Trasformazioni del concetto di umanità
 9788855291316, 9788855291323

Table of contents :
Introduzione
I Idee di umanità
II Tra passato e futuro
III Fine dell’umano?
IV Per una fenomenologia del vivente umano
Indice
Anthropos

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Trasformazioni del concetto di umanità A cura di C. Di Martino, R. Redaelli, M. Russo

Anthropos

Collana diretta da Carmine Di Martino

Comitato scientifico: Étienne Bimbenet, Petar Bojanić, Eugenio Mazzarella, Dominique Pradelle, Caterina Resta, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo.

Anthropos | 3

L. Bianchin, É. Bimbenet, A. Cera, G. Cusinato, C. Di Martino, J. Fischer, F. Gambardella, L. Guidetti, S. Hobuß, A. Martins, E. Mazzarella, F. G. Menga, G. Pezzano, R. Redaelli, C. Resta, M. Russo, L. Vanzago

Trasformazioni del concetto di umanità a cura di Carmine Di Martino, Roberto Redaelli, Marco Russo

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Anthropos ISSN: 2533-0985 n. 3 - dicembre 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-131-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-132-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: 横断歩道を渡る人々 © oyo – stock.adobe.com

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Introduzione

L’obiettivo del presente volume1 è quello di avviare una riflessione più consapevole e sistematica sul termine “umanità”, divenuto centrale nel corso del Novecento. Si potrebbe pensare che una nozione come quella di umanità si trovi da sempre nel mirino della ricerca filosofica e non vi sia in essa, nella attenzione a essa dedicata, niente di nuovo. In verità è solo con la prima età moderna che si è sviluppato un modello culturale “umanistico”, sistematicamente improntato allo studio e al perfezionamento dell’uomo. Proprio la delinea­zione del paradigma umanistico ha messo in evidenza come nella cultura antica non vi sia stata una tematizzazione esplicita dell’idea di umanità, la quale era piuttosto presente in forma implicita all’interno di un quadro filosofico più ampio, di tipo ontologico, cosmologico, teologico. È stato quindi l’indebolirsi di tale quadro a far sì che l’uomo divenisse un problema filosofico a sé stante, innescando una

1.  Il punto di partenza della riflessione è stato il Convegno Internazionale Transformations of the concept of Humanity, tenutosi nel maggio del 2018 presso l’Università degli Studi di Milano e organizzato dai curatori.

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progressiva intensificazione concettuale e simbolica della nozione di umanità, che è difatti divenuta di uso comune nelle lingue europee tra Settecento e Ottocento, e che oggi è tra le più usate e abusate, specialmente nel dibattito pubblico. Sebbene dunque la questione antropologica sia stata indirettamente sempre presente nell’indagine filosofica – almeno dall’inaugurale gnōthi seautón –, è solo con i cambiamenti culturali e socio-politici della modernità che nasce il bisogno di svolgere un’indagine che abbia come suo oggetto autonomo l’identità umana. Questo è un primo dato rilevante, che chiede ancora di essere vagliato in profondità, insieme all’esame critico del cosiddetto antropocentrismo umanistico. Da dove proviene infatti questo antropocentrismo, che cosa implica? Esso è sintomo di libertà o di restringimento intellettuale e morale? A un tale antropocentrismo è strettamente collegata la spinta della cultura moderna verso un’etica dell’autonomia e della dignità umana, che si propone di far leva sul potere analitico e costruttivo della ragione, sul progresso scientifico. Ma a ciò è anche collegato il sospetto che tale cultura veicoli una metafisica spuria, che attribuisca all’uomo prerogative prima riservate a Dio o all’Essere; il sospetto, in altri termini, che essa non sia altro che l’ideologia dell’Occidente capitalista e colonialista, che nasconde precisi interessi dietro la facciata universalistica dell’uma­nità, del progresso in nome e per conto di tutti gli uomini. Su questo già problematico retroterra si innestano poi gli imprevedibili sviluppi odierni. Già negli ultimi decenni del Novecento, infatti, con la globalizzazione, la rivoluzione digitale, la bioingegneria, l’automazione e altro ancora, è il profilo stesso dell’essere umano che ha iniziato a modificarsi, sporgendosi oltre i tradizionali confini materiali e psicologici legati al corpo, al luogo, al movimento, alla netta distinzione tra materiale e immateriale, reale e immaginario, presente e futuro, vero e fal-

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so, buono e cattivo. Con lo scuotimento di tali confini, anche la nozione di umanità, vale a dire di ciò che è proprio dell’uomo rispetto al non-uomo, viene rimessa in discussione. In tale contesto, mettere a fuoco le trasformazioni del concetto di umanità significa allora non solo chiedersi come esso sia cambiato, ma a che cosa esso possa e debba applicarsi nel momento in cui il suo “oggetto” di riferimento – l’uomo, l’umano – sembra andare incontro a figurazioni inedite e imprevedibili. Gettare la rete nella storia e nel presente del fenomeno “umanità” è dunque lo scopo del volume. I contributi dei diversi autori forniscono uno sguardo assai diversificato sul tema, le cui pieghe sono evidentemente così numerose da non poter essere ricapitolate in una lista chiusa. È innanzitutto necessario richiamare lo sfondo storico-teorico del problema antropologico, senza il quale poco si capirebbe di ciò cui stiamo accennando. Su questa base occorre poi affrontare direttamente alcuni aspetti delle trasformazioni cui il fenomeno stesso è esposto, anche per entrare in dialogo con i più recenti orientamenti sul post-umano, più o meno convincenti, nei quali tali trasformazioni hanno cominciato a trovare nomi e teorizzazioni. Il percorso si divide in quattro sezioni tematiche. Nella prima sono indagate le diverse idee di umanità che si delineano a partire da un confronto tra l’uomo e i suoi “altri”, nei termini dello straniero, del vivente non umano, della macchina. Sullo sfondo di tale confronto la seconda sezione mette in luce le sfide cui nel presente è sottoposta l’umanità dell’uomo e che si esprimono nelle teorie del post-umano, collegato all’esponenziale crescita delle biotecnologie, nel problema della giustizia intergenerazionale, negli interrogativi sul rapporto tra l’umano e la tecnica. Ci si può chiedere: si tratta di sfide che annunciano un nuovo umanesimo o che conducono al suo abbandono? Tale domanda si lega specularmente ai saggi che si trovano nella terza sezione del testo e che fanno questione della cosiddetta

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fine dell’uomo: il venir meno delle logiche identitarie tradizionali, la crisi del presupposto antropologico, il superamento di un certo concetto di umanità sono i prodromi di un nuovo inizio? I contributi raccolti nella quarta e ultima sezione del volume sono tesi invece ad offrire, indirettamente, una via parziale e provvisoria per una riconsiderazione dell’insieme delle questioni sollevate, abbozzando le linee di una fenomenologia del vivente umano che provi a interrogare l’esperienza umana per individuare il filo di una continuità nelle trasformazioni realizzate e promesse. Si tratta, naturalmente, di un abbozzo che reclama soprattutto correzioni e quindi sviluppi. Carmine Di Martino Roberto Redaelli Marco Russo

I Idee di umanità

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Antropologia filosofica come triangolazione: il confronto animale-uomo, macchina-uomo, uomo-uomo* Joachim Fischer

1. Cosa o chi è l’uomo? L’antropologia filosofica come procedimento comparativo1 La moderna antropologia filosofica esplicita l’essenza o struttura dell’uomo tramite un confronto contrastivo; di particolare importanza è il confronto animale-uomo, ma anche quello laterale tra le diverse forme di manifestazione socio-culturale degli uomini. Poiché però nell’epoca digitale le macchine, sotto forma di robot e reti neuronali artificiali, circondano il mondo della vita umano e attraversano da parte a parte l’uomo, ecco che s’impone un’ulteriore serie comparativa per contraddistinguere la specifica posizione dell’uomo. Il mio contributo include nell’antropologia filosofica, per la prima volta in maniera sistematica, un tale confronto diagonale tra uomo e macchina, accanto a quello verticale animale-uomo e a quello laterale uomo-uomo, così da poter descrivere la complessa specificità umana. La tesi è che il futuro dell’antropologia filosofica consisterà proprio nello svolgere il suo progetto di un’analisi sempre rinnovata dell’essenza e della struttura umana perlomeno all’interno di questa triangolazione, di questo * Traduzione dal tedesco di Marco Russo.

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triangolo comparativo: 1) confronto verticale uomo-animale; 2) confronto diagonale uomo-macchina; 3) confronto laterale uomo-uomo1. Si tratta di tre operazioni non reciprocamente riducibili. La tesi è che per una futura antropologia filosofica ci vogliono almeno tre operazioni comparative e non che queste tre operazioni esauriscano le possibili serie comparative per arrivare a formarsi un adeguato concetto di uomo. Il confronto è un procedimento conoscitivo elementare: è l’accostamento di due entità al fine di stabilire in cosa concordano e in cosa sono diverse, così che dalla conoscenza dell’una anche l’altra possa essere conosciuta. Questa operazione comparativa, che fa poi ingresso anche nella scienza, ha il proprio “posto nella vita”, dove di continuo i fenomeni vengono determinati comparativamente per quello che sono e che li caratterizza. La comparazione può concentrarsi sulle concordanze, le analogie, oppure sulle differenze, le diversità. Anche la riflessione e la determinazione antropologica di chi o cosa sia l’uomo prova a rispondere sempre mediante il procedimento indiretto della 1.  Ne I gradi del mondo organico e l’uomo Plessner ha utilizzato la terminologia «procedimento verticale» e «procedimento orizzontale» (H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, de Gruyter, Berlin 1975; tr. it. di U. Fadini e E. Lombardi Vallauri, I gradi dell’organico e l’uomo, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 126 ss.) per distinguere i due procedimenti comparativi utilizzati nelle opere sino ad allora pubblicate: quello di filosofia della natura nei Gradi del mondo organico (1928) e quello di filosofia della cultura nella Unità dei sensi (1923). In entrambi i casi si vuole evidenziare l’unità psico-fisica, «la relazione spirito-natura», ora mediante il procedimento comparativo verticale di diverse forme viventi incluso l’uomo, ora mediante il procedimento comparativo orizzontale dei diversi ambiti di una cultura (geometria, linguaggio, musica) per esplorare la specificità spirituale di ciascuna prestazione sensoriale (occhio, tatto, udito). Plessner non ha però usato il termine “orizzontale” per l’antropologia della visione storica in Potere e natura umana (1931), dunque per il confronto tra diverse epoche e culture. Allo scopo di non forzare la terminologia plessneriana qui si sceglie il termine “laterale” per indicare appunto questo confronto tra diverse culture.

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comparazione con altre entità – con cose, animali, dei, angeli, con ciò che di volta in volta è “altro”: comparazione tra sessi, tra forme e stili di vita diversi – e sempre, nella differenza o nella somiglianza, cercando un appropriato concetto di uomo. La moderna antropologia filosofica2 ha posto con insistenza la domanda sulla differenza, sulla cosiddetta posizione speciale [Sonderstellung] dell’uomo, la domanda sui suoi monopoli – e proprio la risposta metodicamente adeguata a questa domanda è stato il punto di abbrivio del suo progetto. Come è noto, nella propria ricerca filosofica essa opera esplicitamente fin dagli anni Venti del XX secolo con due serie comparative, ossia il raffronto tra nature, tra le diverse forme organiche viventi, e quello tra culture, tra forme di vita storiche o contemporanee. Si valutano da un lato le possibilità di una biologia comparativa, dall’altro quelle di una scienza comparativa della cultura. Sebbene il confronto dell’uomo con artefatti e oggetti artificiali risalga già alla prima modernità, nell’antropologia filosofica non è stato tuttavia finora realizzato sistematicamente. Nell’epoca digitale esso diventa però ineludibile per un’autoriflessione antropologica. L’uomo si conosce – conosce la sua struttura, la sua essenza – solo attraverso la via indiretta della comparazione con la macchina, specialmente la macchina intelligente digitale, il robot. Il mio contributo intende includere sistematicamente nell’antropologia filosofica precisamente questa terza operazione comparativa. Ciò non significa, comunque, svilire o invalidare le altre serie comparative riguardo alla questione antropologica.

2.  Cfr. Ch. Thies, Einführung in die philosophische Anthropologie, WBG, Darmstadt 2004; J. Fischer, Philosophische Anthropologie, in G. Kneer M. Schroer (a cura di), Handbuch Soziologische Theorien, Springer, Wiesbaden 2009, pp. 324-344; P. Honenberger, Animality, Sociality, and Historicity in Helmuth Plessner’s Philosophical Anthropology, in «International Journal of Philosophical Studies», XXIII, n. 5, 2015, pp. 707-729.

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Sotto il profilo comparativo la domanda su cosa o chi sia l’uomo porta a una triangolazione. Si tratta di una strategia conoscitiva propria delle scienze culturali e sociali3 empiriche, dove il fenomeno da indagare viene chiarito mediante metodi o prospettive non riducibili gli uni agli altri. Qui introduco tale procedimento di triangolazione nell’antropologia filosofica in analogia con il suo metodo comparativo, teso all’esplorazione dell’essenza o struttura dell’uomo. Per non precludere nulla, la triangolazione dell’antropologia filosofica deve utilizzare sino in fondo il procedimento comparativo nei tre tipi di confronto, e dunque operare di volta e in volta con la similarità e la differenza degli elementi comparati, cioè animale e uomo, macchina e uomo, uomo e uomo, rispettivamente considerati per ciò che hanno in comune e ciò che li distingue. Ecco perché le tre operazioni comparative qui proposte vanno dal confronto per somiglianza a quello per differenza. Si tratta di una propedeutica per il parziale rinnovamento e riassetto dell’antropologia filosofica nel ventunesimo secolo. Due sono le innovazioni dove si delinea il futuro dell’antropologia filosofica. Primo, l’introduzione sistematica di una serie comparativa, quella uomo-macchina. Secondo, il fatto che l’occasione dell’allargamento della serie comparativa implica una innovativa revisione delle consuete serie comparative uomo-animale, uomo-uomo. Tutto ciò con una importante delimitazione: un’antropologia filosofica triangolata sul paragone uomo-animale-macchina e con l’obiettivo di afferrare l’essenza o struttura dell’uomo non ha a che fare con le relazioni pratiche di volta in volta intercorrenti tra uomo e animale, uomo e macchina, e tra le differenze umane. Tali relazioni costituiscono un tema ulteriore.

3.  Cfr. U. Flick, Triangulation. Eine Einführung, Springer, Wiesbaden 2008.

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2. Le tre operazioni comparative 2.1. Il confronto uomo-animale Per quanto rivoluzionari siano i nuovi sviluppi socio-tecnologici del mondo della vita umano grazie alla digitalizzazione, il fatto dell’emergenza evolutiva della figura umana comporta che nessuna antropologia filosofica possa saltare il confronto uomo-animale, ossia il confronto bio-scientifico e bio-filosofico con gli esseri viventi vegetali e animali che si trovano prima, sotto, dopo l’uomo. Dai tempi di Darwin la biologia evoluzionistica, come moderna spiegazione della discendenza dell’essere vivente umano da forme di vita non umane, costringe l’antropologia filosofica a intraprendere sempre di nuovo l’operazione comparativa “verticale” lungo i gradi del mondo organico. Sulle orme di Darwin, tutti gli etologi comparativi, i sociobiologi e gli psicologi evoluzionisti, mirano a una spiegazione dell’uomo mediante il confronto uomo-animale, cercando somiglianze tra organismi nel continuo della storia naturale. La ricerca etologica concentra poi lo sguardo evolutivo sull’uomo. La teoria evoluzionistica darwiniana si è imposta in primo luogo come la teoria biologica per eccellenza e in secondo luogo – traendo una conseguenza prospettata dallo stesso Darwin – si è proposta come un’antropologia su basi biologiche. Nella teo­ ria della vita in generale4 viene inserita una teoria della vita umana5. La teoria della vita darwiniana ricostruisce tutte le diverse specie – ora in vita ma alcune già sparite – della vita vegetale e ani-

4.  Cfr. Ch. Darwin, Die Entstehung der Arten durch natürliche Zuchtwahl (1859), Kröner, Stuttgart 1983. 5.  Cfr. Ch. Darwin, Die Abstammung des Menschen (1875), Kröner, Stuttgart 2002.

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male. Quindi le varie specie di organismi ora presenti non sono il risultato di un atto operante parallelamente grazie a una trascendenza, non sono creature derivanti da una forza creatrice (Dio), ma sono il risultato di un processo evolutivo che segue determinate leggi causali: la deviazione e l’errore nel processo di riproduzione, la variazione dunque; la selezione naturale di varianti di organismi a cui riesce l’adattamento o che invece vengono eliminati a causa di un insuccesso riproduttivo; infine, la relativa stabilizzazione di varianti vincenti in specie costanti di organismo. È decisivo qui il modello interpretativo. Tutti i differenti organi e le loro prestazioni, nonché tutte le modalità comportamentali degli organismi individuali (nelle specie superiori), e così pure le disposizioni, gli equilibri interni e i processi di orientamento sono spiegabili come funzioni di un tale processo di adattamento diversificato. L’imponente materiale di ricerca visivo dell’anatomia comparata e delle fasi individuali di sviluppo organico portano Darwin, nel libro The Descent of Man, alla tesi che gli uomini e le altre forme di vita organiche vadano osservati comparativamente, dunque alla tesi della comune discendenza di piante, animali e uomini, ovvero della discendenza del vivente umano dal regno dei primati superiori. L’inclusione sistematica dell’uomo nel mondo vivente – dell’antropologia nella biologia – viene portata avanti da Darwin tenendo conto dei cosiddetti monopoli umani, i classici attestati – rivendicati dall’uomo – di una sua speciale posizione rispetto al regno dei viventi: ragione, linguaggio e morale. L’intelletto plastico si sviluppa da forme primitive, il linguaggio dalla lingua sonora di uccelli e mammiferi, la sensibilità morale dall’istinto sociale. Contro la «presunzione che spinse i nostri avi a dichiarare di discendere da semidei»6, la biologia evoluzionistica rende possibile la riconduzione dei pretesi

6.  Ivi, p. 32.

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monopoli idealistici a meccanismi della vita, la riduzione dei concetti antropologici a concetti biologici. Il principio gradualistico di base darwiniano è «che le capacità mentali dell’uomo e degli animali inferiori divergono non per il tipo, ma solo per il grado, per quanto ampio. Ma una divergenza di grado, per quanto grande, non autorizza a collocare l’uomo in un regno speciale»7. Dunque, quale che sia la differenza mentale tra uomo e animali superiori, per il paradigma evoluzionistico si tratta solo di una differenza di grado e non di genere. Non c’è alcuna posizione speciale. Il teorema della differenza solo graduale nello sviluppo della vita garantisce che gli impulsi della vita (l’autoconservazione degli organismi individuali e il mantenimento della specie mediante la riproduzione) nonché i meccanismi causali della vita (variazione, selezione, stabilizzazione) siano pienamente operanti anche sul piano del vivente umano, e anzi ne siano i fattori decisivi, consentendo così la spiegazione dei fenomeni del mondo della vita socio-culturale. I modi comportamentali, i movimenti espressivi8, le interazioni simboliche, le disposizioni mentali e psichiche, vanno spiegati come semplici epifenomeni della conservazione individuale e di specie (genetica) nel corso dell’azione dei meccanismi di variazione, selezione e stabilizzazione. Dalla ricostruzione biologica del corso evolutivo tutti i temi del mondo della vita socioculturale possono essere “biologizzati”, ovvero “radicati” nella natura evolutiva. A partire dalla teoria evoluzionistica si osserva e descrive come la vita penetri nei capillari della sfera psichica, sociale e culturale, dando ad esse l’indirizzo di fondo. Sicché, dotata di una propria psicobiologia, sociobiologia, biologia della cultura, epistemologia, ecco che l’antropologia

7.  Ivi, p. 199. 8.  Ch. Darwin, Der Ausdruck der Gemütsbewegungen bei dem Menschen und den Tieren, Eichborn, Frankfurt a.M. 2000.

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evolutiva estende il programma bio-evolutivo dal fenomeno della vita, soprattutto animale, al chiarimento del mondo della vita socio-culturale9. L’etologia10 e la sociobiologia11 umane sono rami dell’etologia evolutiva generale, la quale, basandosi sull’assunto che anche l’uomo sia risultato di una lunga storia evolutiva, indaga quei comportamenti e quelle tendenze umane considerati innati o almeno a base innata. In questo contesto si rilevano dalla storia filogenetica umana alcuni comportamenti simili tra uomo e animale, come il comportamento dei neonati, che, senza alcuna esperienza precedente, spiegabile via apprendimento, respirano spontaneamente, si tengono in equilibrio appoggiandosi agli oggetti anche più esili (addirittura a panni stesi) e urlano forte. Nel caso di bambini sordi e ciechi si è constatato che anche essi piangono, ridono, arrossiscono, e controllano la caratteristica mimica dell’imbarazzo. Tutti comportamenti che dunque appartengono all’innato repertorio comportamentale umano. Il confronto mostra inoltre prestazioni cognitive innate, specialmente quelle relative alla mimica delle altre persone, o il fatto che riconosciamo determinati stimoli senza esperienze preliminari (per esempio la lunghezza del naso in rapporto agli occhi – e allora, tanto per dire, il cammello viene considerato presuntuoso, con il “naso all’insù”, perché il suo naso è posto molto in alto rispetto agli occhi). Le conoscenze compa9.  Cfr. R. Dawkins, Das egoistische Gen, Springer, Berlin-Heidelberg-New York 1978. 10.  Cfr. D. Morris, Der nackte Affe, Droemer Knaur, München-Zürich 1968; K. Lorenz, Vergleichende Verhaltensforschung oder Grundlagen der Ethologie, Springer, Wien-New York 1978; I. Eibl-Eibesfeldt, Die Biologie des menschlichen Verhaltens: Grundriss der Humanethologie, Seehamer, Weyarn 1997. 11.  Cfr. R. Dawkins, op. cit.

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rative derivano anche dal piano ontogenetico; così, l’apprendimento delle lingue è molto più facile in una certa precoce fase “plasmabile” che in età adulta. Nelle diverse culture numerosi comportamenti sociali si somigliano; i piccoli vengono per esempio tranquillizzati, vezzeggiati, carezzati e baciati in maniere simili dalle mamme, che parlano ad essi con un tono artificiosamente acuto e facendo cenni con il capo. Il vivente umano è dotato di un potenziale di aggressività e di controllo dell’aggressività, proprio come le scimmie: fissare qualcuno è minaccioso; il reciproco abbracciarsi e mostrare i denti è un’eredità che ci viene dai primati. Le emozioni e i comportamenti elementari legati all’angoscia, alla gioia, alla tristezza, all’amore, all’odio, poi il gioco e la seduzione, i rituali di saluto e di seduta, sono ritenuti dai comparatisti gli elementi ereditari a fondamento delle tradizioni culturali. La disponibilità filogeneticamente innata alla cooperazione si manifesta nei rituali del dono, del saluto, nelle strutture della conformazione sociale, nei sistemi familiari e di parentela, nel ruolo sociale delle feste. Il nepotismo (disposizione a preferire i parenti geneticamente più stretti) viene socio-biologicamente spiegato come disposizione innata, giacché tutti gli esseri viventi cercano di ottimizzare la trasmissione dei propri geni. L’antagonismo per il rango e il dominio nonché i comportamenti di cura e amore sono ancorati nella storia filogenetica e vengono esplorati in quanto pilastri del comportamento sociale umano. Tra l’altro, la disposizione all’obbedienza e alla sottomissione, come anche il desiderio di riconoscimento, l’identificazione con il proprio gruppo mediante distanziazione dai gruppi estranei, le inclinazioni all’inclusione e all’esclusione, l’insofferenza verso il dissidente, ovvero l’inclinazione all’altruismo e alla creazione di contatti amichevoli, appaiono comparativamente elementi di una dotazione filogenetica socialmente caratterizzata. Mentre la biologia evoluzionistica ricerca, nella comparazione uomo-animale, soprattutto le somiglianze, l’antropologia filo-

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sofica mira alla differenza. In quanto teoria moderna, anch’essa svolge una ricerca in campo empirico per individuare momenti differenziali, al fine di ricondurli a una sistemazione categoriale e concettuale adatta specificamente solo all’uomo12. La strategia teorica dell’antropologia filosofica, impostata come una filosofia della natura operante con una propria biologia filosofica comparativa, si mostra al meglio mediante la categoria chiave di Plessner, la “posizionalità eccentrica” (dell’uomo). Questo concetto antropologico si basa fondamentalmente su una comparazione pietra-animale-uomo. Si fa innanzitutto una distinzione tra inorganico e organico, poiché la “cosa vivente” viene contrassegnata, in maniera sobria ma ricca di implicazioni e di possibili correlazioni, come «cosa che realizza confini»13, cioè dotata di una propria gamma fenomenica in quanto costruisce, nell’interscambio con l’ambiente, una sua specifica complessità. Se la pietra termina sul proprio bordo, l’organismo invece proviene dal proprio confine, lo oltrepassa e torna su di sé sempre tramite esso. Ciò consente alla biologia filosofica plessneriana non solo di esplicitare le determinazioni della vita a partire da queste caratteristiche, ma anche di seguire coerentemente i gradi dell’organizzazione vitale. Ridefinendo le cose che realizzano confini come “posizionalità”, dunque come anonime “entità poste” nella natura, egli distingue i gradi del mondo organico, ossia forme aperte (piante) e chiuse (animali), posizionalità acentriche e centriche aventi ciascuna un proprio campo posizionale, o ambiente, laddove le posizionalità centriche, in quanto neuronalmente differen12.  Cfr. J. Fischer, Philosophical Anthropology. A Third Way between Darwinism and Foucaultism, in J. de Mul (a cura di), Plessner’s Philosophical Anthropology. Perspectives and Prospects, Amsterdam University Press, Amsterdam 2014, pp. 41-56. 13.  Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 126 ss.; cfr. H.-P. Krüger (a cura di), Helmuth Plessner. Die Stufen des Organischen und der Mensch, de Gruyter, Berlin 2017.

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ziate in articolazioni sensoriali e motorie, preparano la comprensione dei primati umani. Con il concetto plessneriano di «posizionalità eccentrica»14 si esprime, in via di comparazione contrastiva, la frattura interna alla vita tipica del vivente umano, che assume forma “personale” proprio perché rinvia alle peculiari modalità, necessarie alla sopravvivenza, di superamento di tale discontinuità. Questa frattura della vita è stata interpretata anche come «apertura mondana»15 o «carenza»16. Potremmo dire che con il concetto di posizionalità viene soppesato in modo differente da quello 0,6 o 1,2% di diversità genetica tra uomini e primati, che spesso viene indicato come prova della continuità tra primati, uomo incluso. L’eccentricità della posizionalità esprime certo tale minima diversità genetica, e tuttavia questo minimo produce una novità, sotto ogni rispetto, nella vita. Secondo la ritraduzione che Plessner stesso fa della posizionalità eccentrica, eccentricità significa “distanza del corpo dal corpo”, dunque distanza dalla vita nella vita (qui la differenza decisiva dal principio dualistico cartesiano, che prevede da un lato ragione e linguaggio, dall’altro natura e corpo). Nell’uomo, la storia naturale è una distanziazione dall’ambiente e dalla corporeità naturali, ma una distanziazione nella natura, che nella natura va vissuta. La posizionalità eccentrica caratterizza il vivente che – a differenza di scimpanzé e altri grandi primati – deve condurre la propria vita in natura nel modo della «naturale artificiosità», esso deve cioè inventare artefatti e regolazioni nel modo della «mediata immediatezza» e questo ancora significa che gli impulsi naturali della vita vengono realizzati e rappresentati solo 14.  H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 312 ss. 15.  Cfr. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), in Id., Gesammelte Werke, vol. IX, Späte Schriften, Bouvier, Bonn 1976, pp. 7-71. 16.  Cfr. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), Athäneum, Bonn 1950.

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attraverso la via indiretta dei media, delle istituzioni e degli strumenti artificiali. La vita viene progettata e concretizzata partendo da un «luogo utopico» ossia dal luogo della fantasia17. L’antropologia filosofica chiarisce i complessi fenomeni, «gli specifici monopoli, prestazioni e opere» della forma vivente umana – ossia «linguaggio, coscienza, utensili, armi, idee di giusto e ingiusto, Stato governo, funzione rappresentativa delle arti, mito, religione, scienza, storicità e società»18 – muovendo dalla struttura fondamentale del corpo umano: naturale artificiosità, mediata immediatezza e luogo utopico. La posizione speciale dell’uomo viene caratterizzata non come un aldilà della vita (l’essere dotato di ragione, linguaggio, morale, che ha in aggiunta anche un corpo), ma come una deviazione, una trasformazione della vita, uno iato della vita nella vita, cosicché i monopoli umani si danno solo in riferimento alla corporeità. Grazie a tale confronto antropo-filosofico tra animale e uomo si riescono a ottenere le categorie antropologiche originarie intese come concetti di sovvertimento della sfera vitale. Le categorie antropologiche, quei concetti fondamentali che sarebbero riservati all’uomo, diventano così dei concetti di trasformazione, tali cioè da avere un proprio status intermedio tra le categorie della biosfera e quelle di uno specifico mondo storico, culturale e sociale, cioè le categorie storico-­ermeneutiche, riguardanti gli storicamente mutevoli stili antropologici. Dunque, tutte le pregnanti categorie antropologiche sono concetti ricombinati e divaricati del circolo della vita. L’antropologia filosofica si distingue pertanto paradigmaticamente da una antropologia evoluzionistica di tipo darwiniano,

17.  Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 332 ss. 18.  M. Scheler, Der Mensch im Weltalter des Ausgleichs, in Id., Gesammelte Werke, vol. IX, Bouvier, Bonn 1995, p. 67.

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perché per impostazione ha un programma teorico non gradualista, mirando piuttosto a individuare una posizione speciale, una discontinuità. L’antropologia filosofica dimostra la posizione speciale dell’uomo collocandola fin dall’origine in un intreccio di categorie antropologiche non reciprocamente riducibili19. Esse non caratterizzano gli specifici fenomeni umani come prosecuzione graduale di meccanismi organici (come fa il paradigma evoluzionistico), ma come fenomeni di cesura che in qualche modo sovvertono il campo vivente. I concetti antropologici sono quindi sempre anche concetti di delimitazione rispetto all’animale (cosa che peraltro smorza l’antropomorfizzazione dell’animale), concetti della “posizione speciale” del vivente umano, di ciò che è antropicamente specifico. Volendo variare la nozione di “posizione speciale” potremmo dire: concetti riguardanti la nostra peculiare sensibilità, espressività, temporalità, interattività, motilità, mortalità. Gli animali maturano fasi di sviluppo essenziali dell’organismo e del cervello già nell’utero, mentre gli uomini sottostanno alla «primavera extra-uterina»20, arrivano cioè all’utero sociale un anno prima dei corrispondenti primati. Gli animali sono metabolicamen-

19.  Da questo punto di vista, Plessner ha mostrato un processo di apprendimento, giacché mentre nei Gradi del mondo organico (1928) non ha riconosciuto né descritto alcuna caratterizzazione corporea legata all’eccentricità, invece nel grande trattato La questione della natura umana (1964), con un chiaro progresso cognitivo, ha riconosciuto e menzionato la differenza animale-uomo, specialmente quella tra primati e uomo, secondo specifiche disposizioni corporee: la stazione eretta, la plastica energia pulsionale, l’articolazione del linguaggio come organo virtuale dovuta alla cooperazione dei diversi sensi corporei, la distanza oggettivante dello raggio visivo, la risonanza nel cantare, fare musica e danzare, la funzione di incorporazione del ruolo e di altre forme di rappresentazione, il riso e il pianto come posture e gesti espressivi della posizionalità eccentrica, della personalità, dello spirito soggettivo (cfr. H. Plessner, Conditio humana, Neske, Pfullingen 1964). 20.  Cfr. A. Portmann, Zoologie und das neue Bild des Menschen. Biologische Fragmente zu einer Lehre vom Menschen, Rowohlt, Reinbek-Hamburg 1956.

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te attivi ma non lavorano; vedono ma non conoscono una “immagine” prodotta; emettono suoni e ascoltano, ma non fanno musica; hanno avversari ma non nemici, sono aggressivi ma non criminali; si muovono con virtuosismo ma non danzano; comunicano ma non hanno il linguaggio; hanno un decorso vitale ma non una bio-grafia, cioè una specifica temporalità; si bloccano e s’irrigidiscono ma non cadono preda del riso e del pianto riguardo a se stessi e agli altri21; finiscono ma non muoiono e non seppelliscono le proprie spoglie22. Precisamente in questo ambito si muovono le ricerche comparative di Michael Tomasello tra giovani primati e bambini, scoprendo le differenze dei “gesti deittici”, differenze chiave per l’azione corporea umana con il suo carico socioculturale orientato all’apprendimento cumulativo di tradizioni e all’intenzionalità collettiva23. Gli scimpanzé attuano il loro comportamento esibendosi reciprocamente, ma non indicano oggetti esterni, non sorreggono oggetti per mostrarli, insomma non conoscono la deixis, l’apprendimento di istruzioni; gli scimpanzé giovani hanno un apprendimento per emulazione, quando si tratta di fare uso di strumenti, ma non un apprendimento per imitazione, grazie a cui ci si immedesima nell’individuazione e perseguimento di obiettivi altrui, per poi riadattarli su obiettivi propri24. Riassumendo il confronto contrastivo uomo-­ 21.  Cfr. H. Plessner, Lachen und Weinen. Eine Untersuchung nach den Grenzen menschlichen Verhaltens (1941), Lehnen-Francke, München 1950. 22.  Cfr. H. Jonas, Werkzeug, Bild und Grab, in Id., Philosophische Untersuchungen und metaphysische Vermutungen, Insel, Frankfurt a.M.-Leipzig 1992, pp. 34-49. 23.  Cfr. M. Tomasello, “Why Dont’ Apes Point?”, in N.J. Enfield - S.C. Levinson (a cura di), Roots of Human Sociality. Culture, Cognition and Interaction, Berg, Oxford 2006, pp. 506-524; M. Tomasello, Die kulturelle Entwicklung des menschlichen Denkens. Zur Evolution der Kognition, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002. 24.  M. Tomasello, Die kulturelle Entwicklung, cit., p. 21.

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animale25, si possono distinguere quattro meccanismi di «situazioni formatrici di umanità»26 non reciprocamente riducibili: il meccanismo di insulazione per la formazione inclusiva di gruppi, da intendersi come creazione di un clima condizionato adatto all’evoluzione socioculturale; il meccanismo della “disattivazione corporea” [Körperausschaltung] mediante l’interposizione di artefatti tra uomo e natura; il meccanismo della neotenia, ossia l’infantilizzazione e lo sviluppo tardivo progressivo delle forme fisiche degli umani (nudità della pelle ecc.); il meccanismo della trasposizione simbolica (soprattutto nel linguaggio e nella sua base metaforica: dal concreto all’astratto, dal proprio all’estraneo, dall’estraneo al proprio).

2.2. Il confronto uomo-macchina Diversamente da quella del XX secolo, la moderna antropologia filosofica dovrà avviare una comparazione sistematica tra uomo e macchina. La legge antropologica della “naturale artificiosità” pone nella natura inorganica, con l’azione umana, una corolla di artefatti materiali tutt’intorno alla posizione vitale della hominitas – con costruzioni di acciaio, dispositivi abitativi, apparecchi metallici, utensili, catapulte, e insomma l’intero apparato artificiale che esonera, sostituisce, supera alcune particolari funzioni corporee, che dunque “disattiva” e sostituisce la dimensione organica nel e attorno all’uomo. Sul piano percettivo immediato emerge innanzitutto l’aspetto strumentale in quanto la macchina è «un’opera artificiale che

25.  D. Claessens, Das Konkrete und das Abstrakte. Soziologische Skizzen zur Anthropologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980; P. Sloterdijk, Das Menschentreibhaus. Stichworte zur historischen und prophetischen Anthropologie. Vier große Vorlesungen, VDG, Weimar 2001. 26.  D. Claessens, Das Konkrete und das Abstrakte, cit., p. 175.

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si può usare per ottenere un certo vantaggio»27. Tre sono i fattori costitutivi della macchina: 1) la techne/ars; la macchina è qualcosa d’inventato grazie a un inventore; 2) il meccanismo; la macchina è una modalità funzionale con parti mobili, un apparato con decorsi ciclici innestato su determinati materiali; 3) l’effetto; la macchina assume una determinata funzione, produce risultati alleggerendo il lavoro e assicurando un’utilità per il vivente umano28. Sul piano percettivo di sfondo vi è invece un’intima ambivalenza di queste macchine frutto dell’ingegno umano: prolungamenti e strumenti utilitari di umane intenzioni, esse mostrano però una certa autonomia, per esempio quando in un ingranaggio il movimento di un elemento provoca quello di altri, in modo automatico, senza interventi esterni. Il fenomeno della separabilità dell’artefatto dalla sua origine è visibile in tutte le macchine paradigmatiche della storia umana. Nei mulini, poi dal Medioevo negli impulsi degli orologi, nelle macchine a vapore capaci di trasformare l’energia, e infine nelle macchine ricorsive per elaborare dati. Da quando la società, nel XX secolo, si è identificata come “società industriale”, l’imponente campo delle macchine retroattive compare dinnanzi, sotto, sopra l’essere umano, in un’illimitata progressione che conduce sino all’intelligenza artificiale di computer e robot, i quali simulano, e in parte già sostituiscono, pensiero e comportamento umani, conquistandosi una loro propria dinamica e dignità.

27.  J.H. Zedler, Universallexikon (1732), cit. in W. Schmidt-Biggemann, voce Maschine, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V, Schwabe, Basel 1980, p. 790. 28.  Cfr. W. Schmidt-Biggemann, voce Maschine, cit., pp. 790-802; B. Remmele, voce Maschine, in Wörterbuch der philosophischen Metaphern, a cura di R. Konersmann, WBG, Darmstadt 2007, pp. 224-236.

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Questi sviluppi s’intravedono già nelle teorie della tecnica del XIX secolo29. L’antropologia filosofica ha fin dapprincipio preso in considerazione tale a priori tecnico, il “predominio oggettivo” causato dalla presenza nella vita umana della tecnologia e dagli apparati meccanici. Paul Alsberg aveva scorto nell’utensile il paradigma della “disattivazione” del corpo vivente a favore di un artefatto30. Lo stesso Plessner ha rimarcato, in un saggio del 1924 intitolato L’utopia nella macchina, «la propulsiva autoriproduzione di un futuro sempre nuovo e che sempre di nuovo si supera» da parte della macchina, e ha parlato di una «epoca configurata dalla logica della macchina»31. Gehlen, in maniera più pregnante di Plessner, il cui focus non stava nell’antropologia della tecnica, ha descritto la tecnica dal punto di vista dell’antropologia filosofica, sulla scorta della filosofia della tecnica di Alfred Kapp. Gli artefatti formano un proprio mondo dello spirito oggettivato (non oggettivo), il quale, grazie alla funzione di esonero degli organi, cioè del principio del superamento dell’organo interno alla vita organica stessa, si colloca nella natura a guisa di specifico mondo tecnomorfo32. Sebbene tali oggettivazioni siano inizialmente solo esoneri, compensazioni e superamenti parziali della sfera puramente vitale, già con l’invenzione della scrittura compare l’esonero,

29.  Cfr. S. Fohler, Techniktheorien. Der Platz der Dinge in der Welt des Menschen, Fink, München 2003; E. Oldemeyer, Leben und Technik. Lebensphilosophische Positionen von Nietzsche bis Plessner, Fink, München 2007. 30.  Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lösung, Sybillen, Dresden 1922. 31.  H. Plessner, Die Utopie in der Maschine (1924), in Id., Gesammelte Schriften, vol. X, Schriften zur Soziologie und Sozialphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985, pp. 31-40. 32.  Cfr. A. Gehlen, Die Technik in der Sichtweise der philosophischen Anthropologie, in Id., Anthropologische Forschung. Zur Selbstentdeckung und Selbstbegegnung des Menschen, Rowohlt, Reinbek-Hamburg 1961.

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la sostituzione e infine il superamento dell’organo centrale intellettivo, per esempio rispetto alla capacità d’immagazzinamento e durata. Gehlen parla nell’insieme di un «processo eccentrico della tecnicizzazione moderna». L’utopia della macchina conduce dunque, attraverso la sostituzione parziale, all’esonero, sostituzione e superamento dell’intero organismo. Nell’ambito delle scienze sociali e culturali, sono le più recenti teorie degli artefatti e della materialità a spingere l’antropologia filosofica verso il decisivo passo dell’inclusione della comparazione uomo-macchina. Se al centro della actor-­network theory33 non c’è più solo la relazione intersoggettiva tra uomini bensì vi rientrano come “attanti” anche le cose tecniche, quali chiavi, pistole, computer portatili, case, automobili, che s’immettono reticolarmente in connessioni pratiche assieme agli attori umani e ad altri esseri viventi, allora è del tutto consequenziale il passo che cerca di rideterminare la posizione dell’uomo in un simile campo. Le nuove teorie degli artefatti nel mondo della vita costringono l’antropologia filosofica, in quanto riflessione metodica sull’essere e la struttura dell’uomo, a stabilire una nuova serie comparativa incentrata sulla macchina. Accanto alle domande sulla relazione pratica dell’uomo con le “sue” macchine, urge istituire un confronto anche teorico proprio sulla natura generale di questa interazione. Mentre l’uomo guarda irritato e affascinato alla macchina, mentre scruta il loro autonomo funzionamento, emerge il fatto che è anche nell’analogia con la macchina che viene riflessivamente a determinarsi l’identità umana. Anche essa diventa organon dell’uomo, consentendogli di approfondire il proprio

33.  Cfr. B. Latour, Eine neue Soziologie für eine neue Gesellschaft. Einführung in die Akteur-Netzwerk-Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007, pp. 31-40.

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auto-­chiarimento. Nel XXI secolo è evidentemente il confronto dell’uomo con le macchine in rete agenti e pensanti che s’impone. L’abbiamo chiamata comparazione diagonale uomo-­ macchina, accanto a quella verticale con gli animali e a quello laterale tra uomini. La comparazione segue una linea di congiunzione tra due angoli non contigui. L’uomo situato in un angolo si vede incitato o costretto a una comparazione per somiglianze e differenze con oggettivazioni da lui inventate o innescate, che si trovano sull’angolo opposto, in una posizione obliquamente frontale, resasi autonoma e quasi distaccata. Si comincia con le somiglianze. In questo caso, la macchina serve come modello antropologico. Sotto c’è l’intuizione risalente alla prima modernità che per una descrizione dell’uomo siano istruttive nonché sufficienti una fisiologia e psicologia meccanicistica. Il primo trasferimento di qualità macchiniche sull’uomo si realizza nell’Illuminismo materialistico, sotto l’influenza del meccanismo degli orologi e poi, da Pascal e Leibniz, delle macchine da calcolo34. In analogia con la molla impiantata in tale meccanismo, cioè una parte metallica elastica spiraliforme che deve esercitare una pressione sul cronometro, si riconoscono gli “impulsi” dell’anima corporea da cui il comportamento sembra ogni volta guidato. Analogie vi sono altresì tra macchina e sfera socio-politica; i movimenti regolari dello stato e della sua amministrazione (già in Hobbes) possono essere costruiti e resi operanti alla maniera di meccanismi automatici. Le opere di La Mettrie, Holbach ed Helvetius su L’homme machine35 sono gli antesignani di tale confronto analogico. È però nel XX secolo, con la cibernetica, con le macchine che operano mediante retroazione, che il procedimento comparativo viene 34.  Cfr. A. Baruzzi, Menschen und Maschine. Das Denken sub specie machinae, Fink, München 1973. 35.  J. La Mettrie, Der Mensch eine Maschine (1748), LSR-Verlag, Nürnberg 1985.

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ripreso e rinnovato. La scoperta del feedback, ossia della costante implementazione dei risultati via via ottenuti all’interno del circolo operativo, porta alla formulazione di principi generali dei processi di regolazione. Titoli come Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine36 oppure Uomo e Automa. Sull’intelligenza umana e macchinica37, delineano il nuovo programma comparativo, l’antropologia cibernetica38. In questo contesto compare l’intrigante domanda: «le macchine hanno una coscienza?»39. La cibernetica come teoria complessiva della macchina, «teoria delle possibili modalità comportamentali delle macchine»40, diventa istruttiva per capire l’uomo, in quanto le macchine cibernetiche sono macchine capaci di retroagire sul sistema, e nelle forme più avanzate sono capaci di adattamenti cibernetici, «sono cioè in grado non solo di adattarsi a condizioni ambientali modificate ma di migliorare le proprie prestazioni sino a raggiungere il massimo funzionamento possibile»41. Così, anche le società umane, nell’intero come nelle parti, sono ricostruibili secondo il modello delle macchine autoregolantesi42.

36.  N. Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, M.I.T. Press, Cambridge 1948; Id., Kybernetik. Regelung und Nachrichtenübertragung in Lebewesen und Maschine, Rowohlt, Reinbek-­Hamburg 1968. 37.  K. Steinbuch, Automat und Mensch. Über menschliche und maschinelle Intelligenz, Springer, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1961. 38.  S. Rieger, Kybernetische Anthropologie. Eine Geschichte der Virtualität, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2003. 39.  Cfr. G. Günther, Das Bewusstsein der Maschinen. Eine Metaphysik der Kybernetik, Agis, Krefeld-Baden-Baden 1963. 40.  Cfr. G. Klaus, Kybernetik in philosophischer Sicht, Dietz, Berlin 1961. 41.  G. Klaus, Wörterbuch der Kybernetik, Fischer, Frankfurt a.M. 1971, p. 329. 42.  Cfr. N. Luhmann, Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984.

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Un nuovo livello nella comparazione uomo-macchina si ottiene dalla ricerca sulla intelligenza artificiale43, dall’informatica, la scienza della sistematica rappresentazione, conservazione, elaborazione e trasferimento di informazione, grazie in particolare alle macchine digitali. Nell’ambito della simulazione metodica e tecnica dei processi cognitivi umani mediante gli algoritmi dei programmi da computer (e dei robot), si accresce la comprensione del funzionamento del nostro potenziale operativo, cioè della comprensione linguistica, specie nel tradurre, della deduzione logica, della ricerca d’informazione consapevole, della visione delle immagini, del controllo corporeo, delle scelte comportamentali. Se sia percepibile la differenza tra intelligenza umana e artificiale è una domanda chiave almeno dalla metà del XX secolo, da quando Alan Turing, con il suo test (sviluppato nel 1950), ha cercato di dare una risposta netta. Nella sua forma standard, il test prevede che un uomo scambi informazioni con un computer. In base alle risposte, C (un uomo) deve decidere se di volta in volta A o B è un computer o un uomo. All’inverso, A e B cercano di persuadere C, con le loro risposte, che anch’essi sono uomini. Se C non nota la differenza, allora uomo e macchina hanno la stessa intelligenza. Un passo ulteriore lo fa riflessione sulla “singolarità tecnologica” delle future macchine digitali, le quali, accrescendo le loro capacità di calcolo mediante una rapidissima auto-ottimizzazione, raggiungeranno un livello di “super-intelligenza” cui l’intelligenza naturale umana non può tener dietro44. Si tratta della prospettiva trans- e post-umanistica, secondo cui la macchina ultra-intelligente, costruita sulla base delle umane capacità, consentirà di costruire macchine

43.  M. Lenzen, Künstliche Intelligenz. Was sie kann und was uns erwartet, Beck, München 2018. 44.  R. Kurzweil, Das Zeitalter der künstlichen Intelligenz, Hanser, München-­ Wien 1993.

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ancora migliori, fino a lasciarsi dietro le spalle le mere potenzialità umane45. Fin qui la comparazione che mira alla somiglianza. C’è invece una comparazione che mira alla differenza, a una differenza qualitativa che contrassegna durevolmente l’uomo. Se preso sul serio, giocoforza questo approccio è e diventerà ancor più un ambito dell’antropologia filosofica. Nel confronto con le macchine, specie quelle digitali, possono emergere delle peculiarità umane non ben visibili nel confronto uomo-animale. Günther Anders, con sguardo pionieristico e originale, ha introdotto nell’antropologia filosofica una contrastiva comparazione diagonale uomo-macchina46. Di fronte alla macchina, l’uomo prova una «vergogna prometeica»; egli si vergogna di non avere un corpo perfetto come quello delle macchine. Anders attesta questa «vergogna che si prova di fronte alla umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti noi stessi» riportando una scena nella quale un suo conoscente va a una mostra tecnologica dove si spiega come funzionano le macchine. Non appena uno dei complicatissimi pezzi veniva messo in azione, abbassava gli occhi e ammutoliva. Ancora più curioso il fatto che nascondeva le mani dietro la schiena, come se si vergognasse di aver portato questi arnesi pesanti, goffi e antiquati, all’alto cospetto di apparecchi funzionanti con tanta precisione e raffinatezza.47

Anders prosegue: «doversi presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella sua goffaggine di essere carne, nella sua 45.  H. Moravec, Computer übernehmen die Macht. Vom Siegeszug der künstlichen Intelligenz, Hoffmann und Campe, Hamburg 1999. 46.  G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. I, Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1956; tr. it. di L. Dallapiccola, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nella seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1963. 47.  Ivi, p. 31.

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imprecisione di creatura, gli era realmente insopportabile, si vergognava davvero». Anders interpreta la vergogna che s’impossessa del suo conoscente in rapporto a una differenza decisiva: egli si vergogna «di essere divenuto invece di essere stato fatto»48 – cioè di dovere la propria esistenza a un antiquato atto vitale di procreazione e nascita invece che a una invenzione razionale e calcolata. Paragonandosi alla meravigliosa macchina, l’uomo si vergogna del proprio corpo (e della mente, così potremmo completare il discorso in riferimento alle macchine digitali), e allora sente il proprio «essere antiquato»: si ritrova come «il nano di corte del suo proprio parco di macchine»49. Decisivo, in questa scena chiave della comparazione uomomacchina, è che di fronte alla macchina l’uomo si ritrova in uno stato sentimentale [Gefühl], cosa che di per sé già segnala la differenza tra lui ed essa. La vergogna è invero la quintessenza della vita passiva dell’uomo, nella misura in cui esso qui, come in tutte gli altri stati sentimentali, è investito da certe atmosfere che s’insediano e lo invadono senza che lui faccia e pensi nulla, e che riguardano la prospettiva del suo vissuto, da lui intimamente avvertito in tutto il suo corpo50. È in questo contesto dell’indagine sulla differenza uomo-­macchina che intervengono la fenomenologia della corporeità, la “filosofia dello spirito” con la discussione sui qualia, la teoria dell’embodiment, cercando ciascuna a suo modo la differenza qualitativa dagli artefatti. In controtendenza rispetto alle scienze neuronali e cognitive, alcuni filoni della filosofia della mente argomentano a fa48.  Ivi, p. 32. 49.  Ibidem. 50.  Cfr. M. Scheler, Über Scham und Schamgefühl, in Id., Gesammelte Werke, vol. X/1, Schriften aus dem Nachlaß. Zur Ethik und Erkenntnislehre, a cura di Ma. Scheler, Francke, Bern 1957, pp. 65-154; H. Schmitz, Der unerschöpfliche Gegenstand. Grundzüge der Philosophie, Bouvier, Bonn 1990.

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vore dei qualia nell’esistenza umana (e animale), ossia della immediata evidenza interna dell’esperienza percettiva e dei giudizi di gusto, i quali sembrano riservati ai soli esseri viventi (per esempio l’esperienza vissuta del “rosso” nella percezione di oggetti rossi). Non riconducibili a processi neuronali e digitali, le qualità individuali degli stati mentali caratterizzano la coscienza fenomenica, nella quale il soggettivo contenuto vissuto appare: com’è per qualcuno percepire questo e quest’altro, trovarsi in questa e quest’altra situazione, preferire o fare questo e quest’altro51. I qualia o qualità esperienziali sono accessibili esistenzialmente e comprensibili linguisticamente, sebbene non del tutto comunicabili; in ogni caso, hanno qualità affatto distinte da quelle della materia organica o digitale. Seguendo la domanda differenziale «cosa non possono fare i computer?»52, la comparazione uomo-macchina s’imbatte quindi nella dimensione dell’incarnazione, dell’incorporarsi, l’embodiment di tutta la percezione e cognizione umana; in questa prospettiva, la costituzione della coscienza e della auto-coscienza richiede sempre un corpo, sulla cui coordinazione senso-motoria si costruisce il mondo affettivo e cognitivo, sempre “situato”, e il contatto con se stessi e gli altri53. Nella dimensione cognitiva e psicofisica dell’uomo gli stati coscienti e incoscienti si imprimono nel corpo (pre-linguisticamente sotto forma di posture, mimica, gesti, atteggiamenti, 51.  Cfr. Th. Nagel, What is it like to be a Bat?, in «Philosophical Revue», LXXXIII, 1974, pp. 435-450. 52.  Cfr. anche la critica al test di Turing, J. Searle, Geist, Hirn und Wissenschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984. 53.  Cfr. M. Merleau-Ponty, Phänomenologie der Wahrnehmung, de Gruyter, Berlin 1966; H. Dreyfuß - S. Dreyfuß, Künstliche Intelligenz. Von den Grenzen der Denkmaschine und dem Wert der Intuition, Rowohlt, Reinbek-­ Hamburg 1987.

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intonazioni), e viceversa, gli atteggiamenti corporei assunti di volta in volta prefigurano gli stati di coscienza (giudizi e prese di posizione, per esempio): the body shapes the mind54. Attraverso l’imitazione sensibile e incorporante del comportamento e degli atteggiamenti corporei altrui, i modelli socioculturali del mondo vitale trapassano nei soggetti. In questa ricerca differenziale, l’antropologia filosofica s’incontra con indirizzi affini come la filosofia dell’esistenza (Heidegger), la fenomenologia del corpo (Merleau-Ponty), l’interazionismo simbolico (Mead), la teoria dell’azione e della personalità (Vygotskij). Diversamente dalle macchine “fatte”, gli uomini sono nel e con i loro corpi, i quali nascono, mutano, maturano in seno al mondo organico; sono situati e immersi in un mondo della vita, dove le loro operazioni cognitive e affettive si svolgono in una risonanza inter-attiva e inter-passiva. Il loro rapporto con sé, con il mondo e la società è linguisticamente orientato, soprattutto mediante metafore dagli incerti contorni, nelle quali anche i concetti chiari e distinti sono immessi. Nella differenziazione uomo-macchina si perviene sostanzialmente a una ricomparsa delle qualità del vivente, al fine di descrivere adeguatamente la posizione speciale dell’uomo, la quale è sintetizzabile in tre formule: the mind is inherently embodied; thought is mostly inconscious; abstract concepts are mostly metaphorical55.

54.  Cfr. S. Gallagher, How the Body Shapes the Mind, Oxford University Press, New York 2005; R. Pfeifer - J.C. Bongard, How the Body Shapes the Way We Think. A New View of Intelligence, M.I.T. Press, Cambridge 2006. 55.  Jos de Mul, con i suoi concetti di artificial excentricity, artificial polyexcentricity ovvero polycentricity, ha svolto un lavoro pionieristico per l’antropologia filosofica riguardo al confronto uomo-macchina (cfr. Plessner’s Philosophical Anthropology, cit.). Cfr. anche G. Lakoff - M. Johnson, Philosophy In The Flesh. The Embodied Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999.

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2.3. La comparazione uomo-uomo Indipendente dalle altre due serie comparative, a loro volta reciprocamente indipendenti, ossia quella classica uomo-animale e quella nuova uomo-macchina, anche la terza uomo-uomo resta una provocazione decisiva per la futura determinazione antropologica. Tale confronto ha luogo nella vita, nella misura in cui l’uomo scopre ogni volta a fianco a sé dei vicini sempre diversi da come “si” è – sono sempre alteritari [alteritär]; l’altro sesso, le altre generazioni nelle rispettive età, gli uomini malati diversi rispetto a quelli sani, quelli diversi per rango o per mestiere, ad esempio l’artigiano, il commerciante, il soldato, il prete, con i loro diversi stili di vita e pensiero; e poi ancora, gli altri gruppi etnici, con i loro usi, costumi e linguaggi che appaiono a tutta prima incomprensibili. È qui che interviene la comparazione laterale, che può focalizzarsi sulle differenze oppure sulle somiglianze. Per questo tipo di comparatistica non sono competenti la biologia e le scienze tecniche, compresa l’informatica, ma ci si ispira e ci si fa guidare intellettualmente, per cogliere il simile e il dissimile nelle forme di vita, alle scienze storiche, all’etnologia, alle scienze sociali e culturali. È dunque preminente il confronto tra culture, operazione alla quale dal XIX secolo si dedicano l’etnologia e le scienze storiche entro un patrimonio di circa 4000 unità culturali, che appaiono ciascuna a se stante nel loro rispettivo modo internamente coordinato di configurare la vita e interpretare il mondo. Dapprima risaltano le differenze, poi le comunanze possibili. Nel modellizzare le differenti culture, all’etnologo e allo storico si mostrano le analogie dell’umana esistenza nelle culture del globo. Al ruolo di «universali» o di «congruenze interculturali»56 si

56.  Cfr. C. Antweiler, Was ist den Menschen gemeinsam? Über Kultur und Kulturen, WBG, Darmstadt 2009.

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candidano per esempio, fin da Georg Peter Murdock, la divisione del lavoro, l’assistenza al parto, il nucleo familiare di base costituito almeno da madre e sorella con i loro figli, i rituali di corteggiamento, le forme di saluto che includono segni di rispetto e di umiltà, le regole di seduta e distribuzione spaziale, il regalare e lo scambio di doni, le limitazioni sessuali, il gioco, la presenza costante di una lingua. Se si approfondisce la ricerca di analogie, compaiono dunque alcuni universali degli uomini nel gran mare delle loro differenze, per esempio il rapporto regolato con la nudità e quindi con la vergogna; una qualche forma di abbigliamento, oppure un rivestimento, un tatuaggio sul corpo, serve da contrassegno per regolare l’esposizione allo sguardo. Anche la regolazione della sessualità è universale; sebbene abbia numerose varianti, l’esecuzione dell’atto sessuale si svolge sempre in luoghi non pubblici. Uno degli universali più rilevanti, in cui si imbattono gli etnologi, è il divieto dell’incesto57 unito alla prescrizione dell’esogamia. Tutte le culture evitano rapporti sessuali e accoppiamenti tra consanguinei, delineando il matrimonio come forma sistematica di scambio tra gruppi sociali. Accanto all’originario tabù dell’incesto tra genitori e figli vi è invece una certa relatività culturale nello stabilire con quali parenti non ci deve essere accoppiamento sessuale; quello che però più conta, è che in questo modo si rende possibile lo scambio reciproco e la cooperazione tra comunità allargate, che si estendono al di là del proprio gruppo di discendenza. Anche nella comparazione delle circa 7000 lingue si scoprono degli universali (strutture soggetto-oggetto nella costruzione della frase; modulazione dell’espressione secondo altezza, ritmo, ecc.). Sono tutti questi universali a consentire di capire in che misura gli uomini più diversi, superando notevoli

57.  Cfr. C. Lévi-Strauss, Die elementaren Strukturen der Verwandtschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981.

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differenze e limiti culturali, possono entrare in comunicazione e stabilire concretamente dei contatti. Se ora si volge lo sguardo alla ricerca della differenza, viene fuori un altro risultato. A questo procedimento, che mette l’accento sulla differenza per capire la specificità dell’uomo, è interessata non solo la diversity-research ma anche l’antropologia filosofica. Invero, già Plessner, valorizzando l’approccio storicistico di Dilthey, ha perseguito il progetto di una comparazione laterale delle forme di vita note per via storica ed etnologica: una Antropologia della visione storica del mondo (1931), come recita il sottotitolo del suo scritto Potere e natura umana, dove si formula il “principio di imperscrutabilità” dell’uomo come conseguenza della sua illimitata differenziazione. Più produttivo ancora, per la sistematizzazione della comparazione laterale mirata alle differenze, è il procedimento di Max Scheler, che nel testo L’uomo nell’epoca del livellamento (1926)58 amplia il confronto culturale individuando diversi assi di differenziazione in cui l’“umano” appare di volta in volta differente e si rende esperibile come tensione tra poli alteritari. Tra gli assi differenziali reciprocamente irriducibili troviamo le cerchie culturali, le razze, le disposizioni psichiche di donna e uomo, dunque la differenza sessuale, e poi quella tra vecchi e giovani, generazioni e classi sociali. Seguendo Scheler si direbbe che una determinazione e riflessione antropologica si presenta diversa a seconda dell’etnia, del linguaggio, della posizione sessuale, generazionale, sociale. Per una donna che in linea di principio deve fare i conti con la possibilità di ospitare una vita in divenire nel suo corpo, l’“essenza” e la “struttura” umana si presentano diversamente, in alterità rispetto a quella dell’uomo. L’esibizione scheleriana della pluralità di assi differenziali eterogenei potrebbe essere supportata dal divieto 58.  M. Scheler, Der Mensch im Weltalter, cit.

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di discriminazione oggi costituzionalmente protetto. Le varie leggi anti-discriminazione, dunque i divieti imposti all’azione dello Stato e dei cittadini al fine di non svantaggiare gli uomini per il loro genere sessuale, la loro religione, la loro classe sociale o etnica, quindi per il colore della pelle o ancora per l’età, sono invero indizi di alterità non reciprocamente riducibili, nelle quali di fatto gli uomini si trovano e con le quali ciascuno si manifesta all’altro. Il divieto giuridico di trattare gli uomini in modo diverso a causa di determinate differenze rinvia al dato di fatto che vi sono posizioni di vita e di vissuto eterogenee, che vi è un’alterità di fondo nell’essere uomo. Potremmo ancora aggiungere l’asse differenziale della “forme di vita” entro i sistemi parziali dello spirito obiettivo59, delineati dallo scolaro di Dilthey, Eduard Spranger, poco prima di Scheler60: la differenziazione in uomini teoretici, economici, sociali, solidali, politici, potenti, estetici, religiosi. Questa differenziazione ermeneutico-antropologica in tipi umani a seconda delle loro sfere di attività corrisponde al “politeismo dei valori” di Weber e ritorna in certo modo anche nella tesi di Luhmann della differenziazione funzionale del mondo della vita umano in sistemi parziali quali la politica, l’economia, la scienza, l’arte, la morale, la religione – sistemi socio-culturali che, mediante l’identificazione di ruoli lavorativi e specifici tratti affettivi e cognitivi loro connessi, evocano e connotano tipi umani diversi, ovvero le forme di vita sprangeriane. Nel weberiano politeismo dei valori come anche nella distinzione sprangeriana di “forme di vita” già si delineano le logiche specifiche ed effettive della differenziazione funzionale in 59.  Cfr. J. Fischer, Soziologie aus der Perspektive der Philosophischen Anthropologie, in M. Corsten - M. Kauppert (a cura di), Der Mensch – nach Rücksprache mit der Soziologie, Campus, Frankfurt a.M. 2013, pp. 33-60. 60.  E. Spranger, Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Niemeyer, Halle (Saale) 19212.

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concreti contesti sociali, dunque una differenziazione secondo specifici codici, strumenti comunicativi e giudizi di valore. Sulla base delle conoscenze e delle esperienze sociali e culturali del XX secolo, occorre dunque raffinare e rinnovare la comparazione uomo-uomo nell’antropologia filosofica, allargando il confronto interculturale con tutti gli assi differenziali entro cui l’uomo si manifesta. Abbiamo allora: uomini di diversa generazione, sesso, stato di salute e malattia, “deboli” (portatori di handicap) e “forti”, di diverse classi sociali, etnie, lingue, culture; tutti funzionalmente differenziati secondo determinati ruoli identitari e forme di vita. Codeste differenze reali serbano ciascuna in sé, per il fatto stesso della loro differenziazione, rapporti di forza diseguali e quindi potenziali conflitti e guerre. Abbiamo allora il conflitto tra generazioni (giovani, adulti, anziani), sessi, deboli e forti (sani e malati), classi e ambienti; abbiamo confronti tra popoli, etnie, nazioni, sistemi parziali, a prescindere se il conflitto assuma forma linguistica, competitiva, giuridica, politica, armata. In ciascun asse differenziale vi è un potenziale identitario ma anche conflittuale di lotta per il potere e il predominio all’interno del rispettivo ambito. Resta indeciso e dibattuto a quale asse vada dato il primato, quale abbia una posizione privilegiata nella vita umana. Di fronte a tali eterogenei, irriducibili, assi differenziali, l’essenza e la struttura dell’uomo restano per l’antropologia filosofica una “domanda aperta”61. Plessner giunge alla conclusione che nella comparazione differenziale gli uomini si manifestano

61.  Cfr. H. Plessner, Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht, in Id., Gesammelte Schriften, vol. V, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981; tr. it. di B. Accarino, Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo, Manifestolibri, Roma 2006.

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reciprocamente secondo il “principio di imperscrutabilità”62. Come homo absconditus63 l’uomo è la “potenza” sottraentesi a ogni fissazione: Con il principio per cui l’imperscrutabilità viene assunta in modo vincolante per il sapere, vengono alla luce i primi tratti della situazione della vita umana. L’uomo – in questa universalità rischiosamente proiettata sull’umano […] – si trova, in quanto potere, necessariamente in lotta per il potere, vale a dire nel contrasto di familiarità ed estraneità, di amico e nemico.64

Nel potenziale conflittuale dei diversi assi e tra di essi «si radica il Politico come costante della situazione umana». Ecco perché nella comparazione uomo-uomo l’antropologia filosofica scopre «la politica come necessità che scaturisce in quanto tale dalla costituzione fondamentale dell’umano, quella di vivere in una condizione del pro e contro e di delimitare ed affermare una zona propria contro una zona estranea»65.

3. L’antropologia filosofica come triangolazione delle comparazioni I tre procedimenti comparativi animale-uomo, macchina-uomo, uomo-uomo, hanno il loro luogo di elezione negli attua-

62.  Su questo principio si veda soprattutto: M. Wunsch, Fragen nach dem Menschen. Philosophische Anthropologie, Daseinsontologie und Kulturphilosophie, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014; V. Schürmann, Souveränität als Lebensform. Plessners urbane Philosophie der Moderne, Fink, Paderborn 2014. 63.  H. Plessner, Homo absconditus, in Id., Gesammelte Schriften, vol. VIII, Conditio humana, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983. 64.  H. Plessner, Potere e natura umana, cit., p. 101. 65.  Ivi, p. 104.

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li mondi vitali socioculturali; si tratta di pratiche quotidiane a carattere cognitivo e affettivo nelle quali gli uomini, confrontandosi con gli animali, con le macchine e con forme antropo­ logiche di vita “altre”, segnalano ciò che fa uomo l’uomo. L’analisi propedeutica qui svolta auspica che l’antropologia filosofica renda metodico il procedimento comparativo, proprio in quanto filosofica. Come filosofia, l’antropologia filosofica è l’esigenza di mostrare l’unità del differente nella sua differenza66. Perciò è il progetto epistemologico che mira a rendere metodico e sistematico l’approccio comparativo verticale, diagonale e laterale. Non è arbitrario il fatto che vi siano tre distinte operazioni comparative. Si può vedere la fondazione della possibilità di ciascuna di esse nelle moderne ontologie, che distinguono tre aspetti irriducibili dello spirito (Nicolai Hartmann) o tre irriducibili mondi (Karl Popper). Seguendo la teoria di Hartmann dell’essere spirituale67, dove si distingue uno spirito soggettivo da uno oggettivo, e poi si distinguono ancora entrambi dallo spirito oggettivato, potremmo dire che la serie comparativa animale-uomo si concentra sullo spirito soggettivo, e perciò qui il ruolo decisivo lo gioca il concetto di persona; la serie comparativa macchina-uomo si concentra sullo spirito obiettivato, cioè per così dire sulla materia inorganica che si rende spirito attraverso le invenzioni e aggirando lo strato vitale; la serie comparativa uomo-uomo si concentra sullo spi-

66.  Pertanto l’antropologia filosofica non può risolversi in un’antropologia cibernetica, in un’antropologia fondamentale, in un’antropologia sociologica, o ancora in un’antropologia riflessiva (nel senso di antropologia storica): se lo facesse diverrebbe unilaterale e abbandonerebbe la sua pretesa filosofica (quale è presente in Plessner, per esempio). 67.  Cfr. N. Hartmann, Das Problem des geistigen Seins. Untersuchungen zur Grundlegung der Geschichtsphilosophie und der Geisteswissenschaften, de Gruyter, Berlin 1933.

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rito oggettivo quale si manifesta nelle più disparate forme di vita umane. Le serie comparative si possono collegare in certo modo anche alla teoria popperiana dei tre mondi68: mondo uno fisico-­materiale (condizione di possibilità del confronto uomomacchina); mondo due della percezione individuale e della coscienza (condizione di possibilità del confronto animale-­ uomo); mondo tre dei contenuti culturali e spirituali, che si rendono indipendenti dalle singole coscienze una volta creati (condizione di possibilità del confronto uomo-uomo). Per un’antropologia filosofica nell’epoca digitale è decisivo implementare il confronto uomo-macchina, senza per questo trascurare gli altri confronti. Affinché l’antropologia filosofica del futuro possa conseguire i risultati che da essa ci si aspetta, la sua massima meta-metodologica deve suonare: le tre operazioni comparative non sono reciprocamente riducibili, e pertanto hanno uguale peso per parlare di ciò che è costitutivo dell’uomo. In questo modo si evitano per principio i rischi di unilateralità nella ricerca della struttura o essenza dell’uomo. La propedeutica qui proposta va compresa nel senso che la triangolazione filosofico-antropologica tratta di tre operazioni comparative minimali, le quali dunque non esauriscono le possibili serie comparative per formare un concetto di uomo mediante il procedimento indiretto del confronto con altre entità. Per esempio, è sempre riproponibile la serie comparativa uomo-dio presente fin dalle origini, e d’altra parte in futuro non è da escludere una serie comparativa intelligenza extraterrestre-uomo.

68.  Cfr. K.S. Popper, Objektive Erkenntnis. Ein evolutionärer Entwurf, Hoffmann und Campe, Hamburg 1972.

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Umani e umanoidi

Prospettive filosofiche-antropologiche dell’Intelligenza artificiale Eugenio Mazzarella

Il quesito cui proverò a rispondere è il seguente: l’Intelligenza artificiale rappresenta o no una sfida cognitiva per l’antropologia filosofica? È in grado cioè di sollecitare un cambio di paradigma per comprendere l’umano, vale a dire una sua comprensione diversa da quella fin qui tradizionalmente acquisita dalla filosofia? Più propriamente da religioni e filosofia. La risposta che argomenterò è no. Ciò non toglie che come tutti i grandi scenari di innovazione tecnologica l’Intelligenza artificiale rappresenta un’imponente sfida sociale, che è assolutamente decisivo tematizzare e gestire, se l’impresa scientifica vuol avere ancora a suo fine l’uomo che fin qui abbiamo avuto, l’uomo che deve rimanere, perché altri “uomini”, un altro che sia uomo non si vede, e forse è una cecità dello sguardo volerlo vedere.

1. Lo scenario biopolitico dell’impresa scientifica oggi È un dato, esito dello straordinario sviluppo delle biotecnologie e delle neuroscienze, lo scenario biopolitico dell’impresa scientifica oggi. Il fatto o la possibilità, cioè, che possa farsi

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oggetto di politica – di decisione sociale mediata dalla tecnica – la forma di vita che noi siamo, anche come forma naturale; e non solo come forma sociale, l’ambito tradizionale (la società) del governo biopolitico della vita. Che possa esserci cioè “politica”, manipolazione sociale, non solo dei bioì, dei modi di vita, come per un lungo passato, più o meno coincidente con la storia conosciuta dell’antropizzazione del sapiens come homo cultura è avvenuto, ma anche della zoé, la “nuda” vita come presupposto biologico di quei modi e mero diritto ad esserci, nella vita, di quei modi. Se l’uomo è quell’animale che sta nel sapere, cioè sa di sé e del suo mondo, e la sfida che lo raggiunge in questo stare al mondo saputo è come rimanervi, visto che sa di esservi solo a partire dal sapere che dal mondo, a ogni momento, può essere strusciato via, e che comunque al mondo, per quanto “suo” per un momento, verrà meno, l’uomo nell’universo è una domanda. Una domanda senza conclusività, che tradizionalmente hanno gestito filosofia e religione. Senza conclusività, cioè senza risposte conclusive. Nel senso almeno che venissero all’uomo da lui stesso. L’inedito scenario antropologico di oggi è la pretesa biopolitica dell’uomo della tecnica di poter rispondere in modo conclusivo alla domanda che siamo nell’universo. Riducendola ad un problema di cui può padroneggiare le soluzioni avendone posto gli stessi termini a problema. E questo in una tecnogenesi di sé e del proprio mondo, autogena di sé e delle proprie condizioni di possibilità (biologiche, psichiche, sociali); in una autotecnogenesi in cui dovrebbero risolversi antropogenesi e sociogenesi fin qui conosciute; finalmente nella disponibilità, socialmente pianificata, di una biopolitica totale dell’umano, di un’eugenetica generale a base artificiale dell’individuo e della specie; di che cosa debba essere la “natura” umana, fisica, psichica, sociale.

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Una “natura” finalmente sganciata dalla datità naturale e dai suoi imprevisti e del tutto affidata al calcolo dell’artificio biologico, fisico, sociale; che insomma non più «natura di cosa è nascimento» (Vico), in cui «l’inizio è il risultato» (Hegel), ma “natura” di cosa è decisione, calcolo socialmente mediato, di ciò che deve “essere” qualcosa, ogni qualcosa; anche il qualcuno della decisione, soggetto-oggetto di sé, dove il vero e il fatto si convertono, pienezza ideale dell’artificio. Una prestazione ontopoietica, dalla vecchia metafisica riconosciuta al piano trascendente la creatività umana: all’intenzione di un Dio creatore o all’autopoiesi della Necessità. Il vero repentaglio dell’epoca della tecnica è questo: l’assunzione che si possa disinnescare dalla natura data, nei limiti di un artificio che la riduca a puro materiale a disposizione della tecnica, l’avvio stesso “naturale” dell’antropogenesi e della socio­genesi. Insomma una riedizione rivista e corretta della creazione, almeno per quanto riguarda la creazione dell’“uomo”, dove potremo anche datare (magari dal 1953, dalle ipotesi di James Watson e Francis Crick sulla doppia elica del Dna) quando è cominciata la ristampa, quando la natura è stata effettivamente ridotta a “nulla”, come pura materia di creazione; senza più nessuna sua decisività, quanto a come quella materia debba e possa essere montata, smontata, ricostruita; incapace di decidere più nulla di quello che deve accadere, almeno per quanto ci riguardi. Può anche darsi che questo programma abbia successo, e ci sia anche già in giro la teologia di un Dio stanco che abbia deciso da sempre di passare la mano all’uomo per farsi sostituire nell’opera della creazione. Quel che è certo, però, è che rischiamo di perdere alcune scienze; magari un’antropologia e una sociologia generali, se con esse si intenda un sapere su strutture invarianti dell’umano e della società, dal momento che una tecnogenesi sociale di sé e del proprio mondo quelle

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strutture può metterle fuori produzione, avviandone altre alla linea di produzione dell’“umano”. Giacché l’oggetto stesso di una antropologia e di una sociologia generali – un’antropogenesi “standard” incarnata in processi sociativi come apriori naturali biosociali, che siano la possibilità trascendentale di ogni società possibile – svanirebbe nella determinabilità sociale, socialmente convenzionata di questi stessi processi. Questo scenario è l’esito conseguente, il compimento, di una autocomprensione della modernità come azione capace di sé – vale a dire di darsi a se stessa – di una ragione fattasi mera ragione strumentale. Sotto questo riguardo, la biopolitica è un’eugenetica generale della vita, come vita che si adatta sempre più alle sfide della sua azione, almeno quanto a quelle della natura. Un’eugenetica dove la “Selezione naturale”, quest’agente generale dell’Evoluzione, passa sempre più in secondo piano per l’auto-selezione consapevole, o pensa di esserne in grado, di poterlo fare – passa sempre più per il medio del “mondo”, come fattura e artificio, che la vita umana si procura in sé, nella propria “natura” biologica, altrettanto che fuori di sé come habitat naturale e storico (cultura), che da sempre si costruisce.

2. Transumanismo e postumanismo Questo scenario biopolitico dell’impresa scientifica ha da tempo la sua “profezia” futurologica in quel variegato universo letterario, futurologico, para-scientifico e scientifico che si assomma nei movimenti transumanistici ed estropiani, nell’ambito di quel che oggi mira a configurarsi come post-humanism. Un frammento di un romanzo di Philip Dick, del 1949, Ecco cos’è successo alle cose uscite dall’umida terra, dal lurido fango e dalla polvere. A tutte le cose viventi, grandi e

53 piccine. Hanno fatto la loro comparsa, divincolandosi a fatica da quell’umidità appiccicosa. E poi, dopo qualche tempo, sono morte […]

ci aiuta a individuare di questo composito universo narrativo la profezia, dove gli scenari futurologici retti dalla fiducia nello sviluppo tecnico sono tutti intrisi di una svalutazione/aborrimento di principio – come medio infetto della propria vita – della corporeità, ridotta a wetware, per restare al lessico di Dick, a sostanza informe, molliccia, secondaria e oltrepassabile, anche come cervello, l’organo corruttibile che concepisce il desiderio di non esserlo, corruttibile; di un’avversione a ciò che questi movimenti individuano come mortalismo, l’accettazione della finitudine e del limite come intrinseco all’umano. Se il programma meta-fisico del sapere umano è scamparsi a forza, per il tempo a lui dato come essere vivo, dal proprio divenire, come suo riconsegnarsi al nulla, al non essere più vivo, viviscente nel suo sapere, il programma metafisico del transumanismo è l’assimilazione della viviscenza del sapere come presenza a sé a presunte strutture stabili dell’essere, quelle tradizionalmente viste nella teoria, o all’atemporalità della logica; scampare a forza per sempre il fenomeno, l’apparizione dell’essere vivo dal suo divenire. A costo di farne un post-vivente nell’eterno pre-vivente del macchinico. Un immaginario dove l’umano pathos del conatus sese conservandi si fa violenza, ai limiti della ferocia dell’immaginazione, per restare proprio lui, il singolo mortale, più ancora che la sua specie – o al più, la sua specie come ambiente per conservarvi appieno il “suo caro io” – fuori dal destino della “corruzione” della vita, come l’altro lato della sua irruzione nella physis come sapere. E questo anche a costo di disincarnarlo questo caro io, o di plastificare la sua carne nel Cyborg che vorrebbe o presume di diventare. Un’insurrezione metafisica della tecnica – che da

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teorica si è fatta sempre più operativa – contro la verità scolpita da Anassimandro sulle porte della filosofia occidentale, che oggi si è portata sull’ultimo fronte, esercitandosi ormai sul suo stesso phylum, la struttura biologica data della specie, per assolverlo dalla morte, per proseguire sulla linea della sua assoluzione dal tempo, che è il sogno attorno a cui si organizza la metafisica come individuazione di ciò che regge, genera o sostiene la fisica e la sua corruttibilità. La spiritualizzazione della tecnica come promessa o assolvimento da parte sua d’aspirazioni o di promesse che sono state e sono tradizionale patrimonio di filosofie e religioni si è da tempo impegnata a realizzare il transfert del sogno dell’immortalità dallo spirito individuale al corpo individuale, al corpo proprio, in linea con quell’individualismo proprietario – il “corpo mio” – che sembra essere l’ideologia vincente della contemporaneità post-moderna. Se prima quest’aspirazione doveva essere affidata all’ibernazione perché il corpo proprio arrivasse freddo all’eternità confidando nei progressi della scienza, oggi la futurologia delle biotecnologie o dell’Intelligenza Artificiale – un diffuso club di visionari dell’immortalità – cercano le chiavi o per fornire allo “spirito” un supporto non degradabile o per aggirare l’oro­ logio biologico, per “silenziare” i geni responsabili del “programma” d’invecchiamento dell’organismo. In questo immaginario postumanista dell’umano, persino la clonazione seriale di un individuo identico (un’impossibilità logica oltre che pratica, perché riprodurre un individuo simile in tutto e per tutto alle caratteristiche note e accertabili del suo genitore biologico, dovrebbe poter significare “clonare” anche lo psichismo acquisito nell’interattività con il suo ambiente dal genitore nell’individuo riprodotto; perché fosse possibile un clone psico-biologico perfetto, sarebbe necessario che l’humus spirituale, oltre che l’humus biologico – cioè l’interattività tota-

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le tramite cui si costituisce un individuo – fosse identica: una mera immagine allo specchio senza deformazione dovuta allo stesso specchio; necessiterebbe cioè uno specchio, un medium, che non incida, non indetermini in niente l’immagine specchiata; qualcosa di manifestamente impossibile) è una tappa intermedia, perché il fine cercato non è la riproduzione – lo fa già con miglior successo e qualche gioia la specie –, ma l’infinita sussistenza dell’individuo dato, dell’individuo che io sono supposto animato da un infinito desiderio di sé, l’eternità del momento della vita che sono, del momento che fin qui sono stato.

3. Umani e umanoidi. Ibridazione uomo-macchina, cyborg e androidi È dalla ricerca scientifica e tecnologica, magari in un’interessata complicità di mercato futorologico cui guadagnare finanziamenti di ricerca, che questo immaginario postumanistico si attende il soggetto attuatore della sua profezia superomistica o oltreumanista. Dal cyborg, dal potenziamento cibernetico o bionico dell’organismo biologico. Ovvero dall’androide dove con l’umanoide animato dall’intelligenza artificiale è dagli umani come tali, biologici e degradabili, neanche più da potenziare, ma da superare come “specie inferiore”, che il futuro dello spirito, come spiritualità, intelligenza della tecnica, prenderà congedo, per qualcosa di superiore nella scala dell’intelligenza; beninteso di un’intelligenza ridotta a potenza operativa del calcolo, capace di azioni “proprie”, autodeterminate. Il cyborg come potenziamento dell’organismo umano non è propriamente uno scenario transumanistico, postumano in senso proprio. Fondamentalmente è ancora un “umano” nel senso di un umanoide, un non umano, che si fa umano e resta umano, proprio per la sua capacità “tecnica” di gestire, im-

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plementandola, la sua dotazione organica sotto la pressione dell’ambiente. In linea di principio non c’è una differenza sostanziale tra il sapiens che con una scheggia di selce si fornisce di un’unghia più efficiente e un’integrazione omeostatica di elementi artificiali in un organismo biologico per potenziarne le prestazioni, se non la sempre più raffinata capacità di implementazione artificiale in vivo dell’organico, di cui ci dà qualche documento (prima di arrivare al pacemaker) già la storia dell’odontoiatria antica. Il modo in cui fu reso popolare il termine cyborg, nato in ambito medico e bionico, da Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline nel 1960 in relazione alla loro idea di un essere umano potenziato per sopravvivere in ambienti extraterrestri inospitali, ritenendo essi che un’intima relazione tra essere umano e macchina fosse la chiave per varcare la nuova frontiera dell’esplorazione spaziale in un prossimo futuro, chiarisce abbastanza che con il cyborg siamo ancora nell’ambito della linea evolutiva conosciuta dell’homo cultura, con la sola riserva – non di poco conto, in verità – del rischio che quest’attrezzarsi bionico ad ambienti extraterrestri inospitali non si capovolga in una inospitalità dell’umano a se stesso, in un’alienazione tecnologica dove è il mezzo a dettare i fini dell’azione per cui era stato pensato. In un corto circuito ben noto della concezione antropologico-strumentale della tecnica come uno strumento nelle mani dell’uomo per i suoi fini, in scenari in cui anche l’ingegnere che ha creato l’ingranaggio, e non solo l’operaio alla catena di montaggio, senza avvedersene dell’ingranaggio si fa solo una rotella, magari in funzione direttiva. Il cyborg, il potenziamento cibernetico del biologico-neuronale umano, crea dilemmi etici, giuridici, sociali, ma non peculiari problemi di antropologia filosofica; non cambia cioè lo statuto ontologico dell’umano conosciuto, non transita cioè dall’umano all’umanoide, al non umano.

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Per una logica intrinseca all’aborrimento della corruttibilità del biologico come ciò che porta alla morte la vita – una vita beninteso che si è chiusa e ristretta a intelligenza presente di una contemplazione di sé che non vuole cessare, di un compiacimento di sé dello spirito che letteralmente lo snatura come spirito e vita dello spirito, lo sottrae alla natura da cui è nato, è e-voluto – è all’androide, all’umanoide, alla macchina artificialmente intelligente, magari provvista di apporti biologici, spesso allo scopo di aumentare la sua somiglianza con l’essere umano, che è affidata l’effettiva profezia ultraumanista, transumanista di andare oltre l’umano; di realizzare grazie alla tecnica l’umano desiderio di un’infinita presenza a sé dello spirito anche a costo di disumanarlo, di astrarlo, di trarlo fuori dal suo stipite biologico naturale in un’intelligenza artificiale non corruttibile. Questo programma transumanista potrebbe avere un senso se l’intelligenza artificiale potesse evolversi a intelligenza umana, equipararsi a essa. Ma questa possibilità adombrata è solo un’oziosa bolla speculativa, che può far tanti danni, ma non quello di snaturare la natura dell’umano. Perché l’intelligenza artificiale non è, e non sarà mai, l’intelligenza umana. In questo senso non può mai né raggiungerla, né superarla. Sono due piani diversi di realtà. Non appartengono allo stesso insieme logico e ontologico, alla stessa classe di enti. In linea di principio è l’animale che può evolvere all’umano, che è poi quello che è accaduto; non la macchina intelligente. Il presupposto di questa bolla speculativa è la riduzione – definitoria, dove la cosa segue il nome, e non il nome la cosa come in ogni buona retorica “realistica”: rem tene, verba sequentur (possiedi i fatti, le parole seguiranno) – dell’intelligenza a prestazione di calcolo, magari capace sulla base di un programma dato di assumere “decisioni” operazionali (calcoli che si traducono in “azioni” alla portata programmata della macchina)

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“libere” nel senso, cioè, di non prefissate ma sollecitate dal contesto di calcolo della macchina. Il punto è che questa intelligenza – l’intelligenza come calcolo, informazione – è un aspetto dell’intelligenza umana (che la macchina può ben avanzare e superare), ma non è l’intelligenza umana, che è calcolo e-motivo, mosso cioè paticamente da una fondativa cura di sé; calcolo affettivamente situato in modo costituivo, e in quanto tale umano. Quando avremo un’intelligenza artificiale capace di empatia e di angoscia, cura di sé e cura degli altri, avremo tramite la macchina, anche integrata biologicamente, l’intelligenza umana. Avremo trovato, un’impresa insensata, quello che abbiamo già, cioè noi. La macchina intelligente anche in forma umana, il droide, non ha alcuna consapevolezza emotiva, nessuna percezione sensibile del vero significato di quello che sta dicendo o facendo; solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini; e come non si chiede della propria origine, non ha dell’intelligenza umana la forza per lottare per se stessa come esistenza umana, di reggere e contrastare la propria angoscia, l’anticipato sentimento della fine. Nei droidi, e nell’uomo droide, l’umanoide, propriamente neppure un sentimento – come Deckard, il protagonista del romanzo di Philip Dick che ha ispirato Blade Runner, vede negli occhi di Rachel, l’androide con cui ha fatto l’amore e che teme di essere uccisa, cosa che lui si rifiuta di fare, disavvenendo al protocollo di comportamento con i droidi della Centrale di Polizia di cui fa parte: Ora [Rachel] sembrava avere un aspetto più composto. Ma dentro era ancora fondamentalmente tesa e agitata. Comunque, il cupo fuoco si stava affievolendo; la forza vitale l’abbandonava rapidamente, come Rick aveva già visto succedere spesso anche ad altri androidi. La loro classica rassegnazione. Un’accettazione meccanica, a livello intellettuale, di una cosa a cui un vero organismo – con alle spalle due miliardi di anni di pressione a vivere e a evolversi – non si sarebbe rassegnato.

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Noi, gli uomini, siamo il risultato di questa pressione, cui diamo espressione nella continuità saputa del nostro stare al mondo. Alla macchina intelligente manca ciò che ci fa uomini, intelligenza umana: il peccato originale, che è un peccato conoscitivo, del bene e del male, non in senso morale ma nel senso della conoscenza della vita come massimo bene in cui tenersi e della morte come massimo male da evitare. Un peccato, che come coscienza, si trasmette dal primo uomo in tutti gli uomini una volta che sia venuto al mondo nel primo Adamo. La macchina non ha peccato originale: “vita” e “morte” per essa sono puri stati on/off, non sentiti o patiti vissuti di coscienza. Proprio perché l’intelligenza umana è il venir meno a un animale del mondo come ambiente, puro circuito ambitale, nel suo emergergli come mondo, cosmo ordinato di cui tenere il passo a pena di caderne fuori, l’intelligenza umana è strategia adattiva alle prestazioni che gli chiede l’ambiente che gli si è fatto mondo; ma insieme e forse prima ancora ricerca di un senso all’immane fatica di questo adattamento, al disagio della cultura che in essa, nella natura, emerge come vita in disagio con se stessa. Inumana fatica talvolta, che fa invidiare l’animale, un non inquietato stare della vita in se stessa; ne ha detto qualcosa Leopardi, e Nietzsche riprendendo Leopardi. Per stare al mondo, l’intelligenza umana deve procurarsi non solo i mezzi per sostenervisi, ma prima ancora i farmaci dell’anima per dare senso a questo sforzo alla fine votato a “niente” nel suo sapere. Ciò che “assaggia” la vita come conoscenza, il veleno del morso del piacere. Religione e tecnica (che non è solo poiesi fabbrile, ma pratiche, tecnologie sociali, a cominciare da quella fondativa della morale – dell’ethos tematizzato, costume che si fa legge), cioè sentimento dell’appartenenza (religio) e intelligenza dell’appartenenza (techne) a qualcosa – la vita, la natura, il reale –, cui si può cessare di appartenere, reggono in piedi l’uomo.

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Quando vedremo un umanoide erigere altari, sposare un proprio simile macchinico e seppellire i propri “morti”, riavremo nella macchina intelligente un uomo. Un’economia dell’azione consiglierebbe di mantenere in pristino l’uomo che c’è senza cercare un post-uomo che non muore per il semplice fatto che mai ha cominciato a vivere. Insomma dall’intelligenza artificiale non verrà nessun attentato “evolutivo” credibile all’intelligenza umana. Com’è perfettamente chiaro a chi vi lavora da scienziato, e non da apprendista stregone. Ciò che verrà invece certamente, e per molti aspetti è già venuto, è una potente sollecitazione alla “plasticità” dell’umano come individui e come società a rispondere alle sfide dell’innovazione tecnologica in ambito sociale, etico, giuridico. Una sfida la cui problematicità è ben chiara alla sociologia di Beck e Bauman, ma che più che dividerci tra ottimisti e pessimisti per l’uomo che conosciamo sul suo esito, ci chiede piuttosto analisi di dettaglio, ambito per ambito, tema per tema, che è poi il concreto lavoro dell’artificio umano dell’intelligenza.

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Umano/non-umano: le vite nude Caterina Resta

In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano. (H. Arendt, Le origini del totalitarismo)

1. Zoo-politiche della globalizzazione Il nostro tempo, prepotentemente segnato da quel fenomeno complesso e multiforme che ha preso il nome di globalizzazione, ha esasperato e posto in primo piano molteplici situazioni di esclusione dall’umano: la crescente condizione di miseria, che ha prodotto una divaricazione senza precedenti tra i pochissimi detentori di ingenti ricchezze e i moltissimi che non riescono a soddisfare neppure i bisogni primari, il moltiplicarsi delle guerre, la desertificazione prodotta dai cambiamenti climatici sono solo i fattori più macroscopici che generano, come loro effetti collaterali non secondari, processi di disumanizzazione su vasta scala. Al pari della gigantesca mole di rifiuti che le opulente società dei consumi e degli sprechi neppure riescono a limitare e a smaltire efficacemente, inquinando anche il resto del mondo, anche gli uomini vengono trasformati in “vite di scarto”1, in vite ridotte quasi alla mera sussistenza 1.  Z. Bauman, Vite di scarto, tr. it. di M. Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2007.

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biologica dell’animale, in vite considerate indegne di essere vissute e respinte per questo fuori dai confini dell’umano. A contraddire la trionfalistica retorica di un mondo finalmente unificato, che ha caratterizzato il periodo iniziale della globalizzazione, i rischi e gli esiti catastrofici di questa prima, impetuosa fase espansiva sono ormai sotto gli occhi di tutti e non riguardano solo la crescente a-nomia di un mondo ormai interconnesso e globale, ma privo di ordine, che riconosce solo le leggi del libero mercato e di un capitalismo finanziario sempre più speculativo e volatile. Insieme allo storico nesso appartenenza-identità-territorio, garantito e fissato per tutta l’Età moderna attraverso la forma-Stato oggi in declino, si dissolvono anche i vincoli protettivi che legano gli individui in una comunità, esponendo i singoli a nuove forme di sfruttamento (neo-schiavitù), alla precarizzazione o alla perdita del lavoro, a forme inedite di violenza, di marginalizzazione e di espulsione dallo stesso statuto dell’umano. Di fronte all’imponente flusso di migranti, spinto a spostarsi anche a costo della vita, pur di lasciarsi alle spalle un’esistenza che, a tutti gli effetti, non garantisce più neppure i requisiti minimi della sopravvivenza, nuovi muri, nuove barriere immunitarie ovunque si ergono a difesa di spazi privilegiati di benessere, divenuti, nell’immaginario collettivo, fortezze assediate da nuovi barbari. E per quelli che, in un modo o nell’altro, riescono ad attraversare questi confini invalicabili, in base a uno stato di “eccezione”2, divenuto ormai permanente, sorgono campi profughi dissemi-

2.  Come ha mostrato Agamben, l’istituto giuridico dell’eccezione va inteso come un «essere-fuori e, tuttavia, appartenere» (G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 48). Non si tratta, dunque, di una semplice esclusione, ma di una inclusione escludente e di una esclusione includente, di una “presa” che, catturando, afferra e, al tempo stesso, mette fuori: «l’eccezione è veramente, secondo l’etimo, presa fuori (ex-capere) e non semplicemente esclusa. […] Chiamiamo relazione di eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso

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nati in tutto il mondo, spazi paradigmatici di questa inclusione escludente. Come ha osservato Zygmunt Bauman: «il numero degli esseri non ancora ammessi nella umanità si espande altrettanto e forse ancor più velocemente dell’elenco di quelli a cui è già stato dato un permesso di residenza»3. A questo generalizzato processo di disumanizzazione di gran parte dell’umanità, che si traduce nei termini di una animalizzazione dell’uomo, preso-fuori dai confini dell’umano, possiamo dare il nome di “zoopolitica”. Questo confine politico posto tra umano e non umano, tra vivente umano e vivente non umano4, in particolare per quel che riguarda la condizione dei migranti, passa oggi attraverso il diritto di cittadinanza e i suoi limiti, nel duplice senso che 1) il diritto di cittadinanza è delimitato dallo spazio giuridico di un territorio – lo Stato – dentro il quale ai residenti viene riconosciuto lo status di cittadino; 2) ma proprio questa delimitazione territoriale si rivela fatale, nella misura in cui chi, per vari motivi, si trova fuori dai confini di questo spazio, corre seriamente il rischio di perdere ogni forma di protezione, e perfino la stessa considerazione di essere umano. In questa fase della globalizzazione, in cui si assiste allo scontro tra le spinte all’unificazione economica senza regole, dettate dal neoliberismo imperante, e le spinte regressive a cercare rifugio e protezione in neo-nazionalismi xenofobi e razzisti, che invocano la blindatura delle frontiere e rivendicano l’incondizionata sovranità sui propri territori, lo scontro decisi-

la sua esclusione» (G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 22). 3.  Z. Bauman, La società sotto assedio, tr. it. di S. Minucci, Laterza, RomaBari 2003, p. 230. 4.  Cfr. C. Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Cortina, Milano 2017.

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vo non è più, come un tempo, quello di classe tra operai e capitale, tanto meno quello, precedente, tra ancien régime e borghesia, ma tra residenti e migranti, tra il cittadino e il clandestino, tra chi vede riconosciuto il proprio diritto di cittadinanza e coloro che, non potendo usufruire neppure dello status di rifugiato, si trovano di fatto respinti nell’illegalità, presi-fuori dalla legge che li considera fuori-legge, colpevoli del reato di immigrazione clandestina, a tutt’oggi in Italia non abrogato, benché se ne sia constatata l’assoluta ineffettualità e inapplicabilità (il che rende ancor più evidente il suo carattere puramente ideologico). Lo scontro epocale, che provoca un’insanabile contraddizione all’interno del mondo globale, è dunque tra la mobilitazione totale dei flussi di denaro, merci, informazioni e la pretesa di immobilizzazione totale dei flussi migratori. Solo i “cittadini” sono autorizzati a muoversi liberamente sul globo, non tanto in virtù di un passaporto, quanto, soprattutto, di una carta di credito. Coloro che ne sono privi e intendono trasgredire il divieto di mobilità, coloro che, soprattutto, pretendono non solo di e-migrare, ma anche di immigrare in un luogo diverso da quello dal quale sono andati via, devono sapere che, salvo nei rari casi in cui troverà applicazione il diritto di asilo, concesso in modo sempre più restrittivo, la sete, la fame, l’indigenza più assoluta, che mette ogni giorno a repentaglio la loro stessa sopravvivenza, non saranno considerati motivi sufficienti neppure per acquisire lo status di rifugiato. L’unica condizione che la zoopolitica globale ha previsto per questi profughi è quella disumana del clandestino, di colui che non è neppure più considerato un uomo, ma solo nuda vita, esposta alla violenza di chi la sfrutta come manodopera a basso costo o di chi la utilizza per traffici illeciti. Solo se incappa nelle maglie del potere, solo quando, per un attimo, sarà investito dal suo fascio di luce e riceverà la sua attenzione, solo allora il clandestino potrà aspirare a diventare qualcuno, uscendo fuori dall’ombra della sua vita anonima.

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Appena in tempo per essere riconosciuto come criminale e ricevere il decreto di espulsione5. È su questo confine, tra cittadino e clandestino, che oggi avviene la guerra civile mondiale tra chi è dentro e chi deve restare fuori, tra chi ha un futuro e chi se lo vede negato, tra chi ha diritto di vivere e chi può essere lasciato morire, tra chi è titolare di diritti e chi non ne ha nessuno, tra chi fa parte dell’umanità e chi è condannato a una precaria sopravvivenza da animale. La posta in gioco è dunque quella della cittadinanza, perché di fatto essa si è sempre di più trasformata da strumento di coesione e di inclusione a strumento di esclusione e di discriminazione, che respinge l’uomo hors l’humanité, fuori dalla sua stessa umanità, lo disumanizza e brutalizza, trasformandolo in un animale, o meglio: trattandolo come se fosse un semplice animale. Oggi il discrimine tra umano e non umano passa attraverso i confini degli agonizzanti, ma ancora potenti, Stati-nazione, gelosi custodi della loro sovranità assoluta e senza condizioni, emblematicamente fortificati dai nuovi muri6 della vergogna che un po’ dappertutto stanno facendo la loro comparsa nel mondo, teatrale scenografia del moltiplicarsi di nuove forme di apartheid.

5.  Sulla figura del clandestino e sulla sua invisibilità, si veda D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 139-142. Questo importante lavoro, che si propone di delineare una filosofia della migrazione e un nuovo pensiero politico imperniato sulla figura dello straniero residente, costituisce la cornice generale e un punto di riferimento ineludibile per tutte le questioni che qui verranno affrontate. 6.  Sul ritorno dei muri e sulla loro scenografica teatralità ha opportunamente insistito W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, tr. it. di S. Liberatore, a cura di F. Giardini, Laterza, Roma-Bari 2013.

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2. L’«astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo» Non a caso sono tornate di grande attualità le pagine dedicate da Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo al periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale, quando, a causa del riassetto geopolitico conseguente alla guerra, gli Stati-Nazione europei si trovarono a fronteggiare l’afflusso di un’ingente massa di profughi privi di cittadinanza. Le politiche di esclusione per lo più adottate furono il brodo di coltura della politica di sterminio del III Reich, attuata nei confronti di milioni di ebrei, privati prima dello status di cittadini e trasformati poi in non-uomini, in superfluità umana (human superfluity), in rifiuti da essere “smaltiti” nei forni crematori. Allora, come oggi, sembra ripetersi ancora una volta, su scala planetaria, nei confronti dei migranti, lo stesso atteggiamento di ostilità e di chiusura, che trova attuazione in politiche immunitarie di respingimento, le quali provocano, come loro effetto non secondario, la trasformazione dell’uomo in non-uomo, una trasformazione antica quanto l’uomo stesso, che ha prodotto l’esclusione dall’umanità, di volta in volta, dello schiavo, della donna, del bambino, del barbaro, del negro, dell’omosessuale, dell’ebreo, di chiunque venga considerato non integrabile nella città e, per questo, più simile all’animale che all’uomo. Queste pagine, poste sotto il significativo titolo Il tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani, costituiscono indubbiamente un documento di straordinario valore per la descrizione e per la comprensione dei fenomeni che vi vengono esposti. Esse non sono solo il frutto di una brillante intelligenza filosofica, ma anche il resoconto di un’esperienza vissuta in prima persona, quella di una giovane intellettuale ebrea tedesca ridotta alla “nuda vita” dell’apolide, privata di ogni protezione giuridica, che per lungo tempo ha sperimentato una condizione di vita senza riparo, vittima designata di un incombente sterminio, al quale fortunosamente riuscì a sottrarsi.

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Le analisi di Arendt sono fin troppo note per essere nuovamente rievocate nel dettaglio. Mi limiterò pertanto a prendere in considerazione solo le conclusioni cui perviene, poiché è proprio l’esito delle sue riflessioni a destare, a mio avviso, maggiori perplessità. Con tono sconsolato Arendt constatava quanto era innegabile: a fronte della perdita della cittadinanza, d’improvviso non c’è più stato nessun luogo sulla terra dove gli emigranti potessero andare senza le restrizioni più severe, nessun paese dove potessero essere assimilati, nessun territorio dove potessero fondare una propria comunità. […] Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si ritrova altresì escluso dall’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità.7

In questo e in analoghi passaggi Arendt segnala come la conseguenza più grave, dovuta al rifiuto da parte degli Stati-Nazione di accogliere come cittadini i profughi appartenenti a diverse nazionalità, non sia stata solo la condanna a farli permanere nell’apolidia, non concedendo loro un preciso status giuridico, ma soprattutto, per ciò stesso, quella di estrometterli dal-

7.  H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Ead., Le origini del totalitarismo (1951), tr. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1996, pp. 406-407. Sul tema dell’apolidia e dei diritti umani in Arendt, cfr. M.C. Caloz-Tschopp, Les sans-Etat dans la philosophie d’Hannah Arendt. Les humains superflus, le droit d’avoir des droit et la citoyenneté, Payot, Lausanne 2000; I. Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Carocci, Roma 20172; P. Birmingham, Hannah Arendt and Human Rights: the Predicament of Common Responsibility, Indiana University Press, Bloomington 2006; S. Parekh, Hannah Arendt and the Challenge of Modernity. A Phenomenogy of Human Rights, Routledge, New York 2008; N. Mattucci, La politica esemplare. Sul pensiero di Hannah Arendt, FrancoAngeli, Milano 2012; A. Gündoğdu, Rightlessness in an Age of Rights. Hannah Arendt and the Contemporary Struggles of Migrants, Oxford University Press, New York 2015.

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la condizione di esseri umani: «la perdita della patria e dello status politico poteva identificarsi con l’espulsione dall’umanità stessa»8. Poiché il diritto di cittadinanza è appannaggio del potere sovrano degli Stati, nel momento in cui essi non intendono concederlo a chi viene da fuori, di fatto, i profughi si ritrovano non solo privati dell’appartenenza a una comunità politica, ma, proprio per questo, privati anche della stessa appartenenza all’umanità, al punto che, secondo Arendt, la loro esistenza verrebbe trasformata «nell’astratta nudità dell’esserenient’altro-che-uomo [the abstract nakedness of being nothing but human]»9, cioè in una mera vita zoologica: essi «appartengono alla razza umana allo stesso modo che degli animali a una determinata specie animale»10. Da questa tragica vicenda Arendt trae il seguente ammonimento: i diritti umani, promulgati a tutela dell’uomo in quanto tale, in realtà hanno mostrato la loro assoluta inapplicabilità e inefficacia proprio nelle circostanze in cui sarebbero dovuti venire in soccorso di uomini che avevano perso, insieme alla cittadinanza, qualunque altra protezione giuridica. Alla prova dei fatti si deve constatare che non vi è «nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo»11 e che questi diritti possono svolgere la loro azione di tutela solo nei confronti di chi è già cittadino, rivelando come in realtà la cittadinanza, in quanto fondamentale riconoscimento di appartenenza a una comunità politica, sia l’unica porta di accesso per tutti gli altri diritti. Il binomio e la distinzione tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino, enunciato nella Dichiarazione dei diritti del 1789, avrebbero dunque un valore puramente retorico: ciò che di fatto succede è un appiattimento dei primi 8.  H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 411. 9.  Ivi, p. 415. 10.  Ivi, p. 418. 11.  Ivi, 415.

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sui secondi e una tendenziale coincidenza dell’uomo con il cittadino. Fuori da una concreta comunità politica non vi sarebbe altro statuto per l’uomo se non quello zoologico12. I diritti umani avrebbero dunque dato prova della loro inutilità; per questo, secondo Arendt, occorre piuttosto rivendicare quel «diritto ad avere diritti [Right to Have Rights]», secondo la nota formula da lei impiegata, che è quello della cittadinanza, il diritto di appartenere a una comunità politica. Ma proprio questa conclusione sembra far cadere l’argomentazione in un circolo vizioso: in che modo una comunità politica, uno Stato, può farsi garante di questo diritto? In che modo evitare che si ripeta ciò che la stessa Arendt ha descritto, cioè che lo Stato riconosca questa garanzia solo ad alcuni, rifiutandola ad altri? È con questa aporia13 che si scontra la riflessione di Arendt, esibendo il limite di ogni discorso che si arresti alla rivendicazione della cittadinanza statale, rinunciando alla distinzione tra i diritti esigibili in quanto appartenenti a una comunità politica e quelli che, invece, investono direttamente e singolarmente la persona. La cittadinanza così intesa finisce inevitabilmente con il marcare un

12.  Un’analoga distinzione tra la pura e semplice zoé, la vita “animale” nello spazio privato dell’oikos, e la vita dello zoon politikon nello spazio pubblico sarà posta da Arendt, qualche anno più tardi, come tesi centrale della sua concezione della politica in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994. Come la cittadinanza segna il confine tra chi è dentro e chi è fuori dalla città, e dunque tra chi è uomo e chi è un vivente non umano, allo stesso modo la polis sarebbe tagliata al suo interno da un analogo spartiacque, tra la dimensione privata (domestica) e quella pubblica: solo in questa sfera si sarebbe pienamente umani. 13.  Che le conclusioni di Arendt risultino insoddisfacenti lo sostiene, tra gli altri, anche S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, tr. it. di S. De Petris, Cortina, Milano 2006, p. 17: «Se Arendt descrive brillantemente il declino del modello westfaliano delle relazioni tra stati, non offre tuttavia soluzioni al dilemma del “diritto di avere diritti”; per ragioni in parte istituzionali e in parte politiche, non perviene a decostruire la rigida dicotomia tra diritti umani e diritti dei cittadini».

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perimetro e un confine, che coincide con quello della sovranità statale e del territorio su cui essa si esercita, tra umano e nonumano, tra uomo e animale. Se è vero che, attraverso la cittadinanza, viene sancita l’appartenenza a una comunità politica, cioè si viene inclusi in essa come soggetti di diritto, al tempo stesso – come Arendt ha esemplarmente mostrato – la cittadinanza può diventare strumento di esclusione nei confronti di tutti coloro che si trovano al di là di quel confine, il quale – come è accaduto nella Germania di Hitler – può passare anche all’interno della stessa comunità. Una esclusione tanto più grave, dal momento che, secondo Arendt, essa non riguarderebbe soltanto la tutela di alcuni diritti, ma la stessa appartenenza dell’uomo al genere umano, la sua stessa umanità. Non riconoscendo alcun diritto a chi non è cittadino, la fatale conseguenza sarebbe infatti, a suo avviso, la perdita dell’umanità, la trasformazione dell’uomo in mero vivente non umano, in animale. In quanto “animale politico”, l’uomo conserverebbe dunque la propria umanità solo all’interno della polis, entro i suoi confini politici e giuridici, e, secondo Arendt, solo nella misura in cui l’animale-uomo esce fuori dalla sua tana, dall’oikos, ed entra nell’agorà, poiché fuori da questo recinto non rimarrebbe che la nuda vita zoologica di un non-uomo. La condizione umana sarebbe dunque caratterizzata da una fondamentale scissione: da un lato la nuda vita zoologica della sfera pre-­politica, quella di un uomo che, in quanto meramente uomo, non si vede riconosciuta alcuna intrinseca “dignità” e perciò viene trasformato in semplice vivente non umano, in animale; dall’altro, la vita politica, l’unica dimensione in virtù della quale l’animaleuomo conseguirebbe la piena umanità, divenendo zoon politikon, cittadino della polis14. Solo nella dimensione politica il vivente può diventare uomo, accedere all’umanità. 14.  Ilaria Possenti, opportunamente, segnala i rischi della concezione arendtiana dello status di apolide; il non-cittadino si troverebbe ricondot-

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Di fronte al fallimento dei diritti umani, che hanno mostrato di essere inapplicabili in assenza del riconoscimento del diritto di cittadinanza, e all’esito disastroso della coincidenza tra uomo e cittadino, in base alla quale si identifica solo nel cittadino il “vero” uomo, respingendo il non-cittadino, l’apolide, oltre il confine dell’umanità, Arendt non intende mettere in questione questa illegittima identificazione, che anzi conferma, dal momento che, in effetti, anche per lei non esistono altri diritti che quelli attribuibili al cittadino: l’uomo in quanto tale non sarebbe soggetto di alcun diritto. Dal suo punto di vista, infatti, l’“umanità” rimane un’astrazione e l’uomo non inserito in una

to alla mera vita biologica: «è bene valutare con prudenza la tesi secondo la quale l’esclusione dalla cittadinanza coinciderebbe con l’esclusione dall’“umanità”, ovvero con la perdita, da parte di interi gruppi di individui, della condizione di zoon politikon» (I. Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, cit., p. 37). L’esito paradossale è infatti quello di confermare e rafforzare il processo di disumanizzazione. Criticando la netta separazione operata da Arendt tra sfera pubblico-politica e sfera privata depoliticizzata, all’interno della quale l’uomo sarebbe ridotto a nuda vita zoologica, Butler ha osservato: «Si tratta di mere vite, di nude vite? Coloro che sono esclusi sono semplicemente irreali, scomparsi, o mai pervenuti – dovremmo rigettarli dal punto di vista teorico, in quanto socialmente morti e meramente spettrali? […] Queste domande, infatti, servono forse a descrivere lo stato di chi è ridotto all’indigenza dagli odierni assetti politici? O portano piuttosto a ratificare involontariamente questa indigenza, a partire da una teoria che adotta la prospettiva di coloro che regolamentano e sorvegliano la sfera dell’apparizione? […] Se diciamo che gli indigenti sono fuori dalla sfera della politica – ridotti a forme depoliticizzate di esistenza –, accettiamo implicitamente come giuste le modalità dominanti con cui si stabiliscono i confini del politico» (J. Butler, L’alleanza dei corpi e la politica della strada, in Ead., L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, tr. it. di F. Zappino, Nottetempo, Roma 2017, p. 127). Analoghe riserve avanza anche Di Cesare, secondo la quale occorre tener conto dei rischi che comporta una essenzializzazione della nuda vita; da questo punto di vista Arendt non solo slega «l’esistenza da ogni relazione e da ogni vincolo, ma finisce per essenzializzare la vita biologica» (D. Di Cesare, Stranieri residenti, cit., p. 258).

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specifica comunità, in quanto «uomo in generale», diviene insignificante e, senza più un mondo comune cui appartenere, incivile, ancor più di un barbaro o di un selvaggio. Come l’usanza medievale del bando attesta, una volta “bandito” dalla città, egli è esposto al rischio costante di essere ucciso senza arrecare offesa ad alcuno, costituendo, con la sua nuda vita, quasi «un invito all’omicidio»15. L’ipotesi della progettazione di un diritto cosmopolitico, il cui primo nucleo, peraltro, proprio in quegli anni vedeva la luce con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), viene percepita come irrealistica e perfino minacciosa, mentre i trattati internazionali sono considerati con scetticismo, mere idealistiche dichiarazioni di intenti, dal carattere prevalentemente morale e spoliticizzante, anch’esse destinate – come di fatto per lo più è accaduto – a rimanere lettera morta, a non trovare applicazione, in assenza di adeguati vincoli giuridici preposti a garantirle: il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe esser garantito dall’umanità stessa. Non è affatto certo che questo sia possibile. Perché, nonostante i benintenzionati tentativi umanitari di ottenere nuove dichiarazioni dei diritti umani dalle organizzazioni internazionali, bisogna ricordare che questa idea trascende l’attuale sfera del diritto internazionale, che opera tuttora mediante trattati e accordi tra stati sovrani; e una sfera al di sopra delle nazioni per il momento non esiste. Per giunta, questo dilemma non sarebbe eliminato dalla creazione di un “governo mondiale”, che rientra sì nel novero delle possibilità, ma potrebbe in realtà differire notevolmente dalla versione patrocinata dalle associazioni idealistiche.16

15.  H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 418. 16.  Ivi, p. 413.

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Arendt non è dunque disposta a riconoscere che, invece, al di là dei problemi legati alla giustiziabilità dei diritti fondamentali in essa contenuti, una Dichiarazione come quella del 1948, con i Trattati che seguiranno, promulgata da una istituzione extra-territoriale come l’ONU, assume una rilevanza giuridica (e non meramente morale) e pone in essere il nucleo embrionale della “costituzione” di un nuovo diritto cosmopolitico che “supera” (e di qui proviene anche una serie di tensioni e contrasti) il diritto inter‑nazionale, collocandosi al di sopra degli Stati firmatari, e anzi mettendo radicalmente in questione il principio stesso su cui essi si fondano, quello di una sovranità incondizionata e assoluta, che rifiuta ogni ingerenza esterna, dischiudendo per la prima volta nella storia dell’umanità uno spazio giuridico sovra-nazionale ed extra‑territoriale, lasciandosi alle spalle il principio cardine della «vecchia trinità stato-popolo-territorio»17. Di fronte allo spettro di un Weltstaat totalitario – ipotesi paventata dallo stesso Kant, ma a suo avviso scongiurabile attraverso forme di federalismo – Arendt preferisce rimettere ancora una volta unicamente nelle mani dello Stato – di quello Stato che palesemente più volte l’aveva tradita – la garanzia del riconoscimento del diritto ad avere diritti, ossia del diritto di essere cittadini. Dando prova di un idealismo forse ancora maggiore di quello che ispira i progetti cosmopolitici, Arendt si limita a criticare la degenerazione nazionalistica dello Stato18, auspicando un modello civico e non etnico di comunità,

17.  H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 391. 18.  Cfr. H. Arendt, La nazione, in Ead., Archivio Arendt 1. 1930-1948, tr. it. di P. Costa, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 241: «Nazionalismo significa essenzialmente la conquista dello stato da parte della nazione; è questo il senso profondo dello stato nazionale. L’esito dell’identificazione ottocentesca tra stato e nazione è duplice: mentre lo stato in quanto istitu-

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come unico antidoto al pericolo di operare nuove esclusioni. L’unica garanzia sarebbe dunque riposta nelle mani di uno Stato di diritto, che non si fondi sul principio della Nazione. Nonostante le terribili vicende di cui era stata diretta protagonista e testimone, Arendt ha comunque continuato a nutrire fiducia nel binomio stato-territorio, nella “topolitica”19 degli Stati moderni, con l’unica riserva nei confronti della deriva “nazionalistica”: istituendo il legame della comunità politica sul presupposto del sangue e della nascita20, la Nazione, infatti, la concepisce in termini etnici e in ultima istanza razziali, perseguendo la purezza e l’omogeneità del popolo. Al di là della giusta critica a ogni forma di nazionalismo (etnico, religioso, ecc.), secondo Arendt, solo l’appartenenza a una comunità (to)politica, solo l’essere cittadini di uno Stato, consente di accedere all’umanità, tanto che solo dal diritto di cittadinanzione fondata sulla legge dichiara che il suo dovere è di difendere i diritti umani, la sua identificazione con la nazione comporta l’identificazione tra cittadino e membro della nazione e sfocia quindi nella confusione tra diritti dell’uomo e diritti dei membri della nazione o diritti nazionali». Anche le critiche mosse al sionismo e allo Stato di Israele riguardano i risvolti nazionalistici: si veda soprattutto H. Arendt, Ripensare il sionismo (1945), in Ead., Ebraismo e modernità, tr. it. e cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2003. Su questi temi cfr. J. Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, tr. it. di F. De Leonardis, Cortina, Milano 2013. 19.  Con il termine “topolitica” Derrida intende sottolineare il nesso inscindibile che lega, nella forma della statualità moderna, spazio e politica, nel senso di una «sovranità legata al dominio di un territorio» (J. Derrida B. Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it. di L. Chiesa e G. Piana, Cortina, Milano 1997, p. 87). Per lo sviluppo delle questioni legate a questo aspetto mi permetto di rinviare a C. Resta, Una cosmopolitica a-venire, in Ead., La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. Cfr. anche C. Di Martino, La politica e l’indecostruibile, in Id., Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, FrancoAngeli, Milano 2001. 20.  Jacques Derrida ha in numerose occasioni provveduto a decostruire il nesso tra nazione, nascita, fraternità; si veda ad es. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995.

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za possono derivare ed essere riconosciuti tutti gli altri diritti che rendono l’uomo pienamente “umano”. Privato dell’appartenenza a una comunità politica, non vi sarebbe per l’uomo altro status che quello zoologico. Ma non si finisce così per dare ragione a chi considera queste nude vite non più degne di essere chiamate “umane”?

3. La nuda vita Prendendo le mosse dalle pagine arendtiane de Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, Giorgio Agamben ha tratto conclusioni ancor più negative rispetto alla sfera dei diritti umani, asserendo che occorrerebbe addirittura sbarazzarsene. Pur mettendo a tema il nesso tra i diritti dell’uomo e lo Stato-nazione, Arendt avrebbe lasciato “impregiudicata” questa relazione che, invece, proprio alla luce del divario da lei colto tra uomo e cittadino, andrebbe maggiormente analizzata, fino a trarne le estreme conseguenze. Al di là dell’enfasi posta sui valori eterni e metagiuridici dei diritti umani, secondo Agamben sarebbe giunto ormai il momento di denunciare la reale funzione storica che i diritti umani avrebbero svolto nella formazione dello Stato-nazione: «Le dichiarazioni dei diritti rappresentano la figura originaria dell’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridico-politico dello Stato-nazione»21. Fin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’89, la vita biologica diventerebbe la fonte del diritto, inaugurando la biopolitica moderna e, al contempo, la sovranità nazionale, aggettivo che reca in sé il chiaro riferimento alla “nascita”, alla vita come tale: «Il principio di natività e il principio di sovranità, separati nell’antico regime […], si uniscono ora irrevo21.  G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 140.

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cabilmente nel corpo del “soggetto sovrano” per costituire il fondamento del nuovo Stato-nazione»22. Come suo presupposto vi sarebbe dunque la “presa” del potere e del giuridico sulla vita biologica dell’uomo. Non a caso l’esito nefasto e conclusivo di questa parabola sarà il nazismo, il regime bio(thanato) politico per antonomasia, che porterà alle sue estreme conseguenze la divaricazione tra uomo e cittadino, in base al principio razziale del sangue. Tornando al periodo storico analizzato da Arendt, dopo la Prima guerra mondiale il nesso nascita-nazione si incrina e si rivela del tutto inadeguato a risolvere i nuovi problemi di cittadinanza generati da coloro che l’hanno persa. Per affrontare la situazione, gettando le basi del suo esito catastrofico, come Arendt non ha mancato di segnalare, si introdurranno nuove norme giuridiche per la denaturalizzazione e la denazionalizzazione, preludio a quelle leggi di Norimberga sulla cittadinanza del Reich, che sancirono la piena cittadinanza tedesca in base al principio della purezza del sangue. Il diritto di cittadinanza si trasforma dunque in strumento di discriminazione, lasciando senza alcuna protezione coloro che ne vengono privati ed esclusi. Da ciò Agamben trae le seguenti conclusioni: La separazione fra umanitario e politico, che stiamo oggi vivendo, è la fase estrema dello scollamento fra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino. Le organizzazioni umanitarie, che si sono oggi affiancate in misura crescente agli organismi sovranazionali, non possono, però, in ultima analisi, che comprendere la vita umana nella figura della nuda vita o della vita sacra e intrattengono per ciò stesso loro malgrado una segreta solidarietà con le forze che dovrebbero combattere. […] Occorre sciogliere risolutamente il concetto del rifugiato (e la figura della vita che rappresenta) da quello dei diritti dell’uomo e prendere sul serio la tesi della Arendt, che legava le sorti

22.  Ivi, p. 141.

77 dei diritti a quelle dello Stato-nazione moderno, in modo che il tramonto e la crisi di questo implicano necessariamente il divenire obsoleti di quelli. Il rifugiato va considerato […] un concetto-limite che mette in crisi radicale le categorie fondamentali dello Stato-nazione, dal nesso nascita-nazione a quello uomo-cittadino, e permette così di sgomberare il campo a un rinnovamento categoriale ormai indilazionabile, in vista di una politica in cui la nuda vita non sia più separata ed eccepita nell’ordinamento statuale, nemmeno attraverso la figura dei diritti umani.23

Senza dubbio Agamben ha ragione di segnalare come, nel nostro tempo, si sia ormai raggiunta l’estrema divaricazione tra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino, già denunciata da Arendt, per quanto riguarda il periodo tra le due guerre. Si tratta, in realtà, di un appiattimento, fino alla identificazione, tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino, causato dalla separazione di uomo e cittadino. Riservando i diritti solo a quest’ultimo, si lasciano privi di protezione quanti si trovano in una condizione di apolidia, la cui tutela resta affidata unicamente alle organizzazioni umanitarie non governative e alle istituzioni sovra-nazionali, spesso del tutto impotenti di fronte al potere sovrano degli Stati. Se è vero che la figura del rifugiato mette radicalmente e definitivamente in crisi il nesso tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino e il principio di una incondizionata sovranità statale24 (questa pars destruens è, senz’altro, 23.  Ivi, pp. 147-149. 24.  Anche secondo Benhabib sono proprio i processi migratori che scardinano «la pietra angolare della dottrina statalistica, vale a dire il controllo e la protezione dei confini nazionali da stranieri e intrusi, rifugiati e richiedenti asilo. […] Da un punto di vista filosofico, le migrazioni transnazionali portano alla ribalta il dilemma costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali: quello tra le rivendicazioni del diritto sovrano all’autodeterminazione, da una parte, e l’adesione ai principi universali dei diritti umani, dall’altra. […] Esiste non solo una tensione, ma spesso anche un’aperta contraddizione tra le dichiarazioni dei diritti umani e la pretesa da parte degli stati sovrani di

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il pregio maggiore della lucida analisi di Arendt), tuttavia mi sembra che neppure Agamben riesca a fornire utili indicazioni, almeno sul piano politico e giuridico, su come risolvere il problema. Se Arendt è convinta che non vi sia altra soluzione se non quella di ripiegare, nonostante tutto, sulla cittadinanza garantita da uno Stato di diritto, fondato non sul principio etnico della nazione, ma aderente a un modello “repubblicano”, individuando nella cittadinanza, di fatto, l’unica via di accesso per poter assicurare «il diritto di avere diritti»; Agamben ritiene, invece, che sia necessario abbandonare totalmente l’ambito giuridico, sia per quanto riguarda la cittadinanza statale, che per quanto concerne la sfera sovra-statale di tutela dei diritti umani, «in vista di una politica in cui la nuda vita non sia più separata ed eccepita nell’ordinamento statuale, nemmeno attraverso la figura dei diritti umani»25. Una prospettiva, per la verità, alquanto vaga e indeterminata, soprattutto per quanto riguarda la sua concreta attuazione politica. Se, come afferma altrove Agamben, prendendo spunto da un intenso scritto autobiografico di Arendt del 194326, quella del rifugiato è «la sola categoria nella quale ci sia consentito oggi intravedere le forme e i limiti di una comunità politica a venire»27 – anche a mio avviso presupposto imprescindibile per pensare in maniera radicalmente diversa lo statuto di una comunità politica – non appare tuttavia chiaro quali siano le nuove forme che essa sarebbe chiamata ad assumere. Radicalizzando la prospettiva arendtiana, Agamben coglie con estrema acutezza la congiun-

controllare i propri confini e di monitorare la qualità e la quantità di coloro che sono ammessi al loro interno» (S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 2). 25.  G. Agamben, Homo sacer, cit., pp. 148-149. 26.  Cfr. H. Arendt, Noi profughi (1943), in Ead., Ebraismo e modernità, cit., pp. 35-49. 27.  G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, in Id., Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 21.

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tura epocale che fa del rifugiato «la figura centrale della nostra politica»28, in quanto mette definitivamente in crisi e «scardina la vecchia trinità Stato-nazione-territorio»29, sancita dalla pace di Vestfalia. Così come, di fronte all’ingente massa di profughi che chiedono ospitalità, giustamente denuncia il fatto che lo stesso concetto giuridico di asilo mostri ormai apertamente la propria inadeguatezza30, rendendo necessaria e urgente una radicale trasformazione delle politiche di accoglienza, in base alla quale si dovrebbe mettere al primo posto non «più lo ius del cittadino, ma il refugium del singolo»31. Infine, non si può non convenire anche sulla conclusione cui Agamben perviene: «Solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati in questo modo traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini»32. Ci chiediamo soltanto come ciò possa accadere al di fuori di una cornice giuridica che preveda: 1) da un lato, la possibilità di “traforare” e “deformare” – secondo quanto lo stesso Agamben asserisce – la topolitica degli Stati moderni, ossia di scardinare il binomio Stato-Territorio, da cui derivano appartenenza, identità e cittadinanza, cioè forme di riconoscimento e di inclusione, ma inevitabilmente anche di discriminazione e di esclusione; 2) dall’altro, l’esistenza di un’istanza giuridi28.  Ibidem. 29.  Ivi, p. 25. 30.  Anche Ferrajoli sottolinea come sia necessario prendere «coscienza della crisi irreversibile delle vecchie categorie della cittadinanza e della sovranità, nonché della inadeguatezza di quel debole rimedio alla loro valenza discriminatoria che è stato fino ad oggi il diritto di asilo», il quale rappresenta «l’altra faccia della cittadinanza e della sovranità, ossia del limite statalistico da queste imposto ai diritti fondamentali» (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 25). 31.  G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, cit., p. 27. 32.  Ivi, p. 29.

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ca sovra-nazionale ed extra-territoriale, che riconosca e faccia rispettare, anche contro le politiche degli stati e la loro pretesa di sovranità assoluta, il diritto inalienabile di ogni singolo uomo, a prescindere dalla sua appartenenza di genere, colore, lingua, religione, opinione politica, ceto sociale, nascita o territorio, a essere soggetto di diritti fondamentali inviolabili, validi ovunque si trovi sulla faccia della terra, proprio perché non più legati alla territorialità della topolitica di uno Stato sovrano. Di fronte alle riserve manifestate da Arendt, che constatava il venir meno e la conseguente inutilità dei diritti fondamentali al di fuori della loro iscrizione all’interno di una specifica comunità politica, cioè al di fuori del loro essere diritti di qualcuno cui pertiene già lo status di cittadino, Agamben è ben più radicale: al tramonto dello Stato-Nazione deve far seguito anche quello dei diritti umani, il cui presupposto sarebbe una concezione dell’uomo come mera vita biologica, assunta come nuda vita a causa della violenta scissione e cattura operata su di essa da un potere in permanente stato di “eccezione”. Negli stessi anni in cui Hannah Arendt lavorava al suo testo sul totalitarismo (e attendeva di diventare cittadina americana), come abbiamo segnalato vedeva la luce la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Essa intendeva dare risposta al problema che Arendt aveva lucidamente colto, ma al quale non aveva saputo prospettare un’adeguata soluzione, e che addirittura si era ulteriormente acuito dopo l’orrore di Auschwitz. Questo evento, che segna una decisiva svolta nella concezione dei diritti umani, separandoli una volta per tutte da quelli del cittadino, non per negarli, ma per riaffermarli con maggiore forza, per impedire che un potere sovrano possa continuare indisturbatamente a produrre nude vite, è l’unica risposta possibile anche alle aporie con cui si scontra la prospettiva di Agamben che, giustamente, vede nel rifugiato il nuovo soggetto politico di una comunità a venire.

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Constatando gli effetti disastrosi della coincidenza tra cittadinanza e diritti dell’uomo, con la conseguente perdita di questi ultimi a causa del mancato riconoscimento della prima, in questa Dichiarazione, promulgata da una istituzione extra-territoriale e sovra-nazionale, per la prima volta si tentava di sciogliere il nodo che lega non solo l’uomo al cittadino, ma anche quest’ultimo al territorio di uno Stato, investendo direttamente l’uomo in quanto tale, cioè senza riguardo alla sua appartenenza a una qualsivoglia comunità politica e territoriale, di quello statuto giuridico – essere soggetto di diritti fondamentali e inalienabili – che nessun potere politico statal-nazionale dovrebbe più avere il diritto di revocare o di rifiutare, poiché attiene alla singola persona e a un ordinamento “superiore”, sovra-nazionale. In tal modo veniva per la prima volta davvero scardinata «l’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridico-politico dello Stato-nazione»33, sconfessata nel suo stesso presupposto. A differenza della Dichiarazione del 1789, questa volta i diritti umani fondamentali sono codificati in uno spazio sovra-nazionale (non esclusivamente nazionale e neppure semplicemente inter-nazionale) in grado di smascherare la violenza del potere sovrano dello Stato che, escludendo l’uomo dalla città, lo priva, mediante un artificio giuridico, di diritti che, essendo inalienabili, non possono essere tolti, riducendolo a nuda vita; il potere, dunque, produce una vita “naturale” che di naturale non ha assolutamente nulla, in quanto è, viceversa, come ha affermato Judith Butler, «una vita immersa [steeped] nel potere»34. Parlare dunque di “nuda vita” è solo l’effetto di una de-politicizzazione e di una artificiosa ri-naturalizzazione: essa

33.  G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 140. 34.  J. Butler - G.C. Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione?, tr. it. e cura di A. Pirri, Meltemi, Roma 2009, p. 35.

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risulta «saturata di potere precisamente nel momento in cui viene privata della cittadinanza»35. Perciò è necessario ribadire che «coloro che si trovano in condizioni di radicale esposizione alla violenza, deprivati delle più basilari forme politiche e legali di protezione, non per questo sono fuori dal campo della politica. […] Anche la vita spogliata dei diritti si trova pur sempre all’interno della sfera politica»36. I diritti umani promulgati nella Dichiarazione del 1948 non rappresentano dunque l’iscrizione della zoé nel diritto – se così fosse si assumerebbe la prospettiva di quel potere sovrano che l’ha artificiosamente prodotta – ma, al contrario, disvelano e denunciano una volta per tutte il risvolto zoo-politico del principio sovrano statale-territoriale che, nella sua incondizionatezza, ha il potere di sospenderli. Per la prima volta viene riconosciuto che la nuda vita è frutto di una violenta spoliazione, di una dis-umanizzazione e di una ri-naturalizzazione da parte di un potere sovrano che, per mantenere integra e indenne la comunità, mette in campo politiche identitarie e immunitarie che mirano a trasformare l’estraneo in non-uomo, a “rigettarlo” e a espellerlo come un animale fuori dalla città. Questo zoo-potere, che promuove la vita all’interno della città, è il medesimo che lascia morire e che uccide fuori di essa. Per difendere a tutti i costi l’integrità del corpo sociale, deve prendere-fuori, rigettando ed escludendo quanti si presuppone possano attentare ad essa. I diritti umani, promulgati nella Dichiarazione del 1948 e da allora incorporati in tutte le Costituzioni degli Stati liberal-democratici, affermano invece che la vita umana, proprio nel suo essere semplicemente umana, non è mai nuda, non lo è malgrado e nonostante ogni tentativo di spogliarla dei suoi fondamentali e costituitivi di-

35.  Ivi, p. 50. 36.  J. Butler, L’alleanza dei corpi e la politica della strada, cit., pp. 129-130.

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ritti. Anche solo per il fatto che il potere di eccezione cattura nel modo dell’esclusione, questa vita è sempre politicamente qualificata. Per quanto riguarda l’uomo, non esiste dunque una vita naturale che il diritto sarebbe chiamato a “vestire”. Per questo, benché provengano dalla tradizione giusnaturalistica, costituisce un rischioso ancoraggio biologistico interpretarli come diritti “naturali”. L’uomo, in quanto tale, compare al di là della natura e la sua eccedenza gli impedisce ogni possibile regressione a una condizione zoologica. Nonostante i limiti e le ambiguità insiti nei concetti di “dignità” e di “persona”, non abbiamo sinora trovato altre parole per designare quel che nella sua vita (animale) oltrepassa e vale più (un valore, come ci insegna Kant, al di là di ogni possibile calcolo o prezzo) della stessa vita. Di questa “dignità” la vita umana non può in alcun modo essere privata, perché tale rimane, “umana”, anche al culmine della più radicale e violenta spoliazione e disumanizzazione. Questo è il principio cardine su cui si fondano, a partire dalla nuova Dichiarazione del 1948, i diritti umani: per la prima volta si sancisce che ovunque, in qualunque circostanza e per tutti gli uomini, singolarmente, vi è un principio giuridico di tutela di ciò che sono: esistenze mai e per nessuna ragione da trattare come se fossero nuda vita. Proprio per questo la loro validità oltrepassa la sovranità di uno Stato, nel senso che essa continua a vigere anche e malgrado la decisione sovrana di revocarla o di limitarla sia al suo interno, che al di là dei suoi confini territoriali. Solo con questa Dichiarazione viene dunque messo radicalmente in questione il principio vestfaliano di sovranità assoluta degli Stati, i quali sono d’ora in avanti subordinati a un’autorità ad essi superiore, cui dovrebbero sentirsi vincolati37. Anche se non viene esplicitamente codifi-

37.  Come ha giustamente messo in evidenza Ferrajoli, con l’istituzione dell’ONU e delle sue Carte sui diritti umani, avviene «una rottura epocale: la rottura di quell’ancien régime internazionale nato tre secoli fa dalla

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cato un diritto di immigrazione, ossia un diritto incondizionato all’ospitalità, ma solo il diritto universale e inalienabile all’emigrazione38 e alla protezione umanitaria – e qui si tocca certamente il limite e il punto incandescente di contraddizione e contrasto tra il principio di sovranità incondizionata degli Stati e il principio sovra-nazionale di sovranità condizionata e con-divisa che ispira la Dichiarazione – è tuttavia implicitamente deducibile un obbligo altrettanto cogente e universale all’ospitalità e un diritto universale alla cittadinanza, con il conseguente dovere di stabilire delle vie legali percorribili per conseguirla39. pace di Westfalia, fondato sul principio della sovranità assoluta degli Stati e giunto al suo fallimento con la tragedia delle due guerre mondiali. […] Dopo la nascita dell’Onu, e grazie all’approvazione di carte e convenzioni internazionali sui diritti umani, questi diritti non sono più ‘fondamentali’ solo all’interno degli Stati nelle cui costituzioni sono formulati, ma sono diritti sovrastali cui gli Stati sono vincolati e subordinati» (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 22). 38.  È opportuno rammentare quanto prescrive l’art. 13, commi 1 e 2 della Dichiarazione del 1948: «1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». Ha rilevato questa carenza non casuale, perché è il punto di maggior frizione con l’istanza sovrana degli stati, Benhabib: la Dichiarazione universale, se da un lato riconosce la libertà di movimento attraverso le frontiere, il diritto di emigrare, d’altro canto tace rispetto al «diritto a immigrare, cioè il diritto a entrare in un paese. […] La Dichiarazione universale non dice nulla sugli obblighi degli Stati a garantire l’ingresso agli immigrati, ad accordare il diritto di asilo, e a concedere la cittadinanza ai residenti» (S. Benhabib, Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia, tr. it. di V. Ottonelli, il Mulino, Bologna 2008, p. 43). 39.  Per quanto l’articolo 13 sancisca solo la libertà di emigrare e non espliciti anche il diritto di immigrare in un paese diverso da quello di origine e dunque non prescriva un diritto di ospitalità, se non nei limiti del diritto di asilo, contemplato nel successivo art. 14, Ferrajoli sostiene che, secondo la logica diritto/dovere che presiede a ogni promulgazione di diritti, una volta sancito il diritto di emigrare, ad esso deve corrispondere un analogo dovere

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Nel drammatico momento storico che stiamo attraversando, in cui non solo viene negato il diritto all’ospitalità e diventano sempre più restrittive le condizioni per fruire del diritto d’asilo, ma viene persino di fatto criminalizzato e negato anche il diritto all’emigrazione, alla mobilità delle persone; in tempi in cui le organizzazioni non governative, che tentano di strappare i migranti alla morte nel Mediterraneo o all’inferno dei campi libici, vengono accusate di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e di traffico di migranti, affermare che bisogna abbandonare il terreno dei diritti umani e sostenere che le organizzazioni umanitarie intrattengono di fatto «loro malgrado una segreta solidarietà con le forze che dovrebbero combattere»40, dal momento che tutta la sfera dell’umanitario si troverebbe a essere complice della riduzione della vita umana a nuda vita41, mi sembra, paradossalmente, questo sì, un modo per diventare oggettivamente complici di quanti vorrebbero lasciarli morire. La sfera dell’umanitario non è separabile da quella politica; semmai è altrimenti politica. Essa non rappresenta un ambito di de-politicizzazione complice, al pari del potere sovrano, della produzione di nuda vita. Al contrario, in questo tipo di interventi si deve cogliere, oltre all’aspetto etico, anche un aspetto politico e giuridico: il riconoscimento della inalienabile dignitas personae dei migranti, in contrasto con quel potere che tenta in tutti i modi di ridurli a “nuda vita”; giuridico di accogliere: «una norma come quella enunciata dall’art. 13 […] comporta non solo il divieto per ciascuno Stato di impedire l’emigrazione, ma anche il divieto per la comunità internazionale di impedire l’immigrazione e il correlativo obbligo dell’accoglienza in almeno uno degli altri Stati» (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 152). 40.  G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 148. 41.  Secondo Agamben le organizzazioni umanitarie avrebbero bisogno di nuda vita «in misura esattamente simmetrica al potere statuale. L’umanitario separato dal politico non può che riprodurre l’isolamento della vita sacra su cui si fonda la sovranità» (ibidem).

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essi sono portatori innanzitutto del diritto di essere trattati con umanità, come umanità, di essere riconosciuti, appunto, non come nude vite di scarto, ma come esseri umani. Il riferimento ai diritti umani può costituire il solo, l’unico appiglio per scongiurare ogni forma di brutalizzazione e dis-umanizzazione che colpisce vittime inermi, che non sempre sono in grado di poter lottare in prima persona per rivendicarli. Del resto, i loro stessi corpi, che recano le stimmate delle molte violenze subite, non sono già di per sé un’eloquente, per quanto silenziosa, denuncia, una protesta e un disarmante strumento di lotta? I diritti universali dell’uomo non sono diritti che attengono alla “natura” dell’uomo, dunque pre-politici o addirittura anti-politici e spoliticizzanti; direi addirittura che sono contro-naturali, nella misura in cui costituiscono un contro-potere rispetto alla zoo-politica di uno Stato sovrano che intenda fare un uso discriminatorio e, in ultima analisi razzista, della cittadinanza nazionale e territoriale, pervertendo quello che avrebbe dovuto essere uno strumento di inclusione, in un arrogante diritto di esclusione nei confronti di altri uomini, sigillando i confini e trasformando artificiosamente (cioè giuridicamente) chi resta “preso-fuori” in non-uomo e in animale. Questi diritti costituiscono uno stadio, sempre provvisorio e modificabile, di quell’universale che chiamiamo umanità dell’umano42, il quale è sempre il risultato di faticose conquiste. Lungi dal rappre-

42.  A proposito di questo concetto universale di umanità, non astratto e non metafisico, occorre precisare che esso non attiene a un’essenza o a una definizione dell’uomo atemporale e immutabile, responsabili delle peggiori discriminazioni. Come Butler ha suggerito, è necessario piuttosto ripensare l’umano a partire dalle sue esclusioni e lottare per un suo sempre possibile ulteriore ampliamento: «mantenere aperta la nozione dell’umano a una futura articolazione è fondamentale per il progetto internazionale di una politica e di un linguaggio dei diritti umani» (J. Butler, Fuori da Sé. Sui limiti dell’autonomia sessuale, in Ead., Fare e disfare il genere, tr. it. e cura di F. Zappino, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 77).

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sentare un’istanza di de-politicizzazione, oltre a nominare il fondamento costitutivamente politico della vita umana, i diritti umani sono anche diritti sovra-politici, se con il termine “politica” ci si riferisce, in modo del tutto restrittivo, al binomio Stato-Territorio, tipico della concezione politica moderna. Dunque essi sono anche altrimenti politici e impongono di pensare altrimenti il Politico e il Giuridico. Solo il perentorio richiamo a questi diritti consente di riconoscere nei corpi martoriati dei migranti, stremati dalla fatica e dal dolore, in quelle “vite precarie”43 e “di scarto”, la “dignità” dell’appartenenza al genere umano, il fatto concretissimo e per nulla astratto di essere ancora e nonostante tutto umani e non non-umani, la strenua resistenza di fronte a un potere che pretenderebbe di privare un essere umano della sua stessa umanità. Ciò significa che, al di là e malgrado ogni tentativo di spoliazione e di dis-umanizzazione, effetto di una zoopolitica di cui l’Europa e l’Occidente dovrebbero sentirsi responsabili, queste vite sono sempre costitutivamente coperte e protette da un inalienabile diritto di essere umani44, cui i diversi trattati

43.  Il concetto di precarious life è al centro della più recente riflessione di Butler che, non a caso, preferisce usare questa espressione, in aperta critica nei confronti del concetto di “nuda vita” impiegato, seppure in modo diverso, tanto da Arendt che da Agamben. Cfr. in particolare J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, tr. it. di F. De Leonardis et al., a cura di O. Guaraldo, Meltemi, Roma 2004; J. Butler, Introduction. Precarious Life, Grievable Life, in Ead., Frames of War. When is Life Grievable?, Verso, London-New York 2009, pp. 1-32; Ead., Dispossession. The Performative in the Political. Conversations with Athena Athanasiou, Polity Press, Cambridge (UK) 2013; Ead., L’alleanza dei corpi, cit. 44.  Ho sviluppato questo concetto in una mia precedente riflessione sui diritti umani, che fa da premessa e da corollario alle questioni affrontate in questo testo: C. Resta, Il diritto di essere umani, in C. Di Martino (a cura

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internazionali si limitano a dare veste giuridica. È solo questo il fondamentale «diritto di avere diritti», conquistato dalla civiltà europea dopo secoli e anzi millenni di lotte – e dunque ben poco “naturale” –, da cui discendono tutti gli altri. Esso riguarda ciascuno singolarmente, a prescindere dalla sua appartenenza o meno a una comunità politico-territoriale45. È questa la “pelle giuridica” – e non naturale – su cui aderisce la veste giuridica dei diritti universali dell’uomo, che proprio in Occidente hanno visto la luce e che proprio l’Occidente sta così clamorosamente tradendo e rinnegando. Di questa “pelle” non è possibile in alcun modo essere spogliati e ovunque e in ogni circostanza essa dovrebbe trovare difesa e protezione. Che questo accada raramente o per nulla affatto non comporta l’inesistenza di questa “pelle giuridica” né dei diritti che la rivestono, ma dovrebbe suscitare la ferma denuncia di una colpevole violazione. Il fatto che i diritti umani vengano per lo più calpestati non deve indurre a ritenerli inutili, bensì è il segno di una grave lacuna nel diritto che chiede con urgenza di essere colmata e di battersi perché ciò possa ovunque e in ogni circostanza al più presto accadere. Infatti, alla luce della Dichiarazione universale del 1948 e della Costituzione italiana (come della maggior parte delle Costituzioni dei paesi occidentali), nessuno – neppure una maggioranza politica all’interno di uno stato sovrano – può vantare il diritto di privare qualcuno del diritto ad avere diritti, del diritto di essere riconosciuto come essere umano. Il fatto che questo diritto di), I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica, Inschibboleth, Roma 2017, pp. 11-40. 45.  Come ha osservato Butler: «Il diritto di avere diritti è un “diritto” la cui legittimazione non deriva da nessuna particolare organizzazione politica esistente. Come lo spazio dell’apparizione, il diritto di avere diritti anticipa e precede ogni istituzione politica che potrebbe codificarlo o cercare di garantirlo; allo stesso tempo, tale diritto non deriva da nessuna legge naturale» (J. Butler, L’alleanza dei corpi e la politica della strada, cit., pp. 130-131).

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fondamentalissimo venga per lo più misconosciuto, negato, sistematicamente violato, persino irriso, non può che indurre a rivendicarlo con sempre maggiore forza e convinzione, richiedendo che ovunque, in ogni caso, in ogni circostanza sia garantito46. Contrariamente a quanto pensava Arendt, occorre superare la cittadinanza statale, divenuta ormai uno status privilegiato e fonte di ogni genere di discriminazione, e istituire, sulla base delle convenzioni internazionali già esistenti, anche se ancora prive di garanzie, una cittadinanza universale, «superando la dicotomia diritti dell’uomo/diritti del cittadino e riconoscendo a tutti gli uomini e le donne del mondo, in quanto semplicemente persone, i medesimi diritti fondamentali»47. Non si può non convenire sul fatto che il rifugiato oggi sia «la figura centrale della nostra politica»48, così come la figura 46.  Tocchiamo qui un aspetto davvero dirimente, in base al quale il non rispetto di un diritto può essere assunto: 1) come una deficienza che ne vanifica totalmente la valenza giuridica, riducendolo a mera istanza morale, fattualmente ininfluente (come la stessa Arendt ritiene); 2) oppure come la palese violazione di un diritto il cui rispetto richiede, semmai, di essere reso cogente. A fronte di coloro che sostengono la tesi secondo la quale un diritto senza garanzie, ossia un diritto al quale non corrispondano precisi obblighi o divieti e la giustiziabilità della loro violazione, semplicemente non esiste, Ferrajoli ribadisce con forza, invece, la necessità di operare una netta distinzione tra la sfera dei diritti e quella delle garanzie. L’assenza di garanzie non annulla il diritto, ma, al contrario, deve essere denunciata come una ingiustificata omissione che necessariamente richiede di essere sanata: «l’assenza di garanzie, che per esempio nel diritto internazionale è pressoché totale, deve essere letta come un’indebita lacuna che è obbligatorio colmare» (L. Ferrajoli, Per una teoria dei diritti fondamentali, in Id., Iura paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, a cura di D. Ippolito e F. Mastromartino, Editoriale Scientifica, Napoli 2017, p. 110). 47.  L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in Id., Iura paria, cit., p. 147. 48.  G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, cit., p. 21.

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dello “straniero residente” testimonia di un diverso modo di co‑abitare, finalmente libero dalla pretesa di possesso esclusivo della terra. Come ha scritto Donatella Di Cesare, «questo rapporto non identitario con la terra dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare che non si dà nel solco del radicamento, bensì nell’apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un’ospitalità che prelude già a un modo altro di essere al mondo e a un altro ordine mondiale»49. Proprio lo straniero residente, infatti, attesta che «nella Città degli stranieri la cittadinanza coincide con l’ospitalità»50. Nella figura del migrante è dunque custodita la possibilità di pensare a un’umanità futura più inclusiva, per la quale la cittadinanza non dovrà più conoscere limiti o confini, vincoli o condizioni, e potrà così perfettamente coincidere, per ciascuno e per tutti, con la propria stessa appartenenza al genere umano e con l’essere tutti co-abitanti della medesima terra che ci ospita. Come di recente ha scritto Ferrajoli, si deve assumere il fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionarie i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale. Il diritto di emigrare equivarrebbe, in questa prospettiva, al potere costituente di questo nuovo ordine globale […], una politica informata all’uguaglianza e alla garanzia della dignità e dei diritti fondamentali di tutti dovrebbe avere il coraggio di vedere nel popolo meticcio ed oppresso dei migranti, con le sue infinite differenze culturali, religiose e linguistiche, la prefigurazione dell’umanità futura quale unico popolo globale, inevitabilmente meticcio perché formato dall’incontro e dalla contaminazione di più nazionalità e di più culture, senza più differenze privilegiate né differenze discriminate, senza più cittadini né stranieri perché tutti accomunati dalla 49.  D. Di Cesare, Stranieri residenti, cit., p. 259. 50.  Ivi, p. 13.

91 condivisione, finalmente, di un unico status, quello di persona umana, e dal pacifico riconoscimento dell’uguale dignità di tutte le differenze.51

51.  L. Ferrajoli, La questione migranti: Italia incivile, Europa incivile, in «Critica Marxista», n. 5, 2018, pp. 9-15: p. 14.

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Per un’antropologia filosofica dell’emotional sharing Guido Cusinato

1. Introduzione La premessa da cui parto in questo contributo è che una parte dell’antropologia filosofica del Novecento, nella misura in cui prende forma attorno al concetto di eccedenza, possa essere letta al di fuori del paradigma immunitario. In questa prospettiva l’antropologia filosofica, invece di ruotare attorno al primato dell’umano, può offrire una riflessione su di una forma di “superamento” dell’umano alternativo a quello ipotizzato dalle diverse forme di postumanismo: non un mutamento tecnologico, ma una trasformazione relativa alla forma mentis. Questa “seconda via”, che oggi è oscurata dalle aspettative in ambito tecnologico, è sempre esistita in numerose tradizioni religiose e filosofiche. La tesi che qui mi propongo di sviluppare è che questa “seconda via” di trasformazione si avvalga di particolari pratiche di emotional sharing di tipo non semplicemente cooperativo ma solidaristico. Per argomentare tale tesi analizzo in particolare l’origine del concetto di emotional sharing in ambito filosofico e i suoi sviluppi nell’ambito della psicologia dello sviluppo facendo riferimento in particolare alle opere del fenomenologo tedesco Max Scheler (1874-1928) e dello psicologo statunitense Michael Tomasello. Mentre Tomasello individua, all’origine della differenza fra lo sviluppo cognitivo umano e quello dello

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scimpanzé, pratiche di emotional sharing che seguono una logica di tipo cooperativo, Scheler caratterizza l’animale umano in base a un concetto più complesso di solidarietà, implicante il momento etico della capacità di trascendere il proprio punto di vista autoreferenziale.

2. Carenza organica e antropologia filosofica È abbastanza sorprendente come finora si siano spesso confusi fra loro due modi diversi d’interpretare i risultati degli studi di Louis Bolk sull’ominazione. Mentre infatti Arnold Gehlen, Helmuth Plessner, Adolf Portmann e Clifford Geertz considerano l’ominazione la conseguenza di un ritardo dello sviluppo organico, tipica di un essere originariamente carente (Mängelwesen), Paul Alsberg, Max Scheler e, più recentemente, Edgard Morin trattano la carenza organica non come la causa, bensì come una conseguenza del processo d’ominazione. Si considerino ad esempio le posizioni del sociologo e filosofo francese Edgard Morin e dell’antropologo statunitense Clifford Geertz: mentre per Morin l’incompiutezza umana è un risultato della cultura1, per Geertz noi siamo animali incompleti che si completano attraverso la cultura: «Tra quello che dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura»2. Non si tratta di mettere in discussione il ruolo avuto dalla neo­ tenia o «infanzia cronica» nel processo d’ominazione, ma il

1.  Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, tr. it. di E. Bongioanni, Feltrinelli, Milano 1994. 2.  Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, tr. it. di E. Bona, il Mulino, Bologna 1987, p. 132.

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come viene interpretato questo ruolo. Si può osservare che l’umano è caratterizzato da un “parto prematuro” che porta alla luce un feto bisognoso di un ulteriore sviluppo embrionale extra­uterino, e pertanto di un’incubatrice “culturale” (la società), in cui l’umano rimane immerso fino alla morte. Sulla funzione svolta dalla neotenia sul processo d’ominazione si possono fare per lo meno due ipotesi. 1) A un certo punto dell’evoluzione un «animale malato», per rimediare alla propria carenza organica, avrebbe imboccato il processo di ominazione. In questo caso la neotenia viene considerata un risultato casuale dell’evoluzione, che, per una serie di eventi fortunati, avrebbe portato alla nascita dell’umano. A ben vedere questa ipotesi non si limita a individuare nell’umano un processo di neotenia particolarmente pronunciato, ma pensa di aver trovato in questa caratteristica la soluzione all’enigma umano. 2) Nella seconda ipotesi, la neotenia viene invece compresa all’interno di un processo di ominazione già avviato, che contribuisce ad accelerare ulteriormente. In questo caso la neo­ tenia non è più l’“errore della natura” che avrebbe originato per caso l’umano, ma diventa un passaggio cruciale del processo d’omi­nazione. L’incompiutezza, che caratterizza l’umano fin dalla nascita, non è più una carenza da compensare, ma una condizione che corrisponde, sul piano antropologico, a quella dell’atopos socratico. Il rapporto fra neotenia e processo d’ominazione in questo caso sarebbe da intendere in senso dialettico. Uno dei primi a contestare la tesi secondo cui l’ominazione sarebbe il risultato di un ritardo organico casuale fu Paul Alsberg nel 1922. Alsberg con il concetto di disimpegno organico (Körperausschaltung) ipotizza che l’umano non sia il risultato fortunato di un ritardo organico e che, al contrario, la carenza organica sia da annoverare non fra le cause, ma fra le conseguenze del processo d’ominazione. Il problema può essere semplificato con un dilemma: l’umano ha perso il manto peloso perché ha iniziato a vestirsi con le pelli degli animali che cacciava,

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oppure è l’animale malato che, trovandosi sprovvisto di manto peloso, a causa di una carenza organica, è diventato improvvisamente intelligente e ha cominciato a cacciare e a fabbricarsi i vestiti? Secondo Alsberg nessuna forma di vita caratterizzata da una carenza biologica strutturale avrebbe il tempo materiale a disposizione per inventarsi una soluzione come quella prospettata nella seconda ipotesi. Alsberg riconosce nell’uma­no un progressivo indebolimento organico, un’involuzione biologica, ma nota che, contemporaneamente, c’è anche un’evoluzione sul piano culturale: alla base dell’enigma umano c’è una forbice fra involuzione biologica e sviluppo culturale. Lo sviluppo tecnologico, per Alsberg, non avrebbe affatto la funzione di integrare o sopperire la carenza biologica dell’uma­no, ma rappresenterebbe un’evoluzione extra-­organica, che segue una logica ostile alla biologia: non è una stampella per il corpo umano, ma il killer che mira a eliminarlo. Alsberg definisce pertanto il principio alla base dell’umano principio del disimpegno organico: «il principio evolutivo del­ l’animale è quello dell’adattamento organico (perfezionamento del corpo), il principio evolutivo dell’umano è quello del disimpegno organico grazie agli strumenti artificiali»3. Mentre l’animale mira a perfezionare il corpo biologico, l’umano con il «disimpegno organico» mira all’indebolimento del corpo, fino alla sua completa sostituzione con quello che oggi definiremmo un cyborg4. Partendo da un’indistinzione fra queste due diverse posizioni, spesso vengono rivolte due critiche di fondo a tutta l’antropologia filosofica del Novecento: 3.  P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lösung, Sybillen, Dresden 1922, p. 100. 4.  Su Alsberg mi permetto di rinviare a G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 143-147.

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a) Proprio descrivendo l’umano come l’essere carente (Mängelwesen), cioè come l’animale instabile per eccellenza, l’antropologia filosofica finisce con l’assegnare alle istituzioni e alla società il compito di stabilizzare l’umano in un sistema chiuso su se stesso e incapace di Weltoffenheit. L’umano in questo modo prenderebbe forma seguendo una logica essenzialmente immunitaria, che mira a ricostituire l’equilibrio e la stabilità messa in discussione dalla propria originaria carenza organica. Partendo da tali premesse è facile interpretare l’«incubatrice culturale» di Portmann, e con essa tutta l’antropologia filosofica del Novecento, nel senso della macchina del paradigma immunitario criticata da Roberto Esposito. b) Le teorie del Mängelwesen sarebbero la forma più evoluta della contrapposizione dualista fra humanitas/animalitas, quando invece gli studi di biologia e psicologia animale e la stessa teoria dei sistemi di Varela e Maturana mettono sempre più in evidenza una continuità biologica e psicologica fra l’uma­no e l’animale. Le teorie del Mängelwesen rischiano così di rovesciarsi in un nuovo identitarismo e in un nuovo specismo antropocentrico che ripropone surrettiziamente la superiorità dell’umano in base alla sua inferiorità biologica. Pensare l’umano come conseguenza di un difetto biologico è inoltre la premessa per pensare l’umano contro la vita, e di riproporre così una contrapposizione dualistica fra l’umano e la vita.

3. Un altro inizio dell’antropologia filosofica: lo über sich hinaus di Nietzsche Ritengo tali critiche condivisibili solo in parte e in ogni caso ingiustificata la loro estensione a tutta l’antropologia filosofica del Novecento. Esiste infatti anche un’antropologia filosofica alternativa al paradigma immunitario e incentrata piutto-

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sto sul concetto di eccedenza. Quest’antropologia filosofica ha la propria origine in Nietzsche. Il problema antropologico di Nietzsche non è quello di definire l’umano a partire dalla «civilizzazione», tanto che le concezioni che mireranno a comprendere l’umano in base alla capacità di surrogare il proprio deficit biologico finiscono con il diventare, agli occhi di Nietzsche, antropologie della volontà di potenza reattiva, della Domestikation des Menschen. A Nietzsche non basta rovesciare l’adattamento passivo in quello attivo della civilizzazione: questa produce l’ambiente artificiale in cui l’animale malato può sopravvivere, ma solo per prolungarne l’agonia. La civilizzazione non è affatto un progresso, ma decadenza. Al centro dell’antropologia di Nietzsche c’è piuttosto l’eccedenza come esercizio dello Über sich hinaus. La civilizzazione è un processo di livellamento teso al valore dell’utile e alla mera autoaffermazione: non porta all’Übermensch, ma si limita ad “allevare” l’ultimo-umano. Per questo Zarathustra da tempo ha smesso di chiedersi: «Come si conserva l’umano?» e ha iniziato a chiedersi per primo: «Come si supera?»5, il suo pensiero è infatti già rivolto oltre l’umano civilizzato. In questo über sich hinaus è racchiuso uno degli aspetti più fecondi dell’antropologia di Nietzsche: l’umano non è qualcosa di concluso, in quanto si definisce a partire da una direzione futura. L’umano diventa in tal modo il gesto del trascendere se stessi über sich hinaus. Solo nell’attivare un rapporto oltre se stesso l’umano è in grado di superare se stesso. È solo nel gesto dell’eccedenza che va ricercata la particolarità dell’umano: «La nostra essenza consiste nel creare un essere più alto di quello che noi siamo. Creare oltre noi stessi!»6. È questo 5.  F. Nietzsche, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe (d’ora in poi KSA), a cura di G. Colli e M. Montinari, DTV-de Gruyter, München-Berlin 19882, vol. IV (Also Sprach Zarathustra), p. 357. 6.  KSA X (Nachgelassene Fragmente 1882-1884), p. 209.

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che Zarathustra ama di più nell’umano: «ciò che v’è di grande nell’umano è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’umano è che egli è un passaggio e un tramonto»7.

4. In che senso superare l’umano? L’antropologia filosofica dello Über sich hinaus non solo anticipa il postumanismo, ma lancia una sfida al postumanismo sul suo stesso terreno: in che direzione va superato l’umano? Con postumanismo mi riferisco a quella corrente di pensiero che mira a liberare il genere umano dai propri vincoli biologici per portarlo a uno stadio successivo: l’idea è quella d’utilizzare le biotecnologie per diventare più forti, più belli, più intelligenti, meno violenti e più longevi. Si stanno sperimentando farmaci in grado di modificare l’umore e di cancellare selettivamente la memoria, eliminando traumi indesiderati, mentre le tecniche di screening genetico prenatale possono essere usate per selezionare le caratteristiche dei propri figli. Si può tuttavia osservare che, senza un effettivo superamento della logica di dominio dell’homo faber, questo tipo di superamento dello specismo e dell’antropomorfismo sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica. In altri termini un postumanismo che si limitasse a superare solo la struttura materiale dell’umano, mantenendone però intatta l’ideologia, sarebbe simile al tentativo di superare il computer modificandone l’hardware ma non il software. Non basta trasformare il corpo dell’umano in un cyborg, se poi questo cyborg eredita la vecchia logica di

7.  KSA IV, pp. 16-17. Per una più ampia analisi dell’antropologia dell’eccedenza di Nietzsche rinvio a G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 19-32.

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dominio dell’homo faber. Anzi, senza comprendere a fondo la questione posta dall’antropologia filosofica con il concetto di Weltoffenheit, lo stesso postumanismo rischia di ricadere nel paradigma immunitario. L’antropologia filosofica ci ricorda che l’umano ha davanti a sé due modi completamente diversi di superarsi: c’è un superamento tecnologico, tanto che si può ipotizzare che l’umano alla fine sostituirà completamente il suo corpo per trasferirsi in un cyborg; e ce n’è uno molto più antico, al centro, ad esempio, della metafora della caverna platonica, che consiste in una pratica di conversione periagogica che porta a trasformare la propria esistenza e la propria forma mentis in modo da guardare le cose in una prospettiva diversa. Nella stessa direzione Scheler interpreta la riduzione filosofica come passaggio dalla chiusura ambientale (Umweltgeschlossenheit) all’apertura mondana (Weltoffenheit). Affidare le sorti dell’umanità solo alla prima via, dimenticando che l’umano, da sempre, ha sperimentato una forma di trasformazione ben più radicale e decisiva – nel senso del rinnovamento individuale e sociale – sarebbe catastrofico. Accanto al superamento meramente biotecnico o bionico, va dunque mantenuta memoria anche del «superamento ex-centrico».

5. Il dibattito sull’emotional sharing La peculiarità della posizione di Scheler è quella di porsi il problema della “trasformazione” a partire dalla sfera affettiva e precisamente a partire da pratiche di condivisione emotiva che vengono analizzate e classificate con precisione nel Sympathiebuch (1913/1923), l’opera che inaugura la fenomenologia delle emozioni e l’ontologia sociale. L’importanza di queste analisi sulla condivisione emotiva (in lingua inglese emotional

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sharing) risulta evidente se si tiene presente da un lato la centralità di questo concetto nelle analisi di Tomasello8 e dall’altro gli sviluppi del dibattito sull’ontologia sociale e sulla collective intentionality, termine che risale al testo di John Searle Collective Intentions and Actions del 1990. Searle riconosce che l’ontologia sociale si fonda sul fenomeno dell’intenzionalità collettiva, cioè su forme di condivisione di intenzioni e di credenze. Fin dalle origini del dibattito, ampia è stata la discussione sui gradi di individualità mantenuti dai diversi membri dell’intenzionalità collettiva, così come sul criterio che li lega, sia esso cognitivo, normativo o affettivo9. Scarsa o inesistente è stata invece finora l’attenzione verso il fenomeno della condivisione degli affetti e delle emozioni, come anche della dimensione valoriale. Il dibattito fenomenologico odierno ha in parte recepito tale mancanza e inaugurato da pochissimi anni una linea di ricerca incentrata sull’emotional sharing. Ciò che accomuna le diverse teorie in tale ambito è che vi sia uno specifico we-mode, cioè una modalità dell’esperienza in prima persona plurale “Noi” (We) distinta sia dall’esperienza in prima persona singolare “Io” (Self), sia da quella in seconda persona10. La connessione fra queste modalità di esperienza è tuttora oggetto di discussione.

8.  Cfr. M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, tr. it. di M. Romano, Cortina, Milano 2009. 9.  M.E. Bratman, Faces of Intention. Selected Essays on Intention and Agency, Cambridge University Press, Cambridge 1999; F.M. Alonso, Shared Intention, Reliance, and Interpersonal Obligations, in «Ethics», vol. 119, n. 3, 2009, pp. 444-475; M. Gilbert, Walking Together: A Paradigmatic Social Phenomenon, in Ead., Living Together, Rowman and Littlefield Rationality, Sociality, and Obligation, Rowman & Littlefield, Lanham 1996, pp. 177-194. 10.  D. Zahavi, You, Me and We: The Sharing of Emotional Experiences, in «Journal of Consciousness Studies», XXII, n. 1-2, 2015, pp. 84-101.

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Zahavi sostiene che tale condivisione non possa prescindere da una coscienza basilare e dal minimal self11. La pluralità nelle emozioni condivise, in altre parole, non può essere discinta dall’individualità dei suoi membri, pena la fusione in un soggetto ‘inglobante’. Schmid si differenzia da quanto sostenuto da Zahavi e supporta quello che viene chiamato il «token-­ identity account», cioè una lettura delle emozioni condivise come un flusso affettivo unico e uguale per tutti i membri coinvolti12. Cusinato, seguendo una certa interpretazione di Scheler, argomenta in favore di diversi livelli di emotional sharing da cui emergerebbero i diversi processi d’individuazione dei singoli individui e delle diverse unità sociali, sostenendo che anche il sé minimo sia già costitutivamente relazionale e interpretabile nel senso d’un processo d’individuazione che parte a livello di schema corporeo (Leibschema)13. Più recentemente Ciaunica14 e Ciaunica e Fotopoulou15 hanno individuato un’emotional sharing originaria, basata sul senso del tatto, già a partire dal grembo materno.

11.  I. Brinck - V. Reddy - D. Zahavi, The Primacy of the “We”?, in Ch. Durt Th. Fuchs - Ch. Tewes (a cura di), Embodiment, Enaction and Culture. Investigating the Constitution of the Shared World, MIT Press, Cambridge-London 2017, pp. 131-147; F. León - T. Szanto - D. Zahavi, Emotional Sharing and the Extended Mind [2017], in «Synthese», vol. 196, n. 12, 2019, pp. 4847-4867. 12.  H.B. Schmid, Plural Action. Essays in Philosophy and Social Science, Springer, Dordrecht et al. 2009. 13.  G. Cusinato, Anthropogenese. Hunger nach Geburt und Sharing der Gefühle aus Max Schelers Perspektive, in «Thaumàzein», n. 3, 2015, pp. 29-81. 14.  A. Ciaunica, The ‘Meeting of Bodies’. Empathy and Basic Forms of Shared Experiences [2017], in «Topoi», vol. 38, n. 1, 2019, pp. 185-195. 15.  A. Ciaunica - A. Fotopoulou, The Touched Self: Psychological and Philosophical Perspectives on Proximal Intersubjectivity and the Self, in Ch. Durt Th. Fuchs - Ch. Tewes (a cura di), Embodiment, Enaction and Culture, cit., pp. 173-192.

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In questo dibattito prevale una prospettiva statica: i vissuti che vengono condivisi o sono individuali, pena la fusione in un soggetto inglobante (Zahavi) o sono unici e uguali per tutti i membri coinvolti (Schmid). È possibile individuare una terza via introducendo una variabile genetico-temporale? Nel momento iniziale della condivisione c’è effettivamente un momento in cui un unico flusso trans-soggettivo di vissuti è uguale per tutti i membri coinvolti. Tuttavia questi vissuti possono successivamente venir metabolizzati dai singoli membri – facendo riferimento al proprio ordine del sentire nella modalità della prima persona singolare (I-mode) – inaugurando un processo di ulteriore individualizzazione. Quello che sfugge a Zahavi e Schmid è che la questione non va posta in termini di contrapposizione fra condivisione individuale e collettiva dei vissuti, ma come passaggio da una condivisione trans-soggettiva a una condivisione singolarizzata. La singolarità non è all’inizio, ma alla fine del processo16. Va inoltre precisato meglio che cosa s’intenda con we-mode e I-mode. A questo proposito si potrebbe prendere in considerazione la distinzione che Scheler stesso pone nel Formalismus fra il Sé sociale e Sé personale, e fra il Noi della società e Noi della comunità personale. Questo permette di chiedersi se il “Sé sociale” esaurisca veramente la modalità di esperienza in prima persona singolare così come il “Noi della società” quella della prima persona plurale. Se cioè accanto al Sé sociale non debba essere presa in considerazione anche la modalità di esperienza di una singolarità personale, intesa come un individuo che ha fame di nascere del tutto; inoltre, se accanto al Noi sociale (a cui corrisponde l’identità gregaria del gruppo) non vada presa in considerazione anche una modalità di esperienza

16.  G. Cusinato, Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come esercizio di trasformazione, QuiEdit, Verona 20172, pp. 259-262.

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del Noi come comunità personale: la modalità trans-soggettiva dell’incontro con l’altro. In tal modo sarebbe possibile porre il problema dell’emotional sharing non solo in riferimento al riconoscimento sociale, ma anche in riferimento all’importanza delle relazioni di cura per la formazione della persona come singolarità e la trasformazione della società.

6. Emotional sharing e ontologia sociale La tesi che la condivisione delle emozioni sia alla base dell’ontologia sociale, enunciata nella prima edizione del 1913 del Sympathiebuch, viene ripresa e sviluppata nel Formalismus. La condivisione del sentire e delle emozioni sono alla base delle diverse «forme dell’essere-assieme-all’altro [Miteinandersein] e dell’esperire-assieme-all’altro [Miteinandererleben], in cui si costituiscono le corrispondenti forme di unità sociale»17. In tal modo Scheler pone le basi per una vera e propria teoria generale dell’ontologia sociale: Esiste una teoria di tutte le possibili unità sociali essenziali, il cui sviluppo completo e la cui applicazione alla comprensione delle concrete unità sociali (matrimonio, famiglia, popolo, nazione, ecc.) costituiscono il problema fondamentale della sociologia filosofica e di ogni etica sociale (GW II, p. 515).18

In particolare Scheler individua: 1) «L’unità sociale che si costituisce (simultaneamente) nel così detto contagio privo di comprensione e nell’imitazione

17.  M. Scheler, Gesammelte Werke (d’ora in poi GW), Francke, Bern-München 1954 ss. – Bouvier, Bonn 1986-1997, vol. II (Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik), p. 519. 18.  Cfr. anche GW VII, p. 437.

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involontaria. Questa unità sociale è in riferimento agli animali il “branco” e in riferimento all’umano la “massa”» (ibidem); 2) «L’unità sociale che si costituisce in uno specifico co-esperire [Miterleben] o ri-esperire [Nacherleben] (sentire-assieme [Mitfühlen], tendere-con [Mitstreben], pensare-assieme [Mitdenken], giudicare-assieme [Miturteilen], ecc.)» (ibidem). Essa si chiama comunità vitale (Lebensgemeinschaft) (GW II, p. 516); 3) La società, a differenza della comunità vitale, è «un’unità di singole persone maggiorenni e consapevoli» (GW II, p. 518). Nella società gli individui non sono considerati in relazione alla differenza della loro singolarità insostituibile, infatti «le differenze e le differenze di valore che si manifestano nella società e tra i suoi elementi dipendono esclusivamente dai diversi valori di prestazione dei singoli, così come si manifestano nella direzione assiologica dei valori del piacevole e dell’utile correlati alla società» (GW II, p. 519). Questa logica efficientistica e individualistica comporta una capacità di condividere le emozioni dell’altro come emozioni dell’altro, in base a una distinzione chiara e consapevole fra Io e Tu, ma anche l’assenza di ogni forma di «corresponsabilità [Mitverantwortlichkeit] originaria, in quanto ogni responsabilità che si assume nei confronti dell’altro è fondata piuttosto in un’auto­responsabilità [Selbstverantwortlichkeit] unilaterale» (GW II, p. 518). 4) La «comunità personale»19 è da porre in relazione alle forme della condivisione reciproca del vissuto (Miteinandererleben; GW II, pp. 511-512) e si costituisce in base alle forme soli-

19.  Nel Formalismus questa quarta forma di unità sociale viene indicata anche con il termine di «persona complessiva [Gesamtperson]», un termine problematico, che però nella seconda edizione del Sympathiebuch non compare più e che verrà sostituito con l’espressione «comunità di persone

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daristiche di condivisione della responsabilità, la «corresponsabilità [Mitverantwortlichkeit]», fondata sul principio della «solidarietà insostituibile» (GW II, p. 523). A partire dalla seconda edizione del Sympathiebuch (1923), Scheler sente il bisogno di proporre un’ulteriore versione delle quattro forme di condivisione del sentire e delle emozioni: 1) condivisione inconsapevole attraverso unipatia (Einsfühlung, un termine che non era presente nell’edizione del 1913 e neppure nel Formalismus) o contagio affettivo (Gefühlsansteckung); 2) condivisione attraverso empatia proiettiva (Einfühlung) nel senso di Lipps; 3) condivisione attraverso empatia non proiettiva, che in Scheler corrisponde al termine Nachfühlung, per differenziarsi dalla teoria dell’empatia proiettiva di Lipps; 4) condivisione consapevole attraverso le varie forme del «sentire-assieme» (Mitgefühl) caratterizzate in senso etico (GW VII, p. 105)20. La corrispondenza fra la classificazione delle unità sociali e le forme di emotional sharing rimane problematica, tuttavia si può ipotizzare un abbinamento fra la massa e l’unipatia, la comunità vitale gregaria e l’empatia proiettiva, la società e l’empatia, e infine la comunità personale e le varie forme di «sentire-assieme», caratterizzate in senso etico dalla capacità di trascendere il proprio punto di vista autoreferenziale. Al di là degli evidenti problemi riscontrabili in questa correlazione, l’idea rilevante per il problema che mi pongo in

spirituali insostituibili [Gemeinschaft unersetzbarer geistiger Personen]» (GW VII, p. 214). 20.  Sulla distinzione fra Nachfühlung e Mitgefühl cfr. N. Meuter, Emotionalität und Expressivität. Über eine moralphilosophische Einsicht Max Schelers, in «Thaumàzein», n. 2, 2014, pp. 309-342, in part. p. 334. In Scheler va tuttavia precisato che il Mitgefühl assume una valenza etica solo nella misura in cui si fonda su di un atto dell’amare (GW VII, p. 78).

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questo contributo è quella di porre le diverse forme di condivisione emotiva alla base delle diverse forme di unità sociale e dell’ontologia sociale. Si tratta di una tesi che, come si è visto, ha una notevole rilevanza anche per l’attuale discussione sul concetto di collective intentionality. Tuttavia la centralità del concetto di emotional sharing non è attestata solo dai sempre più numerosi studi in ambito sociologico e fenomenologico, ma anche da una convergenza su tematiche affini che, indipendentemente da Scheler e dalla ricerca fenomenologica, si sono recentemente sviluppate negli ambiti dell’antropologia culturale e della psicologia evolutiva. Mi riferisco in particolare, per l’antropologia culturale, alla funzione che Alan Barnard assegna al concetto di sharing per il salto verso il pensiero simbolico e, relativamente alla psicologia evolutiva, al significato che Michael Tomasello assegna all’emotional sharing per lo sviluppo di forme di cooperazione tipicamente umane. La mia proposta è quella d’utilizzare lo schema di Scheler, e in particolare la differenza fra empatia non proiettiva (Nachfühlung) e le varie forme di sentire-assieme (Mitgefühl), per arrivare a delineare una logica solidaristica, più caratterizzata rispetto al concetto di cooperazione a cui fa riferimento Tomasello.

7. Homo sapiens e salto verso il pensiero simbolico Negli ultimi decenni, nella paleoantropologia e archeologia cognitiva si sono confrontati due modelli principali relativi all’origine del pensiero simbolico: quello dell’«esplosione» e quello dello «sviluppo graduale». Il maggior sostenitore della prima ipotesi è stato il paleoantropologo Ian Tattersall. La sua tesi è che il passaggio al pensiero simbolico non fu moti-

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vato da fattori biologici, ma culturali. Secondo Tattersall «la capacità di sviluppare un pensiero simbolico è rimasta nascosta, non riconosciuta, finché non è stata “rilasciata” grazie a uno stimolo che deve per forza essere stato di tipo culturale: la parte biologica infatti esisteva già»21. Purtroppo quando Tattersall passa ad analizzare gli stimoli culturali alla base del pensiero simbolico, ricade in un tipico argomento circolare: «ci sono molte ragioni per pensare che l’invenzione del linguaggio sia stata lo stimolo che ha permesso ai nostri antenati di superare la soglia della capacità simbolica»22. In altri termini la scintilla che avrebbe fatto emergere il pensiero simbolico sarebbe stata la comparsa del linguaggio, cioè l’espressione massima dello stesso pensiero simbolico. In tal modo Tattersall è inoltre costretto a stabilire un’equivalenza molto impegnativa fra pensiero simbolico e linguaggio articolato: «Il linguaggio articolato, possiamo affermare, è più o meno sinonimo di pensiero simbolico»23. Tattersall sembra far coincidere l’origine del pensiero simbolico con la rivoluzione del Paleolitico Superiore, corrispondente a un periodo relativamente recente, compreso fra i 40.000 e i 10.000 anni fa24. Nel 2002 questa ipotesi è stata però definitivamente messa in discussione dal rinvenimento nella Blombos Cave del Sud Africa di due placche di ocra rossa risalenti a circa 77.000 anni fa e rappresentanti la prima traccia di un pensiero simbolico: lunghe una decina di centimetri, risultano accuratamente levigate e incise con una serie di linee intrec21.  I. Tattersall, I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo, tr. it. di A. Panini, Codice, Torino 2013, p. 239. 22.  Ivi, p. 245. 23.  I. Tattersall, Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali, tr. it. di L. Montixi Comoglio, Garzanti, Milano 2004, p. 202. 24.  Cfr. ivi, p. 167.

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ciate rappresentanti un disegno geometrico25. Dopo questa scoperta Tattersall è costretto a retrodatare l’origine del pensiero simbolico e, coerentemente alla sua ipotesi, suggerisce che gli abitanti della Blombos Cave fossero già in grado di comunicare attraverso un linguaggio verbale articolato26. Diversa la posizione dell’antropologo culturale Alan Barnard, che prevede un simbolismo e forse un’arte prelinguistici: i reperti di Blombos non implicherebbero necessariamente l’esistenza di un linguaggio verbale articolato, ma solo l’esistenza «del simbolismo, e forse l’azione simbolica prelinguistica e l’arte»27. La tesi di Barnard è che la rivoluzione simbolica all’origine dell’essere umano sia caratterizzata da tre tappe riconducibili rispettivamente all’emergere di pratiche di condivisione, scambio e linguaggio verbale articolato28. Gli abitanti della Blombos Cave appartenevano probabilmente alla prima fase, caratterizzata da particolari «pratiche di condivisione» non presenti nelle scimmie antropomorfe: «Gli scimpanzé, che pure usano condividere, non possiedono tuttavia regole o definizioni di pratiche di condivisione»29. A queste pratiche era associato un proto-linguaggio in cui erano presenti solo singole parole o espressioni che indicavano qualcosa di preciso, ad esempio il cibo o il fuoco. All’origine del pensiero simbolico, e quindi della condizione umana, non ci sarebbe pertanto il linguaggio verbale articolato – che secondo Barnard comparve solo alla fine, nella terza tappa – bensì particolari «pratiche di condivisione». 25.  Sulla Blombos Cave, cfr. A. Barnard, Antropologia sociale delle origini umane, il Mulino, Bologna 2014, pp. 32-34. 26.  I. Tattersall, I signori del pianeta, cit., pp. 227-234. 27.  A. Barnard, Antropologia sociale delle origini umane, tr. it. di G. Arganese, a cura di A. Favole, il Mulino, Bologna 2014, p. 136. 28.  Cfr. ivi, pp. 145-146. 29.  Ivi, p. 186.

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Nel 2012 Tattersall analizza un’ipotesi, per poi escluderla immediatamente. Secondo questa ipotesi a un certo punto l’emergere del pensiero simbolico sarebbe divenuto indispensabile per affrontare le dinamiche interazioni all’interno di società che diventavano sempre più complesse. In altre parole, la moderna capacità cognitiva umana si sarebbe sviluppata a causa delle pressioni di una socialità sempre più intensa, forse proprio intorno ai focolari degli antichi accampamenti. […] Tuttavia un meccanismo di questo tipo non spiega perché le scimmie antropomorfe, altamente sociali, non abbiano sviluppato una più complessa teoria della mente nel tempo in cui si sono evolute parallelamente a noi.30

L’obiezione di Tattersall colpirebbe nel segno solo se anche le grandi scimmie antropomorfe avessero l’abitudine di riunirsi attorno a «focolari domestici». Tattersall sembra non tener conto del fatto che non si ha notizia di scimmie antropomorfe che organizzino la loro vita attorno a focolari domestici. Come escludere allora che proprio attorno a quei primi focolari domestici, in una situazione di «insulazione» – per utilizzare una categoria dell’ominazione di Sloterdijk – abbiano potuto svilupparsi nuove esperienze di socializzazione comunicativa e che proprio da queste siano gradualmente emersi gli stimoli all’origine del salto verso il pensiero simbolico? Che cosa spinse a un certo punto l’homo sapiens a levigare e a incidere le due placche di ocra rossa di Blombos, a costruire oggetti ornamentali e ad alzarsi da quei focolari per iniziare a dipingere le pareti di una caverna? L’importanza delle pratiche di condivisione del cibo per il processo di ominazione è già stata sottolineata dalle ricerche di Isaac31. È ragionevole ipo30.  I. Tattersall, I signori del pianeta, cit., p. 242. 31.  Cfr. G.L. Isaac, The Food-sharing Behavior of Proto-human Hominids, in «Scientific American», vol. 238, n. 4, 1978, pp. 90-108.

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tizzare che attorno a quel focolare domestico, in un ambiente insulare, e quindi protetto, si siano sperimentate pratiche sempre più ricche di condivisione del cibo e delle abitudini fino a sviluppare gradualmente relazioni sociali così complesse da mettere in crisi il sistema comunicativo vigente? Si può escludere che queste pratiche di condivisione abbiano potuto sedimentarsi nel corso dei millenni fino a inaugurare, sempre attorno a quel focolare domestico, nuove relazioni di cura fra la madre e il suo neonato? Queste nuove relazioni di cura fra la madre e il neonato non potrebbero essere divenute il fulcro antropogenetico e ontogenetico del salto verso il pensiero simbolico e di un nuovo tipo di cultura? Non è sensato ipotizzare che di fronte a una complessità delle relazioni sociali sempre più elevata, e a una trasmissione delle pratiche di condivisione sempre più complessa, la pressione verso forme espressive più efficaci e nuove tecniche di comunicazione, come il linguaggio verbale – sia diventato a un certo punto così forte da risultare una necessità impellente, pari a quella che spinse a inventare nuove tecniche di costruzione degli utensili e nuove strategie di caccia?

8. Emotional sharing e shared intentionality Per Barnard all’origine del pensiero simbolico, e quindi dell’enigma umano, ci sarebbero determinate «practices of sharing» che si svilupparono nelle prime società di cacciatori-raccoglitori32. In Tomasello tali pratiche di condivisione, all’origine del pensiero simbolico, vengono invece ricondotte alla capacità di condividere l’intenzionalità in una prospettiva di cooperazione.

32.  Cfr. A. Barnard, Genesis of Symbolic Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. 10.

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Un esempio illuminante è quello relativo alla comprensione del gesto dell’additare negli scimpanzé e nell’uomo. Lo scimpanzé è perfettamente in grado d’indicare un oggetto che desidera nel senso dell’imperative pointing33, e anche di seguire con lo sguardo il gesto di un altro soggetto che addita un oggetto34. Il problema sorge quando si passa dall’imperative pointing al pointing to offer help, come quando un umano gli addita un secchio capovolto per indicargli che sotto il secchio c’è il cibo nascosto che sta cercando: in questo caso lo scimpanzé capisce che gli indichiamo il secchio, ma non ne capisce il motivo. Secondo Tomasello l’ipotesi più ragionevole è che «le grandi scimmie comunicano intenzionalmente solo in modo imperativo, per chiedere qualcosa, e perciò capiscono i gesti altrui solo quando anche questi sono richieste imperative35. Che cosa c’è all’origine di questo passaggio dall’imperative pointing al pointing to offer help connesso a una joint attention tipicamente umana? Tomasello esclude che possa essere il linguaggio verbale. Le ricerche di Tomasello sullo sviluppo cognitivo prelinguistico dei bambini sordi (e quindi non esposti ad alcun linguaggio vocale) hanno dimostrato che la loro gestualità deittica non viene compromessa, di conseguenza non dipende né dalla produzione né dalla comprensione del linguaggio36. All’origine della differenza fra umano e non umano ci sarebbero piuttosto pratiche di shared intentionality basate su di una nuova logica di cooperazione37. L’unicità della cognizio-

33.  M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, tr. it. di S. Romano, Cortina, Milano 2009, p. 42. 34.  Cfr. ivi, pp. 45-47. 35.  Cfr. ivi, p. 47. 36.  Cfr. ivi, p. 146. 37.  Cfr. M. Tomasello, Unicamente umano. Storia naturale del pensiero, tr. it. di M. Riccucci, il Mulino, Bologna 2014, pp. 7-8.

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ne umana deriverebbe dal fatto che, attraverso tali pratiche di shared intentionality, lo sviluppo culturale-ontogenetico, basato prevalentemente su di una logica cooperativo-sociale, prevarrebbe su quello biologico-filogenetico (che condividiamo con le grandi scimmie) basato su di una logica prevalentemente competitivo-individualistica. Analizzando i processi cognitivi e culturali che distinguono i bambini umani dalle grandi scimmie, Tomasello arriva alla conclusione che verso i dodici mesi nei bambini umani emerge una forma di shared intentionality che non ha eguali nel resto del mondo animale. Questa shared intentionality presuppone non solo abilità all’imperative pointing e al pointing to share attitudes, che condividiamo con lo scimpanzé, ma anche specifiche pratiche di sharing emotions che sfociano nella capacità, tipica dell’umano, d’indicare qualcosa per chiedere aiuto (pointing to offer help)38. All’origine del pensiero simbolico ci sarebbero determinate pratiche di sharing emotions connesse ad attività deittiche non solo imperative ed espressive (già presenti negli scimpanzé), ma anche di offerta di aiuto, che portano a rafforzare in modo esponenziale i legami affettivi. Assieme a queste conclusioni di Tomasello, si possono ricordare anche gli studi sul rapporto fra autismo e joint attention nello sviluppo cognitivo infantile. Se infatti le capacità di joint attention e shared intentionality non risultano sostanzialmente inibite nei bambini sordi (privati quindi dell’esperienza del linguaggio verbale), il quadro muta radicalmente nel caso dell’autismo39. Questo sembrerebbe suggerire che il passag-

38.  Cfr. M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, cit., pp. 128129, in part. la fig. 4.1, p. 128. 39.  Cfr. E.A. Jones - E.G. Carr, Joint attention in children with autism. Theory and intervention, in «Focus on Autism and Other Developmental Disabilities», n. 19, 2004, pp. 13-26.

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gio dall’imperative pointing alla joint attention non sia dovuto all’esperienza del linguaggio verbale (compromessa nella sordità), quanto a una particolare forma di sharing emotions che entra in crisi nell’autismo.

9. Emotional sharing e sviluppo dei legami affettivi Se qualcuno mi chiedesse che cosa è la prima cosa che mi viene in mente pensando alla differenza fra un neonato umano e di un altro mammifero risponderei: il pianto. Un puledro appena nato di solito non piange, e lo stesso si può dire anche per gli altri animali non umani40. Un neonato invece, appena viene alla luce, quasi sempre piange. Il neonato di un puledro non ha bisogno di piangere perché possiede fin dall’inizio quello che Scheler chiama schema corporeo (Leibschema), tanto da essere in grado, immediatamente, di coordinare i propri movimenti per tentare di reggersi in piedi. Forse proprio per questo un puledro non è interessato alla propria immagine allo specchio: la possiede già. Invece il neonato umano viene al mondo privo di uno schema corporeo compiuto, come tradisce anche il fatto di non essere ancora in grado di coordinare del tutto i propri movimenti: possiede solo un’immagine frammentata di sé come corpo vivo (Leib). Le analisi di Scheler sullo schema corporeo permettono di gettare una nuova luce sulla teoria dello «stadio dello specchio» di Lacan. Al centro di questa ipotesi di Lacan c’è l’idea, già presente nell’antropologia filosofica tedesca, secondo cui l’umano 40.  Di solito un cucciolo piange o si lamenta solo quando gli si fa del male o viene separato dalla madre o non può allattare. Un caso emblematico è raccontato nel film del 2003 La storia del cammello che piange (Die Geschichte vom weinenden Kamel), diretto da Luigi Falorni e Byambasuren Davaa.

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si caratterizza per venire al mondo attraverso una nascita prematura; tale concetto viene inoltre esplicitamente connesso al processo di fetalizzazione: La nozione oggettiva dell’incompiutezza anatomica del sistema piramidale […] conferma il punto di vista che formuliamo come il dato di una vera e propria prematurazione specifica della nascita nell’uomo. Notiamo di sfuggita che questo dato è riconosciuto come tale dagli embriologi con il termine di fetalizzazione.41

Lacan connette il problema della costituzione dell’immagine corporea, lo stesso affrontato da Scheler con il concetto di schema corporeo (Leibschema), con quello della fetalizzazione e della nascita prematura, focalizzando l’attenzione sulla difficoltà tutta umana a raggiungere nei primi mesi di vita un’immagine corporea che permetta di coordinare i movimenti corporei e a gestire le relazioni fra Leib e Umwelt. Secondo Lacan, tale relazione nell’umano «è alterata da una certa deiscenza dell’organismo nel suo seno, da una Discordia primordiale tradita dai segni di disagio e dall’incoordinazione motoria dei mesi neonatali»42. Nel Discorso sulla causalità psichica Lacan proporrà esplicitamente di comprendere la sua teoria dello «stadio dello specchio» nel suo rapporto con ciò che ho chiamato prematurazione della nascita dell’uomo, in altri termini l’incompletezza ed il “ritardo” dello svilup41.  J. Lacan, Scritti, ed. it. a cura di G. Contri, vol. I, Einaudi, Torino 2002, pp. 90-91. Che nella teoria dello «stadio dello specchio» il rinvio alla teoria della fetalizzazione di Louis Bolk e alla nascita prematura non sia causale è confermato dalla citazione successiva. Sul concetto di «nascita prematura» Lacan osserva che «non bisogna esitare a riconoscere alla prima età una deficienza biologica positiva e a considerare l’uomo come un’animale dalla nascita prematura» (J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, tr. it. di M. Daubresse e E. De Francesco, a cura di A. Di Ciaccia, postfaz. di J.-A. Miller, Einaudi, Torino 2005, p. 17). 42.  J. Lacan, Scritti, cit., p. 90.

116 po del nevrasse durante i primi sei mesi. Fenomeni ben noti agli anatomisti, e d’altronde manifesti, dacché l’uomo esiste, nell’incoordinazione motoria ed equilibratoria del lattante, e che probabilmente non è senza rapporto col processo di fetalizzazione in cui Bolk vede la molla dello sviluppo superiore delle vescicole encefaliche nell’uomo […].43

Ciò che suscita l’attenzione di Lacan è il fatto che un neonato a un certo punto possa rallegrarsi nel riconoscere la propria immagine allo specchio. Un gioire che, in questa forma, non compare negli altri primati, che pure sono in grado, in alcuni casi, di riconoscersi allo specchio. Perché il bambino umano ha questa reazione di fronte alla propria immagine? L’ipotesi è che il bambino gioisca proprio perché la nascita prematura lo pone in una condizione d’incompiutezza antropologica: vedendo la propria immagine riflessa allo specchio finalmente riconosce qualcosa di cui il piano biologico-pulsionale lo aveva lasciato sprovvisto. Su questo punto vi è una convergenza fra le posizioni di Scheler e di Lacan: in entrambi il neonato umano, in conseguenza della propria incompiutezza antropologica, è sprovvisto del­ l’immagine del proprio corpo, che invece un puledro ha fin dall’inizio. A questo proposito Scheler nota che un neonato inizialmente non è neppure in grado di tracciare un confine fra il proprio corpo vivo e l’ambiente, tanto che «tratta i suoi piedi in primo luogo come oggetti dell’ambiente e si accorge solo in modo graduale che essi ricadono all’interno dei confini del suo schema corporeo» (GW IX, p. 218). Quando vede davanti a sé la propria immagine riflessa nello specchio, il bambino s’entusiasma perché vede quello che la nascita biologica non gli aveva dato e non può dargli: vede un’anticipazione di qualcosa di cui lui, come essere che non ha

43.  Ivi, p. 180.

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ancora finito di nascere, era rimasto sprovvisto. L’essenza della teoria dello stadio dello specchio è racchiusa nell’intuizione che con quel gioire, il bambino si precipita verso la propria immagine riflessa per compiere un salto verso il pensiero simbolico, cioè per continuare a nascere oltre la nascita biologica. Le differenze riscontrabili nel processo di riconoscimento della propria immagine allo specchio nel bambino umano e nelle grandi scimmie sono analoghe a quelle dell’additare. Lo scimpanzé è perfettamente in grado d’indicare un oggetto che desidera nel senso dell’imperative pointing44, e anche di seguire con lo sguardo il gesto di un altro soggetto che addita un oggetto45. Ciò di cui è invece sprovvisto è la capacità d’indicare per offrire aiuto (pointing to offer help). Gli studi di Tomasello individuano l’emergere di questa capacità verso il dodicesimo mese e la fanno risalire a pratiche di sharing emotions, tipicamente umane, che si sviluppano attorno al terzo mese e che seguono una logica di tipo cooperativo e non individualistico-competitivo. Si può ipotizzare che senza queste pratiche, che Tomasello pone a fondamento dello sviluppo cognitivo umano, non sarebbe possibile raggiungere quello che Lacan chiama «stadio dello specchio».

10. Logica cooperativa e logica solidaristica Le riflessioni di Scheler suggeriscono che l’umano sia il risultato di particolari pratiche solidaristiche di emotional sharing. Un’ipotesi per certi versi simile è presente anche in Tomasello: «è dunque possibile che condividere emozioni e atteggiamenti

44.  Cfr. M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, cit., p. 42. 45.  Cfr. ivi, pp. 45-47.

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sia una sorta di funzione dell’identità di gruppo, e che si tratti di una funzione tipicamente umana»46. Secondo Tomasello per le grandi antropomorfe la cognizione è indissolubilmente legata alla competizione. Per gli esseri umani, invece, la cooperazione è tutto (o quasi). Secondo la nostra ipotesi, è stata questa pressione selettiva esercitata da queste forme di socialità cooperativa che ha trasformato l’intenzionalità e il pensiero individuale delle grandi antropomorfe nel pensiero e nell’intenzionalità condivisa dell’umano.47

Non sbaglierebbe allora chi vedesse nella logica individualistica e competitiva del comportamento dei gorilla o degli scimpanzé le origini dei nostri istinti più aggressivi ed egoisti, solo che questa prospettiva è proprio ciò che incapsula e blocca lo sviluppo culturale. Sviluppandosi in senso cooperativo le pratiche di emotional sharing avrebbero invece portato a un ulteriore rafforzamento dei legami affettivi e alla conseguente creazione di norme sociali più complesse: «La pressione del gruppo perché l’individuo si conformi è l’essenza delle norme sociali; la minaccia più grave è quella dell’ostracismo, se non addirittura dell’espulsione fisica dal gruppo»48. Questa ricostruzione di Tomasello sembra sottovalutare sia il ruolo e l’importanza della logica cooperativa nei bonobo sia il ruolo e l’importanza della logica individualistica e competitiva nella stessa società umana49. Eppure Tomasello stesso sottolinea che le pratiche umane di emotional sharing possono essere accompagnate da ostracismo ed esclusione del diverso. Se nei bonobo esiste già una logica cooperativa, allora alla base 46.  Ivi, p. 183. 47.  M. Tomasello, Unicamente umano, cit., pp. 48-49. 48.  M. Tomasello, Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, tr. it. di D. Restani, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 183. 49.  Cfr. F. de Waal, Il bonobo e l’ateo. In cerca di umanità fra i primati, tr. it. di L. Sosio, Cortina, Milano 2013.

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di quell’emotional sharing che permette il salto verso il pensiero simbolico dovrà esserci qualcosa di molto più complesso della semplice cooperazione: non una logica semplicemente cooperativa, ma una forma di condivisione solidaristica verso la fame di nascere del tutto dell’altro. Se si esclude che questa logica solidaristica possa affermarsi grazie a qualcosa come “la buona volontà”, da dove trae origine? Per esplicitare il problema mi rifaccio a una distinzione: quella fra «beni divisibili» e «beni condivisibili». La mia ipotesi è che la logica solidaristica nasca spontaneamente in riferimento ai secondi beni, ma possa estendersi, a certe condizioni, anche ai primi50. Una risorsa materiale come il petrolio (bene divisibile) più viene consumata, più diminuisce. È evidente che seguendo tale logica è facile arrivare rapidamente alla contesa, spesso anche militare, per la spartizione del bene. Al contrario a nessuno verrebbe in mente di fare a pezzi, per spartirlo, un quadro di van Gogh (bene condivisibile). Non solo perché in tal modo lo distruggeremmo, ma anche perché il godimento di un quadro può essere di tipo non oppositivo: può essere goduto assieme a un amico, nel senso che più questo amico è capace di “consumare” quest’opera d’arte, facendomi compartecipe della sua interpretazione, più la rende accessibile anche a me. Se vado a una mostra di Paul Cézanne con un amico e questo, nel vedere una delle raffigurazioni del monte di Sainte-Victoire, prova qualcosa di particolare e me ne parla, questa sua metabolizzazione non mi porterà via qualcosa, ma mi arricchirà, a meno che in me non sorga l’invidia51. Il suo “consumo” di quel quadro non sottrae qualcosa agli altri potenziali ammiratori di quell’opera, ma al contrario contribuisce a moltiplicarne il valore. 50.  Su questo tema rinvio a quanto scritto in G. Cusinato, Periagoge, cit., pp. 445-451. 51.  Cfr. ivi, pp. 280-283, 409-415.

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Il risultato è che, grazie a questa forma particolare di emo­tional sharing, riconducibile alla modalità trans-­soggettiva e solidaristica della co-esecuzione (Mitvollzug) dell’atto52, un bene di questo tipo più viene “consumato” e più miracolosamente si “moltiplica”. Più condivido un bene, più la mia singolarità prende forma, più promuovo l’ulteriore condivisione di quel bene. Più invece divido un bene – nel senso della spartizione del bottino o della contesa – più affermo in me stesso la logica oppositiva dell’identità gregaria e autoreferenziale. Ciò che dà forma all’umano è qualcosa in più dell’«intenziona­ lità collettiva» cooperativa attorno a cui ruota la ricerca di Tomasello: è una logica solidaristica che inizialmente l’umano sperimenta in riferimento alle relazioni di cura, ad esempio di una madre nei confronti del proprio neonato. Un’ulteriore questione riguarda il rapporto rintracciabile fra le pratiche di emotional sharing e processi d’individuazione. È ipotizzabile che le diverse pratiche di emotional sharing non siano solo alla base della costituzione delle diverse unità sociali, ma anche dei diversi processi d’individuazione del Sé sociale e della singolarità personale53. Prendendo a prestito lo schema scheleriano, la differenza fra le due può essere ricondotta alla distinzione fra empatia non proiettiva (Nachfühlung) e le varie forme di sentire-assieme (Mitgefühl) caratterizzate in senso etico. Mentre nel primo caso le pratiche di emotional sharing corrispondono a un processo d’individuazione che mira a rafforzare il soggetto autoreferenziale, nel secondo caso le pratiche di emotional sharing

52.  Sulla centralità del concetto di Mitvollzug per l’antropologia filosofica di Scheler, cfr. G. Cusinato, Anthropogenese, cit., pp. 50-51. 53.  G. Cusinato, Periagoge, cit., pp. 279-280.

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non sono più riconducibili a una cura sui autoreferenziale del soggetto: nell’esperienza dell’amare l’individuo sperimenta la propria assoluta non-autosufficienza e desidera qualcosa che è al di fuori dell’orizzonte autoreferenziale del proprio piccolo sé e che può trovare solo nell’incontro con l’altro.

II Tra passato e futuro

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Umanesimo come progetto filosofico Preliminari Marco Russo

1. In nome dell’umanità Vorrei provare a riassumere i motivi essenziali per sostenere la tesi secondo cui l’umanesimo è una decisiva sfida del nostro tempo. Se una delle parole fondamentali della tarda modernità è “umanità”, allora l’umanesimo può diventare la posizione filosofica che si fa carico di questa parola, affrontandone sistematicamente le premesse e le conseguenze. Si tratta di una sfida per l’ampiezza del compito ovvero per il fatto che il nostro tempo è attratto dal post-umanesimo, posizione in cui confluiscono vari orientamenti avversi all’umanesimo e con cui pertanto bisogna fare i conti1. Procederò con una serie sommaria di punti, che abbozzano un progetto filosofico dove l’umanesimo è una parola-guida

1.  Per una prima panoramica cfr. T. Davies, Humanism, Routledge, London-­ New York 2008; M. Lollini (a cura di), Humanism, Posthumanism, Neohumanism, vol. mon. di «Annali d’Italianistica», XXVI, 2008; G. Leghissa (a cura di), La condizione post-umana, vol. mon. di «aut aut», n. 361, 2014; M. Russo (a cura di), Umanesimo. Storia, critica, attualità, Le Lettere, Firenze 2015; e A. Hilt - H. Zaborowski - V. Cesarone (a cura di), La questione dell’umanismo oggi, Quodlibet, Macerata 2017.

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che, richiamando la nozione di umanità, eredita una tradizione culturale per rimodellarla e renderla adatta alla nostra epoca. Questa tradizione è precisamente l’obiettivo polemico del post-umanesimo, perciò i richiami storici che farò sono sostanziali, sono parte della posta in gioco. Si tratta di mostrare che il post-umanesimo, benché eserciti una salutare funzione critica, ha una rappresentazione distorta dell’umanesimo; tale distorsione indebolisce il potenziale filosofico non solo dell’umanesimo, ma della discussione che si fa contro o a favore di esso. Senza un’adeguata comprensione di cosa è stato l’umanesimo, la discussione diventa stereotipata e i problemi speculativi ed etici che esso comporta vengono soltanto sfiorati. La perdita colpisce spesso proprio i difensori dell’umanesimo, che infatti tende a diventare un termine vago, il quale invece di stimolare la riflessione, la scherma. Un termine snervato quando non tautologico, portatore di un atteggiamento edificante e consolatorio, piuttosto che drammatico e provocatore2. La perdita di consapevolezza e problematicità non giova però neanche al fronte post-umanistico, che rischia di combattere contro un idolo e di illanguidire la propria stessa fondazione filosofica. Almeno dal secondo dopoguerra la nozione di umanità è diventata un caposaldo della politica internazionale. L’esempio paradigmatico e perfino magniloquente ce lo dà il preambolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo formulato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948. Lì si parla di dignità e valore della human family nonché di una conscience 2.  Sempre efficaci le parole di Edward Said: «quando la smetteremo di pensare all’umanesimo come a una forma di autocompiacimento invece che come a una sconvolgente avventura nei territori della differenza, tra tradizioni alternative, in testi che richiedono una nuova decifrazione, in un contesto molto più ampio di quello che è stato finora loro assegnato?» (E.W. Said, Umanesimo e critica democratica [2004], tr. it. di M. Fiorini, intr. di G. Baratta, il Saggiatore, Milano 2007, p. 81).

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of mankind; la loro preservazione è garantita dai diritti umani, che segnano un argine alla barbarie lesiva della libertà, da intendersi come liberazione dal bisogno nonché come realizzazione della giustizia e della pace, insomma di una convivenza che rispecchi “la più alta aspirazione dell’uomo”. Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo […]; l’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni.3

Alla dichiarazione sono poi succedute una serie di affermazioni di principio e di trattati che hanno indotto un autentico humanitarian turn4. L’uso legittimo della forza è stato centrato sempre più su diritti e rivendicazioni di persone e popoli piuttosto che su interessi e prerogative dello Stato. Gli ambiti dove questo indirizzo giuridico-politico si è maggiormente esercitato sono: i crimini di guerra e i crimini contro l’umani3.  La menzione dell’umanità non solo come nome collettivo ma quasi dotata di soggettività giuridica risale ad alcuni anni addietro. Nel 1915, con riferimento al massacro di oltre un milione di armeni che si stava consumando per mano turca, Gran Bretagna, Francia e Russia emanarono una dichiarazione congiunta ove si parlava di recenti crimini commessi dalla Turchia contro l’umanità e la civiltà (new crimes of Turkey against humanity and civilization). Cfr. B. Mazlish, The Idea of Humanity in a Global Era, Palgrave Macmillan, New York 2009, pp. 31 ss. 4.  Cfr. R.G. Teitel, Humanity’s Law, Oxford University Press, New York 2011; L. Scuccimarra, Proteggere l’umanità. Sovranità e diritti umani del­ l’epo­ca globale, il Mulino, Bologna 2016.

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tà, che chiamano in causa le relazioni tra nemici o avversari su scenari nazionali o extranazionali; gli interventi umanitari, concernenti il trattamento che gli stati fanno dei loro cittadini o residenti; la regolamentazione delle migrazioni internazionali, che riguardano i diritti degli individui non in quanto membri di una comunità ben definita ma in quanto «esseri umani simpliciter»5, che provano a entrare in comunità territorialmente definite magari per diventarne membri. E ancora nel 2001 la Commissione Internazionale sull’Intervento e Sovranità dello Stato pubblicò un rapporto sulla responsibility to protect: partendo dalla constatazione che «milioni di esseri umani sono alla mercé di guerre civili, repressioni statali, rivolte e collassi statali», vi si osservava che «l’interesse non è quello di rendere il mondo più sicuro per le grandi potenze […] ma fornire una protezione alla gente comune che si trova in pericolo di vita, perché il proprio Stato non vuole o non è in grado di proteggerla». Di qui la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2005, dove si sancì il diritto di intervento in altri Stati in nome della «responsabilità di proteggere le popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e da crimini contro l’umanità»6. Questi brevi richiami mostrano con forza che umanità è diventato un nome collettivo dotato addirittura di una para-­ soggettività che la rende titolare di diritti e doveri. Un nome collettivo fatto di una infinità di individui in carne e ossa, ma anche di individui virtuali tra cui si costruiscono una serie di vincoli generazionali. Il nome collettivo e i vincoli che esso impone fanno a loro volta aggio sulla valenza etica di “umanità”, intesa come contrassegno per qualità e potenzialità che 5.  S. Benhabib, Another Cosmopolitanism, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 29-30. 6.  I testi sono reperibili sul sito ufficiale http://www.responsibilitytoprotect. org/index.php/about-rtop#annan.

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caratterizzano la nostra specie. L’intreccio di umanità in senso collettivo ed etico-giuridico, unito all’effettività di azioni militari, mediche, sociali su scala globale, è ciò che mi induce a privilegiare questo esempio di politica internazionale rispetto a un candidato, tra quelli di entità macroscopica, lessicalmente ancora più intuitivo e di ampio successo, come il concetto di “antropocene”: l’era dell’uomo, la fase geologica dove la natura è dominata dall’azione umana7. L’esempio è sufficiente per consentire di affermare che tra le grandi parole che hanno segnato la cultura occidentale (essere, Dio, natura, cosmo, ragione, libertà) oggi “umanità” persiste con la maggior forza teorica, pratica e simbolica. Il motivo sostanziale di questa forza si riassume nel processo di secolarizzazione, che indica l’emancipazione dalla religione, ma più in generale da ogni autorità non legittimata dalla ragione e in conflitto con l’autonomia della volontà. È una condizione di solitudine e smarrimento da gestire con un reinvestimento nel potere umano, che a sua volta richiede un’incessante conoscenza di sé, una sorta di analisi interminabile di chi siamo, cosa vogliamo, cosa possiamo fare, conoscere, sperare: quali sono i nostri limiti, come imporseli e perché. In questo percorso, il confronto con l’altro dall’uomo è costante e necessario. La solitudine del soggetto pensante è un artificio metodologico per non partire da “dati di fatto” assoluti, sottratti all’esame razionale. Ciò non implica la cancellazione dei fatti o della realtà ma il loro poter essere esaminati e confrontati. Anche il “fatto della ragione” e la soggettività vanno sottoposti a esame e confronto, a partire da ciò che sembra sfuggire ad essi: l’altro dalla ragione e dal soggetto, nonché l’origine della ragione e della soggettività.

7.  Cfr. A. Cera, Dall’antropocene al tecnocene. Prospettive etico-antropologiche dalla “terra incognita”, in «Scienza e filosofia», n. 21, 2019, pp. 179-198.

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La legislazione internazionale sopra evocata mostra questa esigenza di autogestione di se stesso da parte dell’uomo, con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso. Il soggetto “umanità” è diffuso sull’intero pianeta, costretto più che in passato a un nomadismo volontario o coatto, telematico o duramente fisico. Esso incontra in modo crescente se stesso, e così si scontra inevitabilmente con le sue irriducibili differenze nonché con bisogni simili in competizione. La legislazione internazionale poggia su diritti e aspettative di ciascuno (assenza dal bisogno, integrità fisica, aspirazione alla felicità), poggia cioè su null’altro che l’uomo, ma proprio per questo la base è fragile e inaffidabile. La grandiosa universalità di un autogoverno razionale, cioè giusto, condiviso, tollerante, è sempre sul punto di ribaltarsi in ideologia, dominio, sfruttamento, di ribaltarsi dunque in faziosità e iniquità. L’umanità deve essere un intero, ma si frantuma in parti; per di più in parti speculari, paritarie almeno in astratto, che complicano la ricerca di verità e giustizia (dove comincia, tra pari, il “mio” e il “tuo” – il mio diritto, la mia ragione, la mia libertà, la mia felicità rispetto alla tua?). Le serrate critiche alla politica condotta in nome dell’umanità8, il groviglio della gestione umanitaria delle migrazioni, della povertà, della guerra, sono ancora una volta l’esempio macroscopico dell’intrinseca difficoltà di un’umanità consegnata a se stessa, al proprio autogoverno. Indietro però non si torna; è improbabile rimettersi ad autorità o istanze oltre-umane, so8.  Condensabili nella sentenza di Carl Schmitt: «chi parla di umanità, vuole trarvi in inganno» (Il concetto di ‘politico’ [1932], in Id., Le categorie del ‘politico’, ed. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 139). Cfr. anche D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; M. Meccarelli - P. Palchetti - C. Sotis (a cura di), Il lato oscuro dei Diritti umani. Esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo, Universidad Carlos III de Madrid, Madrid 2014; N. Perugini - N. Gordon, Il diritto umano di dominare, Nottetempo, Milano 2016.

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vraordinate. Anche l’appello a istanze mondane come la ragione, la scienza, l’oggettività, non sembra potersi sottrarre a una matrice antropologica, al riconoscimento che esse, anche se non derivano dall’uomo, all’uomo fanno epistemicamente ed eticamente capo: al suo potere cognitivo e logico, al suo vantaggio esistenziale, cioè fisico, psicologico, estetico. Ciò per un verso conferma l’ineludibile predominio del paradigma “umanità”; per un altro, ammonisce che tale paradigma non coincide affatto con un cieco e trionfalistico antropocentrismo, ma al contrario con una parossistica esigenza di autoriflessione e autoregolazione. Siffatte considerazioni valgono anche rispetto alle rivendicazioni dell’ecologia, dell’ambientalismo, delle varie dottrine post-umanistiche che propugnano un superamento dell’antropocentrismo in nome dell’anti-specismo, di una nuova ontologia del vivente su basi olistiche, animaliste o cibernetiche9. Per quanto esse possano sollevare critiche e proposte utili, resta il nodo pratico e concettuale di un’epoca che resta “antropocentrata”, almeno finché non si accettino nuovamente istanze eteronome. La rivendicazione postumanista di un continuismo tra le specie, di una sostanziale identità e ibridazione tra tutto ciò che c’è, organico e inorganico, se non è un postulato metafisico o una pretesa descrizione fattuale, andrebbe argomentata, e l’argomentazione passa al vaglio dall’umana ragione e delle sue capacità di verifica. Peraltro, anche i modelli postumani di pacifica coesistenza ecologica, ammesso che siano realistici, sono comunque finalizzati a un miglioramento della vita umana, la quale resta inevitabilmente il parametro etico di riferimento. Ma allora più che di sovversione dell’umanesimo o di rivoluzione antropologica, saremmo di fronte 9.  Cfr. L. Caffo - V. Sonzogni, L’animalismo come contemporaneo. Filosofia, arte, animal studies, in F. Cimatti - S. Gensini - S. Plastina (a cura di), Bestie, filosofi e altri animali, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 259-289.

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al più autentico nucleo umanistico di ricerca di autoregolazione e self-constraint: ricerca di saggezza e di equilibrio con se stessi, col vasto mondo cui ci rapportiamo. L’antropocentramento, se correttamente inteso, è una prospettiva autoriflessiva e dunque capace di autocritica e riforma.

2. Autoriferimento Uno degli equivoci più perniciosi e ricorrenti è stato confondere l’umanesimo con l’antropocentrismo e l’antropocentrismo con una religione dell’umanità, con un positivismo universalista e compiaciuto che vede subentrare l’uomo al posto di Dio. L’umanesimo come appello consolatorio alla benevolenza e alla solidarietà è, da questo punto di vista, davvero poco più che un’appendice compensativa e rassicurante per quell’antropocentrismo. Ma un simile umanesimo ciecamente o bonariamente antropocentrico è un idolo polemico, una versione distorta di ciò che si è andato delineando come una cultura dell’humanitas consapevole dell’enorme posta in gioco implicita nella “creazione” di un mondo umano con mezzi umani: un obiettivo titanico volto a migliorare programmaticamente la vita di individui e popoli, tormentato però da una lucida analisi dei limiti e dei rischi dell’impresa. Limiti strutturali e ombre nichilistiche derivanti dalla figura dell’autoriferimento: se l’uomo fonda se stesso, nulla garantisce la ragione e l’azione umana se non la ragione e l’azione umana. Qui l’antropocentrismo è uno schema epistemologico e assiologico, il compito di essere coerenti con la richiesta di radicale autonomia senza che ciò implichi autodeificazione, il disconoscimento di vincoli fisici, biologici, storici, e perfino il disconoscimento di un piano di trascendenza (religione, metafisica, spiritualità). Solo che tutto ciò (trascendenza, vincoli naturali e storici) va colto attraverso la mediazione delle nostre forme di conoscenza e di

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azione. Cosmo, Dio, natura, logica, verità, e la stessa umanità non rientrano in una fissa gerarchia metafisica, ma in un’ontologia dinamica comprensibile solo indirettamente, innanzitutto conoscendo chi conosce. La dinamizzazione non significa che l’attore cognitivo può fare qualunque cosa, che il mondo è una materia inerte da manipolare ad arbitrio, ma che esso si manifesta entro certi limiti, che sono poi i limiti mobili dell’attore cognitivo, quelli che esso riesce a individuare e gestire. Ancora una volta, l’antropocentrismo, se ben inteso, è una filosofia del finito, cioè responsabilità, lavoro auto-osservativo e auto-­regolativo, non demiurgico delirio narcisistico. La figura dell’autoriferimento riassume le caratteristiche tipiche della modernità10, un’epoca che comprende se stessa come nuova, cioè diversa dal passato, che viene per la prima volta “visto” nella sua lontananza, in discontinuità. Incarnazione dell’autoriferimento è il soggetto, che impone una rilettura riflessiva dei temi metafisici, con tutte le complicazioni logiche conseguenti. La riflessività implica il muoversi in circolo tra soggetto e oggetto, fondazione e fondato, allo scopo di impedire postulati o dati fissi e precostituiti. L’essere, la realtà, i “fatti” non spariscono, ma entrano nello spazio delle ragioni, 10.  Cfr. H. Ebeling (a cura di), Subjektivität und Selbsterhaltung. Beiträge zur Diagnose der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1976, che contiene tra l’altro un testo teoreticamente illuminante di D. Henrich, Die Grundstruktur der modernen Philosophie. Über Selbstbewusstsein und Selbsterhaltung (pp. 97-121), approfondito poi in Id., Denken und Selbstsein. Vorlesungen über Subjektivität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007, pp. 83-108. Per la logica dell’autoriferimento restano fondamentali i lavori di Niklas Luhmann. Benché delineata in prospettiva anti-umanistica, quella logica è ascritta in pieno alla modernità e al suo originario principio di soggettività. L’assenza di centro e di descrizioni onninclusive non è una caratteristica post-moderna, invero «se si osservano nell’insieme i risultati di queste analisi, si nota che essi tolgono fondamento al contrasto tra Moderno e Postmoderno. Sul piano strutturale non si può parlare semplicemente di una tale cesura» (N. Luhmann, Osservazioni sul moderno [1992], tr. it. di F. Pistolato, Armando, Roma 1995, p. 27).

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della ricerca di nessi, cause, fini. In questa ricerca, anche quello spazio si modifica, si corregge e ridefinisce. Nulla è fermo; va colta però la logica del movimento, il senso delle configurazioni – limiti, divisioni, fratture − che esso presenta. Le molteplici declinazioni dell’autoriferimento, da quelle epistemologiche e metafisiche a quelle politiche e morali, sono state esplicitate lungo il Novecento, attraverso il dibattito sulla secolarizzazione e sulla natura della modernità11. Credo che quel dibattito, oggi alquanto spento perché apparentemente messo in crisi dal post-moderno e dal post-umano, resti un momento cruciale per pensare l’umanesimo senza semplificazioni teoretiche e storiografiche. In esso era ancora vivo il confronto con domande filosoficamente imprescindibili e con la loro elaborazione moderna: cosa è essere, mondo, realtà, cosa è logica, verità, bene, male; come vi accedo, cosa ne posso fare. È in queste domande che dobbiamo ricollocare la questione dell’uomo, evitando che venga liquidata come una questione chiara e per così dire consumata, ormai sostituita o assorbita dal più attuale post-umanesimo. Tale consumazione riduce le preziose sollecitazioni di quest’ultimo a modelli antropologici meramente oppositivi12; la loro forza argomentativa finisce col

11.  Dibattito codificato a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il cui fuoco teoretico era stato riacceso da alcuni scritti di Husserl e Heidegger, a lato delle grandi ricerche tematiche di Werner Sombart e Max Weber, e prima dei lavori di Foucault, Gadamer, Derrida. Per il dibattito codificato la menzione standard spetta a J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni (1985), tr. it. di Em. e El. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1987; Id., Il pensiero post-metafisico, 1988, tr. it. di M. Calloni, Laterza, Roma-Bari 1991. Un’utile panoramica resta G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994. 12.  Mi riferisco alla contrapposizione ormai canonica tra “uomo vitruviano” (bianco, civilizzato, ontologicamente definito, autocentrato e prometeicamente padrone del mondo) e uomo postumano (ibrido, culturalmente meticcio, ontologicamente indefinito, decentrato ed epimeteicamente rimesso

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nutrirsi solo di contrapposizioni verso l’“uomo umanistico” e di una svariata messe di dati, informazioni e frammenti teorici provenienti dalle scienze. Qui cade opportuna un’ulteriore considerazione. Uno dei tratti fondativi dell’umanesimo, fin dalla prima modernità, è stato il senso della storia e il primato dell’etica. Entrambi hanno fomentato un’attenzione per la realtà umana nelle sue infinite sfumature, nella sua irriducibile labilità e inarrestabile mutevolezza; una realtà scaturita da un essere finito con infiniti desideri e capacità di ragionare sull’infinito. Una simile realtà non si lascia oggettivare del tutto, e questo, mentre richiede una spiccata finezza osservativa ed ermeneutica, spinge verso un’etica a carattere prudenziale e pedagogico, che guida le condotte e orienta l’arte di vivere senza confidare in cogenti norme universali. Debole nella sua fondazione e nelle sue pretese, tale etica è fortissima nel suo monito a concentrarsi sull’esistenza e il suo complicato teatro: il monito a non sperare di trovare soluzioni esaustive nella scienza o in utopici dei ex machina. Proprio di qui, da questo fondo scettico e prudenziale, deriva il primato etico. La conoscenza resta vacua se non aiuta a capire e sostenere la vita; d’altra parte, la vita, essendo legata alla contingenza e all’indefinitezza umana (e forse non solo umana), resta sempre opaca per la conoscenza oggettiva. I limiti conoscitivi diventano compiti etici, tra cui vanno incluse forme non oggettive di conoscenza della vita stessa (etica, estetica, metafisica). I compiti si traducono in esercizi osservativi e riflessivi, in percorsi pedagogici per fare coesistere

al mondo). Cfr. R. Braidotti, The Posthuman, Polity Press, Cambridge 2013, pp. 13 ss.; R. Marchesini, Possiamo parlare di una filosofia postumanista?, in «Lo Sguardo. Rivista di filosofia», n. 24/II, 2017, pp. 27-50, in part. pp. 48 ss.; Id., Over the Human. Post-humanism and the Concept of Animal Epiphany, Springer, New York-Berlin 2018, pp. 25 ss., 148 ss.; L. Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, Torino 2017, pp. 37, 64.

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le condotte individuali senza effetti distruttivi per la società. Ebbene, tutto questo tratto storicizzante ed etico costituisce l’impronta genuinamente umanistica della svolta antropologica che ha accompagnato la filosofia moderna. La svolta coincide con il paradigma dell’autoriferimento sopra richiamato, il quale richiede una rilettura in chiave riflessiva delle domande filosofiche fondamentali: per indagare sull’essere, sulla natura, su Dio, sul pensiero, occorre partire dal soggetto, dalla sua esperienza fisica e psicologica, e dall’articolazione linguistica, semiotica, culturale, delle sue operazioni cognitive. Pur implicato nella svolta, l’umanesimo mantiene una sua peculiarità perché non sfocia mai in un sistema o in una dottrina unitaria, e si ritaglia una sua prospettiva laterale, di analisi ravvicinata e metodologicamente eclettica della condizione umana. In altri termini, il focus sulla condizione umana e le sue ineliminabili opacità, la sua dialettica interna spesso ai limiti della contraddizione, inducono a mantenere un approccio osservativo-ermeneutico, un taglio etico-esistenziale che non si lascia integrare mai del tutto in una teoria (filosofica o scientifica). Il corpo degli studia humanitatis, ma anche il versante più spiccatamente pratico-antropologico della produzione filosofica moderna, sono l’esempio diretto di questa caratteristica. Gli studi di umanità sono tipicamente costituiti da discipline poco “scientifiche”, a instabile statuto epistemico. Se poi guardiamo alla posizione dell’antropologia come disciplina filosofica, si nota che essa è di solito marginale, anche quando si professa una filosofia dell’uomo (cioè, di nuovo, un’autoriflessione sulle forme di esperienza del soggetto)13. 13.  Il caso più evidente è Kant, il quale, pur avendo affermato che le domande chiave della filosofia (che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa mi è dato sperare?) confluiscono nella domanda su cosa è l’uomo (I. Kant, Logica [1800], ed. it. a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 19), ha poi tenuto ai margini del lavoro critico-trascendentale la sua Antropologia pragmatica.

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Ebbene, una filosofia umanistica, un umanesimo come progetto filosofico, deve includere questi due filoni della tradizione moderna, quello di una filosofia del soggetto e quello di una fenomenologia dell’umano; l’indagine riflessiva sulle strutture dell’esperienza, da un lato, l’osservazione e interpretazione a carattere etico-pratico della realtà umana, dall’altro. Sono due filoni intrecciati ma distinti. Intrecciati, perché entrambi vedono nell’uomo il punto di partenza e di ritorno del lavoro filosofico. Distinti, perché una filosofia del soggetto sviluppa argomentazioni secondo una coerenza interna e secondo sentieri che possono portare anche molto lontano dalla realtà quotidiana dell’uomo, a cui invece una fenomenologia dell’umano deve e vuole restare aderente. Senza filosofia del soggetto, un umanesimo non è abbastanza filosofico, non problematizza a sufficienza modi e forme dell’esperienza, come si accede alla conoscenza, come si rapportano psicologia, fisiologia, logica, linguaggio e realtà. Senza fenomenologia dell’umano, la filosofia del soggetto, anche in campo morale, resta astratta e scolastica, si priva del suo nucleo più sfuggente, ma anche più coinvolgente e urgente, perché riguarda la vita di ciascuno. Presi insieme, l’uno come limite e compensazione dell’altro, i due filoni delineano una efficace filosofia del finito, che non rinuncia a costruire proposte e modelli per abitare l’età dell’uomo. Anche nella loro fase primo-moderna i due filoni si sono evoluti insieme, ma mantenendo registri e obiettivi diversi. Si pensi da un lato alla moralistica europea, dall’altro alle filosofie empiristiche e idealistiche. Da un lato, per dire, Petrarca, Guicciardini, Montaigne, Erasmo, Charron, La Bruyère, Shaftesbury, dall’altro Hobbes, Locke, Hume, Condillac, Kant, Fichte. Dalla nostra tarda prospettiva siamo in grado di vedere meglio quelle linee, provando a tenerle insieme come due momenti di un unico problema, quello di come si parla filosoficamente dell’uomo. In questo modo possiamo evitare un altro errore ricorrente, cioè l’identificazione di umanesimo e illuminismo.

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Per varie ragioni quest’ultimo è parso l’erede maturo dell’altro, divenuto veicolo di una filosofia del progresso secolarizzata, in marcia verso la “civilizzazione” del mondo intero sotto l’egida di diritti e valori universali. In questa stessa forma, l’umanesimo è potuto diventare addirittura l’emblema dell’onto-teologia occidentale, il cui risvolto pratico è stato l’imperialismo e il tecno-capitalismo globalizzato. Se è ben dubbio che la filosofia del soggetto moderna si possa restringere a una simile lettura, affatto fuorviante è sovrapporre quella filosofia con l’umanesimo etico-esistenziale. Per questo è importante, sul piano storico e teorico, mantenere la distinzione segnalata, pur negli evidenti intrecci.

3. Nascita di Umanesimo Proviamo a prendere qualche spunto veloce dalla storia di “uma­nesimo”, con la premessa che essa non deve limitarsi a indicare l’umanesimo italiano, sebbene il periodo dalla fine del Trecento al Cinquecento resti centrale. Resta centrale perché vi si delineano le condizioni per una rinascita del concetto di humanitas, entro un canone di studia humanitatis che deve promuovere tale concetto e la sua pratica. Evidentemente, per un approccio ricostruttivo e a forte taglio teorico, è altrettanto importante capire eredità e sviluppi di quella rinascita. È infatti attraverso tale eredità che anche terminologicamente si rende via via possibile parlare di un quadro teorico, di un’intera filosofia legata all’humanitas, l’umanesimo appunto. Già questo dato terminologico impegna a seguire lo sviluppo dell’umanesimo rinascimentale al di là del suo nucleo ben definito, di elaborazione del canone degli studia humanitatis incentrato sul primato degli antichi, della parola, della retorica, dell’etica, della politica. Impegna cioè a seguirlo nei suoi rapporti con la secolarizzazione, a cui è strettamente

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connessa la nascita dell’antropologia, intesa come studio sistematico dell’uomo ma anche, più in generale, come paradigma epistemologico dominante (primato del soggetto e del “gran mondo” in cui esso si muove). Questo legame immette l’umanesimo rinascimentale in una storia della riflessione sull’uomo che incrocia la moralistica europea, la science of man inglese, l’antropologia illuministica. È da questo incrocio che l’idea di umanità si prepara a diventare una parola chiave, riscoprendo e rimescolando i suoi antichi significati. Mentre si affinano gli strumenti per analizzare il corpo e la psiche, la società e i costumi, si viene condensando l’idea di un destino comune; mentre l’analisi rivela una sempre più complessa dinamica mentale, unita alla varietà etica, sociale e perfino fisica degli uomini, si accresce l’esigenza di una sintesi, di coordinate generali e condivisibili per l’umanità. La ricca pluralità antropologica chiede unità in un profilo comune di tutto insieme l’Uomo, inteso come genere tenuto insieme non solo da bisogni e caratteristiche comuni, ma da obiettivi comuni e condivisibili giacché sono dettati dall’uomo stesso, sono i suoi valori, i suoi progetti, le sue aspirazioni: suoi, non di una divinità, della natura, dell’essere. In una prima fase l’umana varietà sembra poter coesistere armonicamente, nell’idea di umanità ci sono fattori formalmente universali e inclusivi, come l’unità di genere, il potere “addomesticante” e civilizzatore delle forme culturali, il potere equilibratore e ordinatore della ragione. È la grande fase illuministica di “umanità”14, con le sue versioni idealistiche o positivistiche, ed è lì che infatti comincia a circolare anche il termine “umanesimo”. Poi però, quello stesso illuminismo fa esperienza dell’eurocentrismo, dell’imperialismo, dei lati ideologici e aggressivi della “umana” razionalità. E allora umanesimo diventa al tempo stesso una parola sospetta e una promessa

14.  Cfr. V. Ferrone, Il mondo dell’Illuminismo. Storia di una rivoluzione culturale, Einaudi, Torino 2019, in part. i capp. VII e X.

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di riscatto contro questi sospetti, contro le visioni ideologiche e unilaterali di umanità. E arriviamo quindi a oggi. Prima di diventare un termine storiografico codificato nella seconda metà dell’Ottocento, “umanesimo” già circola agli inizi di quel secolo, in piena Deutsche Klassik. Esso raccoglieva esplicitamente l’eredità del Rinascimento, in una visione classicista che, oltre a leggere in modo unitario la storia europea, si concentrava sul tema della Bildung, della poliedrica formazione umana che precede e oltrepassa le competenze specifiche di professioni e mestieri. E in parallelo, secondo una versione che radicalizzava certe istanze dell’Illuminismo, assunse una chiara connotazione politica: umanesimo come realizzazione dell’umanità nell’uomo, superando le ingiustizie, i soprusi, le discriminazioni. Su questo duplice asse, riemergono i significati fondamentali di humanitas stratificatisi nel tempo15: 1) la natura dell’uomo, che ne sottolinea gli aspetti di creatività ma anche di fragilità e distruttività; 2) la filantropia, che sottolinea il legame di solidarietà e di reciproco soccorso tra esseri simili; 3) la cultura come indispensabile strumento di formazione personale, che è a sua volta premessa del progresso morale e sociale; 4) il genere umano preso unitariamente, come nome collettivo, che sottolinea il nostro destino comune attraverso lo spazio e il tempo. I quattro significati riemersero lasciando intravedere i loro interni collegamenti, ma anche i potenziali elementi di conflitto. Questo lavoro storico e teorico si intensificò tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, quando, per un verso, si afferma l’uso storiografico per indicare con Umanesimo l’impostazione culturale del XIV-XV e, per l’altro, nel termine si affollarono angosce e speranze per il destino della civiltà europea e, con un caratteristico spostamento metonimico, del genere umano. Originate in Europa, 15.  Cfr. M. Russo (a cura di), Umanesimo. Storia, critica, attualità, Le Lettere, Firenze 2005, p. XV.

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le guerre mondiali, con la loro mobilitazione totale di masse umane e mezzi tecnici, con la loro sovrapposizione di smisurata potenza e smisurata distruzione, non poterono che sollecitare la discussione su cosa sono e come veramente si accordano Europa e umanesimo, umanità e civiltà. Fin dall’antichità si era messo in evidenza il carattere plurale e mutevole dell’animal multiplex, nonché la sua condizione di essere mortale: un essere consapevole della propria fine sia perché ha memoria delle cose e della loro caducità, sia perché ha memoria degli illimitati mali e pericoli a cui è esposto il suo corpo e la sua mente. Questa memoria produce paura e desiderio, bisogno di protezione e apertura all’ignoto, all’assente, all’alterità. Per fare fronte a questa condizione segnata dal rischio e dalla precarietà, si doveva provare a sviluppare un atteggiamento di benevolenza reciproca, basato sul riconoscimento di ciò che abbiamo in comune, dunque sul rispecchiamento reciproco, sulla solidarietà. E si doveva creare una cultura, intesa come attività di conoscenza, studio, ma anche come formazione personale, regola di condotta, selezione degli usi e costumi di una tradizione. Se intesa come formazione della persona, la cultura non era conoscenza neutra – l’apprendimento di informazioni, competenze disciplinari, di metodi euristici – ma serviva a sviluppare delle virtù utili a migliorare la persona e la convivenza (prudenza, giustizia, temperanza, fortezza). Tipicamente la virtù, che è una conquista personale, aveva un tratto sociale (urbanitas, pietas, clementia, magnanimitas), capace di favorire quei modi di parlare, comportarsi, produrre che aiutano a stare insieme in modo pacifico, arginando gli onnipresenti fattori di violenza e ingiustizia16. 16.  Sull’humanitas classica, cfr. Ch. Høgel, The Human and the Humane. Humanity as Argument from Cicero to Erasmus, V&R Unipress-National Taiwan University Press, Göttingen-Taiwan 2015; M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019.

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Poi arrivò l’epoca copernicana, con i suoi sconvolgimenti posizionali tra Cielo e Terra, il suo dilagante pluralismo di culture, religioni, etnie, società, tenuto insieme dalla tensione analiticamente unificatrice della ragione, che infatti cominciò a trarre le conseguenze del fatto che la terra è un globo interconnesso: l’azione unificante della conoscenza razionale, l’azione formatrice e civilizzante della cultura andava estesa all’intera collettività umana. L’unità del genere umano assumeva una dimensione assiologica, perfino escatologica, ma entro un perimetro terreno, fatto di precise scelte, strategie, obiettivi. Unendo elementi dell’antico cosmopolitismo e dell’etica pedagogico-civilizzatrice di ascendenza rinascimentale, l’Umanità diventava un macro-soggetto che si sviluppa nel tempo, attraverso le generazioni, mediante un progetto potenzialmente universale – sebbene affidato agli appetiti, all’unilateralità, alla forza degli Stati, gli unici “individui” di scala planetaria.

4. L’umanesimo dopo l’Illuminismo La finzione del macro-soggetto Umanità, la sua coloritura idealistica, la sua commistione, sotto le vesti di una missione etica e civilizzatrice, con il più sfrenato imperialismo eurocentrico, hanno legittimamente fomentato un atteggiamento critico e decostruttivo rispetto all’umanesimo e alla retorica dell’Uma­ nità, cominciato già nell’Ottocento con Nietzsche, Stirner, Marx, e consolidatosi nel Novecento, grazie soprattutto agli innesti tra la lettura metafisica heideggeriana della storia antropocentrica occidentale e le varie forme di decentramento e de-soggettivazione svolte dal post-strutturalismo francese. Essi hanno quindi denunciato la nuova ipostasi moderna, il soggetto umanistico. Tale soggetto sarebbe un individuo autarchico, portatore di valori universali quali l’autonomia, la libertà, la razionalità, che in verità sono valori occidentali e per

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di più borghesi, figli di una visione individualista ed economicistica, cioè tale da supportare la disuguaglianza e lo sfruttamento capitalistico proprio grazie all’effetto mascherante e universalistico dei “valori umani”. Detto in forma più speculativa, il soggetto umanistico sarebbe l’erede di Dio, dotato quindi di diritti assoluti (i diritti umani) e di poteri illimitati, in quanto autore di se stesso e del proprio destino, che ne fa il signore del mondo. Sotto questo modello antropologico agirebbe una metafisica impoverita, che considera ogni cosa come un ente da conoscere con sempre maggiore esattezza e da manipolare con sempre maggiore sofisticazione. Questa era la tesi di Heidegger che ha fatto scuola nel Novecento e che ancora oggi emerge con decisione nel post-umanesimo17. Da diverso tempo, anche se stenta a diventare un dato acquisito, noi sappiamo però che si tratta di una tesi molto discutibile sul piano storico e teoretico, come mostrò per esempio Ernesto Grassi, e come diversi lavori hanno confermato, da quelli pioneristici di Eugenio Garin ad altri più recenti18. Questo varrebbe a maggior ragione se si approfondisse la visione di lunga durata che ho suggerito, leggendo in maniera congiunta l’umanesimo rinascimentale e le successive indagini sulla natura umana, per capire sia la grande costruzione dell’individuo moderno, portatore di diritti e dignità inalienabili, sia

17.  Per una ricostruzione della querelle sull’umanesimo, cfr. T. Rockmore, Heidegger and French Philosophy. Humanism, Antihumanism and Being, Routledge, London-New York 2003; F. Mora, Martin Heidegger. La provincia dell’uomo. Critica della civiltà e crisi dell’umanismo (1927-1946), Mimesis, Milano-Udine 2011. 18.  Cfr. E. Garin, L’umanesimo italiano (1947), Laterza, Roma-Bari 1973; E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1986; R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010; M. Ciliberto, Il nuovo Umanesimo, Laterza, Roma-Bari 2017; e M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Uma­nesimo, Einaudi, Torino 2019.

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la crescente consapevolezza di quanto sia difficile “realizzare” (cioè definire, delimitare, fissare) l’umanità, e dunque “umanizzare” gli uomini. Questa operazione consentirebbe anche di rimarcare le differenze tra umanesimo e illuminismo. Intanto possiamo stabilire con sufficiente attendibilità che nonostante le derive retoriche e ideologiche, l’humanitas umanistica non coincide affatto con il soggetto demiurgico, eredesostituto di Dio (basti pensare all’io di Petrarca, Montaigne, Hume, Kant). Il nesso uomo-Dio è presente certo nel platonismo rinascimentale, ma oltre a essere solo un filone dell’uma­ nesimo, bisogna ricordare che esso fa parte di una più vasta visione “microcosmica”, dove viene in primo piano la funzione “copulativa” dell’uomo tra tutte le cose, quelle alte e quelle basse, terrene e celesti. Nel fattore relazionale (l’amore, l’eroico furore) opera certamente un potere prometeico, la capacità di riconoscere-ricreare ciò che Dio ha fatto, sottolineando l’autonomia dell’azione umana, ma sempre nello scarto tra mente finita capace d’infinito e l’assolutamente infinito19. Insomma, totalizzante e narcisista sarà una certa immagine positivista dell’uomo, alcune forme di religione dell’uomo e dello Stato apparse nell’Ottocento e nel Novecento – che di umanistico hanno ben poco – piuttosto che le disquisizioni metafisiche sul profilo teomorfico dell’uomo. Letta nella rielaborazione post-rinascimentale, la rivendicazione della dignità dell’uomo, di valori e diritti umani, la fiducia nella scienza e nella ragione, tutto questo ha un fondo negativo e una funzione compensativa e regolativa. Se non vi è nulla (non Dio, non la natura, non il cosmo) che fondi valori e che dia certezze e speranze, allora non resta che cominciare dal-

19.  Cfr. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), tr. it. e cura di G. Targia, intr. di M. Ghelardi, Bollati-Boringhieri, Torino 2012, pp. 14 ss.

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la comprensione di chi siamo noi, facendo appello solo ai nostri mezzi e possibilità20. Quando non spariscono, la religione e la metafisica diventano prospettive per indagare la struttura antropologica della psiche e della cultura. Da questa anatomia della natura umana, che si sviluppa tra il XVI e il XVIII secolo lungo la via della moralistica, del pensiero libertino e dell’antropologia, emerge che l’uomo è costitutivamente ambiguo e limitato, esposto alla contingenza e all’autodistruzione proprio in forza della propria potenza intellettuale e creatrice. Oggi, sviluppando quella eredità, possiamo affermare che, lungi dalle immagini trionfali o buoniste (identificando senz’altro umanesimo e umanitarismo, la parte con il tutto), l’immagine umanistica è realistica, drammatica, attraversata dal dubbio e dal sospetto. I rapporti di dominio, la diseguaglianza, la sopraffazione, nonché i “doni di Pandora” − malattia, follia, sofferenza, morte − dominano sempre la scena umana; essi derivano da contrapposte forze arcaiche e forze evolutive, materiali e psichiche, che si agitano in essa. Proprio questo lato notturno e conflittuale distingue la visione umanistica dal semplice umanitarismo nonché dal positivismo che crede risolutamente nell’equazione progresso = miglioramento.

20.  È il noto paradigma della “autoffermazione” sviluppato da H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna (19882), tr. it. di C. Marelli, Marietti, Genova 1992. L’ampia indagine che Charles Taylor dedica alla secolarizzazione è una «genealogia dell’umanesimo esclusivo» (Ch. Taylor, L’età secolare [2007], ed. it. a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 43), termine che indica una cultura autosufficiente dell’uomo, «l’eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità umana; o meglio, in cui essa entra a far parte dello spettro di vite immaginabili per intere masse di persone» (ivi, p. 35). Tale umanesimo viene alla luce insieme «all’etica della libertà e del beneficio reciproco, anzi come un insieme alternativo di fonti morali funzionale a essa» (ivi, p. 332), le quali esigevano «che l’imposizione di un ordine disciplinato alla vita personale e sociale, in grado di assicurare alti livelli di autocontrollo e di buona condotta degli individui, oltre che pace, ordine e prosperità sociale, diventasse l’interesse morale centrale» (ivi, p. 334).

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Razionalismo, diritti e valori umani, non sono la realizzazione di un’essenza umana, ma un insieme di strumenti creati per fronteggiare il fatto di essere rimasti soli con noi stessi, di dover dare un quadro complessivo alla nostra azione in assenza di un ordine, un senso complessivo. Nelle sue formulazioni più attente, l’umanesimo ha sempre avuto un tratto scettico, anche quando si è appellato a valori e imperativi universali, perché è conoscenza dell’uomo, dunque di un essere che ha un fondo indecifrabile ed enigmatico, ciò che viene chiamato a vario titolo vita, anima, libertà, alterità, trascendenza, nulla, o più genericamente cultura, spirito, tempo, esistenza. Comprendere anche questo fondo, con strumenti non scientifici, è uno dei compiti degli studi umanistici. Gli strumenti non possono essere scientifici perché la scienza non può accettare l’ambiguità strutturale, ciò che per definizione è irrisolvibile, polisemico, aporetico; ma neanche accetta il darsi di alcunché come lo spirito, la psiche, l’essere, che non sono enti tangibili, fatti sperimentabili, hanno uno statuto metafisico e perciò richiedono strategie cognitive diverse dall’esattezza e dall’accertamento, senza per questo rinunciare a criteri di veridicità e rigore argomentativo21. Quando si escludono le entità dubbie, quando si ritengono superabili le ambiguità, i primitivismi, le dualità dell’uomo, allora inevitabilmente si propongono descrizioni che per un verso impoveriscono l’esperienza vissuta, per l’altro tendono al futurismo e al sensazionalismo del post-uomo, della trans-umanità, che infatti spesso estremizzano e sublimano le certezze scientifiche. Ecco perché per un’antropologia umanistica il dialogo con le scienze è necessario ma non sufficiente; in altri termini, i compiti restano distinti, e va arginata

21.  Argomenti solidi e ormai classici sono stati sviluppati da H.-G. Gadamer, Verità e metodo (1960), testo ted. a fronte, tr. it. e note di G. Vattimo, intr. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000; e da P. Ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica (1986), tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1989.

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la tentazione di rendere la discussione sull’uomo una disputa su modelli antropologici, dove a un gruppo di parole-­chiave tradizionali (spirito, ragione, anima, libertà), spesso usate in modo solo evocativo, si contrappongono altre parole-chiave riprese in forma creativa e sincretistica dalla scienza (ibridazione, speciazione, mutazione, resilienza, esaptazione). Da ciò discende un approccio cauto anche rispetto al codice illuminista che pure, in termini progettuali e performativi, è l’api­ce dell’umanesimo moderno. Dignità, libertà, uguaglianza, diritti, sono le conquiste normative della svolta antropologica che ha guidato la costruzione di un mondo tendenzialmente “più umano”: quello di una coesistenza pacifica delle differenze, dove ciascuno può “fiorire”, lasciando spazio alla propria individualità22. Tuttavia sia alla luce dell’anatomia della natura umana pre-illuministica, sia alla luce delle esperienze storico-culturali post-illuministe, sia, infine, per coerenza con una filosofia del finito, s’impone un certo scetticismo anche nei confronti di quelle conquiste: prese da sole, esse tendono a collassare verso un modello antropologico essenzialista o infinitario, di cui esse esprimono le proprietà fondamentali, le quali costituirebbero il centro e l’autentica aspirazione dell’umanità. Ma a parte la testimonianza avversa delle cronache, c’è una incongruenza di modelli e categorie di fondo. Se valori e diritti umani derivano da un essere ambiguo, essi vanno letti in chiave regolativa, costruttivistica, prudenziale; sono conquiste storiche, non proiezioni ontologiche. Quindi

22.  La fioritura, cioè «la libera espressione di un Sé che ha il diritto di essere ciò che di volta in volta vuol essere», rinvia alla presenza o all’assenza della «centralità politica del soggetto e della sua uguale dignità» (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, Laterza, Roma-Bari 20132, p. 28) ed è questo a fare la differenza tra destra e sinistra. La soggettività, dunque, resta il riferimento privilegiato del programma liberal, e in ciò risiede il suo «umanesimo non ingenuo» (ivi, p. 72).

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essi vanno difesi e sviluppati – sono comunque l’unica piattaforma coerente per un discorso umanistico globale – ma entro una rete di mediazioni e integrazioni che li rendano compatibili non solo con le differenti culture, ma con ambiguità e primitivismi umani. Si potrebbe dire che essi, ovvero l’illuminismo, sono il cuore di un continente più vasto, chiamato umanesimo. Da questo continente non arrivano solo dubbi e cautele verso ragione e diritti illuministici, ma anche strumenti di supporto per renderli culturalmente adeguati, per adattare dunque i diritti universali alla realtà quotidiana. La lunga tradizione di attenzione fenomenologica, finezza ermeneutica, consapevolezza storica, esercizio dialettico, propria dell’umanesimo, può essere di sicuro ausilio per mediare tra universalità illuminista e particolarità esistenziale. Anche le conquiste più alte della conoscenza e dell’etica moderna devono pur sempre stare al mondo in chiaroscuro degli uomini, dove il momento personale, la regola non generalizzabile, la contingenza, le tradizioni, gli stereotipi, svolgono un ruolo tanto più pericoloso quanto più ignorato o rimosso a guisa di mero ostacolo. Se è così, allora l’ars vivendi, il patrimonio di riflessione ed esercizio eticoesistenziale-pedagogico, l’applicazione pragmatica e personale del sapere nella vita di ogni giorno, nell’instabilità dell’“uomo in situazione”, sono il proseguimento dell’umanesimo dopo la grande svolta illuminista.

5. Conclusioni L’umanesimo come programma filosofico ha in sintesi tre principali obiettivi. Primo, ricostruire in modo attendibile ma non pedissequo la vicenda del concetto moderno di umanità. L’attendibilità deriva da una confidenza con testi e fonti, capace di cogliere le durature linee di forza che hanno reso così rilevante il concetto, dentro e fuori dalla filosofia. Secondo,

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ridare consistenza a una filosofia della finitezza, che rilegga le fondamentali domande filosofiche a partire dall’esperienza quotidiana del soggetto. Il confronto con le deficienze teoriche del post-umanesimo, pur accogliendone le provocazioni, è un punto dirimente di quest’operazione. Terzo, chiarire la differenza tra umanesimo e illuminismo, per criticare l’universalismo illuminista senza rinunciare ai suoi ideali, gli unici disponibili per guidare la coesistenza globale dell’umanità. Questo terzo obiettivo evidenzia in particolare il nucleo etico (ricerca della vita buona), più strettamente pratico ed esistenziale, dell’umanesimo. Probabilmente in questo programma non c’è nulla di nuovo al di fuori dell’invito ragionato a tenere insieme parti di solito separate o, all’inverso, arbitrariamente sovrapposte, fino all’irriconoscibilità delle parti medesime. Saper distinguere quando si unisce troppo, e unire quando troppo si separa, è l’immemorabile compito della filosofia, il suo indelebile stigma dialettico. E, oggi specialmente, questo compito, la “fatica del concetto”, passa per un esercizio di memoria, di vivificazione del passato che faccia da contrappeso al futurismo vocazionale della modernità. In senso stretto, l’umanesimo è nato riscoprendo il passato, e ovviamente risulta morto quando questo passato risulta a sua volta morto, ridotto a poche battute o a schemi irrigiditi. Questo spiega perché ho insistito sui richiami storici invece di approfondire punti specifici. Ma c’è una memoria più travolgente, meno accademica, ed è la memoria della sfingea violenza che ha accompagnato la storia naturale, che si è fatta umana arginandola, trasfigurando il ciclo nascita-morte, la neutra fatalità degli esperimenti evolutivi, dove forse alla fine trionferanno gli organismi più elementari. La denuncia della violenza sull’ambiente che caratterizza l’antropocene è doverosa, ma non per mettere fine all’umanesimo antropocentrico, bensì per riattivarlo, per rafforzarne il potenziale riflessivo e auto-regolativo: senza ciò,

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l’uomo torna selvaggio, ripiomba nello stato di natura. Pensare invece che la soluzione arrivi dal post-uomo, una nuova specie conciliata con la natura23, significa giocare con l’immaginario tardo-capitalistico, con lo strapotere della tecnologia e del suo “sempre oltre”. Non dimenticare lo stato di natura, la nostra origine barbara in lotta per l’esistenza, è un fondamentale monito per non incorrere in una cecità ancora più insidiosa, che con l’umanista Vico possiamo chiamare la «barbarie della riflessione»24.

23.  «“Postumano contemporaneo” è il frutto di una speciazione […] tale da rendere i postumani completamente diversi dagli appartenenti alla specie Homo sapiens […]. [Esso] riposiziona ciò che segue all’umano (post-umano) entro uno schema integrato nella Natura, verso un superamento dell’antropocentrismo, in direzione di una costruzione di una nuova narrazione per il nostro futuro» (L. Caffo, Fragile umanità, cit., p. 5). 24.  G.B. Vico, Princìpi di una scienza nuova (1744), a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 2001, vol. I, p. 967. L’espressione indica il punto in cui una civiltà diventa così artificiosa da rinchiudersi in un mondo finto e illusorio, ancorché estremamente razionale, perdendo il contatto con le realtà più elementari, a cominciare da quelle che riguardano l’uomo, le sue origini, i suoi limiti. Il ritorno alla natura via tecnologia proposto dal post-umanesimo sembra effetto di un analogo oblio delle rozze origini di tutte le cose. Sia precisato che l’autoriflessione di cui ho parlato sopra è uno strumento per evitare le astrazioni del razionalismo (la riflessione di cui parla Vico), oggi esaltate dall’ambiente hi-tech.

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Il futuro dell’umano, l’umano dal futuro Riflessioni filosofico-antropologiche nel segno di una responsabilità intergenerazionale Ferdinando G. Menga

1. Il primato etico della questione antropologica Nel frastagliato, multiprospettico e interdisciplinare panorama dell’indagine antropologico-filosofica contemporanea vi è una traiettoria che può essere immediatamente identificata a partire dall’intento di effettuare un deciso cambio di rotta da un’impostazione ontologica a una di marca etica. In particolare, sono state le riflessioni di Emmanuel Lévinas1 ad aver sottolineato come le aberranti pratiche della violenza e della disumanizzazione che hanno funestato il secolo scorso non sono per nulla prodotto di un estrinseco accidente capitato alla civiltà europea, ma piuttosto l’intrinseco precipitato dell’aspirazione a un dominio ontologizzante che sta alla base della cultura stessa dell’Occidente – aspirazione, questa, volta alla costante ricerca di una determinazione totalizzante e, perciò stesso, alla messa in opera di dispositivi di assimilazione o eliminazione di ogni alterità che a tale pretesa assolutizzante cerca di resistere o sottrarsi2. 1.  Cfr. E. Lévinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972, pp. 71 ss. 2.  Sul carattere eminentemente totalizzante/totalitario della determinazione ontologica dell’umano, si è intrattenuta anche Hannah Arendt (The

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Nei dibattiti più recenti, l’urgenza etica di una questione riguardante l’umano non si è, però, solo intensificata, ma si è arricchita anche di nuovi motivi, come quello che scaturisce dalla preoccupazione di estendere la riflessione a una responsabilità rivolta al futuro. In ogni ambito della vita pubblica percepiamo, infatti, i richiami di un’interrogazione circa la cura nei confronti delle generazioni a venire: dai dibattiti scientifico-disciplinari al settore dei media, fino a entrare a pieno titolo nelle odierne agende politico-istituzionali nazionali e di governance internazionale. La crescente inquietudine attorno a temi quali il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, l’esigenza di uno sviluppo sostenibile, ma anche la protezione del patrimonio genetico e culturale, ruota sempre attorno alla domanda: come lasciare in eredità una vita degna d’essere vissuta tanto ai nostri successori, quanto agli abitanti del pianeta di un futuro lontano? Come provvedere, insomma, a uno spazio di sopravvivenza – e forse anche di effettiva pensabilità – per l’umano a venire? La dislocazione della questione antropologica che, dunque, qui si esperisce può essere descritta nei termini di uno spostamento dalla domanda «cos’è l’umano?» all’interrogazione «come fare in modo che l’umano possa sussistere in futuro?». Ma di qui subito una certa registrazione d’imbarazzo si fa sentire, poiché, per quanto, da un lato, la percezione di una tale

Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago-London 1958, pp. 7 ss.). Più di recente questa linea del discorso è stata sviluppata, sotto profili diversi, da autrici e autori come Judith Butler (Restaging the Universal. Hegemony and the Limits of Formalism, in Ead. - E. Laclau - S. Žižek, Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues on the Left, Verso, London-New York 2000, pp. 11-43), Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995) e Roberto Esposito (Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007).

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responsabilità per il futuro dell’umano mostri un carattere piuttosto uniforme ed esteso3, dall’altro, non della stessa determinazione e uniformità pare essere investita la dimensione teorica concernente la giustificabilità stessa di tale responsabilità, per non parlare poi delle risposte politico-istituzionali che dovrebbero realizzarla. Ne consegue perciò l’esigenza di una riflessione supplementare, i cui lineamenti e problematicità generali vorrei qui enucleare, seppur con la brevità che un sintetico contributo impone. Nello specifico, la mia indagine si propone di toccare alcuni luoghi fondamentali della questione, concentrandosi soprattutto su un’interrogazione di carattere teorico-fondativo. Accanto alla dimensione etico-antropologica, si passeranno in rassegna anche importanti problematiche di stampo politico-istituzionale, per concludere il percorso con alcuni spunti di marca etica, la cui decisività si renderà manifesta proprio nei termini di un discorso votato a una visione della trascendenza futura dell’uma­no legata intimamente con l’appello alla responsabilità.

2. Etica e temporalità futura Al fine di circoscrivere la portata temporale del futuro nell’alveo di un’indagine riguardante la responsabilità intergenerazionale, vorrei soffermarmi su due questioni centrali. In primo luogo, prendendo le mosse dallo stato dell’arte del dibattito attuale, mi preme analizzare con attenzione se e in

3.  Si veda, in tal senso, proprio la diffusione che oggigiorno trova quale emblematico veicolo la protesta globale condotta da Greta Thunberg e i movimenti dei Fridays for Future.

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che termini le teorie etiche predominanti siano – o non siano – in grado di rispondere adeguatamente a quanto un’etica orientata al futuro esige. Volendo anticipare la traiettoria di questa riflessione, si tratterà di segnalare come proprio suddette teorie non riescano davvero ad accogliere l’appello alla responsabilità che soggetti futuri impongono. Una tale incapacità, come vedremo, sarà da far risalire esattamente alla semantica “presentistica” che sottende a tutti i discorsi morali predominanti. Di qui consegue il secondo punto, che introduce la questione fondamentale: se un discorso etico incentrato sulla semantica della presenza non si mostra in grado di rispondere coerentemente a un’esigenza etica radicalmente rivolta al futuro, come può configurarsi un paradigma etico alternativo che corrisponde a tale esigenza di dare voce all’umanità futura? La risposta che vorrei qui proporre è la seguente: per accogliere in modo genuino l’appello a una responsabilità nei confronti dei futuri è necessario abbandonare la strada fondativa che cerca di estendere il presente al futuro, e intraprendere il percorso di un’etica che trasgredisce il primato del presente, accogliendo invece l’appello dell’alterità stessa del futuro. Si tratta, in altri termini, di un’etica che, al posto di fondarsi sul primato di un tempo presente e dei presenti, si rivolge piuttosto alla trascendenza di un tempo altro da cui deriva la sua stessa propulsione motivazionale. Questa prospettiva, per quanto speculativa possa sembrare, tale non è. E non lo è in particolar modo se – in compagnia di autori come Emmanuel Lévinas, Jacques Derrida e Bernhard Waldenfels lungo la traiettoria dell’etica fenomenologica4, ma 4.  Far affiorare in modo adeguato questo motivo nel pensiero degli autori citati imporrebbe un’analisi circostanziata della maggior parte delle loro opere. Mi limito a segnalare, qui, i testi per me più significativi per il tema al

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già anche di Simone Weil, Karl Jaspers e Günther Anders sotto altri profili5 – ci rivolgiamo a un certo modo alternativo di connotare l’esperienza dell’obbligo morale: un obbligo non primariamente basato sulla razionalità degli interessi, delle ragioni o della correlazione a diritti, ma costitutivamente incentrato su un’ingiunzione radicale dell’altro che esige incondizionatamente un essere responsabili prima ancora che la macchina delle ragioni si metta in moto. Un’esperienza del genere, lungi dal detenere un carattere meramente astratto, si mostra estremamente vissuta proprio se calata – e non è un caso – nel contesto della questione intergenerazionale, in cui l’estrema concretezza sta nel semplice fatto che, là dove finiscono le ragioni, gli interessi e gli obblighi correlati a diritti – elementi tutti collocabili entro una sfera del presente e dei presenti

centro di questo contributo: E. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; Id., En découvrant l’existence aver Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967; Id., Autrement qu’être ou Au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; J. Derrida, Donner le temps. I. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991; Id., Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993; Id., Force de loi: le “fondament mystique de l’autorité”, Galilée, Paris 1994; B. Waldenfels, Antwortregister, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994; Id., Bruchlinien der Erfahrung. Phänomenologie – Psychoanalyse – Phänomenotechnik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002; Id., Schattenrisse der Moral, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006; Ortverschiebungen, Zeitverschiebungen. Modi leibhaftiger Erfahrung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2009; Id., Hyperphänomene. Modi hyperbolischer Erfahrung, Suhrkamp, Berlin 2012; Id., Sozialität und Alterität. Modi sozialer Erfahrung, Suhrkamp, Berlin 2015. 5.  Rispetto a queste autrici e autori la mia attenzione si rivolge soprattutto alle seguenti opere: S. Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humaine, Gallimard, Paris 1949; K. Jaspers, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen. Politische Bewußtsein in unserer Zeit, Piper, München 1958; G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. I, Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1956.

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nei confronti dei futuri –, non per questo viene meno il senso profondo di responsabilità.

3. Difficoltà di fondo nel pensare una responsabilità verso i futuri Il predominio di una semantica del presente nei discorsi dedicati alla responsabilità verso le generazioni future può essere rintracciato, anzitutto, attraverso un’indagine che prende le mosse dal contesto d’insorgenza stesso del problema. Da quando è stata riconosciuta in tutta la sua portata e difficoltà teorica, la questione intergenerazionale, in effetti, ha trovato il suo luogo di accoglienza e di elaborazione all’interno di tre impostazioni dominanti il cui baricentro è da rinvenirsi proprio in una filosofia della presenza. Queste impostazioni sono rappresentate dalla teoria contrattualista, utilitarista e metafisico-giusnaturalista. Ma vediamo meglio in che termini, tanto la configurazione specifica delle premesse a partire dalle quali il tema intergenerazionale è stato formulato – e continua a essere formulato (a tutt’oggi) –, quanto la caratura delle difficoltà a esso correlate, siano intrise, in tali prospettive, di un linguaggio di matrice presentistica. La teoria contrattualista, come è noto, prevede, fra le sue premesse di fondo, l’esistenza di soggetti orientati al perseguimento dell’interesse personale, in un rapporto di reciprocità e compresenza, e tali dunque da essere in grado di stipulare un accordo6. Le generazioni future, tuttavia, si contraddistin-

6.  Mi limito qui a riportare le riflessioni di carattere maggiormente paradigmatico all’interno dell’assai nutrito dibattito in tale ambito: cfr. J. Rawls, A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1971, §§ 24, 44; D. Gauthier, Morals by Agreement,

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guono proprio per il fatto di non esistere ancora e non poter cooperare7. Pertanto, la sfida teorica che si pone alla prospettiva contrattualista è che tali generazioni, a differenza di quanto accade in una situazione contrattuale vera e propria, sono per principio assenti e quindi impossibilitate a negoziare, ad accordarsi e a rivendicare diritti8. A questo primo ostacolo teorico, che può essere definito ostacolo della non-esistenza dei soggetti futuri, se ne aggiunge un secondo: l’ostacolo dell’asimmetria. In effetti, l’altro rilievo problematico che inerisce all’impostazione contrattualista della questione intergenerazionale è quello dell’evidente disparità fra il potere che la generazione attuale ha d’incidere sul destino delle generazioni future e l’inesistente, se non pressoché insignificante, capacità d’influenza di quest’ultime sulla prima. In che modo, in effetti, soggetti futuri, propriamente assenti, potrebbero mai avere la forza d’imporre alcunché ai contemporanei presenti? Questa impossibilità di mettere in reciprocità e simmetria

Clarendon Press, Oxford 1986. Per approfondimenti mi permetto di rinviare al mio volume: F.G. Menga, Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2016, pp. 39-59. 7.  Cfr. S.M. Gardiner, A Contract on Future Generations?, in A. Gosseries L.H. Meyer (a cura di), Intergenerational Justice, Oxford University Press, Oxford-New York 2009, pp. 81 ss.; S.M. Gardiner, A Perfect Moral Storm. The Ethical Tragedy of Climate Change, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 123, 170-4; R.P. Hiskes, The Human Right to a Green Future. Environmental Rights and Intergenerational Justice, Cambridge University Press, New York 2009, pp. 50 ss. Si veda anche B. Barry, Circumstances of Justice and Future Generations, in R.I. Sikora - B. Barry (a cura di), Obligations to Future Generations, Temple University Press, Philadelphia 1978, pp. 204-248. 8.  Cfr. B. Barry, Circumstances of Justice and Future Generations, cit.; G. Pontara, Etica e generazioni future. Una introduzione critica ai problemi filosofici, Laterza, Roma-Bari 1995, cap. III; W. Beckerman, The Impossibility of a Theory of Intergenerational Justice, in J. Tremmel (a cura di), Handbook of Intergenerational Justice, Elgar, Cheltenham 2006, pp. 53-71.

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i soggetti costituisce, dunque, un ulteriore ostacolo all’impostazione contrattualista9. Ma anche la teoria utilitarista deve rispondere a una sfida teorica alquanto improba nel momento in cui si trova ad affrontare la problematica di una responsabilità intergenerazionale, e ciò proprio in ragione dei caratteri d’universalità e d’irrilevanza temporale su cui essa fonda l’utilità o la felicità da massimizzare10. In effetti, mentre tali caratteri sembrano tenere nel caso del calcolo di felicità totale o media in un contesto limitato al presente o al vicino futuro, non altrettanto accade quando si tratta di tenere conto di generazioni appartenenti a un lontano futuro11. In tal modo, l’ostacolo principale che incontra la teoria utilitarista in sede di etica intergenerazionale, a prescindere dai molti altri punti critici e risvolti problematici, è quello della difficoltà di stimare adeguatamente a partire dalla conoscenza presente sia ciò che e sia anche la misura di ciò che può essere valutato come utilità o danno in un futuro remoto. Questa sfida può essere definita come sfida dell’indeterminatezza o ignoranza rispetto al futuro. Per altro verso, anche l’impostazione giusnaturalista si trova avviluppata in difficoltà strutturali di enorme rilevanza nel momento in cui vuole affrontare la sfida di un’etica del futuro. Infatti, una medesima pretesa universalista e di carattere meta-

9.  Cfr. M. Kobayashi, Atomistic Self and Future Generations: A Critical Review from an Eastern Perspective, in T.-Ch. Kim - R. Harrison (a cura di), Self and Future Generations. An Intercultural Conversation, The White Horse Press, Cambridge (UK) 1999, pp. 13 ss.; S.M. Gardiner, A Contract on Future Generations?, cit., pp. 81 ss. 10.  Cfr. H. Sidgwick, The Methods of Ethics (1874), Macmillan, LondonNew York 1907, p. 414. 11.  Cfr. J. Passmore, Man’s Responsibility for Nature, Duckworth, London 1980; A. de-Shalit, Why Posterity Matters. Environmental Policies and Future Generations, Routledge, London-New York 1995, cap. III.

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temporale è quanto soggiace a quelle teorie che cercano di fondare e giustificare una responsabilità intergenerazionale sulla base di presupposti di tipo sostanzialista o metafisico. In generale, queste teorie, di cui Emmanuel Agius12 e, in certa misura, Hans Jonas13 offrono probabilmente le formulazioni più limpide, sostengono di derivare la responsabilità di esseri attuali nei confronti di esseri futuri a partire da una comunanza d’essenza o di genere. Il problema fondamentale collegato a queste impostazioni emerge, però, non appena si sottolinea il fatto che esse presuppongono la validità di una connessione motivazionale fra piano ontologico e piano etico che, a ben guardare, non risulta per nulla evidente. Perché mai, in effetti, da una condivisione d’essenza con altri soggetti appartenenti alla medesima specie ne dovrebbe discendere necessariamente un obbligo morale nei loro confronti? Diversi autori, tra cui i sopracitati Lévinas, Derrida e Waldenfels, sotto molteplici profili, hanno messo in dubbio un tale postulato e illustrato la sua indifendibilità. Essi mostrano non soltanto come il richiamo etico alla responsabilità verso altri insorga ancor prima di ogni costrizione ontologica e definizione d’essenza ma, per di più, come siffatta responsabilità rimanga genuinamente tale solo nella misura in cui resta collegata alla singolarità irripetibile del richiamo da cui emerge, sfuggendo così a ogni strategia di comparazione e neutralizzazione ontologica o costrizione contrattuale.

12.  Cfr. E. Agius, Obligations of Justice Towards Future Generations: A Revolution in Social and Legal Thought, in Id. et al. (a cura di), Future Generations and International Law, Earthscan, London 2006, pp. 3-12. 13.  Cfr. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, cap. IV, §§ 4-7; Id., Philosophische Untersuchungen und metaphysische Vermutungen, Insel Verlag, Frankfurt a.M. 2011, pp. 128-146. Cfr. anche G.S. Kavka, The Futurity Problem, in R.I. Sikora - B. Barry (a cura), Obligations to Future Generations, cit., pp. 191-6; e H.Ph. Visser ’t Hooft, Justice to Future Generations and the Environment, Kluwer, Dordrecht 1999, pp. 122, 133 ss., 149 ss.

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Ma la critica nei confronti di tali impostazioni metafisico-sostanzialistiche non si limita soltanto alla loro carenza argomentativa in termini di fondazione motivazionale. Altro punto spinoso è che le teorie sostanzialistiche spingono necessariamente a una ferma preferenza dei presenti rispetto ai futuri, aggirando la questione della giustizia distributiva di carattere intergenerazionale14. In base a siffatte teorie non si riesce a evincere il perché non si dovrebbe adottare, difatti, una soluzione tale per cui agli umani temporalmente lontani non si possano o non si debbano preferire quelli – o almeno quelli più indigenti – appartenenti al presente. Peraltro, una soluzione del genere, che assicura precedenza ai contemporanei – o meglio, ai presenti rispetto ai futuri –, sarebbe tanto più adeguata a un’impostazione metafisica, quanto più può dichiarare di seguirne l’argomentazione caratteristica secondo cui i titolari d’umanità contemporanei esprimono una realizzazione in atto dell’essenza umana, rispetto invece a una mera realizzazione in potenza attribuibile a esseri futuri. In estrema sintesi, quindi, tutte le difficoltà relative al modo in cui le teorie etiche tradizionali hanno affrontato e affrontano il problema degli obblighi verso le generazioni future risultano essere, nel loro complesso, tali da rispecchiare i limiti di un’impostazione fondamentalmente centrata sul primato di una temporalità della presenza15: primato di ciò che è empiricamente esistente solo al presente e di soggetti che sono sincronicamente presenti gli uni agli altri; primato di una causalità che conosce solo una rilevanza etica del presente verso il

14.  Cfr. W. Jenkins, The Future of Ethics. Sustainability, Social Justice, and Religious Creativity, Georgetown University Press, Washington DC 2013, pp. 286 s. 15.  Cfr. M. Kobayashi, Atomistic Self and Future Generations, cit., pp. 13 ss.; R. Muers, Living for the Future. Theological Ethics for Coming Generations, T&T Clark, London 2008, cap. I.

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futuro, ma non il contrario; primato di una possibilità di determinare uno stato etico solo a partire da informazioni presenti. Per dirla con un’efficace formulazione di Stephen Gardiner, si può ben definire questa impostazione nei termini di una vera e propria «tirannia dei contemporanei»16. Questa problematicità ingenerata dal primato di una semantica tutta incentrata sulla presenza non può che acutizzarsi, non appena dal campo di un discorso etico sulle generazioni future si passa a quello di stampo prettamente politico e giuridico. In effetti, una delle maggiori critiche che diversi studiosi hanno mosso al meccanismo democratico è proprio quella di non riuscire a fornire adeguata risposta all’emergenza ambientale e intergenerazionale a causa del “presentismo” che la avviluppa17 e che si radica nella natura stessa del dispositivo della sovranità popolare e auto-determinazione collettiva, cioè quello di un esercizio del potere dei «cittadini presenti» che non può che essere fondamentalmente orientato «a beneficio dei presenti»18 (o al massimo dei futuri più prossimi). Proiettandoci all’interno del contesto giuridico e del relativo discorso calibrato attorno al rapporto che i consociati intrattengono fra di loro in termini di diritti e correlativi obblighi, l’eventuale trasgressione del presentismo a favore di vincoli 16.  S.M. Gardiner, A Perfect Moral Storm, cit., p. 36. 17.  Cfr. ivi, pp. 143 ss., e S.M. Gardiner, In Defense of Climate Ethics, in Id. D.A. Weisbach, Debating Climate Ethics, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 25 s.; D.F. Thompson, Representing Future Generations: Political Presentism and Democratic Trusteeship, in «Critical Review of International Social and Political Philosophy», vol. 13, n. 1, 2010, pp. 17-37; D. Jamieson, Reason in a Dark Time. Why the Struggle against Climate Change Failed – and What It Means for our Future, Oxford University Press, Oxford 2014, pp. 96 ss.; J. Boston, Governing for the Future. Designing Democratic Institutions for a Better Tomorrow, Emerald, Bingley 2016, capp. I-IV. 18.  D.F. Thompson, Representing Future Generations, cit., p. 17.

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intergenerazionali, come si può ben intuire, palesa una medesima se non addirittura maggiore problematicità19. Si verifica qui esattamente quella che Gustavo Zagrebelsky definisce la «rottura della contemporaneità»20, «la base su cui finora si è presentata la vigenza delle norme […] del diritto»21. Da ciò se ne trae allora una sola conseguenza nell’ambito di un discorso giuridico di profilo intergenerazionale: l’esigenza di tematizzare la questione dei «“Diritti delle generazioni future”», più che rivendicare una maggiore attenzione, risulta addirittura essere – come prosegue ancora l’autore – «una di quelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità»22. Si tratta di una verità tanto semplice dal punto di vista giuridico, quanto irricevibile e (a tratti) ripugnante sotto il profilo di una morale comune: le generazioni future, proprio in quanto tali, non hanno alcun diritto soggettivo da vantare nei confronti delle generazioni

19.  Questa difficoltà è messa in evidenza da diversi studiosi in seno al discorso giuridico. In particolar modo cfr. R. Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale, Franco Angeli, Milano 2008, cap. III; A. Gosseries, Lo scetticismo sui diritti delle generazioni future è giustificato?, in R. Bifulco - A. D’Aloia (a cura di), Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, Jovene, Napoli 2008, pp. 29-39; A. D’Aloia, Generazioni future (dir. cost.), in «Enciclopedia del Diritto», Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano 2016, pp. 331-390; G. Zagrebelsky, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016, cap. XV. Per ulteriori approfondimenti sulla questione rinvio a F. Ciaramelli, Responsabilità per le generazioni future: la funzione del diritto, in Id. - F.G. Menga (a cura di), Responsabilità verso le generazioni future. Una sfida al diritto, all’etica e alla politica, Editoriale Scientifica, Napoli 2017, pp. 15-35; U. Pomarici, Dignità a venire. La filosofia del diritto alla prova del futuro, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, in part. pp. 15-102. 20.  G. Zagrebelsky, Senza adulti, cit., p. 86. 21.  Ivi, p. 85. 22.  Ivi, p. 86.

163 precedenti. Tutto il male che può essere loro inferto, persino la privazione delle condizioni minime vitali, non è affatto violazione di un qualche loro ‘diritto’ in senso giuridico.23

Per Zagrebelsky ne risulta dunque che l’unica possibilità di affrontare adeguatamente «il tema dei diritti delle generazioni future»24 è quella di dirottarlo verso la «categoria del dovere»25. Una tale dimensione, per quanto possa essere affrontata in modo più o meno esplicito dal punto di vista giuridico26, non può però sottrarsi per principio all’esigenza di un’interrogazione preliminare e radicale di carattere «essenzialmente morale»27. Si viene, in tal modo, riproiettati nell’ambito di un’interrogazione etica di fondo28 e nella correlata difficoltà trasmessa dal primato di una temporalità presente e dei presenti che non riesce a fornire piena legittimazione di una responsabilità genuinamente votata agli abitanti del pianeta in un futuro lontano. L’interrogazione, che si viene a condensare,

23.  Ibidem. 24.  Ivi, p. 92. 25.  Ivi, p. 87. 26.  Cfr. E. Brown Weiss, In Fairness to Future Generations: International Law, Common Patrimony, and Intergenerational Equity, United Nation University & Transnational Publishers, Tokyo-Dobbsferry (NY) 1989; L. Westra, Environmental Justice and the Rights of Unborn and Future Generations. Law, Environmental Harm and the Right to Health, Earthscan, London 2006; A. Pisanò, Diritti deumanizzati. Animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano 2012, pp. 162 ss.; U. Pomarici, Verso nuove forme dell’identità? Generazioni future e dignità umana, in F. Ciaramelli - F.G. Menga (a cura di), Responsabilità verso le generazioni future, cit., pp. 91-142. 27.  G. Zagrebelsky, Senza adulti, cit., p. 92. Per una riflessione ricostruttiva generale sull’utilizzo della categoria di “dovere” in ambito di diritto intergenerazionale cfr. R. Bifulco, Diritto e generazioni future, cit., pp. 113 s., 165-169. 28.  Cfr. S.M. Gardiner, In Defense of Climate Ethics, cit., p. 37.

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non può che registrare una situazione paradossale o comunque piuttosto singolare: il carattere di futurità, che costituisce il nucleo stesso della questione di una responsabilità per il futuro e per i futuri, nel momento in cui viene affrontato, si trova a essere ridotto o totalmente ricondotto a quanto se ne può elaborare a partire da una semantica del presente o della sua estensione in termini di meta-temporalità.

4. Il primato etico dell’umano declinato al futuro Questa situazione di precarietà fondazionale conduce a due esiti alternativi. Si tratta o di insistere ulteriormente sulla cesura presente-futuro, evidenziando così l’impossibilità di un’effettiva presa giustificazionale di etiche basate sulla semantica del presente rispetto a soggetti futuri; oppure di permanere comunque ancorati a un’aspirazione fondazionale che, però, non potendo trovare risposta alcuna negli impianti teorici a disposizione, non può far altro che trasgredirli mettendo in campo motivi a essi estrinseci. E proprio sotto questo secondo profilo si schiude il ricorso a un esercizio teorico assai praticato, che fa appello all’istanza ultima di un’intuizione morale quale vera e propria base fondazionale per un’etica rivolta all’umano futuro. Molteplici sono le impostazioni che, con modalità e accentuazioni diverse, esibiscono il ricorso a una tale intuizione morale29 quale risorsa ultima per un’etica del futuro: da John Rawls30

29.  Su questa questione rinvio alle mie riflessioni in: F.G. Menga, Per una giustizia iperbolica e intempestiva. Riflessioni sulla responsabilità intergenerazionale in prospettiva fenomenologica, in «Diritto & Questioni Pubbliche», XIV, 2014, pp. 711-793. 30.  Cfr. J. Rawls, A Theory of Justice, cit., §§ 4, 24, 44.

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a David Gauthier31 e da Brian Barry32 a Bruce Auerbach33, fino a giungere all’estrema ammissione di Derek Parfit il quale, nonostante abbia esibito l’argomentazione più poderosa contro la giustificabilità di una responsabilità intergenerazionale – il celebre Non-Identity Problem34 –, conclude il suo discorso lanciando comunque l’invito a trovare contro-argomenti migliori proprio al fine di accogliere quello che sembra permanere, anche per lui, un appello alla responsabilità di carattere ineludibile35. L’ostacolo fondamentale che tuttavia ciascuna delle impostazioni appena citate deve affrontare è dato dal fatto che l’istanza dell’intuizione morale si rivela non soltanto estrinseca, ma, in ultima analisi, anche incoerente rispetto all’impianto teorico di volta in volta messo in campo. Articolandosi in fondo nel richiamo a una responsabilità incontrovertibile – che si esprime oltre ragioni, interessi e calcoli –, un’intuizione del genere in effetti non trova una collocazione adeguata nella struttura argomentativa di tali teorie e le costringe inevitabilmente a contraddizioni interne insuperabili36. Ne consegue, pertanto, che l’accoglienza del nucleo fondamentale di siffatta intuizione morale, ossia l’appello a una responsabilità radicale e originaria verso il futuro e verso individui futu31.  Cfr. D. Gauthier, Morals by Agreement, cit., pp. 16, 303. 32.  Cfr. B. Barry, Justice Between Generations, in P.M.S. Hacker - J. Raz (a cura di), Law, Morality, and Society, Clarendon Press, Oxford 1977, pp. 276, 284. 33.  Cfr. B.E. Auerbach, Unto the Thousandth Generation. Conceptualizing Intergenerational Justice, Peter Lang, New York et al. 1995, p. 209. 34.  Cfr. D. Parfit, Reasons and Persons, Clarendon Press, Oxford 1984, cap. XVI. 35.  Cfr. ivi, pp. 447, 451 ss. 36.  Per approfondimenti al riguardo rinvio a F.G. Menga, Lo scandalo del futuro, cit., capp. III-V.

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ri, debba essere ricercata necessariamente in un’impostazione etico-filosofica radicalmente altra. La proposta che vorrei qui enucleare, al fine d’individuare l’impostazione richiesta, è quella di rivolgersi a una dimensione etica segnatamente improntata al primato dell’alterità, a cui inerisce, peraltro, una peculiare riconfigurazione della portata temporale del futuro. Un’impostazione del genere, come preannunciato, convoca all’appello la riflessione di autori quali Lévinas, Derrida e Waldenfels e si basa sull’esplicito presupposto di un soggetto, in generale, e un soggetto etico, in particolare, che non può essere inteso come primariamente fondato su una condizione di autoreferenzialità e autopresenza di tipo egologico-trascendentale a cui aderirebbe, poi, anche la possibilità dell’entrata in una relazione etica con altri (presenti o futuri che siano). Siffatto soggetto, va inteso, invece, come connotato fin dall’inizio dalla sua costitutiva relazione con l’altro, ossia da una condizione tale per cui esso è già sempre interpellato da e chiamato a rispondere alle istanze dell’alterità ancora prima di poter pervenire pienamente a se stesso e reclamare, dunque, una costituzione del rapporto etico a partire da un presupposto autoriflessivo37. Come si può intuire, un tale appello da parte dell’alterità, che si insinua nella vita del soggetto fin dall’inizio e lo pone costantemente in una relazione d’eteronomia prima ancora che d’autonomia, di spossessamento prima ancora che d’autoreferenzialità, d’esposizione prima ancora che d’autoriflessione,

37.  Su questa impostazione, si vedano in generale E. Lévinas, Totalité et infini, cit.; J. Derrida, Ho il gusto del segreto, in Id. - M. Ferraris, «Il gusto del segreto», Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 100 s.; P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; B. Waldenfels, Sozialität und Alterität, cit., capp. I, II, IV, V.

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dischiude una dimensione etica della responsabilità dal carattere originario e irriducibile: il soggetto interpellato, infatti, è tale per cui ha già cominciato a rispondere all’altro e a essere responsabile per l’altro ancora prima di pervenire all’eventuale possibilità di tematizzarlo come un elemento disponibile entro un campo di presenza, sì da poterne prendere le misure e decidere se stipularvi o meno un patto38. Una considerazione del genere, ovviamente, non esclude che poi si giunga effettivamente anche a situazioni contrattuali con l’altro. Piuttosto, ciò che questa considerazione esclude è che la radicale dimensione dell’ingiunzione alla responsabilità, che si annuncia nell’appello dell’altro, possa essere davvero attinta dal dispositivo contrattuale e dalla sua semantica connotata dalla temporalità della presenza, della compresenza dei soggetti e quindi anche dalla simmetria delle parti. L’appello alla responsabilità indica, invece, proprio nella direzione opposta di una diacronia, atopia e asimmetria originarie. La situazione in cui si imbatte un soggetto genuinamente interpellato è, in altri termini, quella di trovarsi immancabilmente investito da una richiesta che gli giunge da un tempo altro rispetto al suo presente, da un luogo altro rispetto al suo luogo proprio e da una sollecitazione inevitabile, antecedente a qualsivoglia possibilità di previsione, elusione o anche propiziazione. Se intendiamo, dunque, in questo senso il motivo dell’appello dell’alterità, non si fa saltare affatto la possibilità di una soggettività etica in quanto tale – come sembrano sostenere invece alcune impostazioni fedeli all’ipseità trascendentale o al selfinterest quale unica opzione per la strutturazione del soggetto –, ma le si conferisce piuttosto il suo più genuino carattere

38.  Cfr. E. Lévinas, Totalité et infini, cit., pp. 52 s.; J. Derrida, Ho il gusto del segreto, cit., pp. 99 s.; B. Waldenfels, Antwortregister, cit.

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responsivo39. In tal modo, si passa a una soggettività connotata non più dalla teticità del nominativo e dalla modalità temporale presente di un “io agisco” o “io sono responsabile”, ma dal carattere del pathos: una soggettività cioè che, prendendo le mosse dal tempo e luogo eccentrici dell’ingiunzione dell’altro, si ritrova al dativo o all’accusativo di un “mi accade/mi interpella” qualcosa a cui non posso non rispondere40. In particolare, nel contesto dell’etica intergenerazionale, è l’aspetto di questa eccentrica diacronia a necessitare una disamina più circostanziata. Certamente, non pone grandi difficoltà comprendere i termini in cui la relazione etica con l’alterità comporti una trasgressione del presente, se tale trasgressione è pensata nel senso di un passato inattingibile41: ogni appello da parte dell’altro, infatti, implica un’ingiunzione irrecuperabile, poiché l’altro ci ha già costretti a una risposta, prima ancora di poterlo trasformare in un qualcosa di presente e disponibile alla nostra presa autoriflessiva e calcolatrice42. Que39.  Su questa dimensione della soggettività, che è stata indagata in particolar modo da Waldenfels (cfr. Antowortregister, cit.; Bruchlinien der Erfahrung, cit.; Grundmotive einer Phänomenologie des Fremden, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006, capp. III e V), mi permetto di rinviare ai miei saggi: La “passione” della risposta. Sulla fenomenologia dell’estraneo di Bernhard Waldenfels, in «aut aut», n. 316-317, 2003, pp. 209-237; Né prima, né ultima parola. Il discorso dell’estraneo di Bernhard Waldenfels, postfazione all’ed. it. di B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 157-179; The Experience of the Alien and the Philosophy of Response, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», XIII, n. 1, 2011, pp. 7-15; Mediazione e contingenza. La logica della risposta nella fenomenologia dell’estraneo di Bernhard Waldenfels, in F.G. Menga, La mediazione e i suoi destini. Profili filosofici contemporanei fra politica e diritto, Ombre corte, Verona 2012, pp. 62-95. 40.  Cfr. E. Lévinas, Autrement qu’être, cit., pp. 134 ss. 41.  Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 280. 42.  Cfr. E. Lévinas, Autrement qu’être, cit., p. 133.

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stione molto più complessa è invece quella di raffigurarsi come una medesima relazione etica possa implicare anche una trasgressione estatica del presente da parte del futuro. In che senso, infatti, il futuro può sottrarsi alla presa del presente, risultando così in un’effrazione etica esercitata da quest’ultimo? A mio avviso, la chiave di volta sta qui nel percepire e nell’insistere sul fatto che un’autentica dimensione d’ingiunzione etica non investe esclusivamente il passato, ma anche il futuro. Insomma, per quanto intuitivamente sia difficile raffigurarsela, una forma d’interpellazione provocata dal futuro deve essere assolutamente contemplata. Soltanto così ci si mette in grado di cogliere i termini in cui il futuro stesso detiene una forza tale da irrompere nel nostro presente richiamandoci a una responsabilità verso di esso43. Un tale richiamo del futuro, per essere interpretato in modo originario e radicale, non può essere inteso dunque come il mero risultato di una prestazione immaginativa da parte del soggetto nella sua presenza a sé. Ma, al contrario, deve essere compreso come una vera e propria richiesta che irrompe nel presente a partire dal futuro stesso e a cui, di conseguenza, corrisponde la provocazione di una risposta nei termini di una proiezione sollecitata e non costruita verso di esso. Esattamente in questa prospettiva siamo in grado di cogliere i motivi profondi per cui già autori come Günther Anders e più di recente Rachel Muers possono affermare a ragione che l’appello del futuro non è un qualcosa che produciamo noi contemporanei a bella posta, ma è ciò che ci costringe «a un esercizio di estensione della nostra immaginazione»44 o «fanta-

43.  Cfr. M. Vergani, Responsabilità. Rispondere di sé, rispondere all’altro, Cortina, Milano 2015, p. 104. 44.  R. Muers, Living for the Future, cit., p. 19.

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sia morale»45. Il futuro, di conseguenza, si connota in termini etici in modo costitutivo e non semplicemente supplementare, come avevano già teorizzato, sotto profili diversi, pensatori come Franz Rosenzweig46, Emmanuel Lévinas47 e Vladimir Jankélévitch48. Ma, se ben riflettiamo, è proprio in tal modo che il futuro etico, che rompe la sincronia dello spazio-tempo presente, mostra, assieme a un carattere di diacronia anche un tratto di trascendenza ed eccentricità originarie. Infatti, l’appello che ci ingiunge dal futuro e ci proietta al futuro esercita una pressione etica che, a ben vedere, proprio perché non disponibile alla presa del presente, sfugge all’individuazione entro un posto nel mondo, si pensi a questo posto come presenza in fieri, pretesa di presenza, oppure ancora come latenza in attesa di pieno dispiegamento alla presenza. Questo futuro, anzi, in quanto appello che si annuncia sempre da un «altrove»49 che irrompe nel mondo, resiste all’essere reso elemento presente o oggetto disponibile e configurabile dentro l’immanenza50 di strategie contrattuali e deliberative o anche entro codificazioni formalizzabili e iterabili.

45.  G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. I, cit., p. 273. 46.  Cfr. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988, parte II, libro III; Id., Das neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum “Stern der Erlösung”, in Id., Das Ich entsteht im Du. Ausgewählte Texte zu Sprache, Dialog und Übersetzung, Alber, Freiburg i.Br.-München 2013, pp. 109 ss. 47.  Cfr. E. Lévinas, Autrement qu’être, cit., pp. 139 ss.; Id., Entre nous. Essai sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 143-164, 177-197, 235-246. 48.  Cfr. V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, vol. III, La volonté de vouloir, Seuil, Paris 1980, pp. 37 ss. 49.  B. Waldenfels, Antwortregister, cit., p. 267. 50.  Cfr. E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p. 173.

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Non a caso Lévinas conferisce a questa dinamica d’ingiunzione dell’altro – e dell’altro dal futuro – la configurazione enigmatica di una «resistenza etica»51 – resistenza esercitata da una trascendenza irriducibile a ogni immanenza, assenza effettuale sfuggente qualsivoglia presa da parte della (o collocazione entro la) presenza. Prescindendo qui da una colorazione religiosa ed escatologica, che un tale topos senz’altro esibisce52, il punto che è importante mantener fermo è che tale resistenza di cui parla Lévinas non risulta nell’espressione di un potere più forte che ostacola le forze presenti in campo o le forze nel campo della presenza. Ciò implicherebbe di nuovo la predisposizione di un conflitto che si svolge sul piano della presenza, uno schieramento di forze assolutamente riconducibile a quanto, per esempio, un assetto contrattuale e deliberativo può senz’altro accogliere. Una tale resistenza si traduce, invece, in un appello che si fa sentire nel mondo, eppure resta fuori dal mondo – sì, un appello proprio come quello di un’ingiunzione alla responsabilità verso un futuro che ancora non esiste, eppure, poiché comunque penetra nel mondo, ci inquieta e ci «sconvolge»53 sotto forma di una fastidiosa e ineludibile intuizione morale. Questa resistenza da parte della trascendenza dell’altro futuro che, però, in quanto tale, nulla può contro il potere del presente – tant’è che noi presenti in questo mondo possiamo al limite lasciarla inascoltata54 – si rivela così una sorta di epoché o sospensione etica del potere dei presenti e del presente al mondo. Una sospensione tale per cui, sebbene nulla possa, ci 51.  Ibidem. 52.  Per approfondire questa traiettoria del discorso si vedano le assai istruttive pagine di W. Jenkins, The Future of Ethics, cit., cap. VII. 53.  E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p. 204. 54.  Ivi, p. 207.

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rammenta – se e quando l’ascoltiamo – un fatto fondamentale: che dinnanzi all’alterità dell’altro semplicemente e letteralmente «non poss[iamo] più potere»55. Nel contesto di un’etica intergenerazionale, ne risulta così la penetratività di un richiamo alla responsabilità che proviene da un “altrove” del futuro e che non implica né onnipotenza né impotenza da parte di una trascendenza che incide escatologicamente sull’immanenza – né possibile ira, né silenzio di Dio56 –, ma nudo e incondizionato ammonimento al potere attraverso il comandamento etico stesso: un comandamento che tanto esorta e sconvolge il potere, quanto neppure lo scalfisce, tant’è che quest’ultimo, se vuole, può benissimo perpetuarsi nella pratica di una «tirannia dei contemporanei»57, come se nessuna opposizione a esso si fosse mai palesata. Per dirla con le magnifiche parole di Lévinas:

55.  Ivi, p. 173. 56.  Mi è qui soltanto possibile accennare, senza poterlo affrontare, l’importante portato della logica escatologica sulla questione delle generazioni future. Un tale tema andrebbe declinato non soltanto in termini filosofici, ma anche in prospettiva teologico-sistematica attraverso un confronto, per lo meno, con autori quali Bultmann, Teilhard de Chardin, von Balthasar, Rahner, Moltmann, Pannenberg e Ratzinger. Faccio cenno all’importanza della questione anche nel mio saggio: Barmherzigkeit – für wen? Ethische Rationalität auf dem Prüfstein einer Zukunftstranszendenz, in E. GräbSchmidt - B. Häfele - C. Hölzchen (a cura di), Transzendenz und Rationalität, Evangelische Verlagsanstalt, Leipzig 2019, pp. 183-200. Per un’acuta introduzione sulla questione dell’impatto simultaneamente filosofico e teologico del problema escatologico, si veda il bel volume di A. Nitrola, Trattato di escatologia, vol. I, Spunti per un pensare escatologico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001. 57.  S.M. Gardiner, A Perfect Moral Storm, cit., p. 36. Da questo si capisce bene il motivo per cui Lévinas, in Totalité et infini, definisce l’alterità del volto dell’altro, con cui il comandamento etico entra nel mondo, non come ciò che «sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere [mon pouvoir de pouvoir]» (E. Lévinas, Totalité et infini, cit., p. 172).

173 Lo sconvolgimento sconvolge l’ordine [di volta in volta dato] senza turbarlo seriamente. Entra in esso in modo talmente impercettibile che vi si è già ritirato, a meno che non lo si trattenga. S’insinua, si ritira ancor prima d’entrare. Resta solo per chi vuole dargli seguito. Altrimenti ripristina subito l’ordine che turbava.58

Si delineano qui i tratti di un’ingiunzione radicale del futuro che non trova vero e proprio posto nel mondo e che, pur non potendo molto sulle strategie e le istituzioni di potere del mondo stesso, si lascia nondimeno avvertire in modo incondizionato. Mi piace definirla come diacronia che si insinua nel mondo, eppure non ha alcuna possibilità d’individuazione nel mondo; sopraggiunge come comandamento etico iperbolico, eppure non ha mai avuto neppure per un attimo la forza di imporsi a qualsivoglia schieramento di forze. È esattamente su questa soglia che il richiamo alla responsabilità per l’umano futuro manifesta insieme la sua dimensione orizzontale e simultaneamente verticale, annunciando proprio in quella piega la posta in gioco più intima e radicale: quella di un’umanità che può configurarsi solo attraverso la dinamica tutta etica e mai (ontologicamente) garantita di un appello che dall’altrove ingiunge la – e, nella misura in cui viene ascoltato, può giungere alla – presenza.

58.  E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p. 208.

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Autopoiesi e nuove narrazioni Fabiana Gambardella

Come sostenuto da Luhmann nelle sue Osservazioni sul moderno, l’apparato semantico della vecchia Europa sembra non costituire più una ricchezza culturale intoccabile, poiché pare inefficace a interpretare la complessità entro cui siamo immersi. Il racconto di matrice umanistica che si dispiega dagli esordi della nostra civiltà, forgiandone il profilo identitario, pare esplicitarsi sempre – a prescindere dalle diverse configurazioni prese nel corso del tempo – attraverso una logica lineare e dicotomica che frattura la complessa unità dell’organismo vivente uomo in istanze contrapposte, cui va poi conferendo una precisa dimensione assiologica: una bieca naturalità, la materialità fisiologica da un lato e quella che potremmo definire come una perenne istanza di trascendimento, che si identifica di volta in volta come logos, ragione, anima, nell’ambito di una drammatica dialettica sempre tesa tra necessità e libertà. Ente privo di natura, manchevole, non legato perciò alle leggi inderogabili cui sono sottoposti gli altri viventi, apertura e possibilità, il racconto che si sviluppa da Pico a Herder1, oppure ente ca1.  La stessa antropologia filosofica di area tedesca che va sviluppandosi nei primi decenni del Novecento, seppure presenta il grande merito di tentare

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ratterizzato da una natura, da una corporeità, che in tutto condivide con gli altri animali ma che a differenza di questi può trascendere grazie al quid che lui solo possiede e che di volta in volta, a seconda dei luoghi e delle temperature, è chiamato anima, logos, spirito, ragione. In entrambe le narrazioni la natura è in fondo peccato originale da redimere e l’umano è, a differenza degli altri viventi, ente culturale, che abita nella dimora del linguaggio che si dispiega nell’aperto, come progetto e possibilità. Tutto ciò che in esso vi è che a tale natura rimanda, il suo corpo, la sua biologia, i suoi bisogni materiali, sono in fondo l’ostacolo, mai superato del tutto, ma di volta in volta sempre trasceso, il cattivo passato che ritorna sotto forma di sintomo, la barbarie mai vinta del tutto ma sempre da contrastare. In questa apologia dell’umano la cultura è la possibilità di trascendere l’animale che dunque sono. Essa è, in ogni sua declinazione, la metafora attiva capace di trasformare l’esperienza in forme nuove. La modernità è andata configurandosi attraverso una dimensione escatologica, a partire da un “in vista di”, non per forza appannaggio di uno sguardo religioso; il moderno, costituendo la sua ossatura a partire dall’idea di progresso, è andato insomma plasmando una sorta di “ortopedia”, di retto cammino che l’individuo e le società avrebbero dovuto intraprendere all’interno di un percorso per così dire evolutivo e sempre mi-

un’ermeneutica del vivente uomo a partire dal suo riposizionamento nell’ambito della natura e ricomponendone l’unità, rimane anch’essa per molti versi imbrigliata all’interno della logica tradizionale che pure intende superare. Basti pensare alla definizione di umano come “asceta della vita”, indicata da M. Scheler ne La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. di G. Cusinato, FrancoAngeli, Milano 2000, o a quella di animale carente di A. Gehlen ne L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. di C. Mainoldi, a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano-Udine 2010.

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gliorativo2. Naturalmente il percorso non è privo di ostacoli, poiché in fondo l’uomo come legno storto è caratterizzato da un male ontologico che in ogni tempo gli impedisce di coronare il suo sogno escatologico e la sua esistenza è la continua lotta contro questo peccato originale. A prescindere da come si voglia connotarlo, che si utilizzino le categorie di matrice umanistica, che lo definiscono attraverso la distanza ontologica rispetto al resto dell’ente, oppure in linea di continuità naturale col mondo vivente, l’umano pare costituirsi in ogni tempo e in ogni luogo come animale che produce narrazioni: egli racconta e si racconta e da sempre nell’atto stesso di dispiegare il discorso forgia se stesso e i propri dintorni. La parola che definisce la narrazione è in origine mito, parola del conforto, «parola che arresta e configura»3, prima tappa di allontanamento dalla commistione col mondo e in seguito diviene definizione, distacco radicale, cesura che scinde in maniera netta e definitiva l’oratore dal suo referente4, sancendone al contempo la superiorità e un’estesa possibilità tecnica sull’ente. La parola insomma come narrazione consente il dire e il fare, il raccontare e il manipolare. Se l’uomo moderno, per quanto intriso di dubbi, è tuttavia un osservatore di “primo ordine”5, che guarda al futuro con fidu-

2.  A tal proposito, cfr. P. Sloterdijk, Luhmann, avvocato del diavolo, in Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 65-112. 3.  E. de Martino, Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 1995, p. 144. 4.  Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101. 5.  Si intenda questa locuzione nel senso della cibernetica: lo sguardo dell’osservatore di prim’ordine è specchio del mondo, riproduce il vero senza sapere di essere prospettiva, punto di vista parziale sulle cose.

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cia, poiché il suo sguardo limpido rispecchia le cose nella loro verità, al contrario la contemporaneità, procedendo attraverso l’autosservazione costante di se stessa, pone individui e sistemi nella pura contingenza del presente, rendendoli privi di escatologia e dunque di un futuro inteso come telos. In tale contesto la grande narrazione umanistica sembra aver perso il suo potere taumaturgico. Non solo perché a partire dal racconto darwiniano l’umano viene riposizionato all’interno della natura, ma perché la parola stessa e il suo procedere in grande, attraverso metanarrazioni, non convince più il suo stesso creatore. Il XXI secolo in fondo non fa che portare a esplicitazione la questione della fine delle grandi narrazioni. Il complotto ordito dalle tecnologie informatiche e dalla biologia del Novecento che da esse mutua linguaggio e metafore, è tutto ai danni dell’umano, ne ferisce l’identità e il narcisismo. Parole come informazione, codice, sistemi complessi, proprietà emergenti, intaccano l’esperienza tradizionale del linguaggio, inteso da sempre come rassicurante e appaesante: il discorso che esorcizza l’ignoto addomesticandolo, diviene lingua straniera impossibile da metabolizzare, che non riesce a farsi mito, racconto, narrazione, e dunque risulta incapace di contenere l’angoscia causata dall’incertezza rispetto al futuro entro schemi di ripetizione che consentano di introiettare il nuovo mantenendo gli equilibri. Il tessuto escatologico con cui era forgiato il racconto umanistico si smaglia sotto i colpi della contingenza. «Tutto ciò che è detto è detto da un osservatore»6: il vivente uomo, al pari del resto degli organismi, è sistema autopoietico, che ricorsivamente e quasi ottusamente, va riproducendo

6.  H.R. Maturana - F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, tr. it. di A. Stragapede, pref. di G. De Michelis, Marsilio, Venezia 1988, p. 10.

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la propria identità, intesa eminentemente come insieme di regole organizzative; siamo imbrigliati nella gabbia ontologica del linguaggio, viviamo all’interno di domini descrittivi, di tessuti di narrazioni e la narrazione umanistica sembra non essere più efficace a organizzare l’esistenza e le prassi dell’umano. Eppure, se è vero che «l’uomo è una forma di espressione dalla quale ci si aspetta per tradizione che ripeta se stessa ed echeggi l’elogio del suo creatore»7, è evidente quanto risulti scioccante la disfatta o l’inefficacia della narrazione umanistica. Si passa dalla metanarrazione con mire universalistiche alla parzialità consapevole delle micronarrazioni, dalla tracotanza del narratore onnisciente, il cui sguardo puro tutto ingloba e tutto contiene, all’umile precarietà di narrazioni locali e contingenti. Il glorioso mondo moderno, il suo paesaggio uniforme, continuo e sequenziale, permeato da una ragione forte e dalla sua istanza universalistica, viene sostituito da un pluriverso che alle maiuscole dell’universale preferisce il proliferare delle differenze. Se la biologia, a partire dalla rivoluzione darwiniana, riporta l’umano con i piedi per terra e riscopre il suo retaggio naturale, la sua materialità, il corpo e la sua grande ragione, delineandolo come prodotto della natura, dunque dell’evoluzione e in seguito delle sue stesse narrazioni, l’avvento della “infosfera” determina una sorta di passaggio ulteriore, nuove e costantemente cangianti configurazioni del prodotto uomo e la necessità di nuove narrazioni che abbandonino la logica lineare per abbracciare il paradosso. Le estensioni tecnologiche, così come ogni media o artefatto culturale, si sviluppano come apparati immunitari, tentativi di preservare l’equilibrio del sistema complesso uomo, e al contempo novelle tecnologie del sé. 7.  M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E. Capriolo, pref. di P. Ortoleva, postfaz. di P. Pallavicini, il Saggiatore, Milano 2015, p. 72.

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Le ICT dunque impongono non solo nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli organi e le altre estensioni del corpo, dunque nuove configurazioni della soggettività, ma anche nuove relazioni tra individui e dunque nuove possibilità di configurazioni sociali e politiche. L’incrocio e l’ibridazione tra la pluralità dei media in cui siamo immersi libera energie nuove e naturalmente presenta alcuni rischi. La narrazione moderna ha sempre descritto l’umano come ente isolato e separato che si staglia di contro a un mondo inteso come oggetto, la cui muta cosalità lo rende infinitamente utilizzabile, manipolabile in vista di un progetto che è sempre umano troppo umano. Anche declinato attraverso un lessico di tipo scientifico, l’organismo uomo vive e si espande a partire da un ambiente omogeneo, da cui seleziona quanto necessario alla sua sopravvivenza. Le possibilità offerte dalle tecnologie informatiche determinano la costituzione di molteplici ambienti di comportamento, continuamente cangianti, innumerevoli scenari e dimensioni di senso all’interno dei quali l’esserci postmoderno sta. Si badi bene, non si tratta di semplici luoghi di intrattenimento, di spazi virtuali del loisir, in cui di tanto in tanto ci si immerge, per concederci una pausa dalla routine e dall’uniformità della cosiddetta realtà. L’errore sta proprio nel mantenere una differenza ontologica tra quanto sarebbe reale e quanto virtuale. Gli ambienti di comportamento, e questo vale soprattutto per la cosiddetta generazione Z, per i nativi digitali, hanno tutti la medesima dignità ontologica e sono spazi dell’esistenza, entro i quali va forgiandosi l’identità – che naturalmente non è più quella raccontata da Cartesio – le relazioni, l’esserci e l’essere con. Assistiamo dunque a un passaggio da una «spazialità di posizione» – l’ottusa materia estesa di cartesiana memoria – a una «spazialità di situazione» del corpo incarnato già da sempre

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nel mondo, a una spazialità di situazione non necessariamente incarnata8. Dunque non più l’ambiente unico, scenario immobile entro il quale un io scisso e isolato viene catapultato, bensì l’immersione in molteplici dimensioni di senso. Si fa sempre più labile, fin quasi a perdere di senso, la distinzione fra il qui e ora, rea­ le e carnale, e una dimensione – che da esso sarebbe scissa – virtuale, eterea e digitale. Le nostre esperienze diventano onlife: la cosiddetta infosfera non è ambiente virtuale giustapposto al “mondo vero”, essa coincide sempre di più con la realtà stessa. Restiamo certo situati in un mondo, solo che tale mondo è pensato prevalentemente in termini informazionali9. Tuttavia il concetto di organismo informazionale, inforg, non coincide con quello di cyborg, poiché questo secondo lessema resta profondamente intriso di dualismo ed evoca ancora una volta una sorta di sostrato naturale sul quale andrebbe innestandosi l’elemento artificiale, macchinico. L’informazione, al contrario, presenta uno statuto ontologico estremamente interessante, intrinsecamente opaco, ibrido, che perciò pare superare quella logica bivalente tipica della nostra tradizione; il concetto di informazione: «entra come terzo valore tra il polo della riflessione e il polo della cosa, tra lo spirito e la materia, tra i pensieri e le cose»10.

8.  Per i concetti di spazialità di posizione e spazialità di situazione, si veda M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 153. 9.  Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017, in part. pp. 107-109. 10.  P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Id., Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 113-184: p. 171.

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Come già spiegato da McLuhan, l’accelerazione distrugge l’idea dello spazio come fattore principale delle organizzazioni sociali […]. Nell’era elettronica dell’informazione istantanea spariscono sia il tempo (in quanto misurato visivamente e segmentalmente) sia lo spazio (in quanto uniforme, pittorico e chiuso). E l’uomo pone fine al suo compito di specialista frammentario per assumere la funzione di raccoglitore di informazioni.11

In questi orizzonti mutevoli l’identità, almeno nella sua versione moderna, quella forte e inamovibile di cartesiana memoria, pare gradualmente affievolirsi, perdere la propria consistenza granitica. La durevolezza in effetti, in questo rinnovato modello di società, pare non essere più un valore, così come non lo è il persistere cocciutamente all’interno di una forma rigida. Versatilità e plasticità, che sono poi gli attributi di quell’ente inedito che è l’uomo, vengono radicalizzati fino a divenire quasi rarefazione. La contemporaneità più che sulla conservazione di identità si costituisce a partire dalla costante creazione della differenza. La performatività è data dalla capacità di sapersi trasformare, di sapersi ibridare, di metamorfosarsi in relazione alla mutevolezza dei sipari costantemente cangianti con i quali si entra in contatto, che inaugurano nuovi modelli di prossimità e nuove forme di relazione. Come sostenuto da Levy: Nello Spazio del sapere, l’identità dell’individuo si organizza intorno a immagini dinamiche […]. Nello spazio del sapere, l’uomo ridiventa nomade, rende plurale la propria identità, esplora mondi eterogenei, è egli stesso eterogeneo e multiplo, in divenire, pensante.12 11.  M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., pp. 101 e 136. 12.  P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, tr. it. di D. Feroldi e M. Colò, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 158 e 159.

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La rete infatti determina la fine delle soggettività separate tipicamente moderne dando vita a nuove tribù che condividono “emozionalmente” e cognitivamente variegati contesti di senso. In essi praticano i loro rituali condivisi, attraverso un approccio multisensoriale, che supera quello eminentemente visivo dell’uomo moderno13. Se da sempre lo sguardo dell’altro definisce e modella la nostra identità sociale ma anche personale, se la vicinanza di Altri permette la costituzione stessa del Medesimo e della sua ipseità, la moltiplicazione degli sguardi cui l’individuo è sottoposto sui social media, costituisce un ulteriore passaggio nella costruzione identitaria: Il sé utilizza la rappresentazione digitale di se stesso posta in essere dagli altri per costruire un’identità virtuale tramite la quale aspira ad afferrare la propria identità personale […] in un meccanismo di feedback potenzialmente ricorsivo fatto di aggiustamenti e modificazioni progressive che conducono a un equilibrio onlife.14

In queste nuove dimensioni di senso pare mutare anche il nostro rapporto col tempo e di conseguenza i nostri modi di rappresentarlo, evocarlo e scongiurarlo. In altre parole, anche in questo caso pare emergere una sorta di corto circuito nella delicata dialettica memoria-oblio. Proviamo affannati a interpretare scenari che mutano nel momento stesso in cui pare che stiamo cogliendone il senso: tutto si trasforma in maniera repentina e tuttavia tutto – anche l’inessenziale, il particolare di scarso rilievo, l’errore, la gaffe – tutto si conserva.

13.  «Imponendo rapporti non visualizzabili, che sono conseguenza della velocità istantanea, la tecnologia elettronica detronizza il senso della vista e ci restituisce la sinestesia e le strettissime implicazioni tra gli altri sensi» (M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 114). 14.  L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., pp. 83-84.

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Enormi database custodiscono quanto siamo nella sua interezza pur tuttavia continuamente fagocitandolo, in un processo di costante elaborazione, che mentre produce l’informazione la sta già triturando e consegnando all’oblio. Le ICT determinano una costante produzione di informazione su noi stessi, aumentando dunque il potenziale della nostra memoria, quasi costringendoci a ricordare, anche quanto, in una dimensione analogica, sarebbe per forza di cose, o meglio per mancanza di mezzi, spazzato via. Se è vero, come voleva Proust, che il ricordo stesso entra nel dominio della narrazione, è costruzione arbitraria ed eminentemente soggettiva, che seleziona dati a partire dal capriccio dei nostri sensi – i quali si accaniscono su un odore, sulla consistenza del selciato, sull’insistenza di una melodia – le aumentate possibilità di archiviazione determinano anche nuovi modi di plasmare e forgiare il ricordo, dunque la memoria e l’identità. Non più affidati al profumo dell’infuso di tiglio o alla consistenza di un dolce dell’infanzia – ma a supporti intelligenti e benevoli che accolgono e custodiscono democraticamente qualunque cosa, potendola riprodurre a ogni istante – i ricordi, latori e testimoni di quanto siamo, sembrano prendere forma oggi a prescindere dai capricci e dalla volubilità dei nostri sensi e del nostro carnale stare presso il mondo. Se il ricordo definisce e plasma quanto siamo, se la memoria è parte integrante della costruzione delle nostre identità personali, la possibilità di espandere in maniera esponenziale, esternalizzandola, la nostra memoria, definisce modi inediti di costruzione dell’identità, paradossalmente tuttavia, restringendo la libertà narrativa poietica e poetica, che a partire dal dato bruto del ricordo ci consente di costruire noi stessi. E inoltre, ci chiediamo: la rimozione, l’oblio, non costituisce forse una risorsa che la vita sfrutta al fine di mantenersi e di accrescersi? Come tutte le grandi rivoluzioni, le tecnologie informatiche hanno dato vita a una serie di utopie di benessere sociale, di miglioramento delle condizioni di vita, di democratizzazione.

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Secondo molti lo sviluppo di Internet produce un tipo di comunicazione decentralizzata, trasversale e non gerarchica, determinando la fine del mondo lineare, sequenziale e gerarchico e dunque di una logica binaria che è intrinsecamente escludente perché crea spazi dell’appartenenza e spazi dell’estraneità. Le ICT determinerebbero dunque l’emergere di quell’intelligenza collettiva intesa come «intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze»15. Cosa produce questo dal punto di vista delle organizzazioni sociali, delle prassi politiche ed eventualmente biopolitiche? “Siamo tutti connessi” potrebbe voler dire orizzontalizzazione e democratizzazione delle relazioni, costituzione di una realtà priva di centro, reticolare, entro la quale, come sostenuto da Lyotard, anche coloro che sono situati ai margini dei nodi della comunicazione possono elaborare la propria mossa all’interno di una miriade di giochi linguistici. Si tratta di una dimensione che fa emergere la possibilità di una ritessitura del legame sociale in un’ottica globale e interculturale. In tali rinnovate dimensioni di senso sembra davvero sparire la distinzione tra addomesticatori e addomesticati, alfabetizzati e non, poiché siamo tutti produttori di informazione, tutti responsabili nell’ora del crimine mostruoso, tutti sempre connessi e dunque informati: «Il tratto distintivo dell’epoca della tecnica e dell’antropotecnica risiede nel fatto che gli uomini finiscono sempre più dalla parte attiva e soggettiva della selezione, anche senza che abbiano assunto volontariamente il ruolo del selettore»16. 15.  P. Lévy, L’intelligenza collettiva, cit., p. 34. 16.  P. Sloterdijk, Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Id., Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 239-266: p. 259.

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Diventiamo allora “soggetti collettivi di enunciazione”, poiché il cyberspazio produce un dispositivo di enunciazione non già a monte dominato da un autore, da un direttore di orchestra, ma una polifonia di voci con uguali diritti alla parola. Insomma, nella società reticolare il modello vincente sarebbe quello cooperativo piuttosto che quello individualistico e competitivo. Il potere computazionale è dunque potere relazionale, che allarga “l’essere con” e “l’essere tra”, la nostra dimensione ibridativa, che dunque va prevalendo dal punto di vista delle prassi su ogni forma di purezza o di essenzialismo ontologico. Ma tali mutamenti hanno determinato o stanno determinando davvero una estensione delle possibilità per tutti, un più ampio accesso alla conoscenza e dunque alla capacità di porre in essere azioni efficaci? Uno dei problemi da affrontare sono le nuove forme di analfabetismo determinate dalle innovazioni tecnologiche e soprattutto dal loro repentino evolversi, che rende presto senescenti le nostre conoscenze. Un potere sempre più grande è disponibile a costi decrescenti per un numero sempre superiore di persone. Nuovi media hanno determinato quella che McLuhan definisce come esplosione delle strutture sociali, attraverso l’aumento di potere e velocità. Le estensioni tecnologiche crescono e si diffondono in maniera esponenziale e tuttavia la loro velocità di produzione ed espansione non è proporzionale al livello di sedimentazione e metabolizzazione di coloro che se ne servono. Si vive pienamente nel post, servendosi con disinvoltura di tutti gli artefatti che esso mette a disposizione, ma lo si interpreta ancora come ante17. A un’estesissima capacità tecnica

17.  Cfr. P. Sloterdijk, che a tal proposito sostiene che la contemporaneità procede elaborando una doppia morale che «pensa in modo pretecnico e

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e dunque pratica, mai vista in precedenza, corrisponde una forte precarizzazione esistenziale, un’incapacità di prevedere gli effetti e gli esiti della mole di eventi che quotidianamente inneschiamo, caratterizzati da una miriade di variabili difficili da controllare e gestire. Secondo Luhmann il moderno è andato definendosi attraverso un certo modello di ordine e finalità: sebbene la morte precoce fosse esperienza ordinaria, malgrado si fosse «esposti alla fortuna o alla sventura» e la vita venisse percepita come «esposta al pericolo», tuttavia tenuto conto della costanza delle forme e degli esseri e dei buoni scopi […], le insicurezze del futuro restavano nell’ambito di una armonia di principio del mondo e dell’insieme delle cose invisibili e visibili. Non si poteva dubitare dell’harmonia mundi.18

Il modello di società che avanza necessita allora di un’epistemologia che tenga conto della complessità. Per le estensioni elettriche sembra essere «irrilevante la misura umana, perché scavalcano spazio e tempo e creano problemi di coinvolgimento e organizzazione per i quali non esistono precedenti»19. Il mostruoso, nel senso di inedito e smisurato, prodotto dall’uomo e probabilmente dall’uomo non ancora completamente meditato, non si può interpretare attraverso una logica bivalente. Gli effetti del procedere tecnico sono multiformi e disegnano una topologia reticolare che sfugge alla dialettica lineare. L’elaborazione di un’ontologia costitutiva che sancisce il primato ontologico dell’osservatore, dacché nulla esiste al di fuori

vive in modo tecnico» (L’offesa delle macchine. Sul significato epocale della più recente tecnologia medica, in Id., Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 267-291: p. 289). 18.  N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit., p. 86. 19.  M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 109.

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delle sue distinzioni, è forse più adatta all’interpretazione della complessità in cui siamo immersi. Lungi dall’essere caduta nel nichilismo e nel relativismo essa afferma con forza e oggi più di ieri, che «tutto è responsabilità dell’uomo»20.

20.  H. Maturana, Autocoscienza e realtà, tr. it. di L. Formenti, Cortina, Milano 1997, p. 125.

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Il paradigma prestazione Contributi per un’antropologia del presente Agostino Cera

Se fossimo sinceri, non dovremmo pregare “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, ma “dacci oggi la nostra fame quotidiana” […] affinché la fabbricazione del pane rimanga quotidianamente assicurata. (Günther Anders) Stay hungry! Stay foolish! (Steve Jobs)

Nel suo saggio del 2010, La società della stanchezza, ByungChul Han caratterizza quella attuale – in quanto evoluzione della foucaultiana «società disciplinare» e anticamera di una «società del doping» – come una «società della prestazione (Leistungsgesellschaft)», i cui cittadini, cioè, «non si dicono più “soggetti d’obbedienza” ma “soggetti di prestazione” (Leistungssubjekte)»1. Questo inedito scenario impone una rilettura 1.  B.-Ch. Han, La società della stanchezza (2010), tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012, p. 21, ma cfr. pp. 21-28 – l’autore riprende questo tema nei successivi: La società della trasparenza (2012), Nello sciame (2103) e Psicopolitica (2014), anch’essi tradotti in italiano da Federica Buongiorno e pubblicati da nottetempo. Sul pensiero di Han cfr. F. Buongiorno, Communication in the Digital Age. Byung-Chul Han’s Theory of Power and Information Exchange, in «Azimuth», III, n. 5, 2015, pp. 119-138. A una «società della prestazione», come possibile evoluzione della “sua” «società

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del mito di Prometeo. «L’aquila, la quale si ciba del suo fegato […] è il suo alter ego con cui egli è in guerra. Così inteso, il rapporto tra Prometeo e l’aquila è una relazione con il sé, un rapporto di auto-sfruttamento». E in quanto soggetto di auto-sfruttamento, Prometeo «viene colto da una stanchezza senza fine. Egli è l’archetipo della società della stanchezza [Müdigkeitsgesellschaft]»2. Nell’interpretazione di Han, quella della prestazione è una società completamente immunizzata dalla negatività, un contesto di positività totale. Un «inferno dell’Uguale»3. Sebbene non lo citi esplicitamente, appare chiaro il riferimento di Han al famoso «principio di prestazione» (performance principle, Leistungsprinzip), formulato da Herbert Marcuse in Eros e civiltà (1955), dove viene definito come la «forma storica prevalente del principio di realtà»4. Com’è noto, Mardel rischio», accenna anche Ulrich Beck in La società del rischio. Verso una seconda Modernità (1986), tr. it. di W. Privitera e C. Sandrelli, Carocci, Roma 2000, p. 153. Segnaliamo inoltre un testo recente che, sebbene da una prospettiva differente da quella qui proposta, rappresenta un’ottima introduzione a questi temi: F. Chicchi - A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. 2.  B.-Ch. Han, La società della stanchezza, cit., p. 5. Per una ipotesi inedita di prometeismo nella cornice del cosiddetto Antropocene, rimandiamo a A. Cera, Antropocene e Neo-prometeismo aidosiano, in «Archivio di filosofia», LXXXVII, n. 2-3, 2019, pp. 149-159 (https://doi.org/­10.19272/­ 201908503013). 3.  B.-Ch. Han, La società della trasparenza, cit., p. 10. 4.  H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), tr. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino 19789, p. 80. Dalla ormai sterminata letteratura su Marcuse traiamo un singolo riferimento, data la sua prossimità con il taglio delle nostre pagine. Si tratta del lavoro di Andrew Feenberg, che di Marcuse fu allievo diretto, il quale ha proseguito la riflessione marcusiana in chiave di filosofia della tecnica, a partire da un serrato confronto con le posizioni heideggeriane e sviluppando una ormai nota prospettiva, denominata «costruttivismo critico». Al riguardo si veda il suo Heidegger and Marcuse. The Catastrophe and Redemption of History, Routledge, London-New York 2005 – in italiano è disponibile un

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cuse si propone di correggere la teoria freudiana del processo di civilizzazione (esposta in Il disagio della civiltà, 1930), integrando quello che riteneva il suo vulnus originario: un presupposto antropologico sbagliato, che vedeva nell’essere umano un ente essenzialmente biologico anziché storico. Di qui, a suo parere, l’incapacità di Freud di discernere le peculiarità irriducibili dei diversi processi di civilizzazione, ricondotti tutti alla dialettica archetipica tra «principio di piacere» (Lustprinzip) e «principio di realtà» (Realitätsprinzip). Un dispositivo che si ripeterebbe sempre uguale a se stesso. L’introduzione della variabile storica (che, ovviamente, preludeva al riconoscimento della centralità della dimensione politica) serviva a Marcuse per evidenziare, al contrario, come quella dialettica/dispositivo presentasse al proprio interno delle variazioni anche sostanziali, a seconda dei concreti casi di civilizzazione, delle diverse civiltà realizzatesi nel corso della storia. In particolare, laddove un tale processo fosse stato guidato esclusivamente da un gruppo umano (una classe) a scapito di tutti gli altri, il principio di realtà si sarebbe trovato subordinato a una logica di dominio, fino a potersi trasformare – è appunto il caso della società a lui contemporanea – in un principio di prestazione. Vale a dire: in un principio di realtà arricchito da una «repressione addizionale [surplus-repression]», consistente – secondo la definizione di Marcuse – nell’insieme di quelle «restrizioni rese necessarie dal potere sociale o dominio sociale». Essa si distingue dalla «repressione fondamentale o di base [basic repression], cioè dalle “modificazioni” degli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà»5. Poggiando su questo accostamento tra Han e Marcuse, è possibile caratterizzare la società della prestazione come quel parsolo testo di Feenberg: Tecnologia in discussione. Filosofia e politica della moderna società tecnologica (1999), tr. it. di M. Maestrutti, ETAS, Milano 2002. 5.  H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 79.

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ticolare tipo di società nella quale il principio di prestazione raggiunge lo statuto di “cifra antropologica” ovvero si erge al rango di paradigma6. Assumendo una tale considerazione come premessa di fondo, le presenti pagine si propongono di dimostrare l’insuperata attualità del principio di prestazione marcusiano quale passe-partout ermeneutico per il nostro tempo e con ciò di rendere conto di una significativa trasformazione in atto del concetto di umanità. Di una decisiva alterazione del perimetro antropico7. Perseguiremo questo obiettivo, illustrando l’emergenza del suddetto paradigma prestazione, ossia l’evoluzione del concetto di prestazione che da Marcuse conduce a Han e il cui effetto principale consiste in una inversione della polarità interpretativa della realtà: nel passaggio, cioè, da un «principio speranza» a un «principio disperazione»8. Dall’ottimismo utopico di una rivoluzione palingenetica auspicata da Marcuse – alla quale avrebbe 6.  Di «paradigma della prestazione» parla ancora B.-Ch. Han, definendolo «lo schema positivo del poter-fare» (La società della stanchezza, cit., p. 23). Egli utilizza anche la formula «imperativo della prestazione» (ivi, p. 26). Come si vedrà, impiegheremo queste due espressioni in un’accezione diversa da quella di Han. 7.  Per il concetto di «perimetro antropico», sia concesso il rinvio a A. Cera, Tra differenza cosmologica e neoambientalità. Sulla possibilità di un’antropologia filosofica oggi, Giannini, Napoli 2013, pp. 159-181; Id., The Technocene or Technology as (Neo)environment, in «Techné. Research in Philosophy and Technology», vol. 21, n. 2-3, 2017, pp. 243-281 (doi.org/10.5840/techne 201710472), in part. pp. 256-261. 8.  Di «principio disperazione [Prinzip Verzweiflung]» parla Anders (L’uomo è antiquato 2. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale [1980], tr. it. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 418, nota 12), in polemica con Ernst Bloch (il padre del «principio speranza»), a suo parere «condannato senza speranza all’eterna speranza» (G. Anders, Uomo senza mondo [1984], in Id., Eccesso di mondo. Processi di globalizzazione e crisi del sociale, tr. it. a cura di A. Zanini, Mimesis, Milano 2000, pp. 7-28: p. 9). Su questo tema sia consentito il rinvio ad A. Cera, La cruda realtà. Il «principio di-sperazione» in Karl Löwith e Günther Anders,

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dovuto contribuire in modo decisivo proprio lo sviluppo tecnologico – si giunge al pessimismo distopico di una società spossata, estenuata da se stessa, certificato in tempo reale da Han. A nostro avviso, una simile evoluzione ha luogo allorché il principio di prestazione assume i caratteri di una obbligazione morale ovvero allorché l’essere umano diventa al tempo stesso soggetto e oggetto della prestazione. Allorché lo scopo ultimo della sua prestazione è se stesso in quanto tale. Per chiarire e sostenere questa tesi faremo uso del pensiero di Günther Anders, in particolare di due concetti chiave della sua «antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia»9: il «dislivello prometeico» (prometheisches Gefälle) e la «vergogna prometeica» (prometheische Scham). In una formula: la filosofia di Anders fungerà da elemento di connessione tra Marcuse e Han, o meglio: l’imperativo di prestazione farà da ponte tra il principio di prestazione, la società della prestazione e, infine, il paradigma prestazione. Genealogia del paradigma prestazione Marcuse

Principio di prestazione

Anders

Imperativo di prestazione

Han

Società della prestazione

Paradigma prestazione

in M. Russo (a cura di), Crudeltà. Sonde filosofiche nell’esistenza, Aracne, Canterano (RM) 2020, pp. 21-47. 9.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 3.

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Ispirandoci alla diagnosi filosofica della contemporaneità proposta da Anders, tracceremo le linee guida di una genealogia del paradigma prestazione. Lo faremo, descrivendo il processo di naturalizzazione e di moralizzazione al quale viene sottoposto il principio di prestazione e che verrà scandito in tre mosse: 1) una equazione ontologica; 2) una metamorfosi antropologica; 3) una ingiunzione etica. Questi tre momenti saranno preceduti da una breve premessa dedicata al pensiero andersiano.

1. Tra discrepanza e antiquatezza. Premessa sulla filosofia andersiana Attraverso un percorso filosofico e biografico quantomai tortuoso, che lo condusse a lambire (senza mai aderirvi, peraltro) alcune tra le più significative esperienze filosofiche del secolo scorso – dalla fenomenologia al pensiero heideggeriano, al marxismo, alla teoria critica della scuola di Francoforte –, Günther Anders elaborò una prospettiva di pensiero altamente singolare (e, almeno fino a qualche anno fa, poco nota)10, che si esplica in un autentico corpo a corpo, sia teorico che pratico, con il proprio tempo. Questo percorso – culminante nella pubblicazione dei due volumi de L’uomo è antiquato (rispettivamente nel 1956 e nel 1980) – definisce se stesso come «filosofia della discrepanza» (Diskrepanzphilosophie). Nel suo esplicito contrapporsi alla tradizione, di matrice schellinghiana, di una «filosofia dell’identità», lo sforzo andersiano si focalizza sull’evidenza epocale rappresentata dalla «discrepanza 10.  Dal momento che negli ultimi anni, specie in Italia, i lavori su Anders si sono moltiplicati esponenzialmente, avrebbe poco senso proporne una rassegna in questa sede. A tale scopo rimandiamo all’apposita sezione del sito della Internationale Günther Anders-Gesellschaft (http://www.guentheranders-gesellschaft.org/gesellschaft).

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sempre crescente tra ciò che possiamo produrre [Herstellen] e ciò che possiamo immaginare [Vorstellen]»11, ovvero sulla crescente incapacità della nostra immaginazione/fantasia di tenere il passo forsennato del nostro fare/produrre. Esagerando a oltranza, in virtù di una consapevole opzione metodologica12, le “ricadute ontiche” più emblematiche di una tale discrepanza – in modo da restituirne un’immagine complessiva coerente, ancorché inquietante –, Anders riteneva di aver caratterizzato la condizione umana del nostro tempo e di ogni età a venire, ammesso e non concesso che di età a venire ce ne fossero ancora state. Il risultato finale a parte obiecti, per così dire, della sua indagine consiste nella presa d’atto dell’evidenza per cui la tecnica rappresenta qui e ora l’autentico «soggetto della storia» (è questo il senso che Anders attribuisce al termine «tecncocrazia»)13,

11.  Così Anders definisce il proprio pensiero in un’intervista del 1985, dal titolo Brecht konnte mich nicht riechen (Brecht non mi poteva soffrire – in rete all’indirizzo: https://www.zeit.de/1985/13/brecht-konnte-mich-nichtriechen); tr. it. di S. Velotti, Uomini senza mondo. Incontro con Günther Anders, in «Linea d’ombra», IV, n. 17, 1986, pp. 9-17 (cfr. anche G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 7). Una delle prime occasioni in cui Anders presentò l’idea della discrepanza fu uno dei seminari privati (1942) tra esuli tedeschi che Adorno teneva nella propria casa californiana; vi era presente anche Marcuse (cfr. G. Anders, Saggi dall’esilio americano, tr. it. di S. Cavenaghi e A. G. Saluzzi, Palomar, Bari 2003, pp. 21-27, in part. pp. 21-22). 12.  Sull’esagerazione come strategia metodologica cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale (1956), tr. it. di L. Dellapiccola, il Saggiatore, Milano 1963, pp. 22-23. 13.  Sulla tecnica soggetto della storia cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., pp. 251-276. Su Anders e la tecnica, tra i contributi più recenti, cfr. E. Hörl, Die technische Verwandlung. Zur Kritik der kybernetischen Einstellung bei Günther Anders, in P. Berz et al. (a cura di), Spielregeln. 25 Aufstellungen in Technik & Medien, Ökonomie, Kunst & Psychoanalyse. Eine Festschrift für Wolfgang Pircher, Diaphanes, Zürich, pp. 327-343;

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mentre l’essere umano si trova ridotto a una progressiva «pro­ le­tarizzazione»: al ruolo ancillare e «co-storico» (mit-geschichtlich) di un mero esecutore dei dettati anonimi della megamacchina. A tale proposito, afferma: abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi […] come i soggetti della storia: ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato […] un solo altro soggetto: la tecnica, la cui storia […] è diventata la storia nel corso del più recente sviluppo storico.14

La scansione cronologico-teoretica di questa progressiva abdicazione dell’uomo nei confronti di se stesso è segnata da quelle che Anders definisce le «tre rivoluzioni industriali». La prima ha luogo allorché diventa possibile «iterare il principio del macchinale, cioè a dire: fabbricare macchinalmente le macchine»; la seconda coincide con la «produzione dei nostri bisogni», ossia con la trasformazione dei nostri bisogni in prodotti; la terza è quella nella quale l’umanità si mette in condizione «di produrre la propria distruzione»15. Cosa che essa fa attraverso la creazione della bomba atomica, quel “mezzo ideale” che trascende qualsiasi possibile finalità e che insieme all’avvento del nazismo avrebbe contribuito a generare uno stadio inedito del fenomeno nichilistico: «l’annichilismo» (Annihilismus), da intendere come sintesi di «nichilismo di massa» e «annichilazione di massa»16. L’epoca di questa terza rivolu-

Ch. Dries, Technischer Totalitarismus. Macht, Herrschaft und Gewalt bei Günther Anders, in V. Rasini (a cura di), Potere e violenza nel pensiero di Günther Anders, sez. mon. di «Etica & Politica/Ethics & Politics», XV, n. 2, 2013, pp. 175-198 (https://www.openstarts.units.it/handle/10077/9669). 14.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 258. Sui concetti di «co-storicità» e «proletarizzazione» cfr. ivi, pp. 251-257. 15.  Cfr. ivi, pp. 9-14. 16.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., pp. 296-297.

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zione – l’età dell’annichilismo che altera la situazione “naturale” dell’«uomo senza mondo» (concetto chiave della prima antropologia filosofica andersiana)17 in quella di un possibile «mondo senza uomo» – è per definizione e in assoluto un’epoca ultima. Eventi «sovraliminali» quali, appunto, Auschwitz e Hiroshima hanno sancito l’avvento di una «Apocalisse senza regno» e di una ennesima «rivoluzione copernicana»: quella in cui il futuro smette di essere l’orizzonte del «“Non-ancora”» per trasformarsi in quello del «“Non-più”»18. A parte subiecti (cioè, da un punto di vista strettamente antropologico), Anders perviene a una caratterizzazione “in positivo” dell’uomo che ha abdicato a se stesso a favore della tecnica. Lo fa, coniando un fortunato concetto ad hoc: quello di antiquatezza (Antiquiertheit), vera e propria cifra antropologica del nostro tempo, che si presta perfettamente a decriptare la logica di fondo della società della prestazione, ovvero gli architravi di quel processo di soggettivazione – di quel dispositivo antropo-poietico – che genera soggetti di prestazione. Come vedremo, l’antiquatezza incarna il decisivo presupposto di un’autorappresentazione umana sulla quale il concetto di 17.  Il testo di riferimento di questa prima antropologia filosofica è: G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione (1934-1936), tr. it. di L. F. Clemente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015. Si veda inoltre il volume appena pubblicato, contenente materiale inedito dal Nachlass andersiano: Die Weltfremdheit des Menschen. Schriften zur philosophischen Anthropologie, a cura di Ch. Dries e H. Gätjens, Beck, München 2018. Su questo tema sia concesso il rinvio a A. Cera, Bausteine zu einer Fremdheitsanthropologie, in G. Tidona (a cura di), Fremdheit. Xenologische Ansätze und ihre Relevanz für die Bildungsfrage, Mattes Verlag, Heidelberg 2018, pp. 103-122. 18.  G. Anders, Il mio ebraismo (1974), in «Linea d’ombra», V, n. 19, 1987, pp. 7-13: p. 10. Sul concetto di «sovraliminale», cfr. Id., La distruzione del futuro (1979), in Id., Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, tr. it. di L. Pizzighella, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 76-77, e Id., L’uomo è antiquato 1, cit., pp. 259-260.

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prestazione è in grado poi di innervarsi sotto forma di ingiunzione e imperativo. Gli argomenti sin qui elencati motivano la nostra scelta di impiegare lo strumentario filosofico andersiano per perseguire lo scopo che ci siamo prefissi e che ribadiamo: delineare una genealogia del paradigma prestazione, rendere conto dell’emergenza di una società della prestazione. Cominciamo con la prima delle annunciate tre mosse atte a scandire l’insorgere di questo fenomeno: l’equazione ontologica.

2. L’equazione ontologica: esse est fieri La premessa teoretica fondamentale alla quale va ascritto lo stato di fatto attuale-epocale e al cui accertamento si dedica l’analisi di Anders, va a nostro avviso rinvenuta nella definitiva Aufhebung tra la dimensione naturale e quella culturale o meglio in una (con)fusione osmotica tra techne e physis. Illustriamola brevemente. Nel contesto attuale, la tecnica dimostra di essere pervenuta a un tale livello di (onni)presenza e di pervasività che l’unico modo per ricavarne un’immagine compiuta e unitaria è pensarla come qualcosa di “naturale”, come i greci pensavano alla loro physis: quale unione di holon e kosmos, totalità e ordine. A uno sguardo più approfondito, tuttavia, alle spalle di questa prima evidenza non tarda a palesarsene una seconda, ossia che detta metamorfosi della techne in physis – questa naturalizzazione della tecnica – rappresenta l’effetto di un ulteriore presupposto. La techne può infatti essere pensata come physis solo perché ne ha previamente e surrettiziamente preso il posto, sostituendola nel suo significato e nella sua funzione. In altri termini: quella physis, la quale riconduce a sé la techne, è già stata interamente convertita e tradotta secondo parame-

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tri tecnici, artificiali. La metamorfosi della techne in physis va pertanto rubricata come un epifenonemo al cospetto di un fenomeno più originario, consistente nella metamorfosi preliminare della physis in techne – in una tecnicizzazione della natura – ovvero in quel lungo processo di “de-cosmizzazione della natura” che caratterizza l’intera modernità e che nel nostro tempo giunge a definitivo compimento. In tal modo lo spettacolo che si offre al nostro sguardo è quello di una «tecno-­ natura [Technature]»19, di una «fisica senza physis e una natura senza logos»20. Qui e ora la natura viene pensata e fruita in termini integralmente tecnici. Il suo significato di risorsa a nostra disposizione diventa una datità prima, irriducibile e come tale acquisisce una valenza ovvia, “naturale”. Stante tutto quanto appena argomentato, riteniamo però che questa (con)fusione osmotica tra techne e physis (ben espressa dalla crasi “tecno-natura”), nella quale si manifesta un decisivo presupposto della nostra epoca, vada eziologicamente ricondotta a un fenomeno ancor più originario. Essa può infatti realizzarsi soltanto a partire da una fondamentale condizione di possibilità, espressa nell’equazione ontologica tra “essere” (sein) ed “essere fattibile” (machbar-sein). Il nostro tempo, l’epoca della tecnica soggetto della storia, vale essenzialmente come il contesto all’interno del quale “essere” significa “essere materia prima”. Tutto ciò che è, è fattibile. O meglio: tutto ciò che è, è nella misura in cui è fattibile. Dove “fattibile” vale “provocabile” (herausforderbar), nel senso della «pro-vocazio19.  Sul concetto di technature, cfr. Ch. Schwägerl, The Anthropocene. The Human Era and How It Shapes Our Planet, Synergetic Press, Santa Fe 2014, pp. 127-149. 20.  K. Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (1967), tr. it. di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2000, p. 62. Nell’epoca moderna in quanto “tempo nuovo” (Neuzeit), Löwith rinviene il culmine di quel processo di «demondificazione del mondo» (Entweltichung der Welt), inaugurato dal cristianesimo (cfr. ivi, p. 12).

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ne» (Herausforderung) di cui parla Heidegger nel saggio sulla tecnica21. La fattibilità/provocabilità diventa un modus essendi universale. Ne segue che la caratterizzazione ontologica di ciò che viene interamente ricondotto alla propria fattibilità/provocabilità corrisponde a quello che, ancora Heidegger, definisce «fondo» (Bestand)22. Com’è noto, nella lettura heideggeriana l’ente in quanto fondo equivale a das Gegenstandlose, cioè a un «non più neppure oggetto»23. Queste considerazioni richiamano da presso il «secondo assioma dell’ontologia economica» formulato da Anders, che recita: «ciò che non può essere utilizzato [Unverwertbares], non è». Tradotto in una massima, suona: «fai di ogni cosa un utilizzabile»24. Vale a dire: “fai di ogni cosa un Bestand”. Nel contesto di questa inedita cornice storico-ontologica, la possibilitas si converte interamente in potestas, la Möglichkeit si fa in tutto e per tutto Macht. Ciò significa che l’orizzonte della possibilità – nel quale andrebbe contemplata, ad esempio, anche l’astensione, ossia “il poter non fare”25 – viene gradualmente contratto, rattrappito nella sola possibilità di fare/produrre. Come detto: nella sola fattibilità (Machbarkeit). Si passa con ciò dalla totipotenza della dynamis all’onnipotere della Macht. Entro lo spazio dischiuso dalla congiuntura storica nella quale ci troviamo implicati, ci è possibile – ci è 21.  M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), in Id., Saggi e discorsi (1954), tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, pp. 5-27: p. 11. 22.  Ivi, p. 12. Il termine “fondo” «caratterizza il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento provocante» (ibidem). 23.  Ivi, p. 14 (tr. mod.). 24.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., pp. 180 e 180-184. 25.  A tale riguardo ricordiamo la proposta formulata da Jacques Ellul, proprio nell’ambito di una riflessione filosofica sull’epoca della tecnica, di una éthique de la non-puissance (cfr. J. Ellul, Théologie et technique: pour une éthique de la non-puissance, Labor et fides, Genève 2014). Dobbiamo la segnalazione di questo tema a Cristina Coccimiglio.

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concesso – soltanto scegliere uno degli infiniti modi per eseguire un dettato preliminare, per portare a compimento qualcosa di previamente e definitivamente stabilito (pro-gettato, pre-visto…), mentre tende a scomparire dall’orizzonte della esperibilità e della stessa percepibilità tutto ciò che non lascia residui effettuali, tutto ciò che non produce qualcosa. Barattiamo – “veniamo fatti barattare”, direbbe Anders – le infinite modalità di aderire, assentire con la possibilità di disertare, che dal canto suo si trasforma gradualmente in una sorta di interdetto. In un tabù. Il «nostro “fare” [Tun] odierno non è che un conformistico collaborare [Mit-Tun]»26, poiché «che noi si voglia partecipare [mitspielen] o no, partecipiamo, perché siamo fatti partecipare»27. L’era dell’accesso, secondo la nota formula di Jeremy Rifkin, si rivela sempre più come l’era dell’assenso: dell’impossibilità di dire e fare “no”. Ne segue che, in questa nuova veste (quella di un mero poterfare), la possibilità si traduca in cogenza e destino. La formula che meglio sintetizza questa involuzione in senso destinalenormativo della categoria di possibilità è la cosiddetta “legge di Gabor”, che nella formulazione propostane da Anders recita: «ciò che può essere fatto [das Gekonnte] deve essere fatto [das Gesollte]». Inesorabilmente. «Ciò che si deve fare è ineluttabile [das Unvermeidliche]»28. Il “potere (Können) di

26.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., p. 282. Su questo tema si veda A. Cera, Il μέτρον della τέχνη: apologia della diserzione, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», XIV, n. 1, 2012, pp. 27-45 (http://hdl.handle.net/ 10077/7286). 27.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., p. 11. 28.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 11. Di legge di Gabor (dal nome del fisico ungherese Dennis Gabor, che ne fu inconsapevole propugnatore) parla Jacques Ellul, ulteriore prezioso interlocutore per interpretare la società della prestazione (a nostro avviso rimane un riferimento imprescindibile il suo capolavoro: La tecnica, rischio del secolo [1954], tr. it. di C. Pesce, Giuffrè, Milano 1959).

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fare” diventa così “dovere (Sollen) di fare” e, da ultimo, “obbligo (Müssen) di non astenersi dal fare”. L’effetto di questa mutazione: semantica, assiologica e ontologica della categoria di possibilità si ripercuote sulla nostra percezione del reale, sulla costruzione stessa della nostra idea di realtà. In questo mutato scenario, “realtà” non è più realitas/Realität (ovvero “la totalità degli enti”) e neppure effettività/Wirklichkeit (ovvero “la totalità di ciò che può essere fatto” in senso lato. Quindi: maneggiato, operato), ma diventa fattibilità/Machbarkeit. Vale a dire: l’insieme di ciò che può essere “fatto” in senso stretto (in un’accezione rigorosamente efficientistica e prestativa), ossia allo scopo esclusivo di “produrre un risultato”. La condizione ontologica di partenza di ciò che viene interamente ricondotto all’orizzonte della fattibilità (la cui configurazione ultima è il “prodotto”) è quella di “materia prima”. Anche per noi continua a valere qui e ora l’equazione ontologica del vescovo Berkeley: esse est percipi, con la differenza che percipi equivale adesso a fieri. Dunque: esse est fieri, poiché «essere materia prima [Rohstoffsein] diventa criterium existendi. Essere è essere materia prima»29.

3. La metamorfosi antropologica: homo materia (BestandMensch) Posta l’equazione ontologica tra “essere” ed “essere fattibile” quale prima mossa e premessa di fondo dell’argomentazione 29.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 26. Versione ulteriormente updated della formula berkeleyana è quella proposta da Rafael Capurro quale epigrafe dell’epoca della rivoluzione digitale e del cosiddetto «datismo»: esse est computari (cfr. R. Capurro, Einführung in die digitale Ontologie, in G. Banse, A. Grunwald [a cura di], Technik und Kultur, KIT, Karlsruhe 2010, pp. 217-228).

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che ci siamo proposti di svolgere (del fenomeno la cui insorgenza stiamo cercando di documentare), sarebbe scorretto sostenere che l’epoca nella quale la tecnica assurge al rango di soggetto non solo della storia, ma della stessa natura (ancorché di una natura de-naturata, in quanto previamente disciplinata secondo parametri tecnici), corrisponda all’epoca antropocentrica – o quantomeno antropologica – par excellence. Ciò dipende dal fatto che, paradossalmente, l’autentica cifra antropologica di una tale congiuntura non è lo homo faber – il soggetto della techne –, bensì lo homo materia, che della techne è invece l’oggetto. In questo passaggio, per la cui illustrazione ci appoggeremo ancora alla riflessione andersiana30, si realizza quella metamorfosi antropologica che abbiamo indicato come seconda mossa della nostra argomentazione. Il passaggio dalla totipotenza della dynamis all’onnipotere della Macht – il rattrappirsi della possibilità nella sola possibilità di fare/produrre e la conseguente mutazione del “poter fare” in “dover fare” – sancisce la trasformazione dello homo faber in homo creator: colui il quale non pone più alcun limite di principio alla propria azione produttiva. Espresso in una formula: lo homo creator rappresenta la secrezione antropica prodotta dalla techne nella sua evoluzione interna da mimesis a poiesis. Si tratta di quella evoluzione che emancipa definitivamente la techne da un orizzonte riproduttivo (mimetico) e da una posizione subalterna nei confronti della natura, per elevarla a uno statuto genuinamente produttivo (poietico) e a una posizione dominante rispetto alla natura, giustificata dal fatto che ora la techne si rivela in grado letteralmente di “creare”, cioè di “produrre physis”. Di fatto, scrive Anders, possiamo parlare di “seconda natura”, un’espressione che oggi si può adoperare in senso non metaforico, dato che esistono processi e pezzi della natura che non erano mai esistiti pri30.  Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., pp. 14-18.

204 ma che noi li avessimo creati […] per mezzo della techne, si è prodotta physis.31

La condizione dello homo creator corrisponde perciò alla situazione nella quale lo homo faber assolutizza il proprio diritto/dovere di fare/produrre. Il che va inteso non solo nel senso per cui egli potenzia indefinitamente l’intensità della propria azione – della sua agency – ma ancor più in quello per cui la estende alla totalità degli enti senza eccezioni di sorta. I quali enti, dal canto loro, assumono nella loro interezza – come visto – il minimo comune denominatore ontologico della fattibilità, dell’“essere materia prima”. Lo homo creator è colui che misura e giudica il proprio diritto di fare soltanto ex post (con ciò trasformandolo in un dovere): a partire dalla “bontà” – ossia dall’utilità, dall’efficacia, dal rendimento – dei risultati a cui è pervenuto con la propria (provoc)azione. Ebbene (e qui alligna il paradosso che abita questa metamorfosi antropologica), al fine di diventare realmente creator, egli deve trasformare ogni cosa in un usabile/provocabile. Egli deve fare di ogni cosa una materia prima, un fondo. Un Bestand. “Ogni cosa”, dunque anche se stesso. Espresso in forma di postulato, questo argomento suonerebbe: «non lasciare inusato nulla di ciò che si può usare [Verwendbares]!»32. D’altra parte, dal momento che il presupposto ontologico di un tale postulato è: “tutto ciò che è, è soltanto nella misura in cui è utilizzabile (fattibile, provocabile)”, ne segue che “niente deve essere lasciato inutilizzato (non fatto, non provocato)”. Di conseguenza, l’esito paradossale – e tuttavia interamente conseguente – della metamorfosi antropologica che fa dello homo faber uno homo creator è la sua contemporanea e complementare metamorfosi in homo materia. Per poter diventare realmente il

31.  Ivi, p. 15. 32.  Ivi, p. 11.

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“soggetto” della realtà nella sua attuale configurazione (quella decretata dall’equazione tra essere ed essere fattibile), per potersi sentire effettivamente il kybernetes della mobilitazione totale, egli deve rendere anche se stesso oggetto del proprio fare. Deve assoggettarsi, subordinarsi interamente al principio della Machbarkeit, che in tal modo si accredita come un parametro universale. Come la sola unità di misura che possa ancora rivendicare una validità assoluta. L’unico metron di totale affidabilità. Tutto ciò comporta che, in ultima istanza, lo homo materia – lo stadio finale di questa evoluzione antropologica, il tipo umano ideale nell’epoca della tecnica soggetto della storia – corrisponda in tutto e per tutto a un Bestand-Mensch, a un “uomo-fondo”33. Vale a dire: a un ente interamente fattibile/ provocabile. A una “materia antropica prima”. Per usare un lessico più familiare: a una risorsa umana oppure a quel vero e proprio equivoco antropologico rappresentato dall’idea dell’essere umano quale rational agent. Nella misura in cui parla e comprende soltanto il linguaggio economicistico dell’efficienza e dell’utilità, nella misura in cui si lascia ridurre al solo movente della circospezione (Umsicht), il rational agent emerge come la secrezione naturale del neoambiente tecnico, come il prodotto ideale dell’era dell’assenso, cioè come un essere umano integralmente pauperizzato. Egli è colui che sa dire soltanto di sì, che trova ogni volta il modo di aderire, ossia: di eseguire la prestazione che gli viene richiesta, di corrispondere 33.  Nella prospettiva andersiana questo paradosso antropologico si traduce ipso facto in un paradosso morale. Nella realtà dei campi di sterminio nazisti e nei progetti, all’epoca ancora allo stato germinale, dello human engineering, egli riconosceva la prova provata dell’avvenuta metamorfosi in homo materia (cfr. ivi, p. 16). Sulla scorta della potenziale coincidenza tra homo materia e rational agent, emersa impiegando il filtro ermeneutico del concetto di prestazione, si potrebbe arrivare a sostenere che un uomo come Adolf Eichmann abbia incarnato un compiuto esempio di rational agent.

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sua sponte (per senso del dovere) alle provocazioni di cui viene fatto oggetto. In quanto perfetto esecutore dei dettati anonimi della megamacchina (qualsiasi essi siano), il rational agent è anche colui il quale si dimostra pronto a tutto, disposto a tutto.

4. L’ingiunzione etica: es obsoletus! (l’antiquatezza come dovere) La caratterizzazione del tipo umano homo materia quale secrezione naturale del neoambiente tecnico34 ci conduce alla terza e ultima mossa dei nostri prolegomeni per una genealogia del paradigma prestazione e con essa a una definizione di massima della società della prestazione. Nel suo significato più originario, l’epoca della tecnica soggetto della storia è emersa come quella cornice all’interno della quale neppure l’anthropos può sottrarsi alla prescrizione ontologica della fattibilità/provocabilità. Questo comandamento nuovo di zecca vale come la definitiva implementazione del secondo assioma dell’ontologia economica, citato in precedenza. Se “fai di ogni cosa un utilizzabile (fattibile/provocabile)” vuol dire “fai di ogni cosa un Bestand”, la sua assolutizzazione – che è, giova ribadirlo, anche il suo più coerente compimento – recita: “fai di ogni cosa, incluso te stesso, un Bestand”. Con ciò perveniamo alla instantia crucis della nostra argomentazione, 34.  Il concetto di neoambientalità è il nucleo teorico di un lavoro sulla filosofia della tecnica che stiamo conducendo da diversi anni e che è culminato nella proposta di una «filosofia della tecnica al nominativo» (TECNOM). Ne facciamo menzione, dal momento che anche le presenti pagine, nella loro ispirazione, sono da ricondurre a questa linea di ricerca. Sul neoambiente tecnico cfr. i già menzionati Tra differenza cosmologica e neoambientalità, cit., pp. 181-192, e The Technocene or Technology as (Neo)environment, cit., pp. 261-267.

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in quanto proprio questo comandamento incarna la prestazione trascendentale, la performance prima e fondamentale che la nostra epoca richiede (esige) da ciascuno di noi per il solo fatto di farne parte. La prestazione in quanto obbligazione morale consiste nell’esperire – ma ancor più nel percepire – la propria umanità (il fatto stesso di “essere umani”) alla stregua di un handicap, dal momento che l’essere umano (i singoli individui umani) si dimostra perennemente in affanno, mai pienamente all’altezza dei compiti che gli vengono affidati – tanto nella sfera dell’azione (produzione) quanto in quella della passione (consumo) – da parte di un neoambiente tecnico, che a sua volta si definisce proprio in virtù della dimensione strutturalmente «overmanned»35 alla quale è pervenuto. In altri termini: la tecnica si erge al rango di soggettività epocale proprio nel momento e nella misura in cui diventa capace di parametrarsi esclusivamente su se stessa, sulle sue intrinseche potenzialità; allorché si emancipa una volta per tutte da ritmi e tempi umani. Più precisamente: allorché l’essere umano decide di misurare (valutare) se stesso e il proprio mondo impiegando parametri tecnici. Come osservato da alcuni tra i più acuti diagnostici del nostro tempo (oltre ad Anders pensiamo ad autori come Guy Debord e Jean Baudrillard), l’autentica forza motrice della realtà attuale non va ricercata nella produzione ma piuttosto nel consumo, o meglio: nella produzione del consumo, ossia nella produzione del bisogno. Di qui la sua matrice fantasmatica, spettacolare, simulacrale. «Il modello esiste solo in funzione della riproduzione», scrive ancora Anders, il cui «primo assioma dell’ontologia economica» recita: «la realtà [Realität]

35.  Sul «mondo overmanned», cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., pp. 19-24.

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viene prodotta dalla riproduzione; l’“essere” è soltanto nel plurale, soltanto in quanto serie»36. Nella sua forma attuale, «il reale [das Wirkliche]» diventa il paradossale esito teleologico delle proprie produzioni, il frutto serotino delle sue stesse derivazioni. Esso è «la riproduzione [Abbild] delle proprie immagini [Bilder]»37. L’epoca della tecnica è l’epoca dell’immagine del mondo (Weltbild)38, l’epoca del mondo ridotto a immagine. Meglio ancora: ridotto a «spettacolo», nel senso di una “indefinita accumulazione di immagini”, di una «Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta»; di una «visione del mondo che si è oggettivata»39, materializzata, incarnata. La tecno­sfera è un laboratorio di desideri, una fabbrica di bisogni. Sedotto dai fantasmi di un «mondo sirenico»40 nei confronti del quale assume sempre più le sembianze e la condotta di uno spettatore41, l’essere umano si consegna a un imperituro tentativo di redimersi dalla propria strutturale difettività prestazio-

36.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., p. 177 e cfr. anche pp. 176-180. 37.  Ivi, p. 176. 38.  Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Id., Sentieri interrotti (1950), tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101. 39.  G. Debord, La società dello spettacolo (1967), tr. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Baldini&Castoldi, Milano 2008, p. 54. Lo spettacolo, «il momento storico che ci contiene», è definito da Debord anche come «il cuore dell’irrealismo della società reale […]. È l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario» (ivi, risp. pp. 56 e 54). 40.  Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., pp. 287-290. 41.  Nell’interpretazione di Debord, è sotto forma di “spettatore” – evoluzione naturale del tipo “consumatore” – che l’essere umano raggiunge il culmine della propria alienazione, che egli rilegge in termini di una «separazione». La metamorfosi del reale in spettacolo sancisce così «la separazione compiuta».

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nale, percepita ormai come colpa oppure come malattia, nella sua declinazione interamente secolarizzata42. Aspirando a una “emendazione tecnica” dalla propria intollerabile inefficienza, dal proprio inestinguibile gap prestativo, egli decreta la piena autorità della tecnica – il suo essere pervenuta al rango di soggettività storica – e il proprio conseguente, imperituro stato di minorità. Sulla scorta di tali presupposti, lo spirito dell’epoca corrente non andrà cercato in un ormai desueto (in quanto performativamente inefficace) Wille zur Macht, quanto in un inconfessabile e ben più prestativo Wille zum Gemacht: in un desiderio di “esser fatto”, in una volontà di impotenza che si esprime nell’inarrestabile pulsione a delegare le proprie prerogative alla megamacchina totalizzata. Ad appaltarle interamente i propri bisogni e le proprie aspirazioni, in quanto è in essa che questo essere perennemente in debito riconosce l’unico pharmakon universale ancora efficace. Questa colonizzazione libidica di cui è stata capace la tecnica, o meglio il fatto che l’essere umano le abbia appaltato la propria dimensione pulsionale, è ciò che Anders esprime con la formula «es-­ macchina»: un polo complementare allo es naturale e che di concerto con esso contesta il diritto umano di «essere io»43. La paradossale introiezione di un tale imperativo, in ossequio al quale ci lasciamo: potenziare (enhance), correggere, guarire e infine salvare da ciò che noi stessi abbiamo prodotto, è appunto ciò che ancora Anders definisce «vergogna prome42.  Sulla patologizzazione (in particolare, sulla patologizzazione psicologica) come strumento inclusivo e disciplinante – come “dispositivo pedagogico della società della prestazione” –, si veda F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (2004), tr. it. di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 2008. 43.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., p. 82. L’attenzione su questo punto la dobbiamo all’interessante lavoro di Devis Colombo: Patologie dell’esperienza. La filosofia di Günther Anders fra contingenza e tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 132-166.

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teica» (quella vergogna «che si prova di fronte all’‘umiliante’ altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi»44), un «nuovo “pudendum”» e una nuova forma di «idolatria»45 (una tecnolatria), esito a sua volta di un «dislivello prometeico» che esprime «l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti [Produktewelt]» ovvero «l’incapacità della nostra anima di rimanere up to date […] con la nostra produzione»46. Invero, nel corso dei circa 25 anni che separano i due volumi de L’uomo è antiquato Anders constata una evoluzione interna di questo dislivello, che suddivide in tre momenti. Il primo dislivello rappresenta «lo scarto tra il massimo di ciò che possiamo produrre [herstellen] e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò che possiamo immaginare [vorstellen]». A questo stadio iniziale segue un secondo, nel quale si manifesta «un dislivello tra quello che produciamo e quello che possiamo usare [verwenden]». L’ultimo grado prevede un dislivello «tra il massimo di ciò che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò di cui possiamo aver bisogno [bedürfen]»47. Il senso ultimo di questa progressione del dislivello prometeico è che la nostra limitazione odierna non consiste più nel fatto che siamo animalia indigentia, esseri con dei bisogni; ma al contrario nel fatto che […] noi non possiamo che provare troppo poco bisogno, insomma, nella nostra mancanza di mancanza [Mangel an Mangel].48

44.  G. Anders, L’uomo è antiquato 1, cit., p. 31. 45.  Ivi, pp. 31 e 38. 46.  Ivi, pp. 24 e 23. 47.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 12. 48.  Ivi, p. 13. Detto per inciso, questa posizione può essere considerata una sorta di evoluzione, ancora in senso pessimistico, dell’idea marcusiana di «penuria» (scarcity, Lebensnot, Ananke) (cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., pp. 159-167).

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I dislivelli prometeici Dislivello prometeico 1

Tra il massimo che possiamo produrre e il massimo che possiamo immaginare

Dislivello prometeico 2

Tra quello che produciamo e quello che possiamo usare

Dislivello prometeico 3

Tra il massimo che possiamo produrre e il massimo di cui possiamo avere bisogno

«La nostra limitazione odierna consiste nella nostra mancanza di mancanza»

Su queste basi, la prestazione trascendentale attualmente richiesta a ciascuno per il solo fatto di essere un abitatore del neoambiente tecnico precisa ulteriormente il proprio contenuto. In concreto, essa consiste nella autoproduzione di un bisogno perpetuo, di una carenza imperitura. Di una fame inestinguibile. La famelicità ovvero il pauperismo (nel senso, appunto, del sentirci: poveri, mancanti, affamati di qualcosa) risulta dunque il nostro primo dovere. A tale proposito, ci sia concessa una breve divagazione. Come esergo di queste pagine abbiamo scelto una frase («stay hungry!») che inneggia proprio a questa prestazione trascendentale come allo “Abracadabra” dei nostri giorni, allo “apriti sesamo” in grado di schiudere tutte le porte del “successo”. Si tratta di una frase pronunciata da una delle figure più iconiche (letteralmente) della società della prestazione e che viene giustamente considerata il suo testamento spirituale. Per di più, questa frase è stata pronunciata in una delle migliori fucine (la Stanford University) atte a forgiare le avanguardie di questa società: i “soggetti di prestazione alpha”. Ebbene, a nostro avviso l’interpretazione dello spirito del (nostro) tempo si gioverebbe

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non poco di una rigorosa “fenomenologia di Steve Jobs”49. La sua singolarissima e tuttavia emblematica vicenda – la favola di un bruco-hippie che si trasforma prima in una crisalide-yuppie e infine in una farfalla-tycoon – dimostra a quale grado di pervasività sia giunta la logica di prestazione. Al punto di riuscire a trasformare le stesse forze che le si contrapponevano radicalmente (quelle della “controcultura”) nella propria enclave più inespugnabile. Essa ha saputo efficientare il dissenso, fino a farne l’avanguardia del turbocapitalismo. Detto nei termini di Han: la società della prestazione ha annichilito il negativo metabolizzandolo, rendendolo un positivo al quadrato. Torniamo al nostro tema principale. Nella cornice della tecnosfera, l’essere umano si trova ridotto a una condizione integralmente deficitaria. La carenza dell’essere carente, il Mangel del Mängelwesen – ci riferiamo, evidentemente, a quella formula coniata da Herder e che, ripresa da Gehlen, assurgerà a simbolo della renaissance novecentesca dell’antropologia filosofica – non corrisponde più a quello sfarzo ontologico incarnato dalla pura possibilità nella sua indeterminata pienezza (ciò che in precedenza abbiamo definito la totipotenza della dynamis), ma diventa in tutto e per tutto: mancanza, difetto e, da ultimo, colpa. Si trasforma in un debito connaturato e inemendabile, in un pauperismo ontologico50 e come tale funge 49.  A questo scopo è senz’altro istruttiva la biografia di Jobs: W. Isaacson, Steve Jobs (2011), tr. it. di P. Canton et al., Mondadori, Milano 2017. Su questi temi segnaliamo anche, per il suo ruolo pionieristico, il saggio di Richard Barbrook e Andy Cameron: The Californian Ideology (in «Science as Culture», VI, n. 1, 1996, pp. 44-72), nel quale viene definita e criticata la Weltanschauung della West Coast, prodotta dal bizzarro ibrido post-­ ideologico (definito «digital Jeffersonian democracy») fra «hippie anarchism» ed «economic liberalism», a cui fa da basamento un’incrollabile fede nel «technological determinism». 50.  Per il concetto di pauperismo abbiamo fatto riferimento a Friedrich Georg Jünger, il quale afferma: «ogni forma di razionalizzazione è la con-

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da criterio selettivo universale di cui si serve il neoambiente tecnico per selezionare i più adatti. Se quindi la tecnica, nella sua fattispecie odierna, si rivela non solo «l’organizzazione» – come già osservava Heidegger – ma anche la produzione e addirittura la creazione «della penuria (des Mangels)»51, ne segue che l’epoca della tecnica corrisponde in tutto e per tutto a una dürftige Zeit: il tempo di penuria e di povertà del quale parlava ancora Heidegger, citando Hölderlin52. Se il dislivello prometeico genera la vergogna prometeica, quest’ultima cresce a sua volta sino a farsi invidia prometeica53 e quindi colpa prometeica54 ovvero cattiva coscienza nei confronti della propria stessa umanità, percepita ormai soltanto più come «antiquatezza» (Antiquiertheit). Da questa premessa

seguenza di una carenza. La costruzione e la strutturazione dell’apparato tecnico non sono solo il risultato di un anelito di potenza della tecnica, ma anche la conseguenza di una condizione di bisogno. Perciò la condizione umana correlata alla nostra tecnica è il pauperismo che non si vince con sforzi tecnici» (La perfezione della tecnica [1946], tr. it. di M. de Pasquale, Settimo sigillo, Roma 2000, p. 29). 51.  M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica (1936-1946), in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 45-65: p. 62. 52.  Scontato, ma doveroso il rinvio a M. Heidegger, Perché i poeti? (1926), in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 247-297. 53.  Pur senza usare questa espressione, Anders teorizza una tale “invidia prometeica” secondo una fattispecie del tutto singolare: quella etico-morale. Lo fa illustrando “il caso My Lai”, un tragico episodio relativo alla guerra del Vietnam. In quella circostanza, il bersaglio dell’invidia dell’uomo verso i suoi prodotti non concerneva l’orizzonte del Können, bensì quello del Dürfen: l’essere umano (nel ruolo di soldato) sperava che gli venisse consentito di agire (sul campo di battaglia) con la stessa “innocenza” (amoralità) con la quale operavano le macchine, cioè le armi automatiche (cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., pp. 269-272). 54.  Su questi temi si veda C. Pavan, L’emotività dell’uomo tecnico tra vergogna e colpa. Uno studio su Günther Anders, in «Iride», XXIX, n. 77, 2016, pp. 57-76.

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deriva l’ansia soteriologica di una redenzione prometeica, a cui si lega il conseguente imperativo di “non essere più soltanto umani”. Si tratta dell’auto-obbligazione a lasciarsi sistematicamente “provocare” dalle pretese di prestazione – sempre nuove e sempre crescenti – del neoambiente tecnico; si tratta dell’ingiunzione etica a farci homo materia, affinché la tecnica possa finalmente de-umanizzarci. Affinché possa liberarci, cioè, dalla condanna ormai insostenibile di “essere semplicemente umani”. Nel perseguimento di questo incessante autosuperamento, culminante in una agognata autosoppressione, in un cupio dissolvi updated, si realizza il programma di una vera e propria soteriologia prometeica, sintetizzabile come segue: Soteriologia prometeica Dislivello prometeico

Mancanza di mancanza

Vergogna prometeica

Essere (semplicemente) umani

Invidia prometeica

Non (poter) essere macchine

Colpa prometeica

Antiquatezza

Redenzione prometeica

De-umanizzazione (post-umanizzazione)

L’aspirazione a raggiungere una condizione post- (trans-, meta-, ultra-…) umana emerge come l’altra faccia della medaglia – il versante positivo e propositivo – rispetto al sentimento di anti-

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quatezza. Poggiando su queste fondamenta, il tipo umano selezionato dalla società della prestazione non potrà essere un “semplice” Übermensch, bensì un autentico Superman. O, alla peggio, un «superuomo di massa»55. Come che sia, si tratterà comunque di un “soggetto post-umano”, ossia di un “non più soltanto uomo”56. L’ideologia che muove l’intera galassia postumana e l’imperativo dello enhancement rappresentano i due versanti complementari dell’attuale utopia (anti)antropologica. Essi incarnano due esempi pregnanti della nostra compiuta metamorfosi in soggetti di prestazione e con ciò la dimostrazione che qui e ora ci stiamo già muovendo nella cornice di una società della prestazione. Ne segue che la migliore traduzione ed esplicazione del paradigma prestazione – e con essa la conferma dell’insuperata attualità del principio di prestazione marcusiano quale passe-partout ermeneutico per decriptare il nostro tempo – ci è offerta dalla definizione che lo stesso Anders dà dell’antiquatezza, ovvero come «l’attitudine negativa dell’uomo nei confronti del suo essere-umano [Menschsein]»; come il suo irrefrenabile impulso di superare una volta per tutte la vergogna del proprio natum esse; come la sua voluptas (la sua pulsione libidinale) di diventare finalmente «sicut machinae»57.

55.  Cfr. U. Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare (1976), La nave di Teseo, Milano 2016. 56.  Su questi temi si può vedere: B. Babich, O, Superman! Or Being towards Transhumanism: Martin Heidegger, Günther Anders, and Media Aesthetics, in «Divinatio», XXXVI, 2012-2013, pp. 41-99. Di una sostanziale sintonia tra oltreumanismo nietzscheano e transumanismo, accomunati da una medesima aspirazione a dar finalmente vita a uno schöner neuer Mensch, è convinto sostenitore Stefan Lorenz Sorgner, uno dei frontmen della galassia postumana (al riguardo si può vedere il recente: S.L. Sorgner, Übermensch. Plädoyer für einen Nietzscheanischen Transhumanismus, Schwabe, Basel 2019). 57.  G. Anders, L’uomo è antiquato 2, cit., p. 270.

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Qualche considerazione finale, a consuntivo di questi prolegomeni per una genealogia del paradigma prestazione. Il mutamento decisivo patito dal principio di prestazione da Marcuse a Han si traduce, in ultima istanza, nella sua evoluzione da etero-obbligazione (vale a dire, una ingiunzione ab extra: una regola, una norma, una legge) ad auto-obbligazione (vale a dire, una ingiunzione ab intra: un imperativo, un valore). Dal canto suo, una tale evoluzione ha luogo nel momento in cui l’essere umano esperisce e percepisce se stesso – la propria umanità – nei soli termini di un limite, difetto e colpa. Di qui il dovere conseguente di liberarsene, di superarla/accantonarla (superarsi/accantonarsi) una volta per tutte. Il potenziamento (empowerment), l’addizione (enhancement) che la repressione addizionale ha ricevuto nel mezzo secolo che ci separa dalle analisi di Marcuse – qualcosa che egli né aveva previsto né, verosimilmente, avrebbe potuto immaginare – consiste nella sua interiorizzazione, naturalizzazione e infine moralizzazione. Qualcosa che la trasforma gradualmente in un comandamento etico, in un imperativo. Quello che in Marcuse era la vittima del dispositivo repressivo operato dal “dominio” (espres­sione, a sua volta, di una logica e di una lotta di classe) è nel frattempo diventato l’aguzzino di se stesso. Il prigioniero si trasforma – si converte, nella veste di rational agent – nel proprio carceriere, come a dire che a questo punto la sola evasione ancora possibile è l’evasione da se stessi. L’ingiunzione etica a percepire e concepire se stessi antiquati, a vergognarsi del proprio essere umani emerge come la prestazione fondamentale a cui ogni aspirante soggetto di prestazione è chiamato per poter diventare (per potersi sentire) membro degno di una società della prestazione. La logica di questo processo appare solare: vergognarsi di ciò che si è – nel caso di specie: da esseri umani, del proprio essere umani – è la migliore garanzia di contrarre un debito inestinguibi-

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le e dunque un altrettanto imperituro bisogno di riscatto58. Fare della vergogna di sé l’architrave del proprio progetto di soggettivazione, significa ipotecare nel modo più certo il proprio imperituro assoggettamento. Il riconoscimento di questo meccanismo e della logica che vi è sottesa dimostra come il principio di prestazione sia ormai pervenuto allo statuto di un paradigma antropologico e sociale, individuale e collettivo. Alla domanda: “che cos’è, quindi, la società della prestazione descritta da Han?” (andersianamente: l’epoca della tecnica soggetto della storia), si può rispondere che essa è la cornice epocale all’interno della quale Übermensch e homo materia, Superman e Bestand-Mensch diventano la stessa persona.

5. Postilla: la prestazione tra volere e dovere Concludiamo, formulando una breve critica alla pur pregevole fenomenologia (sintomatologia) della società della prestazione realizzata da Byung-Chul Han. Nel diagnosticare una ulteriore pandemia contemporanea, quella dello sfinimento (burnout) collettivo; nel prendere atto che il Prometeo scatenato si è nel frattempo trasformato in un «Prometeo stanco»59, estenuato, Han immagina una tale patologia come il risultato ultimo prodotto da un contesto sociale di positività assoluta, 58.  Ci limitiamo a menzionare un tema emerso con forza nelle presenti pagine, ma che in questa sede non ci è possibile approfondire. La logica sottesa al paradigma prestazione è palesemente la riproposizione di una dialettica religiosa in chiave secolarizzata. Il sentimento di antiquatezza al cospetto delle richieste di prestazione del neoambiente tecnico e il conseguente debito da esso generato, richiamano da presso l’idea del peccato originale. Su questi temi, cfr. E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011. 59.  Cfr. B.-Ch. Han, La società della stanchezza, cit., pp. 3-4.

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dal quale sia stata bandita ogni possibile negatività (sotto forma di limite, divieto, ingiunzione). In questa cornice interamente immunizzata, “trasparente”, emerge un poter fare completamente abbandonato a se stesso, che alla fine implode sotto il peso della sua stessa libertà illimitata. Nella lettura di Han una tale assoluta libertà di poter fare si accredita come causa necessaria e sufficiente ad alimentare indefinitamente la volontà di fare del soggetto di prestazione, fino a portarla al parossismo dell’implosione, vale a dire: fino al paradosso della ricerca di prestazioni che possono essere raggiunte o tentate al solo prezzo del proprio sfinimento e autoanninentamento (metaforico o addirittura reale). Il tutto fondato, in ultima analisi, sulla scoperta che «la positività del poter fare è molto più efficace della negatività del dovere»60. Al contrario, a nostro avviso il poter fare che giunge fino al parossismo di una performatività illimitata, culminante in una implosione patologica, si lascia spiegare solo a partire da una negatività di partenza. Negatività consistente nella persuasione, da parte dell’artefice di questo poter fare illimitato, di essere il portatore insano di un debito strutturale; un debito che proprio in quel poter fare assolutizzato cercherebbe il proprio riscatto, la propria compensazione. Si tratta dell’introiezione di un pauperismo ontologico, che equivale alla traduzione secolarizzata e mercificata del tradizionale concetto di colpa in accezione religiosa. Si “può fare di più” e sempre di più (fino allo sfinimento in quanto martirio secolarizzato), solo se ci si è preliminarmente persuasi di “dover fare di più”. Proviamo a spiegare questa dinamica con un esempio tratto da una ricaduta ontica (onticissima) della società della prestazione. Ci riferiamo al refrain di un brano, dal titolo Si può dare

60.  Ivi, pp. 23-24.

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di più, risalente a una trentina di anni fa61 e ormai annoverato tra i classici della nostra musica leggera. Dopo tutto, è ormai un dato di fatto acclarato che ai giorni nostri le “canzonette” rappresentino, nel bene e nel male, una sorta di deposito della coscienza collettiva. Per quanto, ovviamente, il testo del brano in questione non intenda riferirsi – e men che meno inneggiare – a questioni di carattere economico-produttivo (si tratta, al contrario, di un inno all’impegno altruistico, di un mantra della solidarietà a tutti i costi), esso si presta perfettamente a illustrare certe dinamiche prestazionali, dal momento che all’interno della odierna cornice epocale risulta identica la logica di fondo alla quale attingono tanto l’appello filantropico quanto quello produttivo. Quel testo, che infatti funzionerebbe benissimo come inno di un corso motivazionale, appare una sorta di lapsus collettivo della società della prestazione, che in un momento di distrazione – tra le pieghe di una “innocua canzoncina” – confessa candidamente le regole del proprio gioco. Il refrain recita: «si può dare di più, perché dentro di noi si può fare di più senza essere eroi». Esplicitato in linguaggio prestativo, suona: “non bisogna essere eroi, superuomini per dare di più”, ergo “nessuno può (nessuno ha il diritto di) astenersi dal dare di più”, dall’estrarre da sé il massimo possibile di valore prestazionale (economico o solidaristico che sia). Se chiunque può farlo, allora ognuno deve farlo. Il refrain continua così: «come fare non so, non lo sai neanche tu. Ma di certo, si può dare di più!». Tradotto in termini performativi, suona: “il dovere della prestazione è un positum, qualcosa di indiscutibile”. Assunta l’ineluttabilità del “poter dare di più” (visto che è certo che lo si possa fare), ne segue che “se non dai di più è

61.  Si può dare di più (1987), scritto da Giancarlo Bigazzi, Umberto Tozzi e Raf. Interpretato da Gianni Morandi, Umberto Tozzi ed Enrico Ruggeri, il brano è risultato vincitore del XXXVII Festival di Sanremo (1987).

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soltanto colpa tua”. È tua la colpa di “non voler dare”, vale a dire: di “non sentire il dovere di voler dare di più”. Su questa base, a integrazione dell’argomentazione di Han – il quale spiega l’avvento della società della prestazione e della stanchezza con la formula “se vuoi, puoi” – bisognerebbe aggiungere che “se devi (cioè: se ‘senti di dovere’ e in particolare ‘di dover volere’), allora vorrai”. Come afferma Han, la positività è certamente più efficace del dovere, a patto però che si tratti di un dovere esterno, di una etero-obbligazione. Non lo è, invece, laddove il dovere sia interno, cioè l’espressione di una auto-obbligazione. In quel caso la volontà deve cedergli il passo e subordinarvisi, diventando un suo effetto. Sta qui tutta la differenza tra il desiderio autentico, costitutivamente refrattario a logiche utilitaristico-produttive (che, anzi, proprio sulla base di una tale refrattarietà, cioè della sua irriducibile gratuità, si definisce e si lascia riconoscere) e quel volontarismo prestativo su cui poggia il paradigma prestazione e che invece somiglia da presso alla «risolutezza» (Entschlossenheit), magistralmente tematizzata nell’analitica esistenziale heideggeriana quale dispositivo di autenticazione del Dasein62. La risolutezza è una volontà svuotata di ogni possibile contenuto, una vuota pulsione di pura potenza/potenzialità, che come tale si rende disponibile, in linea di principio, a qualsiasi impiego. Essa è la risposta già bella e pronta, in cerca dell’occasione di una domanda, di un appello al quale (cor)rispondere. Con il suo occasionalismo, la risolutezza – che è auto-­telica perché a-telica (cioè: fine a se stessa, in quanto priva di qualsiasi fine) – si dimostra l’anticamera del decisionismo, a sua volta braccio armato di una delle forme più corrosive di nichilismo,

62.  Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, pp. 163-173, 352-369.

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della quale il secolo scorso ha fatto drammatica e abbondante esperienza diretta63. Il serbatoio motivazionale, la riserva libidinale straordinaria che nella società disciplinare era deputata ad alimentare esclusivamente le decisioni ultime legate agli stati d’eccezione, con l’avvento della società della prestazione si è trasformata nella dispensa di casa a cui attinge senza remore la quotidianità (lo «innanzitutto e per lo più») per perseguire ogni suo obiettivo, per quanto insulso e insignificante sia. Per soddisfare «una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte»64. Il nostro tempo sembra confermare la regola secondo la quale ciò che nasce in tragedia è destinato a morire in farsa. Nel contempo, però, esso ci insegna anche qualcosa di nuovo: che una farsa obbligata (ovvero l’impossibilità del tragico) è essa stessa una forma di dramma.

63.  Sulla “decisione” in quanto categoria centrale per la genesi e la comprensione degli eventi chiave del secolo breve, cfr. l’ormai classico: C. Graf von Krockow, Die Entscheidung. Eine Untersuchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger (1958), Campus, Frankfurt a.M.-New York 1990. 64.  È questa la celebre ricetta della felicità, inventata dall’«ultimo uomo» (cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno [1883-1885], tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 201131, p. 12).

III Fine dell’umano?

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Un morto in discreta salute Verso una nuova immagine dell’umano Giacomo Pezzano

1. La “morte dell’Uomo” spiegata ai bambini La proclamazione della “morte dell’Uomo” sarebbe stata data una volta per tutte nel discusso finale de Le parole e le cose di Foucault, in cui leggiamo: l’uomo non è il problema più vecchio e più costante postosi al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve e una circoscrizione geografica ristretta […], l’uomo vi costituisce un’invenzione recente. Non è intorno a esso e ai suoi segreti che, a lungo oscuramente, il sapere ha vagato. Di fatto, fra tutte le mutazioni che alterarono il sapere delle cose e del loro ordine, il sapere delle identità, delle differenze, dei caratteri, delle equivalenze, delle parole […], uno solo, quello che prese inizio un secolo e mezzo fa e che forse sta chiudendosi, lasciò apparire la figura dell’uomo. Non si trattò della liberazione di una vecchia inquietudine, del passaggio alla coscienza luminosa di un’ansia millenaria, dell’accesso all’oggettività di ciò che a lungo era rimasto preso in fedi o filosofie: fu l’effetto di un cambiamento nelle disposizioni fondamentali del sapere. L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, […] possiamo senz’altro

226 scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia.1

Lasciando ora da parte il retroterra socio-politico di una simile enfasi (apparentemente) “anti-umanistica”, diffusa nella seconda metà del Novecento2, mi soffermo su alcune chiavi di lettura di questo certificato di morte. Per i più entusiasti, l’uomo sarebbe giunto alla fine in senso strettamente biologico, fisico-materiale: una nuova specie vivente sarebbe alle porte, al di là di come si presenti o potrebbe presentarsi (prevalentemente, secondo la vulgata, sotto forma di ibrido tecnologico). Per i più sobri tra gli entusiasti, la “morte dell’Uomo” è comunque l’annunciazione di un mutamento complessivo di paradigma culturale ed esistenziale: l’inaugurazione del nuovo mondo postumano3. Tenendo conto di questo, non sorprende che ormai si parli di un Nonhuman Turn a livello scientifico-culturale4, o si consideri all’ordine del giorno il tema dell’estinzione della specie umana5. Insomma, l’uomo sarebbe ormai giunto alla fine del

1.  M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), tr. it. di E. Panaitescu, BUR, Milano 1998, pp. 413-414 (corsivi miei). 2.  Ho comunque offerto una prima contestualizzazione in tal senso in G. Pez­zano, Marxismo e natura umana, in A. Monchietto (a cura di), Invito allo straniamento. II. Costanzo Preve marxiano, Petite Plaisance, Pistoia 2015, pp. 115-129 e soprattutto 115-118. 3.  La letteratura sul tema, che attraversa peraltro il rapporto tra post-, anti-, trans- e iper-umano, è veramente sterminata e ramificata: per ragioni di spazio, mi limito a rimandare – anche rispetto alle considerazioni infra, § 3.1 – alla sintesi complessiva di F. Ferrando, Il Postumanesimo filosofico e le sue alterità, ETS, Pisa 2016. 4.  Cfr. R. Grusin (a cura di), The Nonhuman Turn, University of Minnesota Press, Minneapolis 2015. 5.  Oltre al romanzo di A. Weisman, Il mondo senza di noi (2007), tr. it. di N. Gobetti, Einaudi, Torino 2008, penso anche a testi più speculativi come

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proprio ciclo di vita, biologica o culturale – con buona pace, verrebbe da dire – degli umani ancora in vita loro malgrado, a livello tanto fisico quanto simbolico. Certo, già oggi vi sono rilevanti differenze fisico-organiche tra Usain Bolt e Oscar Pistorius, o tra chi (come un cittadino italiano) possiede un documento d’identità cartaceo e chi (come qualche cittadino svedese) lo possiede sotto forma di microchip sottocutaneo. Né si possono sottovalutare le implicazioni dell’ormai conclamata questione-Antropocene. Poi, è vero che contrapporre alla “morte dell’Uomo” un accorato richiamo ai valori dell’umano e dell’Umanesimo può aprire la porta a conservatorismi in senso ampio. Tuttavia, mi preme sottolineare qualcosa che rischia di essere eccessivamente sottovalutato in ogni tipo di discorso legato alla (supposta) “morte dell’Uomo”. Se dovessimo spiegare la “morte dell’Uomo” a dei bambini (comunque non sprovveduti, va detto)6, che cosa potremmo loro dire? Dovremmo dir loro che non esistono più, perlomeno in quanto umani? E in che forma allora esisterebbero? Seguendo i corsivi del passo foucaultiano, la “morte dell’Uomo” si pone sul piano del sapere, ossia – in termini antropologico-filosofici – dell’immagine dell’uomo. Foucault sta dunque facendo notare che quando conosciamo qualcosa intorno a come sono fatti gli esseri umani (diciamo e vediamo qualcosa dell’uomo – cfr. infra, § 3.2.1), facciamo affidamento ad alcune nozioni fondamentali, basandoci su alcune discipline in senso

R. Brassier, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, Palgrave, London 2007, o C. Colebrook, Death of the PostHuman. Essays on Extinction I (2014), Sex After Life. Essays on Extinction II (2014), e la sua curatela di Extinction (2012), tutti per Open Humanities Press, London. 6.  In richiamo a J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini (1986), tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987.

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ampio scientifiche ovvero su dei saperi: se questi cambiano, allora anche ciò che sappiamo dell’uomo e il modo in cui lo consideriamo cambieranno di conseguenza. Sotto questo riguardo, parlare di “morte dell’Uomo” comporta il riconoscimento del fatto che l’etichetta “Uomo” attribuita a un set di pratiche discorsivo-culturali possiede una data di nascita e una di decesso, il che però non equivale affatto a dire che l’uomo come “ente” in senso stretto non esiste o non è mai esistito realmente, al di fuori di tale “rappresentazione”7. È un po’ come dire – al di là delle molteplici questioni filosofiche implicate – che il momento in cui in Finlandia imparo e comincio a utilizzare la parola piilolinssi non segna l’inizio dell’esistenza di quelle stesse lenti a contatto che già di fatto esistevano e stavo utilizzando. Né, se smetto di usare la parola, la cosa smette di esistere8. Insomma, “morte dell’Uomo” significa trasformazione dell’immagine dell’uomo, del modo in cui ci concepiamo e consideriamo. Convinti di esserci presentati – con gioia o rammarico – a un funerale, ci ritroviamo invece ospiti a sorpresa nel terreno aperto di un “sapere” programmaticamente incentrato sulla ricerca intorno alla condizione umana: l’Antropologia Filosofica – intesa come Denkrichtung e paradigma di ricerca autonomo e non come mera sub-disciplina9. Come voleva già Herder, «in tutte le condizioni e in tutte le società, l’uomo non ha potuto aver altro disegno, non ha potuto

7.  Come nota anche, pur in un contesto critico, D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 124-134. 8.  Non lontano da quel che rimarcava W.V.O. Quine, Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici (1980), tr. it. di P. Valore, Cortina, Milano 2004, p. 30. 9.  Come rivendica il rilevante J. Fischer, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts, Alber, Freiburg-München 2008.

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costruire altro che l’umanità, comunque la intendesse»10, ossia trovare espressione in una qualche immagine di sé e del proprio rapporto con il mondo. L’Antropologia Filosofica ci mostra proprio che costruire se stessi significa anche, o innanzitutto, farsi un’immagine di sé e che questo è un aspetto decisivo in quella che è stata recentemente ribattezzata «antropo-­poiesi»11, sulla scia della lunga tradizione dell’umano come artefice di sé (ancorché non autoreferenziale: cfr. infra, § 3.1). Simile “messa in immagine” – punto importante – non avviene consapevolmente, perché le immagini dell’uomo sono, per così dire, visibili ma non date: un uomo medioevale indubbiamente poteva pensarsi e viversi come una creatura, ma poteva avere consapevolezza di simile maniera di pensarsi e viversi? Poteva sapere che c’erano o ci sarebbero stati diversi modi di considerarsi in quanto umano (come essere biologico, come cosa meccanica, ecc.)? In termini filosofici, le immagini dell’uomo agiscono come condizioni di possibilità: ci fanno vedere, immaginare, percepire, concepire e praticare noi stessi in quanto umani, ma in se stesse non sono viste, immaginate, percepite, concepite e praticate. Nei termini della contemporaneità digitale, potremmo dire che la storia degli esseri umani è una storia di “selfies”, in senso pratico prima ancora che teoretico o epistemologico (ciò che in termini filosofici sta sotto il cappello dell’“alienazione”). Penso per esempio al noto schema di una storia delle auto-percezioni implicite dell’essere umano fornito da Scheler, il quale, andando dalla filosofia classica all’era contemporanea, descriveva cinque fondamentali autoscatti o “selfies” che durante la

10.  J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), tr. it. di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 289-290. 11.  Cfr. F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013.

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storia gli esseri umani avrebbero fatto di sé: homo religiosus, homo sapiens, homo faber, homo dionysiacus, homo creator. Al di là della veridicità di una simile scansione, la domanda che si apre oggi è: stiamo affrontando, o persino costruendo, una nuova immagine dell’umano? Se è vero che l’Antropologia Filosofica è nata e si presenta come riflessione sui risultati delle varie scienze che – in modo più o meno diretto – hanno a che fare con l’essere umano, allo scopo di recuperare una sorta di “immagine globale” dell’umano, è allora proprio facendo ancora leva su questa attitudine fondamentale che possiamo chiederci quale tipo di immagine sia possibile recuperare oggi. La risposta che fornirò è duplice: da un lato si pone su un piano meta-antropologico, che riguarda l’immagine delle immagini dell’essere umano (§ 2); dall’altro si pone su un piano più specificamente antropologico, che tocca il tema dell’immagine post-umana dell’umano (§ 3). Infine, trarrò delle conclusioni generali (§ 4).

2. Farsi un “selfie” mentre ci si fa un “selfie” L’Antropologia Filosofica, insisteva soprattutto Scheler, si profila nitidamente nel momento in cui l’uomo diventa un problema a se stesso, più di quanto lo sia mai stato prima: emerge non tanto come risposta a tale problematicità, quanto piuttosto come luogo in cui questa può perlomeno ricevere un’adeguata formulazione. Ciò significa – cosa ora importante – che abbiamo cominciato a meglio comprendere noi stessi in quanto esseri problematici: come una questione aperta, che genera e anima molteplici risposte. Weltoffenheit, in fondo, non indica altro che questo carattere fondamentale dell’esperienza e dell’esistenza umane.

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Simile aspetto è rilevante proprio pensando ai “selfies”: da una certa prospettiva, l’immagine dell’essere umano che si sta compiutamente delineando è quella per cui siamo esseri che si fanno immagini. Stiamo cominciando ad assumere come parte integrante della nostra esperienza il fatto del farci autoscatti, o – perlomeno – abbiamo una simile possibilità. Possiamo insomma prendere in esplicita considerazione l’esistenza, la performatività e il funzionamento delle immagini dell’umano: stiamo rendendo esplicito il nostro modo di farci immagini di noi stessi. Esplicitare, in sintesi, vuol dire rendere conosciuto il noto (l’hegeliano passaggio dal kennen all’erkennen), ossia sforzarsi di portare in primo piano ciò che comunque sta sullo sfondo, per renderlo così “usabile” o “utilizzabile”: disponibile, pronto all’uso12. Esplicitare significa far sì che qualcosa di “indisponibile” o “impraticabile” diventi invece un campo praticabile, luogo percorribile e sondabile, con cui si possano fare i conti, al di là dei risultati finali – come un terreno da gioco reso nuovamente praticabile dopo un diluvio. In termini più filosofici, esplicitare significa “tematizzare”: rendere manifesto qualcosa di latente, rifenomenalizzare l’afenomenico, rendere percepibile l’impercepito, far avanzare in primo piano lo sfondo. Questo continuo lavoro di “rincorsa”, d’altronde, fa parte della nostra stessa costituzione: è vero – pensando al grido di allarme di Günther Anders – che siamo affetti da un costitutivo gap rispetto a ciò che noi stessi facciamo, ma è anche vero che ogni volta a questo scarto si accompagna un lavoro di “ricucitura” dello strappo, esattamente nel senso in cui si sutura una ferita in modo tale da riabilitare un corpo prima lacerato.

12.  Cfr. P. Sloterdijk, Sfere III. Schiume (2004), tr. it. di. G. Bonaiuti, Cortina, Milano 2018, pp. 56-79, 195-215.

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Ecco allora che si può presentare un elenco aggiornato delle ferite al narcisismo antropologico: oltre alle ormai canoniche tre ferite inferte da Copernico, Darwin e Freud, ci sarebbero anche i colpi causati dall’etologia, dall’epistemologia evolutiva, dalla sociobiologia, dai computer, oltre a quelli ormai prossime dell’ecologia e della neurobiologia. Ciononostante, la nostra storia può essere considerata una sorta di continua operazione di riformattazione dei narcisismi, ossia una vicenda di ferimenti e rigenerazioni del nostro sistema immunitario13. Le umiliazioni che subiamo vengono dunque superate e reintegrate in nuovi campi di esperienza, cioè – innanzitutto – in una nuova immagine di noi stessi e delle nostre capacità, che, per così dire, ricalibra le nostre possibilità. Un po’ come accade per le vaccinazioni: un indebolimento del sistema immunitario che offre le risorse per la sua rigenerazione e fortificazione. Prendiamo la classica formulazione della condizione umana di Pascal: proprio quando l’uomo riconosce di non essere altro che una canna, la più misera della natura, si avvede del fatto che sta riconoscendo questo, ossia di essere una canna pensante, e in questo modo sta in qualche modo ricomponendo sotto altra forma quell’equilibrio nell’auto-percezione di sé che era stato infranto. O consideriamo una delle esperienze più umilianti che facciamo quotidianamente (rilevante anche rispetto a infra, § 3.2): siamo circondati da macchine che appaiono più abili di noi sotto molti aspetti. Eppure, per esempio, esse sono pur sempre elaborate e costruite da esseri umani; poi, pensando anche soltanto all’evoluzione della protesica in campo medico, siamo comunque in grado di re-introdurre delle fredde entità inor-

13.  Cfr. Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. di. A. Calligaris, S. Crosara, Bompiani, Milano 2001, pp. 267-291.

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ganiche nei nostri corpi naturali organici, rendendo le prime parte integrante della nostra esperienza. Misurandoci oggi con le macchine informatico-digitali, ci sentiamo inferiori e inetti, forse per contro-bilanciare un mai sopito senso di superiorità e onnipotenza; ma in realtà anche i taumaturgici macchinari contemporanei possiedono limiti, imperfezioni e così via: il confronto è meno schiacciante di quel che sulle prime appare14. A fronte dei vari colpi subiti, siamo ogni volta in grado di farci e rifarci un’immagine di noi stessi: è quanto accade più volte nel corso della storia, è persino ciò che scandisce il ritmo della nostra storia. In definitiva, ritengo sia proprio questo che stiamo acquisendo nella nostra immagine contemporanea dell’umano: stiamo incorporando nella nostra disposizione verso noi stessi e il mondo il modo in cui avviene il processo stesso di messa in immagine dell’umano. Stiamo allora non solo ricucendo un nuovo strappo (cfr. infra, §§ 3-4), ma anche – per così dire – assumendo nella nostra attitudine il fatto stesso della nostra capacità di ricucitura. Così, a diventare esplicito ovvero parte integrante dell’immagine di noi stessi, con tutte le ambiguità e le difficoltà che questo comporta, è esattamente il fatto che ci facciamo immagini. È qualcosa di analogo a quella situazione, insieme straniante e rivelatrice, in cui osserviamo qualcuno che si sta scattando un “selfie”, finendo così anche per osservare noi stessi quando ci facciamo un autoscatto. In tal modo, arriviamo da ultimo a rendere parte attiva della nostra esperienza del farci autoscatti la tematizzazione della natura e dell’andamento di questa stessa pratica.

14.  Lo nota anche D.C. Dennett, Dai batteri a Bach. Come evolve la mente (2017), tr. it. di S. Frediani, Cortina, Milano 2018, pp. 443-451.

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3. “Selfies” contemporanei Come si può però caratterizzare più specificamente qualcosa come un’immagine postumana dell’umano ovvero un “selfie” postumano? Da una parte richiamo più brevemente la figura di un homo relationalis (§ 3.1), mentre dall’altra parte presento più diffusamente i contorni di un homo informaticus (§ 3.2).

3.1. Divenire umani C’è un’idea che attraversa l’intero orizzonte del postumano, tolte principalmente alcune sue propaggini trans- o iper-umanistiche15. Mi riferisco alla convinzione per cui se c’è un’immagine postumana dell’uomo, questa si traduce nel riconoscimento della costitutiva relazionalità dell’umano: l’umano postumano è homo relationalis in quanto si considera, anzi si riconosce finalmente, come etero-referenziale o persino etero-­ centrico. In quest’ottica, essere umani è una questione di esposizione, contaminazione e ibridazione. Proprio perciò, più che di “essere” umani, si deve parlare di divenire umani: la relazionalità fa tutt’uno con la costitutiva apertura, dunque con una (paradossalmente) essenziale “inquietudine”. En passant, va detto che su questo il postumano si scopre prossimo alla tradizione umanistica e all’Antropologia Filosofica. L’alterità con cui saremmo commisti è stata per lo più fatta coincidere con la tecnologia; ma si è via via insistito anche sull’alterità extra-specifica (animale) e su quella infra-specifico (umana). Homo relationalis non è un essere solipsistico, né il padrone incondizionato del mondo, bensì qualcuno che

15.  Su cui mi limito a segnalare perlomeno il recente saggio-reportage di M. O’Connell, Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte (2017), tr. it. di G. Pannofino, Adelphi, Milano 2018.

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per così dire ha scoperto che ci sono altri, che c’è dell’altro: homo relationalis vive con e grazie all’esistenza delle cose, come degli esseri viventi e degli esseri umani stessi. Icasticamente, anche un’isola deserta è tale in quanto viene disertata, più che per sua stessa natura: per essere soli, bisogna che pur ci siano gli altri16. Più in generale, pertanto, si tratta di considerare l’umano come una parte della natura ovvero del cosmo nel complesso, anziché come il suo centro o il suo vertice: è in gioco un’operazione di ri-centramento che ha la forma di un ineludibile decentramento. In parte si espliciterebbe ciò che da sempre ha caratterizzato l’umano, ma d’altra parte questa esplicitazione avviene depurando le precedenti immagini dell’umano da ogni sorta di auto-referenzialità e assolutismo. Insomma, è vero che l’essere umano è sempre stato relazionale e non comincia a esserlo oggi, ma è anche vero che sino a oggi questo tratto è stato come mascherato dalla forza soverchiante dell’auto-, che verrebbe finalmente messa in discussione. Questa idea è molto semplice ma ha significative conseguenze. Come notavo, la relazionalità fa tutt’uno con la trasmutabilità: perno dell’immagine relazionale dell’umano è la convinzione che le cose cambiano, nella natura, nella storia, nel linguaggio, ecc. Se qualcosa è non “chiuso” ma aperto all’interscambio, allora è suscettibile di trasformazione: proprio a partire da questa intuizione di fondo, diventerebbe possibile un nuovo modo di considerare la natura, la società, la tecnologia – le cose in generale. Perciò la svolta postumana intende farsi portatrice di un vero e proprio mutamento di paradigma in senso ampio.

16.  Della costitutiva relazionalità dell’umano, in una prospettiva che cerca di assumere le implicazioni antropologico-filosofiche del darwinismo, ho discusso più ampiamente in G. Pezzano, Pesci fuor d’acqua. Per un’antropologia critica degli immaginari sociali, ETS, Pisa 2018, pp. 31-75.

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Va sottolineato che parlare di relazionalità in senso generico è certo un passo importante, ma è un primo passo: apre un campo di discussione, più che esaurirlo. Infatti, di per sé – per intenderci – anche la catena industriale di allevamento, macello e consumo degli animali è una modalità di rapporto-con, ma non è certo quella auspicata da molti “postumani”. Restano dunque del tutto aperte l’articolazione delle possibili forme di tale costitutiva relazionalità e l’analisi di quali tra queste siano le più auspicabili e desiderabili – per noi come per gli altri esseri o il globo intero. Detto ciò, per arrivare a capire che cosa contribuisca in modo significativo all’emersione di tale sensibilità verso il dinamismo relazionale, dobbiamo fare i conti con la specificità del mondo in cui staremmo attualmente vivendo.

3.2. Dall’industria del carbone alla Silicon Valley 3.2.1. Il Superuomo foucaultiano Riparto da Foucault e dal modo in cui Deleuze ha ricostruito il problema del «Superuomo» foucaultiano17. Deleuze insiste proprio sul fatto che “morte dell’Uomo” non significa una cancellazione fisica dell’uomo e nemmeno la scomparsa di una qualche concezione dell’umano. Piuttosto, si tratterebbe di un cambiamento della forma fondamentale di un’epoca, ossia – nei termini fin qui adottati – di un rinnovamento dell’immagine dell’umano. In generale, le varie epo-

17.  Di G. Deleuze tengo presenti soprattutto Cinema 2. L’immagine-tempo (1985), tr. it. di L. Rampello, Ubulibri, Milano 1989, pp. 292-299; Pourparler (1990), tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 156-158, 234241; Foucault (1986), tr. it. di P.A. Rovatti, F. Sossi, Cronopio, Napoli 2002, pp. 163-175; Il potere. Corso su Michel Foucault II (1985-1986), tr. it. di M. Benenti e M. Caravà, Ombre corte, Verona 2018, pp. 202-358.

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che o età si distinguono per un tipo di forma, un tipo di sapere, un tipo di potere, un tipo di forze e un tipo di piega: si possono così descrivere differenti periodi storici riportandoli a distinti modi in cui queste diverse dimensioni si tengono insieme (cfr. tabella 1). Livello delle forme

Dio

Uomo

Superuomo?

Storia naturale

Biologia Vita

Genetica? Vita inorganica?

Grammatica generale

Filologia Linguaggio

Letteratura? Linguaggio impersonale?

Mercantilismofisiocrazia

Economia politica Lavoro

Cibernetica? Lavoro cognitivo?

Livello del potere

Sovranità Morte

Disciplina Corpi

Bio-controllo? Dati?

Tipo di forze

Infinito

Finitudine

Finito illimitato?

Tipo di piega

Dispiegamento

Piega

Super-piega?

Livello del sapere (parlare + vedere)

Tabella 1

Le forme non sono meri concetti: per esempio, anche nell’antichità o nel medioevo si aveva un dato concetto di uomo. Tuttavia, in tali epoche non si rapportava l’insieme dei concetti (di uomo, cosa, mondo, ecc.) alla forma-uomo, loro condizione per essere pensati ovvero concepiti. Una forma agisce a livello trascendentale, è una condizione di concepibilità (percepibilità, immaginabilità, ecc.): è il “titolo” di un’epoca, ossia la sua immagine generale – ma non perciò il fattore in ultima istanza determinante.

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Il sapere consiste in ciò che si sa e in ciò che si vede: è il rapporto tra l’insieme di entità che (atematicamente) “si dicono” ovvero sono al centro del discorso e “sono evidenti” ovvero raggiungono la soglia di salienza. È l’orizzonte del “dicibile” e del “visibile”. Il potere costituisce l’insieme delle condizioni, macro- e microfisiche, che sostengono, supportano e influenzano la possibilità del sapere: tecnologie, istituzioni, economia, guerre, e così via, nonché – soprattutto – il loro intreccio, le loro combinazioni mobili. Questo non vuol dire semplicemente che – poniamo – la politica determina in senso unilineare il campo del sapere, bensì – forse più banalmente – che l’intreccio tra una certa istituzione accademica (paper, valutazione tra pari, ecc.), un certo sostrato socio-economico (investimenti, mobilità, ecc.) e la presenza di certe strumentazioni tecnologiche consente che sia realmente “dicibile” e “visibile” il bosone di Higgs. Le forze rappresentano la maniera fondamentale in cui una data società o epoca si organizza e struttura: la qualità fondamentale e il tipo principale delle sue direzioni e delle sue risorse, il “senso” in chiave vettoriale e dinamica. La piega è infine l’operazione principale insieme richiesta ed esercitata dalle forze di una data epoca, cioè il modo di fondo in cui le forze funzionano e lavorano in essa: è la maniera diffusa in cui le forze agiscono in un dato campo. Ogni epoca, dunque, riconduce l’insieme delle proprie pratiche e conoscenze a un determinato tema principale (forma), articolando un rapporto tra dicibile e visibile (sapere) alla luce dei rapporti tra le strutture effettivamente esistenti (potere), mobilitando e facendo lavorare certe risorse (forze) in un certo modo (piega). Una data epoca corrisponde così al modo in cui questi fattori e livelli interagiscono tra di loro. Che cosa contraddistingue allora la forma «Superuomo»?

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Intanto, come detto, non il superamento fisico-biologico della specie umana, né l’abbandono di un qualsivoglia concetto di umano: si sta invece segnalando un mutamento del sapere, del potere, delle forze e della piega che va sotto il nome ancora problematico di “Superuomo”, non potendo più essere semplicemente ricondotto alla “forma-Dio” come alla “forma-Uomo”. È l’avvento dell’immagine postumana dell’uomo. Seguiamo ancora Deleuze. Sapere. Una certa biologia molecolare e la genetica starebbero modificando la considerazione della vita: si va da una scala organica, segnata da un percorso di lineare e graduale differenziamento di organismi, a una scala molecolare, propria della trasmissione di codici e catene genetici, per catture e attraversamenti collaterali, dunque non per determinazioni progressive – con la conseguenza che l’uomo si trova a “farsi carico” non solo dell’animale, ma anche delle rocce ovvero dell’inorganico. Se per la biologia del XIX secolo l’evoluzione avveniva come progressiva differenziazione (di organi, funzioni, specie, tratti, ecc.), per la biologia contemporanea, molecolare e dello sviluppo, l’evoluzione accade trasversalmente, “tra” i diversi livelli di differenziazione, o persino per “regressione” (l’esempio forse più noto, data la sua rilevanza antropogenetica, è la neotenia). Poi, starebbe avvenendo una “de-personalizzazione” e “de-significazione” del linguaggio: non si indagano più le radici ultime finite delle lingue, origine del significato, bensì gli effetti di struttura dei linguaggi. Questo sarebbe mostrato da una certa letteratura contemporanea, che fa giocare la dimensione strutturale degli enunciati e non quella referenziale, per portare in superficie la fatticità stessa del linguaggio: lo stile inteso come capacità di tenere insieme elementi differenti e persino dispersi. In questo modo, il linguaggio si sgancia dalla parola, dal soggetto (umano) che parla per dire qualcosa, diventando innanzitutto una questione di funzionamenti di strutture.

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Da ultimo (aspetto ora più dirimente: cfr. infra, § 3.2.2), stanno diffondendosi le macchine di terza generazione, cibernetiche e informatiche, basate sulle potenzialità del silicio. Sono macchine radicalmente differenti da quelle “a orologeria” di tipo meccanico, o “a carbone” di tipo termodinamico: sono appunto “a silicio” di tipo informatico. Con queste macchine l’uomo si rapporta in termini di comunicazione reciproca interna e non più d’uso o di azione, così che la nozione d’informazione perde il proprio aspetto antropocentrico: l’informazione non riguarda più soltanto l’umano. Potere. Saremmo nel pieno di quella che ormai canonicamente viene dipinta come biopolitica, la quale comporterebbe che il potere investe non più esistenze su cui essere sovrani o corpi da disciplinare, ma informazioni da monitorare continuamente, cioè flussi di dati da governare e amministrare. Se un lavoratore in fabbrica era sottoposto a un disciplinamento diretto di corpo e movimenti ovvero a un’autorità formale incardinata in un ruolo, un lavoratore freelance è soggetto a un controllo di performance e flussi di dati di lavoro ovvero a un monitoraggio impersonale. Cosa nient’affatto irrilevante, proprio le macchine “a silicio” sono decisive in questo passaggio alla cosiddetta «governamentalità algoritmica»18. Nel diritto, l’attribuzione dei diritti va via via radicandosi non nella dignità personale, bensì nell’essere-in-vita: se nel diritto individualistico moderno vige il modello del contratto, per cui l’uomo è in rapporto esclusivo con l’uomo, si affaccia ora il problema di un rapporto con ciò che è “non umano”. Può così discutersi la titolarità di diritti per viventi “non giuridici”, non 18.  A. Rouvroy, La governamentalità algoritmica: radicalizzazione e strategia immunitaria del capitalismo e del neoliberalismo?, tr. it. di P. Vignola, in «La Deleuziana», n. 3, 2016, pp. 30-36. Utile sul tema la panoramica in D. Gambetta (a cura di), Datacrazia. Politica, cultura algoritmica e conflitti al tempo dei big data, D Editore, Roma 2018.

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individuali in senso moderno: gli animali, ma ormai anche la terra in quanto tale, o – addirittura – ogni esistente in quanto inforg (organismo informazionale). Forze. Le forze del finito illimitato si distinguerebbero sia dalle forze dell’infinito (ricerca di un ordine sempre maggiore di infinitezza), sia dalle forze del finito (ricerca che comincia e termina nella finitudine): per le forze del finito illimitato, un numero finito di componenti dà un numero praticamente illimitato di combinazioni. Si tratta di quelle forze che liberano la creatività, perché non la riferiscono a un infinito presupposto o da rappresentare, né a una finitezza che chiuderebbe una volta per tutte i giochi. Piega. La super-piega sarebbe il modo in cui agiscono e si distribuiscono queste forze: non sviluppandosi verso l’infinitamente grande, né semplicemente ripiegandosi una volta per tutte sul finito, bensì super-piegandosi sul finito stesso. Questo significa che non si cerca un dispiegamento all’infinito, verso una Super-Cosa o La Cosa (delle cose), un altro mondo infinito e superiore, né ci si resta nella finitezza delle cose, comparandole lungo una scala di (de)finitezza: si insiste sull’alterazione e differenziazione interna alle cose stesse19.

19.  Federica Patera, sperimentando la forza creativa dell’analogia, ha prodotto una serie di racconti originali composti interamente di citazioni tratte da opere letterarie diverse, limitandosi a variazioni minimali come concordanze verbali, di genere e numero, o l’inserimento di alcune congiunzioni e rari avverbi. Cfr. i racconti reperibili alle pagine web http://www.collacolla.org/?p=4744 e http://www.terranullius.it/terranullius/narrazioni/118diorami/783-introduzionediorami (ringrazio l’editor Fabio Soriente per avermi portato a conoscenza di simile progetto). In questi lavori, il nuovo è generato proprio non aggiungendo un pezzo nuovo (scrivendo un testo ex nihilo), bensì riorganizzando frammenti dati, che in questo modo non sono più nemmeno parti di un supposto originario, ma diventano elementi autonomi aperti all’innesto e all’ibridazione. Con il risultato paradossale che questo lavoro in cui non si aggiunge nulla, alla fine aggiunge di fatto qualco-

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Questo quadro resta molto difficile da afferrare, e Deleuze stesso è consapevole di svolgere un’operazione profetica, a rischio di ogni sorta di imprecisione; ma è uno scenario ugualmente rilevante, per provare a tematizzare i contorni di un homo informaticus. 3.2.2. Dalla mano al cervello Alcuni fondamentali autori hanno tematizzato e discusso lo statuto dell’informazione, il problema di un’ontologia cibernetico-informatica e le caratteristiche di un’infosfera, in un orizzonte entro cui la filosofia dell’informazione diventa persino una nuova forma di philosophia prima, poiché esige e comporta una nuova immagine del mondo e dell’uomo20. Se intrecciamo con tali prospettive le “profezie” di Deleuze, queste rivelano più di qualche pertinenza, e si possono rintracciare in generale almeno tre elementi rilevanti rispetto alla questione di un’immagine postumana dell’umano. 1) Una de-fisicalizzazione della natura nel senso di una dematerializzazione: una pianta, un animale, un’automobile, una molecola, un ragazzo, una pietra e così via sono tutti organismi informazionali, entità fatte di informazione, prima di essere

sa, ossia il racconto che viene a prodursi, di per sé completamente originale: ecco le forze “super-piegate” del finito illimitato. 20.  Cfr. perlomeno L. Floridi, The Philosophy of Information, Oxford University Press, Oxford 2011; G. Günther, Das Bewusstsein der Maschinen. Eine Metaphysik der Kybernetik, Agis Verlag, Krefeld-Baden Baden 1957; G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione (1958), tr. it. di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine 2011. Ma si veda frattanto anche G. Pezzano, Ontologia delle macchine dell’informazione. Il pensiero e la relazione nell’epoca della loro riproducibilità tecnica, in «Mechane. International Journal of Philosophy and Anthropology of Technology», n. 1, 2020 (in corso di pubblicazione) e relativi riferimenti.

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“cose” nel senso di materia fisica, corpi. Le cose sono informazioni, flussi di informazioni, anche la “dura materia” è un flusso di dati, è portatrice di dati significativi, a un certo livello e su una data scala. 2) Una de-linguisticizzazione del logos: un gene non parla, ma ha o è un codice; un software non parla, ma ha o è un logos (linguaggio di programmazione, stringe, codici, ecc.). In breve, il logos non coincide più esclusivamente con il linguaggio umano: è la struttura informazionale stessa della realtà. O, con Deleuze (a suo giudizio grazie alla letteratura, come detto), il “linguaggio” non è più subordinato alla significazione in senso nominale-­deittico: assume connotati diversi, che lo fanno equivalere al tessuto in senso ampio informativo del mondo fisico (trasmissione, codificazione, espressione genetica, mutazione, ecc.). 3) Qualcosa che di per sé appare o dovrebbe essere “stupido” serba in realtà informazione, anzi rivela persino una qualche forma di intelligenza: sono esattamente le macchine di terza generazione, che hanno a che fare non con l’azione in senso motorio, ma con significati, o – più precisamente – con l’informazione. Si tratta dunque di macchine che non si muovono in senso stretto, bensì calcolano o pensano, regolano e si regolano. Quest’ultimo fattore è forse quello che investe in modo più “traumatico” la nostra immagine di noi in quanto umani, poiché – assai pragmaticamente – coinvolge le cose con cui abbiamo quotidianamente a che fare. Prendiamo un semplice transistor: è una macchina che in senso stretto non lavora. Le sue parti non funzionano muovendosi, come invece accade per il motore di una macchina a vapore, o per una bicicletta: non viene svolto nessun lavoro “fisico”. Eppure, è in gioco un lavoro differente, cognitivo: si esercita un controllo, una supervisione, una conduzione o una guida, come

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emerge forse ancora più nitidamente pensando alla scheda-madre di un PC o alla centralina elettronica di una motocicletta, arrivando sino alla driverless car. Si tratta appunto di un’azione “cibernetica”, di conduzione o governo, che oltretutto sembra richiedere un dispendio di energia decisamente minore rispetto a quella sollecitata dal lavoro fisico: si pensi alla poca energia che di fatto consuma la batteria di uno smartphone rispetto all’energia richiesta dell’attività di una macchina a vapore. Basta considerare un fatto soltanto apparentemente banale per cogliere la portata di ciò che sta accadendo. La potenza di un motore a scoppio si misura canonicamente in cavalli, cioè il corrispettivo di cavalli fisici che sarebbero necessari a muoversi con quella stessa velocità, a generare quella stessa forza. Invece, una scheda di memoria, una penna usb o un processore misurano la propria potenza in termini di capacità di memoria o potenza di calcolo: in termini non di una forza fisica, bensì di una forza “mentale”, o comunque cognitiva e immateriale. Quando uno dei padri dell’Information Theory, Claude Shannon, rivendicava che l’informazione va trattata come informazione ossia né come materia né come energia e imperniava la propria teoria su tale presupposto, stava operando una vera e propria rivoluzione: l’informazione diventa qualcosa di autonomo e misurabile, al di là di quale oggetto, cosa od organismo riguardi. Fino ad allora era ormai ovvio poter misurare il peso di qualcosa, fossero libri, tessuto adiposo, verdure, ossa… (1kg è sempre 1kg!): con la teoria dell’informazione viene a poter essere misurata l’informazione di cose diverse allo stesso modo, così da rendere possibile la proliferazione di macchine dell’informazione o della memoria. 1 bit è sempre 1 bit, che siano coinvolti elettroni, fotoni, segnali stradali, segnali di fumo, chip, campi magnetici, cervelli, ecc. I comportamenti di un cristallo, di un pollo o di un broker diventano commensurabili: pomodori, giraffe, umani, come organi-

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smi sovraindividuali quali alveari, colonie di batteri, foreste, città, ecc. sono comunque tutti traducibili in flussi ordinati di dati, indipendentemente dal loro grado di complessità. Ecco così che, per quello che è stato stigmatizzato come «datismo» ovvero religione del dato, «la Quinta sinfonia di Beethoven, una bolla finanziaria e il virus dell’influenza sono soltanto tre pattern di un flusso di dati che può essere analizzato usando gli stessi concetti di base e gli stessi strumenti»21. Evidentemente, ogni opera di commisurazione e riduzione ripropone la questione dell’incommensurabilità e irriducibilità; ma questo richiede uno sforzo per mutare i nostri concetti, la nostra ontologia e la nostra metafisica per “rendere conto” delle implicazioni di simile opera, piuttosto che la sua semplice stigmatizzazione o l’insistenza sulla sua vacuità. A dire: non è il mondo (informazionale, in questo caso) a essere sbagliato in quanto non aderente ai nostri quadri consolidati; è che dobbiamo sforzarci di modificare questi per rendere comprensibile un mondo che si presenta inesorabilmente con dei tratti nuovi22. Ancora per i teorici dell’informazione, l’informazione in se stessa non è altro che un dato significativo o un pacchetto di dati significativi: una differenza che fa la differenza. Questa natura puramente differenziale e immateriale (mentale o cerebrale, stiamo per vedere) dell’informazione si manifesta per esempio in uno dei fenomeni più rivoluzionari delle ICT: il

21.  Y.N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro (2015), tr. it. di M. Piani, Bompiani, Milano 2017, pp. 449-459. 22.  Come comincia opportunamente a fare, pur senza apparentemente cogliere il nesso con la rivoluzione informatica, F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 17-41. Cfr. intanto L. Candiotto - G. Pezzano, Filosofia delle relazioni. Il mondo sub specie transformationis, il melangolo, Genova 2019.

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clouding. Questo cielo pieno di nuvole è l’Iperuranio platonico: l’informazione in quanto tale è ideale, abita in cielo, non è altro appunto che pura informazione, irriducibile ad altro. È questo che le consente di passare da un dispositivo a un altro senza che il suo contenuto venga intaccato: posso accedere allo stesso pacchetto di dati significativi (immagine, video, pdf, cronologia, ecc.) prima da uno smartphone, poi da un tablet, poi da un orologio digitale, e così via (o al contempo). Certo, l’informazione in ultima istanza deve sempre essere processata e localizzata in un qualche deposito (dai server on-line alle macchine fisiche che contengono appunto le memorie su cui effettivamente i dati vengono iscritti), ma resta vero che essa di per sé non coincide con nessun deposito materiale. Se – forse – fino a oggi credevamo in fondo che avere a che fare con simili entità “virtuali” fosse, in un modo o in un altro, nostra esclusiva prerogativa, al punto da caratterizzarci in quanto tali, elevandoci rispetto a ogni altra forma di vita (perché pensanti, autocoscienti, ecc.), ora cominciamo a renderci conto che queste entità in realtà abitano il mondo in modo quasi autonomo, o perlomeno senza essere univocamente dipendenti da noi, al punto da poter essere maneggiate anche da altri esseri e oggetti – magari persino in modo più efficace di quanto riusciamo a farlo noi. È in questo senso che l’insieme del mutamento implicato dal­ l’informazione investe appieno l’immagine dell’umano. Ci troviamo di fronte a qualcosa (le “macchine al silicio”) che esibisce tratti “vitali” senza con ciò essere organico in senso stretto: non mostra i lineamenti fondamentali di ciò che per noi sarebbe associato alla vita, da cui tutti gli incubi sulle cyborg-rivolte. Meglio, magari ci eravamo finalmente rassegnati al fatto che in fondo il nostro corpo fosse carne tra le carni o meccanismo tra i meccanismi, ma scopriamo ora che anche quelle capacità che credevamo fossero a tutto tondo irriducibili all’automati-

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smo inorganico (“l’interiorità”) sembrano rivelarsi altrettanto “macchiniche”. Che cosa sta succedendo? Sinora, avevamo assistito a una forma di oggettivazione, estroflessione o esteriorizzazione (alienazione) della mano (del corpo), attraverso le macchine a carbone (e prima quelle a orologeria): ora sta avvenendo un movimento analogo, che chiama però in causa il cervello (l’anima o la mente), attraverso le macchine informazionali a silicio. Nelle più diffuse caratterizzazioni antropologico-filosofiche del rapporto tra umano e tecnica, princìpi come sostituto/integrazione, potenziamento/intensificazione ed esonero/agevolazione di organi e capacità umane tramite mediazione tecnica sono concepiti comunque in riferimento a strumenti che si rapportano alla mano, vale a dire a forze corporee23: l’aereo rispetto alle ali che non abbiamo; gli occhiali rispetto alla vista che si indebolisce; la lavatrice rispetto al lavaggio a mano. Eppure, questi stessi princìpi riguardano anche il cervello, cioè le capacità cognitive, o – meglio – le “cerebrotecniche”. Certo, questo era già vero per il nesso “cerebrotecnico” tra linguaggio e pensiero, sia filogeneticamente (lo voleva anche Gehlen stesso), sia ontogeneticamente (le note analisi di A. Leroi-­ Gourhan). Tuttavia, a partire dalla diffusione delle “macchine di Turing”, ciò che anche M. McLuhan dipingeva come processo di estensione del sistema nervoso è diventato sempre più evidente, sino ad arrivare all’odierna «società informazionale»24, nella quale le macchine si interfacciano in modo più diretto e

23.  Emblematico p.e. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale (1956), tr. it. di M.T. Pansera, Armando, Roma 2003, pp. 32-33. 24.  Come voleva già M. Castells, La nascita della società in rete (1996), tr. it. di L. Turchet, Egea, Milano 2002.

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penetrante con i nostri confini corporei ovvero con le nostre stesse facoltà “interiori”. È vero, una macchina che genera componenti per autovetture modifica l’operaio che la manovra, ma la sua funzione è trasformare il mondo fisico esterno all’operaio ovvero produrre pezzi; al limite, tale macchina modifica direttamente “l’animo” dell’operaio, ma non quello del consumatore. Invece, le macchine informatiche innanzitutto producono capacità o relazioni, interazioni significative: qualcosa di immateriale e intangibile, un cervello. Volendo, la prima “tecnologia cerebrale” globale di impatto antropogenetico fu l’alfabeto, l’“invenzione” della scrittura, prima memoria esterna della storia poi successivamente “ripotenziata” attraverso la stampa e la sua diffusione. Conosciamo la reazione suscitata da questo tipo di tecnologia (Platone docet): la scrittura “avvizzisce” l’anima e le sue capacità, perché se è il testo scritto a ricordare, la memoria “reale” si atrofizzerà. L’alienazione del cervello via scrittura fu sconvolgente. È però noto anche il resto della storia. Grazie alla scrittura, intanto abbiamo potuto dedicarci ad altro, esplorando e fortificando altre capacità: con la lista della spesa scritta, da non ricordare a memoria, posso dedicarmi all’osservazione di un bel quadro, per dire. Poi, soprattutto, abbiamo imparato a fare qualcosa di nuovo con, da e su la scrittura stessa, qualcosa di molto importante: pensare, o – perlomeno – pensare linearmente, in sequenza25. Se prendiamo davvero sul serio la dimensione antropogenetica della tecnologia, nonché più in generale di ogni forma di

25.  Cfr. in merito D. De Kerckhove, Dall’alfabeto a Internet. L’homme “littéré”: alfabetizzazione, cultura, tecnologia (1988), tr. it. di A. Caronia, Mimesis, Milano-Udine 2008.

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mediazione e relazione, nel rapporto con cose e strumenti è sempre in gioco un’individuazione effettiva, una trasformazione reale dell’uomo, che investe il complesso delle sue facoltà, intese proprio come effettive capacità e competenze. Perché ciò non dovrebbe valere anche oggi? E perché ciò dovrebbe – stavolta davvero! – comportare l’apocalisse26?

4. Conclusioni. L’Hipster-Aristotele Non intendo celebrare le nuove tecnologie, né paventare un determinismo tecnologico guidato a trazione ICT. Più semplicemente, voglio sottolineare che l’infosfera, per chi ne è coinvolto (aspetto tutt’altro che secondario), rappresenta a tutti gli effetti una “trasformazione epocale”, e richiede anche un correlato sforzo antropologico-filosofico, per domandarsi se sia realmente possibile giungere a “esteriorizzare” il cervello. Dobbiamo cioè domandarci che cosa possono insegnarci sul nostro pensiero, su di noi, le macchine di nuova generazione, che in effetti sembrano aspirare a pensare, o – perlomeno – a calcolare, computare e immagazzinare dati. La cosiddetta rivoluzione informatica, pertanto, ci ferisce nel senso sopra discusso (cfr. § 2): ci mette in crisi e ci chiama a riformulare il modo in cui ci poniamo nei confronti di noi stessi e del mondo. Sopra ogni cosa, il mondo immateriale e interattivo dell’informazione modifica addirittura il criterio stesso di esistenza, rimettendo in questione che cosa significhi essere in ultima istanza reale: proprio per questo, serve una sorta di nuo-

26.  L’esempio forse più rilevante dell’apocalittica contemporanea è B. Stiegler, proprio perché muove dal riconoscimento della dimensione antropogenetica di ogni “macchina”: cfr. perlomeno in merito i saggi nel numero monografico di «aut aut», n. 371, 2016.

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va narrativa, una storia generale da raccontare a noi stessi, che parli delle nostre caratteristiche come dei nostri progetti27. Nell’infosfera, esistere a pieno titolo, realmente, non significa essere immutabili o percepibili; piuttosto, lo stigma dell’esistenza sarebbe l’interattività o interagibilità: esse est interagendum, esistere è essere interattivo, indipendentemente dal fatto che l’interazione possa coinvolgere qualcosa di transitorio o virtuale. In questa cornice, i processi diventano più fondamentali delle cose, le relazioni più fondamentali degli oggetti. Ma questo deve appunto valere anche per la nostra esperienza e la nostra immagine di noi stessi: perché concentrarsi sul fatto che un software possa tradurre meglio di noi, arrivando a espropriarci di qualcosa che apparterebbe solo a noi, anziché domandarsi in che modo possiamo fecondamente interagire con esso? Perché preoccuparsi che un computer pensi al posto nostro, anziché chiedersi come possiamo pensare diversamente con e attraverso esso? D’altronde, è quanto concretamente già facciamo e stiamo facendo: interfacciarci28. Se assumiamo homo informaticus come immagine, allora – per esempio – ci possiamo accorgere che Google non rende né semplicemente più stupidi, né meramente più intelligenti29:

27.  È in quest’accezione che Floridi, rifacendosi alla canonica triade Copernico-Darwin-Freud, parla appunto di «quarta rivoluzione»: cfr. anche i suoi La rivoluzione dell’informazione (2010), tr. it. di M. Durante, Codice, Torino 2012, e La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (2014), tr. it. di M. Durante, Cortina, Milano 2017. 28.  Questo vale già a partire dal fatto che c’è chi lavora alle macchine, prima ancora che con esse (progettazione, realizzazione, raccolta e catalogazione dei dati, ecc.): cfr. più diffusamente R. Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2017. 29.  Mi riferisco ovviamente al dibattito legato al problema posto da N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (2010), tr. it. di S. Garassini, Cortina, Milano 2010.

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ci sta trasformando, cioè sta trasformando la natura della nostra stessa intelligenza, il modo in cui diventiamo intelligenti. Ancora una volta, questo di per sé non è una novità, perché dipende dalla maniera stessa in cui siamo fatti: aperti e trasformabili, immersi in una rete di relazioni. Non c’è dubbio, alcune trasformazioni sono più consistenti e – per così dire – meno immediatamente digeribili, altre all’opposto; ma questo è quel che accade anche nelle nostre singole esistenze, umane troppo umane. Che qualcosa non sia facile, per l’essere umano non ha mai significato che fosse eo ipso impossibile o inattuabile: il problema è dotarsi delle risorse per rendere possibile l’impossibile, processo che in fondo si innesca proprio allorquando comincia a palesarsi l’impossibilità di un dato qualcosa. Cominciare a considerare qualcosa come impossibile rivela in realtà che questo sta facendo ingresso nel campo aperto del possibile, o – meglio – dell’“esigibile”. D’altronde, vedendo le cose da altra angolatura, le “macchine di terza generazione” ci fanno accorgere concretamente che – diciamo così – pensare e comprendere non sono equivalenti: è possibile pensare (o computare) senza capire (o essere consapevoli). Senza questo tipo di “automi”, questo non era di fatto riscontrabile. Meglio ancora, queste macchine rendono realmente effettiva la possibilità di pensare senza capire (è quanto fanno!), costringendoci a fare i conti con ciò e a reimmaginarci e riconcepirci alla luce di ciò, non tanto lamentando la perdita di una qualche “X”, ma al limite chiedendoci qualcosa come “che cosa oggi possiamo dire di essere sempre stati?”. È in gioco una peculiare “inversione” di ciò che altrimenti era scontato o anzi non considerato: prima erano soltanto esseri comprendenti-consapevoli a pensare-computare (le persone), perlomeno in certi termini e su certa scala – una pascalina e un tablet non sono paragonabili né per le loro capacità né per la loro diffusione. Addirittura, si è acutamente notato che tali

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macchine esplicitano (cfr. supra, § 2) che è sempre esistito un processo di costruzione di competenze senza comprensione, cioè senza una pre-rappresentazione della forma che le competenze avrebbero assunto o dovevano assumere: l’evoluzione naturale, un progetto senza Progettista Intelligente30. In ultima istanza, non ci stiamo appunto “espropriando” del pensiero; piuttosto, stiamo riorientando il nostro stesso modo di intendere e praticare il pensare. Detta altrimenti, homo informaticus non delega tutto alle macchine, compreso il pensiero, fino a scomparire (come accadrebbe in ogni “Anno Mille”), né smette di porsi domande sul proprio statuto, di auto-comprendersi: è invece l’essere umano che si sta riconfigurando o trasformando alla luce di nuove sollecitazioni, che sta cioè facendo nuova esperienza e sta imparando qualcosa di nuovo su di sé. Che sta – nuovamente – divenendo umano. Per concludere, provocatoriamente, immaginiamoci uno Pseudo-Aristotele contemporaneo, una sorta di Hipster-Aristotele, che nell’opera Infopolitica riformula uno dei più noti passaggi aristotelici: se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo e, come dicono facciano le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto i quali, a sentire il poeta, “entrano di proprio impulso nel consesso divino”, così anche le macchine guidassero da sé e le intelligenze artificiali scegliessero e preparassero la colazione e i pasti da sé, i viaggiatori non avrebbero bisogno di guidatori, né i CEO di assistenti personali.

Speranze o profezie non cancellano il modo spesso fragoroso in cui alla fine si impatta con la realtà, ma occorre riconoscere che davvero siamo nel cuore di una metamorfosi complessiva

30.  Lo ribadisce a più riprese D.C. Dennett, Dai batteri a Bach, cit.

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delle cose e del nostro modo di interfacciarci a esse: solo da qui possono nascere qualcosa come un «umanesimo digitale»31 o una «vita 3.0»32.

31.  Cfr. quantomeno M. Doueihi, Pour un humanisme numérique, Seuil, Paris 2011. 32.  Cfr. M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (2017), tr. it. di V. Sala, Cortina, Milano 2018.

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Uomini senza umanità L’uomo nel contesto della Verwindung der Metaphysik Luca Bianchin

Voi verrete rapiti da un dio purché sappiate che dio invocare. (Gottfried Benn) Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori e creatori perché di costoro ha bisogno la sua essenza? (Martin Heidegger)

Se il dibattito attorno al problema dell’umano ha, oggi, un’importanza così viva lo si deve senz’altro anche a Nietzsche; e se è certo che il dibattito attorno all’eredità nietzschiana non si è ancora concluso (e tarderà a farlo), è altrettanto certo che questa eredità esiste e ha esercitato un influsso enorme nel tentativo compiuto dal Novecento di comprendere le proprie ragioni storico-culturali. Dalla filosofia alla letteratura, dalla musica alle arti visive: ovunque, nel mondo spirituale dell’Occidente, si è stesa «l’ombra lunga di Nietzsche»1. Un incontro, quello tra questo pensatore e il mondo che lo ha letto, la cui capillarità e dirompenza sembrano inverare la “profezia” contenuta 1.  L’espressione, invero molto felice, è usata da Franco Volpi per titolare un articolo uscito per il quotidiano «La Repubblica», I lumi e l’ombra lunga di Nietzsche, l’8 dicembre 2000.

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nel noto aforisma nietzschiano: «Guardo talvolta la mia mano, pensando che ho in mano il destino dell’umanità: lo spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me…»2. Scardinate le travi portanti della metafisica occidentale e portate alla luce le radici storiche della morale, rinnegati o perlomeno indeboliti i valori tramandati e consegnateci dalla nostra tradizione, l’uomo nietzschiano si muove liberato e (perciò) perso in un mondo ancora da significare. Né ousia, né ens creatum; né subiectum, né prodotto di una spiritualità assoluta: l’uomo nietzschiano, almeno nelle fasi iniziali del suo sviluppo trasformativo, deve infrangere (e infrangersi contro) i limiti inaggirabili della sua finitezza costitutiva, sapendo che nessun Grund, nel nulla che frattanto va creando attorno a sé, può sostenere il peso della sua caduta. L’uomo è apprezzabile solo come «mezzo», non come scopo; in ogni caso, egli resta niente più che un «ghigno». Tuttavia, la libera danza dello Zarathustra e l’euforia del canto del mezzogiorno, descritti e invocati da Nietzsche come la felice conclusione del dramma nichilistico, dove dalle rovine dell’uomo sconfitto emerge trionfale «un trasformato, un circonfuso di luce», sembrano però tardare, disattendendo le speranze di coloro i quali li invocano. Non sembrano darsi, cioè, le condizioni per un superamento attivo di tale impasse, grazie al quale questa soggettività frammentata dovrebbe individuare quelle forze capaci di trasfigurare l’architettura assiologica che la sorregge. In questo orizzonte problematico molte soluzioni sono state prospettate: dall’inizio del secolo scorso, fino ad oggi, sono state consegnate interpretazioni tra le più diverse, in una ricchezza prospettica che testimonia l’urgenza della domanda, indipendentemente dal contesto in cui essa sorge. Fra tutte, però, una spicca e sembra ergersi sulle altre; mi riferisco a quella di Martin Heidegger. 2.  F. Nietzsche, Frammenti postumi. 1988-1989, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VIII/III, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 19862, p. 409.

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La lettura heideggeriana, che qui viene preferita, si distingue per il particolare gesto ermeneutico che la caratterizza3: il pensiero nietzschiano – e la domanda sulla natura (sulla provenienza e sul compito) dell’uomo, da esso veicolata – non viene difatti analizzato, studiato, criticato in quanto tale, ma ricondotto all’interno di una parabola storico-metafisica più ampia, che precede questo stesso pensiero e in qualche modo lo determina. Nietzsche, dunque, ma non solo. Prima e più originaria della figura di Nietzsche vi sarebbe un ben definito “sfondo” nel quale questa figura si staglia, e una cornice – i cui contorni rappresentano i confini (e i limiti) entro i quali il quadro della tradizione metafisica occidentale trova la sua risoluzione e il suo compimento. Quello che ci si propone qui è di esaminare in che modo Heidegger inquadra il problema dell’umano (o, se si preferisce, dell’uomo) all’interno dell’in-

3.  Una delle sfide filosofiche più significative intraprese da Heidegger durante il suo percorso di pensiero è senz’altro quella che lo vede impegnato, a partire dalla metà degli anni Trenta fino all’inizio degli anni Quaranta, in un confronto col pensiero nietzschiano. Ne sono chiara testimonianza i corsi universitari tenuti dal 1936 al 1941 (con una sola interruzione nel 1938 per motivi personali), raccolti successivamente nel volume XXI della Gesamtausgabe che porta il titolo, omonimo, di Nietzsche (in realtà Heidegger terrà nel semestre invernale 1941-’42 un corso sull’inno hölderliano Andenken; inizialmente però i programmi erano diversi, e prevedevano un corso su Nietzsche dal titolo La metafisica di Nietzsche, come testimoniano gli appunti stilati nel 1940 e rielaborati in vista delle lezioni ancora negli ultimi mesi dell’anno. Nel 1961, le lezioni vengono comunque incluse nei due volumi che compongono il Nietzsche [M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 2005]) – volume da considerarsi, per le grandi dimensioni e per l’ampiezza della parabola ermeneutica ivi tracciata, come una delle letture più accese, lucide e (se lo si permette) feroci della tradizione filosofica occidentale; e, inoltre, come una delle opere heideggeriane più rilevanti ai fini di una ricostruzione critica del suo pensiero in quella complessa e misteriosa (ma fortunatamente ora sempre meglio documentata) parentesi che è il decennio in cui questo confronto si radica.

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dagine che egli va conducendo, intensificandola a partire dalla metà degli anni Trenta, sulla crisi della metafisica e la necessità di un suo superamento; i corsi heideggeriani dedicati a Nietzsche sono uno dei luoghi eletti a tale indagine. Si è scelto di soffermarsi su queste riflessioni, e non su quelle condotte durante gli anni Venti, perché in questi anni la critica alla soggettività – iniziata già prima di Sein und Zeit e lì approfondita con decisiva forza – subisce una svolta radicale e si inquadra in un orizzonte ermeneutico più ampio. Nel testo del 1927, infatti, il rapporto tra il superamento della soggettività tradizionale e la critica della tradizione filosofica precedente si dà nei termini di una Destruktion: una distruzione, una messa in discussione radicale di tutta l’ontologia precedente, dalla prima fondazione greca – e la sua canonizzazione aristotelica – alla sua deriva contemporanea intesa come il completo misconoscimento della questione ontologica; vi sono dunque di fatto, nell’incedere storico, due poli distinti e mai perfettamente comunicanti, se non nei termini di un superamento dialettico di un presente che critica, assumendone l’impensato e portandolo a manifestazione, un passato altrimenti deviato. Nella riflessione che Heidegger conduce a partire dagli anni Trenta, invece, il presente diviene “espressione” del passato solo nella misura in cui quel passato può essere inteso come quello Stesso presente trattenuto nella latenza. Il fondamento storico, che rappresenta l’origine di ciò che da esso scaturirà, raccoglie in sé quel presente che sarà, esattamente come quel presente che infine è stato ha portato a totale manifestazione quello che nel fondamento originario era solo raccolto a potenza e non ancora espresso in atto. La complessa architettura storico-ontologica che Heidegger erige in questi anni modifica ovviamente anche la natura delle soluzioni ai problemi filosofici che questo nuovo pensiero ontostorico assume come propri, ereditandoli dalla riflessione degli anni Venti. Tra questi, il problema qui in oggetto, quello dell’uomo, è senz’altro uno dei più rilevanti:

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quello dell’uomo che è stato (il subjectum) e quello dell’uomo che è ancora da essere (il da-sein). Compito è chiarire in che termini questo problema viene affrontato e risolto. Per prima cosa dunque, si dovranno sondare le ragioni che spingono Heidegger a superare la forma del soggettivismo metafisico, ovvero il soggettivismo moderno di matrice cartesiana; secondariamente capire in che modo Heidegger opera nella direzione di questo superamento. In merito a quest’ultimo punto, significa capire se la forza che nomina e appella il superamento di tale soggettività (diremmo poi meglio: all’interno del progetto ontostorico che determina tale soggettività) sia o non sia già iscritta all’interno di questa soggettività stessa.

1. L’uomo che è stato: il soggetto cartesiano nella prospettiva finale della volontà di potenza All’interno delle lezioni raccolte nel Nietzsche, quelle del 1940 intitolate Il nichilismo europeo4 contengono delle analisi preziose per quel che riguarda il nostro problema: qui Heidegger, in una ricostruzione originalissima del pensiero metafisico occidentale, si concentra diffusamente sul problema del soggetto – inteso come quella specifica forma umana che, da Protagora fino a Nietzsche passando attraverso Cartesio, avrebbe caratterizzato il progetto metafisico dell’Occidente. L’argomentazione heideggeriana risulta stringente. Per Heidegger, Nietzsche, assumendo come principio guida della sua interpretazione il dominio del pensiero di valore, definisce tutta 4.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 563-743. È presente anche un’edizione separata del corso, alla quale faremo qui riferimento per le indicazioni bibliografiche: M. Heidegger, Il nichilismo europeo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 20103.

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la filosofia precedente come «una metafisica della volontà di potenza»5. Heidegger tuttavia ribadisce fin da subito che vi è una differenza fra l’immagine della metafisica proposta da Nietzsche e la storia della metafisica precedente: c’è infatti un margine essenziale tra la storia della metafisica come volontà di potenza e la storia della metafisica “in quanto tale”: «Si tratta di mostrare che il pensiero del valore era e doveva rimanere estraneo alla metafisica precedente, poiché quest’ultima non poteva ancora concepire l’ente come volontà di potenza»6. La metafisica precedente (perciò anche la metafisica moderna, che qui ci interessa in modo particolare) “non sa” della volontà di potenza quale fondamento della totalità dell’ente. Tuttavia, questo “non sapere” del fondamento non implica che il fondamento stesso non sia già esperito, gettato. Infatti, «l’interpretazione dell’ente come volontà di potenza si rende possibile solo sul fondamento delle posizioni metafisiche di fondo dell’età moderna»7. Da questa considerazione nasce l’esigenza di tornare all’epoca moderna, prescindendo «dal pensiero del valore e [meditando] sul rapporto dell’uomo con l’ente in quanto tale»8. Si avvia, così, dopo un importante capitolo dedicato a Protagora9, l’analisi del pensiero cartesiano, poiché «per la fondazione della metafisica dell’età moderna, la metafisica di Cartesio è l’inizio decisivo»10.

5.  M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., p. 127. 6.  Ivi, p. 133 (corsivi nostri). 7.  Ibidem. Più avanti, riferendosi al nuovo concetto di libertà che si origina dalla modernità, Heidegger scriverà che «la “potenza” nel suo senso moderno rettamente inteso, cioè come volontà di potenza, diventa metafisicamente possibile soltanto come storia dell’età moderna, e non prima» (ivi, p. 171). 8.  Ivi, p. 151. 9.  Cfr. ivi, pp. 160-167. Per un confronto sulle posizioni metafisiche di Protagora e Cartesio cfr. ivi, pp. 202-209. 10.  Ivi, p. 174.

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Qual è dunque, per Heidegger, la “funzione” di Cartesio? Quella di fondare il fondamento metafisico per la liberazione dell’uomo nella sua nuova libertà in quanto autolegislazione sicura di se stesso.11

Tale «autolegislazione» è precisamente quella certezza del porre di cui l’uomo si investe nella rappresentazione; quella certezza del porre sì costituita «che l’uomo potesse sempre assicurarsi da sé di ciò che rende sicuro il procedimento di ogni proposito e di ogni rappresentazione umani»12. Ritornano utili le analisi svolte in precedenza sulla rappresentazione, ora riproposte e ulteriormente specificate. Se, infatti, c’è «un tratto essenziale della cogitatio [che] ancora non abbiamo colto», questo è che «ogni ego cogito è un cogito me cogitare; ogni “io rappresento qualcosa” rappresenta al tempo stesso “me”, cioè colui che rappresenta (davanti a me, nel mio rap-presentare). Ogni rap-presentare umano è, secondo un modo di dire facilmente fraintendibile, un rap-presentar-“si”»13. Per Heidegger, Cartesio è colui il quale introduce per la prima volta nel pensiero metafisico il fenomeno dell’autocoscienza14, L’aver individuato la dinamica di tale fenomeno permette a Heidegger di sottolineare (e fondare) con più forza e rigore il costituirsi dell’uomo moderno come subjectum. Ma non solo: se l’uomo, in ogni rappresentare, oltre al rap-presentato, rap-presenta se stesso, se «l’uomo che rap-presenta, per essenza, è già subentrato anch’esso nel rap-presentato entro il rap-presentare», allora è evidente che in ogni rappresentare è decisa «l’essen-

11.  Ivi, p. 175. 12.  Ivi, p. 176. 13.  Ivi, p. 183. 14.  «La coscienza umana è per essenza autocoscienza» (ivi, p. 185).

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ziale appartenenza di chi rap-presenta alla costituzione del rap-presentare»15. Giunto a una adeguata chiarificazione del cogito, Heidegger lo inserisce nuovamente all’interno della formula ego cogito, ergo sum, per cercare di spiegare questa con le nozioni ricavate dall’analisi di quello. Il suo obbiettivo è semplificare la formula cartesiana, così esposta a fraintendimenti a causa della forma con cui Cartesio stesso decise di enunciarla16. Heidegger esclude dunque l’interpretazione sillogistica: è un errore tradurre l’ergo con un “quindi”, un “dunque”. L’ergo, invece, «significa: “e con ciò vuol dire già di per sé”»17. Bisogna evitare di ricondurre l’ego cogito, ergo sum a un’analisi logico-linguistica. Si deve piuttosto forzare la forma stessa con cui Cartesio si esprime, per renderne più chiaro e immediato il contenuto essenziale. Ego cogito, ergo sum si scriverà, allora: «Ego cogito, ergo: sum; io rappresento, “e ciò implica”, “in ciò è già messo e posto mediante il rappresentare stesso”: l’io in quanto essente»18. La rielaborazione della formula non è, però, ancora

15.  Ibidem. 16.  Cartesio misconosce l’essenza della sua stessa formula per due motivi: uno linguistico e, per così dire, contingente; l’altro metafisico e necessario. Il primo è riconducibile al suo tentativo di muoversi su un terreno (concettuale, filosofico e scientifico insieme) nuovo utilizzando, però, un linguaggio appartenente all’orizzonte della scolastica medievale. Il secondo, sul quale ritorneremo anche alla fine di questo paragrafo, è strettamente collegato all’essenza di ciò che la sua stessa metafisica fonda. Cartesio getta le basi per il costituirsi della volontà di potenza come carattere fondamentale dell’ente; tuttavia, tale atto fondativo è a lui celato, e potrà essere colto solo in seguito, unicamente da chi, come Nietzsche (e Heidegger, aggiungeremmo noi), si trova nel momento storico-metafisico nel quale il fondamento si svela, si compie. 17.  Ivi, p. 193; corsivi nostri. Si evidenzia l’espressione «già di per sé» per sottolineare l’implicita presenza dell’ergo nella natura del cogitare. 18.  Ibidem.

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giunta alla fine. Se si tralascia l’ego, il cui riferimento è insito nel cogito stesso (in quanto cogito me cogitare), e si omette l’ergo, perché ormai ne abbiamo chiarito il senso, la tesi suona allora: cogito sum. […] “Cogito sum” non dice né soltanto che penso, né soltanto che sono, né che dal fatto del mio pensare consegue la mia esistenza. La tesi esprime una connessione tra cogito e sum. Dice che io sono in quanto colui che rappresenta, che non soltanto il mio essere è essenzialmente determinato da questo mio rappresentare, ma che il mio rappresentare, in quanto re-praesentatio determinante, decide sulla presenza [Präsenz] di ogni rappresentato, […] cioè sull’essere di quest’ultimo in quanto ente. La tesi dice: il rap-presentare […] pone l’essere come rappresentatezza e la verità come certezza.19

Con questo, l’analisi del pensiero cartesiano volge alla fine. L’ultima cosa che Heidegger considera (piuttosto brevemente) è la diversità con cui Cartesio enuncia la scoperta di un essere «la cui essenza o natura [è] esclusivamente di pensare»20: ego cogito, ergo sum e sum res cogitans. Heidegger non vede nelle due formulazioni alcuna differenza, poiché, anche nella formulazione in ordine alla res resta costante il riferimento al cogitare – quindi, di fatto, non muta il richiamo all’essenza rappresentativa del subjectum anche se questo è esplicitato nei termini della sostanzialità e non dell’egoità. Infatti, sia che il soggetto sia formalmente espresso nei termini dell’egoità, sia in quelli della sostanzialità (o, addirittura, della cosalità), per Heidegger è indifferente: la soggettività, infatti, si esprime come un rap-presentare. Il subjectum, l’uomo nel senso di colui che rap-presenta, non abbisogna di specificazioni on-

19.  Ivi, pp. 193-195. 20.  R. Descartes, Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 45.

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tologiche ulteriori, perché esso è sì definito nella rappresentazione: essere rap-presentante21. Se Heidegger interrompe l’analisi dedicata strettamente a Cartesio, lo fa per poter accostare la sua posizione metafisica, ora quasi del tutto chiarita, a quella di Nietzsche. Lo scopo è «vedere che Nietzsche sta sul fondamento della metafisica posto da Cartesio, e in che misura egli non possa non starvi»22. Heidegger si avvantaggia, in tale confronto, studiando le critiche nietzschiane a Cartesio23. In questa sede non è possibile soffermarsi su tale confronto in modo dettagliato; basti prenderne in esame solo due aspetti. Il primo: Nietzsche accusa la derivazione cartesiana del concetto di soggetto dal concetto di sostanza, quando dovrebbe essere il contrario – in quanto per Nietzsche il secondo è una conseguenza del primo. Interessante è la posizione che Heidegger assume in merito. Per lui, Nietzsche non comprende come «il concetto di soggetto non [sia] altro che la limitazione del mutato concetto di sostanza all’uomo»24. Ribadisce ciò che aveva detto in precedenza: nell’epoca moderna, a partire da Cartesio, non c’è differenza fra soggetto e sostanza, perché, risolvendosi nella rappresentazione, coincidono25. Il secondo: Nietzsche, a Cartesio, contesta la soggettività nel 21.  «Sum res cogitans non vuol dire dunque: sono una cosa dotata della proprietà del pensare, ma: sono un ente il cui modo di essere consiste nel rappresentare, cosicché questo rap-presentare pone nella rappresentatezza anche colui che rap-presenta» (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., p. 197). 22.  Ivi, p. 209. 23.  Cfr. ivi, pp. 209-229. Per una ricapitolazione in punti delle posizioni di Cartesio e di Nietzsche, cfr. ivi, pp. 229-231. 24.  Ivi, p. 220. «Il concetto di soggetto scaturisce dalla nuova interpretazione della verità dell’ente […] per il fatto che sul fondamento del cogito sum l’uomo diventa ciò che propriamente sta-a-fondamento, ciò che substat, la sostanza» (ibidem). 25.  Si sottolinea nuovamente che la coincidenza di uomo, soggetto e sostanza è possibile, nella modernità, solo là dove l’uomo viene «inteso come colui che

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senso dell’egoità della coscienza che pensa: «Ciò che sta a fondamento non è per Nietzsche l’“io”, bensì il “corpo” [Leib]»26. Tuttavia, per Heidegger, il fatto che il primato sia affidato al corpo, piuttosto che alla coscienza, «non cambia nulla della posizione metafisica di fondo fissata da Descartes»27. Più che errori interpretativi (non dimentichiamo che Heidegger stesso giustifica la possibilità di forzare il pensiero di un autore)28, quelli di Nietzsche sono tentativi ermeneutici di comprendere il pensiero moderno. Che Nietzsche cada vittima di fraintendimenti, è dovuto al fatto che lui stesso si pone sul fondamento di ciò che Cartesio ha fondato: la presa di posizione di Nietzsche rispetto a […] Cartesio è sotto ogni riguardo la prova del fatto che egli misconosce l’intima connessione storico-essenziale della propria posizione metafisica di fondo con quella cartesiana.29

rappresenta e nel cui rappresentare sono fissati (fest-gestellt) nella loro coappartenenza ciò che è rappresentato e chi rappresenta» (ibidem; corsivo mio). 26.  Ivi, p. 225. 27.  Ivi, p. 226. Infatti, per Nietzsche «il corpo è da anteporre “metodicamente”. Il metodo è l’importante» (ibidem. Per un’analisi del metodo, inserita nell’orizzonte teorico della mathesis, si veda M. Heidegger, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, a cura di V. Vitiello, Guida, Napoli 1989, p. 120). Il movimento di “inversione dei poli metafisici” che dà a Nietzsche l’impressione, per Heidegger erronea, di uscire dal contesto metafisico, è criticato anche, in una prospettiva generale, in M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 2010, pp. 73-81. 28.  Se per un brevissimo momento Heidegger sembrerà criticare la flessione a cui il metodo nietzschiano sottopone la realtà storica («Né Hegel né Kant, né Leibniz né Cartesio, né il pensiero medievale né quello ellenistico, né Aristotele né Platone, né Parmenide e nemmeno Eraclito sanno della volontà di potenza quale carattere fondamentale dell’ente»; M Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., p. 130), subito ne prende le difese appellandosi al Nietzsche della seconda delle Considerazioni inattuali (cfr. ivi, p. 131). 29.  Ivi, p. 229.

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Poiché tale misconoscimento è necessitato dall’«essenza della metafisica della volontà di potenza»30, e la volontà di potenza è resa «metafisicamente possibile soltanto come storia dell’età moderna»31, quindi come filosofia cartesiana, allora la metafisica di Nietzsche sarà «il compimento della metafisica moderna e al tempo stesso il compimento della metafisica occidentale»32. Nietzsche porta a compimento ciò che Cartesio fonda. Paradossalmente, Nietzsche è più cartesiano di Cartesio stesso, perché soltanto con lo svelarsi del fondamento esso dispiega, nel suo compiersi, la sua piena essenza di fondamento33. Heidegger stabilisce, così, una “direzione metafisica” a senso doppio: v’è un inizio cartesiano e una fine nietzschiana, ma, allo stesso tempo, solo quella fine che la metafisica di Nietzsche è dà ragione dell’iniziale fondamento di Cartesio, lo dispiega, lo rivela, lo svela34. In questo modo Heidegger porta alla luce quei rigidissimi contorni propri non solo della soggettività cartesiana stessa, ma anche dell’orizzonte metafisico nel quale questa si staglia. Difatti, già in Sein und Zeit (e, invero, anche prima)35 egli aveva argomentato con il fine 30.  Ibidem. 31.  Ivi, p. 171. 32.  Ivi, p. 233. 33.  «Egli [Nietzsche] pensa lo Stesso [di Cartesio] nel compimento storico essenziale» (ivi, p. 178). Ancora: «Con la metafisica di Nietzsche incomincia la storia del compimento di ciò che, in metafisica, si avvia con Cartesio» (ibidem; corsivi nostri). 34.  Emerge qua, secondo un’efficace espressione di Morani, quello che potrebbe essere definito una sorta di «cartesianesimo di Nietzsche e [di] potenziale nietzschianesimo di Cartesio» (R. Morani, Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 333). 35.  Si veda in particolare il corso del 1925, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, ed. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, il melangolo, Genova 1999.

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di “aprire” il soggetto moderno a una Welt che non risultasse più esterna (e “interiorizzata”, fatta propria, solo in seguito a meccanismi rappresentativi), ma già da sempre inclusa (ontologicamente) in un progetto di volta in volta determinato dal Dasein in base alle proprie possibilità esistentive; tuttavia, solo a partire dagli anni Trenta questa critica riceve una nuova spinta, e la “chiusura” di tale soggettività è motivata dalla “chiusura” del progetto dello Seyn – quella nuova modalità di pensare l’Essere36 che Heidegger elabora proprio a partire dall’inizio di questo decennio – il quale impone se stesso, all’interno della storia della metafisica, nella forma nota della presenza (Anwesenheit)37. Ora, le domande che dovremmo porci sono le seguenti: in che modo – considerate le direttrici principali tracciate fin qui, capaci di disegnare il quadro generale all’interno del quale si muovono le riflessioni heideggeriane – viene “aperto” il darsi (il wesen) dell’Essere? Soprattutto, è questo aprire (intenso nella sua forma non riflessiva) possibile – è nelle mani dell’uomo tale decisione? E se sì, a quali condizioni – come deve a sua volta “trasformarsi” l’uomo affinché si renda attore di/in questa apertura?

36.  Anche se l’uso di termini Seyn e Sein verrà chiarito più sotto, anticipiamo fin da subito che traduciamo il primo con “Essere” e il secondo con “essere”. 37.  Tale Anwesenheit è solo uno dei modi di concepire la presenza (quello adoperato dalla tradizione filosofica occidentale a partire, come mostra già Sein und Zeit, dalla prima fondazione greca), ma non il fondamentale, il quale, semmai, coincide invece con la Anweseung (des Seyns), il «venire alla presenza (dell’Essere)», che è l’espressione massima della Wesung (des Seyns), la «permanenza essenziale (dell’Essere)». Su questo ci soffermeremo più avanti.

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2. L’uomo che è da-venire: il da-sein nella prospettiva della Verwindung der Metaphysik Le riflessioni condotte da Heidegger durante gli anni Trenta (che influenzeranno, è giusto ricordarlo, tutto il pensiero dell’Heidegger maturo)38 non sono mai raccolte dall’autore in forma sistematica. Possediamo senz’altro un gran numero di interventi pubblici (seminari, conferenze, interviste), corsi universitari e persino carteggi; ma la loro peculiarità è quella di soffermarsi sempre su un tema specifico, particolare, d’occasione: sembra vi sia un orizzonte “più” generale, lontano e sempre taciuto, che regge le e dà ragione delle intuizioni ermeneutiche ivi contenute, senza però che il loro fondamento “più originario” sia mai confermato. Con la pubblicazione dei cosiddetti trattatati ontostorici – il cui primo (per stesura, pubblicazione e probabilmente anche importanza) porta il titolo di Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis)39 – e dei più recenti Schwarze Hefte, si è potuto fortunatamente vedere il materiale utilizzato da Heidegger in quegli anni: terreno fecondissimo e di estrema importanza per gli studiosi, poiché capace di mostrare dove e come nacque una certa terminologia, e in cosa e perché la Kehre che conduce il pensiero verso

38.  Si vorrebbe far notare che se Heidegger è rimasto fedele per un decennio (durante gli anni Venti) a quell’impostazione di matrice fenomenologico-trascendentale che vedrà in Sein und Zeit il suo frutto più maturo, le intuizioni che elaborerà a partire dalla metà degli anni Trenta (ma in nuce rinvenibili già in certe dichiarazioni all’inizio del decennio) non verranno in seguito più abbandonate, rinnegate, nemmeno criticate. Ciò testimonia una fedeltà, spesso sottovalutata dagli interpreti, lunga più di trent’anni, verso un certo paradigma di pensiero che (pur se dialetticamente mai del tutto critico verso i guadagni del Ventisette) senz’altro segna un punto di arresto fondamentale in tutta la parabola filosofica di Heidegger (diremmo noi: in tutta la filosofia del Novecento). 39.  M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), tr. it. di A. Iadicicco e F. Volpi, Adelphi, Milano 2007.

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il “secondo” Heidegger sia ineludibile ai fini di una corretta comprensione del contenuto di quel pensiero stesso. Questo materiale, tuttavia, non è collezionato da Heidegger in modo strutturato e sistematico. Pur possedendo, da una certa distanza, un’organizzazione corale (si pensi a come sono organizzati i sette trattati, che di volta in volta approfondiscono, uno a uno, i grandi problemi esposti primariamente nei Beiträge), a uno sguardo ravvicinato, analitico, attento alla coerenza interna di un’argomentazione valida, questo materiale sembra invece caratterizzato dall’ambiguità, dalla frammentarietà, da una certa dissonanza. Concepiti né come diari, né come appunti, né tantomeno come trattati filosofici comunemente intesi, questi “trattati” sui generis non si lasciano catturare dall’interprete secondo un approccio ordinario, ma ne esigono uno differente. È dunque conveniente accostarsi a questo stile particolarissimo con meno diffidenza di quella che innanzitutto potrebbe suscitare. Le ragioni dello studioso dovrebbero essere quelle di comprendere perché Heidegger abbia provocato il suo pensiero a tal punto da conferirgli una forma (che lascia traccia nello scritto) così ambigua e fuggevole. Scrive Heidegger: «Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare»40. Qual è questa questione? Naturalmente quella dell’Essere, il problema per eccellenza secondo le riflessioni heideggeriane, che a un certo punto sembra configurarsi in modo del tutto diverso rispetto a quanto fatto in precedenza – e così facendo sembra imporre al pensiero che lo segue, a sua volta, una svolta, una Kehre. Tale Kehre, tuttavia, non è arbitrio di questo stesso pensiero, né può essere semplicemente compresa alla luce di un diver-

40.  M. Heidegger, Il principio di identità, in Id., Identità e differenza, ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009, p. 27.

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so paradigma epistemologico o metodologico. È primariamente un fatto ontologico. È l’Essere che innanzitutto è kehrig, turnante, svoltante. Se già in Sein und Zeit Heidegger aveva tentato di negare all’essere (Sein) il puro dominio del presente, ponendolo in relazione alla Zeitchlickheit del Dasein e alla Temporalität dell’essere stesso, quindi pensandolo – pur se nell’orizzonte di un’intransigente finitudine – in un divenire essenzialmente dinamico, è a partire dai Beiträge che questa intrinseca motilità viene esagerata, esasperata e portata alle sue estreme conseguenze. Da qui l’esigenza di storicizzare (e non solo temporalizzare) l’esperienza ontologica e di coniare il neologismo Seyn per differenziarlo dallo Sein della tradizione. Infatti, se quest’ultimo è l’essere così come lo pensa la filosofia occidentale, quindi, appunto, coniugato all’indicativo presente come l’essente che è, l’ente, il primo indicherebbe l’essere (o meglio, l’Essere) in sé, prima e al di là di ogni possibile teoresi. È proprio quest’Essere a determinare grazie alla sua dinamica essenziale l’indirizzo ultimo del pensiero: è proprio quest’Essere che, svoltando, impone al pensiero di svoltare a sua volta. Ma in che termini pensare la Kehre? In che modo pensare questa svolta – e, dunque, questa motilità dell’Essere? Come l’Essere si impone – e si è imposto – nella (nostra) storia? Emergono da questi interrogativi alcune riflessioni profonde sulla natura (e sul destino) della nostra epoca. Come testimoniano le pagine del Nietzsche, l’urgenza di Heidegger è quella (in questo caso attraverso l’analisi del pensiero nietzschiano) di dare adeguate risposte al problema del nichilismo: l’epoca del totale dispiegamento della tecnica a livello planetario, ovvero l’epoca del totale oblio dell’Essere in favore dell’ente: Ovunque e sempre la macchinazione [Machenschaft] […] spinge l’ente a occupare l’unico rango e fa dimenticare l’essere. Ciò che propriamente accade è l’abbandono dell’ente

271 da parte dell’essere: cioè che l’essere lascia l’ente a esso stesso e in questo si rifiuta.41

La nostra epoca sarebbe dunque caratterizzata dall’abbandono dell’Essere, dalla sua fuga, la quale lascerebbe spazio unicamente all’essente in quanto tale, ridotto ormai nella forma del Gestell a puro Bestand42. Il movimento dell’Essere, così inteso, sarebbe dunque un movimento di assoluta negazione e di privazione: un movimento apparentemente elusivo una qualche forma di dialettica, ma solamente affermante la sua sola negazione: «Abbandono dell’essere: il fatto che l’Essere abbandona l’ente, lo rimette a se stesso e lo lascia diventare oggetto della macchinazione»43. Se vi è una Kehre dell’Essere, essa sarebbe dunque caratterizzata da questo tipo di movimento negativo – e la forma che tale movimento traccerebbe sarebbe una forma invisibile, nascosta, velata, nella quale l’unica emersione possibile è solo quella dell’ente corrotto dalla macchinazione e presente nella storia come ente-presente. La situazione evidenziata dalle analisi heideggeriane non è tuttavia così semplice, e argomentazioni in favore dell’univocità di questo movimento non paiono trovare spazio nelle pagine di quegli anni. Semmai, Heidegger intende mostrare come

41.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 560. 42.  «Ciò che così è impiegato ha una sua propria posizione. La indicheremo con il termine Bestand, “fondo”. […] La parola “fondo” prende qui il significato di un termine-chiave. Esso caratterizza niente meno che il modo in cui è presente (anwesen) tutto ciò che ha rapporto al disvelamento-provocante» (M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 12), dove «quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come “fondo” ciò che si disvela noi lo chiameremo il Ge-stell, im-posizione» (ivi, p. 14). 43.  M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 131. Sulla macchinazione si veda anche ivi, pp. 144-155, e M. Heidegger, La storia dell’essere, tr. it. di A. Cimino, Marinotti, Milano 2012, pp. 151-170.

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proprio questo movimento presenti, in realtà, una complessità non immediatamente risolvibile identificando la negazione dell’Essere come il momento negativo del suo sviluppo; essa andrebbe invece pensata, piuttosto, come il momento fondamentale del suo darsi: In quanto questo rifiuto (Verweigerung) [dell’Essere] viene esperito, è già accaduta una radura dell’essere, giacché tale rifiuto non è niente, non è nemmeno qualcosa di negativo, un mancare e una interruzione (Ab-bruch). È la prima iniziale manifestazione dell’essere nella sua problematicità – in quanto essere.44

In sostanza, quando l’Essere si nega – e questo lo fa a partire da quello che Heidegger chiama «il primo inizio del pensiero», ovvero l’inizio della metafisica occidentale45 – allo stesso tempo esso si dà. È infatti possibile, anzi, necessario46, scorgere nel negarsi dell’Essere una «risonanza» (Anklang)47. In tale risonanza è concesso udire l’eco dell’originario darsi dell’Essere – ma il suo darsi come negarsi. Detto altrimenti: compito del pensiero del «secondo inizio» – quel secondo inizio che sarà solo in virtù dei «venturi»48 – è quello di scorgere questa risonanza, quindi accordarsi ad essa, quindi individuare le “tracce” dell’Essere, del suo manifestarsi, del suo esibirsi nel suo negarsi, nel suo diniego (Versagung) e, infine, persino nel

44.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 560-561. 45.  Si veda in particolare M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., pp. 7992. Si veda inoltre anche M. Heidegger, L’evento, ed. it. a cura di G. Strummiello, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 25-46. 46.  Dice Heidegger al riguardo: «La somma necessità: la necessità dell’assenza di necessità» (di tale riconoscimento) (M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 127). 47.  Cfr. ivi, pp. 126-180. 48.  Heidegger tratta dei venturi (Zu-künftigen) nella penultima (breve) Fuge dei Beiträge (cfr. ivi, pp. 385-393).

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suo rifiuto (Verweigerung). Seguendo i versi hölderliani «wo aber Gefahr ist, wächst / das Rettende auch», Heidegger riconosce nel momento di somma criticità l’elemento potenzialmente redentivo. Se la storia filosofica dell’Occidente è stata caratterizzata dalla metafisica che ha sempre pensato l’essere come presenzialità (“rispondendo” così al movimento ritrattivo dell’Essere stesso, che si nega in favore dell’ente)49, allora diviene necessario, a partire dalla risonanza interna a questa storia stessa, un contro-movimento in grado di riabilitare l’Essere nella sua incipiente dinamica manifestativa. Heidegger scrive: La risonanza dell’Essere vuole riprendere l’Essere nella sua piena permanenza essenziale in quanto evento svelando l’abbandono dell’essere, e ciò può accadere solo riconducendo tramite la fondazione dell’esser-ci l’ente all’Essere che si apre nel salto.50

Riappare qui, inserito all’interno dell’ordine argomentativo che stiamo cercando di ricostruire, il termine esser-ci; quel termine (e quel problema) dal quale eravamo partiti, e che sembrava avessimo messo da parte, torna ora a occupare la nostra attenzione – e lo fa ponendosi al centro, come elemento apparentemente (ed effettivamente, come vedremo) risolutivo. L’esser-ci, attraverso la sua «fondazione», è quel “qualcosa” (non sappiamo ancora cosa sia) che permette, attraverso un «salto», di portare alla luce la «permanenza essenziale» dell’Es-

49.  «L’abbandono dell’Essere è nel fondo una de-generazione (Ver-wesung) dell’Essere. L’Essenza è stravolta e solo così si porta nella verità come correttezza del rap-presentare – νοειν – διανοειν – ιδέα. L’ente resta ciò che si presenta, ed è autenticamente ente ciò che è stabilmente presente e ciò che in tal modo condiziona ogni cosa (Bedingendes), l’in-condizionato, l’Absoluto, l’ens entium, Deus, ecc.» (ivi, p. 135). 50. Ivi, p. 135.

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sere (ovvero il suo “trattenersi presso di sé”, cioè il suo ritrarsi) e così facendo di “ricondurre” l’ente all’Essere. Ma cos’è dunque l’esser-ci? Cambiano i rapporti, cambiano le proporzioni. Ora, non più come in Sein und Zeit, dove l’Esserci era identificato giocoforza con l’uomo, con quell’unico ente in grado di porsi la domanda sull’essere – ora l’esser-ci diventa qualcosa di essenzialmente e profondamento diverso. Diventa luogo di fondazione, o, come lo chiama Heidegger «il “framezzo” dispiegato dall’Essere stesso»51. Si perde ogni riferimento alla soggettività (a una soggettività trascendentale) e ci si colloca in uno spazio ontologico differente: L’esserci non è neppure un carattere dell’uomo, come se il termine esteso finora a tutto l’ente fosse per così dire ristretto alla funzione di designare l’essere presente dell’uomo.52 Questo accenno potrebbe destare e rafforzare l’erronea opinione secondo cui l’esser-ci, se deve essere capito in maniera essenziale e completa, andrebbe colto solo in questo riferimento all’uomo.53

L’esser-ci diventa così un “framezzo” (Zwischen), uno spazio che si apre e nel quale l’uomo deve sapersi collocare. Sembra dunque distante la prospettiva di Sein und Zeit, dove l’Esserci è definito come «questo ente, che noi stessi sempre siamo»54. Qui, l’esser-ci non è l’uomo, ma uno spazio che dev’essere preparato dall’uomo in vista di una fondazione, umana e non umana insieme: è infatti lo spazio fondativo nel quale l’uomo risponde all’appello dell’Essere e l’Essere, a sua volta, dispiega la sua essenza in quel framezzo aperto dall’irruzione dell’uomo 51.  Ivi, p. 299. 52.  Ivi, pp. 296-297. 53.  Ivi, p. 299 (corsivi nostri). 54.  M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2010, p. 19 (corsivi nostri).

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nella storia ontologica, permettendogli così di fondarsi come esser-ci. Questa (pur se semplificata) è la dinamica di quello che Heidegger chiama l’Ereignung, l’evento-appropriazione, quel momento particolare, ma essenziale (nel senso di fondativo) del più generale Ereignis, il presentarsi storico-epocale dell’Essere in quanto tale: È questo il presentarsi essenziale dell’Essere stesso: noi lo chiamiamo l’evento (Ereignis). Incommensurabile è la ricchezza del riferimento vicendevole (des kehrigen Bezugs) del­l’Essere all’esser-ci che gli è avvenuto, incalcolabile la pienezza dell’evento-appropriazione (Ereignung).55

Dunque, se vi è un uomo eccolo: «l’uomo nell’esser-ci»56. L’uomo che entra in questo framezzo e prepara le condizioni affinché arrivi, infine, l’ultimo dio. Heidegger sembra quasi rispondere alla domanda – che è anche un disperato appello – con la quale Rilke apre la prima delle sue Elegie duinesi: «Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel / Ordnungen?». Wer? Der letzte Gott, quell’ultimo Dio che non è l’evento stesso, ma che si inserisce in esso come testimone concreto della possibilità di un nuovo inizio57. «Verrete rapiti da un dio, purché sappiate che dio invocare»58, scriveva Benn; ma questa invocazione è un compito e questo compito è un destino. L’uomo dei Beiträge non decide di superare (überwinden) la metafisica, poiché questo «voler-

55.  Ivi, p. 37. 56.  Ivi, p. 300. 57.  Cfr. ivi, pp. 395-408. In merito al problema dell’ultimo Dio nel contesto die Beiträge si veda soprattutto il testo di P.-L. Coriando, Der letzte Gott als Anfang. Zur ab-gründigen Zeit-Räumlichkeit des Übergangs in Heideggers “Beiträgen zur Philosophie (Vom Ereignis)”, Fink, München 1998. 58.  G. Benn, Lo smalto sul nulla, a cura di L. Zagari, Adelphi, Milano, 1992, p. 12.

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superare porta, sì, il nichilismo alle nostre spalle, ma solo in quanto esso – nell’orizzonte rimasto dominante dell’esperienza metafisicamente determinata – si leva inavvertitamente intorno a noi, ancora più greve nella sua potenza, e ammalia l’opinare»59. Quest’uomo che non è più soggetto (privo quindi di ogni attributo e qualità soggettivistiche), quest’uomo posto dalla storia alla fine della storia – l’uomo figlio del nichilismo, quest’uomo non può volere, ma semmai operare affinché la metafisica si possa oltrepassare (verwinden)60. Operazione assolutamente discreta, attraverso una meditazione (poeticorammemorativa)61 della sua essenza umana e storica insieme, e meditazione anche dell’essenza della storia stessa come darsi dell’Essere. Solo accettando e riconoscendo la Verwindung, autonomo movimento dell’Essere che si ripiega nella sua verità, l’esser-ci può conoscersi come «l’in-volgimento dell’Essere nell’evento [die Verwindung des Seyns in das Ereignis]»62. Solo così può sperare di überwinden la metafisica e predisporre lo spazio per un secondo inizio. Appare incolmabile qui dunque la distanza tra l’uomo heideggeriano e l’uomo nietzschiano, quel pastore che animato dal grido disperato di Zarathustra «morse […] e morse bene! Lontano da sé sputò la testa

59.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 854. 60.  Cfr. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 45-65. Sul concetto di Verwindung si veda inoltre M. Heidegger, L’evento, cit., pp. 143-152, dove la traduttrice sceglie di tradurre il termine con “in-volgimento”, per sottolineare la peculiarità del movimento (autonomo rispetto alla libera decisione dell’uomo di überwinden la metafisica) dell’Essere stesso. 61.  Si veda su questo il già citato saggio su La questione della tecnica e, in particolare, oltre a tutti i testi che Heidegger a partire dagli anni Trenta in poi al pensiero poetico, “Poeticamente abita l’uomo”, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., pp. 125-138. 62.  M. Heidegger, L’evento, cit., p. 148.

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del serpente»63. Nell’orizzonte dell’uomo collocato ai margini ultimi della metafisica, non vi è un attimo kairologicamente determinato nel quale la volontà suprema del soggetto deve raccogliersi per una decisione (o per la decisione) definitiva, quella che vorrebbe la sua trasformazione e il suo superamento. Vi è piuttosto un pensiero che sa farsi custode di una verità – pastore, sì, ma pastore silenzioso e cauto, lontano dal sole del mezzogiorno: paziente vegliardo in attesa di quell’ultimo dio – preparatore di un nuovo tempo – che verrà, se verrà, solo «come un ladro nella notte».

63.  F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI/I, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 19732, p. 194.

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Addio al pregiudizio umano? Percorso a ritroso dall’umanesimo etico di Williams al diritto di avere diritti di Arendt António Martins*

I La mia ispirazione immediata, anche per il titolo, deriva da un saggio del Bernard Williams maturo intitolato Sul pregiudizio umano dove viene discussa l’obiezione di specismo di Peter Singer1. Williams incomincia con una breve caratterizzazione della prospettiva “umanesimo” storicamente rappresentata da due figure di spicco del passato: Petrarca e Lutero. I due sono presentati non come i fautori di questa prospettiva, la cui ispirazione risale all’antica Grecia e al Cristianesimo, ma come rappresentanti storicamente influenti della prospettiva umanista, che si fonda su un assunto di base: «gli esseri umani hanno in termini cosmici una certa misura d’importanza» (HP, p. 137; tr. mod.). Nonostante tutte le differenze, le forme di umanesimo sembrano avere in comune una certa concezione dell’«importanza assoluta degli esseri umani»; una concezione *  Instituto de Estudos Filosóficos, Universidade de Coimbra, https://orcid. org/0000-0003-0383-8397. 1.  È il testo di una conferenza tenuta da Bernard Williams a Princeton poco prima della sua morte: The Human Prejudice; tr. it., Il pregiudizio umano, in B. Williams, La filosofia come disciplina umanistica, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 161-182. D’ora in poi abbreviato come HP.

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che Williams non ritiene essere più accettabile. Dobbiamo tenere a mente questo rifiuto dell’importanza assoluta, poiché, come Williams ci ricorda in seguito, esso riapparirà sempre di nuovo anche tra coloro che si sarebbero liberati di qualsiasi tipo di umanesimo e campanilismo umanistico. Tuttavia, continua Williams, se anche accettiamo che gli esseri umani e le loro attività non hanno alcuna importanza da un punto di vista cosmico, non ne consegue che essi non siano importanti: C’è certamente un punto di vista rispetto al quale sono importanti, cioè il nostro: il che non è sorprendente poiché il “noi” in questione, il “noi” che solleva questa questione e che discute con gli altri, che speriamo ascoltino e replichino, è costituito in effetti da esseri umani. (HP, p. 165)

Il punto qui è che non possiamo trascendere il “nostro” punto di vista, il punto di vista dell’umanità. Lasciando da parte lo sfondo epistemologico di questa questione, Williams insiste sulla rilevanza antropologica ed etica di questa concezione e menziona un’epoca aperta di importante riflessione etica: In modo meno controverso possiamo parlare, per esempio, di “diritti umani”, il che significa diritti che sono posseduti da certe creature in quanto sono esseri umani, in virtù del loro essere esseri umani. (HP, p. 138).

Ritorneremo su alcune obiezioni possibili a questo tipo di argomento nella seconda sezione, quando discuteremo un argomento presentato da Hannah Arendt nella sua critica ai diritti umani. Prima però dovremmo cercare di comprendere esattamente la posizione che Williams cerca di sostenere in questo saggio. Un’analisi completa della sua posizione richiederebbe una discussione dettagliata dei suoi testi essenziali, Making sense of Humanity e Ethics and the Limits of Philosophy, e del saggio programmatico che dà il titolo alla collezione in cui Il pregiudizio umano è incluso, vale a dire La filosofia come disciplina umanistica. Ai fini del presente argomento e per

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amor di brevità, ci concentreremo sul saggio Il pregiudizio umano. In tale saggio, Bernard Williams difende due tesi: una positiva e una negativa. Positivamente, egli supporta l’argomento secondo cui l’idea di essere umano è rilevante per l’etica ed è, inoltre, più adeguata delle nozioni utilizzate dalla filosofia mainstream. La seconda tesi nega che il pregiudizio umano, che è qui in discussione, sia un pregiudizio dello stesso tipo dei pregiudizi comuni quali il razzismo o il sessismo. Quello che è in gioco nella prima tesi è anzitutto la nozione di persona, nei suoi molteplici significati. Difatti, benché il testo menzioni la definizione di persona di Michael Tooley, adottata anche da Peter Singer (HP, p. 170), la posizione critica di Williams ha un perimetro più ampio e include una messa in questione dell’uso di questa nozione che aveva già svolto un ruolo centrale in Ethics and the Limits of Philosophy. L’umanesimo etico di Williams sostiene che la nozione di “essere umano” è sufficientemente ricca e adeguata per affrontare i nostri principali problemi etici e politici, mentre l’espressione “essere umano” come semplice designazione della specie homo sapiens non ha alcun valore morale. Il concetto eticamente rilevante sarebbe invece quello che esprime la nozione di fedeltà e identità con la nostra specie. Il concetto etico pertinente è qualcosa tipo: lealtà verso, o identità con, il proprio gruppo etnico o culturale; e nel caso di fantasia, il concetto etico è: lealtà verso, o identità con, la propria specie. Inoltre – ed è questa la lezione principale di questa ipotesi immaginaria – si tratta di un concetto morale che già abbiamo. Si tratta del concetto morale che è all’opera quando, con grande stupore dei critici, attribuiamo speciale considerazione agli esseri umani in quanto sono esseri umani. Il fatto che noi implicitamente usiamo tutte le volte questo concetto spiega perché non c’è qualche altro

282 insieme di criteri che applichiamo agli individui uno per uno. (HP, pp. 179-180)

Coloro che non accettano questa posizione di Bernard Williams tendono a usare nozioni più complesse e ricche, che dovrebbero apparentemente facilitare la giustificazione, il processo di fornire le ragioni. Le obiezioni che Williams solleva in una polemica più diretta con Singer si applicano a tutti quelli che adoperano la stessa strategia. È sufficiente qui richiamare le affermazioni di chi difende nuove forme di antropologia filosofica incentrate sulla distinzione tra hominitas e humanitas. Il concetto di persona, definito in vari modi diversi, è l’esempio tipico. Williams sottolinea che questa opzione comporta due tipi di problemi. Primo, introducendo un concetto più ricco e complesso di quello di essere umano rendiamo più difficile identificare coloro i quali fanno parte della comunità etica. Secondo, e in modo più significativo, i criteri basati sulle caratteristiche della nozione più ricca e complessa in questione, ad esempio “persona”, si applicano sempre e in ogni caso con l’inevitabile conseguenza che: «Sono applicati agli esempi separatamente: la questione è sempre se questo particolare individuo soddisfa i criteri» (HP, p. 170). Questo è particolarmente importante nella giustificazione dei diritti umani e, in generale, nel modo in cui ci relazioniamo a esseri umani che ci sono sufficientemente vicini. In un contesto politico più ampio, dobbiamo soltanto pensare a come ci relazioniamo a essere umani che, per qualsiasi ragione, soffrono di difetti o disabilità. Non è difficile immaginare casi di bambini e anziani rispetto a cui i problemi sono difficili da risolvere. Alcuni perché non sono ancora e altri perché non sono più in possesso di quello che supponevamo essere il criterio migliore per identificare che cosa sia veramente “essere umano”.

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La critica di Williams sembra corretta nella misura in cui gli autori che seguono la posizione mainstream non offrono ragioni cogenti per giustificare la rilevanza morale del concetto di persona o concetti equivalenti, squalificando completamente la nozione di “essere umano”. La semplice ragione è che tutte le ragioni che possono essere presentate per mostrare perché attribuiamo valore a quei tratti distintivi sono principalmente dello stesso tipo di quelle che saremmo pronti a difendere per la classe degli esseri umani. Una risposta differente sarebbe che è semplicemente meglio che il mondo debba sostanziare le stravaganti proprietà della personalità e non che è semplicemente meglio che gli esseri umani come tali debbano fiorire. Ma si tratta ancora una volta della nostra ormai familiare amica, la tesi dell’importanza assoluta degli esseri umani, la superstite del mondo incantato, che porta con sé l’egualmente familiare e incoraggiante pensiero che l’universo faccia il tifo per le proprietà che possediamo – beh, che possiedono la maggior parte di noi, senza contare gli infanti, i malati di Alzheimer e alcuni altri. (HP, p. 173; tr. mod.)

Williams continua la sua discussione con Singer su alcuni dei temi centrali dell’utilitarismo e di altre peculiarità della sua posizione (HP, pp. 143-148). Non occorre che seguiamo i dettagli di questa polemica con l’utilitarismo perché le posizioni di Bernard Williams su questo tema sono ben note e sono ricapitolate nel suo lavoro principale Ethics and the Limits of Philosophy (cap. VI: Teoria e pregiudizio). Williams vuole enfatizzare in questo contesto che il modo tipicamente umano di rapportarsi alla sofferenza è sempre parziale e limitato in vari modi. È sempre una valutazione condotta da un certo punto di vista limitato, qui e ora. La nostra coscienza morale non ci richiede di abbandonare la condizione umana per avere accesso a un qualche punto di vista superiore e più equo. Questo è qualcosa di strutturalmente impossibi-

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le. La prospettiva da nessun luogo non è un’opzione disponibile per noi: Non è un accidente o un limite o un pregiudizio che non possiamo preoccuparci egualmente di tutta la sofferenza che c’è nel mondo: è condizione della nostra esistenza e della nostra sanità mentale. (HP, 176)

Questo ci conduce alla discussione della tesi negativa di Williams. Ciò che egli intende negare è la pertinenza dell’obiezione associata al termine “specismo”. Assegnare una posizione privilegiata agli esseri umani nel pensiero etico sarebbe inaccettabile nella misura in cui escluderebbe altre creature dal centro delle nostre preoccupazioni. Equivarrebbe a restaurare l’antica credenza antropocentrica relativa all’importanza assoluta degli esseri umani nell’ordine delle cose. Williams replica: «L’obiezione è semplicemente un errore» (HP, p. 166). Anzitutto non si tratta di asserire l’importanza assoluta degli esseri umani, ma qualcosa di molto più modesto, cioè che gli esseri umani sono importanti per noi. Non si tratta, quindi, di dire più di ciò che si può ragionevolmente addurre come definizione di un punto di vista, il nostro punto di vista. Ciò che è in gioco è la possibilità di accesso da un punto di vista neutrale e, dall’altra parte, il tipo di giustificazione dell’importanza attribuita agli esseri umani. La posizione di Williams sull’assoluta importanza attribuita agli umani da diverse forme di umanesimo è chiara. Williams respinge ogni forma di importanza assoluta, mentre afferma l’innegabile importanza per tutti i membri della specie umana. Qui non è importante per Williams differenziare e spiegare le ragioni di quest’importanza. Ma egli non può ammettere di star dicendo meno di ciò che dovremmo dire (HP, p. 139). Questo darebbe ragione a coloro i quali sostengono che, senza una buona ragione per prendere posizione in favore degli esseri umani, la nostra preferenza non sarebbe altro che pregiudizio. La risposta di Williams all’obiezione di specismo passa attraverso la chiarificazione

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delle relazioni tra la comprensione della nostra idea di umanità e ciò che intendiamo per comprensione e fornire ragioni. La chiarificazione include diversi passi. Nel primo passo egli paragona la struttura di pregiudizi comuni, come il razzismo o il sessismo, e il presunto pregiudizio umano. Per cominciare, continua Williams, non ci devono essere molti razzisti o sessisti che pensano che il semplice appellarsi alla razza o al genere sia una (buona) ragione. In effetti, nella maggior parte dei casi «essi erano, per così dire, a uno stadio o precedente o successivo rispetto a questo» (HP, p. 167). Alcuni poiché si accontentano di pratiche di pura e semplice discriminazione, senza alcuno sforzo di giustificazione. Altri poiché, in un certo momento, sentono il bisogno di giustificare il loro comportamento con cattive ragioni. E si tratta di ragioni davvero pessime, sia perché non erano vere, sia perché erano il prodotto di falsa coscienza, dal momento che funzionavano per reggere il sistema, ma non c’era bisogno di alcuna teoria sociale o biologica molto elaborata per mostrare che erano tali. (HP, p. 167)

Nel caso del supposto pregiudizio umano, le cose stanno molto diversamente poiché non si tratta di una qualche discriminazione velata. Non è un segreto per nessuno che difendiamo i diritti umani, scrive Williams. Il punto dell’argomentazione di Williams è che “è un essere umano” funziona come una ragione e non manca di ragioni ulteriori che potrebbero essere intese come razionalizzazioni (HP, p. 168). Ma questo non gli impedisce di riconoscere che le relazioni tra le caratteristiche degli esseri umani e le loro relazioni con altre creature sono un ambito complesso. Tuttavia, egli continua riaffermando la sua posizione di base: Se c’è un pregiudizio umano, è strutturalmente differente da quegli altri due pregiudizi, il razzismo e il sessismo. (HP, p. 169)

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La posizione di Williams sembra ragionevole e sufficientemente chiara. Abbiamo già visto la sua giustificazione per usare l’idea di essere umano come base di argomentazioni e azioni senza ricorrere a concetti più complessi come, ad esempio, la nozione di persona. Dopo aver mostrato come funziona il tipico modo di operare dei pregiudizi, Williams ritiene di essersi espresso a sufficienza sul tema. Tutto ciò che gli interessa mostrare è che l’appello morale a “è un essere umano” non funziona nello stesso modo in cui funzionano i pregiudizi più comuni. La difesa della tesi centrale di Bernard Williams non dovrebbe essere confusa con argomenti relativi al vegetarianesimo, i diritti degli animali o questioni fondamentali di ecologia. Su tutte queste questioni vi sono una molteplicità di argomenti importanti da discutere. Ma essi non possono essere confusi o sovrapposti con la questione fondamentale che è qui in discussione. Williams illustra la sua posizione con un racconto fantascientifico su un’invasione immaginaria di creature extraterrestri. Se ci mettiamo nella prospettiva di un’invasione di questo tipo, la domanda di Williams, “da che parte stai?” non si rivolge alle critiche dello specismo che denunciano il maltrattamento degli animali. I due lati della contrapposizione non sono gli esseri umani da una parte e gli animali dall’altra, bensì quelli che riconoscono il valore della fedeltà agli esseri umani e quelli che respingono questo tipo di alleanza2. Per concludere questa sezione vale la pena ricordare le parole con cui Bernard Williams chiude il suo testo: Sotto molti più limitati aspetti le speranze per l’auto-miglioramento possono essere pericolosamente vicine al rischio dell’odio di sé. Quando la speranza è migliorare l’umanità

2.  Per ulteriori commenti su questa questione cfr. C. Diamond, Bernard Williams on the Human Prejudice, in «Philosophical Investigations», vol. 41, n. 4, 2018, pp. 379-398, spec. pp. 387-397.

287 fino al punto in cui ogni aspetto della sua presa sul mondo può essere giustificato di fronte a un tribunale di grado superiore, è probabile che il risultato sia o l’auto-inganno, se si pensa di esserci riusciti, o l’odio e il disprezzo di sé, quando ci si rende conto che non ci si riuscirà mai. L’odio di sé in questo caso è l’odio per l’umanità. Personalmente penso che ci siano molte cose da detestare degli esseri umani, ma che il senso della propria identità morale come specie non sia una di queste. (HP, p. 182)

Williams finisce con un’affermazione rassicurante dell’innegabile interesse del senso di identità etica della specie umana senza la necessità di appellarsi a istanze che sono oltre la portata degli esseri umani. La critica dei diritti umani di Hannah Arendt, che discuteremo nella prossima sezione, mette in questione la rilevanza e l’efficacia dell’idea di essere un essere umano come fondamento dei diritti umani. Vedremo nella terza sezione in che misura si possa rispondere alla critica di Arendt in linea con gli aspetti essenziali della tesi di Bernard Williams.

II Potremmo discutere la critica della dichiarazione universale dei diritti umani di Arendt nel contesto di ciò che molti autori chiamano l’umanesimo politico di Hannah Arendt. Non percorreremo questa via per una questione di brevità e anche perché studi recenti su questa questione non danno l’importanza dovuta alla questione dei diritti umani3. Questa sembra

3.  Cfr. M.H. McCarthy, The Political Humanism of Hannah Arendt, Lexington Books, Lanham et al. 2012, e prima H. Mewes, Hannah Arendt’s Political Humanism, Lang, Frankfurt a.M. 2009. Horst Mewes si occupa principalmente della libertà politica e dello spazio pubblico. Presentando Le riflessioni ontologiche di Arendt sull’Essere Umano (pp. 46-55) Mewes

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essere una caratteristica di molta della letteratura attuale su Hannah Arendt. Sebbene la questione dei diritti umani sia centrale nella sua opera, vi sono relativamente pochi studi su questo argomento. La situazione potrebbe venire giustificata dal fatto che la sua teoria politica non include un trattamento esteso di questioni morali e legali implicate nel problema dei diritti umani. D’altro canto, è vero che essi contengono un’intuizione centrale che è interessante per la nostra discussione. Tuttavia, non dovremmo dimenticare che l’interesse di Hannah Arendt per i diritti umani è presente non solo nei testi più noti come Le origini del totalitarismo e Eichmann a Gerusalemme, ma anche nei più svariati saggi di critica politica. La questione centrale aveva a che fare con il problema dei profughi e diventava più seria quando essi viaggiavano senza documenti e non avevano alcuna possibilità di recuperarli perché, per una ragione o per l’altra, erano stati privati della propria cittadinanza. Concentriamoci su ciò che Arendt chiama il principio dei diritti umani, l’idea che c’è un gruppo di diritti che ogni essere umano possiede per il semplice fatto di essere umano. Questo principio è stato formulato in molti modi. Arendt conosce bene questa tradizione e la formulazione della dichiarazione univer-

non fornisce nemmeno una semplice menzione dei diritti umani e sviluppa invece la sua analisi focalizzandosi su testi tratti da La condizione umana e La vita della mente. Michael H. McCarthy si riferisce alla questione dei diritti umani nel primo capitolo, La città in rovina, citando Le origini del totalitarismo di Arendt e il suo teorema (il diritto di avere dei diritti), ma vede la «fondazione della nostra dignità esistenziale nel fatto della pluralità umana» (p. 30) e non esplora le principali questioni relative al problema dei diritti umani. Sostenendo che per Arendt «la crisi politica moderna è anche una crisi dell’umanesimo» (p. viii), McCarthy vede nel classico repubblicanesimo civico una fonte d’ispirazione di prim’ordine per Arendt nel tentativo di trovare una via d’uscita dalle difficoltà che né il liberalismo classico né il marxismo erano riusciti a superare (capp. IV e V).

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sale dei diritti umani. Tuttavia, Arendt parla precisamente di un «paradosso dei diritti umani» nel famoso testo Le origini del totalitarismo4, dove descrive – nel capitolo IX – Il declino dello stato nazionale e la fine dei diritti dell’uomo. Questo è il motivo per cui Arendt pensa che occorra dare a questo principio una nuova formulazione e, soprattutto, creare nuove istituzioni che rendano possibile vivere all’altezza di un principio del genere. Richiamiamo alla mente la formulazione che Arendt fornisce nella prefazione alla prima edizione delle Origini: L’antisemitismo (non il semplice odio contro gli ebrei), l’imperialismo (non la semplice conquista), il totalitarismo (non la semplice dittatura) hanno dimostrato, uno dopo l’altro, uno più brutalmente dell’altro, che la dignità umana ha bisogno di una nuova garanzia, che si può trovare soltanto in un nuovo principio politico, in una nuova legge sulla terra, destinata a valere per l’intera umanità, pur essendo il suo potere strettamente limitato e controllato da entità territoriali nuovamente definite. (OT, p. 169)

Arendt sosteneva che gli eventi accaduti durante la Seconda guerra mondiale avevano messo in luce la contraddizione e la tensione tra lo stato-nazione e il principio dei diritti umani. I leader europei, appellandosi a interessi nazionali, avevano causato profonde devastazioni in tutto il continente. Al di là dei consueti orrori della guerra, una nuova categoria aveva assunto proporzioni senza precedenti, quella del rifugiato senza stato. L’eliminazione pratica della distinzione tra soldati, combattenti e civili ha mostrato che nelle guerre moderne non vi è protezione sicura. Tutti questi eventi di massa mostrano, secondo Arendt, l’apparente vuotezza e totale inefficienza del discorso sui diritti naturali e umani. Privati della propria cittadinanza, ai senza-stato era negata più della loro casa, proprietà e status 4.  H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2009. D’ora in poi abbreviato come OT.

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politico. Essi erano vittime della più fondamentale privazione e in un modo senza precedenti: Quel che è senza precedenti non è la perdita di una patria, bensì l’impossibilità di trovarne una nuova. D’improvviso non c’è più stato nessun luogo sulla terra dove gli emigranti potessero andare senza le restrizioni più severe, nessun paese dove potessero essere assimilati, nessun territorio dove potessero fondare una propria comunità. (OT, pp. 1034-1035)

Perseguendo la sua analisi della condizione a cui i profughi senza stato erano stati ridotti, Arendt riafferma quello che appare essere un punto centrale della sua diagnosi della situazione: «La privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo» (OT, 1041). L’analisi amara di Arendt raggiunge il suo vertice nel suo commento – che i sopravvissuti dei campi di concentramento possono facilmente realizzare, senza invocare gli argomenti di Burke – per cui «l’astratta nudità dell’essere-nient’altro-cheuomo era il loro massimo pericolo» (OT, 1051). Tutto questo è associato con le conseguenze estreme di questo fenomeno gigantesco di esclusione politica e sociale che Arendt caratterizza in questo modo: Gli individui costretti a vivere fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile. Essi sono sottratti a quella tremenda livellatrice di tutte le differenze che è la cittadinanza; e, poiché sono esclusi dalla partecipazione all’attività edificatrice degli uomini, appartengono alla razza umana allo stesso modo che degli animali a una determinata specie animale. Il paradosso è che la perdita dei diritti umani coincide con la trasformazione in uomo generico – senza professione, senza cittadinanza, senza una opinione, senza un’attività con cui identificarsi e specificarsi – e in individuo generico, rappresentante nient’altro che la propria diversità assolutamente unica, spogliata di ogni significato perché

291 privata dell’espressione e dell’azione in un mondo comune. (OT, pp. 1057-1058)

Ciò che Arendt chiama il paradosso dei diritti umani ha a che fare con la natura duale dei diritti umani, morale e legale-politica. La situazione sembra essere una reale aporia. Da una parte, abbiamo una concezione di diritti umani globali e universali che risulta essere inefficace. Dall’altra, se riconosciamo ai diritti umani la forza della legge, questo può accadere solo nel contesto di uno stato-nazione. Ma quest’opzione mette in questione l’universalità stessa dei diritti umani o per lo meno può sembrare che lo faccia. Non sorprende che alcuni autori parlino di una critica paradossale dei diritti umani5. Arendt aveva già proposto una critica esplicita di ogni sorta di documento sui diritti umani e, significativamente, dell’allora nuova Dichiarazione universale delle Nazioni Unite, in un articolo del 19496. Quando Arendt menziona in quest’articolo «ten5.  É. Balibar, (De)Constructing the Human as Human Institution: A Reflection on the Coherence of Hannah Arendt’s Practical Philosophy, in «Social Research», vol. 74, n. 3, 2007, pp. 727-738. Cito quest’articolo secondo la ristampa nel volume edito dalla Heinrich-Böll-Stiftung, Hannah Arendt: Verborgene Tradition – Unzeitgemäße Aktualität?, Akademie, Berlin 2007, pp. 261-268. 6.  H. Arendt, “The Rights of Man”. What Are They?, in «Modern Review», III, n. 1, 1949, pp. 22-37. La versione tedesca era stata pubblicata con un titolo differente: Es gibt nur ein einziges Menschenrecht, in «Die Wandlung», IV, 1949, pp. 754-770, e successivamente pubblicata in Praktische Philosophie/Ethik, vol. II, a cura di O. Höffe et al., Fischer, Frankfurt a.M. 1981, pp. 152-167. Citerò dalla versione inglese originale pubblicata nella «Modern Review». Indipendentemente da come valutiamo il saggio di Arendt sui diritti dell’uomo, dovremmo tenere a mente che è il risultato di un lungo dibattito con altri immigrati durato diversi anni. Merita una menzione speciale lo scambio con Hermann Broch, che nel 1946 fece circolare un saggio tra i suoi amici e colleghi dal titolo Considerazioni sull’utopia di una carta internazionale dei diritti e delle responsabilità. Da quanto possiamo vedere nelle lettere e pubblicazioni successive dei due autori, la prima stesura del saggio sui diritti dell’uomo di Arendt era già oggetto di discussione nel 1946.

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tativi recenti di redigere una nuova carta dei diritti umani», ella aveva sotto gli occhi la Dichiarazione universale dei diritti umani, indipendentemente da quale versione stesse leggendo. La sua affermazione che nessuno sembra capace di definire questi diritti umani generali può sembrare sorprendente o anche ingiusta ai più. Ma se guardiamo più da vicino come Arendt pone la questione e ci ricordiamo di tutte le discussioni sulla definizione filosofica dei diritti umani, possiamo ricavarne una comprensione migliore della critica di Arendt. È un dato di fatto che il problema degli apolidi su una così vasta scala ha avuto l’effetto di mettere le nazioni del mondo di fronte ad una questione inaggirabile e sconcertante: se esistano davvero o no dei “diritti umani” indipendenti da qualsivoglia status politico e derivanti soltanto dal fatto di essere umani. I Diritti dell’Uomo, che si suppongono inalienabili, hanno dimostrato di essere impossibili da far rispettare – persino in Paesi le cui costituzioni erano basate su di essi – non appena comparissero persone che non erano più cittadini di alcuno Stato sovrano.7

Arendt sintetizza la sua critica radicale dei diritti umani in una valutazione del diritto e delle relazioni internazionali mettendo in luce i punti principali di questo intollerabile processo di esclusione. Anticipando ciò che avrebbe sviluppato nel famoso nono capitolo de Le origini del totalitarismo Arendt sottolinea qui le caratteristiche principali del processo di esclusione, che è caratterizzato da perdite significative. La prima perdita è l’essere privati di una patria. Questo, di per sé, nota Arendt, non

Cfr. H. Arendt - H. Broch, Briefwechsel. 1946 bis 1951, a cura di P.M. Lützeler, Jüdischer Verlag, Frankfurt a.M. 1996, p. 14; E. Gallas, The Struggle for a Universal Human Rights Regime. Hannah Arendt and Hermann Broch on the Paradoxes of a Concept, in «S:I.M.O.N. Shoah: Intervention. Methods. Documentation», IV, n. 2, 2017, pp. 123-131. 7.  H. Arendt, “The Rights of Man”, cit., pp. 24-25.

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è una novità nella storia umana. Ciò che è nuovo, per quanto ne sappiamo, è «l’impossibilità di trovare una nuova patria»8. In secondo luogo, vi è la perdita della protezione governativa in tutti i Paesi. Arendt era a conoscenza dell’esistenza di un diritto d’asilo. Ma questa antica tradizione del diritto d’asilo, sebbene consacrata costituzionalmente in alcuni Paesi, non ha ancora raggiunto il livello di maturità ed efficacia nel diritto internazionale per essere in grado di risolvere i problemi sollevati da successive ondate di profughi. Questo rende i profughi e gli apolidi ancora più vulnerabili. Il processo di esclusione a cui essi erano soggetti li ha resi non soltanto sensibili e superflui, ma anche manipolabili a piacimento. E, ancora peggio, indesiderabili: La calamità dei senza diritti non è che sono privati della vita, della libertà e del perseguimento della felicità, o dell’uguaglianza di fronte alla legge e della libertà d’opinione – formule che erano state create per risolvere problemi all’interno di comunità esistenti –, ma che essi non appartengono più ad alcuna comunità. Il loro dramma non è che non sono uguali di fronte alla legge, ma che non esiste alcuna legge per loro, non che sono oppressi, ma che nessuno desidera nemmeno opprimerli.9

Sette decenni dopo che sono state scritte, queste parole non hanno perso nulla della loro attualità10. È la molteplice privazione di un posto nel mondo su vasta scala che conduce Arendt alla conclusione che occorre un approccio radicale per risol-

8.  Ivi, p. 26. 9.  Ivi, pp. 28-29. 10.  Sulla quantità e vastità dei problemi ancora da risolvere si vedano i seguenti saggi: M.-C. Caloz-Tschopp, Les sans-Etat «Ni minoritaires, ni prolétaires, en dehors de toutes les lois» (H. Arendt), in «Tumultes», n. 2122, 2003-2004, pp. 215-242; W. Meints-Stender, Hannah Arendt und das Problem der Exklusion – eine Aktualisierung, in Hannah Arendt: Verborgene Tradition, cit., pp, 251-258.

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vere il paradosso dei diritti umani. In questa breve reazione alla pubblicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani troviamo la prima affermazione della famosa formula di Arendt “il diritto di avere diritti” e quello che alcuni autori chiamano il teorema di Arendt riguardo alla relazione tra “uomo” e “cittadino” nella definizione dei diritti umani11. A causa del nuovo fenomeno di milioni di “persone sradicate” che non potevano trovare un luogo che potesse diventare la loro patria, sembra che «la perdita della patria e dello status politico siano divenute identiche al venire espulsi del tutto dall’umanità»12. Il paradosso dei diritti umani viene descritto nuovamente nei termini seguenti: prima della Seconda Guerra Mondiale, l’idea di un diritto umano era intercambiabile con l’idea di essere umano, così che si riteneva che l’essere umano fosse protetto da qualsivoglia arbitrarietà di qualsiasi potere politico a prescindere dal regime al potere in un dato momento. Paradossalmente, è proprio quando il processo di globalizzazione è completo in termini di organizzazione territoriale di stati-nazione – con le parole di Arendt, quando siamo di fronte a una «umanità completamente organizzata» – che la perdita della cittadinanza equivale a essere «espulsi del tutto dall’umanità»13. Il suo appello all’umanità perché garantisca l’unico diritto umano, il “diritto ad avere diritti”, non è cieco o ingenuo al punto di credere che vi sia una facile soluzione già pronta nel futuro prossimo. Non ci addentreremo in una discussione ulteriore del teorema di Arendt nel contesto della discussione filosofica delle principali questioni relative ai diritti umani. Le complesse dimensioni legali e politiche coinvolte in questa questione vanno a loro volta al di là del perimetro della presente analisi. La conce11.  É. Balibar, (De)constructing the Human, cit., p. 264. 12.  H. Arendt, “The Rights of Man”, cit., p. 30. 13.  Ibidem.

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zione dei diritti umani e la loro giustificazione in Arendt sono tuttora oggetto di controversia14. Lasciando da parte commenti sull’interazione tra diritti umani e diritti dei cittadini toccheremo brevemente, per concludere, la possibile giustificazione del punto di vista di Williams sul pregiudizio umano in base alla critica di Arendt del paradosso dei diritti umani.

III La critica di Arendt della dichiarazione universale dei diritti umani alla luce delle tragedie vissute da milioni di profughi, apolidi, senzatetto e persone senza documenti sottolinea il fat14.  Per una discussione estesa di questa controversia cfr.: P. Birmingham, Hannah Arendt and Human Rights. The Predicament of Common Responsibility, Indiana University Press, Bloomington 2006; S. Parekh, Hannah Arendt and the Challenge of Modernity. A Phenomenology of Human Rights, Routledge, New York-London 2008; C. Lafer, A reconstrução dos direitos humanos. Um diálogo com o pensamento de Hannah Arendt, Companhia das letras, São Paulo 1999. Tra i saggi che ho trovato utili a riguardo cfr.: J. Isaac, A New Guarantee on Earth: Hannah Arendt on Human Dignity and the Politics of Human Rights, in «American Political Science Review», vol. 90, n. 1, 1996, pp. 61-73; Ch. Menke, The “Aporias of Human Rights” and the “One Human Right”: Regarding the Coherence of Hannah Arendt’s Argument, in «Social Research», vol. 74, n. 3, 2007, pp. 739-762. Riguardo ai tanti e complessi problemi legali dal punto di vista della teoria e della pratica nel diritto nazionale e internazionale, cfr. S. Besson, The Right to Have Rights: From Human Rights to Citizens’ Rights and Back, in M. Goldoni - Ch. McCorkindale (a cura di), Hannah Arendt and the Law, Hart, Oxford-Portland 2012, pp. 335-355. Un approccio diverso è offerto da V. Lefebve, specialmente nel capitolo quarto del suo libro Politique des limites, limites de la politique. La place du droit dans la pensée de Hannah Arendt, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 2016. Per un’utile raccolta di saggi sulle principali questioni filosofiche riguardanti i tanti argomenti discussi nella letteratura recente cfr. R. Cruft - S.M. Liao - M. Renzo (a cura di), Philosophical Foundations of Human Rights, Oxford University Press, Oxford 2015.

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to che, in questa condizione, essi erano ridotti alla «astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo» (OT, p. 1051). La sua critica dell’idea di umanità sviluppata dalla tradizione dei diritti umani fin dal diciottesimo secolo non costituisce un particolare problema dal punto di vista di Bernard Williams. Il suo umanesimo etico non lavora con una nozione di essere umano gravata da una qualche teoria particolare. Al contrario, la distinzione tra uomo e cittadino, ereditata dalla Dichiarazione francese, è artificiale e del tutto aliena al pensiero di Bernard Williams. L’argomento di Arendt è comprensibile nel contesto della critica alla situazione vissuta dopo la Seconda Guerra Mondiale e mantiene il proprio mordente nel presente. Il punto è che il bersaglio della sua critica è più una situazione politica che una questione di teoria politica. Vi sono certamente questioni teoriche che necessitano di una risposta, ma sarebbe facile giungere a un compromesso se esse non avessero implicazioni politiche molto concrete. E questo è il motivo per cui nessun compromesso è raggiunto, non vi sono trattati internazionali firmati da tutti i Paesi, persino i più potenti, oppure essi vengono firmati, ma non effettivamente seguiti. Arendt aveva visto bene che per molti degli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani questo è ciò che sarebbe accaduto, non era necessario essere un profeta. L’ingresso in una comunità politica, in generale, non è un evento straordinario che richieda una vera e propria deliberazione. Il processo più normale di ingresso e uscita da una comunità politica accade con la nascita e la morte. Vi sono certamente i casi speciali di emigrazione, asilo, ecc., che però non invalidano questo fatto fondamentale della condizione umana. Il grande problema su cui Arendt richiama l’attenzione e che rimane un problema enorme è che gli Stati si arrogano il diritto di revocare la cittadinanza ai propri cittadini troppo facilmente. Questa situazione richiede un cambiamento radicale e urgen-

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te. Ma, di nuovo, la questione è eminentemente politica e così siamo più o meno nella stessa situazione che Arendt criticava. Per Bernard Williams il problema principale non è la definizione dei diritti umani, ma il farli rispettare. Ciò è eminentemente collegato alle questioni politiche che Bernard Williams intende primariamente alla maniera di Hobbes, in questo senso: Identifico la “prima” questione politica (alla maniera di Thomas Hobbes) come l’assicurazione di ordine, protezione, sicurezza, fiducia e le condizioni di cooperazione. Si tratta della “prima” questione politica perché risolverla è condizione per risolvere, e persino per porre, qualunque altra questione politica. Purtroppo non è la prima nel senso che una volta risolta non deve mai più essere risolta di nuovo. Siccome una soluzione alla prima questione politica è richiesta sempre, il carattere della soluzione è affetto da circostanze storiche: non si tratta di arrivare a una soluzione alla prima questione a livello di una teoria dello stato di natura e poi procedere con il resto dell’agenda.15

La lezione è che i problemi politici non sono mai risolti una volta per tutte. Essi rimangono un problema che richiede sempre un’attenzione scrupolosa e l’azione. Malgrado la sua critica della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Arendt nutriva la speranza che, in termini politici, “l’idea di umanità, senza escludere nessun popolo e senza assegnare un monopolio di colpa ad alcuno”, potesse garantire che nessun popolo o nazione sentisse il bisogno di ricorrere alla legge naturale del più forte. Solo allora l’umanità avrebbe smesso di essere un peso per l’uomo16.

15.  B. Williams, Human Rights and Relativism, in Id., In the Beginning Was the Deed. Realism and Moralism in Political Argument, a cura di G. Hawthorn, Princeton University Press, Princeton 2005, pp. 62-74: p. 62. 16.  Cfr. H. Arendt, Essays in Understanding. 1930-1954, a cura di J. Kohn, Harcourt Brace, New York 1994, p. 131.

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Bernard Williams sosteneva una posizione più modesta per la filosofia, senza toglierle la sua importanza. In termini di diritti umani questo significava un’attitudine che alcuni classificano come minimalista: Mi pare sensato, sia filosoficamente, sia politicamente, far dipendere le nostre idee sui diritti umani, o almeno i più basilari dei diritti umani, il meno possibile da tesi discutibili del liberalismo o di qualche altra ideologia particolare. Dovremmo basarci, per quanto possibile, sul riconoscimento di quel nucleo centrale di mali (quod semper, quod ubique, quod ab omnibus…); insieme alla nostra migliore concezione critica di ciò che può valere oggi come una legittimazione; insieme a ciò che nella condizione moderna è implicato da questi riconoscimenti.17

Bernard Williams ha spiegato brillantemente, in diverse occasioni, il modo migliore di combinare l’argomentazione etica con il realismo politico. Tornando alla questione iniziale, dovremmo dire “addio al pregiudizio umano?”. La risposta è no, per le ragioni messe in luce da Bernard Williams. Da ciò che è stato detto sembra chiaro che esse possono essere d’aiuto a chi abbia a cuore la ricostruzione di un umanesimo etico senza illusioni.

17.  B. Williams, Human Rights and Relativism, cit., p. 74.

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Le logiche dell’identità Gotthard Günther e Kurt Lewin Luca Guidetti

1. L’identità tra equivalenza e sinonimia Il problema dell’identità accompagna tutta la storia della filosofia occidentale, almeno a partire dal Sofista di Platone. Tale questione è connessa ai modi in cui si presenta l’essenza e la sua invarianza, ed è quindi soggetta alle diverse accezioni dell’essenza oggettuale e agli equivoci che si sono da ciò originati1. A loro volta, identità ed essenza sono dipendenti, per quanto riguarda il requisito dell’invarianza semantica, da determinate forme logiche “tradizionali” sorrette dai principi di “equivalenza”, “non-contraddizione” e “bivalenza” (terzo escluso), le cui implicazioni ontologiche sono state criticamente evidenziate dalle indagini “contro-aristoteliche” svolte da Gotthard Günther alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso2, e da Kurt Lewin nel suo volume del 1922 sul “concetto della genesi” in relazione al problema dell’identificazione 1.  Cfr., a tal riguardo, H. Scholz, Metaphysik als strenge Wissenschaft (1941), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1966, in part. pp. 18 ss. 2.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik. Die Idee und ihre philosophischen Voraussetzungen (1959), Meiner, Hamburg 19913.

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degli enti attraverso il tempo3. In via preliminare, è necessario specificare che, parlando delle “logiche dell’identità” in riferimento alle indagini di Günther e Lewin, il termine “logica” non va inteso in senso descrittivo o categoriale, cioè come riferito a un determinato ambito storico-concettuale (nella fattispecie, l’ambito formalistico-simbolico o “logistico”), ma in senso metalogico, relativo cioè alla forma generale della ratio o del logos, di cui il significato logistico rappresenta solo un caso particolare. Da questo punto di vista, appare subito chiaro come la dicotomia tra una nozione ontologico-metafisica dell’identità e una nozione linguistico-semantica, connessa all’“essenza” formale e sintattica del segno logico, non costituisca una vera alternativa. Sia Günther sia Lewin adottano infatti, nei confronti dell’identità, una prospettiva antinaturalistica non dissimile, nel tema, da quella fenomenologica: poiché l’identità è inseparabile dai criteri con cui la si pone, è evidente che la forma di tali criteri si rifletterà in qualche modo sul loro oggetto; d’altra parte, non bisogna ricadere nell’errore opposto di ritenere che tali criteri siano la causa del loro oggetto e del suo significato. La “causalità” tra piano logico e ontologico va dunque sempre ricompresa mettendo a tema la natura “essenziale” della formalizzazione che connette i due piani4. Per chiarire questo problema – fonte d’innumerevoli “fraintendimenti na3.  Cfr. K. Lewin, Der Begriff der Genese in Physik, Biologie und Entwicklungsgeschichte (1922), ora in Kurt-Lewin-Werkausgabe, vol. II, Wissenschaftstheorie II, a cura di A. Métraux, Huber-Klett-Cotta, Bern-Stuttgart 1983, pp. 47-318. 4.  Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, I. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie (1913), in Husserliana, vol. III/1 e III/2, a cura di K. Schuhmann, Nijhoff, Den Haag 1976; tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, intr. di E. Franzini, Mondadori, Milano 2008, § 13, pp. 33-35.

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turalistici” – si può portare come esempio il rapporto tra i tradizionali principi d’identità – A è A – e di non-contraddizione – non (A e non-A)5. Per un certo aspetto, se prendiamo il principio di non-contraddizione nella formulazione di Leibniz (“A non è non-A”), il principio d’identità potrebbe essere inteso come la sua determinazione positiva, cioè come l’“inversione di senso” della contraddizione attraverso la negazione6. Così però l’identità apparirebbe inutile, rivelandosi come la mera tautologia per cui ogni cosa è uguale a se stessa7. Ciò spiega anche la ragione per cui, nell’originaria enunciazione aristotelica, non l’identità, ma la non-contraddizione costituisca il principio ultimo8. Ma al di là della degenerazione tautologica dell’identità, che priva il principio di qualsiasi capacità semantica, tale modo di considerare il rapporto tra identità e non-contraddizione, per cui un’affermazione (l’identità) è sinonima della negazione della sua negazione (cioè della negazione della contraddizione), è in contrasto con il fatto – attestabile già a livello formale – che una molteplicità o un prodotto logico tra più giudizi, che ritroviamo nella contraddizione, non possono essere sinonimi di una forma come l’identità che non implica invece alcuna molteplicità; al massimo le due forme si possono rendere equivalenti attraverso la ridefinizione dei termini che le compongono9. Nella fattispecie, si può rendere equivalente 5.  Cfr. A. Höfler, Logik, Tempsky, Wien 1890, p. 135. 6.  Cfr. F. Ueberweg, System der Logik und Geschichte der logischen Lehren, Marcus, Bonn 1882, p. 232; Ch. Sigwart, Logik, Mohr, Freiburg i.Br. 1889, vol. I, p. 186. 7.  Cfr. F. Ueberweg, System der Logik, cit., p. 232. 8.  Per l’intera questione, cfr. J. Łukasiewicz, O zasadzie sprzeczności u Arystotelesa (1910); tr. it. a cura di G. Maszkowska, Del principio di contraddizione in Aristotele, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 45 ss. 9.  Cfr. ivi, p. 48.

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l’affermazione dell’identità ridefinendola mediante la sua doppia negazione (come avviene nella formulazione leibniziana); ma allora l’equivalenza – cioè la corrispondenza che si può istituire tra la posizione positiva di un oggetto e la negazione della sua posizione negativa – non ha lo stesso significato della sinonimia, poiché l’equivalenza implica una sottaciuta formalizzazione dovuta – in questo caso – all’introduzione di un senso già acquisito della negazione. Infatti, se da un certo tipo di equivalenza può derivare una certa sinonimia, al contrario da una sinonimia o da un’identità di significato non deve necessariamente derivare un certo tipo di equivalenza. La prima è una proprietà interna, che dipende dalla rilevanza di contenuto che il segno assume in un contesto giudicativo (assertivo), mentre la seconda è una proprietà esterna, che dipende da metodi o figure di corrispondenza pre- o post-­costituite tra insiemi o sistemi di segni10. Per affrontare il problema filosofico dell’identità – e il connesso problema dell’identità personale – non è dunque necessario contrapporre l’ambito semantico-­ formale (logico) a quello ontologico-contenutistico, intendendo il primo solo come una proiezione astratta, di tipo sintattico-simbolico, del secondo; infatti, già a livello logico si rivela l’irriducibilità del possibile contenuto significativo a una semplice corrispondenza di forme. Qui la logica non si limita a tracciare i confini di una pura “ontologia formale”, come sfondo comune da cui deve cominciare ogni discorso sulla realtà; al contrario, proprio tramite le sue forme e relazioni interne essa è direttamente coinvolta nelle determinazioni ontologicoregionali della “sfera reale”. Benché gli “oggetti intenzionali”

10.  Riguardo al rapporto interno/esterno delle proprietà semantiche, cfr. F. Waismann, Wittgenstein und der Wiener Kreis, a cura di B.F. McGuinness, Blackwell, Oxford 1967; tr. it. di S. de Waal, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da Friedrich Waismann, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 42-43.

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delle forme logiche non siano certo processi mentali o semplici oggettualità empiriche, le relazioni che s’istituiscono tra tali forme non sono irrilevanti nel momento della loro applicazione semantica, sia essa conoscitiva o ontologica. Nella fattispecie, l’equivalenza tra la posizione semplice dell’identità e una molteplicità logica finisce per vincolare quest’ultima in senso riduzionistico (“monopolare”) alla determinazione semplice o univoca del segno logico che, preventivamente, rappresenta l’identità essenziale, sottraendo così alla stessa molteplicità logica ogni margine di rappresentazione della variazione semantica dei concetti. Il modello formale-bivalente “A/non-A” è pertanto lo specchio dell’uniformità a cui si riduce, a livello ontologico, il modello duale soggetto/oggetto11, ed è da questo rilievo di fondo che ha inizio l’indagine güntheriana a proposito della pretesa “naturalità” della logica classica.

2. Günther: l’identità nella riflessione e i “valori di posizione” Seguendo l’argomentazione di Günther, la vera dicotomia non si dà, quindi, tra il piano ontologico e il piano logico dell’identità, ma tra la sua accezione semplice (A ⊃ A) o elementare (A = A) e quella funzionale o “contesturale”12. Entrambe le accezioni configurano infatti una determinata e ben distinta 11.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., pp. XII e 20. 12.  Cfr. ivi, p. XIII. Si veda anche G. Günther, Life as Poly-Contexturality (1973), ora in Id., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol. II, Meiner, Hamburg 1979, pp. 283-306. Su ciò, E. Esposito, Gotthard Günther tra idealismo e cibernetica, in M.L. Lanzillo e S. Rodeschini, Percorsi della dialettica nel Novecento, Carocci, Roma 2011, pp. 185-205, in part. pp. 194 ss.

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corrispondenza tra logica e ontologia dell’identità. Nella fattispecie, la concezione classica dell’identità, risalente ad Aristotele, si presenta come elementare, in quanto esprime la forma estensionale dell’identificazione (l’identificazione “denominativa”) che considera l’individuo come un oggetto isolato, atomico e in ultima istanza assoluto13. Per Günther, il difetto principale di tale concezione non si trova nel suo assolutismo, ma nell’elementarismo che l’accompagna. Qui la “sostanza”, o il “soggetto identico”, non sono mai ontologicamente differenziabili; ciò che rende uguali fra di loro le sostanze, in quanto realtà per sé stanti (res quae nulla alia re indigent ad subsistendum), è infatti la forma della sostanzialità, secondo il suddetto principio della formalizzazione applicato alla nozione di sostanza. Così, tutte le relazioni che afferiscono alla sostanza devono essere esterne, inclusa quella del soggetto con gli altri soggetti e persino con il suo mondo. Ma se il mondo appartiene al soggetto come una sua proprietà esterna, allora esso non serve a definirlo, e l’insieme delle sue determinazioni relazionali – inclusi lo spazio e il tempo – risulta da ultimo accidentale14. Inoltre, il principio classico dell’identità elementare non si limita alla sola “legge di identità” per cui, dato un qualsiasi A, vale sempre e necessariamente la relazione total-riflessiva A = A, ma implica altresì quel più complesso stato di cose per cui, dato un qualsiasi individuo A e un qualsiasi predicato P, dei due enunciati complementari “x è P” e “x non è P” uno dev’esser vero e l’altro falso (tertium non datur). In altre parole, la legge di terzo escluso definisce implicitamente che cosa si debba intendere con “individuo” sulla base dell’identità ele13.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., p. XVII. 14.  Cfr. G. Günther, Metaphysik, Logik und die Theorie der Reflexion (1957), ora in Id., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol. I, Meiner, Hamburg 1976, pp. 31-74.

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mentare. Un individuo è tutto ciò che risolve una tautologia predicativa del tipo (x)(Px ∨ ¬Px), realizzando necessariamente PA oppure ¬PA. Ora, se si desse il caso che l’oggetto designato con “A” non è in grado di decidere l’alternativa Px ∨ ¬Px, ciò vorrebbe dire che A non è un individuo neppure nell’accezione puramente logica15. Possiamo quindi definire “individuo”, secondo il principio di “identità elementare”, come tutto ciò che soddisfa alla condizione (x)(x = x)·(P)(∃x)(Px ∨ ¬Px). In apparenza, un simile requisito pare ovvio, cioè universalmente soddisfacibile. Ma non è così. Già a livello puramente formale ci sono oggetti – ad esempio, oggetti “incompleti” o oggetti matematici, come √2 – che non soddisfano tale richiesta16. Se un esiste un oggetto matematico del genere, esso non è né pari né dispari; quindi non può essere qualcosa che rientra nella ratio dell’identità elementare. Inoltre, sempre a livello formale la proprietà riflessiva, che qualifica l’identità, si riduce a quella simmetrica, cioè alla semplice possibilità di convertire la posizione del soggetto nell’uguaglianza17. In questo modo le diverse posizioni del soggetto, essendo perfettamente permutabili, risultano indifferenti. Ciò si collega alla funzione denominativa del termine che sta per il soggetto, cioè l’io o la cosa: esso non ha alcun significato poiché, nell’indifferenza della posizione, può avere tutti i significati possibili.

15.  Cfr. G. Günther, Die philosophische Idee einer nicht-aristotelischen Logik (1953), ora in Id., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, vol. I, cit., pp. 24-30, in part. pp. 24-25. 16.  Cfr. a tal riguardo, A. Meinong, Über die Stellung der Gegenstandstheorie im System der Wissenschaften (1907), in Id., Gesamtausgabe, vol. V, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, Graz 1973, pp. 326-328; J. Łukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., pp. 109-117. 17.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., p. 14.

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L’identità classica esprime quindi l’equivalenza della sostituzione. Se, ad esempio, il significato dell’io è il suo oggetto – cioè quella cosa, sostanza o essenza che designiamo come “io” – ciò vale per qualsiasi altro segno che indichi l’io, come conseguenza diretta dell’elementarità e dell’isolamento dell’identità. Sulla base di quest’indifferenza, è allora possibile la generalizzazione dello schema soggetto-oggetto: poiché ogni pensiero – nota Günther – deve avere un oggetto, possiamo generalizzare, dicendo che un “soggetto in generale” ha sempre qualcosa come un “oggetto in generale”18. L’identità immediata dell’essere è quindi la conversa dell’identità simmetrica della riflessione che, assumendo come riferimento o “significato” il soggetto assoluto o “trascendentale”, inibisce per principio ogni possibilità di cogliere la differenza19. Poiché la logica classica – monopolare e bivalente – è strettamente legata a una concezione elementaristica, atomistica e puntuale dell’essere, una logica trans-classica comporta anche una diversa concezione dell’identità ontologica, cioè una «nuova immagine metafisica del mondo», una concezione «non teoretico-identitaria»20. D’altra parte, il compito di tradurre in forme logiche tale immagine non può spettare a una semplice estensione del calcolo logico nel senso della polivalenza o del18.  Cfr. ivi, pp. 11-12. 19.  i noti come, a questo proposito, le osservazioni di Günther si connettano alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein: se le proprietà degli enti dipendono da relazioni interne (univoche) tra il segno e l’oggetto, come specchio logico rovesciato delle relazioni ontologiche esterne (equivoche) tra il soggetto sostanziale e i suoi attributi categoriali, allora esse non possono mai essere rilevate come appartenenti a un determinato oggetto (cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen/Philosophical Investigations, a cura di G.E.M. Anscombe, Blackwell, Oxford 1953; tr. it., Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, §§ 265-266, pp. 124-125). 20.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., p. XIV.

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la paraconsistenza, poiché queste si limitano a moltiplicare i valori di verità lasciando inalterato lo schema bivalente (dicotomico) di fondo, su cui s’innesta il problema del significato come corrispondenza a un oggetto puntualmente inteso nella sua identità assoluta e indifferenziata21. Accanto all’apparente identità immediata dell’essere vi è infatti l’identità inversa della riflessione, la quale non può essere intesa mediante le tradizionali categorie ontologiche. Se infatti, come vuole lo schema classico dell’autocoscienza, l’essenza dell’essere fosse riferimento retrospettivo a sé, allora per principio l’altro – il diverso – sarebbe del tutto escluso22. Secondo Günther, solo l’idealismo classico tedesco, e in particolare Fichte e Hegel (Günther si riferisce a I fatti della coscienza di Fichte e ai primi tre capitoli del secondo libro della Scienza della logica di Hegel sulla Dottrina dell’essenza)23 è stato in grado di tematizzare adeguatamente questa difficoltà, offrendo al tempo stesso elementi per una sua soluzione. Richiamandosi alle ricerche svolte alcuni anni prima da Max Bense sulla concezione hegeliana della negazione come successione di disgiunzioni24, Günther osserva come né l’idealismo logico neokantiano, in cui si pone il problema dell’inoggettiva21.  Cfr. ivi, pp. XIII e XVII. 22.  Cfr. ivi, pp. XVI e XVIII. 23.  Cfr. ivi, pp. XV e XVIII. Si vedano, a tal proposito, J.G. Fichte, Die Thatsachen des Bewußtseins (1813), in Id., Nachgelassene Werke, vol. I, Marcus, Bonn 1834, pp. 403 ss.; G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (1812-1816), Erster Theil: Die objektive Logik, Zweite Abtheilung: Die Lehre vom Wesen, in Id. Werke, vol. IV, Duncker und Humblot, Berlin 1834; tr. it. di A. Moni riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza Roma-Bari 1984, vol. I, La logica oggettiva, II. La dottrina dell’essenza, pp. 433-646. 24.  Cfr. M. Bense, Theorie dialektischer Satzsysteme. Eine Untersuchung über die sogenannte dialektische Methode, in «Philosophische Studien», 1949, pp. 202-233; Id., Theorie dialektischer Satzsysteme. Eine Untersuchung über die sogenannte dialektische Methode (Schluß), in «Philosophi-

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bilità dello psichico e di una sua ricostruzione attraverso le forme delle oggettivazioni, né il successivo logicismo russelliano, con la sua teoria metalinguistica dei “tipi”, presentino prospettive nuove rispetto alla tradizionale tesi teoretico-­identitaria; al contrario, essi ripropongono da capo il “paradosso” della reiterazione all’infinito dell’autocoscienza, che cercano di evitare con opportune “clausole di sbarramento”, come il divieto di tematizzare (o di porre come argomento) una funzione. Ma che ne è del modo in cui comprendiamo la nostra comprensione dell’essere? È possibile una logica che includa questa modalità della riflessione? Si tratta di render conto dell’equivocità della nozione di oggetto, che non significa solo l’ente che trascende il pensiero, ma anche il processo di riflessione che viene “pensato”. Qui emerge il problema – del tutto qualitativo e intensionale – del senso e della struttura di validità del discorso logico: si tratta di capire se, in una teoria formale della riflessione, una rappresentazione logico-simbolica, inevitabilmente estensionale dal punto di vista tecnico, possa rendere il senso intensionale-concettuale degli oggetti. Ed è a questo punto che prende corpo il concetto di “identità di funzione”. Ma cosa significa, per Günther, “funzione”? Non dobbiamo intendere la funzione nel senso cassireriano, cioè come semplice variazione dei valori in una serie25, né in senso matematico, come relazione che lega oggetti di diversi insiemi in un predefinito contesto operazionale. Questi tipi di funzioni d’identità, fondate sull’uguaglianza o sulla corrispondenza tra diversi morfismi, non risolvono infatti il problema

sche Studien», 1950-1951, pp. 153-167; G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., p. 22. 25.  Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik (1910); tr. it. di E. Arnaud, Sostanza e funzione. Ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza, intr. di M. Ferrari, La Nuova Italia, Firenze 1999, cap. I, pp. 25 ss.

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della “qualificazione” degli oggetti, ma spostano semplicemente il criterio di determinazione dalle relazioni interne, assolute e intraoggettive, alle relazioni esterne, assumendo che vi sia un unico terreno, comune e condiviso, entro cui i rapporti prendono forma. L’identità di funzione, in un contesto transclassico, è invece ciò che si mostra in seguito all’attivazione di una certa posizione dell’oggetto rispetto al soggetto. La base logico-­denotativa dell’identità va dunque sempre ricondotta alla genesi pragmatico-operativa dell’identificazione. Seguendo la logica hegeliana dell’essenza, Günther nota come, nella relazione soggetto-oggetto, non vi sia solo un soggetto soggettivo (l’“io”), ma anche un soggetto oggettivo (il “tu”), la cui differenza non può essere espressa dai tradizionali funtori logici (non, e, o, se-allora), in quanto costanti riferite solo al soggetto egologico o, dall’altro lato, solo all’oggetto trascendente26. Nella logica classica non c’è modo, ad esempio, di esprimere la differenza tra “io e gli oggetti” e “tu e gli oggetti”27. Il tu e l’io esprimono infatti posizioni diverse rispetto agli oggetti intenzionati, e sono diversi anche tra loro, sebbene possano risultare, per certi aspetti, uguali o equivalenti. D’altra parte, questa differenza non appare nemmeno se, accanto al logos monotematico, si ricorre all’intuizione come pura posizionalità dell’oggetto. A questo riguardo, Hegel osserva che l’identità, così come viene tradizionalmente espressa attraverso l’uguaglianza (A = A), è solo una «legge dell’intelletto astratto», poiché la forma della proposizione «promette una distinzione tra soggetto e predicato», ma il suo significato, posizionalmente assoluto, non mantiene ciò che la sua forma promette28.

26.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., pp. 86 e 93 ss. 27.  Cfr. ivi, p. XVIII. 28.  Cfr. G.W.F. Hegel, Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (18171); tr. it. dell’ed. di L. von Henning e K.L. Michelet

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Günther ammette che nell’empirismo logico e in parte del neokantismo (ad esempio, in Nicolai Hartmann) vi sia il tentativo di riconoscere l’origine intersoggettiva dell’identità e della rispettiva nozione di verità29; ma poiché per essi l’oggetto appare sempre nella posizione assoluta in cui si fa portatore della sua verità, l’accordo che lega le posizioni dei soggetti nell’intersoggettività è già stabilito a priori come vincolante per ogni soggetto. Così, l’intersoggettività neopositivistica non è altro che la riproposizione, sul piano dell’“esperienza comune”, della nozione di “coscienza in generale”. Siano infatti S’ e S’’ due soggetti, e O il loro oggetto comune. Il modo in cui tale oggetto si presenta come vero, cioè il suo valere per tutti i soggetti, determina anche che tutti i soggetti siano uguali tra loro (fig. 1)30:  S’  =  S  S’’

O 

Fig. 1

Il problema è che questo schema classico, che di solito viene rappresentato su un piano bidimensionale, è in realtà lineare o unidimensionale, come si evince dal segno di uguaglianza tra S’ e S’’ e dalla loro convergenza in S. Ma su una linea non vi è la possibilità di determinare le differenti posizioni essenziali dei punti, a meno di non indicare l’inizio o la fine assoluta

(3 voll., 1840-1845), Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. I, La scienza della logica, a cura di V. Verra, UTET, Torino 1981, § 115, pp. 311-313. 29.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., pp. 8-10 e 214. 30.  Cfr. ivi, p. 11.

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della linea. Tale paradosso occorre in tutti i dualismi fondati sulla teoria classica dell’identità, come l’opposizione tra idealismo e materialismo (o realismo). Se la negazione inverte simmetricamente l’affermazione entro la stessa dimensione lineare, l’affermazione può essere considerata come la negazione della sua negazione e non vi è modo di distinguerle dal punto di vista del contenuto semantico. Sia l’affermazione sia la negazione possono assumere l’una il posto dell’altra, sicché il principio d’identità viene rinviato alla definizione ultima del giudizio vero, come quel giudizio che attribuisce a un dato oggetto l’attributo che esso possiede31. Se, con un semplice cambiamento di segno, alla negazione si può sostituire simmetricamente l’affermazione, ciò significa che lo spazio dell’affermazione viene inteso come pieno e positivo e che quindi, per conversione, anche la negazione rientra in questo stesso spazio, non comportando alcun residuo né differenza dell’essere. Ma dal momento che la negazione, così intesa, non introduce alcuna differenza, essa si sottrae altresì a quella riflessione che, dal punto di vista della logica hegeliana,

31.  Questa riduzione del principio classico d’identità alla definizione del “giudizio vero” è stata ben evidenziata da J. Łukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, cit., pp. 51-54. Si tratta, in sostanza, della medesima ineffettualità semantica del principio d’identità, inteso come uguaglianza riflessiva reversibile in forma lineare, che emerge dalle osservazioni critiche di L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 216, p. 113: «“Una cosa è identica a se stessa” […]. È come se immaginassimo di mettere la cosa nella sua propria forma e vedessimo che conviene ad essa. “Ogni cosa conviene a se stessa”: guardiamo un oggetto e immaginiamo che lo spazio occupato dall’oggetto sia vuoto, e che l’oggetto vi entri esattamente», come una «macchia “conviene” al suo contorno bianco». Ma – conclude Wittgenstein – «la cosa avrebbe esattamente quest’aspetto se invece della macchia ci fosse stato un buco e la macchia ci entrasse perfettamente. Con l’espressione “conviene” non si descrive semplicemente l’immagine della macchia. Non si descrive semplicemente questa situazione».

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può impedire l’equivalenza tra essere e nulla. Tale “annichilimento” dell’essere è legato alla figura del pensiero astratto, a cui Hegel sostituisce invece il pensiero concreto come figura relazionale in cui l’identità non appare più monotematica, ma è (almeno) doppiamente tematica32, poiché nella riflessione dialettica il concretum logico del pensiero ha come oggetto se stesso (l’identico) e l’altro (il non-identico). Quindi l’identità concreta – nota Hegel – è sempre sintetica. Il pensiero astratto è rappresentativo e raffigurativo, mentre il pensiero concreto è relazionale. Poiché il pensiero concreto è pensiero di un soggetto (e non del soggetto in generale) la cui identità non è sostanza, ma relazione33, il soggetto e la negazione non hanno un significato univoco. Infatti, l’univocità si presenta solo nei due casi conversi (o a “simmetria inversa”) della coscienza in generale e della coscienza solipsistica. Ma in entrambe, l’affermazione equivale sempre alla negazione: la seconda riempie tutto lo spazio della prima (rispettivamente, per totalizzazione o per singolarizzazione), sicché in esse non vi è posto per la differenza dei soggetti. Al contrario, ammettendo la molteplicità dei soggetti come diversità dei luoghi a partire dai quali viene tematizzata la complessiva figura relazionale (dove la diversa prospettiva tematica corrisponde al diverso senso in cui il mondo si costituisce per il singolo soggetto), scompare anche l’assoluta oggettività ed elementarità degli oggetti. Questa molteplicità, insieme alla rottura del carattere univoco della negazione, determina una

32.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., p. 16; Id., Grundzüge einer neuen Theorie des Denkens in Hegels Logik, Meiner, Leipzig 1933; II ed., Meiner, Hamburg 1978, pp. 204 ss. 33.  A tal riguardo, Hegel osserva infatti che «Io è solo l’identità del rapporto di me stesso come soggetto a me come oggetto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. II, Filosofia della natura, ed. it. a cura di V. Verra, UTET, Torino 2002, p. 167; tr. mod.).

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trasformazione topica (topologico-strutturale) del precedente schema lineare e bivalente (fig. 2)34:  S’ O   S’’ Fig. 2

Tale trasformazione definisce quindi il passaggio da uno schema diadico-lineare (monodimensionale) a uno triadico o poliadico. Qui due soggetti (due “io”) non sono mai logicamente equivalenti, poiché le posizioni del soggetto pensante e del soggetto pensato non coincidono. S’ e S’’ non sono la moltiplicazione reiterata del medesimo soggetto, ma appartengono a due classi diverse. Quando si tematizza l’altro soggetto, non si tematizza semplicemente un altro io (S’ → S’’), ma uno spazio complesso S’ → (S’’ → O), in cui il secondo soggetto, che è ora un tu, è in relazione con gli oggetti del suo proprio mondo35. Tutto ciò comporta anche l’introduzione di una “seconda negazione”, ossia di un senso diverso della negazione in virtù della quale il non-io non si riferisca semplicemente alle cose, ma anche all’altro soggetto come a un “tu”. Il tu, infatti, non si può assegnare né al soggetto né all’oggetto sebbene, nel senso della complementarità, si possa assegnare a entrambi. Si tratta così di porre, accanto alla negazione esclusiva, una negazione inclusiva e quindi, accanto al terzo escluso, una forma relazionale che contempli il terzo incluso. La figura complessiva della relazione, da lineare e unidimensionale, diventa pertanto circolare, cioè bi- o pluridimensionale (fig. 3)36: 34.  Cfr. G. Günther, Idee und Grundriss einer nicht-Aristotelischen Logik, cit., pp. 98 e 101. 35.  Cfr. ivi, pp. 98-100. 36.  Cfr. ivi, p. 111.

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Fig. 3

Abbiamo qui una componente oggettiva, che comprende una parte dell’oggettività e del tu, e due componenti soggettive, una delle quali è condivisa dall’oggettività e dall’io, mentre l’altra è comune all’io e al tu. È chiaro che, per rendere coerente questa figura, occorre che l’espressione “soggettività” (e quindi “identità”) abbia un duplice senso, riferito una volta all’io e un’altra al tu. Da qui l’errore di fondo della logica classica, vale a dire l’assunzione che l’opposizione tra io e cosa corrisponda a quella tra soggetto e oggetto. Ma la “cosa” non coincide con l’ambito della componente oggettiva e, d’altra parte, l’io e il tu non coincidono con l’ambito della soggettività: infatti la cosa è il risultato della composizione tra l’oggettività e la soggettività egologica, il tu dell’oggettività e della soggettività dell’altro, e l’io della soggettività egologica e della soggettività estranea (del tu). Si noti che, in questa circolarità relazionale, le asserzioni d’identità hanno sempre diversi valori logici: l’identità tra soggetto e oggetto può essere infatti intesa come identità della prima oppure della seconda soggettività, ma non di entrambe al tempo stesso. Ciò dipende dal fatto che il soggetto come “tu” assume una sua propria e ben distinta «grandezza metafisica».

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Perciò – conclude Günther – la realtà può essere adeguatamente intesa solo se si assume che il tema “essere” sia una componente della relazione topico-esistenziale, accanto a cui deve porsi l’altra componente soggettiva e sdoppiata, riguardante il senso, che possiamo indicare come componente meontica. La realtà ha una componente meontica (cioè relativa al non-essere) che non costituisce affatto una sua diminuzione metafisica (fig. 4)37.

Fig. 4

Poiché la differenziazione meontica della soggettività in io e tu comporta l’assunzione di due distinti valori di posizione38, l’ambito del tu non è direttamente raffigurabile in quello dell’io e, viceversa, l’ambito dell’io non è riconducibile a quello del tu. Si tratta di una relazione non-simmetrica che, nel negare la simmetria, non implica l’asimmetria: tutto dipende dal senso dell’attivazione della struttura topologica in cui si collocano le parti costitutive della relazione. Non si tratta più di un’identità come uguaglianza tra termini, ma si tratta di 37.  Cfr. ivi, p. 121. 38.  Cfr. ivi, pp. 310-312.

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costituire l’identità funzionalmente, cioè a partire dal centro di uguaglianza o polo-zero della relazione tri- o n-polare. Si tenga infatti presente che, anche a livello formale, l’identità o univocità di una funzione non è data solo dal suo concetto, ma in prima istanza dal suo oggetto, ossia dai valori che ne soddisfano le condizioni poste concettualmente, non dal significato della funzione preso a sé. Tutto ciò, inoltre, retroagisce sul principio atomistico (“semplice”) dell’identità: se “oggetto” è tutto ciò che può essere individuato come identico a se stesso, l’identità non può essere altro che funzionale, poiché tale è anche la sua semplice atomicità.

3. Lewin: genidentità e temporalità Alla logica topologica, trans-classica di Günther – fissata non sui valori di verità ma sui “valori di posizione” che, nel loro insieme, definiscono una realtà policontesturale39 – si collega il concetto d’identità che Kurt Lewin propone nei suoi primi scritti epistemologici40. Lewin mette al primo posto il senso

39.  In questo senso, la nozione güntheriana di “policontesturalità” è stata ripresa da Niklas Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 743 ss. Su ciò, cfr. W. Rasch, Luhmann’s Ontology, in «Revue internationale de philosophie», vol. 259, n. 1, 2012, pp. 85-104, in part. pp. 88 ss.; E. Esposito, Gotthard Günther tra idealismo e cibernetica, cit., p. 196. Ma per la critica all’interpretazione luhmanniana delle tesi di Günther e ai conseguenti fraintendimenti che portano Luhmann ad assimilare il “tu” güntheriano all’alter-ego, cfr. W.L. Bühl, Luhmanns Flucht in die Paradoxie, in P.-U. Merz-Benz, G. Wagner (a cura di), Die Logik der Systeme. Zur Kritik der systemtheoretischen Systemtheorie von Niklas Luhmann, Universitätsverlag Konstanz, Konstanz 2000, pp. 225-256. 40.  Oltre a Der Begriff der Genese, cit., si vedano, a questo riguardo, Erhaltung, Identität und Veränderung in Physik und Psychologie (1911-1912), in Kurt-Lewin-Werkausgabe, vol. I, Wissenschaftstheorie I, a cura di A. Mé-

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connotativo o intensionale dell’identità, in quanto volto a sostituire all’identità assoluta ed elementare un’identità funzionale di tipo “genetico” (Genidentität), più adeguata a esprimere i fenomeni d’identificazione nelle realtà biologiche e psicologiche. L’identità genetica – nota Lewin – è un concetto costitutivo, e il compito della scienza è la ricostruzione del processo che porta alla costituzione dell’identità oggettuale41. In tale prospettiva, la nozione lewiniana di genidentità – termine che compare per la prima volta in una pubblicazione scientifica nel 1920, all’interno dello scritto di Hans Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori42 – ha la sua origine più remota nella concezione dell’identità attraverso il tempo o “identità diacronica” presentata da Locke nel Saggio sull’intelletto umano43. Ma nel parlare dell’identità della persona come conservazione della «medesima coscienza», Locke si affida sem-

traux, Huber-Klett-Cotta, Bern-Stuttgart 1981, pp. 87-110; Die Verwandtschaftsbegriffe in Biologie und Physik und die Darstellung vollständiger Stammbäume, Bornträger, Berlin 1920; Der Ordnungstypus der genetischen Reihen in Physik, organismischer Biologie und Entwicklungsgeschichte, Bornträger, Berlin 1920; Die zeitliche Geneseordnung, in «Zeitschrift für Physik», XIII, 1923, pp. 62-81, ora in Kurt-Lewin-Werkausgabe, vol. I, Wissenschaftstheorie I, cit., pp. 213-232. 41.  Cfr. K. Lewin, Erhaltung, Identität und Veränderung in Physik und Psychologie, cit., p. 98; Der Begriff der Genese, cit., pp. 69, 281. 42.  Cfr. H. Reichenbach, Relativitätstheorie und Erkenntnis apriori (1920); tr. it., Relatività e conoscenza a priori, a cura di P. Parrini, Laterza, Bari 1984, pp. 106-107. Reichenbach attribuisce però a Lewin il merito di aver coniato e utilizzato per la prima volta il termine (cfr. ivi, pp. 170 n, 172 n). Si veda anche, a tal proposito, F. Padovani, Genidentity and Topology of Time. Kurt Lewin and Hans Reichenbach, in N. Milkov - V. Peckhaus (a cura di), The Berlin Group and the Philosophy of Logical Empiricism, Springer, Dordrecht-Heidelberg-New York-London 2013, pp. 97-122, in part. p. 102. 43.  Cfr. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding (1690); tr. it., Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1982, XXVII, 3-6, pp. 388 ss.

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pre all’individuazione puntuale, cioè a un procedimento non genetico ma denotativo, che presuppone come già data la conoscenza del contenuto semantico dell’identità oggettuale su cui verte il discorso. In tal modo, non appaiono le ragioni della costituzione relazionale dell’identità individuale. Proprio per dare rilievo alla forma relazionale dell’identità, Lewin risolve l’identità nell’identificazione esistenziale e nei diversi sensi che essa può acquisire all’interno di distinti campi semantici. Questo viraggio “processuale” ha il vantaggio di non proporre un modello tratto dai diversi metodi delle scienze positive (fisica, biologia, psicologia ecc.) come valido per tutte quante, ma di mantenersi su un piano comparativo, dato che il medesimo oggetto e il suo requisito d’identità può apparire differente a seconda dei punti di vista da cui viene colto44. Il primo postulato è quindi che non esiste qualcosa di “identico”, ma solo diversi sensi a partire dai quali esso può apparire come tale; essendo infatti un metapredicato, l’identità richiede un criterio analogico che, unificandoli comparativamente, attraversi i molteplici criteri logici sottesi alle specifiche determinazioni epistemiche. In questo senso, riferendosi a un saggio di Windelband su Uguaglianza e identità45, Lewin sottolinea come la concezione dell’identità logica, a cui fanno riferimento le designazioni tradizionali (e che Windelband indicava come “pura stessità”), si fondi su una «molteplicità di atti di pensiero che vengono riferiti a un solo oggetto», mentre nelle identità materiali – ad esempio nelle formazioni fisiche o biologiche – abbiamo a che fare con più oggetti – intesi non come eventi-punto, ma come processi, cioè fasi o sequenze continue (“stati”) di una medesima cosa – che “sor-

44.  Cfr. K. Lewin, Der Begriff der Genese, cit., pp. 48, 57. 45.  Cfr. ivi, pp. 62 e 280-282; W. Windelband, Über Gleichheit und Identität, Winter, Heidelberg 1910, pp. 4 ss.

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gono” o “si sviluppano” l’uno dall’altro in tempi diversi46. Si tratta cioè di un’identità genetica che mette al primo posto la relazione esistenziale (Existentialbeziehung), estranea sia all’individuazione puntuale o parametrica dell’indicizzazione spazio-temporale, semplicemente ostensiva e non in grado di render conto del significato dell’esistenza, sia alla mera identificazione attributiva. In base a una simile identità esistenziale, due oggetti potrebbero essere “uguali” (ovvero un corpo potrebbe apparire come “lo stesso” nel corso del tempo) anche senza essere genidentici, mentre due oggetti genidentici (oppure lo stesso corpo dotato di genidentità) potrebbero essere gli stessi senza avere le medesime proprietà, cioè senza essere uguali47. Siano date ad esempio le due serie genetiche «a1, b1, c1…» e «a2, b2, c2…»: a1 e b1 sono genidentici (ma non uguali) e lo sono anche a2 e c2, mentre non sono genidentici b1 e b2, nemmeno nel caso in cui coincidano o sia possibile stabilire una relazione d’uguaglianza (fig. 5)48:

46.  Cfr. K. Lewin, Der Begriff der Genese, cit., p. 62; Id., Erhaltung, Identität und Veränderung in Physik und Psychologie, cit., pp. 95 ss. Sul principio di comparazione, cfr. Id., Über Idee und Aufgabe der vergleichenden Wissenschaftslehre, in «Symposion», n. 1, 1925, pp. 61-93; ora in Kurt-­LewinWerkausgabe, vol. I, Wissenschaftstheorie I, cit., pp. 49-79, in part. p. 70. 47.  Riferendosi sempre a Windelband, Lewin (Der Begriff der Genese, cit., pp. 69 ss.) ribadisce che mentre «l’uguaglianza dovrebbe essere indicata come una categoria riflessiva, viceversa la genidentità va sempre contrassegnata come una categoria costitutiva», dal momento che essa «non è una relazione tra le proprietà delle cose, ma tra le cose stesse»; come tale, la genidentità «non ha gradi». Sul problema della distinzione tra categorie riflessive e categorie costitutive, cfr. anche Id., Erhaltung, Identität und Veränderung in Physik und Psychologie, cit., pp. 97 ss. 48.  Su questa rappresentazione della genidentità, cfr. R. Carnap, Einführung in die symbolische Logik, mit besonderer Berücksichtigung ihrer Anwendungen (1954); tr. it. di M. Trinchero, Introduzione alla logica simbolica, con particolare riferimento alle sue applicazioni, pres. di A. Pasquinelli, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 316-317.

320

a1

uguaglianza

genidentità

genidentità

b1

uguaglianza

genidentità

c1

a2

b2 genidentità

uguaglianza

c2

Fig. 5

Si noti che tale criterio vale in qualsiasi sistema, anche se in ognuno di essi può assumere una configurazione diversa. Così, mentre in ambito fisico abbiamo spesso a che fare con sistemi chiusi che, nella fattispecie, rendono possibile gli esperimenti di laboratorio, in ambito biologico si tratta per lo più di sistemi aperti che possono risultare “chiusi” trasformandoli in strutture chimico-fisiche49. Si prenda come esempio la relazione che lega un embrione (un uovo) e l’individuo adulto. Da un punto di vista biologico essi costituiscono diverse “fasi” della stessa materia biologica e, in un certo senso, si può dire che si comportino come “sezioni” della stessa serie genetica che connette il medesimo individuo nel tempo del suo sviluppo. Ma da un punto di vista fisico essi non sono sempre genidentici, perché le molecole che li compongono sono cambiate, e il loro cambiamento interviene ogni volta come una sostituzione singola, in sé priva di direzione o di “continuità” signi-

49.  Cfr. K. Lewin, Der Begriff der Genese, cit., A III, pp. 282-284.

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ficativa. Dalla semplice materia fisica di un embrione non si può quindi ricavare una struttura genidentica univoca (il materiale di un uovo, ad esempio, può diventare un individuo adulto, ma anche una frittata, una componente di una torta, ecc.). D’altra parte, non si può prescindere dal fatto che tali composti molecolari, molari e strutturali siano determinati da leggi interne alla materia fisica stessa che, quantomeno a un certo grado di complessità, sviluppano i legami chimici in una determinata direzione e rivelano pertanto una genidentità anche al livello fisico50. Si noti però che, nel caso della genidentità, non si tratta di scoprire principi metafisici “direttivi” rispetto alla materia fisica o a quella biologica, ma d’individuare – secondo una prospettiva che rivela singolari corrispondenze con la nozione fenomenologica dell’identità – quelle “leggi d’essenza” che si presentano quando un fenomeno viene colto sullo sfondo di una certa base “intenzionale” che ne fissi il decorso. Per questo – nota Lewin – «il concetto di genidentità dev’essere del tutto distinto da qualsiasi uguaglianza o non uguaglianza di tipo qualitativo o quantitativo, sia essa immediatamente percepibile o no»51. In generale, due costrutti fisici sono in una relazione di completa genidentità quando, nel nesso di derivazione, nessuna delle loro parti componenti si trova in relazione di genidentità con altri costrutti della stessa specie, mentre si deve parlare di genidentità semplice se è possibile individuare solo relazioni esistenziali di parziale antecedenza. In ogni caso, anche per ot-

50.  Cfr. ivi, pp. 58-60 e 112-113. 51.  Cfr. ivi, p. 66. A tal riguardo, anche Husserl nota come l’identità sia «assolutamente indefinibile», cioè non possa esser colta in base a relazioni d’ugua­ glianza. Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, II. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis (1901); tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1968, 19822, vol. I, Seconda ricerca: L’unità ideale della specie e le teorie moderne dell’astrazione, pp. 383-384.

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tenere una genidentità semplice è necessario che due costrutti condividano almeno una parte del loro decorso costitutivo che sia determinata da una completa genidentità: se ad esempio una parte di un pezzo di metallo viene liquefatta e la parte liquida così ottenuta viene sottratta dall’insieme, la parte rimanente sarà in un rapporto di completa genidentità con la parte non liquefatta del pezzo iniziale, ma non con l’intero pezzo52. Queste considerazioni – anche prescindendo dalle rilevanti differenze contenutistiche che si presentano tra serie genidentiche di tipo fisico e di tipo biologico – conducono direttamente alla fissazione di alcune proprietà formali comuni che rendono possibile la comparazione tra i diversi ambiti ontologico-­ materiali. Le più importanti tra esse sono, rispettivamente, la relazione causale e la topologia dell’interazione temporale, da cui Lewin fa derivare anche la struttura dello spazio. Riguardo alla prima, si deve osservare che il rapporto tra causa ed effetto, stabilendo una semplice relazione di dipendenza funzionale, non corrisponde al rapporto di successione genidentico che è invece di tipo esistenziale. Si può infatti dire che un movimento sia la “causa” di una determinata produzione di energia termica, ma non ha senso sostenere che lo stato (esistenziale) di un oggetto A sia la “causa” dello stato esistenziale di un altro oggetto B o dello stesso oggetto A in un momento successivo. La causalità si riferisce dunque a uno specifico fattore contenutistico di dipendenza che può realizzarsi anche laddove non sia presente una serie genidentica, sebbene una serie genidentica possa talvolta essere spiegata anche mediante relazioni causali. Introducendo grandezze di tipo qualitativo o quantitativo che comportano processi di eguaglianza o equivalenza, la causalità non corrisponde quindi, nella sua “legge essenziale”, alla genidentità53. Piuttosto, la relazione causale 52.  Cfr. K. Lewin, Der Begriff der Genese, cit., p. 84. 53.  Cfr. ivi, pp. 71 ss.

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può servire da modello esemplare, di carattere metalogico o comparativo (vergleichend), per esprimere la forma logica della successione (Nacheinander) che connette diverse serie genetiche, poste in una certa relazione di “unità”. In ogni caso, la relazione causale non può esprimere il senso temporale (sintetico a priori) della relazione esistenziale, né come unità del processo di successione di un evento reale, né come direzione di questo processo. La relazione causale dice solo che se A è causa di B, vi è allora una legge che, applicata ad A, permette di dedurre logicamente B. Per qualificare esistenzialmente un processo di successione è necessario un criterio d’ordine temporale della genesi, cioè una topologia del tempo54. Lewin parla, a tal riguardo, di “serie genetiche di successione” (Genesefolgereihen), che introducono il tema fondamentale dell’ordine genetico temporale (zeitliche Geneseordnung), cioè la questione della fissazione del tempo attraverso un criterio d’ordine legato alla genesi, ma non dipendente da una sola serie genetica. Con ciò è data la possibilità «di porre in un reciproco riferimento temporale delle formazioni che in senso proprio non procedono l’una dall’altra, cioè non sono genidentiche», fondando così «un nuovo ordine unitario della successione al di là delle singole serie genetiche, vale a dire un ordine temporale comune a più serie genetiche»55. Si noti che di per sé una serie genetica, comportando solo il riferimento esistenziale, non implica la determinazione della direzione o dell’ordine della serie; infatti ogni serie di tal sorta – sia essa completa o semplice – istituisce tra le sue parti una relazione simmetrica d’identità che è sempre

54.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., pp. 214, 227-230. Sulla dimensione topologica del tempo, cfr. anche B.C. van Fraassen, An Introduction to the Philosophy of Time and Space, Random House, New York 1970, pp. 58 ss. 55.  K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., p. 217.

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reversibile. È quindi evidente che solo l’introduzione di un criterio d’ordine temporale indipendente potrà esprimere il senso (la direzione) della genesi. Tale criterio indipendente è dato dalla topologia dell’interazione temporale. Lewin fissa l’interazione genetica nel tempo ricorrendo alla nozione di “linea del mondo” (Weltlinie) sviluppata dal fisico Hermann Minkowski56. Una linea del mondo non è una successione di punti oggettuali e discreti, come se si trattasse di un insieme estensionale di cose a cui si “aggiungono” funzioni relazionali, ma è un luogo unitario e continuo entro cui si colloca un certo ente o un insieme di enti fisici o biologici. L’“unità” di questo luogo (che Minkowski riferiva alla quadridimensionalità dell’insieme spazio-tempo nel campo fisico) si esprime mediante proprietà specificamente topologiche o più generalmente “formali”, le cui relazioni sono dovute a caratteristiche di struttura. E una struttura non raffigura, ma esprime solo la forma di una relazione o “raffigurazione”57. Lewin applica la coordinazione strutturale, ricavata dalle linee del mondo di Minkowski, alle relazioni esistenziali che si presentano tra serie genidentiche. Se, ad esempio, si assumono due serie “parallele”, volte a indicare lo sviluppo di due esseri viventi, esse tracciano due diverse linee del mondo i cui attributi, essendo rinchiusi in dimensioni spazio-temporali uniche ed esclusive di ciascun essere, risultano incommensurabili. Il tempo e lo spazio come proprietà di differenti momenti esistenziali non sono perciò raffigurabili, non esistendo alcun “grado” né alcuna “qualità” che possa essere tradotta nel linguaggio dell’altra serie. Ma se le due serie vengono inserite in una coordinazione 56.  Cfr. ivi, p. 213. Si veda anche, a tal proposito, H. Minkowski, Raum und Zeit, in «Physikalische Zeitschrift», X, 1909, pp. 104-111. 57.  Su tale nozione di “struttura”, cfr. R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt (1928); tr. it. di E. Severino, La costruzione logica del mondo, UTET, Torino 1997, pp. 126 ss.

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topologica, sono allora possibili relazioni, perché le proprietà non valgono in sé, ma in quanto funtori di corrispondenza con l’altro sistema. Si prenda come esempio la seguente rappresentazione topologica (e perciò non metrica o, in generale, quantitativa) di due linee A e B entro le quali si sviluppano due differenti serie genetiche (fig. 6)58:

Fig. 6

Ognuna di esse configura un suo proprio tempo, più lungo o più breve, più ricco o più povero; ma non è possibile stabilire, con le sole misure interne, in quale posizione qualitativa o quantitativa si trovi un tratto o un punto della serie. Se nel mondo esistesse una sola serie genetica, il tempo del mondo coinciderebbe col tempo della vita e non si darebbero differenze temporali poiché ogni determinazione “riempirebbe” tutto il tempo59. Si tratterebbe infatti di una topologia “indi58.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., p. 221. 59.  Cfr., a tal riguardo, le osservazioni di K.E. von Baer, Welche Auffassung der lebenden Natur ist die richtige? Und wie ist diese Auffassung auf die Entomologie anzuwenden?, in Id., Reden gehalten in wissenschaftlichen Versammlungen und kleinere Aufsätze vermischten Inhalts, Schmittsdorf, St. Petersburg 1864, pp. 237-284, in part. p. 255; J. von Uexküll, Theoretische Biologie (1928); tr. it., Biologia teoretica, a cura di L. Guidetti, Quodlibet,

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screta” o “banale” in cui – indicando con “x” un tratto o un punto determinato, con “X” la serie genetica, e con “U” il differenziale di tempo – il sistema degli intorni U di ogni elemento x dell’insieme X sarebbe formato solo dall’insieme X stesso. Viceversa, la collocazione topologica interazionale, mettendo a confronto ogni semplice serie genetica con le diverse “serie di successione” (Folgereihen), permette di stabilire un ordine temporale che non “appartiene” a una linea, ma a un sistema di relazioni tra le linee tramite determinati “ponti di connessione” (v1 e v2), ad esempio di tipo causale60. Riprendendo alcune osservazioni svolte da Husserl nella Terza ricerca logica61, Lewin nota come questi ponti non siano frazioni reali dell’intero sistema relazionale, ma solo momenti il cui scopo è quello di favorire processi comparativi indipendenti dalle proprietà di ogni linea. In tal senso, Lewin può sostenere che il tratto temporale che conduce da am attraverso v1 a b e da questo mediante v2 ad as (fig. 7):

Fig. 7 Macerata 2015, pp. 64 ss.; H. Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit (1986), tr. it., Tempo della vita e tempo del mondo, a cura di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1996. pp. 280-283 e 297. 60.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., pp. 218-221. 61.  Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, cit., vol. II, Terza ricerca. Sulla teoria degli interi e delle parti, pp. 57 ss.

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è “identico” ma non “uguale” al tratto temporale che – sulla medesima linea A – conduce da am ad as, anche se la successione genetica dei tratti non è la stessa (fig. 8):

Fig. 8

Quindi – conclude Lewin – «diverse serie di successioni genetiche, che possiedono tratti terminali comuni, hanno luogo nello “stesso” tempo»62, cioè in un tempo identico. Ma l’identità del tempo, che costituisce lo sfondo di diverse serie genetiche, non dev’essere confusa con la genidentità dell’oggetto all’interno di ogni serie, la quale implica invece la diversità del tempo. È evidente come tale diversità temporale corrisponda alla non-uguaglianza dell’oggetto, cioè al suo cambiamento nella conservazione dell’identità oggettuale. L’identità del tempo è quindi esterna e regolativa, mentre l’identità “genetica” dell’oggetto è interna e costitutiva. Ma se l’identità dell’oggetto è “indefinibile” dal punto di vista logico, l’identità del tempo è invece resa disponibile alla formalizzazione mediante corrispondenze topologiche (nel senso della topologia “fine” o “discreta”) che, includendo le proprietà di “misurazione” come momenti particolari delle relazioni totali nell’insieme considerato, consentono – ad esempio – di confrontare

62.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., p. 221.

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un giorno di un essere umano con un secondo di un insetto63. In entrambi i casi, l’insieme di tempo si presenta sempre nella forma di una totalità collettiva (o non-distributiva), permettendo così di fissare l’identità dell’oggetto come categorialmente distinta rispetto alla differenza delle parti. Da ciò derivano due importanti conseguenze che, a loro volta, forniscono un chiarimento riguardo alle “parti temporali” che in un sistema d’identità genetica si affiancano alle “parti spaziali”. In primo luogo è impossibile determinare la simultaneità di tratti o di punti appartenenti a diverse serie genetiche64. La simultaneità implica infatti l’uguaglianza di una sezione temporale (ta = tb), mentre abbiamo visto che l’identità del tempo come “intero” delle diverse serie non può distribuirsi in forma di “uguaglianza” sulle parti di ogni serie. In secondo luogo, l’identità temporale si può assegnare anche a ogni sezione di ogni serie, a condizione però che tale assegnazione rispetti il criterio della “relazione collettiva” secondo il principio della coordinazione strutturale. Un’identità temporale “strutturale” contiene pertanto l’identità semplice o “elementare” come caso particolare di dipendenza dall’insieme. In ultima istanza, l’identità temporale strutturale, in quanto coordinazione topologica, fonda – in un senso non dissimile dalla “fondazione” (Fundierung) husserliana65 – l’«intero ordine spaziale», rendendo altresì possibile la presenza “l’una accanto all’altra” (nebeneinander) delle parti spaziali66. In tal senso, la nozione lewiniana di genidentità si rivela difficilmente inquadrabile all’interno della tradizionale opposizione tra perdurantismo ed endurantismo. Anche se spesso essa 63.  Cfr. a questo proposito J. von Uexküll, Biologia teoretica, cit., p. 68. 64.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., p. 222. 65.  Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, cit., vol. II, Terza ricerca, pp. 65-71. 66.  Cfr. K. Lewin, Die zeitliche Geneseordnung, cit., p. 223.

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viene associata alla prima concezione, secondo cui l’“identità attraverso il tempo” è già risolta nel fatto che le cose, essendo estese non solo nello spazio ma anche nel tempo, appaiono come oggetti segmentati o “vermi” che riempiono particolari porzioni dello spazio-tempo67, è però evidente come nelle serie genidentiche – così come nelle serie genetiche di comparazione – non si possa semplicemente parlare di cose-individui che, accanto alle “parti spaziali”, possiedono anche “parti temporali”. Infatti, la stessa radice fenomenologico-figurale dell’esperienza impedisce questa riduzione, a meno di non intendere la genesi come una semplice trasformazione evolutiva che associa nuove parti a parti precedenti fino al compimento dell’individuo, rendendo così parametrica, e non più topologica, la linea del tempo. Ma per Lewin l’identità individuale non si esprime in un’essenza rigida, separabile dalle relazioni esistenziali che, come fasi o stati, definiscono le caratteristiche di struttura del rapporto tra individuo e mondo68. L’unità temporale della “cosa” genidentica – sia essa un oggetto fisico o un essere vivente – è il suo momento formale esistenziale, distinto dalle categorie di significato che spettano, in senso predicativo, ai particolari ambiti oggettuali materiali. Se questo momento formale viene ridotto a una funzione esclusiva dell’individuo e delle sue proprietà, allora le funzioni di coordinazione strutturale tra le diverse linee del mondo si trasformano, per omologia attributiva, nelle coordinate assolute di un unico mondo, in cui ogni ente non potrà mai trovare spazio come soggetto, ma solo come frazione di una totalità preventivamente assun-

67.  Cfr., a tal riguardo, K. Mulligan, Métaphysique et Ontologie, in P. Engel (a cura di), Précis de Philosophie analytique, PUF, Paris 2000; tr. it., Metafisica e ontologia, in «aut aut», n. 310-311, 2002, pp. 116-143, in part. p. 119. 68.  Su questa determinazione figurale dell’esistenza, cfr. altresì K. Lewin, Principles of Topological Psychology (1936); tr. it., Principi di psicologia topologica, a cura di A. Ossicini, OS, Firenze 1970, pp. 15 ss.

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ta. Riemergono qui le obiezioni di Günther contro l’univocità del principio di bivalenza: entro uno sfondo di coordinazione assoluta, anche la logica dell’identità finisce per annullare ogni differenza di posizione, elevando a unica “verità” il valore che emerge dall’astrazione delle proprietà comuni – cioè quel valore che è già stato fissato come attributo essenziale di un determinato “ente”.

IV Per una fenomenologia del vivente umano

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La doppia fine dell’essere umano: una diagnosi* Étienne Bimbenet

Si ritiene spesso che siamo prossimi a vedere la fine dell’umanità e che i confini della nostra umanità stanno sfumando in maniera duplice: i confini inferiori, in relazione alla nostra natura animale, e i confini superiori, in relazione alle trasformazioni tecnologiche del genere umano. Sia sul versante pre-umano, sia sul versante post-umano, la nostra umanità sarebbe prossima alla sparizione. Ad esempio, nel suo ultimo libro il filosofo francese Francis Wolff esamina quelle che chiama l’utopia animalista e l’utopia post-umana: da una parte l’essere umano svanisce nella sua natura animale e in una comunità morale con tutti gli esseri viventi. Dall’altra l’essere umano mira al potenziamento tecnologico delle sue varie capacità, giungendo così infine all’immortalità. L’uomo è diventato sfocato, afferma Wolff, tra l’animale e la macchina: «Mentre gli antichi greci situavano l’uomo tra le bestie e gli dèi, noi abbiamo perso i due limiti che ci definivano: i nostri limiti superiori e inferiori»1. Vorrei considerare questo schema mentale, con la sua simmetria tra ciò che chiamerò “zoocentrismo” e “tecnocentri*  Traduzione dall’inglese di Andrea Staiti. 1.  F. Wolff, Trois utopies contemporaines, Fayard, Paris 2018.

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smo”. Intendo esaminare questa impostazione poiché ritengo di poter, così facendo, fornire una buona risposta alla questione sollevata da Michel Foucault nel suo famoso articolo sull’Illuminismo del 1984: «Cosa sta accadendo oggi? Cosa sta accadendo a noi? Che cos’è questo presente a cui apparteniamo?»2. Nel quadro storico dell’Illuminismo, una questione filosofica di questo genere era strettamente legata all’evento politico della Rivoluzione Francese. Tuttavia, appare impossibile oggi sollevare questa questione senza prendere in considerazione un’altra rivoluzione: la rivoluzione scientifica e tecnologica. L’ontologia critica del nostro presente è stimolata da ciò che, grazie alla scienza, sappiamo delle nostre origini (150 anni dopo Darwin è impossibile ignorare che siamo animali) e da quello che la tecnologia ci rende possibile fare con i nostri corpi. A prima vista non vi è nulla in comune tra queste due considerazioni. La prima riguarda il nostro passato, la seconda il nostro futuro. La prima tende a un qualche tipo di origine, di radicamento nella comunità di tutti gli esseri viventi, la seconda tende a uno sradicamento tecnologico, una sorta di rimozione degli esseri umani dall’ordine biologico. La prima considerazione si riferisce all’altruismo e al comportamento morale, la seconda a una sorta di egoismo che vede le persone cercare di incrementare le proprie capacità, o superare il proprio processo di invecchiamento. Da una parte abbiamo a che fare con un’utopia liberale, dall’altra con un’utopia libertaria. Tuttavia, al di là di questi contrasti, ci potrebbe essere qualcosa in comune tra queste due distinte rappresentazioni della nostra umanità, qualcosa come un sentimento comune di noi stessi, una modalità comune di rispecchiarci in un’altra real-

2.  M. Foucault, What is Enlightenment?, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 32-50: p. 50.

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tà (l’animale o la macchina), come nel film Avatar di James Cameron, dove un essere umano esplora sia le possibilità tecnologiche che quelle animali della propria umanità. Qui vorrei considerare questa duplicità e questo sentimento comune di noi stessi, poiché ritengo che esso appartenga al nostro presente. Si tratterà di una considerazione critica, perciò solleverò le seguenti tre domande. Prima domanda: siamo davvero di fronte alla fine della nostra umanità? Questo è un buon modo di caratterizzare ciò che ci sta accadendo oggi? Oppure dovremmo ritenere che siamo di fronte semplicemente a una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere umani? Se lasciamo da parte qualsiasi considerazione di carattere nichilista, credo valga davvero la pena sollevare questa domanda. Potrebbe valer la pena chiedere se lo zoocentrismo e il tecnocentrismo attuali implicano necessariamente che siamo prossimi a sbarazzarci del vecchio concetto di umanità. Essi minacciano davvero questo concetto o ne forniscono soltanto degli sviluppi nuovi? Di fatto abbiamo buone ragioni antropologiche per mettere in questione la tesi della fine dell’umanità. La maggior parte degli scenari classici sull’ominazione concepiscono l’essere umano come un mammifero costruito dall’esterno, come uno strano animale che avrebbe esteso la propria immagine corporea oltre i propri confini anatomici e biologici. Vari scienziati e filosofi hanno dato nuova vita a questo “schema prometeico” nel ventesimo secolo, come Leroi-Gourhan3 e Stephen Jay Gould4, Arnold Gehlen5 e più recentemente il filosofo ameri-

3.  A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, Albin Michel, Paris 1964. 4.  S.J. Gould, The Child as Man’s Real Father, in Id., Ever Since Darwin. Reflections in Natural History, Norton, New York-London 1977, pp. 63-69. 5.  A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), 2 voll., in Id., Gesamtausgabe, vol. III, Klostermann, Frankfurt a.M. 1993.

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cano Andy Clark6. L’esternalizzazione tecnologica del nostro corpo e, correlativamente, ciò che Andy Clark chiama la nostra “cognizione estesa”, appartengono alla nostra definizione biologica. Le nostre strutture somatiche e cognitive funzionano in relazione a vari artefatti, come la carta e le matite, gli utensili di pietra e i computer, gli occhiali e i telescopi. Il nostro corpo dipende dal suo ambiente tecnologico e culturale, non può fare a meno di questa memoria esterna. È un corpo strutturalmente protesico. Come risultato, possiamo supporre che siamo dei “cyborg nati”. Questa concezione della nostra umanità potrebbe essere riassunta con un paradosso, che chiamerei il “paradosso prometeico”: più il tuo corpo si estende oltre i suoi confini, più esso è umano. Più modifichi te stesso, più umano sei. Sul versante della nostra animalità incontriamo un paradosso simile. Quando si dice che l’uomo non è altro che un animale, si fa qualcosa che è specificamente e implacabilmente umano. Quando si afferma: «La biologia evolutiva, o le scienze cognitive, o l’etologia animale, o la primatologia hanno mostrato che i processi biologici, cognitivi o etologici sono gli stessi negli uomini e negli animali», si cade vittima di una cosiddetta «contraddizione performativa». Il contenuto proposizionale di quest’affermazione (l’uomo è come gli altri animali) contraddice i presupposti antropologici che rendono possibile affermarla. L’affermazione dipende da capacità cognitive e comunicative che non sono mai state osservate in alcuna specie animale. La medesima contraddizione performativa si può notare in ambito morale con l’argomento anti-specista: si ritiene comunemente che la considerazione morale che dobbiamo a certi animali dipende dalle capacità cognitive che essi hanno in comune con noi (troviamo ad esempio questo tipo

6.  A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, Oxford et al. 2003.

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di argomentazione nel Great Ape Project7). Il problema è che proprio questa continuità tra uomini e animali è contraddetta dai presupposti cognitivi e morali di quest’affermazione. La conoscenza scientifica di queste capacità comuni, così come il coinvolgimento morale a favore di altri animali, appartengono a un essere vivente che è unico tra gli esseri viventi. Questo è quello che potremmo chiamare, seguendo Rousseau, e LéviStrauss8 dopo di lui, il «paradosso della pietà». Da una parte, il senso di ripugnanza nel vedere altri esseri viventi che soffrono mi conduce più vicino a loro. Mi fa sentire che appartengo al regno della vita, che ne faccio parte in maniera fondamentale. Dall’altra parte, non vi è nulla di più umano di questo sentimento. Esso è stato reso possibile da una serie complessa di regole morali, è il risultato di un lungo processo di educazione. Non si tratta certamente di qualcosa che condividiamo con altri animali. Così, anche in questo contesto possiamo trarre la medesima conclusione che abbiamo tratto sul versante tecnologico: l’essere umano non è “semplicemente” umano. Più esso è altruistico, più esso è umano. Più esso si muove in direzione di altri esseri viventi, più esso è umano. Più esso supera se stesso, più esso è se stesso. Questo è il mio primo punto. Siamo onesti: lo zoocentrismo e il tecnocentrismo non sono forme di vita pre- o post-umane. Esse sono nuove forme umane di vita. Sia la trasformazione tecnologica dei nostri corpi, sia l’espansione della comunità morale oltre i confini della nostra umanità appartengono a noi. Esse appartengono strutturalmente alla sfera dei nostri comportamenti usuali. Nonostante la loro apparenza lessica-

7.  P. Cavalieri - P. Singer (a cura di), Great Ape Project. Equality Beyond Humanity, Fourth Estate, London 1993. 8.  C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau fondateur des sciences humaines, in Id., Anthropologie structurale II, Plon, Paris 2006, pp. 49-51.

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le, il tecnocentrismo e lo zoocentrismo rimangono questioni antropocentriche. Mettiamola in termini pratici. Siamo prossimi a spingere i confini della nostra umanità in due direzioni significative: nella direzione degli animali e nella direzione delle macchine. Ma questa espansione della nostra umanità è qualcosa che facciamo noi, quindi è qualcosa di cui siamo responsabili. Chiamerò sempre questo processo un “antropocentrismo esteso” (in riferimento all’“antropocentrismo debole” difeso da Bryan Norton nell’ambito dell’etica ambientale9). Un antropocentrismo espanso considera sempre l’umano come il proprio punto di partenza. Siamo pienamente responsabili dell’espansione del nostro corpo e dell’espansione della nostra comunità morale. La decisione è pienamente nostra. Consideriamo ad esempio la domanda seguente: “Gli animali hanno dei diritti?” (una domanda spesso sollevata). Questa formulazione non è il modo migliore di porre questa domanda. Gli animali non hanno diritti. Né li hanno gli umani. Noi in quanto esseri umani abbiamo inventato dei diritti speciali per noi, diritti transnazionali, diritti universali… e in un futuro prossimo potremmo inventare diritti speciali per certe specie animali. Questa è una decisione nostra, che ha origine in noi umani, e che espande la comunità umana a dei nuovi membri. Allo stesso modo dobbiamo soppesare il potere che accettiamo di dare alle macchine, dobbiamo misurare quanto esse controllano le nostre vite e migliorano la nostra azione. Questa è una decisione politica che dovremo prendere nel futuro prossimo. Siamo responsabili delle nostre protesi, così come siamo responsabili per il tipo di comunità che vogliamo condividere con gli animali. Dobbiamo ricordarci di questo punto in contrasto con gli scenari di “potenziamento radicale”, come il concetto di «singolarità» di Ray Kurzweil. Il fatto che il ritmo di cam9.  B. Norton, Environmental Ethics and Weak Anthropocentrism, in «Environmental Ethics», vol. 6, n. 2, 1984, pp. 131-148.

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biamento nel progresso tecnologico tenda a crescere esponenzialmente è un fatto antropologico e politico. Esso esprime il livello di spazio d’azione che accettiamo di lasciare alle macchine, non significa che le macchine sono prossime a diventare il soggetto di questo cambiamento. La domanda “le macchine stanno per iniziare a esercitare un potere sugli umani?” è simile alla domanda “gli animali hanno diritti?”. In entrambi i casi si presuppone che gli umani siano spettatori di ciò che gli sta accadendo. In realtà gli esseri umani sono il tipo di essere vivente che non può essere mero spettatore. Anche quando sono spettatori, si presume che siano gli esseri umani stessi ad averlo deciso. Anche se ci muoviamo meccanicamente su un piano inclinato verso una nuova comunità con gli animali e verso un’umanità tecnologicamente potenziata, questo processo meccanico e cieco rimane per principio un processo umano, esso è ancora fondato per principio su una decisione umana. La questione fantascientifica di Singolarità non dovrebbe mai nascondere l’unica domanda importante e concreta: la domanda politica relativa al futuro che vogliamo costruire insieme. Seconda domanda: nella misura in cui lo zoocentrismo e il tecno­centrismo non implicano la fine dell’umanità, nella misura in cui essi rappresentano nuove forme di vita umana, come dovremmo caratterizzarli? Che tipo di umanità appare attraverso lo zoocentrismo e il tecnocentrismo? A un primo sguardo abbiamo a che fare con due tipi diversi di progressismo: uno è tecnologico ed egoista, è orientato verso di me. Tende a migliorare il mio benessere, le mie capacità senso-motorie o il mio aspetto fisico. Al contrario, il progressismo animalista è orientato verso l’altro sé, il sé animale con la sua vita senziente. È un progressismo morale anziché tecnologico. Il geco non è un vegano, anche se può esserlo. Tuttavia, queste due forme di progressismo potrebbero non essere così diverse. Perché? Ritengo che in entrambi i casi corriamo lo stesso rischio: il rischio di una nuova eteronomia.

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Da un lato, consideriamo cosa succede se incrementiamo le nostre varie capacità corporee e cognitive. Se miglioriamo i nostri vari comportamenti, possiamo prevedere meglio quello che può accadere, possiamo proteggerci da qualunque problema che potremmo affrontare. Si potrebbe affermare che il potenziamento tecnologico del nostro corpo amplia lo spettro delle nostre possibilità percettive, pratiche e intellettuali; dal punto di vista contrario, si potrebbe considerare il fatto che corriamo il rischio di una standardizzazione. Questo è quello che Blumenberg chiama «la sindrome da parco dei divertimenti» (das Syndrom des Erlebnisparks)10: un’esperienza senza esperienza, un’esperienza senza alcunché di nuovo, poiché tutto è perfettamente anticipato, ogni anticipazione è meccanicamente correlata alla sua soddisfazione corrispondente. Il potenziamento del corpo umano potrebbe implicare il rischio di una “immunizzazione” tecnica del sé, o quello che potremmo chiamare un “sé immune”. Come ho affermato precedentemente, il pericolo post-umano non ha nulla a che vedere con un film di fantascienza, dove i computer diventerebbero i nostri padroni. Il pericolo in questione ha invece a che fare con il nostro spazio d’azione oggi, con il problema etico concreto di una standardizzazione delle nostre vite, con il potere che accettiamo di dare alle macchine nella nostra vita quotidiana. Corriamo un rischio simile anche rispetto alla nostra relazione all’animalità. Perché? Perché sovente il sapere che concerne questa relazione tra umanità e animalità deriva esclusivamente dalle scienze naturali e dalle scienze biologiche, non dalle scienze sociali. Quando, ad esempio, un giornalista presume che dobbiamo abbandonare qualsiasi tipo di approccio antropocentrico, l’idea che noi umani siamo unici, il più delle volte

10.  H. Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, p. 49.

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fonda il proprio argomento su fatti forniti dalla biologia evolutiva o dalla genetica (come ad esempio il famoso 98,4% di geni che condividiamo con gli scimpanzé), o le neuroscienze, o la primatologia. Certamente tutte queste scienze contribuiscono al sapere che concerne la nostra umanità. C’è tuttavia un problema. Un’indagine sui tratti che contraddistinguono la nostra specie non può basarsi soltanto su quello che ci dicono le scienze naturali e biologiche. Il sapere “in terza persona” non è sufficiente. Un’indagine di questo tipo deve implicare il discorso in prima persona che è, almeno in parte, il tipo di discorso delle scienze sociali. Come tutte le altre scienze, le scienze sociali mirano a una registrazione obiettiva dei fenomeni umani; tuttavia, esse devono inevitabilmente confrontarsi con la dimensione soggettiva di questi fenomeni. Al contrario, quando le scienze naturali e biologiche abbozzano un ritratto dell’essere umano, abbiamo a che fare con un ritratto privo di soggetto. Il genoma, il cervello e le grandi scimmie non sono soltanto divenuti parte della nostra umanità11. In virtù di un certo primato del quadro concettuale naturalistico nell’organizzazione corrente della ricerca, essi sono anche divenuti il centro del nostro ritratto. Il genoma, il cervello e la scimmia tendono a diventare nuovi feticci, tre feticci che abbiamo bisogno di scrutare per sapere chi siamo. Ciò che ci aspettiamo da loro è un sapere oggettivo su noi stessi, un sapere su di noi, ma senza di noi. Di nuovo, sembra che tendiamo a divenire spettatori della nostra umanità. Così, suggerirei che l’animalizzazione e la tecnologizzazione della nostra umanità ci espongono a un comune rischio: il rischio di una nuova eteronomia. Non si tratta qui di un’eteronomia metafisica, non siamo in procinto di perdere la nostra natura sacra. Si tratta invece di un’eteronomia meramente pratica. Grazie a un maggior numero di algoritmi, 11.  Cfr. S. Lemerle, Le singe, le gène et le neurone. Du retour du biologisme en France, Puf, Paris 2014.

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siamo in procinto di lasciare a macchine cognitive la capacità di scegliere e di sapere cosa fare. Inoltre, siamo in procinto di delegare alle scienze naturali senza soggetto la produzione del nostro ritratto. In ambedue i casi la nostra umanità è raggiunta e conosciuta senza di noi; in ambedue i casi siamo divenuti gli spettatori della nostra umanità. Terza e ultima domanda: dovremmo essere spettatori delle nostre vite? È questo ciò che vogliamo veramente? Vogliamo affidare a una razionalità strumentale il compito di scegliere quello che è bene per noi o sapere chi siamo? Certamente la risposta è no. Rifiutiamo questa forma di vita passiva e rassegnata. Rifiutiamo di dare agli algoritmi ancora più potere sulle nostre vite, rifiutiamo di accettare che le scienze naturali e biologiche siano le uniche forme di sapere su chi siamo. Ritengo che vi siamo due modi di evitare il rischio di questa nuova eteronomia. Il primo modo (che, credo, non sia quello buono) consiste nel rivolgersi a una supposta “natura umana” per trovare in essa delle risorse normative. La nostra “natura”, la nostra “essenza”, iscritte nei nostri geni, potrebbero dirci chi siamo e cosa fare. Essere membri della specie homo sapiens potrebbe proteggerci contro l’eteronomia tecnologica e scientifica. Supporremmo che una forma di vita immune a qualunque novità e sorpresa, che affida alle macchine il controllo e l’ottimizzazione dei comportamenti, non costituisca una vera, autentica vita umana, poiché non corrisponde alla nostra vera natura. Non è degna di un essere umano, o piuttosto, è degna dell’ultimo uomo in Zarathustra, che è felice perché ha scoperto la felicità, il che significa che ha scoperto il benessere materiale e una polizza assicurativa contro qualsiasi tipo di novità. In effetti, temo che questo appello alla natura umana non sia legittimo in un mondo darwiniano post-metafisico. Certamente un appello di questo genere non è in linea con la concezione moderna di autonomia ed emancipazione. Come ho accenna-

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to in precedenza, l’essere umano costruisce se stesso fuori da se stesso, esplorando varie possibilità culturali e tecnologiche più o meno sofisticate o invasive. Esso costruisce se stesso attraverso comunità sociali che sono più o meno inclusive. Ne consegue che non si può sapere in anticipo dove andranno gli esseri umani e che tipo di vita inventeranno domani. Dovremmo allora abbandonare qualsiasi considerazione normativa? Dovremmo entrare dritti nel supermercato liberale senza limiti? Certo che no. L’appello a una natura umana sacra non è l’unico modo di proteggerci dall’eteronomia tecno­ scientifica. C’è un altro modo di evitare questo rischio: una risposta politica ad esso. Il concetto moderno di politica non si appella ad alcuna normatività metafisica o assoluta. In un quadro concettuale moderno, le comunità umane si auto-costituiscono. I loro valori basilari sono esposti a discussioni democratiche senza fine. Non sono sottomessi a valori assoluti, o ai valori di altre persone. Questo tipo di eteronomia (quest’eteronomia politica tradizionale) appartiene al passato. Ciononostante, le nostre comunità politiche devono affrontare ora una nuova eteronomia: si devono confrontare con il potere di una razionalità strumentale che minaccia di colonizzare il mondo della vita e di sapere meglio di noi chi siamo. Il problema che dobbiamo affrontare oggi non è che potremmo essere sottomessi al potere e ai valori di altre persone. Il problema è che siamo in procinto di perdere parti importanti del nostro spazio d’azione – del nostro spazio d’azione pratico e intellettuale. Come risposta a questo problema dobbiamo difendere il principio di una ragione attiva e soggettiva, una ragione capace di usare le sue iniziative per innovare, per evitare la standardizzazione e, correlativamente, una forma di razionalità in prima persona, capace di descrivere in modo fenomenologico cosa ci accade nelle nostre varie esperienze umane. Questa è una questione politica, specialmente nella misura in cui la posta in gioco è il nostro spazio d’azione.

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Dobbiamo mantenere la nostra capacità politica di decidere, collettivamente e liberamente, che genere di futuro vogliamo. Dobbiamo mantenere questa capacità politica perché siamo di fronte a forze economiche e tecnoscientifiche che tendono a essere autonome, a liberarsi di qualsiasi guida politica. Sappiamo tutti che abbiamo ben poco potere sulla forza dei liberi mercati o sulla forza delle scoperte tecnoscientifiche. Questo è ciò che il filosofo svizzero Mark Hunyadi chiama il «paradosso morale del nostro tempo»12. Ci si aspetta da noi che ci emancipiamo, che siamo politicamente autonomi. Tuttavia, la nostra libertà si trova di fronte a nuovi tipi di ostacoli, qualcosa come una servitù volontaria nell’uso dei nostri strumenti tecnologici e del nostro sapere scientifico. Contro questo nuovo ostacolo, contro questa nuova eteronomia, politica significa il mero fatto della nostra azione individuale e collettiva, il mero fatto di essere in grado di decidere del nostro futuro e di dar conto soggettivamente di quello che viviamo.

12.  M. Hunyadi, La tyrannie des modes de vie. Sur le paradoxe moral de notre temps, Le bord de l’eau, Lormont 2015; Id., Le temps du post­ humanisme. Un diagnostic d’époque, Les Belles Lettres, Paris 2018.

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Gli androidi possono sentire dolore elettrico?* Luca Vanzago

I Il titolo del mio contributo potrebbe – e in effetti dovrebbe – suonare provocatorio. Esso evoca il celebre romanzo scritto da Philip K. Dick, poi trasposto nel rinomato film diretto da Ridley Scott, Blade Runner. Come è noto, la questione filosofica posta nel film riguarda la capacità – o meno – da parte dell’uomo di marcare una chiara differenza tra gli esseri umani e i replicanti, gli androidi, qualora la tecnologia raggiungesse un livello di avanzamento tale da produrre automi che non possono essere immediatamente distinti. Tale distinzione, nelle narrazioni appena menzionate, diviene possibile solamente attraverso la somministrazione di un test – chiamato Voight-Kampff – che misura il livello di empatia manifestato da un individuo di fronte a quesiti spiacevoli.1 A grandi linee, questo test mira a destare emozioni che non possono essere facilmente governate da un replicante, innanzitutto per via della quantità di sofferenza e dolore che esse suscitano. Il Voight-Kampff – una macchina simile a un poligrafo usata dai blade runner ai fini della determinazione – mi*  Traduzione dall’inglese di Tommaso Sperotto.

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sura funzioni corporee quali la respirazione, l’arrossamento, il battito cardiaco e il movimento degli occhi in risposta a domande legate all’empatia. Nel film, due replicanti – Leon e Rachael – vengono sottoposti al test e Deckard, il blade runner interpretato da Harrison Ford, dice a Tyrell, il proprietario della corporazione che produce i replicanti, che solitamente si rendono necessarie tra le venti e le trenta domande incrociate per individuarne uno – contrariamente a quanto viene detto nel libro, che cioè solamente sei o sette domande sarebbero sufficienti. Nel film, più di cento domande si rendono necessarie per determinare che Rachael è un replicante. Tale test è basato sulle reazioni empatiche solitamente connesse a immagini che mostrano sofferenza inflitta ad animali ed esseri umani, e sul livello di esperienza relativamente basso – se comparato a quella dei veri umani – a disposizione dei replicanti per poter gestire le reazioni a tali immagini. Per via di questa mancanza di esperienza, i replicanti reagiscono infatti violentemente, rivelandosi, smascherandosi. In ogni caso, la vera questione filosofica che emerge dal romanzo, e quindi – sebbene in maniera meno chiara – dal film è se in un mondo non troppo lontano nel futuro (Blade Runner è ambientato nel 2019) ci possa essere ancora spazio per una netta distinzione tra umani e androidi, visto lo straordinario progresso tecnologico a cui possiamo assistere già oggi. Tale problema può essere articolato in due modi. Da un lato, la questione può essere posta nei termini di una tecnologia che riesce a raggiungere un “livello” umano – e questa potrebbe essere chiamata la “versione positivistica” del problema. Oppure si potrebbe sostenere che tali questioni emergerebbero per via di un livellamento, operato tecnologicamente, di tutte le forme di esperienza a una qualche sorta di struttura meccanica – e questa potrebbe essere chiamata la “versione distopica”. L’approccio originario di Philip Dick è essenzialmente orientato verso questa seconda opzione.

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La possibilità di un livellamento di questo tipo è stata prospettata da Hubert Dreyfus in un libro pubblicato nel 1972, What Computers Can’t Do1, che non solo mette in questione il generale ottimismo diffuso ai tempi, specialmente in ambito anglosassone, dagli avanzamenti sull’AI. Dreyfus espone anche il rischio di un’adozione incondizionata di modelli mentali delineati a partire dal funzionamento dei computer: il rischio, cioè, di livellare o ridurre la mente umana a macchina computazionale. In Mind Over Machine (1986)2, scritto durante l’apice delle ricerche sugli expert systems, Dreyfus analizza la differenza tra la competenza umana e i programmi che pretendevano di individuarla, di catturarla. Questo testo approfondisce i temi affrontati in What Computers Can’t Do, dove argomenti simili vengono mossi contro la ricerca sull’AI incentrata sulla “simulazione cognitiva” sviluppata negli anni Sessanta da Allen Newell e Herbert Simon. Di contro, Dreyfus sostiene che il problem solving e la competenza umana dipendano da una comprensione previa del contesto, da ciò che, data una situazione, emerge come importante e interessante, piuttosto che da un processo in grado di trovare ciò di cui si ha bisogno attraverso la progressiva combinazione di diverse possibilità. Questa differenza viene definita nel testo del 1986 come la differenza tra knowingthat (sapere-che) e knowing-how (sapere-come), basata sulla distinzione heideggeriana tra semplice presenza (Vorhandenheit) e utilizzabilità (Zuhandenheit). I lavori di Dreyfus – all’epoca professore al MIT – suscitarono un certo scompiglio nella comunità AI, valendogli un so-

1.  H.L. Dreyfus, Che cosa non possono fare i computer. I limiti dell’intelligenza artificiale, tr. it. di G. Alessandrini, Armando, Roma 2000. 2.  H. L. Dreyfus - S.E. Dreyfus, Mind Over Machine. The Power of Human Intuition and Expertise in the Era of the Computer, Blackwell, Oxford 1986.

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stanziale ostracismo. Ma esse hanno anche offerto un decisivo contributo, utile a considerare con più attenzione le implicazioni filosofiche dell’AI, promuovendo una maggiore cautela nei confronti dei possibili derivati di un’adozione acritica delle prospettive prevalenti nella ricerca mainstream sul rapporto tra mente e macchine.

II Ciò ci porta al tema qui in oggetto. Sono persuaso che l’attuale progresso della ricerca nelle neuroscienze richieda una rinnovata e se possibile più acuta consapevolezza delle implicazioni dei risultati della tecnologia, di quelli già raggiunti e di quelli imminenti. Un semplice rifiuto di essi si mostrerebbe controproducente. Sono convinto dell’importanza dei progressi resi possibili dalla ricerca contemporanea, ma ritengo allo stesso tempo che un’indagine filosofica sulle implicazioni di questi stessi progressi sia della massima importanza, e che molti passi debbano essere compiuti in questa direzione prima che possiamo dirci soddisfatti. Un caso esemplare – che intendo qui affrontare – riguarda la comprensione del dolore. Diversi sono i modi in cui si può intendere questo termine, ma una cosa è certa: il dolore è un problema sempre più studiato, in quanto sembra svolgere un ruolo sempre maggiore nelle nostre società. Per fornire un esempio minimale di questa incrementata attenzione al tema, basti menzionare che nel 1973, a Washington D.C., è stata fondata la International Association for the Study of Pain. Oggi, questa associazione può contare più di 7000 membri provenienti da 133 nazioni, diffusi in 90 paesi. Scopo dell’associazione è quella di riunire scienziati, medici, operatori sanitari e politici per stimolare e sostenere

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lo studio del dolore, al fine di implementare migliori approcci e misure nel suo trattamento. Tuttavia, rimane aperto il problema di comprendere veramente che cosa sia il dolore. Certamente, un’esperienza soggettiva; forse, “la” esperienza più soggettiva. Nessun altro, a parte me, può sentire il dolore che provo in un dato momento. Ma ciò implicherebbe che il dolore non possa essere oggettivato? Che non sia così emerge dalla necessità di comunicare il proprio dolore. Il paziente che sente dolore spera infatti di far capire al suo medico quello che sta sopportando, per far sì che la sofferenza possa essere interrotta o quantomeno lenita. Sia che sia facile o che si riveli difficile comunicare che tipo di dolore si stia sopportando (e molti medici ci dicono che ciò risulta piuttosto difficile), emerge chiaramente che tale attività comunicativa non possa essere trascurata; si rende necessario trovare il miglior modo possibile di condividere i propri sentimenti privati. Nel caso del dolore, un’esperienza soggettiva deve essere – anche a un livello minimale – comunicabile e, in questa misura, oggettivata. Ma come e in che misura è possibile tale oggettivazione? L’oggettivazione equivale a una quantificazione? Se sì, c’è qualcosa che viene perso, tagliato fuori, in questa equivalenza? È possibile immaginare un percorso di oggettivazione di quella esperienza che forse è la più soggettiva in grado di preservarne gli aspetti qualitativi? Diversi approcci affrontano questa sfida: alcuni autori pensano che l’oggettivazione delle esperienze soggettive debba assumere la forma di una riduzione dei sentimenti a correlati neurali, mentre altri pensano che il dolore debba piuttosto essere raccontato, cioè narrato. Questi due approcci rappresentano gli estremi di una gamma che racchiude diverse posizioni intermedie. In particolare, una prospettiva fenomenologica dovrebbe essere in grado di rendere conto della dimensione qualitativa in una luce obiettiva, cioè intersoggettiva, preservando così la necessità di rendere comu-

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nicabile ciò che è più privato, ed evitando un riduzionismo colpevole di eliminare ciò di cui si intende rendere conto. L’indagine prende le mosse dalla considerazione della attuale ricerca medica sull’enigma o la “sfida” del dolore, come pronuncia il titolo di un testo di Melzack e Wall3. Il modello da loro proposto si offre come un primo elemento di confronto, in quanto offre una prima valutazione generale dell’esperienza del dolore. Secondo la teoria da loro elaborata, la cosiddetta teoria del controllo del cancello (gate control theory), un input non doloroso “sbarrerebbe le porte” a un input doloroso, impedendo alla sensazione di dolore di raggiungere il sistema nervoso centrale. In questo modo, la stimolazione tramite input non dolorosi sarebbe in grado di sopprimere il dolore. Proposta per la prima volta nel 1965, questa teoria offre una spiegazione fisiologica che si accorda con gli effetti già emersi dalle indagini sul dolore svolte dalla psicologia della percezione. Combinando alcuni concetti derivati dalla teoria della specificità (specificity theory) e dalla teoria dei modelli periferici (peripheral pattern theory), la gate control theory è considerata una delle teorie del dolore più influenti in quanto fornisce una base neurale in grado di riconciliare le prime due teorie, rivoluzionando, in ultima istanza, la ricerca sul dolore. Un ulteriore elemento può essere aggiunto rifacendosi alle ricerche svolte più recentemente da Melzack presso la McGill University, in cui vengono distinti due tipi di dolore, trasmessi al sistema nervoso centrale attraverso due percorsi separati. Il dolore improvviso e a breve termine, come il dolore che deriva da un taglio sul dito, è trasmesso da un insieme di percorsi indicati da Melzack con il nome di “sistema laterale”, collocato sui lati del tronco encefalico. I dolori prolungati, invece, come il mal 3.  R. Melzack - P.D. Wall, La sfida del dolore, Piccin-Nuova Libraria, Padova 1988.

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di schiena cronico, sono trasmessi dal “sistema mediale”, i cui neuroni interessano la sezione centrale del tronco encefalico. Questo modello, per quanto profondo e ricco di implicazioni, sembra tuttavia mancare di solide basi concettuali. In particolare, le diverse critiche sollevate da queste proposte sono in grado di suggerirci come, negli studi sul dolore, quest’ultimo venga inteso sempre più raramente come la percezione di una mera realtà oggettuale. Elemento, questo, che sposta la concezione del dolore verso una descrizione simile a quella delle emozioni. Ciò, innanzitutto, attraverso una distinzione tra dimensione sensoriale e dimensione affettiva del dolore e, in secondo luogo, attraverso una enfatizzazione di questo secondo aspetto. Solo a questo punto lo studio del dolore deve rivolgersi alle neuroscienze per trovare categorie utili a migliorare la comprensione del fenomeno. Eppure si possono trovare diversi approcci neuro-cognitivi legati a questo tema, dall’eliminativismo al dualismo.

III Il compito è quindi quello di delineare un approccio filosofico in grado di garantire una prospettiva che sia allo stesso tempo criticamente organizzata, epistemologicamente solida e cognitivamente flessibile. La discussione degli approcci filosofici pertinenti all’esperienza del dolore implica la necessità di distinguere lungo tre diverse direttrici, a loro volta articolate e diversificate internamente. Sinteticamente, queste direttrici possono essere chiamate: cognitivista, ermeneutica e fenomenologica. Può essere utile delineare brevemente queste diverse prospettive e poi discuterle sinteticamente. L’approccio cognitivista è esemplificato da alcuni degli autori più rilevanti dell’odierna filosofia neuro-cognitiva: Daniel

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Dennet, Paul e Patricia Churchland, Fred Dretske, Michael Tye. L’approccio ermeneutico può essere considerato attraverso il ricorso a Hans-Georg Gadamer. All’apparenza opposte, queste prospettive condividono un assunto comune: che il corpo non debba essere concepito in maniera diversa rispetto alla res extensa cartesiana. Sorgono così alcuni problemi: in particolare viene trascurata la riflessività implicata in ogni esperienza di dolore. Di conseguenza, un approccio adeguato al sentimento del dolore deve intraprendere un percorso fenomenologico. Ciò significa discutere i contributi di Husserl, ma anche di Scheler e Heidegger, al fine di lasciar emergere la complessità del fenomeno “dolore”, che mostra una struttura particolare e paradossale: esso espone il soggetto che prova dolore alla propria esteriorità interna. In questa luce, ulteriori ricerche devono essere portate avanti nella direzione della soggettività incarnata. Le opere di Maurice Merleau-Ponty, Jean-Paul Sartre, Michel Henry e Shaun Gallagher offrono importanti strumenti concettuali in questa direzione. L’obiettivo finale di questo approccio consiste nel trovare un possibile ponte tra gli approcci maggiormente orientati alla oggettivazione dell’esperienza del dolore e quelli più orientati alla soggettività, al fine di evitare una sterile opposizione e promuovere ulteriori ricerche, sia teoriche che pratiche. A questo proposito, la vera questione è rappresentata da quali nozioni di corpo, esperienza corporea e soggettività incarnata vengono implicate da ciascuno dei tre approcci menzionati. La pretesa è quella di non rifiutare in blocco l’attuale tendenza degli approcci scientifici nella comprensione del dolore, comprese le neuroscienze, la biologia cellulare e la medicina clinica. Ma, allo stesso tempo, si intende sottolineare che tali approcci non possono fare a meno di una revisione della nozione di esperienza corporea, che il più delle volte viene adottata

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in maniera acritica. È in questa luce che una revisione filosofica delle categorie coinvolte nella ricerca si rivela fruttuosa. In particolare, un approccio fenomenologico promette di offrire i migliori strumenti concettuali per fare spazio a una più sottile e profonda concettualizzazione del dolore come una delle più importanti esperienze incarnate che caratterizzano la soggettività umana.

IV Partendo dalla prospettiva neuro-cognitivista, ho scelto di discutere l’approccio eliminativista attraverso il confronto con gli scritti di Paul e Patricia Churchland. Ciò, per due ragioni principali: la prima è che il loro punto di vista è forse il più chiaro, almeno per quanto concerne la questione del dolore. Chiaramente, anche altre prospettive meriterebbero di essere discusse, come per esempio le diverse osservazioni sul tema da parte di Daniel Dennett. Ma c’è un’altra ragione alle base della scelta: la prospettiva dei Churchland sul dolore è molto ben sintetizzata in un loro contributo dal titolo Neurofilosofia4. Qui viene affermato: L’approccio riduzionista basato sull’eliminazione sostiene che la spiegazione di un macrofenomeno nei termini delle sue dinamiche a livello microstrutturale non significa che il macrofenomeno stesso, come per esempio il dolore, non sia reale, né che rappresenti qualcosa di ridondante che non vale la pena di spiegare scientificamente. La strategia riduzionista implica non una spiegazione diretta dei fenomeni che accadono ai li-

4.  Disponibile all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/neurofiloso­ fia_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29. I corsivi nella cit. seguente sono miei.

354 velli superiori in termini di fenomeni che interessano i livelli organizzativi inferiori, ma progressive spiegazioni riduttive che comunque prevedono che la ricerca proceda simultaneamente a tutti i livelli.

L’elemento saliente di questo passaggio è rappresentato dall’idea secondo cui i “macrofenomeni”, come per esempio il dolore, debbano allo stesso tempo (almeno in linea di principio) essere rispettati nella loro peculiarità e tuttavia essere ridotti a livelli sottostanti, “inferiori”. È da notare l’uso della metafora della stratificazione – nient’affatto scontato – la quale implica e comporta che esperienze come il dolore non siano “originarie”: esse cioè dipendono, in senso logico, epistemologico e persino ontologico, da qualcos’altro. Il dolore in sé “è” quasi nulla. Esso si spiega come proprietà “emergente”, dove la nozione di emergenza è adottata in senso debole5. I Churchland ammettono che tale modello rappresenti più un desideratum che una vera e propria acquisizione scientifica. In particolare, viene riconosciuta una certa importanza alla richiesta antiriduzionista di non trascurare il regno dell’esperienza soggettiva, e in particolare quello che viene chiamato l’ambito dei qualia. Allo stesso tempo, i Churchland rimangono fiduciosi nel fatto che tali problemi potranno essere superati dallo sviluppo stesso delle neuroscienze.

5.  Per una discussione della nozione di emergenza cfr. J. Kim, Supervenience and Mind. Selected Philosophical Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1993, e Id., Mind in a Physical World. An Essay on the MindBody Problem and Mental Causation, The MIT Press, Cambridge (MA) 1998. I Churchland, sostanzialmente, adottano l’approccio di Kim e rifiutano un uso più forte della nozione. Una eccellente discussione critica della concezione debole di emergenza offerta da Kim, quindi a supporto di un approccio più forte, può essere trovata in A. Zhok, Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS, Pisa 2011.

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Ciò che risulta ancor più importante è la nozione di sensazione adottata dai Churchland. Seguendo una tradizione prevalente nel mondo filosofico anglofono, le sensazioni vengono caratterizzate come “entità intrinsecamente e assolutamente semplici”. Il dolore in particolare mostra di non possedere “elementi costitutivi o una struttura relazionale”. Così, il dolore può essere effettivamente distinto in modo spontaneo, certo e inequivocabile, ma non siamo ancora in grado di dire perché ciò sia così. In questo senso, quindi, il dolore non può essere analizzato attraverso un approccio materialista. La fisica viene tuttavia considerata come la scienza che deve discriminare ciò che è reale e ciò che non lo è. Fisica che, nella prospettiva delineata, è ovviamente integrata dall’approccio neuro-computazionale. I Churchland suggeriscono quindi che in un futuro più o meno prossimo le reti neurali diventeranno in grado di imparare dall’esperienza, fornendo così una spiegazione materialista della coscienza di sé. In particolare, viene sostenuto che il dolore potrà essere inteso in termini di rappresentazioni simili ad altre classi di rappresentazioni come i colori, gli odori e così via; in questo modo il dolore sarà “spiegato via via” attraverso la ricerca di una spiegazione causale che metta in relazione ciò che accade ai livelli inferiori e ciò che “appare” alla coscienza, ma che non è reale in sé. Molti sono gli aspetti di questo approccio che possono essere messi in discussione, ma che, per ragioni di spazio, dovranno essere lasciati da parte. Va qui ricordato che la nozione di dolore come rappresentazione è presente nei primi lavori di Husserl, per essere poi abbandonata. Prima di discutere la sua posizione, esaminerò brevemente le osservazioni di Gadamer sul dolore e la sofferenza. Questa analisi dovrebbe fornirci ulteriori elementi utili a concepire il dolore in modo diverso.

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V In un breve testo pubblicato nel 20036, Gadamer si rivolge a un pubblico non filosofico composto da medici e biologi che si riuniscono per discutere il tema del dolore fisico. Il punto di partenza che da lui assunto è quello della sua esperienza personale e, in particolare, dell’infezione di polio che lo ha afflitto in gioventù, causando un dolore persistente ma non paralizzante per molti anni, fino alle soglie della vecchiaia. Nel suo breve discorso, seguito da un’intensa discussione, Gadamer si oppone alla medicalizzazione del dolore, e in particolare alle terapie che in maniera pressoché esclusiva ruotano attorno all’uso di farmaci. Egli sostiene che il dolore possieda un certo significato, in quanto elemento che deve essere affrontato e superato. Allude poi alla possibilità, anzi all’opportunità, di sviluppare forme alternative di medicina, riferendosi alle dottrine elaborate dall’amico Paul Vogler, un medico di Heidelberg, il quale promuove un trattamento del dolore in grado di catalizzare le energie latenti dell’organismo sofferente. Un trattamento che pone come sua propria condizione che il corpo non venga considerato come una macchina sottoposta a leggi meccaniche. I benefici derivanti da un tale approccio alternativo vengono poi confrontati da Gadamer con la prospettiva filosofica ermeneutica, in quanto il dolore emerge come un elemento che necessita di essere compreso nel suo significato e nel suo valore esistenziale. Il dolore è legato all’esperienza e solo in questa luce può essere compreso, non meramente eliminato, più o meno temporaneamente, attraverso antidolorifici sedativi.

6.  H.-G. Gadamer, Schmerz. Einschätzungen aus medizinischer, philosophischer und therapeutischer Sicht, Winter, Heidelberg 2003; tr. it. di E. Paventi, Il dolore. Valutazioni da un punto di vista medico, filosofico e terapeutico, Apeiron, Sant’Oreste 2004.

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Il tema fondamentale così evocato da Gadamer consiste nel porre la questione del significato del dolore, cioè della necessità di “capire”, e non solo di “spiegare”, il dolore. Ciò può essere fatto trovando le radici di quest’ultimo nell’esistenza umana in quanto tale, evitando di concepirlo alla stregua di un errore o di una disfunzione organica. Nel dibattito che segue il discorso di Gadamer, alcuni medici sono d’accordo con lui nel sottolineare l’utilità del riconoscere l’intera personalità del paziente ai fini della cura. Altri obiettano però che ciò, pur essendo auspicabile, può spesso risultare piuttosto difficile o addirittura impossibile, sostenendo inoltre che un trattamento farmacologico risulta in ogni caso necessario. Gadamer si mostra parzialmente d’accordo, insistendo però sull’opportunità di non trascurare le risorse naturali presenti negli esseri umani. Rispondendo a un’ultima domanda riguardo a che cosa sia, in fondo, il dolore, Gadamer afferma: un avvertimento e un ammonimento. Quindi, in ultima analisi, una risorsa significativa, anche se il suo significato appare solo nel combatterlo. Si potrebbe quindi dire che per Gadamer la questione consista nell’introdurre la soggettività nella prassi medica, mentre i medici tendono di solito a concepire la propria pratica come un’azione rivolta a corpi oggettuali. Pertanto il medico dovrebbe imparare a vedere il Leib, e non solo il Körper, del paziente, con un chiaro riferimento alle nozioni di Husserl. Eppure il problema teorico risiede proprio nel chiarire il modo di questa distinzione. A mio avviso, ciò rappresenta un problema per chi, come Gadamer, sostanzialmente contrappone l’approccio causale alla corporeità, proprio delle scienze naturali, e l’ermeneutica, intesa come interpretazione del significato – e quindi considerata come scienza interpretativa basata sul linguaggio, irriducibile ai metodi delle scienze naturali. In altre parole, Gadamer

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eredita l’opposizione tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften inaugurata da Dilthey. Sembra possibile suggerire che proprio questa opposizione a sua volta derivi dalla scissione cartesiana tra materia e mente, res extensa e res cogi­tans, che porta con sé la necessità di oltrepassare la scissione stessa. Le nozioni di corpo e di corporeità dovrebbero essere concepite in modo diverso quando si tratta del corpo vivente dell’essere umano (sofferente). La questione fondamentale, giustamente posta alle neuroscienze da parte di Gadamer, riguarda la tecnicizzazione del corpo implicita nella medicalizzazione della cura e in particolare in una concezione che equipara il dolore a un malfunzionamento – secondo cui un giusto trattamento non differisce di molto dall’aggiustare un componente rotto. Infatti, i terapeuti delle unità di terapia del dolore spesso concepiscono il loro compito come l’eliminazione del dolore, in particolare cronico, attraverso l’uso di antidolorifici. Il dolore è considerato come puro deficit, trascurando così la sua dimensione esperienziale. Gadamer insiste, al contrario, sulle virtù della medicina naturale, nella misura in cui quest’ultima permette ai terapeuti di tenere conto dell’esperienza di dolore del paziente: il paziente non vede il suo corpo come uno strumento rotto e da riparare, ma come se stesso che ha bisogno di essere curato. Da questo confronto emerge così la questione filosofica che coincide con l’esigenza di comprendere correttamente l’evento dell’esperienza del corpo – secondo il doppio genitivo, cioè nei termini di corpo che sperimenta se stesso. La capacità riflessiva del corpo è ciò che sfugge sia all’approccio materialista ed eliminativista, sia all’approccio ermeneutico, nella misura in cui quest’ultimo, limitandosi a sfidare il primo, non affronta chiaramente questo particolare problema.

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VI L’approccio fenomenologico alla corporeità sembra invece in grado di evitare in modo fruttuoso lo sterile contrasto sopra abbozzato. Esso infatti offre una diversa prospettiva categoriale sulla nozione di corpo, che sembra essere più adeguata al fine di cogliere il significato del dolore, evitando di comprenderlo a partire da un’idea disincarnata di soggettività, rischio in cui la prospettiva ermeneutica tende a cadere. Parlare di un approccio fenomenologico alla corporeità in generale è ancora troppo vago, poiché già solo nelle opere del fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl, si possono trovare diversi approcci alla questione. Il problema è decisamente troppo ampio per essere discusso in questa sede: lo esaminerò quindi dall’angolo prospettico dei concetti di sentimento ed emozione, che sarà in grado di fornirci alcuni elementi utili a valutare se si possa parlare del dolore nei termini di rappresentazione – cifra peculiare dell’approccio eliminativista. Nel primo volume di Idee7, Husserl introduce una novità rilevante considerando le emozioni come atti in grado di produrre la manifestazione di «oggetti di un nuovo tipo». Le emozioni, in altre parole, non vengono più pensate come mere “colorazioni” di precedenti atti cognitivi, ma vengono al contrario viste nella loro capacità di mostrare aspetti dell’Essere a cui gli atti cognitivi non hanno accesso. Gli atti emotivi sono cioè concepiti come strutturati secondo due direttrici: permettono al soggetto di “prendere posizione” affettivamente (Stellung nehmen) rispetto al proprio mondo, indipendentemente da atteggiamenti proposizionali; e permettono al sog-

7.  E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, 2 voll., tr. it. a cura di V. Costa, vol. I, Einaudi, Torino 2002.

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getto di incontrare se stesso secondo possibilità determinate. Ciò non significa che Husserl sia poi portato a considerare l’affettività in termini di fusione emotiva. Al contrario, questa nuova direzione di analisi lo porta ad assegnare una capacità oggettivante agli atti emotivi stessi, a condizione che queste oggettività siano colte come oggetti di nuova specie, diverse dalle più consuete oggettività colte dagli atti cognitivi. Husserl distingue inoltre tra atti intenzionali e tonalità emotive – termine solitamente ricondotto a Heidegger –, sostenendo che ciò che appare attraverso questa seconda modalità non è solo un determinato affetto, riferito a un determinato oggetto, ma piuttosto un certo senso di totalità. Una diversa tonalità emotiva non modifica il rapporto affettivo con questa o quella entità appena, ma determina piuttosto una diversa modalità di manifestazione di un mondo in totalità (world in totality), lasciando cioè manifestare un mondo diverso. Le tonalità emotive costituiscono lo sfondo emotivo della comparsa del significato o del senso di un mondo – inteso, ovviamente, nel senso fenomenologico del termine –, un senso non cognitivo, ma affettivo. In un manoscritto dei primi anni Venti, Husserl sottolinea che lo sfondo affettivo non presiede alla costituzione di oggetti particolari, quindi nemmeno degli oggetti di nuovo tipo di cui si parla in Idee, ma rappresenta piuttosto un «elemento unitario non chiaro, un essere in una tensione confusa, eppure privo di direzione. Forse, ciò può essere inteso come “stato emotivo” [ein unlakers Eines, ein in verworrener Spannung sein und doch nicht in einer Richtung. Vielleicht meint man das mit unter “Stimmung”]» (Ms. A VI 26/3). In particolare, va trattenuta l’osservazione di Husserl riguardo alla tensione, che viene intesa come un aspetto strutturale fondamentale. Nell’analisi di Husserl, la tonalità emotiva, o stato emotivo, presiede alla configurazione affettiva del mondo, e come tale

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condiziona anche le apprensioni affettive di oggetti particolari. Di conseguenza, è possibile affermare che ogni senso d’essere (Seinssinn) manifestato in una determinata emozione si collochi all’interno dell’orizzonte di mondo reso possibile da un particolare stato emotivo. Questo a sua volta non significa che uno stato emotivo possa esserci oppure no, perché un certo, specifico stato emotivo è sempre dato, a volte anche sotto forma di assenza di rilevanza affettiva: quest’ultima non è pura assenza, ma qualcosa di simile a una modalità mortificata o a un grado zero, quindi non un puro nulla. Tale osservazione suggerisce due ordini di considerazioni. In primo luogo, possiamo osservare che la vita emotiva è essenzialmente costituita da strutture generali, gli stati emotivi, che determinano il grado di ricettività della prima. In questo caso Husserl si avvicina a e si allontana da Kant, in quanto concepisce la ricettività non come una mera plasmabilità inerte, ma come ambito di possibilità: c’è un’attività di passività, come osserva a volte Husserl, in particolare nelle cruciali analisi sulla sintesi passiva. In secondo luogo, e più propriamente, diviene possibile porre la questione dell’esperienza di dolore nei termini di una determinazione strutturale e fondamentale. Il dolore non accade in un corpo meccanico, che come tale non conosce la propria sofferenza. Può avvenire piuttosto solo a una struttura caratterizzata da una forma di ricettività generale, determinata secondo la propria “sintonizzazione” emotiva (attunement), una struttura trascendentale (affettiva e non cognitiva), che rappresenta la condizione di possibilità di esperienza in generale e di esperienza affettiva in particolare. Per Husserl, a questo punto, l’esperienza è in primo luogo una questione di affettività, di capacità di subire affetti (affectability), il che a sua volta dipende dall’avere un corpo che è allo stesso tempo soggetto-a e soggetto-di sentimenti. La divisione netta tra sensazioni ed

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emozioni, rivendicata da diverse scuole filosofiche, diventa allora meno marcata, a favore di una diversa concezione basata sulle due basilari nozioni di passività e attività, nonché sulle relazioni da loro e tra loro intrattenute.

VII Queste osservazioni permettono di sviluppare un approccio diverso al dolore, sottolineando la necessità di comprenderlo in termini dinamici. In altre parole, il dolore non “è” puramente e semplicemente, ma sempre accade e interviene su un soggetto corporeo già precedentemente “sintonizzato” emotivamente. In questo senso, l’evento di una nuova esperienza dolorosa possiede fin dall’inizio uno stato temporale, in quanto (di solito) non-previsto e irrompente come trauma. In effetti, il dolore è il paradigma della nozione di trauma. Ma che il dolore non sia un evento meccanico emerge anche da un altro elemento: esso può – o meno – propagarsi sul corso d’esperienza del soggetto corporeo. Si può imparare a sopportare il dolore. Si può anche trarre piacere dal dolore. E di fatto Husserl prende in considerazione la possibilità che una certa condizione emotiva possa attenuare sentimenti che in altre circostanze avrebbero avuto un corso diverso. In ogni caso, il dolore possiede una struttura temporale piuttosto non-lineare, perché si impone al soggetto che non lo cerca – anche nel caso del piacere da dolore, ciò che si cerca non è il dolore in sé, ma il piacere che ne deriva. Il dolore quindi non è istantaneo, non essendo privo di spessore temporale. C’è una profonda correlazione tra dolore e temporalità: forse, la forma più profonda di struttura temporale è quella legata al dolore e alla sofferenza. Non posso soffermarmi qui su questo argomento, ma posso solo accennare a questo tema sotto-

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lineando l’importanza del dolore per comprendere la vita. Il dolore è infatti legato all’interruzione traumatica di uno stato precedente, e in questa misura può dire che rappresenti la prima irruzione dell’alterità all’interno del soggetto, anche quando questa alterità è legata agli stati corporei del soggetto stesso. Il corpo è vivo in quanto può subire un tale squilibrio. Da quanto abbiamo visto credo sia possibile trarre la conclusione – inevitabilmente provvisoria – che il dolore rappresenti un ottimo oggetto di indagine per testare quale sia la concezione di uomo che agisce nel nostro agire. Perché in un certo senso il trattamento dell’uomo attraverso la tecnologia e gli enormi progressi di quest’ultima potrebbero condurci a essere più o meno umani, a seconda di quale nozione di dolore e di soggettività corporea diverrà prevalente in un futuro molto prossimo.

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Heidegger e la fine dell’umano tra analitica esistenziale e sapere scientifico Roberto Redaelli

La questione animale occupa oggigiorno uno spazio preminente nell’orizzonte di riflessione dischiuso dalle scienze e dalla filosofia. Le nuove scoperte realizzate nel campo dell’antropologia evolutiva e l’interesse crescente per gli Animal Studies pongono, difatti, una serie di questioni ineludibili inerenti alla sfera del vivente umano e non umano. Dall’orizzonte di tali questioni si staglia con rinnovato vigore la domanda sul finire o morire dell’essere vivente. Se, secondo gran parte del pensiero occidentale, solo l’uomo ha consapevolezza della propria finitezza, mentre il resto del regno animale non possiede alcun sapere della morte, oggigiorno si registra una tendenza di verso opposto, che riconosce anche al vivente non-umano una certa comprensione della propria fine, riducendo gran parte delle riflessioni filosofiche sull’animale, sviluppate dalla tradizione occidentale, in particolare da quella cosiddetta continentale, al prodotto di un annoso pregiudizio antropocentrico. La forza di questo inveterato pregiudizio è sostenuta, secondo una delle più recenti analisi del sociologo australiano Allan Kellehear, da un duplice assunto. Tale preconcetto fu corroborato dapprima dalla tesi cristiana secondo cui la natura dell’essere umano sarebbe più prossima a quella degli angeli che a quel-

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la delle bestie1 e, in tempi più recenti, sostituendo l’io alla natura divina, dalla convinzione che «solo gli uomini conoscono la morte perché l’ego scandisce il tempo»2. A tale pregiudizio lo stesso Kellehear contrappone la tesi secondo cui «ogni animale comprende la morte»3, per cui la linea di demarcazione che tradizionalmente separa il vivente umano dagli altri esseri viventi risulta essere artificiale e posticcia, nient’affatto empiricamente giustificata. Com’è noto, con tale linea di confine si è confrontato a più riprese, in ambito squisitamente filosofico, Martin Heidegger. La sua riflessione sull’animale, che è stata recentemente definita nei termini di una onto-ethology4, ha costituito e costituisce tuttora un punto di riferimento fecondo nel nostro scenario filosofico-culturale. Difatti, ad essa hanno rivolto l’attenzione, talvolta polemicamente talvolta traendone fonte d’ispirazione, filosofi del calibro di Derrida, Agamben, Figal e Lévinas, solo per citarne alcuni. In modo particolare, in questi ed in altri autori, ha destato un forte interesse la classificazione tra i differenti modi del finire presentata da Heidegger lungo il suo Denkweg. Più precisamente, entro l’alveo della riflessione heideggeriana, che distingue, seppur non in modo sistematico, lo spazio animale da quello propriamente umano in seno a una riproposizione della Seinsfrage, è riconosciuto al Dasein (in linea con 1.  Cfr. R.G. Bednarik, A Major Change in Archaeological Paradigm, in «Anthropos», vol. 98, n. 2, 2003, pp. 511-520: p. 513. 2.  E. Becker, The Birth and Death of Meaning, Penguin, Harmondsworth 1972, p. 28. 3.  A. Kellehear, A Social History of Dying, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 11. 4.  Cfr. B. Buchanan, Onto-Ethologies: The Animal Environments of Uexküll, Heidegger, Merleau-Ponty, and Deleuze, State University of New York Press, New York 2008.

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la tradizione antropocentrica richiamata da Kellehear) un rapporto esclusivo con la morte. Al fine di rimarcare questa esclusività il filosofo adotta in Essere e tempo una precisa distinzione terminologica: egli assegna al Dasein il morire propriamente (Sterben) mentre relativamente all’animale si può parlare soltanto di cessare di vivere, di finire (Verenden). Come vedremo a breve, con tale distinzione non vi è in gioco una questione meramente terminologica, bensì una radicale differenza ontologica, che investe lo statuto stesso dell’umano. A queste modalità della finitudine si rivolge il presente scritto, perseguendo un duplice fine. In primo luogo, esso intende mettere in luce la differenza tra la morte dell’uomo e il finire dell’animale a partire dal pensiero di Heidegger, che di tale differenza ha fatto più volte questione lungo la sua complessa traiettoria intellettuale. Il secondo obiettivo è quello di vagliare i limiti e l’attualità della posizione heideggeriana sulle diverse modalità del finire alla luce dei risultati più recenti offerti da alcune discipline scientifiche in campo antropologicotanatologico. A tale scopo, dapprima il testo mira ad affrancare la trattazione heideggeriana della morte dalle critiche di segno opposto rivolte ad essa da Jacques Derrida e Günter Figal. In seguito, esso presenta la relazione strutturale riconosciuta da Heidegger tra finitezza e sfera simbolica dell’umano al fine di perimetrare i confini della proposta teoretica articolata dall’analitica della morte.

1. La posizione del problema: il morire dell’uomo e il finire dell’animale. Le critiche incrociate di Derrida e Figal L’analisi heideggeriana dell’animale è stata tacciata da più parti di antropocentrismo. L’interesse precipuo di Heidegger volto al Dasein e alla sua peculiare essenza, ossia l’esistenza, nonché

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l’impiego di logiche oppositive sono state spesso lette come sintomi di una forte curvatura antropocentrica-metafisica, di cui sarebbe informata l’impresa filosofica heideggeriana. Tra i prodotti di tale impostazione rientrerebbe anche la differenza tra il morire dell’esserci e il finire dell’animale, tracciata da Heidegger, a detta dei suoi commentatori, senza alcun riferimento al piano empirico e perciò non suffragata dai dati offerti dalle scienze5. Tra le accuse di antropocentrismo rivolte all’impianto heideggeriano, e più specificamente alla differenza in esso presentata tra morire e finire, vi sono, tra le più recenti, quelle mosse da Matthew Calarco. Nel suo scritto Zoografie, che ha riscosso notevole successo nel campo degli Animal Studies, l’autore propone di restituire all’animale uno spazio suo legittimo, in cui esso non sia, per così dire, introiettato, assorbito, rinchiuso entro il perimetro antropico: l’animale non è riducibile a mero oggetto del nostro pensiero e delle nostre azioni. Al fine di tratteggiare una nuova immagine del vivente non umano, affrancata dalle antiche pastoie dell’antropocentrismo, Calarco ripercorre alcune posizioni paradigmatiche assunte, di fronte all’animale e alla questione animale, dalla tradizione filosofica continentale, mettendone in luce pregi e difetti. Questo percorso, di certo istruttivo, si apre con un ampio capitolo dedicato a Heidegger dal significativo titolo Antropocentrismo metafisico. Come si evince già dal titolo, l’immagine che Calarco offre del filosofo è quella di colui che ha «contribuito a marginalizzare la questione animale nell’ambito della

5.  Cfr. J. Derrida, La mano di Heidegger, tr. it. di G. Scibilia e G. Chiurazzi, a cura di M. Ferraris, Laterza, Bari 1991, p. 48. Di tenore diverso saranno le affermazioni di Derrida riguardo al testo heideggeriano Concetti fondamentali della metafisica, in Id., L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 202.

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riflessione contemporanea»6, peccando, per l’appunto, di un radicale antropocentrismo. L’accusa di antropocentrismo investe anche quel tratto peculiare del vivente umano che è al centro della presente indagine – la modalità di finire dell’umano – mettendone in discussione l’attendibilità. Per tale ragione è opportuno verificare la bontà delle critiche mosse da Calarco all’impianto heideggeriano, prima di rilanciarne, se possibile, alcune istanze. A riprova dell’antropocentrismo metafisico che struttura il discorso heideggeriano, Calarco sottolinea dapprima la quasi totale assenza di riferimenti all’animale nel progetto dell’analitica esistenziale elaborata in Essere e tempo. Difatti, nel magnum opus heideggeriano l’animale si affaccia sulla scena filosofica solo due volte. Una prima volta in cui sono nominate le pelli dell’animale e una seconda in cui Heidegger traccia la linea di demarcazione tra i due modi del finire sopramenzionati. Per quanto riguarda la prima zoofania, se così si può definire, Heidegger riconosce l’utilizzabilità dell’animale e delle sue pelli entro il processo produttivo di scarpe di cuoio, senza tuttavia ridurre il vivente non umano alla stregua di un artefatto: l’animale produce se stesso7; esso non è mera creazione dell’umano. Questo breve riferimento all’animale è letto da Calarco secondo un duplice registro: da un lato, egli riconosce a Heidegger il merito di affrancare gli animali dallo statuto di meri strumenti a disposizione dell’uomo, nondimeno, dall’altro lato, Calarco rimprovera al filosofo di non aver approfondito tale

6.  M. Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida, a cura di M. Filippi e F. Trasatti, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 21. 7.  M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 93.

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feconda intuizione nelle complesse trame concettuali intrecciate dall’analitica esistenziale8. Accanto a questo breve accenno, vi è un secondo luogo del­ l’ontologia fondamentale in cui il discorso heideggeriano si rivolge alla sfera animale. Nel tentativo di risoluzione del problema della totalità dell’esserci, Heidegger tratta diffusamente dell’essere-per-la-morte. In seno alla meditatio mortis delinea­ ta in Essere e tempo, il filosofo si avvale, secondo la lettura offerta da Calarco, di una logica binaria che investe l’animale in opposizione privativa all’esserci: solo l’esserci muore, mentre l’animale perisce. Come abbiamo già notato, alla scelta terminologica corrisponde una radicale distinzione ontologica: a differenza del vivente animale, che soltanto cessa di vivere, l’esserci si relaziona alla morte in quanto tale, ha un qualche accesso alla morte. Già da questi brevi accenni, emerge chiaramente l’intenzione sottesa a tale distinzione: Heidegger differenzia la morte dal semplice perire, ossia dalla fine (Ende) propria di ogni essere vivente, al fine di assegnare esclusivamente all’esserci il morire propriamente (Sterben). Secondo tale strategia argomentativa, il morire è legato non tanto al destino biologico che l’esserci ha in comune con il resto del regno organico, da cui non può in alcun modo esimersi, bensì si connette a quella che potremmo chiamare l’assunzione della propria finitezza, posta da Heidegger a fondamento dell’esistenza autentica. In breve, l’esserci soltanto ha accesso alla morte in quanto tale. La distinzione heideggeriana tra finire e morire, restituita in Zoografie, appare a Calarco dogmatica e scientificamente infondata. Al fine di dare credibilità alla propria critica, l’autore rinvia in nota alle lucide analisi di Derrida relative alla differenza tra il morire dell’esserci e il finire dell’animale. Alle 8.  Cfr. M. Calarco, Zoografie, cit., p. 22.

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critiche derridiane, che agiscono profondamente, talvolta dichiaratamente talvolta silentemente, entro le pieghe del discorso presentato in Zoografie, vorremmo prestare particolare attenzione, poiché se tali rimostranze colpissero nel segno la distinzione tra morire e cessare di vivere avanzata da Heidegger, l’intero impianto dell’analitica dell’esserci sprofonderebbe in quello che Calarco rubrica sotto il titolo di antropocentrismo metafisico, per il quale «l’essere dell’animale è determinato sulla base di una rigida opposizione binaria nei confronti dell’essere dell’uomo e della misura che questo istituisce»9. Derrida stesso, non a caso, è pienamente consapevole che, minando la rigorosa separazione tra morire e finire, «sarebbe tutto il progetto di un’analitica del Dasein a trovarsi investito di un altro statuto rispetto a quello che generalmente gli si attribuisce»10. Le critiche derridiane alla nozione di essere-per-la-morte sono raccolte per lo più in Aporie. Morire – attendersi ai «limiti della verità». In quest’opera, Derrida va a colpire, con un’argomentazione serrata e puntuale, la trattazione heideggeriana della morte, che, in Essere e tempo, prende le mosse dal cessare di vivere. Come abbiamo già osservato, il finire, inteso come la fine del semplice-vivente, è comune a tutto il regno organico, incluso l’esserci. Tuttavia, il finire non è identificabile, nell’ottica heideggeriana, con la morte in senso autentico: la fine dell’Esserci, ossia la sua fine biologica non è il morire. L’esserci può cessare di vivere, ma ciò non è ancora identificabile con il modo di finire suo proprio. Escluso che il morire coincida con il cessare di vivere, Heidegger, al fine di perimetrare la nozione di morte, inserisce tra tali modalità della finitudine il “decesso” (Ableben), deno-

9.  Ivi, pp. 59-60. 10.  J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai «limiti della verità», tr. it. di G. Berto, Bompiani, Milano 1999, p. 28.

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tando con questo termine il carattere medico-legale che può assumere il finire dell’esserci. Nondimeno, anche in merito al decesso, vale ciò che era già stato detto per il cessare di vivere: se solo l’esserci può decedere, «quando essendo stata constatata, secondo criteri convenzionalmente accreditati, la sua morte biologica o fisiologica, lo si dichiara morto»11, tale decedere non è ancora il morire propriamente detto, a cui principalmente si volge l’analisi heideggeriana. Al termine di tale indagine, che prende in esame, secondo una precisa linea argomentativa, dapprima il cessare di vivere (Verenden) poi il fenomeno intermedio del decesso (Ableben) e infine il morire (Sterben), la morte si rivela, nella sua più intima essenza, quale termine, conio, epiteto, impiegato in Essere e tempo, «per indicare il modo di essere in cui l’Esserci è per-la-sua morte»12. Se biologicamente l’esserci finisce alla stregua di tutti gli altri viventi, e può decedere qualora sia accertata la sua fine, sul piano esistenziale egli si relaziona alla propria morte, è per-la sua morte, mediante quella che Heidegger definisce l’anticipazione della morte. Attraverso questo precorrimento della morte, questo sguardo verso il futuro, verso il proprio a-venire, l’esserci ha la possibilità di rapportarsi al proprio poter essere più proprio in quanto Cura, ossia nella veste di temporalità originaria. L’essere decide e si decide per la propria morte, cogliendo il proprio futuro come esser-possibile: egli avverte il peso del suo esser finito, per cui la morte è un’«imminenza che incombe»13. Ora, di tali distinzioni tanatologiche avanzate da Heidegger, qui restituite per accenni, Derrida evidenzia innanzitutto il peso ontologico: nella differenza terminologica tra morire, de11.  Ivi, p. 33. 12.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 297. 13.  Ivi, p. 300.

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cedere e cessare di vivere è portato alla luce l’abisso che, ad avviso di Heidegger, separa l’uomo dall’animale. Come sottolinea, a ragione, Derrida, questo abisso tra il mortale e l’animale si delinea a partire da «un certo accesso alla morte come morte, alla morte come tale»14. Difatti, Heidegger, più volte nel corso del suo itinerario di pensiero, sottolinea, seppur con modulazioni differenti dovuti alla cosiddetta svolta15, questo peculiare accesso dell’esserci alla morte come tale, e più in generale al come tale, di contro all’incapacità dell’animale di morire. In tal modo, la differenza che separa l’animale dall’uomo non è di grado, bensì d’essenza. L’essere umano e l’animale non sono collocabili l’uno accanto all’altro sul piano di un’ontologia continuista del vivente di stampo gradualista (criticata apertamente nei Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine) bensì tra di essi vi è un abisso, un salto, uno scarto incolmabile. Questa differenza d’essenza appare in modo chiaro, nel saggio La cosa, laddove il filosofo dichiara, a chiare lettere, che «i mortali sono gli uomini. Si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci della morte in quanto morte. Solo l’uomo muore. L’animale perisce. Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé»16. Proprio questo accesso umano alla morte in quanto morte, l’avere la morte avanti e dietro di sé, è ciò che Derrida mette in discussione della trattazione heideggeriana del finire. In modo particolare, la critica derridiana si volge principalmente alla celebre definizione di morte presentata in Essere e tempo, secondo la quale il morire sarebbe la possibilità «in quanto im14.  J. Derrida, Aporie, cit., p. 32. 15.  Cfr. J.M. Demske, Being, Man & Death. A Key to Heidegger, The University Press of Kentucky, Lexington 1970. 16.  M. Heidegger, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124: p. 119.

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possibilità dell’esistenza in generale»17. Più precisamente, per Heidegger, l’esserci è poter-essere e la morte è la sua possibilità più propria, ossia la morte è “non-esser-ci” più: il morire è la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza e dell’esistente; essa è negazione di tutte le possibilità. In virtù di questa sua peculiare natura, la morte, dischiusa dall’anticipazione, consente di cogliere le possibilità in modo autentico, facendole apparire come tali, ossia nella loro veste di possibilità, e con ciò le mette in possesso dell’esserci, perciò la morte assume, entro le pieghe della riflessione heideggeriana, la peculiare funzione di «metapossibilità»18. Aver accesso a questa possibilità in quanto impossibilità appare a Derrida, a dir poco, problematico, o, nei suoi termini, aporetico. Una volta osservato che, con questa definizione, la possibilità della morte è svelata in quanto impossibilità o come impossibilità, Derrida solleva, infatti, l’ineludibile questione relativa a come la possibilità più propria dell’esserci in quanto impossibilità «possa mostrarsi in quanto tale senza contemporaneamente scomparire, senza che il come tale svanisca in anticipo»19. Per essere più chiari, il problema è il seguente: mettendo in discussione la definizione di morte data in Essere e tempo, Derrida obietta a Heidegger che la morte non si esperisca mai come tale, non si incontri mai in quanto tale: il suo dispiegarsi come tale è il suo dissolversi come tale. Difatti, la morte sancisce «la fine del come tale e quindi il venir meno del rapporto con il fenomeno come tale o con il fenomeno del come

17.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 314. 18.  A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2004, p. 151. 19.  J. Derrida, Aporie, cit., p. 62.

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tale»20. Esibendo l’impossibilità di esperire la morte in quanto morte, che come tale scompare, Derrida intende far vacillare il confine tra l’esserci, che per Heidegger ha accesso alla propria finitezza, e gli altri viventi, a cui tale accesso è precluso. Senza l’accesso al come tale, e più specificamente alla morte come tale, animali e uomini si troverebbero dislocati sullo stesso piano esistenziale, quindi accomunati dall’impossibilità di morire propriamente. Su tale obiezione è ora necessario svolgere alcune riflessioni. In primo luogo, è importante sottolineare, nella scia della lucida analisi offerta da Di Martino della contesa tra i due filosofi, che l’obiezione derridiana metterebbe in crisi il concetto heideggeriano di morte solo se la stessa morte fosse considerata «un “dato” che dovrebbe sottoporsi alla presa fenomenologica e l’esperienza della morte […] come rapporto e incontro (impossibile, certo) con essa»21. In altre parole, la critica di Derrida, che si rivolge a quei luoghi della riflessione heideggeriana, ove si afferma la possibilità dell’esperienza della morte in quanto morte, avrebbe successo, solo se il filosofo intendesse la morte come un “dato”, un fenomeno appunto, di cui l’esserci possa fare esperienza, ossia che possa incontrare nella sua esistenza. Tuttavia, Heidegger stesso sembra negare la possibilità di fare esperienza della propria morte. Nella riflessione relativa all’esperibilità della morte degli altri l’autore osserva, infatti, che «il passaggio al non Esser-ci-più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di comprenderlo come esperito. Un’esperienza siffatta è pre-

20.  Ivi, p. 65. 21.  C. Di Martino, L’uomo e l’animale, la morte e la parola, in F. Leoni M. Maldonato (a cura di), Al limite del mondo. Filosofia, estetica, psicopatologia, Dedalo, Bari 2002, pp. 89-123: p. 114.

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clusa al singolo Esserci nei confronti di se stesso»22. È dunque lo stesso Heidegger che confessa l’impossibilità di esperire la morte in quanto morte, laddove la si intende e dove se ne parla nei termini di datità. Questo modo di intendere la morte non è evidentemente ciò a cui si riferisce l’autore di Essere e tempo quando dichiara che l’uomo può relazionarsi, in qualche modo, alla morte in quanto morte, alla propria finitezza. In questo senso, ha ragione non Derrida, bensì un altro attento interprete di Heidegger, Günter Figal, allorché, nella sua Fenomenologia della libertà, volendo mettere in discussione la nozione di anticipazione della morte23, quindi in tono polemico, riconduce la meditatio mortis presentata in Essere e tempo alla posizione epicurea: quando la morte è “non-esser-Ci”, allora resta valida la frase di Epicuro per cui quando ci siamo noi, non c’è la morte, e quando c’è la morte, non ci siamo noi. La morte non si lascia esperire, dato che essa consiste proprio nell’assenza di percezione e […] essa è anche la negazione della possibilità di concepire e comprendere.24

Come abbiamo già avuto modo di notare, nella prospettiva heideggeriana, il transito dalla vita alla morte si sottrae ad ogni esperienza, negando, al tempo stesso, all’uomo ogni possibilità di percepire, concepire e comprendere. In linea con quanto 22.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 286. 23.  L’intento che sottende l’analisi della nozione heideggeriana di morte sviluppata da Figal è il seguente: «si può quindi a ragione dubitare se la meditatio mortis, che Heidegger esercita in modo più elaborato, porti a espressione ciò che egli veramente intendeva mostrare. Sua intenzione era mettere in luce come l’apprensione dell’essere imminente e indeterminato sia da intendersi come un’“anticipazione della morte”» (G. Figal, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, tr. it. di F. Filippi, il melangolo, Genova 2007, p. 229). 24. Ivi, p. 229.

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scritto da Epicuro nella lettera a Meneceo, Heidegger sembra sostenere che se c’è la vita non c’è la morte, e se c’è la morte non c’è la vita, perciò qualsiasi esperienza immediata della morte è preclusa all’umano. Ora, se l’interpretazione dell’analitica heideggeriana della morte proposta da Figal fosse corretta, essa metterebbe in scacco, in modo evidente, le critiche di Derrida: per Heidegger l’uomo non esperisce la morte come tale. Ma, dall’altro canto, le affermazioni heideggeriane di un certo accesso alla morte in quanto morte, come ad esempio quella tratta dal saggio La Cosa, sembrano eludere le critiche, che non abbiamo il tempo di presentare diffusamente, rivolte da Figal alla nozione di anticipazione della morte. Secondo tali critiche, qui semplificate, l’esserci non può anticipare la morte poiché non ha alcuna esperienza della propria fine. Per tale ragione il discorso heideggeriano sulla morte, agli occhi di Figal, non colpirebbe nel segno. Tuttavia, Heidegger contro quest’ultima interpretazione potrebbe far valere proprio quelle affermazioni secondo cui l’uomo ha accesso alla morte come tale, ricadendo ineluttabilmente nella situazione aporetica lumeggiata da Derrida. Da quanto detto finora dovrebbe essere evidente la questione capitale che emerge dalle critiche incrociate di Derrida e Figal intorno al ripensamento heideggeriano della differenza antropologica. Se, da un lato, la critica di Derrida non mina la distinzione heideggeriana tra morire e perire e tra uomo e animale, poiché, per Heidegger, non abbiamo un’esperienza, per così dire, vissuta della morte, e specularmente, dall’altro lato, le critiche di Figal non colpiscono Heidegger, perché egli afferma che abbiamo accesso alla morte in quanto morte, e in un certo senso – tutto da chiarire – possiamo anticiparla, è necessario chiedersi: in che senso l’uomo ha accesso alla morte, se con tale espressione non si intende un’esperienza immediata della morte in quanto fenomeno?

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Questo è il nodo gordiano che si deve sciogliere al fine di comprendere la portata teoretica della posizione heideggeriana relativa all’animale e alla sua differenza dall’esserci. Questo è il punto nevralgico su cui convergono da prospettive differenti le rimostranze volte a Heidegger da Derrida e Figal incrociandosi e mettendo in luce una sorta di contraddizione, di cortocircuito nell’ordito concettuale heideggeriano: l’uomo non può esperire la morte in quanto morte, ma ha un accesso alla morte in quanto tale. Il problema che si profila è dunque quello relativo al tipo di accesso alla morte proprio dell’umano.

2. La poesia e la morte: l’abitare proprio dell’umano Una possibile soluzione a questo problema è dispiegata da Heidegger negli scritti successivi alla cosiddetta svolta. Tale soluzione coinvolge primariamente la dimensione linguistica dell’umano, sulla cui natura è necessario fare un breve appunto. La posizione di Heidegger rispetto al linguaggio muta dopo Essere e tempo. Se il linguaggio è, nell’opera del 1927, «un livello “sovrapposto” a quello dei significati e della significatività aperta nella comprensione-interpretazione»25; dopo la Kehre, la parola assolve a una funzione aprente e istitutiva, facendo riferimento alla nominazione, al chiamare per nome. A questa differente prospettiva sulla parola Heidegger perviene attraverso l’incontro ed il confronto con la poesia in generale e in particolare con il poetare di Hölderlin, la cui figura si staglia dallo sfondo della riflessione heideggeriana per rivestire un ruolo decisivo entro la riproposizione della questione dell’essere. Più precisamente, ciò che avviene con la «svolta» 25.  C. Di Martino, Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e MerleauPonty, ETS, Pisa 2005, p. 22.

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è il decisivo transito da una concezione impoetica, ovverosia dichiarativa, assertiva del linguaggio, tipica della tradizione metafisica, ad una concezione poetica, o per meglio dire poie­tica, creativa che pone al suo centro il carattere istitutivo, aprente della nominazione, e che ha come riferimento privilegiato la poesia26. Questo carattere istitutivo, rivelativo, messo in luce da Heidegger, si manifesta, in primo luogo, nell’originario termine greco poiesis da cui deriva la parola poesia che non assume nel filosofo tedesco quel senso estetico che le è abitualmente assegnato, bensì ha il significato originario dello svelare, del “produrre”. Come si sa, di tale concezione della poesia Heidegger fa questione, dapprima, nel saggio L’origine dell’opera d’arte, ove è messa in evidenza la funzione di apertura, di rivelazione dell’ente in quanto ente, operata dal linguaggio poetico e dalla nominazione: «il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione […]. Il linguaggio stesso è Poesia in senso essenziale»27. Giocando sull’ambivalenza del termine tedesco Dichten, che è insieme poetare e inventare28, Heidegger, in questo testo, mira ad esibire l’essenza squisitamente poetica del linguaggio. Il linguaggio è poesia (Dichtung) nel senso di uno svelare, di un portare alla luce l’essente. In tale veste, la parola istituisce un mondo ed è proprio all’interno dell’illuminazione dell’essente, dovuta al linguaggio, che, nell’ottica heideggeriana, tut26.  A questo proposito Di Martino individua, a ragione, una svolta linguistica nel pensiero heideggeriano (ivi, p. 72). 27.  M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-69: pp. 57-58. 28.  In questo senso, Vattimo giustamente sottolinea che «l’essenza di ogni arte, allora, in quanto l’opera rappresenta un’apertura o un progetto che deve essere gedichtet, inventato, è Dichtung, poesia» (G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989, p. 124).

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te le arti sono un particolare poetare nel senso originario della poiesis, del produrre. L’arte è per sua essenza Dichtung, ove tale parola non designa l’arte della parola, cui Heidegger attribuisce il termine Poesie, bensì rimanda all’originario significato d’inventare. La questione del linguaggio, che nella conferenza relativa all’opera d’arte è appena introdotta, trova una più articolata espressione nel saggio dedicato a Hölderlin e l’essenza della poesia. In questo scritto, che fa del linguaggio il luogo privilegiato dell’accadere della verità e dell’essere, ciò che era messo in evidenza ne L’origine dell’opera d’arte, vale a dire il carattere aprente e istitutivo che contraddistingue la creazione artistica, è ascritto principalmente al linguaggio. Ciò che il linguaggio svela è ancora una volta il mondo ed insieme ad esso l’ente in quanto ente, ossia l’in quanto che lo accompagna, per cui «solo dove vi è linguaggio vi è mondo»29. Di questo linguaggio che istituisce la sfera mondana occorre ora fare questione, cercando di comprenderne la più intima natura. In primo luogo, è necessario precisare che tale linguaggio non assolve ad una funzione esclusivamente strumentale e comunicativa, bensì esso è il modo di rapportarsi dell’esserci all’ente. Differentemente da quanto sosteneva la metafisica tradizionale, il linguaggio non è qualcosa che si aggiunga all’animalità dell’uomo, bensì è coesistensivo al suo modo di essere, alla sua esistenza, ossia al suo essere aperto alla manifestatività dell’essere30. In questo preciso senso, il linguaggio è il modo aprente e comprendente mediante cui l’uomo si relaziona al mondo e lascia essere l’ente come tale. In virtù

29.  M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1992, p. 45. 30.  Cfr. C. Di Martino, L’uomo e l’animale, la morte e la parola, cit., p. 104; C. Sini, Kinesis. Saggio di interpretazione, Spirali, Milano 1982, p. 38.

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di tale suo carattere il linguaggio si rivela, in ultima istanza, un mostrare: «dire, sagen, significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando nel senso di: porgere ciò che chiamiamo mondo»31. In accordo a quanto detto finora, tale facoltà ostensiva è propria del linguaggio originario, del dire, che non è identificabile con la mera dimensione fonetica-comunicativa della parola, bensì la eccede. Difatti, il linguaggio, in quanto Sage, ossia nella sua funzione manifestativa, fonda lo stesso profilo fonetico del discorso, benché il linguaggio verbale non possa esaurire il dire, poiché, come osservato da Galimberti, «ogni Aus-sage che enuncia, dichiara in linea con il discorso originario, ma senza risolverlo in sé, per cui ogni discorso (Aussage) sul linguaggio (Sage) è sempre un discorso dal linguaggio (Aus-sage) nel linguaggio; mai il linguaggio nel discorso»32. Grazie a tale peculiare relazione sussistente tra l’Aussage e la Sage Heidegger può, quindi, affermare paradossalmente che «il linguaggio parla»33. Ciò significa che la dimensione linguistica non è riducibile ad alcun mero sistema comunicativo di segni, quale veicolo di significato, bensì è il modo in cui l’uomo abita il mondo, la modalità con cui incontra gli enti ed entro la quale egli si trova originariamente inscritto. Solo ed esclusivamente a partire da tale apertura, l’uomo ha la parola intesa come strumento di comunicazione. A partire dalle brevi riflessioni appena svolte possiamo osservare che Heidegger assegna al dire originario la capacità di istituire un mondo, perché il suo modo di dire non è, come

31.  M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 157. 32.  U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2006, p. 636. 33.  M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 28.

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abbiamo visto, il mero significare, bensì l’indicare, il mostrare. In tale prospettiva, la parola non veicola semplicemente un significato già rivelato dal comprendere, come avveniva in Essere e tempo, bensì si profila innanzitutto come ciò che indica e esibisce l’ente, ciò che lascia essere l’essere dell’ente: «nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alla cosa»34. Con questa nuova funzione riconosciuta al linguaggio, si può ora fare un primo passo in direzione della risoluzione del problema messo in luce dalle critiche incrociate di Derrida e Figal. Nell’opera del 1927, non vi è alcun riferimento ad una qualche relazione tra morte e linguaggio e rimane, per così dire, sospesa l’affermazione di un qualche accesso alla morte in quanto morte. Soltanto quando Heidegger abbandona la concezione assertoria del linguaggio a favore di una concezione poetica si iniziano a registrare nei suoi scritti affermazioni legate alla relazione strutturale tra linguaggio e morte. Perciò, solo mediante un radicale ripensamento della funzione assolta dalla parola, Heidegger può giungere a chiarire, come avviene in «… Poeticamente abita l’uomo…», l’intimo rapporto tra la sfera poetica e la morte: «l’uomo è (west) come il mortale. Egli si chiama così perché può morire. Poter-morire significa: esser capaci della morte in quanto morte. Solo l’uomo muore, e ciò continuamente, fino a che dimora su questa terra, fino a che abita. Ma il suo abitare consiste nella poeticità»35. L’uomo si riconosce, quindi, nella vestigia di mortale, di essere finito, solo entro l’apertura di mondo offerta dal linguaggio in quanto Dichtung, ossia poesia. Se qualsiasi esperienza della morte, intesa come dato fenomenico che è possibile in-

34.  Ivi, p. 131. 35.  M. Heidegger, «… Poeticamente abita l’uomo…», in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 125-138: p. 132.

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contrare, è preclusa all’esserci in Essere e tempo; nel pensiero successivo alla «svolta», si fa chiaro che «i mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte»36, ossia possono comprenderla ed anticiparla proprio in quanto dimorano, nel senso latino di morantur, nel linguaggio. L’abitare poetico dell’uomo in questo mondo ha come proprio pendant un morire poetico, per cui, parafrasando Heidegger, si può affermare che solo l’uomo muore e muore poeticamente in quanto la sua esistenza è da sempre inscritta in seno a una dimensione linguistico-simbolica. Ma, nonostante tale richiamo alla sfera linguistica al fine di spiegare l’accesso umano alla morte in quanto morte, al suo morire poeticamente, non possiamo ancora dire di aver esaurientemente sciolto il nodo problematico intorno a cui si legano le riflessioni di Figal e Derrida, fintantoché rimangono elusi tali quesiti: come la parola rende accessibile la morte e l’in quanto tale in generale? Come il linguaggio può dischiudere un mondo? Come possiamo pensare all’istituzione di un mondo mediante il linguaggio? Ed ancora, se ogni esperienza, tra cui quella eminente della morte, è possibile all’uomo entro il linguaggio, attraverso il quale egli può accedere all’essere dell’ente ed anche al proprio essere, ossia alla propria mortalità, la questione che sorge è la seguente: come agisce la parola per assolvere a questa capitale funzione di disvelamento? Nella riflessione heideggeriana sul linguaggio è possibile ravvisare una risposta, seppur parziale, a tale quesito nel saggio Linguaggio, ove il tema della nominazione è affrontato dal filosofo mediante il confronto con la parola poetica di Georg Trakl. In riferimento al nominare del poeta, Heidegger scrive: Nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvi36.  M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 169.

384 cina ciò che chiama. Tale avvicinamento non significa che ciò che è chiamato sia trasferito, deposto e collocato nella cerchia dell’immediatamente presente […] chiamare è chiamare presso. E tuttavia quel che è chiamato – continua Heidegger – non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza.37

Le parole heideggeriane qui presentate lumeggiano la peculiare kinesis che investe il nominare: il chiamare avvicina ciò che risiede nella lontananza senza tuttavia annullarne l’assenza, poiché l’avvicinamento di ciò che è lontano non è inteso quale mero trasferimento dell’ente chiamato dalla parola nella presenza immediata, nell’essere presente fisicamente. La distanza permane. Perciò, Heidegger, prendendo ad esempio «il cadere della neve» e «il risonare della campana della sera», che sono nominati nella poesia di Trakl, precisa che essi «sono – per e nell’appello della poesia – ora e qui, presso di noi. Sono presenti. E tuttavia certo non cadono fra ciò che è presente ora e qui, in questa sala. Quale presenza è la più alta di ciò che sta fisicamente dinanzi o quella di ciò che è chiamato?»38. In questa dinamica propria della parola che avvicina, pur mantenendo nell’assenza ciò che è chiamato, è possibile ravvisare il potere e-vocativo e originario della parola, che chiama fuori, che addita. La parola chiama gli enti alla presenza e, allo stesso tempo, non li esaurisce, come appena detto, nella semplice presenza, consentendo così di chiamarli di nuovo: la parola è segno e fa segno, essa indica, portando alla presenza ciò che è assente. Data questa sua peculiare natura, la parola di cui Heidegger fa questione non è evidentemente la parola della scienza o della tradizione metafisica, ossia la parola che ogget37.  Ivi, p. 34. 38.  Ibidem.

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tiva l’essere dell’ente, riducendo l’essere all’ente stesso, bensì è la parola che lascia ogni volta manifestare l’essere dell’ente per quello che è. Ed infatti continua Heidegger: «il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini […] la poesia, nominando le cose, le chiama in tale loro essenza»39. In questo preciso senso, il nominare chiama le cose nella loro essenza e in tal modo istituisce un mondo, che Heidegger, in un celebre passo, definisce nei termini d’intimo quadrato di cielo, terra, mortali e divini. Entro tale quadratura, il nominare, o meglio la poesia, «proprio in quanto il linguaggio è linguaggio originariamente in essa», si configura, secondo una precisa definizione di Ugazio, quale «originaria esperienza del mondo, quella che ogni altro modo di accostarsi alle cose sottintende»40. Pertanto si può affermare che l’uomo ha esperienza originaria del mondo proprio nel linguaggio, che dischiude ogni rapporto alle cose. Per tale motivo, anche in seno alla descrizione heideggeriana dell’essere come quadrato non vi è in gioco altro che l’originaria poeticità del linguaggio, la quale offre all’uomo l’accesso alla propria finitezza. Ma domandiamo ancora: come la parola rende accessibile la morte? Seguendo il discorso heideggeriano, la parola “morte” ci rimanda alla morte, ci porta la morte in presenza pur lasciandola assente. Noi possiamo avere sì esperienza della morte, nel senso di una peculiare esperienza di un’assenza, di un transito, in cui la morte ci è di fronte: la morte si erge di fronte a noi nella vestigia di segno. Possiamo, dunque, fare esperienza di ciò a cui questo segno rimanda, anche emotivamente, senza aver in presenza la nostra morte come fenomeno – cosa peral-

39.  M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 35. 40.  U. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976, p. 182.

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tro impossibile. In questo senso è corretto dire che il discorso heideggeriano è epicureo, ma, allo stesso tempo, non è riducibile alle riflessioni presentate nella lettera a Meneceo: noi abbiamo accesso alla morte mediante il segno, la parola, nel suo rimandare ed indicare a quel nulla che ci è con-costitutivo. Solo la parola, con la sua dinamica di presenza e assenza, che chiama in causa, termine ultimo del discorso heideggeriano, l’evento, può porci dinanzi la morte, senza che essa occluda il comprendere ed il percepire. Ora, Heidegger, secondo una logica di certo binaria, riconosce che tale accesso alla morte è precluso all’animale. L’essere non umano non ha mondo, non ha parola e non ha morte. Più precisamente, l’animale, non avendo il linguaggio, non sa della morte, poiché è chiuso, secondo il filosofo, entro la gabbia ambientale, che gli offre solo ciò che è presente. L’animale non vive nella distanza, non ha a distanza un mondo. Esso è preso dai propri istinti, stordito e povero di mondo senza alcuna protensione al futuro – scriverà Heidegger nei Concetti fondamentali della metafisica. Da ciò segue che l’animale non sa della morte41, non ha la possibilità di precorrerla e di orientare la propria vita a partire da questo sapere che si profila, nella lettura heideggeriana, come squisitamente antropologico: l’animale soffre, teme, ma su di esso non incombe costantemente la morte quale possibilità certa e incondizionata. Dell’analisi heideggeriana della morte, che assegna all’animale un mero finire, occorre adesso vagliarne la fondatezza scientifica al fine di verificare se tale analisi sia il prodotto di un 41.  A questo proposito Heidegger afferma: «la morte dell’animale è un morire o un cessare di vivere? Poiché lo stordimento fa parte dell’essenza dell’animale, questo non può morire, ma soltanto cessare di vivere, visto che attribuiamo all’uomo il morire» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, p. 341).

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mero pregiudizio antropocentrico, come voleva Calarco, o abbia una qualche legittimità ontologica, che possa contribuire, in qualche misura, a chiarire la differenza, se vi è, tra uomo e animale relativamente al finire. Prima di procedere a tale verifica è, tuttavia, necessario comprendere la posta in gioco dell’operazione che ci apprestiamo a svolgere. Il richiamo alle scienze, al loro sapere è implicato dallo stesso tipo d’indagine promossa da Heidegger e non rappresenta alcunché di posticcio e secondario. Infatti, se per Heidegger «l’interpretazione esistenziale della morte precede ogni biologia e ogni ontologia della vita e […] fonda anche ogni ricerca sulla morte di carattere storico-biografico ed etno-psicologico»42, un accertamento della bontà di tale interpretazione mediante ciò che essa fonda è legittimo ed anzi necessario. In altri termini, dato il carattere fondativo assegnato da Heidegger all’analitica della morte, le ricerche tanatologiche di carattere etno-psicologico e biologico dovrebbero avvalorare, in linea di principio, l’interpretazione esistenziale a cui lo stesso Heidegger si appella, pena la messa in discussione della distinzione tra il cessare di vivere e il morire.

3. La filosofia e le scienze: il problema della morte Da quanto emerso dalla disamina svolta, si profila, entro le pagine heideggeriane dedicate alla morte, un rapporto simbolico dell’uomo con la propria fine. L’uomo sa della propria morte e si relaziona costantemente ad essa, a differenza dell’animale non umano che cessa di vivere. Il sapere della morte diviene sapere dell’uomo in quanto mortale. Di fronte alla propria finitezza l’uomo può fuggire o anticiparla, assumendo su di sé il 42.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 297.

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proprio essere finito, il proprio poter-esser, tra le cui possibilità si staglia la possibilità di non esserci più. Come abbiamo visto, nell’ottica heideggeriana, l’uomo ha esperienza di tale possibilità dell’impossibilità entro l’apertura linguistica, secondo una dinamica di presenza ed assenza. Di questo peculiare rapporto intrattenuto dall’uomo con la propria morte recano testimonianza già i comportamenti dei nostri antenati. Solo per fornire un esempio, nelle celebri pagine de Il gesto e la parola di Leroi-Gourhan, dedicate ai culti funerari dei nostri progenitori, tra cui il principale è l’inumazione, si scopre che tali riti sono le prime manifestazioni di una mente simbolica43, di una mente che non a caso lega la morte all’arte, al culto, alla parola, a quel linguaggio che nella sua originarietà non è altro, in termini heideggeriani, che un indicare. In tali riti e nelle prime forme artistiche si possono scorgere segni del rapporto che l’uomo, fin dalla propria comparsa sulla 43.  Leroi-Gourhan spiega l’originaria relazione tra morte e capacità simbolica nei seguenti termini: «l’intellettualità ragionata, che non solo afferra il rapporto tra i fenomeni, ma riesce a proiettarne verso l’esterno uno schema simbolico, è certo l’ultima arrivata tra le acquisizioni dei Vertebrati e non è possibile prenderla in considerazione se non a livello antropiano. Essa è debitrice di una organizzazione cerebrale la cui origine si colloca al momento della liberazione della mano e la cui realizzazione perfetta avviene in un punto che coincide con l’homo sapiens. In realtà le facoltà di riflessione, sul piano delle tecniche, si confondono con l’organizzazione neurovegetativa delle aree corticali di associazione e, sul piano delle operazioni intellettuali “gratuite”, è come se il progressivo sviluppo delle zone frontali e prefrontali portasse con sé una sempre maggiore facoltà di simbolizzazione. Le tracce archeologiche di questa attività, che va oltre la motorietà tecnica, sono difficilmente individuabili per quanto riguarda il Quaternario antico, ma nella fase paleantropiana compaiono i primi documenti archeologici. Rappresentano le più antiche manifestazioni di carattere estetico-religioso e potrebbero essere classificati in due gruppi: quelli che contengono reazioni verso la morte e quelli che contengono reazioni verso forme insolite» (A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, pp. 127-128).

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terra, stabilisce con la propria mortalità. Ma, se tale capacità di relazionarsi simbolicamente alla morte è evidente fin dalle prime apparizioni del genere umano, è necessario chiarire che relazione intercorra tra gli animali e la morte. Innanzitutto, recenti studi hanno dimostrato il possesso da parte dell’animale di una certa consapevolezza della morte. A questo proposito Kellehear, dal cui pregevole testo aveva preso avvio la nostra riflessione, presenta una serie di ricerche che tendono a esibire tale consapevolezza. La rassegna di queste ricerche, che coinvolge non solo primati, ma anche elefanti, pesci e le più svariate specie animali, tende, inoltre, a mettere in evidenza la capacità di alcuni viventi non umani di provare dolore per la perdita dei propri cari. Più specificamente, solo per offrire qualche esempio citato da Kellehear, in The Soul of the Ape (1973) l’etologo Eugene Marais presenta il caso di una madre di babbuino che riconosce la morte del nascituro ed esprime il suo dolore con suoni affettuosi, toccando il cadavere con mani e labbra. Le analisi di Cynthia Moss risalenti al 1988 mostrerebbero invece che gli elefanti, coprendo il corpo del cadavere con fronde di alberi, opererebbero un qualche tipo di sepoltura. Presentando, seppur sinteticamente, i risultati ottenuti da un’ampia messe di studi volti al morire dell’animale, Kellehear può dunque concludere che «dagli elefanti, cavalli e primati ai pesci, serpenti e insetti, è stata osservata o dimostrata la consapevolezza della morte come fonte di paura, lutto, difesa, attacco»44. Ora, sulle considerazioni di Kellehear occorre giustapporre due annotazioni per chiarire la controversa questione sul finire dell’animale. In primo luogo, al fine di dimostrare che gli animali siano consapevoli della morte, la lettura che Kellehear offre dei risultati delle ricerche da lui presentate appa44.  A. Kellehear, A Social History of Dying, cit., 14.

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re troppo sbilanciata a favore della tesi da lui sostenuta, ossia l’animale comprende la morte. Più precisamente, per limitarci agli esempi che abbiamo appena richiamato, Kellehear nel caso della madre babbuino raccontato da Marais appunta che «dopo aver riconosciuto che l’infante è morto la madre perde interesse nel corpo, persino quando il defunto è rimosso dalla gabbia»45. Questo dato, che viene lasciato ai margini dalla lettura di Kellehear, mostra, invece, ad esempio, agli occhi di Tattersall uno scarto tra uomo e animale: solo il vivente umano mostra un radicale interesse volto ai defunti e alla morte. Tale interesse, accanto ad altri, secondo l’antropologo inglese, ci renderebbe unici46. Allo stesso modo, intorno al caso degli elefanti citati da Moss, Kellehear evita di prendere in considerazione le interpretazioni contrarie all’idea che vi sia una qualche sepoltura del cadavere da parte di questa specie animale. Eppure le stesse ricerche sugli elefanti di McComb, Baker e Moss del 2006 sono caute nel presentare i peculiari comportamenti mostrati da tali animali nei termini di sepolture, osservando, a conclusione delle ricerche, che, benché ci sia un forte interesse per i resti del defunto anche in animali non umani, la causa evolutiva della manifestazione di tale intenso interesse […] rimane poco chiara. Vero è che i comportamenti descritti qui differiscono fondamentalmente e in modo evidente dall’attenzione e dai rituali che circondano la morte negli uomini, eppure per altro verso essi sono inusuali e degni di nota.47

45.  Ivi, p. 12. 46.  I. Tattersall, Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali, tr. it. di L. Montixi Comoglio, Bollati Boringhieri, Torino 2011. 47.  K. McComb - L. Baker - C. Moss, African elephants show high levels of interest in the skulls and ivory of their own species, in «Biology Letters», II, n. 1, 2006, pp. 26-28: p. 28.

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Accanto a questa prima osservazione sulla lettura offerta da Kellehear segue una seconda di maggiore importanza, legata alla prima. Al termine del breve paragrafo Animal Awareness of Death l’autore, chiamando in causa la peculiare relazione che l’essere umano ha nei confronti della propria morte, dichiara: Il nostro linguaggio superiore e il nostro sviluppo cognitivo e tecnologico possono ben distinguerci dai nostri consimili animali, ma la semplice consapevolezza della mortalità non è il fattore risolutivo della nostra unicità. La sfida cognitiva costituita dalla morte, per l’uomo agli albori della storia, non sta nel diffuso riconoscimento animale del fatto della morte, ma piuttosto nell’anticipazione della venuta della morte e – dunque – nella riflessione sui suoi possibili significati, o ancor più, nel prendere in considerazione la possibilità che la morte abbia significato alcuno. […] Un prerequisito fondamentale del processo che chiamo morire è che si abbia un essere senziente capace della consapevolezza della morte. Come ho mostrato, la maggior parte degli animali è capace di questa fondamentale consapevolezza. Tuttavia, edificata sopra questo semplice riconoscimento, è necessario che vi sia l’ulteriore attitudine a riflettere sul proprio personale approccio alla morte, ovvero la comprensione di essere entro un moto vettoriale inevitabilmente spinto verso la morte. Questa basilare comprensione del morire permette a tutti noi di vederci occasionalmente come ‘persone che muoiono’. Non è possibile sapere con certezza quante altre specie animali possiedano quest’abilità, ma vi sono prove sufficienti che dimostrano che, in quanto uomini, noi certamente la possediamo.48

Il punto focale di tale affermazione è che, per quanto sia possibile attribuire la consapevolezza del morire all’animale, l’uomo ha un diverso rapporto con la morte, che ne caratterizza l’unicità. Con straordinaria vicinanza a quanto emerso dal trac-

48.  A. Kellehear, A Social History of Dying, cit., p. 15.

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ciato heideggeriano, tale rapporto può assumere la forma di un’anticipazione della morte, di un poterla precorrere – quale prerogativa umana. La morte ha per noi un significato e noi riflettiamo su tale significato. Per tale motivo possiamo riconoscerci come dying people, come mortali. L’uomo si relaziona al proprio futuro, sapendo della propria finitezza. Seppur con le dovute differenze, il nostro rapporto con la morte assume, anche nello studio di Kellehear, quelle caratteristiche che già Heidegger metteva in luce nelle sue opere e che nemmeno l’attribuzione della consapevolezza e del riconoscimento della morte all’animale, in quanto essere senziente, possono mettere in discussione. Perciò si può osservare che, seppur il cessare di vivere, intesa come mera morte biologica, è evidentemente troppo restrittivo per l’animale, permangono comunque due modalità del finire distinte – quella umana e quella dei viventi non umani – che non si possono appiattire l’una sull’altra. L’appiattimento delle differenze porterebbe, infatti, ad una omologazione dell’animale all’uomo, che si potrebbe leggere come gesto ancor più antropocentrico rispetto al mettere in luce il differente rapporto con la morte, e più in generale con il mondo, intrattenuto da animali e umani. Uomo e animale, seppur non divisi da un abisso, come voleva Heidegger, si relazionano al mondo e alla morte in modi diversi. Tali modalità sono da abitare responsabilmente più che da abbattere o superare a favore di una standardizzazione di dubbia fecondità, di una reductio ad unum. Più precisamente, per quanto riguarda la morte, l’affermazione di una differenza tra uomo e animale non intende negare a quest’ultimo la sofferenza, il riconoscimento della morte, la strategia di fuga da essa, il lutto49 (dalla cui negazione derivano pratiche umane 49.  Gli aspetti qui presentati sono legati alla morte in modo diverso: alcuni riguardano il relazionarsi alla morte nella vita del singolo, altri al trattamento del defunto. È qui importante osservare che Heidegger è interessato alla

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sulla cui eticità occorre riflettere), bensì essa mette in luce un differente rapporto con essa e con il mondo circostante, che coinvolge quell’essere progettante che è l’uomo. Tale rapporto, di cui il discorso heideggeriano restituisce dei tratti ancora oggi validi, è da indagare, da scandagliare nella sua profondità. A tal fine occorre far convergere la riflessione filosofica e i dati delle scienze, come auspicava Heidegger non in Essere e tempo, ove il suo discorso, seppur fecondo, resta cieco di fronte al sapere scientifico, bensì nei Concetti fondamentali della metafisica, laddove il filosofo auspica una vera comunione tra la metafisica e la scienza50. Con questa comunione si può aprire una nuova via nella riflessione sull’animale alla quale la meditazione heideggeriana può contribuire, pur entro i limiti di un pensiero che, come si sa, aveva come suo principale interesse l’essere e l’esserci.

relazione che il singolo intrattiene con la propria morte, mentre offre solo qualche spunto sul defunto in Essere e tempo. Queste ultime considerazioni sviluppate dal filosofo intendono mettere in luce come l’accesso alla propria mortalità non si possa avere per mezzo dell’esperienza della morte degli altri. 50.  M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 247.

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Nella risposta dell’altro Nota sull’umanizzazione Carmine Di Martino

1. Ontogenesi e alterità Come pensare l’ontogenesi umana? Come emerge una soggettività, un’identità psichica personale? Come si costituisce un sé? A partire da che? Quali ne sono le condizioni preliminari e quali quelle di sviluppo? L’indagine sulla genealogia del soggetto ha assunto una direzione per molti aspetti inedita, che ha notevolmente influenzato anche la ricerca filosofica, a partire dall’invenzione freudiana della psicoanalisi e dalle prospettive da essa dischiuse. L’umanizzazione della vita (umana) è una questione aperta. La situazione in cui versa ai suoi esordi il vivente umano, ogni appartenente alla specie Homo sapiens, è molto particolare. Quando nasce esso sconta uno stato di sensibile prematurazione – Hilflosigkeit l’ha chiamata Freud –, che è al tempo stesso la sua debolezza e la sua chance. L’essere umano che fuoriesce dal ventre materno è contraddistinto da una incompiutezza, una apertura, una plasticità corporea, psichica e cognitiva che rappresentano da una parte il suo capitale di futuro e dall’altra il motivo della sua impotenza e della sua radicale dipendenza dagli altri esseri umani divenuti adulti. Il percorso che lo conduce a maturazione, sul piano fisiologico e neuropsichico, è

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straordinariamente lungo, se comparato a quello degli altri viventi, e il risultato non può mai essere garantito a priori. Lungi dall’esser “già fatto” al suo apparire, l’“essere” umano è tra i vari viventi quello che più di tutti deve “diventare”. Il processo di umanizzazione e di soggettivazione (termini che intendo assumere qui, fin dove è possibile, come sinonimi) è pertanto caratterizzato da un alto grado di contingenza e da un significativo margine di rischio. È una promessa che attende di essere compiuta e potrebbe non esserlo. Non tanto per la possibilità sempre presente di una morte anticipata, per via dei pericoli e delle minacce cui l’essere umano deve far fronte, come qualsiasi altro vivente sul pianeta, ma per qualcosa di più “specifico” nel senso stretto del termine: in primo luogo, la peculiare costituzione dello psichismo umano e la singolare, iperbolicamente accentuata interazione tra le dimensioni corporea e psichica che accompagna lo sviluppo di un essere umano e la sua intera esistenza; in secondo luogo, la prematurazione cui si è accennato, che costringe il neonato a una dipendenza enormemente protratta da altri esseri umani adulti (a partire da quel primo altro che è solitamente la madre), alle cure dei quali la sua sopravvivenza è letteralmente affidata. La complicità di questi due elementi fa sì che il processo di umanizzazione-soggettivazione si annunci come una promessa strutturalmente sospesa alla presenza e alla risposta dell’altro, o meglio, alla presenza e al modo della risposta dell’altro. Il ruolo dell’alterità nel processo di soggettivazione, nella costituzione dell’identità psichica e personale dell’essere umano, non si limita infatti alla soddisfazione dei bisogni vitali; esso riguarda una certa scommessa – di cui cercherò di rendere conto, servendomi di alcuni contributi della psicoanalisi – sulla soggettività del neonato, che si realizza nel modo della risposta alla sua domandante presenza (che include evidentemente i bisogni vitali). Si tratta di un modo di rispondere alle

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esigenze del nuovo essere, di prendersi cura di lui, che accredita in anticipo la sua soggettività, interpretando le sue mosse a partire dal futuro, proiettandosi oltre ciò che effettivamente appare. È quello che accade quando una madre parla al bambino con la convinzione di essere capita: essa gli rivolge una parola profetica, visionaria, che afferma come attuale e operante ciò che solo più tardi si manifesterà, dando conferma di sé. Questo essenziale anacronismo è una delle caratteristiche salienti di quella risposta a cui è sospeso ogni processo di soggettivazione. L’infanzia, in particolare la primissima infanzia, ci mostra un legame tra ontogenesi e alterità che richiede di essere indagato e che ci permette anche di rileggere altrimenti il tema dell’altro e della relazione con altri così come una certa riflessione filosofica ce lo ha consegnato. Una analisi della dipendenza infantile ci condurrebbe a mettere in questione prospettive come quella heideggeriana (di un «con-esserci» prevalentemente declinato nel senso dell’anonimato, dello smarrimento del sé, dell’impersonalità) o sartriana (di un «per-altri» segnato dall’insuperabile impossibilità di una relazione non cosificante con l’altro) e ci farebbe probabilmente trovare più vicini alle posizioni di Patokča, di Ricoeur, di Derrida o di Nancy. In ogni caso, è difficile interrogarsi sul processo di umanizzazione-soggettivazione senza passare attraverso un’indagine dell’infanzia, di ciò che in essa diventa leggibile a riguardo del senso del rapporto con l’altro per la costituzione del sé. La psicoanalisi, soprattutto quella che si è occupata dell’infante e delle sue prime fasi di vita, fornisce in proposito una ricca messe di reperti fenomenici e di analisi, che è possibile mettere a frutto anche in un’ottica filosofica, in vista di una genealogia dell’umano.

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2. Diventare un infante «Non esiste l’infante». È una nota affermazione di Winnicott, ripetuta in diversi contesti. Naturalmente, bisognerebbe subito replicare che l’infante esiste, eccome, se con ciò ci si riferisce alla presenza qui davanti a noi di un bambino nei suoi primi giorni o anche mesi di vita. Eccolo, lo guardiamo con quel tanto di curiosità e di estasi che normalmente accompagna l’apparizione dei piccoli esseri umani, ci intratteniamo con lui, ne ammiriamo l’aspetto, proviamo per lui una spontanea simpatia. Winnicott non intende evidentemente negare la sua effettiva e attuale esistenza, ma dire che l’infante – che pure esiste – non può esistere da solo: «dove c’è l’infante c’è anche l’assistenza materna, e senza quest’ultima non ci sarebbe l’infante». «L’infante e l’assistenza materna formano un tutto unico»1. Ci troviamo cioè sempre in presenza di una coppia, formata dal bambino e da chi se ne prende cura: «l’unità non è l’individuo, bensì una struttura costituita dall’ambiente e dall’individuo»2. Dunque, l’unità minima alla quale è possibile risalire, se si vuole rendere ragione dell’esistenza di un infante e del processo di individuazione psichica che lo concerne, è tale struttura. Non si tratta semplicemente di riconoscere che l’ambiente (l’altro, la madre) è importante – questo nessuno lo nega, fa parte delle ovvietà empiriche –, ma di ammettere che infante e cure materne si co-appartengono essenzialmente e non possono essere disgiunti. La disgiunzione è il punto di arrivo, che si ottiene nello stato di salute, e non il punto di partenza. Per Winnicott

1.  D.W. Winnicott, The Maturational Processes and the Facilitating Environment. Studies in the Theory of Emotional Development, Hogarth PressInstitute of Psycho-Analysis, London 1965; tr. it. di A. Bencini Bariatti, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 2013, p. 44 e nota 6. 2.  D.W. Winnicott, Through Paediatric to Psycho-Analysis, Tavistock Publications, London 1958; tr. it. di C. Ranchetti, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Psycho-Martinelli, Firenze 1991, p. 122.

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le parole che indicano il punto di partenza sono, com’è noto, «dipendenza», «simbiosi». Se l’indipendenza (la disgiunzione) di un essere umano non può mai essere assoluta, la dipendenza grazie alla quale questa, nella sua relatività, viene ottenuta può al contrario essere definita «assoluta». Nelle primissime fasi della sua vita, l’infante è in una situazione di dipendenza assoluta dalle cure materne (o di chi ne interpreta il ruolo). Che significa dipendenza assoluta? Essa è una peculiare modalità del con-essere, nella fattispecie della relazione che si stabilisce tra la madre e il neonato, che, pur in modi diversi, sono per un certo tempo coinvolti in un irripetibile legame di comunione. Dalla parte del bambino, tale forma di dipendenza è una necessità, essendo la condizione essenziale della sua sopravvivenza fisica e del processo di costituzione della sua identità psichica, della sua individualità personale. Dall’altra parte, essa identifica però anche la singolare situazione della madre negli ultimi mesi della gravidanza e nei primi mesi dopo la nascita del bambino, che si appoggia su un eccezionale, quasi magico potenziamento di quella capacità di comprensione entropatica, di immedesimazione con l’altro, che caratterizza ogni essere umano. Winnicott usa il termine «assoluta» non tanto per equiparare la dipendenza a una fusione, quanto per indicarne gli aspetti caratterizzanti dal lato dell’infante: la completa dipendenza di quest’ultimo dalle cure materne e insieme la perfetta inconsapevolezza di essa. All’inizio l’infante è interamente e radicalmente dipendente da cure materne di cui non ha alcuna nozione e da cui può solo trarre profitto o ricevere danno; egli non ha consapevolezza alcuna della madre come un “non-me”, un altro da sé. «La dipendenza è assoluta perché l’ambiente non è percepito»3, sottolinea Winnicott. Tale consapevolezza 3.  Ivi, p. 328.

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inizierà ad affiorare solo intorno ai sei mesi, se tutto si svolgerà senza particolari inciampi. Sebbene il senso di assolutezza indicato possa essere attribuito solo all’infante, la dipendenza assoluta, la simbiosi, non è – si è detto – unilaterale. Anche la madre vive una dipendenza del tutto unica dal neonato di cui si prende cura, nella forma di una speciale identificazione che le consente di “sapere” che cosa questi sente, quali sono i suoi bisogni, realizzando rispetto ad essi uno straordinario livello di adattamento. Tale identificazione non è semplicemente il frutto di una decisione, quanto piuttosto una situazione in cui le madri si trovano (con tutte le eccezioni del caso). Esse sono “prese” dalla presenza del neonato, dipendono, in un senso diverso e tuttavia altrettanto profondo, avvolgente, da quell’infante che dipende da loro. Dopo pochi mesi dalla nascita del loro bambino, «le madri stesse guariscono da questa situazione e dimenticano»4. Per comprendere il senso della dipendenza assoluta occorre compiere tuttavia una seconda osservazione e accennare al paradosso che la accompagna. Per Winnicott, la dipendenza assoluta si compone infatti con una assoluta indipendenza. Se sul piano delle provvidenze fisiche il neonato è completamente dipendente dalle cure materne, sul piano psicologico occorre ammettere che egli «è contemporaneamente dipendente e indipendente»5. A rendere il neonato indipendente sotto il profilo psicologico è ciò che Winnicott chiama – con una espressione che si presta a qualche equivoco, ma rimane leggibile nella sua intenzione – il «potenziale ereditario». Vale a dire: la tendenza ad avvertire una continuità dell’essere, a diventare una unità integrata, un Io, e quindi – con le dovute mediazioni – ad avere un Sé con un passato, un presente

4.  D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, cit., p. 96. 5.  Ivi, p. 95.

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e un futuro, non dipende dalle provvidenze ambientali, ma appartiene alla costitutiva disposizione del bambino, in quanto membro storicamente e culturalmente situato della specie Homo sapiens. Ciò che al contrario dipende dall’ambiente è l’evoluzione dei processi maturativi che conducono all’Io e al Sé; una evoluzione che può essere favorita o bloccata ed è in ogni caso strutturalmente segnata da situazionalità e singolarità. I due lati, quello della vocazione e quello del processo, quello dell’indipendenza e quello della dipendenza, sono efficacemente ripresi e sintetizzati da Winnicott: Questi [gli infanti] fanno un diverso ingresso nell’esistenza a seconda che le condizioni nelle quali questo ingresso avviene siano favorevoli o sfavorevoli. Ma, allo stesso tempo, queste condizioni non determinano il potenziale dell’infante, che viene ereditato e che è legittimo studiare come cosa a sé, sempre a patto che si convenga che il potenziale ereditario di un infante non può diventare un infante senza connettersi alle cure materne.6

È la parte della frase messa in corsivo da Winnicott che qui mi interessa sviluppare. Essa rappresenta, credo, anche il cuore dell’apporto teorico dello psicoanalista inglese. Occorre che il potenziale ereditario di un infante diventi un infante. Proprio questo, infatti, non va da sé, comporta la necessità e il rischio di una certa esposizione all’altro, agli altri: il diventare infanti implica la connessione alle cure materne. Un conto è la tendenza allo sviluppo psicologico-affettivo dell’infante, vale a dire il suo potenziale ereditario, un altro conto è lo sviluppo reale, di cui il primo è condizione necessaria, ma non sufficiente. È legittimo chiedersi pertanto: «che cosa deve accadere al potenziale ereditario per svilupparsi in un infante e poi in un bambino che va verso una 6.  Ivi, p. 48.

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esistenza indipenden­te»7? Com’è noto, la risposta di Winnicott – che intende integrare la prospettiva stessa della psicoanalisi che lo ha preceduto, colmando una vistosa lacuna – è che solo grazie a cure sufficientemente buone della madreambiente l’infante «è in grado di avere una esistenza personale, e comincia così a costruirsi quella che si può chiamare una continuità dell’essere. Il potenziale ereditato si trasforma gradualmente, sulla base di questa continuità dell’essere, in un infante determinato»8. Dunque, anche se conoscessimo in anticipo la scansione temporale dei vari stadi di sviluppo dell’infante, essa non potrebbe venire usata per prevedere lo sviluppo reale di un dato infante, poiché la previsione dovrebbe includere la presenza di cure materne adeguate o sufficientemente buone, le quali non si limitano, pur includendole, alle provvidenze fisiche, ma si rivolgono all’Io del neonato. E ciò non può mai essere garantito a priori. Quando non vi sono cure materne adeguate, quando cioè l’ambiente non è favorevole, l’Io del bambino può essere frenato nella sua maturazione, lo sviluppo della sua personalità può venire ostacolato in aspetti di importanza vitale. Con Winnicott, e non solo con lui, si delinea all’interno della psicoanalisi un tornante teorico decisivo, che ha interessato anche la filosofia, che sposta l’attenzione dall’intrapsichico all’inter­ psichico. Lo psicoanalista inglese – in una prospettiva di sapore hegeliano, come ha rimarcato Axel Honneth – evidenzia che è l’inter­soggettivo a mobilitare e a fare emergere l’intrasoggettivo, a rivestire il ruolo di condizione essenziale della costituzione e della maturazione del sé, dell’identità personale, pur senza poterne produrre le tendenze di partenza (potenziale ereditario). Un ambiente favorevole rende pertanto

7.  Ibidem. 8.  Ivi, p. 60.

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possibile il progresso costante dei processi maturativi dell’infante. Detto tra parentesi, ciò che Winnicott mette in luce avrebbe una pertinenza anche qualora, in tutt’altra ottica, si focalizzasse l’attenzione sulla maturazione delle funzioni cerebrali anziché di quelle psichiche: un ambiente favorevole è in modo analogo condizione di sviluppo del sistema nervoso centrale e interviene decisivamente sulla plasticità cerebrale.

3. L’adattamento ai bisogni Winnicott sottolinea ripetutamente che il primo, fondamentale aspetto del processo maturativo è rappresentato dalla «integrazione», il cui risultato è l’acquisizione di uno «stato unitario»: l’infante passa da uno stato non integrato a una integrazione strutturata, diventa un individuo a sé stante. La fase della integrazione implica: la costruzione di una continuità dell’esistenza – o di una continuità dell’essere –; l’insediamento della psiche nel soma; l’esperienza della cute come membrana limitante, in posizione intermedia fra il “me” e il “non-me”, grazie a cui l’infante giunge ad avere un interno, un esterno e uno schema corporeo. In questo stadio dello sviluppo della personalità, l’urgenza primaria è rappresentata dallo stabilirsi della continuità dell’essere. Ciò che ne minaccia la realizzazione e il consolidamento è l’esposizione dell’infante a pressioni ambientali prolungate o a urti che lo costringano a reagire. Può trattarsi di pressioni endogene o esogene, cioè tanto di una tensione istintuale, come per esempio la fame che tarda a trovare il suo soddisfacimento, quanto di un colpo di tuono (per l’infante non vi è, in questo momento, alcuna differenza). Il fatto è che, «quando reagisce, un bambino non è “essere”»9. Per 9.  D.W. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, cit., p. 224.

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l’infante, provvisto di una organizzazione dell’Io ancora molto immatura, reagire comporta una sospensione della continuità dell’esistenza, quindi una temporanea perdita di identità. «L’alternativa all’essere è il reagire, ed il reagire interrompe l’essere ed annienta». Si delinea con ciò anche la funzione principale dell’ambiente-madre: «ridurre al minimo gli “urti” ai quali il bambino deve reagire con conseguente annientamento dell’essere personale»10. Un ambiente-madre è dunque favorevole quando è in grado di proteggere e di preservare la continuità dell’essere del figlio, facendo sì che gli urti ambientali capaci di provocare delle reazioni siano minimi (è qualcosa di analogo a ciò che cerchiamo di garantirci anche da adulti: non essere costretti a una quantità di reazioni maggiore di quella che possiamo sperimentare senza perdere il senso della continuità della nostra esistenza personale). Come l’ambiente-madre protegge e preserva dagli urti l’infante, consentendogli quella continuità dell’essere che è il fondamento della forza del suo Io? Mediante il «vivo adattamento ai bisogni del figlio» che una madre è in grado di realizzare, proprio in forza della sua speciale identificazione con lui. Con tale espressione Winnicott intende descrivere ciò che solitamente avviene nel rapporto che la madre intrattiene col suo bambino e che è stato, però, a suo dire, lungamente misconosciuto dalla psicoanalisi quando non ridotto alla soddisfazione dei bisogni istintuali. Generalmente, cioè quando non sono «disturbate da malattie o da pressioni ambientali in atto», le madri si identificano con il figlio che cresce dentro di loro, acquisendo una sensazione molto potente dei suoi bisogni e una conseguente capacità di adattamento ad essi. «Mi riferisco – osserva Winnicott – a bisogni vitali come essere tenuto in braccio, girato, messo giù e preso su, essere manipolato e naturalmente esse-

10.  D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, cit., p. 53.

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re alimentato con una sensibilità che implica molto più che la soddisfazione di un istinto»11. Lo stadio dell’holding – sostenere, tenere, contenere –, che corrisponde a tali bisogni, va cioè ben oltre le provvidenze fisiche e la soddisfazione pulsionale. Molte delle incomprensioni relative alla decisività, sul piano dello sviluppo psicologico, dell’adattamento materno derivano dal mancato riconoscimento dei bisogni dell’Io del neonato, dal loro appiattimento sulle tensioni istintuali. L’identificazione proiettiva della madre, la sua «preoccupazione materna primaria», permette ad essa una sorta di comprensione premonitrice dei bisogni del figlio, mettendola nelle condizioni di offrire con una congruenza temporale quasi perfetta ciò che può corrispondervi. Si produce così una concomitanza tra la tensione istintuale della fame (un potenziale urto) e l’offerta del seno materno, che si trova perciò al posto giusto al momento giusto: è ciò che definirei una risposta corrispondente, alludendo in altri termini alla nozione winnicottiana di «cure materne sufficientemente buone». Che cosa vuol dire «sufficientemente»? Come si caratterizzano, invece, il troppo e il troppo poco? Occorre tornare sul significato di «vivo adattamento ai bisogni del figlio», in cui Winnicott fa consistere «l’essenza delle cure materne»12. Nella fase iniziale, quando l’infante si trova in uno stato simbiotico con la madre, più questa riesce a capire esattamente i bisogni del figlio, meglio è. Vi è qui una situazione caratterizzata da una comprensione quasi magica del bisogno dell’infante. Nella fase successiva, alla fine della simbiosi, verso i sei mesi di età del bambino, quando questi inizia a separarsi da lei, si introduce una modificazione di atteggiamento da parte della madre: «è come se essa sapesse che l’infante ha ac11.  Ivi, p. 77 (corsivi miei). 12.  Ivi, p. 60.

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quisito una nuova capacità: quella di dare un segnale che la guidi a rispondere ai suoi bisogni»13, e solitamente si adatta a questo cambiamento. Le viene richiesto un passaggio da una comprensione basata sull’empatia a una comprensione basata sui segnali offerti dal bambino. Se essa continua a prevedere i bisogni anticipando la risposta, come se l’infante fosse ancora in simbiosi con lei, diventa pericolosa: «pur essendo apparentemente una buona madre, fa qualcosa che è ancor peggio che castrare il bambino»14. Lo stesso vale, nota Winnicott, per l’analista: tranne che nel caso in cui il paziente sia regredito alla primissima infanzia e a uno stato di simbiosi, è di capitale importanza che l’analista non offra l’interpretazione prima che il paziente gli abbia fornito gli elementi che la giustificano; altrimenti essa si traduce in un esercizio di potere-sapere dell’analista e non serve al paziente. Possiamo allora dire che l’adattamento della madre ai bisogni del bambino è «vivo» in quanto il suo modo di riconoscerli e di rispondervi è corrispondente alla situazione in cui il bambino si trova, è teso ad assecondare e a rafforzare l’Io del bambino, non a dimostrare la propria adeguatezza, la propria capacità di risolvere le tensioni istintuali. La capacità di adattamento della madre ha dunque «ben poco a che fare con la sua capacità di soddisfare le pulsioni orali del bambino, per esempio con il dare un pasto soddisfacente». Precisazione importante, che sta alla base del discorso winnicottiano. È infatti possibile «gratificare una pulsione orale del bimbo e, così facendo, violare la sua funzione egoica e cioè quello che più tardi verrà custodito gelosamente come il Sé, come il nucleo della personalità»15. Una soddisfazione alimentare può assumere

13.  Ivi, p. 56. 14.  Ivi, p. 57. 15.  Ivi, p. 64.

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per il bambino l’aspetto di una seduzione traumatica, o di una intrusione, di una esperienza non ego-sintonica. Abbiamo qui una prima chiarificazione del «troppo», nel senso della invasione di campo o della dimostrazione ansiosa di efficienza, di cui il neonato diventa una vittima. Quanto accennato permette di iniziare a chiarire che cosa si intende con madre sufficientemente buona nella primissima fase dello sviluppo della personalità del bambino. Occorre portare l’attenzione sul modo della risposta. Lo stesso – apparentemente lo stesso – gesto di offrire il seno da parte della madre può avere due sensi opposti: quello di soddisfare al più presto la pulsione o, nei termini di Winnicott, quello di favorire l’esperienza di onnipotenza del figlio, cioè l’illusione che il capezzolo e il latte che egli trova lì, pronti a soddisfare il suo bisogno, siano stati creati da lui, dall’impulso che viene dal suo bisogno. Ciò che la madre sufficientemente buona fa è «mettere il capezzolo proprio al posto giusto al momento giusto»16 per favorire questa esperienza di creatività, di onnipotenza, di illusione del suo bambino, decisiva – secondo Winnicott – per il successivo formarsi del principio di realtà. Al contrario, una madre non sufficientemente buona presenta il seno al bambino senza tuttavia dargli né il tempo né l’opportunità «di essere il creatore dell’oggetto che deve essere trovato»17, di essere lui il protagonista della presenza del seno, magari perché irrigidita dall’angoscia di fallire o dalla fretta di rispondere, di riuscire a soddisfare la sua fame. Al momento della prima «poppata teorica» il bambino è già pronto a creare, a entrare in rapporto “soggettivamente” col mondo, cioè a incarnare il principio di manifestatività, dando il suo contributo di “sog16.  D.W. Winnicott, Human Nature, The Winnicott Trust by Arrangement with M. Paterson, London 1988; tr. it. di T. Roghi, Sulla natura umana, Cortina, Milano 1989, p. 118. 17.  Ivi, p. 120.

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getto” alla apparizione del mondo. E la madre, proprio attraverso un adattamento quasi totale («vivo» nel senso detto) ai suoi bisogni, gli dà la possibilità di coltivare la sua creatività, di avere l’illusione che il seno, e ciò che il seno rappresenta, sia stato creato da lui. Nell’esperienza umana, il cammino va dall’«oggetto soggettivo» all’«oggetto oggettivo» (uso il lessico winnicottiano), non viceversa. Con l’aggiunta che la rivelazione del mondo, del suo senso d’essere, non è mai separabile dalla nostra apertura comprendente, nemmeno quando assume lo statuto dell’«oggetto oggettivo», riconosciuto nella sua indipendenza. È pur sempre a una intersoggettività comprendente che la realtà si rivela infatti nella sua esteriorità o inseità. L’appello di Winnicott alla «creatività primaria» dell’infante allude pertanto al fatto che l’incontro col mondo non è originariamente neutro: non è mera registrazione, ma, fin dal primo contatto, significazione. «Il mondo viene creato di nuovo da ogni essere umano e questo compito inizia almeno dal momento della nascita e della prima poppata teorica»18. Sufficientemente buona è allora la madre che, con il suo adattamento sottile ai bisogni emozionali del bambino, ne supporta l’originaria creatività, che si annuncia anzitutto nella forma di una esperienza di onnipotenza. Essa afferma sin dall’inizio la capacità di significare dell’infante: anche quando ciò potrebbe sembrare un azzardo, essa scommette sul neonato come “soggetto”, e non perché qualche teo­ria glielo abbia insegnato, bensì per quell’irripetibile legame di comunione che caratterizza il suo essere-con-lui. Alla esperienza dell’illusione seguirà poi quella della disillusione e della formazione del senso di realtà. Ma prima deve essere data l’illusione e una madre sufficientemente buona ha il compito di permetterla. 18.  Ivi, p. 127.

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«È fuorviante pensare alla costruzione del senso di realtà del bambino in termini di insistenza da parte della madre sulla esteriorità delle cose esterne»19. Creatività e spontaneità sono, per Winnicott, il tratto essenziale del vero Sé (dell’Io nel suo nucleo originale e singolare, primario). «Nel primissimo stadio il vero Sé è la posizione, postulata teoreticamente, da cui vengono il gesto spontaneo e l’idea personale. Il gesto spontaneo è il vero Sé in azione»20. Potremmo riformulare in questo modo: dal lato dell’infante, nei primissimi stadi del suo sviluppo, vi è un essere pronto a creare, una spontaneità, che periodicamente si esprime in gesti, in movimenti, in manifestazioni sensoriali-motorie. Ma – conformemente al punto qualificante della prospettiva winnicottiana – «il vero Sé potenziale»21 non può diventare una realtà viva senza la funzione materna, per la quale la madre è in un certo senso naturaliter “specializzata” e che consiste nella capacità di presentire le attese e i bisogni del figlio, nel rispondervi in modo che egli sperimenti una continuità del suo essere, in modo cioè che «egli possa cominciare ad esistere anziché a reagire»22. Torniamo alla situazione accennata. Quando si produce un gesto spontaneo da parte del bambino, come potenziale occasione o espressione della sua «onnipotenza infantile», della sua «creatività primaria», che cosa significa rispondervi in modo sufficientemente buono? La madre sufficientemente buona «va incontro all’onnipotenza del figlio e, in una certa misura, le dà un senso». La madre non sufficientemente buona non è in grado di «sostenere l’onnipotenza del figlio, e così fallisce 19.  Ivi, p. 117. 20.  D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, cit., p. 166. 21.  Ivi, p. 162. 22.  Ivi, p. 165.

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ripetutamente nel rispondere al suo gesto». Invece che assecondare, rafforzare, dare “realtà” al gesto spontaneo o alla allucinazione sensoriale del figlio, essa si pone al centro e vi sostituisce «il proprio gesto, chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscendenza. Questa condiscendenza è lo stadio primario precoce del falso Sé»23. In una sorta di inversione dei ruoli, dovuta alle difficoltà della madre, è il figlio che ora si deve adattare a lei e che viene indotto a essere compiacente, a sviluppare un falso Sé (la cui funzione è quella di nascondere il vero Sé, di difenderlo dall’annientamento). Sono note le analisi winnicottiane delle conseguenze, sulla formazione della personalità del bambino, dei diversi gradi di organizzazione del falso Sé. Mi limito qui ad un accenno, che fornisce il punto d’appoggio per svolgere il filo che mi interessa evidenziare: «Un assunto essenziale della mia teoria – scrive Winnicott – è che il vero Sé non diventa una realtà vivente se non come conseguenza del ripetuto successo della madre nell’andare incontro al gesto spontaneo o alla allucinazione sensoriale dell’infante»24. Nella reiterata risposta assecondante della madre-ambiente trovano la necessaria conferma sia il gesto, cioè la spontaneità, sia l’allucinazione, ovvero la creatività e l’onnipotenza dell’infante, che costituiscono la base per lo sviluppo della sua capacità simbolica: «Ecco la base per il simbolo, che dapprima è sia la spontaneità o l’allucinazione del bambino sia anche l’oggetto esterno creato e infine investito libidicamente»25.

23.  Ivi, p. 163. 24.  Ibidem. 25.  Ibidem.

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4. Desiderio e linguaggio Françoise Dolto ha insistito in modo particolare e originale – in consonanza con Jacques Lacan – sulla capacità simbolica, di linguaggio, che caratterizzerebbe l’essere umano. «La funzione simbolica è base dell’essere umano»26. Che questi sia «un essere di linguaggio» è una tesi che percorre costantemente i suoi testi e che contiene una ambizione precisa. Tale affermazione non significa infatti semplicemente che in virtù di quella potenzialità l’infante a un certo punto del suo sviluppo psichico e cognitivo imparerà a parlare – questo va da sé –, bensì che la funzione simbolica è in atto sin dai primi giorni di vita; di più, che già prima della nascita, nella vita intrauterina, vi sarebbe esposizione produttiva al linguaggio, provocazione ed esercizio della potenzialità simbolica: le voci della madre e le voci del gruppo, che il bambino riconoscerà dopo la nascita, si coordinerebbero “significativamente” con le percezioni viscerali intrauterine. «Il linguaggio è dunque presente nel corso della vita fetale, perlomeno sul piano auditivo, nel piccolo dell’uomo, accompagnato da sensazioni di benessere e di disagio»27. La vita simbolica è in sintesi consustanziale alla vita dell’essere umano, dal concepimento fino alla morte. Occorrerà capire, nei limiti degli scopi qui perseguiti, che cosa questo comporti e quali siano i certificati di attendibilità di una simile affermazione. Anche in vista di ciò è necessario mettere subito in gioco l’altro elemento, che si intreccia in maniera essenziale con la funzione simbolica: il desiderio. L’essere umano è «un essere di desiderio». È l’altra affermazione guida. Il che di nuovo significa: il desiderio non interviene a un certo punto dello sviluppo psico-affettivo del bambino, non rappresenta una emergenza

26.  F. Dolto, Au jeu du désir. Essais cliniques, Seuil, Paris 1981; tr. it. di S. Maddaloni, Il gioco del desiderio, SEI, Roma 1987, p. 205. 27.  Ivi, p. 206.

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conseguente a quella del bisogno, considerato più originario, ma è presente simultaneamente al bisogno e se ne distingue dall’inizio, annunciandosi già nella vita fetale. Quello scarto dai bisogni vitali e dalle corrispondenti soddisfazioni che, nella impostazione di Winnicott, è spesso affidato alla differenza tra i bisogni istintuali e i bisogni dell’Io, in Dolto – in consonanza con Lacan – diviene differenza originaria tra bisogni e desideri. Il desiderio è identificato con l’asse portante attorno a cui ruota lo sviluppo psico-affettivo del bambino. Nella prospettiva di Dolto potrebbe difficilmente trovare spazio la seguente espressione winnicottiana: «assistiamo alla graduale trasformazione del bisogno in desiderio»28, giacché non vi è trasformazione dell’uno nell’altro, bensì specificazione del desiderio, sulla base di una costitutiva e originaria distinzione, pur nella comunanza delle loro primitive sedi di partenza e di soddisfazione. Nel neonato che poppa per vivere, per sopravvivere, è possibile, sin da prima della prima poppata, sin dalle prime ore della sua vita, distinguere l’esistenza del desiderio e la presenza del linguaggio come fatto di relazione interumana soddisfacente il desiderio.29

Funzione simbolica e desiderio non sono semplicemente compresenti nella vita del bambino: vi è una vera e propria «artico­ lazione»30 tra essi, poiché la soddisfazione del secondo passa attraverso la vitalità della prima. La simbolizzazione della presenza dell’altro, la sua sostituzione mediante “significanti” (come, poco dopo la nascita, la suzione delle labbra e della lingua in assenza del seno materno), serve infatti alla soddisfazione del desiderio e non del bisogno, non risponde alla ne-

28.  D.W. Winnicott, Sulla natura umana, cit., p. 118. 29.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 208. 30.  Ivi, p. 212.

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cessità di nutrimento, ma al desiderio di prolungare il piacere del contatto, dello scambio interumano con la madre o con la figura-nutrice, che riveste per il bambino un carattere strutturante. Agli inizi della vita, «il bambino non può sopportare la solitudine. Per lui essa è patogena»31. La simbolizzazione della relazione interumana è dunque vitale: la capacità simbolica permette al bambino di arruolare elementi del proprio vissuto o del proprio corpo (l’odore della madre, una sensazione associata a un ricordo piacevole, il pugno, il pollice eccetera) in funzione di significanti, per evocare la madre in sua assenza e continuare così il rapporto con lei, tenendo a bada il desiderio. Ma, come già abbiamo visto con il potenziale ereditario winnicottiano, l’esercizio della funzione simbolica richiede sempre iniziazione. Ed è ciò su cui tornerò tra breve. Occorre adesso entrare più nel vivo dei punti annunciati, cominciando dal desiderio e dalla sua differenza dal bisogno. I bisogni del bambino reclamano una soddisfazione attraverso un appagamento reale, pena il deperimento mortifero del corpo. Ma nell’essere umano vi è dall’inizio anche altro rispetto al bisogno: Freud l’ha chiamato libido, cioè, traduce senza mezzi termini Dolto, desiderio. «Sin dalle origini e per tutta la vita, il corpo fa di ciascuno un esemplare della specie umana animato da bisogni; la psiche, un essere in desiderio di comunicazione con un’altra psiche»32. Com’è noto, anche Dolto si concentra sugli inizi della vita, esplora quel territorio non ancora adeguatamente battuto dalla psicoanalisi, almeno sino agli anni in cui scrive, facendo leva, analogamente a Winnicott, sulla duplice esperienza di pediatra e di psicoanalista. Ella si avvale di una sensibile mole di osservazioni direttamente at-

31.  F. Dolto, Sèminaire de psychanalyse d’enfants, Seuil, Paris 1982; tr. it. di L. Muraro, Seminario di psicoanalisi infantile, Emme, Milano 1984, p. 136. 32.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 217.

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tinte dalla sua pratica clinica, radicando gran parte delle sue intuizioni nell’esperienza diretta. Come avviene nel neonato la discriminazione tra bisogni e desideri? «Agli inizi della vita, i momenti di interrelazione umana sono obbligatoriamente concomitanti ai momenti di soddisfazione dei bisogni»33. Tale concomitanza implica che le sedi corporee di contatto-separazione tra il corpo della persona-nutrice, necessario a soddisfare il bisogno, e il corpo del bambino, attraverso cui questi esperisce la soddisfazione dei bisogni, siano le stesse in riferimento a cui emerge e si esprime il desiderio34. Per questo la psicoanalisi parla di pulsioni orali, anali, uretrali, genitali, e quindi di desiderio orale, anale, genitale: le rispettive sedi corporee rappresentano l’origine comune del bisogno e del desiderio, ma anche il luogo della loro distinzione. La zona orale e la zona anale sono le originarie sedi di contatto e di rottura del contatto «con la madre-seno, con la madre-mani»35, in occasione del reiterato appagamento dei bisogni. I primi luoghi della soddisfazione dei bisogni vitali sono anche i primi luoghi della soddisfazione del desiderio. Si mostra tuttavia fin dall’inizio anche la loro eterogeneità: osservando le primissime fasi di vita del bambino, si può da

33.  Ivi, p. 206. 34.  Dolto riprende qui, com’è noto, quasi letteralmente l’insegnamento freudiano, solo con una diversa accentuazione relativa alla differenziazione bisogno/desiderio. Scrive Freud, in uno dei tanti passi citabili: «Apprendiamo dunque che il lattante esegue azioni le quali non hanno altro intento che quello di ottenere piacere. Crediamo che egli provi dapprima questo piacere nella assunzione del cibo, ma che presto impari a scinderlo da questa condizione. Tale piacere non può essere riferito che all’eccitamento della zona della bocca e delle labbra; chiamiamo “zone erogene” queste parti del corpo, e chiamiamo “sessuale” il piacere ottenuto ciucciando» (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., Opere, ed. it. a cura di C.L. Musatti, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 472). 35.  Cfr. F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 224.

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subito notare che «quando il bisogno è soddisfatto, il desiderio non lo è mai»36, esso persiste e cerca il suo appagamento. Quando, ottenuto il soddisfacimento sostanziale dei bisogni nutritivi e corporei, avviene la separazione fra il bambino e il corpo di colei che lo nutre, il desiderio ne risulta frustrato e si annuncia così nella sua indipendenza: la madre (oggetto totale), dalla quale dipende qualsiasi esperienza di se stesso, resta il termine di una aspettativa, di una richiesta del neonato, di una tensione, che si manifesta come desiderio del seno (oggetto parziale) e di ciò che ne accompagna dall’inizio la presenza piacevole e provvidenziale. Infatti, nel momento dell’appagamento dei bisogni, procurato dalla persona che si prende cura di lui, sul lato del desiderio si coniugano le soddisfazioni sostanziali delle zone erogene e quelle derivate dalle sensazioni sottili dell’udire, dell’odorare, del sentire tattile, del vedere: l’odore del suo corpo, il suono della sua voce, il contatto con la sua pelle, la vista della sua figura. La «separazione avvertita ai limiti cutaneo-mucosi del corpo del neonato, al quale il seno della madre è rifiutato dopo la poppata»37, occasiona lo specificarsi del desiderio. Il luogo in cui bisogno e desiderio si presentavano confusi diviene ora il luogo di una mancanza che resta anche dopo l’appagamento del bisogno, di una attesa che può venire soddisfatta o meno, di una richiesta che è sia sostanziale, sia sottile – relativa alle percezioni olfattive, uditive, tattili, visive –, e che si riassume nel desiderio di una comunicazione con la persona che in precedenza ha accompagnato la soddisfazione dei suoi bisogni. Il neonato non potrà che esprimere la propria aspirazione tramite desideri parziali: il desiderio del seno e i correlati desideri olfattivi, uditivi, visivi, tattili, che in un certo senso «illustrano la co-

36.  Ivi, p. 206. 37.  Ibidem.

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municazione da psichismo a psichismo del soggetto-neonato col soggetto-sua-madre»38. I luoghi del corpo del neonato che sono stati separati dal corpo della madre, dopo la relazione piacevole e vitale con lei, diventano dunque il viatico del desiderio: la bocca, le labbra e l’area naso-labiale del bambino – per riferirci alla zona erogena orale – rappresentano il luogo di una mancanza e di un appello, del desiderio di una continuazione del rapporto con la presenza che garantisce la sicurezza della sua vita, la continuità del suo senso di esistere, la condizione necessaria del suo narcisismo. Tutti hanno avuto modo di assistere alla scena di neonati che dormono, magari dopo una soddisfacente poppata, si svegliano e iniziano a mimare la ricerca del seno, piangono perché non lo trovano o perché non riescono a portare la mano alla bocca, e «si riaddormentano suggendosi la lingua come se, infine, la mamma fosse arrivata. Non si tratta di bisogno, si tratta del desiderio di comunicare con l’altro»39, un desiderio che cerca di soddisfarsi mediante un “sostituto”, un movimento o una percezione che chiamano in presenza l’assente. Anche il desiderio, infatti, «che in origine è sempre inconscio, come il bisogno, chiede che la sua tensione venga placata in un appagamento»40. A differenza del bisogno, esso può tollerare però di non essere appagato subito e di subire deviazioni, differimenti, per trovare più tardi la sua soddisfazione. Quando non trova risposta nell’ambiente, il bambino, in quanto soggetto desiderante, diviene capace di «inventare e creare inconsciamente mezzi per giocare col proprio desiderio e placarlo»41.

38.  F. Dolto, L’image inconsciente du corps, Seuil, Paris 1984; tr. it. di V. Fresco, L’immagine inconscia del corpo, RED, Como 1996, p. 75. 39.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 206. 40.  Ivi, p. 205. 41.  Ibidem.

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Se il rapporto madre-bambino è trasversale alle culture, non lo sono i modi di realizzarlo. In certi paesi africani, i neonati – ripresi in un documentario citato da Dolto – sono costantemente nudi, attaccati al corpo della madre, stretti dentro i suoi vestiti. Essi vivono con lei un continuo contatto pelle a pelle, hanno permanentemente le loro minuscole mani sul suo seno. Nel documentario viene inquadrato a un certo punto un bambino piccolo, non più lattante, che nel sonno, mentre la madre gli volta le spalle, “allucina” con la mano un seno immaginario: compie l’atto di palpare così come si vedeva fare ai neonati che se ne stavano corpo a corpo con la madre. Il piccolo africano allucina in questo modo il proprio rapporto con la madre nella vita immaginaria, fantasmatizza il seno, e lo stesso fa il piccolo europeo che si succhia la lingua dormendo o che mima l’atto di suggere il seno portando alla bocca il suo pugno o il suo pollice. Entrambi immaginano la madre-seno presente per loro, nell’atto di corrispondere al loro desiderio di comunicazione. «Tutto il corpo del bambino può vivere se stesso come una bocca che chiama la comunicazione interuma­na del toccare, del palpare; espressione del desiderio, al di fuori del pregnante bisogno di soddisfare sete e fame». Per questa via, di incontro in incontro e di separazione in separazione, il neonato che desidera la continuazione del legame e della comunicazione con la madre, che aspira al piacere che proviene dal rapporto con essa, «è spinto da questo stesso desiderio a immaginare il richiamo e la risposta passiva o attiva dell’altro che desidera»42; immaginazione intessuta di percezioni, ricordi, fantasie. Il neonato immagina, sì, la soddisfazione dei bisogni vitali, ma tale soddisfazione «si accontenta di ciò che vi è di erotico nel poppare, la suzione, senza inghiottire il latte e senza sentire l’odore della madre, cosa che il poppare

42.  Ivi, p. 208.

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nella realtà permetterebbe»43. Al posto della presenza desiderata, in mancanza del seno della madre nella sua bocca, il desiderio di quella percezione tattile gli fa trovare allora il pugno o il pollice come “sostituti” da poppare, come significanti. Egli riesce così a tollerare meglio il suo isolamento durante la sospensione della comunicazione: anzi, è proprio quello il modo di non interrompere il filo del con-essere: «bocca con seno, psiche con psiche». Alla presenza assente della madre il neonato sostituisce «qualcosa che gli ricordi l’ultima relazione di piacere nella quale lui-l’altro, lui-la madre sono stati una cosa sola»44. Qui vi è già, per Dolto, esercizio della funzione simbolica propria della specie umana, in connessione con la memoria, che invece non è propria dei viventi umani; si tratta già di linguaggio, di «un linguaggio intra-narcisistico»45. È la ricerca di appagamento del desiderio di relazione-comunicazione con l’altro, in assenza dell’altro desiderato, a mettere in moto la simbolizzazione, a elicitare la potenzialità “linguistica”. «L’immaginazione crea una percezione parziale grazie alla memoria, percezione che ricrea la presenza rassicurante di una totalità esistenziale al di là della carenza»46. Non si può dire che il neonato impegnato in tale operazione sia già un soggetto: lo si potrebbe chiamare «pre-soggetto» e, correlativamente, il seno che viene allucinato dal neonato lo si potrebbe chiamare «pre-oggetto» oppure «oggetto parziale». Quello che qui importa sottolineare è il fatto che tale preoggetto rappresenti la relazione con la madre e che, quindi, tra pre-oggetto e pre-soggetto vi sia una relazione simbolica. Tale simbolizzazione della relazione tra pre-soggetto e pre-

43.  Ibidem. 44.  Ivi, p. 212. 45.  Ivi, p. 209. 46.  Ibidem.

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oggetto serve unicamente a placare la tensione del desiderio, non del bisogno.

5. La smorfia Se la manifestazione del desiderio si incrocia con quella del bisogno, ne condivide le originarie localizzazioni corporee, essa può anche prodursi in assenza di bisogno, al di qua o separatamente da esso e dalle sue zone. Ne abbiamo un esempio quando il neonato appena venuto al mondo – Dolto riferisce la scena di un bambino sette ore dopo la nascita – produce la smorfia del “sorriso”, appartenente al repertorio dei suoi movimenti spontanei già in utero. Questa smorfia offre agli adulti che vi assistono «il fantasma di una gioia manifestata dal bambino» e la possibilità perciò di intenderlo come un sorriso, come una comunicazione, come un linguaggio che, in senso stretto, ancora non è tale. Se, osserva Dolto, verbalizziamo a viva voce la nostra gioia di vedere il viso del bambino illuminarsi mediante quella espressione spontanea, se sottolineiamo con una frase decisa: «Che bel sorriso!» il disegnarsi di quella smorfia sul suo volto e, dopo avere aspettato qualche istante, ripetiamo la frase in forma interrogativa, come un invito: «Un altro bel sorriso?», questo è sufficiente perché «subito il desiderio di comunicare si riveli, gli angoli della bocca del neonato esitino, e un luminoso sorriso gli si diffonda sul viso». L’esperienza può essere ripetuta più volte, avendo cura di lasciare un riposo compensatore tra una richiesta e l’altra, e «si ottiene, ad ogni incitamento tramite la parola “sorriso”, lo stesso risultato»47. Dolto ricava da qui alcuni elementi significativi relativamente al desiderio, al linguaggio e alla loro articolazione. Bisogna 47.  Ivi, p. 207.

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anzitutto cogliere che cosa rende linguaggio una espressione mimica. All’inizio, infatti, la smorfia-sorriso (uso di proposito questa formulazione indecisa) non è una espressione comunicativo-linguistica interumana. Essa lo diviene per mezzo dell’incontro con i fonemi del linguaggio, provenienti dalla madre, cioè grazie alla percezione del suono linguistico da parte del neonato. È la risposta della madre che inaugura lo scambio “comunicativo”. La verbalizzazione, la parola “sorriso”, che segue l’espressione mimica del neonato, ottiene la ripetizione della smorfia-sorriso, la quale suscita una ulteriore replica verbale-affettiva della madre, e così via, entro i limiti di resistenza del bambino. Ora, proprio quella “parola”, quel suono, che suscita e ottiene la risposta del bambino, innescando lo scambio, diviene «simbolo» per entrambi, madre e bambino, della sintonizzazione dei desideri, del piacere che accompagna la ripetizione del gioco di appello e risposta, quindi di un piacere relazionale. «L’uno chiede, l’altro risponde», nota Dolto, e aggiunge: «vi è significazione di desideri sintonizzati tra due esseri umani dotati di funzione simbolica»48. Precisazione, quest’ultima, che mira a sottolineare che è solo in virtù di una capacità simbolica attiva sin dall’origine che il bambino può assumere il suono “sorriso”, cui inizialmente risponde come si risponderebbe a un qualsivoglia gesto-stimolo, come simbolo della sintonia dei desideri, del piacere – condiviso con la madre – dell’essere in comunicazione. Il caso del sorriso, o meglio, della smorfia-che-diventa-sorriso, è emblematico. In primo luogo, perché il gioco di appello-risposta che si produce perfino prima della prima poppata offre l’esempio di un desiderio non legato come origine al bisogno: il desiderio di una comunicazione psichica tra due esseri umani. In secondo luogo, perché, proprio in conseguenza di

48.  Ibidem.

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ciò, esso documenta il carattere peculiarmente umano e costitutivamente umanizzante della comunicazione sottile, dello scambio linguistico, da intendersi certamente in senso largo, ma pur sempre come l’espressione di una potenzialità simbolica in esercizio. «Il desiderio – scrive Dolto – è l’appello alla comunicazione interumana. L’organizzazione di una risposta adeguata all’appello che congiunge due esseri viventi è linguaggio, questa organizzazione è dovuta alla funzione simbolica allo stesso tempo che alla memoria»49. Il gioco di appello e risposta, di un essere desiderante che chiama la risposta di un altro essere desiderante e complementare, «è la base del senso che assume la funzione simbolica sotto tutti i climi e in tutte le epoche»50. Ed è già riconoscibilmente all’opera nella fase orale. Anzi, lo scambio che si inaugura a partire dalla smorfia-sorriso dimostra, secondo Dolto, che, nel neonato, «il desiderio di comunicazione emozionale sottile» precede «il bisogno di una comunicazione di aiuto substanziale»51. Tale comunicazione sottile, “linguistica”, nel senso accennato, rappresenta un nutrimento essenziale per la psiche del bambino, per la strutturazione coesa del presoggetto. Per quanto la sua possibilità si radichi nella potenzialità simbolica del neonato, oltre che in quella dell’adulto, il dispiegarsi di tale potenzialità non va da sé, richiede – come ho accennato sopra – iniziazione. Consideriamo più da vicino l’esperienza della smorfia-sorriso. A quale condizione la smorfia diventa sorriso e linguaggio mimico? «Ciò che, in una mimica spontanea del neonato, provocherà nell’adulto la fantasia di una comunicazione di un qualcosa proveniente dal bambino e a lui diretta, l’adulto a 49.  Ivi, p. 207. 50.  Ivi, p. 211. 51.  Ivi, p. 207.

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sua volta lo significherà tramite un sistema di fonemi rivolti al bambino»52. La frase contiene una indicazione che occorre sviluppare. All’inizio, bisognerebbe dire, non vi è ancora un sorriso, ma una mimica spontanea, una smorfia, che può essere interpretata – in maniera non arbitraria, s’intende – come sorriso. Essa può provocare infatti la fantasia di una comunicazione o, nei termini usati in precedenza, dare all’adulto che in quel momento la osserva il fantasma di una gioia manifestata dal bambino o il fantasma di un sorriso. Ma questo a ben vedere significa: la mimica spontanea diviene un sorriso solo nella risposta interpretante della madre. È nello specchio sonoro della risposta materna (la gioiosa verbalizzazione a viva voce) che la smorfia si rivela nel suo senso di sorriso e nel suo carattere di appello. Ciò che lo specchio restituisce è cioè il sorriso che la smorfia poteva essere, ma ancora non era, se non – appunto – come promessa, come significato puramente possibile. È la risposta della madre, che intravede nella smorfia del bambino il fantasma di un sorriso, animata com’è dal desiderio di comunicare con lui, a rendere possibile l’emergenza della smorfia come sorriso. Fino al momento della risposta interpretante non vi è, a rigore, né sorriso né appello, ma un movimento spontaneo, inintenzionale, che attende di svelarsi nel suo senso, affidato alla pura eventualità di una risposta. Con il prodursi della esclamazione gioiosa della madre, la mimica spontanea del neonato (a sette ore dalla nascita) assume il significato di un sorriso, di un appello e di un desiderio di comunicazione rivolto all’altro. Potremmo dire allora, a patto di intendere bene, che la risposta (della madre) “pro-duce” l’appello (del bambino) a cui risponde, lo fa venire in presenza come tale proprio rispondendovi. In questo senso la risposta è la condizione di emergenza

52.  Ivi, p. 218.

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dell’appello, del sorriso del bambino nel segno della smorfia, è un “dopo” che si pone come svelamento retroattivo del “prima”. Il conseguente diviene condizione di apparizione dell’antecedente (del suo senso). Nel deserto di risposta, infatti, la smorfia non sarebbe diventata un sorriso, il movimento spontaneo non sarebbe diventato un appello, non sarebbe accaduta comunicazione “linguistica” e la funzione simbolica sarebbe rimasta senza iniziazione, in attesa di una eco significante, rivelatrice. Si può dire perciò: l’umanizzazione è una promessa sospesa all’evento della risposta dell’altro. Una manifestazione (pura possibilità di significato) riceve il suo senso da una risposta che suscita un’ulteriore risposta, irriducibilmente singolare, del neonato, inaugurando il processo di comunicazione che concorre alla sua soggettivazione.

6. Gli strilli e la laringe Lo stesso vale per il grido o gli strilli. Il desiderio di comunicazione sottile con la presenza materna dalla quale il bambino trae tutta la sua sicurezza esistenziale si fa sentire non appena essa si stacca da lui, interrompendo quella relazione mucosa a mucosa, corpo a corpo, necessaria per la soddisfazione dei suoi bisogni vitali. Il neonato è attraversato da una tensione libidinale che cerca il proprio appagamento nella continuazione della comunicazione tra sé e quell’altro elettivo che è la madre. Si tratta di un desiderio di “linguaggio” che egli non può manifestare altro che attraverso movimenti muscolari e strilli. Questi sono in qualche modo l’analogo della smorfia: eventi vocali in attesa di significazione. Tra gli esseri viventi, il caso del neonato umano è del tutto particolare: non solo per la sua impotenza fisica, ma anche per la sua impotenza a esprimersi, a manifestare il proprio desiderio.

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E tuttavia, osserva Dolto, «è proprio la comunicazione interumana a umanizzarlo»53. Se la madre, nei momenti che seguono i pasti e la pulizia, interrompe la comunicazione corporea senza farla proseguire tramite gesti e parole che siano significanti di comunicazione emozionale sottile, attestazioni di un interesse a comunicare con lui, il bambino può sperimentare un senso di abbandono e la sua vita simbolica rimanere allo stato larvale: egli si trova schiacciato sul lato del bisogno, il suo solo desiderio diviene allora quello di essere corpo a corpo con la madre. Dunque il bambino è tributario di “colui che” desidera comunicare con lui. È tributario della disponibilità emozionale e/o materiale nell’adulto tutelare a percepire il senso delle sue strilla di neonato, si tratti di strilla di bisogno o di strilla per desiderio di compagnia.54

Il bambino, in altri termini, è tributario della risposta interpretante dell’altro elettivo, senza la quale i movimenti e gli strilli non ottengono il loro senso, quel senso che – come diciamo a posteriori – essi possedevano solo come pura possibilità. Gli strilli del neonato soffrono infatti di una iniziale indeterminatezza di senso, ad un tempo penuria ed eccesso, che solo nelle risposte significanti dell’altro può iniziare a determinarsi. Affinché si delineino i diversi significati, occorre però, sul lato dell’altro, una disponibilità a percepire il loro senso, vale a dire una tensione (materna) alla risposta interpretante. L’assenza di quest’ultima tratterrebbe gli strilli del bambino nel limbo dell’insignificanza, della promessa mancata, ne inibirebbe il potenziale comunicativo, non ne promuoverebbe le specifiche modulazioni.

53.  Ivi, p. 213. 54.  Ibidem.

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Gli strilli del neonato hanno un doppio risvolto. Da una parte sono «ripetizioni di prove della sua vita», una sorta di certificazione auto-affettiva della propria esistenza, la cui importanza in rapporto all’«ancoramento del soggetto al proprio corpo individuato»55 non è mai sottovalutabile. Dall’altra sono «ripetizioni di appelli ai quali talvolta viene risposto»56, sia mediante risposte gestuali (il ricco repertorio dei gesti di cura) sia mediante risposte vocali (le parole e le vociferazioni affettive della madre o degli adulti intorno a lui). Tra gli appelli possibili, gli strilli si distinguono per la capacità di andare lontano, di funzionare a distanza, chiamando la presenza assente, rivelandosi perciò particolarmente preziosi, per non dire essenziali, per un essere che non cammina, che ha bisogno di venire sempre preso in braccio e spostato nello spazio. Gli strilli rappresentano una sorta di significante trasversale, sono potenzialmente in grado di significare tutto, bisogni e desideri. Iniziano a specificarsi in strilla di bisogno o strilla di desiderio con il ripetersi delle risposte interpretanti, guadagnando attraverso di esse le loro differenti modulazioni. Con l’incrementarsi della dialettica comunicativa di appello e risposta, il bambino impara a modulare le sue emissioni vocali e la madre impara a capirle sempre più rapidamente. Nei casi di sordità, le cose si complicano. «Il neonato sordo si riconosce dalle strilla non modulate»57. Egli non ha la possibilità di udire i propri strilli, né di percepire il linguaggio e i rumori della vita. Per mantenersi nella comunicazione interpsichica può far leva solo sulle risposte olfattive e tattili passive al suo desiderio. Non sente i passi della madre che si avvicina, né la sua voce che gli parla.

55.  Ivi, p. 214. Rinvio in proposito a C. Di Martino, Segno, gesto, parola, ETS, Pisa 2005, cap. III. 56.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 214. 57.  Ibidem.

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Finché la visione non matura, per avvertire l’approssimarsi della presenza materna, con la quale desidera comunicare, deve accontentarsi degli odori e del tatto. La madre stessa è messa alla prova: la mancata modulazione degli strilli sottrae appigli alle sue risposte e non la sollecita a prolungare la conversazione col bambino oltre i gesti di cura. Quando non vi sono infermità sensoriali organiche, la relazione “linguistica” che la madre intrattiene col bambino, quella relazione fatta di parole materne pronunciate e di ascolti responsivi ed espressivi del bambino, ha un ruolo fondamentale nella vita di quest’ultimo e nel suo cammino di umanizzazione. Trattare i neonati «come pacchi che non capiscono le parole»58 è un errore gravido di conseguenze, che rivela un fraintendimento radicale dell’esperienza infantile. La parola, di cui non ha certo il vocabolario, è già un simbolo “linguistico” per il bambino cui essa viene rivolta all’interno del più ampio scambio comunicativo con la madre, è già investita dalla funzione simbolica, ben prima che valga per il suo significato verbale. Se non vi sono lesioni neurologiche, la simbolizzazione copre tutto il campo delle esperienze interumane, senza zone franche (vi è linguaggio già «nella vita del feto»59, si diceva). Se un bambino è stato umanizzato sin dalla nascita attraverso le vocalizzazioni e il parlare della lingua materna, i fonemi di questa, e solo di essa, sono per lui simboli del mutuo riconoscimento del suo aversi-essersi e di quell’essere iniziatore del vivere che è la madre.60

58.  Ivi, p. 227. 59.  F. Dolto, Seminario di psicoanalisi infantile, cit., p. 73. Osserva Dolto: «Se un bambino non parla, non si tratta mai di una mancanza di linguaggio da parte sua, poiché il linguaggio c’è già, e c’è nella vita del feto. La domanda giusta, secondo me, sta nel chiedersi: “Che pericolo corre questo bambino ad esprimersi?”». 60.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 215 (corsivo mio).

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Le parole che la madre indirizza al bambino per il puro desiderio di rimanere in comunicazione con lui, senza fornirgli cibo, senza le manipolazioni implicate dalle cure e dalla pulizia degli escrementi, assumono per il neonato, di giorno in giorno, una importanza sempre maggiore, divenendo simboli del piacere della comunicazione interpsichica. I fonemi pronunciati lasciano nella memoria dell’infante «l’eredità sonora»61 dell’esperienza appagante della sintonia dei desideri, dello strutturante essere-con-l’altro. «Il neonato cresciuto, se la madre ha saputo riempire di linguaggio i momenti che separano le cure corporali, si ingegna nella culla, quando è sveglio senza essere affamato, di ritrovare il legame vocale con lei. Tenta di dare alle proprie orecchie l’illusione delle parole sentite o modulate»62, mediante esercizi di padronanza della fonazione, compiuti con la lingua, con la bocca, col cavum. Il desiderio di sentire di nuovo le parole della madre «è talmente precoce che i fonemi non inclusi nella lingua materna diventano molto rapidamente impossibili da pronunciare per la maggior parte degli esseri umani di una regione del globo»63. Molte madri dicono tutto quello che fanno al bambino, accompagnando con parole i loro gesti di cura, oppure cantano per vezzeggiarlo e intrattenerlo, consentendo il formarsi di «fonemi transizionali prelinguistici verbali», sulla base dell’alleanza di funzione simbolica e memoria. «I bambini che ricevono a sufficienza parole», osserva audacemente Dolto, «non hanno bisogno di oggetti transizionali»64. Non solo le parole divengono simbolo di esperienze di piacere (o di dispiacere), ma la relazione linguistica stessa, nel senso detto, è fonte di un piacere che può

61.  Ivi, p. 218. 62.  Ivi, p. 215. 63.  Ibidem. 64.  F. Dolto, L’immagine inconscia del corpo, cit., p. 72.

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sostituire il piacere fisico, provocare la procrastinazione del suo ottenimento o renderne sostenibile la mancanza. L’interesse del neonato per l’interrelazione linguistica, il vivo piacere che egli prova quando la madre gli parla, la ricerca di una prosecuzione del legame con lei tramite elaborazioni vocali, la possibilità di chiamarla a distanza con le sue strilla modulate conferiscono un particolare rilievo all’ambito della fonazione, concorrendo decisivamente alla emergenza del desiderio e alla sua funzione umanizzante nella fase orale. Nella prospettiva di Dolto, ciò sembra evidenziarsi nella discriminazione inconscia tra laringe e faringe che avviene nel lattante. Sono i fonemi, i cicalecci, i gorgoglii, a far sì che la gola, vale a dire la laringe, sia percepita dal bambino come distinta dalla faringe. Tutto questo, naturalmente, in modo inconscio. È nella laringe che si specifica la sede del desiderio e nella faringe la sede del bisogno, all’epoca delle soddisfazioni dominanti orali.65

In quanto impegnata nel grido di richiamo alla madre, la laringe (organo deputato alla fonazione, ovvero all’emissione dei suoni) diviene luogo del desiderio di comunicazione con lei, di un appello che ne reclama il ritorno. La faringe si specifica invece come luogo del bisogno in quanto svolge un duplice compito: da una parte mettere in comunicazione la bocca con l’esofago permettendo il passaggio del cibo mediante la deglutizione e dall’altra consentire, come parte delle vie aeree superiori, il passaggio dell’aria dalle cavità nasali alla laringe. Nella faringe confluiscono pertanto sia la via alimentare, relativa alla soddisfazione del bisogno sostanziale, sia le vie aeree (nella faringe si immette l’aria proveniente dal naso, che dalla faringe si immette poi nella laringe), coinvolte nei bisogni come nei desideri sottili. Queste sedi corporee entrano, so-

65.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 215 (tr. liev. mod.).

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stiene Dolto, in una strana dialettica inconscia, coniugandosi rispettivamente con una pulsione attiva (il grido) e una pulsione passiva (l’olfazione). Il richiamo alla madre mediante i suoi strilli può avvenire, infatti, solo se il bambino emette dell’aria utilizzando la laringe. Nel mentre emette l’aria, però, egli non può allo stesso tempo «essere attento alla olfazione sul piano della mucosa pituitaria»66. L’emissione dei suoni per chiamare la madre (connessa alla laringe) comporta di conseguenza una duplice rinuncia: quella a un’immissione d’aria olfattivamente appagante e quella a un’immissione di cibo soddisfacente sul piano del bisogno (connesse entrambe alla faringe). Producendo il suo appello sonoro rivolto alla madre, il neonato si priva dunque di «una ispirazione attenta all’eventuale ricezione dell’odore di lei. Deve rinunciare all’atteso odore della madre, o a quello immaginato olfattivamente in sua assenza, per concentrare tutta la propria energia negli strilli, gli strilli per farla andare da lui, per chiamarla»67. Nel fenomeno del grido-appello, degli strilli, si mostra in atto ciò che Dolto ritiene di poter legittimamente chiamare «la sublimazione delle pulsioni orali del desiderio»68. Per via della incompatibilità tra l’emissione dei suoni e la vigilanza-soddisfazione olfattiva, nell’attuarsi della prima vi è l’intrinseca necessità di negazione-superamento della seconda: «il pre-soggetto stesso reprime una pulsione, di espressione passiva (l’olfazione), per concentrare la propria energia su una pulsione attiva, gli strilli: chiamare la madre lontana e sostenere il desiderio di vederla tornare a lui, col suo odore ben conosciuto»69. In vista della soddisfazione del desiderio di veder tornare la madre che

66.  Ivi, p. 216. 67.  Ivi, p. 216. 68.  Ivi, p. 215. 69.  Ivi, p. 216.

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gli parla, che lo culla o che lo prende tra le braccia, il neonato è in qualche modo costretto a negare il suo desiderio olfattivo. Nella tensione del desiderio incarnata dal grido (laringe), vi è pertanto l’implicita negazione-procrastinazione del desiderio e dell’appagamento olfattivi (faringe). Si annuncia qui emblematicamente la via della sublimazione del desiderio e si evidenzia il ruolo che in essa vi svolge la funzione simbolica, il linguaggio.

7. Il tragitto lungo del desiderio Osserva Dolto: La funzione simbolica, specifica dell’essere umano, permette di sostituire al piacere di un tragitto breve del desiderio, sensuale, immediato, un tragitto più lungo, che media alcune pulsioni e permette loro di ritardare l’ottenimento dello scopo primo, per un nuovo piacere da scoprire.70

Come a più riprese richiamato, la funzione simbolica è attiva fin dall’inizio della vita dell’essere umano (già nell’utero materno) e per tutto il tempo di veglia il neonato è costantemente impegnato nel suo esercizio, in uno spazio di relazioni che si allarga via via alle persone vicine alla madre e a cui questa si rivolge. Ciò costituisce la base dell’organizzazione linguistica che inizierà a fiorire in lui a partire dai sei-sette mesi, con i primi fonemi intenzionalmente emessi per “chiamare” persone familiari e oggetti. La tensione del desiderio, quando siamo in presenza di una relazione sufficientemente buona tra madre e bambino, si articola originariamente alla funzione simbolica, le cui espressioni linguististico-comunicative accompagnano gli appagamenti specifici del desiderio e insieme costituiscono esse 70.  Ivi, p. 217.

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stesse una via di appagamento del desiderio, che può ritardare, intervallare o anche sostituire quegli appagamenti71. Quando invece il desiderio viene troppo rapidamente soddisfatto, quando il piacere dell’appagamento non diventa sede di linguaggio e di comunicazione interumana, non viene cioè simbolizzato attraverso la modulazione di scambi con l’altro (declinati in sguardi, mimiche, carezze, suoni, parole strutturate in frasi eccetera), esso non lascia «alcuna traccia nella memoria del bambino e si confonde col bisogno»72. Una soddisfazione repentina del desiderio, che pure culmina nell’ottenimento del piacere, sostanziale o sottile che sia, spegne certamente la tensione libidica, ma rischia anche di far collassare il desiderio sul bisogno, riportando il piacere in tal modo conseguito entri i termini della soddisfazione dei bisogni vitali del corpo. La soddisfazione rapida di un desiderio, senza scambi tra le persone, né parole che permettano all’immaginario il piacere condiviso del godimento atteso dalla comunicazione, ricrea nel bambino la confusione tra desiderio appagato e bisogno, al quale in arcaica origine il desiderio era confuso.73

71.  Osserva al riguardo Dolto, ne L’immagine inconscia del corpo: «La madre, parlando con il suo bambino di ciò che egli vorrebbe, ma che lei non gli dà, media l’assenza dell’oggetto o il mancato soddisfacimento di una richiesta di piacere parziale, valorizzando il desiderio […]. La zona erogena non può essere introdotta nel linguaggio verbale che dopo essere stata totalmente privata dell’oggetto specifico, portatore iniziale della comunicazione erotica. Ciò è possibile soltanto se lo stesso oggetto totale (la madre) vocalizza i fonemi delle parole che specificano tale zona erogena: “Il seno della mamma ora non lo puoi avere”, “No, è finito, non si succhia più”. Parole che consentono alla bocca e alla lingua di riacquistare valore di desiderio. Poiché l’oggetto parziale erotico è evocato dall’oggetto totale (la madre) che priva il bambino del seno desiderato, ma il bambino ha già soddisfatto in altro modo la fame e la sete, perciò non ha più ‘bisogno’» (F. Dolto, L’immagine inconscia del corpo, cit., p. 72). 72.  F. Dolto, Il gioco del desiderio, cit., p. 223. 73.  Ivi, p. 222.

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Quando dunque la tensione scompare troppo rapidamente, è a rischio il futuro stesso del desiderio o, più radicalmente, del neonato come soggetto di desiderio. Un appagamento corporeo immediato, senza linguaggio, riporta il neonato al silenzio del corpo, ricacciando indietro il suo desiderio. Se l’adulto è indifferente o tende, con immediati rimproveri, a far tacere un neonato che s’annoia e che vorrebbe comunicare con lui, così come se dà, senza parlare, immediatamente soddisfazione al suo corpo, egli perverte il cammino del desiderio nel bambino.74

Ciò che al contrario sostiene tale cammino e suscita il soggetto desiderante nel bambino è il tragitto più lungo, che implica un linguaggio che accompagni, temporizzi e segua la soddisfazione, ponendosi esso stesso come luogo del desiderio e del piacere (si evidenzia una volta di più come la funzione simbolica si articoli alla comunicazione di desideri tra gli esseri umani). Il linguaggio di cui si parla qui è la comunicazione codificata di emozioni che si stabilisce tra la madre e il bambino e che diviene intercomunicazione da intelligenza a intelligenza, tramite espressioni udibili, visuali, tattili, sostenute da attenzione e interesse reciproci. Ciò può prodursi – come accennato sopra – solo a condizione che la madre dia un credito anticipato a quell’essere di desiderio e di linguaggio che è il suo bambino, un credito che preceda le manifestazioni che a posteriori lo confermano, come nel caso della smorfia-sorriso. È infatti in rapporto alle risposte accreditanti e anticipanti della madre che si delinea nel bambino il percorso di specificazione e di sviluppo del desiderio e del linguaggio, nella loro articolazione e azione reciproca. Nell’umanizzazione è sempre in gioco una scommessa, non arbitraria, sulla vocazione umana del bambino e, sul versante complementare, l’imprevedibile, 74.  Ivi, p. 223.

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singolare decisione di quest’ultimo. Solo presupponendo desiderio e funzione simbolica, firmando una cambiale in bianco sulla soggettività del suo bambino – perciò sul suo essere desiderante e parlante, e sul suo esserlo fin dall’inizio –, la madre gli si potrà rivolgere in modo da provocare in lui l’emergenza e l’esercizio di ciò che è presupposto, sempre costitutivamente in relazione alla prospettiva e alla risposta “soggettiva” del bambino. Diversamente, per le varie ragioni che possono intervenire (difficoltà, sofferenze, patologie), se la madre o la figura adulta di riferimento non firma la cambiale, non incarna nelle sue risposte quel credito anticipato, ribadirà il bambino nello spazio prevalente del bisogno, come un corpo da nutrire, pulire e mantenere in vita. Il futuro del desiderio è affidato alla via lunga, alla mediazione simbolica. «Un desiderio al quale non venga data risposta che nei momenti indispensabili della necessità, nei quali viene sempre annullato da un appagamento corporeo immediato, non è né in se stesso, né nella sua tensione, e nemmeno nel suo piacere, “poetico”»75, cioè soggettivante e umanizzante. Una risposta non mediata, non simbolizzata, al desiderio, una risposta senza linguaggio e senza scambi ludici – come quando la madre o chi ne fa le veci non s’intrattiene col neonato, non sollecita la sua attenzione, non lo stimola alla vita di relazione psichica ed emozionale, non gli parla, non gli presenta oggetti dell’ambiente nominandoli, iniziandolo alla manipolazione di essi, non gioca con lui per il puro piacere di farlo – procura un appagamento che satura, mette a tacere la tensione senza rilanciarla, dà luogo cioè a un piacere impoetico, che depotenzia e restringe lo spettro del desiderio. «Si potrebbe parlare di un tragitto breve della libido e delle sue trappole per il desiderio, mentre il tragitto più lungo, che comporta la comunicazione

75.  Ibidem.

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grazie alla mediazione del linguaggio scambiato con un altro, permette al desiderio tutte le armoniche del piacere nell’inventività». Una inventività, sottolinea Dolto, che «è umanizzante solo se è interrelazionale»76. È la via lunga della libido – che, beninteso, il bambino non può aprire e percorrere da sé, ma è sempre condizionata alla risposta anticipante e accreditante dell’altro – che permette al desiderio di diventare poetico, consentendo quindi (anche) la sublimazione del desiderio nella relazione d’amore, in una vita affettiva di cui i bambini ci offrono testimonianze singolarmente precoci. Un desiderio che si traduce nella relazione d’amore è vissuto come una tensione che trova la sua soddisfazione nella relazione con l’altro e nel suo perpetuarsi stesso, attraverso la modulazione degli scambi e dell’inter­ comunicazione. La relazione d’amore «non è mai legata a una soddisfazione immediata»77, è nutrita di appagamenti che non deprimono la tensione, non interrompono la ricerca dell’altro, ma promuovono l’invenzione di mezzi di significazione ulteriori che la tengano in vita. Il desiderio potrà dunque «essere poetico se si schiude all’inventività creatrice di mediazioni varie e differenziate, di modulazioni del piacere personale scambiato col piacere dell’altro, richiesto e dato, che è la sublimazione del desiderio nell’amore»78. Ora, se l’accesso alla relazione d’amore è un ulteriore momento nel cammino di umanizzazione, si può dire, in linea con quanto già messo in luce, compiendo un nuovo passo, che l’umanizzazione è una promessa sospesa all’evento della parola dell’altro. Una parola – in senso lato e in senso stretto – tanto

76.  Ivi, p. 222. 77.  Ibidem. 78.  Ivi, p. 223.

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più umanizzante quanto più nutrita di una affermazione del soggetto che anticipa le sue manifestazioni, andando incontro all’avvenire.

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Per un umanismo di matrice relazionale* Steffi Hobuß

1. Introduzione1 All’inizio del XXI secolo, si potrebbe dire che le società industriali occidentali si trovino in uno stato di criticità. La disoccupazione e la carenza di personale qualificato si accompagnano alla necessità di persone altamente specializzate; le condizioni di lavoro del resto sono diventate sempre più precarie, mentre si verificano ingiustizie sociali riguardanti parametri strutturali come il reddito, nonché migrazioni dovute a guerre, a prospettive di vita insufficienti e a terrorismo di varie specie, mosso da motivazioni eterogenee. Si manifestano al contempo crescenti angosce e disagi causati dalla civilizzazione, mentre i sistemi di sicurezza sociale non sono più all’altezza delle richieste ambientali. Parimenti i cambiamenti nei sistemi ecologici stanno conducendo a dinamiche incontrollabili; gli incidenti tecnici inoltre sembrano essere la normalità, così come sembra essere normale il registrarsi di un aumento di idee nazionaliste e di movimenti a sfondo identitario. Questi aspetti non sono fattori isolati, ma devono essere colti nella loro relazionalità.

*  Traduzione dall’inglese di Silvia Zanelli.

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Forse gli avanzamenti capitali delle società industriali occidentali sono saturati da tali problematiche o forse tali società si potrebbero addirittura considerare obsolete1. Quale potrebbe essere un cambiamento all’altezza di una tale situazione, che eliciti i miglioramenti e i valori di una società in via di sviluppo? Una parte di questo cambiamento potrebbe consistere nel passaggio da un umanismo centrato sull’individuo a un umanismo di matrice relazionale. Da un lato le moderne società dipendono dal concetto di individuo: l’umanismo classico può infatti essere visto come un apparato semantico che riflette, giustifica e riproduce l’idea di un individuo assolutamente libero. Tuttavia, nel corso dello sviluppo delle moderne società occidentali, questo concetto di individuo assolutamente libero prende sempre più la forma di un’individualità isolata. Le tendenze critiche delle società moderne sopra descritte possono essere lette come una conseguenza di un nuovo risvegliato individualismo monadico del tipo mors tua vita mea. Dal momento che la società da una parte rimane ancorata al concetto di individuo (altrimenti lo stato costituzionale, la democrazia etc., si infrangerebbero) e d’altra parte un solipsistico o monadico individualismo dà corpo a tendenze distruttive, si evidenza la necessità di una svolta relazionale ovvero di un umanismo di matrice relazionale, che combini l’idea di un soggetto autonomo e indipendente con la prospettiva che esso vada immerso in un campo di relazioni interpersonali. L’umanismo tradizionale sembra essere basato su una rappresentazione di una comprensione monadica e 1.  Sono debitrice e vorrei ringraziare Anna Henkel per le molte discussioni di grande ispirazione su queste tematiche; a proposito, molto rilevante A. Henkel, Einleitung. Reflexive Responsibilisierung. Beiträge kulturwissenschaftlicher Perspektiven zum Nachhaltigkeitsdiskurs, in Ead. et al. (a cura di), Reflexive Responsibilisierung. Verantwortung für nachhaltige Entwicklung, transcript, Bielefeld 2018, pp. 9-27.

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individualistica dei membri della società e di rimbalzo su una rappresentazione monadica o addirittura egoistica della persona. Potrebbe essere molto più appropriato affermare che l’umanismo classico è stato inteso di fatto come monadico o egoistico e che avrebbe potuto essere concepito diversamente nei termini di un concetto relazionale di individuo. Pertanto, il fine della seguente argomentazione è quello di sviluppare una comprensione eterogenea del termine classico, piuttosto che liquidarlo del tutto. Ci sono vari approcci all’umanismo di matrice relazionale in filosofia; fra gli altri, di particolare rilevanza i lavori di Lévinas, Adorno e Derrida.

2. L’umanismo classico come ideale di una società di individui etici La società moderna con le istituzioni come lo stato costituzionale, i partiti democratici, i liberi mercati, la secolarizzazione, così come la nostra libertà accademica in quanto ricercatori e studiosi è correlata con la genesi della persona in quanto individuo. Secondo Niklas Luhmann e Gesa Lindemann, il concetto di individuo e la sua realtà – indipendente dalla famiglia, lo status, il lignaggio e dai diritti che sono garantiti in quanto esseri umani – sono fondamentalmente connessi con la società moderna e le sue differenziazioni funzionali. I diritti umani prevengono il fatto che gli esseri umani vengano totalmente determinati dalla politica e dall’economia2. 2.  Si veda a proposito N. Luhmann, Grundrechte als Institution [Human Rights as Institution], Duncker & Humblot, Berlin 1965. Per una breve presentazione del libro di Luhmann del 1965 sui diritti fondamentali si veda: N. Luhmann, The Differentiation of Society, Columbia University Press, New York 1982, pp. xxii-xxvi. Per una visione d’insieme più recente si veda invece C. Thornhill, Niklas Luhmann and the sociology of the constitu-

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Questo significa allo stesso tempo che è sempre l’individuo a essere preso in considerazione: l’azione sociale e la responsabilità dei risultati dell’azione sociale sono attribuiti agli individui, a tutti gli individui. Di conseguenza, le istituzioni della società moderna sono orientate a far rendere conto agli individui delle proprie azioni, stabilendo allo stesso tempo la cornice per l’azione individuale. Il concetto di “umanità” sembra coincidere con l’incorporazione di questa operazione nei confronti dell’individuo: il fine ultimo sembra la formazione di esseri umani e di loro caratteristiche e possibilità specifiche3. Nel complesso l’orientamento rispetto alla concezione dell’individuo ha portato ad avanzamenti notevoli. Le moderne istituzioni favoriscono idee di libertà e di diritti umani (come ha messo in luce Pierre Bourdieu)4. Ma allo stesso tempo, la crisi del XX e XXI secolo e la nostra assunzione che le istituzioni siano sovra sature o obsolete può essere letta come un’esasperazione del principio di responsabilità individuale5. Quest’assunzione è stata discussa in particolar modo nel conteso del cosiddetto neo-liberismo e riguarda il

tion, in «Journal of Classical Sociology», vol. 10, 2010, pp. 315-337. Si veda anche G. Lindemann, Human dignity as a structural feature of functional differentiation – a precondition for modern responsibilization, in «Soziale Systeme», XIX, n. 2, 2013-2014, pp. 235-258. 3.  Piuttosto che usare “l’uomo” come espressione generica, preferisco parlare di “umani” al fine di evitare non solo derive sessiste, ma anche posture universalizzanti. 4.  Si veda P. Bourdieu, La forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giuridico, tr. it. di C. Rinaldi, Armando, Roma 2017. 5.  Si veda A. Henkel, Gesellschaftstheorie der Verantwortung. Funktion und Folgen eines Mechanismus der Reduktion sozialer Komplexität, in «Soziale Systeme», XIX, n. 2, 2013-2014, pp. 470-500.

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fatto che, se ai tempi di Thomas Hobbes il motto homo homini lupus era un concetto puramente filosofico-teoretico, durante i cambiamenti della società sotto il segno dell’individualismo, la cosa ha avuto dei risvolti dal punto di vista dell’azione sociale più che rimanere una mera riflessione teoretica. Le istituzioni centrate sull’individuo e l’educazione finalizzata alla strutturazione dell’individualità umana generano una costellazione della società dove tutti gli umani si concentrano su sé stessi e una forma distopica di una lotta di tutti contro tutti finisce così per realizzarsi proprio nell’azione sociale. Un aumento di atteggiamenti evitanti nelle relazioni sociali tanto nella sfera lavorativa quanto in quella privata, di comportamenti in malafede ed egoistici, della circolazione di peggiori prodotti industriali a causa della massimizzazione del profitto combinati con uno stato di costante preoccupazione, sollecitudine o inquietudine (Sorge) e continuo malcontento – tutto ciò sembra alimentare sempre più una spirale di negatività. La società è in crisi, finora a livello sociologico, delle istituzioni così come a livello dei singoli individui. Ciò porta a movimenti separatisti, a movimenti politici populisti e identitari, nonché a comportamenti guidati da angosce di qualunque tipo. Non solo da un punto di vista sociologico ci sono state riflessioni critiche contro l’umanismo classico o contro certi modi di intendere l’umanismo all’interno della sfera della filosofia. Nel 1968, Emmanuel Lévinas ha diagnosticato una certa esperienza umana di impotenza, come contraccolpo delle guerre e dei campi di sterminio del XX secolo, criticando l’umanismo classico per quattro principali motivazioni. In primo luogo, esso tende a fondarsi su postulati metafisici, nella misura in cui tenta di definire delle condizioni trascendentali dell’umano. In secondo luogo, è viziato da una forma di essenzialismo. In terza battuta non riesce a rendere conto dell’esperienza

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umana di vulnerabilità. Da ultimo, si presta facilmente a essere piegato a giustificare posizioni ideologiche6. Contro l’orientamento storico fallimentare dell’umanismo europeo del XX secolo, l’umanismo contemporaneo potrebbe nutrirsi delle critiche lévinassiane. Abbastanza presto, nel 1949, Karl Jaspers tenne un convegno dal titolo Sulle condizioni e possibilità di un nuovo umanismo7. A suo avviso l’umanismo non dovrebbe essere abbandonato in toto, ma dovremmo imparare dalle critiche che esso ha subito. Tornerò su questo punto in seguito. Come Lévinas (e già Marx nel XIX secolo), Theodor W. Adorno mette in luce il fatto che il concetto di libertà individuale tende a generare posizioni ideologiche. Questo può essere compreso meglio riferendosi alla sua idea del doppio carattere dell’educazione (Bildung)8. Noto soprattutto in collegamento alle sue teorie estetiche e sull’arte, l’idea del doppio carattere non si applica solo alle belle Arti, ma anche alla nozione di Bildung. Essa infatti, nonostante sia legata all’idea di autonomia e libertà, è sempre ascritta all’ambito delle condizioni imposte dalla società, con tutto ciò che la cosa comporta (il fatto che debba venir compresa, venduta e accettata), e in 6.  Si veda E. Lévinas, Umanesimo e anarchia, in Id., Umanesimo dell’altro uomo, tr. it. di A. Moscato, il melangolo, Genova 1985, pp. 93-114. Si veda l’interpretazione più recente di G. Lührs - R. Reinhard - T. Vasek, Das Humanistische Manifest, in «Hohe Luft», vol. 2, 2018, pp. 15-33. 7.  K. Jaspers, Über die Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus, in Id., Rechenschaft und Ausblick. Reden und Aufsätze, Piper, München 1951, pp. 312-344. 8.  Non c’è spazio in questa sede per approfondimenti; rivendico tuttavia una tale prospettiva. Per una spiegazione accurata e diffusa, con una ricca bibliografia sul tema, si veda S. Hobuß, Kritik, Autonomie und Widerstand bei Adorno und Derrida. Überlegungen zur Rolle von Bildung und Ästhetik, in U. Wergin - M. Schierbaum (a cura di), Die Frage der Kritik im Interferenzfeld von Literatur und Philosophie: unter der Perspektive von Hermeneutik, Kritischer Theorie und Dekonstruktion und darüber hinaus, Königshausen & Neumann, Würzburg 2015, pp. 59-86.

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quanto tale è da considerarsi come immersa in un ambito di tensione dialettica: una prospettiva che renda conto solo delle necessità della società finirebbe per eliminare il potenziale di liberazione insito nell’educazione, ma, del resto, prendere in considerazione unicamente una prospettiva umanistica di libertà e autonomia comporterebbe il rischio di sfociare in forme di ideologia.

3. Per un umanismo di matrice relazionale I valori della società moderna come simbolizzati e concentrati nel concetto di umanismo possono essere conservati e rafforzati solo se il concetto viene rinnovato. Uno sviluppo dialettico – nel senso hegeliano – si presenta necessario: mentre l’umanismo ha preso corpo da un movimento collettivo (gli stati nazione, la famiglia, le persone) verso l’individuo, è ora necessario pensare un passaggio dall’individuo verso un ulteriore sviluppo della sua relazionalità. Nel contesto della dialettica hegeliana l’idea della “negazione positiva” rivendica l’ipotesi che, durante il movimento da un polo all’altro di una presunta dicotomia, entrambe le polarità vengano conservate (aufgehoben), anche se allo stesso tempo modificate9. Durante il passaggio storico dal collettivo all’individuale, tuttavia, non solo il concetto di individuo è cambiato producendo calcolo razionale, orientandosi verso una prospettiva di massimizzazione e sviluppo della soggettività singola, ma anche il concetto di collettivo ha attraversato un cambiamento radicale venendo via via sempre più destituito della sua forza.

9.  Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. I, La scienza della logica, tr. it. a cura di V. Verra, UTET, Torino 2004, parte II, cap. III.

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Di conseguenza è ora importante rafforzare tutti gli aspetti positivi dell’individuo, così come viene concepito dall’umanismo, con i suoi avanzamenti nell’educazione, nel campo della responsabilità e della creatività, richiedendo le condizioni di un rinnovato e costruttivo umanismo di matrice relazionale. Il concetto suggerito non implica un riferimento all’“umanismo critico”10, ma un nuovo e costruttivo umanismo relazionale, nel senso positivo del termine. Proprio attraverso tali confini e condizioni, all’individuo è offerta la possibilità di sviluppare le sue forme di creatività, libertà e piena responsabilità. Cosa può significare il termine “relazionale” in questo contesto? Con Hartmut Rosa, potremmo dire che si tratti di una “risonanza”, di condizioni che consentono di rispondere l’un l’altro, di “risuonare”. Questa metafora presa a prestito dall’ambito del suono e dell’udito può aiutare a immaginare un concetto di individuo che si configuri come un contraccolpo di risposta ad altri. A partire dall’individualismo classico, si è sviluppata una costellazione di atteggiamenti durante i secoli dove potenzialmente ciascun individuo oggettifica l’altro, trattandolo come un oggetto, alienandolo e conchiudendolo nel proprio sé. Al fine di affermare la propria individualità (o la propria mente o il proprio ambiente naturale) l’altro è messo in difficoltà tramite discussioni scivolose, anche violente. Al contrario, l’idea di un umanismo relazionale consiste nel concepire la realizzazione individuale come ineliminabilmente connessa alle relazioni in cui è ascritta, e nel pensare sempre gli esseri come in “risonanza” l’uno con l’altro, più che vedere la realizzazione individuale unicamente come uno sviluppo dei propri obiettivi idiosincratici. 10.  Si veda M. Halliwell - A. Mousley, Critical Humanisms. Humanist/AntiHumanist Dialogues, Edinburgh University Press, Edinburgh 2003.

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Gli studiosi accademici potrebbero soffermarsi su un altro interrogativo come punto di partenza per dare corpo a un umanismo di matrice relazionale. Potrebbero cioè chiedersi che cosa significa umanismo nel contesto dell’educazione superiore, nel XXI secolo. Nelle affermazioni della mission della Leuphana University of Lüneburg, ci sono tre principi guida: umanismo, sostenibilità ed educazione orientata all’applicazione11. Cosa significhi umanismo come principio guida viene chiarito come segue: nelle sue antiche tradizioni, l’idea base di umanismo presumibilmente coincide con la libertà di un processo di individuazione autodeterminabile. Questa libertà di autodeterminazione, tuttavia, richiede responsabilità e volontà di apprendere costanti.12

All’Università di Leuphana un terzo dei programmi di tutte le Facoltà e un quarto di tutti i programmi di specializzazione sono dedicati a favorire obiettivi formativi umanistici in un curriculum specializzato, nel semestre-Leuphana, a livello universitario e nei corsi di Studi Complementari di laureandi e laureati. Nonostante nel prospetto della mission il punto di partenza sia la libertà individuale, come lo è nella visione classica dell’umanismo, queste asserzioni si accompagnano all’altra frase, che mette invece in luce il ruolo della responsabilità e dello sforzo implicati nell’apprendere – entrambi aspetti che sono chiaramente connessi a una visione di matrice relazionale del soggetto individuale. Nel 1949, quando Karl Jaspers tenne la sua conferenza sul tema delle condizioni di possibilità di un nuovo umanismo sotto l’impatto immediato della Seconda guerra mondiale, della 11.  https://www.leuphana.de/universitaet.html (07-06-2019). 12.  https://www.leuphana.de/en/university/mission-statement.html (07-062019).

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Shoah e del processo di Norimberga, fu molto attento a non suggerire semplicemente l’utopia di un “uomo nuovo”, concentrandosi sul compito di promulgare un umanismo a-venire, centrato sul prendersi cura di noi stessi e dell’uomo di oggi. È stato detto che il testo può essere letto come un trattato kantiano scritto in un linguaggio filosofico convenzionale: […] in breve discusse come nucleo centrale il potenziale dell’umanismo, che definì nei termini di educazione ed eccellenza intellettuale, al fine di illuminare i fini più alti della vita di tutti i giorni. Qui l’individuo viene definito come umanista, nella misura in cui esso mantiene un senso di dignità, a prescindere da quali sconvolgimenti incontri. Si potrebbe dire che questo linguaggio convenzionale offra nuovo materiale per […] non-credenti, nel senso che Jaspers abbozza nuove possibilità di un umanismo nei vecchi termini di un compito esistenziale.13

Nonostante tutto ciò, credo che l’approccio di Jaspers possa essere visto come una possibile fonte di ispirazione per le idee contemporanee di un umanismo di matrice relazionale, dal momento che egli dà forma al suo pensiero attorno a tre questioni per noi fondamentali. In primo luogo, si domanda cosa significhi essere umani, per poi chiedersi entro quali condizioni sia possibile parlare di umanità. In terzo luogo, egli si interroga su quale potrebbe essere la via per un umanismo a-venire14. Queste domande sono utili nell’affinare la critica all’umanismo classico e nello sviluppo di nuove ipotesi. La prima domanda, ovvero che cosa significa essere umani o, che cos’è l’uomo, è utile a Jaspers per mostrare come non vi sia un’essenza o un 13.  S. Kirkbright, Intellectuals of Our Time: The Humanist Approach of Karl Jaspers and Hannah Arendt, in G. Hartung - K. Schiller (a cura di), Weltoffener Humanismus. Philosophie, Philologie und Geschichte in der deutsch-jüdischen Emigration, transcript, Bielefeld 2015, pp. 209-220: p. 217. 14.  Cfr. K. Jaspers, Bedingungen und Möglichkeiten, cit.

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nocciolo duro dell’umano che possa essere descritto come un criterio necessario e sufficiente. Questo inficerebbe infatti l’idea dell’uomo come essere libero. Ancora, si potrebbe definire umanismo classico quello sviluppato da Giovanni Pico della Mirandola nella sua Oratio de hominis dignitate del 1486. Nel contesto del Rinascimento, le idee di Pico della Mirandola furono grandemente rivoluzionarie nella loro capacità di riferirsi alla ragione umana e alla sua libertà al fine di elicitare l’educazione umana: Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine.15

La direzione è chiara: gli umani sono creati principalmente come esseri aperti. L’ipotesi di Jaspers è che non ci possa essere in ultima analisi un “uomo concluso”. Anche definire gli umani in base alla loro razionalità sarebbe una sorta di riduzione; nell’argomentare contro l’essenzialismo, Jaspers rifiuta anche queste definizioni. Così la prima domanda esige una riformulazione; Jaspers suggerisce al suo posto un altro inter15.  G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, Milano-Parma 2014, pp. 12-14.

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rogativo, a suo avviso più rilevante, ovvero che cosa significa vivere in quanto uomini. Tuttavia, vorrei proporre qui un’altra versione della questione: che forme di vita riconosciamo in quanto umani? Nel contesto dell’umanismo di matrice relazionale, l’espressione “forme di vita” combina due fonti. In primo luogo, si riferisce a Wittgenstein e alla sua nozione di forme di vita, apparsa nelle sue ultime riflessioni di filosofia del linguaggio, sulla società e sulle pratiche culturali. L’altro riferimento è Martha Nussbaum con il suo “approccio per capacità” in base al quale possiamo rendere conto di essere umani in quanto abbiamo problemi, facciamo errori, siamo finiti e mortali, incappiamo in eventi contingenti e non possiamo conoscere e controllare ogni cosa16. Il secondo interrogativo di Jaspers, ovvero a che condizioni troviamo umanità oggi, nonostante sia stato posto nel 1949, può essere usato per prendere in considerazione la realtà a noi contemporanea, l’importanza della tecnologia, della digitalizzazione, della globalizzazione, dell’accelerazione e di tutti gli stati di criticità evidenziati all’inizio del testo. Dobbiamo riflettere su valori comuni e norme condivise, in particolar modo in tempi dove tutto il sapere umano risulta facilmente accessibile. Il terzo interrogativo di Jaspers, ovvero quale potrebbe essere la via per un umanismo a-venire, è la questione più rilevante per la presente discussione. Riferendosi ancora a Niklas Luhmann, a cui si accennava nella prima parte del testo, si può affermare che i sistemi della società sono differenziati in 16.  Si veda M.C. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge 2000; M.C. Nussbaum, Cultivating Humanity. A Classical Defense of Reform in Liberal Education, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1997.

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base a varie funzioni, con delle loro logiche interne. Tali differenziazioni non possono essere abolite, invertite o controllate, ma potrebbero essere rese più umane. In questo orizzonte si trova il margine per una riflessione teoretica, educativa e comportamentale, come argomenta Marco Russo17. La parola “relazionale” contenuta nell’ipotesi di “un umanismo di matrice relazionale” può essere usata per designare quattro aspetti eterogenei delle relazioni. Gli esseri umani possono infatti venir considerati relazionali in riferimento a: − altri individui umani; − animali, piante, ambiente: − oggetti materiali; − forze divine o un dio. Il secondo, il terzo e il quarto punto non possono essere presi in considerazione in questo articolo. Ci si concentrerà più avanti sulla prima dimensione illustrata, ovvero la relazionalità nei confronti di altri individui umani. Abbiamo bisogno di «una nuova ontologia del corpo»18, scrive Judith Butler nell’introduzione del suo testo Inquadramenti di guerra. Abbiamo bisogno di una nuova ontologia del corpo che prenda in considerazione «una nuova comprensione della precarietà, della perdita di rifugi, della vulnerabilità, dell’essere dipendenti ed esposti, dell’integrità dei corpi, del desiderio, del lavoro, del linguaggio e dell’appartenenza sociale»19. Ci vorrebbe una lunga riflessione per prendere in analisi tutte queste componenti, ma qui sono primariamente mossa da 17.  Si veda l’intervento di M. Russo, Umanesimo come progetto filosofico. Preliminari, supra, pp. 125-150. 18.  J. Butler, Frames of War. When Is Life Grievable?, Verso, London-New York 2009, p. 13. 19.  Ibidem.

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tre aspetti menzionati dalla Butler; nella fattispecie ciò che mi interessa sono la precarietà, l’interdipendenza e l’appartenenza sociale (così come l’integrità fisica). Quando Butler parla di “ontologia”, sicuramente pensa ad essa nei termini di strutture fondamentali dell’essere, non senza un riferimento a forme sociali e politiche di organizzazione. Queste strutture dell’essere sono infatti sempre integrate in organizzazioni e interpretazioni politiche. Isabell Lorey ha distinto tre dimensioni della precarietà20: precarietà esistenziale, precarietà e precarizzazione governativa21. La precarietà esistenziale, come prima dimensione, designa una sfera ontologica della vita e dei corpi, come mette in luce anche Butler. Lorey enfatizza poi che si tratta di una condizione fondamentale, che non deve tuttavia essere compresa come uno stato trans-storico. Soprattutto, questa condizione non va pensata come qualcosa di individuale, la cui esistenza può essere concepita come un predicato ascrivibile a un soggetto singolo; essa si configura piuttosto come una realtà relazionale e, per seguire la tradizione di Jean-Luc Nancy, come un essere-con. Come si potrebbe analizzare più precisamente questa comunanza esistenziale? La posta in gioco coincide con un possibile pericolo per «i corpi viventi che non siano al sicuro, non solo perché sono mortali, ma perché precisamente sono sociali»22, cosa che produce allo stesso tempo diversissime forme di vita, storiche e geografiche. 20.  In italiano è di difficile resa la traduzione dei termini distinti precariousness e precarity; si è adottato per la prima la locuzione “precarietà esistenziale”, mantenendo il termine “precarietà” per il secondo vocabolo [N.d.T.]. 21.  Cfr. I. Lorey, Gouvernementale Prekarisierung, in Ead. - R. Negro G. Raunig (a cura di), Inventionen, diaphanes, Zürich 2011, pp. 72-86: p. 72. 22.  Ivi, p. 73.

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Ad avviso di Lorey la seconda dimensione – la precarietà – può venire descritta come una categoria di strutturazione e contenimento che porta con sé gli effetti che si originano quando si prova a compensare la precarietà esistenziale di base attraverso pratiche sociali, politiche o legali. Così dalla precarietà esistenziale derivano divisioni, gerarchizzazioni e disuguaglianze, cosa che è paradossale, dal momento che il con-essere è una condizione fondamentale di ogni essere umano (e forse anche non-­umano). Al di sopra della precarietà esistenziale si originano certe posizioni sociali di insicurezza, che coinvolgono solo poche persone, le quali vengono espunte in maniera immunologica, con una politica che non si applica a tutti. La precarietà può essere vista come l’effetto di quei provvedimenti che dovrebbero in un certo senso proteggere la precarietà esistenziale, per cui si attua una distribuzione differenziale di quest’ultima. In terzo luogo e in conclusione, Lorey descrive la precarizzazione governamentale come una dinamica che ha caratterizzato i modi di governamentalità sin dall’emergenza di relazioni industriali capitalistiche (e che non possono essere separate dall’auto-determinazione borghese). Questa dinamica consiste in insicurezze nelle assunzioni, nello stile di vita e dei corpi. Ogni individuo viene cioè ripetutamente chiamato a rivedere e ottimizzare la sua posizione nel mercato del lavoro, il suo stile di vita e il suo corpo con tecniche di auto-governo del sé. La precarizzazione, ovvero l’insicurezza, in questo caso non coincide solo con qualcosa di repressivo e oppressivo, ma anche in maniera abbastanza ambivalente con momenti che consentono l’auto-determinazione o l’autonomia. In questa prospettiva, l’auto-determinazione o l’autonomia da un lato e la precarizzazione dall’altro non sono contraddittorie, ma nascono insieme; soggiogamento e potenziamento non si escludono l’un l’altro, ma costruiscono due lati ambivalenti di un unico modo di governamentalità.

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Il concetto esistenziale di “precarietà” di Butler appare in prima battuta nel suo libro Vite precarie23. In questo testo la nozione di precarietà esistenziale è ispirata principalmente a Emmanuel Lévinas. Da Lévinas Butler trae lo spunto di un’etica basata sulla realizzazione della precarietà della vita nonché di una concezione etica che prenda le mosse dalla vita vulnerabile dell’Altro. Butler adotta l’idea lévinassiana di volto. Il termine volto in Levnias è usato come una precisa terminologia; non si tratta semplicemente o esclusivamente del volto umano, ma di ciò che trasmette il volto umano, in quanto in pericolo e vulnerabile. Butler ci ricorda che non possiamo sopravvivere isolatamente, trovare il senso del nostro essere al mondo da soli (e in ciò si rifà a Lévinas e nella fattispecie al testo L’umanismo dell’altro, basato sul concetto heideggeriano di con-essere). Nel suo saggio Pace e prossimità, Lévinas, in un passaggio che è diventato famoso, usa un testo di Vasilij Grossman per fare chiarezza su cosa significa il principio del volto: il passaggio si riferisce alla visita di parenti di prigionieri politici nelle prigioni di Mosca. In fila le persone si vedono solo la schiena; assistiamo alla scena dalla prospettiva personale di una donna. Il volto non è esclusivamente il volto umano. La descrizione coinvolge famiglie, mogli, genitori e detenuti politici che viaggiano verso la Lubyanka, a Mosca, per ricevere le ultime notizie. Si forma una coda al bancone, una coda dove si vedono solo persone di schiena. Una donna aspetta il suo turno: non ha mai pensato che le schiene umane potessero essere così espressive e potessero veicolare stati mentali così prepotenti. Le persone che si avvicendano al bancone hanno un certo modo di allungare il collo e la schiena, tirano su le spalle come

23.  J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmediabooks, Milano 2013.

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molle; esse sembrano piangere, urlare e singhiozzare: «Volto come precarietà estrema dell’altro. Pace come risveglio alla precarietà dell’altro»24. Se seguiamo la lettura lévinassiana di Grossmann, questo esempio ci mostra come il volto, che non deve essere inteso nel senso canonico, espone in particolar modo la vulnerabilità delle persone. Ad esso corrisponde una particolare attitudine verso l’altro; tale attitudine, tuttavia, può anche venire disattesa. Scrive Lévinas: Il pensiero risvegliato al volto dell’altro uomo non è un pensiero di…, una rappresentazione, ma immediatamente pensiero per…, una non-indifferenza per l’altro, che rompe l’equilibrio dell’anima uguale e impassibile del puro conoscere, un risveglio all’altro uomo nella sua unicità indiscernibile per il sapere. Volto – prima di qualsiasi espressione che, già contenimento dato a sé, nasconde la nudità del volto.25

Il punto di omissione posto da Lévinas implica che io non percepisco niente dell’altro sulla base della mia attribuzione a lui di una vulnerabilità e del suo con-essere; riconosco l’Altro piuttosto quando sono consapevole del suo volto, esposto e vulnerabile: rispondere al volto, comprenderne il significato, vuole dire aprire gli occhi sulla precarietà che attraversa un’altra vita piuttosto che sulla precarietà della vita considerata in sé stessa26. Qui non siamo di fronte a un modello analogico27 della psiche dell’Altro – come lo definisce Hans-Joachim Giegel – in base

24.  E. Lévinas, Pace e prossimità, in Id., Alterità e trascendenza, tr. it. di S. Regazzoni, a cura di P. Hayat, il melangolo, Genova 2006, pp. 113-123: p. 120. 25.  Ivi, p. 119. 26.  Cfr. J. Butler, Vite precarie, cit. 27. Cfr. H.-J. Giegel, Die Logik der seelischen Ereignisse. Zu Theorien von Wittgenstein und Sellars, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969.

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al quale io percepisco che l’altro dispone di certe qualità da me condivise, e dunque gli attribuisco tramite un procedimento analogico la mia stessa precarietà. Il termine “modello analogico” si dirama dal contesto di discussione sul solipsismo, sulle questioni riguardanti la psiche dell’Altro, e dall’ambito del dibattito mente-corpo. Il modello è bastato sull’assunzione che io percepisco certe cose in me stesso, per esempio il mal di denti, in quanto fatti psicologici. Poiché – secondo questo modello – osserviamo le stesse cose in altre persone a un livello fisico (gli altri hanno denti, a volte si tengono le guance, vanno dal dentista), attribuiamo loro fenomeni psichici analoghi a quelli che sperimentiamo noi. L’attitudine lévinassiana verso gli altri, tuttavia, è radicalmente differente da questo modello: io mi rivolgo all’altro come essere umano. Wittgenstein invece la pone in questi termini: «Il mio atteggiamento nei suoi confronti è un atteggiamento nei confronti dell’anima. Io non sono dell’opinione che egli abbia un’anima»28. La credenza sarebbe costruita sulla base di criteri e attribuita agli altri come verificabile o falsificabile. Al contrario, l’atteggiamento è più fondamentale e sta prima di ogni credenza verificabile o falsificabile. Esattamente in questo senso Wittgenstein scrive in un passaggio degli Zettel: «La coscienza nel volto di un’altra persona. Guarda in faccia l’altra persona, e prova a vederci la coscienza, e un determinato tono della coscienza. Tu vedi su di essa, in essa, gioia, indifferenza, interesse, eccitazione, stupidità, e così via. La luce sul volto altrui»29. Il fatto che un altro umano non sia un robot, ma una consapevolezza, è ravvisabile nel volto dell’altro e non è un fatto

28.  L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2014, p. 209. 29.  L. Wittgenstein, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 220, p. 49.

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ascrivibile agli altri esseri umani sulla base di criteri osservabili, come nel modello analogico. Il concetto di precarietà esistenziale non si origina cioè dal contesto di discussione sulla psiche dell’altro, sul solipsismo o sul problema mentecorpo, ma, nel riferirsi a Lévinas, Butler ha precisamente in mente una dimensione esistenziale fondamentale, in quanto momento formante l’orizzonte della nostra percezione delle altre persone. In definitiva non è possibile ascrivere la precarietà all’Altro come una qualità, né sulla base di un esame né di una percezione guidata da una dimensione di scetticismo. Butler usa e sviluppa questo concetto esistenziale di precarietà nell’introduzione del suo ultimo libro Inquadramenti di guerra30. Qui, più che Lévinas, il riferimento è la lettura che Jean-Luc Nancy offre di Heidegger. Nel suo testo Essere singolare plurale31, Nancy spiega l’esistenza di questo “essere singolare particolare” nel senso del con-essere heideggeriano. L’essenza dell’essere è sempre allo stesso tempo co-esistenza: L’essenza dell’essere, è ed è soltanto, una co-essenza; ma una co-essenza, o l’essere-con – l’essere-in-tanti-con – designa a sua volta l’essenza del co-, o ancora meglio, il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza […] se l’essere è essere-con, nell’essere-con, è il «con» a fare l’essere, e non viene aggiunto all’essere.32

In una certa misura ciò inverte l’ordine tradizionale delle rappresentazioni filosofiche e razionali, in base alle quali “il con” viene dopo il soggetto, solo in seconda battuta. Anche Hei30.  Cfr. J. Butler, Introduction. Precarious Life, Grievable Life, in Ead., Frames of War, cit., pp. 1-32. 31.  J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, intr. di R. Esposito, Einaudi, Torino 2001. 32.  Ivi, p. 45.

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degger in ultima analisi rimane fedele a questa logica nel concepire il Da-Sein, che si configura come un modo d’essere dell’umano, per cui sempre ne va del suo essere. In termini completamente diversi, Nancy descrive le conseguenze di queste definizioni esistenziali per le considerazioni contemporanee sul ruolo delle comunità, determinando l’importanza del “noi” come co-esistenza: «voler dire “noi” non è sentimentalismo, non è familiarismo o comunitarismo. È l’esistenza che reclama le sue condizioni di possibilità: la co-esistenza»33. Secondo Nancy, il concetto di co-esistenza è spesso legato all’idea di un deficit, a uno stato imposto da fuori e a circostanze complesse e difficili. Le persone sono forzate a co-esistere perché da sole non sarebbero in grado di sopravvivere; nel senso kantiano di una sociabilità non sociale, allo sforzarsi di stare da soli, si accompagna la dipendenza dalla comunità per bisogno e convenienza. In questa prospettiva, nella quale si può annoverare anche la teoria hobbesiana, l’uguaglianza nell’essere-­con l’Altro e il minimo comune denominatore dell’essere precari vengono concepiti principalmente come una minaccia. Se ci chiediamo quale forma di coesistenza o di essere-con è associata alle condizioni spiacevoli a cui ci riferivamo sopra, allora la precarietà esistenziale viene definita come qualcosa di spaventoso che può essere percepito come spaventoso anche dagli altri, che ci ricordano sempre della nostra comune precarietà di vita. Le persone sono dipendenti nella loro precarietà da qualcosa a loro esterno, dall’alterità e dalla necessità di ambienti protettivi. I corpi sono – in quanto precari e di conseguenza finiti – dipendenti da qualcosa a loro esterno, dall’alterità, dalle

33.  Ivi, p. 8.

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istituzioni e da ambienti sicuri e salvaguardanti. Non ci sono condizioni che potrebbero completamente “risolvere” il problema della precarietà esistenziale34. Alcune regole trasformano la precarietà esistenziale in paura di altri individui, «che devono essere respinti preventivamente e distrutti per proteggere chi è minacciato»35. Si può dire sul rapporto tra precarietà esistenziale e precarietà che la seconda va intesa in un certo senso come l’effetto di quelle norme che dovrebbero proteggere dalla precarietà esistenziale, ma che in fondo non possono eliminare il problema che sta alla sua base. Nello sviluppo di questi concetti, quali il con-essere, la co-­ esistenza e la precarietà, la filosofia del linguaggio, la filosofia delle pratiche sociali, la tradizione fenomenologica e la teoria critica potrebbero lavorare in sinergia al fine di incoraggiare l’idea di un umanismo di matrice relazionale, piuttosto che essere campi del sapere ostili, come molte persone pensano ancora che siano; potrebbero lavorare insieme per analizzare e valutare pratiche culturali tese ad allargare i confini dell’umano36. Gli altri aspetti dell’umanismo di matrice relazionale – verso piante/animali/ambiente/oggetti materiali e persino nei confronti di potenze divine o di un dio37 – non possono venir trattati in questo contributo.

34.  Si veda J. Butler, Vite precarie, cit. 35.  I. Lorey, Gouvernementale Prekarisierung, cit., p. 77. 36.  Ciò è di particolare importanza considerando la digitalizzazione e l’alfabetizzazione dei dati legati all’educazione. A proposito si veda l’articolo di É. Bimbenet, La doppia fine dell’essere umano: una diagnosi, supra, pp. 333-344. 37.  A proposito, rilevanti i lavori di Mouhanad Khorchide, che sviluppa l’idea di un Islam riformato e di un umanismo che tiene conto del divino.

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Heinz Kimmerle, che ha fatto scuola nel pensare il dialogo come una forma di filosofia interculturale38, ha concepito la filosofia come una riflessione che cerca di ottenere un terreno di certezza rispetto a quegli aspetti della nostra esistenza che ci gettano continuamente nell’incertezza. Questa riconquista di certezze deve essere continuamente compiuta, è un processo aperto e smarginato. Non bisogna prendere in considerazione solo la filosofia occidentale come filosofia, dal momento che essa viene praticata in tutto il mondo, nonostante spesso sia nascosta sotto il nome di Sapienza o legata al lavoro di saggi. Per Kimmerle la filosofia è qualcosa di profondamente umano. La filosofia interculturale si diparte dal dialogo e prende corpo come pratica. Questo è il collegamento all’umanismo di matrice relazionale: anch’esso, infatti, deve essere concepito come una pratica aperta e sempre da farsi. Derrida l’avrebbe chiamato “il diritto alla filosofia”39. In questo senso la filosofia interculturale è umanismo di matrice relazionale.

38.  H. Kimmerle, Dialoge als Form der interkulturellen Philosophie, in I. Därmann - S. Hobuß - U. Lölke (a cura di), Konversionen, Rodopi, Amsterdam 2004, pp. 171-190. 39.  Cfr. J. Derrida, Who’s Afraid of Philosophy? Right to Philosophy 1 (1990), Stanford University Press, Stanford 2002.

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Gli Autori

Luca Bianchin è dottore di ricerca in Filosofia (Università di Milano). Studioso del pensiero di Heidegger, si è occupato della lettura heideggeriana di Cartesio, con riferimento soprattutto al problema della soggettività e della costituzione trascendentale del mondo. Negli ultimi anni le sue ricerche si sono focalizzate sui Beiträge e sulla particolare costituzione ontologica del Da-sein. Étienne Bimbenet è professore di Filosofia contemporanea all’Université Bordeaux-Montaigne. Lavora sulla questione della nostra origine animale e sulla possibilità di una antropologia dal punto di vista fenomenologico. Tra le ultime opere: Le complexe des trois singes (Paris 2017), per cui ha ricevuto le Prix des Rencontres philosophiques de Monaco 2018. Agostino Cera è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e docente a contratto di Fenomenologia dell’Immagine presso l’Accademia di Belle Arti della stessa città. Si occupa di pensiero tedesco del ’900 (Löwith, Heidegger, Anders), filo-

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sofia della tecnica, antropologia filosofica, antropocene. Tra le sue monografie: Io con tu. Karl Löwith e la possibilità di una mitanthropologie (Napoli 2010), Due di uno. Fenomenologia della riscrittura cinematografica (Napoli 2011), Tra differenza cosmologica e neoambientalità. Sulla possibilità di un’antropologia filosofica oggi (Napoli 2013). Guido Cusinato ha svolto per una decina d’anni attività di ricerca e d’insegnamento all’estero. Attualmente è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Verona. Nel 2013 e nel 2016 è stato eletto Presidente della Max-Scheler-­ Gesellschaft. Fra i suoi libri più recenti: Person und Selbsttranszendenz (Würzburg 2012); Periagoge (Verona 2017); Bio­ semiotica e psicopatologia dell’ordo amoris (Milano 2018). Carmine Di Martino è professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Milano. Lavora nel campo della ricerca fenomenologica, ermeneutica e filosofico-antropologica, con particolare attenzione ai problemi della costituzione del soggetto, dell’intersoggettività e della tecnica. Tra le sue recenti pubblicazioni: Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria (Milano 2017), Figure della relazione (Bari 2018), Il simbolismo e i suoi antecedenti (Bologna 2019). Joachim Fischer insegna Sociologia alla Technische Universität di Dresda. La sua attività ricerca riguarda l’antropologia filosofica, la teoria della società e la sociologia della cultura. Dal 2011 al 2017 è stato presidente della “Helmuth Plessner Gesellschaft”, una rete internazionale per la promozione dell’antropologia filosofica. Tra le sue pubblicazioni: Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts (Freiburg-München 2008), (con Dirk Spreen) Soziologie

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der Weltraumfahrt (Bielefeld 2014), Exzentrische Positionalität. Studien zu Helmuth Plessner (Weilerswist 2016), (a cura di) Plessner Handbuch (Stuttgart 2021). Fabiana Gambardella è dottore di ricerca in bioetica e assegnista di ricerca presso il dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, abilitata per il settore scientifico disciplinare M/FIL03. Si occupa in particolare di antropologia filosofica e di questioni relative all’epistemologia contemporanea e alla biologia della complessità. Tra le sue monografie: L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano (Milano-Udine 2010), La crisi e il segno. Appunti per un’antropologia (Napoli 2013), Sotto una piccola Stella. Narrazioni sull’abitare (Napoli 2016). Collabora, sin dalla fondazione, alla rivista S&F_scienzaefilosofia.it Luca Guidetti insegna Filosofia teoretica all’Università di Bologna. Allievo di Enzo Melandri, si è formato a Bologna, Monaco di Baviera e Graz (prof. Rudolf Haller), occupandosi di neokantismo, fenomenologia, teoria della conoscenza, filosofia della biologia ed epistemologia costruttiva, su cui ha scritto diversi volumi e saggi pubblicati in Riviste nazionali e internazionali. È stato tra i fondatori, nel 1991, della Rivista «Discipline filosofiche», che attualmente coordina insieme al suo Direttore, prof. Stefano Besoli. È membro del Gruppo di ricerca “Discipline filosofiche. Teorie e pratiche della razionalità filosofica”, presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Steffi Hobuß è direttore accademico del Leuphana College di Lüneburg. Si occupa di filosofia interculturale e memory studies. Tra le sue pubblicazioni: (a cura di, con Iris Därmann e

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Ulrich Lölke) Konversionen. Fremderfahrungen in ethnologischer und interkultureller Perspektive (Leiden 2004), (a cura di, con Nicola Tams) Lassen und Tun. Kulturphilosophische Debatten zum Verhältnis von Gabe und kulturellen Praktiken (Bielefeld 2015). António Manuel Martins insegna Filosofia all’Università di Coimbra ed è membro del gruppo di ricerca dell’Instituto de Estudos Filosóficos. I suoi principali campi di ricerca riguardano l’epistemologia, l’etica e la filosofia politica. Ha pubblicato lavori anche sulla storia del pensiero antico e moderno e sui diritti umani. Tra le sue pubblicazioni: Lógica e Ontologia em Pedro da Fonseca (Lisboa 1994); (a cura) Cause, Knowledge and Responsibility, Berlin-Münster-Wien 2015); (a cura di, con Maria do Céu Fialho) Relendo o Parménides de Platão. Revisiting Plato’s Parmenides (Coimbra 2020). Eugenio Mazzarella insegna Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo e deputato al Parlamento nella XVI legislatura. Tra le sue opere recenti: L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Macerata 2017); Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri (Vicenza 2018); Perché i poeti. La parola necessaria (Vicenza 2020). Ferdinando G. Menga insegna Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” ed è Research Fellow presso l’Università di Tübingen. Oltre ad articoli su riviste nazionali e internazionali su tematiche gius­ filosofiche, filosofico-politiche ed etiche soprattutto in ambito

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contemporaneo, è autore di diverse monografie. Tra quelle più recenti: Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale (Roma 2016), Ausdruck, Mitwelt, Ordnung. Zur Ursprünglichkeit einer Dimension des Politischen im Anschluss an die Philosophie des frühen Heidegger (Padeborn 2018), L’emergenza del futuro. I destini del pianeta e le responsabilità del presente (Roma 2021), Etica intergenerazionale (Brescia 2021). Giacomo Pezzano è dottore di ricerca (Università degli Studi di Torino). Attualmente si occupa di antropologia filosofica, di ontologie contemporanee e del rapporto tra cultura visuale e produzione della conoscenza filosofica. Oltre a essere autore di svariati contributi su riviste scientifiche e volumi collettanei, i suoi ultimi libri sono: (con Laura Candiotto) Filosofia delle relazioni. Il mondo sub specie transformationis (Genova 2019) ed Ereditare. Il filo che unisce e separa le generazioni (Roma 2020). Inoltre, cura la rubrica Popsophia sulla piattaforma Medium.com. Roberto Redaelli svolge attività di ricerca presso l’Università Friedrich-Alexander di Erlangen-Nürnberg, dove è coordinatore del Centre for Studies in Neo-Kantianism. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in filosofia e scienze dell’uomo presso l’Università degli Studi di Milano. Durante la sua formazione accademica ha svolto soggiorni di ricerca presso le Università di Heidelberg e di Freiburg. I suoi interessi sono rivolti, oltre al neokantismo del Baden, alla fenomenologia e all’antropologia filosofica. Tra le sue pubblicazioni: Emil Lask. Il soggetto e la forma (Macerata 2016) e Per una logica dell’umano (Macerata 2021).

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Caterina Resta è professore ordinario di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università degli Studi di Messina. Il suo campo di ricerca riguarda la filosofia contemporanea, sia tedesca che francese. Tra le sue pubblicazioni: L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida (Torino 2003); L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento (Genova 2008); Nichilismo Tecnica Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida (Milano-Udine 2013); La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida (Genova 2016). Marco Russo insegna Metafisica e Filosofia della conoscenza presso l’Università degli Studi di Salerno. I suoi principali argomenti di ricerca riguardano i concetti di umanità e di mondo, nel loro aspetto metafisico, epistemologico ed etico. Dal 2011 al 2017 è stato vicepresidente della Helmuth Plessner Gesellschaft, una rete internazionale per la promozione dell’antropologia filosofica. Tra le sue monografie: Al confine (Milano 2007), (a cura di) Umanesimo. Storia critica attualità (Firenze 2015), Il mondo. Profilo di un’idea (Milano 2017), Cosmologia e umanesimo in Kant (Palermo 2020). Luca Vanzago è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Pavia. Lavora nel campo della ricerca fenomenologica e dell’ontologia processuale. Tra le sue pubblicazioni si possono ricordare Modi del tempo (Milano 2001), L’evento del tempo (Milano 2004), Coscienza e alterità (Milano 2008), Breve storia dell’anima (Bologna 2009), Merleau-Ponty (Roma 2012), (con Faustino Savoldi e Mauro Ceroni) La coscienza (Fano 2013), The Voice of No One (London-Milan 2017), (con Silvana Borutti) Dubitare, riflettere, argomentare (Roma 2018), Leggere Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty (Pavia-Como 2020).

Indice

Introduzione di Carmine Di Martino, Roberto Redaelli, Marco Russo

p. 9

I Idee di umanità

Antropologia filosofica come triangolazione: il confronto animale-uomo, macchina-uomo, uomo-uomo di Joachim Fischer

p. 15

Umani e umanoidi. Prospettive filosofiche-antropologiche dell’Intelligenza artificiale di Eugenio Mazzarella

p. 49

Umano/non-umano: le vite nude di Caterina Resta

p. 61

Per un’antropologia filosofica dell’emotional sharing di Guido Cusinato

p. 93

II Tra passato e futuro Umanesimo come progetto filosofico. Preliminari di Marco Russo

p. 125

Il futuro dell’umano, l’umano dal futuro. Riflessioni filosofico-antropologiche nel segno di una responsabilità intergenerazionale di Ferdinando G. Menga

p. 151

Autopoiesi e nuove narrazioni di Fabiana Gambardella

p. 175

Il paradigma prestazione. Contributi per un’antropologia del presente di Agostino Cera

p. 189

III Fine dell’umano? Un morto in discreta salute. Verso una nuova immagine dell’umano di Giacomo Pezzano

p. 225

Uomini senza umanità. L’uomo nel contesto della Verwindung der Metaphysik di Luca Bianchin p. 255 Addio al pregiudizio umano? Percorso a ritroso dall’umanesimo etico di Williams al diritto di avere diritti di Arendt di António Martins

p. 279

Le logiche dell’identità. Gotthard Günther e Kurt Lewin di Luca Guidetti

p. 299

IV Per una fenomenologia del vivente umano La doppia fine dell’essere umano: una diagnosi di Étienne Bimbenet

p. 333

Gli androidi possono sentire dolore elettrico? di Luca Vanzago

p. 345

Heidegger e la fine dell’umano tra analitica esistenziale e sapere scientifico di Roberto Redaelli

p. 365

Nella risposta dell’altro. Nota sull’umanizzazione di Carmine Di Martino

p. 395

Per un umanismo di matrice relazionale di Steffi Hobuß

p. 437

Gli Autori

p. 459

Anthropos Collana diretta da Carmine Di Martino

1. Carmine Di Martino (a cura di), I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica. 2. Paul Alsberg, L’enigma dell’umano. Per una soluzione bio­logica. 3. Carmine Di Martino - Roberto Redaelli - Marco Russo (a cura di), Trasformazioni del concetto di umanità.

Anthropos | 3 Collana diretta da Carmine Di Martino

In questi ultimi anni, con l’incalzare della globalizzazione, della rivoluzione digitale, della bioingegneria, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale e altro ancora, l’essere umano è stato sottoposto a molteplici sollecitazioni che ne stanno “muovendo” il profilo. I confini di ciò che sarebbe proprio dell’uomo sono in vario modo messi in discussione. In tale contesto diviene necessaria, perfino urgente, una ricognizione del concetto di umanità, con uno sguardo il più possibile ampio, impegnato con i diversi fronti delle sfide in corso. È questo il tentativo del presente volume: contribuire a una riflessione sistematica sul complesso di problemi racchiusi nell’antica e nuova questione dell’identità umana. Il volume contiene saggi di: L. Bianchin, É. Bimbenet, A. Cera, G. Cusinato, C. Di Martino, J. Fischer, F. Gambardella, L. Guidetti, S. Hobuß, A. Martins, E. Mazzarella, F. G. Menga, G. Pezzano, R. Redaelli, C. Resta, M. Russo, L. Vanzago.

ISBN ebook 9788855291323

€ 13,00