Tra Disney e Pixar. La «maturazione» del cinema d'animazione americano 8866521183, 9788866521181

Cosa si nasconde nelle lande sconfinate de Il Re Leone, nelle "notti d'Oriente" di Aladdin e nelle profon

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Tra Disney e Pixar. La «maturazione» del cinema d'animazione americano
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CIAK SI SCRIVE / LE STORIE a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi

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Tommaso Ceruso

TRA DISNEY E PIXAR La “maturazione” del cinema d’animanzione americano

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Indice

Introduzione

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Capitolo primo Il Rinascimento Disney

9

Capitolo secondo La Pixar «verso l’infinito e oltre»

78

Capitolo terzo Immaginari a confronto

125

Filmografia

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Introduzione

Le fiabe esistono perché l’uomo ha paura. Non dei draghi, non degli orchi e nemmeno delle streghe. L’uomo ha paura di se stesso. Neanche l’infinito del cielo e delle stelle riesce a spaventare l’umanità quanto il suo stesso riflesso. Nelle fiabe vi è la vita interiore di ognuno di noi, il percorso dei nostri pensieri, le impronte lasciate dalla nostra evoluzione, il desiderio di quella magia che sogniamo inghiotta le nostre stesse vite ed è per questo che esse riescono contemporaneamente a sublimare e ad atterrire. Attraverso il percorso dell’Eroe, sulle ali della sua storia, vive l’anelito umano alla transustanziazione dei sogni. Un percorso che, inevitabilmente, somiglia al viaggio delle immagini che, dalle pitture rupestri fino al cinema 3D, hanno ugualmente accompagnato l’istinto dell’uomo a destrutturare la propria vita ricomponendola con i colori naturali, con la tela, con la pellicola e con i pixel. Lo scopo è sempre lo stesso: esprimersi per perdersi, perdersi per ritrovarsi. Vi è un momento, dal 1989 al 1999, in cui la fiaba e il cinema, più di ogni altro periodo, diventano complementari e si fondono creando una straordinaria alchimia che sazia l’appetito di incanto spettatoriale. Ciò accade proprio quando l’orizzonte digitale sembra ormai inglobare qualsiasi tensione al sogno e al fantastico e si concretizza attraverso il cosiddetto Rinascimento Disney. Un momento unico nella storia del cinema che propone un preciso paradigma, chiaramente basato sul modello fiabesco di Propp, che genera consensi di critica e di pubblico film dopo film, in maniera continua, come se il mondo si fosse concesso una pausa lunga dieci anni per trasformare la sala cinematografica in uno spazio confortante in cui riconciliarsi con il proprio inconscio. 7

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Nel 1995 qualcosa inizia a vacillare, il peso della realtà, o meglio dell’iperrealtà, inizia a farsi sentire ed è solo una questione di tempo perché il Rinascimento Disney lasci il passo alla Pixar, attenta psicologa della contemporaneità, che risponde alla perfezione delle macchine regalando un cuore ai pixel, chiedendo al vecchio immaginario un vero e proprio passaggio di consegne. Dalla sete di fiaba alla sete di umanità: un percorso che ho definito, provocatoriamente, “maturazione”. I castelli fiabeschi improvvisamente scompaiono dinanzi al nostro sguardo e vengono sostituiti da cancelli digitali che, aprendosi, lasciano intravedere il nuovo mondo che stiamo costruendo. Lo spettatore matura perché il suo corpo sociale e culturale gradualmente si trasforma e lo costringe a mutare forma, a rielaborare i suoi orizzonti, ad abbandonare la sua natura archetipicamente “infantile” e a “crescere”, abbandonando la sua atavica catartica ambizione a combattere i draghi per rinfoderare la spada e abbracciare il computer. Il corpo e l’anima del bambino, la sua profonda ancestrale connessione con l’inconscio, svaniscono sotto il peso di una crescita forzata e lo spettatore diviene adulto perché schiacciato dal peso di una realtà che lo sovrasta e lo lacera, strappando le sue carni e sostituendole con i circuiti, rimpiazzando la sua anima con un server. Se crescendo diveniamo adulti che non smettono mai di agognare lo spirito di un bambino, evolvendoci ci trasformiamo giorno dopo giorno in macchine che sognano ancora, nostalgicamente, di avere un cuore umano. Il cinema d’animazione è proprio quel lento pulsare che, seppur eclissato dalla virtualità, ci consola con un battito tremendamente reale che ci ricorda che non siamo ancora automi. L’invito che ci viene posto è, ancora una volta, quello di tornare a sfoderare la spada perché c’è sempre un castello da conquistare, una principessa da salvare, un viaggio da portare a termine. Cambia il nemico, cambia il periodo storico, cambia l’umanità, eppure lo scopo è sempre lo stesso: credere che sia ancora possibile pervenire al classico «e vissero tutti felici e contenti».

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Capitolo primo

Il Rinascimento Disney

Dal cinema d’animazione a Walt Disney Due sono i principali preconcetti che circondano il cinema d’animazione causando una mistificazione del suo significato. Da un lato il fatto che, come fa notare Rondolino, esso tenda ad essere considerato «un particolare genere di spettacolo cinematografico che, appunto come tale, va trattato separatamente»1. Dall’altro l’idea che esso sia nato e si sia evoluto indirizzandosi esclusivamente, o almeno principalmente, ai bambini. Tali concezioni finiscono per causare, in alcuni casi, una diffidenza (o addirittura un rigetto) nei confronti di un presunto cinema di serie B, un’appendice definita, in accezione dispregiativa, “cartoni animati per bambini”. Appare incredibilmente difficile, una volta che i preconcetti si sono sedimentati nell’individuo, cancellarli e ripartire da zero dinanzi al singolo film. Occorre fare, dunque, un po’ di chiarezza per liberarsi dai preconcetti e ricominciare dal principio a familiarizzare con il cinema d’animazione. Innanzitutto è utile notare che il cinema d’animazione non può essere definito un “genere” poiché esso non si avvale di «determinate regole compositive». Può invece essere definito come: Quel particolare mezzo espressivo che si ottiene con la successione, nel tempo, di immagini statiche realizzate ciascuna isolatamente, il cui movimento nasce al momento della proiezione e non come riproduzione di un movimento già esistente 1

G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Torino, Utet Libreria, 2003, p. 3.

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in fase di ripresa, come avviene nel cinema “dal vero”. L’animazione, cioè il movimento all’interno dell’immagine, è il risultato del lavoro meticoloso e paziente di un artista o di una équipe di tecnici-artisti, i quali possono – anzi devono – predisporre anticipatamente il movimento finale del film suddividendolo in tante unità di tempo determinate da precise regole compositive, che ovviamente possono anche non uniformarsi ai dati sperimentali del tempo “reale”2.

Dunque l’animazione va considerata non come una determinata tipologia di cinema bensì come una parte integrante di esso che si esprime utilizzando un mezzo espressivo specifico. L’animazione non determina un tipo di contenuto tematico o una precisa struttura narrativa. Dal punto di vista storico, considerando anche il pregiudizio che porta a considerare il cinema d’animazione un accessoire del cinema, può essere utile ricordare che è quest’ultimo a derivare dall’animazione e non viceversa. Le origini dell’animazione sono rintracciabili nel periodo di formazione dell’umano poiché, fin dalle pitture rupestri compaiono, dei segni che testimoniano il desiderio di raccontare una storia scomponendola immagine per immagine. Virgilio Tosi ne Il cinema prima di Lumiére afferma, per l’appunto, che la storia del cinema nasce con i disegni nelle grotte di Altamira3, graffiti che racchiudono il desiderio di rinchiudere e rappresentare un movimento con un contenuto narrativo definito. Negli oceani del tempo non è poi difficile collegare le pitture rupestri alle storie che nell’antico Egitto riempivano le pareti interne delle piramidi, gli spettacoli di ombre in Egitto, in Babilonia, in India e in Medio Oriente alle teorie di Aristotele e degli Arabi, le teorie di Giovanni Battista Della Porta a Kircher e alla sua lanterna magica descritta in Ars magna lucis et umbrae, volume risalente al 1646. A tale proposito la lanterna magica, attraverso gli occhi del giovane Werther, così viene descritta da Goethe: Le immagini più multicolori brillano sul muro bianco! E quand’anche ciò non fosse che un’illusione passeggera, ciò realizza la nostra felicità, quando come dei bambini ingenui restiamo lì davanti, rapiti da queste meravigliose apparizioni4. 2

Ivi, p. 5. Cfr. V. Tosi, Il cinema prima di Lumière, Roma, Rai-Eri, 1984. 4 W. Goethe, Die Leiden des jungen Werthers (1774); trad. it. I dolori del giovane Werther, Milano, Bompiani, 1987, p. 37. 3

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Dalle parole dello scrittore tedesco emerge con chiarezza una forza evocatrice che trascina il personaggio all’età infantile, riaprendo inconsciamente all’emotività dinanzi a immagini che, pur essendo illusorie, riescono a generare in lui una felicità spontanea. Vi sono poi la fantasmagoria di Robertson, il fenachitoscopio di Plateau e Stampfer, il teatro ottico di Charles-Emile Reynaud e l’elenco potrebbe essere molto più lungo. La storia dell’animazione, proprio come la fiaba, ha origini arcaiche ed imprecisate e sembra raccontare un desiderio costante all’interno dell’evoluzione dell’umanità che ha trovato modi di esprimersi anche molto differenti ma accomunati sempre dallo stesso intento. Lo stesso desiderio ha portato alla nascita del cinema e del cinema d’animazione che sono intrinsecamente ed intimamente legati fin dagli albori. Antecedente addirittura al cinema dei Lumière, nato con le proiezioni che Èmile Reynaud tenne col suo Théâtre Optique al Museo Grévin a Parigi nel 1892, l’animazione consentì che una serie di disegni mostrati in rapida successione fosse in grado di raccontare delle storie e di spiegare un racconto; e da allora gli avvenimenti che il cinema d’animazione crea per mezzo di strumenti diversi dalla ripresa “dal vero” sono originati da e intessuti interamente di quello che gli uomini ideano e che fanno apparire in immagini del tutto originali. Nei primi anni del cinema, accanto ai primi drammi e ai film documentari vengono proiettati già disegni animati, lastrine pubblicitarie. I film “fantastici” di Georges Meliès (pochi sono i suoi film girati “dal vero”). Indi i film di James Stuart Blackton, di Segundo de Chomon, di Èmìle Cohl, di Wìnsor McCay, i pionieri del cinema d’animazione5.

A testimonianza della difficoltà nello stabilire un punto di confine tra cinema e cinema d’animazione possiamo ricordare che lo storico Georges Sadoul a proposito del cinematographe dei fratelli Lumière parlava di «fotografia animata» e di «proiezioni animate»6. Ad oggi il primo film (un mediometraggio) considerato propriamente d’animazione è Matches Appeal (Il fascino dei fiammiferi), film risalente al 1899 di Arthur Melbourne Cooper, filmato di propaganda che invitava gli inglesi a regalare dei fiammiferi ai soldati nella guerra anglo-boera. Il primato gli è stato assegnato tenendo conto 5

M. Tortora, Viaggi nell’animazione: interventi e testimonianze sul mondo animato da Émile Raynaud a Second Life, Latina, Tunuè, 2008, p. 3. 6 Cfr. G. Sadoul, Histoire générale du cinéma. Tome 1. L’invention du cinéma (1946); trad. it. Storia del cinema, Torino, Einaudi, 1953.

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dell’uso della tecnica su cui si basa il processo compositivo chiamata «a passo uno». Tale processo prevede che la macchina da presa riprenda i disegni uno alla volta e richiede, per realizzare l’effetto animato, sedici disegni al secondo che diventano 9600 per un video lungo dieci minuti. La tecnica dello scatto singolo risale, tuttavia, a un periodo ancora precedente e in particolare al lavoro di George Méliès che tra il 1888 e il 1914, lavorando al teatro parigino Robert Houdin come mago illusionista e cineasta, aveva già introdotto questa pratica per generare stupore negli spettatori. Ad oggi non è possibile sapere con certezza se egli abbia anche realizzato un vero e proprio film utilizzando questa tecnica ma, a prescindere dai primati, ci basta sapere quanto le origini dell’animazione differiscano dalla nozione di essa che si è sviluppata nel periodo contemporaneo. Eppure ritornano costantemente, così come per la fiaba, sia il concetto di magia che il legame con il mondo dei bambini. È possibile constatare, infatti, che, a prescindere dagli elementi tecnici e dai primati, già con Goethe emerge il potere del processo legato all’animazione (anche se in questo caso si parla di lanterna magica) di ricondurre un adulto alla condizione di bambino. Possiamo inoltre rilevare come il cinema d’animazione abbia avuto fin dall’inizio scopi ben diversi da quelli che si è soliti attribuire ai “cartoni animati”, essendo stato utilizzato in principio con l’intenzione di fare propaganda bellica. In particolare negli anni Dieci e Venti, prima che Walt Disney facesse la sua comparsa sulla scena internazionale, l’animazione è stata utilizzata soprattutto dalle “avanguardie storiche” come futurismo, dadaismo, surrealismo ed espressionismo, che hanno trovato in questo mezzo espressivo uno strumento adatto a cercare nuovi linguaggi generando quello che viene generalmente chiamato “cinema sperimentale”. All’interno di queste sperimentazioni il cinema d’animazione viene privato dell’elemento narrativo e si alimenta di una figurazione principalmente astratta. Agli artisti 12

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veniva finalmente data la possibilità di aggiungere il movimento alla loro arte creando degli spettatori attivi che potevano assistere ad opere create nella loro interezza dal regista/artista, elemento che sfuggiva alle possibilità del cinema dal vero. Negli Stati Uniti, il cinema d’animazione pre-Walt Disney ha la sua sede principale a New York. Nel 1914 Raoul Barrè, pubblicitario e artista, fonda uno dei primissimi studi di animazione e introduce lo slash system, una tecnica che permette di far scorrere il movimento dei personaggi su dei fondali fissi. Il legame tra fumetto e animazione ha invece la sua origine nel 1916, anno in cui nasce l’International Film Service, che trasformava le vignette della rivista posseduta da William Randolh Hearst (l’uomo a cui Orson Welles si ispirò per il personaggio di Charles Foster Kane in Quarto Potere) in film animati. Il progetto durerà solo un paio d’anni a causa della crisi in cui l’America si trovava ma, seppure il contesto non fosse ideale per lanciare nuovi progetti, varie figure riusciranno ad emergere in questo settore. Esempi significativi della progressiva affermazione dell’animazione sono Josh Randolph Bray che lancia Colonel Heeza Liar e ottiene un buon successo realizzando filmati di addestramento o destinati alla propaganda bellica; Winsor McCay, fumettista e animatore che realizzava i chalk talk, parodie del pubblico realizzate con il gessetto e che ha portato alla creazione nel 1911 di Little Nemo, primo film animato ispirato peraltro ad un suo fumetto; Paul Terry, che inizia nel 1915 lanciando Little Hermann, parodia di un prestigiatore del periodo, che arriva nel 1938 a creare Mighty Mouse, un topolino dotato di superpoteri. Il cinema d’animazione dunque, anche negli States, nasce e si sviluppa trasformandosi, a seconda dei casi, in un mezzo pubblicitario, propagandistico, artistico e parodistico senza alcuna specifica restrizione legata al target dell’uditorio né al suo contenuto. Esso è semplicemente un mezzo che può essere plasmato in qualunque modo i suoi autori ritengano necessario. Può essere utile notare come vi sia più di un punto di contatto tra il cinema d’animazione delle origini e il cinema d’animazione digitale contemporaneo. A partire dallo sviluppo del digitale nel cinema statunitense degli anni Sessanta, il cinema si è poi praticamente fuso con esso e con la grafica computerizzata ritornando all’origine del processo cinematografico, così come fa notare Lev Manovich.

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La costruzione manuale delle immagini del cinema digitale rappresenta un ritorno alle pratiche precinematografiche del diciannovesimo secolo, quando le immagini erano dipinte a mano e animate artigianalmente. All’inizio del ventesimo secolo il cinema delegò queste tecniche manuali all’animazione e si definì come un medium di registrazione del reale. Ma con l’ingresso del cinema nell’era digitale le tecniche manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico7.

Ciò determina una fusione tra cinema e cinema d’animazione in cui la distinzione tra i due è inevitabilmente scomparsa (seppure come abbiamo visto, appare già improbabile che essa sia mai davvero esistita). Tale condizione è ben rappresentata dal fatto che sempre più frequentemente sequenze intere di film dal vero contengono frammenti realizzati al computer che appaiono difficilmente identificabili. È un uso dell’immagine digitale che si è diffuso ovunque, nel cinema e nella televisione, annullando completamente i confini fra cinema “dal vero” e cinema d’animazione. Sicché si potrebbe affermare, paradossalmente, che oggi una parte del cinema spettacolare “dal vero” è in realtà cinema d’animazione, cioè realizzato con la tecnica della ripresa fotogramma per fotogramma (sebbene il procedimento tecnico sia differente)8.

Non c’è, a ogni buon conto, bisogno di parlare del digitale per abrogare la ghettizzazione cui l’animazione è stata vincolata. Da un punto di vista strettamente tecnico e terminologico, fin dall’inizio della produzione cinematografica, vi è un altro buon motivo per eliminare ogni distinzione e ricordare come e in che misura cinema e animazione siano tanto legati da poter essere considerati una cosa sola e indivisibile, caratterizzata dal medesimo processo che ne garantisce la fruizione: Se osserviamo una pellicola cinematografica in controluce vediamo questi fotogrammi come fotografie isolate, statiche, prive di movimento. E non c’è differenza tra un film d’animazione e un film “dal vero”, ambedue sono composti appunto di fotogrammi e, se si vuole, di immagini (magari disegnate o manipolate o vuote) che si “animeranno” solo al momento della Proiezione. Con la televisione, le videocas7 L. Manovich, The Language of new media (2001); trad. it. Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p. 298. 8 G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, cit., p. 9.

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sette, i dvd (domani con altri mezzi ancor più sofisticati) non è più possibile parlare di proiezione e di schermo, di sala e di pubblico, come un tempo; ma la questione non cambia. Si tratta sempre di elementi statici che diventano dinamici attraverso un processo particolare che, per comodità e tradizione, chiamiamo “cinematografo”. Si potrebbe chiamarlo “animazione”: un processo di animazione dell’immagine che è tale anche se i mezzi tecnici con cui è realizzato possono mutare col mutare dei tempi9.

Se dunque, come abbiamo visto, il cinema d’animazione non è un genere e, soprattutto, non è un passatempo per bambini, cosa ha fatto in modo da creare una tale concezione di esso? Alla base vi è il fraintendimento di quello che viene generalmente considerato il cinema d’animazione per eccellenza, quello Disney, in particolar modo nella sua produzione degli anni Trenta. Per capire tale errata concezione è necessario ripercorrere le fasi che hanno portato alla ribalta colui che viene considerato come l’emblema della nascita del cinema d’animazione così come oggi lo conosciamo. Walt Disney, nato nel 1901, trascorre una giovinezza molto travagliata a causa del rapporto conflittuale con il padre e approda all’animazione solo grazie a corsi serali e per corrispondenza di disegno e fumetto. La sua carriera inizia nell’agenzia pubblicitaria di Ubbe Art Iwerks, che sarà poi suo amico e che collaborerà con lui tutta la vita, prima come animatore e in seguito, come tecnico e supervisore agli effetti speciali. I due insieme a due colleghi, Rudolf Ising e Hugh Harman, aprono uno studio e, dopo aver realizzato Alice’s Wonderland, iniziano a bussare alle porte di Hollywood, senza risultato. Il cinema d’animazione praticamente non esisteva nei piani produttivi delle case cinematografiche e gli Studios erano ancora lontani dall’ottica di una serie a puntate come quella progettata da Walt e compagni. Sarà una distributrice newyorkese, Margaret J. Winkler, a commissionare loro i primi episodi di Alice che verranno realizzati sotto il nome di Alice’s Comedies tra il 1923 e il 1924. Dopo un periodo in cui Walt aveva lavorato al personaggio del coniglio Oswald per poi vederlo cedere dal suo nuovo proprietario Charlese Mintz alla Universal, lo studio entra in un periodo di crisi. La salvezza giunse nel 1928 con la nascita di Mickey 9 Id., Origini e nascita del cinema d’animazione, in Viaggi nell’animazione…, a cura di M. Tortora, cit., p. 24.

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Mouse. La sua prima apparizione è in Plane Crazy ma è la comparsa in Steambot Willie, episodio che richiama Steambot Bill Jr. del 1928 di Buster Keaton, a rendere Topolino leggendario. Giunge così una proposta di acquisto sia per il film che per il personaggio ma Walt, che dopo Oswald aveva imparato la lezione, tiene per sé il personaggio e stringe un accordo con la United Artists che gli verserà la (per il periodo) astronomica cifra di 14.000 dollari per ogni episodio con Mickey Mouse. Neanche Topolino nasce come un prodotto esclusivamente per bambini. Esso si ispira, sia nelle gag che nelle movenze, ai personaggi delle slapstick e si richiama volutamente a Buster Keaton. Esso rappresenta, inoltre, il personaggio con cui Walt Disney vuole identificarsi poiché ritrae «un uomo comune responsabile, integrato ma capace di osare e dotato di una personalità brillante»10. Oltre a ciò, come fa notare Dragosei, Topolino rappresenta la virtù, l’uomo che ha il comportamento ideale all’interno della società di Roosevelt11. Nonostante ciò Topolino è finito per essere storicamente equivocato accentuando il ruolo del significante rispetto a quello del significato. È rimasto il simpatico topolino che suscita simpatia e genera amabili gag ma si è perso il contatto con la sua origine legata al cinema muto, allo slapstik e alla società rooseveltiana. La banalizzazione del cinema d’animazione è dunque collegabile alla mancata comprensione delle sue capacità espressive infinitamente poliedriche e adattabili alle più disparate esigenze, dalla propaganda bellica allo spot, dalla parodia alle gag di Topolino. Come afferma il noto animatore Bruno Bozzetto: Il cinema d’animazione è uno strumento molto versatile, con cui si possono comunicare agli spettatori miriadi di informazioni. Perché limitarlo alla finzione o ai film per l’infanzia, quando si può magari spiegare al pubblico, divertendolo e interessandolo, anche la meccanica quantistica?12

Siamo di fronte a una riduzione allo stereotipo che porta ad accostare il mezzo espressivo esclusivamente a un suo singolo impiego. Il fatto che 10

A. Antonini, C. Tognolotti, Mondi possibili, un viaggio nella storia del cinema d’animazione, Milano, Il principe Costante , 2008, p. 200. 11 Cfr. F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, Bologna, Il Mulino, 2002. 12 B. Bozzetto, in Viaggi nell’animazione… , a cura di M. Tortora, cit., p. 6.

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Steambot Willie avesse movenze buffe e affascinasse i bambini non implicava il desiderio di nascondere il suo sfondo storico, sociale e culturale che troppo spesso viene, al contrario, semplicemente dimenticato o ignorato. Dunque abbiamo una mancata contestualizzazione del fenomeno che porta a una riduzione del suo significato. Il testo finisce per nascondere il sottotesto lasciando l’illusione ma facendo sì che il senso dell’opera svanisca, soprattutto dinanzi al passare del tempo che porta a un disinteresse del rapporto trasversale tra opera e contesto. Aggiungiamo poi un altro elemento, forse il più radicale: la sommersione dell’inconscio. Fin da Goethe l’incanto, la magia provocata dal processo di animazione, sembra ricacciare l’adulto nella condizione infantile. Vi è dunque in questo mezzo espressivo qualcosa di astraente e che la società tende a confinare in una fascia d’età ben precisa, come se agli adulti, l’accesso al magico fosse proibito. Il fatto che si pensi ai bambini sia come lettori della fiaba che come pubblico del cinema d’animazione non è un elemento di poca importanza: ci suggerisce, anche in base al collegamento tra il mondo del fiabesco e il mondo del cinema animato, le modalità con cui la nostra società costringe l’archetipico all’interno di restrizioni ben precise, relegandolo a una precisa età della nostra vita: Il fatto che la fiaba sia una letteratura riservata all’infanzia evidenzia un aspetto interessante della nostra società e cioè che il materiale archetipico si considera infantile come se la parte oscura, inconscia, irrazionale di ciascuno di noi dovesse restare relegata solo in una particolare condizione della vita. Ciò ribadisce il bisogno esistenziale dell’uomo di rimuovere, reprimere, spostare impulsi, bisogni e vissuti spesso non facilmente gestibili, ipotizzando, così, di neutralizzarli13.

Dopo Mickey Mouse arrivano le Silly Symphonies, una serie di corti animati con temi vari e un forte uso della componente musicale, così come accade in Skeleton Dance del 1929. Nonostante alcuni diverbi con Iwerks, lo Studio Disney continua a proliferare e decide di utilizzare il neonato Technicolor per far debuttare il colore nel mondo animato in occasione di Flowers and Trees del 1932. Il successo conseguito sarà la spinta decisiva 13

F. Borruso, Fiaba e identità, Roma, Armando, 2005, p. 45.

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verso il primo lungometraggio animato americano14. Il 1937 è l’anno di Snow-white and the Seven Dwarfs (in italiano Biancaneve e i sette nani), film «in cui realismo e “magia Disney” si fondono armoniosamente»15. Da questo momento in poi il legame tra cinema d’animazione e mondo della fiaba diventa una costante del cinema Disney e di tutto il cinema d’animazione. Già nel 1940 questa strada verrà seguita di nuovo con Pinocchio ma, successivamente, molti saranno anche gli esperimenti che proveranno a seguire una strada differente. Ad esempio saranno un esperimento Fantasia del 1940, che unisce l’animazione alla musica classica, o The Three Caballeros del 1945 (I tre caballeros) che prevede l’alternanza tra animazione e sequenze documentarie. Eppure elementi della fiaba tornano inevitabilmente, soprattutto in film come Cinderella (Cenerentola) del 1950, in Alice in Wonderland (Alice nel paese delle meraviglie) del 1951, in Peter Pan del 1953, in Lady and the Tramp (Lilli e il Vagabondo) del 1955, in Sleeping Beauty (La Bella Addormentata) del 1959, in The sword in the stone (La spada nella roccia) del 1963. L’ultimo film che Walt Disney vedrà uscire in sala sarà Mary Poppins nel 1965, in cui realtà e fiaba si uniscono così come cinema d’animazione e cinema dal vero. Walt Disney, pur avendo scoperto con Biancaneve e i sette nani una autentica miniera d’oro nel legame tra lungometraggio d’animazione e fiaba, non smetterà mai di innovare la sua produzione sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista tecnico. Se non fosse arrivata a colori sugli schermi una principessa dalla pelle bianca come la neve, molto probabilmente non sarebbero stati girati in Technicolor né Il mago di Oz né Via col vento. Se Disney non avesse avuto la geniale intuizione di Fantasia oggi non ascolteremmo i film in Dolby Digital16.

La morte di Walt Disney nel 1966 segna la fine di un’era e l’inizio della crisi della produzione marcata Disney. Sono poche, negli anni successivi, le opere a destare un grande interesse nel pubblico, la sperimentazione tecnica 14 Il primo lungometraggio della storia è invece El Apòstol (1917) di Quirino Cristiani, cineasta argentino di origini italiane. Tale lavoro è andato distrutto, come la stragrande maggioranza delle opere di Cristiani, durante un incendio. 15 A. Antonini, C. Tognolotti, Mondi possibili…, cit., p. 202. 16 N. Valoroso, Il Pianeta Disney, in Viaggi nell’animazione... , a cura di M. Tortora, cit., p. 25.

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diventa più rara e Walt sembra non avere un vero e proprio erede. Le basi della ripartenza verranno poste da Roy E. Disney, nipote di Walt e membro del consiglio direttivo fin dal 1967 che incarica Michael E. Eisner, ex dirigente della Paramount, della produzione di film animati. Eisner dal 1984 diventa il presidente della Walt Disney Company. Egli affida la Touchstone a Jeffrey Katzenberg (che crea un successo commerciale quale Pretty Woman che fa tornare un po’ di ossigeno alle quasi disastrate casse societarie) e rilancia la produzione attraverso quello che sarà poi ricordato come il «Rinascimento Disney». Questa definizione racchiude la produzione Disney che va dal 1989 al 1999 e che, come vedremo, descrive il processo che ha riportato la Disney alla ribalta, grazie a un successo sia di critica che di pubblico, attraverso l’uso di tecniche di narrazione e di un preciso schema narrativo-compositivo che, come vedremo, torna ad intrecciare indissolubilmente e costantemente (più di quanto fosse mai accaduto) il cinema con la fiaba. In questi dieci anni il cinema Disney riscopre di essere essenzialmente fiabesco e si rende conto di poter riuscire, un po’ come faceva la lanterna magica con Werther, a incantare trasformando gli spettatori in «bambini ingenui» che restano davanti allo schermo «rapiti da meravigliose apparizioni». Guai a sottovalutare un mezzo espressivo tanto potente da generare incanto, guai a pensare che l’attitudine alla magia possa essere risvegliata solo nei bambini.

C’era una volta Quando si pensa a una fiaba si è sempre soliti pensare al suo incipit come al classico «c’era una volta». Tuttavia, raramente è ben chiaro cosa esso implichi. Questa sequenza di parole non consiste solo in uno schema ripetitivo usato reiteratamente (ma non universalmente), si tratta piuttosto di una vera e propria «formula magica». Che si usi o no questo paradigma l’incipit fiabesco prevede sempre qualcosa che si presenta come un’introduzione a un rituale. «C’era una volta» è un avvertimento a prestare attenzione perché stiamo uscendo dal mondo reale e ci stiamo addentrando nel regno della suggestione, dell’inconscio, del magico e dell’indeterminatezza. 19

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Quando, dove, come e quanto? Sono domande che non hanno risposta. Specialmente per chi è abituato al qui ed ora. D’altra parte le fiabe agiscono sempre nell’indeterminatezza. Non a caso il loro tempo è l’imperfetto. Indeterminatezza del luogo e dello spazio: c’era una volta… Indeterminatezza della quantità: e vissero per sempre felici e contenti… Quanto felici e contenti? Come fecero? Non c’è mai una risposta certa, tutto è lasciato all’immaginazione17.

Accettare il «c’era una volta…» e continuare a leggere significa inoltrarsi, più o meno consapevolmente, in un sentiero all’interno della propria mente e accettare che le regole del gioco saranno ben diverse da quelle del quotidiano. Come Umberto Eco afferma, «se un testo inizia con “c’era una volta”, esso lancia un segnale che immediatamente seleziona il proprio lettore modello, che dovrebbe essere un bambino, o qualcuno che è disposto ad accettare una storia che vada al di là del senso comune»18. Siamo dunque chiamati a varcare un confine e inoltrarci nella profondità dell’Io. Sorprendente e paradossale che tale esperienza sia considerata “per bambini”, ma ciò pare in qualche modo esplicitare il desiderio societario di contenere la spinta verso una componente della psiche in cui, così come accade per i sogni, è custodito il rimosso e che prevede sentieri che, generalmente, la struttura sociale ci porta ad ignorare. La fiaba è il mondo dei sogni ad occhi aperti, che avvincono con tanta maggiore forza quanto più i tempi sono difficili. La fiaba, perciò, può definirsi un dono degli Dei, come lo sono i sogni19.

Una volta varcata la soglia della fiaba bisogna essere pronti ad accettare qualsiasi astrazione e possibilità mettendo in discussione se stessi, i propri desideri, la propria infanzia, le stratificazioni e le cause del nostro stesso essere. Gli unici che sono autorizzati a farlo sono generalmente i bambini perché, dopo una certa età, semplicemente si è portati ad accettare la crescita acconsentendo passivamente alla configurazione socio-culturale del contesto di sviluppo e allontanando la problematicità degli interrogativi che la psiche ci sottopone. 17 F. Cambi, S. Landi, G. Rossi, La magia nella fiaba. Itinerari e riflessioni, Roma, Armando, 2010, p. 16. 18 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, p. 11. 19 G. Caserta, La bella fiorita, Taranto, Scorpione, 1989, p. 8.

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Difatti l’ingresso nel mondo del fiabesco non è esattamente “indolore”, non lascia chi legge nell’indifferenza. La caratteristica della buona fiaba del tipo elevato, ovvero completo, è che per quanto terribili siano gli avvenimenti, per quanto spaventose e fantastiche le avventure, essa è in grado di provocare nel bambino o nell’adulto che ascolta, nel momento in cui si verifica il «capovolgimento», un’interruzione del respiro, un sobbalzo del cuore20.

Dunque nell’incipit fiabesco non vi è un tentativo di captatio benevolentiae della retorica classica (o talvolta del romanzo moderno) o l’incipit in medias res. Non veniamo catapultati all’interno della narrazione ma preparati gradualmente al “sobbalzo” che ci porta a scendere sempre più a fondo nella nostra mente, un gradino alla volta attraverso una ripetizione evocativa. Il processo a cui ci apprestiamo, come già evidenziato all’interno del primo paragrafo, ha un forte carattere di universalità perché situa il suo essere alle radici della nostra stessa umanità. Per condurci nel regno dell’universale la fiaba rinuncia al determinato in favore di principi di indeterminatezza che accomunano qualsiasi lettore. La Fiaba ha un suo tempo e un suo spazio. Il tempo incerto e generico, fatto di durate lunghissime e indeterminate, scandito, fatidicamente, dal «c’era una volta». Un tempo sospeso che parla, proprio per questo, a ogni epoca, a ogni soggetto nelle diverse epoche e proprio perché rievoca le strutture profonde dell’inconscio e dello stesso processo storico, legandoci così agli «universali» della specie Homo Sapiens Sapiens21.

Il «c’era una volta», dunque, non è che il primo passo di un viaggio iniziatico che, come è tipico dei rituali, fa uso di formule canoniche e ripetitive, paradigmi preparatori destinati all’iniziazione. Il mondo che viene rappresentato all’interno della fiaba è un mondo antico, tradizionale, perduto, in cui rapporti sociali, ruoli lavorativi, paesaggi e figure, appartengono ormai a una condizione assai lontana, ma originaria e 20

J.R.R. Tolkien, Tree and Leaf (1964); trad. it. Albero e foglia, Milano, Rusconi, 1986, p. 6. F. Cambi, G. Rossi, Paesaggi della fiaba: luoghi, scenari, percorsi, Roma, Armando, 2006, p. 9. 21

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che è stata alla base di tutta la storia, pur assai variegata della specie Homo Sapiens. E quel mondo è lì presente nelle sue strutture, nelle sue ansie, nei suoi pericoli, nelle sue speranze. E poi: nella fiaba è tutta la cultura arcaica che entra in gioco. Con i suoi riti, con le sue credenze, col suo immaginario. Tale cultura agisce già col «viaggio iniziatico» che è alla base del racconto fiabico, come costruzione di una crescita e di un destino22.

Secondo Propp, la fase iniziale di una fiaba tende ad avere una struttura ben precisa che coincide con la preparazione all’azione e con delle funzioni che permettono alla narrazione di avviarsi. La favola di solito parte da una situazione iniziale. Si enumerano i membri della famiglia, o si introduce il futuro eroe (ad esempio un soldato) semplicemente col riportarne il nome o con l’indicarne la condizione. Benché questa situazione non sia una funzione rappresenta tuttavia un importante elemento morfologico […] Definiamo questo elemento situazione iniziale e lo indichiamo col segno convenzionale « i »23.

La situazione iniziale, secondo Propp, anticipa e introduce le funzioni d’esordio che sono: • • • • • •

Allontanamento: uno dei membri della famiglia si allontana da casa. Divieto: all’eroe è imposto un divieto. Infrazione: il divieto è infranto. Investigazione dell’antagonista, etc: l’antagonista tenta una ricognizione. Delazione: l’antagonista ottiene delle informazioni sulla sua vittima. Tranello: l’antagonista effettua un tentativo per ingannare la vittima per catturarla o per impossessarsi dei suoi averi. • Connivenza: La vittima cade nel tranello favorendo il nemico. • Danneggiamento: l’antagonista crea un danneggiamento all’eroe o alla sua famiglia. • Mancanza: l’eroe o un membro della sua famiglia avverte la necessità o sente la mancanza di qualcosa. 22

Ivi, p. 29. V. Propp, Morfologiija skazki (1928); trad. it. Morfologia della fiaba, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2000, p. 32. 23

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Sono sempre o un “Danneggiamento” o una “Mancanza” a permettere alla storia di partire, dando il via alle peripezie dell’eroe. Proveremo ad effettuare un parallelo tra la struttura dell’incipit della fiaba e quello dei film appartenenti alla produzione cinematografica che ha portato la Disney a una vera e propria rinascita, quelli cioè collocati all’interno del «Rinascimento Disney» e collocabili tra il 1989 (anno dell’uscita nelle sale de La Sirenetta) e il 1999 (anno di Tarzan). Tale definizione deriva dalle parole di Jeffrey Katzenberg che ha usato il termine «rinascimento» per descrivere il processo che ha riportato la Disney alla ribalta dopo un lungo periodo di crisi iniziato proprio con la morte del suo fondatore. La leggendaria «Mouse House» all`inizio degli anni Novanta stava attraversando un periodo di grande riorganizzazione del settore cinematografico, rimasto orfano del fondatore Walt nel 1966, e piombato in un periodo oscuro sul finire degli anni Settanta, con l’esaurirsi della vena di Wolfgang Reitherman (La spada nella roccia, Il libro della giungla, Gli Aristogatti, Robin Hood). Nel 1984 era iniziata la gestione di un nuovo e giovane CEO, Michael Eisner, che avrebbe dominato la Disney per un intero ventennio originando il periodo più controverso della sua storia, fra le luci di un ritrovato e assoluto successo, il cosiddetto «Rinascimento Disneyano»24.

È possibile circoscrivere questa fase in nove film (Tabella 2): Tabella 1 Anno

Titolo

Titolo originale

1989 1991 1992 1994 1995 1996 1997 1998 1999

La Sirenetta La Bella e la Bestia Aladdin Il Re Leone Pocahontas Il Gobbo di Notre Dame Hercules Mulan Tarzan

The little Mermaid Beauty and the Beast Aladdin The Lion King Pocahontas The Hunchback of Notre Dame Hercules Mulan Tarzan

24

G. Aicardi, Pixar, Inc: La Disney del Duemila, Latina, Tunuè, 2006, p. 43.

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Queste nove pellicole saranno al centro della nostra attenzione nel primo capitolo: a partire dall’incipit, esamineremo la loro struttura e i loro punti di contatto con il mondo del fiabesco. Nel 1989 arriva, a risollevare le sorti della Walt Disney Company, The Little Mermaid, da noi conosciuto come La Sirenetta. La prima inquadratura è un piano d’ambiente in cui il garrito e il volo dei gabbiani, unito allo scroscio delle onde, ci conducono a sorvolare l’oceano. Subito dopo dei marinai ci introducono la vicenda cantando nella versione originale: «I’ll tell you a tale of the bottomless blue. And it’s hey to the starboard, heave-ho. Look out, lad, a mermaid be waiting for you in mysterious fathoms below». In italiano invece la canzone recita: «Vi voglio narrare una storia che parla del grande oceano blu! E di una sirena bellissima raccolta in un grande mistero laggiù!». In entrambi i casi viene dunque proposto un equivalente del «c’era una volta» cantato che ci conduce in un mondo indefinito e fantastico, quello delle sirene. Siamo chiaramente nel regno del mito, senza una precisa collocazione geografica e storica. Questa prima sequenza anticipa la descrizione della situazione iniziale che ci porta a scendere negli abissi per conoscere Tritone, re del popolo di Atlantica, il suo consigliere, il granchio Sebastian e soprattutto Ariel, figlia del re, curiosa e disubbidiente, che sogna una vita tra gli umani. Ursula, strega del mare mandata in esilio da Tritone, contemporaneamente tiene sotto controllo Ariel (investigazione dell’antagonista) sognando la sua vendetta. Tritone proibisce ad Ariel di salire in superficie e accostarsi al mondo degli umani (divieto), ritenuti pericolosi e incivili. Ciò nonostante sua figlia, che è già solita collezionare oggetti umani con l’aiuto del pesciolino Flounder e del gabbiano Scuttle, sente che l’oceano non è più il suo mondo e desidera far parte del regno degli umani (mancanza). Così Ariel disubbidisce al padre e si affaccia in superficie (infrazione) dove si imbatte in una nave di passaggio su cui sta viaggiando Eric. In seguito a una tempesta il ragazzo viene scaraventato dalle forti ondate in mare, dove si salva solo grazie all’aiuto di Ariel. Basterà questo incontro per far innamorare i due perdutamente e innescare le successive vicende. Ursula, infatti, grazie alla sua sfera magica, viene a conoscenza dei sentimenti che legano i due (delazione) e propone ad Ariel un patto (tranello) che ella accetta (connivenza) favorendo la sua antagonista. 24

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Esaminiamo adesso l’incipit de La Bella e la Bestia del 1991. La prima inquadratura a comparire dinanzi ai nostri occhi è quella di un castello che si erge alto e maestoso lontano dal nostro sguardo. Ci troviamo in un bosco, in primo piano un albero avvolto dalle rose incornicia un paesaggio pacifico e idilliaco. La colonna sonora dà profondità allo spazio, sentiamo delle note dimesse accompagnare il cinguettare di alcuni uccellini e una cascata scorrere placidamente. Subito dopo la macchina da presa ci fa avvicinare lentamente ad un maniero sulle cui vetrate scorgiamo le immagini di un principe. Fa la sua comparsa una voce narrante che ci prepara alla storia esponendoci la situazione iniziale mentre essa ci appare raffigurata sulle vetrate del castello. Abbiamo, dunque, un vero e proprio prologo fiabesco in cui nella versione italiana una voce narrante inizialmente recita «Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un giovane principe viveva in un castello splendente» mentre nella versione originale inglese essa afferma «Once upon a time in a faraway land, a young Prince lived in a shining castle»25. Dunque anche in questo caso abbiamo il classico c’era una volta, in italiano semplicemente parafrasato. Il concetto di fondo è lo stesso de La Sirenetta: abbandoniamo il mondo del reale per addentrarci in un universo impossibile da decifrare in cui a regnare è la magia. Questa prima parte ci introduce la storia di un principe che, capriccioso e viziato, si rifiuta di ospitare una vecchia signora che cerca riparo nel castello volendo ripagare del disturbo con una rosa. Ciò genera una maledizione da parte dell’anziana signora che si rivela essere una splendida fata che vuole semplicemente mettere alla prova il bisbetico principe. A seguito di ciò l’intero castello viene sottoposto a un maleficio e ogni suo abitante 25

«Once upon a time» è l’equivalente inglese del nostro «C’era una volta».

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viene mutato in un oggetto animato. La maledizione avrebbe avuto fine solo se il principe, prima di compiere 21 anni, si fosse dimostrato capace di amare. Sappiamo subito dunque qual è la mancanza del principe che, per tornare ad essere tale, ha bisogno di trovare la sua principessa, conquistandola esclusivamente dimostrando il suo buon cuore. Il prologo serve ad introdurci solo uno dei personaggi principali. Belle, invece, fa la sua prima apparizione cantandoci, insieme agli abitanti del villaggio, di lei e del suo stile di vita, rimarcando la sua diversità con il resto dei compaesani. Belle sogna una vita piena di avventure in cui potrà incontrare il suo vero amore che è la sua più radicale mancanza. Inoltre vediamo per la prima volta comparire anche Gaston, sbruffone e bullo del paese, tanto arrogante quanto ammirato dalle ragazze e dagli altri uomini. All’interno del paesino di Belle viene costruito un ambiente (come è possibile notare dall’uso di termini come bonjour, dall’abbigliamento o da luoghi come la baguetterie) che si ispira alla Francia. Si tratta, tuttavia, più di una suggestione legata al fascino della vecchia Europa e del magico che essa evoca che di un chiaro riferimento geografico evitato anche dall’imprecisato «faraway land» iniziale. Maurice, il vecchio padre di Belle, che scopriamo essere uno strambo inventore, sta lavorando a una macchina per tagliare la legna da presentare alla fiera annuale delle esposizioni. Sarà proprio la partenza di Maurice ad innescare l’intreccio perché il padre di Belle, per sfuggire a dei lupi affamati, si rifugia nel vecchio castello in cui risiede la Bestia, viene a conoscenza delle creature magiche che abitano le mura e, all’improvviso, viene rapito dalla burbera e solitaria creatura che abita il castello. Belle, contemporaneamente, riceve la proposta di nozze da parte di Gaston che rappresenta un Divieto societario ad andare oltre il semplice ruolo di moglie devota per avventurarsi nel mondo dell’avventura. Belle effettua un’infrazione rifiutando la proposta e decide di avventurarsi verso l’ignoto effettuando un allontanamento dal paesino per andare alla ricerca del tanto amato padre. Per rimediare a un danneggiamento, l’essere stata privata del padre, la nostra eroina si trova nelle grinfie della Bestia e accetta il suo scambio sacrificando se stessa per lasciare libero il genitore. Proviamo adesso ad esaminare il caso di Aladdin, film del 1992. Il primo elemento di particolare importanza nell’incipit del film è sicuramente la musica arabeggiante che inizia affermando in italiano «La mia terra di fiabe e 26

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magia, credi a me» e in inglese «Oh I come from a land, from a faraway place». In entrambi i casi il riferimento all’incipit fiabesco è più che evidente. A queste parole segue la comparsa del titolo in un font che richiama al mondo orientale e che si dissolve in sabbia. Arriviamo così alla prima inquadratura del film e siamo scaraventati nel deserto dove, seguendo un beduino che viaggia a dorso di cammello, veniamo condotti all’interno della città incantata di Agrabah. Il beduino è un mercante che ci espone la situazione iniziale e che ci fa capire che la storia ha al centro una lampada prodigiosa che è riuscita a trasformare la vita di un ragazzo. Nessun riferimento spaziale e temporale ci viene dato, sappiamo esclusivamente di essere in un luogo di chiara derivazione mediorientale ma, anche in questo caso, il «faraway place» mira a creare un imprecisato familiare. Il primo personaggio effettivo del film a essere introdotto è Jafar, Gran Visir del sultano di Agrabah, insieme al suo pappagallo Iago, un animale parlante. Grazie all’aiuto di un ladruncolo i due entrano in possesso di un magico oggetto a forma di scarabeo che rivela l’ingresso della Caverna delle Meraviglie in cui dovrebbe essere custodito un tesoro leggendario di cui fa parte anche la lampada magica. Il guardiano della Caverna afferma che solo un «diamante allo stato grezzo» potrà entrare all’interno senza pagare con la vita. Così Jafar si mette alla ricerca dell’unica persona in grado di entrare per lui all’interno del luogo mistico. Jafar, sentendo la mancanza della lampada magica, che rappresenta il potere assoluto e la possibilità di divenire Sultano, avvia la ricognizione dell’antagonista. Contemporaneamente Aladdin, un umile ladruncolo di buon cuore che riesce a sopravvivere rubando ciò che basta per sfamare sia lui che la sua scimmietta Abu, viene scoperto mentre “scippa” un pezzo di pane e scappa dalle guardie del palazzo reale capeggiate da Razoul riuscendo a mettersi in salvo. In seguito si imbatte in un principe (giunto in città per chiedere la mano della principessa Jasmine) che sta per frustare due bambini colpevoli, a suo parere, di avergli tagliato la strada. Aladdin interviene ma viene colpito e gettato nel fango. In seguito il ladro torna nella sua povera dimora da cui osserva lo splendore del palazzo reale in lontananza e ammette la sua mancanza. Il suo sogno è non avere più problemi, smettere di essere povero e accedere a quel mondo che ora può osservare solo dall’esterno. Il giorno dopo, nel palazzo reale, la principessa Jasmine, invogliata dal padre, il 27

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Sultano di Agrabah, conosce l’ennesimo pretendente che lei rifiuta. Jasmine sente la mancanza della libertà, che le impedisce di trovare il vero amore senza badare al ceto e alla ricchezza del suo sposo. Il Gran Visir, tuttavia, che è proprio Jafar, riesce a ipnotizzare il padre di Jasmine con il suo bastone, convincendolo ad imporre alla figlia di sposarsi entro il suo prossimo compleanno che è ormai prossimo. La speranza di Jafar è quella di diventare Sultano sposando Jasmine in caso non riuscisse ad ottenere la lampada magica. La principessa, per sfuggire a questa situazione, viola il divieto imposto da suo padre di lasciare il palazzo, si traveste da popolana e scappa (infrazione) effettuando un allontanamento. Ella, inesperta sulle abitudini del popolo e sul rigore della legge, prende una mela e la dona a un bambino affamato ma viene vista da un mercante. La principessa non sa di dover pagare ciò che vuole all’interno della città ma, per fortuna, a salvarla arriva Aladdin. Quando poi Jafar scopre che il «diamante grezzo» di cui parlava il guardiano della Caverna è proprio il giovane ladro (delazione), le tre mancanze finiranno per incrociarsi inevitabilmente. Jafar, infatti, riuscirà a far arrestare Aladdin e in carcere, tramutatosi in un vecchietto, gli propone un accordo (tranello) che il giovane accetta (connivenza) avventurandosi nel misterioso antro che custodisce la lampada magica. Il Re Leone, film del 1994, ha senza ombra di dubbio uno degli incipit più famosi della storia del cinema. Prima che il titolo compaia possiamo ascoltare un insieme di versi di animali che ci fanno già intuire che stiamo per immergerci in un mondo lontano da quello umano. La prima inquadratura è l’alba di un nuovo giorno in Africa, il Sole pian piano affiora all’orizzonte mentre un canto africaneggiante anticipa l’inizio di The circle of life cantata da Elton John e scritta da Tim Rice (nella versione italiana Il cerchio della vita interpretatata da Ivana Spagna). Dunque abbiamo l’impressione di essere in Africa ma non ne abbiamo alcuna 28

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prova. Ciò che riceviamo è una suggestione di un ambiente che si può definire sia imprecisato che riconoscibile. Schiere di animali si recano insieme presso un’altissima rupe in cui verrà salutata la nascita del leoncino Simba, futuro re in quanto figlio di Mufasa e della sua compagna Sarabi. Ciò serve a costituire la situazione iniziale in cui veniamo a conoscenza della gerarchia vigente nel regno della natura e del ruolo che avrà Simba nella storia. Fin da subito fa la sua comparsa quello che poi capiremo essere lo stregone Rafiki, una sorta di cerimoniere e custode della magia del mondo. È lui che inizialmente “battezza” Simba e lo presenta ai suoi futuri sudditi e sarà lui in seguito a disegnare su un albero un’immagine del leoncino a simboleggiare il suo contatto con la vita. Lo spettatore è dunque condotto gradualmente all’interno di una magia legata agli antichi rituali della natura. L’unico assente alla cerimonia di iniziazione di Simba è Scar, fratello del re, invidioso del leoncino perché egli stesso aspira al trono a cui, senza la nascita di un figlio di Mufasa, avrebbe potuto legittimamente ambire. Mufasa spiega a Simba che, alla sua morte, tutto il regno sarà suo eccetto la terra non illuminata dal sole e impone a Simba il divieto di non superare quel confine. Scar raccoglie informazioni dal piccolo leone (delazione) scoprendo la sua curiosità e fa in modo da spingerlo (tranello) ad una infrazione che compirà (connivenza) insieme alla leoncina Nala, sua coetanea e promessa sposa e al consigliere del re Zazu (che viene raggirato e finisce per accompagnarli controvoglia) recandosi nel Cimitero degli Elefanti dove tre iene comandate da Scar li aspettano per ucciderli. È solo l’intervento provvidenziale di Mufasa a salvare Simba. In seguito il malvagio zio Scar riesce a escogitare una nuova cospirazione (tranello) convincendo il leoncino ad aspettare dietro una rupe il suo arrivo (connivenza) in attesa di una qualche sorpresa. Grazie alle tre iene Scar terrorizza una mandria di gnu che travolge Mufasa, che era giunto nel tentativo di salvare il piccolo Simba. Sarà questo danneggiamento, di cui Simba crederà essere responsabile, a spingere il leoncino a un allontanamento dal suo regno lasciando il trono all’antagonista. In Pocahontas, uscito nelle sale nel 1995, prologo e film sono divisi dalla comparsa dei titoli generando quasi due incipit diversi e paralleli che mettono a confronto la situazione dei due protagonisti e dei loro differenti mondi: John Smith e la società civilizzata britannica del 1600 e Pocahontas e la condizione degli Indiani d’America prima della colonizzazione. Nel prologo 29

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viene narrata la situazione iniziale che riguarda John Smith e il motivo della partenza della nave dall’Inghilterra. La prima cosa che udiamo è un rullio di tamburi che precede un coro che annuncia che ci troviamo in Virginia nel 1607, così come illustrato dalla foto sbiadita. Successivamente, attraverso una dissolvenza incrociata, veniamo portati all’interno dell’immagine. Una spedizione inglese sta partendo per il Nuovo Mondo guidata dal Governatore Ratcliffe che ha il segreto intento di razziare l’oro che a suo parere dovrebbe trovarsi nella terra sconosciuta. Membro dell’equipaggio è il capitano John Smith, un uomo eroico spinto al viaggio dalla volontà di esplorare e conoscere (mancanza). Nel corso del viaggio, durante una burrasca, Smith salva la vita a un giovane compagno chiamato Thomas. Il prologo dunque ci introduce il personaggio, la sua società di appartenenza e ciò che lo spinge ad un allontanamento dal suo mondo. È solo a seguito di ciò che compare il titolo del film, ritornano i tamburi, questa volta su un ritmo tribale, e le immagini ci trasportano in un luogo misterioso e sconosciuto: il Nuovo Mondo inesplorato dove si stanno dirigendo John Smith e compagni. Il contrasto tra i due universi, dunque, viene subito messo in evidenza contrapponendo elementi come la foto e la natura selvaggia, il rullio dei tamburi seguiti dal coro e quello dei tamburi tribali che precedono una canzone indiana, la barca predisposta per il lungo viaggio e le canoe degli indigeni, il contrasto tra il Governatore e il suo modo di confrontarsi con i suoi sottoposti rispetto a quello del Grande Capo indiano. All’interno del Nuovo Mondo, il capo della tribù Algonguin (chiamato Powhatan) torna al suo villaggio a seguito di una guerra e comunica a sua figlia Pocahontas il matrimonio imminente con il guerriero Kocoum. Pocahontas, combattuta a causa della notizia, si reca in un posto incantato dove può parlare con lo spirito di sua nonna che compare magicamente sul tronco di un albero. Nel mentre ella scorge la nave di John Smith arrivare e, spinta dal desiderio di trovare il vero amore, la sua più radicale mancanza, sarà portata a incontrarlo. In seguito il padre le imporrà il divieto di venire a contatto con gli stranieri ma ella disubbidirà al padre (infrazione) per incontrare John Smith. Vi è un interessante contrasto tra il mondo del prologo, contestualizzabile sia geograficamente che storicamente, e il mondo di Pocahontas. Ciò genera una prima forma di allontanamento dalla base di atemporalità e aspazialità della fiaba, ma dobbiamo altresì ricordare che l’ambiente in cui si 30

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svolge la storia è un luogo indefinibile dell’America ancora inesplorata in cui ogni temporalità è sospesa e domina la magia del rituale. La transizione tra i due mondi può essere vista come un passaggio graduale dal mondo del reale al mondo della fiaba. Ne Il Gobbo di Notre Dame (1996) è il rintocco delle campane il primo elemento a richiamare l’attenzione spettatoriale segnalando l’avvio della diegesi. Successivamente vediamo svettare tra le nuvole la cattedrale di Notre-Dame mentre un coro, su tonalità gravi e pseudo-ecclesiastiche, accompagna un piano sequenza che ci porta a scendere sotto le nuvole e ad attraversare le strade di Parigi. Inizia in seguito un canto che ci racconta la situazione iniziale. Scopriamo di essere a Parigi alla fine del XV secolo e, a un passo dalla cattedrale, identifichiamo l’autore del canto in uno zingaro che ci introduce la vicenda di Quasimodo, il campanaro di Notre Dame. Nel suo prologo veniamo a conoscenza del fatto che Parigi è governata dal giudice Claude Frollo, uomo dal comportamento empio e tirannico che ritiene di dover eliminare gli zingari dalla città. Vediamo più avanti un gruppo di soldati che circonda una famiglia di gitani e una donna che scappa per cercare di salvare se stessa e il figlio. Frollo riesce però a raggiungerla e ne causa la morte dinanzi alla cattedrale di Notre Dame scoprendo in quel momento che essa celava un neonato. Frollo, constatando la deformità del bambino, sta per ucciderlo quando l’arcidiacono della cattedrale interviene permettendo almeno che il bambino viva seppure confinato nelle mura di Notre Dame. Il nome crudele che viene assegnato al neonato è Quasimodo, ovvero «formato a metà». Al termine del prologo conosciamo il giovane campanaro che è vissuto segregato all’interno della cattedrale fino all’adolescenza. Un giorno egli assiste alla Festa dei Folli, che si svolge ai piedi di Notre Dame e, parlando con i suoi unici amici, dei gargoyle di pietra parlanti, Quasimodo rivela la sua mancanza, uscire fuori dalla cattedrale e integrarsi con il popolo parigino. Per fare ciò egli deve commettere un’infrazione rispetto al divieto di Frollo che gli ha imposto di non abbandonare mai per nessun motivo le mura della cattedrale. Alla storia di Quasimodo si aggiungerà anche quella di Esmeralda, gitana coraggiosa e indomabile che sfugge e irride le persecuzioni di Frollo, e la storia di Febo, comandante delle guardie che, non appena si rende conto della cattiveria di Frollo, non esita a rivoltarsi contro di lui 31

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prendendo le difese di Esmeralda di cui si innamora fin da subito. La giovane gitana sarà nei desideri anche di Quasimodo e di Frollo, conquistati dalla sua dolcezza, dalla sua bellezza e dal suo temperamento. La vera mancanza di Quasimodo è però senza dubbio il raggiungimento dell’accettazione della sua diversità da parte delle altre persone, Esmeralda sarà solo lo stimolo che lo porterà ad esaudire questo suo desiderio. Nel 1997 fa la sua uscita nelle sale Hercules. La situazione iniziale ci viene anticipata da una voce fuori campo maschile che, con la classica formula del «Tanto tempo fa» ci spiega, mentre passiamo con lo sguardo da una statua all’altra, che ci troviamo in Grecia e, nello specifico, al tempo di Ercole. In seguito, però, la voce maschile viene fermata dalle Muse che, animandosi su un vaso antico, ci raccontano sinteticamente le Gigantomachie, ovvero di come Zeus sconfisse i Titani donando la pace alla Terra e inaugurando il suo dominio su di essa. Alla fine del prologo, ci ritroviamo sul Monte Olimpo dove Zeus presenta suo figlio Hercules (da ora in avanti l’eroe verrà chiamato con la variante latina del nome) alle altre divinità accorse a salutare il neonato. Per l’occasione Zeus regala al suo piccolo un cavallo alato, Pegaso. Poco dopo giunge Ade, dio dell’oltretomba, che sogna segretamente di avere la sua rivalsa su Zeus. Per fare ciò egli convoca le tre Parche che lo informano che tra diciotto anni i pianeti si allineeranno e ciò permetterà di liberare i Titani che gli consentiranno di sottomettere Zeus e avere la sua rivincita. L’unico ostacolo al suo obiettivo potrebbe però essere proprio Hercules. Il primo passaggio cruciale è dunque l’investigazione dell’antagonista. Per evitare che Hercules si intrometta nel suo piano, Ade ordina a Pena e Panico, due diavoletti ai suoi comandi, di rapire Hercules, di renderlo mortale e di lasciarlo sulla Terra. Essi riescono a somministrargli solo una parte del veleno, quel che basta per mutare il giovane eroe da divinità a semidivinità ma che non è sufficiente a privarlo dei suoi poteri. Tuttavia, è questo danneggiamento a mettere in moto la storia poiché, a seguito del rapimento, Hercules, rimasto sulla Terra, verrà cresciuto da Alcmena e Anfitrione, due mortali che lo allevano come fosse un loro figlio nonostante le straordinarie capacità che egli mostrerà di avere. Solo una volta divenuto adulto ad Hercules verrà raccontata la verità spingendolo a partire per il tempio di Zeus per cercare le sue radici e scoprire finalmente di essere discendente proprio del re degli dei. Per tornare sull’Olimpo, però, egli dovrà diventare un eroe con il solo aiuto del suo fida32

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to Pegaso. Il tempo della storia è dunque indefinito e lo spazio collocabile non all’interno della Grecia reale bensì in quella mitica dei suoi eroi e delle sue divinità. Fin dall’inizio la magia del contesto appare essere ben chiara. Fin dai titoli e dalle musiche iniziali di Mulan, film del 1998, è già evidente che ci troviamo in Oriente e, più precisamente, in Cina. La situazione iniziale, in questo caso narrata attraverso le azioni dei personaggi, ci permette di contestualizzare la vicenda che seguirà. La Grande Muraglia viene assaltata dagli invasori Unni capitanati da Shan Yu. La minaccia diventa nota anche all’imperatore che, per salvare la Cina, decide di reclutare soldati per combattere l’invasione. Le avventure della protagonista Mulan hanno invece inizio con il suo tentativo di dare onore alla famiglia Fa dimostrando di poter divenire, essendo ormai arrivata alla giusta età, una buona moglie. La sua prova tuttavia, per una serie di sfortunati eventi, finisce malissimo e la ragazza viene disonorata. Il vero problema di Mulan, però, come emerge dalla canzone Reflection (nella versione italiana Riflesso), è che ella non ha ancora trovato la sua identità26. Nell’intreccio narrativo sarà il danneggiamento ricevuto dall’essere stata disonorata a far venire fuori e a far superare a Mulan questa mancanza. Poco dopo, infatti, le truppe dell’imperatore giungono a reclutare un componente maschio per ogni famiglia del villaggio. La fanciulla, per evitare che sia suo padre, già rimasto zoppo in una precedente guerra, a partire per la guerra contro gli Unni, finge di essere un uomo per riscattare l’onore perduto. L’aiutante di Mulan sarà Mushu, un draghetto evocato dagli spiriti degli antenati della fanciulla per proteggerla. Siamo in grado di collocare la vicenda nell’antica Cina dove la magia del rito è ancora un elemento sostanziale all’interno di una società che si basa su valori quali l’onore, il rispetto e la devozione nei confronti degli avi. Non abbiamo invece precise coordinate temporali. L’ultimo film collocato all’interno del Rinascimento Disney è Tarzan (1999). La prima inquadratura ci scaraventa nella giungla sia visivamente che uditivamente. 26 Mulan nella seconda parte della canzone afferma «Dimmi, dimmi chi è l’ombra che riflette me, Non è come la vorrei perché non so, Chi sono e chi sarò, Lo so io, e solo io. E il riflesso che vedrò mi assomiglierà. Quando il mio riflesso avrò, sarà uguale a me». Nella versione originale invece il testo è «Who is that girl I see, Straight back at me, Why is my reflection, Someone I don’t know, Somehow I cannot hide, Who I am, Though I’ve tried, When will my reflection, Show who I am inside, When will my reflection show, who I am inside».

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In seguito assistiamo a un naufragio in cui una donna, un uomo e il loro bambino riescono miracolosamente a salvarsi rifugiandosi in una imprecisata costa. I due genitori costruiscono un riparo e vivono nella giungla. Contemporaneamente vediamo una coppia di gorilla, Kerchak e Kala, che crescono il loro piccolo allo stesso modo degli umani finché essi non ne vengono privati a causa di un feroce leopardo chiamato Sabor. Qualche tempo dopo Kala ascolta in lontananza il pianto di un infante e accorre nel rifugio degli umani. Qui scopre che, in seguito all’aggressione di Sabor, solo il bambino è rimasto in vita e Kala riesce a salvarlo poco prima che venga ucciso dal leopardo. In seguito lo adotta e lo rende un membro del gruppo di gorilla. Il suo nome sarà Tarzan. Tutto questo primo frammento può essere considerato la descrizione della situazione iniziale. La storia nasce dunque dal danneggiamento di Tarzan che ha perso i genitori e dalla mancanza di Kala che ha perso il suo piccolo. Danneggiamento e mancanza intrecciano il mondo umano con il mondo animale. Finito il prologo Tarzan è ormai adolescente e si è adattato alla vita con i gorilla anche grazie alla sua amicizia con Terk, cucciola di gorilla e Tantor, piccolo elefante ipocondriaco. Il capobranco Kerchak, tuttavia, stenta ancora ad accettarlo come parte del gruppo e suo successore al comando. Sembra esserci un punto di svolta quando il leopardo Sabor attacca il gruppo e sarà proprio Tarzan a ucciderlo dopo un difficile scontro salvando i gorilla. Poco dopo, tuttavia, uno sparo scuote l’aria e mentre Kerchak spinge il gruppo a scappare Tarzan resta per capire di cosa si tratti. Incontra così il Professor Porter, la sua affascinante figlia Jane e Clayton, loro guida nella giungla. Jane, che si era soffermata a disegnare, finisce per essere aggredita da un compatto branco di babbuini e si salverà solo grazie all’intervento dell’uomoscimmia. L’incontro tra i due innescherà i dubbi di Tarzan sulla sua natura. Kerchak vieta a tutti di avventurarsi dove si trovano gli esseri umani (divieto) ma Tarzan, spinto dalla sua curiosità, decide invece di fare amicizia con loro (infrazione) e soprattutto con Jane. Ciò che spinge l’uomo scimmia è il bisogno di definire la sua identità (mancanza). Quando Kala porta Tarzan nel rifugio dove l’aveva trovato egli capisce di avere origini diverse e sempre più si avventura nel mondo degli umani. Dopo aver esaminato l’incipit dei nove film collocabili all’interno del Rinascimento Disney siamo in grado di trarre delle prime considerazioni. 34

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Innanzitutto possiamo notare come, innegabilmente, vi sia un legame fortissimo tra l’incipit fiabesco e quello del cinema d’animazione Disney di questo periodo. L’equivalente del «c’era una volta» nel linguaggio filmico è il «piano d’ambiente», un’ inquadratura che può essere o un campo lungo o un campo lunghissimo che ci permette di addentrarci gradualmente all’interno della narrazione anche grazie all’uso degli elementi sonori. Che siano il cinguettio degli uccelli, il rumore delle campane, i versi degli animali nella giungla e/o particolari colonne sonore, l’audio concorre con la prima inquadratura alla funzione di «creare l’atmosfera» che permette, rispettando l’accesso graduale fiabesco, di preparare lo spettatore a varcare una soglia. In nessun caso, nei film esaminati, questo elemento viene variato. La prima inquadratura, proprio per permettere una discesa gradino per gradino nel regno della fiaba, non incornicia mai i protagonisti della storia ma fa in modo di essere quanto più evocativa possibile di uno spazio altro rispetto al quotidiano che introduca i protagonisti e la loro collocazione. A questo proposito meritano un’attenzione particolare i titoli di apertura. Essi hanno la funzione di creare una forte connotazione ambientale attraverso una caratterizzazione contraddistinta dal dominio dell’iconicità. Pierce definiva l’icona come un «segno in virtù di caratteri suoi propri, e segno di qualsiasi altra cosa individua con esso quella qualità»27. Dobbiamo altresì ricordare, come fa notare Manheim, che «anche l’icona in apparenza più “naturale”, però, è frutto della mediazione di una convenzione sociale e soggetta alle abitudini interpretative, storicamente determinate, di chi ne fa uso»28. Ciò che i titoli Disney sembrano effettuare è una canalizzazione grafica delle nozioni riguardanti un determinato tipo di immaginario legato a ogni diverso territorio fantastico trattato. Ad esempio in Aladdin il font è arabeggiante, ha come sfondo il fuoco e si dissolve in sabbia, in Mulan i titoli sono degli schizzi orientali ad inchiostro che finiscono per raffigurare la Muraglia Cinese, in Tarzan il titolo è inscritto nel legno e appare come illuminato da un fuoco, ne La Sirenetta il font è blu e ricalca la forma delle onde e così via. Anche senza bisogno delle immagini successive la composizione dei titoli ci suggerisce già l’immaginario in cui veniamo collocati dalla storia. I tito27 B.

Mannheim, Iconicità/Iconicity, in Culture e discorso: un lessico per le scienze umane, a cura di A. Duranti, Roma, Meltemi, 2002, p. 143. 28 C.S. Pierce, Collected papers (1931-35); trad. it. Semiotica, Torino, Einaudi, 1980, p. 38.

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li, dunque, utilizzano l’iconicità al fine di costituirsi come «ambientali», essendo catalizzatori di un immaginario stereotipato riguardante il luogo della narrazione che può essere compreso immediatamente, senza bisogno di essere introdotto all’interno di un linguaggio specifico ma basandosi su connotazioni che tendono il più possibile all’universale. Tale caratteristica si manifesta anche attraverso un raffinato gioco di rimandi cromatici. I colori dei titoli richiamano: ad elementi naturali, ad esempio il blu richiama il mare (La Sirenetta), il rosso il fuoco (Aladdin), il marrone il legno (Tarzan) etc; ad elementi culturali, il rosso viene legato alla cultura africana (Il Re Leone), il giallo ocra alla cultura indiana (Pocahontas), il giallo scuro al periodo tardo medioevale (Il Gobbo di Notre Dame), il colore bronzo alla Grecia antica (Hercules), il marrone scuro all’Antica Cina (Mulan); a caratteristiche estetiche, il rosso è l’amore e il grigio il mostruoso (La Bella e la Bestia). A questi aspetti legati al colore si unisce l’uso di font specifici che scelgono in tutti i casi una connotazione grafica che racconti qualcosa o della storia, come in La Bella e la Bestia (in cui un font aggraziato per la Bella e uno più semplice e grezzo definisce la Bestia) o, e generalmente è questo aspetto a prevalere, ancora una volta della sua ambientazione. Negli altri otto film la scelta del font racchiude una caratteristica culturale/spaziale. Ad esempio in La Sirenetta esso ricalca la forma delle onde, ne Il Gobbo di Notre Dame l’uso di un carattere gotico ci dà una coordinata storica, in Pocahontas la forma del carattere rispecchia la scrittura indiana e così via. In nessun caso, dunque, i titoli servono esclusivamente a esporre il titolo del film ma frammenti della sua storia e di un immaginario stereotipato in cui esso si colloca. Tale elemento è dimostrato anche dalla mancanza di una ripetizione tra i film di uno stesso colore, di uno stesso font e di uno stesso stile grafico. I titoli servono a raccontare qualcosa di specifico sul film e utilizzano un significante gradevole, semplice e universale per trasmettere il significato. Possiamo affermare che l’incipit di questi film si incentra sulla immersività. Ogni elemento è teso a creare un mondo dettagliato e ben definito in cui collocare, fin dal principio, lo spettatore. A tale scopo si adeguano anche i credits che, nella fase iniziale, sono sempre ridotti all’osso e, nella maggior parte dei casi, compaiono solo dopo l’esplicazione della situazione iniziale. Il mondo extradiegetico tende a comparire quanto meno possibile in modo da non complicare l’ingresso spettatoriale nel mondo del fantastico. Per lo stesso motivo i primi personaggi a comparire non sono mai i protagonisti, a meno che essi non vengano presen36

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tati da neonati (Il Gobbo di Notre Dame e Tarzan) in un prologo in cui non sono ancora protagonisti ma in cui vengono narrate le vicende che li porteranno ad essere al centro della narrazione. In tutti i casi i protagonisti vengono sempre prima introdotti in modo che, alla loro apparizione, sappiamo già qualcosa della loro storia o quantomeno del contesto in cui agiranno. Nella totalità dei film esaminati abbiamo infatti un prologo o, come lo chiamerebbe Propp, una situazione iniziale. È possibile notare come vi sia sempre un forte contatto non solo tra l’incipit di questi film d’animazione e una concezione generica di fiaba ma, più specificatamente, con la struttura dell’incipit fiabesco descritta dallo studioso russo. Le somiglianze sono così ricorrenti da farci ipotizzare che il cinema del Rinascimento Disney ricalchi la formula creata da Propp. Per creare l’incanto elementi caratteristici rintracciati in Morfologia della fiaba tornano costantemente. Un ruolo fondamentale nell’avvio della storia ce l’ha sicuramente l’elemento magico o leggendario che entra in gioco fin dalle prime battute. Che sia l’elemento magico di Aladdin o de La Bella e la Bestia o l’elemento mitico di Hercules o Tarzan tutte le storie mettono in primo piano dal principio la straordinarietà delle vicende narrate e le eccezionali capacità dei protagonisti. Vi è come un patto implicito che lega lo spettatore e il film, un patto che sottintende che la storia che verrà raccontata dovrà condurre chi guarda ben lontano dall’ordinario, in luoghi misteriosi e sconosciuti, sulle orme di eroi e leggende. Tale esigenza sembra trovare origine proprio nella fiaba dove l’elemento magico ha un chiaro intento ordinatore. Le narrazioni di accadimenti magici suscitano eco, risonanze e suggestioni in chi legge o in chi ascolta; aiutano a frugare il passato per cercare una chiave del presente. Con la loro pregnanza simbolica, appartengono a quei saperi iniziatici che abitano il nostro inconscio. Provocano sorpresa, meraviglia e spavento, comunque una condizione di attrazione, magari derivante dalla percezione angosciosa della labilità dell’esserci, dalla finitezza di tutto ciò che è vita. Mentre il mondo si fa beffe di tutto, noi, acrobati di questo circo triste, siamo destinati a finire, mentre lui con tutta la sua apparente concretezza sembra non finire mai, e allora inventiamo stratagemmi per non finire nel finito29. 29 S. Landi, C’è bisogno di magia… a partire dalla fiaba in La magia nella fiaba. Itinerari e riflessioni di F. Cambi, S. Landi, G. Rossi, Roma, Armando, 2010, p. 14.

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Come vedremo meglio anche nei prossimi paragrafi, l’elemento magico conforta lo spettatore che sente di entrare in uno spazio protetto. Lì dove l’elemento sovrannaturale vigila su un mondo che ordina e preserva, tutto sembra avere una giusta collocazione, sia il bene che il male, sia il bello che il brutto. Fin dal principio tale concezione deve essere ben chiara a chi osserva in modo da agevolare la sua transizione nel regno dell’immaginario. Può essere interessante riflettere, inoltre, circa la connotazione temporale delle pellicole. Innanzitutto il criterio dell’indeterminatezza temporale fiabesca sembrerebbe rispettato in sette casi su nove. Dovremmo apparentemente escludere Pocahontas e Il Gobbo di Notre Dame che dichiarano esplicitamente nel primo caso e implicitamente nel secondo il periodo storico in cui avvengono le vicende. Tuttavia, le cose non sono come appaiono. Gli elementi fantastici e le componenti mitiche finiscono per collocare gli avvenimenti in un universo parallelo rispetto a quello reale vanificando la storicità più o meno definita delle vicende. Non si parla di qualcosa di storico ma di un mito all’interno della storia che rende qualsiasi catalogazione storica esclusivamente una cornice della cornice. Il concetto, tra l’altro, è espresso anche figurativamente proprio in Pocahontas, in cui la precisione temporale del prologo serve più che altro a mettere in contrasto l’ottica del mondo occidentale di Smith con l’atemporalità dell’America inesplorata, un contesto in cui usi e costumi rituali si tramandano incessantemente di generazione in generazione e non esiste alcuna forma di calendarizzazione. Il mondo reale di John Smith è il mondo dello spettatore che gradualmente si dissolve in quello di Pocahontas. Il presupposto è, quindi, quello dell’irrealtà del mito, del racconto magico e della leggenda popolare. Tale elemento, nelle sue diverse forme, contribuisce a creare in ogni caso lo stesso risultato: l’ingresso graduale nel mondo dell’indeterminatezza caratterizzato, però, da elementi che creano nello spettatore una qualsivoglia familiarità. 38

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In alcuni casi, però, si passa dalla fiaba alla meta-fiaba che si intreccia, inevitabilmente, con il meta-cinema. È il caso del commerciante di Aladdin che finisce per sbattere contro la macchina da presa o di Hercules, in cui la voce narrante maschile viene interrotta per cambiare ritmo e dare un altro stile alla narrazione della vicenda. Ciò serve per attualizzare la vicenda, rendendola sempre più prossima allo spettatore che, ormai avvezzo alla struttura fiabesca, se da un lato desidera immedesimarsi dall’altro sente la necessità di elementi che spingano il magico nel contemporaneo. Ad ogni modo tale strumento viene usato con parsimonia e, generalmente, in spazi molto limitati, principalmente all’interno dei momenti comici. Affinché la magia si attualizzi ma non si disperda è necessario sfumare appena la fiaba con la parodia. Il sorriso sfuma la serietà delle vicende, accentuando la gradualità dell’ingresso nel regno dello sconosciuto. Subito dopo, nondimeno, si ritorna a fare sul serio, accettando di essere proiettati all’interno degli intrighi e delle peripezie degli eroi. L’ingresso graduale non fa altro che trasferire dolcemente lo spettatore in uno spazio altro. Tale collocazione, tuttavia, non ha tanto a che fare con il Medio Oriente, con l’Africa o con la profondità dell’oceano quanto con il regno del suo stesso inconscio in cui l’incipit lentamente e morbidamente conduce, tra una risata, una canzone e un «sobbalzo».

In un paese lontano lontano La connotazione spazio-temporale dei film riconducibili al periodo denominato Rinascimento Disney è caratterizzata sia da una componente fantastica che da elementi che creano familiarità nello spettatore. Così accade che nel regno incantato situato nel generico “lontano lontano” de La Bella e la Bestia troviamo una boucherie o che, nell’antica Grecia di Hercules, sia di moda la cultura del gadget. Vi è un continuo botta e risposta tra contemporaneità e arcaicità, una dialettica accesa tra reale e fiabesco. Ciò accade perché i luoghi rappresentati non forniscono delle vere indicazioni geografiche, quanto una suggestione spaziale che trasforma qualsiasi ambiente in un luogo simbolico che definisce un immaginario, così come avviene nella fiaba. 39

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In un certo reame, in un certo stato c’era una volta»: è in questo modo tranquillo ed epico che comincia la fiaba di magia. […] La formula «in un certo reame» indica l’indeterminatezza spaziale del luogo dell’azione. […] «in un certo reame» è un topos della fiaba di magia e in un certo senso mette in chiaro che l’azione si compie al di fuori del tempo e dello spazio30.

Vedremo adesso, nel particolare, come si caratterizzano i diversi luoghi dei nove film presi in considerazione. Come ravviseremo nel nostro viaggio da un regno all’altro, ogni pellicola costruisce sia un’ambientazione che un sistema di spazi, collegati tra loro in un percorso specifico che tende a ripetersi costantemente attraverso uno schema rigoroso. Utilizzando come metafora la struttura del percorso dantesco, potremmo dire che ogni eroe disneyano passa, in quest’ ordine, attraverso tre ambienti: 1. Purgatorio: rappresenta un ambiente che versa in una condizione di equilibrio incompleto, contraddistinto da una mancanza o turbato da un danneggiamento. 2. Inferno: per affrontare e risolvere le condizioni problematiche che contraddistinguono la sua storia il nostro eroe dovrà spingersi fin nelle profondità di se stesso varcando confini oscuri e traumatici che lo porteranno in luoghi pericolosi. In alcuni casi tale spazio è il luogo iniziale ormai caduto in rovina a causa di forze oscure. 3. Paradiso: l’eroe giungerà in un nuovo luogo idilliaco o avrà trasformato il luogo iniziale privandolo della sua mancanza o ponendo rimedio al danneggiamento. L’elemento di maggior interesse è, forse, proprio la presenza di luoghi destinati al lato oscuro della psiche all’interno delle storie Disney: così come accade nel fiabesco troviamo sempre uno spazio spaventoso dove dimorano le paure più recondite del protagonista, le più basse deformazioni e/o la morte. L’eroe dovrà attraversare e appropriarsi sia del Purgatorio che dell’Inferno per sopraggiungere ai suoi metaforici campi elisi. Dunque il cinema Disney, sulle orme della fiaba, ci conduce in un luogo atemporale ed archetipico dove avviene un profondissimo incontro tra l’individuo e la sua psiche, i suoi biso30 V.

Propp, Russkaja skazka (1984); trad. it. La fiaba russa, a cura di Franca Crestani, Torino, Einaudi, 1984, pp. 191-279.

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gni, le sue pulsioni e i suoi desideri e, contemporaneamente, ci guida, attraverso un viaggio paradigmatico, a una graduale purificazione. Senza che ce ne rendiamo conto, l’inconscio ci riporta ai periodi più remoti della nostra vita. I luoghi strani, antichissimi e remotissimi e nello stesso tempo ben noti, descritti nelle fiabe, suggeriscono un viaggio all’interno della nostra mente, nei reami della inconsapevolezza31.

Fin dall’inizio del Rinascimento Disney, il paradigma precedentemente evidenziato si manifesta con estrema chiarezza. Il luogo di partenza de La Sirenetta è colorato da una forte componente leggendaria che rende le profondità oceaniche popolate da un intero popolo di Sirene. La figura di Tritone, padre della protagonista Ariel, risale alla mitologia greca secondo cui egli sarebbe stato figlio di Poseidone, dio del mare, e della nereide Anfitrite, divinità che era stata in grado di fornire un preziosissimo aiuto persino agli Argonauti. Il luogo di partenza, quindi, non è altro che il luogo del mito che questa volta si configura come spazio marino. Nonostante la componente magica del luogo, per Ariel quell’ambiente non è altro che una prigione poiché ella è irrimediabilmente attratta dal mondo umano: il paradiso che fin dall’inizio intravede. Neppure un ambiente incantato basta a contenere i desideri della giovane sirena poiché esso è reso null’altro che un luogo di transizione e di preparazione dalla sua mancanza. Per poter giungere in superficie e inseguire il suo amore, Ariel è costretta a passare attraverso un luogo infernale, la grotta della strega Ursula. Essa è popolata di figure deformate e spettrali, creature intrappolate in uno spazio tetro e pregno di malvagità. Un vero e proprio Inferno. Ciò nonostante, Ariel non si farà intimidire e deciderà di inoltrarsi sempre più in profondità nella grotta fino ad arrivare a patteggiare con la malefica strega. Grazie all’amore delle persone a lei care, in seguito al superamento di diverse prove, Ariel riesce a sconfiggere la strega e a purificare dal male il suo antro. Giungere alla sorgente del male, affrontarla e sconfiggerla diventa dunque elemento imprescindibile per la riuscita del viaggio del protagonista. 31 F.

Cambi, G. Rossi, Paesaggi della fiaba…, cit., p. 9.

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Una volta che il male è stato sconfitto le porte del paradiso sono ormai aperte, Ariel è ormai matura, ha superato i suoi demoni ed è predisposta a giungere al suo lieto fine che, in questo caso, si situa nel mondo degli umani. Paradossalmente è l’uscita dal mito e il sopravvento della normalità a rendere l’ambientazione finale paradisiaca. Una soluzione che troviamo spesso per delineare l’evoluzione spaziale della storia è la quantità di luce e colore che contraddistingue ogni singolo ambiente. Lo spazio denominato come Purgatorio è di solito caratterizzato da una cromaticità soffusa e da luci di bassa o media intensità. In alcuni casi tale spazio muta gradualmente in Inferno venendo a poco a poco immerso nell’oscurità anche concettuale. Troviamo frequentemente caratteristiche archetipiche in grado di simboleggiare il male: alberi rinsecchiti, oggetti distrutti, assenza di vitalità, morte più o meno diffusa e così via. Tale spazio raffigura generalmente l’abisso emotivo del protagonista che custodisce gli elementi più tetri e conflittuali della sua personalità, come fossero figure mostruose celate dalla notte. L’archetipicità tratteggia altresì una sorta di familiarità dello spazio che diventa una cornice riconoscibile. Lo spettatore riesce a capire immediatamente in che punto del suo viaggio si trova grazie alla forte componente simbolica che li tratteggia. Tale immaginario è fatto, ad un tempo, e di una sua forma e di un fascio di luoghi simbolici. Ha una forma: quella quasi-onirica, generale, a-temporale, che rende il suo materiale universale e sempre significativo. Lo rende simbolico e, pertanto, permanente e cruciale nella cultura sociale e nell’io. La genericità della forma è un postulato di significatività. Ma è una genericità pregnante, poiché parla di luoghi già esistiti e, ora, ricondotti ad essere matrici dell’immaginario. E ciò vale per i luoghi come per i volti (= personaggi, figure) come per le situazioni, confermando anche, nel particolare, la fruttuosità dell’approccio strutturalista alla fiaba (alla Propp) che ne decanta, insieme la generalità e la tipicità. Ma una tipicità d’antan e pertanto archetipica32.

Il luogo di partenza de La Bella e la Bestia è un castello incantato «lontano lontano» all’orizzonte di un tranquillo paesino dai tratti tipicamente fran32

Ibidem.

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cesi, come si evince dallo stile delle abitazioni, dall’abbigliamento, dai nomi delle persone e dei negozi. Un qualsiasi borgo francese diventa regno della fiaba nel momento in cui sappiamo che un mostro spaventoso è già parte integrante della storia. Belle vive tranquilla nel suo paesino ma sente vibrare la sua insoddisfazione, avverte il desiderio di avventura che colma leggendo e rileggendo qualsiasi libro di cui riesce a venire in possesso. Il luogo stesso in cui abita, pur essendo pacifico e tranquillo, è totalmente privo della componente fantastica che ella ardentemente ricerca. Particolarmente rilevante è la stratificazione sociale che il paesino impone. Esso è tanto pacifico quanto piatto e uniforme, i giorni sono tutti uguali e ogni elemento che sconfina nel creativo e nell’immaginifico (come le invenzioni di Maurice) vengono considerate una manifestazione di follia. L’uniformità del luogo rispecchia la mediocritas intrinseca alla mentalità dei suoi abitanti. Per poter giungere al raggiungimento del suo sogno romantico Belle dovrà uscire dal mondo iniziale e addentrarsi nella tana del mostro, scontrandosi direttamente con la sua iniziale malvagità e affrontando un ambiente saturo di elementi grotteschi, abitato da uomini deformati in oggetti da un maleficio. Il castello della bestia è formato da ombrosi gargoyle, quadri inquietanti, angoli tetri e stanze proibite. La figura del divieto ritorna e diventa componente essenziale di un luogo, metafora dell’angolo più recondito della psiche del principe trasformato in animale. Solo tramutando la Bestia e restituendo al castello il suo aspetto originario Belle potrà giungere all’appagamento del suo desiderio iniziale. Il paesino iniziale non è altro che un luogo preparatorio in cui Belle ha potuto coltivare la passione per quello stesso amore che ricerca nei libri. Spesso anche la regia evidenzia le caratteristiche spaziali. Se nel Purgatorio Belle viene spesso posta al centro e sullo stesso piano dello spazio circostan43

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te, nell’Inferno viene frequentemente schiacciata dalla macchina da presa. Nel Paradiso, invece, la vediamo armoniosamente immersa nell’androne del castello ormai tornato ai suoi antichi fasti. Perfino la scelta dei colori e il loro rapporto finisce per essere determinante nell’incanalare una suggestione legata all’ambiente circostante. Mentre nel borgo il colore freddo del suo vestito stona visibilmente con il resto dell’ambientazione, pastellata di colori caldi, e al primo ingresso nel castello ella appare come una singola macchia luminosa rispetto alle tonalità gravi e tetre che la incorniciano, nell’ultima sequenza lo spazio diventa immersivo ed ella si fonde armoniosamente con esso. Come emerso anche in questo caso, una caratteristica imprescindibile di tali film è la vaghezza degli spazi, simili a tanti altri ma, nello specifico, quasi mai realmente classificabili. Infatti, la fiaba è situata in un tempo che sta “oltre”, al di là del tempo storico e in topoi generici (un castello, una città, un villaggio, un regno) che servono ad ambientare la storia. Il linguaggio fiabico è tessuto da simboli e indizi, da mancanze, iati, simulazioni, sovrapposizioni che rendono il racconto un prezioso strumento di formazione e di comunicazione-comprensione, ricco di percorsi formativi, di rappresentazioni molteplici di se stessi e degli altri33.

La tessitura simbolica assorbe ogni classificazione e ciò che resta è esclusivamente uno spazio mentale pregno di un significato ben messo in risalto da significanti ricorrenti. Aladdin, dal punto di vista della luminosità delle ambientazioni, costituisce in parte un’eccezione poiché, come suggerisce la sua prima colonna sonora Arabian Nights, è prevalentemente ambientato di notte o al tramonto in ogni sua fase. A prescindere da questa peculiarità il percorso del protagonista non muta. Il Purgatorio iniziale è rappresentato dall’equilibrio instabile che Aladdin ha raggiunto nei ghetti di Agrabah. Seppure l’ambientazione sia prevalentemente scarna, le case siano diroccate e la povertà evidente, egli si muove agilmente all’interno del contesto custodendo però il desiderio di approdare un giorno al palazzo del sultano e lasciarsi alle spalle una vita di stenti. La transizione di Aladdin dal Purgatorio all’Inferno sarà condizionata 33

F. Borruso, Fiaba e identità, cit., p. 12.

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dagli interessi di Jafar a costringere Aladdin a confrontarsi con più di uno spazio infernale. Da un lato troviamo le segrete del palazzo, dall’altro la grotta incantata che si trasforma in una prigione infuocata e, nella parte finale, la sala principale del palazzo del sultano, trasformato in un antro malefico dal suo diretto antagonista. Come vedremo in seguito, l’antagonista, come specchio negativo dell’eroe e manifestazione della sua Ombra, non ha alcuna pietà né remora a trascinare sempre più in basso chiunque lo circondi. Tale caratteristica viene collocato chiaramente all’interno degli spazi in cui Jafar viene collocato, simulacri della sua anima nera. Il vero Paradiso non sarà il palazzo del sultano quanto il mondo intero che si aprirà alle nuove possibilità del ladro e di Jasmine che si alzano in volo sul loro tappeto verso la luna piena che si staglia all’orizzonte. Ciò accade perché non è l’avidità di Aladdin a trovare appagamento nel finale, bensì, la completezza della sua identità sociale e sessuale. Il Re Leone, che sfrutta la leggenda (probabilmente risalente ai Cartaginesi) del leone visto come re del regno animale, umanizza la natura rielaborando l’Amleto shakespeariano. In Africa, dove il cerchio della vita si ripete incessantemente, emerge ancora e con straordinaria chiarezza la funzione ordinatrice della fiaba. Come Luthi sottolinea, il mondo fiabesco genera una sovrastruttura in grado di rielaborare il mondo, parafrasandolo in una forma controllabile, equilibrata, dove ogni cosa ha un perché, una funzione e una soluzione. Un concetto che sembra molto simile al sentimento religioso che lega l’uomo alla contemplazione del mondo e alla giustificazione delle varie componenti che lo formano. Il genere fiabesco si propone come una forma riplasmata della realtà che non cancella le sue impurità ma riesce a trovar loro una collocazione ben precisa. La fiaba, secondo Luthi: Non è la poesia di come dovrebbe essere il mondo, nel senso che ce ne mostra uno solamente possibile, un mondo che - contrariamente a quello reale - è così come dovrebbe essere, e sul quale si misura il mondo reale [...]; non simula innanzi ai nostri occhi un bel mondo nel quale, per alcuni attimi, possiamo ristorarci lo spirito, dimenticando ogni altra cosa [...]. La fiaba intende piuttosto contemplare ed esprimere con le parole come le cose stanno in realtà in questo mondo [...], non ci mostra un mondo in ordine, ci mostra il mondo in ordine. [...] Anche agli orro45

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ri e le brutture della vita (morti, atrocità, prove) trovano una loro collocazione, cosicché tutto risulti in ordine34.

Tali concetti si concretizzano all’interno della concezione, espressa prima da Mufasa e in seguito confermata da Simba, del «cerchio della vita». In tale sistema male e bene vengono divisi persino territorialmente: il negativo c’è ma si situa, almeno nella fase iniziale, oltre i confini della storia ed è parte della vita, così come la stessa morte. Tutto cambia, ovviamente, quando Scar altera l’equilibrio dei fattori e compromette l’ordine degli elementi presenti nella narrazione. L’ordine diventa caos, il bene (rispecchiato da Simba) scappa e la bilancia pende a favore delle forze oscure. La morte di Mufasa trascina il mondo fiabesco verso l’Inferno. Morte e distruzione trasformano la valle in un luogo tetro e oscuro. Finché Simba non accetterà il suo posto all’interno della storia, addentrandosi in questa terra ormai desolata, nessun cambiamento sarà possibile. L’eroe, come sempre, deve spingersi nelle cantine più remote della sua anima al fine di affrontare e sconfiggere il male che, come vedremo, è Ombra e tana del rimosso non solo del singolo personaggio. Quando Simba, ormai diventato adulto, affronta finalmente i suoi demoni più profondi, il cambiamento arriva inesorabile. Lo spazio della storia diventa idilliaco quando il protagonista ha ritrovato la pace e l’equilibrio. Ciò rende chiaro come i luoghi tendano fortemente a metaforizzare la condizione emotiva e l’evoluzione dell’eroe. Un ruolo chiave in questo senso, così come accade frequentemente, ce l’ha la natura che, quando è libera e incontaminata, è sempre una culla per il protagonista che in essa può trovare pace e conforto. Tale idea emerge anche in Pocahontas che vive in una terra libera dalla modernità, in perfetto equilibrio con lo spazio in cui abita. La pace del mito, la serenità e il conforto portato dagli avi (come accade per la nonna della protagonista) si intrecciano con l’ambientazione armoniosa e incontaminata. Se non fosse per la mancanza dell’amore, le terre selvagge in cui la sua tribù dimora sarebbero uno spazio già perfetto fin dal principio. 34

M. Luthi, Das europäische Volksmärchen. Form und Wesen. Eine literaturwissenschaftliche Darstellung. (1947); trad. it. La fiaba popolare europea – forma e natura, Milano, Mursia, 1982, pp. 110-111.

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Il luogo è reso incompleto dalla norma sociale che impone alla protagonista di sposarsi anche se non è innamorata. Per porre rimedio a questa mancanza vi sarà bisogno di un elemento esterno. Sarà lo sbarco degli Inglesi, infatti, a mettere in moto la storia creando un’alternativa a Pocahontas. L’arrivo degli stranieri alla ricerca dell’oro, però, trasforma la natura in un luogo di morte. Non è un caso che il decesso di Kocoum, giovane eroe appartenente alla stessa tribù di Pocahontas, avvenga a causa di un fucile. Quando l’ordine iniziale viene turbato, la pace è compromessa e lo spazio della narrazione improvvisamente cade nella semioscurità, le luci si abbassano e l’acqua pura e cristallina si macchia gradualmente di sangue. Sarà solo la pace tra Inglesi e Indiani a riportare la terra al suo stato originario. La soluzione del conflitto purifica lo spazio testimoniando ancora una volta quanto sia forte il parallelismo tra la narrazione e gli spazi in cui essa si svolge. Il caso de Il Gobbo di Notre Dame è particolarmente utile a capire cosa si intenda per Purgatorio all’interno del Rinascimento Disney. Anche se Quasimodo è costretto all’interno di uno spazio che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria prigione, egli sembra aver trovato un suo equilibrio seppure, come nei casi precedenti, esso sia fortemente instabile. Per quanto la sua possa sembrare una condizione estremamente negativa, l’inconsapevolezza gli permette di accettare quel luogo spoglio come fosse la sua casa pur non potendo fare a meno di nutrire il desiderio di arrivare nel mondo a lui prossimo seppure apparentemente irraggiungibile. Così come accade in Aladdin, finché ogni elemento della storia ha un suo ordine non vi è da parte dell’eroe alcuna urgenza di cambiare la situazione iniziale. Ciò accade, portando con sé anche un cambiamento degli spazi, solo quando una mancanza o un danneggiamento turbano la storia. Tale caratteristica, evidenziata da Propp, è elemento imprescindibile di ogni film del Rinascimento Disney. 47

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Più avanti Quasimodo non avrà esitazioni ad affrontare le catacombe, tetre e colme di scheletri, pur di portare a termine la sua missione. Anche in questo caso la morte è una componente estremamente importante e i luoghi che la custodiscono necessitano di essere affrontati e superati affinché l’eroe possa proseguire il suo cammino. L’avvicinamento all’Inferno conduce, inevitabilmente, nei pressi dell’antagonista, unico custode del lato oscuro della psiche che rispecchia pienamente in quanto archetipo. Il Paradiso è raramente un luogo ideale e perfetto. Si tratta, generalmente, dello spazio in grado di appagare il vero e più radicale bisogno del protagonista. Ciò a cui Quasimodo ambisce è l’accettazione all’interno della società parigina. Dunque la leggenda del campanaro di Notre Dame, elaborata da Victor Hugo nel 1831 e ripresa dalla Disney, deve interrompersi e portare il protagonista alla normalità, in mezzo alla gente, per potergli regalare il lieto fine che nel romanzo non gli era stato concesso. In Hercules l’evoluzione spaziale del personaggio lo conduce ad attraversare ed affrontare esplicitamente Inferno e Paradiso. Il Purgatorio, invece, viene rappresentato dalla vita tra i mortali. Ciò che è particolarmente interessante è che Purgatorio e Paradiso sono lo stesso luogo che muta radicalmente in base all’evoluzione sociale e sentimentale del protagonista. Così come abbiamo visto in precedenza, un luogo apparentemente pacifico e tranquillo può divenire una prigione nel momento in cui emerge l’inadeguatezza del personaggio all’ambiente circostante. In questo caso è Hercules a distruggere lo spazio che lo circonda a causa della sua forza smisurata e incontrollata, testimoniando che tale scenografia non è che una tappa del suo viaggio e che la terra in cui vive, almeno per il momento, non è adatta a lui. Le chiavi della sua ascensione verso il regno degli dei sono custodite da Ade, sovrano degli Inferi e suo acerrimo nemico. È significativo che ad Hercules, per sconfiggere il suo rivale, non basti superare smisurate e terribili trappole ma che sia necessario discendere tra i morti e tra le anime dannate. Il regno degli dei si spalanca a Hercules nel momento in cui riesce a salvarlo dall’ascesa dei Titani e a sconfiggere Ade. L’eroe, tuttavia, rinuncia a 48

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vivere tra gli immortali per restare con Meg sulla Terra. Hercules è ormai riuscito a trasformare il luogo iniziale, privandolo della sua mancanza grazie all’amore. La pace della psiche, esperita attraverso il nuovo ordine che si è costituito, fissa le caratteristiche necessarie alla felicità del protagonista. Il Paradiso del Rinascimento disneyano, dunque, non ha caratteristiche fisse ma si adatta semplicemente alla mancanza dell’eroe. Hercules rifiuta di abitare sul monte Olimpo perché capisce che potrà essere felice solo lì dove potrà realizzare il suo sogno d’amore. Tale caratteristica, come vedremo nei prossimi paragrafi, testimonia l’importanza del rapporto tra plot ed evoluzione interiore del personaggio. La storia di Mulan deriva dalle vicende di Hue Mulan all’interno de La ballata di Mulan, poema risalente al VI secolo prima della dinastia Tang. Anche in questo caso, dunque, ci troviamo dinanzi a una storia che viene tramandata da secoli e che si compone di una radice leggendaria, sebbene proveniente da una cultura ben lontana dall’Occidente ma che è stata omologata a una modalità di fruizione tendente quanto più possibile all’universalità. La pace dell’ambientazione iniziale non basta a restituire la tranquillità alla giovane eroina, bloccata all’interno di una cultura patriarcale che limita la sua identità. Mulan è alla ricerca di se stessa e del suo ruolo nella società. Ella, per capire chi è, dovrà inoltrarsi nei campi di battaglia, sfiorare la morte e sconfiggere innumerevoli nemici. Persino una bambola abbandonata fa capolino tra le macerie, segno inequivocabile del decesso di una bimba. Anche questo passaggio, però, risulta come obbligato e sarà solo l’attraversamento del campo di battaglia a far capire all’eroina qual è il suo vero scopo nella storia. Nessuna pacificazione è resa possibile senza l’esplicitazione del conflitto interno. Il bene deve incontrare necessariamente il male e sconfiggerlo sul campo di battaglia. La pace sopraggiunge quando il luogo iniziale viene privato della sua mancanza. Mulan, dopo aver affrontato se stessa, è ormai pronta alla pace dell’abitazione iniziale, in compagnia di quello che si preannuncia essere il suo futuro marito. La realizzazione sessuale e sociale completa l’iter dell’eroe e apre alla pace interiore. Le avventure di Tarzan hanno la loro origine nel romanzo di Edgar Rice Burroughs edito nel 1914 intitolato Tarzan delle scimmie. L’eroe della sto49

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ria, ancora neonato, si trova, in seguito a un naufragio, in un indeterminato punto della costa africana, lontano da ogni forma di civiltà ma con i suoi genitori. Quando essi finiscono per essere uccisi da una bestia feroce, Tarzan resta solo e viene allevato dai gorilla. All’interno della giungla Tarzan cresce adattandosi allo stile di vita delle scimmie. Seppure con qualche difficoltà, il protagonista della narrazione si adatta gradualmente alla condizione avversa finché un turbamento proveniente dall’esterno, lo sbarco di altri esseri umani come lui, non fa emergere la mancanza delle sue radici. Fino al momento dello sbarco di Jane e degli altri umani, Tarzan era riuscito a costruire un ambiente sereno intorno a sé, fino al punto di porsi come futuro capobranco. La natura pacifica viene ancora una volta turbata dall’arrivo della civilizzazione trasformando lo spazio in un luogo di conflitto tra bene e male, entrambi presenti ma in attesa dello scontro che porterà alla vittoria del primo sul secondo. Nel caso di Tarzan l’arrivo degli umani riconduce l’eroe a fare i conti con il suo passato di morte e con la sua identità che necessita di essere definita. Tarzan, per superare il suo trauma e ripercorrere le sue origini, dovrà addentrarsi nel luogo dove ha perso i suoi genitori e, contemporaneamente, la sua natura umana. Affrontare le ombre del passato, così come accade all’interno della psiche, spesso è l’unico modo di pervenire a un futuro sereno. Una volta definita la sua identità sociale, l’eroe torna alla spensieratezza e alla completezza. Al termine del nostro viaggio tra le diverse ambientazioni utilizzate nel Rinascimento Disney, possiamo affermare che uno dei principi chiave è sempre quello dell’indeterminatezza e, anche quando gli spazi vengono fissati geograficamente (come nel caso de Il Gobbo di Notre Dame o di Pocahontas), essi sono traslati nell’universo del mito. Sembra ripetersi costantemente la formula del caratteristico «lontano lontano». Sorge spontanea a questo punto una precisa domanda: «lontano lontano» da cosa? Tutti i luoghi esaminati si situano ben lontano, temporalmente e geograficamente, dall’America contemporanea e da ogni forma di quotidianità del contesto di fruizione. Lontananza e familiarità conducono lo spettatore ad un ingresso graduale nello spazio della storia così come all’interno del suo inconscio. Possiamo inoltre notare che, in ogni storia, vi 50

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è una tripartizione spaziale estremamente chiara sia dal punto di vista grafico che contenutistico. Tutti gli elementi del film (principalmente scenografia, regia, luci, colori, musiche, stile figurativo) convergono nel descrivere un universo chiaramente configurato come parzialmente conflittuale, totalmente avverso o idilliaco. Ogni elemento sottende a un percorso ben preciso che non è solo quello dell’eroe ma quello dello spettatore nei meandri più profondi della sua vita interiore.

Una principessa e un principe Cosa può mai avere in comune un giovane ladro nato in Oriente con un gobbo rinchiuso a Notre Dame? Cosa può rendere simili una sirena e una ragazzina dell’antica Cina? Questi interrogativi devono essere sicuramente molto simili a quelli che si pose, nel lontano 1928, Vladimir Propp. Egli, con grande arguzia, ha trovato la soluzione dell’enigma che ha permesso di fare luce sulla struttura che accomuna le fiabe di tutto il mondo. La chiave non sono i personaggi, indiscutibilmente differenti, bensì le azioni che essi compiono. Cambiano i nomi (e con essi gli attributi) dei personaggi, ma non le loro azioni, o funzioni, donde la conclusione che la favola non di rado attribuisce un identico operato a personaggi diversi. Questo ci dà la possibilità di studiare la favola secondo le funzioni dei personaggi.[...] Per l’analisi della favola è quindi importante che cosa fanno i personaggi e non chi fa e come fa, problemi, questi ultimi, di carattere accessorio35.

Per quanto possa risultare varia e stratificata la struttura di ogni singola fiaba essa si basa, sostanzialmente, sulle azioni di sette possibili tipi di personaggi che sono: • Antagonista • Donatore • Aiutante 35

V. Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 26.

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• • • •

Principessa o il re suo padre Mandante Eroe Falso Eroe

Nelle fiabe, dunque, le stesse vicende si ripetono attraverso personaggi e contesti estremamente differenti e, come sostiene lo studioso russo: Un personaggio può facilmente essere sostituito da un altro. Tali sostituzioni hanno le proprie cause, a volte assai complesse. La realtà stessa della vita crea nuove, vivide figure, che finiscono per soppiantare i vecchi personaggi. Esercitano la loro influenza la poesia epica dei popoli vicini, la letteratura, la religione, si tratti di quella cristiana o di credenze locali. La favola conserva nel suo intimo le tracce del più antico paganesimo, gli usi e i riti arcaici. Essa si trasforma gradualmente e anche queste trasformazioni, metamorfosi, sono sottoposte a leggi determinate36.

Se questo è ciò che accade per le fiabe, cosa avviene all’interno del decennio d’oro della Disney? La Mouse House non fa altro che assorbire la forma fiabesca appiattendo le leggi che hanno portato alle variazioni del contesto e dei personaggi e investendo sul carico emozionale che, inequivocabilmente, durante i secoli, il paradigma favolistico ha dimostrato saper suscitare. Il problema maggiore, in questa strategia, sembra essere il voler cancellare le specificità territoriali, geografiche ed etniche di ogni fiaba soprattutto se troppo lontane dal sentire spettatoriale al fine di preservare la sua caratteristica impressione di familiarità. È molto improbabile che una mamma italiana legga ai suoi figli fiabe russe o cinesi, ciò perché le peculiarità culturali hanno fatto sì da modellare personaggi e stili di narrazione diversi che creerebbero nel bambino uno straniamento che renderebbe difficoltoso un profondo viaggio non solo nella sua psiche, ma anche nell’inconscio della sua cultura di appartenenza. Eppure se alla Baba Jaga delle fiabe russe si cambia nome in Maga, Fata o Strega e si eliminano elementi peculiari del suo aspetto, sostituendoli con altri della cultura in cui viene inserita, non avremo infine un personaggio conforme al nuovo contesto? Di base è questa l’operazione effettuata dai 36

Ivi, p. 93.

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film Disney di questo decennio, una sottile e ben congegnata omologazione degli immaginari fiabeschi che è stata possibile, a mio parere, anche grazie a un chiaro effetto della globalizzazione. Le nostre caratteristiche culturali tendono ad essere maggiormente uniformate rispetto alle epoche precedenti e ciò permette, attraverso l’inserimento di elementi di familiarità all’interno della storia, di generare più facilmente l’effetto desiderato a prescindere dal contesto di ricezione. Ciò che basta a suscitare un legame culturale nello spettatore americano, in sintesi, non è molto difforme da ciò di cui necessita il fruitore italiano, spagnolo o finlandese. Tali caratteristiche sono connesse in modo particolare (ma non unicamente) ai personaggi e ai loro stili di vita attraverso l’uso di due strategie diverse e complementari: • Depauperamento culturale: elementi caratteristici della cultura dei personaggi non compaiono o vengono sostituiti • Adattamento culturale: seppure in ambiti estremamente discordanti troviamo l’aggiunta di elementi globalizzanti e vicini all’Occidente e, soprattutto, all’America. Non vediamo mai comparire elementi religiosi in Aladdin pur essendo una componente fondamentale della cultura araba. Pur vedendo Mulan pregare, ben poco possiamo afferrare dei culti dell’antica Cina se non il rispetto e la preghiera per i defunti (caratteristica pressoché globale). Lo stesso vale per Pocahontas, di cui vediamo solo frammenti di riti in forma stereotipata. Al contempo, però, il Genio della lampada non esita a inscenare un balletto nel tipico stile cheerleader, gli anziani saggi di Mulan festeggiano la riuscita della loro missione con musiche e luci in stile discoteca, un diavoletto di Hercules esibisce placidamente i suoi sandali marcati emblematicamente “Air-Herc”. I riferimenti alla cultura occidentale (e prettamente americaneggianti), inoltre, si innestano spesso all’interno dei momenti comici, generando una irrimediabile simpatia nei confronti di tali atteggiamenti. Possiamo affermare che la cultura produttrice dei film si sponsorizza velatamente attraverso l’uso di espedienti plasmati sui personaggi che suscitano maggiore simpatia nello spettatore. Ciò dimostra come si trasformino e si evolvano nella loro funzione socio-culturale le fiabe che, seppure con mezzi diversi, finiscono per impregnarsi profondamente della società che le produce e/o le reinterpreta. 53

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L’adattabilità della fiaba, dunque, come abbiamo visto, si riversa immancabilmente sui suoi personaggi che, tuttavia, in nuce, finiscono per ripetere continuamente le stesse azioni semplicemente adeguate al contesto prescelto. In questo paragrafo ci soffermeremo principalmente sulla figura di quello che viene chiamato “eroe”, figura ben delineata da Propp all’interno di Morfologia della fiaba: L’eroe della favola di magia è il personaggio che è direttamente vittima dell’opera dell’antagonista nell’esordio o avverte la mancanza di qualcosa, oppure che accetta di porre rimedio alla sciagura o alla mancanza che affliggono un’altra persona. Durante lo svolgimento della vicenda l’eroe è il personaggio al quale viene fornito un mezzo (o aiutante) magico che egli adopera o che lo serve37.

Nel caso dei film appartenenti al Rinascimento Disney i protagonisti sono ben chiari allo spettatore fin dalla lettura del titolo in cui vengono sempre dichiarati espressamente. Tale caratteristica si fissa come una peculiarità del genere in quanto, generalmente, sia nel cinema che nella letteratura, trovare il protagonista non è sempre così immediato e, in alcuni casi, il titolo può essere persino fuorviante. La strategia Disney rispecchia l’intenzione di voler raccontare sempre la storia a partire dall’immedesimazione nei protagonisti. Ciò accade per semplificare il percorso iniziatico del fruitore che, in tal modo, può avere sin dall’inizio un quadro preciso del ruolo dei personaggi e lasciar fluire la sua soggettività più facilmente nelle vicende del personaggio principale. Le parole di Propp, in ogni caso, sono perfettamente adatte a rappresentare sinteticamente l’iter degli eroi Disney. Nel momento in cui il nostro sguardo si scosta dall’insieme degli avvenimenti rappresentati e si sofferma su quello che potremmo chiamare il nucleo della storia, il motore narrativo che genera l’azione, possiamo osservare come il fulcro drammaturgico individuato da Propp sia una costante incontrovertibile: Ariel è una sirena che esplicita chiaramente il desiderio di scoprire il mondo che si cela in superficie e, in nome di questa mancanza, si spinge oltre i limiti prefissi da suo padre. Belle, allo stesso modo, desidera uscire dai confini del suo paese per spingersi verso le avventure che gene37

Ivi, p. 55.

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ralmente può solo leggere mentre la Bestia è un principe che ha bisogno del vero amore per tornare nella sua forma originale. Aladdin agogna la fine della povertà e il completamento sentimentale. Simba è vittima di Scar che lo priva del suo ruolo nel cerchio della vita, posto che dovrà riconquistare per tornare ad essere re. Quasimodo necessita di libertà, accettazione e comprensione, ha bisogno di una vita in cui potrà non più essere giudicato come un mostro. Pocahontas insegue un sogno di libertà e d’amore, Hercules cerca se stesso e il suo posto nel mondo così come Mulan, una giovane donna cinese che si scontra con la sua società di appartenenza, o come Tarzan, desideroso di definire la sua identità sospesa tra il mondo umano e quello dei gorilla. Lo schema si ripete costantemente mettendo in gioco esclusivamente due tipologie di eroi: l’eroe cercatore e l’eroe vittima. 1) se una fanciulla viene rapita scomparendo così dall’orizzonte del padre (e quindi anche da quello dell’ascoltatore) e Ivan parte alla sua ricerca, questi e non la ragazza rapita sarà l’eroe della favola. Tali eroi possono essere chiamati cercatori. 2) se sono rapiti o scacciati una fanciulla o un fanciullo e la favola ne segue le peregrinazioni, non interessandosi di quello che capita ai rimasti, l’eroe sarà la fanciulla (o il fanciullo) rapita o scacciata. In queste favole non vi sono cercatori e questi eroi si possono chiamare eroi vittime38.

Possiamo affermare che, all’interno dei film del Rinascimento Disney, abbiamo un netto predominio della prima tipologia. Generalmente sono i protagonisti ad andare in cerca di avventure, spinti dalla loro mancanza iniziale. Un punto fisso è che l’eroe, in ogni fiaba, si spingerà o sarà costretto ad affrontare innumerevoli avventure per colmare il gap che lo separa dal raggiungimento della completezza. Tale pienezza non si configura esclusivamente come una componente dell’intreccio narrativo ma come una tappa fondamentale di quello che, in termini psicoanalitici, viene generalmente chiamato «processo di individuazione». Ma perché, come evidenziano studiosi e psicoanalisti quali Bettelheim e la Von Franz, così frequentemente il processo di individuazione viene ancorato alla fiaba? Come è possibile, inoltre, che tale approccio riesca a colpire sia l’inconscio dei bambini che 38

Ivi, pp. 42-43.

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quello degli adulti? Bruno Bettelheim effettua una distinzione tanto suggestiva quanto persuasiva distinguendo due differenti modalità in base all’età dell’individuo. La fiaba si struttura come risposta valida alle incertezze del bambino perché si inserisce, all’interno della sua mente, come una concezione animistica adeguata al suo intelletto. Non appena il bambino comincia ad andare e venire e ad indagare, comincia a porsi il problema della propria identità [...] Il bambino si chiede “Chi sono? Da dove sono venuto? Chi ha creato l’uomo e tutti gli animali? Qual è il fine della vita?” [...] Però di solito le spiegazioni realistiche sono inintelligibili per i bambini, perché sono privi della capacità di comprensione astratta necessaria per dar loro un senso39.

L’eroe diventa il simulacro in cui il bambino riversa se stesso. Egli vive le stesse angosce e preoccupazioni del personaggio principale della fiaba e ciò lo aiuta, attraverso una personificazione delle sue domande, a trovare delle soluzioni ai suoi dilemmi. I bambini, per loro stessa natura, tendono alla personificazione di ciò che li circonda. Il sole, l’acqua, il fuoco, per un bambino sono vivi e necessitano di trovare una precisa collocazione all’interno della psiche infantile così come accade per le sue questioni irrisolte. La fiaba dà un ordine, colloca bene e male, risponde agli interrogativi. Tale meccanismo non è diverso da quello che ha contraddistinto la stessa specie umana nella sua evoluzione. Fin dai primordi sono state le personificazioni di sole e stelle ad appagare il desiderio di risposte dell’uomo sul mondo che li circonda. Per lungo tempo nella sua storia l’uomo si servì di proiezioni emotive – come gli dei – scaturite dalle sue immature speranze e ansie di spiegare l’uomo, la sua società e l’universo; queste spiegazioni gli diedero un senso di sicurezza40.

Con il passare del tempo la scienza ha preso il posto della magia, la ragione ha svelato territori che prima erano occupati esclusivamente dal culto e l’uomo ha avuto sempre meno bisogno di spiegazioni magiche e fiabesche per risolvere i suoi enigmi. La forza dell’intelletto si è sostituita a 39 B. Bettelheim, Il mondo incantato, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2010, pp. 49-50. 40

Ivi, p. 53.

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quella dell’arcano ma non sempre il raziocinio basta e, nel momento in cui la nostra sicurezza viene meno, il bisogno intrinseco di fiaba emerge e necessita di essere espresso. Più una persona si sente sicura nel mondo, meno ha bisogno di aggrapparsi a proiezioni “infantili” – spiegazioni mitiche o soluzioni da fiaba in risposta agli eterni problemi della vita – e può permettersi di cercare spiegazioni razionali [...] D’altro canto, più un uomo è insicuro nel suo intimo e nell’ambiente che lo circonda più si ritira in se stesso spinto dalla paura, oppure si muove verso l’esterno in uno sforzo di conquista per amore della conquista41.

Dunque chi è l’eroe se non la personificazione della risposta a tutte le inadeguatezze dell’umano che meravigliosamente si sciolgono alla luce dell’happy ending? Il caos e la problematicità del mondo si trasformano nella fiaba in un mondo ordinato, nel bene e nel male. L’eroe affronta un viaggio impervio, non privo di tribolazioni e percorsi offuscati da morte e deformazione in più o meno metaforiche discese nell’Ade, al fine di portare la luce della chiarezza, la pace interiore di chi legge le sue avventure o guarda il film di cui è protagonista. Oltre a ciò in ballo vi è la nostra collocazione nel mondo, il rapporto con gli altri e con la società, un iter mentale che si caratterizza, ancora una volta, per il suo anelare alla compiutezza psichica. La fiaba genera una personificazione di ogni aspetto della psiche di chi guarda semplificando i conflitti interiori. Bene e male, giusto e sbagliato, dolcezza e crudeltà, vita e morte, si incarnano in personaggi fortemente marcati dalla loro intrinseca componente archetipica e, a causa di ciò, unidimensionali. Ogni personaggio è essenzialmente unidimensionale, così da permettere al bambino di comprendere facilmente le proprie azioni e reazioni. Mediante immagini semplici e dirette la fiaba aiuta il bambino a superare i suoi complessi e ambivalenti sentimenti, che, prima in un confuso coacervo, cominciano a trovare ciascuno il suo posto distinto42.

Bene e male divengono concreti e, materializzandosi, possono scontrarsi sullo schermo chiarendo allo spettatore la loro gerarchia. Tale riflessione si 41 42

Ibidem. Ivi, p. 75.

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riconnette ai nostri quesiti iniziali e ci permette di capire che gli eroi dei film del Rinascimento Disney sono connessi tra loro sia dal punto di vista narratologico sia dalla loro equipollenza nell’inconscio spettatoriale in quanto incarnazioni unidimensionali di un archetipo. In termini psicologici, l’archetipo dell’eroe rappresenta ciò che Freud chiamava ‘ego’ – ovvero quella parte della personalità che ci distingue dalla madre, che ci fa considerare altro rispetto alla razza umana. Fondamentalmente un eroe è uno in grado di superare i confini e le illusioni dell’ego, sebbene all’inizio gli eroi siano dominati dall’ego, l’Io, l’identità personale che li rende diversi dal resto del gruppo. [...] L’archetipo dell’eroe rappresenta la ricerca da parte dell’ego dell’identità e della compiutezza43.

Pur se talvolta con qualche incertezza o errore di percorso, Aladdin, un ladro dai tratti arabi, è un simulacro di bontà e giustizia tanto quanto Tarzan, un bimbo allevato dai gorilla, o Quasimodo, un gobbo rinchiuso in una cattedrale. Tutti anelano la compiutezza e vi giungono grazie alla loro natura marcatamente e inequivocabilmente positiva. Per esplicitare tale concetto è possibile notare una particolare situazione che ricorre all’interno di tutti i film presi in analisi e che potremmo sintetizzare con la definizione «dinamica del colpo di grazia». Tale determinazione si riferisce alle circostanze (che si verificano nella parte conclusiva della narrazione) in cui l’eroe viene sempre messo in condizione di non arrecare mai il colpo definitivo al nemico, ciò per evitare di corrompere la sua caratteristica bontà con la stessa malvagità dell’antagonista. Ne Il Re Leone, Simba si trova nella condizione di uccidere Scar portandolo sull’orlo di un precipizio circondato da un incendio. L’antagonista, per impietosire l’eroe, gli chiede: «Non vorrai uccidere il tuo vecchio zio?». La risposta di Simba definisce la distanza tra i due personaggi: «No Scar, io non sono come te». Poco dopo Scar finirà per venire ucciso dalle iene che lui stesso si è inimicato accusandole. Il bene e il male giungono a vittoria e sconfitta a causa della loro stessa intrinseca natura. La stessa situazione si verifica all’interno de Il Gobbo di Notre Dame. Frollo sta per assassinare alle spalle Quasimodo all’interno della stanza della cattedrale in cui è custodita 43

C. Vogler, The Writer’s Journey: Mythic Structure for Writers (2007); trad. it., Il viaggio dell’eroe, Roma, Dino Audino, 2010, p. 27.

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Esmeralda in fin di vita. L’eroe si accorge dell’attacco e riesce a scaraventare il nemico contro la parete e a impossessarsi del suo pugnale. Piuttosto che ucciderlo, tuttavia, egli getta l’arma a terra rinunciando a compiere la sua vendetta e afferma: «Per tutta la vita mi avete detto che il mondo è un posto crudele e tenebroso ma ora vedo che l’unica cosa oscura e tenebrosa sono le persone come voi». Poco dopo Frollo precipiterà in un abisso di fuoco a causa del suo desiderio di assassinare Esmeralda. L’antagonista finisce per soccombere alla sua stessa malvagità autocondannando il suo comportamento. La sua sconfitta è la dimostrazione concreta che il male può condurre esclusivamente alla rovina. All’interno di Tarzan, il protagonista blocca Clayton e gli punta un fucile contro la gola. Quest’ultimo provoca l’eroe affermando “Sii uomo” e Tarzan risponde «Non un uomo come te». Successivamente distrugge il fucile scaraventandolo a terra e lascia Clayton vivere prima che lui stesso, agendo d’impulso a causa dell’ira e del desiderio di rivalsa, non tagli le liane che lo sostengono finendo impiccato. Ne La Bella e la Bestia, La Bestia potrebbe scaraventare Gaston giù da un precipizio ma decide di risparmiarlo prima che l’antagonista, dopo aver pugnalato la Bestia alle spalle, non finisca per precipitare. Ne La Sirenetta, Ursula diventa un enorme mostro e minaccia di impadronirsi dell’oceano quando Eric (dunque non Ariel) la uccide trafiggendola con il bompresso della nave. In Aladdin, Mulan e Pocahontas, i nemici vengono allontanati e imprigionati. In tutti e tre i casi a dare il colpo che allontana definitivamente il nemico non è mai il protagonista. In Aladdin è il Genio a scaraventare nel deserto la lampada che imprigiona Jafar, in Mulan è Mushu a far partire il razzo che spinge verso la distruzione Shan Yu, in Pocahontas è Thomas a ridurre in catene il Governatore Ratcliffe. L’eroe, in quanto modello impeccabile, non può necessariamente venire sporcato dalla malvagità. Egli rappresenta il giusto percorso di maturazione e la vittoria sull’Ombra. L’Eroe della fiaba rappresenta piuttosto quell’aspetto del Sé che è interessato alla costituzione dell’Io, che lo fa funzionare e svilupparsi. Esso è anche modello archetipico e schema del giusto modo di comportarsi44. 44

M.L. Von Franz, The psychological meaning of redemption motifs in fairytales (1980); trad. it. Le fiabe del lieto fine, psicologia delle storie di redenzione, Novara, Red, 2004, p. 26.

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Ogni personaggio racchiude delle precise coordinate psichiche che delineano un iter che sottende quello che viene genericamente chiamato, seguendo la definizione di Vogler e gli studi di Campbell, «viaggio dell’eroe». Ciascuna storia è, perciò, un contenitore di archetipi formato da «una serie incredibilmente ricorrente di elementi che scaturisce continuamente dai recessi più profondi della mente umana»45. I personaggi che si ripresentano nei miti di tutto il mondo [...] sono uguali alle figure che si affacciano nei nostri sogni e nelle nostre fantasie. [...] Tali storie rappresentano modelli precisi del funzionamento della mente umana e sono delle vere e proprie mappe della psiche [...] Storie basate sul modello del viaggio dell’eroe esercitano un fascino su tutti, perché scaturiscono da una fonte universale, l’inconscio collettivo, e riflettono preoccupazioni universali46.

I film del Rinascimento Disney non fanno che adoperare questo modello creando un «viaggio dell’eroe» tradotto nel linguaggio filmico componendo musiche apparentemente diverse e multiformi ma che, nel profondo, si radicano fortemente allo stesso pentagramma formato nei secoli dalla fiaba.

La regina cattiva L’antagonista, secondo Propp, è il personaggio «il cui ruolo è quello di turbare la pace della famiglia felice, provocare qualche sciagura, danno o menomazione»47. Nella fiaba, così come nei film presi in esame, la malvagità di tali personaggi appare incontrollabile, antietica, irrefrenabile e non lascia alcuna possibilità di redenzione. Tali caratteristiche si manifestano nella totalità dei casi e, così come per la figura dell’eroe, lasciano intravedere un abisso molto più profondo ad alimentare una ferocia e una crudeltà in apparenza immotivate ed eccessive. Abbiamo visto in precedenza come, sia all’interno della fiaba che nei film del Rinascimento Disney, vi sia una profonda differenziazione tra bene e male basata su archetipi che tracciano una definita e seducente mappa psi45

C. Vogler, Il viaggio dell’Eroe, cit., p. 12. Ibidem. 47 V. Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 34. 46

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chica. Così come accade per gli eroi, apparentemente sembra esservi una distanza sconfinata tra Jafar e Clayton, tra Scar e Shan Yu. Ciò nonostante, ogni separazione si dissolve nel momento in cui, dall’abisso del personaggio, emerge la natura inconscia di cui si sostenta. La materia psichica di cui i villain della fiaba si alimentano viene intrecciata, nella concezione Junghiana, con la manifestazione dell’Ombra. Tale termine si presta a differenti interpretazioni e suddivisioni a causa dell’impossibilità di rinchiudere tale concetto in limiti ben precisi e condivisi. Jung sostiene, in Psicologia dell’inconscio, che quando egli parla di Ombra si rifà al «lato negativo della personalità, e precisamente la somma delle caratteristiche nascoste, sfavorevoli, delle funzioni sviluppatesi in maniera incompleta e dei contenuti dell’inconscio personale»48. Vogler riprende e analizza tale concetto e la sua canalizzazione all’interno delle dinamiche narrative. L’archetipo noto come Ombra rappresenta la forza del lato oscuro, gli aspetti inespressi, incompresi o repressi. Spesso è la dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi. Ombre possono essere tutti gli aspetti che non ci piacciono di noi stessi, tutti i segreti nascosti che non possiamo neppure confessarci. Le tendenze che abbiamo respinto o cercato di estirpare stanno ancora in agguato, agendo nel mondo oscuro dell’inconscio49.

Ogni individuo custodisce, nella sua mente, un consistente bagaglio di rimozioni e traumi. Se ad esempio un bambino cresce con due genitori dal carattere estremamente differente tenderà ad assorbire elementi caratteriali sia dall’uno che dall’altro ma, prima o poi, uno dei due atteggiamenti avrà la meglio e l’altro finirà sempre più nel rimosso. Se una caratteristica dell’individuo viene costantemente rifiutata da chi lo circonda, un processo di negazione entrerà gradualmente in atto confinando tale elemento nel profondo inconscio. Qui tale elemento continuerà ad agire ma segretamente e inconsapevolmente. Si può ben capire come tale concetto possa dunque racchiudere un numero sterminato di atteggiamenti, comportamenti e stratificazioni. La domanda che emerge con una certa chiarezza al termine di queste considerazioni è la seguente: come può il fiabesco racchiudere l’Ombra di ognuno e 48 C.G. Jung, Über die Psychologie des Unbewussten (1947); trad. it. La psicologia dell’inconscio, Roma, Astrolabio, 1947, p. 116. 49 C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, cit., p. 51.

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riattivare la sua forza archetipica in chi le ascolta? Per comprendere ciò è necessario implementare la definizione di Vogler con una distinzione fondamentale effettuata da Marie Louise Von Franz all’interno de L’ombra e il male nella fiaba. La Von Franz distingue tra Ombra personale ed Ombra collettiva, specificando che, mentre il primo concetto si riferisce all’individuo, il secondo è formato dal rimosso di un gruppo sociale o di una comunità. Un comportamento da noi considerato estremamente positivo, come aiutare chi soffre la fame, può risultare insensato all’interno della filosofia indiana che prevede una lotta autonoma per la salvezza. L’omicidio, ritenuto un fenomeno cruento ed esecrabile all’interno della nostra civiltà, in altre culture può essere considerato lecito in determinate situazioni o rituali. Se un così ampio numero di spettatori appartenenti a numerosissime nazioni riesce a immedesimarsi senza esitazioni all’interno dell’identificazione archetipica effettuata dal cinema del Rinascimento disneyano, è perché esso mette in scena l’Ombra della civiltà occidentale. Grazie alla crescente uniformità che caratterizza l’immaginario audiovisivo, determinati archetipi risultano idonei a rappresentare, pure in contesti estremamente diversi, un’Ombra collettiva sempre più “globalizzata”. Così come l’eroe è costruito per rappresentare ciò che è considerato buono e positivo, così l’antagonista è creato per rinchiudere il male in un preciso carattere che incarni il rimosso culturale condiviso di un gruppo sociale che, nel periodo contemporaneo, viene costruito sull’accettazione del modello occidentale/americano. L’antagonista, ponendosi in conflitto con l’eroe, da un lato palesa la sua natura, mettendo in luce ciò che per tale cultura risulta inequivocabilmente sbagliato, dall’altro rinforza il processo di rimozione della natura che lo alimenta attraverso la sua sconfitta. Il male viene portato alla luce e distrutto attraverso un esorcismo dell’inconscio spettatoriale: il lato oscuro della società in primo luogo viene mostrato con il suo carico di 62

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morte, cupidigia e malvagità e, subito dopo, finisce per venire scaraventato sempre più in profondità nella psiche. La caduta verso le cantine dell’anima diventa una metafora che, spesse volte, finisce per venire esplicitata per immagini (basti tenere presente la caduta in un abisso di fuoco di Scar o di Frollo). Bisogna altresì ricordare che, oltre all’elemento inconscio, all’interno delle fiabe viene alla luce la tendenza etica, propria di ogni essere umano, che porta a giudicare un determinato comportamento come giusto o sbagliato. Tale propensione tende ad essere estremizzata all’interno dell’eroe e totalmente assente nelle azioni dell’antagonista, finendo così per basarsi su caratteristiche talmente marcate da risultare quasi universali. Scar è totalmente antietico quando prova a far uccidere il piccolo Simba. Solo un intervento esterno evita a Quasimodo di venire gettato, ancora in fasce, all’interno di un pozzo da Frollo. Ursula non esita a trasformare per sempre in piccole creature mostruose chi cade nei suoi tranelli, e così via. La divisione tra bene e male diviene così inequivocabile da plasmare chiari simulacri atti all’identificazione o alla repulsione spettatoriale. Come fa notare Bettelheim, «i personaggi delle fiabe non sono ambivalenti: non sono buoni e cattivi nello stesso tempo, come tutti noi nella realtà»50. Essi si muovono in un’unica direzione ben definita e fortemente marcata. Anche per l’Antagonista, dunque, così come per l’Eroe, possiamo parlare di unidimensionalità del personaggio in quanto incarnazione di un archetipo. A riprova di ciò è possibile considerare che, in nessun villain presente all’interno del Rinascimento Disney, è possibile rintracciare qualità positive. Essi si caratterizzano, piuttosto, come specchi al negativo degli eroi. Se questi ultimi desiderano l’amore, gli antagonisti bramano il possesso, se i personaggi positivi sognano la felicità collettiva, quelli negativi agognano esclusivamente il successo personale, se i buoni procedono nella storia attraverso azioni oneste e virtuose, gli empi si addentrano sempre più in comportamenti vili e malvagi. Ursula, dopo essere stata esiliata da Atlantica, desidera vendicarsi di Tritone sottraendogli lo scettro. Per fare ciò priva Ariel prima della voce e, in seguito, cerca di togliere la vita sia a lei che al suo principe. Gaston è spinto dal suo egoismo e dalla brama di impossessarsi di Belle a trasformar50

B. Bettelheim, Il mondo incantato, cit., pp. 49-50.

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la in una moglie/serva. In nome di questo desiderio arriva a creare un manipolo di uomini che, troppo superficiali per capire chi si celi dietro le apparenze della Bestia, invade il suo castello. Jafar mira al posto di Sultano di Agrabah e al possesso di Jasmine. Per arrivare allo scopo tenta di assassinare sia il Sultano che Aladdin. Scar vuole diventare Re sostituendosi prima a Mufasa e poi a Simba. Egli tenta di uccidere e di ingannare chiunque lo circondi, dal piccolo nipote fino alle iene sue alleate. Il Governatore Ratcliffe si spinge dall’Inghilterra all’America in cerca d’oro. Un intero nucleo di nativi, nella sua concezione, merita bene di venire sterminata pur di arrivare alla ricchezza. Frollo uccide la madre di Quasimodo solo perché gitana e tenta più volte di fare lo stesso con il gobbo, prima mentalmente, esponendolo senza pietà alla perfidia del popolo e, in seguito, fisicamente, cercando di pugnalarlo alle spalle. Ade desidera eliminare Hercules fin dalla nascita e, sperando di giungere al dominio della Terra e dell’Olimpo, prima gli sottrae la divinità e il suo posto tra gli dei, in seguito tenta di privarlo dell’amore. Non esita neppure a far massacrare gli umani dai Titani. Shan Yu, comandante degli Unni, stermina villaggi interi pur di arrivare ad attaccare l’imperatore. Più volte proverà ad uccidere una ragazza rea esclusivamente di voler salvare il suo popolo. Clayton non esiterebbe un attimo a eliminare sia i gorilla che Tarzan pur di arrivare a soddisfare la sua sete di denaro. Osservando tali elementi emerge come, in tutti i casi presi in esame, il male viene sempre dall’esterno del personaggio. Così come l’eroe non ha nei suoi comportamenti nulla che contamini la sua bontà, allo stesso modo l’antagonista non ha mai un attimo di dolcezza o quantomeno di misericordia. Tali personaggi sono costretti dalla loro natura archetipica a essere malvagi dall’inizio alla fine senza alcuna minima esitazione. Sono essi stessi il male puro, incondizionato, svincolato da qualsiasi etica. Non c’è speranza di redimerli o salvarli, essi possono solo essere eliminati per il bene non solo dell’eroe (che quindi combattendo non si macchia di egoismo) ma di un intero gruppo sociale (come accade in Pocahontas), di una nazione (un valido esempio lo fornisce Mulan) o addirittura del mondo intero (tale situazione si presenta in Hercules). L’antagonista deve semplicemente cessare di esistere o essere confinato definitivamente altrove e, così come emerso dalla «dinamica del colpo di grazia», è sempre colpa del villain se, in conclusione, non avrà alcuna possibilità di salvezza.

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In ultima analisi si può dire che, a proposito dell’Ombra, le fiabe ci insegnano che essa è parte della generale dualità della nostra esistenza, prodotta dalla coscienza discriminante. Tuttavia il bene e il male hanno una propria drammatica realtà, poiché è il male che fa fallire il processo di presa di coscienza e perciò nelle fiabe viene sempre eliminato senza pietà51.

Il cinema Disney crea un senso unico che porta l’antagonista di turno a una irrefrenabile discesa che lo porterà gradualmente a sprofondare, più o meno letteralmente, sia nella storia che all’interno della psiche spettatoriale. Gli opposti si scontrano e il giusto vince ponendosi come referente privilegiato per l’identificazione spettatoriale oltre che come modello di comportamento. Il giusto attrae per la sua simpatia, la sua umiltà e la sua sincerità e, in quanto vincente, canalizza le domande spettatoriali che non si pongono come un «Voglio essere buono? bensì Come chi voglio essere?»52 La discesa degli antagonisti non implica, tuttavia, che essi non attraggano o affascinino gli spettatori e, difatti, il successo di caratteri come Jafar o Scar appare come intramontabile proprio per la loro crudezza e per la forza dei loro atteggiamenti. Tanto più il male è oscuro tanto più sembra andare a scavare nel rimosso spettatoriale generando una suggestione apparentemente ingiustificata ma profondamente legata alla radice intrinseca che alimenta congiuntamente tutti i villain del Rinascimento Disney. Nelle fiabe il male è onnipresente come la virtù. Praticamente in ogni fiaba il bene e il male s’incarnano in certi personaggi e nelle loro azioni, così come il bene e il male sono onnipresenti nella vita e le inclinazioni verso l’uno o l’altro sono presenti in ogni uomo. È questo dualismo che pone il problema morale, e richiede la lotta perché esso possa essere risolto53.

Tale dualismo pone il male al di fuori della concezione del personaggio principale che avverte e subisce tali comportamenti in maniera ingenua e inconsapevole. Così Aladdin cade nella trappola di Jafar, Ariel in quella di Ursula, Simba in quella di Scar e così via. La causa delle sventure diventa un accidente proveniente dall’esterno e generato da una cupidigia che nulla 51

M.L. Von Franz, Le fiabe del lieto fine…, cit., p. 106. B. Bettelheim, Il mondo incantato, cit., p. 15. 53 Ivi, p. 14. 52

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ha a che fare con eroi privi di qualsiasi intento malvagio. La lotta interiore, propria di ogni essere umano, si personifica negli archetipi dell’ eroe e dell’antagonista, due figure costrette, in secula seculorum, a sfoderare le loro armi migliori per conquistare l’anima dello spettatore. È bene notare, prima di concludere, anche un altro aspetto, solo all’apparenza secondario. Come accennato nel paragrafo 1.3, essendovi un fortissimo legame tra ambientazioni e plot, l’Ombra non manca di riversarsi sui paesaggi dominati dal male. Tale elemento permette di concretizzare ulteriormente il rimosso ed affrontarlo purificandolo o allontanandolo. Nelle scelte scenografiche la natura inviolata, priva di qualsiasi contaminazione da parte dell’uomo, ha una straordinaria importanza all’interno della scelta del contesto. Ne La Sirenetta siamo immersi nelle profondità marine, ne La Bella e la Bestia siamo dispersi nella foresta che circonda il castello, in Aladdin vagabondiamo nello sconfinato deserto, ne Il Re Leone percorriamo la savana, in Pocahontas ammiriamo le inesplorate lande americane, in Hercules lottiamo con dei mostri all’interno di boschi incantati, in Mulan camminiamo attraverso le montagne della Cina, in Tarzan veniamo inghiottiti dalla giungla. Anche ne Il Gobbo di Notre Dame, il film collocato nel contesto più “evoluto” tra tutti, siamo ben lontani dallo spettro della tecnologia. Ne desumiamo che, nell’epoca della post-industrializzazione e della globalizzazione, lo spazio del sogno non può che essere modellato sulla fuga dalla civilizzazione. Così come era accaduto nella seconda metà dell’Ottocento con l’Impressionismo, vi è una riscoperta dello spazio naturale come sorgente emotiva e artistica. Oltre a ciò possiamo rintracciare sicuramente una forte componente iniziatica, tanto discussa dall’antropologia, legata alle origini delle fiabe. Tali film ripercorrono le trame di un forte collegamento del favolistico con riti tribali che hanno origini collocate alla radice dell’uomo, lì dove il rapporto con la Terra era elemento di confronto quotidiano per la sua sopravvivenza. Ciò che più conta è che l’Ombra collettiva si manifesta, all’interno degli spazi naturali, come forte paura dell’evoluzione tecnica/tecnologica vista come fenomeno distruttivo, anziché costruttivo. La pace, la serenità e la felicità nascono e germogliano sempre all’interno di spazi non ancora contaminati. Quando l’uomo arriva, come nel caso di John Smith, la pace viene persa ed è solo l’allontanamento della contaminazione (così come accade per l’antagonista) a riportare la pace. 66

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Come vedremo in seguito, esaminando alcune caratteristiche del Rinascimento Disney, oltre alla scenografia anche altri aspetti vengono costantemente coinvolti nella creazione di un bene e un male immersivi. Essi pervadono lo spazio, la luce, la musica, i disegni, le scelte registiche. Tutto coincide in una sintesi degli estremi in cui l’archetipo regna incontrastato.

Che si amavano perdutamente Il Rinascimento Disney muove i suoi passi da storie già presenti all’interno del patrimonio narrativo/fantastico collettivo. Nessuna delle storie raccontate è totalmente originale poiché una componente mitico/fiabesca le percorre e le anima, riportando alla luce tesori sommersi del fiabesco e non solo. Tali tesori, riscoperti nelle profondità dell’oceano dell’inconscio collettivo spesso sedimentato nei secoli, prima di poter essere riconsegnati al pubblico, vengono “restaurati”, adeguandoli alle aspettative spettatoriali. La transizione dal racconto originario a quello definitivo sarà al centro di questo paragrafo che esaminerà come i film Disney abbiano modificato e riadattato contenuti dalla vita secolare uniformandoli sia a diversi periodici storici sia ad appetiti narrativi enormemente differenti. All’origine de La Sirenetta vi è, chiaramente, un enorme influsso del mito e della leggenda. Il personaggio Tritone, all’interno dei culti dell’antica Grecia, era considerato dio e custode dell’Oceano. Le origini delle sirene si radicano nella mitologia greca e la loro prima apparizione risale all’Odissea di Omero in cui esse erano figure dalla voce incantatrice che abitavano nei pressi di Scilla e Cariddi. Da tali miti e suggestioni prende spunto la fiaba danese Den lille Havfrue di Hans Christian Andersen pubblicata per la prima volta nel 1936. All’interno di questa fiaba, la sirenetta vive nelle profondità marine con suo padre, sua nonna e cinque sorelle maggiori. Quando, a quindici anni, le viene concesso di nuotare fino in superficie, ella incontra un bel principe che, a causa di una tempesta, viene scaraventato dalle forti onde in mare. La giovane sirena salva il principe, lo porta su una costa accanto ad un tempio e si innamora del ragazzo che, però, essendo da poco scampato alla morte, si lascia accudire ma non riesce a vederla 67

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e identificarla. La sirena inizia a desiderare, nei giorni successivi, di diventare un’umana per avere un’anima e una vita eterna invece di dissolversi in schiuma del mare, così come è destino delle sirene. Per evitare tale sorte stringe un patto con la Strega del mare che acconsente al suo desiderio di avere le gambe ma, in cambio, le taglia la lingua e stabilisce che camminare sarà per lei enormemente doloroso. L’anima le verrà consegnata solo se il principe si innamorerà di lei ma, in caso in cui ciò non dovesse accadere, morirà e si dissolverà in schiuma. Purtroppo la sirena non sarà in grado di comunicare con il principe essendole stata portata via la voce ed egli, una volta incontrata la figlia del re di un regno, crede che sia ella la donna che l’ha ritrovato sulla spiaggia dopo il naufragio e se ne innamora. La Sirenetta ha l’occasione, offertale dalle sorelle, di uccidere il principe con un pugnale magico. Se adempierà alla missione tornerà ad essere una sirena e continuerà a vivere. Ella, spinta dal suo amore per il principe, rifiuta ma, come premio per la sua bontà, invece di dissolversi, diviene una figlia dell’aria che potrà ottenere un’anima dopo trecento anni di buone azioni. Ogni bambino buono che incontrerà le consentirà di risparmiare un anno di attesa, ogni bambino cattivo la farà piangere e per ogni lacrima avrà un altro giorno di attesa. Prima di esaminare le variazioni rispetto al film esaminiamo anche il caso de La Bella e la Bestia. Le origini del plot risalgono, anche in questo caso, alla Grecia antica. Varie somiglianze si instaurano tra le versioni della fiaba realizzate nei secoli successivi e storie come Amore e Psiche o L’Asino d’oro di Apuleio. Lo spunto dell’incontro amoroso tra il bello e il mostruoso è stato riadattato e utilizzato da Giovanni Francesco Straparola nel 1550, da Giambattista Basile nel 1634, da Charles Perrault nel 1697 e tanti altri sarebbero i casi da citare. Basti considerare che il sistema di classificazione Aarne-Thompson54 ha contato 179 versioni di questa storia in paesi e lingue diverse. La trasposizione della storia a cui più si ispira il film del 1992 è quella della scrittrice francese Jeanne-Marie Leprince de Beaumont pubblicata nella raccolta Magazzino dei bambini del 1757, che prende spunto dalla 54 Il sistema di classificazione Aarne-Thompson è un sistema nato per classificare fiabe e racconti basto su un «indice dei tipi», si tratta, cioè, di una catalogazione dei motivi ricorrenti fiabeschi sviluppata da Antti Amatus Aarne.

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interpretazione di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve del 1740. Nella storia della Beaumont al centro della narrazione vi è un abbiente mercante che vive insieme alle sue tre figlie. Una di queste è Bella, chiamata così per la sua avvenenza. Ella è una fanciulla dolce e candida che, con il suo fascino, attrae maggiormente i pretendenti rispetto alle sue due sorelle vanesie e superficiali attirando così le loro invidie. Bella, tuttavia, non è attratta da nessuno dei suoi ammiratori e finisce sempre per rifiutarli, seppure con cortesia. Un giorno il padre delle fanciulle, sfortunatamente, perde tutti i suoi averi e i vari corteggiatori delle ragazze non tardano a scomparire. Poco dopo il mercante parte per scoprire se una delle sue navi cariche di merci è arrivata in porto preservando il suo contenuto e chiede alle figlie se desiderano un regalo al suo ritorno. Le prime due chiedono soldi e gioielli mentre Bella chiede solo una rosa. Quando il mercante scopre che ciò che la nave conteneva è stato utilizzato per risolvere i suoi debiti, si trova nell’impossibilità di accontentare i desideri delle sorelle di Bella. Sulla strada del ritorno, sorpreso da una bufera, il mercante si rifugia in un castello circondato da uno splendido roseto. L’uomo sta per cogliere una rosa per accontentare almeno Bella ma ciò desta le ire di un mostro spaventoso che abita il castello. Tale creatura trova irrispettoso che il mercante abbia ricambiato l’ospitalità con un furto e decide di punirlo con la morte. Il mostro decide di risparmiargli la vita solo in caso egli conduca Bella, la figlia che bramava quella rosa, al castello. Una volta che il mercante racconta la vicenda alle figlie, Bella non esita a offrirsi alla Bestia al posto del padre (per la felicità delle sorelle). Il mostro si propone di trattarla sempre come una principessa, circondandola di lussi e gioielli in modo che ella non desideri mai tornare a casa. Inoltre, le regala uno specchio magico che le permette di vedere in ogni momento come stanno il padre e le sorelle. Quando però il mostro le chiede ogni sera di sposarla ella cortesemente rifiuta pur sincerando il suo affetto per la creatura. Un giorno Bella, utilizzando lo specchio magico, vede che suo padre è gravemente malato e chiede alla Bestia di stare al suo fianco. La Bestia acconsente ma le chiede di tornare entro una settimana o lui, per il dolore, sarebbe morto. Bella per una settimana fa compagnia al padre ma le sorelle, vedendola sana e colma di gioielli, nonostante si fossero entrambe sposate, invidiose della sua fortuna, per evitare che faccia ritorno al castello, fingono di piangere e la implorano di restare anche oltre il tempo 69

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previsto. Bella, però, ben presto si sente in colpa e torna al castello dove trova la Bestia agonizzante. Ella lo prega di non morire e afferma che lo sposerà. In seguito a tale affermazione, la Bestia si trasforma in uno splendido principe. Egli era vittima di un sortilegio di una strega che aveva stabilito che avrebbe avuto quell’aspetto finché una donna non avesse voluto sposarlo. Il principe e Bella iniziano una vita felice insieme al padre mentre le due sorelle vengono trasformate in statue così che il loro destino sia quello di osservare la felicità degli altri fino a pentirsi della loro condotta. Leggendo queste storie potrebbe sembrare, almeno da una lettura superficiale, che le differenze principali tra film e racconto siano, nel caso de La Sirenetta, l’happy ending e, nel caso de La Bella e la Bestia, i personaggi coinvolti. In realtà vi è un aspetto molto più radicale in cui tali narrazioni differiscono rispetto ai film Disney: la scelta del tema. Il punto centrale è, infatti, di cosa ci parlano questi racconti? Dara Marks, all’interno de L’arco di trasformazione del personaggio sostiene che il tema è «ciò che dà un significato all’attività del plot e un fine al movimento dei personaggi»55. Soffermandoci sulle differenti versioni di queste storie è importante considerare che non si tratta di copie o plagi, bensì di riadattamenti che mutano in nuce il senso della storia. Per capire qual è il tema di una storia è necessario partire dallo stesso spunto suggerito da Propp, infatti «le azioni del protagonista svolgono la funzione di espressione del tema»56. Per quanto riguarda le vicende di Ariel è senz’altro vero che è il lieto fine, oltre alla caratterizzazione e alla scelta dei personaggi, a fare la differenza. Ciò non toglie che tali aspetti sono in strettissima relazione con le azioni della protagonista che sfida la sua diversità e si spinge in un territorio rischioso e deformante. Il vero tema della vicenda è proprio la diversità, aspetto che ha fatto pensare spesso che la storia di Andersen racchiuda una base autobiografica legata alla mancata accettazione della sua omosessualità. L’amore è fragile, senza voce, fatica a camminare, inciampa e si dissolve nel vento, così come la giovane sirena. 55 D. Marks, Inside Story: The Power of the Transformational Arc (2007); trad. it. L’arco di trasformazione del personaggio, Roma, Dino Audino, 2009, p. 60. 56 Ibidem.

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Leggendo la versione di Beaumont de La Bella e la Bestia, la ricerca del tema si incontra inevitabilmente con la risoluzione della vicenda. Se nel film sono le lacrime di Belle l’azione intorno a cui si muove il lieto fine (in quanto sigillo dell’amore in grado di andare oltre le apparenze), nel racconto è il matrimonio la chiave della felicità dei personaggi. La Beaumont aveva infatti racchiuso, all’interno della sua storia, riflessioni importanti circa i matrimoni forzati, elemento caratteristico dell’ambiente che la circondava e che suscitava il suo dissenso. La Sirenetta di Andersen e La Bella e la Bestia della Beaumont, attraverso i loro temi, sono lo specchio (magico) di un’epoca. Esse racchiudono valori sociali e morali propri del relativo periodo di appartenenza. Ciò che accade nei due casi presi in analisi è una costante all’interno dei film del Rinascimento Disney. La strategia è quella di utilizzare miti e leggende di comprovato successo, ben sedimentate e già incanalate in forme narrative più o meno precise e multiformi. Così accade per: Aladdin, derivante da una leggenda che compare per la prima volta nel 1710 nelle Mille e una notte del Galland, in cui compare nei volumi IX e X; Il Re Leone, che si ispira alle storie cartaginesi sul re come dominatore del regno animale e alle vicende presenti nella Bibbia del patriarca Giuseppe e all’Amleto di Shakespeare57; Pocahontas, che nasce da una storia vera divenuta leggenda e più volte romanzata da scrittori come John Davis o Musick; Il Gobbo di Notre Dame, che prende spunto da Notre Dame de Paris (1831) di Victor Hugo; Hercules, che si sviluppa riprendendo e rielaborando il mito di Eracle; Mulan, ispirato all’eroina cinese Hua Mulan che compare nel poema, andato disperso, La ballata di Mulan e risalente al VI secolo prima della dinastia Tang; Tarzan, che compare per la prima volta nel 1912 nel romanzo Tarzan of the Apes (Tarzan delle Scimmie) e ispirato al mito del bambino allevato dagli animali già presente in numerosi miti tra i quali, per esempio, il mito della Lupa che alleva i figli di Marte e Rea Silvia agli albori di Roma. Una volta individuata, la storia viene privata del suo tema originario che si trasforma e, nella versione disneyana della storia, tende a ruotare, in tutti i casi presi in esame, intorno a due traguardi chiave: identità e amore. Questi due concetti si adattano perfettamente alla caratteristica universalità fiabe57 Cfr. C. Vogler, Il Viaggio dell’eroe, cit., e The Lion King: Platinum Edition (Disc 2), Origins [DVD], Walt Disney Home Entertainment, 1994.

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sca in quanto racchiudono la ricerca, connaturale a qualsiasi essere umano, del raggiungimento della completezza di una identità sociale/culturale e sentimentale/sessuale. La bilancia, irrimediabilmente, tende spesso, nei diversi film, a pendere più da una parte o dall’altra. La ricerca di una identità è al centro del percorso di Simba, di Mulan e di Tarzan, ma pure, in ognuna delle loro storie, non manca la componente amorosa. L’incontro sentimentale (esclusivamente tra uomo e donna) ricorre spesso ma diventa il tema principale del plot solo quando sostiene la capacità dell’amore di superare varie tipologie di diversità tra le parti. La disuguaglianza fisica e sociale separa Ariel dal principe Eric così come Belle e la Bestia, la differenza di appartenenza sociale divide Aladdin e Jasmine, il triangolo Quasimodo, Febo e Esmeralda, Hercules e Meg. La diversità culturale separa Pocahontas e Smith. Solo due temi, anche se spesso intrecciati, alimentano nove storie all’apparenza completamente diverse. Una mancanza o un danneggiamento vengono introdotti nella storia, ricalcando il racconto originario quando esso utilizza i due temi di cui sopra o sostituendoli quando differenti. Non dissimile è il caso dei personaggi che, pur partendo da difformità parziali o totali, vengono privati di tridimensionalità e resi archetipici. Esemplificativo è il caso di Hercules che nella leggenda si scontra con il leone Nemeo. Esso leggendariamente era figlio di Tifone e di Echidna e il suo manto era in grado di proteggere da qualsiasi arma. La sua conquista era un fenomeno mitologico straordinario ed Eracle, per riuscire nell’impresa, si era dovuto scontrare più volte con la belva mostrando la sua furbizia e la sua perseveranza. In Hercules all’eroe basta un solo pugno per sconfiggere il leone che, poco dopo, vedremo avere parodicamente i tratti di Scar. La profondità del mito, dunque, si dissolve e viene inglobata dall’universo Disney. Identica sorte capita ad Aladdin che inizialmente, nella versione originale della storia, era un fannullone cinese che dava solo dispiaceri alla 72

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madre a causa della sua indisciplinatezza e della sua pigrizia. Tale condizione, ovviamente, avrebbe turbato la bontà del personaggio e, dunque, nel film, egli diventa povero per colpa della società a cui appartiene in attesa di essere premiato dalla sorte per la sua virtù. Ciò dimostra come la purezza degli archetipi, non sempre preservata all’interno delle fiabe, è una costante irrinunciabile nel cinema del Rinascimento Disney. Riguardo alla caratterizzazione, invece, è possibile constatare che poiché all’interno di una fiaba «tutto ciò che è individuale o locale viene eliminato, in quanto di scarso interesse»58, i personaggi dei film Disney di questo periodo sono condannati a perdere le loro specificità. Tali elementi servono esclusivamente da cornice e, per questo motivo, vengono raccontati senza inoltrarsi in particolari che non sono funzionali per il proseguimento del plot. Oltre a ciò, per preservare la loro natura archetipica, non sono previste esitazioni nel loro percorso. Altre componenti della storia, come la violenza e la sessualità, che sono presenti nelle narrazioni originali, non vengono, come generalmente si crede, totalmente epurate. Troviamo luoghi inquietanti e antagonisti senza scrupoli, deformazioni, mutilazioni e mostri orripilanti. Gli elementi di particolare durezza o dal marcato erotismo vengono semplicemente adeguati a un grado di tolleranza proprio di un uditorio quanto più vasto è possibile nel periodo contemporaneo. Febo, all’interno di Notre Dame di Victor Hugo, si rivela essere un uomo semplicemente attratto dalla bellezza di Esmeralda, bellezza che decide di sfruttare fino a un rapporto carnale a cui lei cede per paura di perdere l’uomo che ama. Per preservare l’archetipo del personaggio giusto tali elementi non possono essere narrati e la relazione dell’uomo con Esmeralda si trasforma in una storia d’amore a lieto fine. Oltre a ciò storie come quella di Eracle o di Quasimodo, nella tradizione si sarebbero dovute chiudere con finali tragici e cruenti che, invece, vengono sostituiti dall’happy ending. I film del Rinascimento Disney sono, tuttavia, paradossalmente, sintomatici della palese evoluzione nell’accondiscendenza spettatoriale. Il tentato infanticidio di Frollo, l’impiccagione di Clayton e la sensualità di Meg e di Esmeralda difficilmente, all’interno di film Disney precedente anche solo pochi anni, non sarebbero stati considerati scandalosi. Nello 58

M.L. Von Franz, Le fiabe del lieto fine…, cit., p. 19.

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sfondo si intravede un immaginario dipinto con colori occidentali e americaneggianti ma, del resto, ogni fiaba finisce per adeguarsi alla propria cultura e il cinema del Rinascimento Disney è figlio della cultura globalizzata filoamericana. Il significante varia, anche marcatamente, ma il significato resta sempre lo stesso, cambiano le dosi ma gli ingredienti sono sempre gli stessi, ed è proprio questa ricetta ad aver garantito dieci anni di successi alla Mouse House.

E vissero felici e contenti Il lieto fine non è altro che la risoluzione di una situazione negativa che ha turbato l’equilibrio iniziale in cui si trovava il protagonista. L’eroe, spesso senza un perché ben definito, si trova a contrastare personaggi e situazioni avverse che ne mettono alla prova le capacità. Il turbamento può derivare sia da un accidente esterno (come accade, per esempio, in Pocahontas), o come punizione, generalmente sproporzionata, rispetto a un comportamento sbagliato (la Bestia, per avere negato ospitalità per una notte a una vecchia signora, vede se stesso mutato in mostro e la sua corte trasformata in oggetti). Guardando tale fenomeno da un punto di vista antropologico, molte sono le popolazioni che temono che un evento negativo si possa abbattere su di loro da un momento all’altro senza motivo e, per prevenire le avversità, si rifugiano in riti e cerimonie religiose. Da un punto di vista psicoanalitico, invece, «si potrebbe affermare che un impulso ci obbliga ad assumere un comportamento sbagliato, cosicché veniamo alienati dai nostri istinti e perdiamo l’equilibrio interiore»59. Antropologia e psicoanalisi individuano la paura di uno strappo che fa perdere la serenità all’uomo e dunque, al protagonista della fiaba. Danneggiamento e mancanza sono la chiave della destabilizzazione dei personaggi principali ma, alla fine, tali condizioni non possono che risolversi nell’happy ending che vede il protagonista vittorioso. Cosa deve accadere perché egli possa arrivare a tale traguardo? Cosa lega mancanza, danneggiamento e lieto fine? 59

M.L. Von Franz, Le fiabe del lieto fine…, cit., p. 28.

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Poiché sappiamo che i personaggi delle fiabe non sono altro che archetipi, dobbiamo considerare l’avversità come una turbativa della stabilità alla base del personaggio. Nelle fiabe, così come nei film del Rinascimento Disney, gli eroi vengono sottoposti a traumi, perdite e privazioni esclusivamente per essere messi alla prova. Gli eroi vengono chiamati a sguainare la spada mostrando bontà e coraggio nel momento in cui una forza malvagia prova a trascinarli verso il basso cercando di condurli all’ignavia (così come capita con Simba), a eliminarli (è il caso di Aladdin) o semplicemente a privarli dell’equilibrio raggiunto (ne offre una dimostrazione Tarzan). I protagonisti, inizialmente, avvertono sempre i colpi inflitti dal male, vacillano da una scena all’altra fino al punto cruciale, la dimostrazione finale della loro natura che sancisce la cristallizzazione definitiva dell’archetipo e la risoluzione della storia. La chiave di volta per giungere alla liberazione dal male, perciò, appare come una faticosa e impervia ricerca di ciò che la Von Franz chiama «redenzione»60. Attraverso l’immaginazione attiva «si dà all’inconscio la possibilità di esprimersi aggiungendo la focalizzazione e la concentrazione data da elementi di consapevolezza» e, utilizzando la forma fiabesca, la psiche trova un suo canale in cui risolvere i suoi conflitti interni. Quando si tratta di redimere qualcuno, vale a dire una parte della propria psiche, si tratta sempre di darle il giusto mezzo espressivo, il giusto tipo di materiale fantastico, all’interno del quale possa esprimersi61.

La redenzione si configura come una vera e propria liberazione dal male, presente in ogni narrazione attraverso l’archetipo dell’antagonista. L’uomo, attraverso la narrazione, consuma i suoi dubbi e le sue paure fino a ritrovare la serenità perduta. L’eroe, perciò, non è altro che un contenitore emotivo per lo spettatore che riversa in esso la sua psiche ansiosa di una pacificazione. Da secoli lo ripetono le favole di tutto il mondo, le rivelazioni di tutte le religioni e, nel nostro tempo, ce lo conferma lo psicoanalista: guardando dentro di noi, al di là delle ombre che vi si agitano, oltre le figure che la fantasia ha colorato, nel 60 61

Cfr. M.L. Von Franz, Le fiabe del lieto fine, cit. Ivi, p. 114.

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profondo del nostro essere c’è sempre la stessa richiesta. Per diventare uomo ho bisogno di redimermi o di essere redento, altrimenti mi confonderò per sempre nel buio dell’infelicità, dell’inferno o della follia62.

Bisogna pervenire, dunque, alla salvezza. Essa consiste, come accade per i riti religiosi, in una liberazione dal male che avviene generalmente come premio alla bontà e alla purezza dell’eroe attraverso un evento legato al destino o agli dei. In tali termini risulta dunque immediata l’importanza di idee come «il cerchio della vita» o la comparsa determinante di forze come quelle degli antenati (Mulan e Pocahontas) o degli dei (Hercules). Ciò che conta è il raggiungimento della redenzione/purificazione. Inaspettatamente il finale si rivela come un tornare nei ranghi. L’archetipo viene restituito alla normalità, torna al suo giusto posto. Un nuovo equilibrio viene raggiunto al di fuori dello straordinario e del leggendario. La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Il Re Leone, Hercules, Mulan e Tarzan, sette film sui nove totali, si concludono praticamente nello stesso modo: l’eroe e l’eroina si uniscono indissolubilmente e vivono felici e contenti. Non è totalmente dissimile il caso de Il Gobbo di Notre Dame in cui, però, il ricongiungimento avviene tra Febo ed Esmeralda. Fa eccezione Pocahontas che, al termine della storia, torna al suo equilibrio iniziale ma continua a guardare all’orizzonte verso l’amore della sua vita. L’elemento imprescindibile è che l’eroe è ormai epurato dal male e, elemento ancora più importante, è sottratto dall’impellenza di doverlo affrontare ancora. In nessun finale riscontriamo la paura del ritorno di Jafar, del Governatore Ratcliffe o di altri antagonisti. Anche nel caso in cui siano ancora vivi, sono ormai troppo lontani, sconfitti e dispersi in abissi senza fine. Ciò consente all’eroe di placarsi e eliminare la sua sete di avventure. La maturazione è completa, l’inconscio è stato esorcizzato dal male, la spada può tornare nella fodera. Mentre la storia presenta nel suo svolgimento straordinarie trasfigurazioni del corpo dell’eroe, al termine della lotta egli ridiventa un semplice mortale. Alla fine della fiaba non sentiamo più parlare della sovrumana bellezza o forza dell’eroe. [...] Una volta che l’eroe della fiaba ha conseguito la sua vera identità alla fine della sto62

I. Bossi Fedrigotti, in M.L. Von Franz, Le Fiabe del lieto fine, cit., p. 9.

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ria (e con tale identità la sicurezza interore circa se stesso, il suo corpo, la sua vita, la sua posizione nella società), egli è felice di essere così com’è, e non più atipico sotto nessun punto di vista63.

A tale proposito particolarmente significativo è l’esempio di Hercules che, dopo aver salvato l’Olimpo, pur essendo abituato a gesta leggendarie e alla fama, rinuncia ad essere un dio per stare con la sua amata Meg. Ne Il Re Leone la conclusione porta Simba a prendere il suo posto nel cerchio della vita, la regolarità a cui sarebbe dovuto comunque arrivare se Scar non si fosse intromesso nella lotta per il trono. L’eroe ha trovato il suo posto, la sua collocazione nel mondo. Determinate condizioni societarie non entrano, e probabilmente non entreranno mai all’interno di queste storie. Sembra impossibile pensare, ad esempio, che la Sirenetta e il principe Eric un giorno possano lasciarsi. Tale possibilità, di base, neppure esiste. Ciò perché, nel bene e nel male, tali personaggi sono unidimensionali e, potremmo aggiungere, unidirezionali. La vita di un archetipo è un senso unico che, per quanto tortuoso, porterà sempre e comunque nella stessa direzione. Tale condizione, ovviamente, è ben lontana dalla tridimensionalità dello spettatore che, però, non può che trarre beneficio dalle fiabe Disney. Come noi ci risvegliamo ricaricati dai nostri sogni, meglio disposti ad affrontare i compiti della realtà, così la storia termina con l’eroe che torna, o è fatto ritornare, al mondo reale, molto più in grado di affrontare la vita. Recenti ricerche sul sogno hanno mostrato che una persona privata della possibilità di sognare, anche se non privata del sonno, è menomata nella sua capacità di misurarsi con la realtà; essa comincia a manifestare turbe emotive perché non può elaborare in sogni i problemi inconsci che lo turbano64.

In tutti noi il conflitto è vivo e radicale. Il Rinascimento Disney ha creato un terreno di elaborazione di tali scissioni interiori in cui i buoni vincono sempre, il male viene rimosso, gli amici non tradiscono e gli amori non finiscono mai. 63 64

B. Bettelheim, Il mondo incantato, cit., p. 59. Ivi, p. 64.

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Capitolo secondo

La Pixar «verso l’infinito e oltre»

Dalla Disney alla Pixar Il 19 Novembre del 1995 le strade di Los Angeles incrociano una delle anteprime che ha cambiato il senso e la storia del Cinema. È il giorno del debutto di Toy Story, il primo film completamente realizzato attraverso l’uso della grafica computerizzata e, come vedremo, molto più di questo. Il percorso che ha portato a tale risultato è impervio ed aspro, ricco di imprevisti e di uomini geniali che, mattone su mattone, o meglio rendering su rendering, hanno creato la strada del successo dando un senso nuovo e differente al cinema d’animazione contemporaneo proprio al centro del periodo che ha visto trionfare lo straordinario Rinascimento Disney. Prima di avventurarci nello specifico sarà bene ripercorrere brevemente i passaggi che hanno portato la Pixar Animation a diventare una delle più importanti case cinematografiche del mondo. Il primo nome fondamentale nel nostro cammino è quello di George Lucas che, nel 1969, insieme a Francis Ford Coppola, aveva fondato la società di produzione chiamata American Zoetrope per liberare i registi dalla servitù alle majors. Spinto dal desiderio di trovare sempre nuovi mezzi espressivi per raccontare le sue storie, Lucas fonda successivamente una casa di produzione, la Lucasfilm, che, grazie al successo planetario di Star Wars, lancia un nuovo modo di concepire il cinema (e un nuovo approccio al relativo marketing) unendo tecnica, arte, tecnologia e film a episodi. La sperimentazione e la ricerca tecnologica sono elementi chiave del cinema secondo Lucas che, infatti, non esita a gettare le fon78

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damenta del laboratorio di post-produzione audio Skywalker Sound e, soprattutto, la società di effetti speciali chiamata Industrial Light & Magic (ILM) che, in pochi anni, diverrà il punto di riferimento mondiale per gli effetti speciali e raccoglierà 14 Oscar e 22 riconoscimenti tra Scientific and Engineering Award e Technical Achievement Award. Nel 1979 Lucas intuisce che il digitale può aprire nuovi scenari all’interno del cinema. Ritorna, come era accaduto all’interno del cinema, il sogno di un’immagine ex nihilo, creata dal nulla, realizzata su un’idea e per un’idea del creatore. Il regista di Star Wars, così, anche grazie al nuovo arrivo in squadra di Edwin Catmull del New York Institute of Technology, crea la Computer Division. Catmull, a suo dire un animatore mancato della Disney, si era specializzato nella computer grafica sviluppando concetti come il z-buffering1, la texture mapping2 o l’anti-aliasing3. Proprio grazie a tali risultati, Catmull era già riuscito a dare vita all’interno del Computer Graphics Lab al New York Institute of Technology e a realizzare il primo effetto digitale 3D della storia del cinema per la Information International, la mano di un robot (interpretato da Yul Brinner) in Futureworld. Insieme a Catmull giunge anche Alvy Ray Smith III in qualità di Computer Graphics Director. Insieme essi realizzano grandi successi nel campo del rendering4 e del compositing5 digitale6. Attraverso la realizzazione di specifici hardware e software diviene possibile realizzare effetti speciali avveniristici come la realizzazione, anche grazie al giovane animatore tradizionale John Lasseter, del primo personag1

Lo z-buffering è una tecnica che serve a gestire la profondità di un oggetto a livello di singolo pixel rendendo in maniera ottimale la sua tridimensionalità. 2 Il texture-mapping serve ad aggiungere dettagli, immagini o colori alle facce di un modello poligonale tridimensionale aumentando la sua realisticità. 3 L’antialiasing è una tecnica che serve per ridurre l’effetto aliasing. La sua principale funzione è quella di ammorbidire i bordi ed evitare la cosiddetta “scalettatura”. 4 All’interno della computer grafica, con il termine inglese rendering si intende il processo di generazione dell’immagine di un oggetto a partire da codici matematici. Tramite una struttura di algoritmi è possibile rendere in immagini una scena tridimensionale completa delle caratteristiche relative alle superifici utilizzate e alla loro illuminazione. 5 Il compositing è la combinazione di elementi visivi a partire da origini separate e uniti in una singola immagine. Esso comprende tecniche come il blue screen, il green screen o il chroma key. 6 G. Aicardi, Pixar, Inc: La Disney del Duemila, cit., pp. 27-28.

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gio esclusivamente digitale nel cinema, il cavaliere di vetro che compare in Young Sherlock Holmes. A partire dall’arrivo di Lasseter emerge, all’interno di queste pratiche avveniristiche, un ritorno di tecniche della tradizione Disney come esplicitato dal primo cortometraggio di Lasseter intitolato The Adventures of André & Wally B. realizzato nel 1984. Nonostante questi primi grandi successi, la prima aspirazione di Lucas era sempre e comunque il cinema e, spinto dalla necessità di recuperare fondi, il regista decide di cedere la ILM all’offerta di cinque milioni di dollari (altri cinque verranno immediatamente investiti nella nuova società) di Steve Jobs. Jobs, prodigio dell’informatica, a soli 21 anni aveva fondato, insieme all’amico Steve Wozniak, la Apple Computer. Tale società, seppure avesse attraversato un periodo di abbandono da parte dello stesso Jobs nel 1985, era stata rifondata ed era diventata una delle società informatiche più importanti al mondo. La ILM non poteva che essere, per la Apple, motivo di enorme interesse e, nel 1986, essa viene definitivamente acquistata da Jobs e resa indipendente con il nome di Pixar7. Il presidente e l’amministratore delegato della neonata società californiana è Catmull, il vicepresidente e direttore generale è Alvi Ray Smith. Jobs, invece, è azionista di maggioranza e presidente dell’assemblea degli azionisti. Gli inizi della Pixar coincidono con la realizzazione di tecniche e prodotti hardware e software. Il Pixar Image Computer, ad esempio, veniva utilizzato per la visualizzazione delle TAC o di esami che necessitavano di una buona definizione dal punto di vista visivo. Campo privilegiato di vendita erano, per l’appunto, società mediche e ospedali che acquistavano tale macchinario per 135.000 dollari. Ciò nonostante, il futuro della Pixar sarebbe stato ben lontano dal campo medico. La Walt Disney Pictures, infatti, stava contemporaneamente alla finestra poiché aveva intravisto, nella società diretta da Catmull, una risorsa insostituibile per portare a termine il progetto CAPS, necessario per automatizzare diverse procedure legate al compositing e aprire a nuove frontiere quali il 3D. 7 Il termine gioca con la parola pics usando lo slang «pix». Pixar può essere tradotto, dunque, come «creatore di immagini».

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Iniziava ad emergere che, per la Pixar, la principale risorsa per fatturare poteva essere la computer animation guidata dalle idee di Lasseter. Nel 1986 lo sguardo dell’animatore è catturato dalla sua lampada da tavolo realizzata dalla Luxo. Poco dopo il cortometraggio Luxo Jr., primo prodotto realizzato interamente dalla Pixar, viene proiettato al SIGGRAPH8 di Dallas segnando il primo passo per una rivoluzione digitale del cinema. Dopo Red’s Dream, Tin Toy (predecessore di Toy Story per tema trattato, tipologia dei personaggi e tecniche di realizzazione) fa conquistare il primo Oscar alla squadra Jobs-Lasseter-Catmull nel 1989. Nello stesso anno arriva una grande e profonda svolta dal punto di vista tecnico: la realizzazione del software RenderMan, il migliore programma di rendering di sempre, migliora, tra le altre funzioni, il ray tracing9 e la global illumination. Vengono commissionati i primi spot e le nuove tecniche elaborate dal team Pixar diventano promoters di succhi di frutta, chewing-gum, caramelle e colluttori. Nel 1991 Alvi Ray Smith lascia la Pixar (probabilmente a causa di diversi scontri con Jobs) ma, proprio in quell’anno, grazie ai successi riportati da Catmull e Lasseter, arriva l’accordo commerciale con la Disney denominato Feature Film Agreement che prevede la realizzazione di tre lungometraggi animati. Michael Eisner, in quel momento a capo della Disney, era intenzionato a preparare una nuova strada per la Mouse House e aveva intuito che, oltre alle straordinarie capacità tecniche già dimostrate nel CAPS, la Pixar poteva rivelarsi fondamentale anche dal punto di vista creativo. Il rischio, tuttavia, era quello di proporre a un pubblico quasi totalmente estraneo alla computer grafica 3D un intero lungometraggio realizzato 8 Il SIGGRAPH (Special Interest Group on GRAPHics and Interactive Techniques) è una conferenza sulla grafica computerizzata (CG) organizzata annualmente negli Stati Uniti dall’ACM SIGGRAPH organization. 9 Il ray tracing, all’interno della computer grafica, indica un algoritmo attraverso il quale le visualizzazioni modellate matematicamente delle scene vengono prodotte usando una tecnica che segue i raggi partendo dal punto di vista della telecamera piuttosto che dalle sorgenti di luce. Esso è particolarmente utile nel riprodurre riflessione e rifrazione. 10 John Lasseter, nel documentario The Story Behind Toy Story (Walt Disney Productions, 1996) afferma: «Ogni animatore in cuor suo va pazzo per i giocattoli, ogni animatore in fondo è come un bambino: quando si va in giro per la Pixar, ma anche per la Disney, tutte le scrivanie sono piene di giocattoli».

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con questa tecnica. Per la scelta del soggetto si partì, come accaduto con il corto Tin Toy, già premio Oscar, dal mondo dei giocattoli. Essi rivelavano da un lato una forte passione10, dall’altro la rigidità dei loro movimenti avrebbe mascherato una tecnica di realizzazione ancora non completamente matura e ancora legata a una inevitabile legnosità. Da questi due elementi ha preso spunto il film sceneggiato da Lasseter, Pete Docter e Andrew Stanton e diretto da Lasseter. Toy Story costa alle casse di Eisner trenta milioni di dollari (meno della metà degli ottanta necessari, mediamente, per realizzare un film Disney di questo periodo) e, in breve tempo, ne incassa oltre 200 negli Stati Uniti (maggior incasso dell’anno) e 160 all’estero. Oltre a ciò esso viene candidato, nel 1996, a tre premi Oscar11, riceve uno special achievement award, otto Annie Award e i premi dell’animazione dell’ASIFA Hollywood, conseguenza di un successo di critica e di pubblico oltre ogni aspettativa realizzato attraverso una stretta commistione di tecnica e arte. Una ricetta che, di lì a poco, sarebbe diventato il marchio di fabbrica della casa di produzione cinematografica che avrebbe rivoluzionato il senso stesso del cinema d’animazione.

C’è oggi o ci sarà domani Attraverso gli occhi (digitali) della Pixar, andremo ad esaminare, all’interno dei prossimi paragrafi, il periodo che va dal 1995 al 2009, vale a dire la transizione dai primi passi della casa di produzione californiana alla forma attuale. Dieci saranno i lungometraggi al centro della nostra attenzione:

11 Miglior sceneggiatura, miglior colonna sonora e miglior canzone originale (You’ve Got a Friend in Me di Randy Newman).

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Tabella 2 Anno

Titolo

Titolo orignale

1995 1998 1999 2001 2003 2004 2006 2007 2008 2009

Toy Story – Il mondo dei giocattoli A Bug’s life – Megaminimondo Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa Monster & Co. Alla ricerca di Nemo Gli Incredibili Cars – Motori ruggenti Ratatouille Wall-e Up

Toy Story A Bug’s life Toy story 2 Monster Inc. Finding Nemo The Incredibles Cars Ratatouille Wall-e Up

Toy Story nasce in pieno Rinascimento Disney, addirittura in concorrenza con uno dei suoi film più apprezzati, Pocahontas. Ciò nonostante, fin dall’incipit, emerge chiaramente una profonda differenza con il paradigma della Mouse House. Se il compito principale del «c’era una volta» disneyano era incentrato sull’immissione dello spettatore all’interno di un’illusione escatologica con radici ataviche, profondamente ancorate nella fiaba, i film Pixar smascherano la suggestione e, all’opposto, mettono spesso in risalto il proprio artificio. L’illusione è sia tecnicamente che narratologicamente nelle mani dello spettatore che passa dalla maestosa e diretta metafora disneyana al gioco tra allegoria e sineddoche della Pixar. Dai selvaggi leoni alle piccole formiche, dai cieli di Agrabah al cielo dipinto sulla parete di una cameretta di un bambino: tanti cambiamenti che lastricano una strada libera da modelli rigidi e che si muove, grazie alla sua natura riformata, verso una diversa concezione narrativa pregna di rinnovata umanità. Smascherare l’artificio cinematografico, infatti, non è solo una tecnica stilistica ma un modo per avvicinarsi allo spettatore aumentando la veridicità del film. Ciò è riscontrabile fin da subito in Toy Story che indica una già ben definita chiarezza d’intenti. Un cielo dipinto su una parete è l’orizzonte del nostro sguardo, un suggestivo messaggio che testimonia che ci stiamo inoltrando nel mondo artificiale del fantastico quotidiano. 83

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Scatole colorate e la mano di un bambino che mima un’avventura in stile western ci portano ben lontano dal regno dell’indeterminato sia spaziale che temporale. Ogni elemento dipinge l’atmosfera semplice di una cameretta americana. Il fantastico, inizialmente, emerge solo dalle parole fantasiose del bambino, nessun castello o bosco incantato. In seguito, all’improvviso, Woody prende vita e la magia si introduce a piccoli passi nell’ambito domestico. Nell’orizzonte Pixar, come vedremo anche in numerosi casi successivi, l’animismo la fa da padrone. Giocattoli, macchine, robot, ogni cosa può avere un’anima e può essere utilizzata per sottintendere temi ugualmente importanti rispetto a quelli classici disneyani seppure in contesti decisamente meno leggendari. Singolare che anche A Bug’s life e Toy Story 2 usino come prima inquadratura dei cieli finti. Nel primo caso si tratta di un riflesso nell’acqua, nel secondo di un videogioco (peraltro connesso allo stesso Toy Story). È come se lo schema legato al Rinascimento Disney, ormai sovraccarico, non attendesse altro che essere rivelato e ridimensionato. Aspetto peraltro palesato anche da un continuo gioco con il metacinematografico a cui i film Pixar costantemente rimandano. Già dalle prime sequenze di Toy Story, infatti, è possibile notare la comparsa di libri i cui titoli sono, emblematicamente, Tin Toy e Knick Knack (nomi di alcuni cortometraggi della Pixar). Rispetto al metacinematografico disneyano non vi è alcun intento umoristico. Ad esempio, effettuando un confronto con la sequenza in cui uno zoom progressivo della macchina da presa colpisce al volto il mercante che introduce la storia di Aladdin per suscitare un sorriso nello spettatore, qui ogni riferimento è celato e può essere colto solo da uno sguardo attento. Si instaura così un gioco con il fruitore invitato a scoprire i livelli della finzione che incorniciano la storia. Lo spettatore è invitato ad avere uno sguardo meno rilassato, più consapevole e attento ai dettagli, libero 84

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di scegliere cosa guardare in totale autonomia poiché la ricchezza di dettagli è una caratteristica che riguarda la stragrande maggioranza delle inquadrature. L’uso del digitale alimenta il desiderio di una visione costruita su più piani, l’uso dell’animazione implica che ogni particolare, sia in primo piano che sullo sfondo, è studiato e calcolato per soddisfare un desiderio creativo/comunicativo dei realizzatori. Nessun pixel è lasciato al caso e, dunque, ogni inquadratura necessita di una visione più che approfondita. Ad aumentare la sensazione di realisticità vi è anche l’eliminazione delle sovrastrutture narrative. L’incipit di Toy Story sceglie di immettere gli spettatori all’interno della narrazione in maniera graduale ma, a differenza dei film Disney esaminati in precedenza, non vi è alcuna preparazione né un’introduzione di una voce narrante. Il cinema d’animazione Disney appare, repentinamente, svincolato dal «c’era una volta» a tutti i livelli. Così, allo stesso modo, non vi sono divieti, né infrazioni, nessuna mancanza o danneggiamento ben definito. È solo per caso che Woody fa cadere dalla finestra Buzz Lightyear ed è costretto a inseguirlo al Pizza Planet, è per caso che tra loro nasce un’amicizia, nessun tranello e nessuna investigazione dell’antagonista creano un punto di svolta. Decaduto lo schema individuato da Propp, sguardo e struttura vengono liberati e, improvvisamente, tutto diviene più reale e quotidiano. Il cinema Pixar sembra ricordarci l’importanza delle piccole cose, la magia racchiusa in ogni minuscola componente della vita, le storie che, come accade nella vita di tutti i giorni, avvengono senza un piano ben definito e che, proprio per questo, racchiudono una forte magia intrinseca ben diversa da quella prevista dal paradigma disneyano. Tale concetto ritorna anche in A Bug’s Life, film che esplora un mondo generalmente trascurato dal cinema, quello degli insetti. Tre anni dopo Toy Story, a cavallo tra Hercules e Mulan (e dunque tra la mitologia greca e cinese), la Pixar conduce lo spettatore lì dove non c’è possibilità di incontrare favole e leggende: tra fili d’erbe, formiche e cavallette. Ciò nonostante, per volare basta aggrapparsi a un soffione, per sconfiggere gli insetti più grandi e prepotenti basta utilizzare la creatività. Anche in questo caso non è una mancanza o un danneggiamento a far partire l’eroe, che potrebbe benissimo restare nella colonia e aiutare le altre compagne. Egli viene allontanato esclusivamente per evitare si renda responsabile di altri danni. 85

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Fin dal principio ci viene ricordato il valore delle piccole cose («tutto ciò che ha creato quell’albero gigante è già contenuto dentro questo minuscolissimo seme»), ritorna il valore della casualità (Flick fa cadere tutti i semi raccolti dalle formiche per una pura fatalità), non vi è un vero elemento magico se non la magia già contenuta nella realtà, nella natura e nella creatività in grado di rifuggire schemi fissi sia a livello diegetico che extradiegetico. Toy Story 2 ci riporta nel mondo dei giocattoli di Woody e Buzz, aggiungendo nuovi personaggi e, soprattutto, come vedremo più avanti, cambiando completamente tema rispetto al suo predecessore. Non si tratta, dunque, di un banale sequel ma di un film completamente autonomo. L’incipit, ancora una volta, crea un livello di finzione aggiuntivo rispetto al piano filmico in quanto veniamo trascinati all’interno di un videogioco di cui Buzz è protagonista. Virtuale, cinema e realtà, ancora una volta, si fondono indissolubilmente. L’incidente scatenante avviene in un mercatino dell’usato in cui Woody, giunto per salvare dalla vendita il povero pinguino giocattolo Wheezy, viene rubato da un collezionista di giocattoli. La sorte, come nei casi precedenti, è una costante dell’esordio e servirà a far emergere pregi e difetti dei protagonisti. A differenza dei film del Rinascimento Disney, tuttavia, non si tratta generalmente di caratteristiche che possono salvare o distruggere il mondo o un intero agglomerato sociale. In ballo vi è la crescita individuale o, tutt’al più, di un ristretto gruppo sociale. Il concetto di mancanza viene dunque rielaborato e introdotto in contesti radicalmente differenti e con un peso completamente differente. Anche in Monsters & Co. l’incipit coincide con lo svelamento di una finzione. Una mamma dà la buonanotte al figlio che resta solo nella sua camera da letto, sopra la sua testa i giocattoli, tanto amati dalla Pixar, sanno di autocitazionismo. Cala l’oscurità, il vento ulula fuori dalla finestra, improvvisamente appare un mostro che terrorizza il bambino… e si spaventa di rimando, casca a terra e compie una serie di gaffe. Si tratta esclusivamente di una esercitazione per allenare i mostri a spaventare i bambini. Ritorna anche la realtà ripresa dallo schermo, figura ricorrente della narrazione Pixar apertamente allusiva allo stesso desiderio di riprendere e trasformare la realtà da parte della casa di produzione di Emeryville. I vari livelli del racconto si intrecciano costantemente e così, poco dopo, assistiamo anche a uno spot della Monsters & Co. in cui recitano i protagonisti del film. 86

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Il cinema Pixar non nasconde la sua natura ma ci scherza, la cita e la rielabora fin dal principio, esasperando e parodiando la ritualità, ormai distante (seppure prossima cronologicamente) dal Rinascimento Disney. Sulley è un mostro con la testa sulle spalle, il miglior lavoratore della Monsters & Co., la maggiore società produttrice di energia di Mostropoli. Egli è tanto attento alla sua professione da trascurare gli altri aspetti della sua vita. La chiave di accensione della storia è l’ingresso di Boo nel mondo dei mostri, evento che permette di capire cosa si cela dietro l’industria per cui Sulley e Mike lavorano e che consente al protagonista di confrontarsi con aspetti diversi da quello lavorativo. Ciò nonostante, non è la mancanza di Sulley a mettere in moto la storia. Così come accade frequentemente nella Pixar, è la storia a riattivare nel protagonista la consapevolezza della sua mancanza. Non dissimile è il caso del piccolo Nemo e di suo padre Marlin in Alla ricerca di Nemo. Marlin era un pesce pagliaccio innamorato che aveva appena trovato una sistemazione per la sua famiglia quando, purtroppo, l’attacco di un barracuda gli ha fatto perdere la compagna e tutte le uova tranne una. Diversi anni dopo, Marlin è ancora terrorizzato dall’oceano e riversa le sue paure sul figlio Nemo. Quest’ultimo, tuttavia, non capendo la causa dei suoi eccessivi timori, si allontana verso il mare aperto per indispettire il padre e viene catturato da un sub. Un piccolo gesto, quello di Nemo, e un forte intervento del destino muovono gli ingranaggi della storia. L’incipit de Gli Incredibili è puro metacinema. Il prologo viene narrato attraverso un filmato con delle interviste con protagonisti Bob (Mr. Incredible) e Helen (Elastigirl) che parodiano persino l’ormai vecchio formato 4/3 e le righe causate dall’usura della pellicola. Mr. Incredible viene mostrato addirittura nell’atto di aggiustarsi il microfono credendo di non essere ancora in onda. Il motore del plot, invece, è la stanchezza della normalità, la monotonia causata dalla quotidianità amplificata dal fatto che, a doverla sopportare, sono dei personaggi con delle capacità straordinarie. Ciò che spinge Bob a vestire ancora i panni di Mr. Incredible non è dunque il desiderio di salvare il mondo o l’amore per una principessa bensì il desiderio di riconquistare la propria identità. Dopo anni in cui i supereroi vigilavano sulla nazione, infatti, la gente ha deciso che ne ha abbastanza delle loro prodezze e costringe chi ha poteri straordinari ad essere normale nascondendo per sempre la pro87

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pria identità segreta. La routine quotidiana crea delle frustrazioni nei protagonisti e spinge Mr. Incredible a cadere nel tranello creato dal suo antagonista. Emerge con chiarezza come, nel mondo Pixar, anche i pretesti narrativi siano intrisi di realisticità. Il caso, la noia, i piccoli difetti dei protagonisti sono, indiscutibilmente, punti di partenza molto più vicini alla realtà rispetto alla ricerca di una lampada magica o alla ricerca di umanità da parte di una sirena. Gli eroi come Bob o Sulley incanalano il desiderio della Pixar di trattare di impiegati, uffici e industrie, seppure allegorizzando i contenuti. In Cars, Saetta McQueen, talentuosa auto da corsa candidata alla vittoria nella Piston Cup, costringe il suo camion-trasportatore Mack a guidare per tutta la notte per arrivare in anticipo sulla pista dell’ultima gara della stagione. A causa di alcune auto truccate, Mac si addormenta e Saetta cade dal rimorchio. In autostrada l’auto da corsa cerca di ritrovare la giusta strada ma finisce a Radiator Springs dove, in un momento di panico, distrugge la strada principale del paesino. Saetta verrà perciò costretto ad asfaltare la strada e a passare diversi giorni accanto alla Route 66. L’arroganza e la superficialità di Saetta incidono sull’avvio delle sue disavventure ma è il fato a tessere la tela in cui il protagonista finirà invischiato. Come sempre, all’interno del cinema Pixar sono le sottigliezze a fare la differenza. Come accade per Gli Incredibili, in Ratatouille è un vecchio reportage a fare da prologo alla storia. Invece del classico tomo che si apre dando vita alla storia, troviamo un vecchio televisore. Alla fine del prologo siamo ricondotti nel periodo contemporaneo. Tale caratteristica è una costante del cinema Pixar che, a differenza dei film del Rinascimento Disney, abbandona l’ambientazione nel passato per spostarsi nel presente o nel futuro. Si passa dunque dal racconto favolistico racchiuso nella formula «c’era una volta» alla narrazione pregna di elementi quotidiani e autoironia del «c’è oggi» o del «ci sarà domani». Nessuna cat88

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tedrale gotica e uomini di potere bensì fogne e ratti in cerca di cibo. Gradualmente la realtà si dissolve dinanzi allo sguardo dello spettatore e viene sostituita da un mondo costruito su leggi estremamente somiglianti alla realtà ma in cui la magia del fato tende ad avere sempre un senso ben preciso che guida i personaggi. Viene operata, in questo modo, una sostituzione della realtà, uccisa e sostituita dal digitale in nome della creazione di un universo in cui anche il destino diviene artificiale e, per questo, controllabile12. Remy è un ratto che vive nella periferia di Parigi insieme alla colonia guidata da suo padre. Il giovane topo ha un incredibile senso del gusto e dell’olfatto e, a causa di ciò, si spinge sempre di più all’interno della cucina di un’anziana signora per provare gli ingredienti. Viene incoraggiato su questa strada anche dal motto del celebre chef Auguste Gusteau che sostiene che «chiunque può cucinare». Un giorno l’anziana signora scopre che la colonia di ratti di Remy abita la sua soffitta generando una fuga di massa verso le fogne parigine. Il protagonista finisce per perdersi ma, aiutato dal fantasma di Gusteau, riesce ad arrivare al ristorante dell’illustre chef e a conoscere il giovane sguattero Linguini. In questo caso la passione si unisce al destino e genera il filo conduttore della storia. Se tutte le storie Pixar esaminate finora sono ambientate in un periodo contemporaneo rispetto alla fruizione, con Wall-e avviene un ulteriore distacco rispetto al paradigma disneyano ed è il futuro ad aprirsi dinanzi ai nostri occhi. Si tratta, pearaltro, di un futuro ben determinato che ci porterà a scoprire che nel 2105 la Terra è stata trasformata in una enorme discarica e che gli umani hanno dovuto abbandonare. Il prologo non viene raccontato in maniera diretta ma può essere evinto da frammenti di informazioni ancora una volta pienamente metacinematografiche. Ciò sembra essere la diretta evoluzione del modello dell’attivazione dello sguardo attuata fin dal principio dalla Pixar. Una forma che richiede un impegno maggiore da parte degli spettatori generando uno sguardo sempre più maturo e consapevole. Partendo dalla moltiplicazione dei punti di catalizzazione dello sguardo spettatoriale, la Pixar si incammina all’interno di dinamiche di comprensione sempre più complesse. La regia, le citazioni, la musica, gli effetti sonori, 12 Cfr. J. Baudrillard, Le crime parfait (1994); trad. it. Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina, 1996.

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ogni elemento va interpretato con cura poiché può sottendere innumerevoli sottotesti. In questo caso sono prima un vecchio quotidiano e in seguito degli ologrammi a raccontare la partenza degli umani che hanno deciso di lasciare le proprie case in attesa che i robot ultimino la pulizia del mondo. Uno di questi robot, l’ultimo rimasto sulla Terra, è proprio WALL-E (Waste Allocation Load Lifter Earth-Class13), incaricato di compattare i detriti e farne dei cubi, funzione che ha svolto per settecento anni. Un giorno la sonda Eve giunge sulla Terra in cerca di segni della rinascita della vita sul pianeta. Wall-e si innamora immediatamente di Eve e la corteggia finché ella scopre che il piccolo robot ha già trovato una piantina, segno che la Terra sembra essere finalmente guarita. Insieme all’elemento destinale, in questo caso è l’amore la forza che spinge il protagonista ad agire. Viene inoltre utilizzato un argomento di attualità quale l’inquinamento, un problema reale per ispirare una storia fantastica che diventa spunto di riflessione sociale. Muovendo sulla consapevolezza spettatoriale, sulla maturazione dello sguardo e sulla realisticità narrativa il cinema Pixar dimostra di muovere verso orizzonti nuovi e inesplorati piuttosto che verso la reiterazione di un modello standardizzato. Anche l’ultimo film che prendiamo in esame, Up, non si discosta da queste linee guida e si incammina all’interno di una fase della vita finora totalmente estranea agli eroi disneyani: la vecchiaia. Il prologo, ancora una volta, è un filmino d’epoca che però, in questo caso, viene visto al cinema dal protagonista, Carl Fredricksen, ancora bambino. Il sogno di Carl è quello di avventurarsi fino alle Cascate Paradiso, situate in Sud America, emulando il suo eroe, l’esploratore Charles Muntz. Mentre è ancora bambino, Carl incontra Ellie, la donna che diverrà la sua compagna e con cui trascorrerà tutta la sua esistenza fino al momento della sua dipartita. Ellie lascia Carl totalmente solo nella casa in cui i due hanno trascorso l’intera vita. Proprio la salvaguardia di quella dimora è divenuto l’unico motivo di vita dell’ormai vecchio signore e, in nome di essa, si scontrerà con degli imprenditori che mirano a portargliela via per costruire altri palazzi sul terreno che occupa. Preso dal nervosismo, un giorno Carl colpisce alla testa un uomo reo di aver travolto con un bulldozer la cassetta delle lettere, ricordo di un momento di affetto con la moglie. Per vie legali Carl viene costretto ad 13

L’espressione è traducibile in italiano come «sollevatore terrestre di carichi di rifiuti»

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abbandonare l’abitazione e a ritirarsi in una casa di riposo ma, quando ormai la sconfitta sembra essere sopraggiunta, una marea di palloncini spuntano dal tetto e dal camino e la casa si alza in volo. Destinazione: Cascate Paradiso. A dare il via alla storia, dunque, è un errore dettato da un momento di nervosismo che spinge il protagonista a una straordinaria avventura in nome dell’amore. Ancora una volta una piccola azione può generare enormi conseguenze e addirittura cambiare la vita dei protagonisti. Abbiamo potuto constatare, attraverso i film esaminati, come l’approccio narrativo, le tipologie di storie, le caratteristiche dell’incipit e le cause che mettono in moto la storia siano totalmente discordanti da quelle tipiche del Rinascimento Disney. Il paradigma fiabesco sembra essere ormai lontano, cavalieri e principesse si trasformano in auto da corsa e sonde robot. I libri incantati sono ormai sostituiti da vecchi televisori e da proiezioni cinematografiche. La realtà impregna l’anima della narrazione, le costruzioni morfologiche decadono, le storie non si muovono seguendo una regola ben definita ma assecondano lo stesso principio di casualità presente nella vita. La capacità dell’eroe sta proprio nel suo modo di adeguarsi al destino, di accettarlo e condurlo, quando possibile, sulla strada scelta, a prescindere da quanto lieto sarà l’happy ending o dal desiderio iniziale. Il cinema Pixar si professa, fin dall’incipit, ricostruzione della realtà e sua allegoria. La sua artificiosità è apertamente dichiarata ma ciò non fa che creare una realtà parallela in cui lo spettatore può facilmente avventurarsi poiché il mondo che vede è totalmente differente, eppure è uguale al suo. Mostri, supereroi e macchine da corsa come noi guardano la televisione, come noi sono trascinati dal caso a vivere storie fantastiche pregne di una magia ben lontana da quella delle fate e delle lampade magiche, la magia di un quotidiano rivestito dei colori della virtualità.

In un posto vicino vicino Il Rinascimento Disney porta via con sé gli sfarzosi castelli, le maestose cattedrali, le giungle incontaminate e la suggestione della savana africana. Le nuove tecnologie digitali, l’uso di programmi sofisticatissimi e le tecni91

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che di renderizzazione inventate appositamente per il cinema Pixar, non fanno altro che alimentare una rinnovata fame di realisticità. Ciò nonostante, la tendenza a ricreare il mondo così com’è abbraccia la propensione al fantastico e al meraviglioso. Viene riscoperto il desiderio, caratteristico dell’animazione fin dalla sua nascita, di generare stupore e incanto. Tecnica ed arte si adeguano alla creazione di mondi situati nel periodo contemporaneo e in luoghi e città ricreate esattamente così come sono ma, al contempo, l’elemento magico impregna le trame narrative e figurative, il quotidiano assurge a tempio di un nuovo immaginario armonicamente sospeso tra terra e stelle, il reale si fonde con l’iperreale. Il cinema del Rinascimento Disney costruisce un percorso che porta gli eroi ad attraversare spazi fortemente caratterizzati, sia nel bene che nel male, tanto contraddistinti da sottendere un viaggio simile a quello dantesco ma che inizia dal Purgatorio, passa per l’Inferno e termina nel Paradiso. All’interno del cinema Pixar, al contrario, gli estremi scompaiono. Gli abissi infernali si dissolvono alla luce della realtà che permette di dimostrare che mostri e presenze oscure non sono altro che ombre. Inferno e Paradiso si tingono di normalità, abbandonano gli eccessi e toccano il quotidiano. Conseguentemente, un ambiente apparentemente positivo, come ad esempio la casa della famiglia di supereroi de Gli Incredibili, può celare aspetti di un malessere perfettamente ascrivibile nei canoni della normalità e, allo stesso modo, l’antro in cui abita lo yeti di Monsters & Co. può divenire nient’altro che la dimora di una creatura gioviale e pacifica. Le apparenze ingannano, i veri mostri si celano nello spazio che ci circonda quotidianamente e/o all’interno dei personaggi. La pace e la serenità della risoluzione assumono un formato improvvisamente domestico. A ciò si aggiunge la differenziazione dei parametri per giudicare uno spazio positivo, negativo o neutro. In gioco, nel cinema Pixar, non vi è la morte reale dei protagonisti bensì la perdita della loro identità attraverso una sostituzione, una omologazione o un annullamento. Tale concetto tende ad essere presentato attraverso precise scelte scenografiche, eliminando la leggendarietà delle ambientazioni, smorzando (ma non eliminando) determinate componenti legate alle scelte cromatiche o alla luminosità degli ambienti e creando spazi in cui l’identità tende ad essere, a seconda delle circostanze, sovraccaricata, destabilizzata e riequilibrata. 92

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Toy Story ha inizio all’interno della cameretta di Andy, un ragazzino circondato da giocattoli che, in sua assenza, prendono vita. L’aspetto metacinematografico, come abbiamo visto in precedenza, risalta da diversi elementi. Il passaggio dal cielo de La Sirenetta, in cui i gabbiani volavano liberi, a quello dipinto su una parete del primo lungometraggio Pixar, crea immediatamente un effetto di allontanamento dal mito e ci permette di incamminarci, riflettendo sul mezzo digitale, all’interno della vita di una persona qualsiasi, senza particolari capacità o poteri. Lo spazio che fa da cornice alla storia è una tranquilla casa americana corredata da una componente magica invisibile ai personaggi umani della vicenda. Elemento contrastante rispetto alla tendenza del cinema d’animazione Disney di questo periodo è la scelta di inserire l’elemento avventuroso solo all’interno delle parole di un ragazzino che gioca senza trascinarci in un posto «lontano lontano». Come è possibile riscontrare dalle prime inquadrature del film, all’interno della cameretta di Andy l’immagine di Woody regna sovrana. Le pareti e le lenzuola non fanno che mettere in scena l’immaginario western a cui il personaggio è legato sovraccaricando, in questo modo, la sua identità. Essa viene ripetuta e amplificata fino al punto da svuotarne il contenuto. Woody, come soggetto, tende ad essere sostituito dall’idea di Woody, dalla proiezione di ciò che rappresenta. Ad alimentare il disincanto vi è anche l’allontanamento dai paesaggi coniugati al passato, a farla da padrona è la prossimità spazio-temporale all’ambiente spettatoriale. Al contrario del Rinascimento Disney, l’America (o una sua resa allegorica) diviene uno dei terreni prediletti per le narrazioni e la leggenda si dissolve all’interno di una resa parodica. Tale condizione si evidenzia, ad esempio, nel frangente in cui Woody e Buzz giungono al Pizza Planet. L’ingresso di una pizzeria in stile prettamente americano fa il verso ai mistici antri in cui gli eroi generalmente tendono a superare il cosiddetto «varco della prima soglia»14. Segnale ironico e provocatorio di come la magia di spazi sconfinati e irreali, a cui Buzz è ancora ancorato, sia ormai tanto lontana da apparire risibile. Zurg non esiste, è solo un’illusione, eppure lo Space Ranger tarda ad 14

Cfr. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, cit.

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accorgersene e confonde il reale con il virtuale trasformando una pizzeria in una base spaziale e un giocattolo per bambini in un’astronave. Essenza e apparenza appaiono, fin dai primi lungometraggi Pixar, a diretto confronto. Tale aspetto ritorna anche all’interno di quella che veniva generalmente denominata da Vogler la «caverna più recondita». All’interno di Toy Story tale elemento appare sottoforma di citazione di Freaks (1932) di Tod Browning, rafforzando il suo valore di riflessione sul mezzo cinematografico. Ogni elemento viene ampiamente ridimensionato in quanto passiamo dall’antro della strega del mare o dalla rupe dei re in fiamme alla camera di un piccolo teppista che è solito distruggere i suoi giocattoli. Non esiste nella realtà un vero e proprio spazio del male ma esiste il male all’interno del quotidiano. Eppure l’ambiente non è esclusivamente malvagio, non ospita esclusivamente morte e distruzione. Al contrario le creature al suo interno sono buone e sensibili, pronte ad aiutare i nostri protagonisti nonostante la propria deformità. Seppure lo spazio sia tetro e cruento (ovviamente dal punto di vista di un giocattolo) e le creature che vi abitano inquietanti, ciò non basta a privarle della loro bontà. Inoltre, i due eroi potrebbero benissimo scappare ma non vi riescono solo a causa di Buzz che è momentaneamente depresso per aver scoperto di essere solo un giocattolo. Egli è, dunque, nel pieno di una crisi d’identità ed è proprio quest’ultima la causa del malessere. Mentre Woody combatte per rivedere alle pareti la sua immagine, Buzz si è appena reso conto dell’illusione di cui è stato prigioniero e rifiuta lo svuotamento della sua identità, preferendo sottoporsi alla morte. L’accettazione dell’illusione e il suo rifiuto vengono messi a confronto e trovano un proprio equilibrio nel finale, quando le due spinte giungono a un compromesso in cui possono pacificamente coesistere. Il luogo in cui si 94

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svolge la risoluzione è l’ambiente domestico, uguale a prima ma in cui i conflitti tra i due personaggi sono ormai risolti, condizione resa anche dalla compresenza delle lenzuola del letto che omaggiano Buzz Lightyear e dal poster in stile western alle pareti. Nessun paradiso attende i due personaggi che, alla fine del viaggio, tuttavia, possono concedersi di affrontare la quotidianità con una serenità ritrovata, raggiunta attraverso la reciproca accettazione del nuovo equilibrio tra reale e virtuale. Tale accordo viene rispecchiato, seppure velatamente, anche dallo spazio che li circonda. In A Bug’s Life, la storia ha inizio ai piedi di un albero dove centinaia di laboriose formiche, totalmente spersonalizzate, si industriano a raccogliere delle provviste da consegnare alle cavallette guidate dal malvagio Hopper. L’ambientazione della storia è costituita da uno spazio piccolo e privo di ogni forma di incanto. Anche in questo caso la citazione del cielo lascia intendere immediatamente un’illusione sottesa all’intero plot. Tale riflessione emergerà in particolare anche dalla nuova convenzione, iniziata proprio all’interno di questo lungometraggio, di inserire dei titoli di coda con gli errori dei protagonisti come fossero veri attori. Illusione e realtà si fondono e si miscelano in un continuo gioco, un botta e risposta talvolta serio, talvolta ironico e provocatorio. Tale caratteristica emerge anche dall’arrivo in città di Flik in cui scopriamo un piccolo mondo estremamente somigliante a quello degli umani dove regnano pubblicità, luci e cartelloni. La contemporaneità esorcizza il mito, la fiaba si dissolve sotto i neon dello spazio urbano. La realtà viene sostituita da mondi simili che potenziano esponenzialmente la sua magia intrinseca. Il luogo normalmente destinato al dominio del male, invece, non è altro che la dimora delle formiche di notte, semplicemente turbato dalla presenza delle cavallette. All’interno di Toy Story e di A Bug’s Life assumono un valore caratterizzante, così come accadeva per il Rinascimento Disney ma in maniera molto più pacata e talvolta parodicamente, l’oscurità e l’uso di una cromaticità più spenta. La stanza del piccolo teppista di Toy Story è tetra e scura, pervasa da figure ambigue e angosciose ma la malvagità intrinseca dello spazio non è altro che un’illusione. Allo stesso modo, il sopravvenire della notte genera ombre e inquietudine sulle formiche di A Bug’s Life mentre lo spazio viene occupato dalle malvagie cavallette in cerca di vendetta ma l’ambientazione 95

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è sempre la stessa, è solo l’arrivo dei cattivi di turno a turbarla. Con gli antagonisti, infatti, si affaccia di nuovo sui protagonisti lo spettro della morte della creatività (rappresentata dall’uccello, costruito da Flick con l’aiuto delle altre formiche, che brucia ai piedi dell’albero) e il pericolo del ritorno all’omologazione. Tale rischio può e deve essere scacciato solo attraverso il coraggio del rifiuto della spersonalizzazione causata dalla meccanicità dei comportamenti (sia quelli diegetici delle formiche che quelli extradiegetici portati dai nuovi mezzi tecnologici-virtuali). Ancora una volta la Pixar riflette su se stessa e sul mezzo virtuale che adopera, ben conscia dei rischi provenienti dall’iperreale che sceglie contemporaneamente di adottare ed esorcizzare. La suggestione di una realtà perfetta, equilibrata ma asettica, viene sempre respinta, sia attraverso l’estremizzazione della parodia che attraverso la sublimazione della creatività, propria di un processo di separazione dagli standard della massa. L’ambiente della risoluzione, infatti, anche in questo caso, non è caratterizzato dagli addobbi e dalle feste tipiche della trasformazione in principi e principesse dei protagonisti. L’unica metamorfosi fisica che si presenta, parodicamente, è la goffa transizione da bruco a farfalla di Heimlich, sintomo del ridimensionamento generale a cui la Pixar sottopone i canoni Disney. Il vero cambiamento è quello che avviene all’interno della comunità delle formiche che, finalmente, accetta di uscire fuori dagli schemi predefiniti riscattando la propria autonomia e la libertà delle proprie azioni. Ai protagonisti, per raggiungere la serenità, basta una scenografia serena, priva di turbamenti ma senza eccessi. La normalità, arricchita dalla magia delle piccole invenzioni di Flick, determina una maggiore consapevolezza, da parte delle formiche ma anche da parte dello spettatore, di quante segrete e incantate possibilità può nascondere ogni piccolo dettaglio della vita nel momento in cui essa è vissuta liberamente e creativamente. Toy Story 2 inizia con un ampio preludio ricco di riferimenti cinematografici. Ancora una volta è un cielo finto il primo elemento ad essere inquadrato, questa volta l’illusione è legata esplicitamente al virtuale attraverso un videogioco. In seguito troviamo citati film come 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick (quando Buzz Lightyear salta su dei tappi di bottiglia ogni salto corrisponde a una nota che forma il preludio dell’opera di Richard Strauss, Così parlò Zaratustra, colonna sonora del film) Star 96

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Wars (1977) di George Lucas (il respiro di Zurg è lo stesso di Dart Fener, il rumore delle spade laser è quello dei blasters e Zurg afferma di essere il padre segreto di Buzz). Il mondo virtuale fa da preludio a un altro mondo simulato, quello della finzione cinematografica. Anche nel prosieguo numerosissime saranno le citazioni di altri film, palese esplicitazione dell’illusorietà dell’animazione. Alla fine del prologo ci ritroviamo ancora una volta all’interno della cameretta di Andy in cui Woody e Buzz hanno trovato una piacevole armonia sia tra loro che nei giochi del ragazzino. Purtroppo, durante un gioco, il braccio di Woody si strappa e il giocattolo viene abbandonato su una mensola accanto al pinguino Wheezy. Ciò nonostante Woody, dopo un momento iniziale di sconforto, reagisce alla situazione ma, per una serie di vicissitudini totalmente casuali, viene rubato da un collezionista che lo conduce in uno spazio asettico dove custodisce tutti i cimeli che riguardano la saga dei giocattoli western cui appartiene. Le pareti e perfino una cassetta con le avventure del giocattolo Woody creano una moltiplicazione della sua identità, tanto ripetuta e frammentata da ridursi a una totale impersonalità. La cultura del gadget, propria dell’universo americano, si manifesta prima nella sua piacevolezza, in quanto apparente esaltazione della personalità di Woody e, in seguito, come disvelamento di un simulacro totalmente vuoto. Come afferma Paolo Bertetto, la proliferazione di cyborg, di doppi e di simulacri non tende propriamente a cancellare l’umano ma a rielaborarlo in forme e meccanismi nuovi, integrati alle tecnologie e al digitale. Ciò genera una crisi della realtà materiale e una sempre maggiore frammentazione del soggetto. Il mondo esterno tende ad essere sempre più frequentemente raccontato, nei modi dell’illusione e del potenziale, come un orizzonte allucinatorio che potrebbe essere sostituito da altri orizzonti non meno allucinatori, perturbanti e illusivi15. Nell’ambito di questa illusorietà e per mezzo dell’illusorietà del virtuale il cinema Pixar esplica i suoi contenuti. Una riflessione che trova conferma nel momento in cui Buzz, entrando all’interno di un negozio di giocattoli, trova centinaia di sue copie identiche in vendita sulle pareti. Lo spazio suggerisce ai protagonisti gli effetti della 15

Cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Milano, Bompiani, 2007.

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clonazione. Emerge un nuovo concetto di Inferno, improvvisamente pacato, con flebili caratterizzazioni cromatiche o legate alla luminosità dell’ambiente. Il regno dell’inquietudine è quello in cui si assiste alla dissoluzione dell’individualità. La paura che gli ambienti suggeriscono è quella della privazione dell’unicità, la sostituibilità dell’essere. La morte non si presenta, come avviene generalmente, come distruzione fisica, bensì come coscienza della perdita di individualità, la morte come idea, ciò che Edgar Morin chiama il «trauma della morte». L’orrore della morte è quindi l’emozione, il sentimento e la coscienza della perdita dell’individualità. […] In un certo senso, il trauma della morte si identifica con la distanza che separa la coscienza della morte dall’aspirazione all’immortalità, incarna completamente la contraddizione tra il fatto bruto della morte e l’affermazione della vita ultraterrena15.

In questa ambiguità sembra collocarsi il nuovo regno virtuale della Pixar, a cavallo tra il sogno di usare le nuove tecnologie per ricreare la vita in una forma perfetta e immortale e il rischio di una conseguente spersonalizzazione con una ineluttabile perdita d’identità. Una sintesi perfetta del concetto emerge nel frangente in cui, durante il restauro operato da un professionista, dalla suola dello stivale di Woody viene cancellata la firma di Andy, il suo unico segno distintivo. La perfezione virtuale cancella la personalità dell’individuo, sigillandolo in una vita di plastica. Stabilendo il lieto fine all’interno della camera del loro legittimo proprietario iniziale, Woody, Buzz e gli altri giocattoli ricostruiscono la loro personalità identificandosi in base a un legame sentimentale. Essi correranno il pericolo di essere ancora abbandonati o danneggiati ma è questo il percorso imposto da una vita degna di tale nome che comporta l’accettazione del pericolo in nome del sentimento che personalizza. Restare imbalsamati all’interno delle scatole come copie uniformi, così come virtualizzare la propria esistenza rendendola tanto immortale quanto sterile, conduce esclusivamente a un’esistenza da morti. Siamo di fronte a un’acuta riflessione sul senso dell’iperrealtà e sul rischio a cui essa può portare, cioè: 15 E. Morin, L’homme et la mort (1951); trad. it. L’uomo e la morte, Roma, Meltemi, 2002, pp. 42-43.

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Un mondo di segni che diventa sempre più quello in cui tutte le forme di lotta e contrasto storico si dissolvono in una sorta di iperrealtà che somiglia al mondo virtuale dei calcolatori, come se la storia fosse davvero finita16.

Tale condizione viene rispecchiata dal contrasto tra la freddezza del negozio e della stanza-museo del collezionista rispetto al calore della casa di Andy. Anche Monsters & Co. si confronta con una tematica estremamente connessa al senso dell’individuo e, non a caso, sceglie come principale luogo di ambientazione l’interno di una fabbrica, luogo dell’uniformità e della meccanizzazione dei comportamenti. Tutti gli operai dell’industria, compresi i personaggi principali Sulley e Mike, spaventano i bambini per ricavare energia ma non conoscono gli effetti dei loro comportamenti. Le loro sono, dunque, azioni svuotate da ogni significato. L’identità che propagandano, ad esempio attraverso il video spot che promuove la Monsters & Co. in cui sono presenti, sponsorizza un’illusione attraverso i media. Sulley e Mike vengono traghettati in un luogo virtuale in cui possono accedere in qualità di migliori operai dell’industria, ovvero come i paladini dell’ottica produttiva e commerciale che essa richiede. Non vi è un elogio della individualità se non all’interno di una finzione. Mike è entusiasta di vedersi comparire in televisione ma non si rende conto che la sua personalità è completamente oscurata dal simbolo della fabbrica, non solo all’interno della pubblicità. Per ritrovare la propria identità i protagonisti dovranno incontrare Boo, una bambina che è riuscita a entrare nel mondo dei mostri generando in loro un enorme terrore. Ancora una volta ha una fondamentale importanza lo spazio domestico, il luogo al di fuori della società in cui i personaggi riscoprono la propria unicità attraverso i sentimenti. Così Sulley si affezionerà a Boo osservando come la bambina è in grado di ridare una nuova vita alla sua immagine, restituendo un valore alla sua affettività attraverso un disegno, rozzo e infantile rispetto allo spot televisivo ma intriso della vera identità del mostro. Attraverso la bozza realizzata dalla bimba, Sulley viene trascinato fuori dallo spazio fittizio della televisio16

G. Vattimo, Jean Baudrillard, l’estetica del simulacro, «La Stampa», 7 marzo 2007.

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ne ed ottiene una nuova personalizzazione che gli restituisce un’identità definita proprio attraverso la sua caratteristica imperfezione. Allo stesso modo anche la fabbrica, per poter ottenere una nuova vita, dovrà trovare una nuova caratterizzazione abilmente riassunta nello slogan «Think funny», efficace parodia del «Think different» della Apple. In Alla ricerca di Nemo siamo di nuovo trascinati, come accaduto nel 1989, nelle profondità marine ma, in questo caso, invece di osservare le profondità oceaniche attraverso gli occhi di una leggendaria sirena, il nostro punto di vista viene legato a un normalissimo pesce pagliaccio chiamato Marlin, alla disperata ricerca di suo figlio Nemo. Il primo ambiente in cui veniamo immersi è la dimora dei due pesci pagliaccio, armoniosa e tranquilla fino al temutissimo (da Marlin) primo giorno di scuola. L’ambiente domestico nasconde il trauma della perdita della compagna del protagonista e, dunque, la pace e la serenità sono solo illusori in quanto Marlin è ancora paralizzato dal terrore dell’oceano. La casa si è trasformata in una gabbia invisibile. Sebbene il pesciolino sia costretto a cimentarsi con squali e pesci degli abissi in antri oscuri e remoti dell’oceano, il vero inferno sembra essere quello dell’acquario, non a caso un mondo apparentemente perfetto nella sua limitatezza. Mentre gli squali, dietro le apparenze, sembrano in realtà essere simpatici ed affabili vegetariani e i momenti comici spezzano continuamente l’incontro con il pesce lanterna, Branchia, simile a un reduce di guerra, testimonia tutta la frustrazione e l’avvilimento della riduzione a pesce da esposizione in un ambiente finto. Il finale ha luogo nella tranquilla dimora di Marlin in cui l’ordine è ormai ristabilito, le grandi avventure sono ormai superate, l’angoscia dell’acquario è lontana e la paura di vivere è alle spalle. La casa, in quanto luogo dell’affettività, riporta la consapevolezza della necessità di un’esistenza riconsegnata alla serenità proprio nella sua apertura all’elemento destinale. Nel momento in cui la casa diviene elemento costrittivo per le personalità dei protagonisti, come accade anche ne Gli Incredibili, essa si trasforma in una prigione per l’identità. La società ha costretto Mr. Incredible e famiglia a nascondere le proprie straordinarie capacità imprigionandoli in una noiosa routine. Ne deriva un 100

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senso di frustrazione derivante dall’uscita dal mondo dello straordinario (palesato anche dalla mediazione del mezzo televisivo e dei media) in favore di quello noioso del quotidiano che li ha spersonalizzati. L’occasione per riconquistare la propria identità sarà la costrizione a palesare se stessi, paradossalmente attraverso la maschera. L’isola in cui si trova l’antagonista è solo una tappa di uno scontro che si sposta anche all’interno della città e culmina con l’accettazione, da parte degli abitanti, della famiglia di supereroi. L’identità dei protagonisti viene reintegrata abolendo la finzione e restituendo ad ognuno la libertà di manifestare la propria essenza. Nessuna particolare esaltazione degli eroi, si tratta di un semplice reintegro all’interno della comunità simbolizzata dallo spazio cittadino. In un mondo in cui è impossibile essere se stessi, la maschera si rivela uno strumento di fondamentale importanza per l’esternazione della propria individualità. Cars ripercorre lo stesso principio che vede coincidere un’esaltazione dell’immagine con uno svuotamento di personalità. Il personaggio reale viene sostituito dalle apparenze, lasciando in vita esclusivamente un simulacro. All’interno del mondo delle corse, Saetta McQueen è il talento rivelazione della Piston Cup, corsa automobilistica ambientata negli Stati Uniti. Saetta proietta continuamente se stesso all’interno di una visione, la realizzazione del sogno di diventare il principale esponente della Dinoco, la più prestigiosa casa produttrice del settore. Potremmo dire che il vero luogo in cui inizialmente vive Saetta è proprio questa illusione secondo la quale egli può e deve essere semplicemente la macchina più veloce e potente. Anche in questo caso, tale suggestione è continuamente collegata al mondo dei media che, nell’idea di Saetta, sembrano l’unico strumento in grado di palesare il suo trionfo. 101

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Come rivelerà anche Doc Hudson, che definisce il protagonista il «pivellino del momento», Saetta vive attraverso la proiezione che i media danno della sua immagine. Per ricondurre l’eroe sulla giusta strada ci sarà bisogno di un totale cambio di ambientazione, offerto dalla piccola Radiator Springs. All’interno della desolata cittadina, grazie alla riscoperta dell’amicizia e dell’amore, Saetta impara ad uscire fuori dallo stereotipo in cui lui stesso si era immesso e a trovare la serenità. Nel finale, infatti, durante il quale siamo proiettati ancora una volta all’interno delle piste, non sarà la vittoria della Piston Cup ad essere celebrata quanto la rinnovata umanità del protagonista. Nel giro di una settimana, in cui Saetta era scomparso dal mondo delle corse, egli è stato già totalmente sostituito dai suoi antagonisti. Le sue due più grandi fan, ad esempio, in pochi giorni hanno cambiato colori e fattezze in onore proprio del suo acerrimo nemico Chick Hicks. Si realizza la tragedia teorizzata da Jean Baudrillard riguardante la clonazione dell’essere umano in una forma immortale uniformata. Nella clonazione – questa fantasia collettiva di un ritorno verso un’esistenza non differenziata e un destino di vita non individuale, la tentazione del ritorno ad un`immortalità indifferenziata – noi vediamo l’unica forma di redenzione del vivente verso il non esistente. Questo rimorso si fa strada dalle profondità del passato; ci struggiamo per uno stadio del tempo passato, che potrebbe essere di nuovo possibile grazie alle nuove tecnologie, divenuto alla fine un oggetto affascinante, nostalgico e desiderabile. Questa potrebbe essere la storia di un progetto deliberato atto a mettere fine alla varietà genetica della differenza, all’affermazione della poliedricità17.

Saetta rappresenta lo stereotipo di una forma senza contenuto, apparentemente vincente ma, nel profondo, totalmente vuota e per questo sostituibile, e replicabile all’infinito. Quando Saetta riesce ad uscire dall’illusione virtuale e a tornare alla realtà rappresentata da Radiator Springs, improvvisamente la vittoria non conta più nulla, ciò che ha importanza è la sua rinnovata personalizzazione che infrange la ciclicità degli eventi. 17 J. Baudrillard, The vital illusion, a cura di Julia Witwer (2000); trad. it. L’illusione dell’immortalità, Roma, Armando, 2007, p. 29.

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Il tema dell’uniformità ritorna con forza anche in Ratatouille in cui Rémy, il protagonista, non desidera altro che uscire dalle norme imposte dalla sua specie e dimostrare le sue reali qualità di chef, banalmente travisate dal padre che gli dà solo l’incarico di annusare il cibo per capire se è avvelenato o meno. Lo stesso topolino, però, quando vede il giovane Linguini all’interno della cucina del ristorante di Gusteau non esita a considerarlo un qualsiasi sguattero. Continue tensioni interne alla storia mettono in risalto il contrasto tra apparenza e realtà, tra illusione e verità. Linguini, un impacciato lavapiatti, si rivelerà essere il figlio del grande Gusteau e Rémy, quello che generalmente viene considerato un malvagio e lercio ratto, diverrà uno dei migliori chef del mondo. I media, ancora una volta, disorientano e veicolano la realtà in maniera distorta Ciò appare sia attraverso le interviste televisive che attraverso le recensioni di Anton Ego che, a causa di una sua radicale incomprensione del messaggio «anyone can cook», distrugge l’ascesa di Gusteau. Skinner, d’altro canto, nuovo chef del ristorante, si rivela essere l’antagonista proprio per la sua tendenza a svilire l’unicità della cucina d’autore trasformandola in piatti preconfezionati che umiliano e distruggono (anche attraverso l’uso di sagome etnicizzate) l’immagine di Gusteau. Il fatto che il finale non avvenga nel momento della straordinaria e rinnovata ascesa del ristorante testimonia l’interesse del film nel non inseguire una semplice vittoria. Il luogo della risoluzione è un nuovo piccolo ristorante, chiamato Ratatouille, in cui ogni componente della storia ha ritrovato la sua identità. Linguini torna ad essere un semplice cameriere, Rémy può fare finalmente lo chef, i ratti trovano una dimora, Anton Ego sveste i panni del perfido critico e riabbraccia la passione d’infanzia per il cibo. In Wall-e la razza umana, come testimoniato dai messaggi resi sotto forma di ologrammi, è molto vicina all’estinzione. La Terra è un luogo tetro e abbandonato in cui, al posto dei grattacieli, si ergono maestose torri di rifiuti. Sebbene gli uomini siano ancora vivi, in viaggio su una navicella spaziale, ogni traccia di umanità sembra ormai definitivamente scomparsa. Wall-e, pur essendo un robot, dopo aver osservato e compreso tracce della sentimentalità antropica dai resti che ha trovato, tra cui la cassetta del film Hello Dolly 103

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(Gene Kelly, 1969), rappresenta l’unica possibilità di salvezza per un mondo che rischia di scomparire definitivamente. Non si tratta della piantina che custodisce, e che pure metaforizza il concetto, bensì della sua affettività avulsa dalle macchine, il suo desiderio di amare e sacrificarsi in nome di ciò che prova per Eve proprio nel periodo in cui gli uomini hanno abbandonato da secoli qualsiasi sentimento per rifugiarsi in vite lunghe e omologate sotto l’egemonia dei computer. La nave, in cui tutto è ordinato e pianificato fino all’ultimo dettaglio, va vista in contrapposizione con lo spazio aperto, luogo in cui la libertà e l’amore hanno modo di esprimersi all’ennesima potenza senza alcun limite o omologazione. Se sull’astronave Axiom tutto è rigoroso e meccanico e ogni attività, persino il passaggio dal giorno alla notte, è scandita dalla monotonia di un incessante ripetersi, al di fuori nessun paraocchi limita i protagonisti che sono liberi di toccare le stelle, di piroettare giocando con la forza di gravità e di inseguirsi romanticamente. In Wall-e sono le macchine ad insegnare agli umani l’umanità, e ciò è possibile proprio attraverso l’uso dei tre luoghi principali che sono: la Terra, apparentemente distrutta ma che ancora offre un’opportunità di salvezza; l’astronave Axiom, luogo di una salvezza solo virtuale e in realtà prigione omologante per ogni principio di umanità; lo spazio, totalmente libero e privo di confini in cui è possibile sfuggire a qualsiasi costrizione. Up è ambientato al confine tra reale e fantastico, condizione che si esplica nel continuo richiamarsi tra atmosfera domestica e viaggio avventuroso, tra la tranquilla dimora in città e le leggendarie cascate Paradiso. L’abitazione, in cui trascorrono la loro vita insieme Carl e Ellie, è il luogo in cui si svolge una storia d’amore che si struttura come un idillio condizionato dalle tante disavventure proprie della quotidianità. Quando Ellie muore, però, Carl si rifugia in quello che non è più un amore ma un vero e proprio «sistema di segni». La poltrona, le foto, la cassetta delle lettere vengono privati della loro condizione di semplici oggetti per trasformarsi in simulacri della persona amata. È proprio il danneggiamento della cassetta delle lettere da parte di un operaio a mettere in moto la storia, sospinta anche dal desiderio di Carl di completare il libro delle avventure che Ellie, fin da piccola, aveva riempito 104

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con i suoi sogni e che sarebbe dovuto culminare con il viaggio alle Cascate Paradiso. Spinto dal desiderio di portare a compimento i desideri della moglie, Carl innalza la sua casa fino al cielo e viaggia fino alle leggendarie Cascate. Una volta arrivato, però, l’uomo capirà che ciò che sta inseguendo non è altro che un’illusione. Ellie aveva già compreso che la sua più grande avventura era stata proprio trovare l’amore e viverlo all’interno della quotidianità e, come Carl scoprirà poco prima della fine, al posto delle foto delle cascate ella aveva inserito quelle della loro vita insieme. Il leggendario esploratore Charles Muntz, invece, si rivelerà essere un uomo malvagio e senza scrupoli, pronto ad uccidere chi tenta di intralciare la sua missione e a strappare un rarissimo uccello dai suoi piccoli. Vi è dunque un cortocircuito del sogno (esplicitato per l’ennesima volta anche dai media) che si rivela essere pregno di avidità e perfidia. È la vita trascorsa con Ellie ad essere straripante della magia del quotidiano e sarà il ritrovare la propria vita rinchiusa nell’album a permettere lo svelamento dell’illusione che l’uomo aveva autoalimentato. Così Carl si rende conto di aver inseguito la strada errata e torna sui suoi passi, ripercorre l’amore che ha provato per sua moglie e lo indirizza verso il piccolo Russel e il cane Dug. La commistione di quotidianità e fantasia colma la solitudine dei tre personaggi che non si lanciano verso nuove avventure ma placidamente si soffermano a mangiare un gelato e a giocare a chi vede più macchine dello stesso colore. Ciò nonostante, il leggendario dirigibile Spirit of adventures resta a un passo al di sopra delle loro teste. Il virtuale collassa ucciso dal reale, il pericolo avvertito da Baudrillard all’interno de Il delitto perfetto, viene invertito e diviene chiave risolutiva dei conflitti diegetici. L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi: sia che questo accada con il linguaggio, il quale ha una funzione di esorcismo; sia che ciò capiti con tutti gli artefatti tecnici, che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo, in un processo irreversibile di trasfert e di sostituzione18. 18

Jean Baudrillard, Il delitto perfetto…, cit., p. 41.

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Il pericolo riguardante la sostituzione del mondo, insito nell’iperrealtà, viene messo al bando all’interno del cinema Pixar che riconosce ed evidenzia il problema della virtualizzazione del mondo ma, al contempo, denuncia l’illusione come tale, la smaschera e crea una forma di compartecipazione di reale e immaginario, mediato proprio dai nuovi mezzi e dalle nuove tecnologie digitali. Un’opera di sublimazione del conflitto tra mondo reale e mondo virtuale che emerge all’interno di tutti i film esaminati e che diventa il vero leit motiv della filmografia Pixar.

L’interiorizzazione del male Invidia: tale sentimento, totalmente estraneo a tutti gli eroi del Rinascimento Disney, sconvolge l’equilibrio di Woody in Toy Story e segna un cambiamento epocale all’interno del cinema d’animazione Disney (e non solo). Quando Woody decide di urtare Buzz, con l’intento di farlo cadere sotto il letto e nasconderlo alla visuale di Andy, egli dà, allo stesso tempo, una spinta alla natura intrinseca propria dei protagonisti disneyani radicata nella struttura archetipica fiabesca. Crolla la purezza dell’eroe e, contemporaneamente, la monodimensionalità dei personaggi. Essi, improvvisamente, si appropriano dell’Ombra junghiana e la rendono una parte inequivocabile del loro essere, determinante per lo svolgimento del plot. Viene meno la materializzazione del male che non si presenta più in tutta la sua irruenza e impetuosità ma, al contrario, viene fuori gradualmente e subdolamente, come manifestazione di una pulsione presente seppure spesso celata dietro la superficie dei personaggi. L’antagonista si caratterizza, improvvisamente, anche per aspetti positivi. Scompaiono, anche in questo caso, gli estremi. Siamo lontani dagli infanticidi di Scar e di Frollo o dalla furia di Ursula e Clayton. Gli orchi vengono giustiziati dal peso della realtà che schiaccia il male all’interno degli eroi trasformandoli da principi a uomini comuni con qualità positive. La regina cattiva si cela soventemente all’interno degli stessi protagonisti o è direttamente collegata al loro lato oscuro. Tale nuova caratterizzazione incide variando la natura di tutti i personaggi compresi all’interno del film, non più immediatamente classificabili e 106

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identificabili in base a un paradigma preciso ma frastagliati e complessi e, a causa di ciò, rivestiti da una nuova componente di umanità. I personaggi, identificati e classificati rigidamente da Vladimir Propp, si fondono continuamente all’interno del plot, arrivando persino alla sintesi degli estremi: l’unione di eroe e antagonista all’interno dello stesso personaggio. Chi si oppone all’eroe, dunque, non ha come scopo quello di «turbare la pace della famiglia felice, provocare qualche sciagura, danno o menomazione». L’antagonista, all’interno del cinema Pixar, va inteso, in senso più generico, come colui che si oppone all’eroe e si interpone tra tale personaggio e il raggiungimento del suo obiettivo finale. Ritorna l’Ombra junghiana ma il suo legame con la società cresce esponenzialmente, il desiderio di contemporaneo porta a un confronto più serrato con il mondo spettatoriale. Ancora una volta, l’animazione diventa uno dei terreni più adatti ad esperire il trauma e il rimosso personale e collettivo che l’uomo, fin dalla sua nascita, necessita di affrontare. L’Ombra è dunque la notte della coscienza, ma è anche terreno fertile in cui la coscienza può trovare nutrimento; essa non cela solo il male, “comprende fra l’altro delle qualità inferiori, infantili e primitive, che in un certo senso renderebbero l’esistenza umana più vivace e bella; ma urtano contro regole consacrate della tradizione”, ossia contro le regole della società, contro la consapevolezza dell’Io. In quanto tale l’Ombra, sia personale che collettiva, va conosciuta ed affrontata anche nei suoi tratti più penosi e conturbanti19.

Di pari passo con la frammentazione dell’identità giunge anche la frammentazione nelle tipologie di antagonisti. Nei film presi in esame in questo capitolo, infatti, possiamo distinguere quattro tipologie di “cattivi”: • • • •

Antagonista eroe Falso antagonista Antagonista vendicatore Antagonista automa 19

C.G. Jung, Psicologia dell’inconscio, cit., p. 11.

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L’antagonista eroe è l’eroe che si pone esso stesso come ostacolo per il raggiungimento del suo scopo e per la conquista dell’equilibrio finale. Questo atteggiamento deriva, generalmente, dalla paura del confronto con altri componenti del gruppo sociale o con la vita stessa. Ritorna costantemente il timore di rischiare, di avventurarsi in nuove esperienze, di confrontarsi con il mondo e con ciò che esso contiene scegliendo, fino all’intervento risolutorio del fato, di alienarsi in una illusione che alimenta una vita completamente virtuale. Woody, ad esempio, potrebbe accettare fin da principio l’arrivo di Buzz ma si lascia trasportare dalla gelosia per le attenzioni che lo Space Ranger riesce a riscuotere con Andy e con i suoi amici giocattoli, creando così le basi per le conseguenti disavventure. Woody è radicato alla sua immagine che lo circonda e impregna le pareti di poster, le lenzuola, i giochi e le fantasie del suo proprietario e lotta in tutti i modi per salvaguardare tale illusione. Non è diverso il caso di Toy Story 2. Anche se apparentemente l’antagonista sembra essere Al McWhiggin (il collezionista di giocattoli senza scrupoli), è ancora Woody a rifiutare il ritorno a casa per paura di invecchiare ed essere gettato via. Ad affascinarlo vi è un nuovo universo in cui torna ad essere protagonista assoluto, l’attrazione del benessere virtuale sposta l’ago della bilancia e conduce il protagonista alla confusione. Abbiamo una situazione molto simile anche in Alla ricerca di Nemo. Anche se a rapire il piccolo Nemo è il famigerato P. Sherman, la situazione si sviluppa a partire dalle paure ossessive di Marlin che finiscono per innervosire il figlio. La gabbia apparentemente dorata costruita dal genitore non può e non deve privare il piccolo pesce pagliaccio dal confronto con la vita reale. Il vero nemico è, dunque, l’angoscia esistenziale che tormenta Marlin che, grazie al percorso tracciato dal plot, riuscirà a riconquistare il suo desiderio di aprirsi e vivere pienamente ogni istante, pur conscio delle difficoltà. In Cars, allo stesso modo, Chick Hicks non appare mai essere un reale ostacolo per Saetta McQueen, notevolmente più veloce e talentuoso. Ciò che impedisce al protagonista di raggiungere il traguardo (che non coincide con quello della Piston Cup ma riguarda il suo equilibrio sociale e sentimentale) è la sua stessa presunzione. Tale atteggiamento lo confina all’interno di un mondo completamente illusorio (rappresentato dal suo sogno di essere il 108

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pilota della Dinoco) che coincide, non casualmente, con un’esasperazione dell’attenzione mediatica. Anche in questo caso vi è un distacco notevole tra il mondo reale e quello in cui inizialmente si trova il protagonista, totalmente inghiottito all’interno di un’astrazione. Il falso antagonista, invece, è colui il quale sembra essere malvagio e ostacolare il percorso dei personaggi principali ma, alla fine della storia, si converte dalla loro stessa parte. È il caso di Anton Ego in Ratatouille. Egli, pur avendo inizialmente demolito la carriera di Gusteau, capisce, nel corso del film, i suoi errori ed esce dal mondo della finzione mediatica (in cui è fin dall’inizio immerso attraverso interviste televisive, conferenze stampa e recensioni) per tornare alla purezza semplice dell’infanzia e del ratatouille. L’antagonista, in questo caso, è solo un eroe che è rimasto intrappolato in un’illusione e necessita di essere risvegliato, condizione estremamente differente dalla tipica condizione del cattivo del Rinascimento disneyano che è sempre e comunque condannato alla morte o all’illusione e viene privato di qualsiasi possibilità di redenzione. Quando, invece, il personaggio non riesce a destarsi dal mondo fittizio in cui è confinato, ci troviamo dinanzi all’antagonista vendicatore. Tale personaggio è rimasto intrappolato in un mondo che si discosta palesemente dal reale proprio a causa dei personaggi principali. Per tale motivo l’antagonista ostacola e impedisce all’eroe di raggiungere il suo obiettivo perseguendo una vera e propria vendetta. Troviamo tale situazione ne Gli Incredibili in cui Sindrome non è altro che il bambino che tentava di diventare un supereroe fin da piccolo e che Mr. Incredible, essendo stato peraltro intralciato nel giorno del suo matrimonio, ha scacciato. Tale rifiuto ha condizionato l’esistenza del ragazzo che ha alimentato il suo desiderio di vendetta costruendosi un mondo tutto suo di cui essere il padrone assoluto. 109

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In Wall-e, similmente, il villain della situazione è Auto, un sistema automatizzato creato dagli uomini per gestire la nave Axiom. Esso, però, non ha alcuna personalità, si limita ad eseguire ordini fissati dagli stessi umani settecento anni prima e che si basavano sulla costruzione di un’illusione imperitura e sul rassegnarsi a una vita totalmente artificiale. Il vero nemico, dunque, non è tanto la macchina quanto la stessa umanità che ha creato tale artificio mettendolo al comando della propria esistenza. La vita media degli abitanti della nave, come è possibile notare dalle date che riguardano il periodo di vita dei capitani, è andata notevolmente allungandosi. Ciò nonostante, si tratta di un’esistenza in cattività, priva di ogni emozione, scandita da tempi meccanici e fissata all’interno della virtualità che tutti i viaggiatori hanno costantemente e ininterrottamente davanti agli occhi. Il compito dell’eroe Wall-e, affiancato da Eve, è quello di riconsegnare la realtà nelle mani degli uomini e spezzare l’incantesimo virtuale che attanaglia le loro menti. Come nel caso de Gli Incredibili, l’antagonista, almeno in origine, era buono e fedele a principi morali che, semplicemente, si sono dimostrati imperfetti e temporanei. Auto è diventato malvagio nel momento in cui un’illusione, creata proprio dagli umani, ha escluso qualsiasi possibilità di tornare alla vita sulla Terra. Ultima tipologia di antagonista che ritroviamo è quella dell’antagonista automa che si caratterizza per essere un personaggio malvagio dall’inizio alla fine del film e per cui non si intravede mai alcuna possibilità di redenzione. Apparentemente le sue caratteristiche sembrano renderlo simile al classico villain del Rinascimento Disney. Egli, invece, si costituisce piuttosto come un emblema della meccanicità, ha comportamenti che demoliscono ogni forma di affettività e creatività, esorta alla costruzione di procedimenti artificiali/automatici. In A Bug’s Life l’emblema di tale personaggio è Hopper, perfida e autoritaria cavalletta che schiavizza le formiche in modo da far loro compiere tutto il lavoro di raccolta del cibo per limitarsi a rubarlo. Flick stimola alla creatività, alla ricerca di soluzioni nuove e ingegnose tese non solo a sopravvivere ma anche a godere della propria esistenza. I limiti vanno superati, così come i confini della propria casa. La realtà va dunque esplorata e arricchita attraverso l’uscita da ogni automatismo. Hopper, in quanto suo antagonista, richiede alle formiche esattamente l’opposto: un lavoro estenuante e continuo che privi di qualsiasi capacità di raziocinio. In sintesi potremmo 110

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riassumere il contrasto definendo Hopper come l’esaltazione della meccanicità e Flick come la sublimazione dell’umanità. Non si discosta molto la situazione che troviamo in Monsters & Co. in cui Sulley, inizialmente, è il miglior spaventatore della sua fabbrica nonostante la spietata concorrenza di Randall. Il protagonista, dunque, è totalmente assorbito nelle dinamiche industriali e passa la maggior parte del suo tempo a cercare di diventare un lavoratore migliore. Questa sembra essere la condizione di vita più giusta all’interno della società, la più gratificante per Sulley e, a riprova di ciò, si aggiunge la suggestione portata dal mezzo televisivo che ne esalta le gesta. Inizialmente, dunque, protagonista e antagonista condividono lo stesso identico scopo: essere il miglior spaventatore della fabbrica. Quando Boo irrompe nella vita di Sulley egli capisce che il suo lavoro è sbagliato e che il suo modello di vita necessita di essere totalmente rivisto. Egli, dunque, non si preoccupa più per il lavoro e si lascia trascinare dai sentimenti. Randall e Waternoose (il direttore della centrale) condividono invece un piano legato esclusivamente al profitto personale e, in nome di ciò, hanno creato una realtà virtuale in cui tutti gli operai meccanicamente si sono sottomessi. È l’umanità di Boo a condizionare Sulley e Mike e a riportarli sulla retta via, quella che porta alla riconquista della libertà individuale e a un nuovo modello societario basato sulla rottura dell’artificio precedente. In Up l’antagonista di Carl è proprio l’idolo sulle cui gesta ha fantasticato per tutta la vita insieme alla moglie, l’esploratore Charles Muntz. Carl ed Ellie, infatti, fin da piccoli hanno alimentato il sogno di giungere alle Cascate Paradiso ma tale impresa, per un insieme di casualità della vita, è sempre stata loro proibita. Quando Carl finalmente giunge in tale meraviglioso luogo, scopre che il suo eroe non è altro che un bieco e spietato cacciatore, pronto a tutto per raggiungere la fama e il successo. Charles Muntz è rimasto intrappolato all’interno di un’idea ormai lontana, quella di dover ridare onore al suo nome dopo interi decenni. L’uomo, durante la sua esistenza, ha totalmente dimenticato il senso stesso dell’avventura che, al contrario, Carl ed Ellie hanno alimentato e costruito tra le mura domestiche. Essi si sono formati attraverso le avventure della vita mentre Muntz era intrappolato nel suo dirigibile museo in cui lo spirito dell’avventura era ormai rimasto solo una scritta impolverata e logorata dal tempo. Quando Carl realizza tale condizione non esita a inoltrarsi in un’altra peripezia che lo porterà a distruggere definitivamente il mondo del suo vecchio idolo e a 111

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portare la giusta dose di magia all’interno della vita sua e del piccolo Russell. La figura classica dell’antagonista, dunque, all’interno del cinema Pixar, cambia completamente funzione e spesso acquisisce, così come quella dell’eroe, una forte componente di umanità. Tale caratteristica comporta una compenetrazione degli attributi dell’eroe nell’antagonista e viceversa. Ad esempio Anton Ego si rivela essere buono e comprensivo, Sindrome era solo un bambino che sognava di essere un supereroe, Charles Muntz era un esploratore intraprendente e coraggioso e così via. Allo stesso modo Woody denota un forte egocentrismo, Saetta McQueen è spavaldo e irriverente, Rémy elabora una sua idea di vendetta ecc. La perfezione archetipica dei personaggi del Rinascimento Disney si dissolve come nebbia dinanzi alla luce della realtà che distrugge, peraltro, anche i mondi illusori e virtuali contemporanei lasciando penetrare spiragli di quotidianità e umanità nel regno dell’animazione contemporanea. A conferma di ciò vi è la possibilità, all’interno del cinema Pixar, di redenzione anche per i personaggi negativi. Anton Ego è la prova più forte della possibile conversione del cattivo ma, a ben vedere, i film che si basano sul modello dell’antagonista eroe seguono lo stesso identico principio. Altra importantissima caratteristica che riguarda il rapporto tra protagonisti ed antagonisti è la possibilità di sovvertimento della «dinamica del colpo di grazia». In A Bug’s Life, ad esempio, è proprio Flick a condurre Hopper nella trappola che lo ucciderà, in Monsters & Co. è Sulley a esiliare per sempre il perfido geco Randall, in Up è l’intervento di Carl a far precipitare Charles Muntz dal dirigibile. Dunque sporcarsi le mani non sembra più essere più vietato ai protagonisti ed appare, al contrario, un buon modo per siglare la sconfitta del cattivo. Per lo stesso principio anche il caratteristico coraggio degli eroi del Rinascimento Disney cessa di essere una peculiarità fondamentale e i protagonisti tendono costantemente a confrontarsi con la paura di vivere. Si passa, in sintesi, dalla paura di morire del Rinascimento Disney alla paura di vivere della Pixar. La possibilità di confinarsi all’interno di una vita in barattolo, costretta all’interno di limiti ben precisi e controllati ma priva di una forte componente sentimentale, scevra di ogni possibilità di realizzazione sociale e sentimentale, appare frequentemente una buona soluzione per i protagonisti che dovranno cimentarsi con i pericoli delle illusioni e scoprire i vantaggi della scelta di una vita libera, reale e imperfetta. Questa scel112

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ta è centrale all’interno del film. Questa decisione, che riguarda il mondo diegetico ed extradiegetico allo stesso tempo, è la principale materia che compone i lungometraggi Pixar. Il modello dell’eroe, unico trascinatore del plot, a riprova di ciò, risulta ormai appassito. Anche gli stessi titoli dei film, improvvisamente, non riguardano più un singolo personaggio ma un’idea o una realtà più estesa e generica. Il vero nemico, invece, osservando con attenzione i film appartenenti al cinema Pixar, sembra essere proprio il pericolo di una vita virtuale confinata all’interno di un’illusione di esistenza che comporta la dissoluzione dell’identità del soggetto. Tale elemento appare inevitabilmente correlato alla Rivoluzione digitale del nostro periodo. Nel momento in cui il Rinascimento Disney ha iniziato a sovraccaricare il paradigma fiabesco, nascondendo la realtà sotto gli abissi di un immaginario atavico e ancestrale, un’altra forte spinta, proveniente dal contemporaneo, sembra aver dato vita al cinema Pixar, profondamente ancorato all’interno del conflitto reale-virtuale tipico del nostro periodo. Non è un caso che Baudrillard pubblichi Il delitto perfetto nel 1996, a un solo anno di distanza dall’uscita di Toy Story. Lo scrittore, con la sua opera, comprende il più importante trauma che contraddistingue la nostra epoca che il cinema Pixar, probabilmente in maniera più radicale e costante di qualunque altro cinema, ha saputo canalizzare nella forma filmica. Il confine tra eroi ed antagonisti diventa sempre più sottile e ciò sembra andare di pari passo con l’ipermediaticità dei film Pixar che sfruttano, per rinforzare le proprie strategie narrative, proiezioni cinematografiche e televisive, articoli di giornale e persino ologrammi. Se McLuhan spesso si riferisce ai media come estensioni dell’uomo, con Baudrillard essi si configurano come espulsioni dell’uomo sicché il virtuale si presenta come anticipazione della scomparsa del pensiero e della realtà. Tale rischio sembra essere avvertito dalla casa di produzione californiana che rende tale timore attraverso un’efficace messa in discussione dell’identità individuale, sempre più frequentemente sostituita da una realtà clonata. I limiti dell’umano e dell’inumano sono contenuti nel processo che porta all’estinzione dell’essere, ma l’umano non farà posto al super-umano, all’oltreumano, come aveva auspicato Nietzsche con la sua trasvalutazione dei valori. 113

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Piuttosto, invece, apre la strada al sub-umano, a qualcosa che non è oltre ma sotto la dimensione dell’umano, e che costituisce una cancellazione di quei tratti simbolici che sono costitutivi della specie20.

La classica dimensione, in cui il lato oscuro dell’umano era solito essere costretto nell’archetipo dell’antagonista, si trasforma adeguandosi alla più grande paura contemporanea: la dissoluzione della specie. Il digitale, nell’era della perfezione tecnica, come testimonia anche Galimberti, si presenta come rischio della sostituzione in nome della perfezione della macchina. La base dell’umano è: quella di essere in relazione ad altro, solo che l’altro non ha più il volto della natura o il volto dell’uomo, ma quello dell’apparato tecnico, all’interno del quale si è in relazione non con la propria identità, ma con la propria funzione. [...] In questo teatro, in cui a muoversi non sono tanto gli uomini, quanto quelle loro maschere che sono poi le loro funzioni, agli individui è dato solo di interpretare un testo già dato, al quale non è possibile sottrarsi perché in quel testo sono scritte le condizioni generali dell’esistenza. In questo modo ogni individuo diventa “accessorio” dell’officina della tecnica, dove come “specializzato” deve esprimere le sue abilità di dettaglio, in un regime in cui ciò che conta non è più la personalità dell’individuo, ma piuttosto la sua uniformità, che ne garantisce la sostituibilità per il corretto funzionamento dell’apparato21.

Sono la meccanicità e il virtuale a fare davvero paura, il rischio non è morire ma non aver mai vissuto. Il cinema Pixar evita di calarsi all’interno di leggende e immaginari radicalmente diversi dal suo stesso contesto creativo e, pur spingendosi a Mostropoli o nelle profondità dell’oceano, ci conduce ben lontano dai miti fantastici a cui eravamo abituati con il Rinascimento Disney. La scelta di ambientazioni diverse fornisce suggestive allegorie del quotidiano in cui è possibile palesare i traumi della società contemporanea. In ogni storia Pixar ritroviamo sempre il nostro mondo, esso tende però ad essere caratterizzato da una sovrastruttura magica. Non vi è bisogno di un 20

J. Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, cit., p. 34. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 559-560. 21

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depauperamento culturale per facilitare la ricezione del messaggio. Ci troviamo dinanzi, piuttosto, a una diversa strategia di adattamento culturale. Il male si sposta dai singoli personaggi all’ambiente, alla volontà dei protagonisti si sostituisce l’elemento destinale, dalla magia del passato passiamo al timore del futuro in cui, irrimediabilmente, uomo e macchina sembrano destinati a confrontarsi. Questi spettri, più legati sicuramente a un pubblico tecnologicamente avanzato, si radicano soprattutto in Occidente ma, a causa della globalizzazione, i possibili spettatori rappresentano una massa in fervente prolificazione, così come aumenta esponenzialmente l’evoluzione tecnica e informatica cui siamo globalmente soggetti. Lo spettro della tecnologia incombe solo su chi la avverte all’interno del proprio contesto ricettivo ma, tale caratteristica, ormai, accomuna la stragrande maggioranza degli spettatori cinematografici. Siamo dinanzi a un’emergente fobia, che riguarda la distruzione del valore referenziale dell’oggetto e del soggetto. Il valore referenziale è annullato a vantaggio del solo gioco strutturale del valore. La dimensione strutturale si autonomizza a esclusione della dimensione referenziale, si istituisce sulla morte di quest’ultima22.

La finzione del mondo finisce per caratterizzarlo e sostituirlo, generando l’eclissi invisibile dell’individuo. Un’eventualità a cui la Pixar decide di non acconsentire liberando i personaggi dalle strutture fisse in cui sono diegeticamente costretti e restituendo loro la possibilità di riconquistare la propria umanità.

Tematiche affrontate Star Wars (1977) e George Lucas sono il punto di rottura. Sia il nuovo cinema digitale che la Pixar hanno origine dallo stesso identico punto, si dividono e si ricongiungono nel contemporaneo. Lucas ha espresso una tensione che era nell’aria sin da 2001: Odissea nello spazio (1968) di 22 J. Baudrillard, L’èchange impossible (1999); trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 17-18.

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Kubrick e che, negli anni a seguire, ha dato vita a pellicole come Tron (1982), Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) ed è giunta sino Matrix (1998). Tale argomento, all’interno del cinema del terzo millennio, è diventato uno dei più ricorrenti, soprattutto in registi paladini della contemporaneità come Nolan o Tarantino. Il pericolo della dissoluzione digitale, all’interno del cinema contemporaneo, è quotidiano e costante e diventa uno dei temi principali di cui i film si compongono sia diegeticamente che extradiegeticamente. Fin dalla metà degli anni Ottanta, Deleuze parla delle nuove immagini digitali riferendosi ad esse come a un: […] oggetto di una perpetua riorganizzazione in cui una nuova immagine può nascere da un qualunque punto dell’immagine precedente. L’organizzazione dello spazio vi perde le proprie direzioni privilegiate, e anzitutto il privilegio della verticale, testimoniata ancora dalla posizione dello schermo, a vantaggio di uno spazio onnidirezionale che non cessa di variare i propri angoli e le proprie coordinate, di scambiare la verticale e l’orizzontale. Lo stesso schermo, pur conservando per convenzione una posizione verticale, non sembra più rinviare alla postura umana, come una finestra o anche un quadro, ma costituisce piuttosto una tavola d’informazione, superficie opaca su cui s’iscrivono dei “dati”, poiché l’informazione sostituisce la Natura, e il cervello-città, il terzo occhio, sostituisce gli occhi della Natura. [...] e lo stesso piano, più che a un occhio, assomiglia a un cervello sovraccarico che assorbe senza sosta informazioni: è la coppia cervello-informazione, cervello-città, che sostituisce la coppia occhio-Natura23.

Qualcosa, dunque, sembra essere cambiato definitivamente. La naturalità e la corporeità delle immagini lascia spazio a spettri digitali, tanto suggestivi quanto evanescenti. Sintetizzando in poche parole, Baudrillard, a riguardo del periodo contemporaneo arriva a dire: «La determinazione è morta. L’indeterminazione è sovrana»24. Come conseguenza di ciò, le stesse caratteristiche tecniche del cinema vengono messe in discussione. La materialità della pellicola, improvvisamente, appare solo come una delle opzioni possibili e, nel caso del cinema Pixar, essa si costituisce come un’eventualità tutt’altro che insostituibile. Viene perpetrato e ampliato il confine del cinema d’animazione che, come prima e più di prima, dimostra la sua totale indipendenza dalla realtà fisica. 23

G. Deleuze, L’image-temps. Cinéma 2 (1985); trad. it. L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri, 1989, p. 293. 24 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 18.

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Non dovendo avere come referente nessun universo verosimile, il film completamente digitale può permettersi di creare un ambiente totalmente differente e non legato in alcun modo al mondo fisico cui siamo abituati, come del resto fa l’animazione tout court [...]. Nasce così il concetto di animazione digitale, che da un bozzetto su carta passa lo storyboard nel computer per sviluppare, con l’animazione appunto, l’ambiente e i personaggi 3D. Il passaggio alla pellicola allora assume un ruolo di secondo piano, un riversamento su un supporto classico di un materiale assolutamente nuovo, che del sistema fotografico potrebbe benissimo fare a meno25.

Non stupisce che la perdita della referenzialità caratterizzi proprio il cinema d’animazione. Ciò, al contrario, appare come una naturale conseguenza della sua stessa intrinseca natura e il percorso intrapreso dall’animazione, non a caso, trova il suo ideale apogeo all’interno delle produzioni Pixar. Se, per assurdo, la realtà non esistesse, il cinema della casa di produzione californiana potrebbe ugualmente sussistere all’interno delle sue costruzioni digitali/virtuali che hanno trasformato persino la precedente sacralità della pellicola in un optional. Siamo di fronte a simulazioni totalmente autonome e indipendenti da qualsiasi indexicalità. Un semplice modello simulacrale generato ex nihilo da un linguaggio numerico [...] implica al contempo un acquisto e una perdita: i processi di produzione elettronica e informatica dell’immagine offrono infatti all’occhio l’opportunità di imbattersi in visioni mai viste in precedenza, ma prive di qualsiasi legame con un referente che esiste al di là di esse. Sono immagini che non rinviano a null’altro che a sé, che splendono, brillano e rifulgono nella loro irrelata inseità. Sono – per usare la suggestiva definizione di Fausto Colombo – ombre sintetiche. Immagini autoreferenziali interamente digitalizzate (infografiche, le definisce Colombo), prive di un punto di vista fondante e totalmente immerse in un regime di simulazione26.

L’artificio è il regno della perfezione possibile, di un mondo interamente costruito sul modello del creatore che, in questo caso, non è più il fato, bensì l’uomo. Qualunque cosa, in ambito virtuale, appare improvvisamente possibile e realizzabile, seppure attraverso una simulazione. 25

G. Fara, A. Romeo, Vita da pixel, Milano, Il Castoro, 2000, pp. 90-91. G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000, p. 27. 26

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Il pericolo è che, sotto il peso sempre più consistente della finzione, la realtà gradualmente si dissolva e scompaia. L’uomo rischia di alienarsi dalla sua stessa profonda natura per rifugiarsi all’interno di un’illusione perfetta. Allo stesso modo nel cinema ogni inquadratura viene spogliata della sua componente reale, dal rischio dell’errore dell’attore, dalla caduta di un fondale e da qualsiasi intoppo in fase di produzione per poter essere costruita interamente al computer. Il disordine reale, nel momento in cui si scontra con la perfezione iperreale, sembra non avere possibilità di sopravvivenza. Lo svuotamento dell’essere e del pensare appare, per Jean Baudrillard, ormai compiuto. È un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c’è più ideologia, ci sono soltanto dei simulacri27.

Tale apprensione non può che essere somatizzata anche all’interno delle tematiche del cinema che si situa tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio. Il cinema della Pixar, in questo senso, è forse quello che maggiormente traduce il trauma legato al digitale. Dalle ombre reali si passa alle ombre sintetiche, dalla morte fisica si arriva al trauma della morte. Come anticipato da Morin, l’idea della morte (e dunque ciò che davvero traumatizza l’uomo) si intreccia profondamente con la paura della dissoluzione della propria identità. È evidente che l’uomo, così ossessionato dalla sopravvivenza degli spiriti spesso a danno della sua stessa vita, rivela in tal modo la preoccupazione ansiosa di salvare la propria individualità al di là della morte. L’orrore della morte è quindi l’emozione, il sentimento e la coscienza della perdita dell’individualità. È un’emozione scioccante, manifestata sotto forma di dolore, terrore ed orrore; è infatti la percezione di una rottura, una sventura, un disastro e dunque un trauma. È, infine, coscienza di un vuoto che si spalanca proprio là dove c’era l’individuo nella sua pienezza di vita – dunque consapevolezza del trauma28.

27 28

J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 12. E. Morin, L’uomo e la morte, cit., pp. 42-43.

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Tale fenomeno, nell’era digitale, sembra realizzarsi attraverso una nuova forma, quella della sostituzione, della clonazione, della dissolvenza all’interno di un’illusione. La paura di confondere realtà e finzione diventa sempre più palpabile e consistente e finisce per divenire la tematica principale all’interno del cinema Pixar. Tutte le storie rappresentate, infatti, giocano con i concetti di artificio e finzione. Ciò che davvero sembra spaventare gli eroi non è il pericolo di morire, ma l’idea della cancellazione. Al centro della loro evoluzione non vi è la salvezza della principessa o la sconfitta dell’antagonista. Il vero scopo è quello di affermare con forza la propria identità all’interno della realtà, smascherando l’illusione di cui (per colpa propria o per avvenimenti legati a una forte componente destinale) sono prigionieri. Così Woody lotta contro la propria sostituzione e necessita di confermare la propria personalità messa a rischio dal nuovo arrivato Buzz che, al contempo, è prigioniero dell’illusione di essere davvero uno Space Ranger e, una volta avvertito lo svuotamento della propria identità, ha bisogno di capire chi è per dare un significato alla sua esistenza. Flick, allo stesso modo, ha la necessità di sentirsi riconosciuto, di legittimare la sua essenza all’interno del suo gruppo sociale per non dissolversi nella massa. Woody, nel secondo episodio di Toy Story, si trova a scegliere tra un’esistenza come vuoto e perfetto simulacro e tra una vita piena ed emozionante nella sua manchevolezza. Sulley ha la missione di smascherare l’artificio creato dalla fabbrica per cui lavora e affermarsi come umano tra i mostri e non più come mostro tra gli umani. Marlin ha costruito una gabbia per la sua personalità e per la sua vita in cui ha rinchiuso anche il piccolo Nemo e necessita di un evento esterno per evadere dal mondo della finzione. Mr. Incredible è stanco di celare la sua maschera, ciò che più lo fa sentire se stesso. Tale sentimento, che unisce la sua intera famiglia, li porterà a riaffermare la propria identità segreta come la loro vera e autentica identità. Il regno illusorio delle corse ha trasformato Saetta McQueen in una macchina come tante, un modello uniformato e sostituibile. La permanenza presso Radiator Springs farà capire all’eroe qual è il suo vero carattere e ciò che lo potrà rendere un vero campione, non solo sulla pista. Rémy, uno chef imprigionato nel corpo di un ratto, dimostrerà che, a prescindere dall’aspetto e dalle origini, «un grande artista può celarsi in chiunque». Wall-e, recluso nel mondo reale, totalmente dimenticato dagli uomini, grazie all’amore per Eve riaffermerà la sua 119

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importanza presso i viaggiatori dell’Axiom, prigionieri della loro stessa illusione. Carl, all’interno di Up, ripercorre il senso e il significato della vita, sradicandosi dalla morte di Ellie ritroverà l’identità perduta, la stessa che animava i suoi sogni da bambino e che spezza le sue illusioni da vecchio. Il finale di questi film, non a caso, conduce sempre a una nuova normalità, all’armonia individuale e sociale. Alla fine del percorso non vi è nessuna perfezione illusoria ma, al contrario, la travagliata e meravigliosa realtà.

Un (almost) happy ending Che la Pixar abbia aperto definitivamente le porte all’iperreale è ormai una verità riconosciuta pressocché universalmente. Toy Story è il primo film che si sviluppa interamente grazie alla computer animation ma, oltre a ciò, esso pone le basi per un nuovo cinema d’animazione che virtualizza e digitalizza il quotidiano, esaminandolo e trasformandolo costantemente. Come afferma Rondolino, «Non c’è realismo nel rappresentare, piuttosto un colto iperrealismo, una stilizzazione e una selezione accurata di tutti gli elementi che possono stimolare una vera avventura visiva, a metà fra sogno e videogioco»29. Le nuove frontiere del digitale sono inscritte nel DNA della Pixar che sfrutta la sua natura per creare un proprio modo di raccontare e un “repertorio” tematico ben distinto da quello dei suoi immediati predecessori. La casa di produzione di Emeryville si incammina alla ricerca di un’identità sia diegeticamente che extradiegeticamente, mettendo proprio questo stesso percorso al centro del suo sviluppo. La strada finisce per costeggiare i confini di due mondi, quello reale e quello digitale. I passi sono motivati dal desiderio di fare chiarezza su quale dei due universi sia il contenitore non solo del mondo dei personaggi della storia ma anche, di riflesso, anche di quello spettatoriale. Il leit motiv che accompagna i film Pixar, dunque, è intimamente connesso con il tema dell’illusione e dell’iperreale e la conclusione, conseguentemente, non può che avere a che fare con la rivelazione di tale artificio. Così Woody e Buzz, attraverso il loro percorso, si rendono conto di aver 29

G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, cit., p. 421.

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vissuto all’interno di un artificio, Sulley comprende che la sua esistenza è radicata a principi totalmente sbagliati a causa delle errate convinzioni che gli sono state imposte dal suo sistema sociale, Marlin dovrà essere in grado di liberare se stesso e Nemo dagli acquari (metaforici e non) in cui sono rimasti intrappolati, e così via. Ciò che conta è che l’illusione, nel finale, si spezzi. La rigidità della struttura del Rinascimento Disney appare lontana già nel 1995 ma, a ben guardare, un’altra configurazione, seppure meno rigorosa, sottende anche i capolavori del cinema d’animazione Pixar. Tale conformazione riguarda il percorso degli eroi che, in ogni storia raccontata, non fanno che andare alla ricerca di una propria identità, rivelandola solo nel finale. Al posto della spregevolezza del cattivo si sostituisce soventemente l’incalcolabilità del destino, invece del tetro e oscuro antro della strega veniamo trascinati all’interno di prigioni invisibili apparentemente perfette, non c’è più la morte a terrorizzare i protagonisti bensì il fantasma della dissoluzione. Ciò nonostante, nel finale, l’eroe giunge alla meritata tranquillità. Ma possiamo davvero parlare di happy ending? Se nelle fiabe i personaggi principali «sono privi della vita interiore umana, della psiche» e dunque «nell’eroe di una Fiaba non si riscontrerà mai una conversione psicologica»30, il discorso all’interno del cinema Pixar cambia radicalmente e, a causa dell’umanità intrinseca ai personaggi, è proprio questa conversione ad essere al centro dell’evoluzione del personaggio. La rottura della dinamica archetipica porta a un inevitabile ridimensionamento generale e, dunque, anche a una riduzione della potenza risolutrice e redentrice del finale. Eroi e antagonisti escono dalle sublimazioni positive e negative e si sporcano della stessa materia che compone i fruitori. Nessun castello dorato aspetta i personaggi che, talvolta, escono anche sconfitti dalla storia ma arricchiti sia emotivamente che socialmente. Esemplare, in questo senso, è il caso di Saetta McQueen in Cars che, al termine della sua avventura, sceglie volontariamente di perdere la Piston Cup dimostrando così di aver capito che la celebrazione mediatica non è altro che una finzione. Ciò che conta, per il protagonista, è trovare la sua casa. 30

M.L. Von Franz, Le fiabe del lieto fine, cit., p. 16.

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Tale rappresentazione di stabilità è sempre presente nei film presi in esame. La famiglia di supereroi de Gli Incredibili, Marlin e Nemo, Sulley, Rémy, Saetta, Wall-e, Carl, Woody e Buzz, Flick, sono tutti accomunati dal desiderio di trovare una dimora in cui sentirsi accettati per ciò che sono. L’identità, dunque, non solo deve essere trovata ed esternata, ma anche accettata. Quando ciò accade la storia può concludersi e il protagonista può finalmente riposare in un ambiente familiare. Il finale non serve a riappacificare l’inconscio attraverso la rimozione del male. Esso, al contrario, permette di comprendere che vi sono eventi inaspettati e incontrollabili (come la morte di Ellie o della compagna di Marlin) o atteggiamenti provenienti dall’eroe stesso (come l’invidia di Woody) che da un momento all’altro possono turbare la pace del protagonista. A prescindere da ciò egli deve saper scegliere la realtà per quella che è, emozionante nella sua manchevolezza, tralasciando la follia di una dissoluzione nella perfezione. Perché Wall-e ed Eve, una volta scoperta l’esistenza di una piantina sulla Terra non si adeguano alla volontà di Auto e la distruggono? Perché Sulley non si limita a tornare alla sua vecchia vita invece di salvare Boo? Perché Saetta non porta a compimento la gara e vince la Piston Cup? La risposta a tali domande, che si ripresentano similmente in ogni film esaminato, sta nel desiderio spettatoriale di esorcizzare la compiutezza virtuale del mondo. Il cinema Pixar porta ad una maturazione dell’immaginario contemporaneo non tanto perché smette di adottare il fiabesco come materia del racconto. Come abbiamo visto la fiaba è tutt’altro che un prodotto per bambini ed è un covo di archetipi tanto quanto il sogno che, allo stesso identico modo, non può che essere considerato universale. La motivazione non sta neanche nell’uso di una tecnica diversa di realizzazione anche se, innegabilmente, le nuove tecniche di realizzazione e la computer animation hanno sicuramente influito sul progresso dell’animazione e ci troviamo dinanzi a un cinema che considera la pellicola come un qualcosa di cui può improvvisamente fare a meno. La maturazione consiste in una vera e propria presa di coscienza e ad una metabolizzazione del quotidiano. Ciò porta la casa di produzione californiana a riportare l’animazione alla libertà totale, a sradicare gli archetipi e ad entrare in diretto contatto con la società che li produce. Non ci troviamo più dinanzi a una cristallizzazione temporale o geografica. Il film accade qui ed 122

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ora. Non vediamo rappresentati popoli lontani e oggetti magici ma semplici e dirette allegorie del quotidiano. Inoltre, elemento ancora più importante, ci troviamo di fronte a una radicale messa in discussione della nostra epoca e a un’anticipazione del tramonto della Videosfera. Il mondo mediatico e tecnologico, il regno del virtuale, viene presentato con tutti i suoi limiti e, come attestano i finali dei diversi film, la vera maturazione del personaggio (in contrasto con la trasformazione del personaggio che teorizza Dara Marks) è il fare un passo indietro. Non siamo più fermi al semplice processo di identificazione spettatoriale che pone la domanda: con chi voglio identificarmi? Qui la questione diventa enormemente più ampia e porta al quesito: in quale mondo vorrei abitare? Dimenticare la Route 66 per risparmiare cinque minuti di tempo, tutto ad un tratto, appare senza senso. Adeguarsi alla massa e sottomettersi ai più forti, come accade alle formiche di A Bug’s Life, sembra totalmente assurdo. Restare a casa invece di affrontare l’oceano della vita, come tenta inizialmente di fare Marlin, diventa una condizione simile al non aver mai vissuto. Perciò bisogna immergersi totalmente nella vita sradicandola dal dominio delle illusioni. La televisione, personaggio ricorrente del cinema Pixar, esemplifica tale concetto perché, nei film esaminati, essa svilisce, mistifica, genera significati erronei, crea miti fittizi e illusori. Il virtuale stesso va distrutto così come accade alla nave Axiom o come devono finire nel dimenticatoio gli spot della Monsters & Co. La maturazione consiste in un ritorno alla realtà sia dei personaggi che dei fruitori, in un’accettazione del bene e del male che sono entrambi parte della nostra personalità, in una esaltazione dell’individualità che va coltivata e messa alla prova in una sublimazione del sentimento e del concreto. In sintesi ci troviamo di fronte ad una ammissione sia delle potenzialità che dei limiti dell’umano. L’illusione dell’immortalità e della perfezione 123

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non può avere vita lunga, il cinema Pixar sembra suggerirci di non pensare di vivere in eterno né di essere degli eroi senza macchia e senza paura. Esso ci chiama, piuttosto, a rigettarci nella normalità e a trasformarla attraverso la creatività e non attraverso l’artificio. Lo spettatore non è totalmente rinfrancato al termine della visione, cosa che accadeva ricorrentemente dopo un sogno/fiaba del Rinascimento Disney. Egli non tira un sospiro di sollievo perché il male è stato scacciato definitivamente. Chi guarda, invece, viene invitato ad attivare lo sguardo e contemporaneamente il pensiero. La visione è sicuramente più faticosa, l’impegno richiesto per comprendere i vari livelli grafici e narrativi è sicuramente maggiore rispetto al passato. Tuttavia solo così anche lo spettatore può essere condotto alla riscoperta della sua stessa umanità. Il suo inconscio non giunge alla pace e la vittoria, sia dell’eroe che dello spettatore, non è totale ma solo parziale. Il «e vissero tutti felici e contenti» è definitivamente scomparso. Woody non sarà mai più l’unico giocattolo prediletto di Andy e sarà costretto lentamente a consumarsi e a danneggiarsi, Sulley dovrà dire per sempre addio a Boo, Mr. Incredible e famiglia non hanno ottenuto una vittoria finale ma hanno solo sconfitto un primo nemico, Rémy non ha potuto riportare alla gloria il ristorante di Gusteau ma ripartire dal Ratatouille e così via. Il lieto fine improvvisamente c’è ma è sempre a rischio, sempre manchevole di qualcosa per essere completo, costantemente imperfetto e difettoso. Esattamente come la realtà.

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Capitolo terzo

Immaginari a confronto

L’immaginario fiabesco La sensazione che genera una fiaba all’interno di un qualsiasi individuo è, generalmente, quella di una vera e propria magia o, quantomeno, una rievocazione del principio fondamentale che ne è alla base e che Freud spiega con queste parole: Il principio su cui le pratiche magiche si basano o, meglio, il principio della magia, è così chiaro che tutti gli specialisti furono costretti a riconoscerlo. A prescindere dalla valutazione che egli ne fa, può essere espresso concisamente con le parole di E.B. Taylor: «confondendo un legame ideale con un legame reale»1.

Abbiamo cioè una fusione tra reale e ideale che genera un’intima connessione con un fenomeno che sembra, quasi inspiegabilmente, affascinante e suggestivo. Le componenti razionali (la plausibilità degli eventi, dei personaggi e delle “location”) e la sua indexicalità, vengono automaticamente scartate. Il perché del “magico” che sta alla base delle favole è stato diversamente interpretato e approfondito in campi anche estremamente differenti. Ciò che è particolarmente interessante è che alcuni punti di particolare rilevanza sembrano non poter fare a meno di ritornare costantemente. Vedremo, nel prosieguo dell’analisi, come si costituisca una trasversalità tra alcune tema1 S. Freud, Totem und Tabu: Einige im Übereinstimmungen Seelenleben der Wilden und der Neurotiker (1913); trad. it. Totem e tabù, Milano, Mondadori, 1997, pp. 90-91.

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tiche che possono essere prese come punti di riferimento nello studio della fiaba, sia nelle sue forme originarie sia nelle sue forme derivate (e in particolare nell’animazione). Probabilmente causa dell’incanto è la stessa fonte che ha generato e alimentato la fiaba attraverso i secoli e che, secondo numerosi studiosi, è da ricercarsi alla base di fenomeni rituali e religiosi. Gli studiosi di tradizioni popolari hanno da lungo tempo osservato che assai sovente tanto le cantilene quanto i giochi infantili non sono che l’ultima sopravvivenza di antichi riti religiosi. Vi sono nenie, ad esempio, che si rifanno a versi usati negli esorcismi, mentre il gioco della mosca cieca trova invece la sua origine nei precedenti primitivi che si usavano per scegliere le vittime umane destinate al sacrificio. Lo stesso può dirsi delle fiabe. Ciò che con l’andar del tempo è divenuto semplice svago, ha spesso le sue origini in un mito liturgico2.

Con il passare del tempo, secondo Gaster, benché le cerimonie siano scomparse, gli elementi che ne erano alla base sono sopravvissuti e la loro conformazione, seppure alterata, è rimasta all’interno della tradizione popolare sotto molteplici forme. In sintesi, «il materiale originario divenne tradizione popolare» e in seguito altri materiali si aggiunsero. Gli strati creati dalle credenze primitive, dai riti, dalle superstizioni, sono riusciti a conservarsi preservando i loro aspetti fondamentali tradotti in altre forme. Ciò spiegherebbe anche il perché dell’universalità del genere. Propp si è soffermato sul problema delle origini della fiaba dedicando al tema il volume intitolato Radici storiche dei racconti di fate in cui lo studioso effettua un attento studio al termine del quale afferma che le fiabe sono «riconducibili a istituti specifici dell’evoluzione storico sociale»3. Propp afferma che «il metodo di produzione della vita materiale condiziona il processo sociale, politico e spirituale della vita in genere […] Noi dobbiamo trovare nel passato il metodo di produzione che ha reso possibile la fiaba»4. 2 T. H. Gaster, The Oldest Stories in the World (1958); trad. it. Le più antiche storie del mondo, Torino, Einaudi, 1961, p. 152. 3 A .M. Cirese, Introduzione a V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri, 1979, p. 3. 4 Cfr. V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri, 1979.

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Per lo studioso russo la ricerca sulla fiaba è una ricerca genetica che scava all’interno dell’uomo, dei suoi rituali, della formazione della società e della collettività. Il genere deve essere esaminato alla luce dello stretto rapporto con le dinamiche economiche, religiose e sociali delle comunità in cui si è sviluppato ed evoluto o che ha saputo interpretare e tradurre. Ciò rende ancora più problematico e interessante uno studio della fiaba nel contemporaneo. Max Luthi, all’interno del libro La fiaba popolare europea – forma e natura, sostiene che la nascita della fiaba sia rintracciabile all’interno dell’evoluzione dell’uomo: Il fatto che oggi, in Occidente, i bambini costituiscano il vero pubblico della fiaba, rende probabile per il suo insorgere una data molto antica. [...] Non ne consegue, tuttavia, che in origine le fiabe siano state create per i bambini, ma al massimo che la fiaba corrisponda evidentemente a un remoto stadio dell’evoluzione5.

Secondo Luthi è impossibile scindere la fiaba dall’uomo poiché i due elementi sono fusi all’interno del medesimo processo costitutivo. Il genere fiabesco esprime qualcosa di naturale e caratteristico della specie e ne trattiene e conserva alcune proprietà basilari. In antropologia le fiabe vengono generalmente accostate ai riti di iniziazione che venivano praticati presso le popolazioni primitive. Ci si riferisce a cerimonie che consentono o evidenziano un cambiamento di ruolo, fase della vita o rilevanza sociale di un membro della comunità. Esemplificativo è lo studio di Frazer racchiuso ne Il ramo d’oro6 in cui egli, attraverso il suo «metodo comparativo», rintraccia un parallelismo tra la leggenda del Ramo d’oro e un culto druidico legato ai sacrifici umani: Applicando il metodo comparativo, mi sembra di poter mostrare la probabilità che il sacerdote personificasse il dio del bosco – Virbio – e che la sua uccisione fosse considerata come la morte del dio. Ciò pone il problema del significato del diffuso costume di uccidere uomini e animali considerati come divini [...] Credo di 5

M. Luthi, La fiaba popolare europea – forma e natura, cit., p. 35. Cfr. J. C. Frazer, The Golden Bough (1890); trad. it. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, Roma, Newton Compton, 2006. 6

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poter mostrare che il Ramo d’oro era il vischio; e mi pare che l’intera leggenda possa esser posta in connessione, da un lato, con il culto druidico del vischio ed i sacrifici umani che l’accompagnavano, dall’altro con la leggenda norvegese della morte di Balder7.

Stefano Calabrese evidenzia come nel momento in cui le fiabe nascevano, i personaggi al loro interno probabilmente non erano solo figure irreali ma entità in cui i diversi popoli effettivamente credevano8. Le trasformazioni uomini-animali vengono generalmente legate al totemismo. La relazione con la morte, il dover affrontare le difficoltà in un percorso oscuro e tortuoso, così come accadeva nei riti di iniziazione, racchiude invece il senso del viaggio che è presente nelle fiabe, metafora dei diversi stadi di crescita dell’uomo e del suo trapasso verso un mondo sconosciuto. Il mezzo magico non è altro che la traduzione dei poteri che l’iniziando dovrebbe acquisire attraverso il rito. Il lieto fine e la trasformazione avvenuta rappresentano la transizione completata al termine del rito: l’iniziato doveva risultare vittorioso poiché esso era il medium tra vita e morte, tra il conscio e l’inconscio, tra il conosciuto e lo sconosciuto e doveva consentire alla comunità una sorta di dominio e controllo su ciò che veniva considerato magico e catartico. I primi ad effettuare delle ricerche sul significato più profondo della fiaba sono stati Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm. Generalmente noti per aver raccolto e riadattato le fiabe tradizionali tedesche nelle opere Kinder-und Hausmärchen e Deutsche Sagen tra il 1816 e il 1818, i fratelli Grimm per primi hanno evidenziato la componente mitica fiabesca, affrontando la complessità e la problematicità del genere. Nel 1812 Jacob Grimm scrive all’amico Achim von Arnim: Sono fermamente convinto che tutte le fiabe della nostra raccolta, con tutte le loro particolarità, venivano narrate già millenni fa […] in questo senso tutte le fiabe si sono codificate come sono da lunghissimo tempo, mentre si spostano di qua e di là in infinite variazioni […] tali variazioni sono come i molteplici dialetti di una lingua e come quelli non devono subire forzature. 7 8

Ivi, p. 48. Cfr. S. Calabrese, Fiaba, Scandicci, La Nuova Italia, 1997.

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Per la prima volta la stratificazione di significati e l’arcaicità costitutiva delle fiabe viene messa in luce e Jacob Grimm evidenzia anche l’universalità di un genere che richiede di essere preservato dal suo peregrinare negli oceani del tempo. […] forse era proprio arrivato il momento di mettere queste fiabe per iscritto; coloro che devono conservarle, infatti, si fanno sempre più rari. Certo se le persone non sopravvivono alle fiabe, queste sopravvivono però alle persone9.

Vi è, per i Grimm, qualcosa di atavico ed ancestrale all’interno del genere, elementi che non fanno altro che ripetersi in “dialetti” diversi conservando alcuni elementi essenziali. Nondimeno la fiaba sembra essere destinata a sopravvivere e a continuare ad essere raccontata indipendentemente dai suoi autori. Ciò esplica in qualche misura una sua necessità, un bisogno intrinseco che è in grado di esplicare. […] di queste fiabe non intendiamo fare l’apologia: a loro difesa parla la loro esistenza pura e semplice. Ciò che in modo così vario e sempre rinnovato procura godimento, commuove e ammaestra, porta in sé la propria necessità e proviene sicuramente da quella eterna sorgente la cui rugiada bagna ogni forma di vita10.

È proprio intorno a quella «necessità» che è indispensabile riflettere. Il fatto che le fiabe compaiano, in forme simili più o meno stratificate, evidenzia che vi è, nell’animo umano, un bisogno effettivo di creare, raccontare ed ascoltare fiabe, come se la radice più profonda del processo che porta alla nascita e alla diffusione del genere fosse qualcosa di innato e costitutivo dell’uomo. L’«eterna sorgente» alla quale i fratelli Grimm sembrano riferirsi appare essere la stessa da cui gli uomini sono nati e si sono evoluti. La fiaba risiede nell’uomo dal principio e del principio dell’uomo, della sua psiche e di come si è costituita, custodisce la chiave. Anche a causa di ciò non sorprende il fatto che la fiaba sia stata, nel corso del tempo, argomento di studi ricorrenti anche della psicoanalisi, come si 9 J. e W. Grimm, Kinder- und Hausmärchen (1812-1822); trad. it. Fiabe, Milano, Fabbri, p. 11. 10 Ivi, p. 12.

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può desumere dalle parole del professore Glauco Carloni, medico psichiatra e psicoanalista: Il mondo della fiaba è un mondo magico, animistico, manicheo e persecutorio, che rappresenta, si può dire, l’estroflessione di quel mondo interno a cui la psicoanalisi, specie dalla Klein in poi, ha assegnato tanta importanza fino a farne il suo precipuo territorio di ricerca. Come il nostro mondo interno e come l’universo onirico, il mondo della fiaba è illimitato e atemporale. In esso non vigono le leggi della fisica e della biologia: volano gli uomini, i cavalli, i tappeti; innumerevoli sono le metamorfosi e i modi di concepire le azioni: riesce possibile attraversare i secoli, anticipare il futuro, retrocedere nel passato, agire ubiquitariamente, penetrare i corpi solidi o diventare invisibili11.

Il primo ad aver trattato la fiaba a livello psicoanalitico è Freud che, all’interno di Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni) più volte fa riferimento alla fiaba. Lì dove i fratelli Grimm parlavano di «necessità» Freud parla di «inconscio». Egli lega spesso il sogno alla fiaba, costituendo un parallelo tra due fenomeni che sembrano canalizzare le più profonde inclinazioni umane. Il primo esempio riguardo a tale argomento è il passo in cui Freud lega il sognare di non essere vestiti dinanzi ad estranei alla fiaba, riportando l’esempio de I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen e Il Talismano di Fulda: Il penoso imbarazzo di chi sogna e l’indifferenza della gente costituiscono, messi insieme, una contraddizione che spesso capita nel sogno. […] Siamo in possesso di un’interessante testimonianza del fatto che il sogno, nella sua forma parzialmente deformata dall’appagamento di desiderio, non è stato sinora giustamente compreso. Esso è servito infatti di base a una fiaba nota a tutti noi nella versione di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, e recentemente nella poetica rielaborazione di Ludwig Fulda, Il talismano. […] Non occorre infatti molta temerarietà per ammettere che l’incomprensibile contenuto del sogno ha offerto lo spunto per l’invenzione di una nuova veste in cui la situazione qual è presente nel ricordo acquista un significato12. 11 G. Carloni, La meravigliosa avventura della psicoanalisi: scritti scelti 1974-2001, Rimini, Guaraldi, 2005, pp. 69-70. 12 S. Freud, Die Traumdeutung (1899); trad. it. L’ interpretazione dei sogni, Torino, Bollati Boringhieri, 1985, p. 111.

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Freud rintraccia una forte connessione tra inconscio e fiaba. Essa rappresenta una forma di esternazione del sommerso individuale e collettivo che, attraverso forme distorte, prova ad uscire fuori, seppure mascherando la sua stessa natura. La dottoressa Francesca Borruso, con queste parole riassume il significato degli studi che Freud effettua sulle fiabe: Se le fiabe sono interpretabili come qualunque forma d’arte, perché portano il segno, la traccia della nostra dialettica identitaria (come i sogni ed i miti) esse sono espressione di desideri, pulsioni, bisogni ma anche segno delle repressioni sessuali indotte dalla cultura, la quale attraverso norme sociali o morali, stabilisce divieti, tabù, impedimenti alla realizzazione dei desideri che contrassegnano la vita individuale di ciascuno (il divieto di incesto e le manifestazioni libidiche infantili)13.

Secondo Freud, dunque, nella fiaba vi sono tracce della nostra identità che sono state reinterpretate e rielaborate e che esprimono la nostra natura più intima e profonda, libera di esternarsi nel momento in cui viene in qualche misura criptata, subissata sotto costruzioni narrative più o meno consapevoli, così come accade, ad esempio, nel mito. La fiaba non fa altro che trasporre in altre configurazioni le fasi del processo psichico individuale. Il modello Freudiano fornisce almeno quattro chiavi di lettura della fiaba, ispirate agli stadi dello sviluppo psicosessuale14, alla contrapposizione di principio di realtà e principio del piacere, al conflitto tra istinto di vita e istinto di morte oppure al modello strutturale dell’apparato psichico15.

Non è sicuramente un caso che solo un anno dopo la pubblicazione de L’interpretazione dei sogni esca un saggio di Friedrich von der Leyen intitolato Sogno e fiaba16. Da Freud in poi la fiaba appare destinata a restare 13

F. Borruso, Fiaba e identità, Roma, Armando, 2005, p. 39. Ci si riferisce, in questo caso, alle cinque fasi dello sviluppo psico-sessuale di cui Freud parla, ovvero: fase orale (mangiare e essere mangiati), fase anale (donare e tenere per sé), fase fallica (il sesso come oggetto di attrazione), fase di latenza (assopimento del desiderio sessuale) e fase genitale (si arriva a una corretta differenziazione dei sessi). 15 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., p. 39. 16 Cfr. F. Von Der Leyen, Traum und Marchen, Marchenforschung und Tiefenpsychologie, Wege der Forschung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgemeinschaft, 1969. 14

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definitivamente al centro della psicoanalisi, diventando non solo uno dei suoi principali argomenti di discussione ma anche una traccia della sua stessa forma costitutiva. A interessarsi della fiaba e a trovare fondamentale il suo modo di esperire la psiche umana troviamo anche Jung che, più volte nel corso della sua vita, ha messo in risalto il collegamento tra la fiaba e la psicoanalisi. Egli situa all’interno delle fiabe alcuni archetipi costitutivi dell’uomo in grado di riassumere e spiegare elementi sociali e stadi di crescita di ogni individuo nella sua comunità di appartenenza. Secondo Jung le fiabe sono l’espressione più pura dell’inconscio collettivo: mentre il mito e la leggenda sono intrisi di elementi culturali poiché sono presenti in contesti in cui esistono già organizzazioni statuali o sociali, la fiaba è collegata sì al mito ma è più antica e pare rifletta in modo arcaico i processi psichici elementari, i modelli archetipici del comportamento umano17.

Per capire meglio l’importanza dell’archetipo nella concezione di Jung è sufficiente leggere la definizione che egli stesso ne dà all’interno de L’uomo e i suoi simboli: L’archetipo è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dallo stesso motivo fondamentale […] la loro origine è ignota e si riproducono in ogni tempo e in qualunque parte del mondo, anche laddove bisogna escludere qualsiasi fattore di trasmissione ereditaria diretta o per incrocio18.

Secondo Jung, la fiaba propone degli archetipi ricorrenti costitutivi e rappresentativi delle diverse fasi della condizione umana. Essa interpreta e canalizza le tensioni fissate all’interno della stessa composizione genetica dell’uomo e della sua società. Un valido esempio di archetipo ricorrente all’interno delle fiabe è quello del matrimonio:

17

F. Borruso, Fiaba e identità, cit., p. 41. C.G. Jung, Man and His Symbols (1964); trad. it. L’uomo e i suoi simboli, Milano, Cortina Raffaello, 1983, p. 67. 18

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Il tema del matrimonio è un’immagine di tale universalità che è possibile cogliervi anche un significato più profondo. Esso rappresenta simbolicamente la scoperta positiva, e persino necessaria, della componente femminile nella psiche maschile, negli stessi termini reali in cui rappresenta l’acquisto di una moglie in carne ed ossa19.

Il matrimonio non va visto banalmente come la realizzazione di una fantasia infantile (così come tutt’oggi spesso accade nell’interpretazione semplicistica di alcune fiabe) ma come la realizzazione della necessità della psiche femminile da parte di quella maschile e traduce un bisogno reale costitutivo dell’uomo. Tale archetipo traduce la scoperta e l’accettazione del femminino fino al suo incorporamento nel legame familiare. Un discorso simile può essere effettuato sull’archetipo della conoscenza, sempre legato al rapporto uomo-donna e che sempre si configura come simbolo di un concetto più vasto e profondamente intrecciato con le radici societarie e religiose dell’uomo: La conoscenza. Maschile (Logos) incontra la capacità di rapporto femminile (Eros) e la loro unione è rappresentata nel rituale simbolico di un matrimonio sacro che è stato al centro dei riti d’iniziazione fin dalle sue origini nelle religioni misteriche dell’antichità20.

La stessa dinamica si verifica per quanto riguarda l‘archetipo dello spirito che funge, all’interno della fiaba, da guida: Il vecchio [...] appare [nella fiaba] quando l’eroe si trova in una condizione critica o disperata, dalla quale può liberarlo soltanto una profonda riflessione o un’intuizione fulminea e felice, dunque una funzione spirituale o un automatismo endopsichico21.

Il vecchio consigliere, figura ricorrente all’interno del genere fiabesco, racchiude il senso di un raccoglimento mistico, un ricongiungimento religioso e liturgico frutto di una riflessione profonda o di una crescita spirituale. 19

Ivi, p. 13. Ivi, p. 134. 21 C.G. Jung, Über die Archetypen des Kollektiven Unbewussten (1935); trad. it. Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino, Einaudi, 1997, p. 211. 20

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Questi esempi chiariscono come miti e fiabe, per Jung, non siano altro che «simboli strumentali tramite i quali i contenuti inconsci possono essere canalizzati nella coscienza e lì integrati e interpretati»22. L’insieme delle considerazioni junghiane sulla fiaba afferma la necessità che il lettore si confronti con essa pronto ad affrontare un percorso all’interno di se stesso e della sua mente non estraneo a turbamenti e alla rievocazione di qualcosa che già è presente e giace dentro di lui. Si tratta di un processo di riscoperta individuale estremamente profondo e radicalmente intrecciato con le basi del suo processo formativo in cui l’uomo è portato a riflettere sulle modalità che caratterizzano la sua stessa psiche. Bruno Bettelheim, a differenza di Freud e Jung, restringe il discorso applicandolo principalmente ai bambini ma le tematiche di fondo, già emerse in precedenza, ritornano con forza. Innanzitutto Bettelheim si sofferma sul perché del “meraviglioso” all’interno della fiaba e sul perché essa sia in grado di suscitare interesse e appassionare i bambini. I temi delle fiabe non sono sintomi neurotici, cioè qualcosa che è meglio comprendere razionalmente per potersene sbarazzare. Tali motivi sono percepiti come meravigliosi perché il bambino si sente compreso e apprezzato fin nel profondo dei suoi sentimenti, speranze e ansie, senza che essi debbano essere trascinati alla superficie ed esaminati alla cruda luce della razionalità, che è ancora al di là della sua portata23.

Anche in questo caso vi è una forte rilevanza di temi inconsci ed arcaici che vengono portati alla luce semplicemente cambiandone la forma: Per poter risolvere i problemi psicologici del processo di crescita – superando delusioni narcisistiche, dilemmi edipici, rivalità fraterne, riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili, conseguendo il senso della propria individualità e del proprio valore, e quello di dovere morale – un bambino deve comprendere quanto avviene nella sua individualità cosciente in modo da poter affrontare anche quanto accade nell’inconscio. Egli può giungere a questa conoscenza, e con essa alla capacità di affrontare se stesso, non attraverso una comprensione razionale della natura e del contenuto del suo inconscio, ma familiarizzandosi con esso, intessendo sogni 22 C.G. Jung, Aion. Untersuchungen zur Symbolgeschichte (1951); trad. it. Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, Torino, Boringhieri, 2005, pp. 158-169. 23 B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici nelle fiabe, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2010, p. 23.

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ad occhi aperti: meditando, rielaborando e fantasticando intorno ad adeguati elementi narrativi in risposta a pressioni inconsce. Così facendo il bambino adegua un contenuto inconscio a fantasie consce, che poi gli permettono di prendere in considerazione tale contenuto24.

Il bambino, attraverso la fiaba, riesce a relazionarsi con il suo inconscio riflettendo e rielaborando processi psichici fondamentali per la sua crescita. Bettelheim, però, non manca di sottolineare come, a prescindere dall’età, la fiaba implichi sempre un incontro/scontro con il proprio inconscio. La Von Franz, allieva di Jung, afferma che le fiabe «ancora più dei miti, illuminano sullo sviluppo della funzione compensatrice dell’inconscio (e) esprimono contenuti inconsci, per i quali la mentalità collettiva, non possiede un linguaggio»25. La Von Franz dedica tre interi libri allo studio della fiaba e al suo rapporto con la psiche ovvero Le fiabe interpretate, Il femminile nella fiaba, L’ombra e il male nella fiaba. La fiaba dunque non è altro che linguaggio dell’inconscio in grado di racchiudere l’universalità del collettivo e la sua connessione con l’intimo psichico individuale. Vi è qualcosa di talmente radicale e spirituale nelle fiabe che la Von Franz collega con il religioso: La cosa preziosa difficilmente raggiungibile è rappresentata da un cerchio, una sfera, dalla pietra filosofale, dalla stella o dal diamante ecc. Questo centro dell’anima è insidiato da pericoli e incontrarlo costituisce una esperienza sconvolgente. È la meta ultima del viaggio di ricerca dell’eroe o dell’eroina che incontriamo nelle fiabe e nei miti e, perlopiù, è anche il fine ultimo delle religioni superiori26.

I concetti di vero, di universale, di umano, l’arcaico e il mitico del genere, ritornano nelle parole di Italo Calvino che, all’interno di Fiabe italiane, con queste parole descrive il genere fiabesco: lo credo questo: le fiabe son vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata ai tempi remoti e serbata nel lento ruminìo delle coscienze contadine fino a noi; sono il 24

Ivi p. 12. M.L. Von Franz, Das Weibliche im Märchen (1977); trad. it. Il femminile nella fiaba, Torino, Boringhieri, 1987, pp. 14-15. 26 M.L., Von Franz, Die Suche nach dem Selbst. Individuation im Märchen. (1985); trad. it. L’individuazione nella fiaba, Torino, Boringhieri, 1987, p. 7. 25

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catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto […] uomini bestie cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste27.

Dal punto di vista strutturale e contenutistico, invece, la fiaba è stata esaminata con straordinaria lucidità e precisione di metodo da Vladimir Propp all’interno del celebre volume Morfologia della fiaba. Per capire come si è mosso Propp innanzitutto dobbiamo capire cosa egli intenda con la parola «morfologia»: Il termine morfologia significa studio delle forme. In botanica si intende per morfologia lo studio delle parti componenti del vegetale e delle loro relazioni reciproche col tutto, in altre parole lo studio della struttura del vegetale. Ma a una «morfologia della fiaba», alla possibilità stessa di concepirla, non credo che si sia mai pensato. Tuttavia è possibile esaminare le forme della favola con la stessa precisione con cui si studia la morfologia delle formazioni organiche. E se non si può dire questo della favola in generale, in tutta la sua varietà, ciò vale in ogni caso per le cosiddette favole «di magia», per le favole «nel vero senso della parola»28.

La forza dell’analisi di Propp sta innanzitutto nella tensione a «una descrizione sistematica preliminare»29. Gli studi precedenti, come quelli di Bolte e Polivka, di Wundt o di Volkov, di Aarne e di Veselovskij avevano cercato di classificare la fiaba prima di ricercarne una definizione scientifica. La conseguenza di ciò è che nessuno dei lavori realizzati sulla struttura della fiaba era mai riuscito a fissare dei principi universali da cui partire. Rispetto agli studiosi che l’avevano preceduto, Propp non parte dall’assunto che quello di fiaba sia un concetto già definito e pronto all’uso ma, piuttosto, comprende la necessità di rinegoziare le basi che hanno portato alla costruzione del concetto. Propp prevede anche che, a proposito del suo lavoro, molti potrebbero parlare di volo pindarico, di un’astrazione fine a se stessa. Lo si voglia o no, pare più utile impostare problemi più concreti, più tangibili, 27

I. Calvino, Fiabe italiane, Milano, Einaudi, 1956, pp. 15-16. V. Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 3. 29 Ivi, p. 9. 28

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vicini a tutti coloro che si interessano semplicemente della favola. Ma questa esigenza si fonda su un errore. Consideriamo il caso analogo: è forse possibile parlare della vita del linguaggio senza sapere nulla delle parti del discorso, cioè di quei determinati gruppi di parole che si distribuiscono secondo le leggi dei loro mutamenti? La lingua viva è un dato concreto, la grammatica è il suo substrato astratto. Questi substrati stanno alla base di moltissimi fenomeni di vita ed è proprio ad essi che le scienze rivolgono la loro attenzione. Senza lo studio di questi fondamenti astratti non può essere spiegata nessuna entità concreta30.

Una volta stabilita l’importanza del suo lavoro Propp effettua una ricerca che ha visto coinvolto un numero sterminato di fiabe: «In un primo momento esso [il nostro lavoro] prese la forma di un’ampia ricerca con una grande quantità di tabelle, schemi, analisi, che risultò impossibile pubblicare già solo a motivo delle proporzioni eccessive»31. A seguito della sua indagine Propp fu in grado di comprendere che, in tutte le fiabe da lui esaminate, vi era un numero limitato di azioni che tracciavano lo scheletro dello sviluppo narrativo. Quello che lo studioso russo constata è che «cambiano i nomi (e con essi gli attributi) dei personaggi, ma non le loro azioni, o funzioni, donde la conclusione che la favola non di rado attribuisce un identico operato a personaggi diversi». Ciò dà la possibilità di studiare la favola «secondo le funzioni dei personaggi. Per l’analisi della favola è quindi importante che cosa fanno i personaggi e non chi fa e come fa, problemi, questi ultimi, di carattere accessorio»32. A partire da ciò Propp riesce a dare una definizione che stabilisce una volta per tutte i principi che sono alla base delle fiaba, incentrando la sua classificazione sulle azioni che la caratterizzano33 dando allo studio della fiaba una vera e propria base scientifica:

30

Ivi p. 23. Ivi p. 4. 32 Ivi, p. 26. 33 A tale riguardo può essere interessante ricordare anche le considerazioni di Max Lüthi che afferma che la fiaba popolare (nel caso di Luthi si parla però della fiaba esclusivamente europea) sia totalmente incentrata sull’azione e sul continuo succedersi di avvenimenti. Tutti i personaggi sono asserviti all’azione. La fiaba «pone i suoi eroi in luoghi lontani e pericolosi e non si fissa sul tesoro, sul regno o sulla sposa che alla fine vengono conquistati, bensì sull’avventura in sé». M. Lüthi, La fiaba popolare europea. Forma e natura, cit., pp. 108 – 110. 31

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La regolarità della struttura delle favole di magia permette di darne una definizione ipotetica che può essere così espressa: la favola di magia è un racconto costruito secondo l’ordinata successione delle funzioni riportate, nei loro diversi aspetti, successione che, per ogni racconto, ne vede alcune mancanti e altre ripetute34. Le funzioni di cui parla Propp e che, secondo il suo studio, sono gli elementi costitutivi delle fiabe sono le seguenti: Tabella 3 N°

Funzione

Descrizione

1

Allontanamento

2 3 4

Divieto (o ordine) Infrazione Investigazione

5

Delazione

6

Tranello

7 8

Connivenza Danneggiamento

9

Mediazione

10 11

Consenso Partenza

12

Funzione del donatore Reazione

Uno dei personaggi inzialmente descritti deve partire L’eroe è sottoposto a un divieto Il divieto viene infranto L’antagonista effettua delle ricerche sull’eroe L’antagonista riesce ad ottenere le informazioni L’antagonista crea una trappola per l’eroe L’eroe cade nella trappola L’antagonista genera una mancanza nell’eroe o gli procura un danno La disgrazia è resa nota e genera inevitabili conseguenze L’eroe contrasta le difficoltà L’eroe parte: si tratta di una vera e propria svolta all’interno della storia? Il donatore valuta il valore dell’eroe mettendolo alla prova L’eroe affronta e supera la prova

13 34

Simbolo e k q v w

y X/x Y W W D E

V. Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 105.

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14 15

16 17 18 19

20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31

Fornitura

L’eroe, grazie al donatore, entra in possesso del mezzo magico Trasferimento L’eroe raggiunge o viene portato nel luogo ove è collocato ciò che sta cercandoR Lotta Scontro diretto tra l’eroe e l’antagonista Marchiatura All’eroe è impresso un marchio Vittoria L’eroe trionfa Rimozione La mancanza iniziale o il danno a cui l’eroe era stato sottoposto inizialmente viene rimosso Ritorno L’eroe ritorna? Persecuzione L’eroe viene perseguitato Salvataggio L’eroe riesce a salvarsi Arrivo in incognito L’eroe torna a casa o arriva in un altro paese in incognito Pretese infondate Il falso eroe effettua delle richieste senza un vero motivo Prova all’eroe è imposta una prova particolarmente ardua Adempimento L’eroe riesce a superare la prova Identificazione L’eroe viene riconosciuto Smascheramento Il falso eroe o l’antagonista viene smascherato Trasfigurazione L’eroe assume nuove sembianze Punizione L’antagonista viene punito Lieto fine L’eroe ottiene il premio finale

Z R

L M V Rm

– P S O F C A I Sm T Pu N

Dopo aver analizzato tali ricerche, pur estremamente diverse e situate in ambiti di studio apparentemente lontanissimi, possiamo affermare che, a prescindere dalle diverse interpretazioni che ne sono state date negli anni, alcuni punti in comune di fondamentale rilevanza sono a tal punto ricorrenti che potremmo sostenerli come universalmente accettati:

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• Arcaicità: la nascita della fiaba è situata in tempi lontanissimi di cui sembra conservare una traccia. • Natura inconscia/archetipica: il genere fiabesco ci dice qualcosa della psiche umana, dei suoi processi di maturazione ed evoluzione. • Archivio sociale: la fiaba ci racconta qualcosa della società in cui si è formata, siano essi i suoi rituali, le modalità di formazione, le tipologie di vincoli, le credenze etc. • Espressione di un bisogno: Il genere umano, finché se ne ha traccia, pare aver sempre esplicato la necessità intrinseca di raccontare, scrivere, comunicare attraverso la fiaba. Tali elementi sembrano essere racchiusi in una configurazione che può essere inscritta all’interno della struttura elaborata da Propp che dà strumenti validissimi di analisi per confrontarsi con il genere attraverso la configurazione di uno schema ben preciso. La fiaba ci racconta qualcosa non solo della nascita della società ma anche della sua condizione attuale, della psiche umana, del bisogno intrinseco e quotidiano che essa genera all’interno di ogni individuo. Tra tutte le diverse forme che la fiaba ha assunto nel corso della sua storia, nell’era che Debray chiama «Videosfera»35, era quasi inevitabile che fosse il cinema a mutarsi in uno strumento di traduzione della necessità fiabesca intrinseca all’animo umano così ben evidenziata dagli studi precedentemente citati. Il cinema d’animazione del Rinascimento disneyano, dunque, testimonia qualcosa di noi stessi, delle nostre trasformazioni, del nostro Io, è interprete di una tensione mai sopita perché inalienabile dalla nostra più intima natura e, proprio per questo, risulta utile (se non indispensabile) esaminare la fiaba al presente, lì dove quotidianamente, consciamente e non, essa diviene parte delle nostre azioni e del nostro immaginario. 35 R. Debray, Vie et mort de l’image (1995); trad. it. Vita e morte dell’immagine, Milano, Il Castoro, 1999, pp.169-170: «Le tre cesure mediologiche dell’umanità – scrittura, stampa, audiovisivo – ritagliano nel tempo dell’immagine tre continenti distinti: l’idolo, l’arte, il visivo [...] Alla logosfera corrisponderebbe l’era degli idoli in senso lato (dal greco eidolon, immagine). Essa si estende dall’invenzione della scrittura a quella della stampa. Alla grafosfera l’era dell’arte, la cui epoca si estende dalla stampa alla televisione a colori (altrettanto pertinente, come vedremo, della fotografia o del cinema). Alla videosfera l’era del visivo (secondo il termine proposto da Serge Daney)».

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L’immaginario digitale La tecnologia avanza, i computer iniziano a diventare beni alla portata di tutti, internet inizia a diffondersi a livello globale e i media sono divenuti i nuovi occhi attraverso i quali il mondo guarda se stesso. Il virtuale, gradualmente, impregna il mondo. Se il tasso di realtà si riduce ogni giorno, è il medium stesso che passa nella vita, diventata rituale ordinario della trasparenza. Tutto questo apparato digitale, numerico, elettronico, non è altro che l’epifenomeno della profonda virtualizzazione degli esseri umani. E se l’immaginario collettivo ne è così colpito, ciò accade perché siamo già, non in qualche altro mondo, ma in questa vita, allo stato di socio-foto, di video-sintesi. Il virtuale e i media sono la nostra funzione clorofilliana36.

La perfezione economica e tecnologica è la più grande risorsa che l’uomo è riuscito a creare per progredire e completare la sua evoluzione o si tratta della più grande arma di distruzione mondiale? Come può elaborare il cinema tale condizione di instabilità, a cavallo tra il sogno della completezza e l’incubo della finitudine della specie? Nel 1956 Morin, parlando di Immaginario, afferma che il cinema: […] si è lanciato, sempre più in alto, verso un ciclo di sogno, verso l’infinito delle stelle, bagnato di musica, popolato di adorabili demoniache presenze, lontano dal quotidiano di cui avrebbe dovuto essere secondo ogni apparenza il servitore e lo specchio37.

La Pixar e il Rinascimento Disney sembrano incontrarsi sul confine delle possibilità cinematografiche, ai due lati dello specchio. Mentre l’anima fiabesca della Mouse House segue la spinta all’astrazione oniricamente libera e formalmente rigida, la Pixar sceglie di utilizzare proprio la sua funzione di specchio della realtà per spiccare il volo, esattamente come accade per la 36 J. Baudrillard, La scomparsa della realtà, Antologia di scritti, Milano, Fausto Lupetti, 2009, p. 13 da Le crime parfait, (1994); trad. it. Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina, 1996. 37 E. Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire (1956); trad. it. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 26.

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casa di Carl in Up. La realtà, seppure tremenda, crudele, intrisa di malinconici fallimenti e rinunce, si arma di ali immaginarie liberandosi dai confini del mondo senza alterarlo. All’armonia ordinata del sogno, indice del bisogno intrinseco di fiaba spettatoriale, si oppone il desiderio di una realtà rinnovata e concreta. Chi si reca al cinema avverte sempre più il peso dell’impalpabilità del reale che tende ad essere confinato al di fuori di esso. L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi: sia che questo accada con il linguaggio, il quale ha una funzione di esorcismo; sia che ciò capiti con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo, in un processo irreversibile di transfert e sostituzione38.

I principi basilari della natura umana, ormai assuefatta al computer e imprigionata dai pixel, si annidano proprio negli effetti speciali e nel nuovo cinema virtuale che, se generalmente serviva a raccontare storie che sprigionavano l’ambizione all’immortalità dell’uomo, con la Pixar serve a riportare in vita e salvaguardare le basi della mortalità. Non viene esorcizzata la morte, bensì il rischio di «proiettarsi in un mondo fittizio e aleatorio»39 perdendo definitivamente ogni contatto con il mondo. È questa la posta in gioco della Virtualità. E non si può dubitare della sua ambizione assoluta. Questa effettuazione radicale, se fosse condotta a termine, sarebbe l’equivalente di un delitto perfetto. Mentre il delitto “originale” non è mai perfetto e lascia sempre delle tracce – noi stessi in quanto esseri viventi e mortali siamo la traccia di questa imperfezione criminale – lo sterminio futuro, quello che risulterebbe da una determinazione assoluta del mondo e dei suoi elementi, non lascerebbe invece alcuna traccia40.

Perché Toy Story, A Bug’s Life e Toy Story 2 iniziano incorniciando un cielo finto? Non è sicuramente casuale la scelta della caratterizzazione di Woody, il giocattolo protagonista della storia.

38

J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 41. Ibidem. 40 Ivi, p. 40. 39

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La cosa interessante è, ovviamente, che Woody è un cowboy e che anche il paesaggio “domestico”, ovvero l’arredo della camera da letto di Andy, è punteggiato da richiami al mito della frontiera, con scatoloni dipinti a forma di mucca, manifesti della Monument Valley, disegni e ritratti di cowboy e sceriffi41.

Come fanno notare Jean-Louis Rieupeyrout e André Bazin in Il Western, ovvero il cinema americano per eccellenza42, il western è il genere della cinematografia americana che racchiude al suo interno la più forte componente mitica legata alla società americana. Esso si contraddistingue per «quei caratteri di aggressività, di coraggio, di avventura, d’individualismo, di lealtà che costituiscono il mito della società americana»43. Tuttavia, invece di trovarci all’interno di terre vergini e nature selvagge e incontaminate, siamo trascinati all’interno di una semplice cameretta di un bambino americano. Il fantastico, inizialmente, emerge solo da parole fantasiose, nessun castello o bosco incantato compare dinanzi ai nostri occhi. Del resto anche il cielo finto si contrappone fortemente al classico immaginario western. Deleuze ci fa notare che in questo genere: L’inglobante ultimo è il cielo e le sue pulsazioni, non soltanto in Ford ma anche in Hawks che fa dire a uno dei suoi personaggi del Grande Cielo: è un grande paese, la sola cosa ancora più grande è il cielo […] Inglobato dal cielo, l’ambiente ingloba a sua volta la collettività44.

Il passaggio da una volta celeste che incornicia paesaggi sconfinati alla decorazione della stanza di un bambino ci suggerisce come, nel contemporaneo, veniamo inglobati all’interno dell’artificio virtuale. La differenza tra reale e digitale sembra, con il passare degli anni, assottigliarsi sempre più, lasciando intravedere dietro l’orizzonte un confine sempre più connesso a un nuovo sguardo elettronico. Al mito western si sostituisce lo spettro dell’uomo-macchina e a farla da padrona è la prossimità spazio-temporale all’ambiente spettatoriale inevita41

E. Dell’Agnese, in Le frontiere del Far West: forme di rappresentazione del grande mito americano, a cura di S. Rosso, p. 122. 42 Cfr. J. Rieupeyrout, A. Bazin, Le western ou le cinéma américain par excellence (1953); trad. it. Il Western, ovvero Il cinema americano per eccellenza, Rocca San Casciano (Fo), Cappelli, 1957. 43 G. Rondolino, Storia del cinema, Torino, Utet, 1997, p.71. 44 G. Deleuze, L’immagine tempo. Cinema 2, cit., p. 356.

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bilmente contaminato dal trauma digitale, intimamente arroccato nella convinzione di una paura della fine dell’era dell’umano. Da questo punto di vista il Rinascimento Disney e il cinema Pixar intraprendono due strade divergenti. Il primo sceglie di affrontare il trauma sociale legato al digitale destoricizzandolo e agendo sull’inconscio spettatoriale e, per fare ciò, decide di ricorrere alla fiaba; il secondo, invece, mostra apertamente la ferita inferta dalla nuova struttura sociale che ci ingloba, esprimendo ed esorcizzando, attraverso il digitale, le paure che il digitale stesso alimenta. Due strade divergenti che pure, dal 1995 al 1999, scorrono parallele e raccontano i desideri, i bisogni e i timori dell’uomo all’interno dell’ormai affermata Rivoluzione Digitale. Bisogna altresì ricordare che se il Rinascimento Disney nel 1999 si conclude definitivamente, nello stesso anno la Pixar è solo all’inizio della sua ascesa e ciò, probabilmente, anche a causa dell’accentuazione del clima di paura e ansia legato allo spettro del crollo della società americana che si mostra in tutta la sua devastante simbolicità con l’attacco al World Trade Center. L’11 Settembre non fa che mettere in evidenza la necessità di ripensare i confini del mondo e i sentieri della globalizzazione occidentalizzante e digitalizzante. Conseguentemente, la Pixar si caratterizza come precorritrice del più grande trauma contemporaneo e rafforza le sue tesi dichiarando, film dopo film, la necessità di una rivendicazione di umanità. Il terrorismo, dinanzi all’egemonia del clone, del capitale, del virtuale, documenta la «tentazione di spezzare questa simmetria, di ricostruire una asimmetria, e dunque una singolarità»45. Ciò che ha davvero colpito l’America e il mondo è stato il riemergere della possibilità di un’altra strada rispetto all’egemonia statunitense, la fallibilità di un sistema che ha aperto degli spiragli per la creazione di un altro ordine che, però, è stato immediatamente rifiutato da Bush attraverso un’ulteriore ed estrema manifestazione di forza. Neanche il tempo di somatizzare il lutto, che parte l’attacco ai colpevoli e si scatena immediatamente il desiderio di vendetta attraverso la cosiddetta «guerra al terrorismo» dichiarata dall’amministrazione Bush e intenzionata a processare sia Bin Laden che Al-Qa’ida e ad eliminare ogni forma di terrorismo. Conseguenza diretta di ciò è l’invasione dell’Afghanistan nel 45

J. Baudrillard, E. Morin, La violence du monde (2003); trad. it. La violenza del mondo, Pavia, Ibis, p. 16.

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2001, la lotta contro i Talebani e, a partire dal 2003, la guerra in Iraq contro Saddam Hussein. Il mondo islamico, per la maggioranza degli occidentali e in particolare per gli Americani, è colpevole di una strage ingiustificata, cruenta e barbara e la giustizia va riconquistata attraverso un ripristino della potenza precedente all’attacco. La soluzione, dunque, è la guerra. A prescindere dalle implicazioni americane dirette all’interno dello stesso attentato alle Twin Towers, suggerite da diverse teorie di complotti e avanzate da numerosi film (il più famoso dei quali è Fahreneit 9/11 di Michael Moore, uscito nelle sale nel 2004), il terrorismo non è stato solo un attacco cieco e violento ma una reazione al dominio che gli USA stavano instaurando sull’immaginario globale. Il terrorismo è una risposta, non solo all’oppressione materiale, ma anche alla sfida che il potere mondiale rappresenta per il resto del mondo. La posta in gioco è dunque simbolica: di orgoglio, fierezza e morte. Ed è poiché tale posta in gioco è così radicale, molto più che economica o politica, che la forma stessa di questo fenomeno e la sua violenza sono così diverse da un evento “storico”46.

Non è bastato Bush, dunque, ad allontanare i fantasmi del World Trade Center, non poteva essere sufficiente la guerra a scacciare l’idea della singolarità che, nel post-11 Settembre, pian piano si è introdotta anche all’interno dell’immaginario cinematografico generando un ripensamento della strategia globalizzante americana attraverso l’accentuazione di quella stessa rottura comprovata dall’attentato. Il concetto di singolarità, tuttavia, sembra venire sviluppato, in particolare all’interno della cultura americana, attraverso due strade diametralmente opposte. Se da un lato la singolarità baudrillardiana sembra essere l’occasione per riscattare l’umanità perduta, rubata dall’era digital-capitalistica, dall’altro si erge l’idea di una singolarità non più vista come un modello di comportamento che riscatta l’ individualità ma come un periodo storico ben definito dallo studio dello statunitense Ray Kurzweil che prevede, nella prima metà del Ventunesimo secolo, tre differenti rivoluzioni all’interno della Genetica, della Nanotecnologia e della Robotica che si sovrapporranno dando vita a una nuova era. 46

J. Baudrillard, L’agonia del potere, a cura di M. Serra, Milano, Mimesis, p. 16.

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La Singolarità rappresenterà il culmine della fusione fra il nostro pensiero e la nostra esistenza biologica con la nostra tecnologia, che darà un mondo ancora umano ma che trascenderà le nostre radici biologiche. Dopo la Singolarità non ci sarà distinzione tra umano e macchina o fra realtà fisica e virtuale47.

Suddetto pensiero nasce a partire da una concezione di evoluzione esponenziale che riguarda l’essere umano e che, ponendo come base della velocità di crescita della nostra tecnologia la Legge di Moore, che nel 1965 ha ipotizzato che le prestazioni di un microprocessore sarebbero raddoppiate ogni ventiquattro mesi (tale legge è stata rispettata fino agli anni Novanta, in seguito il periodo in considerazione si è ridotto a diciotto mesi), considera che già a partire da un periodo intorno al 2045 la fusione tra uomo e macchina sarà inevitabile e porterà al superamento dei confini dell’individuo. Se da un lato, con Baudrillard, con l’11 Settembre abbiamo «l’irruzione del simbolico, della violenza simbolica»48 in grado di scuotere l’uomo e ricondurlo alla propria intima natura, dall’altro ci troviamo dinanzi a un progetto di crescita concreto che prevede il raggiungimento di un’immortalità artificiale attraverso il progresso tecnologico. Già oggi, afferma Kurzweil, «cominciamo a imparare come si può riprogrammare la nostra biologia per eliminare praticamente le malattie, aumentare drasticamente le potenzialità umane ed estendere radicalmente la vita»49. Le trasformazioni sono molto accelerate e ci stimolano a proporre anche l’apparizione di nuove forme d’Intelligenza digitale generate da “ibridi” biologico-computazionali. In effetti, gli esperimenti di laboratorio che connettono neuroni animali e microprocessori aumentano ogni giorno e gli enormi investimenti realizzati nella nanotecnologia tentano nuovi procedimenti di controllo dei processi neurobiologici. Tutto ciò, grazie alle protesi neuro-digitali, sfocerà in un’esplosione dell’intelligenza digitale difficile da immaginare50.

Non è un caso che le tecniche dell’animazione, dal 2000 in poi, finiscano per confondersi sempre più frequentemente con le dinamiche di creazione di 47

R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Milano, Apogeo, 2008, p. 9. J. Baudrillard, E. Morin, La violenza del mondo, cit. p. 26. 49 R. Kurzweil, La singolarità è vicina, cit. p. 197. 50 A. Battro, P.J. Denham, Verso un’intelligenza digitale, Milano, Ledizioni LediPublishing, 2010, p. 80. 48

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nuovi “super-uomini”, in particolare creati sull’onda dei successi fumettistici della Marvel. Il digitale finisce per alimentare la sete di super poteri e la creazione di personaggi leggendari ma dalla personalità frastagliata, in balia di conflitti interiori tanto marcati quanto le loro stesse potenzialità. Così si spiega il successo di eroi come Spiderman (protagonista di una trilogia divisa tra 2002, 2004 e 2007 e in attesa di un reboot nel 2012), Batman (Nolan ha dato vita a una trilogia con Batman Begins del 2005 , The Dark Knight del 2008 e The Dark Knight Rises del 2012), gli X-Men (a partire dal 2000, anno in cui è uscito il primo X-Men vi sono stati i sequel XMen 2 nel 2003, X-Men–The Last Stand nel 2006 e i prequel, X-Men Origins-Wolverine nel 2009 e X-Men–First Class nel 2011), i Fantastici Quattro (nel 2005 è uscito Fantastic Four e nel 2007 Fantastic Four: Rise of the Silver Surfer), Thor (Thor è stato realizzato da Kenneth Branagh nel 2011 e ha un sequel già in cantiere il cui debutto nelle sale è previsto per il 2013), Iron Man (di cui sono stati lanciati i sequel Iron Man 2 nel 2010 e Iron Man 3 nel 2013) e l’elenco potrebbe continuare. Proprio quest’ultimo è il personaggio forse più rappresentativo della strada intrapresa dell’animazione. Come nota Ubaldo Faldini sulla scorta delle riflessioni effettuate da Anders, nel contemporaneo è sempre più diffusa la paura di un «uomo senza mondo»51: La fenomenologia andersiana delle dinamiche e delle forme di soggettivazione indica così un protagonista impersonale dell’odierna perdita di esperienza e della «progressiva» nientifìcazione del tempo nel pieno dispiegamento della potenza della tecnica, responsabile materiale del disagio esistenziale, della «vergogna prometeica», che consiste, lo ripeto, nella riaffermazione della contingenza dell’uomo e nel dislivello tra quest’ultimo e il mondo artificiale dei suoi prodotti, destinato a soppiantarlo definitivamente in un passaggio/paesaggio di «segno» nichilista che va da un «uomo senza mondo» a un «mondo senza uomo»52.

Iron Man esorcizza tale timore smaterializzando il dislivello tra l’uomo e gli artifici che ha creato e trasforma la nuova unione in una vera e propria corazza che permette all’umano, così come accade per Stark, di potenziarsi 51

Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. U. Fadini, Sviluppo tecnologico e identità personale: linee di antropologia della tecnica, Bari, Dedalo, 2000, p. 331. 52

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e assurgere a una nuova identità che consente il distacco dalla cultura dell’immagine e del nulla. L’armatura di Tony è una vera e propria corazza, uno strato di protezione da una contingenza storica che lo abbrutisce spiritualmente, relegandolo nella solitudine interiore e portandolo a compiere azioni a volte poco dignitose e malamente autoironiche, le quali si presentano come l’unica modalità per poter essere accettato e reso idolo dalla società. Egli si fa spettacolo, poiché la sua contemporaneità lo vuole spettacolo, fenomeno da baraccone, simbolo di frivoli desideri, di divertimento oltre il limite, di sfrenato e inarrestabile nulla53.

Iron Man suggerisce, così come Kurzweil, una simbiotica accettazione, una nuova funzionalità reciproca in grado non solo di conferire straordinarie doti fisiche ma anche un potenziamento delle doti mentali individuali. Sintomatico di ciò è il nuovo sguardo ipermediale di Iron Man, in grado di guardare e contemporaneamente avere informazioni su cosa osserva, effettuare ricerche, collegarsi direttamente con il mondo e con le sue potenzialità. La visione diviene ipertesto54. Iron Man è il futuro dell’umanità, la sua salvezza dal vuoto, la resurrezione dell’uomo attraverso la macchina. L’abisso circonda il personaggio ed è chiaramente concretizzato, ad esempio, dalla ridondanza dei media nella presentazione iniziale del protagonista, portatrice di immagini mistificatrici, propagandistiche di un messaggio senza contenuto. Le parole si svuotano mentre si fondono con le copertine dei giornali, dietro la maschera mediatica che celebra il genio patriota si cela un ricco tombeur de femmes tendente all’alcolismo. Eppure, è proprio questo che attira il pubblico: la rivincita sul vuoto. Si tende a considerare che, all’interno del cinema contemporaneo, vi sia uno straordinario successo del fumetto in toto. A ben guardare, però, non è il fumetto in generale ad avere grande successo bensì una particolare tipologia di esso rappresentata, nella maggior parte dei casi, proprio dalla produzione firmata Marvel. 53

E. Palese, Da Icaro a Iron Man, Milano, Mimesis, 2011, p. 91. G. Landow, Ipertesto, Bologna, Baskerville, 1993, p. 92: «L’ipertesto è un testo composto da blocchi di parole (o immagini) connesse elettronicamente secondo percorsi molteplici in una testualità aperta e perpetuamente incompiuta descritta dai termini collegamento, nodo, rete, tela, percorso». 54

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Si deve al genio di Stan Lee, direttore della Marvel negli anni Sessanta, la rivoluzione copernicana che toccò al mondo dei supereroi, cioè l’ìntroduzione dell’elemento psicologico, fortemente connotato, e scaturito dal contrasto che sovente nasce dall’acquisizione del super potere (incidentalmente acquisito) e la personalità interiore del protagonista che trova difficoltà nel gestirlo Supereroi con super problemi, lontani dalla monolitica invincibilità e sicurezza di Superman, psicologicamente fragili, colti in bilico tra il Bene e il Male, rifiutati in nome della loro “diversità” dal consorzio umano che li teme. E così ecco tutte le sfumature del problematico trapasso tra adolescenza e maturità dell’Uomo Ragno, l’ossessionante solitudine dell’araldo cosmico Silver Surfer: il conflitto interiore dello scienziato che si trasforma in Hulk, la discriminazione razziale che colpisce gli eroi di colore come Falcon e Luke Cage, la disperazione degli uomini mutanti trattati come mostri dalla società come gli X-Men, la commiserazione di Ben Grimm tramutato in un mostruoso colosso arancione, addirittura le tare genetiche e le nuove malattie come l’Aids sopportate dagli Alpha Flight e così via55.

Sono i supereroi che devono affrontare una «dolorosa introspezione psicologica»56 a suscitare un grande interesse da parte del pubblico contemporaneo, in particolar modo statunitense. L’America, essendo stata colta in una fase di radicale trasformazione provocata dal trauma dell’11 Settembre, non può che essere attratta da figure che, metaforicamente, attraversano lo stesso tipo di conflitto interiore, aiutando a metabolizzare sullo schermo una trasformazione interna che, nell’auspicio comune, porta alla creazione di un nuovo equilibrio più attento ai valori, più cauto dal punto di vista bellico, intimamente legato con la nuova tecnologia e in grado di inoltrarsi verso un nuovo concetto di mondializzazione57. La Pixar, in particolare attraverso film come Cars o Wall-e, dimostra chiaramente di dirigersi verso una strada radicalmente diversa. Donando persino alle macchine un imperfetto cuore umano e tracciando un’ipotesi di “evoluzione” (che non a caso in Wall-e cita, come in Toy Story 2, 2001: Odissea nello spazio di Kubrick) estremamente catastrofica, dimostra la desolazione di un mondo concepito fuori dalla morbida e vulnerabile umanità che ha preferito, erroneamente, inseguire un’ipotesi di transustanziazione digitale. 55 M. Tetro, “Marvels” on screen: supereroi problematici, in R. Chiavini, A. Lazzaretti, L. Somigli, M. Tetro, Il cinema dei fumetti. Dalle origini a Superman Returns, Roma, Gremese, 2006, p. 85. 56 Ibidem. 57 Cfr. T. Ceruso, Un supereroe traumatizzato. Iron Man (2008) di Jon Favreau, in Shooting from heaven, di Giuliano Fanara (a cura di), Roma, Bulzoni, 2012

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La Pixar, non a caso, auspica un trionfo delle fallacità, un gioioso tripudio degli umili. Woody è destinato ad invecchiare e rompersi ma il film non tratteggia il percorso che lo porta all’invulnerabilità bensì la strada che costeggia l’accettazione dei propri limiti. Carl è un uomo ormai anziano e ha perso la donna che amava, ciò nonostante egli può scegliere di donare ancora una volta se stesso, aprirsi e ricominciare ad amare. Nemo impara che la perfezione dell’acquario è illusoria e che la realtà, per quanto pericolosa, è l’unica a dare un senso alla vita. La casa di produzione di Emeryville spezza il progetto di singolarità di Kurzweil e accetta, con una sorta di dolce malinconia, la felicità di essere mortali, la gioia di cadere e rialzarsi, l’orgoglio di essere (e voler restare) per sempre “solo” umani. Forse l’era dell’uomo sta per finire ma, finché la Pixar continuerà su questa strada, l’umanità continuerà ad avere, paradossalmente proprio nella tana del virtuale, un porto sicuro.

Chi ha incastrato Vladimir Propp? Generalmente si studia il passato per capire il futuro ma, in questo caso, il proposito è quello di fare esattamente l’opposto. Capire cosa accade subito dopo il Rinascimento Disney (e cosa capita al paradigma dello studioso russo) ci fornisce delle precise coordinate sui desideri degli spettatori e sull’evoluzione dell’immaginario in cui sono immersi. Il digitale e lo spettro del fallimento del capitalismo creano le basi del cambiamento, il pubblico viene inglobato in una metamorfosi estesa all’intera società occidentale e, conseguentemente, l’immaginario cambia. Ne deriva una nuova forma di animazione che spezza il fiabesco e si dirige verso nuove strade. La stessa Disney, anche separatamente dalla Pixar, chiude il suo Rinascimento nel 1999 e decide di intraprendere nuovi percorsi. Il 2000 è l’anno in cui la Mouse House decide di spezzare il paradigma fiabesco con Le follie dell’imperatore che dimostra che, sebbene il desiderio sia quello di lasciarsi il passato alle spalle, una nuova strada è ancora lontana. Il passato pesa sulla storia di Kuzko e compagni che, nonostante sia legata a un modello già di per sé parodico della fiaba classica (sfruttando lo spunto de I 150

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vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen), finisce per costruire un percorso spurio, a metà tra il fiabesco classico (a cui si lega proponendo una struttura simile a quella fissata da Propp) e un’accentuazione del metacinema che prevede un più frequente sguardo in macchina, un rapporto diverso e più consapevole con i fruitori e l’abbandono della forma musical. Ciò nonostante, l’eliminazione degli scenari d’incanto è solo parziale, i valori che sostengono la storia e la conformazione di base della struttura sono quelli classici, gli avvenimenti sono ancora tutti fortemente coniugati al passato. L’eroe è ancora una volta il principe, la cattiva è ancora la vecchia strega, il “c’era una volta” introduce nuovamente una storia magica e incantata. Invertendo e rimescolando gli ingredienti emerge una forma favolistica rimaneggiata che diverte ma non esalta, scontenta i classicisti e non soddisfa i rinnovatori e, a coronamento di ciò, incassa un flop al botteghino. Il pubblico si dimostra ormai stanco di principi, re e trasformazioni magiche e ha bisogno di spezzare il suo rapporto con la fiaba distruggendo completamente tale paradigma. Per comprendere tale processo è necessario uscire dall’orizzonte Disney e prendere atto dell’esplosione della “concorrenza”. È la DreamWorks SKG a dare vita al film che più di tutti è riuscito a canalizzare questa tensione e a metabolizzarla cinematograficamente. Proprio Katzenberg, dopo aver lavorato per anni per la Walt Disney Pictures (supervisionando film come The Lion King), decide, in collaborazione con Steven Spielberg e David Geffen (dai nomi dei tre fondatori nasce la sigla SKG) di creare nel 1994 una nuova casa di produzione che, dopo il primo lungometraggio Z la formica del 1998 (che tenta fin dal principio di realizzare una forma di animazione per un pubblico diverso da quello Disney giocando su trame impegnate e ingaggiando attori come Woody Allen, Dan Aykroyd, Sharon Stone, Gene Hackman, Sylvester Stallone etc.) lancia nel 2001 Shrek, il lungometraggio che più di tutti testimonia quanto la tensione al superamento della fiaba, all’inizio del terzo millennio, sia nella sua fase più dinamica (non dimenticando che, nello stesso anno, i botteghini statunitensi vedono lo straordinario successo de Il Grinch). Shrek percorre il sentiero fiabesco ma decide di dissacrarlo passo passo, oculatamente, violentemente e, talvolta, volgarmente. La storia inizia con il classico Prologo letto da quella che sembra una tradizionale voce narrante. Le pagine di un antichissimo libro scorrono magicamente sullo schermo portando all’estremo la sensazione di déjà vu. 151

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All’improvviso una grande e tozza mano verde irrompe nell’inquadratura, strappa la pagina del libro lasciando lo scarico di uno sciacquone a dare un efficace suggerimento sul suo riutilizzo. In seguito, ripercorrendo la struttura fissata da Propp, il film si diverte a sovvertire l’ordine dei fattori creando simpatia ed empatia all’interno degli spettatori, desiderosi di rompere gli schemi fissi. Vediamo più dettagliatamente come tale filo viene dipanato seguendo e distruggendo il paradigma proppiano. La situazione iniziale non ci parla di principi e cavalieri bensì di un orco felice di sguazzare nella sua palude in solitudine, l’allontanamento non avviene per salvare la principessa o i propri cari bensì per scacciare i «cosi» della fiaba che hanno invaso il territorio di Shrek (ulteriore segnale del desiderio di allontanare il ben radicato modello proppiano-disneyano), il divieto imposto al protagonista non deriva dal pericolo di mali oscuri perché è Shrek il male oscuro a cui è vietato entrare in città e avvicinarsi al principe, l’infrazione deriva dall’irruzione effettuata dall’orco in città che comporta un duello tutt’altro che cavalleresco (le dinamiche sono più quelle di un combattimento di wrestling). Il principe (che è anche, sempre in concordia con l’inversione dei fattori, l’antagonista della storia) effettua prima la sua investigazione studiando le motivazioni di Shrek, in seguito attua una mediazione offrendo all’orco di salvare una principessa al suo posto. Shrek, convinto dal patto del principe, cade nella sua trappola e accetta contemporaneamente la connivenza. Ripercorrere il modello fiabesco è la strada migliore per destrutturarlo e ridicolizzarlo e, dunque, tale costante ricorrere al paradigma di Propp diviene automaticamente il leitmotiv del film. Ciò emerge ancora più chiaramente nel finale in cui assistiamo, come abitudine, alla celebrazione dell’archetipo delle nozze in cui, al contrario dei film di stampo disneyano come La Bella e la Bestia, è la principessa a trasformarsi in un orripilante orco. Una volta trovato il vero amore Fiona dovrebbe prendere la forma dell’amore58 e, proprio per questo, ella prende la forma dell’imperfezione che lo caratterizza. Rovesciando i canoni di stampo fiabesco generalmente legati alla kalokagathia, l’unione imprescindibile di bellezza interna ed esterna, l’incantesimo è spezzato e la fiaba viene ridicolizzata. Viene frantumata la perfezione del paradigma proppiano e vengono capovolti i personaggi della storia (l’eroe è un orco, il nobile destriero e aiutante 58 La profezia afferma: «By night one way, by day another. This shall be the norm... until you find the true love’s... and then take love’s true form».

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magico è un ciuchino, la principessa si rivela un’orchessa, il principe è un malvagio nanerottolo e così via). Un nuovo ordine, rigorosamente caratterizzato dal sovvertimento di quello precedente, si instaura nell’immaginario collettivo. Un forte desiderio di cambiamento che la Pixar aveva espresso, seppure in una forma radicalmente diversa, attraverso Toy Story, A Bug’s Life e Toy Story 2, e che la DreamWorks SKG decide di perseguire collocandosi come punto di riferimento dell’antifiaba. Tale decisione viene peraltro esplicitata anche da film successivi quali Shrek 2 (2004), Shark Tale (2004), Madagascar (2005), Kung Fu Panda (2008), fino all’attualissimo Il gatto con gli stivali (2011) Emerge un rinnovato senso di singolarità che non può sicuramente essere rispecchiato dal classico modello fiabesco del Rinascimento Disney. La magia, l’incanto, il mito vengono lasciati alle spalle in nome della concretezza, dell’umanità, della realisticità. L’11 Settembre 2001 porta la civiltà che si sta affacciando al terzo millennio a un brusco risveglio in cui l’uomo occidentale (e in particolare quello americano) si riscopre clonato, globalizzato, destabilizzato, digitalizzato, evirato, eclissato dal contemporaneo, la sua idea del mondo crolla insieme alle Twin Towers e si accorge di essere testimone di un evento simbolico mondiale. Di eventi mondiali, ne abbiamo avuti tanti, dalla morte di Diana ai Mondiali di calcio – come di eventi violenti, reali, guerre e genocidi. E invece di eventi simbolici di portata mondiale, cioè non semplicemente diffusi su scala mondiale ma tali da mettere in difficoltà la mondializzazione stessa, neppure uno. Per tutta la lunga stagnazione degli anni Novanta, abbiamo avuto “lo sciopero degli eventi”[…]. Ebbene, quello sciopero è terminato. Gli eventi hanno smesso di scioperare. E ci troviamo anzi di fronte, con gli attentati di New York e del World Trade Center, all’evento assoluto, alla “madre” di tutti gli eventi, all’evento puro che racchiude in sé tutti gli eventi che non hanno mai avuto luogo59.

Decenni a inseguire una volontà di potenza nietzschiana, radicata nei principi di forza e guerra, emblemi della società statunitense, circoscritti, però, all’interno di un ben preciso immaginario virtuale, hanno dato vita a un senso diverso di civiltà, indifferibilmente e indiscutibilmente egemonica, inattaccabile, salda nel suo scheletro capitalistico e tecnologico. 59

J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Milano, Cortina, 2002, pp.7-8.

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Le Twin Towers erano «l’effigie del sistema» che si contraddistingueva per essere «non più concorrenziale, ma numerico e contabile in cui la concorrenza è scomparsa a profitto delle reti e del monopolio». Tempio della società della clonazione e del virtuale, perfino la dualità delle torri suggeriva «la fine di ogni riferimento originale» in quanto «solo il raddoppio del segno mette veramente fine a ciò che esso designa»60. La società del consumo, del capitale, dell’informatica, del virtuale, subisce una radicale sconfitta quando le Twin Towers, andando oltre le stesse aspettative dei terroristi, crollano completamente, trasformandosi (o rivelandosi, a seconda delle interpretazioni possibili) prigioni di cristallo e cemento. Quello stesso giorno è stato colpito il Pentagono, quartiere generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America ed è stata presa come obiettivo primario anche la Casa Bianca, completo fallimento della missione. Ciò nonostante, da ogni parte del globo lo sguardo è stato catalizzato da quei due Boeing 767 che hanno colpito non solo due degli edifici più importanti della skyline newyorkese ma anche l’intero sistema che esse rappresentavano tracciando una sorta di: […] conclusione drammatica, o, per parlare più chiaramente, di scomparsa, al tempo stesso di questa forma di architettura e del sistema mondiale che essa incarna. Nella loro pura modellizzazione informatica, bancaria, finanziaria, contabile e numerica, esse ne erano in qualche modo il cervello e, colpendo là, i terroristi hanno colpito al cervello, al centro nevralgico del sistema61.

Ciò che ha colpito, oltre alla tragedia delle 2794 vite repentinamente spezzate, è stato il crollo di un immaginario che ripiegava su se stesso. Come fa notare Baudrillard, è come se non fosse stato il crollo fisico a generare quello simbolico ma viceversa, ciò proprio perché «la tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso»62. Le torri, improvvisamente, sembrano aver accettato la distruzione, il repentino sprofondare dalle vette della skyline alle viscere della terra, distruggendo in qualche modo quell’illusione che avevano alimentato di essere fari del superamento dell’umano attraverso l’occidentalizzazione del mondo. 60

J. Baudrillard, E. Morin, La violenza del mondo, cit. p. 14. Ivi, p. 15. 62 Ivi, p. 25. 61

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È una forma di sfida irreale, di violenza irreale, che risponde, sul proprio terreno, alla confisca, da parte del potere mondiale, non solo delle ricchezze economiche, ma della realtà stessa. Confisca generalizzata, della sovranità e della guerra, dei desideri e delle volontà segrete, della sofferenza e della rivolta stessa in una immensa simulazione, un immenso reality show in cui non siamo altro che vergognose comparse63.

Lo sprofondare è, perciò, un riappropriarsi dell’umanità a prescindere dal terrorismo, è un clandestino scontro con i propri limiti che ha interrotto la finzione di un immaginario artefatto. Innumerevoli volte, sullo schermo, scene simili sono state sottoposte allo sguardo attento degli spettatori, esorcizzando un forte complesso di castrazione evolutosi rispetto allo status di prima superpotenza mondiale. Quando, però, a comparire sugli schermi sono state le immagini dell’attacco al World Trade Center, qualcosa di sconvolgente è accaduto, in quanto le immagini si sono trasformate da illusioni virtuali, canali privilegiati di un immaginario fittizio, a immagini simboliche ed evenemenziali. Dunque, nel regime normale dei media, l’immagine serve da rifugio immaginario contro l’evento. È una forma di evasione, di esorcismo dell’evento. In questo senso, l’immagine è una violenza fatta all’evento. Nel caso del WTC, al contrario, si ha sopraffusione dei due, dell’evento e dell’immagine, e l’immagine diviene essa stessa evenemenziale. In quanto immagine, costituisce evento. Perciò essa non è più né virtuale né reale, ma bensì evenemenziale64.

L’immagine diventa cronaca e l’evento diventa simbolo poiché scardina l’inattaccabilità statunitense e sostituisce alla perfezione virtuale la caducità del reale. Le vette delle Twin Towers, costruite perché il centro della città sfiorasse il cielo, vengono fatte sprofondare in basso, fino a sporcarsi di terra e di morte. L’Occidente guarda comparire sullo schermo l’orizzonte della sua scomparsa perché «con le torri del WTC, è caduto definitivamente uno schermo di protezione e, nei frantumi dello specchio infranto, noi cerchiamo disperatamente la nostra immagine»65. 63

J. Baudrillard, L’agonia del potere, cit., p. 16. J. Baudrillard, La violenza del mondo, cit., p. 22. 65 Ivi, p. 37. 64

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Il terrorismo, dinanzi all’egemonia del clone, del capitale, del virtuale, documenta la «tentazione di spezzare questa simmetria, di ricostruire una asimmetria, e dunque una singolarità»66. Ciò che ha davvero colpito l’America e il mondo è stato il riemergere della possibilità di un’altra strada rispetto all’egemonia statunitense, la fallibilità di un sistema che ha aperto degli spiragli per la creazione di un altro ordine che, però, è stato immediatamente rifiutato da Bush attraverso un’ulteriore ed estrema manifestazione di forza. Non è bastato questo, tuttavia, ad allontanare i fantasmi del World Trade Center, non poteva essere sufficiente la guerra a scacciare l’idea della singolarità che, nel post-11 Settembre, pian piano si è introdotta anche all’interno dell’immaginario cinematografico generando un ripensamento della strategia globalizzante americana attraverso l’accentuazione di quella stessa rottura comprovata dall’attentato. L’animazione, attraverso la Pixar, aveva già dimostrato di saper cogliere la paura societaria della distruzione di un ben preciso modello occidentalizzante e virtualizzante che, tuttavia, si stava sempre più ancorando all’immaginario collettivo. Con il secondo millennio si conclude il Rinascimento Disney, la fiaba viene desacralizzata e anche il digitale è costretto a un repentino ripensamento dei propri orizzonti. La Pixar, avendo presagito il crollo, può continuare a seguire la propria strada, esprimendo una paura e un desiderio di rompere il regime digitale sempre più presenti nella contemporaneità (tale concetto ritorna con forza soprattutto in Wall-E). La produzione Disney, invece, o almeno quella parte della Mouse House che non può contare su Lasseter e compagni, si ritrova faccia a faccia con il baratro. Il periodo d’oro dei grandi successi sembra essere definitivamente terminato e ha condotto la casa di produzione finora regina del cinema d’animazione occidentale ben lontana da qualsiasi rapporto con i desideri del pubblico contemporaneo. La Disney è costretta ad assistere al trionfo della propria dissacrante rivale, la DreamWorks SKG (meritevole sia di aver capito l’importanza dell’antifiabesco sia di aver dato a questo stimolo una voce), e a vedere i propri film (quelli generati senza la Pixar) crollare uno dopo l’altro ai botteghini. Ciò è quanto accade ad Atlantis (2001), Il Pianeta del Tesoro (2002), Koda fratello orso (2003), Mucche alla riscossa (2004) e Chicken Little (2005) con l’eccezione di Lilo & Stitch (2002) che, in ogni caso, è 66

Id., La violenza del mondo, cit., p. 16.

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ben lontana dal successo di film quali Il Re Leone, Aladdin ma anche degli stessi Monsters & Co. (2001) o Alla Ricerca di Nemo (2003) prodotti dalla “concorrenza interna”. In sintesi, guardando al contemporaneo, possiamo affermare che tre sono le strade principali che contraddistinguono l’animazione a cavallo e subito dopo il Rinascimento Disney e queste possono essere classificate, ancora una volta, in base alla loro vicinanza con il paradigma di Propp. Possiamo individuare, rispetto ad esso, tre differenti rapporti che segnano le strade del cinema d’animazione contemporaneo: • Rottura parziale: prevede l’uso di valori classici e una struttura molto simile al paradigma proppiano con infiltrazioni limitate di elementi contemporanei (Le follie dell’imperatore, Atlantis, Il pianeta del tesoro etc.). • Demolizione: distruzione e parodia del paradigma fiabesco con una forte irruzione di elementi contemporanei (Shrek, Shark Tale, etc). • Abbandono totale: la magia del quotidiano viene connessa al trauma contemporaneo (Toy Story, A Bug’s Life etc.). Al termine del percorso una domanda sorge spontanea: riavremo ancora un puro cinema fiabesco? Potremo ancora assistere a film quali Aladdin o La Sirenetta? Film come La principessa e il ranocchio (2009) e Rapunzel – L’intreccio della torre (2010), entrambi firmati Disney, testimoniano che il desiderio di magia tradizionale, il bisogno di una straordinaria schematica ritualità, stanno tornando gradualmente alla ribalta, seppure in forme spesso ancora contaminate e con tentativi di innesto non sempre riusciti. Ciò nonostante, è innegabile che per millenni la fiaba è stata parte della nostra vita e del nostro inconscio ed essa, seppure frantumata, offesa, digitalizzata e parodiata, non può fare a meno di viaggiare alla stessa velocità dell’evoluzione umana, adeguandosi di volta in volta alle forme differenti che essa genera e alle sue conformazioni societarie. Non è l’uomo a comporre la fiaba ma, in sostanza, è la fiaba a comporre l’uomo e, finché la nostra digitalizzazione non sarà completa, avremo sicuramente modo di cominciare tanti altri viaggi sullo schermo che iniziano con un incantato, atavico, profondo, magico, catartico, sublimante «c’era una volta».

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Filmografia

2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968), Stanley Kubrick. (The) Adventures of André & Wally B. (Id., 1984), Alvy Ray Smith. Aladdin (Id., 1992), Ron Clements e John Musker. Alice in Wonderland (Alice nel paese delle meraviglie, 1951), Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske. Antz (Z la formica, 1998), Eric Darnell, Tim Johnson. Atlantis: The Lost Empire (Atlantis, 2001), Gary Trousdale, Kirk Wise. Barry Lyndon (Id., 1975), Stanley Kubrick. Batman Begins (Id., 2005), Christopher Nolan. Beauty and the Beast (La Bella e la Bestia, 1991), Gary Trousdale, Kirk Wise. Being John Malkovich (Essere John Malkovich, 1999), Spike Jonze. (The) Big Sky (Grande cielo, 1952), Howard Hawks. Brother Bear (Koda fratello orso, 2003), Aaron Blaise, Robert Walker (VII). (A) Bug’s Life (A Bug’s Life-Megaminimondo, 1998), John Lasseter, Andrew Stanton. Cars (Cars-Motori ruggenti, 2006), John Lasseter. Chicken Little (Chicken Little-Amici per le penne, 2005), Mark Dindal. Chinatown (Id., 1974), di Roman Polanski. Cinderella (Cenerentola, 1950), Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske. Citizen Kane (Quarto Potere, 1941), Orson Welles. Colonel Heeza Liar (Id., 1915 ), John Randolph Bray. (The) Dark Knight (Il cavaliere oscuro, 2008), Christopher Nolan. (The) Dark Knight Rises (Il cavaliere oscuro – Il ritorno, 2012), Christopher Nolan. Dr. Seuss’ How the Grinch Stole Christmas (Il Grinch, 2000), Ron Howard. (The) Emperor’s New Groove (Le follie dell’imperatore, 2000), Mark Dindal. Fahreneit 9/11 (Id., 2004), Michael Moore. Fantasia (Id., 1940), James Algar, Samuel Armstrong, Ford Beebe, Norman Ferguson, Jim Handley, Wilfred Jackson, T. Hee, Hamilton Luske, Bill Roberts, Paul Satterfield, Ben Sharpsteen, Walt Disney. Fantastic Four (I Fantastici Quattro, 2005), Tim Story. Fantastic Four: Rise of the Silver Surfer (I Fantastici Quattro e Silver Surfer, 2007), Tim Story. Finding Nemo (Alla ricerca di Nemo, 2003), Andrew Stanton. Flowers and Trees (Id., 1932), Burt Gillett. 158

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Futureworld (Futureworld - 2000 anni nel futuro, 1976), Richard T. Heffron. Gone with the Wind (Via col Vento, 1939), Victor Fleming. Hercules (Id., 1997), Ron Clements, John Musker. Home on the Range (Mucche alla Riscossa, 2004), William Finn, John Sanford. (The) Hunchback of Notre Dame (Il gobbo di Notre Dame, 1996), Gary Trousdale, Kirk Wise. (The) Incredibles (Gli Incredibili - Una “normale” famiglia di supereroi, 2004), Brad Bird. Iron Man (Id., 2008) di Jon Favreau. Iron Man 2 (Id., 2010) di Jon Favreau. Knick Knack (Id., 1989) di John Lasseter Kung Fu Panda (Id., 2008) di Mark Osborne, John Stevenson. Lady and the Tramp (Lilli e il vagabondo, 1955), Clyde Geronimi, Wilfred Jackson,Hamilton Luske. (The) Last Picture Show (Ultimo spettacolo, 1971), Peter Bogdanovich. Lilo & Stitch (Id., 2002), Dean DeBlois, Chris Sanders. (The) Lion King (Il Re Leone, 1994) di Roger Allers, Rob Minkoff. (The) Little Mermaid (La Sirenetta, 1989), Ron Clements, John Musker. Little Nemo (Id., 1911) James Stuart Blackton, Winsor McCay. Little Hermann (Id. 1915) Paul Terry. Madagascar (Id., 2005) Eric Darnell, Tom McGrath. Mary Poppins (Mary Poppins, 1964) Robert Stevenson. Matches Appeal (Il fascino dei fiammiferi, 1899) Arthur Melbourne-Cooper. (The) Matrix, (Matrix, 1998) Andy e Larry Wachowski. Monsters inc. (Monsters & Co., 2001), Peter Docter. Mulan (Id., 1998), Tony Bancroft, Barry Cook. Peter Pan (Le Avventure di Peter Pan, 1953), Clyde Geronimi, Wilfred Jackson,Hamilton Luske. Pinocchio (Id. 1940), Hamilton Luske, Ben Sharpsteen, Bill Roberts, Norman Ferguson, Jack Kinney, Wilfred Jackson, T. Hee. Plane Crazy (Id., 1927), Walt Disney. Pretty Woman (Id., 1990), Garry Marshall. Pocahontas (Id., 1995), Mike Gabriel, Eric Goldberg. (The) Princess and the Frog (La principessa e il ranocchio, 2009), Ron Clements, John Musker. Puss in Boots (Il Gatto con gli Stivali, 2011), Chris Miller. Ratatouille (Id., 2007), Brad Bird, Jan Pinkava. Skeleton Dance (Id., 1929), Walt Disney. Shark Tale (Id., 2004), Eric Bergeron, Vicky Jenson, Rob Letterman. Shrek (Id., 2001), Andrew Adamson, Vicky Jenson. Shrek 2 (Id., 2004), Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon. Sleeping Beauty (La Bella Addormentata, 1959), Clyde Geronimi, Les Clark, Eric Larson, Wolfgang Reitherman. 159

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Snow White and the seven Dwarfs (Biancaneve e i sette nani, 1937), David Hand, Walt Disney. Spider-man (Id., 2002), Sam Raimi. Spider-man 2 (Id., 2004), Sam Raimi. Spider-Man 3 (Id., 2007), Sam Raimi. Star Wars (Guerre Stellari, 1977), George Lucas. Steambot Bill Jr. (Io… e il ciclone, 1928), Charles Reisner. Steambot Willie (Willie del vapore, 1928), Walt Disney. Superman Returns (Id., 2006), Bryan Singer. (The) Sword in the Stone (La spada nella roccia, 1963), Wolfgang Reitherman. Tangled (Rapunzel - L’intreccio della torre, 2010), Byron Howard, Nathan Greno. Tarzan (Id., 1999), Chris Buck, Kevin Lima. Thor (Id., 2011), Kenneth Branagh. (The) Three Caballeros (I tre Caballeros, 1945), Norman Ferguson, Clyde Geronimi, Jack Kinney, Bill Roberts. Tin Toy (Id., 1988), John Lasseter. Toy Story (Id., 1995), John Lasseter. Toy Story 2 (Id., 1999), John Lasseter, Lee Unkrich, Ash Brannon. Treasure Planet (Il Pianeta del Tesoro, 2002), Ron Clements, John Musker. Up (Id., 2009), Pete Docter, Bob Peterson. Wall-e (Wall-e, 2008), Andrew Stanton. (The) Wonderful Wizard of Oz, (Il Mago di Oz, 1939), Victor Fleming. X-Men (Id., 2000), Bryan Singer. X2 (X-Men 2, 2003), Bryan Singer. X-Men The Last Stand (X-Men - Conflitto Finale, 2006), Brett Ratner. X-Men Origins – Wolverine (X-Men Le origini – Wolverine, 2009), Gavin Hood. X-Men – First Class (X-Men – L’inizio, 2011), Matthew Vaughn. Young Sherlock Holmes (Id., 1985), Barry Levinson.

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