Tra eresia e verità
 9788861905931

Table of contents :
Indice......Page 82
Frontespizio......Page 5
Presentazione......Page 2
Per cominciare......Page 7
Io vengo dal Neolitico......Page 11
Alla periferia della Chiesa: la teologia della liberazione......Page 21
La condanna di Ratzinger e Wojtyla......Page 36
Opzione Terra, la nuova frontiera della teologia......Page 42
Jung come interlocutore: verso la liberazione integrale......Page 62
La nuova Chiesa di papa Francesco......Page 75

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Presentazione

L’avventura umana e spirituale di uno dei padri fondatori della teologia della liberazione. L’infanzia in Brasile, figlio di una famiglia di migranti veneti. Il genocidio degli indios visto in prima persona. La violenza delle dittature militari e le complicità della Chiesa. In questa conversazione con lo psicoanalista Luigi Zoja, Leonardo Boff traccia il ritratto di una stagione feroce, rivela scenari inediti dietro la censura vaticana e la sua condanna al “silenzio ossequioso”, parla di papa Francesco, della Carta della Terra e dei tesori nascosti nelle culture indigene. Uno straordinario viaggio attraverso le luci e le ombre del Novecento, fino a oggi. Leonardo Boff è uno dei principali teologi latinoamericani. Insieme a Gustavo Gutiérrez e Hélder Câmara è stato uno dei padri fondatori della teologia della liberazione. Luigi Zoja, saggista e psicoanalista, si è laureato in Economia e ha svolto ricerche anche in ambito storico e sociologico. Tra i suoi libri ricordiamo: IL GESTO DI ETTORE (2000) e PARANOIA (2011), pubblicati da Bollati Boringhieri, UTOPIE MINIMALISTE (Chiarelettere 2013).

Pamphlet, documenti, storie REVERSE

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www.illibraio.it © Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN 978-88-6190-593-1 Progetto grafico di copertina: David Pearson www.davidpearsondesign.com Prima edizione digitale: aprile 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

TRA ERESIA E VERITÀ

Per cominciare

Luigi Zoja Vorrei iniziare questo libro ricordando come ci siamo conosciuti. Nel 2010 arrivai in Brasile, a Rio de Janeiro, per aprire una giornata di studi di psicoanalisti junghiani e lessi sul programma che gli incontri del giorno precedente erano stati inaugurati dall’intervento di un certo «L. Boff». Chiesi se era un caso di omonimia: mi confermarono che si trattava di Leonardo Boff, il teologo, uno dei padri fondatori della teologia della liberazione. Mi sembrò di tornare a vivere il mio passato, i miei trent’anni, quando i giovani avevano continuamente sulla bocca il suo nome. I colleghi brasiliani mi spiegarono che durante gli ultimi decenni, mentre in Italia era stato allontanato dal dibattito pubblico a causa della censura vaticana, in Brasile Boff era rimasto fra i pensatori più ascoltati: anzi, aveva ampliato ancora i suoi interessi e il suo raggio di azione e di influenza. Negli anni Settanta e Ottanta i progressisti latinoamericani erano essenzialmente impegnati sulla questione sociale: il Sudamerica – in particolare il Brasile – era l’esempio negativo del mondo. Lì le differenze tra ricchi e poveri erano estreme e inaccettabili. Oggi il Brasile è uno dei pochi paesi in cui le differenze di reddito sono diminuite, eppure a livello globale si è compiuta una drastica crescita delle disuguaglianze sociali, un processo che ho cercato di analizzare dal punto di vista psicologico nel mio libro Utopie minimaliste.1 Sempre in occasione del congresso junghiano di Rio, i colleghi brasiliani mi raccontarono che negli ultimi decenni, oltre alla questione sociale, cuore della teologia della liberazione, Boff si era impegnato sempre di più sui temi ambientali, diventati centrali per i progressisti, in particolare in un paese come il Brasile, dove le attività più devastanti e i profitti più elevati non derivano dalle produzioni industriali ma dall’appropriazione delle foreste, la porzione di natura incontaminata più vasta del pianeta. Dopo aver aggiunto all’interesse per le ingiustizie dell’economia quello per l’ecologia, Boff ha portato avanti i suoi studi e l’impegno in campo

antropologico. I nativi del Sudamerica, gli indios dell’interno, sono infatti i disperati fra i disperati, le vittime nel senso più completo. Sono oggetto di un radicale sfruttamento economico e di una eliminazione fisica che costituisce un genocidio strisciante. Inoltre, a differenza di operai e braccianti integrati quanto meno ai margini della società, gli indios stanno perdendo anche la loro cultura, i loro modi di vita, travolti da forme di depressione e di alcolismo. Boff è diventato un grande conoscitore delle loro mitologie e religioni. Un campo per comprendere il quale è stato decisivo il concetto di «inconscio collettivo» che abbiamo ereditato da Jung. Contemporaneamente Boff è diventato anche un grande esperto di questo fondatore della psicoanalisi. Perciò, quando è stata messa in programma l’edizione portoghese-brasiliana delle opere complete di Jung, è stato chiesto a lui di fare da curatore. E quando io, al congresso di Rio, ho appreso tutto questo, insieme ad alcuni colleghi brasiliani ho chiesto all’International Association for Analytical Psychology (l’associazione che raggruppa gli analisti junghiani nel mondo) di nominarlo membro onorario. Così è avvenuto nell’agosto del 2013, al congresso internazionale di Copenhagen. In quello stesso mese si è svolta la conversazione ora proposta in questo libro. All’incontro di Copenhagen, l’accoglienza degli analisti è stata molto calorosa. Nel suo approccio originale alla psicoanalisi, Boff ha avuto il merito di far coincidere l’idea junghiana di archetipo con quella indigena della Pacha Mama, la grande Dea Madre o Madre Terra che, preservata nei costumi dei paesi a più forte maggioranza india del Sudamerica come Bolivia ed Ecuador, incorporata nelle loro leggi e addirittura nelle loro costituzioni, ha ispirato programmi politici rispettosi dell’ambiente e delle tradizioni native (altro argomento che ho trattato in Utopie minimaliste). Caro Leonardo, si può dire che la dimensione psicologica sia diventata sempre più importante nel corso della tua vita? Leonardo Boff Vorrei iniziare ricordando un riconoscimento di cui sono molto fiero. Risale al 1991, quando l’Università di Torino mi conferì la laurea honoris causa in Scienze politiche. Fu Norberto Bobbio a consegnarmela, e durante il discorso che tenni in quella occasione ricordo che dissi questa frase: «Io vengo dal Neolitico, ho ripercorso tutti gli stadi dell’umanità fino ad arrivare ai tempi moderni». Bobbio sorrideva. Queste parole rappresentano davvero l’atmosfera che ha contraddistinto la mia vita,

fin dall’infanzia. Sono cresciuto in un mondo in cui primitivo e moderno si sono incontrati e contaminati. Ancora oggimolti indios dell’Amazzonia vivono come 20.000 anni fa. Non sanno neanche che esiste uno Stato brasiliano. Il fatto interessante è che noi e loro siamo contemporanei. Noi rappresentiamo la parte più avanzata tecnologicamente, loro quella primitiva, più vicina alla natura, alla Madre Terra. I nativi hanno molte cose da insegnarci: il rispetto, l’interdipendenza con l’ambiente, il senso di libertà. Quando ci si trova fra loro ci si rende conto che l’Eden non è affatto perduto. Sono solidali, rispettano i bambini e gli anziani, hanno un profondo senso religioso della natura e della vita, un sentimento del tutto estraneo alla cultura occidentale. In diverse culture «primitive» ci si preoccupa addirittura di chiedere scusa alla Terra prima di usare l’aratro. Sono convinto che simili riti siano espressione diretta di atteggiamenti psicologici archetipici, di bisogni interiori che esistono da sempre e che consentono di mantenere in equilibrio i rapporti sociali e quelli tra l’uomo e l’ambiente circostante. Per questo credo che dobbiamo guardare con molto rispetto e con molta attenzione alle culture andine. Nasce da qui il mio interesse per la dimensione psicologica dell’essere umano. Jung aveva intuito che il nostro modo di sfruttare la Terra avrebbe causato una crisi globale e che il cambiamento poteva scaturire soltanto da una relazione nuova e profonda con ciò che circonda il nostro Io. Il rispetto per la Terra come sistema vitale unitario è un archetipo da riattivare e appartiene alla dimensione del sacro. Questo Jung l’aveva capito benissimo. Tra i popoli andini è ancora vivo il culto della Pacha Mama, la dea della terra e della fertilità che fornisce il necessario per vivere. La nostra cultura ha separato l’uomo dalla natura e l’ha spinto a dominarla, distruggendo quel senso di totalità che contraddistingue ogni visione spirituale della vita. Le religioni venerano le Scritture, l’ostia consacrata, lo spazio del tempio, ma non riescono ad aprirsi al mistero del mondo e all’energia che alimenta l’intero Universo. Questa lacuna spirituale è uno dei più gravi problemi della modernità. La teologia sostiene che tutti gli aspetti del Creato sono simboli e segni del Creatore, sacramenti naturali. Ma sono parole morte perché noi non viviamo questa dimensione. Abbiamo avvicinato le popolazioni indigene per sterminarle, perché non avevano il senso della proprietà privata. Questa è una storia che io ho vissuto in prima persona, come ho vissuto in prima persona gli anni terribili delle dittature in America

latina, la violenza praticata dal regime sui fratelli domenicani (frate Betto, frate Tito, frate Ivo), la condanna della teologia della liberazione da parte della Chiesa di Roma. Tutto questo mi riporta alla storia della mia famiglia, veneti emigrati in Brasile alla ricerca di terra da coltivare, e alla mia formazione, agli anni trascorsi in Germania, a Monaco di Baviera, dove ho avuto come maestri figure come Karl Rahner e Wolfhart Pannenberg e dove tanto ho imparato da scienziati aperti al dialogo e con un’incredibile cultura umanistica, che tenevano seminari anche nella facoltà di Teologia: tra loro ricordo in particolare il grande fisico Werner Heisenberg. E ancora l’incontro con Joseph Ratzinger, l’uomo che appoggiò e difese con tutto se stesso la pubblicazione della mia tesi di laurea e che poi, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, attaccò i miei scritti e formulò la condanna a un anno di «silenzio ossequioso». Un’avventura che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento. Partiamo dall’inizio. 1 Luigi Zoja, Utopie minimaliste, Chiarelettere, Milano 2013.

Io vengo dal Neolitico

Luigi Zoja Raccontaci qualcosa della tua infanzia. Che lingua si parlava in casa, cosa facevano tuo padre e tua madre? Leonardo Boff Provengo da una famiglia di veneti originaria della borgata Col dei Bof del comune di Seren del Grappa, in provincia di Belluno. Alla fine dell’Ottocento i miei nonni erano emigrati in Brasile, stabilendosi al Sud. In seguito, negli anni Trenta, i loro figli si trasferirono nello Stato di Santa Catarina, un poco più a nord. Era una zona selvaggia, abitata da pochi indigeni. Mio padre svolgeva le funzioni di insegnante, giudice di pace e animatore della comunità. Si erano insediati nella foresta e parlavano solo in veneto. Vicino a noi c’erano anche comunità di tedeschi e di polacchi. I tedeschi erano luterani. Ogni gruppo che partiva per fondare una colonia portava con sé l’insegnante, il sacerdote e tutte le figure necessarie per far funzionare un piccolo villaggio. Mio padre era nato nel 1911. Aveva studiato con i gesuiti, conosceva abbastanza bene il greco e il latino e si ispirava a quella che sarebbe diventata la «pedagogia degli oppressi» di Paulo Freire, il pensatore brasiliano che si è dedicato ai poveri e agli analfabeti. A scuola mio padre insegnava non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma anche tutto ciò che poteva servire a un contadino per costruirsi una casa, una fontana, un catavento per la produzione di elettricità (il cosiddetto mulino americano, di piccolo diametro e con molte pale). LZ Come si arrivava alla decisione di fondare una colonia? Era un’iniziativa del potere centrale o la scelta spontanea di un gruppo di persone affamate di terra? LB Ogni famiglia aveva da dieci a venti figli e non c’era terra per tutti. Erano costretti a spostarsi. I nostri nonni erano emigrati in America latina perché in Italia la terra non bastava. In Brasile si è verificato lo stesso fenomeno.

Lo Stato di Santa Catarina, dove sono cresciuto, oggi è una zona molto sviluppata e ricca, ma sino agli anni Trenta non c’era altro che foresta. I cambiamenti sono stati rapidi e sconvolgenti, come nel resto del paese. Dopo la Seconda guerra mondiale il Brasile aveva circa 50 milioni di abitanti, ora ne ha 194 milioni. Nel Sud la foresta era diversa da quella amazzonica. C’erano soprattutto pini secolari, le terre boscose erano più economiche perché più facili da disboscare. In parte la foresta è stata distrutta, ma ora la stanno ripristinando. La regione è molto ricca d’acqua. D’inverno fa freddo e nevica, d’estate la temperatura è gradevole. Oltre ai discendenti dei coloni (italiani, polacchi e tedeschi), c’erano famiglie di indios che vivevano di mais, di caccia e di pesca. Avevano pochi figli, perché molti morivano da piccoli di malattie e di malnutrizione. Gli uomini del nostro villaggio andavano a caccia e il venerdì si apparecchiava la tavola con vino, radicchio, polenta e osei, i piatti della tradizione veneta. Ogni famiglia aveva un vigneto per produrre il vino destinato al proprio consumo. A casa nostra vi si aggiungeva un po’ d’acqua e si diceva con rispetto: «Come ha fatto il Signore». Si distillava anche la grappa, con la ruta o pura, da mettere nel caffè o da bere come aperitivo. Ancora oggi tutte le famiglie della regione producono la propria graspa. La prima volta che sono andato a Feltre e a Seren del Grappa, in Veneto, per vedere la terra dei nonni, mi sono sentito a casa: gli stessi fiori, lo stesso cibo, le stesse bevande, lo stesso modo di parlare. Eravamo brasiliani soltanto da due generazioni. Il villaggio che mio padre aveva contribuito a fondare è ora una città importante di circa 80.000 abitanti, Concórdia, sede della Sadia, una delle più grandi industrie alimentari del Brasile, che esporta carne e altri prodotti in tutto il mondo. Lì sono nato nel 1938. A scuola mio padre insegnava il portoghese, però in casa parlava in dialetto. La cultura dominante era quella dei tedeschi, che non parlavano altre lingue e non comunicavano con noi. A scuola guardavo le ragazze e le vedevo bionde e belle, ma pensavo che sarebbero andate tutte all’inferno perché erano protestanti. Che peccato! C’erano anche alcuni indigeni sopravvissuti allo sterminio. Puzzavano di fuliggine e di immondizia, e mio padre ci obbligava a sederci accanto a loro per dare appoggio alle loro famiglie che erano emarginate e discriminate.

LZ Ma la scuola era pubblica o privata? LB Era un servizio creato dalla comunità e riconosciuto dal potere locale. L’insegnante era pagato in natura, con angurie, mais, riso, grano. Il dizimo (decima) si portava all’insegnante, non al prete. Per questo a casa nostra c’era grande abbondanza di cibo, persino carne di maiale, pollo e selvaggina, perché molti andavano a caccia. Era una sorta di società del Neolitico: non c’era una cultura urbana, solo relazioni primarie, e si creava dal nulla. Mio padre, per esempio, aveva studiato un po’ di medicina e preparava un antibiotico con la penicillina. Non c’erano medici. Lo chiamavano a qualsiasi ora del giorno e della notte, lui cercava di interpretare i sintomi e somministrava la medicina. Così ha salvato moltissime persone. Mio padre aveva un nome italiano, Mansuetto, con la doppia t. Lo scrivevano così. Significa «mite», e in effetti era una persona molto tranquilla. Mia madre era analfabeta, non sapeva leggere e non voleva neanche imparare. Lavorava nei campi e in casa. Ha avuto undici figli, sei femmine e cinque maschi. La nostra era la famiglia più piccola della regione: un mio zio aveva ventuno figli, un altro diciannove. Serviva molta manodopera per il lavoro in campagna. LZ Questa terra così ricca di frutti naturali, di animali da cacciare e di corsi d’acqua pescosi non era abitata prima dell’arrivo dei coloni? LB Sì, c’erano gli indios Kaingang, un popolo che occupava vaste aree del Sud del Brasile ed è stato quasi completamente sterminato. I coloni dicevano che occorreva «ripulire il terreno» perché gli indios non avevano il senso della proprietà privata: se vedevano una zappa in giro la portavano via. Durante il fine settimana i polacchi, i tedeschi e gli italiani andavano insieme a caccia di indigeni. Li uccidevano e li seppellivano sul posto. Un mio lontano parente mi ha raccontato di aver abbattuto con un fucile un indio che si era rifugiato sopra un albero. Sono storie tragiche. In tutta la regione quasi nessun nativo è sopravvissuto. La città di Blumenau, nello Stato di Santa Catarina, deve il suo nome a un medico che aveva guidato la colonizzazione: per preparare l’arrivo dei coloni aveva «ripulito il terreno», cacciando tutti gli indigeni.

LZ L’espressione che hai usato, «ripulire il terreno», viene dal tedesco Flurbereinigung, che indica l’operazione che si compie quando si prepara un campo per la semina, sradicando le erbacce e i resti della coltura precedente. Anche i programmi di pulizia etnica dei nazisti si basavano sul presupposto di considerare gli esseri umani come piante infestanti. LB Esatto. Da sradicare. LZ Così un intero popolo è stato sterminato da coloni di origine europea che andavano a caccia di indios come se fossero selvaggina. Ma nessuno di loro veniva incriminato per omicidio? LB Neanche per sogno: si riteneva che facessero un’opera di carità, di civilizzazione. Non era considerato un reato. LZ Magari venivano pure ricompensati. LB Non nella mia regione, ma so che altrove ricevevano un compenso per ogni orecchio consegnato. Era una lotta impari per il possesso della terra. I gruppi di coloni si organizzavano in Germania e in Italia, prima della partenza. Il capo riceveva gratuitamente dal governo le terre da distribuire. E loro creavano l’infrastruttura suddividendo i lotti, aprendo strade, costruendo la chiesa, la scuola e una sala per le grandi riunioni. La chiesa era l’edificio più importante. Erano molto osservanti, vi si riunivano per le preghiere e la messa, rigorosamente in latino. LZ Quindi, oltre al dialetto della provincia di Belluno, conoscevi il portoghese e un po’ di latino. LB Sì, per via delle funzioni religiose. Ogni domenica ci si riuniva per recitare il rosario, cantare le litanie della Vergine e stare insieme. Era complicato imparare il portoghese, perché non c’era nessuno con cui parlarlo. Gli italiani stavano fra di loro. Mio padre aveva una piccola biblioteca, e dopo il rosario della domenica riuniva i contadini e li obbligava a leggere un libro in portoghese. Per loro era difficile, allora si è messo in contatto con una ditta che vendeva radio e ha fatto in modo che ogni famiglia ne avesse una per ascoltare le trasmissioni in portoghese. L’energia elettrica serviva per far funzionare la radio. La radio era tutto. Quando avevo cinque o sei anni mio padre ascoltava la radio straniera, in italiano e

in inglese, per avere notizie sulla guerra in Europa. LZ Che cosa è successo quando il Brasile è entrato in guerra contro la Germania? Che problemi hanno avuto questi immigrati italiani e tedeschi che avevano un’identità nazionale così forte? LB Nel 1937 il presidente Getúlio Dornelles Vargas aveva instaurato una dittatura simile a quelle fasciste europee. Allo scoppio della guerra, il suo governo populista e ultraconservatore sembrava più propenso ad appoggiare i nazisti. D’altra parte, gli americani iniziarono a esercitare pressioni sul Brasile affinché appoggiasse le forze alleate ostacolando le operazioni sottomarine tedesche nell’Atlantico meridionale. Le pressioni portarono Vargas addirittura a una prima rottura con le forze dell’Asse, ma la conseguenza di questa decisione fu catastrofica: decine di navi mercantili brasiliane furono colpite e affondate da sottomarini tedeschi. Centinaia di morti. L’opinione pubblica reagì e costrinse il governo a un avvicinamento alle forze alleate, contro la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Così Vargas entrò in guerra al fianco degli americani con un contingente di 25.000 soldati. I discendenti degli italiani e dei tedeschi furono costretti a combattere nei loro paesi di origine. Molti morirono nella battaglia di Montecassino. Nel cimitero militare brasiliano di San Rocco, nei pressi di Pistoia, per anni sono rimasti sepolti i corpi di circa quattrocento soldati, poi riportati in patria nel 1960. Mio padre seguiva le notizie alla radio e quasi tutti i nostri conoscenti parteggiavano per Mussolini. Si sentivano italiani, non brasiliani. Dopo la guerra hanno fatto una colletta con i tedeschi per mandare aiuti alle vittime in Europa. Qualcuno addirittura vendeva un campo o una vacca per dare il suo contributo. LZ Tornando al problema dello sterminio degli indios, ricordo un compagno di università che apparteneva a una famiglia di importatori di caffè dal Brasile. Spedito sul posto di produzione, non aveva più voluto tornarci a causa di ciò che aveva visto. Diceva che quando volevano praticare uno sport eccitante, molti giovani delle locali famiglie di possidenti prendevano i fucili e andavano a caccia di indios, tanto in quelle aree interne erano lontani dalla legge e se ne sentivano superiori. È una storia simile a quella che hai raccontato riguardo ai tempi di tuo padre, con la differenza che è ambientata

negli anni Sessanta del Novecento invece che a inizio secolo. Ripensando alla mia attuale esperienza in Argentina, mi viene in mente il caso di una famiglia dell’interno del paese con quattro figli maschi che aveva ereditato dal bisnonno delle terre in origine abitate dagli indios. Questi ragazzi negli anni Settanta erano attivi nei Montoneros, un’organizzazione peronista di sinistra che auspicava il ritorno di Juan Domingo Perón dall’esilio spagnolo. In seguito l’organizzazione fu perseguitata e finì in parte per scegliere la strada della lotta armata. La lotta di questi giovani non si ispirava a dottrine marxiste ma a ideologie nazionali, come il cattolicesimo e il peronismo, e alla volontà di rendere giustizia agli indios perché la terra era stata loro sottratta con la violenza e il genocidio: proprio perché appartenevano a una famiglia di grandi possidenti, questi fratelli sentivano profondamente la loro responsabilità. Il senso di colpa li ha spinti a dedicare la loro vita alla ricerca di una forma di riscatto. Per me, psicoanalista junghiano, è un segno della forza degli archetipi, che sono innati e si attivano indipendentemente dall’educazione. Penso per esempio ai concetti di maledizione e di destino: come nella tragedia greca, la colpa si trasmette da una generazione all’altra. Fino a che punto da voi, nello Stato brasiliano di Santa Catarina, c’è stata una discussione collettiva sul fatto che quelle terre, prima di essere coltivate dai coloni, erano state concimate con il sangue di un popolo, e che quindi c’era un debito da saldare? LB La più recente stesura della Costituzione del Brasile, che risale al 1988, ha stabilito che le terre tradizionalmente occupate dagli indios siano «destinate al loro possesso permanente», insieme «all’usufrutto delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi». Questo principio ha innescato una serie di conflitti, perché le terre erano già occupate dai discendenti dei coloni. Però ci ha resi consapevoli che abbiamo un debito da pagare. LZ Ciò è avvenuto dopo la fine della dittatura militare... LB Purtroppo il disastro era già avvenuto. In principio in Brasile c’erano sei milioni di indigeni e ne sono rimasti 700.000. Un genocidio di proporzioni enormi, causato dalla violenza degli europei. Gli indios inoltre non avevano anticorpi contro le malattie portate dai coloni. Com’è avvenuto tra i nativi dell’America del Nord, una semplice influenza poteva decimare un’intera

tribù, un’epidemia di morbillo poteva distruggere un’etnia. In Brasile lo Stato ha ceduto parte dell’Amazzonia ai coloni, che hanno creato grandi haciendas per l’allevamento delle vacche o la coltivazione della soia. Così è iniziata la devastazione della foresta. Arrivavano con i bulldozer e i trattori, sradicavano gli alberi con grosse catene, poi incendiavano il suolo per seminare. Gli indios non hanno potuto opporsi. LZ Non c’era nessuno che prendesse le loro difese? LB Nel 1910 il governo aveva istituito il Serviço de Proteção aos Índios (Spi), l’ente federale per la protezione degli indios. Nel 1967 il procuratore generale dell’organizzazione, Jader de Figueiredo Correia, fu incaricato di verificare le notizie di abusi e atrocità contro i nativi della foresta amazzonica. Dal suo dossier di 7000 pagine presentato all’inizio del 1968 al ministero degli Interni emerse che negli ultimi dieci anni migliaia di indios erano stati sterminati con la connivenza dell’Spi, e spesso «con la sua ardente collaborazione». Le tribù erano state decimate con esecuzioni di massa, guerre batteriologiche, lanci di candelotti di dinamite sui villaggi e distribuzioni di cibo intriso di arsenico e insetticida. Lo scrittore e giornalista Norman Lewis divulgò i risultati dell’inchiesta in un articolo dal titolo Genocide pubblicato sul «Sunday Times» inglese il 23 febbraio 1969. Il clamore internazionale che ne seguì portò allo scioglimento dell’Spi, che fu rimpiazzato dal Funai (Fundação Nacional do Índio), l’ente nazionale per la protezione dei diritti degli indios. Nonostante le intenzioni, il Funai è un ente molto debole. Le tribù continuano a essere scacciate dai loro territori non soltanto per iniziativa dei latifondisti, ma anche a causa dei programmi di sviluppo del governo, che in Amazzonia costruisce dighe per la produzione di elettricità e rilascia concessioni per lo sfruttamento delle miniere. In quell’area stanno per sorgere una trentina di centrali idroelettriche. La diga di Belo Monte sul fiume Xingú, la terza nel mondo per grandezza, causerà la distruzione di vaste aree di foresta pluviale e intaccherà drasticamente le riserve ittiche da cui molte tribù dipendono per la loro sopravvivenza. L’arrivo degli immigrati impiegati nella costruzione della diga provocherà grandi sconvolgimenti sociali: sovraffollamento, speculazione immobiliare, prostituzione, servizi sanitari insufficienti.

LZ Ma gli indios non vengono consultati? LB Solo formalmente. Il governo manda gli antropologi a parlare con loro, per convincerli. È un raggiro. Si dice che fra gli indios la famiglia media è composta da dodici persone: padre, madre, quattro nonni, cinque figli e un antropologo. LZ Non ci sono proteste? LB Il movimento Xingú Vivo para siempre, guidato da Antonia Melo, e i vescovi della regione hanno denunciato il progetto di Belo Monte. Nell’aprile del 2010 tredici di loro sono andati a Roma per sottoporre al papa la gravità della situazione ecologica e umanitaria in Brasile. Il più battagliero è Erwin Kräutler, vescovo di Xingú, che ha ricevuto in passato minacce di morte da latifondisti e imprese che sfruttano la foresta amazzonica. LZ Il governo come reagisce? LB Nonostante le proteste e gli scioperi, la posizione del governo non è cambiata: il progetto andrà avanti perché ci sono stati grandi investimenti. Non è possibile fare marcia indietro. La costruzione della diga è stata approvata dal presidente Luiz Inácio Lula nell’agosto del 2010. Anche Dilma Rousseff, l’attuale presidente, è implacabile: non accetta neppure di discuterne. Ha fatto molto per i poveri con il suo programma Brasil Carinhoso (un sussidio per famiglie indigenti), però dal punto di vista economico è una neoliberista. Dice che il paese ha bisogno di energia per svilupparsi. Un paio di volte ho sollevato con lei la questione ecologica, ma ha ribattuto che le grandi multinazionali e le banche hanno più potere del governo. Controllano il mondo finanziario, i partiti e gli avvocati. Ciò significa che la democrazia è debole, fasulla. Da anni il Congresso tenta di far passare una legge per preservare la foresta amazzonica, ma i grandi latifondisti si oppongono. Neppure i funzionari del Funai riescono a difendere l’habitat delle popolazioni native. Sono pochi e si scontrano con interessi enormi. Lo stesso governo che li paga non li appoggia. Per costruire la diga di Belo Monte le grandi multinazionali hanno deviato il fiume Xingú e hanno trasferito quindici etnie indigene che vivevano in quell’area da sempre. Ci sono gruppi di avvocati che si battono per i loro

diritti, rischiando coraggiosamente la vita. Quando li ho conosciuti, li ho ammirati profondamente. Pochi di loro erano credenti, eppure io ho pensato: «Questi sono i veri adoratori del dio della vita». Nel 2005 una suora americana, Dorothy Stang – conosciuta da tutti in Amazzonia come Irmã Dorote – è stata assassinata per il suo impegno nella difesa dell’ambiente e delle popolazioni rurali nello Stato del Pará. È stata uccisa perché intralciava gli affari delle aziende che sfruttano la foresta per l’esportazione di legname da costruzione, minerali, carne e soia. Nel 2010 è toccato a Pedro Alcantara de Souza, attivista dei Sem Terra, movimento dei lavoratori che si batte per la riforma agraria e una maggiore giustizia sociale, nel 1988 al sindacalista Chico Mendes, nel 1986 al giovane sacerdote Josimo Tavares, che era stato mio allievo di teologia a Petrópolis ed era poi diventato responsabile della Commissione pastorale della terra, nel 1985 a suor Adelaide Molinari. Ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Ogni anno almeno cento persone vengono ammazzate. LZ Ancora oggi? LB Purtroppo sì. Il processo per l’omicidio di Dorothy Stang è durato sette anni. Il mandante, un ricchissimo allevatore e proprietario terriero, è stato arrestato e poi rilasciato, perché era difeso da abili avvocati. È terribile, non c’è giustizia per chi ha perso la vita per una buona causa. LZ Per gli indios deve essere ancora più difficile combattere contro questi poteri. LB Gli indios della foresta sono molto legati alla natura. Vivono di raccolta, di caccia e di pesca. Dicono che per ogni albero tagliato muore uno di loro, perché si identificano con la foresta amazzonica, sanno di non poter vivere senza di essa, e resistono come possono alla sua distruzione. È una lotta impari, perché non hanno armi. Fino a qualche anno fa molti gruppi di nativi non avevano mai avuto contatti con la cultura dei bianchi ed erano totalmente sconosciuti. Sono stati scoperti dalle aziende che disboscano la foresta per sfruttare i terreni a scopo agricolo o il legname da vendere sul mercato mondiale. Gli indios si sentono minacciati dalla scomparsa del loro habitat. Secondo i loro miti, la foresta offre tutto ciò che serve, sia in questa vita sia dopo la

morte. I defunti rinascono a un livello più alto, assumendo la forma di un essere umano, di un animale o di un albero, e continuano a nutrirsi. La distruzione della foresta toglie nutrimento sia ai vivi sia ai defunti. Per gli indios è una sorta di apocalisse, la rovina del loro mondo. Il governo è in una posizione ambigua, perché da un lato ha disposto la delimitazione delle terre (che nessuno rispetta), dall’altro partecipa agli affari con le multinazionali. Nella foresta le distanze sono enormi e non ci sono avvocati. Se un indio viene ucciso, ci vogliono quattro o cinque giorni per raggiungere il villaggio più vicino, a piedi o via fiume, e denunciare l’accaduto. Così diventa impossibile perseguire i responsabili. LZ Sono comunità isolate? Non c’è collegamento tra l’una e l’altra? LB Alcune sono molto isolate. Ci sono gruppi che sfuggono ogni contatto con i bianchi. Sono chiamati «indios invisibili» perché non si sa dove sono stanziati. Molti indios dell’Amazzonia vivono come 20.000 anni fa. LZ Non sanno neanche che esiste uno Stato brasiliano. LB Già, ma il fatto è che siamo contemporanei. Noi rappresentiamo la parte più avanzata tecnologicamente, loro quella più primitiva e forse più primordiale, più vicina alla natura. Hanno molte cose da insegnarci, per esempio il rispetto, l’interdipendenza con l’ambiente e il senso di libertà. Tra di loro c’è una sorta di capo che tiene i contatti con le altre tribù, ma all’interno tutti sono liberi di fare ciò che vogliono. Hanno un profondo senso religioso della natura e della vita, e vivono con innocenza, tutti nudi, una vera felicità paradisiaca. Un sentimento di unione mistica con il tutto.

Alla periferia della Chiesa: la teologia della liberazione

Luigi Zoja Come hai maturato la scelta di diventare sacerdote e qual è stato il tuo percorso di formazione? Leonardo Boff Un prete tedesco veniva a celebrare la messa una volta al mese nella nostra colonia di veneti. Un giorno è arrivato a pranzo con un sacerdote brasiliano di Rio de Janeiro che ci ha parlato di san Francesco. Ci ha chiesto se volevamo entrare in seminario. Io non ne avevo nessuna intenzione, da grande volevo fare il camionista. Mi piaceva l’odore della benzina. A un certo punto, però, quel sacerdote ha domandato: «Chi vuole diventare francescano?». Ho sentito una sorta di calore dentro e ho alzato la mano. Lui si è annotato il mio nome. Nel frattempo io ero scappato per la paura. Mi ero già pentito di essermi fatto avanti. Ma il guaio – o la scelta – era fatto. Tre mesi dopo passarono a prendermi con un camion, mi caricarono nel cassone insieme ad altri aspiranti sacerdoti. Così a undici anni sono entrato nel seminario dei francescani di Luzerna, una colonia svizzera a un centinaio di chilometri da Concórdia. L’istituto ospitava più di cento ragazzi, ma solo una trentina si sono fatti preti. LZ I tuoi genitori come hanno reagito? LB Erano d’accordo. A quei tempi diventare sacerdote era l’unica forma di ascesa sociale: i maschi si facevano preti, le femmine suore. Anche i miei quattro fratelli sono andati in seminario, e due di noi sono arrivati fino all’ordinazione. Una delle mie sorelle si è fatta suora. Diversamente da oggi, non c’erano molte altre possibilità. Era un mondo chiuso, non era facile sposarsi. I tedeschi se ne stavano per conto loro. Mio padre, che era molto aperto, cercava di favorire l’incontro tra le diverse nazionalità e litigava con il parroco, che ammoniva di tenersi alla larga dai protestanti, tutti tedeschi. La nostra identità si basava sulle nazionalità di origine. Dicevamo «sono

italiano» oppure «sono tedesco», mai «sono brasiliano», perché ciò significava essere indios e non contare niente. Avere un cognome come Carvalho era considerato una vergogna. Fino ai tardi anni Trenta, in tutta la provincia francescana, le lezioni si tenevano in tedesco. I ragazzi che entravano in seminario dovevano impararlo. Per gli italiani era dura, soprattutto quando si trattava di affrontare materie come la filosofia e la teologia, eppure molti lo parlavano bene. Dopo l’ascesa di Hitler è aumentato l’afflusso di francescani provenienti dalla Germania. Erano uomini entrati in convento da adulti che venivano a finire gli studi in Brasile e poi diventavano parroci. C’erano poi intere famiglie che arrivavano per colonizzare, per creare una piccola Germania. Ancora oggi nella città di Blumenau si parla quasi esclusivamente tedesco. Ogni persona che ha un incarico pubblico deve conoscere il tedesco, oltre che il portoghese. A Pomerode, una cittadina nei pressi di Blumenau, sembra di essere in Germania, per il modo in cui sono fatte le case, per i costumi tradizionali e la lingua. Ci sono stato di recente per una conferenza. Ho cominciato a parlare in portoghese, ma mi hanno chiesto subito di continuare in tedesco. A Rio Negro, nel Paraná, dove sono andato per proseguire gli studi, i francescani avevano costruito un seminario immenso nello stile dei castelli medievali tedeschi. Ci ho trascorso tre anni, poi mi hanno mandato a San Paolo. Ho fatto il noviziato a Rodeio, vicino a Blumenau, e ho studiato filosofia a Curitiba, la capitale dello Stato del Paraná, e teologia a Petrópolis, nei pressi di Rio de Janeiro, dove abito tuttora. Anche questa è una colonia tedesca. Era la fazenda dell’imperatore brasiliano Pedro II, che aveva fatto arrivare duecento famiglie dalla Germania per creare un insediamento e coltivare la terra. LZ Quando sei andato in Europa per la prima volta? LB Nel 1965, all’età di ventisei anni, mi hanno mandato a fare il dottorato in Teologia e Filosofia a Monaco di Baviera, alla Ludwig-MaximiliansUniversität. Conoscevo bene il greco e il latino, e anche il mio tedesco era buono. Al test iniziale si sono accorti che leggevo speditamente e mi hanno chiesto dove lo avevo imparato. «Ho studiato dai francescani tedeschi» ho

risposto. Mi hanno ammesso subito al dottorato. Ho cominciato a frequentare i corsi del teologo gesuita Karl Rahner, il successore di Romano Guardini alla cattedra di Visione cristiana del mondo. I migliori studenti volevano fare la tesi con lui. Le sue lezioni erano aperte a tutte le facoltà, poi ebbe uno scontro con gli altri teologi e nel 1967 andò a insegnare Dogmatica a Münster. LZ All’epoca si parlava già di impegno sociale in ambito teologico? LB No, era una disciplina accademica come le altre, perché nelle università tedesche il corso di laurea in Teologia è uno dei tanti percorsi di studio, come quello in Biologia. Ed è una disciplina molto rispettata, perché tutte le università sono nate intorno alle facoltà di Teologia. I grandi teologi poi si confrontavano apertamente con le scienze. Ho assistito per esempio a un seminario in cui il fisico Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica, dialogava con Rahner su Dio e la visione quantica del mondo. Durante la lezione Heisenberg parlava e Rahner faceva domande. La volta successiva i ruoli si invertivano. Noi, una quindicina di dottorandi scelti, potevamo soltanto ascoltare. Era meraviglioso. In quell’occasione mi sono accorto che gli scienziati tedeschi hanno una formazione umanistica straordinaria. Heisenberg dominava tutta la filosofia, dai greci a Heidegger, e tutta la teologia scolastica. Mi ha insegnato molto. In seguito, dopo il semestre obbligatorio, mi sono avvicinato alla psicologia. Ho cominciato con Albert Görres, che era un freudiano e insegnava a Monaco. Era amico di alcuni frati del convento e mi ha sconsigliato di studiare Freud, perché aveva una visione negativa della religione. Mi disse che, come teologo, avrei fatto meglio a studiare Carl Gustav Jung. Così ho fatto, e ho cominciato a leggere i diciannove volumi delle sue opere. Me li prestava un parroco che sostituivo durante le vacanze estive, in cambio di una messa al giorno. Avevo molto tempo libero e divoravo una pagina dopo l’altra. Sono andato in crisi. Per poco non sono diventato matto: l’autoanalisi ti porta a scandagliare in profondità la tua vita, attraverso i sogni e gli archetipi. LZ Facevi molti sogni? Interrogavi te stesso? LB Ne facevo molti e mi interrogavo, senza tuttavia rielaborarli. Era una

sorta di appropriazione. Jung mi appariva come un interlocutore fantastico per l’importanza che ha attribuito alla spiritualità. Le sue intuizioni hanno influenzato la mia tesi di dottorato, Die Kirche Als Sakrament im Horizont der Welterfahrung (la Chiesa come sacramento nell’orizzonte dell’esperienza del mondo), che è stata pubblicata solo in tedesco. LZ In quell’occasione hai conosciuto un altro studioso che poi è diventato molto noto, un certo Joseph Ratzinger. LB La mia tesi era molto voluminosa, circa 550 pagine a stampa, e nessuno voleva pubblicarla. Allora l’ho mandata a Ratzinger, che insegnava Teologia dogmatica a Tübingen con Hans Küng. Lui l’ha letta e ha concluso che era un contributo ecclesiologico molto interessante sul Concilio Vaticano II. Ratzinger non lo conoscevo ancora di persona. Lui mi scrisse, ci incontrammo e mi diede 14.000 marchi, una bella somma, per finanziare la pubblicazione. Inoltre si è impegnato a trovare una casa editrice a Paderborn, la Bonifacius-Druckerei, che aveva una collana sull’ecumenismo. All’epoca Ratzinger era molto aperto. Ogni sabato, durante l’Avvento, teneva una conferenza nella chiesa dell’Università di Monaco e criticava duramente il Vaticano, che aveva emarginato le donne e i laici, creando a Roma un centro di potere. Da queste conferenze è nato forse il suo libro più bello, Introduzione al cristianesimo, pubblicato nel 1969, che merita ancora di essere letto.2 Ratzinger era interessato al tema della mia tesi, la Chiesa come sacramento, cioè come segno e strumento di salvezza nel mondo secolarizzato. In quel testo sostenevo che occorreva ristabilire una priorità del popolo di Dio sulla struttura gerarchica, che ha essenzialmente una funzione di servizio. Solo così la Chiesa può diventare una costruzione aperta, in cammino verso Dio insieme ad altri popoli, in una prospettiva di alleanza e di missione. Jung mi ha aiutato molto a elaborare questa visione sacramentale, che rappresenta la parte più originale della mia tesi. Il mondo simbolico ha una sua logica e una sua profondità: piuttosto che affidarsi a concetti, teorie ed elaborazioni, Jung si basa sulle grandi tradizioni narrative dell’umanità. Io ero interessato a una teologia capace di parlare al cuore degli esseri umani, con calore e intelligenza.

In quegli anni ero amico di Ratzinger. Dopo pranzo, mentre tutti facevano la siesta, mi invitava a fare una passeggiata per discutere di teologia e parlare dell’America latina. Ho lavorato con lui a «Concilium», la rivista internazionale pubblicata in Italia dalla casa editrice Queriniana. Era stata fondata nel 1965, subito dopo il Concilio Vaticano II, e radunava i migliori teologi progressisti del mondo. Ci scrivevano personaggi come Hans Küng, Yves Congar e Karl Rahner. Ogni anno, nella settimana di Pentecoste, ci si incontrava per tre giorni di approfondimento, di scambio e di discussione. Ciascun teologo esponeva la sua visione, e da quelle riunioni uscivano dieci numeri della rivista. Si suddivideva il materiale in capitoli e li si distribuiva ai partecipanti, che preparavano una stesura finale. Per me è stata una grande scuola. Erano tutti molto critici, addirittura più avanti del Concilio Vaticano II, e Ratzinger era uno dei migliori. Poi ha litigato con Küng, che nel 1970 aveva scritto un libro molto critico sulla questione dell’infallibilità del papa, Unfehlbar? Eine Anfrage (Infallibile? Una domanda).3 A quel punto, Ratzinger ha difeso la posizione tradizionale e ha lasciato «Concilium» per fondare una rivista più conservatrice, «Communio», pubblicata a partire dal 1972. Lo stesso anno in cui è uscita la mia tesi, ma all’epoca io ero già tornato in Brasile. LZ Per quanto tempo sei rimasto in Germania? LB Quattro anni e mezzo, dal giugno del 1965 al febbraio del 1970. Quando sono tornato a Petrópolis per insegnare teologia, ho avuto una sorta di shock culturale. Per anni non avevo avuto contatti con il mio paese, se non per lettera, e mi ero immerso totalmente nella cultura tedesca. In Brasile oltre metà della popolazione è di origine africana, e a Salvador de Bahia ciò è particolarmente evidente. Per la strada e in spiaggia si vedono soprattutto neri o mulatti, e hanno riti, cibi e credenze religiose particolari, ricchi di simboli. A Rio de Janeiro, di fronte ai bambini poveri e nudi delle favelas, mi sono detto: «Non è possibile, non si può accettare questo». Ho provato per la prima volta un forte senso di indignazione, ma ho anche avuto molta paura, perché il 17 febbraio, quando sono arrivato in nave, la polizia mi ha accusato di aver sostenuto pubblicamente che gli oppressi hanno il diritto di ribellarsi. Sapevano anche la data in cui l’avevo detto, il 31 gennaio,alla

discussione della mia tesi alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, perché gli organi di sicurezza brasiliani avevano spie a Parigi, a Francoforte, a Monaco e in molti altri paesi. Sorvegliavano gli studenti espatriati o in esilio. Mi hanno portato via il passaporto per un paio d’ore. Ero spaventato, ma di fronte ai poveri ho capito che occorreva una nuova teologia. La grande svolta è avvenuta nel giugno del 1970, a Manaus, la capitale dello Stato dell’Amazzonia, dove ero andato a tenere un ritiro spirituale per missionari, preti e suore che lavoravano nel cuore della foresta. Lì mi sono accorto che la teologia che avevo appreso in Germania – sia quella cattolica, sia quella protestante, con grandi docenti come Wolfhart Pannenberg – non funzionava. Andava bene per una cultura sviluppata, non per le situazioni di miseria. Una suora mi chiese come predicare la resurrezione di Gesù agli indios che rischiavano lo sterminio. Un prete voleva sapere da me come predicare il senso della croce di Gesù alle vittime delle multinazionali del legno, che disboscano la foresta per l’esportazione. Non avevo risposte, persino il mio corpo era bloccato: i muscoli del collo erano tesi e la lingua incollata, non riuscivo a parlare. Allora ho creato dei gruppi per discutere i testi biblici. Ascoltavo le loro riflessioni, prendevo appunti, e a fine dicembre era pronto il libro Gesù Cristo liberatore,4 che è stato pubblicato nel febbraio del 1971. Era il superamento della mia crisi personale. Nello stesso anno fu pubblicato in Perù Teologia della liberazione: prospettive di Gustavo Gutiérrez,5 un prete diocesano che si è poi fatto domenicano per sfuggire ai vescovi conservatori, considerato il padre fondatore di questa corrente. Intanto in Uruguay il gesuita Juan Luis Segundo lavorava al suo libro Liberazione della teologia,6 poi pubblicato nel 1976, che rilanciava molti spunti emersi nel 1968 durante la Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín, in Colombia. Il documento elaborato in quell’occasione era stato una vera novità in campo pastorale perché raccoglieva l’esperienza di vescovi che si confrontavano con la povertà, l’ingiustizia e la dittatura militare. Il Weltgeist, lo Spirito del mondo di Hegel e di Heidegger, ha suscitato le stesse intuizioni in persone diverse. Allora non sapevo nulla di Gutiérrez e di Segundo, ma i loro libri, insieme al mio, sono stati i pilastri della teoria della liberazione. Subito dopo la pubblicazione di Gesù Cristo liberatore ho dovuto

nascondermi: ero ricercato dalla polizia perché parole come «liberazione» erano proibite. Il mio avvocato, che aveva buoni rapporti con i militari, spiegò alle autorità che si trattava di un libro prettamente religioso, che non aveva niente a che vedere con la politica, e mostrò loro le citazioni degli autori tedeschi. Alla fine tolsero il veto. LZ Nella tua tesi parlavi già di teologia della liberazione? LB Ho terminato la tesi alla fine del 1968, l’ultimo capitolo parlava del contributo della Chiesa al processo di sviluppo, rivoluzione e liberazione, a partire dagli insegnamenti di Gesù. I miei docenti erano perplessi, sostenevano che era una tesi troppo ardita. Non auspicavo la rivolta armata, ma un coinvolgimento globale della Chiesa nei rapporti con il Cosmo, con la natura, con gli esseri umani. Il concetto di Regno di Dio lo esige, e anche a suo tempo Gesù è stato condannato come sovversivo perché ha cambiato il nostro modo di pensare e il nostro atteggiamento verso gli altri e verso Dio, chiamato Abbà (Padre). La condizione di povertà, di sottomissione e di miseria richiede comunque una forma di sovvertimento capace di cambiare le strutture sociali. Ha come meta finale la liberazione: si creano spazi sempre più aperti per arrivare a una vera libertà civile, politica, umana. LZ A quei tempi si parlava quindi anche di libertà in ambito sociale e politico? LB La cosiddetta teologia politica di Johann Baptist Metz aveva già messo in crisi la visione eurocentrica ed ecclesiocentrica. Lui è stato uno dei primi a valorizzare l’esperienza delle Chiese del Terzo mondo e delle comunità di base, nate negli anni Settanta in America latina e formate da gruppi di laici che si radunavano per riflettere sulla propria realtà sociale e religiosa alla luce della Parola di Dio. Jürgen Moltmann aveva posto l’accento sugli aspetti sociali del cristianesimo, non solo ai fini di un percorso di sviluppo individuale o ecclesiale, ma anche in chiave profetica: la sua «teologia della speranza» prefigurava uno spostamento dalla rivelazione all’azione e un’apertura rivoluzionaria al futuro. Noi abbiamo posto l’accento su un processo di liberazione il cui soggetto non sono i ricchi, non è la Chiesa, non sono le classi dominanti, ma gli oppressi stessi che prendono coscienza della loro situazione e si organizzano

in movimenti per realizzare un sogno attraverso determinate strategie politiche, culturali ed ecclesiali. È l’opzione per i poveri contro la loro povertà già affermata nel 1968 dai vescovi latinoamericani riuniti a Medellín. Abbiamo preferito usare il termine «liberazione» anziché «libertà» perché da noi l’oppressione era molto forte e la libertà era imprigionata. Il concetto da noi scelto implicava anche l’azione. Nei luoghi in cui i poveri hanno fame e sono condannati a morire prima del tempo, la forma di liberazione più urgente è quella politica ed economica. Le altre dimensioni però non vanno trascurate. In Europa ci sono forme di oppressione interiore come la solitudine, la disperazione e la mancanza di senso. Anche queste sono reali. Bisogna saperle affrontare, e forse noi non l’abbiamo fatto a sufficienza. LZ Leggendo le tue opere ho avuto l’impressione che, dopo una prima fase negli anni Sessanta e Settanta in cui la spinta al cambiamento sociale e politico era più forte, la dimensione psicologica abbia assunto nel tempo un ruolo sempre più importante. LB La teologia della liberazione ha assunto forme diverse in Cile, in Bolivia, in Argentina e in Brasile, e talvolta è addirittura sfociata nella violenza. Nelle mie opere ho sviluppato soprattutto la dimensione della spiritualità, perché mi sono accorto che per restare a contatto con i poveri occorre un profondo misticismo. Il sacrificio personale è enorme: ci si confronta con situazioni disumane e pericolose, si mangia male, ci si ammala, le pressioni sono spaventose, ed è impossibile perseverare senza un vero spirito di solidarietà. Non si tratta di fare per i poveri, ma insieme ai poveri, a partire dalla loro visione. Il rischio è reale: molti religiosi sono stati perseguitati, arrestati, torturati e uccisi, specialmente in Argentina e in Cile, perché vivevano nelle favelas, nelle «ville miseria», e questo fatto era già di per sé rivoluzionario per i regimi dittatoriali. A San Salvador monsignor Oscar Romero fu ucciso sull’altare nel marzo del 1980 perché si era schierato dalla parte dei poveri, in contrasto con i potenti locali. Io sono stato una volta in Argentina e sono scappato perché la polizia cercava l’autore di Gesù Cristo liberatore. Sul mio passaporto c’era il mio nome da laico, Genesio Darcí, perché Leonardo è quello che ho assunto quando mi sono fatto frate. Questo mi ha salvato. Ma il vescovo per

sicurezza mi ha accompagnato fino all’aereo per accertarsi che partissi. Era molto pericoloso. Se fossi stato catturato mi avrebbero torturato e forse anche ucciso. Per le mie opere ero ricercato sia in Argentina sia in Cile. LZ E tu andavi in giro in cerca di guai? LB Due volte all’anno, in Brasile o in Argentina, c’era un grande incontro dei teologi della liberazione con circa duecento partecipanti. Ero il coordinatore di un progetto editoriale in 53 volumi che intendeva descrivere tutta la teologia nella prospettiva della liberazione. Abbiamo organizzato molti incontri per definire il tema e le articolazioni principali, avevo bisogno di muovermi. Poi, quando il cardinale Ratzinger venne a conoscenza dell’iniziativa editoriale, bloccò la pubblicazione. I cardinali brasiliani Aloísio Lorscheider ed Evaristo Arns si erano rivolti direttamente al papa per protestare contro quell’atteggiamento di rifiuto della curia nei confronti della periferia della Chiesa. Arns usò un’espressione forte, disse che era una bestemmia contro lo Spirito Santo. Ratzinger ci concesse di pubblicare un volume all’anno, io mi opposi, ci sarebbe voluto troppo tempo. Abbiamo pubblicato 23 volumi, tradotti in diverse lingue, poi nel 1984 è arrivata la proibizione totale. Ci hanno detto che l’imprimatur per i testi in lingua spagnola doveva essere rilasciato dai vescovi della Spagna, che – a differenza di quelli dell’America latina – erano tutti conservatori. L’intento di Ratzinger era di bloccare la collana in tutte le sue edizioni internazionali perché temeva la diffusione dei libri dei teologi della liberazione. LZ Nella seconda metà degli anni Sessanta, prima che in America latina si instaurassero le dittature, si parlava molto di rivoluzione e di lotta armata, anche se pochi hanno seguito questa via. Sono rimasti un’eccezione personaggi come Ernesto Guevara e paesi come la Colombia, che ancor oggi è in parte controllata da forze rivoluzionarie. Non pensi che l’eccessiva impazienza abbia innescato una reazione da parte dei militari, delle élite e in buona parte anche delle classi medie, e reso più difficile il lavoro delle comunità di base? LB Bisogna distinguere tra i gruppi marxisti che avevano scelto la via della lotta armata e i cattolici che, pur essendo di sinistra, non avevano abbracciato il marxismo. Al massimo citavano Gramsci, che in America

latina era molto conosciuto perché aveva una visione positiva del cristianesimo e della Chiesa. Io stesso l’ho studiato. Il nostro riferimento era la non violenza di dom Hélder Câmara, uno dei precursori della teologia della liberazione. LZ Appoggiavate gli scioperi, per esempio, ma non la lotta armata. LB In Brasile questa era la nostra via, però i militari rappresentanti dell’élite conservatrice ci accusavano di essere marxisti. Chiunque volesse la trasformazione sociale era considerato marxista, mentre noi ci basavamo sul Vangelo e i profeti, che in infiniti passaggi già predicavano la giustizia migliaia di anni prima di Marx. Il contrario della povertà non è la ricchezza, ma la giustizia. La povertà è una forma di oppressione, e contribuire a essa è un peccato. Questa era la posizione della Chiesa latinoamericana e dei gruppi di base, che si battevano per il rispetto dei diritti umani fondamentali. Il primo è il diritto alla vita, il secondo ai mezzi di sussistenza, cioè il cibo, il lavoro, la casa e la salute. A differenza della visione generale, che pone tutti i diritti sullo stesso piano, per noi esistevano delle priorità, perché vivevamo in situazioni estreme. Cercavamo di suscitare nei poveri la consapevolezza della propria oppressione. Il teologo della liberazione è radicato nel mondo, vede l’ingiustizia e la miseria e reagisce con l’indignazione cristiana, che in certi casi è sacrosanta. Io vedevo nelle favelas i bambini abbandonati che morivano di fame. Mangiavano insieme ai cani, dividendo con loro un pezzetto di pane. La teologia della liberazione punta alla conquista della dignità e dei diritti umani. Io personalmente mi ero molto impegnato: in Brasile coordinavo insieme ad altri più di 150 comunità di base, una volta all’anno c’era un grande incontro a cui partecipavano oltre mille rappresentanti da tutto il Brasile e anche molti vescovi e cardinali. I militari li temevano, sapevano che dipendevano da Roma e che ogni problema con la Chiesa ufficiale avrebbe avuto risonanza mondiale. Ogni tre anni organizzavamo (e continuiamo a farlo) incontri ancora più grandi, con tremila rappresentanti delle comunità di base, moltissimi sacerdoti e suore, e una sessantina vescovi. Il passo dell’azione concreta è il più insidioso, perché la Chiesa ha sempre agito in modo assistenzialistico e paternalistico, senza rendere i poveri

indipendenti. Li vede con gli occhi dei ricchi e li considera per ciò che non hanno. Invece, quando ci si confronta davvero con loro, ci si rende conto che hanno fede, solidarietà, valori, e una grande capacità di resistenza. Se muore una vedova con cinque figli, tutti si mobilitano per prendersi cura dei bambini. Hanno una sorta di tenerezza per la vita. In cinque favelas di Rio, dove vivono più di 120.000 persone, abbiamo fatto un sondaggio per scoprire qual era il diritto meno rispettato. Il 70 per cento ha risposto: la possibilità di avere tutti i figli che desideriamo. La teologia della liberazione ha abbandonato un certo tipo di trascendenza per ascoltare il grido degli oppressi, come Dio ha ascoltato il grido degli ebrei ridotti in schiavitù in Egitto. Ha fatto un’opzione per i poveri contro la povertà, e contro la stessa tradizione della Chiesa, che la esalta e la magnifica come dimensione spirituale nella vita religiosa. Per noi invece è il frutto di una società che esclude, che sfrutta la forza lavoro, che toglie dignità agli esseri umani. Il primo passo di liberazione è recuperare la dignità, anche in senso corporeo. Secondo il Vangelo, i poveri sono i primi destinatari del Regno di Dio, infatti Gesù li ha chiamati beati. Quando san Paolo è andato a Gerusalemme per ottenere il riconoscimento dagli apostoli, gli hanno chiesto come avesse trattato i poveri, e lui ha risposto: «Da subito mi sono occupato di loro». I poveri rappresentano l’essenza del Vangelo, che è rivolto in primo luogo a loro, non ai ricchi o ai farisei, ed è un messaggio di giustizia e di dignità. A partire dai poveri, il Vangelo appare veramente come una buona novella. In America latina ci siamo ispirati all’idea di liberazione di Paulo Freire piuttosto che al concetto di rivoluzione perché sapevamo che la rivoluzione suscita immediatamente la repressione. Per noi la libertà si costruisce attraverso la consapevolezza e l’impegno nei movimenti popolari, questa è stata la nostra scoperta, la nostra alternativa alla teologia. I libri La pedagogia degli oppressi7 e L’educazione come pratica della libertà8 di Freire ci hanno indicato una via di riscatto più umana, più democratica. Freire è considerato uno dei fondatori della teoria e della teologia della liberazione. Ha lavorato sempre con la Chiesa, è stato un collaboratore di «Concilium». È stato un cristiano molto impegnato, militante, perseguitato dal governo dei militari, al punto che è dovuto scappare dal Brasile. Per Freire il popolo è il soggetto della propria liberazione. La Chiesa può porsi soltanto come alleata, creando spazi, possibilità di incontro e stimoli

per una presa di coscienza. I veri teologi della liberazione sono i poveri stessi che si sono impadroniti del lessico teologico e riflettono sulla propria esperienza. Non scrivono libri, ma piccoli testi che vengono discussi nelle comunità di base. È da questi gruppi, non dalle facoltà di Teologia, che scaturiscono le visioni ecclesiastiche più innovative. I movimenti dei senzaterra, dei senzatetto, dei bambini di strada, delle prostitute e delle donne rappresentano una grande forza sociale e sono nati quasi tutti da questa Chiesa della liberazione. Era l’unico spazio di libertà, perché tutto il resto era proibito e la repressione era molto dura. Molti sociologi marxisti dicevano che se Marx avesse potuto vedere le nostre comunità non avrebbe affermato che la religione è l’oppio dei popoli: da noi la fede era resistenza, mobilitazione, liberazione e verità. Molti intellettuali di sinistra sono diventati cristiani, attratti da una visione della Chiesa che era quella di dom Hélder Câmara, non quella del papa. Distinguevano tra la Chiesa istituzionale e quella della liberazione, che riunisce cardinali, vescovi, sacerdoti, laici e teologi che hanno fatto l’opzione per i poveri e per la povertà: hanno un piede nella favela e un altro nell’insegnamento della teologia. Non può esistere un teologo della liberazione che non abbia scelto concretamente di stare al fianco dei poveri. Certo, ciò comporta dei rischi. Ricordo che Arturo Paoli, missionario in Argentina con i Piccoli fratelli di Charles de Foucauld e autore del libro Dialogo della liberazione (1969),9 si era scontrato con il potere politico ed economico per aver aiutato i boscaioli che lavoravano per una compagnia inglese del legname a organizzarsi in una cooperativa. È scampato alla morte per miracolo, altri suoi confratelli sono finiti fra i desaparecidos. Io stesso sono stato più volte arrestato dalla polizia. LZ Ti hanno tenuto dentro molto tempo? LB Quando scoprivano chi ero volevano subito liberarmi, ma io non accettavo se non rilasciavano anche tutti gli altri. Ero un pesce grosso, avevo intrecciato rapporti internazionali tramite la rivista «Concilium», conoscevo Küng e alti prelati in Europa che erano in grado di fare pressione sul governo e sull’opinione pubblica. Era una forma di protezione, anche se io non l’accettavo. Ogni volta che uscivo o rientravo in Brasile mi sequestravano il passaporto per qualche ora e mi facevano aspettare.

Temevo sempre che mi arrestassero. Scattavano molte fotografie, a me e alle pagine del passaporto, e mi ripetevano di stare attento, se non volevo fare la fine dei domenicani. LZ Domenicani brasiliani? LB Sì, frate Betto (Carlos Alberto Libânio Christo), frate Ivo (Ivo Lesbaupin) e frate Tito (Tito de Alencar Lima), che sono stati barbaramente torturati. Avevano una forte coscienza politica, denunciavano le ingiustizie alla radio e sui giornali. LZ In quegli anni buona parte dell’America latina era soggetta a regimi militari. Voi, che rappresentavate la teologia del cattolicesimo progressista, eravate in contatto con esponenti rivoluzionari? LB Abbiamo avuto incontri interessanti con marxisti come il sociologo Fernando Henrique Cardoso, che nel 1995 è diventato presidente del Brasile, e l’antropologo Darcy Ribeiro. Non erano credenti, ma condividevano il nostro desiderio di resistenza e di cambiamento, e vedevano nella teologia un grande alleato. LZ Qual era il vostro rapporto con la lotta armata? Su questo punto c’è stato un grande dibattito. Vi accusavano di appoggiare i guerriglieri. LB Il gruppo dei domenicani, che era il più critico, dialogava con gli esponenti della lotta armata. Frate Betto, frate Ivo e frate Tito erano in contatto con molti oppositori del regime. Frate Betto, per esempio, si era trasferito da San Paolo a Porto Alegre e li aiutava a passare in Uruguay. Per loro l’uso della forza era legittimo perché, dicevano, la prima violenza è quella dello Stato militare. A questo movimento aderivano anche molti cattolici di sinistra che venivano dall’università. Dilma Rousseff, l’attuale presidente del Brasile, è stata in prigione con frate Betto. Parecchi di loro sono stati incarcerati, torturati e costretti ad andare in esilio. Frate Tito è morto per le conseguenze psicologiche delle torture. Era stato in prigione con frate Betto, nel 1969, e in seguito si era rifugiato a Parigi, ma continuava a vedere dappertutto Sérgio Fleury, il suo aguzzino della polizia politica, che aveva infierito su di lui per mesi con scosse elettriche, legnate e staffilate. Lo vestiva di paramenti e gli faceva aprire la bocca per

ricevere «l’ostia consacrata»: scariche elettriche. Frate Tito si è impiccato in Francia il 10 agosto 1974. Ci ha lasciato in eredità queste parole: «È meglio morire che perdere la vita». Non riusciva a liberarsi del suo torturatore, era interiormente posseduto dalla sua presenza. Raniero La Valle ha scritto la sua storia nel libro Fuori dal campo (1978),10 e il regista e scrittore brasiliano Helvécio Ratton ha raccontato di lui e dei suoi confratelli nel film Batismo de sangue (Battesimo di sangue, 2006).11 LZ Però nel complesso la repressione in Brasile è stata molto meno dura che in altri paesi dell’America latina. LB In Argentina è stata più selvaggia e ha fatto più vittime, ma i torturatori brasiliani formati alla Escuela de las Américas, il centro di addestramento statunitense creato negli anni della Guerra fredda per contrastare l’ascesa dei partiti di sinistra in America latina, sono stati impiegati in Cile da Pinochet subito dopo il colpo di Stato del 1973. Il processo che si è aperto a Buenos Aires nel marzo del 2013 ha cominciato a fare luce sulla cosiddetta Operazione Condor, coordinata dagli Stati Uniti dagli anni Settanta fino all’inizio degli anni Ottanta, nel corso della quale migliaia di sudamericani furono incarcerati, torturati, assassinati o scomparvero nel nulla. I primi dati emersero nel 1992, quando un giudice paraguaiano, José Augustín Fernández, scoprì i cosiddetti «archivi del terrore» con i documenti relativi alle vittime delle forze armate e dei servizi segreti di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile. Era un piano che coinvolgeva tutta l’America latina. In Argentina la dittatura militare è durata dal 1966 al 1973, in Brasile dal 1964 al 1984, e in Cile dal 1973 al 1989, quando si tennero le prime elezioni democratiche. 2 Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia

1969. 3 Hans Küng, Infallibile? Una domanda, Anteo, Bologna 1970. 4 Leonardo Boff, Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1973. 5 Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione: prospettive, Queriniana, Brescia 1972. 6 Juan Luis Segundo, Liberazione della teologia, Queriniana, Brescia 1976. 7 Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1972. 8 Paulo Freire, L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, Milano 1973. 9 Arturo Paoli, Dialogo della liberazione, Morcelliana, Brescia 1969. Dello stesso autore ricordiamo gli ultimi due libri, La pazienza del nulla (Chiarelettere, Milano 2012) e Cent’anni di fraternità (Chiarelettere, Milano 2013).

10 Raniero La Valle, Fuori dal campo, Mondadori, Milano 1978. 11 Si rimanda anche al libro di frate Betto, Battesimo di sangue. La lotta clandestina dei frati

domenicani contro la dittatura militare brasiliana, Sperling & Kupfer, Milano 2000.

La condanna di Ratzinger e Wojtyla

Luigi Zoja Nel 1981, dopo la pubblicazione del tuo libro Chiesa: carisma e potere,12 sono cominciati i guai con il Vaticano. Ratzinger, diventato nel frattempo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ti ha convocato a Roma il 7 settembre 1984 per un colloquio chiarificatore su «alcuni problemi sorti dalla lettura del libro». I punti controversi riguardavano essenzialmente la struttura della Chiesa, la concezione del dogma e l’esercizio del potere sacro. Nel marzo del 1985 la Congregazione rende noto che le idee espresse nel volume «sono tali da mettere in pericolo la sana dottrina della fede». La decisione si colloca tra l’uscita di due documenti – Libertatis Nuntius (1984) e Libertatis Conscientia (1986) – con i quali la Chiesa di Roma prende ufficialmente posizione contro la teologia della liberazione, denunciandone il legame con il marxismo. Un inasprimento dovuto all’ascesa al soglio pontificio di Karol Wojtyla? Leonardo Boff Ratzinger era molto amico di Wojtyla, che lo invitava spesso a tenere conferenze in Polonia. Quando Wojtyla è diventato papa, lo ha fatto subito cardinale e alla fine del 1981 lo ha chiamato a Roma per assumere la presidenza della Congregazione per la dottrina della fede. In quell’occasione gli avevo scritto una lettera per esprimergli la mia gioia, perché anni prima, in Germania, lo avevo apprezzato per le sue idee progressiste. Ero davvero contento che un grande teologo come lui fosse andato a occupare quel posto. Qualche tempo dopo mi ha scritto per dirmi che c’era un processo pendente contro Chiesa: carisma e potere. Allora ho pensato: «È cambiato totalmente». La lettera aveva un tono imperioso: Ratzinger voleva che andassi a Roma a difendere il mio libro, che era stato tradotto in svariate lingue. Gli ho chiesto se era un incontro informale o ufficiale, e lui: «No, è un processo dottrinale», e mi ha mandato il testo della convocazione. Dovevo rispondere punto per punto per iscritto e poi preparare una difesa orale. L’incontro a Roma era fissato per il 5 settembre 1984, ma quel giorno io avevo già un impegno con l’associazione delle prostitute, che avevano

ricevuto l’appoggio della Conferenza episcopale brasiliana in quanto vittime dello sfruttamento. Ho scritto a Ratzinger che non potevo, lui mi ha mandato un telegramma per dirmi che la Chiesa doveva venire prima di tutto, e io ho risposto che, secondo le parole di Gesù, le prostitute hanno la precedenza nel Regno dei cieli. Allora abbiamo spostato la data dell’incontro al 7 settembre. La convocazione non era casuale: una settimana prima del «dialogo» (lo chiamano così, ma è un processo) Ratzinger aveva pubblicato il documento Libertatis Nuntius contro la teologia della liberazione. La condanna del mio libro era un pretesto per colpire la Conferenza episcopale brasiliana, che aveva preso posizione sulla riforma agraria e sulle questioni sociali. Il presidente era il cardinale Aloísio Lorscheider, e io ero il principale redattore di quei documenti. Lorscheider, che era di origine tedesca, ha commentato: «Er schlägt den Sack und meint den Esel», colpisce il sacco ma pensa all’asino che lo porta. Il sacco ero io, l’asino la Conferenza episcopale brasiliana. Lorscheider ha voluto accompagnarmi a Roma con il cardinale Evaristo Arns, allora arcivescovo di San Paolo, che era stato il mio docente di Patrologia alla facoltà dei francescani a Petrópolis. LZ Quindi c’era molta unità fra i vescovi sui problemi sociali... LB Molta. Facevano fronte comune contro la dittatura militare e collaboravano con i teologi. Ho assistito a una discussione durissima fra i due cardinali brasiliani e Ratzinger, il quale era contrariato nel vederli al fianco di un teologo sospettato di relativismo dottrinale. Li chiamò Castore e Polluce, i due gemelli della mitologia greca, e loro replicarono: «Noi invece siamo cristiani, come Cosimo e Damiano, i gemelli martiri venerati dalla Chiesa. Siamo qui per testimoniare che la teologia della liberazione è un bene per le comunità dell’America latina. Se ci sono degli errori li correggeremo, però vogliamo stare con il nostro teologo, perché non si tratta solo di Boff, ma di un movimento che comprende moltissime comunità di base, circoli biblici e iniziative pastorali e sociali». Ratzinger disse che una delle sue funzioni come prefetto della Congregazione era quella di interrogare, e non voleva che i due cardinali fossero presenti perché avrebbero preso le mie difese. Allora Arns minacciò che la settimana successiva, quando sarebbe andato in Germania, avrebbe

dichiarato che nella Chiesa non c’era libertà, che la teologia della liberazione era perseguitata. Alla fine sono andati tutti da Giovanni Paolo II, che prese una decisione prettamente cattolica: metà del processo si sarebbe svolto fra me e Ratzinger, l’altra metà con i due cardinali. A un certo punto eravamo tre contro uno, il povero Ratzinger tremava perché Arns gli disse schiettamente: «Signor cardinale, questo documento non rappresenta la teologia della liberazione che noi conosciamo. Avete ascoltato soltanto la versione della borghesia conservatrice e dei militari dell’America latina, che ci accusano di marxismo». Ratzinger rispose: «Abbiamo consultato molti vescovi che erano contrari, siamo tenuti a fornire loro una risposta», e Arns replicò: «Sono vescovi che non hanno nessun rapporto con le comunità e nessun senso di giustizia sociale. Per noi è importante schierarci con i poveri contro la povertà e a favore della giustizia». Alla fine mi chiesero di preparare un altro documento insieme con mio fratello Clodovis Boff, anche lui teologo, che era a Roma. Ci abbiamo lavorato due giorni, l’abbiamo consegnato alla Congregazione, ma non è stato minimamente considerato. LZ Siete stati accusati di essere marxisti. LB Siamo stati accusati di utilizzare la teologia della liberazione come un cavallo di Troia per diffondere il marxismo fra il popolo e scardinare la fede. Giovanni Paolo II diceva sempre: «Io il marxismo lo conosco». In quanto polacco era profondamente anticomunista. Per difendere la fede del popolo finì per condannare i teologi. L’episcopato peruviano fu invitato a isolare Gustavo Gutiérrez, autore del libro Teologia della liberazione: prospettive, per la sua «concezione marxista della storia», io fui condannato a un anno di silenzio per le mie tesi ecclesiologiche, considerate insostenibili e pericolose per la fede. Per rafforzare la sua svolta conservatrice, Wojtyla favorì anche in America latina l’ascesa dell’Opus Dei, trasformata nel 1982 in prelatura personale, cioè svincolata dal controllo dei vescovi. Era un progetto in linea con le aspirazioni degli Stati Uniti, che appoggiavano i regimi di destra in funzione anticomunista. LZ Ma voi vi ispiravate alla dottrina sociale del marxismo? LB Nella tradizione della Chiesa la povertà è sempre stata presentata in

chiave religiosa, ma per noi era evidente che le persone si erano impoverite a causa di un processo sociale ingiusto, di sfruttamento e di oppressione, dal quale occorreva liberarsi. Non c’è niente di ideologico in questo, niente di marxista. Era la posizione della Conferenza episcopale latinoamericana che nel 1968 aveva redatto il documento di Medellín, schierandosi a favore dei gruppi diseredati e di una Chiesa popolare e socialmente attiva. La religione può essere usata per addomesticare il popolo, per mantenerlo nella rassegnazione, oppure per mobilitarlo nella prospettiva della liberazione. Bisogna sempre ricordare che siamo eredi di uno che è stato diffamato, imprigionato, torturato e condannato a morire in croce: Gesù di Nazaret. LZ Dopo la condanna del tuo libro, nel 1985, sei stato costretto a osservare un anno di «silenzio ossequioso». Hai accettato, sostenendo che preferivi camminare con la Chiesa dei poveri e delle comunità ecclesiali di base che da solo con la tua teologia. Sei stato destituito dalla «Rivista ecclesiastica brasiliana» e allontanato dalla direzione dell’editrice Vozes. Ti hanno obbligato a sottomettere ogni tuo scritto alla censura dell’ordine francescano e del vescovo a cui spetta concedere l’imprimatur. Nonostante questo, non ho mai sentito nelle tue parole alcuna avversione per Ratzinger, che è stato all’origine di tutti i tuoi guai. LB È vero, perché è una persona finissima, elegante, molto gentile. Non alza mai la voce. Nel settembre del 1982, dopo un congresso di diritto canonico tenuto a Friburgo in Svizzera, a cui ero invitato, tutti siamo andati a Roma per un’udienza speciale del papa. Mentre ero in fila per salutarlo, Ratzinger è venuto a prendermi e mi ha presentato direttamente a Wojtyla: «Ecco un giovane teologo brasiliano, una speranza della Chiesa del Brasile». Il papa mi ha chiesto: «Tu sei padre Boff? Estou lendo um livro de você devagar devagar» (sto leggendo un suo libro piano piano). Wojtyla parlava un poco di portoghese e lo stava studiando perché preparava il suo viaggio in Brasile. Ha detto al cardinale Arns che aveva letto parecchi dei miei libri. E ha aggiunto: «Boff non mi ha mai deluso, in lui trovo sempre un teologo devoto e spirituale». Quando ha visto una foto della mia famiglia, ha commentato: «Undici figli! Questi hanno osservato l’Humanae vitae», riferendosi all’enciclica di Paolo VI che aveva condannato il controllo delle nascite. E mi ha invitato ad andarlo a trovare in privato a Castel Gandolfo,

ma poi si è ammalato e io sono ripartito. LZ È difficile conciliare quest’immagine di cordialità personale con la durezza disciplinare di Ratzinger e di Wojtyla. LB La mia esperienza mi ha portato a concludere che il potere dottrinale è crudele e senza pietà. Non dimentica niente, non perdona niente, esige tutto. E per raggiungere il suo fine – l’inquadramento dell’intelligenza teologica – si prende il tempo necessario e sceglie i mezzi opportuni. L’aspetto divertente è che, nel periodo in cui ero tenuto a rispettare il «silenzio ossequioso», Fidel Castro mi invitò a passare quindici giorni con lui. Chiamò davanti a me il nunzio apostolico che rappresenta il papa a Cuba: «Boff è qui, sarà disciplinato, non rilascerà alcuna intervista. Io controllerò che rimanga in silenzio mentre è con me». LZ Insomma, una star del marxismo ha fatto il guardiano per conto di Ratzinger... LB Nelle due settimane che abbiamo trascorso insieme mi ha portato in giro per tutta l’isola con il suo aereo e in barca. Abbiamo parlato a lungo giorno e notte e alla fine abbiamo recitato insieme il Padre nostro. Fidel Castro ha studiato dai gesuiti nell’esclusivo collegio nella città di Santiago, conosce molto bene la Bibbia e i riti della Chiesa cattolica. In Nicaragua aveva avviato un dialogo con i gruppi cristiani di orientamento rivoluzionario e si era interessato alla teologia della liberazione. Ha letto praticamente tutti i nostri libri, li ha sottolineati e li ha discussi con noi. Sostiene che in America latina il cristianesimo è la forza del popolo e che nessuna rivoluzione può trionfare senza il suo appoggio. Quando è venuto in Brasile, nel marzo del 1990, ha voluto visitare le comunità di base. Abbiamo fatto un incontro a cui hanno partecipato più di duemila persone. Frate Betto, il domenicano che era stato imprigionato in Brasile dalla dittatura militare, è stato all’Avana parecchie volte negli anni Ottanta e ha realizzato una serie di interviste poi raccolte nel libro Fidel y la religión (1985).13 A Cuba il libro ha avuto una diffusione enorme: un milione di copie, lo hanno letto tutti. E Fidel ha voluto dedicarlo a me. Castro si è reso conto che il marxismo duro, di stampo sovietico, era ormai sorpassato e ha invitato frate Betto e me a confrontarci con lui sulla

dimensione religiosa. I testi di scuola usati a Cuba sostenevano che Gesù era un mito, e noi abbiamo detto a Castro che Cuba era uno Stato confessionale, perché l’ateismo era diventato la religione di Stato. Si è arrabbiato, poi però ha cominciato a fare qualche concessione. Nel 1998 Giovanni Paolo II ha visitato Cuba e nel maggio del 2010 si è tenuto lo storico incontro dei vescovi con Raúl Castro. Dopo la visita di Giovanni Paolo II, Fidel mi ha detto: «È stato un dialogo fantastico. C’era una grande sintonia». E io ho pensato: «È ovvio, sono due dittatori, l’uno religioso, l’altro politico, si intendono bene». Dopo aver visitato Cuba, il papa gli ha detto: «Qui manca la libertà religiosa, ma viene applicata la dottrina sociale della Chiesa. C’è uguaglianza e dignità per i poveri». Fidel Castro me l’ha ripetuto molte volte, ne era molto orgoglioso. LZ A causa delle pressioni di Wojtyla, nel 1992 hai lasciato l’ordine francescano. Come sei arrivato a quella decisione? LB Tra il 1991 e il 1992 il cerchio si è chiuso sempre di più. Non potevo scrivere sulla rivista «Vozes» né pubblicare nulla senza autorizzazione. Non potevo insegnare teologia. Wojtyla mi proibì di partecipare al Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente che si sarebbe tenuta a Rio de Janeiro nel giugno del 1992. Da allora ho lasciato l’abito, ma continuo a sentirmi francescano: vivo con la mia compagna Marcia e sei figli adottivi in una riserva ecologica a Petrópolis; lavoro per la salvaguardia del Creato e i diritti umani al fianco degli attivisti del movimento no global e di Sem Terra. E non ho mai smesso di stare accanto ai poveri. 12 Leonardo Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1983. 13 Fidel Castro, Fidel y la religión: conversaciones con Frei Betto, Oficina de publicaciones del

Consejo de Estado, La Habana 1985.

Opzione Terra, la nuova frontiera della teologia

Luigi Zoja Uno dei tuoi libri si intitola La Opción-Tierra (2008)14 e fin dal sottotitolo, «la soluzione per la Terra non cade dal cielo», è un invito a una trasformazione della mente, del cuore, dei modelli di produzione e di consumo per costruire un futuro di speranza per l’umanità. In che modo questo tuo impegno ecologista si è innestato su quello teologico? Leonardo Boff Nel 1996 era uscito Grido della Terra, grido dei poveri,15 che rappresenta un primo e importante tentativo di ripensare la teologia della liberazione nell’ambito della questione ecologica. Mi ero accorto che la logica del sistema che opprime le persone, le classi sociali e la natura è la stessa che opprime la Terra. Dunque la teologia della liberazione doveva abbracciare una prospettiva più ampia. Nel libro La Opción-Tierra appare chiaro che in America latina il vero pericolo non è mai stato il marxismo, ma il sistema capitalistico, che è selvaggio e sregolato. Come teologi della liberazione ci siamo accorti che anche la Terra è sfruttata, così come lo sono le persone, i ceti più poveri e i paesi del Terzo mondo. Negli ultimi decenni si è affermata una tendenza globale all’accaparramento delle risorse del pianeta, che vengono rapidamente trasformate in merce. Si sta realizzando ciò che aveva previsto Karl Polanyi nel 1944 con il suo libro La grande trasformazione:16 una società in cui tutto è mercato, caratterizzata da una concorrenza spietata, da un eccesso di competizione e dall’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi. Oggi nel mondo 257 famiglie hanno un reddito equivalente a 48 paesi dove vivono 600 milioni di persone. I nuovi ricchi sono speculatori, operatori finanziari, concessionari di risorse e materie prime, banchieri e manager che moltiplicano i loro profitti pur non inventando o producendo nulla. All’estremo opposto ci sono coloro che sono dominati da questa logica, e l’America latina è un continente che sta subendo una nuova colonizzazione. La tecnologia è appannaggio dell’America del Nord e dell’Europa, mentre i paesi del Sud del mondo sono condannati a essere esportatori di materie prime e prodotti agricoli.

Poiché non hanno le tecnologie e il know how per valorizzarli, li cedono a prezzi molto bassi. È un modo per replicare a livello internazionale la divisione del lavoro e per mantenere queste nazioni sottomesse e dipendenti dal grande processo di globalizzazione economico-finanziaria. Per noi è importante rifiutare la logica del neocolonialismo. Come ex colonie abbiamo conquistato l’indipendenza politica, ma sul piano economico siamo ancora in un ruolo di sudditanza. Il capitalismo mondiale investe nei nostri paesi e li depreda: il 90 per cento della soia, degli agrumi e del caffè prodotti in Brasile, per esempio, sono destinati al mercato cinese, e lo stesso vale per le materie prime come il carbone e i minerali. I nostri governi accettano i prezzi imposti perché hanno bisogno di dollari per pagare il debito estero. Ciò significa che non sono liberi di scegliere: sono costretti a seguire le direttive del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e delle multinazionali. I paesi devono sottomettersi, per scongiurare il rischio di un calo delle esportazioni e di attacchi speculativi sulla moneta nazionale. Il governo Lula, per esempio, ha realizzato un vasto programma di inclusione sociale, ma è dovuto scendere a patti con la macroeconomia liberista, al punto che oggi i ricchi guadagnano più di prima. Il Brasile paga ogni anno alle banche 120 miliardi di dollari di interessi sul debito, mentre ai progetti sociali che hanno portato benefici a 40 milioni di persone sono stati destinati soltanto 50 miliardi. Il paese è ostaggio dei grandi capitali mondiali, anche se una parte della popolazione è uscita dalla povertà. Eppure i paesi emergenti come il Brasile e l’India potrebbero rendersi autonomi grazie alla loro capacità di concorrere sul mercato. C’è poi un problema più generale, legato all’espansione del capitalismo e alla disponibilità di risorse. La Terra non può sopportare uno sviluppo infinito. Il sistema capitalistico cerca di preservare le sue fonti di approvvigionamento, in primo luogo il petrolio, con lo sfruttamento e la violenza. L’Ecuador vuole cedere tre milioni di ettari di foresta pluviale (circa un decimo del territorio nazionale) alle compagnie petrolifere, senza curarsi delle popolazioni indigene che potrebbero vedere distrutto il loro ambiente. La Cina ha comprato o affittato a lungo termine immensi appezzamenti in Africa per produrre cibo destinato al mercato asiatico. Il Kuwait punta a controllare intere provincie fertili della Cambogia, l’Arabia Saudita ha concluso accordi con paesi come l’Etiopia, che non riesce a

sfamare la sua popolazione, per garantirsi l’approvvigionamento di derrate alimentari. Dal Brasile e da molti paesi dell’Africa partono alla volta della Cina navi cariche di minerali rari, fondamentali per la produzione di smartphone e pannelli solari. L’America latina, e in particolare il Brasile, è la più grande riserva mondiale di acqua potabile, la risorsa che permette la vita del sistema Terra. Per controllarla le aziende multinazionali l’hanno mercificata, così come hanno fatto con altri beni sacri come la terra, i semi e persino gli organi del corpo umano. Il capitalismo trasforma tutto in merce. Credo che se Marx fosse vivo oggi si suiciderebbe. In Brasile c’è chi vende un rene o un occhio. Siamo minacciati da un sistema perverso che ha sorpassato ogni limite. È un sistema di morte, perché ruota intorno al profitto e sacrifica la vita per garantire l’accumulazione. Negli ultimi anni la teologia della liberazione ha cominciato a occuparsi della vita in tutte le sue forme, perché l’individuo non può vivere da solo: è parte di un sistema più grande, di una rete che garantisce le basi fisiche, chimiche e biologiche che rendono possibile l’esistenza su questo pianeta. Il capitalismo mondiale le sta distruggendo, preparando l’avvento di una catastrofe ecologica mondiale. LZ Rispetto alle fasi iniziali della teologia della liberazione, in America latina la povertà si è ridotta ed è cresciuto il ceto medio. A me pare che oggi il problema non sia più (o soltanto) la miseria materiale, ma la mancanza di senso critico. Tutti si trasformano docilmente in consumatori. Il problema dunque è più psicologico e educativo che strettamente economico. Una volta si ragionava in termini di destra e sinistra. Si proponevano vie e si formulavano soluzioni, come aumentare la produzione o ridistribuire la ricchezza in modo più equo. Oggi occorre soprattutto un cambiamento interiore. Tu forse lo definiresti spirituale, io psicologico, ma non c’è molta differenza. LB Ci troviamo di fronte a un insieme di sogni, valori, utopie e modi di abitare il mondo sviluppatosi in Occidente negli ultimi quattro secoli e diventato globale soltanto di recente. Questo paradigma, frutto di un processo storico, ci ha consentito di andare sulla Luna, di creare gli antibiotici per debellare molte malattie, ma anche di realizzare macchine di

morte capaci di distruggere la vita: armi chimiche e nucleari, sistemi di produzione e di consumo che intaccano in modo irreversibile le risorse e gli equilibri naturali. Come scriveva Eric Hobsbawm alla fine del suo libro Il secolo breve (1994),17 i valori e i principi che hanno plasmato la cultura occidentale non sono più in grado di disegnare il futuro. O cambiamo o moriremo. L’umanità deve affrontare scelte decisive per la sua sopravvivenza e si tratta di un atto politico perché le forze generative del pianeta non riescono più a reggere il ritmo dello sviluppo globale. La Terra è malata perché l’essere umano è malato. Siamo interdipendenti, come ha intuito lo scienziato inglese James Lovelock formulando l’ipotesi Gaia, che concepisce la Terra come un sistema in cui gli organismi viventi e il mondo inorganico si organizzano e si autoregolano per mantenere il ciclo della vita. Alla fine degli anni Sessanta, l’epoca delle prime esplorazioni dello spazio, Lovelock, ricercatore alla Nasa, aveva il compito di studiare i processi fisici e chimici nei pianeti del sistema solare per cercare di individuare possibili segni di vita. La sua ipotesi è poi diventata una teoria scientifica. Oggi sappiamo che la Terra è un superorganismo vivo, che l’essere umano è un tassello della sua evoluzione. Non a caso, la parola «uomo» viene da humus, terra fertile, e Adamo da adamah, che in aramaico significa «terra arabile, buona per coltivare». È una visione molto diversa da quella di Cartesio e di Newton, che concepiscono la Terra come un’entità separata da controllare e sfruttare. Da questo errore di fondo è scaturita la logica del capitalismo con la sua vocazione predatoria. Oggi, per scongiurare la catastrofe ecologica, occorre instaurare un rapporto diverso con la Terra, basato non sul dominio ma sul rispetto. I prossimi decenni saranno decisivi per il futuro della vita su questo pianeta. Non ci sarà alcun futuro se l’umanità non acquisisce la consapevolezza di far parte di un sistema in cui tutti gli organismi sono interdipendenti e collaborano insieme per la sopravvivenza. Werner Heisenberg, uno dei padri della meccanica quantistica, ripeteva sempre che tutto è relazione. L’Universo non è formato dalla somma delle sue entità, ma dalla rete di connessioni che lo mantengono in equilibrio. Al centro dei nostri interessi non deve esserci il profitto, ma la vita. Se non la preserviamo, tutti gli altri progetti andranno in fumo. Da qui l’importanza di un’ecoteologia della liberazione che promuova l’emergere di questa

consapevolezza. Purtroppo i mezzi di comunicazione sono poco sensibili al tema della catastrofe collettiva. I dibattiti sui danni del capitalismo che si sono tenuti a partire dal 2001 nelle diverse edizioni del World Social Forum hanno avuto scarsa risonanza, ma io spero che abbiano gettato i semi per la nascita di un’alternativa alla globalizzazione. La Terra deve tornare a essere la casa comune non solo dell’umanità, ma di tutti gli esseri viventi. Dal punto di vista politico auspico l’avvento di una democrazia sociocosmica, che riconosca il diritto di cittadinanza agli alberi, ai paesaggi, all’acqua e alle montagne. Jung aveva già intuito che il nostro modo di sfruttare la Terra può causare una crisi globale e che il cambiamento può scaturire soltanto da una relazione profonda con ciò che circonda il nostro Io. LZ Jung sostiene che è impossibile comprendere un problema osservandolo da un solo punto di vista. Tu ti appelli allo stesso principio quando affermi che nell’analisi dei problemi dell’ambiente non ci si può limitare a un solo aspetto, per esempio all’esaurimento delle risorse o all’estinzione di una specie. Il rispetto per la Terra come sistema vitale unitario è un archetipo da riattivare e appartiene alla dimensione del sacro: in certe culture «primitive» ci si preoccupa di chiedere scusa alla Terra prima di usare l’aratro, perché è come piantare un coltello nella pancia della propria madre. Simili riti sono espressione diretta di atteggiamenti psicologici archetipici: bisogni interiori che esistevano da sempre e mantenevano sia i rapporti sociali sia quelli con l’ambiente in un equilibrio immutabile. Naturalmente la produzione non aumentava, ma forse tutti avevano il necessario, nell’alimentazione come negli affetti. Le cose sono cambiate sempre più vertiginosamente con lo sviluppo tecnico ed economico, con il capitalismo e il libero mercato globale. Comunque direi anch’io che, nella definizione di un’ecoteologia per il nostro tempo, ti hanno influenzato, più che Marx, i pensatori latinoamericani come Freire e la psicoanalisi di Jung. LB Per me sono stati importanti anche gli studi di Erich Neumann sulla divinità femminile primordiale, raccolti nel libro La grande madre (1955),18 che segnala il ricorrere di quell’archetipo nei miti, nelle fiabe, nelle credenze religiose e nei reperti archeologici. Presso i popoli andini è ancora vivo il culto della Pacha Mama, la dea della terra e della fertilità che

fornisce il necessario per vivere. Si lavora soltanto quando occorre, mai per accumulare o arricchirsi, e il tempo libero è dedicato alla narrazione dei grandi miti, al teatro e alla vita comunitaria. È un’economia del sufficiente che rispetta gli esseri umani, gli animali e le piante. La nostra cultura invece ha separato l’uomo dalla natura e l’ha spinto a dominarla, distruggendo il senso di totalità proprio del sacro che contempla con stupore e riverenza la maestosità del Creato. Le religioni venerano le Scritture, l’ostia consacrata, lo spazio del tempio, ma non riescono ad aprirsi al mistero del mondo e all’energia che alimenta l’intero Universo. Questa lacuna spirituale è uno dei più gravi problemi della modernità, perché l’opposto della religione non è l’ateismo ma la mancanza di connessione con il Tutto. La parola stessa «religione» significa legame. Le Chiese dovrebbero far crescere questo senso di comunione con il Creato, andando oltre la dottrina cristiana. La teologia sostiene che tutti gli aspetti del Creato sono simboli e segni del Creatore, sacramenti naturali. Il cristiano dovrebbe perciò rispettare la natura. LZ Tra il 1997 e il 2000 hai partecipato alla stesura della Carta della Terra, poi approvata dall’Unesco, che propone alcuni principi per realizzare una società più giusta, più pacifica e più sostenibile. Il testo, frutto di una consultazione mondiale, è stato redatto sotto la guida di una commissione presieduta dall’ex segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbacˇëv e dall’ex sottosegretario generale delle Nazioni unite Maurice Strong. Tu in che veste hai partecipato? LB La commissione era composta da 23 persone, rappresentanti del mondo culturale, scientifico e religioso. Io ero stato invitato per rappresentare i cristiani. In otto anni di lavoro abbiamo consultato istituzioni internazionali e locali, università, organizzazioni non governative, comunità, scuole e imprese, popoli originari e migliaia di persone a livello individuale. Dopo aver analizzato una montagna di documenti, abbiamo stilato la Carta della Terra, che fissa i principi etici per il benessere dell’umanità e delle prossime generazioni. Nel preambolo si legge: «Ci troviamo a una svolta critica nella storia del pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. [...] Per progredire, dobbiamo riconoscere che, pur tra tanta straordinaria diversità di culture e di forme di vita, siamo un’unica famiglia

umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società globale sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universali, la giustizia economica e una cultura di pace». C’è il richiamo a un sentimento di responsabilità universale, perché per arrivare a una vera trasformazione occorre cambiare il cuore e la mente, vedere con altri occhi la realtà, sostituire l’approccio funzionale con l’intelligenza emotiva, che è la sede dei valori, della sensibilità e della spiritualità. Il contributo di Gorbacˇëv è stato molto importante. È stato il grande animatore e coordinatore della Carta. La prima versione, presentata nel 1992 al World Social Forum di Rio de Janeiro, non era stata approvata dalle istituzioni internazionali. Gorbacˇëv ha voluto che la nuova stesura fosse il frutto di una consultazione globale. Per questo motivo ha creato la commissione. Poi si è impegnato per ottenere la ratifica dell’Unesco, e l’ha ottenuta nel 2003. Il suo obiettivo però era l’Onu. Ha mosso i suoi contatti, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto perché uno dei punti della Carta chiede di trasformare il budget militare in un fondo per recuperare regioni devastate e per combattere la povertà. Questo è inaccettabile per una potenza militare e imperialista come gli Stati Uniti. LZ Gli Stati Uniti non hanno neppure ratificato il Protocollo di Kyoto, eppure sono il paese del mondo che produce più emissioni. Cosa può fare la Carta della Terra in concreto per spingere gli Stati a rispettare l’ambiente? LB Anche se si tratta di un documento non vincolante, la Carta della Terra è una fonte di ispirazione per l’azione politica, legislativa e educativa. Il Brasile si è impegnato a promuoverla in ogni ambito della società, il Messico ha scelto di inserirla nel sistema scolastico come strumento formativo, e il Costa Rica, il paese più ecologico del continente americano, l’ha inglobata ufficialmente nei programmi educativi del ministero dell’Istruzione. Siamo stati accusati di essere apocalittici, ma i grandi centri di ricerca che abbiamo consultato, come la Royal Academy di Londra e il Max Planck Institute, ci hanno confermato che la Terra è davvero in pericolo. LZ Però le Nazioni unite non l’hanno adottata.

LB No, ma nel 2008 il presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, Miguel d’Escoto Brockmann, ha creato una commissione di studio, presieduta dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, per valutare l’impatto della crisi finanziaria internazionale sui paesi sviluppati e in via di sviluppo. Io sono stato incaricato di occuparmi del tema della globalizzazione con il sociologo belga François Houtart, fondatore del Cetri, il centro studi a Lovanio sui rapporti tra Nord e Sud del mondo. Insieme a un gruppo di giuristi, scienziati e politologi abbiamo elaborato la bozza della Dichiarazione universale sul bene comune della Terra e dell’umanità che è stata discussa nel giugno del 2012 al Vertice dei Popoli di Cochabamba, in Bolivia, per raccogliere osservazioni e proposte in vista della presentazione formale al World Social Forum di Tunisi del 2013. Il documento chiede agli Stati di passare dallo sfruttamento della natura al rispetto della Madre Terra come fonte di vita, di privilegiare il valore d’uso sul valore di scambio nell’attività economica, di introdurre il principio della democrazia in tutti i rapporti umani e di promuovere l’interculturalità. LZ È inconcepibile che gli Stati non si rendano conto che stiamo andando verso il disastro ecologico. Secondo alcuni studi, la quantità di rifiuti prodotta nel mondo è già molto superiore alle possibilità di smaltimento. LB Abbiamo superato ogni limite. La Terra ha bisogno di un anno e mezzo per ricreare le risorse che consumiamo in un anno. Per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su questo problema, l’ambientalista britannico Andrew Simms ha lanciato l’Earth Overshoot Day, il giorno del superamento delle capacità della Terra, una ricorrenza che ogni anno cade prima (il 20 ottobre nel 2005, il 20 agosto nel 2013). Ciò significa che impieghiamo sempre meno tempo per dilapidare le risorse che dovrebbero bastarci fino a dicembre. Continuando di questo passo, nel 2050 ci occorrerà un altro pianeta. Il riscaldamento globale è la reazione della Terra al sovrasfruttamento. L’equilibrio si è rotto e l’aumento dei gas serra provoca l’intensificarsi dei fenomeni atmosferici estremi: uragani, inondazioni, siccità, ondate di caldo e di freddo. Molte specie non trovano più le condizioni adatte alla sopravvivenza e scompaiono. Nel maggio del 2010 circa 250 scienziati statunitensi hanno firmato un appello per segnalare il rischio di una

catastrofe planetaria, e una ricerca del 2012 ha avvertito che il metano intrappolato nei ghiacciai dell’Antartide potrebbe fuoriuscire e surriscaldare ulteriormente il pianeta, perché è molto più aggressivo dell’anidride carbonica. Nel suo libro La guerre mondiale (2008)19 il filosofo francese Michel Serres evoca l’immagine di un attacco alla Terra su tutti i fronti: suolo, acqua, aria. Il problema è che l’umanità non ha alcuna speranza di vincere la guerra, perché la Terra è più forte e può vivere anche senza di noi, mentre non è possibile il contrario. La situazione potrebbe peggiorare al punto da determinare la scomparsa dell’umanità nel volgere di pochi decenni. Quando lavoravamo alla Carta della Terra, Gorbacˇëv ripeteva sempre che occorre una visione spirituale, non oggettivistica. Occorre sentirsi figli della Terra e proteggerla come si protegge se stessi. Alla fine della Carta della Terra c’è un passaggio molto bello che dice: «Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita». È la via francescana! LZ Tu hai lasciato l’ordine nel 1992. Ti senti ancora francescano? LB Sì, perché per me il francescanesimo è una dimensione dello spirito, un modo di rapportarsi agli altri considerandoli come fratelli e sorelle. Quando il cardinal Bergoglio è stato eletto papa e ha scelto il nome Francesco ha voluto indicare la via per una Chiesa più semplice, più umile, più povera, più vicina all’umanità e alla natura. Credo che san Francesco sia diventato un archetipo dell’Occidente e forse di tutto il mondo. Lo storico britannico Arnold J. Toynbee lo considera la figura più importante della nostra cultura. In un’intervista rilasciata al quotidiano «El País» nel 1975, poco prima di morire, sostenne che, invece di imitare Bernardone, il padre di Francesco, che era un commerciante, dovremmo diventare tutti discepoli di suo figlio, che ci ha insegnato a convivere con tutti gli esseri viventi, con tenerezza e senza sopraffazione. Solo così è possibile una vera riconciliazione dell’umanità con la natura. Per Francesco la povertà era un atto di solidarietà, d’amore e di condivisione con i poveri, non un valore in sé. Credo che questa sia la sfida

per la società futura: una vita più sobria, più semplice e più solidale, per consentire a tutti di vivere dignitosamente su questo pianeta. Purtroppo non sono questi i discorsi che si ascoltano nelle stanze della politica e – ahimè – nemmeno nelle chiese. Per contraddistinguere la nostra era, che ha conosciuto l’impatto dell’attività dell’uomo sugli ecosistemi, il biologo americano Eugene Stoermer ha coniato negli anni Ottanta il termine Antropocene, poi divulgato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen. Non definisce una vera e propria era geologica, ma un periodo che comincia, secondo molti scienziati, dalla rivoluzione industriale. Anche Edward O. Wilson, il biologo che ha creato la parola «biodiversità», utilizza questo concetto per spiegare che l’essere umano è l’unica forma di vita che si è trasformata in una forza distruttiva. Né la religione, né l’etica, né la cultura sono state in grado di contenerne gli effetti. Dobbiamo tornare alle fonti spirituali di fondo, che stanno alle radici di tutte le culture, per imparare a comportarci umanamente con gli altri e con l’ambiente. Non so se abbiamo abbastanza tempo e saggezza per farlo. In uno dei suoi recenti rapporti, Wilson sostiene che ogni anno spariscono migliaia di specie. Questa è una vera devastazione. Ci chiediamo: forse è arrivato anche il nostro turno? L’intelligenza e la tecnologia possono aiutarci a rallentare questo processo. La fede ci indica la via del cambiamento, della resurrezione, perché il Dio cristiano è il signore della vita, non della morte. Nella Bibbia, al capitolo XI del Libro della Sapienza, c’è un passo che dice: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi, se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, sovrano amante della vita». LZ Il tema della distruttività, così centrale nella psicologia di Jung, mi fa venire in mente un episodio della leggenda di san Francesco molto potente dal punto di vista simbolico: l’incontro con il lupo, l’animale che incarna l’aggressività. Invece di ucciderlo, Francesco gli parla. Questo suo atteggiamento rappresenta la sintesi di qualunque lavoro interiore. Negare l’aggressività o respingerla, fingendo di essere buoni, è un modo per rinviare il problema. La pedagogia e la religione ci impongono di reprimere

la parte oscura, di schiacciare il lupo, di rifiutare l’Ombra, come se la parte distruttiva non ci appartenesse o potesse essere estirpata. Francesco invece instaura un dialogo con l’istinto feroce, sceglie consapevolmente di incontrarlo. Mi sembra una metafora molto bella. Noi abbiamo bisogno di capire perché siamo così stupidi da distruggere il mondo o da permettere che altri lo facciano. Evidentemente la distruttività abita dentro di noi. Negarla serve a poco: nostro compito è invece conoscerla. Questo è il lavoro psicologico costruttivo, ancora quasi tutto da compiere. LB Siamo nel contempo il lupo e l’agnello, è il segno distintivo dell’essere umano. C’è una preghiera di san Francesco che dice: «O Signore, fa di me lo strumento della tua pace. Là dove è l’odio che io porti l’amore. Là dove è l’offesa che io porti il perdono. Là dove è la discordia che io porti l’unione». È un modo per tenere a bada la parte oscura senza negarla. LZ Senza negarla, giusto! Nella visione di Jung gli opposti non vanno mai separati. A me fa paura un certo sentimentalismo cattolico che vede solo l’agnello e ignora il lupo, come se rifiutarlo fosse possibile o risolutivo. Non si può parlare dell’uno senza chiamare in causa anche l’altro. LB Il fatto che tutti siamo nel contempo l’agnello e il lupo, sapiens e demens, non è un difetto della Creazione ma una sua caratteristica. Oggi però occorre ampliare lo spazio dell’agnello, perché il lupo ha avuto un impatto spaventoso sulla Terra e sull’umanità. Bisogna creare un equilibrio in modo che il lupo non prevalga, altrimenti saremo condannati alla distruzione. Lo scenario drammatico che ci sta di fronte è una sorta di tragedia annunciata, ma da questa crisi può scaturire un nuovo modo di abitare il mondo. Nei miei viaggi incontro persone e gruppi che hanno scelto una vita più sostenibile e rispettosa dell’ambiente, ma il nuovo non ha ancora la forza d’imporsi. Come diceva Gramsci: «Crisi è quel momento in cui muore il vecchio e il nuovo non può più nascere». Quando un’idea raggiunge la maturità acquisisce una sua forza e si diffonde. Mi pare che la nostra civiltà sia arrivata a un punto di svolta. LZ Nel XXII canto del Paradiso di Dante c’è un verso in cui la Terra è descritta come «l’aiuola che ci fa tanto feroci». Mi sembra che colga in modo efficace la potenza dei nostri istinti distruttivi.

LB I dinosauri si sono estinti per cause naturali, noi rischiamo di scomparire per causa nostra. Abbiamo depredato e inquinato il pianeta, la nostra casa comune, per circondarci di oggetti superflui: per rendercene conto basta entrare in un centro commerciale. È arrivato il momento di una svolta purificatrice. Dovremmo seguire l’esempio di Socrate che, secondo Diogene Laerzio, andava al mercato per vedere gli oggetti che non gli servivano. LZ Il sistema di produzione è cambiato rispetto a trent’anni fa. In passato l’operaio era sfruttato sotto i nostri occhi, oggi le dinamiche si sono globalizzate: molti prodotti che acquistiamo arrivano da paesi lontani che non tutelano né i lavoratori né l’ambiente. È il mondo sviluppato che sfrutta il Terzo mondo, le sue popolazioni, le sue piante, le sue risorse naturali. Qual è il ruolo della teologia della liberazione in questo nuovo scenario? LB La teologia deve ricostruire il senso di appartenenza perduto, perché abbiamo trattato la Terra come un oggetto, allo scopo di sfruttarla. In passato la Terra era vista come madre: gli esseri umani si consideravano suoi figli e la rispettavano in quanto fonte della vita. Questa visione è ancora diffusa presso certe culture minoritarie. Occorre una nuova cosmologia che guardi all’evoluzione come a un processo altamente complesso che conserva le condizioni per la continuità della vita. Nel libro Polvere vitale (1996),20 il biochimico Christian de Duve, premio Nobel per la medicina, osserva che la vita sulla Terra ha avuto origine da una quantità di fattori cosmologici in gran parte casuali. Noi siamo soltanto un sottocapitolo di questa vicenda e siamo legati a tutti gli esseri che fanno parte del processo. LZ Pensavo al fatto che in italiano si può scrivere la parola «terra» in due modi, con l’iniziale minuscola o maiuscola. Nel primo caso ci si riferisce al suolo inteso come materiale inerte, nel secondo al pianeta. Se si scrive Giove con la maiuscola, bisognerebbe usare alla Terra lo stesso riguardo, ma molti se ne dimenticano. Questa svista inconscia sembra il riflesso della nostra tendenza a concepire la Terra come un «oggetto» da dominare: terra con la minuscola. LB Nel libro The Universe Story (1992)21 il cosmologo Brian Swimme parla della nascita di una nuova era, chiamata Ecozoico, in cui l’ecologia dovrà

diventare il fulcro delle principali attività umane, a cominciare dall’economia. Solo così sarà possibile salvaguardare l’ambiente e rispondere alle necessità di tutta la comunità vivente, presente e futura. Per guardare avanti dobbiamo impostare il nostro rapporto con la natura in chiave di sinergia e di interdipendenza. Il mito del progresso ha spinto l’uomo a esercitare il controllo sull’ambiente per ottenere un Pil sempre maggiore. Ma il progresso andrebbe valutato sulla situazione complessiva della comunità terrestre. Il Prodotto interno lordo non può andare a scapito del Prodotto terrestre lordo. Abbiamo dimenticato che facciamo parte di un processo unico e universale, di cui l’essere umano è l’elemento cosciente e intelligente. Il benessere della Terra è il nostro benessere. Siamo chiamati non soltanto a diminuire la devastazione in corso, ma anche a diventare consapevoli della nostra responsabilità: una specie o un ecosistema può sparire per sempre a causa delle nostre decisioni, oppure continuare a vivere in un equilibrio creativo con le attività produttive. L’Ecozoico è pieno di promesse. Ci apre una finestra verso un futuro vitale e allegro. Occorre una mobilitazione generale perché si diffonda in tutti gli ambiti e plasmi le coscienze. Il chimico e premio Nobel Ilya Prigogine, considerato uno dei padri della teoria del caos e della complessità, ha introdotto la categoria delle strutture dissipative per spiegare perché, a dispetto della seconda legge della termodinamica che postula l’aumento del grado di disordine, di casualità e di caos (entropia) dell’universo, alcuni sistemi sono in grado di crescere e di evolversi in sistemi ancora più complessi. Sono i cosiddetti «sistemi aperti», che hanno la capacità di scambiare energia e materia con il loro ambiente, assorbendone il disordine. LZ In questa prospettiva mi sembra che l’atteggiamento della teologia cristiana, che ha separato materia e spirito, sia molto riduttivo. LB La Chiesa è rimasta legata a una visione negativa della materia. Tuttavia il gesuita Pierre Teilhard de Chardin, filosofo, paleontologo e mistico, l’ha valorizzata, arrivando a definirla «santa Materia». Einstein ha scoperto che la materia è energia altamente condensata che può essere liberata, come ha purtroppo dimostrato la bomba atomica. Il cammino della scienza ha seguito, più o meno, questa direzione: dalla materia all’atomo, dall’atomo

alle particelle subatomiche, dalle particelle subatomiche ai pacchetti di energia, dai pacchetti di energia alle superstringhe vibranti (la teoria secondo cui tutto ciò che esiste nell’Universo non sarebbe altro che la manifestazione di «energia vibratoria»), per arrivare infine all’energia di fondo, al vuoto quantico, che Brian Swimme chiama «abisso alimentatore di tutti gli esseri». Ricordo una frase pronunciata da Werner Heisenberg durante un semestre d’incontri che ho avuto occasione di seguire all’Università di Monaco: «L’universo non è fatto da cose, ma da reti di energia vibratoria che emergono da qualcosa di ancora più profondo e sottile». Pertanto, la materia ha perso la sua centralità a favore dell’energia, che si organizza in campi e reti. Cos’è questo «qualcosa di più profondo e sottile» da cui tutto emerge? I fisici quantistici e gli astrofisici lo hanno chiamato «energia di fondo» o «vuoto quantico», espressione inadeguata in quanto dice il contrario di quello che significa la parola «vuoto». Il vuoto rappresenta la pienezza di tutte le possibili energie e delle loro eventuali densificazioni negli esseri. Per questo si preferisce oggi l’espressione pregnant void, vuoto pregno, o «fonte originaria di tutto l’essere». Non è qualcosa che possa essere rappresentato nelle categorie convenzionali di spazio-tempo, poiché è anteriore a tutto ciò che esiste, anteriore allo spazio-tempo e alle quattro energie fondamentali, la gravitazionale, l’elettromagnetica, la nucleare forte e la nucleare debole. Gli astrofisici lo immaginano come una specie di vasto oceano, senza margini, illimitato, ineffabile, indescrivibile e misterioso, in cui, come in un utero infinito, sono ospitate tutte le possibilità e le virtualità dell’essere. Da qui sarebbe emerso quel piccolo punto estremamente pregno di energia, inimmaginabilmente caldo, che poi è esploso (Big Bang) dando origine al nostro universo. Con la nascita dell’universo, ha fatto simultaneamente irruzione lo spazio-tempo. Il tempo è il movimento della fluttuazione delle energie e dell’espansione della materia. Lo spazio non è il vuoto statico all’interno del quale tutto avviene, ma quel processo continuamente aperto che permette alle reti di energia e agli esseri di manifestarsi. La stabilità della materia presuppone la presenza di una potentissima energia soggiacente che la mantiene in questo stato. In verità, noi percepiamo la materia come qualcosa di solido perché le vibrazioni dell’energia sono talmente rapide che non riusciamo a coglierle con i nostri sensi. Ma in

questo ci aiuta la fisica quantistica, esattamente perché si occupa delle particelle e delle reti di energia. L’energia è in tutto. Senza di essa nulla potrebbe esistere. Come esseri coscienti e spirituali, siamo una realizzazione estremamente complessa, sottile e interattiva di energia. Cos’è questa energia di fondo che si manifesta sotto tante forme? Non c’è nessuna teoria scientifica che la definisca. Sempre di più, abbiamo bisogno dell’energia per definire l’energia. Non è dato sfuggire a questa ridondanza, notata già da Max Planck. L’energia forse costituisce la migliore metafora di Dio. Lao-tze diceva la stessa cosa del Tao: «Il Tao è un vuoto turbinante, sempre in azione e inesauribile. È un abisso insondabile, origine di tutte le cose, e unifica il mondo». LZ Qui torniamo al limite della cultura occidentale, che a partire da Aristotele ha affermato il primato dello spirito sulla materia. Abbiamo perduto la dimensione del sacro perché la materia è stata svuotata di ogni valenza spirituale. L’ecologia non andrà da nessuna parte se si limita ad affastellare dati scientifici. Per salvare la Terra abbiamo bisogno anche di restituirle una dimensione sacra. LB In America latina si parla infatti di ecologia sociale. Credo che uno dei contributi più importanti sia quello di Eduardo Gudynas del Centro Latinoamericano de Ecología Social (Claes) in Uruguay, che ha recuperato dalle culture andine il principio del Buen Vivir. L’idea di fondo è che la qualità della vita e il benessere possano essere perseguiti soltanto in una dimensione comunitaria, attraverso la coabitazione con gli altri e la natura. Questo concetto ha ispirato diversi programmi di intervento dei governi ed è persino stato inglobato nella Costituzione di paesi come l’Ecuador e la Bolivia. Il Buen Vivir, adottato dai movimenti ecologisti latinoamericani, rappresenta una reazione allo sviluppo così come è stato inteso in Occidente. Riferendosi alle tradizioni indigene, esplora le possibilità di una visione alternativa che superi la tradizionale concezione eurocentrica. LZ Molte civiltà precolombiane si basavano su un’idea collettiva di proprietà e di lavoro. Le forme statali che i gesuiti erano riusciti a costituire all’interno del Sudamerica hanno funzionato abbastanza a lungo anche

perché non contraddicevano troppo i principi delle culture locali. È stata la Spagna ad affondare l’utopia dei gesuiti. Dall’Europa è stata importata in forme letali l’idea di proprietà privata, che ha intossicato gli equilibri sociali, come l’importazione dal vecchio continente di bacilli sconosciuti agli indios ha intossicato i loro corpi facilitando il loro sterminio. Nonostante queste contraddizioni, ho l’impressione che l’America latina sia ancora il continente «nuovo» del mondo. L’Europa è vecchia, il Nord America non ha mai messo in discussione il suo stile di vita, l’Asia ha abbracciato i modelli economici occidentali e l’Africa purtroppo è fuori dai giochi. L’America latina invece, malgrado le enormi differenze tra un paese e l’altro, tra le sue classi sociali, le etnie, i paesaggi e i climi, è riuscita a mantenere vive culture che provengono in parte dall’Africa, in parte dall’Europa e in parte dai popoli nativi, e al tempo stesso ha creato una sua cultura continentale originalissima, che non è la semplice somma dei componenti. Non è una coincidenza che sia anche la terra delle utopie, perché il nuovo può emergere solo da società nuove, e nemmeno che la teologia della liberazione sia nata in America latina. Negli ultimi anni il Brasile, un paese caratterizzato da notevoli disuguaglianze sociali, ha fatto passi da gigante: l’indice di Gini, che misura la differenza tra ricchi e poveri, continua a diminuire. Non vorrei sembrare troppo ottimista, ma mi pare che Lula abbia cominciato a costruire quelle che definisco utopie minimaliste, piccoli cambiamenti che presuppongono un diverso rapporto con gli altri e con l’ambiente. Sei d’accordo o ti pare la visione di un europeo ingenuo? LB No, sono fondamentalmente d’accordo. Credo che l’ottimismo abbia una base reale. In America latina, per esempio, si assiste alla rinascita delle culture indigene, tanto che è stato creato un coordinamento continentale. Fra i nativi si è diffuso l’orgoglio di appartenere ai popoli originari, con la loro lingua, la loro organizzazione sociale e il loro peculiare rapporto con la natura. Le culture che hanno sviluppato la maggiore consapevolezza sono quelle andine della Bolivia e dell’Ecuador. Evo Morales, il presidente della Bolivia, è fiero di essere un indio! Nel 1519, quando Hernán Cortés è arrivato in Messico, i nativi erano 22 milioni. Settant’anni dopo ne erano rimasti soltanto 1,5 milioni, tutti gli altri erano stati sterminati dalle guerre, dalle malattie portate dai bianchi e dai

lavori forzati nelle miniere d’oro, come racconta Bartolomé de las Casas nel suo libro Breve relazione sulla distruzione delle Indie.22 Oggi gli indios sono una forza politica. Attingono alla saggezza dei loro antenati, che ha una chiara dimensione ecologica perché la natura è trattata con rispetto, e il rapporto con gli altri è regolato dal principio del Buen Vivir, che è fonte di uguaglianza, di equilibrio e di inclusione sociale. Il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos sostiene che uno dei più grandi contributi dell’America latina alla cultura mondiale è l’idea di una democrazia comunitaria. I popoli indigeni ci hanno insegnato che gli elementi della natura sono parte dello stesso processo che ci tiene in vita e vanno rispettati. Un altro punto importante è il valore che attribuiscono alla dimensione spirituale, attraverso i riti, le feste e le grandi celebrazioni. Il presidente boliviano Evo Morales mi ha detto che quando è in difficoltà e non sa cosa fare si raccoglie in se stesso e cerca di mettersi in comunicazione con i suoi antenati, che lo illuminano e gli indicano la strada. Così la dimensione spirituale si fonde con quella politica. LZ Mi sembra che il concetto di Pacha Mama sia l’elemento di raccordo tra il tuo impegno teologico e sociale in Brasile e in America latina e l’esperienza della Carta della Terra con le Nazioni unite. Quando hai cominciato a far tue le tradizioni dei popoli andini? LB Dal 1970 al 1992 ho viaggiato in tutto il continente per la Conferenza latinoamericana dei religiosi e mi sono accorto che il culto della Pacha Mama è molto vivo, specialmente in Bolivia. È una fusione mistica con la Terra. Tra il 2008 e il 2009, quando ero all’Onu, ho ripreso in mano con Evo Morales il progetto di trasformare il 22 aprile, Giornata della Terra, nella Giornata della Madre Terra. All’inizio la proposta è stata rifiutata perché ritenuta troppo mistica, ma dopo il disastro di Fukushima il tema è tornato attuale. Evo Morales è stato invitato a occuparsi dell’aspetto politico e io di quello etico-spirituale. Al momento della presentazione ufficiale, Morales ha tenuto un discorso molto efficace. Ha detto che il Novecento è stato il secolo della lotta per i diritti umani e sociali, mentre il secolo attuale sarà quello della Madre Terra e dei diritti della natura. E ha aggiunto: «Se non si sconfigge il capitalismo non ci sarà salvezza per la Madre Terra», poi ha

fatto una lunga pausa e ha guardato in faccia uno per uno, perché erano tutti capitalisti là dentro, e alcuni hanno applaudito, anche se all’Onu non si potrebbe. Io mi ero preparato un discorso con molte argomentazioni scientifiche, ma l’unico passaggio che è stato capito e acclamato è stato quando ho detto che la Terra si può comprare e vendere, mentre una madre va difesa e rispettata. Così dovremmo comportarci con la Pacha Mama. La nostra proposta è stata approvata all’unanimità. Al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che presiedeva la sessione, ho suggerito di appendere il globo terrestre nella sala dell’Assemblea, in modo che i governanti del mondo possano consultare la Pacha Mama ogni volta che non sanno che cosa fare. Invocando la Madre Terra saranno in grado di prendere decisioni positive per l’umanità. A partire dal 2010, il 22 aprile è diventato ufficialmente la Giornata della Madre Terra. Da allora ho partecipato a molti dibattiti sulla Carta della Terra, che è una sintesi dei valori ecologici, etici e spirituali che occorrono per costruire un nuovo modo di abitare il pianeta. Nell’ottobre del 2012, in occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II e del quarantesimo della teologia della liberazione, abbiamo organizzato presso i gesuiti di São Leopoldo, nello Stato di Rio Grande do Sul, un incontro con duemila persone provenienti da tutto il mondo sul tema della teologia della liberazione in generale, e sull’ecoteologia della liberazione in particolare. Al centro dell’opzione per i poveri bisogna ora mettere il grande povero che è il pianeta Terra, per preservare la vita. La questione fondamentale per noi non è il futuro del cristianesimo, ma quello dell’umanità. L’ho detto anche a papa Francesco: al centro non deve esserci la Chiesa, ma la collettività umana. È questo il grande contributo che il cristianesimo, con il suo capitale simbolico, può portare alla nostra epoca. LZ Dopo il tuo impegno all’Onu, come valuti le scelte più recenti delle istituzioni internazionali? LB Sono stato molto deluso da Rio+20, la conferenza delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile che si è tenuta a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno 2012, a vent’anni di distanza dall’Earth Summit del 1992, che aveva inserito per la prima volta questo tema nell’agenda dell’Onu. La

fondamentale lacuna del documento uscito da Rio+20 è l’assenza di una nuova narrazione o cosmologia, che potrebbe garantire la speranza per «il futuro che vogliamo», lo slogan scelto per il grande incontro. Così com’è, il documento nega qualunque possibilità di un futuro promettente perché non incide sulla narrazione, cioè sulla visione del mondo che soggiace alle idee, alle pratiche, ai costumi e ai sogni di una società, attraverso la quale si cerca di spiegare l’origine, l’evoluzione, lo scopo dell’universo e della storia, e il posto riservato all’essere umano. Per chi ha elaborato il documento, il futuro dipende dall’economia, poco importa l’aggettivo che la definisce: sostenibile o verde. È soprattutto l’economia verde ad assaltare le risorse residue del mondo naturale: trasformare in merce ciò che è comune, naturale, vitale e insostituibile per la vita come l’acqua, il suolo, la fertilità, le foreste, i geni, imponendo loro un prezzo. Tutto ciò che concerne la vita è sacro e non può essere ridotto a merce. Ma sta accadendo proprio questo. Ecco l’egocentrismo supremo, l’arroganza degli esseri umani, che deriva dalla vecchia narrazione o cosmologia, secondo cui il mondo va conquistato in vista del progresso e della crescita illimitata. È in virtù di questa narrazione che il 20 per cento della popolazione mondiale controlla e consuma l’80 per cento delle risorse naturali, che metà delle grandi foreste è stata distrutta, che il 65 per cento delle terre coltivabili è andato perduto, che decine di migliaia di specie di esseri viventi scompaiono ogni anno, che più di mille prodotti chimici sintetici, in maggioranza tossici, sono riversati nella natura. Senza contare le armi di distruzione di massa che gli Stati possiedono. L’effetto finale è lo squilibrio del sistema Terra, che si traduce nel riscaldamento globale. Già nel 2001 la comunità scientifica nordamericana aveva avvertito i decision makers che nell’arco di 15-20 anni si sarebbe potuto verificare un drastico cambiamento climatico, con innalzamenti delle temperature di 5 o 6 gradi. In tali circostanze la specie umana potrebbe in parte sparire. L’attuale crisi economico-finanziaria, che getta nazioni intere nella miseria, ci fa perdere la percezione del rischio e cospira contro il necessario cambiamento di rotta. Eppure esiste una narrazione della responsabilità universale potenzialmente in grado di salvarci, che ha trovato la sua migliore espressione nella Carta della Terra. È questa a garantire «il futuro che vogliamo», ed è per noi una fonte di ispirazione. Invece di lucrare sulla

natura, dovremmo rispettarne i limiti e perseguire il Buen Vivir, l’armonia tra tutti e con la Madre Terra. I tratti distintivi di questa nuova cosmologia sono la cura al posto del dominio, il riconoscimento del valore intrinseco di ogni essere anziché la sua mera utilizzazione, il rispetto per la vita e i diritti della natura anziché il suo sfruttamento, e l’armonizzazione della giustizia ecologica con quella sociale. Questa narrazione è in sintonia con le reali necessità umane e con la logica dello stesso universo. Se il documento di Rio+20 inglobasse questa narrazione come quadro di riferimento, potrebbe nascere una civiltà planetaria incentrata sulla cura, la cooperazione, l’amore, il rispetto, la gioia e la spiritualità. Tale opzione punterebbe non verso l’abisso, ma verso «il futuro che vogliamo»: una biociviltà della speranza. 14 Leonardo Boff, La Optión-Tierra. La solución para la tierra no cae dal cielo, Editorial Sal Terrae,

Santander 2008. 15 Leonardo Boff, Grido della Terra, grido dei poveri: per una ecologia cosmica, Cittadella, Assisi 1996. 16 Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974. 17 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1996. 18 Eric Neumann, La grande madre, Astrolabio, Roma 1981. 19 Michel Serres, La guerre mondiale, Éditions Le Pommier, Paris 2008. 20 Christian de Duve, Polvere vitale, Longanesi, Milano 1998. 21 Brian Swimme, Thomas Berry, The Universe Story, Harper, San Francisco 1992. 22 Bartolomé de las Casas, Breve relazione sulla distruzione delle Indie, Datanews, Roma 2006.

Jung come interlocutore: verso la liberazione integrale

Luigi Zoja L’impronta di Jung è molto forte sia nella tua riflessione teologica sia nel tuo approccio all’ecologia. Tu hai avuto il merito di aver fatto coincidere l’idea junghiana di archetipo con quella indigena della Pacha Mama, che ha ispirato programmi politici rispettosi dell’ambiente e delle popolazioni native. Leonardo Boff Come ho ricordato, avevo già letto le opere di Jung molto presto, quando studiavo teologia in Germania, perché ero attratto dal suo interesse per le grandi tradizioni spirituali del mondo. I suoi saggi sulla Trinità, sulla messa cristiana e sui dogmi mariani mi sono stati di grande ispirazione nella stesura della tesi di dottorato. Jung attinge a un immenso patrimonio mitologico con una profonda conoscenza storica e affronta temi che la teologia ha sempre ignorato. La sua tesi della centralità di Maria come fattore di equilibrio in una Chiesa governata da uomini, per esempio, è «scandalosa» non solo per i cattolici, ma anche per i protestanti. Ogni volta che rileggo Jung ho l’impressione di ascoltare un vecchio saggio che conosco da tempi immemorabili. Riesce a coinvolgermi profondamente, come le opere di Erich Neumann, il pensatore ebreo tedesco, poi emigrato in Israele, che fu il suo maggiore allievo. Le sue ricerche sulla Grande Madre sono state un riferimento fondamentale mentre scrivevo Il volto materno di Dio (1981).23 Sono partito dalla frase di papa Luciani, pronunciata durante l’Angelus in piazza San Pietro il 10 settembre 1978: «Dio è papà. Più ancora, è madre». Molti cardinali ritenevano che fosse un’eresia, e infatti qualche anno dopo Ratzinger, diventato suo successore, lo ha sconfessato: «Madre non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio». Eppure nel Vangelo di Matteo si parla di Gesù che vuole radunare i suoi figli «come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali». La metafora è materna, non paterna. LZ Un archetipo con un significato protettivo, a differenza di quello

tradizionale paterno, che è sostanzialmente normativo. Qual è stata la reazione al tuo libro? LB La mia tesi è che la prima persona inviata al mondo non è il Figlio ma lo Spirito Santo, e Maria rappresenta la sua incarnazione, per questo la si può adorare. Lei, che ha concepito Gesù, è il centro di tutto. Questa visione, che non ha alcun precedente nella teologia, è in contrasto con la lettura maschilista e patriarcale dei Vangeli. Se si legge il Vangelo di Luca nella sua versione originale in greco, si nota che nel primo capitolo, versetto 35, parlando di Maria, l’autore utilizza lo stesso verbo (eskénosen) usato dall’evangelista Giovanni quando dice che Gesù «ha piantato la sua tenda in mezzo a noi». C’è un equilibrio tra Gesù e Maria, e tra loro e lo Spirito Santo. Maria è la tenda, la dimora della divinità incarnata, l’ala della gallina che protegge i pulcini, ma anche l’anima e l’animus in senso junghiano, la bisessualità dei principi psichici. È il segno del volto materno di Dio e della sua tenerezza per la creazione. In questo modo viene valorizzata la dimensione femminile, che era assente nella concezione tradizionale della Trinità. Sulla base delle categorie junghiane ho reinterpretato i grandi dogmi mariani, dall’Immacolata concezione alla verginità di Maria, allo scopo di rivalutare l’aspetto materno dell’accoglienza, della misericordia, della cura e della compassione. Credevo che la mia tesi sarebbe stata condannata, invece è stata molto ben accolta dai teologi cattolici. I protestanti, al contrario, mi hanno accusato di idolatria per aver accostato Maria allo Spirito Santo. Io sostengo da sempre che sono maschilisti: accettano soltanto l’uomo Gesù e non la donna Maria. Alcune teologhe hanno contestato l’identificazione del femminile con la maternità. Hanno ragione, ma io mi riferivo all’archetipo, non al ruolo sociale. In un libro successivo, Ave Maria: il femminile e lo Spirito Santo (1982),24 ho evitato consapevolmente di usare l’aggettivo «materno». Ma va detto che molte teologhe non hanno ancora acquisito la consapevolezza della funzione divina della femminilità. Sono rimaste legate alla visione elaborata dai maschi, dagli evangelisti in poi. Dicono che basta Gesù, ma dimenticano che Gesù, come tutti gli altri uomini, possiede una dimensione femminile, quella che Jung chiama «anima», insieme a quella maschile.

LZ In quel libro del 1982 non c’è ancora alcun riferimento alla Madre Terra e alla questione ecologica? LB No, è una riflessione teologica a partire dai grandi miti dell’umanità. Molti anni dopo ho scritto Feminino & masculino (2002),25 con la femminista brasiliana Rose Marie Muraro, per proporre un nuovo paradigma nella relazione fra i generi. Lei si è occupata della parte psicologica, io di quella scientifica e teologica, approfondendo i miti sudamericani legati alla Madre Terra. Per esempio, la figura della Vergine di Guadalupe, venerata in Messico a partire dal XVI secolo, è molto ricca a livello simbolico: il suo viso è quello di una giovane meticcia con la carnagione scura; è circondata dai raggi del sole e ha la luna sotto i piedi; la cintura viola che porta in vita era un segno di gravidanza per gli aztechi; la croce che porta al collo è il simbolo della totalità dell’Universo. Questa immagine della Vergine è profetica perché rappresenta Maria già meticcia quando ancora il meticciato non esisteva. Lo stesso si può dire della Vergine di Aparecida nello Stato di São Paulo, che è nera come gli schiavi venuti dall’Africa. LZ Ritieni possibile che nelle chiese cristiane venga introdotto un simbolo iconografico che rappresenti più esplicitamente la Madre Terra? LB Mi sembra molto difficile. I protestanti obiettano che la teoria di Gaia ci spinge a adorare la Terra, che è una creatura di Dio. Ma ogni rappresentazione del globo terrestre, così piccolo e fragile sullo sfondo dell’Universo, dovrebbe suscitare un sentimento di sacralità e di venerazione. È qui che si trova tutto ciò a cui attribuiamo valore: la famiglia, gli amici, la comunità, la natura. È uno spazio sacro che esige rispetto e riverenza. LZ Nel libro Il disagio della civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1930),26 Freud sostiene che la Kultur è nata per difendere l’uomo dalla natura. In realtà, a distanza di neppure un secolo, il problema più urgente è diventato difendere la natura dall’uomo. Jung ci insegna che i miti ci forniscono l’energia interiore necessaria per portare a termine un dato compito. Ma se il compito è troppo nuovo, il nostro inconscio collettivo se ne sottrae e continua ad attivare l’archetipo tradizionale indicato da Freud, quello

dell’eroe che combatte contro i draghi, le forze della natura. La nostra struttura psichica si evolve molto lentamente: quindi ci propone, come in immemorabili tempi arcaici, un personaggio che uccide il leone e taglia gli alberi della foresta per farsi spazio, mentre oggi è importante salvare sia gli animali sia gli alberi. Si tratta dunque di trovare non soltanto i mezzi tecnici, ma anche le risorse psicologiche e simboliche per coinvolgere le persone nell’obiettivo prioritario di preservare la Terra dalla distruzione. Occorre stabilire un nuovo equilibrio tra il discorso mitico e quello teologico, perché tradizionalmente il Dio che abbiamo dentro e ci accompagna nelle azioni coraggiose corrisponde a emozioni poco razionali (la parola entusiasmo significa avere dentro en-theos, un dio), mentre i dati scientifici cui dobbiamo ispirarci per proteggere la Terra sono freddi e poco coinvolgenti. Nel tuo doppio ruolo di teologo e di membro autorevole della commissione che ha redatto la Carta della Terra, che posto assegni a questi due aspetti? LB Nell’essere umano l’universo della passione, dell’affetto e del sentimento si esprime attraverso l’intelligenza cordiale o emozionale. Lo spirito non rifiuta la ragione, anzi, ne ha bisogno. Ma va oltre, inglobandola su un piano più alto che ha a che vedere con l’intelligenza, la contemplazione e il senso superiore della vita nella storia. Il sommarsi delle varie crisi, congiunturali e sistemiche, obbliga tutti a lavorare su due fronti. Il primo è interno al sistema: si tratta di trovare soluzioni immediate per salvare vite, garantire il lavoro e la produzione ed evitare il collasso. Il secondo è esterno al sistema, e consiste nel cercare nuovi fondamenti che ci consentano di elaborare un’alternativa per garantire la sopravvivenza del genere umano. Ogni epoca ha bisogno di un mito che aggreghi le persone, concentri le forze e conferisca una nuova direzione alla storia. Il mito fondatore della modernità è la ragione, che crea la scienza, la trasforma in tecnica per intervenire sulla natura e dominarla. Ora questa cultura capitalista, borghese, occidentale e globalizzata è entrata in crisi. All’arroganza della ragione (hybris) occorre contrapporre il sentire profondo (pathos) che ci fa ascoltare il grido della Terra e il clamore di milioni di affamati. Non è la ragione fredda, ma la ragione sensibile che spinge le persone a impegnarsi per la Terra, sentendosi parte di essa. LZ L’antropologo Lucien Lévy-Bruhl ha osservato che la base mistica delle

società primitive crea un senso di partecipazione alla vita della natura perché ciascun individuo si percepisce come parte del gruppo in cui vive. Jung, che conosceva le opere di Lévy-Bruhl, ha affermato che, in condizioni originarie, la psiche non vede alcuna separazione tra sé e il mondo animale e vegetale. Secondo il filosofo australiano Peter Singer, la nostra indifferenza verso il mondo animale è dovuta in buona parte al cristianesimo, che ha posto l’uomo al centro del Creato e non ha educato i suoi seguaci al rispetto degli altri esseri viventi. San Francesco, con la sua capacità di identificazione con la natura, rappresenterebbe un’eccezione «patologica». Singer lo descrive come una sorta di paziente psichiatrico in preda a un delirio mistico. Credo che su questo punto si sbagli. LB Francesco ha vissuto una spiritualità cosmica simile a quella buddhista, una profonda comunione con il Creato, una esperienza di non-dualità. Oggi la scienza ci dice che tutti gli esseri viventi hanno lo stesso codice genetico, dunque sono nostri fratelli e sorelle. La Carta della Terra si pone in questa prospettiva sottolineando la nostra parentela con la comunità vivente. Noi abbiamo la facoltà di proteggere la natura o di distruggerla. La visione ebraico-cristiana ci spinge a prenderci cura dell’Eden prima che si trasformi in un paradiso perduto. Questa è la missione fondamentale oggi, altrimenti finiremo tutti nel baratro. LZ Quindi l’esperienza mistico-partecipativa di Francesco non è una versione patologica della psiche individuale, ma l’espressione di una realtà biologica di cui la maggior parte di noi ha perso la consapevolezza. LB Già. In questo senso è stato un anticipatore. Nell’ottica junghiana, è un simbolo religioso del divenire psichico dell’uomo come individuo e come collettività. Un altro santo che mi ha sempre affascinato è san Giuseppe. L’ho studiato per vent’anni e nel 2006 ho pubblicato il libro Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere.27 È una figura silenziosa, relegata nell’ombra dagli stessi evangelisti. Si sa che era un falegname, che non ha mai parlato, che ha fatto semplicemente dei sogni, e che ha portato Gesù e Maria in salvo in Egitto. La Chiesa non gli ha dato nessun risalto. Solo nel 1960 Giovanni XXIII ne ha inserito il nome nei canoni della messa. Io lo considero il patrono degli ultimi, degli anonimi, della grande comunità dei laici, perché era un padre di famiglia e un lavoratore. Era

attento ai messaggi dei sogni, che per Jung sono la manifestazione più profonda della psiche, ed è stato capace di proteggere il bambino che gli era stato affidato. Lo ha nascosto per evitare che fosse ucciso e lo ha educato, facilitandogli il passaggio dal mondo familiare a quello sociale, come si racconta in un noto episodio del Vangelo di Luca: all’età di dodici anni Gesù si reca con i genitori a Gerusalemme per la Pasqua e a loro insaputa si trattiene per tre giorni nel tempio a discutere con i dottori. Interrogato sui motivi della sua scomparsa, Gesù risponde che deve occuparsi delle cose del Padre suo. Il bambino è diventato adulto e ha preso consapevolezza della sua vocazione. A quel punto, Giuseppe ha concluso la sua missione e sparisce. Di lui non si sa più niente. LZ È un personaggio molto equilibrato in senso junghiano perché è capace di rinunciare all’Io, di compiere bene il proprio dovere e di restare in contatto con l’inconscio attraverso i sogni. A grandi linee, tutta la teoria di Jung va in quella direzione. Se qualcuno mi fermasse per strada e mi costringesse a riassumere in due precetti la visione di Jung, risponderei: «Non credere che la psiche sia soltanto Io, razionalità e volontà, e rispetta la totalità delle funzioni psichiche». San Giuseppe incarna con semplicità questi due precetti, anche se è appiattito su ruoli collettivi – padre, marito, lavoratore onesto – e sembra privo di individualità. In sintesi, è un modello che non percorre l’altra parte della strada proposta da Jung: la via dell’individuazione. LB San Giuseppe ha vissuto radicalmente il principio antropologico del padre, per questo ritengo che sia l’incarnazione di Dio padre, come Maria è l’incarnazione dello Spirito Santo. La Trinità è la famiglia divina che si incarna nella famiglia di Nazaret. Giuseppe ha trovato una ragazza incinta e con estremo coraggio l’ha portata a casa sua, in un villaggio dove tutti si conoscevano, l’ha presa in moglie e ha allevato Gesù come se fosse suo figlio. Forse ha avuto altri figli con Maria, ha vissuto con lei una relazione profonda: questa sarebbe la sua storia individuale, che però non ci è pervenuta, perché non era funzionale alla narrazione principale, tutta centrata su Gesù. Io credo che, se anche Gesù fosse frutto del loro amore, non cambierebbe nulla dal punto di vista teologico. LZ E questo ci riporta alla complementarietà tra maschile o femminile, o

meglio, tra padre e madre. Margaret Mead, la maggiore antropologa del XX secolo, sostiene che la maternità è un fatto istintivo, mentre la paternità è fondamentalmente una scelta culturale, quindi etica. Questo significa che per la crescita del figlio non c’è vera differenza tra padre adottivo o naturale: anche il padre biologico, per essere genitore vero, deve «scegliere», deve adottare consapevolmente il figlio che ha già generato. LB Infatti la dottrina tradizionale della Chiesa considera Giuseppe un padre putativo, che ha assunto su di sé non la funzione biologica, ma quella etica: ha introdotto il figlio nella comunità ebraica e gli ha insegnato un mestiere. Per me è anche il segno della totale presenza di Dio nel mondo: il Padre si incarna in Giuseppe, il Figlio in Gesù e lo Spirito Santo in Maria. Non ha senso sostenere, come fanno i teologi, che soltanto il Figlio discenda dal Cielo. Le tre persone della Trinità sono sempre insieme, non si possono separare. La rivelazione non è il dispiegamento di una verità, ma il mostrarsi di Dio per quello che è. Se davvero è Trinità, si presenta nella storia come Trinità, cioè nella famiglia umana. Credo che queste mie eresie saranno i dogmi del XXI secolo. Quando Jung parla di Quaternità intende dire che Dio non è completo senza un elemento femminile, Maria. Il quattro non è inteso come numero, ma come archetipo di una totalità aperta che include tutte le diversità. E io sostengo che anche la famiglia cosmica – la creazione – deve essere inglobata nella famiglia divina. È una visione inclusiva basata sulla teologia di Duns Scoto, il teologo più importante della scolastica francescana del XIII secolo, secondo il quale ciò che connota l’essere umano è la capax infiniti, la capacità di includere l’infinito, cioè Dio inteso come Trinità. È il contrario della concezione di Tommaso d’Aquino, che insiste sulla separazione fra Dio e l’uomo. LZ Ai padri della Chiesa, e in particolare ad Agostino, si deve anche l’affermazione del primato della razionalità sul corpo, una visione che ha spinto per secoli le autorità ecclesiastiche a reprimere e condannare la sessualità. Tu hai studiato a Monaco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, nel periodo della cosiddetta liberazione sessuale. Com’era percepita negli ambienti teologici? LB La rigidità della Chiesa sulle questioni sessuali era molto contestata. Mi

ricordo che una volta, durante la discussione di una tesi con un professore di morale molto conservatore, le studentesse e gli studenti si sono abbassati i pantaloni in pubblico e il professore è scappato. Un giorno, entrando nell’aula magna dell’università per sostenere un esame, ho trovato i muri imbrattati di escrementi. C’era un odore terribile. Era stata una provocazione degli studenti. Un’altra volta, nelle salette davanti alle aule dove si tenevano le lezioni, ho visto quattro o cinque coppie che facevano sesso davanti a tutti. Era evidentemente un modo per contestare i costumi vigenti e invocare una totale liberazione, anche se in una forma piuttosto estrema. LZ Avete mai discusso di questi temi in America latina? LB No, perché c’erano altre priorità: i bambini di strada, i poveri delle favelas, gli indios uccisi dai rappresentanti dell’industria del legname, i malati di Aids. Abbiamo dato molto spazio alla questione femminile e alla critica del patriarcato, inteso come modello sociale ed economico, ma la sessualità è stata trascurata dalla teologia della liberazione. LZ Eppure si tratta di un tema con importanti risvolti sociali. Penso per esempio al problema della mancata contraccezione e della crescita demografica: il fatto di ignorare o rinviare la discussione su questi aspetti, limitandosi a sanzionare i comportamenti individuali, non potrebbe essere un’eredità inconscia della parte più conservatrice? Capisco la preoccupazione di arginare un approccio consumistico al sesso, ma ritengo che la Chiesa cattolica abbia una responsabilità storica immensa per aver sempre proibito qualsiasi forma di contraccezione, a parte i cosiddetti metodi naturali. Penso alla distinzione di Max Weber tra etica della convinzione ed etica della responsabilità: la dottrina sessuale della Chiesa è basata su principi astratti ed è indifferente alle conseguenze pratiche che si ripercuotono sui singoli individui e sulla società. È etica delle sole convinzioni, che rinvia all’infinito, al di là dell’orizzonte umano, le responsabilità, le enormi conseguenze che implica. Soprattutto per popolazioni già al limite della sopravvivenza. LB Sono d’accordo: la Chiesa è stata terribilmente irresponsabile in materia di sessualità, morale familiare e contraccezione, e in Africa ha avuto un atteggiamento criminale, condannando l’uso del profilattico nonostante

l’incidenza dell’Aids. Ciò non deriva dalla Bibbia, ma da sant’Agostino, che considera il desiderio sessuale come una reminiscenza arcaica del peccato originale. Solo il sesso finalizzato alla procreazione, se privo di desiderio, è considerato accettabile. Su questo assunto fondamentale si basa la teologia morale dominante, che considera peccato grave tutto ciò che riguarda la sessualità. Non bisogna dimenticare che Agostino, prima di convertirsi al cristianesimo, aveva aderito al manicheismo (una religione dei primi secoli che concepisce la realtà come una lotta perenne fra due principi opposti: bene e male, spirito e materia, luce e tenebre) e distingueva fra la città degli uomini e la città di Dio, la prima soggetta al demonio e al peccato originale, la seconda abitata da Dio e dalla grazia. È questa la base dottrinale della teologia di Ratzinger, che è un agostiniano e non accetta la modernità. Intorno a sé vede soltanto peccato e relativismo, in contrapposizione con il regno della grazia e della redenzione, che appartiene al popolo di Dio. Sin da quando era teologo in Germania, il futuro papa sosteneva che la Chiesa non deve essere necessariamente grande: basta che sia molto santa, molto pura, come il gruppo degli apostoli. Al di fuori di questo piccolo mondo non c’è salvezza: è questa la tesi della dichiarazione Dominus Iesus che Ratzinger ha firmato nel 2000, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In quel documento, che io ho vigorosamente contestato, il futuro papa nega il valore salvifico delle altre religioni. Mi pare che il suo pensiero, in sintesi, sia questo: Cristo è l’unica via di salvezza e la Chiesa è il pedaggio esclusivo. Nessuno percorrerà il cammino se prima non pagherà il pedaggio. È un metodo che abbiamo conosciuto bene in America latina: i primi missionari spagnoli che vennero in Messico, nei Caraibi e in Perù, formati nell’assolutismo cattolico-romano, considerarono false le divinità delle religioni indigene e una pura invenzione umana le loro dottrine. E distrussero quelle culture con la croce unita alla spada. LZ Ratzinger tuonava contro la «dittatura del relativismo» e appariva sempre sulla difensiva, come se fosse circondato da nemici: se la prendeva con la scienza, con la cultura laica, con le altre religioni... LB La crisi di credibilità che oggi la Chiesa attraversa è dovuta a ragioni interne, non esterne. Ho scritto a papa Francesco che occorre rifondare la

Chiesa sulla Bibbia, non su sant’Agostino. Bisogna chiudere quest’epoca patriarcale e maschilista, dove la donna non conta niente e la sessualità è funzionale soltanto alla famiglia. Nella Bibbia è vista come il mistero della creazione, la forza da cui nasce la vita, il momento in cui Dio è più intensamente presente, infatti Il cantico dei cantici è un’esaltazione dell’erotismo, della bellezza, del rapporto sessuale fra due amanti. Curiosamente non nomina mai Dio, eppure è un libro che fa parte della Bibbia, considerata d’ispirazione divina. La liturgia ne propone una lettura mistificata: lo spiritualizza, trasformandolo nel rapporto fra Cristo e la Chiesa, perché nella tradizione cattolica non c’è una teologia del corpo. La creazione è considerata impura, macchiata dal peccato originale. Per questo i sacerdoti non possono sposarsi. Il guaio è che il Vaticano non vuole ammettere che la pedofilia possa essere una conseguenza del celibato vissuto male. Chi ha frequentato un seminario sa che ti insegnavano a non guardare mai le donne negli occhi perché rappresentavano una tentazione. Ricordo che, quando sono tornato a casa dopo quattro anni di seminario, le mie sorelle mi sono venute incontro per baciarmi e abbracciarmi e io ero molto teso: mi avevano convinto che fosse peccato. È un insegnamento disumano. LZ C’erano casi di pedofilia nel seminario che hai frequentato? LB La pedofilia è un fenomeno nascosto. Ho saputo di tre o quattro casi in Brasile, ma il problema è emerso con maggiore evidenza nei paesi in cui la sessualità è più repressa. Nel 2001 Ratzinger ha scritto una lettera ai vescovi per ribadire che i «delitti contro la morale» (così è chiamata la pedofilia!) sono di esclusiva competenza della Congregazione per la dottrina della fede: un modo per sottrarre i preti pedofili alla giustizia civile. Negli Stati Uniti Ratzinger è stato chiamato in giudizio con l’accusa di aver coscientemente coperto sacerdoti accusati di abusi sessuali sui minori. Quando è emerso che erano coinvolti anche vescovi e cardinali, il papa ha dovuto ammetterlo pubblicamente, però ha fatto poco per proteggere le vittime: si è sempre preoccupato soltanto di salvare la Chiesa. LZ Affidare i preti pedofili alla giustizia civile significherebbe ammettere che c’è una responsabilità della Chiesa, oltre che dell’individuo: un fatto impensabile per Ratzinger. Mi ha molto colpito la sua mancanza di senso

critico su questo argomento quando nel 2006, ad Auschwitz, ha praticamente chiesto perdono a Dio per una colpa di tutto il popolo tedesco. Se dunque vede una responsabilità collettiva nell’Olocausto, perché non ammette quella della Chiesa sulla pedofilia? LB Ad Auschwitz Ratzinger era sincero, ma ha parlato da teologo: ha chiesto «perdono e riconciliazione» e si è rivolto a Dio: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Non ha ammesso le responsabilità dei cristiani, anzi, ha ribadito che la Chiesa cattolica può invocare la riconciliazione a nome di tutti e che nessuno deve arrogarsi il diritto di giudicare il mistero di Dio. Una strana interpretazione del crimine della Shoah. LZ Quando ti ho conosciuto a Rio de Janeiro ti ho sentito dire che la Chiesa cattolica, a differenza di altre confessioni cristiane, insiste sul celibato dei preti non per motivi teologici ma per ragioni pratiche: perché, essendo un’organizzazione internazionale, ha bisogno di spostare i sacerdoti secondo le sue necessità. Se i preti potessero sposarsi sarebbe molto più difficile e costoso convincerli a traslocare con tutta la famiglia. LB Il celibato è certamente vantaggioso per la Chiesa sul piano pratico, però è anche funzionale a una struttura di tipo monarchico come quella ecclesiastica, che si regge sull’esercizio della sacra potestà, cioè sul potere. Jung diceva che dove c’è potere non c’è amore. Il Vaticano è l’unica monarchia assoluta del mondo. Il papa ha autorità su tutte le chiese e su tutti i cristiani, e in alcune questioni è considerato infallibile, come Dio. Ovviamente, per l’autorità ecclesiastica i sacerdoti celibi sono più facili da gestire e da manipolare. LZ In termini psicoanalitici si può dire che il flusso di energia psichica va verso i superiori, invece che verso una compagna. La proiezione verticale è maggiore se il prete non ha moglie e figli. LB Il paradosso è che ci insegnano a considerare la Chiesa come una madre, mentre è una matrigna sessuofoba e priva di tenerezza. La persona dell’altro sesso è vista sempre come un pericolo, una fonte di tentazione da tenere a distanza. Nelle nostre comunità di base, invece, la sessualità è considerata una parte della vita. Io, per esempio, mi sono sposato dopo aver lasciato

l’ordine, ma continuo ad amministrare i sacramenti. Il 70 per cento delle nostre comunità di base è coordinato da donne, che celebrano la cena del Signore, una funzione distinta dalla messa, che è un rito sacramentale. I vescovi fanno finta di non saperlo, altrimenti dovrebbero proibirlo. Alcuni di loro ci incoraggiano persino ad andare avanti. Nella diocesi di San Paolo, per esempio, il cardinale Arns aveva affidato ai laici l’amministrazione di sacramenti come il battesimo e il matrimonio. Nelle comunità di base è valorizzata la partecipazione attiva di tutti, uomini e donne, e si crea un clima di festa, con danze, gesti, segni e simboli che uniscono fede e vita quotidiana. I teologi mi chiedono spesso se il Signore è presente o no in queste assemblee, e io rispondo citando le parole di Gesù: «Quando due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». LZ Il cardinale Arns, in un’intervista del 2001 al mensile «30 giorni», rispondeva così alla giornalista che gli chiedeva se la teologia della liberazione fosse morta: «È impossibile che muoia, perché la Chiesa è stata istituita per liberare gli uomini dal male. E la fame è un male. La povertà estrema è un grande male, l’ingiustizia nel salario ai lavoratori è un grande male. Tutto quello che è male deve essere combattuto dalla collegialità e da tutta la Chiesa. E non solo dal papa e dalle sue encicliche, ma da tutte le organizzazioni che esistono dentro la Chiesa». Da queste parole, pronunciate tredici anni fa, trapela ancora l’urgenza di una liberazione sociale e politica, mentre Freire insisteva sulla liberazione dall’oppressore interiore, un tema che sento vicino allo spirito del mio ultimo libro, Utopie minimaliste. A me pare che, dopo le violenze scatenate nel Novecento da utopie massimaliste come il comunismo e il nazionalismo, sia venuto il momento di coltivare quelle utopie che propongono un cambiamento interiore, nel rispetto degli altri e dell’ambiente. LB Negli anni Settanta in America latina ci siamo mobilitati soprattutto contro l’oppressione politica e sociale, che era molto forte. La dimensione psicologica della teologia della liberazione non è stata per niente sviluppata. Ci sembrava un’esigenza borghese, tipica dei paesi ricchi: l’operaio che sopravvive a stento non ha il tempo di occuparsi di se stesso. Però ci siamo resi conto subito che occorreva puntare sulla categoria della

liberazione integrale, che abbraccia tutte le dimensioni dell’essere umano: quella sociale, quella politica e quella personale. Per questo fin dagli inizi abbiamo coltivato la spiritualità, che è il principio di tutto. La prima reazione nei confronti della povertà è la protesta, la seconda è l’esperienza spirituale, per trovare il Cristo crocifisso nei poveri. Il dramma dell’uomo attuale è aver perso la spiritualità e la capacità di vivere un sentimento di appartenenza, cioè un profondo legame con tutte le cose. Oggi le persone sono sradicate, disconnesse dalla Terra e dall’anima, e per questo senza spiritualità. A metà del Novecento Jung aveva già intuito che «a partire da adesso fino al futuro indeterminato il vero problema è di ordine psicologico. L’anima è il padre e la madre di tutte le difficoltà non risolte che lanciamo verso il cielo». Se non riscattiamo la nostra parte sensibile non riusciremo a rispettare l’alterità degli esseri, ad amare la Terra con tutti i suoi ecosistemi e a vivere la compassione con chi soffre, nella natura e nell’umanità. 23 Leonardo Boff, Il volto materno di Dio, Queriniana, Brescia 1981. 24 Leonardo Boff, Ave Maria: il femminile e lo Spirito Santo, Cittadella, Assisi 1982. 25 Leonardo Boff, Rose Marie Muraro, Feminino & masculino, Sextante, Rio de Janeiro 2002. 26 Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 27 Leonardo Boff, Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere, Cittadella, Assisi 2006.

La nuova Chiesa di papa Francesco

Luigi Zoja Fin dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco ha dichiarato di volere «una Chiesa povera per i poveri». Nelle sue apparizioni pubbliche ha mostrato di prediligere uno stile semplice e diretto, libero dai paludamenti del sacro, e ha restituito visibilità a figure che Wojtyla e Ratzinger avevano emarginato: l’11 settembre 2013, per esempio, ha ricevuto in udienza privata il teologo della liberazione Gustavo Gutiérrez, in Italia per presentare la riedizione di un libro del 2004 da lui scritto insieme a Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.28 Il 19 gennaio 2014 ha ricevuto a Roma il missionario italiano Arturo Paoli, 101 anni, padre spirituale della teologia della liberazione. Come interpreti questi segnali? C’è davvero un’apertura nella Chiesa ufficiale? Leonardo Boff Molti si sono chiesti se papa Francesco, provenendo dall’America latina, sia un simpatizzante della teologia della liberazione. La questione mi sembra secondaria: l’importante non sono tanto le teorie quanto l’identificarsi con la liberazione degli oppressi e dei poveri. E questo lo fa con indubitabile chiarezza: è soprattutto a causa loro che ha avuto problemi con la presidente Cristina Kirchner, perché ha chiesto al governo un maggiore impegno politico per il superamento delle disuguaglianze sociali. Nel 1990 in Argentina i poveri erano il 4 per cento, oggi sono saliti al 30 per cento, per la voracità del capitalismo nazionale e internazionale. Questa situazione, ha detto con fermezza papa Francesco, non si supera con la filantropia, ma con politiche pubbliche che restituiscano dignità agli oppressi, rendendoli autonomi e partecipativi. Pur senza nominare la teologia della liberazione, il papa parla e agisce in quella prospettiva. In Argentina questo tipo di teologia si chiama «del popolo» o «della cultura popolare oppressa» e Bergoglio ne era entusiasta, come ha testimoniato un suo docente, Juan Carlos Sacannone, che fin da studente lo aveva spinto ad andare nelle favelas di Buenos Aires.

Il viaggio in Brasile dell’estate del 2013 è stato un successo perché papa Francesco ha mostrato con il suo comportamento una grande vicinanza ai poveri. Ai vescovi ha detto che occorre partire della realtà, esaminare le contraddizioni, esprimere un giudizio sul piano sociologico, psicologico e teologico, e poi agire. È il metodo che la teologia della liberazione ha sistematizzato in forma teorica e applicato nella pratica. La pastorale dovrebbe seguire questo metodo, identificando i problemi a partire dalla coscienza del popolo, dalla situazione sociale. Per essere un vero pastore il vescovo dovrebbe fare la rivoluzione della tenerezza, essere gentile e amorevole, avvicinarsi alle persone e aiutarle a sviluppare le loro potenzialità. Il papa ha parlato di liberazione in senso umano, non come atto politico: al centro c’è la persona, non le strutture sociali, che sono fredde e funzionaliste. LZ Ma per combattere gli abusi finanziari della Chiesa, riformare la curia e promuovere una vera trasformazione non occorrerebbe qualcosa di più incisivo, per esempio un altro Concilio Vaticano? LB Penso che questo papa, da buon gesuita, sia capace di molta diplomazia. Invece di cominciare dalla riforma della curia, è partito da se stesso: non abita nel Palazzo apostolico ma in un appartamento austero all’interno della Casa di Santa Marta, una struttura per prelati che lavorano o sono di passaggio in Vaticano. Mangia al self-service, facendo la fila col vassoio: «Io ho necessità di vivere fra la gente, e se vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi farebbe bene» ha detto ai giornalisti. Ho saputo da altri gesuiti che da giovane aveva fatto il voto di vivere con il minimo indispensabile. E infatti in Argentina, quando era cardinale, andava sempre in autobus, in metro o a piedi, viveva in un piccolo appartamento e si cucinava i pasti da solo. Dicono che è molto diretto, esprime con spontaneità ciò che sente. Credo che dopo di lui ci saranno altri papi provenienti dal Terzo mondo, e in particolare dall’America latina, dove le Chiese hanno una propria spiritualità, una propria teologia, i propri santi e martiri, una propria liturgia. Per l’Europa è spiazzante. Mentre ero in Belgio e in Germania per un convegno mi sono accorto che molti non hanno simpatia per questo papa che arriva dalla parte opposta del mondo. La Chiesa è ancora una struttura monarchica molto eurocentrica. Ma questa rimane una forma di

colonialismo. La sera dell’elezione, papa Francesco si è presentato come vescovo della Chiesa di Roma, chiamata a «presiedere nella carità», e nei mesi successivi ha detto di volere una gestione più collegiale. Lo strumento ufficiale creato dal Concilio Vaticano II è il sinodo dei vescovi, che si riunisce ogni due o tre anni, ma finora ha avuto soltanto una funzione consultiva. Bergoglio ha istituito formalmente un gruppo di otto cardinali, rappresentativi dei cinque continenti, che lo aiuteranno nel governo della Chiesa e nella riforma della curia. È un modo per decentralizzare il potere e ascoltare le esigenze delle varie culture. Così il papa può diventare un punto di riferimento, un fattore di unità nella fede, senza esercitare un potere autoritario. LZ In passato però Bergoglio ha preso posizioni molto chiare rispetto alla teologia della liberazione. Nel 2007, durante l’incontro dei vescovi latinoamericani ad Aparecida, in Brasile, ebbe un ruolo decisivo nella scelta di far prevalere il primato della fede rispetto a quello assegnato ai poveri. Come arcivescovo di Buenos Aires ha criticato la teologia della liberazione perché basata su «un’ermeneutica marxista» e il 28 luglio 2013, pochi mesi dopo essere stato eletto papa, ha messo in guardia i rappresentanti delle conferenze episcopali latinoamericane contro la tentazione del «riduzionismo socializzante». LB Papa Francesco ha sempre con sé una copia del Documento di Aparecida, di cui era stato il redattore finale. L’ha dato in omaggio a capi di Stato e di governo come Cristina Kirchner e Dilma Rousseff. Quel testo ribadisce nella sostanza il valore del metodo della teologia della liberazione e l’importanza delle comunità di base, auspicando l’avvento di un nuovo modo di intendere la pastorale. La Chiesa è concepita come un’immensa rete di comunità, non come un’istituzione piramidale governata da un’autorità infallibile. Bergoglio ha detto a Lampedusa: «Nessuno sa dove va il mondo, neppure io. Cerchiamo insieme una strada». È una bella novità, dopo un papa che pretendeva di avere sempre l’ultima parola e di indicare, in nome dell’ispirazione dello Spirito Santo, una via al mondo. Papa Francesco non ha questa arroganza. È umile e dice la verità. Infatti nessuno può dire dove ci porterà questa crisi globale e sistemica, se verso un futuro più amorevole e amico oppure, come temeva Norberto Bobbio, verso una

catastrofe universale. Dal punto di vista teologico, papa Francesco è conservatore, però lascia aperta la discussione. In passato non si poteva neppure sollevare il tema del celibato, del sacerdozio delle donne e della morale sessuale. Se un teologo o un vescovo si azzardava a farlo veniva immediatamente punito. Bergoglio rappresenta la dottrina tradizionale, però non è né rigido né dogmatico. Per esempio, quando ha saputo che un sacerdote di Roma non aveva voluto battezzare un bambino perché i genitori non erano sposati si è indignato e ha detto che la Chiesa deve essere aperta a tutti. E l’ha battezzato di persona. Papa Francesco è favorevole al mantenimento del celibato, ma ammette che è una questione di disciplina, non di fede, e che la situazione potrebbe cambiare. È molto flessibile. Nel 2000, quando era arcivescovo di Buenos Aires, era accorso al capezzale di Jerónimo Podestá, ex vescovo di Avellaneda che nel 1972 aveva lasciato il sacerdozio per sposare Clelia Luro, separata e madre di sei figlie. Il loro amore fece scandalo e scatenò una dura persecuzione politica. Bergoglio fu l’unico esponente ecclesiastico a restare vicino alla coppia. È stato amico di Clelia fino alla sua morte, nel novembre del 2013: quando era a capo della conferenza episcopale argentina le telefonava ogni domenica. E ha continuato anche da Roma. Pochi mesi prima di morire, Clelia mi ha scritto un’email per dirmi che il papa aspettava una mia visita. Io sapevo che avrei dovuto andarci di nascosto per non creare un caso giornalistico. Ho risposto che Ratzinger si sarebbe potuto offendere perché avevamo litigato. Bergoglio mi ha fatto arrivare questo messaggio: «Il papa sono io, non preoccuparti di Ratzinger». LZ Però tu hai descritto Ratzinger come una persona che ti ispirava simpatia. LB È sempre stato poco comunicativo. Quando era vescovo a Monaco scriveva biglietti ai sacerdoti invece di parlare con loro. Un giorno hanno convocato una riunione e hanno gettato tutti quei biglietti ai suoi piedi. Ratzinger non aveva senso pastorale, per questo Wojtyla l’ha chiamato a Roma. Ho provato compassione per lui quando ho saputo del rapporto sugli scandali della curia e sul circuito di prostituzione giovanile a beneficio di monsignori e parroci romani. Non si trattava di debolezze di singoli, bensì di lobby di potere in grado di esercitare un condizionamento perverso sul

governo della Chiesa. A quel punto Ratzinger si è accorto di non avere le forze fisiche, psicologiche e spirituali per affrontare la situazione e si è dimesso. Ha sofferto terribilmente. LZ È rarissimo che un papa si dimetta. Il caso più famoso è quello di Celestino V, descritto da Dante come «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Ammettendo pubblicamente i suoi limiti, Ratzinger ha rivelato la propria umanità. LB Ha pure dimostrato di non essere attaccato al suo incarico. Quando ho letto la notizia delle sue dimissioni ho provato sollievo, perché la Chiesa oggi ha bisogno di un leader che sia più pastore che professore. Lo stile di papa Francesco è molto diverso. Il 6 giugno 2013, nel corso di un’udienza con i delegati della Confederazione di religiosi latinoamericana e dei Caraibi (Clar), ha risposto con franchezza alle domande dei presenti e ha ammesso l’esistenza di una lobby gay in Vaticano. Era un’udienza privata, non si poteva registrare, ma un sito cileno ha pubblicato un resoconto che non è stato smentito. Qualche giorno dopo Bergoglio ha detto in un’omelia che «san Pietro non aveva un conto in banca», e al ritorno dal suo viaggio in Brasile, il 28 giugno, ha dichiarato ai giornalisti: «Non so come finirà lo Ior, alcuni dicono che forse è meglio che sia una banca, altri che sia un fondo di aiuto, altri dicono di chiuderlo. [...] Ma le caratteristiche dello Ior, che sia banca, fondo di aiuto o qualsiasi cosa, devono essere trasparenza e onestà». LZ Credi davvero che il papa abbia usato in quel contesto l’espressione «lobby gay»? Mi sembra un po’ forte. LB L’ha riferito un religioso cileno che ha partecipato all’udienza. Papa Francesco si esprime molto liberamente. Quando è stato ricevuto a Rio de Janeiro dalla presidente Dilma Rousseff, durante le Giornate mondiali della gioventù, ha parlato di sé come «il vescovo di Roma in visita ai fratelli del Brasile». Il 25 luglio, nel corso di un’intervista all’emittente brasiliana Rede Globo, dopo aver dichiarato di non conoscere i motivi per cui i giovani brasiliani erano scesi per strada in quei giorni a manifestare, ha aggiunto: «Un giovane che non protesta non mi piace. Perché il giovane ha l’illusione dell’utopia, e l’utopia non è sempre negativa. L’utopia è respirare e guardare avanti. Un giovane ha più freschezza, meno esperienza della vita, è vero. A

volte l’esperienza della vita ci frena. Ma ha più freschezza per dire le sue cose. Un giovane è fondamentalmente un anticonformista. E questo è molto bello!». Non si era mai sentito un discorso simile in bocca a un papa. Il governo brasiliano era stato messo sotto accusa per l’aumento del costo dei trasporti pubblici e per le spese sostenute per i Mondiali di calcio 2014 e le Olimpiadi 2016, a scapito di altri settori come la sanità e l’istruzione. C’erano state manifestazioni in un’ottantina di città, con scontri violenti che avevano causato due morti. Il papa ha parlato di umiltà democratica e ha invitato gli esponenti politici ad abbassarsi al livello dei cittadini per guardarli negli occhi e dialogare con loro, invece di sovrastarli. Espressioni come queste hanno un impatto enorme sulla società brasiliana. Nel 2011, quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio aveva delineato la sua utopia politica in un libro, poi pubblicato in italiano con il titolo Noi come cittadini. Noi come popolo.29 Ciò che propone è una forma di democrazia «ad alta intensità», ossia sostanziale, partecipativa e sociale, che mira a perseguire lo sviluppo integrale per tutti. LZ Sul volo di ritorno dal Brasile, ai giornalisti che lo interrogavano sulla lobby gay, il papa ha detto: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». E ha aggiunto: «Ma si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. [...] Questo è il problema più grave». L’accento non viene posto sull’orientamento sessuale, ma sui gruppi che premono per volgere le scelte della collettività a loro vantaggio. Tuttavia nel 2009, quando era arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio aveva protestato contro un giudice argentino che aveva permesso il matrimonio tra due uomini. LB Lo ribadisco, è conservatore in temi dottrinali, ma tiene le porte aperte. In Argentina dialogava con gli ebrei, con le Chiese evangeliche, con gli intellettuali. In un’intervista alla rivista dei gesuiti, «La civiltà cattolica», ha detto: «La Chiesa è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate». È il contrario della concezione di Ratzinger. Per questo confidiamo di poter riprendere la pubblicazione della collana sulla teologia della liberazione, bloccata dal 1984. Abbiamo già trovato un

editore interessato, Editora Vozes, ma molti teologi sono anziani o morti e l’ambiente culturale non è più lo stesso. I pontificati di Wojtyla e Ratzinger hanno trasformato la Chiesa in un centro di controllo, non c’era sufficiente libertà per produrre testi teologici radicati nella realtà. Malgrado tutto questo, mi auguro che con papa Bergoglio sia possibile far ripartire il progetto. LZ Nel 2011 la teologia della liberazione ha celebrato il suo quarantesimo compleanno. Che cosa rispondi a chi sostiene che è superata? LB Rispondo che è ormai diffusa in tutti i continenti e rappresenta un modo diverso di fare teologia, a partire dai reietti della Terra e dalle periferie del mondo. I poteri dell’economia e del mercato l’hanno condannata perché ha optato per coloro che sono fuori dal mercato, per gli zero economici. I poteri ecclesiastici l’hanno accusata di eresia, perché ha affermato che il povero può essere costruttore di una nuova società e di un altro modello di Chiesa. I conservatori l’hanno data per morta, eppure ce n’è bisogno come e forse più che in passato: nel 2008 c’erano 860 milioni di poveri al mondo, oggi sono prossimi al miliardo. Le grida sono diventate boati. Fino a quando ci saranno persone discriminate e oppresse, avrà sempre senso, partendo dalla fede, parlare e agire in nome della liberazione. È una teologia permanente, perché tutti, perfino i più fortunati, portano la propria croce: la paura della morte, l’esposizione a guerre e cataclismi naturali, la perdita del figlio o della sposa. Non abbiamo una vita sicura. La condizione umana è questa, e deve essere affrontata ogni giorno, con la sua angustia e oppressione. La fede offre un cammino di liberazione, collocando la vita – anche quella più frantumata – nelle mani di Dio, in vista di una liberazione spirituale. La nostra sfida non è quella di accrescere le schiere dei cristiani, ma di creare persone oneste, umane, solidali, compassionevoli, rispettose della natura e degli altri. In questo modo si realizza il progetto di Gesù. 28 Gustavo Gutiérrez, Gerhard Ludwig Müller, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione,

teologia della Chiesa, Edizioni Messaggero-Emi, Padova 2013. 29 Jorge Mario Bergoglio, Noi come cittadini. Noi come popolo, Jaca Book, Milano 2013.

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Frontespizio Presentazione Per cominciare Io vengo dal Neolitico Alla periferia della Chiesa: la teologia della liberazione La condanna di Ratzinger e Wojtyla Opzione Terra, la nuova frontiera della teologia Jung come interlocutore: verso la liberazione integrale La nuova Chiesa di papa Francesco

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