ordine di sorvegliare tutte le partenze sui piroscafi diretti in Egitto. In particolare suggeriva di vigilare sul rilascio dei passaporti «a donne di giovane età che da sole si recano qui in cerca di occupazione senza certezza di poterla trovare e che una 52. Angelo Iacovella, La presenza italiana in Egitto: problemi storici e demografici, in «Altreitalie», XII (1994), pp. 60-69, p. 65. 53. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 53 bis, fasc. Esteri, s. fasc. Prostitute italiane a Tripoli, Tunisia, Cairo, Malta, Regia Agenzia d’Italia in Cairo a MAE, 22 giugno 1896.

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volta qui giunte, o per la necessità della vita, o perché accaparrate da qualche individuo di depravata condotta finiscano col darsi alla prostituzione». Facendo proprie le preoccupazioni del Consolato, per «uno sconcio che disonora il nome italiano», il Ministero degli Affari esteri interessava quello dell’Interno perché diramasse le disposizioni richieste relative alla sorveglianza sulle partenze, soprattutto femminili, verso l’Egitto54 ed effettivamente, pochi giorni dopo, le questure vennero allertate. La situazione presente al Cairo, tuttavia, non era diversa da quella che affliggeva negli stessi anni «la pacifica e laboriosa colonia italiana di Alessandria [d’Egitto]».55 Qui, raccontava un rapporto inviato dagli uffici consolari al Ministero degli Affari esteri nel 1898, lenoni e donne di malaffare, spesso sotto la copertura di coppie sposate, arrivavano non solo dalle città portuali della penisola, ma anche da Tunisi e Costantinopoli, dove pure fioriva il commercio di donne italiane. Le notizie che arrivavano dagli altri centri egiziani, inoltre, erano pure più inquietanti. A Suez l’agente consolare metteva in guardia da «mercati di simili genere» messi in piedi da italiani e nello stesso periodo l’agente consolare in servizio a Zanazig, a metà strada tra Il Cairo e Porto Said, aveva denunciato un giro di prostituzione di minorenni italiane in case di tolleranza greche; mandati dei soldati a prenderle, tra queste se ne trovò una che «era stata letteralmente venduta a tredici anni di età e fu trovata incinta».56 Ancora una volta, per «purgare» la colonia, le misure invocate furono maggiori controlli e divieti di imbarco, a cui questa volta si aggiunse la proposta di espulsione degli elementi «perversi e pericolosi»,57 accordata dal Ministero purché si avvisassero per tempo le prefetture dei Comuni in cui i soggetti indesiderati sarebbero stati rimpatriati. Nel corso degli anni successivi la situazione non migliorò e ancora nel 1903 si registrava un nuovo aumento di prostitute e lenoni provenienti dall’Italia nelle città egiziane, in numero tale da compromettere l’ordine pubblico. La direttiva, come consueto, fu quella di cercare di impedire che

54. Ivi, MAE a MI, 4 luglio 1896. 55. Ivi, Vice console Reggente a MAE, 13 ottobre 1898. 56. Ibidem. 57. Ivi, MAE a MI, 25 ottobre 1898.

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«donne di malaffare, soprattutto se minorenni, e uomini destinati a speculare su quelle disgraziate» si imbarcassero dai porti italiani.58 Come contemporaneamente stava diventando chiaro a Malta, anche in Egitto non sfuggì alle autorità consolari che l’incessante sbarco di prostitute, talvolta minorenni, prive dei documenti necessari, spesso munite di nulla osta e passaporti validi solo per l’interno, suggeriva che alcuni sindaci, uffici di Pubblica Sicurezza, prefetti italiani fossero coinvolti nel «turpe commercio», o quantomeno svogliati nei controlli. Così, se le autorità portuali dovevano impedire l’imbarco alle donne prive dei titoli richiesti, i sindaci erano invitati a essere «più cauti nel rilasciare atti di notorietà attestanti che le donne emigrano per essere collocate come cameriere, specialmente quando esse non appartengono ai loro comuni». Ancora più grave era che in più di una circostanza si era scoperto che il testimone chiamato a confermare le dichiarazioni contenute negli atti era «appunto quel lenone che fa emigrare la donna per prostituirla e sfruttarla».59 Se sul versante della collaborazione delle autorità della penisola la situazione, dunque, continuava a essere critica, le autorità consolari dal canto loro intensificarono l’azione repressiva sul campo, conseguendo risultati importanti per porre fine a «uno sconcio […] di proporzioni tali da riuscire da disdoro alla reputazione di questa nostra colonia».60 In particolare venne percorsa la via delle espulsioni, dispositivo adottato dalle autorità quasi solo per i lenoni. Dei 46 espulsi dal Cairo tra il 1901 e il 1903, ben 43 erano lenoni. In gran parte erano siciliani (26), di Napoli o dei comuni limitrofi (11), il resto calabresi, lucani, pugliesi. Due erano già stati espulsi da Tunisi, mentre altri due, pur sudditi italiani, erano nati uno a Tunisi e l’altro a Costantinopoli. Le scarne notizie che abbiamo sul loro conto sono comunque sufficienti a suggerire che si trattasse di uomini avvezzi alla violenza e a una vita di espedienti, spesso pluripregiudicati. In alcuni casi è presumibile fossero lenoni delle loro stesse mogli, prostitute sposate proprio per farle arrivare in colonia – espediente noto alle autorità consolari – o mogli indotte o costrette alla prostituzione una volta arrivate “oltremare”. 58. Ivi, MAE a MI, 4 maggio 1903. 59. Ivi, Rapporto del R. console in Alessandria alla R. Agenzia in Cairo, 6 giugno 1903. 60. Ivi, Rapporto del R. Agente in Cairo al MAE, 10 giugno 1903.

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Come le ricerche di storia sociale hanno ormai accertato, infatti, il nesso tra migrazioni e prostituzione va letto non solo come il destino di donne rese vulnerabili dalla mancanza di legami e protezioni familiari nei Paesi d’arrivo, ma anche come il risultato dell’indebolimento economico delle famiglie e delle coppie emigrate in Paesi dove le possibilità occupazionali, soprattutto per i lavoratori non qualificati, erano assai scarse. La prostituzione è stata in questo senso la sola risorsa disponibile per molte donne “sole”, ma anche una strategia familiare o di coppia, in un contesto di relazioni di genere e familiari ancora costruite e concepite nel segno della diseguaglianza, della subordinazione femminile, di una concezione proprietaria della sessualità e del corpo delle donne. Queste riflessioni aiutano a leggere tra le righe delle poche notizie che abbiamo sui 43 nominativi, tutti accompagnati dalla dicitura «lenone», espulsi dal Cairo tra il 1901 e il 1903. Giuseppe G., di Napoli, era stato espulso nel luglio 1901 dopo una condanna del tribunale consolare per lesione con arma da taglio e sfregio permanente in danno della moglie; Salvatore M., anche lui napoletano, al momento dell’allontanamento aveva già collezionato varie condanne per violenza carnale, lesioni, furto; Francesco V., di Bagnara Calabra, era stato condannato già due volte dal tribunale consolare per lesioni con arma, così come Salvatore L., di Acireale e Ferdinando C. di Canicattì; non diversamente Alfredo A., napoletano, aveva precedenti per lesioni personali e reati contro la proprietà o Antonio P., di Messina, era già autore di violenze contro l’autorità. Nel lungo elenco si legge di chi aveva già subito diverse, fino a 10, condanne in Italia, di chi era già stato sanzionato per ubriachezza e vagabondaggio, di molti con precedenti non indicati. In definitiva, di 43 lenoni espulsi, 17 sono quelli per i quali non sono annotati altri precedenti penali.61 Per Alessandria non abbiamo un elenco simile, ma la situazione doveva essere anche più grave se solo in un anno, da giugno 1902 a giugno 1903, erano stati cacciati 110 lenoni italiani. Sotto costante controllo, poi, erano le 37 case di tolleranza e le 66 prostitute italiane che nel 1903 risultavano registrate al Cairo, concentrate tutte nello stesso quartiere come tra l’altro non si mancava di notare.62 Stessa vigilanza era praticata sulle 112 prostitute registrate di Alessandria, le 23 di Porto Said, le 8 di Suez. 61. Ibidem. 62. Ibidem.

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Gli studi dedicati alla prostituzione in Egitto nel Novecento hanno sottolineato come una ulteriore recrudescenza del fenomeno si sia registrata intorno alla Prima guerra mondiale, quando alle cause ottocentesche (instabilità sociale, forte immigrazione, governo coloniale), si aggiunse la presenza massiccia dei soldati britannici.63 Scelta come campo base in vista della campagna verso il Levante, Alessandria vide negli anni della guerra accrescere anche notevolmente il numero di attività e imprese commerciali impegnate nel settore dell’intrattenimento e ricreativo, attraendo nuovi flussi di lavoratori e lavoratrici. Intorno ai campi base dell’esercito fiorirono i postriboli, per lo più clandestini, così come negli anni della guerra aumentò il numero di donne che si davano alla prostituzione irregolarmente, probabilmente perché per molte si trattava di una scelta occasionale e temporanea, frutto di quelle particolari circostanze. La “patente” di prostituta, con tutto il regime di controlli sanitari e di polizia che comportava, doveva apparire come un’opzione eccessivamente rigida e stigmatizzante. In gran parte, tuttavia, questo mercato della prostituzione era servito da donne locali, dal momento che la guerra comportò una diminuzione notevole della mobilità civile internazionale. Indicativo in questo senso, guardando al movimento tra Italia ed Egitto, è che nell’anno campione 1917 solo 113 persone emigrarono dall’una all’altro, tra le quali 38 donne.64 I numeri tornarono a crescere negli anni Venti, oscillando tra gli oltre 1200 arrivi del 1920 e i 310 del 1925, anni per cui abbiamo dati disaggregati disponibili. Particolare riguardo merita il contributo femminile a queste migrazioni, in proporzione crescente nel dopoguerra, fino ad arrivare a superare il numero degli uomini nell’ultimo anno censito, il 1925, quando le donne sbarcate in Egitto furono 171 e gli uomini 139.65 Proprio nel 1925 un investigatore sotto copertura americano, Paul Kinsie, che faceva parte del comitato di esperti incaricato dalla Società delle Nazioni di indagare sui traffici legati alla prostituzione internazionale e sulla tratta di donne e bambini, si recò al Cairo. Frequentò per giorni tenutarie, prostitute, intermediari, procacciatori, protettori, scandagliando 63. Takla, Prostitution in Alexandria, Egypt. 64. Commissariato generale dell’Emigrazione, Annuario statistico dell’emigrazione italiana, p. 336. 65. Ivi, p. 1268.

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le strade a luci rosse della città. Nel suo diario di missione annotò come la maggior parte delle case di prostituzione si trovassero in una strada, Charek Wagh el Berha, e che a lavorarvi fossero in gran numero le prostitute straniere. Tra queste, non c’era dubbio – appuntava Kinsie – dominavano le francesi, le italiane, le greche.66 Pur con alcune fluttuazioni, dunque, nel corso dei decenni l’Italia rimase uno dei principali Paesi fornitore di prostitute straniere per l’Egitto. Tra prostituzione e lavoro domestico Attraverso una vicenda, in gran parte di polizia, della fine degli anni Venti, vorrei provare a mettere a fuoco alcune altre questioni, finora solo vagamente suggerite dalle fonti. A raccontare la storia in soggettiva è la giovane Maria F., diciassettenne di Gorizia, tornata da Alessandria d’Egitto da un mese quando venne ascoltata nella questura della città natia, nel maggio 1928.67 Partendo dal principio, la ragazza raccontò che aveva già una volta tentato di andare in Egitto, quando aveva 16 anni, perché sua zia Cristina Z. (nata C., ma maritata con Antonio Z. e madre di tre figli), sorella della madre, si era già trasferita e sistemata oltremare da diversi anni e le aveva trovato un impiego come istitutrice in una buona famiglia. Il Consolato d’Egitto a Trieste le aveva tuttavia in questa occasione negato il visto necessario, probabilmente per la sua giovane età e la mancanza di sufficienti garanzie. Abbandonate le vie formali, l’anno successivo era stato proprio il «padrone» della zia Cristina, un commerciante all’ingrosso di cipolle, Michele N., a interessarsi della pratica presso il Consolato e a ottenere il visto. Lo stesso uomo, una volta che la ragazza riuscì ad arrivare ad Alessandria, si occupò di pagare la retta di un istituto di suore dove fu mandata tre mesi a imparare il francese e le buone maniere. In seguito la zia le trovò lavoro come cameriera, prima in una famiglia turca e poi presso un’altra, da cui però dovette allontanarsi alla svelta «perché tanto il vecchio padrone, quanto il giovane figlio, pretendevano che io mi concedessi ad essi».68 66. Trafficking in Women 1924-1926. The Paul Kinsie Reports, vol. 1, p. 291. 67. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. 47, Tratta internazionale con rapporto in Italia, s. fasc. 10, Gorizia-Alessandria d’Egitto. 68. Ivi, Verbale di interrogatorio di Maria F., 21 maggio 1928. Le citazioni successive, fino a quando non diversamente indicato, provengono da questa fonte.

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Già in questi primi accadimenti, raccontò la ragazza, la zia diede prova delle sue vere intenzioni. Mentre risiedevano a casa di Michele N. l’aveva più volte invitata a recarsi nella camera dell’uomo per tenergli compagnia e quando la ragazza si era allontanata risentita dalla casa dove i padroni oltre che servizi domestici pretendevano che lei offrisse anche servizi sessuali, la zia l’aveva aspramente rimproverata accusandola «di non saper far nulla pel mio avvenire». Un giorno, poi, l’aveva condotta a casa di una signora «vecchia tutta imbellettata», che la portò «in un salotto tutto profumato dove attendevano due arabi». Ma Maria, «capito il trucco», riuscì a sottrarsi e successivamente, siamo ormai nel dicembre 1927, riuscì a trovare ancora una volta un lavoro onesto, da guardiana di una fabbrica di caramelle. La zia Cristina intanto, con la quale ancora viveva, aveva a sua volta cambiato più volte mestiere e dopo essere stata lavandaia per una pasticceria, si era messa a sbrigare pure la biancheria dei marinai e degli ufficiali che sbarcavano dai piroscafi. La casa, dunque, iniziò a essere frequentata da un gran numero di essi e ancora la zia, «per trarre profitto», la invitava a «essere cortese e accondiscendente» con loro. Ai suoi rifiuti nascevano sempre «nuove contese» in famiglia, ma Cristina Z. non demordeva e un giorno, in un bar prossimo alla loro abitazione, le presentò un vecchio pascià che l’avrebbe voluta come dama di compagnia. La ragazza, ancora una volta, diede prova della sua virtù e si rifiutò, anche quando il pascià chiese di averla almeno per una notte, pronto a colmarla di ricchezze. Per consolazione l’uomo ebbe da Cristina Z. un’altra giovane proveniente dalle loro terre d’origine, precisamente da Ranziano, Anna P.; insoddisfatto dopo otto giorni la rimandò indietro continuando a insistere di volere solo Maria F. e che a lei era disposto a regalare pure una villa. Mentre «duravano gli attacchi di [sua] zia per far[le] perdere l’onore», per fortuna la ragazza riscosse le simpatie del padrone della fabbrica per cui lavorava. Scoperte le sue traversie, costui le consigliò vivamente di tornare in Italia dai suoi cari e le procurò i mezzi e il passaporto per farlo, promettendo «onestamente di venire a chiedere la mia mano di sposa ai miei parenti». Ed era così che era tornata, un mese prima, a casa. Concludendo il suo racconto, la ragazza aggiungeva che oltre ad Anna P., sua zia aveva con sé ad Alessandria un’altra giovane della loro contrada, certa Angela M. Inoltre, faceva presente che mentre si trovava ad Alessandria aveva scritto una lettera a suo zio Angelo C., agente di Pubblica Sicurezza in servizio proprio nella questura dove Maria era stata interro-

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gata, per raccontargli che la zia voleva approfittare di lei facendone una «ragazza perduta» e la sua «merce», e per chiedergli aiuto. Lo stesso giorno in cui fu sentita Maria, venne interrogato dunque anche l’agente Angelo C., che – parole sue – doveva confessare con vergogna di essere il fratello di Cristina Z..69 Ammise pure di aver ricevuto la lettera di Maria due mesi prima, spiegando che non aveva risposto né coinvolto i suoi superiori perché da dieci anni aveva interrotto i rapporti con la sorella, che da prima della guerra si trovava ad Alessandria (pur tornando saltuariamente nei luoghi di origine), proprio perché sapeva che «non è una donna onesta». Come lui, anche l’altro fratello Antonio, per vent’anni in servizio nella polizia inglese ad Alessandria d’Egitto (dal 1903 al 1923), aveva interrotto i rapporti con la donna. Ma non erano i soli. A suo dire anche i genitori di Maria sapevano bene quale vita Cristina Z. conducesse ad Alessandria e lui non poco si era stupito quando le avevano affidato la figlia. Sentito due giorni dopo il padre di Maria F., questi negò di aver saputo che Cristina Z., sua cognata, facesse quel genere di vita ad Alessandria e, comunque, di aver fortemente raccomandato sua figlia, prima di partire, «di essere buona e virtuosa e di mantenere il pregio dell’onestà superiore ad ogni ricchezza». La ragazza, d’altra parte, prometteva bene, avendo una certa cultura per aver studiato alle scuole commerciali e buoni sentimenti per essere stata al collegio delle Orsoline di Gorizia.70 Ad allertare le autorità sulla condotta e le attività di Cristina Z. in Egitto, dunque, non erano stati né l’agente di Pubblica Sicurezza Angelo C., suo fratello, né i genitori di Maria F., che pure nel corso del tempo avevano appreso più di un fatto meritevole di essere segnalato. A farlo, scopriamo leggendo la documentazione sul caso, era stata un’altra donna, probabilmente francese, Claire D., che il 1° maggio del 1928 aveva scritto direttamente al Commissariato generale dell’Emigrazione a Roma.71 Nella missiva, Claire raccontava come Cristina Z. facesse arrivare, con l’ausilio di persone altolocate che si prestavano a fornire offerte di impiego per le candidate, giovani donne provenienti dalla provincia goriziana per poi immetterle nel mercato della prostituzione. Faceva esplicitamente il nome 69. Ivi, Verbale di interrogatorio di Angelo C., 21 maggio 1928. Fino a dove non indicato diversamente le citazioni, anche singole espressioni virgolettate, provengono da questa fonte. 70. Ivi, Verbale di interrogatorio di Giovanni F., 23 maggio 1928. 71. Ivi, Lettera dattiloscritta di Claire D. al Commissariato generale dell’Emigrazione, 1° maggio 1928.

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di Maria F., invitando le autorità a sentirla, così onesta da non cedere alle manovre della zia. L’autrice della lettera non spiegava come fosse venuta a conoscenza dei fatti, dicendo solo di averli scoperti per puro caso e lasciando intendere in più di un’occasione di conoscere direttamente le protagoniste. Esplicitamente, tuttavia, ammetteva di non essersi rivolta al Consolato per paura di essere poi esposta alle ritorsioni di «quella gente». Dopo la lettera il Commissariato generale dell’Emigrazione si rivolse al prefetto di Gorizia che a sua volta interessò la questura per procedere con gli interrogatori e far svolgere ulteriori indagini. Emergendo dagli interrogatori, come si è visto, i nomi di altre due giovani donne di cui occorreva scoprire di più, gli accertamenti proseguirono. Si apprese che tanto Angela M. quanto Anna P. erano di Ranziano, comune in cui dimorava Cristina Z. quando rientrava per brevi periodi in Italia, e che con la sua intercessione erano partite nel 1926 per l’Egitto.72 Il Prefetto arrivò alla conclusione che Cristina Z. agiva come una vera e propria agenzia di collocamento, intercettando ragazze della zona e convincendole a partire con la lusinga e la promessa di impieghi come domestiche o cameriere. Sarebbero state coinvolte ben più delle tre di cui si era saputo. «Invero – spiegava il prefetto – la corrente emigratoria da detti comuni per Alessandria d’Egitto si presenta costante da alcuni anni» ed era un flusso particolare, esclusivamente femminile. Si trattava, rassicurava, di «giovani ingenue e appartenenti a famiglie dabbene» che era da escludere partissero per darsi alla prostituzione, ma era «innegabile però che molte poi abbandonano l’onesta occupazione per darsi a vita immorale». Le «più giovani e carine» cadevano nella rete di persone equivoche, che le usavano «per allietare l’alcova dei pascià turchi e dei nababbi di Alessandria o per farne oggetto di illecita speculazione». A quella data, risiedevano ad Alessandria più di 300 (giovani) donne provenienti dai comuni di Ranziano, Biglia, Prevacina, Vertoiba e altri limitrofi, e 200 erano quelle che avevano ottenuto il passaporto per l’Egitto nei due anni intercorsi tra luglio 1926 e luglio 1928.73 Il Prefetto non poteva saperlo, ma stava parlando delle Aleksandrinke, fenomeno migratorio tutto femminile, in anni recenti al centro di una risco72. Le informazioni sono contenute ivi, Relazione della Prefettura di Gorizia al MAE, 10 giugno 1928. 73. Ivi, Elenco dei passaporti per l’Egitto rilasciati a giovani donne della Provincia, trasmesso da Prefettura di Gorizia a MI, 28 luglio 1918.

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perta da parte della storiografia e della memorialistica.74 Le “alessandrine” erano giovani donne, ma anche vedove e madri di famiglia, provenienti da Comuni del goriziano oggi in gran parte sloveni, che dalla seconda metà dell’Ottocento e per quasi un secolo si sono dirette in massa verso le città egiziane, soprattutto ad Alessandria. Emigrate per impiegarsi nel campo dei servizi domestici e familiari, come cameriere, governanti, bambinaie, domestiche, a lungo la loro esperienza ha fluttuato tra la riprovazione sociale e la muta riconoscenza nei Paesi d’origine. Studi recenti hanno dimostrato come il loro lavoro, il denaro inviato a casa, abbia rappresentato una risorsa fondamentale che ha garantito la sopravvivenza e il traghettamento delle loro comunità e famiglie attraverso gli anni della guerra e del fascismo. Contemporaneamente, il fatto che fossero donne migranti “sole”, che in molti casi avevano lasciato mariti e figli piccoli a casa, che la loro meta fosse l’equivoco, cosmopolita, Egitto, condannò queste lavoratrici a una rappresentazione e, poi, memoria, prevalentemente ostile, o quanto meno sospettosa. La vicenda di Maria F., in questo senso, ci consegna suggestioni illuminanti, collocandosi al confine tra una migrazione femminile nel filone delle “alessandrine” e quella di una giovane donna coinvolta nel mercato globale della prostituzione. I documenti che abbiamo analizzato compongono un quadro complesso. Cristina Z. si muoveva nel solco e al riparo di una catena migratoria di lavoratrici domestiche migranti che dal goriziano si recavano ad Alessandria, per fare però un altro genere di affari. Attraverso conoscenze negli ambienti adatti sapeva come far espatriare le giovani donne anche prive dei documenti necessari o procurandosi «le giuste carte». Diversi riferimenti presenti nelle fonti lasciano ipotizzare ancora una volta un certo grado di complicità o noncuranza delle autorità di polizia rispetto a questi spostamenti irregolari, ipotesi rafforzata anche dalla condotta dell’agente Angelo C., che seppur mosso da interessi personali, non ritenne che le disavventure di Maria F. costituissero un fatto di cui occuparsi. Allo stesso tempo alcune ombre si allungano anche sulle autorità consolari, che nelle pagine precedenti abbiamo visto preoccupate per il disonore che le prostitute arrecavano al buon nome della colonia italiana in Egitto (o a Malta e Tripoli), invocando misure restrittive nei confronti della mobilità femminile. Nel momento dell’amministrazione della giustizia consolare, 74. Si veda From Slovenia to Egypt.

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tuttavia, sembrarono privilegiare quello statuto di immunità riconosciuto di fatto ai cittadini europei attraverso il regime delle capitolazioni. Una realtà che, evidentemente, aveva ben presente Claire D. quando nella sua lettera indirizzata direttamente in Italia affermava di non essersi rivolta al Consolato per paura di esporsi inutilmente. Processata per lenocinio dal tribunale consolare di Alessandria d’Egitto, quindi non dalla giustizia locale, Cristina Z. venne in effetti assolta con sentenza del 1° dicembre 1928 per insufficienza di prove. Infine, la storia di Maria F. induce a riflessioni che riguardano anche la prossimità tra lavoro domestico e prostituzione, tema anche questo evocato a più riprese nelle fonti, ma non in modo univoco. Ci sono almeno tre nodi su quali il caso attira l’attenzione. Il primo è la condizione di fragilità lavorativa delle domestiche e l’alto contenuto di rischio connesso al loro lavoro. Un mestiere a statuto debole, con orari di lavoro e mansioni indefinite a forte vocazione relazionale, svolto nel chiuso della casa padronale, dove spesso la lavoratrice viveva senza poter usufruire di un suo spazio privato, il lavoro domestico ha storicamente esposto le donne a una certa vulnerabilità sessuale: alle voglie del padrone (o di suo figlio), alle violenze, alle seduzioni o al ricatto sessuale. Molte sono quelle che una volta uscite, con disonore, dalla casa padronale, magari incinte, senza protezioni sociali, hanno ingrossato il mercato della prostituzione. Non casualmente, questo è stato uno dei temi principali portati nell’arena politica dalle associazioni femminili che in questi stessi decenni si mobilitavano intorno alla prostituzione, alla sua regolamentazione ed espansione, quale il Comitato italiano contro la tratta.75 Il secondo nodo, che ha delle attinenze con il primo ma non è sovrapponibile a esso, è la generale “debolezza” del lavoro femminile, non solo precario, insicuro, non formalizzato, ma anche e soprattutto malpagato e meno retribuito di quello maschile. Il Prefetto di Gorizia ha fotografato gli effetti di questa posizione subordinata in modo essenziale: a centinaia partivano per fare le domestiche, bambinaie, governanti, ma non poche in un secondo momento lasciavano questi mestieri, ma anche quelli di operaia, guardiana, tessitrice, lavandaia, per darsi alla prostituzione. Dietro questo scivolamento di mestiere le fonti lasciano immaginare diverse circostanze. Una certamente consiste nel fatto che la prostituzio75. Mi sono occupata del modo in cui il Comitato contro la tratta ha colto la relazione tra lavoro domestico e prostituzione già in Schettini, Il Comitato italiano contro la tratta.

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ne poteva rappresentare un mestiere più redditizio. Come tutti i lavori ha avuto forme differenti di organizzazione, fasi diverse, variabili (come la razza, ad esempio) determinanti, ma come anche le fonti interpellate hanno mostrato, per molte donne la prostituzione ha rappresentato un lavoro meglio pagato di altri, all’interno del quale erano possibili anche percorsi di mobilità (come quello classico da prostituta a tenutaria). Ugualmente importante sembra il ruolo giocato dai periodi e contesti di crisi, quando la competizione nel mondo del lavoro non qualificato si faceva feroce e ingaggi da domestiche, balie, governanti non se ne trovavano più: la prostituzione diventava allora anche uno dei pochi lavori disponibili per le donne, a cui esse ricorrevano in maniera più o meno temporanea e occasionale. La terza questione che credo la storia di Maria F. contribuisca a esplicitare è l’operazione di stigmatizzazione che attraverso le prostitute ha investito la categoria delle lavoratrici migranti in generale e, in questo caso, le domestiche che da Gorizia si recavano ad Alessandria. Mirjam Milharčič Hladnik in From Slovenia to Egypt76 si chiede se il mancato riconoscimento comunitario e il sospetto con cui le Aleksandrinke sono state accolte in patria, fossero dovuti anche al fatto che la loro meta era l’Egitto, un Paese che un certo mito orientalistico associava all’harem, alla disponibilità e al pericolo sessuale. Credo non sia sbagliato aggiungere che nella connotazione negativa attribuita a queste lavoratrici abbia avuto un peso anche la consapevolezza diffusa che l’Egitto fosse paese di emigrazione delle prostitute. In una cultura non avvezza a valorizzare il lavoro delle donne e a riconoscere l’autonomia dei processi migratori femminili, lo spettro della prostituta migrante, ma ancor più della donna virtuosa che “cade” quando si allontana da casa, è stato evidentemente messo al lavoro anche per la costruzione di un preciso immaginario dei ruoli e dei modelli di genere nella società.

76. From Slovenia to Egypt, introduzione.

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1. Stati Uniti Prostituzione e immigrazione negli Stati Uniti: «un affare europeo» Nel numero di aprile del 1907 del «McClure Magazine», un mensile a diffusione nazionale iniziatore del filone del «muckraking journalism»,1 inchieste dedicate alla corruzione politica, economica e sociale negli Stati Uniti travolti dalla rapida industrializzazione, comparve The City of Chicago: A Study of the Great Immoralities, con la firma di George Kibbe Turner. Il reportage indagava tra i principali affari criminali a Chicago e in altri centri importanti degli Stati Uniti, intercettando l’interesse di un’opinione pubblica che percepiva le grandi città sempre più insicure. Dopo aver lungamente parlato del business legato all’alcool, l’autore svelava che la seconda fonte di guadagno – per importanza – della criminalità organizzata era il traffico di donne. In particolare, si denunciava l’esistenza di un’organizzazione di ebrei russi che importavano donne della loro nazionalità per impiegarle nel mercato della prostituzione delle principali città statunitensi. A Chicago, ad esempio, erano loro – in compagnia di trafficanti degli altri Paesi di immigrazione – che fornivano ormai la maggioranza delle 1. Cfr. Encyclopædia Britannica, v. Muckraker journalism (2017), https://www.britannica.com/topic/muckraker (ultimo accesso 30 settembre 2022). Si veda anche, tra gli altri, American Journalism: History, Principles, Practices, a cura di W. David Sloan, Lisa Mullikin Parcell, Jefferson (Carolina) - London, McFarland, 2002, p. 224.

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prostitute che si incontravano nel Levee district, il quartiere a luci rosse, dove bordelli a buon mercato si mischiavano a case di incontro raffinate e dispendiose, e ormai era raro incontrare prostitute che parlassero inglese.2 Lo stesso autore, tre anni dopo, ritornava sul tema con il reportage, questa volta in gran parte ambientato a New York, The Daughters of the Poor.3 Qui il giornalista svelava ai lettori importanti dettagli di come il mercato delle «schiave bianche», come chiamava le donne coinvolte, fosse organizzato. Esistevano tre centrali dei commerci: Parigi, un gruppo di città allora appartenenti ai territori polacchi sotto il controllo di Austria e Russia, e New York. È interessante notare come Turner legasse la diffusione della tratta delle bianche negli Stati Uniti ai grandi flussi migratori che avevano investito il Paese nei primi anni del Novecento e, cosa ancora più significativa, che definisse il fenomeno «this European trade in America» e altre volte «this European industry».4 Negli stessi giorni in cui usciva quest’ultima inchiesta un giornale dell’area di Washington, «The Tacoma Times», svelava altri importanti particolari relativi all’organizzazione dei presunti traffici. Funzionari dei servizi di immigrazione francesi e italiani avrebbero avuto un ruolo decisivo nell’arrivo negli Stati Uniti di malcapitate dei loro Paesi destinate alla prostituzione. Gran parte delle centinaia di “donne sole” che sbarcavano negli Stati Uniti, presumibili vittime del traffico, partivano da Napoli e questo avrebbe potuto far ipotizzare anche un coinvolgimento della Camorra nell’affare criminale, avvisava l’autore dell’articolo. Ma così non stavano le cose. Le fonti a disposizione delle autorità, continuava, mostravano che in prevalenza a muovere le fila dell’emigrazione femminile “a rischio” erano 2. Cfr. George Kibbe Turner, The City of Chicago: A Study of the Great Immoralities, in «McClure’s Magazine», 28 (aprile 1907), pp. 575-592, in particolare per i riferimenti fatti nel testo si veda p. 580. Ampi stralci del reportage sono consultabili all’indirizzo https://brocku.ca/MeadProject/Turner/Turner_1907.html (ultimo accesso 30 settembre 2022). 3. The Daughters of the Poor: A Plain Story of the Development of New York City as a Leading Centre of the White Slave Trade of the World, under Tammany Hall, in «McClure’s Magazine», 34 (novembre 1909), pp. 45-61, consultabile in gran parte all’indirizzo https://brocku.ca/MeadProject/Turner/Turner_1909b.html (ultimo accesso 30 settembre 2022). 4. Ivi, in particolare p. 45.

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«cittadini onorati» e che la principale ragione per la quale Napoli svettava tra i porti di imbarco era semplicemente che in gran parte a muoversi erano donne delle province meridionali. Queste regioni si erano drammaticamente spopolate di uomini nel corso degli ultimi anni, emigrati in massa nelle Americhe, e la sex ratio era ormai lì di dieci donne per un uomo. Una condizione ideale per i trafficanti, che avevano gioco facile «a persuaderle a seguirli», istruendole su come aggirare i controlli tanto alla partenza quanto all’arrivo, dove sarebbero state accolte da altre donne già coinvolte nell’organizzazione del «commercio delle bianche» e che prendevano una percentuale per ogni donna che riuscivano a far passare.5 Anche «The New York Times» si era occupato del tema, aggiungendo qualche osservazione in più a proposito delle donne «importate per scopi immorali» e della complicità dei funzionari dei loro Paesi di provenienza. Secondo l’autorevole testata newyorchese i mancati controlli non andavano invece annoverati nella casistica della corruzione di singoli pubblici ufficiali. Essi piuttosto rispondevano a una precisa politica dei governi europei, secondo la quale con «l’esportazione delle donne» essi si sarebbero liberati di «elementi immorali». Una convinzione considerata dal giornale, tuttavia, del tutto sbagliata. A suo dire, infatti, le donne che arrivavano sulle coste americane non erano affatto viziose, ma solo ingenue e ignoranti, allettate da false promesse di lavori onesti, e facili prede di approfittatori che facevano leva sulla loro mancata conoscenza della lingua e delle leggi locali. Quello in atto, concludeva «The New York Times», era un attacco sistematico alla «womanhood of the nations».6 Un riferimento che conferma esplicitamente come anche nelle storie che stiamo per leggere l’intreccio tra nazione e onore sessuale, misurato sul corpo delle donne, ha giocato un ruolo fondamentale. Gli esempi fatti sono solo alcuni dei tanti che si potrebbero portare del progressivo imporsi nell’opinione pubblica e nella cultura popolare degli Stati Uniti di inizio secolo del tema delle immigrate europee arruolate per un mercato della prostituzione in vertiginosa crescita. Differentemente dal vecchio mondo, dove le preoccupazioni erano state più precoci e si erano addensate soprattutto intorno all’emigrazione delle donne di malaffare e ai danni che queste arrecavano alla reputazione nazionale, 5. White Slave Scandal, in «The Tacoma Times», 12 novembre 1909. Traduzione dall’inglese a cura dell’autrice. 6. Traffic in “white slaves”, in «The New York Times», 18 luglio 1909.

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negli Stati Uniti la nuova dimensione internazionale e industriale della prostituzione è diventata oggetto di attenzione diffusa solo nel primo decennio del Novecento e ha preso prevalentemente la forma di un problema legato all’immigrazione. La particolare declinazione del tema non stupisce, dal momento che l’emergenza immigrazione era proprio in quegli anni al suo massimo storico nel Paese, che dal 1905 e per tre anni di seguito registrò oltre un milione di arrivi l’anno.7 La composizione dei flussi stava inoltre cambiando con l’aumento delle provenienze dai Paesi del Sud Europa a discapito di quelle dai Paesi del Centro e Nord del continente, prevalenti invece alla fine dell’Ottocento. Oltre che geografico, il cambiamento interessava anche le classi di lavoratori migranti coinvolti: negli anni presi in esame prevalentemente serbatoi di manodopera industriale e per le attività edilizie, precedentemente in gran parte lavoratori agricoli e tendenzialmente stanziali. Nel 1907, il Congresso degli Stati Uniti istituì una Commissione sull’Immigrazione con l’incarico di svolgere un’inchiesta su larga scala sul mondo dell’immigrazione, così da avere una base di conoscenze utili a orientare le politiche in materia. Da anni il Congresso dibatteva al suo interno sull’opportunità o meno di adottare misure restrittive e criteri di selezione, sui benefici o i danni che gli immigrati comportavano per lo sviluppo degli Stati Uniti, e già alcune leggi federali erano state varate in materia nei decenni precedenti. Il primo atto di questo genere, il Page Act del 1875,8 inaugurò anche le politiche immigratorie su base razziale del governo statunitense (rafforzate dal The Chinese Exclusion Act del 1882). Esso proibiva l’ingresso e la permanenza dei lavoratori provenienti da Cina, Giappone e altri Paesi asiatici arruolati non su base libera e volontaria e di tutte le prostitute cinesi. Un atto che testimonia bene la preminenza che la questione sessuale ha avuto sin dall’inizio nelle politiche rivolte all’immigrazione, laddove tra i suoi primi obiettivi si dava quello 7. Per un inquadramento di lungo periodo delle politiche immigratorie degli Stati Uniti si veda Stefano Luconi, Matteo Pretelli, L’immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2008. 8. Dal nome del principale sostenitore della misura, il repubblicano Horace F. Page, membro della Camera dei Rappresentanti. Il testo della legge è reperibile on line all’indirizzo https://immigrationhistory.org/item/page-act/ (ultimo accesso 30 settembre 2022). Si veda l’analisi del testo proposta in Ming M. Zhu, The Page Act of 1875: In the Name of Morality (2010), in «SSRN Electronic Journal», disponibile all’indirizzo http://dx.doi. org/10.2139/ssrn.1577213 (ultimo accesso 30 settembre 2022).

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di «proibire l’importazione di donne a scopo di prostituzione» da qualsiasi Paese provenissero. Analogamente, l’Immigration Act del 1903, con il quale il Congresso ampliava le categorie degli esclusi annoverando tra questi gli anarchici e chiunque fosse ritenuto in odore di sovvertire o minacciare il governo degli Stati Uniti (non a caso la legge è comunemente conosciuta come l’Anarchist Exclusion Act), così come «gli idioti, gli infermi di mente, gli epilettici, […] i poveri, i mendicanti di professione», fissava l’esclusione anche delle prostitute e di chi era implicato in questo genere di traffici.9 Misura confermata ancora nell’Immigration Act del 1907, legge tra l’altro istitutiva della Commissione sull’Immigrazione, che proibiva «l’importazione negli Stati Uniti di qualunque donna straniera a scopo di prostituzione o per qualsiasi altro fine immorale» e che colpiva anche chi, direttamente o indirettamente, era coinvolto in questi arrivi. L’inchiesta del 1907 Nel momento in cui si preparava a studiare il mondo dell’immigrazione negli Stati Uniti, dunque, la Commissione del 1907 era istruita sull’importanza che il tema della prostituzione delle donne straniere avrebbe dovuto avere nelle indagini e rilevazioni. Così, tra i 41 volumi in cui sono raccolti i risultati di un lavoro di investigazione e analisi durato tre anni, ha trovato spazio anche un approfondimento specifico intitolato Importing women for immoral purposes, presentato in versione parziale al Congresso nel novembre 1909, stampato anche in 4000 copie e, successivamente, pubblicato nel volume 37 del rapporto completo.10

9. Il testo della legge è consultabile all’indirizzo https://immigrationhistory.org/ item/1903-anti-anarchist-legislation/ (ultimo accesso 30 settembre 2022). 10. Una puntuale discussione di Importing women for immoral purposes, in relazione anche al contesto mediatico e alle iniziative private e governative intraprese nei confronti della prostituzione delle straniere nei primi del Novecento, si trova in Francesco Cordasco (con Thomas Monroe Pitkin), The White Slave Trade and the Immigrants: A Chapter in American Social History, Detroit, Blaine Ethridge Books, 1981. In appendice è pubblicato il testo completo del rapporto (pp. 47-109). Una lettura particolarmente utile è soprattutto Serenella Pegna, Immigrazione e prostituzione nel Rapporto della Commissione Dillingham (1907-1910), in «Genesis», VI, 1 (2007), pp. 189-211. Il rapporto completo, in 41 volumi, è comunemente noto come Rapporto della Commissione Dillingham, dal nome del suo presidente e portavoce, il senatore repubblicano William P. Dillingham.

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L’indagine nel mondo della prostituzione venne compiuta, con l’impiego di un gran numero di agenti sotto copertura, soprattutto nelle grandi città, e si intrecciò con altre importanti iniziative. A New York, ad esempio, nello stesso lasso di tempo venne istituito il primo tribunale notturno con il compito di trattare gli arresti che avvenivano dopo la chiusura dei tribunali ordinari e tra i quali, naturalmente, quelli delle prostitute abbondavano. In quattro mesi di attività, il tribunale mosse accuse a più di 2000 prostitute e tra queste quasi 600 erano straniere, per lo più ebree (russe) e francesi, ma anche italiane, irlandesi, inglesi.11 Ancora più degno di nota è che mentre la Commissione passava al setaccio gli ambienti del malaffare, presero forma simultanee opere di “bonifica” delle aree a più alta densità di meretrici: Tenderloin, nel cuore di Manhattan, considerato un vero e proprio quartiere a luci rosse, venne bersagliato dalle retate della polizia e in una di queste più di 800 donne vennero fatte uscire da “case equivoche”. Nel giro di poche settimane centinaia di prostitute e altrettanti reclutatori e protettori si spostarono in altre zone o lasciarono la città, dove ormai gli affari erano diventati difficili. La Commissione compì gran parte della sua attività investigativa nel biennio 1908-1909, coniugando il lavoro sul campo, non solo nelle città statunitensi ma anche in Europa per studiare le condizioni di origine degli immigrati, con lo studio delle liste e dei documenti prodotti a Ellis Island, principale luogo di sbarco, valutazione e smistamento degli immigrati negli Stati Uniti; vennero utilizzati, inoltre, gli incartamenti del tribunale notturno e le inchieste che le autorità municipali avevano avviato in diverse città, tra cui New York e Chicago. Come ha sottolineato Serenella Pegna, a differenza delle altre parti del voluminoso rapporto, Importing women for immoral purposes si presentava come un’indagine di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo.12 Il fenomeno della prostituzione delle straniere, evocato come imponente, non era stimato precisamente anche per via dell’alto numero di quelle che sfuggivano comunque alle maglie della rilevazione. Ad ogni modo l’obiettivo principale del lavoro era dichiaratamente un altro. Era quello di tracciare l’identikit dei «moral defectives», delle donne e degli uomini 11. Cordasco (con Monroe Pitkin), The White Slave Trade and the Immigrants, p. 22. 12. Pegna, Immigrazione e prostituzione nel Rapporto della Commissione Dillingham, si vedano in particolare pp. 191 e sgg.

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stranieri incompatibili con i principi morali e i valori degli Stati Uniti, e quindi da escludere dal Paese. Andavano fermati allo sbarco o espulsi se fermati e intercettati in un secondo momento. L’attribuzione di certi crimini solo a specifici gruppi nazionali di immigrati permetteva agli Stati Uniti di presentarsi come una ideale nazione bianca, anglosassone, rispettabile, middle-class e rappresentare il vizio come qualcosa di esogeno. A questo proposito, è utile notare che il rapporto si chiudeva, eloquentemente, con l’affermazione dell’esistenza di un differente standard morale negli Stati Uniti e in Europa continentale, rivelato anche dal diverso ruolo svolto dagli uni e dall’altra nei traffici e dal diverso modo di percepire la prostituzione in generale. L’Europa, attraversata da un ramificato sistema di regolamentazione e quindi legittimazione della prostituzione, percepiva come un’offesa e un crimine solo la prostituzione delle minorenni e delle adulte sotto costrizione o per inganno. Per la società americana, invece, la crescita esponenziale della prostituzione, il commercio delle donne, era di per sé un fenomeno che minacciava l’ordine morale, familiare e sociale del Paese e contro cui nel corso di tutto l’Ottocento si erano scagliate vibranti campagne puritane e iniziative private.13 La rappresentazione della prostituzione e delle sue brutture (la schiavizzazione, lo sfruttamento, la diffusione delle malattie veneree, la sregolatezza, la dissipazione, a essa immediatamente associate) come un affare degli stranieri, costruiva per contrasto l’immagine di una nazione americana virtuosa, che veniva inquinata dalla «depravazione più bestiale»14 importata con questo genere di immigrati. «L’inclinazione delle razze continentali a guardare con tolleranza a questi mali sociali sta esercitando un’influenza nel Paese [gli Stati Uniti] rispetto alla sua depravazione, di più vasta portata dei soli danni fisici che pure inevitabilmente sono ad essa collegati».15 13. Si vedano a questo proposito le considerazioni espresse in Magualin Rodriguez Garcia, Prostitution in New York City, in Trafficking in Women 1924-1926. The Paul Kinsie Reports for the League of Nations, a cura di Jean-Michel Chaumont, Magaly Rodriguez Garcia, Paul Servais, Genève, United Nations, 2017, vol. 2, pp. 159-163. Qui è ben riassunta anche la specificità delle campagne newyorchesi contro il vizio, dirette a colpire le complicità dell’amministrazione municipale negli affari criminali. 14. Importing Women for Immoral Purposes. A Partial Report from the Immigration Commision on the Importing and Harboring of Women for Immoral Purpores, Washington, Government Printing Office, 1909, p. 32. 15. Ibidem.

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L’associazione di alcuni «mali sociali» con determinati gruppi nazionali o razze, uno dei risultati a cui conduceva il report, avrebbe poi risuonato significativamente nelle successive politiche sull’immigrazione. In particolare, come è già stato notato in altri studi,16 esso avrebbe fornito un utile background all’Emergency Quota Act del 1921 e al National Origins Act (parte dell’Immigration Act) del 1924, che determinarono le limitazioni all’ingresso negli Stati Uniti non più sulla base dell’analisi dei casi, ma dell’appartenenza a una data nazione o razza. Le quote di permessi rilasciati, ricavate sulla base della popolazione censita rispettivamente nel 1910 e nel 1890, prima quindi del punto più alto delle grandi migrazioni dall’Europa del Sud, non casualmente colpivano proprio italiani, greci, ebrei, polacchi. Le poche tabelle presenti nel report del 1909, che riportavano i dati raccolti a Ellis Island e nell’archivio del Night Court, sono utili quindi soprattutto a nominare le quattro «nazionalità/razze» che secondo gli estensori erano quelle più coinvolte nei traffici, sia per numero di prostitute sia per quello di procacciatori, protettori, intermediari: «ebrei, francesi, italiani, germanici». Per i temi qui affrontati, tuttavia, risultano particolarmente interessanti soprattutto altre parti del rapporto, dove sono ricostruiti i modi di funzionamento e l’organizzazione «dell’importazione delle donne per scopi immorali». Appurato che non c’erano tracce di un’unica o più organizzazioni internazionali che tenessero le fila del commercio, contrariamente a quanto paventato da gran parte della stampa scandalistica europea e americana, secondo la Commissione gli spostamenti di donne dal vecchio al nuovo continente e l’arruolamento nel mercato della prostituzione prevedevano comunque il coinvolgimento di più figure e la messa a lavoro di diverse specializzazioni: organizzative, logistiche, relazionali, burocratiche. Le donne, sia quelle «innocenti» qui costrette a prostituirsi, sia quelle che esercitavano già il mestiere in patria e lo riprendevano negli Stati Uniti, erano spesso associate a un uomo che traeva profitto dal loro lavoro, “proteggendole”, controllandole e spogliandole dei loro guadagni, totalmente o in parte. Con arguzia la Commissione notava come proprio la stretta di polizia sulle case di tolleranza e il conseguente riversamento nelle strade 16. Pegna, Immigrazione e prostituzione nel Rapporto della Commissione Dillingham, p. 211.

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di centinaia di prostitute le avessero maggiormente esposte alla figura dei “protettori” e al loro sfruttamento.17 Nel rapporto affiorano, inoltre, ipotesi illuminanti intorno alle strategie adottate per eludere i controlli allo sbarco. Studiando le liste redatte a Ellis Island, gli agenti avevano notato come gran parte delle donne che nei mesi successivi allo sbarco erano state poi fermate in azioni di polizia negli ambienti della prostituzione e che erano evidentemente prostitute di professione avevano fatto la traversata nelle cabine di seconda classe. Sapevano che così sarebbero state oggetto di minori controlli rispetto alle passeggere di terza classe, puntualmente passate al setaccio dai funzionari dell’immigrazione, istruiti a cercare soprattutto tra quei passeggeri i soggetti indesiderabili.18 Mariella e Beniamino: relazioni di coppia nella prostituzione oltreoceano Con il loro lavoro, inoltre, gli ispettori della Commissione aprivano uno squarcio sulla spinosa questione dei matrimoni falsi o d’occasione e, più in generale, dell’intreccio tra matrimonio e prostituzione. Incrociando anche in questo caso gli elenchi dei passeggeri con i risultati delle azioni di polizia, si era rilevato come la coppia lenone/prostituta equivalesse in numerosi casi a quella marito/moglie. Circostanza che lasciava ipotizzare in primo luogo il ricorso al matrimonio da parte delle «coppie criminali» come paravento per arrivare sul suolo americano con un’aurea di rispettabilità. In secondo luogo, spaccato ancora più inquietante, la pratica diffusa tra gli immigrati di tornare periodicamente nel proprio Paese, adescare qualche giovane ingenua e sprovveduta, indurla al matrimonio e poi portarla oltreoceano e costringerla alla prostituzione. Senza contare i diversi casi, intercettati nei lavori della Commissione, di matrimoni contratti da immigrate pronte a impiegarsi come prostitute con uomini già in possesso della cittadinanza e che così acquisivano il diritto a rimanere negli Stati Uniti. Fino al punto che nel report ci si domandava anche se non fosse il caso di revocare i diritti di cittadinanza acquisiti dalle immigrate tramite matrimoni sospetti.19 La storia di Mariella e Beniamino, calabresi di Spezzano Grande in provincia di Cosenza, emigrati negli Stati Uniti nell’aprile-maggio 1907, 17. Ivi, p. 9. 18. Ivi, p. 18. 19. Ivi, p. 207.

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intercetta molte delle questioni che finora sono state discusse attraverso i documenti e le inchieste prodotte dalle istituzioni. Essa aggiunge però una nuova prospettiva: quella biografica di due immigrati italiani negli Stati Uniti nel primo decennio del Novecento.20 Nel marzo del 1908 il Bureau for Immigration and Naturalization (incardinato nel Department of Commerce and Labor, con sede a Washington) aveva ricevuto una commovente lettera proveniente dal Colorado, nella quale una donna italiana raccontava di essere costretta dal marito a prostituirsi nei saloons della città, nonostante fosse incinta.21 Le indagini degli ufficiali del Servizio immigrazione accertavano che i fatti denunciati corrispondevano al vero e procedevano quindi all’arresto, in ottemperanza alla sezione 3 della legge sull’immigrazione del 1907, tanto della donna quanto del marito, con l’accusa rispettivamente di prostituzione e incitamento alla prostituzione. Nel corso del dibattimento vennero a galla altri particolari. Mariella raccontò di essersi sposata con Beniamino, che aveva conosciuto solo pochi mesi prima, nel dicembre 1906 e che la cerimonia era stata ufficiata nel suo paese natio, dove viveva con la madre. Non passava molto tempo che, nell’aprile del 1907, si erano imbarcati da Napoli per l’America, dove erano giunti a maggio. Si erano stabiliti dapprima a Rosslan, nella Columbia Britannica, provincia occidentale del Canada, per poi spostarsi a Spokane (nello Stato di Washington) e infine a Silverton, piccolo centro del Colorado, coprendo in meno di un anno circa 2000 chilometri. In tutti e tre questi luoghi il marito costrinse Mariella a prostituirsi, privatamente e in postriboli, accaparrandosi tutti i suoi guadagni. Risultava dalle indagini, in effetti, che per tutto il tempo in cui era stato in America l’uomo non si era mai procurato un lavoro, «vivendo invece della prostituzione della moglie». Terminato il procedimento la donna venne rimpatriata in Italia, nell’agosto del 1908, mentre l’uomo fu condannato a tre anni di reclusione e a una multa di 500 dollari. Scontata la pena, Beniamino venne a sua volta respinto in Italia, dove giunse il 16 dicembre 1910. È in questo frangen20. In queste pagine l’immigrazione italiana negli Stati Uniti è sullo sfondo della scena. Per un approfondimento si rimanda, tra gli altri, a Piero Bevilacqua et al., Verso l’America. L’emigrazione italiana e gli Stati Uniti, Roma, Donzelli, 2005. 21. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1910-1912, cat. 10900.21, fasc. Beniamino B., Department of Commerce and Labor, Bureau for Immigration and Naturalization a MI, DGPS, 17 dicembre 1910.

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te che le autorità americane contattarono quelle italiane, per informarle dell’accaduto e dell’imminente rientro in patria dell’uomo, sul quale invitarono a vigilare per evitare che tornasse a sfruttare la moglie. Dal riscontro dato nei mesi successivi dalla prefettura di Cosenza al Ministero dell’Interno sui controlli effettuati, apprendiamo che in effetti i due coniugi si trovavano entrambi a Spezzano, ma che Mariella viveva con la madre. Beniamino aveva fatto le pratiche per imbarcarsi nuovamente e il 16 febbraio 1911 era salpato da Napoli verso il Messico, con tappa in Spagna.22 La storia di Mariella e Beniamino può essere annoverata tra quelle vicende che hanno coinvolto «donne innocenti», come le aveva definite la Commissione Dillingham, sposate e condotte negli Stati Uniti sembrerebbe proprio con l’intenzione di farle prostituire. Non si può non notare, tuttavia, come questa sia una vicenda che non parla solo di donne, ma anche del modo in cui gli uomini e una precisa cultura delle relazioni matrimoniali improntata alla subalternità e alla svalorizzazione delle donne hanno partecipato alla prostituzione globale. Sebbene la figura del marito o amante/lenone sia particolarmente munifica di riflessioni e sia ben rappresentata in questa vicenda, essa tuttavia non esaurisce i modi in cui le relazioni di coppia sono state messe a lavoro nel processo di internazionalizzazione della prostituzione. Attraverso altre vicende, intercettate dalle fonti, vengono restituite anche situazioni ed equilibri diversi. Vincenzo (Jim) Ci. e Paolina Ca., marito e moglie, vennero espulsi dagli Stati Uniti in ottemperanza alle disposizioni della legge sull’immigrazione, quella del 1917,23 per il loro coinvolgimento negli ambienti della prostituzione.24 Diversamente dal caso di Beniamino e Mariella, tuttavia, dai pochi documenti a disposizione non sembra facile nel loro caso inserire la figura femminile nella classe delle “vittime innocenti”. Paolina era al suo secondo matrimonio. Nata nel 1890 in un piccolo centro nei dintorni di Caltanissetta in Sicilia, di genitori ignoti, aveva frequentato le cinque classi delle elementari e di professione risultava casa22. Ivi, Prefettura della Provincia di Cosenza a MI, DGPS, 2 marzo 1911. 23. Comunemente nota come Literacy Act, questa nuova legge allargò ulteriormente le categorie degli indesiderabili e introdusse test di ingresso volti ad accertare le competenze di lettura degli aspiranti immigrati. 24. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. V. Emilio e C. Vincenzo e Paolina.

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linga. Emigrò negli Stati Uniti, approdando a New York, nel 1908. Stando al rapporto di deportazione inviato alle autorità italiane da quelle statunitensi, da quando era giunta in Nord America aveva esercitato il mestiere di prostituta, venendo anche arrestata varie volte per questo e per contravvenzione alle leggi sugli alcolici. Nel corso degli anni aveva poi intrapreso la carriera di tenutaria, mettendosi a dirigere diverse «disorderly houses» e facendo lavorare quindi altre donne per lei. Venne espulsa dagli Stati Uniti il 30 aprile 1938 dopo che la sua ultima attività era stata scoperta. Con Paolina fu espulso anche il secondo marito Vincenzo Ci., apparentemente una figura di secondo piano, che dalle carte sembra semplicemente vivere dei guadagni della moglie. Anche lui proveniva da un piccolo centro vicino Caltanissetta ed era al secondo matrimonio, ma era emigrato dopo la donna, nel 1913. Una volta tornati in Sicilia, nei mesi successivi i due non avevano dato luogo ad altri rilievi. Ad accomunare le due coppie ci sono pochi, ma sostanziali, elementi. Indipendentemente dalla loro posizione e dal loro ruolo nelle vicende giudiziarie, vennero tutti e quattro espulsi dagli Stati Uniti come soggetti indesiderabili, percepiti ugualmente come una minaccia all’ordine morale del Paese. Circostanza che esplicita efficacemente come nelle politiche di contrasto ai traffici e alla prostituzione internazionale adottate negli Stati Uniti a prevalere fosse la difesa dell’integrità della nazione dagli immigrati. Una preoccupazione per certi aspetti speculare a quella che abbiamo visto operare nelle politiche adottate dall’Italia nel contesto della prostituzione nel Mediterraneo, dove a prevalere era l’intenzione di tutelare il buon nome della nazione dai danni arrecati dalle emigranti. Altrettanto significativo è che in tutti e due i casi le figure maschili, pur diverse considerando il grado di responsabilità e il ruolo negli affari, emergono come figure “parassitarie” che vivono dei guadagni provenienti dalla prostituzione o dall’impresa gestita dalle donne. È un elemento importante per leggere in profondità, mettendolo alla prova della microstoria e della storia personale, il mondo della prostituzione globale. 2. Souteneurs e trafficanti I documenti relativi ai traffici e ai casi avvenuti tra Italia e Americhe, in questo senso, sono particolarmente utili. Le carte di polizia e le corrispondenze ministeriali relative alla prostituzione e alla tratta delle bianche

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nel Mediterraneo hanno fotografato soprattutto le traiettorie e gli spostamenti delle prostitute di mestiere nel circuito delle case di tolleranza autorizzate, le paure e le questioni che la loro presenza in colonia ha sollevato, ma anche il modo in cui le dinamiche del mercato del lavoro e le politiche razziali hanno agito da push and pull factors. Guardando alla direttrice Europa/Americhe vengono in primo piano altri soggetti e altri temi. Come si è detto, in questo caso il processo di globalizzazione della prostituzione è intrecciato e si muove all’ombra delle grandi migrazioni e tra le figure raccontate nelle fonti d’archivio relative alla tratta delle bianche nelle Americhe compare una più diversificata gamma di uomini e donne emigranti: uomini coinvolti nei giri della prostituzione oltreoceano che fanno la spola con i Paesi d’origine per «procacciare» donne da impiegare lì; emigranti che hanno trovato nel mercato in espansione della prostituzione clandestina una lucrosa fonte di reddito; mariti o amanti che sfruttano partner raggirate e ingannate. In questa varietà di casi, dei quali è rimasta traccia grazie al coinvolgimento delle polizie internazionali, le fisionomie maschili si stagliano con maggiore nitidezza. In linea generale, come si è già avuto modo di notare nelle storie lette finora, gli uomini hanno partecipato e lavorato nel mercato globale della prostituzione in una varietà di posizioni. Essi, tuttavia, sembrano appartenere per lo più alla categoria delle «third parties», recentemente adottata nelle scienze sociali per riferirsi all’insieme delle persone per le quali e con le quali lavorano le prostitute (dai proprietari/gestori delle case di prostituzione agli «agenti di ingaggio», passando per i mediatori, i protettori, gli sfruttatori) o le persone che lavorano per loro (dai tuttofare agli autisti).25 Queste figure sono parte integrante del processo di espansione del mercato della prostituzione e, non a caso, una parte consistente della campagna politica e diplomatica contro la tratta delle bianche si è appuntata proprio sul trafficante e sul souteneur (protettore, lenone), additandoli spesso come i responsabili della prostituzione e dei traffici. Così, i codici novecenteschi vengono aggiornati in materia di istigazione, costrizione, sfruttamento, favoreggiamento della prostituzione, prestando progressivamente più attenzione alla varietà dei soggetti che si muovono, vivono e lavorano intorno al meretricio e aprendo a nuovi scenari di sfruttamento. 25. Si veda per esempio Third Party Sex Work and Pimps in the Age of Anti-trafficking, a cura di Amber Horning, Anthony Marcus, Berlin, Springer, 2017.

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In Italia, il Codice penale del 1889 prevedeva già, tra i reati contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, una serie di articoli specificatamente dedicati al lenocinio, con i quali si sanzionava l’induzione (art. 345), il favoreggiamento (art. 346), la costrizione (art. 347) alla prostituzione, ma solo delle minorenni; faceva eccezione il caso del marito che con violenza o minaccia costringeva la moglie, anche maggiorenne, al meretricio (art. 347), che però era perseguibile solo a querela di parte. Quarant’anni dopo, con il Codice penale del 1930, le norme rispecchiano importanti allargamenti delle fattispecie e i nuovi scenari in corso: oltre all’induzione, all’istigazione e alla costrizione alla prostituzione (artt. 531-533), ora un titolo specifico puniva «chiunque si fa mantenere, anche in parte, da una donna, sfruttando i guadagni che essa ricava dalla sua prostituzione» (art. 534). Altrettanto significativamente, venivano puniti coloro che con violenza e minaccia costringevano una donna, sia minorenne che maggiorenne, a recarsi all’estero o «si intromette per agevolarne la partenza» sapendo che lì sarebbe stata «tratta alla prostituzione» (art. 536). Nel caso delle minorenni il reato si integrava senza bisogno che ci fosse costrizione (art. 535). Dal canto suo, nello stesso periodo, la Società delle Nazioni avviava un importante opera di ricognizione e studio della figura del souteneur e della legislazione a esso dedicata nei vari Paesi. L’intenzione era di arrivare a un progetto di convenzione specificatamente rivolta alla persecuzione delle figure che lucravano dalla prostituzione e che si riteneva presiedessero allo spostamento su scala internazionale delle prostitute.26 Secondo questo studio, il souteneur era mediamente un uomo giovane e abile (ma non erano esclusi casi di donne altrettanto spietate) che viveva dei guadagni di una o più prostitute, non aveva altra occupazione (se non di facciata) e si trovava prevalentemente nei grandi agglomerati urbani, dove amava spendere denaro per fare la bella vita.27 Nonostante l’attenzione che le terze parti hanno attirato tanto in ambito penale che politico, esse sono state quasi del tutto ignorate dalla ricerca storica, come ha già opportunamente notato Julia Laite.28 A questa assenza di 26. Étude sommaire des lois et sanctions relatives aux souteneurs, Società delle Nazioni, 1931, ma realizzato nel 1929. Una copia dello studio è conservata in ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 19. 27. Ivi, p. 4. 28. Julia Laite, Traffickers and Pimps in the Era of White Slavery, in «Past and Present», 237 (2017), pp. 238-269.

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studi ha probabilmente contribuito anche la scarsezza di fonti che raccontano storie o frammenti di biografie degli uomini coinvolti nei «turpi traffici». La quasi totalità dei controlli e delle indagini, degli interrogatori e delle richieste di informazioni, gestite ad esempio dalla Polizia giudiziaria italiana, hanno riguardato e investito donne, prostitute o malcapitate e sventurate come Mariella. È un elemento che esplicita efficacemente come al cuore delle politiche e delle misure repressive e di contrasto contro il «turpe commercio» ci sia stata in ultima analisi una istanza di controllo della sessualità e della mobilità delle donne. Una politica che ha lasciato quasi del tutto in ombra le figure maschili pure evidentemente parte del fenomeno, come clienti, incettatori, trafficanti, lenoni, sfruttatori, intermediari, emissari, accompagnatori, agenti. L’opportunità rappresentata dalla lettura di alcune vicende delle quali si sono occupate le autorità italiane è dunque preziosa, dal momento che permette di rendere meno elusive queste figure e di discutere alcuni aspetti della partecipazione degli uomini alla scena della prostituzione globale. Uomini tra due continenti: Stefano, Max e gli altri Dai pochi documenti che riguardano un altro caso di tratta delle bianche che ha messo in contatto le autorità italiane e il Bureau for Immigration statunitense conosciamo Stefano M., proveniente da San Roberto, piccolo Comune sul versante calabrese dello stretto di Messina, emigrato negli Stati Uniti, esattamente a New York, nei primi anni del Novecento (1902/1903). L’uomo, 34 anni, si era stabilito in città e nel corso del tempo aveva preso in gestione una birreria. Nel febbraio del 1914, tuttavia, veniva segnalato dal prefetto di Reggio Calabria al Ministero dell’Interno, e da questi alle autorità americane, perché «sospetto di esercitare la tratta delle bianche a danno di ragazze minorenni italiane».29 Stefano era infatti rientrato temporaneamente in Italia nel 1912 e nelle terre di provenienza avrebbe reclutato tre ragazze, Giovannina D., Carmela O. (detta Bumbularella) e certa Mariuzza, che «col pretesto di impiego in lavori ben retribuiti sarebbero state adescate e subdolamente indotte al principio dello scorso anno a partire alla volta di detta metropoli [New York] ad opera di alcuni 29. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-15, cat. 10900.21, b. 58, fasc. Stefano M., Giovannina D., Carmela O., Mariuzza, MI a Commissioner of Immigration, Department of Labor, 11 febbraio 1914.

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individui venuti dall’America appunto per incettare ragazze», tra i quali era stato riconosciuto Stefano M. In effetti l’uomo risulta si sia imbarcato una prima volta per New York nel 1902 e una seconda volta nel 1913.30 Non sono arrivate a noi altre notizie della vicenda, ma anche attraverso queste poche informazioni possiamo avanzare alcune ipotesi. Stefano M. non sembra abbia avuto alcun legame particolare con le donne fatte emigrare per essere tratte alla prostituzione a New York. Piuttosto, il suo sembra il profilo dell’emigrante con sufficiente esperienza e ben integrato nel luogo di arrivo che avrebbe trovato nel mercato della prostituzione internazionale un’ulteriore fonte di guadagno; un profilo già descritto qualche anno prima dalla Commissione Dillingham. A questa, infatti, non era sfuggito che per assecondare le leggi che vigevano nel mercato della prostituzione in un Paese a forte densità di immigrati – secondo le quali i clienti italiani avrebbero preferito prostitute italiane – alcuni emigranti più integrati e con una certa capacità economica erano incaricati o prendevano l’iniziativa di tornare in patria per reclutare compatriote. Anche le fonti che riguardano Max S., svizzero di origine e giramondo per affari, concorrono a mettere più adeguatamente a fuoco le storie degli uomini coinvolti nel mercato della prostituzione globale. Passato dalla Svizzera alla Francia, poi a Buenos Aires, Amburgo, Vienna, Trieste, Milano, Max S. ci introduce a una vicenda ad alto contenuto di mobilità, con ripetuti cambi di Paese nel giro di pochi anni e ad alcune possibili interpretazioni di questa dinamica. Nel caso delle prostitute che si muovevano attraverso il Mediterraneo gli spostamenti, lo abbiamo visto, erano indotti dalla logica del ricambio che guidava il sistema delle case di tolleranza, oppure erano ispirati dalle promesse di maggiori guadagni che alcuni Paesi lasciavano immaginare o, infine, dalle politiche razziali dei governi coloniali. Nel caso degli uomini le ragioni erano diverse e quelle di giustizia non sembra siano state irrilevanti. Inoltre, se prendiamo in considerazione gli «incettatori» che hanno mobilitato le polizie di più Paesi, le traiettorie si allungano notevolmente, mettendo in connessione vecchio e nuovo mondo, con le Americhe del Sud ampiamente coinvolte. Max S., che di professione si dichiarava ballerino di tango, era nato a Berna nel 1881 ma si era spostato con i genitori negli anni successivi prima a Losanna (1888) e poi a Zurigo (1894) dove rimase per due anni. La sua 30. Le informazioni sono ricavabili dai materiali messi a disposizione in https:// www.libertyellisfoundation.org.

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carriera criminale iniziò qualche tempo dopo e dai documenti conservati non è stato possibile ricostruirne tutti i passaggi, ma gli elementi a disposizione sono sufficienti a coglierne i tratti essenziali. Era nella capitale francese nei primi anni del secolo nuovo e qui probabilmente entrò in contatto con gli ambienti della malavita, in particolare con il giro degli «apaches», le bande criminali che nella Parigi della Belle Époque avevano base nei quartieri della capitale, Belleville, Bastille, Montmartre, distinguendosi per brutalità dei colpi, interessi nel mondo della prostituzione e vestiario eccentrico, fatto di coppola, scarpe luccicanti, magliette a righe, fazzoletti di raso sgargianti.31 Secondo la prefettura di Parigi, per tre anni Max S. dimorò in città «senza mai lavorare riscuotendosi fama di sfruttatore di donne».32 Nel 1906 e 1907 venne varie volte fermato dalla polizia e sottoposto a segnalamento, e una volta anche condannato a 13 mesi di carcere per «eccitamento di minori al libertinaggio, furto e violenza». Espulso dalla Francia nel giugno del 1907, a novembre del 1909 era ancora nel Paese, subendo una nuova condanna a otto mesi per oltraggio al buon costume. Ritroviamo le sue tracce due anni dopo a Monaco, dove «stette in relazione con una donna di malaffare che egli spingeva al libertinaggio dietro compensi di 1.000 marchi o di regali di un valore corrispondente». Successivamente si osservò un deciso miglioramento della sua condizione economica, lui notoriamente privo di mezzi, e «si ritiene ciò si debba a illecito commercio di donne». Due anni dopo ancora, nel marzo 1913, era a Vienna, dove non diede luogo a rilievi penali ma venne segnalato come ballerino in una casa di piacere. Lasciò Vienna per Berlino, ma sicuramente nello stesso periodo si recò anche ad Amburgo. Nel marzo 1914 la vicenda si spostò in Italia. Alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza arrivò un dispaccio dalla Direzione della polizia di Amsterdam con il quale si comunicava che una coppia di signori, genitori della minore Emilia H., avevano chiesto l’intervento delle autorità per avere notizie della figlia sedicenne. La coppia sapeva che in quel momento 31. Per approfondire il fenomeno degli «apaches», anche discutendo i legami tra questi e gli ambienti delle classi lavoratrici parigine, si vedano ad esempio le note in James Cannon, The Paris Zone: A Cultural History, 1840-1944, London-New York, Routledge, 2015, pp. 88 e sgg. 32. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, b. 56, fasc. Max S., Emilia H., Scuola di Polizia scientifica, Servizio centrale di identificazione a MI, DGPS, 21 aprile 1914.

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la ragazza si trovava a Milano, in compagnia «di un tale Max S.», che però non le permetteva di comunicare con loro, confiscandole la corrispondenza. Come indicazione utile per rintracciarla segnalavano che Emilia si esibiva ogni sera presso il Teatro varietà Trianon; esprimendo forti preoccupazioni per i giri e gli affari in cui sembrava fosse finita, ne chiedevano il rimpatrio. Allertata la prefettura di Milano, le indagini confermarono i peggiori timori e portarono all’arresto di Max S. per lenocinio, riuscendo anche a ricostruire, tramite l’interrogatorio di Emilia, il particolare modus operandi dell’uomo: «È risultato infatti che tale individuo viaggiava per i teatri di varietà dell’Europa e anche dell’America, portando seco giovani ragazze col pretesto di combinare insieme dei numeri di varietà, mentre invece effettivamente le faceva sue amanti, nulla loro pagando di quanto sarebbe loro spettato come ballerine ed esigendo anzi del denaro che le spingeva a guadagnare facendo turpe mercato di se stesse».33 Relativamente ai fatti che riguardavano la ragazza la polizia riuscì a ricostruire che Max S. era arrivato in Italia, l’ultima volta, a metà febbraio, in compagnia di tre giovani (una delle quali era Emilia). Ella raccontò di averlo conosciuto un anno prima ad Amburgo dove lui l’aveva corteggiata insistentemente, cercando anche di convincerla «che andasse con lui a scritturarsi nei teatri di varietà». Riuscì così bene nelle sue lusinghe da vedersi accordato il permesso della madre a condurre la ragazza in tournée. Al principio del 1914 i due si recarono dapprima a Londra, che però lasciarono immediatamente perché Max S. era stato informato da un amico che la polizia lo stava cercando, e poi a Vienna, città che lui già conosceva. Qui indusse Emilia, che nel frattempo era diventata la sua amante, a prostituirsi con gli uomini, specialmente quelli benestanti, che assistevano ai loro spettacoli. Nello stesso periodo conobbero anche un’altra ragazza, Kathe F., che lui convinse a unirsi alla loro tournée. A febbraio arrivarono quindi tutti e tre a Trieste, dove li raggiunse anche un’altra ex amante dell’uomo, che presto però scappò facendo perdere le proprie tracce. Intanto il ménage era sempre lo stesso: Max S. costringeva le due ragazze a esibirsi negli spettacoli e poi a prostituirsi con clienti/spettatori facoltosi, depredandole di ogni guadagno o regalo ricevuto. Kathe F. dichiarò in sede di interrogatorio di non essere scappata sia per paura del carattere di Max S., «carattere brutale e violento che non mancava mai di 33. Ivi, Prefettura di Milano a MI, DGPS, 20 marzo 1914.

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manifestare», sia per «i racconti terrorizzanti che egli faceva affermando di aver sia a Londra, sia a Parigi, che a Buenos Aires consumati delitti, riuscendo sempre a sfuggire alla punitiva giustizia». Emilia dal canto suo raccontò che da quando era diventata la sua amante e veniva fatta prostituire, lui l’aveva picchiata ripetutamente; in un’occasione, tornata a casa senza guadagni, l’aveva anche frustata in presenza di Kathe, che confermò l’accaduto. La vicenda si concluse a Milano, come anticipato, a marzo. A contribuire all’arresto dell’uomo e alle indagini erano stati da una parte l’interessamento delle autorità di polizia dei Paesi Bassi, dall’altra i controlli scattati quando Emilia H. era stata ricoverata per una emorragia uterina, sospetto esito di un procurato aborto. Il 20 aprile 1914, tuttavia, il Tribunale di Milano assolse Max S. per insufficienza di prove e lo consegnò alla madre, in città per assisterlo. Dal canto suo, il Ministero dell’Interno emise un decreto di espulsione dal Regno a suo nome per motivi di ordine pubblico. Nelle carte che finora abbiamo analizzato relative all’operato di Max S. si fa solo cenno a una sua presenza a Buenos Aires. A vicenda giudiziaria conclusa, tuttavia, proprio dalla polizia di questa città arrivarono altre importanti notizie su di lui alla Polizia scientifica italiana, incaricata di ricostruirne la storia criminale.34 Benché i documenti siano elusivi al riguardo, è presumibile che Max S. avesse vissuto a più riprese in Argentina e sicuramente si trovava lì in un periodo precedente al settembre 1912 e poi nell’estate/autunno 1913, quando lasciò il Paese. A Buenos Aires era conosciuto con le sue vere generalità e con il soprannome “Cirano” e aveva lavorato come lenone per la casa di meretricio di via Tucuman. Aveva convissuto con una donna, sua amante, che esercitava la prostituzione clandestinamente. Non risultava si fosse dato ad altra occupazione. Fonti confidenziali lo indicavano in relazione con diversi «apaches» che in Argentina avevano mandato le loro compagne/prostitute e che facevano la spola tra vecchio e nuovo mondo. Tra questi, legato in particolare a Max S., sembrava essere proprio “il marsigliese”, in quel momento detenuto a Genova per i sanguinosi fatti avvenuti il 4 settembre del 1912, quando tre banditi francesi (in procinto pare di imbarcarsi per l’Argentina) avevano prima uc-

34. Ivi, Scuola di Polizia scientifica, Servizio centrale di identificazione, a MI, DGPS, 29 maggio 1914.

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ciso un fattorino tranviario e poi tre agenti di Pubblica Sicurezza nel corso di uno spettacolare inseguimento, ricordato come la “battaglia di Genova”.35 Alla polizia argentina Max S. risultava avere già precedenti per corruzione di minorenni imputatagli dalle autorità di Brandeburgo. Si confermava così il profilo di un uomo specializzato nel reclutamento diretto di giovani ragazze su scala internazionale ma in numero ridotto (massimo due per volta), che poi seduceva e costringeva a prostituirsi per lui. Non è stato il solo. Altri incartamenti di Polizia giudiziaria prodotti intorno al fenomeno della prostituzione internazionale restituiscono storie di uomini che operavano in modi simili, seppure meno documentate ed eloquenti di quella di Max S. Tra queste, significativa anche quella di Giovanni C., nativo dei dintorni di Parma, classe 1876. Cresciuto dai nonni, a sette anni venne condotto dalla madre a Legnago, in Veneto, dove rimase fino ai vent’anni «aiutando il padre nel mestiere di venditore ambulante di manifattura».36 Emigrò prima a Buenos Aires, dove rimase due anni e, poi, in Belgio, nel 1898, vivendo a Bruxelles e a Ixelles. Nel corso degli anni tornò più volte in Italia a visitare il padre, essendo nel frattempo morta la madre. In una di queste occasioni, sul finire del 1900, lasciò l’Italia per recarsi in Congo, allora colonia belga. Durante la permanenza in Africa venne condannato per omicidio a 15 anni di prigione per fatti di cui non ci è arrivata notizia, ma a causa delle sue pessime condizioni di salute venne scarcerato prima e nel 1904 fece ritorno a Ixelles. Qui intrecciò una relazione con Eveline M., cittadina belga, con la quale «conviveva maritalmente», nota come prostituta occasionale e quello stesso anno condannata per mendicità. Emigrò quindi in Brasile nel settembre del 1907, rimanendovi fino al 1909, quando tornò a fare visita al padre a Legnago, portando con sé Eveline, che presentò come sua moglie. Rimase in paese fino al 1911, dandosi a «vita molto dispendiosa» e poi ripartì ancora per Ixelles. Cambiò nuovamente città, andando ad Anversa e qui, infine, venne raggiunto da un 35. Le cronache del tempo hanno dato ampio risalto alla vicenda. Si vedano per esempio «Il Corriere della sera», 5, 6 settembre 1912, oppure 5 agosto 1913 sull’istruttoria; «La Domenica del Corriere», 12 settembre 1912 e i reportage de «La Stampa»: 5-6-9-13 settembre 1912, 5 agosto 1913, 22-27-28 gennaio e 3-6 febbraio 1915. 36. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1910-1912, cat. 10900.21, fasc. Giovanni C., R. Prefettura della Provincia di Parma a MI, DGPS, 29 giugno 1912

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decreto di espulsione e rimandato in territorio italiano, il 4 maggio 1912, per favoreggiamento della prostituzione clandestina. Benché avari di dettagli, anche nel suo caso i documenti raccontano di un uomo in movimento tra più Paesi, e continenti, non di rado costretto a mettersi in moto per problemi di giustizia, per il quale la prostituzione (della moglie, ma anche evidentemente di altre donne) era la principale fonte di reddito e, infine, con una certa propensione alla violenza. Degno di qualche considerazione è anche l’itinerario geografico e criminale di Luigi C.37 La sua è una vicenda solo abbozzata nelle fonti, in occasione di uno scambio epistolare tra le autorità del governo ungherese e quelle italiane a proposito di chi avrebbe dovuto coprire le spese per il rimpatrio della giovane vittima dell’uomo da Budapest a Pescosolido, comune dell’allora Provincia della Terra di Lavoro. L’uomo, nativo anche lui di Pescosolido, era stato accusato nel 1906 di aver condotto l’anno prima (con il consenso della madre di lei) la giovanissima Maria Luigia D., appena tredicenne, prima a Buenos Aires e poi a Budapest, per impiegarla in mestieri girovaghi e anche come prostituta. Scoperto e fermato grazie a una lettera anonima, l’uomo in verità non sembrò andare incontro ad alcun procedimento giudiziario e rimase a vivere a Budapest, mentre la ragazza venne rimandata nel paese natio. Le storie appena lette permettono di avanzare alcune riflessioni. In primo luogo evidenziano come gli uomini impiegati nel mercato della prostituzione globale, al pari delle prostitute e forse anche più di loro, abbiano intrapreso ripetuti spostamenti tra i diversi Paesi e continenti. Come ho già notato, nel loro caso a determinare partenze e destinazioni sembra siano state anche in gran parte le ragioni di giustizia. Questo elemento credo sia utile inoltre per prendere in considerazione come il processo di espansione della prostituzione abbia comportato una moltiplicazione dei soggetti coinvolti, necessari per «procacciare» le donne, ma anche per organizzare e realizzare gli spostamenti da un Paese all’altro. Al classico lenone, certo non una novità dell’età contemporanea (come testimonia la stessa radice latina del termine), si aggiungono in questa fase nuove figure alle quali è richiesto di destreggiarsi (più o meno legalmente) nel campo della burocrazia e delle procedure per gli espatri, nel rapporto con le autorità, nella logistica dei viaggi e dell’attraversamento dei confini, 37. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1910-1912, cat. 10900.21, fasc. Luigi C.

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ma anche nel reperimento su scala internazionale di donne per le case di prostituzione. In secondo luogo, seppure in presenza di una casistica ridotta, è da rilevare come in questa fase il lavoro di sfruttatore e procacciatore avesse nella relazione sentimentale con la donna prostituta un elemento fondamentale, che poteva entrare in gioco in diverse fasi: fare di una giovane donna la propria amante poteva essere propedeutico a indurla alla prostituzione e poter così vivere dei suoi guadagni; oppure l’uomo poteva stringere una relazione con una donna già prostituta, con la quale spartiva magari analoga precarietà e instabilità economica, ed entrare nell’impresa in diversi ruoli: protettore, tuttofare, procacciatore di clienti. 3. Argentina Italiani in Argentina Che nelle storie appena lette uno degli snodi e delle mete degli affari legati alla prostituzione siano state le Americhe del Sud e, in questi casi, in particolare l’Argentina, non è una circostanza fortuita. Al pari degli Stati Uniti, l’Argentina è stata tra le principali destinazioni delle grandi emigrazioni transoceaniche di età liberale e, allo stesso tempo, un Paese in cui il mercato della prostituzione è cresciuto a partire dalla fine dell’Ottocento e il tema delle prostitute straniere ha dominato a lungo nel dibattito pubblico. Guardando alla fotografia che Fernando Devoto ha tributato alle vicende dell’emigrazione italiana in Argentina in una prospettiva di lungo periodo, a colpire è innanzitutto la dimensione del fenomeno: tra il 1830 e il 1950 circa tre milioni e mezzo di italiani arrivarono qui, prevalentemente lavoratori agricoli e non qualificati (ma non solo), ben distribuiti per provenienza tra le varie aree della penisola, con un andamento che ha visto nell’Ottocento prevalere le partenze dalle regioni settentrionali e nel Novecento l’esodo dal Meridione.38 Se l’Egitto veniva considerato “l’Eldorado” del Mediterraneo, l’Argentina già all’indomani dell’Unità aveva guadagnato l’appellativo di “Australia italiana”, evocando così anche l’immagine di un Paese non molto 38. Fernando Devoto, In Argentina, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, pp. 25-54.

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popolato, nel quale l’immigrazione ha lasciato un’impronta visibile nella società, nella cultura, nella politica.39 Il grosso degli arrivi di italiani si registrò nel solco della fase espansiva dell’economia argentina, quando a seguito dello sterminio degli indios vennero messi a coltura centinaia di migliaia di nuovi ettari di terreno, si ampliò la rete infrastrutturale e delle comunicazioni, le città crebbero. Tra il 1880 e il 1914 due milioni di italiani sbarcarono in Argentina (rappresentando in alcuni anni il 70% del totale delle immigrazioni) e ben presto questa massa di immigrati in cerca di lavoro, per lo più agricolo, destò allarmi e preoccupazioni tra le élites locali, indispettite anche da una certa tendenza delle comunità italiane a conservare posture fortemente identitarie e poco inclini all’integrazione. Secondo il censimento del 1895 gli italiani erano allora il 12,5% di tutta la popolazione, erano più uomini che donne (in un rapporto di 175 a 100), appartenevano a diversi gruppi socio-professionali, rappresentando una quota consistente tanto dei proprietari d’industria (35%) quanto degli affittuari di casa (a Buenos Aires erano il 47% del totale), per una quota complessiva del 25% della forza lavoro del Paese. Vent’anni dopo, alla data del terzo censimento nazionale effettuato nel 1914, gli italiani in Argentina erano 930.000 (il 12% della popolazione totale) ed erano insediati tanto nelle realtà urbane di Buenos Aires, Rosario, La Plata, quanto nelle zone rurali, dove costituivano parte ingente degli affittuari agricoli e non difettavano tra i gestori di aziende e i produttori. Così com’è successo per altri flussi, anche per l’emigrazione verso l’Argentina la Prima guerra mondiale ha segnato la fine di un’epoca. Oltre alle maggiori difficoltà causate dal conflitto ai movimenti migratori, bisogna considerare che questi sono gli anni dei ritorni in patria per combattere e quelli in cui immaginare e organizzare nuovi progetti di emigrazione era più problematico. A guerra finita, gli alti tassi di disoccupazione e conflittualità sociale e operaia aprirono la strada alle prime misure restrittive in materia di immigrazione. Gli interventi legislativi che si sono succeduti tra il 1923 e il 1938 fissavano nuovi controlli e standard (in termini di condotta morale, precedenti penali, capacità economica) da assolvere per poter entrare nel Paese. Nel periodo tra le due guerre l’immigrazione italiana era sostanzialmente ferma, con il saldo tra nuovi arrivi e partenze leggermente negativo. Ormai, 39. Ivi, p. 25.

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però, la cospicua popolazione immigrata, non solo italiana, e le questioni che poneva, avevano modificato profondamente la fisionomia del Paese. L’incremento demografico dovuto alle immigrazioni, nelle quali la componente maschile è stata prevalente, lo sviluppo delle realtà urbane, una lunga fase di stabilità politica e la partecipazione al capitalismo globale in veste di importante esportatore agricolo hanno fatto dell’Argentina della prima metà del Novecento un Paese fortemente dinamico e allo stesso tempo in bilico tra tradizione e modernità, tra cultura locale e vocazione cosmopolita. L’opinione pubblica locale non mancò di mostrare preoccupazione per i rischi connessi allo snaturamento del Paese e della sua identità, della sua cultura e dei suoi costumi sotto i colpi degli arrivi di massa degli europei. Tra i temi richiamati è stato notato come quello della prostituzione abbia occupato una posizione centrale: evocato nelle canzoni così come nella stampa, nelle inchieste come nella letteratura, è stato uno dei primi terreni di intervento del nuovo Stato all’indomani dell’indipendenza e trattato come l’incarnazione dei rischi e dei «dilemmi morali» della modernità.40 Ancora una volta, dunque, lo studio della prostituzione e di come essa sia stata rappresentata o su di essa si sia legiferato richiede di prestare attenzione al modo in cui il tema è stato mobilitato nel processo di costruzione della nazione. Le strade di Buenos Aires L’Argentina, seguendo lo stile francese, si orientò verso la regolamentazione della prostituzione dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento e, pur con diverse revisioni, fino agli anni Trenta del secolo successivo. A una tenutaria era demandato il compito di garantire la salubrità dei luoghi dove si esercitava il meretricio e le buone condizioni fisiche delle prostitute, sottoposte a periodici controlli medici, così come era lei, in qualità di titolare dell’impresa, a dover versare nelle casse municipali le imposte sui guadagni provenienti dall’attività. Queste rappresentarono una buona entrata per le città popolose, come Rosario o Buenos Aires, dove i luoghi della prostituzione erano spazi quotidiani di sociabilità maschile. 40. Si vedano a questo proposito Donna J. Guy, Sex & Danger in Buenos Aires: Prostitution, Family, and Nation in Argentina, Lincoln-London, University of Nebraska Press, 1991, in particolare l’introduzione (pp. 1-4); Cristiana Schettini, Prostitution in Buenos Aires and Montevideo, in Trafficking in Women, 1924-1926, vol. 2, pp. 44-54.

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Accanto ai luoghi della prostituzione regolare poi, il meretricio prosperava anche clandestinamente nei caffè, nei teatri, nelle sale da ballo. In modo simile a quanto avveniva negli Stati Uniti e in altri Paesi a forte tasso di immigrazione, anche in Argentina una parte consistente del mondo della prostituzione era di origine europea e tra le élites locali si ripeteva convenientemente che questo era un male sociale di matrice straniera. Dal canto suo, la campagna mediatica internazionale, europea, contro la tratta delle bianche aveva individuato il Paese come uno dei luoghi più pericolosi per le giovani, innocenti, donne del vecchio continente. L’inchiesta giornalistica Le chemin de Buenos Aires: la traite des blanches,41 condotta nel 1927 dall’allora già noto reporter Albert Londres, invitato a Buenos Aires dal “Petit Parisien”, dipingeva senza censure un collaudato sistema di reclutamento di povere ragazze, soprattutto dalla Francia e dalla Polonia, che con l’inganno erano condotte a Buenos Aires, spesso passando da Montevideo dove i controlli erano pressoché assenti. Una volta arrivate, ripulite e imbellettate, le giovani andavano a popolare i bordelli di ogni classe nella città. Mentre nel primo dopoguerra venivano emanate misure in materia d’immigrazione che vietavano l’ingresso nel Paese alle prostitute straniere, negli anni Venti la figura del protettore/sfruttatore era diventata per l’opinione pubblica locale l’emblema delle deviazioni provocate dall’eccesso di liberismo che aveva accompagnato la nascita della Repubblica. Nel 1930, un colpo di Stato di matrice conservatrice e nazionalista coincise con lo scoppio di uno dei più noti scandali e casi giudiziari legati alla tratta delle bianche, riferito all’inchiesta, iniziata nel 1927, contro l’intero organigramma dell’associazione ebraica di mutuo soccorso Zwi Migdal (originariamente registrata con il nome Varsovia). Più di 500 persone, per lo più polacchi e russi, vennero imputate in un processo che mobilitò la stampa internazionale e che venne seguito con attenzione anche dalle autorità italiane, interessate a scoprire se vi fossero coinvolti connazionali.42 L’associazione, regolarmente costituita e registrata, dotata di locali e ingenti risorse finanziarie, era nata all’inizio del secolo come riferimento 41. Paris, Albin Michel, 1927 (trad. it. Buenos Aires, le strade del vizio, Milano, Excelsior 1881, 2008). 42. Il fascicolo dedicato all’affare Zwi Migdal, con l’elenco delle persone coinvolte e l’opuscolo pubblicato in Argentina con fatti e protagonisti dell’affare, è in ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. 47, sub fasc. 9.

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per la comunità ebraica di Buenos Aires, «sovvenzionando l’Ospedale e un cimitero israelita, connazionali bisognosi e un periodico ebraico».43 Secondo l’inchiesta di polizia, tuttavia, l’associazione era solo una copertura e i suoi aderenti erano esclusivamente votati al commercio delle donne. Benché studi più recenti44 invitino a non schiacciare la storia di Zwi Migdal solo alla sua dimensione criminale, valorizzando anche la funzione comunitaria e religiosa da essa svolta, i fatti accertati dalle autorità di polizia e dal giudice istruttore Manuel Rodríguez Ocampo restituirono l’immagine di un operato criminale di dimensioni inaspettate, con ramificazioni in molti altri Paesi, che controllava 1000 case di prostituzione e gestiva il lavoro e lo sfruttamento di circa 3000 donne.45 Rilevante per le indagini era stata la denuncia e poi il lavoro da informatrice svolto da Raquel Libermann, arrivata nei primi anni Venti a 22 anni dalla Polonia con due figli piccoli per raggiungere il marito. Rimasta vedova poco dopo, aveva prima tentato di impiegarsi come sarta a Buenos Aires e poi era finita a fare la prostituta. Dopo qualche anno di questa vita aveva incrociato la rete in capo a Zwi Migdal che l’aveva trascinata in vortici di sfruttamento e abbrutimento da cui tentò di sottrarsi rivolgendosi alle autorità, raccontando quanto già conosceva e prestandosi poi a raccogliere altre informazioni che si rivelarono cruciali.46 Dalla sua centrale operativa a Buenos Aires, Zwi Migdal operava in combutta con procacciatori sparsi in tutta Europa, «centro di approvvigionamento della merce umana» e con funzionari corrotti a Montevideo, «punto strategico per far proseguire in Argentina le donne contrattate, munendole di documenti apocrifi al fine di eludere la vigilanza delle locali

43. Ivi, Rapporto della Regia Ambasciata d’Italia in Argentina a MAE e MI, 6 giugno 1930. 44. Si veda ad esempio Mir Yarfitz, Polacos, White Slaves, and Stille Chuppahs: Organized Prostitution and the Jews of Buenos Aires, 1890-1939, PhD dissertation, University of California, 2012, disponibile all’indirizzo permanente https://escholarship.org/ uc/item/7bx304mn (ultimo accesso 30 settembre 2022). 45. Cfr. Edward J. Bristow, Prostitution and Prejudice: The Jewish Fight against White Slavery 1870-1939, Oxford, Clarendon, 1982, p. 139. Il volume è molto utile per approfondire il complesso intreccio tra il coinvolgimento di ebrei nella tratta delle bianche, la diffusione di pregiudizi antisemiti e la mobilitazione di settori del mondo ebraico contro la prostituzione di donne ebree. 46. Si veda Nora Glickman, The Jewish White Slave Trade and the Untold Story of Raquel Liberman, New York-London, Garland Publishing, 2000.

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Autorità portuali».47 Le donne «accaparrate» erano in molti casi minorenni e quasi sempre ignare di ciò che le aspettava, ingaggiate con la falsa promessa di lavori rispettabili, quali cameriere e dattilografe. Arrivate a Montevideo, passavano alla spicciolata in Argentina «in compagnia di note tenitrici di bordelli o esercenti di cabarets o locali notturni di gozzoviglie, camuffati per l’occasione in sarte e modiste e commercianti in genere». Una volta giunte in città erano smistate nelle diverse case di prostituzione gestite dai soci dell’associazione. L’impresa, ad ogni modo, non prosperava solo a Buenos Aires, ma coinvolgeva anche altri importanti centri, come Rosario, La Plata e Cordoba, dove le donne venivano mandate dopo «di essere state sfruttate in questa metropoli».48 Tanto i fatti raccontati durante il processo all’associazione ebraica, quanto l’inchiesta condotta e pubblicata solo qualche anno prima da Albert Londres sull’analoga organizzazione del traffico e della prostituzione delle donne francesi in Argentina, rafforzarono, opportunamente, la convinzione che la tratta delle bianche, la crescita del mercato della prostituzione, fossero quasi esclusivamente un affare straniero, gestito da europei e in cui erano impiegate donne polacche, russe, francesi, italiane. Prostitute e sfruttatori italiani Il contributo dato dall’Italia al «turpe commercio» era infatti tra i più importanti e rinomato a livello internazionale. Nel marzo 1926 un giornale ungherese pubblicato in Brasile denunciava, a questo proposito, che era appurata l’esistenza della «tratta di donne dall’Italia verso il Brasile e l’Argentina e in maniera molto accentuata».49 Si era appreso, inoltre, «che nelle corrispondenze degli esercenti il turpe traffico la merce figura come spose o come impiegate», secondo un protocollo che abbiamo già visto menzionato in altre fonti. A dire del Ministero dell’Interno italiano, che ne informava i prefetti del Regno a stretto giro, la notizia non appariva affatto priva di fondamen47. R ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. 47, sub fasc. 9, Rapporto della Regia Ambasciata d’Italia in Argentina a MAE e MI, 6 giugno 1930. 48. Ibidem. 49. ACS, MI, DGPS, Interpol, b. 8, fasc. 47, sub fasc. 7, MI ai Prefetti del Regno, 1 aprile 1926. Fino a diversa indicazione le citazioni provengono da questa fonte. Sottolineato nell’originale.

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to perché combaciava con quanto sostenuto pure da altre voci, «secondo le quali vi sarebbe un certo esodo di italiane per gli stati dell’America del Sud, ma l’imbarco non avverrebbe in porto italiano, sibbene in quelli francesi». I prefetti, dunque, erano richiamati perché nei porti di imbarco per i Paesi transoceanici e nelle stazioni di confine «sia esercitata un’attenta, oculata e continua vigilanza per impedire espatri clandestini di donne» e allo stesso tempo rinnovava la raccomandazione a non rilasciare passaporti per l’estero a donne giovani «senza prima aver diligentemente accertato il motivo che le induce ad espatriare, il luogo dove effettivamente sono dirette, nome e indirizzo delle persone presso le quali esse si recano». Le circostanze evocate nella circolare appena letta, i modi dell’arruolamento, le strategie per eludere i controlli, simili a quelle ricostruite nel reportage sulla tratta delle francesi o a quelle emerse nell’inchiesta sul traffico di donne ebree, ritornano anche in un caso concreto, seppure di qualche anno precedente. Il 3 gennaio 1913 il Regio Consolato d’Italia a Barcellona scriveva al Ministero dell’Interno perché attraverso una fonte confidenziale aveva appreso che qualche giorno prima era arrivata in città, proveniente da Marsiglia, una giovane, apparentemente minorenne, certa Maria D. di Palermo, in compagnia di un’altra ragazza francese, Antoinette D.50 Quattro giorni dopo il loro arrivo si era presentato nell’hotel dove alloggiavano un uomo italiano, Mario B., che aveva lì ricevuto un telegramma, pagato il conto e poi era scomparso con le due. A un’amica le giovani avevano confidato che erano in procinto di imbarcarsi per Buenos Aires. Insospettito da queste informazioni, che sembravano alludere a un classico caso di tratta delle bianche, il console si era sentito in dovere di avvisare le autorità italiane, certo che la (presunta) minorenne Maria fosse scomparsa da casa e che i genitori avessero chiesto di avviare le ricerche su di lei. Messa a sua volta al corrente dei sospetti, dopo aver eseguito gli accertamenti necessari, la prefettura di Palermo in data 14 gennaio spiegava che le cose non stavano esattamente come il console aveva ipotizzato. Prima di tutto «nessuna istanza per ricerche né dichiarazione di scomparsa è stata 50. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-1914, cat. 10900.21, b. 55, fasc. Maria D., Antoinette D., Mario B., R. Consolato d’Italia a Barcellona a MI, 3 gennaio 1913.

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mai fatta all’autorità locale di P. S. in ordine alla ragazza».51 Attraverso le carte conservate nella locale questura, tuttavia, si era compreso come probabilmente erano andate le cose. Nel 1908 il padre di Maria, allora gravemente infermo, aveva fatto istanza al Tribunale della città perché la ragazza e altri suoi quattro fratelli minorenni venissero accolti in qualche istituto correzionale del Regno, «affermando di non poterli educare perché la loro madre trovavasi a Marsiglia». Dal momento però che i figli risultavano «tutti impregiudicati e di regolare condotta» l’istanza non venne accolta. Della famiglia si erano poi perse le tracce, ma secondo il Prefetto era probabile che dopo la morte del padre i ragazzi, o forse solo Maria, fossero andati a Marsiglia a raggiungere la madre, cosa che avrebbe spiegato come mai lei fosse arrivata a Barcellona dal porto francese e in compagnia di un’amica di quella nazionalità. Nei giorni seguenti venne allertato anche il Consolato in Argentina, invitato con l’occasione a rendicontare pure sull’estensione della «tratta delle italiane» in quella Repubblica. Mentre il Consolato di Barcellona a marzo avvisava di non aver potuto trovare traccia del reale imbarco delle due per Buenos Aires,52 a settembre il Ministro dell’Interno francese dava un buon contributo alle indagini avvisando l’omologo italiano che una segnalazione aveva additato l’Hôtel du Nord di Genova come «frequentato specialmente da trafficanti francesi che cercano di sottrarsi alla sorveglianza della polizia».53 L’hotel era gestito da un signore, che pareva essere il padre di Mario B. Le indagini da questo momento languirono. Da una parte la prefettura di Genova assicurò che pur avendo interrogato i titolari e visionato i registri, nulla di anomalo era emerso nella gestione dell’Hôtel du Nord, che anzi godeva di una buona fama; dall’altra, il Consolato in Argentina, salvo rassicurare che si sarebbe prestato al caso la massima attenzione, non era nemmeno riuscito ad accertare se le due giovani fossero mai veramente arrivate a Buenos Aires. Con l’occasione, ad ogni modo, come era stato richiesto, il Consolato si dilungava in un resoconto particolareggiato sulla «estensione della tratta delle italiane in Argentina».54 La prima cosa che teneva a precisare era che di fronte «all’estensione del male» le autori51. Ivi, Prefettura della Provincia di Palermo a MI, 14 gennaio 1913. 52. Ivi, R. Consolato d’Italia a Barcellona a MI, 26 marzo 1913. 53. Ivi, Ministère de l’Interiéur a DGPS, 8 settembre 1913. 54. Ivi, R. Consolato d’Italia in Buenos Aires a MI, DGPS, 1 marzo 1913.

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tà di polizia avevano recentemente intrapreso una vigorosa e ammirevole campagna «contro la numerosa genia dei lenoni e degli apaches, che qui avevano eletto il loro quartier generale». Più di cinquecento individui, tra prostitute e lenoni, erano stati in breve tempo arrestati ed espulsi dal territorio della Repubblica, al punto che qui «gli elementi tenebrosi che commerciano sulla donna» si erano fatti ormai rari, essendosi spostati in massa nei vicini Uruguay, Cile, Paraguay, Brasile. Accanto a queste misure, il rapporto non mancava di segnalare come gran parte dell’azione repressiva si fosse rivolta alla prostituzione clandestina, rinchiudendo a decine le prostitute nel Cárcel Correccional de Mujeres e nell’Asilo Correccional de Mujeres della città. Mentre si avviava alle conclusioni, la missiva chiariva in modo definitivo che: «la prostituzione, tanto quella pubblica, quanto quella clandestina, è qui fornita, in maggioranza, dall’elemento straniero, nel seguente ordine di nazionalità: russe, tedesche e francesi; seguono le italiane, le spagnole, le argentine». Nella stampa internazionale, così come nelle fonti di governo o di polizia, dunque, la prostituzione in Argentina era rappresentata prevalentemente come un business e un «male» europeo. La sovraesposizione delle prostitute e dei trafficanti stranieri nelle inchieste, nei racconti e resoconti, tuttavia, è una circostanza che deve essere letta in modo avvertito, tenendo conto di diversi elementi. Il principale, certamente, è la funzione politica e culturale che questa particolare rappresentazione del fenomeno ha svolto. Già nei primi anni del Novecento, infatti, nelle principali città europee giravano voci e racconti che dipingevano Buenos Aires, al pari di altre grandi città meta delle migrazioni transoceaniche, come un luogo particolarmente pericoloso per le donne emigranti, che qui – o durante il viaggio – rischiavano di finire nella rete di qualche oscuro trafficante che poi le avrebbe rese prostituteschiave. Insieme al fatto che gran parte delle occorrenze documentarie testimoniano che semmai «l’accaparramento» avveniva nei Paesi di origine ed era propedeutico alla partenza, non conseguenza di essa, è per noi utile notare che questi racconti componevano un romanzo morale e moraleggiante destinato alle donne che intraprendevano percorsi e progetti migratori, ancor più se autonomi. Allo stesso tempo irrobustivano lo stereotipo della vittima della tratta come quasi esclusivamente europea. Sul versante opposto, nella società argentina la rappresentazione delle prostitute come straniere puntellava l’immagine della donna argentina

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come paladina dell’onestà, della rispettabilità, della moralità, pedina fondamentale nel discorso nazionalista. Le argentine non si prostituivano perché estranee ai processi di modernizzazione e non ancora iniziate a una presenza sregolata nella sfera pubblica, come era accaduto invece alle europee, che erano così andate incontro alla rovina.55 4. Panama Nella geografia della prima globalizzazione della prostituzione Panama ha rappresentato un approdo che può essere utile trattare – benché scarsamente preso in considerazione dalla storiografia – perché richiama l’attenzione su aspetti diversi rispetto a quelli finora emersi guardando alle Americhe destinatarie delle grandi migrazioni.56 La sua posizione strategica, collegamento tra i due oceani ma anche tra Sud e Centro America, ne ha fatto in diversi periodi storici un luogo di scambi commerciali, fiere, passaggio e, a ridosso di queste attività, di un vivace mercato della prostituzione, frequentato da marinai, lavoratori, mercanti, soldati. Al pari di altri luoghi ai quali abbiamo guardato nelle pagine precedenti, anche per Panama gli ultimi decenni dell’Ottocento rappresentano una fase di grande dinamicità e di crescita del mercato della prostituzione. Per l’istmo è questo il momento del primo progetto francese di costruzione di un canale che lo attraversi, con il conseguente arrivo di forza lavoro, soprattutto caraibica ma anche europea, investitori, commercianti e, come consueto, prostitute, dai Paesi confinanti e dall’altra parte dell’Oceano. Fallito il progetto nel volgere di pochi anni e dopo un periodo di stagnazione, il commercio del sesso rifiorì nei primi anni del Novecento intorno alla presenza statunitense nell’istmo e all’avvio di nuovi lavori. Formalmente Repubblica indipendente dalla Colombia dal 1903, ma di fatto sotto la diretta protezione del governo degli Stati Uniti che si accaparrò concessioni assai vantaggiose non solo per la costruzione del canale, ma 55. Ivi, p. 358. 56. Il lavoro più completo per i temi qui trattati, al quale sono debitrice, è Jeffrey Wayne Parker, Empire’s Angst: The Politics of Race, Migration, and Sex Work in Panama, 1903-1945, PhD dissertation, The University of Texas at Austin, 2013, scaricabile dal sito dell’Università. Una breve sintesi è Id., Sex Work on the Isthmus of Panama, in Trafficking in Women, 1924-1926, vol. 2, pp. 166-171.

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anche per la sua gestione, Panama mutò definitivamente volto dal 1914 quando venne inaugurato il passaggio. Diviso in una Zona di stanza permanente dei soldati nordamericani, da loro controllata e amministrata, così come pattuito nel Trattato del 1903, e in un restante territorio della Repubblica, dove si trovavano anche le due principali città (Città di Panama e Colòn), l’istmo divenne uno snodo commerciale e finanziario di grande importanza, ma soprattutto un decisivo avamposto militare dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti. Di pari passo, per servire lavoratori, soldati, marinai, commercianti, mercanti, affaristi, aumentò il numero di donne che affluivano per impiegarsi nell’industria dell’intrattenimento nei centri urbani: cabaret, caffè, locali da ballo, postriboli. Negli anni Venti e Trenta, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Panama rappresentò una situazione analoga a quella di Malta, ma a cavallo dei due Oceani, con un’economia in gran parte fondata sul circuito dei locali ricreativi, sul consumo di alcol, sul mercato del sesso. Le donne che vi trovarono impiego erano in misura consistente e per diverse ragioni forestiere. In questa direzione avevano lavorato tanto le preoccupazioni di ordine razziale nutrite dalle autorità degli Stati Uniti che vedevano nel contatto con donne caraibiche il rischio di corruzione dei soldati americani, quanto le inquietudini delle autorità panamensi per i danni che la prostituzione di massa delle donne locali per uomini stranieri avrebbe arrecato all’immagine della loro Repubblica e agli equilibri sociali e familiari della popolazione. Le politiche razziali nel campo della prostituzione adottate nell’istmo, ad ogni modo, non sono state sempre chiare e lineari e in parte hanno riflettuto le relazioni, anche le tensioni, tra il governo degli Stati Uniti e quello della Repubblica di Panama. Le autorità di entrambi i Paesi infatti in una prima fase erano state favorevoli a un regime di regolamentazione della prostituzione, del quale si magnificavano soprattutto le funzioni di controllo igienico, sanitario e di polizia; a Panama esisteva dunque un distretto dedicato ai locali di meretricio. In un secondo momento, dopo l’entrata in vigore nel 1911 del Mann Act negli Stati Uniti, legge federale che puniva chi era implicato negli spostamenti tra Stati di persone per fini immorali o per prostituzione, il flusso di donne nordamericane impiegate nei bordelli di Panama diminuì considerevolmente. Il fatto, tuttavia, destò più di qualche malumore tra le élites panamensi, alle quali non sfuggiva affatto che in questo modo i nordamericani continuavano a essere i principali fruitori del sesso commerciale senza pagarne però i costi. In particolare, questa

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politica creava implicitamente una gerarchia, in chiave nazionale, tra le donne che erano meritevoli di essere salvaguardate e quelle che potevano continuare a servire nei bordelli. Anche a Panama, dunque, le autorità statunitensi adottarono politiche particolarmente rigide tese a scoraggiare i cittadini e le cittadine statunitensi dal farsi coinvolgere, come imprenditori o lavoratrici non importa, nel mercato della prostituzione. A prevalere era l’obiettivo di tutelare l’immagine di nazione dominante e civilizzatrice. Italiani nel giro della prostituzione a Panama Non abbiamo molte fonti di polizia o istituzionali che raccontino il modo in cui gli italiani e le italiane parteciparono a questo scenario. Tra le poche a disposizione, vi è un incartamento relativo a una “banda” di uomini, prevalentemente della provincia di Potenza, che vennero arrestati nel 1939 e dei quali si occupò anche la stampa panamense, così da renderla una vicenda attraverso la quale intercettare più di un elemento utile.57 La notizia arrivò al Ministero degli Affari esteri italiano il 10 luglio 1939, per mezzo di un allarmato rapporto della Legazione a Panama con il quale si dava conto della vasta operazione di polizia che aveva coinvolto una decina di cittadini italiani. Preoccupante era anche l’ampia risonanza che la vicenda aveva avuto sulla stampa caraibica, come testimoniavano le copie degli articoli premurosamente ritagliati e spediti in Italia. Benché l’iter giudiziario non facesse presagire nulla di preoccupante, dal momento che tutti gli indagati erano stati rilasciati dopo poche ore dall’arresto per tratta delle bianche dietro la corresponsione di una cauzione di 250 balboa (equivalenti a 250 dollari) ciascuno, la faccenda divenne allarmante proprio per le sue ripercussioni mediatiche. Marcello Borgiani, Reggente a Panama, annotava infatti infastidito come «la stampa, naturalmente, non si è fatta sfuggire l’occasione per ricordare Al Capone e l’Italia, accomunando l’onestà e laboriosità di 44 milioni d’italiani alle attività di alcuni connazionali senza scrupoli».58 Era stato il quotidiano «The Panama American» (che usciva anche in spagnolo con il titolo «El Panamá América») a proporre l’accostamento raccontando le indagini che avevano portato a scoprire «l’esistenza di un “asse” della tratta delle bianche a Città di Panama» nel quale erano coin57. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. 47, sub. fasc. 19. 58. Ivi, Telespresso da Legazione d’Italia a MAE, 10 luglio 1939.

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volti oltre agli italiani, pure un tedesco e un giapponese.59 L’autore dell’articolo aveva affermato in apertura che come due altri illustri italiani, Lucky Luciano a New York e Al Capone a Chicago, controllavano la prostituzione nelle aree di loro competenza […], così il racket della prostituzione nell’istmo era nelle mani di un gran numero di italiani, che gestivano quanti più bordelli potevano a Panama.

Gli indagati erano titolari e gestori di cabaret, che però altro non erano che la copertura (neanche troppo attenta) di locali di prostituzione che non avevano nulla da invidiare a quelli che si trovavano nel distretto dedicato. A lavorarci, continuava a spiegare il quotidiano, erano ragazzine panamensi, che venivano reclutate da una donna «matura» mandata nelle zone interne del Paese per intercettarle. Una volta individuate le candidate, con lusinghe e false promesse e dietro il pagamento di una manciata di centesimi le strappava alle famiglie e le metteva nelle mani degli imprenditori, che a loro volta le buttavano negli inferi di questo circuito, da cui non riuscivano più a tornare indietro.60 Secondo le cronache, nei cabaret degli italiani lavoravano solo ragazze native, molto giovani, e le accuse riguardavano soprattutto il fatto che i locali non fossero case di prostituzione regolari e allocate nel distretto loro dedicato, ma fossero sparsi nella Città di Panama e nei suoi sobborghi. Diversi i cabaret coinvolti: Moulin Rouge, Cabaret Gardel, Gruta Azul, Cabaret Trovador, California Cabaret. Nel mandato di arresto,61 firmato dal giudice Luis Carrasco il 26 giugno ed esito di indagini iniziate a marzo, si leggeva che alcuni cabaret della città avevano agito per lungo tempo e abitualmente per il procacciamento e contro la libertà individuale di un gran numero di donne, quasi tutte minorenni, povere e analfabete, originarie di altre parti del Paese e portate con l’inganno in città. Nelle oltre 500 pagine del dossier nel quale erano state 59. Ivi, Interesting if True, in «The Panama American», 2 luglio 1939. Nella trascrizione del nome del giornale nel dispaccio italiano è erroneamente riportato come «Panama America» Fino a diversa indicazione le citazioni provengono da questa fonte. Traduzione dall’inglese a cura dell’autrice. 60. Le stesse circostanze, che poi rappresentarono il fulcro delle accuse (cioè di aver indotto alla prostituzione ragazze minorenni e in locali non autorizzati e fuori dal distretto dedicato) sono riportate anche in un altro articolo comparso il 30 giugno 1939 sullo stesso giornale e che dava conto dell’inchiesta, intitolato White Slave Activities under Probe. 61. Integralmente riportato in Ivi, Como presuntos traficantes en trata de blacas son arestadas 8 personas, in «El Panamá América», 29 giugno 1939.

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registrate passo passo le indagini e raccolte oltre 50 testimonianze di altrettante vittime, riportava ancora «El Panamá América», si raccontava anche di come per moltissime delle giovani coinvolte il racket avesse significato malattie veneree, sifilide soprattutto, aborti, violenze. Una, Bernabela D., la cui testimonianza era riportata nell’ordinanza, raccontava di provenire dal piccolo centro di San José de David, dove «viveva maritalmente» con un giovane del posto, che lavorava nella cantina del padre a La Concepción, altro piccolo centro distante pochi chilometri. La ragazza era stata “agganciata” da una certa Josefa V. cabarettista alla Gruta Azul, che l’aveva irretita con la promessa di un lavoro onesto in un hotel. Una volta in città era stata invece condotta nel locale gestito dai due fratelli italiani M., costretta a ballare, bere e «intrattenersi carnalmente» con i clienti del cabaret, senza mai vedersi corrisposti i suoi guadagni, con la scusa che doveva ripagare i costi sostenuti dagli impresari per farla venire a Città di Panama. Interrogata, Bernabela raccontò inoltre che quando era arrivata a Panama era già incinta di tre mesi e i proprietari non si erano fatti nessuno scrupolo a farla prostituire in quello stato. Sola, priva di conoscenze e parenti in città, senza neanche un centesimo in tasca e incinta, si prestò per venti giorni a quella vita. Fino a quando una malattia venerea contratta durante gli incontri sessuali la costrinse a un ricovero in ospedale, dove un mese prima della deposizione aveva partorito una bambina. Al giudice che la interrogò disse di voler tornare a casa dal marito, che la sapeva ancora impiegata onestamente in un hotel, ma che non aveva i soldi per affrontare il viaggio. Negli articoli e nell’ordinanza i riferimenti utili a ricostruire il profilo degli uomini coinvolti, degli impresari italiani, sono scarsi, ma alcuni documenti dei mesi successivi consentono di trarre qualche elemento in più. Come accennato, il nucleo forte degli indagati, sia quelli arrestati che quelli a piede libero, proveniva dal medesimo paese della Basilicata, Moliterno in provincia di Potenza, e molto probabilmente erano tutti imparentati tra loro, stando ai cognomi paterni o materni comuni: i tre fratelli M., Antonio, Giovanni e Giuseppe, nati rispettivamente nel 1902, 1908, 1912; Vincenzo M., classe 1908; Rocco S. e Francesco L., quest’ultimo del 1904. Domenico D., il più anziano del gruppo (del 1884) e Giuseppe V. (1903) erano originari invece di Castrovillari, nella provincia calabrese di Cosenza. Da Santa Croce sull’Arno (Pisa), veniva Umberto B. (1887).

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Dalla prefettura di Potenza si faceva sapere che nessuno tra gli indagati originari di Moliterno aveva precedenti penali né, fino a quando erano vissuti in patria, aveva dato corso a rilievi di natura politica o morale.62 I tre fratelli M. erano qualificati tutti come commercianti ed erano emigrati in ordine di età alla spicciolata, il maggiore nel 1923, e a seguire i più giovani nel 1926 e nel 1934. Vincenzo M. risultava invece calzolaio ed era partito nel 1930; Rocco S., commerciante in bestiame, nel 1925. Più attenzione aveva attirato Francesco L., emigrato a Panama nel 1929, che si era imbarcato per far rientro a Moliterno proprio nei giorni in cui veniva emessa l’ordinanza di arresto. Successivamente, un secondo telespresso proveniente dalla Legazione di Panama al Ministero degli Affari esteri e da questi girato al Ministero dell’Interno, informava che la posizione del gruppo e in particolare di Francesco L. sembrava ulteriormente compromessa.63 Voci insistenti e affidabili lo additavano come uno dei pilastri dello spaccio a Panama di biglietti da 10 e 20 dollari falsi, fabbricati a Napoli, che proprio lui era incaricato di esportare nell’istmo. Il riciclo del denaro sarebbe avvenuto con la complicità dei gestori dei cabaret, con lui coinvolti nell’affaire tratta delle bianche. Quella che aveva preso forma nel corso dei mesi, dunque, era la fisionomia di un gruppo invischiato in attività criminali di varia natura, che rischiava di compromettere il buon nome della piccola comunità di italiani di Panama. C’era poi un altro elemento che risultava ancora più indigesto alle autorità italiane. Sette su nove degli indagati italiani di cui si faceva un gran parlare sulla stampa locale come spietati e avidi sfruttatori di povere ragazze panamensi o spacciatori di dollari falsi in odore di camorra, erano iscritti alla sezione locale del Partito nazionale fascista ed è anche probabile che la scelta fosse stata motivata proprio dall’intento di dotarsi di qualche copertura autorevole. L’emigrazione italiana in America centrale, in particolare Costa Rica, Nicaragua, Panama, è stata tutto sommato di dimensioni modeste rispetto a quella verso i Paesi del Nord e del Sud America,64 ma altrettanto poco sviluppate vi sono state l’adesione e la diffusione delle sezioni del Partito fascista durante il ventennio. La Casa del Fascio in Guatemala contava 62. Ivi, R. Prefettura di Potenza a MI, 21 novembre 1939. 63. Ivi, MAE a MI, 7 settembre 1939. 64. Cfr. Vittorio Cappelli, Nelle altre Americhe, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, pp. 97-109, in particolare il paragrafo 4, Nei paesi istmici e nel Caribe.

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solo 51 iscritti su 1000 presenze italiane e in Honduras e Salvador si riuscì ad aprire una sola sezione alla cui guida era indicato il segretario senza altri membri del direttorio, mentre in Costa Rica gli aderenti sono stati un centinaio su 1000 italiani residenti; a Panama, che pur registrava il risultato migliore, le cose non andavano in modo molto brillante se si tiene conto che gli iscritti erano 150 in una comunità di circa 600 italiani. È stato notato, tuttavia, che in questi Paesi gli aderenti al Fascio appartenevano soprattutto alle élites della comunità italiana, ai suoi membri economicamente e politicamente più influenti.65 Non stupisce, dunque, che l’arresto di un numero così rilevante di iscritti nell’ambito di una inchiesta particolarmente poco edificante abbia suscitato qualche allarme nella sezione del Fascio panamense che si affrettava a scriverne, più volte, al Ministero degli Affari esteri esplicitando «il timore di vedere attaccare il nostro Fascio per l’arresto di 9 connazionali (7 dei quali iscritti al Fascio locale)».66 Per correre ai ripari, il Segretario generale sospese prontamente le tessere. Dal punto di vista documentario la vicenda si esaurisce con gli ultimi scambi citati. I materiali disponibili sono stati sufficienti a mettere a fuoco un importante caso di racket della prostituzione gestito da emigranti italiani, intorno a cui è possibile fare alcune riflessioni. Come accaduto in altre vicende analizzate in questo capitolo e che hanno avuto rilevanza giudiziaria, anche in questa occasione è emerso con nitidezza il ruolo svolto dagli uomini nella costruzione del nuovo mercato internazionale della prostituzione. In comune con le storie che abbiamo letto nelle pagine dedicate agli Stati Uniti o a Buenos Aires, emerge il nesso stringente con l’esperienza dell’emigrazione, che lascia immaginare come la prostituzione abbia rappresentato per diversi emigranti una via per migliorare velocemente la propria posizione sociale e arricchirsi. Ancora molto rimane da indagare rispetto al nesso tra maschilità e prostituzione e alle sue diverse articolazioni emerse dalle fonti: storie individuali di mariti che hanno tratto profitto dalla prostituzione della moglie e vere e proprie imprese composte da più soci e succursali che si avvalevano dello sfruttamento non di connazionali o donne europee, ma 65. Dante Liano, Dizionario biografico degli italiani in Centroamerica, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. XXI-XXII. 66. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 8, fasc. 47, sub. fasc. 19, MAE a MI, 19 ottobre 1939.

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di giovani donne native, povere e analfabete. In questo senso bisognerebbe chiedersi in che misura la vicenda appena seguita rifletta anche le diverse gerarchie sociali e razziali sperimentate e interpretate in un Paese come Panama, che non ha conosciuto l’immigrazione di massa dei primi del Novecento, ma che ha contato su una comunità di italiani più piccola e più integrata e anche con una migliore capacità economica.

II La prostituzione globale in Italia

3. Politiche italiane e prostituzione internazionale

1. Le prime misure contro la tratta delle bianche Oltre a intervenire, come abbiamo visto fino a qui, intorno a singole vicende giudiziarie o di ordine pubblico legate all’espansione globale del mercato della prostituzione, l’Italia ha partecipato sin dai primi del Novecento alla mobilitazione diplomatica e politica internazionale fiorita intorno alla nuova emergenza. In questo contesto, come si è detto, in una prima fase le iniziative intraprese sono state raccolte sotto la particolare declinazione di lotta alla tratta delle bianche. I documenti prodotti dal governo italiano intorno alle conferenze e agli accordi (materiali preparatori, rapporti, ma anche circolari con le quali si aggiornavano le autorità periferiche circa questi appuntamenti) rappresentano una fonte privilegiata per ricostruire le politiche italiane in materia di prostituzione internazionale. Prendiamo come punto di partenza una direttiva del 1911 del Ministero dell’Interno indirizzata ai Prefetti del Regno che, all’indomani della firma della prima convenzione internazionale sulla tratta delle bianche, faceva il punto su quanto fino a quel momento disposto a livello internazionale e quanto recepito e da fare in Italia.1 Innanzitutto la missiva chiariva come in Italia l’Accordo internazionale inteso a garantire una protezione efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di tratta delle bianche del 1904 fosse stato reso esecutivo con il Regio decreto 171 del 9 aprile 1905 e che l’obiettivo dell’intesa era stato quello di trovare delle misure comuni per reprimere «il turpe commercio di donne, maggiorenni o minorenni, noto appunto sotto il nome di Tratta delle bianche». Già da tempo, sosteneva la direttiva, 1. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1910-12, cat. 10900.21, MI ai Prefetti del Regno, 17 marzo 1911.

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«l’opinione pubblica europea erasi vivamente preoccupata per la scoperta di una vastissima rete di traffici e di trafficanti di donne e di fanciulle a scopo di prostituzione all’estero». Finché gli Stati avevano colpito questi «mercanti di carne umana» solo all’interno dei propri confini, i risultati ottenuti erano stati pressoché nulli, data la natura internazionale del reato e la «facilità con cui i rei mutavano sede e territorio». Per rendere le nazioni maggiormente colpite, «abolite le frontiere, un unico territorio», era intervenuto dunque un nuovo accordo, la prima Convenzione internazionale per la repressione della tratta delle bianche, siglata a Parigi nel 1910, che tra le altre cose chiedeva agli Stati aderenti di uniformare il proprio diritto penale in materia. A quella data, dunque, i governi avevano ormai ricevuto chiare disposizioni su come costruire una larga azione di repressione. Spiccava, in questo senso, l’art. 1 dell’Accordo del 1904 dove si dava indicazione di designare un Ufficio centrale, con potere esecutivo, che coordinasse all’interno dei diversi territori nazionali le misure di vigilanza e repressione e che si collegasse con gli omologhi degli altri Paesi per fronteggiare i casi internazionali. L’Italia aveva attribuito tale funzione alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza, incardinata nel Ministero dell’Interno, ma era ora necessario organizzare il servizio di repressione in tutto il territorio. Per questo il Ministero richiamava all’ordine i Prefetti. In particolare, in esecuzione dell’art. 2 dell’Accordo, bisognava intensificare la vigilanza nelle stazioni, nei porti e durante i viaggi, per individuare «coloro che conducano donne presumibilmente destinate alla prostituzione». Si doveva poi, visto l’art. 3, provvedere al rimpatrio delle vittime del traffico, su loro richiesta se maggiorenni, sempre nel caso delle minorenni. Se prive di mezzi o in attesa delle pratiche necessarie, le vittime andavano collocate in idonei istituti di assistenza pubblici o privati. Ancora l’art. 3 disponeva pure che fossero interrogate tutte le prostitute straniere presenti nel territorio nazionale, per accertarne età, luogo di provenienza, ma anche verificare chi le avesse condotte nel Regno (nel caso dell’Italia) e per quale ragione. Il Ministero, inoltre, invitava a prestare attenzione particolare «alle agenzie di affari che si dedicano prevalentemente al collocamento delle donne per l’esercizio di qualsiasi mestiere, arte, professione». Diverse segnalazioni arrivate, infatti, le additavano come una delle centrali del «turpe commercio». Con l’inganno, promettendo di impiegarle come cameriere o artiste di canto, facevano affluire dai piccoli centri alle città giovani sprov-

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vedute, «lanciandole poi nel vortice del malcostume e non infrequentemente inviandole all’estero». La direttiva, infine, si chiudeva ricordando ai Prefetti come pur in assenza di una legislazione italiana specifica in materia di tratta, bastavano le leggi di Pubblica Sicurezza e quella sull’emigrazione del 1901 a fornire ampi poteri di intervento agli uffici di P.S. Alcuni rinforzi a questa direttiva arrivarono con le circolari del febbraio e del marzo 1913, con le quali il Ministero disponeva che si procedesse con più vigore agli interrogatori, effettuati in linea di massima alle prostitute straniere arrestate o fermate, ma ancora non estesi – come sarebbe dovuto essere – a tutte le meretrici straniere intercettate dalle autorità (per esempio quelle che venivano ricoverate in ospedale o che facevano richiesta di iscrizione a una casa di tolleranza).2 Altre notizie utili per ricostruire le politiche italiane in materia di tratta e prostituzione internazionale, nei primi anni dell’emergenza, provengono da una corposa relazione preparata in occasione del quinto congresso internazionale For the Suppression of the White Slave Traffic di Londra del 1913. Il documento è utile per vedere, questa volta, come il governo italiano raccontasse in un consesso internazionale il proprio operato.3 Partendo dalle questioni organizzative, si spiegava come proprio quell’anno si era disposto che in ogni capoluogo di provincia il Prefetto designasse un funzionario, possibilmente di grado superiore, responsabile della repressione della tratta, con il compito di raccogliere notizie sul «turpe traffico», soprattutto se riguardava minorenni, e di mettersi in contatto con gli istituti di protezione delle giovani attivi nel territorio. Ciò che questo documento spiega molto chiaramente, ad ogni modo, è come la prima rete di intervento contro la tratta in Italia abbia beneficiato in maniera sostanziale della struttura messa in piedi dal Commissariato generale dell’Emigrazione (CGE), dal 1901, per governare e vigilare i flussi di emigranti. Piuttosto che di personale specifico, la DGPS si avvalse per la vigilanza nelle stazioni ferroviarie, nei porti e nelle città di confine, dei funzionari del Commissariato già in servizio lì, che sensibilizzò ai nuovi 2. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Giudiziaria, 1913-15, cat. 10900.21, busta 53 bis, fasc. Congresso internazionale di Londra 1913, Circolare 20 febbraio 1913 e Circolare 7 marzo 1913. 3. Ivi, Relazione al V congresso internazionale per la repressione della tratta delle bianche.

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compiti, e così fece anche per vigilare nei Paesi di arrivo, dove già si trovava un largo contingente di funzionari del CGE in servizio. Ugualmente, l’opera di repressione della tratta si avvalse ampiamente dell’istituzione, nei luoghi a maggior tasso di emigrazione, di comitati mandamentali e comunali, nonché dei patronati, «incaricati di esercitare un’azione di sorveglianza e di tutela in quanto moralmente ed economicamente concerne l’emigrazione». Durante le traversate e i viaggi, inoltre, la CGE aveva predisposto la presenza di medici della Marina e dell’Esercito, con funzioni di Regi commissari, ma anche di speciali «ispettori viaggianti» per vigilare sugli e sulle emigranti. Infine, la relazione ricordava come a spese del governo e di concerto con le autorità locali, fossero stati istituiti nei Paesi di maggior affluenza uffici di protezione, d’informazione e di avviamento al lavoro rivolti agli emigranti. Accanto alla rete tesa dal CGE, si ricordava poi come a contrastare la tratta in Italia contribuissero grandemente le associazioni private di volontariato, prima di tutto il Comitato italiano contro la tratta, nato nel 1900, ma anche l’Associazione cattolica internazionale per la protezione della giovane, l’Unione internazionale delle amiche della giovane, il Segretariato femminile per la tutela delle donne e dei fanciulli emigranti.

2. I nuovi scenari del periodo tra le due guerre Negli anni della Prima guerra mondiale si registrò una inevitabile flessione dei movimenti delle prostitute e dei traffici legati alla prostituzione internazionale, così come in generale della circolazione dei civili. La chiusura delle frontiere, l’irrigidimento delle procedure per la concessione dei passaporti per l’estero e dei visti, la vigilanza sulle vie di comunicazione e di trasporto, l’inasprimento dei controlli di polizia sulla popolazione civile interna ai fini del mantenimento dell’ordine pubblico, sono alcune delle circostanze evocate nel 1920 in un memorandum del Ministero dell’Interno italiano per spiegare come mai durante la guerra non si fosse esercitata «in guisa alcuna la tratta delle bianche».4

4. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 24, Pro-memoria del ministero dell’Interno, 20 gennaio 1920. Fino a indicazione contraria i brani citati provengono da questa fonte.

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La guerra, spiegava il testo, «ha portato con sé una non lieve limitazione alla esplicazione di ogni attività personale» e tra le misure che avevano tolto linfa al «turpe commercio», oltre a quelle citate, figuravano anche «l’anticipata chiusura dei pubblici esercizi e dei locali di pubblico spettacolo, la proibizione dell’uso della maschera durante i passati carnevali e il divieto dei balli pubblici». Determinanti pure «la più rigorosa vigilanza sugli spettacoli teatrali e cinematografici» e la chiusura anticipata delle case di prostituzione. Cogliendo, tuttavia, l’ambivalenza dell’impatto dei conflitti sulla diffusione della prostituzione, nel memorandum era presente anche qualche nota su come la Grande guerra avesse contemporaneamente portato con sé un clima di generale immoralità e accentuato alcune forme specifiche di meretricio. Privando per diversi anni le famiglie di padri, fratelli e mariti, il conflitto aveva minato la coesione familiare. «Libera e non sorvegliata la donna, durante l’assenza della persona che la tutelava, e le incuteva un salutare timore, non ha serbato sempre intatto l’onore» e questo era avvenuto soprattutto nelle classi meno agiate, «nelle quali i dissesti economici prodotti dalla grande guerra e il contatto continuo con la strada non hanno potuto non produrre tristi effetti». Nelle zone di guerra, inoltre, laddove le truppe si agglomeravano, si era registrata una grande affluenza di «donne di malaffare» che però era stata prontamente governata dalle autorità militari, anche dal punto di vista igienico-sanitario per evitare la diffusione delle malattie veneree. A guerra conclusa, i fenomeni migratori legati alla prostituzione tornarono a crescere. La ripresa a pieno regime delle vie di comunicazione e dei servizi di trasporto dei civili, ma anche i massicci spostamenti di popolazione che seguirono i nuovi confini nazionali disegnati nei trattati di pace, così come l’immiserimento sociale causato da anni di devastazioni belliche, di economie di guerra, di lutti di massa, sono tra gli elementi che spiegano questa nuova impennata del fenomeno e la rilevanza che il tema acquisì nell’arena politica e diplomatica internazionale. Negli anni Venti e Trenta a studiare e governare la crescita della prostituzione su scala internazionale è la Società delle Nazioni (SdN) che già nel suo Patto costitutivo del 1919, all’art. 23, sanciva che da quel momento in poi gli Stati membri avrebbero deferito a essa «l’alta sorveglianza sull’esecuzione degli accordi relativi alla tratta delle donne e dei fanciulli, al traffico dell’oppio e di altre sostanze nocive». La prima conferenza patrocinata dal nuovo organismo dedicata alla tratta venne organizzata a Ginevra nel giugno 1921 ed è fortemente signi-

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ficativo che, lanciata con il titolo International Conference on the Suppression of the White Slave Traffic, si concludesse dando vita all’International Convention for the Suppression of the Traffic in Women and Children (1921).5 Lo slittamento nella terminologia da «commercio di schiave bianche» a «traffico delle donne», secondo molti studiosi, avrebbe corrisposto a un allargamento dell’interesse a favore dei traffici che coinvolgevano tutte le donne, senza distinzioni razziali, in un contesto fortemente globalizzato e, di pari passo, a uno spostamento del focus dalla prostituzione alla mobilità delle donne che viaggiavano “sole”.6 La terza convenzione in materia di tratta, ad ogni modo, introduceva altri importanti cambiamenti: innanzitutto estendeva la protezione ai minori di entrambi i sessi, innalzava l’età del consenso a 21 anni, si occupava dell’estradizione dei trafficanti e, infine, invitava gli Stati membri a intensificare il controllo sulle agenzie di collocamento, riconoscendo l’esistenza di un nesso forte tra emigrazione, lavoro, prostituzione. L’Ufficio centrale per la repressione della tratta Ratificando la convenzione del 1921 con il Regio decreto 25 marzo 1923 n. 1207,7 l’Italia si allineò finalmente all’orientamento internazionale, introducendo uno specifico reato di tratta (fino ad allora ritenuto non necessario perché assorbito in altri titoli di reato, come il lenocinio) e, soprattutto, istituendo l’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta presso la Direzione generale di Pubblica Sicurezza, centralizzando le attività investigative e repressive, così come diversi Stati avevano già fatto da molti anni. I documenti relativi alle attività dell’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta sono preziosi per ricostruire i nuovi scenari del dopoguerra e testimoniano in modo efficace come il lavoro di contrasto alla 5. Il testo della Convenzione è consultabile all’indirizzo https://www.admin.ch/ opc/it/classified-compilation/19210044/index.html (ultimo accesso 30 settembre 2022). 6. Katarina Leppänen, Movement of Women: Trafficking in the Interwar Era, in «Women’s Studies International Forum», n. 30 (2007), pp. 523-533. Come hanno dimostrato gli studi che hanno lavorato sulla prostituzione nelle colonie, come quelli di Kozma e Biancani già citati, così come i capitoli precedenti, tuttavia, le relazioni razziali e coloniali hanno continuato a innervare discorsi e politiche relative alla tratta anche durante il ventennio della Società delle Nazioni. 7. Convertito in legge 17 dicembre 1925, n. 2306.

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tratta abbia seguito negli anni Venti e Trenta sostanzialmente due direttrici: una intensa opera di repressione della prostituzione clandestina e un rigoroso lavoro di vigilanza e schedatura delle prostitute straniere presenti nel Paese. Nelle politiche di contrasto alla tratta, dunque, molto cambia rispetto all’età liberale. Se nei decenni iniziali del Novecento il governo italiano e le autorità consolari avevano declinato la campagna contro la tratta delle bianche soprattutto in termini di misure di controllo delle emigranti italiane di dubbia moralità o a rischio, nel periodo tra le due guerre questo tema quasi scompare dal dibattito pubblico e nella documentazione istituzionale. Le politiche contro la tratta internazionale delle donne assumono ora quasi esclusivamente la forma di misure rivolte alle straniere presenti in Italia e nelle sue colonie, di maggiori controlli e requisiti da assolvere per entrare e rimanere nel Paese. È uno slittamento che va letto nel quadro più ampio dei cambiamenti registrati negli stessi anni tanto nei flussi migratori quanto nelle politiche adottate per governarli. Dopo la fase delle grandi emigrazioni, il periodo tra le due guerre corrisponde per l’Italia a un forte ridimensionamento delle partenze e all’affermazione di nuove traiettorie. Nel determinare la fine dell’emergenza emigrazione, anche quindi dell’esodo di giovani donne impegnate in progetti migratori autonomi, hanno certamente avuto un ruolo importante almeno due processi. Da una parte la sostanziale «chiusura degli sbocchi migratori» (19191927) con le radicali limitazioni adottate in materia di immigrazione da molti Paesi tradizionalmente meta dei flussi provenienti dal Sud Europa. Dall’altra, le politiche antiemigratorie intraprese dal governo fascista nel quadro di nuovi progetti demografici e imperiali e culminate nelle disposizioni penali del 1930, che punivano più severamente l’emigrazione clandestina e il rilascio di falsi permessi a emigrare.8 8. Per approfondire questi riferimenti si vedano ad esempio: Emilio Franzina, La chiusura degli sbocchi migratori, in Aa.Vv., La disgregazione dello Stato liberale, Storia della società italiana, parte 5, vol. XXI, Milano, Teti, 1982, pp. 166-189; Maria Rosaria Ostuni, Leggi e politiche di governo nell’Italia liberale e fascista, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, pp. 309-319; Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna, il Mulino, 1997, in particolare pp. 126-129.

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Di pari passo, gli anni del fascismo corrispondono anche a un inasprimento e razionalizzazione del controllo di polizia sugli stranieri, che si manifestò in diversi modi. In primo luogo attraverso il TULPS del 1926, con la creazione degli uffici provinciali di polizia politica a cui era demandata questa funzione. In secondo luogo, con l’opera di schedatura e segnalamento coordinata dalla Polizia scientifica e tradotta nel Casellario centrale giudiziale9 e negli schedari «a soggetto» istituiti presso lo stesso istituto, facente capo alla DGPS. Infine, con il nuovo TULPS del 1931, che prevedeva nuove discipline in materia di stranieri, quali l’obbligo del visto per l’ingresso in Italia, l’obbligo di notifica di arrivo e domiciliazione e il permesso di soggiorno.10 Molto del lavoro svolto dall’Ufficio centrale italiano contro la tratta, dunque, si ispirò a questi orientamenti che invitavano a prestare maggiore attenzione alle straniere presenti nel Paese e a far scomparire dal dibattito pubblico, con i fatti e con le parole, le emigranti italiane, a maggior ragione quelle che rovinavano la reputazione nazionale all’estero. Come raccontava una relazione del 192411 i primi anni di attività dell’Ufficio centrale furono particolarmente intensi e numerose le disposizioni impartite agli uffici di P.S. perché si adeguassero ai nuovi orientamenti per combattere «il turpe traffico». In primo luogo, si chiedeva alla Pubblica Sicurezza di «sottoporre a nuova rigorosa disciplina le agenzie di collocamento delle donne», accertando i «requisiti di moralità» dei titolari e dei gestori delle stesse per impedire, alla radice, progetti migratori sospetti. Appurato, poi, che la prostituzione clandestina continuava a prosperare, soprattutto nei grandi centri, si era dato ordine perché con interventi decisi venissero chiuse le case e i luoghi di prostituzione irregolari. L’Ufficio, inoltre, mise mano al censimento dei soggetti potenzialmente coinvolti nei traffici, chiedendo al Ministero degli Interni di effettuare il 9. Per alcuni spunti sulla costruzione degli schedari e del servizio di identificazione in Italia mi permetto di rimandare a Laura Schettini, Identità incerte. Per una storia dell’identificazione personale, in «Zapruder», n. 29 (2012), pp. 8-25 e a Ead., Per lo studio della personalità del delinquente. La Polizia scientifica e il servizio di identità, in Una cultura professionale per la Polizia dell’italia liberale e fascista, a cura di Nicola Labanca e Michele Di Giorgio, Milano, Unicopli, 2020. pp. 91-105. 10. Si veda Titolo V. Degli stranieri. 11. La relazione era indirizzata all’igienista Rocco Santoliquido, allora consigliere a Parigi della Ligue des Sociétés de la Croix-Rouge. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 24. Relazione 8 settembre 1924.

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segnalamento (vale a dire compilare il cartellino segnaletico) di tutti «gli individui diffamati quali sfruttatori di donne». La Società delle Nazioni La convenzione siglata a Ginevra nel 1921, ad ogni modo, è ricordata soprattutto perché prevedeva l’istituzione di un comitato di esperti che avrebbe dovuto raccogliere dati e informazioni sulla reale natura dei traffici e stabilire se esisteva un nesso tra l’esistenza delle case di tolleranza autorizzate e la tratta. Il Comitato venne puntualmente formato nel 1922 (il Traffic in Women and Children Committee) e il suo operato è stato recentemente al centro di una nuova attenzione storiografica che in esso, così come nel Social Questions Committee nel quale confluì nel 1936, ha identificato uno dei principali artefici dell’intensa opera sociale della SdN. Se di essa, infatti, nel secondo dopoguerra sono stati sottolineati soprattutto i fallimenti in campo diplomatico e politico, sanciti dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, dall’inizio del nuovo millennio diverse ricerche ne hanno riscoperto l’impegno, attraverso comitati, commissioni, attività di studio, in campi legati al benessere delle persone, su scala globale.12 Tra queste aree di intervento, oltre ai traffici a scopo di sfruttamento sessuale, non meno rilevanti sono stati il child welfare, il lavoro forzato e la schiavitù, i profughi, le minoranze etniche nei nuovi Stati nazionali, il commercio internazionale di droghe. Il Traffic in Women and Children Committee, era composto dai rappresentanti di Impero britannico, Francia, Belgio, Polonia, Giappone, Spagna, Danimarca, Uruguay, Romania e Italia, e dai delegati – senza diritto di voto – delle cinque maggiori associazioni di volontariato attive contro la tratta delle donne (International Bureau for the Suppression of Traffic in Women and Children, Women’s International Organizations, Association Catholique Internationale des Oeuvres de protection de la Jeune Fille, Fédération des Unions nationales des amies de la jeune fille, Jewish Association for the Protection of Girls and Women), Nelle sue intenzioni, dunque, doveva 12. Si veda a questo proposito l’esaustiva rassegna storiografica di Susan Pedersen, Back to the League of Nations, in «The American Historical Review», vol. 112, n. 4 (2007), pp. 1091-1117. Importante il lavoro di Silvia Salvatici, Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale, Bologna, il Mulino, 2015, che ripercorrendo la storia dell’umanitarismo a partire dalla fine del Settecento, colloca l’operato sociale della Società delle Nazioni in una storia di lungo periodo.

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accogliere posizioni tanto abolizioniste quanto favorevoli alla regolamentazione della prostituzione, così come diverse confessioni religiose. Si riunì per la prima sessione di lavoro a Ginevra dal 28 giugno al 1° luglio 1922, anche se non al completo perché mancava Paulina Luisi (1875-1950),13 medico e femminista, decisa abolizionista, delegata uruguayana e figura di primo piano del movimento contro la tratta internazionale nel periodo tra le due guerre. A rappresentare l’Italia era il conte Raniero Paulucci di Calboli (1861-1931), protagonista fino alla fine del decennio della politica diplomatica italiana in materia di tratta delle donne e sfruttamento di minori, non di rado disallineato rispetto alle direttive del governo fascista. Nella sua relazione inviata al termine dei lavori, di fine luglio 1922, Paulucci di Calboli segnalò come il confronto fosse stato fortemente condizionato dalla presenza delle cinque associazioni di volontariato che «fecero blocco portando tutto il peso della loro autorità e esperienza nella grave discussione» e, cosa più rilevante, fece notare come l’Italia mostrasse di essere in ritardo rispetto a diverse questioni fondamentali.14 In primo luogo era stata richiamata perché non aveva ancora ratificato la Convenzione del 1904, né tanto meno quella del 1921 e, secondariamente, ma in buona compagnia, non aveva ancora istituito uno speciale ufficio con funzioni esecutive, vale a dire di polizia, che coordinasse le attività per la repressione della tratta nel territorio nazionale e fosse in collegamento con analoghi uffici degli altri Paesi. Lo avrebbe fatto, come abbiamo visto, l’anno successivo, istituendo l’Ufficio centrale contro la tratta. 13. Paulina Luisi è stata un punto di riferimento fondamentale per il femminismo latinoamericano della prima metà del Novecento. Figlia di emigrati europei (la madre era di origini polacche, il padre italiano), nata in Argentina, è stata la prima donna a laurearsi in medicina in Uruguay (nel 1909). Molto attiva sia per il diritto di voto alle donne che per l’educazione femminile, nel 1916 fondò la sezione uruguayana del National Women’s Council. È stata tra le prime donne al mondo a rappresentare il proprio Paese in consessi diplomatici internazionali. Cfr. Asuncion Lavrin, Women, Feminism, and Social Change in Argentina, Chile, and Uruguay, 1890-1940, Lincoln-London, University of Nebraska Press, 1995. Per il suo lavoro e le posizioni espresse nella Società delle Nazioni, in dialogo con quelle, spesso di segno opposto, della italiana Cristina Giustiniani Bandini, si veda Eugenia Scarzanella, La tratta delle donne. Inchieste, esperti, dibattiti alla Società delle Nazioni (Ginevra, 1922-1939), in «Nuova Storia Contemporanea», VI, n. 1 (2002), pp. 31-44. 14. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 2, Raniero Paulucci di Calboli a MI, 20 luglio 1922. Fino a indicazione successiva le citazioni provengono da questa fonte.

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Superata la fase preliminare dedicata alle questioni istituzionali, la discussione proseguì cercando di mettere meglio a fuoco l’emergenza che i vari governi si trovavano lì a discutere e i convenuti concordarono sull’esistenza di uno «stretto legame tra il problema emigratorio e quello della tratta». Queste parole riflettono certamente la sensibilità particolare di Paulucci di Calboli, impegnato già da lungo tempo intorno alla questione dello sfruttamento lavorativo, in particolare quello dei bambini e delle bambine, nelle esperienze migratorie, di cui aveva dato una prima prova con il libro-inchiesta I girovaghi italiani in Inghilterra ed i suonatori ambulanti (1893). Esse, però, testimoniano anche un orientamento diffuso all’interno del Comitato della SdN che a partire dal suo esordio cercò un collegamento con l’Ufficio internazionale del Lavoro, in particolare con la sua Commissione internazionale dell’Emigrazione, perché si trovassero misure comuni di protezione degli emigranti che si spostavano da un Paese all’altro, coinvolgendo anche le compagnie di navigazione. Se nella prima sessione il Comitato aveva quindi inscritto il problema della tratta all’interno dell’insieme più vasto delle condizioni di sfruttamento lavorativo degli emigrati e dei pericoli connessi all’emigrazione, nella seconda sessione (marzo 1923) al centro della discussione si impose il tema delle prostitute migranti e, più precisamente, dell’impiego di donne straniere nelle case di tolleranza.15 Su proposta del delegato polacco, ma fortemente caldeggiata dagli altri rappresentanti dei Paesi abolizionisti, come Estrid Hein per la Danimarca, venne messa ai voti una risoluzione che chiedeva che in attesa che venisse soppresso «il sistema del “regolamento” ufficiale esistente in alcuni Paesi […] si possa statuire che nessuna donna straniera debba rimanere al servizio di una casa di tolleranza od esercitare il mestiere di prostituta». La risoluzione, la cui discussione monopolizzò per giorni i lavori del Comitato, venne alla fine approvata a maggioranza, con la ferma opposizione della Francia e dell’Uruguay, per ragioni opposte, e l’astensione della Romania e degli Stati Uniti, new entry nel Comitato. Mentre la Francia cercò di ostacolare il provvedimento per le limitazioni che esso imponeva al mercato autorizzato della prostituzione, Paulina Luisi vi si oppose perché troppo debole e considerata una forma di legittimazione della prostituzione delle native. Ancora di più, a essere oggetto polemico della delegata uruguayana, in questa occasione come in altre successive in cui si tornò a discutere il tema, furono le implicazioni 15. Ivi, Raniero Paulucci di Calboli a MI, 22 aprile 1923.

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che tale misura avrebbe avuto per la libertà delle donne, soprattutto per la loro libertà di movimento. Il divieto di impiego delle prostitute straniere e il loro rimpatrio obbligatorio avrebbe significato che una determinata categoria di donne, le prostitute, non sarebbe più stata libera di spostarsi, da una parte presupponendo l’immutabilità della loro condizione di lavoro, dall’altra sottovalutando la complessità e vischiosità della definizione di straniera.16 Privo di indicazioni da parte del suo governo, così si giustificò, Paulucci di Calboli votò seguendo i suoi convincimenti a favore della risoluzione, salutata dal diplomatico come «il primo passo all’abolizione di quel regolamento della prostituzione che è acclamata dal voto plebiscitario femminile in omaggio alla dignità del sesso». Una posizione, dunque, in aperto e paradossale contrasto con le politiche adottate in patria, dove non solo vigeva da lungo tempo la regolamentazione della prostituzione, ma il numero di prostitute straniere impiegate era consistente e largamente benvoluto dalle autorità, come si vedrà approfonditamente nel prossimo capitolo. La distanza tra gli orientamenti espressi da Paulucci di Calboli sulla scena diplomatica internazionale, dove era tenuto in grandissima considerazione tanto da ottenere nel 1926 la presidenza dell’Unione internazionale per la protezione dell’infanzia, e quelli adottati e sponsorizzati in patria dal nuovo governo fascista si ampliò negli anni successivi. Ancora contenuti nel 1924 e 1925, quando il Comitato venne ripensato e riorganizzato aprendo una sezione interamente destinata alla protezione dell’infanzia, tema particolarmente caro a Paulucci di Calboli,17 i dissidi tra il diplomatico (che dal 1922 era anche ambasciatore in Spagna) e il governo si acuirono intorno al 1926-27, biennio cruciale per le attività della Società delle Nazioni in materia di tratta. L’Italia e i lavori del Traffic in Women and Children Committee Già nel 1923, appena inclusa nel Comitato, la rappresentante degli Stati Uniti Grace Abbott aveva avanzato la proposta che la Società delle 16. Oltre ai riferimenti presenti nella relazione di Paulucci di Calboli, per le posizioni tenute da Luisi nel Comitato si veda Scarzanella, La tratta delle donne; Limoncelli, The Politics of Trafficking, in particolare pp. 78-82. 17. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 2, Raniero Paulucci di Calboli a MI, 10 giugno 1925.

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Nazioni si facesse carico di eseguire un’inchiesta scientifica sulla tratta, per rilevarne dimensioni e dinamiche reali, rinforzando l’auspicio con un contributo di 60.000 dollari della American Social Hygiene Association. Accolto il progetto, venne dall’anno successivo composto un apposito gruppo di esperti (Body of Experts) del quale fecero parte anche due donne: Paulina Luisi e l’italiana Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959), figura di spicco del movimento femminile cattolico, presidente dal 1909 al 1917 dell’Unione fra le donne cattoliche d’Italia e collaboratrice per molti anni del diplomatico Giacomo Paulucci di Calboli Barone, genero di Raniero e dal 1927 sottosegretario generale per l’Italia alla Società delle Nazioni.18 Le investigazioni del gruppo di esperti durarono diversi anni e si focalizzarono in questo primo momento sulle Americhe e l’Europa, le città portuali del Mediterraneo e i distretti del Baltico, per un totale di 28 Paesi e 112 città visitate. Una squadra di investigatori, molti sotto copertura, intervistarono circa 600 funzionari dei diversi uffici nazionali contro la tratta o dei servizi di immigrazione, 250 persone attive nelle associazioni di volontariato dei diversi luoghi e, soprattutto, più di 5000 persone coinvolte a vario titolo (intermediari, prostitute, tenutarie, incettatori, protettori) nel mercato della prostituzione, autorizzato e clandestino.19 Come spiegò Paulucci di Calboli al suo governo gli esperti «non hanno esitato a frequentare i ritrovi dei trafficanti, a mettersi in rapporto col mondo dei tenutari, dei racoleurs, degli intermediari per studiare il problema dal vivo».20 18. Per approfondire i profili biografici di Giustiniani Bandini e Giacomo Paulucci di Calboli Barone si vedano le relative voci del Dizionario biografico degli italiani (Istituto Enciclopedia Italiana Treccani), rispettivamente di Stefano Trinchese nel vol. 57 (2001), e di Giovanni Tassani nel vol. 81 (2014). Per ripercorrere le differenti posizioni di Luisi e Giustiniani Bandini nell’esperienza del Comitato di esperti si veda Scarzanella, La tratta delle donne. 19. Report of the Special Body of Experts on Traffic in Women and Children, Geneva, League of Nations, 1927. Il rapporto è stato oggetto di crescente interesse storiografico negli ultimi anni ed è ampiamente utilizzato e discusso nei lavori di Liat Kozma, Global Women, Colonial Ports. Prostitution in the Interwar Middle East, New York, Suny Press, 2017, e Limoncelli, The Politics of Trafficking. Il materiale di lavoro di uno dei suoi principali protagonisti, l’americano Paul Kinsie, è stato ripubblicato pochi anni fa: Trafficking in women 19241926. The Paul Kinsie reports for the League of Nations, a cura di Jean-Michel Chaumont, Magaly Rodriguez Garcia, Paul Servais, 2 voll., Genève, United Nations, 2017. 20. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 23, subfasc. 2, Raniero Paulucci di Calboli a MI, 27 maggio 1927. Fino a indicazioni diverse le citazioni provengono da questa fonte.

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I risultati vennero raccolti in un rapporto, diviso in due parti: la prima, resa immediatamente pubblica, esponeva in modo sintetico i risultati ottenuti e le conclusioni a cui era giunto il gruppo di esperti; la seconda, inviata in modo preliminare e confidenziale nel 1926 ai governi interessati, illustrava invece dettagliatamente come prostituzione e tratta si svolgessero nei diversi Paesi. La presentazione e discussione del rapporto all’interno del Traffic in Women and Children Committee avvenne nell’ambito della sesta sessione di lavoro, riunita a Ginevra nell’aprile 1927, della quale Paulucci di Calboli, chiaramente consapevole delle ricadute che la seconda parte del rapporto avrebbe avuto per la reputazione dei diversi Paesi, mandò al suo governo un lungo e dettagliato resoconto di 43 pagine dattiloscritte. Già la prima parte del rapporto, pubblicata e diffusa, aveva infatti avuto una vasta eco presso l’opinione pubblica mondiale, tanto da far affermare a Paulucci di Calboli che «raramente una pubblicazione della Lega ha avuto tale successo», con migliaia di copie vendute in pochissimo tempo. Fin dall’esordio del suo scritto, il delegato italiano entrava nel vivo della questione principale che lo divideva dal suo governo, affermando che il Report of the Special Body of Experts era «senza dubbio uno dei risultati più notevoli» del movimento abolizionista e che, d’altra parte, proprio la domanda sui nessi tra regolamentazione e tratta, tra case di tolleranza autorizzate e traffici di donne, era stata il motore dell’inchiesta. Al termine dei suoi lavori, facendo tesoro anche delle informazioni ufficiali raccolte tramite un questionario sulla prostituzione distribuito presso più di 40 Governi, il Comitato era arrivato a convinzioni «nettamente abolizioniste» (p. 27). Nella prima parte del rapporto, dunque, si leggeva – riportava Paulucci di Calboli al suo governo – senza mezzi termini: «noi possediamo testimonianze precise che stabiliscono che le case di tolleranza provocano una domanda costante di nuove prostitute e che tale domanda alla quale rispondono i trafficanti, dà origine alla tratta sia nazionale che internazionale» (pp. 27-28). Ancora più di impatto le ricadute, ugualmente fotografate nelle conclusioni del rapporto, che il sistema della regolamentazione aveva sulle condizioni di vita e di lavoro delle prostitute: «L’argomento fondamentale contro la regolamentazione è che mentre la prostituta indipendente conserva un resto di dignità umana e la piena libertà della sua persona, il che le consente sia di limitare e di scegliere i suoi clienti, sia di risollevarsi un giorno dalla sua avvilente situazione, il sistema della regolamentazione sanzionando ufficialmente la posizione della donna in

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una categoria di paria la espone allo sfruttamento più vergognoso da parte dei parassiti autorizzati a gestire le case di tolleranza» (p. 28). Ad ogni modo, a irritare le autorità italiane una volta ricevuto il lungo resoconto di Paulucci di Calboli non furono solo le aperte simpatie abolizioniste, del delegato e del Comitato, ma le deduzioni stesse a cui il Comitato era arrivato riguardo il funzionamento della tratta e che può essere utile richiamare a grandi linee. Il gruppo di esperti nel 1926 era ormai in grado di svelare i «principali itinerari della tratta», indicando i Paesi europei (in particolare Germania, Italia, Francia, Polonia, Romania, Turchia, Spagna, Grecia, Austria) come i più importanti luoghi di partenza e le Americhe, in special modo Argentina, Brasile, Panama, Messico, quali destinazioni. Altro importante itinerario era quello che univa l’Europa meridionale all’Egitto e ad altri Paesi del Nord Africa. Lo studio aveva poi riscontrato «che la maggior parte delle donne, vittime della tratta, sono prostitute di professione, benché molte di età minore», seguite, in ordine di importanza, da «donne del demi-monde viventi al margine della prostituzione di mestiere e che finiscono presto o tardi col diventare preda del trafficante», dalle artiste liriche e dei musichalls e, infine, dalle «fanciulle ingannate che si maritano ad avventurieri e son da questi costrette ad esercitare all’estero l’infame mestiere» (p. 4). Si era notato, poi, come nel tempo fosse cambiato il profilo sociale delle prostitute e delle vittime di tratta: se fino a vent’anni prima erano le domestiche e donne di servizio a prevalere tra quante finivano nel mercato della prostituzione internazionale, ora a primeggiare sarebbero state «le intellettuali», poi meglio specificate in dattilografe, copiste, segretarie. Molteplici «le arti di cui i trafficanti si servono», sia per irretire le vittime ingenue, sia per condurle a destinazione: matrimoni religiosi senza effetti legali, promesse di lavoro all’estero e scritture per tournées teatrali, la falsificazione di ogni genere di documento (dai passaporti agli atti di nascita), fino ad arrivare ai «giri viziosi per imbarcarsi e sbarcare nei luoghi di minore vigilanza» (p. 5). Gli esperti erano poi arrivati alla conclusione che non esistesse un’organizzazione internazionale che presiedeva alla tratta, quanto piuttosto un collaudato meccanismo di scambi di informazioni ed expertise tra i singoli trafficanti. Dense anche le considerazioni sui possibili rimedi individuati dal gruppo di esperti: fondamentale l’intervento preventivo nel campo della moralità e quindi il ruolo che Chiesa e scuola avrebbero potuto avere per «migliorare le condizioni etiche di un paese»; urgente la sanzione, da at-

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tuare tramite le modifiche dei codici e delle leggi di polizia, di tutti quegli atti «preparatori della tratta», quali la ricerca di donne da avviare alla prostituzione, il finanziamento dei viaggi all’estero delle stesse, così come l’accompagnamento durante le traversate, l’acquisto di biancheria e vestiario e lo svolgimento delle pratiche burocratiche per far ottenere loro il passaporto; indispensabile, poi, l’accordo e il collegamento tra le autorità dei diversi Paesi, soprattutto per scambiare notizie e foto di trafficanti o sospetti tali; necessario anche un maggior coinvolgimento delle autorità consolari nella lotta alla tratta, ritenute un avamposto essenziale per sorvegliare gli e le emigranti, rimpatriare le vittime e i trafficanti, ma anche vigilare sulle condizioni (morali ed economiche) di lavoro delle artiste; indagini speciali erano sollecitate per le prostitute straniere, perché se ne accertasse l’identità e la storia, così da verificare se qualcuno le avesse indotte a prostituirsi e a espatriare. Nel campo della sorveglianza in capo alla polizia, erano auspicati maggiori controlli sul rilascio dei documenti, sulla regolarità delle agenzie di collocamento, sugli annunci economici pubblicati sui giornali. Infine, ancora in merito alla discussione sui rimedi da adottare per porre fine alla tratta, mentre il rapporto veniva presentato e discusso durante la sesta sessione, la Commissione consultiva prendeva parola anche su una questione sociale non di poco conto: il rapporto tra bassi salari femminili e prostituzione. Soprattutto su sollecitazione delle organizzazioni cattoliche femminili, raccontava Paulucci di Calboli, in seno al Comitato si era ampiamente discusso del fatto che a spingere molte donne al meretricio, o a renderle particolarmente vulnerabili e ricattabili, erano i salari miserabili con cui venivano pagate e che non permettevano loro di sopravvivere: era quindi auspicabile che qualche iniziativa venisse intrapresa pure per promuovere una maggiore equità salariale (p. 37). Paulucci di Calboli dedicò alcune pagine del suo copioso rendiconto anche a cosa il rapporto dicesse dell’Italia. Sulla questione il diplomatico attirava con energia l’attenzione del governo, sia perché le annotazioni erano fatte nella seconda parte del rapporto, non ancora reso pubblico proprio per essere prima sottoposto all’attenzione delle varie autorità nazionali, sia perché l’Italia fino a quel momento – come lamentò più volte il delegato – aveva mantenuto sulla scena internazionale un «atteggiamento di grande riserbo», evitando di prendere ufficialmente posizione. Ora, tuttavia, avvisava l’estensore del resoconto, tale contegno non sembrava più praticabile, dal momento che soprattutto con la pubblicazione della prima parte del

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rapporto il tema era tornato a infiammare l’opinione pubblica e la stampa mondiale, come «questione morale e sociale della più alta importanza che ha riflessi di particolare attività, per quanto riguarda le condizioni etiche e l’avvenire fisico della razza» (p. 43). Per ricavare informazioni sulla tratta e la prostituzione in Italia, il gruppo di esperti – avvantaggiato dalla presenza al suo interno della principessa Giustiniani Bandini – si era avvalso prevalentemente della documentazione fornita dal governo, ma anche di indagini sul campo effettuate sotto copertura dagli investigatori, che avevano intervistato tenutarie, prostitute, intermediari, protettori a Genova, Roma, Napoli, Palermo.21 Annoverato tra i Paesi regolamentazionisti, l’Italia era stata pure però lodata per la stretta di polizia data alle case di tolleranza e all’esercizio della prostituzione con il nuovo Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 1926: l’art. 213 sanzionava qualsiasi forma di istigazione al vizio in luogo pubblico, punendo in particolare il racolage (adescamento) e la réclame di case di tolleranza, come ad esempio affacciarsi alle finestre o trattenersi sulla soglia; l’art. 201 proibiva il consumo di alcool, feste e balli nelle case di tolleranza; l’art. 198 vietava all’esercente di chiedere alla prostituta beni o denaro in cauzione o per altre ragioni e l’art. 204 puniva con la detenzione fino a un anno il tenutario che impediva alla prostituta di lasciare il locale di meretricio. Nel rapporto, tuttavia, si lamentava che l’Italia non avesse fornito dati attendibili né sulle case di tolleranza autorizzate esistenti, né su quelle clandestine, mentre le informazioni disponibili indicavano che il numero delle prostitute straniere era in aumento. Si invitava poi a prestare attenzione alla pratica in uso tra tenutari di case di tolleranza «di scambiarsi regolarmente le loro pensionanti dopo un periodo di due settimane di soggiorno». Era trovata «particolarmente rigorosa […] la sorveglianza delle nostre autorità per impedire che delle minorenni cittadine italiane possano essere vittime dell’odioso traffico; come pure per negare il passaporto alle cittadine italiane sospettate di recarsi all’estero per esercitare la prostituzione». Tuttavia, nonostante le più severe misure, dal rapporto risultava che non mancavano «casi di tratta in provenienza dall’Italia» e tra i mezzi più comuni per aggirare la sorveglianza c’era quello di condurre le ragazze in Paesi vicini dove

21. Si vedano per esempio i resoconti delle indagini e degli incontri fatti da Paul Kinsie in Trafficking in women 1924-1926, vol. 1, pp. 247-275.

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le procedure per il rilascio dei passaporti erano più facili, come la Francia, la Tunisia, la Tripolitania, l’Algeria. Principali destinazioni dei casi di tratta internazionale provenienti dall’Italia erano «i paesi del litorale mediterraneo nonché, in grado inferiore, l’America Centrale e l’America del Sud» (p. 14). 3. La «terza via» fascista Il lungo resoconto di Paulucci di Calboli che riportava la discussione avvenuta alla Società delle Nazioni intorno al lavoro del gruppo di esperti suscitò da subito in Italia una ridda di reazioni. Sulla questione, a novembre, prendeva parola il capo della polizia Arturo Bocchini, con un accurato memoriale indirizzato al sottosegretario della SdN, Paulucci di Calboli Barone. Bocchini interveniva su diversi punti che lo chiamavano direttamente in causa, dal momento che la prostituzione era allora in gran parte materia regolata dal TULPS del 1926.22 La nota era stata approntata anche in vista della nuova riunione del gruppo di esperti, che si sarebbe tenuta verso la fine del mese, nella quale sarebbero state discusse proprio le reazioni dei diversi governi alla seconda parte del Report, non ancora resa pubblica. Ciò che Bocchini e il governo avevano mal accettato era in primo luogo l’iscrizione, fatta nel rapporto, dell’Italia tra i Paesi regolamentazionisti, come se nella penisola esistesse un sistema di autorizzazione ufficiale delle case di meretricio e quindi, sostanzialmente, di indulgenza nei confronti del vizio. Così non era, spiegava Bocchini, inaugurando un leitmotiv della comunicazione e delle politiche del governo fascista in merito alla tratta. Contrario alle tesi abolizioniste, che avrebbero portato al dilagare della prostituzione clandestina, ma anche alle forme di protezione giuridica della prostituzione implicite nelle tesi regolamentazioniste, il legislatore fascista «aveva scelto una via intermedia», realista, che teneva conto «dell’impossibilità materiale di sopprimere per legge un fenomeno naturale e sociale, generato da cause molteplici e complesse che non è dato eliminare e, tal22. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 3, Capo della polizia a Paulucci di Calboli Barone, 8 novembre 1927. Fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte.

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volta, nemmeno attenuare». Il sistema in vigore in Italia, dunque, non autorizzava, «ma tollera l’esercizio del meretricio, in quanto si osservino opportune cautele a difesa della pubblica decenza, dell’igiene e della sicurezza pubblica». Non si dava il permesso di fare, ma si lasciava che si facesse fino al limite in cui non era offesa la pubblica decenza, oltre il quale si sarebbe represso. Affermazioni significative, che tra l’altro spiegano finalmente la dizione «casa di tolleranza», così diffusa in Italia. È importante che Bocchini, a sostegno di questa tesi, citasse anche l’art. 194 del TULPS, secondo cui l’autorità locale di Pubblica Sicurezza poteva registrare un luogo come avente funzioni di locale di meretricio sia in seguito alla richiesta dell’esercente, sia d’ufficio, in seguito a operazioni di polizia che lo avessero riconosciuto come spazio dove si esercitava abitualmente la prostituzione. Non si trattava di una forma di legittimazione, assicurava Bocchini, ma di un modo per assorbire progressivamente la prostituzione clandestina nella rete del controllo di polizia e sanitario. Un dispositivo chiave, questo, della politica verso la tratta negli anni del fascismo, in gran parte coincidente con lo sforzo di disciplinare e ufficializzare la prostituzione. Nel prosieguo della sua missiva a Paulucci di Calboli Barone, Bocchini lamentava dunque l’operato della Società delle Nazioni in relazione all’Italia, della quale non si era saputo cogliere la specificità e, in altri punti, si era drammatizzata la situazione. Era vero, infatti, ammetteva il capo della polizia, che anche in Italia si verificassero casi di tratta, «tuttavia è lecito arguire che – in Italia la tratta non presenti le proporzioni seriamente preoccupanti, come, del resto, è naturale che sia, attesa l’indole moralmente sana degli italiani». Le indagini di polizia condotte negli anni precedenti intorno al movimento delle prostitute tra le case di tolleranza, inoltre, avevano svelato che piuttosto che «una speciale organizzazione che presiedesse a quel movimento» erano le stesse meretrici che comunicavano l’una all’altra gli indirizzi delle case di prostituzione e che questi passaggi erano «liberamente voluti dalla meretrice» e quindi non considerabili casi di tratta. La stessa circostanza era confermata dagli interrogatori delle prostitute straniere, che mai avevano denunciato l’esistenza di un’organizzazione che dirigesse i loro spostamenti. Sulle prostitute straniere in Italia, inoltre, Bocchini aveva da replicare diverse cose al Report del gruppo di esperti, tra le quali la principale era che non fosse affatto vero che queste sarebbero state in aumento. La SdN

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aveva infatti travisato i dati forniti dal governo che avevano finito con il sovrarappresentare le forestiere perché queste erano interrogate tutte, mentre «le italiane sono interrogate solo occasionalmente». Viste queste precisazioni, concludeva Bocchini, qualora si fosse voluto rendere pubblico il rapporto della Società delle Nazioni, sarebbe stato quanto meno opportuno accludervi integralmente la nota da lui scritta. Un mese dopo, a dicembre, prendeva parte alla discussione anche l’ispettore generale Umberto Molossi, figura chiave della Pubblica Sicurezza italiana con grande esperienza all’estero, per vent’anni a New York come responsabile del servizio di P.S. istituito nel 1900 presso il Consolato per vigilare sulla radicalizzazione politica degli immigrati italiani. Dal 15 al 27 novembre 1927 Molossi era stato mandato, come assistente di Giustiniani Bandini, ad assistere alla discussione del gruppo di esperti dedicata specificatamente ai feedback ricevuti dai diversi Stati sulla seconda parte del Report, «concernente le condizioni nelle quali si svolge la tratta dei vari paesi». La presenza dell’ispettore era stata ritenuta quanto mai opportuna, viste le divergenze di opinioni in materia di abolizionismo tra i delegati italiani alla Società delle Nazioni e il governo, e la sua opera si era svolta «con molto riserbo, intelligenza e tatto».23 Molossi aveva presenziato, senza diritto di parola, con il compito di sottoporre al gruppo di esperti la nota e le precisazioni del capo della Polizia Bocchini. La prima cosa notata dall’ispettore generale fin dall’apertura dei lavori, era «che il Comitato degli esperti è composto da convinti abolizionisti», sicuri che la tratta dipendesse «dall’esistenza di pubbliche case di meretricio».24 La premessa forse gli serviva a preparare i suoi superiori rispetto al sostanziale insuccesso della missione a Ginevra: mentre il Comitato degli esperti non aveva avuto problemi a riconoscere l’errore compiuto in relazione al presunto aumento di prostitute straniere in Italia e, quindi, a modificare il Report relativamente a questo punto, così non era andata rispetto alla «via di mezzo indicata dal legislatore italiano come quella da noi seguita tra il sistema abolizionista e quello non abolizionista 23. Questa e la precedente citazione provengono dalla lettera scritta dal sottosegretario alla Società delle Nazioni Paulucci di Calboli Barone per accompagnare la relazione di Molossi, Ginevra, 7 dicembre 1927 (ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 20). 24. Ivi, Umberto Molossi al Capo della Polizia e al Sottosegretario della SdN, 1° dicembre 1927. Fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte.

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[…]». Secondo il Comitato il titolo VII del TULPS rappresentava in diversi articoli forme esplicite di regolamentazione delle case di prostituzione e ancora meno deponeva bene la recente «riforma fiscale [la riforma De Stefani del 1923] che impone una tassa di esercizio alle tenutarie delle case di tolleranza». L’Italia, quindi, per la Società delle Nazioni rimaneva conteggiata tra i Paesi regolamentazionisti. Negli anni seguenti, da ambo le parti, gli orientamenti rimasero sostanzialmente gli stessi. La Società delle Nazioni si schierò sempre più apertamente a favore delle tesi abolizioniste, anche in virtù degli ostacoli che l’esistenza di case di prostituzione autorizzate poneva, per esempio, alla punibilità delle figure di intermediazione, che non era possibile considerare criminali se non quando operavano con minorenni. In questa prospettiva acquistano particolare valore due iniziative intraprese dalla SdN nei primi anni Trenta, che aggredivano indirettamente l’esistenza delle case di tolleranza autorizzate. La prima è la Convenzione del 1933 per la repressione della tratta delle donne adulte (International Convention for the Suppression of the Traffic in Women of the Full Age), che estendeva finalmente le misure di protezione alle donne maggiorenni anche se consenzienti, spostando l’attenzione dal profilo delle donne coinvolte al reato e a chi lo commetteva. Con l’art. 1, infatti, veniva considerato «delitto di tratta l’ingaggio della donna maggiorenne, per soddisfare l’altrui libidine, anche quando la stessa sia consenziente».25 La seconda è l’istituzione, nel 1931, di una sottocommissione del Traffic in Women and Children Committee incaricata di lavorare a un protocollo addizionale per la repressione dei souteneurs, dei procacciatori e incettatori che, fondamentali per garantire il ricambio delle prostitute nelle case di tolleranza, erano da lungo tempo considerati tra i principali artefici dei traffici.26

25. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 17, Nota della DGPS al MAE, al Ministero di Grazia e Giustizia, al Ministero delle Colonie, 2 agosto 1933. Il testo integrale della convenzione è consultabile sul sito della Commissione Europea all’URL https://ec.europa.eu/anti-trafficking/legislation-and-case-law-international-legislation-united-nations/1933-international-convention_en (ultimo accesso 30 settembre 2022). 26. Si veda a questo proposito il lungo rapporto preparato dal Comitato contro la tratta delle donne e dei fanciulli: ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 19, Étude sommaire des lois et sanctions relatives aux souteneurs (1931).

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L’Italia, dal canto suo, complice forse anche la scomparsa di Paulucci di Calboli e la sua sostituzione alle funzioni di delegato con Ugo Conti, prese negli anni Trenta posizioni sempre più distanti da quelle della Società delle Nazioni. Non firmò né ratificò la convenzione del 1933, recepita come apertamente in contrasto con le disposizioni vigenti nel Paese in materia di meretricio, né sposò il progetto di protocollo addizionale (che non andò in porto) nonostante Ugo Conti fosse stato chiamato a far parte della sottocommissione giuridica che avrebbe dovuto studiare la questione.27 «La tratta delle donne, ed ispecie quella da e per l’estero, è quasi nulla» Il decennio vide il Governo fascista sempre più impegnato a dimostrare sulla scena internazionale che l’Italia era un Paese sostanzialmente sano, dove la tratta non esisteva quasi più e la prostituzione – considerato «un male necessario, specie per tutelare l’ordine delle famiglie» – era sotto lo stretto controllo della polizia.28 Una politica che possiamo leggere chiaramente, anche nei suoi effetti, guardando al rapporto annuale redatto nel 1932 dall’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta delle donne e presentato come richiesto alla Società delle Nazioni.29 Il rapporto riepilogava tutte le iniziative di polizia intraprese nell’anno precedente dalle varie questure della penisola in relazione a tratta e prostituzione: dalle retate agli interrogatori di routine, passando per le indagini avviate da denunce particolari e l’opera di vigilanza nei porti e nelle stazioni ferroviarie. L’anno in questione rappresenta un punto di osservazione privilegiato, perché a quella data si erano ormai definite le politiche fasciste in materia di tratta e prostituzione e si era all’indomani di una nuova sistematizzazione della norma penale e di polizia con l’adozione del nuovo Testo Unico

27. Nell’Archivio Centrale dello Stato ci sono molti materiali relativi alla convenzione del 1933 e a come venne discussa tra i vari organi del governo italiano. Si veda in particolare ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 17. 28. Si veda, per esempio, come le posizioni in materia vennero nuovamente riassunte in una nota approvata dal sottosegretario di Stato e redatta dall’Ufficio Studi e Legislazione del Gabinetto del ministro dell’Interno, inviata alla DGPS e ai delegati alla Società delle Nazioni, il 16 gennaio 1928 (ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 3). 29. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 5, Rapporto dell’Ufficio Centrale Italiano per la repressione della “tratta delle donne” sull’attività svolta per la repressione della tratta in Italia, durante il decorso anno 1931.

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delle Leggi di Pubblica Sicurezza e l’entrata in vigore del nuovo Codice penale. Il rapporto, redatto seguendo il questionario elaborato dalla SdN quello stesso anno per uniformare la raccolta di notizie provenienti dai diversi Paesi, si apriva rispondendo alla domanda relativa al numero e tipo di delitti di tratta scoperti nell’anno precedente. Le autorità italiane, in tutto il territorio nazionale, ne avevano scoperti tre. Per primo veniva raccontato che a Roma, «in una camera appartata in una osteria campestre» erano stati sorpresi a congiungersi carnalmente un uomo e una donna e nei pressi era stata fermata tale M.A. Questa si era scoperto essere colei che aveva organizzato «il convegno»: la giovane colta in flagranza era la sua domestica, che lei faceva prostituire privandola anche di tutti i guadagni. M.A. veniva denunciata e processata per tratta, condannata a otto mesi in primo grado, ma assolta per insufficienza di prove in appello. Il secondo delitto scoperto riguardava due tenutarie di case di appuntamenti clandestine collegate tra loro, a Firenze, che con false promesse e lusinghe avevano indotto diverse «minorenni inesperte» a prostituirsi, come si era accertato dopo «stringente interrogatorio». Le due donne vennero denunciate per tratta, esercizio clandestino di una casa di prostituzione, lenocinio e corruzione di minorenni e condannate dal Tribunale di Firenze per gli ultimi due capi di imputazione. Infine, il terzo caso riguardava un uomo, C.A., scoperto in una casa di meretricio di Imola intento a ingaggiare prostitute per altre case di prostituzione di Ravenna. Denunciato per tratta e condannato in primo grado, venne poi assolto dal Tribunale d’Appello «perché il fatto non costituisce reato». Anche questi casi, dunque, sembrano confermare come l’esistenza del sistema della regolamentazione di fatto creasse un regime di impunità per condotte che interessavano donne maggiorenni e dentro il circuito delle case regolari. Ancor più degno di nota, tuttavia, è che il rapporto proseguiva testimoniando come nel 1931 fossero state denunciate dall’autorità giudiziaria 196 persone per lenocinio e sfruttamento della prostituzione e 423 per lenocinio e corruzione di donne minorenni. «Tutti i prevenuti – si chiariva – sono cittadini italiani» e poco più avanti si confermava che durante il periodo in esame non erano stati intrattenuti con le autorità estere omologhe corrispondenze e scambi in ordine a casi di tratta. Nelle stazioni ferroviarie, specie quelle di confine, e nei porti, si assicurava poi che la vigilanza era stata massima nei confronti delle giovani

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«che viaggiano sole» ed erano state assistite, «moralmente e materialmente» 33.557 donne durante l’anno, delle quali 24 straniere. Ugualmente, dato che non era consentito espatriare senza passaporto, anche nelle procedure di rilascio del documento si erano disposti «rigorosi accertamenti, a prevenire anche la possibilità che inesperte giovanette si rechino all’estero, attratte dal miraggio di onesto lavoro, di facile e profiquo [sic] collocamento, e destinate, invece, a prostituirsi». Nel corso del 1931 erano state soccorse e ricoverate negli istituti privati di protezione delle giovani 16.324 donne, di cui 24 straniere, e 431 giovani (tra le quali una sola straniera, ungherese) erano state avviate ai Comitati e Patronati di assistenza delle «giovani traviate». Infine, 837 minorenni dedite alla prostituzione erano state ricoverate negli Istituti di rieducazione e di queste 80 erano straniere (40 tedesche, 20 austriache, 10 ungheresi e poi belghe, svizzere, cecoslovacche). Ritornando ancora una volta sul tema chiave della particolare situazione normativa e legislativa nazionale, nel rapporto si spiegava poi che nel Paese «non vigono leggi o regolamenti disciplinanti l’esercizio del meretricio come attività moralmente e giuridicamente lecita», ma la materia era regolata dalle leggi di Pubblica Sicurezza nell’interesse dell’ordine pubblico, della salute pubblica e del buon costume.30 Nel nuovo Codice penale entrato in vigore nel 1931 (il cosiddetto Codice Rocco) erano d’altra parte contenuti diversi articoli che disciplinavano i reati di favoreggiamento, istigazione, costrizione alla prostituzione, di sfruttamento delle prostitute e di tratta delle donne e dei fanciulli, tutti contenuti nel libro secondo, titolo nono, Dei delitti contro la morale pubblica ed il buon costume. La scelta del legislatore era dunque quella di considerare i reati di tratta, induzione e costrizione alla prostituzione, nonché sfruttamento delle prostitute, come offese non alla persona, ma alla morale pubblica e al buon costume e ancora più specificatamente come offese al pudore e dell’onore sessuale (capo II e III). È una concettualizzazione che ha implicazioni rilevanti rispetto al tema qui trattato. Essa chiarisce quale fosse il bene tutelato dallo Stato, vale a dire il pudore e l’onore sessuale nella loro accezione pubblica. Circostanza 30. Il riferimento è al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» n. 146 del 26 giugno 1931. In particolare Titolo VII, Del meretricio (artt. 190-208).

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che a sua volta spiega come mai a essere difese nella legge italiana erano solo le minorenni raggirate e costrette, ancora considerabili “innocenti”, mentre le prostitute maggiorenni, il cui onore sessuale era considerato ormai compromesso, non erano pressoché mai trattate come vittime. Come testimoniava una delle tre vicende riportate in apertura del rapporto, per le maggiorenni «il fatto non costituisce reato» ed essere sfruttate sessualmente diventata motivo di sanzioni, misure di controllo e di discorsi colpevolizzanti. Di certo, nonostante la battente opera di vigilanza di cui erano fatte oggetto, delle prostitute le fonti tacciono quasi del tutto condizioni di lavoro e vita, non mettendo a tema la questione dello sfruttamento, ma solo quello della perdita dell’onore. In questa prospettiva viene in rilievo la funzione strategica e rassicurante svolta – ancor più durante il ventennio fascista – dal sistema delle case di tolleranza. Esso nascondeva (come materialmente testimoniato con le finestre oscurate dei postriboli) il «commercio di sesso» allo sguardo pubblico e dava l’illusione di circoscrivere la diffusione delle malattie veneree. Altrettanto utilmente proiettava un’aurea di regolarità (nel senso proprio di essere in regola) sulle condizioni di lavoro e impiego delle prostitute. Una volta iscritte in una casa di tolleranza e registrate come meretrici, esse erano considerate consenzienti tout court, cosicché la lotta contro la tratta delle donne ha preso progressivamente la forma in Italia della lotta alla prostituzione clandestina, meglio se di minorenni. I movimenti di prostitute tra le case regolari, sia all’interno del Paese sia all’estero, come mostra l’ultimo caso di cui dava conto il rapporto del 1932, erano solo un ingranaggio necessario al funzionamento di una impresa legittima. Torniamo, allora, al rapporto del 1932 e alle sue conclusioni, dove si discuteva finalmente di prostituzione internazionale, in particolare di prostitute straniere in Italia, alla voce Altre notizie. Nel corso del 1931 erano state sottoposte a interrogatorio tutte le meretrici forestiere arrivate nel Regno e, stando agli accertamenti fatti, al 31 dicembre 1931 in Italia c’erano 3244 prostitute italiane e 146 straniere. Queste ultime provenivano prevalentemente dalla Francia, ma non poche erano le austriache, alle quali si aggiungevano qualche cecoslovacca, tedesca e jugoslava. Riguardo al mestiere esercitato prima del meretricio, prevalevano le artiste di varietà, operaie, sarte, cucitrici e tutte, rassicurava il rapporto, avevano dichiarato di essere entrate volontariamente in Italia per esercitarvi il mestiere di prostituta. Nessun cenno veniva fatto alle italiane.

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Prima di presentare questi dettagli sui profili delle straniere, ad ogni modo, i dati sulla consistenza numerica delle prostitute censite erano bastati all’Ufficio centrale italiano per far notare alla Società delle Nazioni che confrontando «queste cifre con la massa totale della popolazione vivente in Italia e pur tenendo conto che qualche meretrice italiana potrebbe essere sfuggita all’accertamento – il che è da escludere per le straniere – si ha la conferma di quanto è stato rilevato nei passati anni, che, cioè, il fenomeno della prostituzione non presenta, in Italia, proporzioni preoccupanti, e che la tratta delle donne, ed ispecie quella da e per l’estero, è quasi nulla».

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1. Le prostitute straniere nel dibattito politico internazionale Se l’Italia ha rappresentato uno dei principali fornitori di donne nelle diverse piazze della prostituzione globale, è stata al contempo una gettonatissima meta per protettori, intermediari e prostitute straniere. Nel circuito delle case di tolleranza regolamentate a livello nazionale dal 1861, la quota di straniere iscritte era intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento pari a circa il 25% del totale in diverse città, come Venezia e Bologna, per le quali si hanno dati e ricerche disponibili.1 Erano in prevalenza francesi, austriache, ungheresi, ma anche «germaniche», qualche belga, cecoslovacca, rumena. Il contributo delle “altre europee” al mercato della prostituzione in Italia, compreso quello clandestino, è rimasto alto anche nei decenni a seguire e fino alla Seconda guerra mondiale; parimenti, come in parte abbiamo già avuto modo di discutere, altrettanto importante è stato nelle colonie italiane, dove addirittura in alcuni frangenti ha rappresentato l’esclusiva fonte di approvvigionamento delle case di tolleranza. Nelle prossime pagine, combinando l’attenzione per i percorsi biografici delle prostitute e l’analisi delle politiche e misure istituzionali intraprese nei loro confronti, vorrei guardare alle questioni che il doppio statuto dell’Italia permette di discutere. Il caso italiano, infatti, consente di guardare alle politiche intraprese nei confronti delle prostitute migranti sia dalla prospettiva di un Paese fornitore sia da quella di un Paese di arrivo e di 1. Mary Gibson, Stato e prostituzione in Italia, Milano, Il Saggiatore, 1986, pp. 136-138.

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verificare eventuali differenze nel modo in cui le autorità e la società civile hanno considerato il fenomeno nell’uno o nell’altro caso. Nella prima parte di questo volume abbiamo guardato prevalentemente alle donne italiane coinvolte nel processo di globalizzazione della prostituzione, seguendone le esperienze all’estero in alcuni contesti in particolare. Si è notato come di fronte a questo fenomeno la politica prevalente sia stata quella di invocare e adottare misure restrittive della mobilità femminile, riconosciute dalle autorità come mezzo necessario per salvaguardare la reputazione e l’onore della nazione all’estero. Si è anche osservato come la preoccupazione per i danni arrecati al buon nome della nazione dalle prostitute che lavoravano all’estero sia stata nel corso del Novecento comune a molti Paesi occidentali, tanto più se impegnati in progetti di espansione imperiale e coloniale. Non stupisce, dunque, che proprio la nuova figura della prostituta migrante, in particolare straniera, che dalla fine dell’Ottocento era spesso al centro delle corrispondenze tra gli uffici di polizia di diversi Paesi, tra uffici consolari e autorità di governo, diventi in questo periodo materia di discussione e riflessione politica e diplomatica. Questa è la storia, per molti aspetti, delle iniziative istituzionali e diplomatiche – congressi, conferenze, accordi, comitati – fiorite intorno alla tratta delle bianche, che proprio al tema delle prostitute straniere e all’opportunità o meno di farle circolare e risiedere in Paesi diversi da quello di provenienza hanno dedicato buona parte dei loro lavori. Seppure nata nel solco della battente campagna mediatica, la mobilitazione istituzionale e delle organizzazioni di volontariato contro la tratta delle bianche se ne discostò infatti in modo sostanziale, mettendo al centro dell’agenda non tanto la giovane ingenua rapita o ingannata da loschi trafficanti, quanto la prostituta emigrante, nelle sue diverse accezioni. Mentre i reportage giornalistici tendevano a una forte drammatizzazione del fenomeno, raccontando di giovani innocenti che venivano drogate, rapite, condotte in postriboli, spesso all’estero, vendute e rese schiave, attirando l’attenzione sulla corruzione delle giovani europee altrimenti innocenti, nei discorsi politici emerse da subito come l’effettivo tema da discutere fosse l’espansione del mercato della prostituzione legato all’aumento della mobilità, interna e internazionale. Tanto alle associazioni femminili e di volontariato che lavoravano sul campo, quanto alle autorità di governo, polizia e diplomatiche, era evidente che la tratta delle bianche consisteva nello sfruttamento di donne emigranti. Dentro questa classe erano com-

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prese quelle già “di mestiere” che migravano per lavorare nei postriboli all’estero, le donne partite per impiegarsi in altri generi di lavori e finite poi nel mercato della prostituzione e le donne e le bambine particolarmente vulnerabili e a rischio in virtù delle condizioni politiche ed economiche dei loro Paesi d’origine.2 Da governare, dunque, era il nesso – che si era imposto con drammatica evidenza – tra lavoro femminile, migrazione, prostituzione, e di fronte a questa nuova emergenza governi e associazioni adottarono posizioni e politiche differenti. Secondo la britannica International Abolitionist Federation, ad esempio, motore della campagna contro la regolamentazione della prostituzione sulla scena europea, la fine del «turpe commercio» sarebbe naturalmente arrivata con l’abolizione delle case di prostituzione, dal momento che l’arruolamento e il procacciamento delle donne da impiegarvi (già prostitute o meno) era reso necessario proprio per rifornirle. Una posizione condivisa dal Comitato italiano contro la tratta, che pur concentrandosi principalmente sulla sorte delle immigrate interne denunciò costantemente il nesso tra l’esistenza delle case di tolleranza autorizzate e l’aumento della prostituzione tra le nuove arrivate.3 Dal canto suo, l’International Bureau for the Suppression of the White Slave Traffic interpretò la tratta essenzialmente come un problema di migrazioni sregolate. Per porre fine o arginare il fenomeno, l’associazione invocò da una parte il divieto di impiego delle prostitute straniere nelle case di tolleranza (così da limitarne la circolazione internazionale), dall’altra di vigilare sulle donne che si muovevano internamente dalle campagne alle città, perché non cadessero nel mercato della prostituzione.4 Analogamente, nella prima conferenza diplomatica che aveva riunito i rappresentanti di 16 Paesi intorno alla «white slavery» a Parigi nel 1902, il tema delle prostitute straniere e dello spostamento su scala internazionale delle meretrici aveva occupato una posizione centrale. In questa occasione, 2. Cfr. Limoncelli, The Politics of Trafficking, p. 29. 3. Si veda ad esempio Gemma Muggiani Griffini, L’opera del Comitato contro la tratta delle bianche, relazione presentata al II Convegno nazionale contro la tratta delle bianche (Milano, 30 maggio 1908), AUFN, Comitato italiano contro la tratta delle bianche, b. 71, fasc. 3, s.f. II Convegno nazionale. 4. Per approfondire rimando a Ercolani, La tratta delle bianche in Italia e in Gran Bretagna. Si veda pure Rachael Attwood, Stopping the Traffic: The National Vigilance Association and the International Fight against the “White Slave” Trade (1899-c.1909), in «Women’s History Review», 24, 3 (2015), pp. 325-350.

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i convenuti concordarono sulla necessità di adottare misure repressive e di tutela per proteggere le minorenni arruolate per la prostituzione (sia interna che all’estero, sia volontaria che forzata) e quindi condannarono senza esitazioni l’emigrazione delle prostitute minorenni o chi conduceva all’estero giovani con l’intento di farle prostituire. Tuttavia, quando si parlò di prostitute maggiorenni e del loro impiego nelle case di prostituzione autorizzate all’estero, affiorarono le divergenze e la questione si complicò molto. L’Accordo internazionale per la repressione della tratta delle bianche del 1904, esito dell’incontro, aveva dovuto necessariamente fare i conti con l’esistenza in molti Paesi del sistema della regolamentazione di Stato o con forme di autorizzazione della prostituzione. Si dovette ammettere che lo spostamento di maggiorenni attraverso gli Stati e all’interno del circuito delle case di tolleranza legali non poteva essere considerato un’attività criminale, a meno che non fosse ottenuto con violenza o inganno. Ugualmente, con l’art. 3 che si inoltrava nel difficile terreno dei rimpatri delle prostitute straniere, si operava la medesima distinzione, stabilendo il rimpatrio d’ufficio, anche a spese dello Stato ospite, per le minorenni, ma prevedendo per le prostitute maggiorenni il rimpatrio solo su loro richiesta. Si sanciva così la separazione tra la campagna contro la tratta e quella abolizionista, almeno in questa prima fase e a livello diplomatico. L’Accordo non ravvisava dunque negli atti che presiedevano allo spostamento delle prostitute maggiorenni (dal procacciamento all’ingaggio, passando per l’organizzazione dei viaggi e il disbrigo della burocrazia necessaria) fatti criminali, allo stesso tempo, tuttavia, individuava le prostitute straniere come una classe di per sé sospetta e meritevole di vigilanza. Lo stesso articolo 3, come già accennato, disponeva che i governi sottoponessero a interrogatorio tutte le prostitute straniere fermate, arrestate o che facevano domanda di iscrizione a una casa di tolleranza, per accertare cosa le avesse indotte a lasciare la propria patria, per quali vie e attraverso quali mezzi e relazioni fossero arrivate a destinazione e impiegate come prostitute. Come mostrano i materiali relativi ai lavori delle commissioni in cui si è articolata la conferenza del 1902, tuttavia, le disposizioni in materia di prostitute straniere contenute nell’Accordo non erano state scontate e, soprattutto, non furono definitive. Diversi delegati avrebbero voluto il divieto di circolazione tra Stati per le prostitute, mentre altri avevano invitato a non focalizzarsi solo sulla prostituzione internazionale. Proprio l’Italia, con i suoi delegati Giulio Cesare Buzzati e Raniero Paulucci di Calboli,

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aveva insistito perché non passasse la «proposta fatta di espellere dal territorio dello Stato qualsiasi donna straniera esercitante la prostituzione»5 e si prendesse atto della distinzione tra maggiorenni e minorenni che di fatto rifletteva l’esistenza della regolamentazione. Soprattutto, l’Italia aveva insistito perché la definizione di tratta non venisse limitata all’arruolamento delle donne per l’estero, ma prendesse anche in considerazione lo sfruttamento sessuale delle donne all’interno dei confini nazionali. Verso questa concettualizzazione della tratta delle bianche aveva spinto, dalla penisola, la sezione milanese del Comitato italiano contro la tratta, della quale Buzzati era consulente e sostenitore.6 Il tema delle prostitute straniere non venne accantonato negli anni seguenti e continuò a essere oggetto di negoziazione tra i rappresentanti dei vari Paesi: a Parigi nel 1906, nel terzo congresso dell’International Bureau for the Suppression of the White Slave Traffic, la settima questione all’ordine del giorno era la proposta, avanzata dai delegati olandesi, di impedire l’entrata nel territorio nazionale delle donne straniere che non avevano altri mezzi di sussistenza se non la prostituzione e, in caso, di sottoporle a rimpatrio obbligatorio.7 Ravvisandovi una limitazione della libertà personale, molti delegati si opposero a questo “voto” e la questione venne rimandata, auspicando un suo approfondimento. Nell’ottobre del 1912, a Bruxelles, quando delegati governativi e rappresentanti dei vari comitati nazionali contro la tratta si incontrarono per preparare il quinto congresso For the Suppression of the White Slave Traffic che si sarebbe tenuto a Londra a cavallo tra giugno e luglio 1913, il tema delle prostitute straniere venne ripreso nuovamente e, ancora una volta, non risolto. Alla nuova proposta, questa volta avanzata dallo stesso Ufficio internazionale preposto all’organizzazione dei lavori, di vincolare i governi a rimpatriare le donne trovate a condurre vita sregolata in un Paese straniero, si scatenò un’accesa discussione che vide opporsi due schiera5. ACS, MI, DGPS, Div. Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, fasc. Congressi, Conferenza di Parigi 1902, Resoconto delegati italiani. 6. Si veda Conferenza internazionale di Parigi per la repressione della Tratta delle bianche. Relazione del Prof. G.C. Buzzati al Segretario del Comitato milanese, in «Schiave bianche. Bollettino del Comitato di Milano contro la Tratta delle bianche», suppl. al n. 1518 di «Unione femminile», pp. 137-139. La collezione di «Schiave bianche» è conservata anche a Milano, presso l’Archivio storico dell’Unione femminile. 7. ACS, MI, DGPS, Div. Polizia Giudiziaria, 1913-1915, cat. 10900.21, fasc. Congressi, Congresso di Parigi 1906, Relazione Aliotti.

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menti. Da una parte si trovavano quanti sostenevano che la soluzione ai traffici, alla tratta e, in generale, all’espansione su scala globale della prostituzione fosse nel divieto di far circolare le prostitute e di farle emigrare. Dall’altra parte, c’erano quanti ritenevano che questa sarebbe stata una inaccettabile violazione del diritto internazionale e delle libertà personali, oltre che una misura che assumeva gravità diverse a seconda delle varie condizioni che le prostitute vivevano nei loro Paesi d’origine.8 Fino alla guerra, dunque, prevalse in ambito europeo la tendenza a non vietare l’impiego di donne straniere nelle case di tolleranza autorizzate e, al contempo, di monitorarne attentamente le esperienze, procedendo in modo capillare al loro interrogatorio, secondo quanto disposto dall’Accordo del 1904 e dalla Convenzione del 1910. Diverse cose cambiarono dopo il conflitto. La Prima guerra mondiale, come abbiamo notato nel precedente capitolo, ha visto una generale flessione del movimento delle prostitute su scala globale e, contemporaneamente, la scomparsa temporanea del tema tratta delle bianche dalla scena diplomatica e politica internazionale, impegnata su ben altre questioni. Il primo dopoguerra, se da una parte segna la ripresa della mobilità dei civili, dall’altra è anche teatro di importanti cambiamenti nelle politiche indirizzate a governare la prostituzione globale. Oltre al ruolo fondamentale giocato in questa fase dalla Società delle Nazioni, discusso precedentemente, è importante sottolineare come, negli anni Venti, in questa organizzazione e in gran parte dei Paesi europei abbiano preso sempre più piede gli orientamenti abolizionisti, convinti che la prostituzione autorizzata fosse il vero motore dell’espansione transnazionale del mercato. Contemporaneamente, in sede di confronto internazionale (tra delegati dei governi ed esponenti del mondo dell’associazionismo), si affermò la convinzione che una misura intermedia (in attesa dell’abolizione delle case di tolleranza) per porre fine ai traffici di donne fosse quella di limitare gli spostamenti delle prostitute attraverso gli Stati e vietare l’impiego di prostitute straniere nelle case di tolleranza, così come espresso nella risoluzione del 1923 della Società delle Nazioni.9 8. Ivi, Congresso di Bruxelles 1912, Relazione dei delegati italiani (Giulio Cesare Ferrari, Giuseppe Guadagnini). 9. Si vedano i materiali conservati in ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 1, fasc. 2. Daniel Gorman, nel suo The Emergence of International Society in the 1920s

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L’Italia, come si è avuto modo già di notare, non aderì alle nuove convinzioni che si stavano affermando in campo internazionale: mantenne a lungo un regime di regolamentazione della prostituzione e, contemporaneamente, tollerò – quando non favorì – l’impiego di prostitute straniere nei suoi postriboli fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Dal canto suo, l’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta svolse negli anni Venti e Trenta un’attenta opera di vigilanza sulle straniere presenti nel Regno e nelle sue colonie, soprattutto interrogando quelle intercettate dagli uffici di P.S. Gli interrogatori si prestavano a diverse funzioni: ottemperavano alle indicazioni che provenivano dalla Società delle Nazioni, interessata a verificare il grado di volontarietà degli spostamenti; fornivano informazioni sul funzionamento dei traffici e le forme di organizzazione della prostituzione transnazionale; permettevano alle autorità di vigilare su questa categoria particolare di immigrate, che per quanto ritenute “socialmente utili” per mantenere l’ordine delle famiglie italiane, erano comunque parte di quel gruppo sociale, gli stranieri, che proprio durante il regime fascista divenne oggetto di maggiore vigilanza e rinnovati sospetti. 2. Interrogare Adeguandosi alle direttive internazionali il governo italiano avviò il monitoraggio delle prostitute straniere presenti nel Regno già all’indomani della Convenzione del 1910. Una prima indicazione ai prefetti in questo senso venne dalla circolare del Ministero dell’Interno del 17 marzo 1911, con la quale si istruivano le autorità periferiche sui nuovi compiti a cui erano chiamati all’indomani della Convenzione. Nella circolare si ricordava che bisognava raccogliere le dichiarazioni delle «donne straniere dedite alla prostituzione in Italia» per accertarne identità e provenienza, ma anche per ricostruire le dinamiche che le avevano portate nel Regno.10 Una nuova circolare del 1913 arrivò poi a dare nuovo impulso all’opera di censimento, fino a quel momento non molto riuscita, specificando che tutte le prostitute straniere (Cambridge, Cambridge University Press, 2012), dedica diverse pagine all’utilizzo sia in ambito europeo che statunitense delle leggi “anti-immigrazione” degli anni Venti per combattere la tratta. Ivi, pp. 69 e sgg. 10. ACS, MI, DGPS, Div. Polizia Giudiziaria, 1910-1912, cat. 10900.21, MI ai Prefetti, 17 marzo 1911.

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presenti in Italia dovevano essere interrogate, non solo quelle fermate, ma anche quelle che chiedevano di iscriversi a una casa di tolleranza. Nei due anni seguenti il Ministero dell’Interno raccolse più di 800 verbali di interrogatorio e istituì presso la Scuola di Polizia Scientifica, allora incaricata del servizio di segnalamento dei sospetti e dei criminali, uno speciale schedario a loro intitolato.11 La raccolta si ampliò ancora nel biennio 1916-1812 quando altri interrogatori vennero collezionati, anche se in misura minore rispetto agli anni precedenti a causa della battuta d’arresto provocata dalla guerra nei movimenti dei civili, arrivando a superare complessivamente le 1000 registrazioni. Per gli anni successivi al conflitto, in particolare per tutti gli anni Venti, non è rimasta traccia dei verbali di interrogatorio delle prostitute straniere che pure, stando ad altri documenti d’archivio, vennero ugualmente effettuati. Un altro nucleo di documentazione si ha per gli anni Trenta, dei quali sono rimasti conservati circa 260 verbali di interrogatori ad altrettante prostitute straniere allora presenti in Italia. Compilati su un modello a quattro facciate prestampato, per le loro stesse caratteristiche i verbali di interrogatorio non sono particolarmente generosi di informazioni, né si prestavano a raccogliere lunghe narrazioni. In molti casi riportano frasi rituali e scarne, quelle che evidentemente le prostitute più avvedute avevano imparato a utilizzare per non essere impedite nell’esercizio del loro mestiere. In generale, tuttavia, in risposta alle domande del punto 2 («Sul luogo di provenienza, sul confine da cui è entrata nel Regno, sullo scopo della sua venuta, sul tempo che trovasi nel Regno») si trovano significativi frammenti delle biografie delle donne intervistate. Prima di addentrarmi nell’analisi dei due nuclei documentari (quello relativo ai verbali degli anni Dieci e quello riferito agli anni Trenta) che ci permettono di avvicinarci di più ai profili delle interrogate, vorrei richiamare l’attenzione su un elemento che mi sembra importante. Oltre ai limiti imposti dal formato stesso del verbale di interrogatorio, la raccolta delle esperienze di queste donne è stata ostacolata anche in misura considerevole da una certa reticenza degli ufficiali di P.S. a compilare i documenti e a dilungarsi in 11. I verbali degli interrogatori sono raccolti in diverse buste in ACS, MI, DGPS, Div. PG, 1913-15, cat. 10900.21, bb. 54-59 e sono contenuti in fascicoli nominativi. Per ragioni deontologiche di tutela dei dati personali non indicherò nel testo i cognomi delle donne e degli uomini di cui ho trovato notizie, anche se questo compromette per il lettore l’individuazione esatta del fascicolo di riferimento. Riporterò la busta in cui è raccolto il fascicolo. 12. ACS, MI, DGPS, Div. PG, 1916-18, cat. 10900.21, a.h. e j.z.

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operazioni che potevano essere laboriose e da molti ritenute di scarsa utilità o valore. Nonostante la priorità data dal governo italiano alla presenza nella campagna diplomatica internazionale contro la tratta delle bianche, bisogna prendere in considerazione la circostanza che a livello locale, negli uffici di P.S., a interrogare prostitute o donne «di dubbia moralità» erano agenti e funzionari avvezzi a non nutrire alcuna commiserazione e benevolenza verso di loro e certamente restii a considerarle come delle vittime, o potenziali tali. La misura di quale potesse essere l’atteggiamento di delegati e funzionari di P.S. la dà una vicenda significativa perché riguardava una minorenne e di famiglia rispettabile, che quindi avrebbe dovuto ispirare la massima sollecitudine nelle autorità locali. Annita P. aveva 17 anni nel 1909, quando con il permesso dei genitori si era recata a Londra per accompagnare i figli di una coppia che risiedeva nella metropoli inglese. Partita con il biglietto di andata e ritorno, la ragazza aveva smesso presto di scrivere di suo pugno a casa e «mentre aveva avuto sempre un rispetto di vera venerazione verso i suoi congiunti», le cartoline che aveva mandato ad altri conoscenti nel corso degli anni «facevano le più tristi e dolorose impressioni». Il padre di Annita, Raffaele P., conduttore delle Ferrovie dello Stato, aveva deciso allora di rivolgersi alla questura di Bologna perché sua figlia venisse rintracciata. Alle sue preoccupazioni, tuttavia, negli uffici si «faceva delle note allegre intempestive»: un delegato, mentre raccoglieva la denuncia, chiese allo «sventurato genitore» se sua figlia fosse bionda o bruna e quando Raffaele P. chiese conto della pertinenza di tale domanda, quello gli rispose «Dico questo perché potrebbe fare una buona fortuna!». Oltre a sentirsi profondamente offeso e sconcertato da questo atteggiamento, l’uomo si trovò «a diffidare del finto interessamento da parte di queste Autorità» e decise di conseguenza di rivolgere direttamente una supplica al Re perché si occupasse delle sorti della ragazza.13 Se in un caso nel quale a interloquire con le autorità di polizia di una città di medie dimensioni era stato un “buon padre di famiglia” preoccupato per il destino di una ragazza che era sempre stata «buona e docile» e non si era «mai allontanata dalla famiglia», le risposte erano state queste, si può immaginare quali potessero essere quando a rivolgersi alla P.S. erano

13. ACS, MI, DGPS, Div. PG, 1913-15, cat. 10900.21, m.r., b. 58, fasc. Annita P., Raffaele P. a S.M. Re, 21 gennaio 1914. Le citazioni provengono tutte da questa fonte.

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prostitute «di professione» o giovani di «dubbia moralità», o quanta attenzione fosse prestata alla compilazione dei verbali. Non stupisce, dunque, che l’atteggiamento indolente di molti funzionari di P.S. costituì un argomento di discussione nel corso del tempo, fino a rendere necessario l’intervento diretto anche dell’appena nato Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta nel 1924, quando inviò direttamente una circolare sul tema a tutti i prefetti.14 La nota si apriva arrivando subito al punto: risultava al Ministero che quasi tutti gli uffici di P.S., sia quelli dei centri più popolosi che quelli dei centri più piccoli, si limitavano a svolgere l’azione di vigilanza, controllo e repressione del meretricio e della tratta in modo puramente formale, facendo la «registrazione delle prostitute; qualche richiesta di informazioni; qualche fermo; interrogatori fatti solo per debito d’ufficio; qualche contravvenzione agli affittacamere; di tratto in tratto, nei centri più popolosi, qualche arresto in massa, rimpatrio». Il servizio, al quale evidentemente i dirigenti degli uffici non riconoscevano «l’importanza che esso veramente ha», veniva affidato a «funzionari, o a impiegati, che o per età o per temperamento o per mentalità o per tutte queste ragioni insieme, non sono adatti a disimpegnarlo come occorre». I risultati, così facendo, erano ovviamente molto scarsi e questo – ricordava l’Ufficio centrale e per sua voce il Ministero dell’Interno – con grave danno per la nazione, tenendo conto che «la prostituzione, con tutto quel che l’accompagna e la circonda, costituisce una delle cause più gravi del decadimento morale e fisico dei popoli». Era perciò invocata come necessaria un’azione delle autorità che fosse «tenace, vigile e costante» che però per svolgersi doveva necessariamente incamerare la fiducia, quindi le confidenze, delle «infelici costrette a far mercato del proprio corpo». Una fiducia che però si poteva ottenere «solo se il personale, che negli Uffici di P.S. viene addetto a tale speciale servizio abbia esatta comprensione dell’alta importanza sociale del proprio Ufficio». Era opportuno – ribadiva ancora la circolare – che a questi compiti fossero quindi preposti funzionari in grado di assolverli «con serietà e con fermezza, ma soprattutto con tatto». La prostituta che provava disgusto per la vita cui era costretta e che voleva tornare a «vita onesta» doveva sapere che nelle autorità di polizia 14. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 24, UCIRTDF ai Prefetti, 4 febbraio 1924. Fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte. Sottolineato nell’originale.

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avrebbe trovato «valido appoggio per liberarsi dalle numerose piovre (tenutarie di case di prostituzione, souteneurs, mezzane, etc.) che, coi loro tentacoli, la tengono strettamente avvinghiata». D’altra parte, continuava ad ammonire la circolare, tale prostituta, se fosse stata certa di poter contare sulla protezione delle autorità, avrebbe potuto fornire «utili elementi sia per la esatta conoscenza del mondo equivoco nel quale ha vissuto, sia per la esatta identificazione dei turpi mercanti di carne umana [...]». Analogamente, anche quando la prostituta era arrivata ai più alti livelli di abiezione, ed era ormai «divenuta incapace anche soltanto di concepire il desiderio di uscire dall’ambiente spregevole nel quale è costretta», poteva costituire comunque un’ottima fonte di informazioni, «tutto sta a saperla interrogare con arte, per indurla, anche nolente, ad utili comunicazioni». Questo intervento dell’Ufficio centrale italiano per la repressione della tratta non doveva essere bastato a convincere prefetti e funzionari di P.S. sull’importanza anche strategica degli interrogatori se nel 1928 si rendeva necessaria una nuova circolare. In questa occasione non si nascondeva che le informazioni servivano «a scopo di studio di alcune questioni a carattere sociale, all’ordine del giorno della Società delle Nazioni e sulle quali anche l’Italia è chiamata a pronunziarsi».15 In particolare si spiegava che maggiormente utili sarebbero stati gli interrogatori delle prostitute straniere provenienti dai Paesi abolizionisti (Stati Uniti, Inghilterra, Olanda, la Serbia e la Croazia in Jugoslavia, la Polonia, la Svizzera, la Danimarca, la Svezia, la Cecoslovacchia), delle quali si voleva scoprire se erano già prostitute in patria e nel caso dove avevano esercitato il mestiere. L’intenzione dichiarata era quella di sottoporre a verifica quel nesso tra sistema regolamentato della prostituzione e tratta e/o traffici che ormai in molti sostenevano e che metteva l’Italia in cattiva luce.16 In generale, tuttavia, l’Ufficio centrale ricordava ancora una volta ai prefetti che l’interrogatorio «non è e non deve essere una formalità vuota ed ingombrante», ma doveva consentire da una parte ad «indagare come si verifichi e si svolga la tratta delle donne e a identificare coloro che vi speculano; dall’altra a raccogliere elementi di studio sulla prostituzione, sugli 15. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 24, UCIRTD ai prefetti, 29 dicembre 1928. 16. Una prima circolare sulla speciale utilità degli interrogatori delle prostitute provenienti dai Paesi abolizionisti, evidentemente rimasta insoddisfatta, era stata diramata il 25 ottobre 1928 (ivi).

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aspetti e sulla estensione che tal fenomeno assume nei vari Paesi, e a determinarne, oltre alle cause, i rapporti che intercedono tra essa e la tratta». Esplicito poi il richiamo fatto perché i funzionari non si limitassero a raccogliere succinte risposte per compilare in maniera svogliata le domande prestampate sui moduli, ma aggiungessero nuove annotazioni e soprattutto stessero almeno attenti a rispondere in modo adeguato ai quesiti predisposti. Quasi tutti gli uffici, alla domanda circa la professione della donna, indicavano «prostituta», ma «non è questo che si vuole accertare, perché tale attività è già nota, dal momento che la donna viene interrogata appunto perché meretrice». Quello che invece andava segnalato era l’attività che la donna svolgeva prima di prostituirsi «e questo, come è ovvio, allo scopo di determinare il nesso che intercede tra il fenomeno della prostituzione e le varie attività alle quali la donna attende nella società moderna».17 3. Interrogate: straniere «di dubbia moralità» negli anni Dieci Nonostante i limiti ravvisati dallo stesso Ministero nel modo in cui gli uffici di P.S. procedevano negli interrogatori delle prostitute, i materiali raccolti negli anni 1913-18 offrono molte immagini di almeno tre gruppi di straniere incappate nelle maglie della schedatura. Il primo, prevalente, è formato dalle prostitute di mestiere che lavoravano nella penisola; il secondo comprende le donne che si davano al meretricio clandestinamente e quelle sospettate di essere prostitute per via dei loro profili irregolari (spesso artiste); il terzo, il più esiguo, raccoglie le ragazze condotte in Italia con l’inganno o qui raggirate, oggetto o a rischio di sfruttamento sessuale, ma anche le donne da poco finite nel mondo della prostituzione per rovesci economici o perché abbandonate dai loro amanti, non ancora prostitute di mestiere. Per il primo gruppo di donne la documentazione si limita al solo verbale di interrogatorio e l’orientamento era quasi esclusivamente quello di consentire la loro permanenza in Italia, nel circuito regolare delle case di prostituzione. Negli altri due casi può trovarsi qualche altro materiale, sovente corrispondenza tra autorità locali e Ministero dell’Interno e i suoi

17. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 2, fasc. 24, UCIRTD ai prefetti, 29 dicembre 1928.

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omologhi di altri Paesi, e la tendenza era quella di rimpatriare le donne, sia per ragioni di ordine pubblico che nell’interesse della «sventurata». Anche il modo in cui sono stati raccolti gli interrogatori rispecchia tale partizione. Circa l’80% dei verbali conservati sono stati redatti in occasione della presentazione volontaria della prostituta nell’ufficio di P.S. per registrare la propria iscrizione a una casa di tolleranza del luogo, mentre gli altri sono stati eseguiti dopo un fermo, quasi sempre «per misure di pubblica sicurezza e moralità», vale a dire in locali “equivoci”, per strada, in sale da ballo, nei cinematografi, in case di prostituzione clandestine, anche se non mancano i fermi per furti o altri piccoli reati. Tranne sporadici casi, per il primo gruppo gli uffici locali di P.S. non richiedevano alcuna misura di allontanamento o rimpatrio, tanto più se la donna era già in Italia da diversi anni, non aveva precedenti penali né era stata raggiunta da misure di polizia. Diversamente, nel secondo gruppo, dove abbondavano le prostitute clandestine, si incontravano più facilmente quelle arrivate da poco o implicate anche in altri affari criminali, la norma era la richiesta di rimpatrio e accompagnamento al confine. In poche decine di casi, inoltre, sono state le stesse donne a chiedere il rimpatrio, una volta entrate in contatto con le autorità, e si tratta prevalentemente di donne finite in una relazione sbagliata e rimaste senza mezzi di sostentamento o di giovani alle prime esperienze di prostituzione. Da un’analisi a campione condotta su questa documentazione18 è confermato che il contingente nazionale più nutrito era rappresentato dalle francesi, che superavano la metà del numero complessivo delle interrogate, seguite dalle austriache (che si attestavano intorno al 20%) e poi belghe, ungheresi, ma anche greche, inglesi, russe, cecoslovacche. Eugenia B., una giovane di 23 anni proveniente dalla Germania, venne arrestata nel marzo del 1914 a Genova per – così recita il verbale – «misure di pubblica sicurezza e moralità». Era arrivata in città da due settimane per impiegarsi come corista nei teatri cittadini e dopo un breve ingaggio presso la compagnia d’opera del teatro Carlo Felice era rimasta senza occupazione, ma in attesa di una nuova scrittura. Nel verbale venne annotato che la donna si dichiarava intenzionata a rimanere in Italia 18. L’analisi è stata condotta facendo lo spoglio di circa 400 verbali, quelli conservati per gli anni 1913-1915 nelle bb. 54, 56, 58 e, per gli anni 1916-18, quelli della b. cat. 10900.21 j.z.

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per aspettare la risposta del direttore del teatro e, alloggiando per di più in una camera dell’Hotel Centrale, venne evidentemente stimata come persona affidabile e in grado di provvedere a sé stessa: venne quindi rilasciata senza che fossero richieste misure, in particolare il rimpatrio, a suo carico.19 Diversamente, per la ventenne svizzera Cecilia B., «nubile, domestica e sarta», fermata a Milano anche lei per «misure di pubblica sicurezza e moralità», venne disposto il rimpatrio. Al momento del fermo la donna dichiarò di non aver mai esercitato la prostituzione e di essere arrivata in Italia, via Chiasso, 3-4 mesi prima per cercare lavoro. Esercitava il mestiere di sarta in modo intermittente, a seconda di quello che trovava, e ammise che mentre al momento si procurava i mezzi di che vivere con il lavoro da sarta, nei mesi precedenti era stata mantenuta da un certo Arturo. Il Prefetto di Milano propose che venisse «inviata al confine essendo risultato che la medesima, dimorante da pochi mesi in questa città, conduceva vita libertina».20 Per «misure di pubblica sicurezza e moralità» venne fermata a Milano nell’ottobre 1914 anche Susanna R., artista di canto e cinematografo, proveniente da Parigi e arrivata per la prima volta in Italia nel 1911, quando era andata a vivere a Napoli. Qui si era fermata per più di due anni, unita sentimentalmente a un gioielliere del luogo che la manteneva e con il quale era dapprima tornata a Parigi e poi si era recata a Milano. Anche nel suo caso il Prefetto, dopo aver annotato che «era stata confidenzialmente segnalata come ladra di portafogli ma non si sono potuti raccogliere elementi concreti per farne oggetto di denuncia all’autorità giudiziaria. […] Impiegata nel cinematografo e mantenuta dall’amante, ciò non le ha impedito di frequentare i principali ritrovi mondani di Milano in compagnia qualche volta di prostitute», ne proponeva il rimpatrio.21 Venne munita di foglio di via obbligatorio anche Giovanna J., una sarta francese di poco più di vent’anni, che era giunta a Torino, via Tolone, da Parigi. Interrogata, in seguito a un fermo avvenuto nell’estate del 1913, due mesi dopo il suo arrivo, dichiarò di essere giunta nel Regno «senza scopo» ma solo per stare con un uomo che aveva conosciuto nella capitale francese e che si era spostato nella penisola. Abbandonata da 19. ACS, MI, DGPS, Div. PG, 1913-15, cat. 10900.21, b. 54, fasc. Eugenia B. 20. Ivi, b. 54, fasc. Cecilia B. 21. Ivi, b. 56, fasc. Susanna R.

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costui, priva di occupazione e reti sociali utili, fu lei stessa a chiedere di essere rimpatriata.22 La lavandaia francese Gabriella Luisa J. venne fermata a Verona nel settembre 1914. Era arrivata solo un mese prima, via Chiasso, in compagnia del suo «amoroso» Emilio, ventiquattrenne italiano emigrato come lei in Germania, dove lavorava da minatore. Richiamato sotto le armi dovette rientrare in patria e lei lo seguì, per aspettare che finisse il servizio militare a Verona e recarsi poi insieme presso il paese d’origine del giovane. Il Prefetto, tuttavia, annotando che la donna «Non ha mezzi di sussistenza. Ha prestato servizio presso diverse famiglie ma venne licenziata perché non parla bene italiano», ne disponeva il rimpatrio e l’accompagnamento alla frontiera di Ventimiglia.23 Venne rimpatriata nel 1916 anche la suddita francese Emilia P. Era arrivata in Italia per esercitare il mestiere di meretrice – come dichiarò – un anno prima, proveniente da Marsiglia e aveva vagato tra diverse città: Torino, Roma, Mestre, Firenze. Qui, nell’aprile del 1916, venne fermata dalla polizia per «misure di p.s.», perché esercitava la prostituzione per strada. In questa circostanza si accertò che la ragazza era già stata un’altra volta in Italia, nel 1909 quando aveva 18 anni ed era quindi minorenne, e fornendo false generalità aveva già esercitato il mestiere fino a quando non era stata scoperta e condannata per contravvenzione al regolamento sul meretricio.24 Ancora per prostituzione clandestina venne rimpatriata, a Patrasso, anche la suddita greca Stavras Z., nel marzo 1917. La donna, 26 anni, era arrivata otto mesi prima a Napoli proveniente da Patrasso e per imbarcarsi per l’America. Giunta a New York era però stata respinta alla visita medica a Ellis Island, probabilmente perché già affetta da sifilide e condilomi e rimandata a Napoli. Qui nel novembre 1916 era stata ricoverata all’Ospedale della Pace per curarsi, ma dopo circa due mesi ne era scappata per ridarsi «a vita libera». Fermata, era stata arrestata e trattenuta in carcere fino al rimpatrio.25 Infine, vale la pena fare un riferimento anche alla storia di Angela M., francese di 25 anni, che si recò spontaneamente nell’agosto del 1917 22. Ivi, b. 56, fasc. Giovanna J. 23. Ivi, b. 56, fasc. Gabriella Luisa J. 24. Ivi, j.z., fasc. Emilia P. 25. Ivi, j.z., fasc. Stavras Z.

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all’ufficio di P.S. di Messina per chiedere di essere rimpatriata a spese del governo italiano, come le fu accordato. La donna, che si dichiarò artista di varietà, raccontò di essere andata a vivere, ancora bambina, con la famiglia a Tunisi. Qui, però, conobbe un ragazzo – presumibilmente italiano – con cui fuggì, recandosi prima a Malta e poi a Siracusa e Catania. In quest’ultima città il suo compagno, «a corto di denaro», la abbandonò. Priva di mezzi di sostentamento si era data dunque alla prostituzione, ma desiderava tornare in Francia, da dove avrebbe potuto raggiungere la famiglia che si era stabilita ad Ajaccio, in Corsica.26 Questa manciata di vicende permette alcune considerazioni. In primo luogo emerge distintamente come il rimpatrio delle straniere, giustificato dalle politiche intraprese contro la tratta delle bianche, ma tecnicamente motivato da ragioni di ordine pubblico, abbia rappresentato uno strumento agile nelle mani delle autorità italiane per proteggere il Paese da elementi indesiderabili in tema di moralità. A essere considerate particolarmente pericolose erano le donne dai profili sociali incerti, che si erano mostrate incaute nelle relazioni sentimentali, prive di un mestiere riconosciuto e che, questo temevano le autorità, in caso fossero rimaste in Italia avrebbero certamente ingrossato le fila della prostituzione clandestina, di strada o che si consumava nei locali pubblici, e quelle dell’esercito delle madri illegittime. A questo proposito, è significativo che lo stigma e la scure del rimpatrio non cadesse indistintamente sulle artiste straniere, ma solo su quelle che non erano in grado di mantenersi e che qui non avevano una rete di riferimento. A ispirare le misure di polizia e di ordine amministrativo intraprese nei confronti delle straniere, dunque, non sarebbero state tanto preoccupazioni relative alla «questione morale», quanto piuttosto quelle riferite alla fragilità sociale di queste donne, compresa la lievitazione dei costi relativi ai servizi assistenziali a essa connessa. Diversamente dagli Stati Uniti, dove abbiamo visto prevalere una politica di generalizzata chiusura nei confronti della prostituzione straniera all’insegna proprio della questione morale e della presunta superiorità della società americana rispetto a quella europea, in Italia prevalse una politica differenziale che portò anche a risultati singolari. Più l’appartenenza al mondo della prostituzione era dichiarata, strutturata e di lunga data, più alle donne era consentito di rimanere in Italia e nelle sue colonie, come vedremo nelle prossime pagine. 26. Ivi, j.z., fasc. Angela M.

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4. «Si dichiara di professione prostituta» Accanto alle vicende, che non superano il 20% del totale, di giovani dalla precaria condizione sociale, alcune del tutto estranee al mestiere, altre a rischio di diventare meretrici o prostitute d’occasione, la maggior parte dei casi censiti negli interrogatori riguardano donne che si dichiaravano apertamente prostitute di professione. Gettare uno sguardo alle loro vicende permette di ricostruire con più accuratezza traiettorie ed esperienze delle prostitute migranti, il modo in cui le istituzioni si sono confrontate con esse e le questioni che la loro presenza ha sollevato. Dichiarò di essere arrivata spontaneamente in Italia per esercitare il mestiere di prostituta, già con il contatto della casa di tolleranza di Bari per cui faceva domanda di iscrizione, la francese Marguerite B., 27 anni. Interrogata nel gennaio 1914, il Prefetto nulla ebbe a obiettare rispetto alla sua presenza nel Regno.27 Anche a Mitrana H., presentatasi spontaneamente alla P.S. di Ravenna nel maggio 1913 per essere iscritta in una casa di tolleranza, fu pacificamente accordato di rimanere nella penisola. Qui, d’altra parte, la donna era giunta già da un anno, dopo aver risieduto per circa 10 anni in Austria, dove era emigrata dal Montenegro, suo luogo d’origine. Raccontò di esercitare il meretricio da 6-7 anni e di ricavare unicamente da questo i mezzi di sussistenza. Durante il periodo trascorso in Italia, Mitrana aveva cambiato più volte città e casa di tolleranza, spostandosi da Udine a Venezia, e poi a Bologna, Faenza, Forlì e, infine, Ravenna.28 Maria I. era invece cittadina francese e formalmente coniugata, anche se dichiarò di essersi separata dal marito che ora viveva in America. Al momento dell’interrogatorio, effettuato a Firenze nel gennaio 1914, aveva 19 anni e se come professione indicava «artista di danza e canto», non esitava poi a raccontare di essere venuta in Italia per esercitare il meretricio. Passato il confine di Udine la sua prima tappa fu Milano, dove aveva affittato una camera ammobiliata che ancora conservava come base, per poi recarsi a Livorno, ove dimorava nella casa di tolleranza, e poi Firenze. Precisò di essere già stata in Italia anni prima e di essere poi partita al seguito di un impresario locale alla volta dell’Egitto, ingaggiata per una tournée di 27. Ivi, j.z., fasc. Marguerite B. 28. Ivi, b. 56, fasc. Mitrana H.

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varietà. Anche nei suoi riguardi le autorità nulla ebbero a eccepire rispetto alla presenza nella penisola e nei documenti non si fa menzione all’età della ragazza, minorenne.29 Offre più elementi sull’entrata nel mondo della prostituzione il verbale dell’austriaca Giovanna P., interrogata a Genova nel giugno 1914, maritata, che si dichiarava modista. Raccontò di trovarsi in Italia da due anni e di essere arrivata nella città ligure con l’intento di esercitare la prostituzione e di aver prima vissuto a Piacenza, Cremona, Reggio Emilia. Il marito viveva a Verona, dove era cameriere al ristorante Eden. In coda al verbale chiarì: «Sono venuta in Italia con mio marito e per ristrettezze finanziarie ho cominciato a fare la vita».30 Anche Gertrude P., austriaca, raccontò qualche particolare relativamente alle circostanze che la portarono a prostituirsi. Nata e domiciliata a Trieste, venne sentita nel gennaio 1916, quando aveva 28 anni, nell’Ufficio di P.S. di Novara. La donna era arrivata in Italia, attraverso il confine di Udine, nel 1908 con lo scopo di esercitare il suo mestiere di sarta, dandosi poi alla prostituzione «considerata come mezzo di più facile e maggiore guadagno». Da prostituta si era spostata a Milano, Brescia, Como, Bologna, Varese, Gallarate, Venezia, Tortona. Anche lei alla fine dell’interrogatorio aggiungeva: «Sono venuta volontariamente nel Regno e con intendimenti onesti. Mi sono data alla prostituzione non essendo sufficiente il guadagno che traevo dalla mia professione e occorrendomi i denari per mantenere un figlio che ho a Trieste».31 Più suggestive di altre, in termini di questioni che lasciano intravedere, le vicende di alcune donne le cui dichiarazioni vennero raccolte a Tripoli, allora sotto il dominio coloniale italiano. A fine novembre 1913 venne sentita Teresa B., una donna quasi quarantenne nata a Marsiglia, cittadina francese, che si rivolse alle autorità di polizia italiane a Tripoli per iscriversi in una casa di tolleranza di quella città. Alle domande circa la sua provenienza, rispose raccontando di essere arrivata a Tripoli da Zuara, altra città della Tripolitania, dove aveva lavorato in una casa gestita da un italiano, ma che aveva voluto abbandonare a ottobre perché «vi convivevano delle arabe». Ancora prima era stata, sempre lavorando come prostituta, a Sfax in Tunisia, dove aveva ottenuto il passaporto dalle autorità consolari 29. Ivi, b. 56, fasc. Maria I. 30. Ivi, b. 58, fasc. Giovanna P. 31. Ivi, j.z., fasc. Gertrude P.

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per recarsi in Tripolitania. Vista la sua posizione regolare le autorità italiane acconsentirono a farla rimanere.32 Maria D. nell’interrogatorio raccolto nell’ottobre 1914, quando era appena giunta in città e aveva fatto domanda di iscrizione in una casa di tolleranza locale, non raccontò nulla della sua storia precedente ma ci ha consegnato uno spaccato ugualmente suggestivo: il racconto del viaggio fatto per arrivare a Tripoli. Francese di origine, 25 anni, di mestiere artista e prostituta, Maria D. risiedeva a Costantinopoli e da qui si era recata, via ferrovia, a Dedeağaç (attuale Alessandropoli, nel verbale «Dedè Aghasch»), città portuale della Grecia dove si fece vistare il passaporto dalle autorità consolari francesi. Da qui si imbarcò su un piroscafo con il quale intraprese il lungo viaggio che attraverso il mar Egeo e una buona parte del mar Mediterraneo la condusse a Malta. Due giorni di riposo e un nuovo visto, questa volta delle autorità consolari italiane, e si imbarcò alla volta di Tripoli.33 I brevi cenni che riguardano Feliciana P., suddita maltese figlia di genitori italiani, ma che nella penisola non era mai stata prima, rafforzano un elemento presente anche nella storia di Maria D. appena letta: l’influenza determinata dal sistema dei visti consolari sulle lunghe, e talvolta non lineari, traiettorie compiute da queste donne. Se Maria D. aveva dovuto fare sponda a Malta per ottenere il visto delle autorità consolari italiane e così recarsi a Tripoli, Feliciana P. da Malta si recò a Siracusa per ottenere il passaporto coloniale e poi imbarcarsi per la Tripolitania. Arrivata nell’aprile del 1914, si dichiarò prostituta e chiese di iscriversi in una casa di tolleranza. Le autorità non ebbero nulla da eccepire sulla sua permanenza.34 Seppur poco più che accennate, dalle storie finora evocate che hanno riguardato le prostitute straniere presenti in Italia e nei suoi possedimenti, sentite all’indomani delle direttive impartite a livello internazionale per contrastare la tratta delle bianche, emergono alcuni elementi meritevoli di essere richiamati. In primo luogo, esse sono sufficientemente illuminanti delle politiche adottate dalle autorità: nonostante il dibattito internazionale intorno alla necessità di limitare gli spostamenti delle prostitute da uno Stato all’altro, l’Italia sembrò accettare di buon grado la loro presenza nel sistema ufficiale delle case di tolleranza regolamentate. Ancora più eloquenti sono 32. Ivi, b. 54, fasc. Teresa B. 33. Ivi, b. 55, fasc. Maria D. 34. Ivi, b. 58, fasc. Feliciana P.

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gli incentivi, funzionali a precise politiche razziali, dati alla prostituzione delle straniere, bianche, nei postriboli italiani coloniali. L’Italia, dunque, uno dei più convinti e longevi Paesi regolamentazionisti, ha adottato fin dalle prime fasi del processo di internazionalizzazione della prostituzione un doppio standard. Da una parte ha stigmatizzato l’emigrazione delle donne “sole”, a rischio o già cadute, italiane, in virtù del danno che queste avrebbero arrecato alla reputazione della nostra nazione all’estero. Dall’altra, ha favorito il reclutamento di straniere, bianche, che lavorassero nei postriboli italiani e delle sue colonie, ancora una volta evidentemente con l’intento di non pregiudicare il fiorente mercato della prostituzione di Stato, provando a limitarne i costi in termini di donne italiane coinvolte. Un altro elemento che queste vicende hanno messo in luce è il peso notevole che la mobilità, da una città all’altra, da un Paese all’altro del Mediterraneo e dell’Europa continentale, ha nelle biografie delle prostitute straniere. Raramente ci troviamo di fronte a un solo viaggio, mentre la consuetudine è una serie ripetuta di spostamenti. È una dinamica, questa, che da una parte è certamente legata alla legge del ricambio continuo che regolava il circuito delle case di tolleranza, dall’altra risponde a una logica propria del mestiere, che suggeriva alle donne di lavorare lontano dal proprio luogo di origine in virtù dello stigma sociale di cui erano oggetto. 5. Prostitute straniere in Italia tra le due guerre Sono questioni sulle quali è possibile tornare con più elementi grazie allo studio degli interrogatori delle prostitute straniere presenti in Italia nel periodo tra le due guerre, in particolare del corpus di 260 verbali conservati tra le carte dell’Ufficio centrale relativi agli anni Trenta.35 Anche in questo caso la schiera più numerosa di meretrici forestiere era quella delle francesi (116), seguite dalle austriache (45) e dalle ungheresi (36), mentre per il resto erano jugoslave, germaniche, belghe, spagnole, cecoslovacche, due greche, una canadese, due argentine. Leggendo questi interrogatori si nota che, a differenza di quelli degli anni Dieci, quasi nessuna di queste donne venne rimpatriata e, allo stesso tempo però, nessuna di loro era stata interrogata perché fermata per mi35. ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 7, fasc. 43. Anche in questo caso i fascicoli sono intitolati con nome e cognome della donna e il nome è italianizzato. Nuovamente, riporterò solo i cognomi puntati.

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sure di P.S. o moralità. Le donne, dunque, avevano avuto il nulla osta a proseguire nel loro mestiere e continuare a risiedere nel Regno. Facevano eccezione pochissimi casi, come ad esempio quello di Elisabetta S., ventisettenne ungherese di cui si dispose il ricovero in una sala celtica a Tripoli perché trovata ammalata al controllo sanitario contestuale all’iscrizione. Oppure quello di Erzschet S., ugualmente ungherese ma sentita a Napoli nel 1934, quando aveva 24 anni.36 La donna, chiamata a interrogatorio vista la sua iscrizione in una casa di tolleranza di via Chiaia, raccontò la sua storia. Era arrivata in Italia, entrando dal confine di Postumia, 20 giorni prima, direttamente da Budapest. Viaggiava in compagnia del marito Laszlo, con documenti regolari, diretti in Borneo (India) dove lui diceva di aver trovato un lavoro come elettromeccanico. «Senonché – raccontò la donna –, durante il viaggio, ci siano trovati sprovvisti di mezzi e per tali ragioni, giunti a Napoli, abbiamo preso a litigare». A un certo punto, esasperata e affamata, «non avendo neanche la possibilità di acquistare pane», Erzschet si era recata nel locale di meretricio di via Chiaia, che gli era stato indicato da un vetturino a nolo, dove aveva ottenuto di essere iscritta. Nella casa era rimasta poche ore, giusto il tempo di procurarsi «i mezzi di sussistenza a cui [suo] marito non avrebbe potuto provvedere». Dopo questa esperienza, aveva capito che l’uomo non sarebbe stato in grado di provvedere al suo sostentamento e aveva quindi deciso di ritornare in patria, dalla sua famiglia, per lavorare onestamente. Era la prima volta, dichiarò, che si recava in Italia e che esercitava il meretricio e non intendeva proseguire con questa vita. Dal momento che la donna stava aspettando che i genitori le mandassero i soldi per intraprendere il viaggio di ritorno e che per i giorni successivi avrebbe provveduto a lei il Consolato ungherese, l’ufficio di P.S. non aveva ritenuto opportuno disporre l’allontanamento del Regno, lasciando che la donna partisse spontaneamente. Le altre donne di cui i verbali ci consegnano frammenti di biografia erano prostitute di mestiere, in molti casi da diversi anni. Non si dilungarono, né probabilmente gli venne chiesto di farlo, sulle circostanze che le avevano portate nel mondo della prostituzione, ma il modo a tratti impersonale con il quale davano conto della loro carriera (durata, tappe, intenzioni) non deve indurre a liquidare i loro come percorsi pacificamente scelti. I pochissimi casi nei quali abbiamo qualche notizia in più, infatti, lasciano 36. Ivi, verbale di interrogatorio di Erzschet S.: fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte.

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trapelare il ruolo determinante avuto in queste biografie da matrimoni non riusciti, violenze sessuali subite in giovane età, gravidanze indesiderate, incontri sbagliati. Elisabetta S., la donna che a Tripoli venne mandata nella sala celtica a cui prima ho fatto cenno, raccontò di essere arrivata nel Regno nel dicembre del 1933, stabilendosi a Milano, con lo scopo preciso di esercitare la prostituzione, cosa che già faceva in Ungheria. Prima di partire si era accordata direttamente e per corrispondenza con la tenutaria del postribolo di via S. Pietro all’Orto, del quale aveva avuto l’indirizzo attraverso alcune sue amiche dello stesso mestiere e dove si era recata appena arrivata in città. Dopo poche settimane si era spostata a Siracusa e da lì si era imbarcata per Tripoli, dove interrogata aveva dichiarato di fare «volentieri la prostituta e di non volersi dedicare ad onesto lavoro», ripetendo la formula adottata nel modulo di interrogatorio. Alla domanda, liberamente aggiunta dal funzionario che la ascoltò, che la invitava a raccontare «come e quando si decise a esercitare la prostituzione», raccontò che a 17 anni «era stata deflorata dal suo fidanzato, con promessa di matrimonio», venendo però poco dopo abbandonata. Appartenendo a famiglia povera, per vivere si era data allora al meretricio clandestino. In seguito si era sposata con un altro uomo, ma per incompatibilità di carattere dopo un anno avevano divorziato e lei si era risolta a prostituirsi nuovamente. Più circostanziato il racconto di Elisa D., polacca ma registrata come apolide, quarantenne quando venne interrogata a Bassano del Grappa nel gennaio 1935.37 Dichiarò di essere in Italia dal 1914 e di aver esercitato la prostituzione in decine di Comuni della penisola. Il fatto che si dichiarasse apolide (e così risultava nella dichiarazione di soggiorno rilasciata dalla questura di Forlì nel 1930), indusse probabilmente le autorità a volerla risentire dieci giorni dopo. In questa occasione offrì un ricco racconto della sua movimentata vita. Era figlia di artisti di varietà, papà russo e mamma polacca, con i quali era giunta a Trieste nel 1909, quando aveva 14 anni. Qui un amico di famiglia, proprietario di una fabbrica, aveva abusato di lei, contagiandola di sifilide e rendendola incinta, per usare le sue parole. I genitori, accorgendosi dell’accaduto, l’avevano portata a Berlino, dove era stata ricoverata prima in un sanatorio per trattare la sifilide e poi presso una levatrice, dove aveva partorito. Abbandonata lì, venne poco dopo assunta 37. Ivi, verbale di interrogatorio di Elisa D.; fino a indicazione diversa le citazioni provengono da questa fonte.

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come cameriera da una contessa tedesca che viveva a Dresda. Nel 1914 accompagnò la contessa in Italia per un soggiorno di vacanza sul lago di Garda, ma dopo un mese di maltrattamenti subiti dall’amante della sua padrona, un pastore evangelico che la frustava e percuoteva con la scusa che lei non si volesse confessare, venne messa in educandato a Milano. Da qui, dopo altri incontri sbagliati e allontanamenti, finì in una casa di tolleranza ad Alessandria, dove incominciò a prostituirsi «a malincuore». Man mano che faceva esperienza e non era più una «novizia» del mestiere, imparò a procurarsi da sola i contatti con le case di tolleranza dove di volta in volta si spostò, cambiando città come era in uso tra le prostitute, dichiarando durante l’interrogatorio che le sembrava che «da parecchi anni non vi sono più mezzani per il collocamento di donne in case di tolleranza, mentre un tempo abbondavano». Suggerimenti più scarni provengono da altri verbali, nei quali comunque alle donne era stato chiesto di raccontare come erano arrivate a prostituirsi. Maria S., austriaca, appena ventunenne quando venne interrogata a Tripoli nel 1933, di padre ignoto, dichiarò di essersi data al meretricio clandestino quando aveva 17 anni. Cassiera in un bar, era stata deflorata da un suo conoscente e dopo pochi mesi era rimasta orfana della madre. Prima di arrivare in Italia per recarsi a Tripoli, aveva già lavorato in Austria e in Germania.38 Dal canto suo, Carlotta L., francese di 31 anni, additò la separazione dal marito avvenuta sette anni prima come inizio della sua storia di prostituzione. Ex dattilografa, era già stata meretrice in Francia, Egitto e Spagna prima di iniziare a spostarsi tra le diverse città del Regno, dove era arrivata per la prima volta nell’ottobre del 1933. In meno di due anni, Carlotta – che periodicamente tornava a Parigi per riposarsi – si era segnata in case di prostituzione a Venezia, Firenze, Genova, Milano, Roma e Napoli e, infine, Torino, dove era stato redatto il verbale consultato.39 Come lei anche Kassa L., suddita francese di origini russe, quarantenne artista di ballo, ascoltata nel 1935 a Torino, raccontò di aver intrapreso il mestiere quando il marito, Pier V., dopo pochi mesi di matrimonio nel 1918 l’aveva abbandonata fuggendo con un’altra donna. Da allora aveva viaggiato molto e in Italia era venuta ripetute volte nei precedenti 13 anni. Si era iscritta in case di tolleranza di Bologna, Piacenza, Milano, Cremona 38. Ivi, verbale di interrogatorio di Maria S. 39. Ivi, verbale di interrogatorio di Carlotta L.

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e Torino. Anche lei raccontò che quando riusciva a fare «qualche risparmio» ritornava nella sua città di provenienza, Menton, per passare periodi di riposo senza prostituirsi.40 È una indicazione, quest’ultima, menzionata anche da Maria Emiliana L., 28 anni. La donna aveva, rispetto alle precedenti, meno esperienza: veniva infatti in Italia solo da un anno per prostituirsi e fino ad allora era stata solo a Milano e Torino. Anche lei dichiarò che alternava periodi di lavoro nel Regno a periodi di riposo a Parigi, dalla sua famiglia.41 Benché imbrigliati nella struttura rigida del modulo/questionario predisposto, questi interrogatori permettono comunque di avanzare alcune ipotesi circa le caratteristiche della carriera di prostituta, straniera, in Italia. In primo luogo, le vicende raccolte lasciano intravedere come nella maggioranza dei casi ci troviamo di fronte a donne che avevano già accumulato una certa esperienza e acquisito gli strumenti del mestiere: sapevano intrattenere relazioni dirette con le tenutarie e si scambiavano informazioni su indirizzi e riferimenti delle case a cui rivolgersi. Alcune storie, inoltre, suggeriscono che la prostituzione, evidentemente un lavoro usurante, era preferibilmente esercitata lontano da casa e alternata a periodi di riposo. Come già ampiamente rilevato per il periodo precedente, anche queste biografie si svolsero all’insegna della mobilità. Il motore, anche in questo caso, sembra principalmente la regola non scritta del circuito delle case di tolleranza, che prevedeva il ricambio continuo delle donne in servizio per variare l’offerta. Infine, questione con cui sembra opportuno chiudere queste pagine, i verbali testimoniano un atteggiamento decisamente tollerante delle autorità nei confronti della presenza delle prostitute straniere, purché regolata all’interno delle case di prostituzione autorizzate e sottoposta alla disciplina prevista dalle leggi di Pubblica Sicurezza. Una politica che verrà completamente rivoluzionata a decennio concluso e nei nuovi scenari aperti dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, con il Regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, Regolamento per l’esecuzione del TULPS del 1931. Precisando le disposizioni e la casistica relativa al capo II del testo (Degli stranieri da espellere e da respingere nel Regno) il Regolamento del 1940 disponeva all’art. 271 che dovessero essere respinti dal confine o essere espulsi «gli stranieri 40. Ivi, verbale di interrogatorio di Kassa L. 41. Ivi, verbale di interrogatorio di Maria Emiliana L.

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indigenti o che esercitino il meretricio o mestieri dissimulanti l’ozio, o il vagabondaggio o la questua». Non passavano pochi mesi, dunque, che il Ministero dell’Interno predisponeva e stampava in centinaia di copie un elenco permanente delle prostitute straniere allontanate dal Regno e distribuito ai Prefetti, e da questi agli uffici locali di P.S., nel quale sono inanellati 796 nominativi in ordine alfabetico, con nome, cognome, anno di nascita e nazionalità delle espulse.42 Molte altre, soprattutto quelle provenienti dai Paesi diventati nemici, di lì a poco sarebbero state internate nei campi femminili allestiti soprattutto nelle regioni centro-meridionali durante il conflitto.43 La gerarchia delle priorità era evidentemente cambiata e se fino a quel momento le prostitute straniere, bianche, erano state considerate un «male necessario» e ben tollerate, quando non incentivate, assolvendo a una funzione ritenuta essenziale per il mantenimento dell’ordine familiare e di genere in Italia, nel mutato clima del conflitto l’obiettivo di difendere la nazione dai nemici interni aprì una nuova stagione di ostilità nei loro confronti.

42. L’elenco si trova sempre in ACS, MI, DGPS, Interpol, Tratta delle bianche, b. 7, fasc. 43. 43. Cfr. Annalisa Cegna, “Di dubbia condotta morale e politica’. L’internamento femminile in Italia durante la Seconda guerra mondiale, in «DEP Deportate, Esuli e Profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 21(2013), https://www.unive.it/ pag/fileadmin/user.../2_Cegna-rev.pdf.

Conclusioni

Dopo aver seguito Giuseppa e le altre attraverso il Mediterraneo, Max S. da una sponda all’altra dell’oceano e tra le città di mezza Europa, letto le indagini sugli uomini lucani coinvolti in un giro di prostituzione di minorenni a Panama e i verbali di interrogatorio delle prostitute straniere in Italia, nonché discusso i dispacci viaggiati tra polizie e Consolati di diversi Paesi e gli interventi fatti alla Società delle Nazioni, quali osservazioni conclusive possiamo trarre in merito alla storia della prima globalizzazione della prostituzione vista dalla prospettiva del caso italiano? Credo sia utile, a questo proposito, ritornare ad alcune delle considerazioni e delle ipotesi formulate nell’introduzione del volume. In primo luogo, questa è una storia che ha molti tratti in comune e intersezioni con la storia delle migrazioni e, allo stesso tempo, credo che ora si possa aggiungere che contribuisce a mettere in luce aspetti ed elementi dei processi migratori solitamente poco visibili e scarsamente indagati. Protagoniste dei flussi analizzati nei capitoli precedenti sono soprattutto donne che hanno imbastito progetti migratori autonomi, nel senso che la storiografia più recente ha dato a questo termine, vale a dire di esperienze di mobilità femminili che non sono state accessorie, comprese o trainate da iniziative emigratorie maschili o familiari. Sono donne emigranti che partono già prostitute e proprio in funzione del loro lavoro e verso le nuove piazze e i nuovi mercati aperti dall’espansione coloniale e commerciale di fine Ottocento; oppure sono donne che partono con l’intenzione di impiegarsi in altri mestieri e che finiscono con il prostituirsi nei Paesi d’arrivo, spesso a causa dello statuto debole del lavoro femminile e dei caratteri di violenza e diseguaglianza contenuti nelle relazioni di coppia e sessuali. Oltre a rendere visibile un genere particolare di mobilità femminile, le vicende e le questioni fin qui analizzate mettono in primo piano il modo in

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cui la sessualità struttura ed è a sua volta strutturata dalle migrazioni. Una prospettiva di studio che a partire dagli anni Duemila si è andata consolidando a livello internazionale.1 Un esempio noto, anche se lungamente dato per implicito, è il modo in cui il matrimonio ha influenzato la storia delle migrazioni: pensiamo alle spose per procura e ai ricongiungimenti, fino al matrimonio come elemento chiave nelle politiche statali di inclusione o esclusione degli immigrati. Analogamente, in tempi più recenti sono diventati oggetto di studio anche fenomeni che rimandano a tutt’altra declinazione dell’intreccio sessualità/migrazioni, quali le esperienze di coloro i quali sono stati forzati o spinti a spostarsi, a cambiare patria, in virtù della loro alterità sessuale e delle condizioni di svantaggio sociale e legale patite nei luoghi di provenienza, esperienze definite «sexile». Il nostro caso di studio ci ha consentito dal canto suo di comprendere come la prostituzione sia stata il motore di importanti fenomeni migratori femminili e, al contempo, come in alcune circostanze i processi migratori abbiano reso le donne più esposte allo sfruttamento sessuale. Abbiamo inoltre visto come la prostituzione e le valutazioni sulla sua utilità o sconvenienza abbiano influenzato fortemente le politiche migratorie dei governi: il coinvolgimento nel mercato della prostituzione è stato per alcuni Paesi e in alcuni frangenti un motivo di esclusione degli stranieri e delle straniere dal territorio nazionale, mentre per altri Paesi o in altre congiunture storiche ha rappresentato una corsia preferenziale per esservi ammessi o rimanervi. Una dinamica che mostra bene anche come la sessualità delle migranti sia largamente utilizzata nelle comunità nazionali per affermare e rafforzare le prescrizioni morali e sessuali rivolte alle donne locali e precise concezioni dei modelli di genere. La sovrarappresentazione delle prostitute come straniere e lo stigma che le ha colpite, in Argentina come negli Stati Uniti, sono serviti a intensificare per contrasto il precetto rivolto alle donne della nazione di essere paladine dell’onestà, della moderazione, dei valori familiari. Ugualmente, abbiamo visto come le misure di controllo e le preoccupazioni che hanno investito le prostitute italiane emigrate per lavorare in altri Paesi del Mediterraneo siano state il volano per creare un generale 1. Per una panoramica e una sintesi degli studi in questo campo si veda Routledge International Handbook of Migration Studies, a cura di Steven J. Gold, Stephanie J. Nawyn, London-New York, Routledge, 2013, in particolare il contributo di Eithne Luibhéid, Sexualities and International Migration, pp. 215-224.

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clima di sospetto intorno alla migrazione delle “donne sole”, soprattutto se giovani e, più in generale, verso le donne che si allontanavano da casa. Per chiudere le considerazioni rispetto al contributo che la storia della prostituzione globale può dare a una comprensione più articolata dei processi migratori, credo che si possa fare qualche osservazione anche in merito alle pratiche sociali, in particolare alla natura dei network e dei legami comunitari. In questo genere di migrazioni lo scambio di notizie ha viaggiato a lungo attraverso canali informali e in parte diversi da quelli raccontati per i sistemi migratori classici. Le donne delle quali abbiamo seguito le vicende sceglievano la prima e le altre destinazioni, assumevano le necessarie informazioni logistiche, apprendevano gli escamotages per riuscire a entrare e rimanere in un Paese, grazie alla partecipazione a una comunità, in patria come nei Paesi di arrivo, cementata non dalla comune appartenenza nazionale e culturale, ma dalla condivisione del mestiere e dallo stigma sociale del quale erano fatte oggetto. Anche quando il ruolo delle terze parti è più evidente e forte si tratta di uomini, ma anche donne, con i quali le prostitute condividono prima di tutto un ambiente sociale, che via via si è popolato non solo di meretrici e tenutarie, ma anche di procacciatori, protettori, tuttofare, organizzatori. Sono spunti interessanti, che si aggiungono agli studi che hanno guardato alle dinamiche migratorie nelle quali l’alterità sessuale è stata una leva importante (oggi si parla comunemente di queer migration studies2) e che testimoniano una volta di più come a lungo nella storia delle migrazioni abbia prevalso una prospettiva che ha preso in considerazione quasi esclusivamente le esperienze degli uomini europei lavoratori ed eterosessuali, oggi certamente meritevole di essere rivista. Un secondo tema che ha attraversato questo volume e intorno al quale credo sia utile fare qualche considerazione è quello del lavoro delle donne. Dalle fonti provengono elementi che permettono di sviluppare almeno due questioni: le condizioni di lavoro delle prostitute nell’età della prima globalizzazione moderna e gli elementi di contiguità che la «professione» di prostituta ha avuto in questi scenari con altri mestieri femminili. Quello della prostituta è, a cavallo tra Otto e Novecento, un lavoro che registra al suo interno diversi gradi di sfruttamento, determinati da molteplici variabili. Una delle più importanti, a mio parere, è l’espe2. Martin F. Manalansan IV, Queer Intersections: Sexuality and Gender in Migration Studies, in «International Migration Review», 1 (2006), pp. 224-249.

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rienza maturata. Attraverso lo studio dei verbali di interrogatorio delle prostitute straniere in Italia e nelle sue colonie è emerso come, man mano che diventavano prostitute di professione, le donne tendevano a intavolare trattative dirette con le tenutarie dei bordelli, prendendo accordi prima ancora di spostarsi; analogamente, sembrano loro – attraverso le informazioni raccolte tra le colleghe – a scegliere le mete dove dirigersi, privilegiando quelle dove evidentemente detenevano un maggiore potere contrattuale, come le francesi in Libia nel momento di penuria di meretrici europee o le italiane a Malta. L’esperienza accumulata, inoltre, poteva essere spesa per progredire di posizione all’interno della professione, tenendo conto che proprio i cambiamenti prodotti dall’integrazione nel mercato globale avevano generato nuove carriere. Abbiamo visto nel caso delle prostitute romene che lavoravano nei bordelli italiani in Libia, ma anche in altre fonti, come la moltiplicazione delle figure necessarie a mandare avanti un commercio dai caratteri transnazionali faceva sì che davanti alle prostitute, una volta accumulata esperienza sul campo, poteva aprirsi – oltre a quella classica della tenutaria – anche la strada dell’intermediazione (intercettare donne da far spostare, tenere i contatti tra i due Paesi, accompagnare nei viaggi, ecc.). Riflettendo, inoltre, sull’alto numero di spostamenti e le traiettorie compiute dalle prostitute globali (che toccavano magari, anche in una sola biografia, Siracusa, Malta, Tripoli, Alessandria d’Egitto, Creta, Smirne, Costantinopoli) e sul fatto che a percorrere questo circuito fossero abitualmente prostitute già con un po’ di anni di mestiere alle spalle, è lecito avanzare anche un’altra ipotesi. In che misura questo alto tasso di mobilità andava incontro solo alla legge del ricambio continuo delle donne in servizio che presiedeva il funzionamento dei bordelli e non era, anche, il frutto di una strategia delle stesse prostitute che mutando ciclicamente casa di prostituzione si sottraevano a una relazione di dipendenza esclusiva con le tenutarie e i gestori delle case, guadagnando maggior controllo sulla propria attività professionale? Nella direzione dell’esistenza di una certa capacità delle donne con più esperienza di intervenire nel ciclo del proprio lavoro sembrano andare anche altri elementi. Mi riferisco, ad esempio, al carattere intermittente dato al mestiere da molte donne, che alternavano periodi – preferibilmente all’estero, lontane da casa – di prostituzione, con periodi di riposo in famiglia o nella propria comunità d’origine, o in luoghi nei quali esercitavano altre attività.

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Queste ultime osservazioni ci traghettano verso il secondo ordine di riflessioni che la storia della prostituzione globalizzata ci permette di fare in relazione alla storia del lavoro delle donne, quelle relative alle contiguità tra prostituzione e altri mestieri. Sia le vicende biografiche delle quali ci è rimasta traccia, sia i materiali prodotti dalle agenzie di controllo e dalle istituzioni impegnate a governare e comprendere la globalizzazione della prostituzione, testimoniano come la prostituzione si intersecasse e talvolta si sovrapponesse principalmente con altri due mestieri e con i loro ambienti: il lavoro domestico e quello nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento. Gli stessi dati raccolti dalla Società delle Nazioni, d’altra parte, mostravano come tra i mestieri più ricorrenti precedenti alla prostituzione c’erano per le donne proprio quello di domestica e artista di varietà. Come abbiamo visto sono molteplici le ragioni di questo scivolamento consistente dall’uno all’altro impiego. Adeguato rilievo va sicuramente attribuito allo spazio, al luogo di lavoro. Per le domestiche, per lo più giovani di poca esperienza immigrate in città dalle aree rurali se non da altri Paesi (pensiamo ai flussi di italiane in Egitto o in altri Paesi del Centro e Nord Europa) la casa padronale, con la conseguente mancanza di privacy e di separazione tra vita privata e orario lavorativo, rappresentava spesso un luogo pericoloso. Qui le giovani erano esposte alle voglie dei propri padroni e dei loro figli e da qui uscivano schiacciate non di rado da maternità illegittime e dalla perdita di ogni altra occasione di lavoro “onesto”, per finire nei postriboli. Dal canto loro, i caffè concerto, i music-hall, hanno a lungo rappresentato, in particolare nelle grandi realtà urbane e nelle città portuali o di stanza degli eserciti, spazi dove venivano venduti anche servizi sessuali, più o meno ufficialmente. Così come le case di prostituzione sono state a lungo e in molti Paesi luoghi di socialità maschile e intrattenimento, dove i clienti passavano il tempo assistendo a spettacoli, mangiando e bevendo. Attraverso le storie che abbiamo letto, sappiamo che per alcune donne i mestieri erano chiaramente distinti e che erano intenzionate a fare le artiste, le «kellerine» di caffè concerto, ma non a prostituirsi. Per altre il confine tra le due attività era più labile e, a seconda delle necessità e delle offerte, optavano per l’una o per l’altra. Certamente le fonti testimoniano che i contratti per tour teatrali o gli ingaggi nei music-halls sono stati uno dei mezzi legali e più utilizzati per far emigrare anche le minorenni e che in molti casi le donne partivano credendo di andare a lavorare come artiste; poi, una volta giunte a destinazione, venivano coinvolte con l’inganno o attratte nel mondo della prostituzione.

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Da quanto emerso finora, dunque, la relazione tra prostituzione, lavoro domestico e lavoro artistico è stata complessa e ha assunto forme e significati diversi, anche rispetto ai livelli di sfruttamento implicati. In ogni configurazione, tuttavia, mi sembra che rimanga centrale una questione – seppure poco esplicitata – che è quella del ruolo giocato dallo statuto del lavoro femminile: malpagato e poco formalizzato. Laddove le prostitute hanno raccontato il loro ingresso nel mondo della prostituzione, si sono per lo più riferite all’impossibilità di sopravvivere con il solo salario proveniente dai classici mestieri femminili (sarta, lavandaia, domestica), ma hanno anche evocato i rovesci legati alla perdita del lavoro. Un elemento centrale in questa storia, quindi, che abbiamo visto esplicitamente denunciato da Paulucci di Calboli alla Società delle Nazioni nel terzo capitolo, è quello della condizione di fragilità sociale alla quale i bassi salari e la precarietà del lavoro femminile esponevano le donne e che diventavano insostenibili in assenza di sostegni familiari e in un contesto di sradicamento e allentamento dei legami, quale poteva essere quello migratorio. Altrettanto cruciale è prendere in considerazione il versante della domanda di prostituzione, nei decenni analizzati in costante crescita. Come abbiamo visto, il meretricio è (stato) uno dei pochi lavori non qualificati sempre disponibile per le donne. Una risorsa alla quale esse ricorrono individualmente oppure, le fonti lo hanno raccontato chiaramente, come esito di una strategia di coppia o familiare, nel quadro di relazioni tra i generi fortemente squilibrate. Queste osservazioni ci conducono all’ultimo tema che ha attraversato questo libro e intorno al quale vorrei dire ancora qualche altra parola, prima di chiudere: le trasformazioni che hanno investito il mondo della prostituzione a partire dalla fine dell’Ottocento. Quanto abbiamo letto come va inquadrato in una prospettiva più ampia che si interroga anche sulle periodizzazioni? La vocazione alla mobilità registrata tra le prostitute non è una novità dell’età contemporanea, come testimonia una consolidata tradizione di studi dedicati alle città di età moderna, come Roma, Venezia, Firenze, nelle quali la presenza di cortigiane e meretrici «forestiere» è stata ampiamente documentata e indagata in un’ottica tanto di storia urbana che di storia del lavoro e di storia sociale. Le numerose prostitute presenti a Roma nell’età della Controriforma studiate da Tessa Storey, ad esempio, provenivano in gran parte dai centri limitrofi dello Stato della Chiesa, dal Granducato di Toscana, dal Regno di Napoli, ma non mancavano quelle

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che avevano compiuto traiettorie più lunghe, partendo dalla Francia o dalla Spagna.3 Come per l’età contemporanea, la mobilità delle prostitute verso e all’interno delle città cinque-seicentesche va letta nel quadro più generale della dinamicità delle realtà urbane di questo periodo, dove in generale la popolazione era in continuo movimento, i forestieri rappresentavano una componente determinante del tessuto sociale4 e – come ha notato Anna Bellavitis nel suo volume Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna – la prostituzione era principalmente un lavoro da immigrate, per lo più appena arrivate.5 Altrettanto studiata e conosciuta è la partecipazione delle prostitute alle campagne militari nell’Europa di età moderna, al seguito degli eserciti e in compagnia di altre donne che lavoravano come vivandiere, lavandaie, infermiere, sarte.6 Una componente civile, fatta oltre che di donne anche di bambini, numerosa tanto quanto quella dei soldati che seguivano, per grandi distanze e talvolta per anni. La prostituta straniera, forestiera, immigrata, che si sposta per lavorare, dunque, non è una novità della fine dell’Ottocento, così come non lo sono le politiche di governo e controllo della prostituzione. A questo proposito è bene ricordare come in passato, ben prima dell’ondata regolamentazionista inaugurata da Napoleone, molte città europee prevedevano forme di riconoscimento fiscale della prostituzione: le casse municipali incameravano non poco denaro attraverso una tassa imposta alle prostitute per esercitare il mestiere, assimilata a una sorta di licenza. Nel periodo della Controriforma così come nelle città protestanti, inoltre, diverse misure vennero adottate dalle autorità (civili e religiose) per circoscrivere il fenomeno: alle meretrici venne impedito di esercitare il mestiere nei centri abitati o in alcune zone particolarmente sensibili 3. Tessa Storey, Carnal Commerce in Counter-Reformation Rome, Cambridge, Cambridge University Press, 2008. 4. Si vedano almeno due volumi collettivi su questo: L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini, mobilità in età moderna e contemporanea, a cura di Angiolina Arru e Franco Ramella, Roma, Donzelli, 2003; Venire a Roma, restare a Roma: forestieri e stranieri fra Quattro e Settecento, a cura di Sara Cabibbo e Alessandro Serra, Roma, RomaTrEPress, 2017. 5. Anna Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, Roma, Viella, 2016, p. 204. 6. Per approfondire questo tema si veda John A. Lynn II, Women, Armies, and Warfare in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2008.

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delle città (come Ponte Rialto a Venezia), sospingendole in aree esterne o in quartieri appositi dove si ammassavano i bordelli, come Trastevere a Roma o l’area portuale di Amsterdam. Alcuni istituti, poi, quale l’Ufficio dell’Onestà a Firenze, provvedevano al censimento delle prostitute presenti in città, suddividendole per provenienza e condizione sociale. Pur seguendo un’ondata repressiva e moralizzatrice nel Seicento, che puntò alla chiusura dei bordelli e alla moltiplicazione degli istituti di rieducazione rivolti alle donne «cadute» o «pericolanti», non è dunque neanche sul versante del governo della prostituzione che quanto si avvia con la fine dell’Ottocento rappresenta una novità o una discontinuità storica. Credo, dunque, che mutamenti e cesure vadano cercate altrove, tenendo presente un intreccio complesso di elementi e rinunciando a spiegazioni monocausali. In primo luogo, esiste certamente una questione di mutamento di scala nella storia della prostituzione sulla quale mi sono soffermata nelle pagine precedenti. La sensazione che gli scenari di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento appartengano a un’altra epoca rispetto ai secoli precedenti è provocata innanzitutto dall’espansione del mercato e dei commerci legati alla prostituzione, che aumentano quantitativamente e si dilatano geograficamente. Ad aumentare, tuttavia, sono anche le connessioni tra i vari centri, i livelli di organizzazione, la circolazione di informazioni: quello della prostituzione è in questo periodo non solo un mercato enorme, transnazionale, ma è anche un mercato più compatto e omogeneo, con livelli di organizzazione più sofisticati. Altrettanto rilevante è, a mio avviso, la circostanza che questi scenari si presentino nel momento in cui diversi Paesi sono alla prese con il processo di nation-building, all’interno del quale la questione morale, la questione sessuale, ha generalmente costituito un elemento chiave. Una ricca storiografia ha raccontato come onore e reputazione siano termini ricorrenti del lessico politico otto-novecentesco, così come esso sia stato infarcito di riferimenti alla sessualità, alla virilità, alla rispettabilità, all’innocenza, alla castità, insomma a modelli e ideali di genere precisi. La prostituzione, in questo senso, al contrario dei secoli precedenti, non è più considerata (solo) come una questione morale e di salute pubblica, né è governata da autorità municipali o religiose, ma diventa una questione di ordine nazionale alla quale è chiamato a presiedere lo Stato. Lo abbiamo visto nel corso di questo lavoro attraverso molteplici fonti e voci: la prostituzione diventa un’emergenza nazionale in modi diversi

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per i vari Stati a seconda della posizione da loro occupata nella mappa della prostituzione stessa e delle migrazioni globali. L’Italia, che è stata un Paese prevalentemente “sending”, ha avuto un problema di reputazione all’estero da salvaguardare e ha declinato il tema e le politiche di contrasto in questa direzione: controllo e limitazione della libertà di movimento delle “donne sole”, tolleranza della prostituzione straniera, stretta di polizia e minimizzazione dell’allarme in sede diplomatica. Altri Paesi, soprattutto quelli destinatari, di arrivo, lo hanno declinato in termini di minaccia ricevuta, dalle prostitute immigrate e dal loro entourage, all’ordine morale e familiare nazionale. A questo punto, credo emerga con chiarezza come la storia della prostituzione globale sia questione che parla di migrazioni, di sessualità, di lavoro, ma anche di politica e di identità nazionale, e questa è una dimensione che non va affatto sottovalutata, soprattutto nel caso di temi che infiammano e hanno infiammato le opinioni pubbliche.

Indice dei nomi

Abbott, Grace, 128 Alì, Muhammad, 60 Arru, Angiolina, 175n Attwood, Rachael, 21n, 145n Azara, Liliosa, 11n, 19n

Chaumont, Jean-Michel, 61n, 83n, 129n Conti, Ugo, 138 Corbin, Alain, 11 e n, 21 e n, Cordasco, Francesco, 81n, 82n Curmi, Tancred, 39, 40

Badoglio, Pietro, 55 Badran, Margot, 24n Barrera, Giulia, 52 e n Bartoli, Alfredo, 39 Bartoloni, Stefania, 23n Bellavitis, Anna, 15n, 175 e n Bevilacqua, Piero, 13n, 25n, 86n Biancani, Francesca, 59 e n, 61n, 63n, 122n Bianchi, Bruna, 13n Bocchini, Arturo. 134, 135, 136 Bonelli, Eduardo, 9 Borgiani, Marcello, 109 Bristow, Edward, 21 e n, 102n Bronzini Majno, Ersilia, 23 Butler, Josephine, 20 e n Buzzati, Giulio Cesare, 146, 147 e n

De Clementi, Andreina, 13n, 25n De Sanctis, Gaetano, 46 De Sanctis, Emilia vedi Rosmini, Emilia Delgado, Richard, 28n Devereux, Cecily, 25 e n Devoto, Fernando, 98 e n Di Giorgio, Michele, 124n Dillingham, William P., 81n; Commissione Dillingham 87, 92 Doezema, Jo, 24 e n Dolinsek, Sonja, 11n Dunnage, Jonathan, 46n

Cabibbo, Sara, 175n Cannon, James, 93n Capone, Al, 109, 110 Cappelli, Vittorio, 112n, Carrara, Stefano, 38, 39, 40, 41, 42 Carrasco, Luis, 110 Cegna, Annalisa, 167n

Gabaccia, Donna, 13, 14n Ghidoni, Domenico, 22 Gibson, Mary, 143n Gissi, Alessandra, 13n Giustiniani Bandini, Cristina, 126n, 129 e n, 133, 136 Glickman, Nora, 102n

Ercolani, Sara, 20n, 145n Ferrari, Giulio Cesare, 148n Franzina, Emilio, 13n, 25n, 123n

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Turpi traffici

Gold, Steven J., 170n Gorman, Daniel, 148n Grieveson, Lee, 22n Grittner, Frederick K., 24n Guadagnini, Giuseppe, 148n Guy, Donna J., 100n Hammad, Hanan, 63n Hearne, Siobhán, 11n Heerma van Voss, Lex, 15n, 16n Hein, Estrid, 127 Hladnik, Mirjam, 13n, 75 Hoerder, Dirk, 14n Horning, Amber, 89n Iacovella, Angelo, 64n Ipsen, Carl, 123n Johansen, Anja, 17n Jordan, Jane, 20n Kibbe Turner, George, 77, 78 e n Kinsie, Paul, 61n, 68, 69 e n, 83n, 129n, 133n Knepper, Paul, 17n, 36n, 37 Kozma, Liat, 11 e n, 18n, 59n, 122n, 129n Labanca, Nicola, 124n Laite, Julia, 90 e n Lavrin, Asuncion, 126n Eberle, Abastenia St. Leger, 22 Leppänen, Katarina, 27n, 122n Liano, Dante, 113n Libermann, Raquel, 102 Limoncelli, Stephanie A., 12n, 17n, 52n, 128n, 129n, 145n Loane Tucker, George, 22 Londres, Albert, 101, 103 Luciano, Charles “Lucky”, 110 Luconi, Stefano, 13n, 80n Luibhéid, Eithne, 170n Luisi, Paulina, 126 e n, 127 e 128n, 129 e n Lynn II, John A., 175n Manalansan IV, Martin F., 171n

Marcus, Anthony, 89n Martini, Manuela, 15n Medana, Augusto, 43 Merlin, Lina, 19n Molossi, Umberto, 136 e n Monroe Pitkin, Thomas, 81n, 82n Muggiani Griffini, Gemma, 145n Mullikin Parcell, Lisa, 77n Mussolini, Benito, 51 Muti, Mario, 55 Nawyn, Stephanie J., 170n Ocampo, Manuel Rodríguez, 102 Ostuni, Maria Rosaria, 123n Page, Horace F., 80n Page Moch, Laslie, 14n Paulucci di Calboli, Raniero, 126 e n, 127 e n, 128 e n, 129n, 130, 131, 132, 134, 138, 146, 174 Paulucci di Calboli Barone, Giacomo, 129 e n, 134n, 135, 136n Pedersen, Susan, 125n Pegna, Serenella, 81n, 82 e n, 84n Pretelli, Matteo, 80n Ramella, Franco, 175n Raymond, André, 61n Rodriguez Garcia, Magaly, 15n, 16n, 17n, 61n, 83n, 129n Rosmini, Emilia, 46 e n Salerno, Luigi, 46 e n, 47 e n, 48, 51n Salvatici, Silvia, 13n, 125n Santoliquido, Rocco, 124n Sarti, Raffaella, 15n Scacchi, Anna, 28n Scarzanella, Eugenia, 126n, 128n, 129n Schayegh, Cyrus, 59n Schettini, Cristiana, 24n, 100n Schettini, Laura, 11n, 23n, 74n, 124n Serra, Alessandro, 175n Servais, Paul, 61n, 83n, 129n Sharp, Ingrid, 20n

Indice dei nomi

Sharpe, Pamela, 13n Sloan, David W., 77n Sorgoni, Barbara, 52 e n Spadaro, Barbara, 52 e n Stamp Lindsey, Shelley, 22n Stauter-Halsted, Keely, 20n, 21n Stefancich, Jean, 28n Stefani, Giulietta, 52 e n Stella, Gian Antonio, 25n Stoler, Ann Laura, 18n Storey, Tessa, 174, 175n Surdich, Francesco, 62n Takla, Nefertiti, 61n, 62 e n, 68n Tassani, Giovanni, 129n

181

Tedesco, Luca, 11n Tirabassi, Maddalena, 13n Trinchese, Stefano, 129n van Nederveen Meerkerk, Elise, 15n, 16n Varricchio, Mario, 13n Volpi, Giuseppe, 55 Wayne Parker, Jeffrey, 107n Wishnitzer, Avner, 59n Yarfitz, Mir, 102n Zhu, Ming M., 80n

Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 da The Factory s.r.l. Roma