Tempo della fine. L'apocalittica messianica di Sergio Quinzio 8881034808, 9788881034802

Il pensiero di Sergio Quinzio è stato spesso presentato come espressione di cupo pessimismo, visione profetica rivelatri

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Tempo della fine. L'apocalittica messianica di Sergio Quinzio
 8881034808, 9788881034802

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In copertina G. Mitrofanovic, Ingresso a Gerusalemme (1616) Chiesa di San Nicola (Foca, Bosnia)

Progetto grafico BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 480 2

© 2007 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 [email protected] www.diabasis.it

Rita Fulco

Il tempo della fine L’apocalittica messianica di Sergio Quinzio

D I A B A S I S

Rita Fulco

n tempo della fine

13

Prefazione, Piero Ste/ani Capitolo primo

21

Temporalità ed escatologia

21

l. n tempo in questione

37

2. Le radici ebraiche del tempo

51

3. Escatologia e messianismo apocalittico Capitolo secondo

103

Il frattempo

103

l. Oblio e rammemorazione

114 132

2. Giudizio sulla storia 3. Attesa e tempo intermedio Capitolo terzo

169

La giudaizzazione del mond� moderno

169

l. Genealogia del Moderno

187

2. Lo pseudomessianismo della tecnica

206

3. Nichilismo e apocalisse Capitolo quarto

235

Dal Mondo al Regno

katéchon

235

l. Ordine sacro e

248

2. Critica del potere mondano

262

3. La «nuova politica»

277

4. La guerra per il Regno

Ringrazio Caterina Resta che mi ha pazientemente aiutata ad apprendere il rigore del pensiero e il coraggio di assumerne la responsabilità. Le sono grata del tempo che mi ha dedicato per discutere ogni singola fase dell’elaborazione di questo testo, che, del resto, senza di lei, per molteplici motivi, non sarebbe stato scritto, non solo perché mi ha fatto conoscere il pensiero di Quinzio, ma soprattutto perché mi ha fornito gli strumenti per un approccio teoretico alle sue riflessioni. Desidero ringraziare Anna Giannatiempo Quinzio, per l’affettuosa attenzione e per avermi costantemente spronato a portare a termine il lavoro intrapreso favorendone, anche, la pubblicazione. Sono particolarmente riconoscente a Piero Stefani, per la fiducia accordatami di una consegna che mi ha accompagnato durante l’intero arco di tempo dedicato alla scrittura. Un grazie anche a Massimo Iiritano per la disponibilità dimostratami nell’iniziale reperimento di alcuni testi. Grazie a Chiara Zamboni, Wanda Tommasi, Luisa Muraro per avermi dato fiducia in un momento in cui non era semplice intravedere la magica forza del negativo su cui abbiamo lavorato insieme. Un ringraziamento va anche a Luisa Bonesio, con cui ho condiviso, durante la stesura di questo volume, discussioni di rara intensità nel tempo fuori dal tempo della Valtellina. Ringrazio le persone che in questi anni mi hanno fatto scoprire la dimensione autentica di una prossimità disinteressata e delicata, nel felice schiudersi di sorprendenti amicizie della mente e del cuore, in particolare Lucia Lucà Trombetta, Pina Calafati, Rosaria Musarra, Aïcha Messina, Natascia Mattucci, Alfonso Guzzo. Un ringraziamento particolare a Rossella Dominici, che mi ha consentito di scrutare il profondo di me stessa. A Felice Scalia, che ha

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saputo ascoltarmi nella verità, come raramente accade. E a Ludovico Grimaldi, che «non può camminare, ma cammina», come mi ha detto in un complicato pomeriggio di settembre. Inoltre, con riconoscenza, perché nulla è scontato, voglio dire la mia gratitudine ai pochi amici – “O mes amis, il n’y a nul ami!” – che sono rimasti tali nel trascorrere del tempo. Grazie ai miei genitori, che hanno fatto quanto potevano per aiutarmi nelle difficoltà da affrontare; a mia sorella Daniela, infinitamente amata; e a Samuele, per la gioia pura che mi danno tutti i suoi sguardi e tutti i suoi sorrisi.

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Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Walter Benjamin

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Prefazione

Pensare la fede. Un verbo e un sostantivo che da soli coprono millenni della nostra storia. Due termini che chi vuole rendere la fede decisiva per tutto l’uomo e non solo per una sua presunta parte spirituale è chiamato a tener assieme. L’espressione diviene però più significativa e ambivalente se riscritta attraverso due sostantivi: ‘pensiero della fede’. In questa veste si coglie subito un’ambiguità legata a un genitivo che può essere inteso in senso sia oggettivo sia soggettivo. Nel primo caso è il pensiero a rendere la fede un proprio contenuto e a considerarla oggetto di un discorso radicato in un orizzonte di senso distinto da quello proprio del credere. Nell’altro caso si tratta, invece, di ridare sostanza alla formula antica che parla di una fides quaerens intellectum. Tutto prende avvio dall’universo di un credere diretto a cercare la propria intelligenza e ad affermare che nessun aspetto della realtà gli è estraneo. Se si volesse stringere tra le ganasce di questa tenaglia definitoria l’opera di Sergio Quinzio, si dovrebbe concludere, con ogni evidenza, che in essa il genitivo presente nell’espressione ‘il pensiero della fede’ è da assumersi in maniera soggettiva. La radicale confutazione del dubbio presente in ogni pagina di Quinzio sta nel ritenere impossibile confrontare la fede con altro da sé. Nella sua opera non vi è nessuna scommessa in cui le ipotesi sono giocate l’una contro l’altra: da un lato il credere, dall’altra il non credere. Se ci fossero argomenti esterni a favore o contro la fede, essa sarebbe sottoposta a un vaglio improprio e diverrebbe, per ciò stesso, una specie di cerchio inscritto entro uno più grande. Per interpretare il pensiero di Quinzio occorre optare per la fides quaerens intellectum. La scelta però ha ben poco a che fare 13

con la speculazione medievale che cercava di attivare, entro la fede, un discorso teo-logico. La differenza di orizzonti si poggia su un argomento discriminante: per Quinzio la fede è inseparabile dalla speranza. Se, secondo il lascito biblico, si parla di ’emunà (fede/fiducia) non è difficile comprendere la saldezza di questo abbraccio: quanto rende permanente l’amplesso tra fede e speranza è il riferimento alla promessa. Il salto non sta nel credere nell’eterno. Il discrimine si concentra tutto nella capacità di attendere l’adempimento di quanto annunciato. Questa opzione colloca il pensiero della fede in un ambito pratico e temporale. Qui non si dà nulla di puramente speculativo. Una fede pensante legata alle promesse è obbligata a eleggere la temporalità come figura peculiare della propria riflessione. La verità è ’emet non aletheia, vale a dire è realizzazione nel tempo, non svelamento dell’eterno. In epoca recente è di nuovo emerso il riferimento al logos greco come ambito insostituibile per pensare la fede. La necessità di porre un aggettivo accanto a un sostantivo destinato a dire l’universale mostra, di per sé, l’intima contraddizione della proposta. Anche Quinzio, si osserverà, qualifica l’’emet chiamandola ebraica. Nessuno, quindi, pare sottrarsi alla seduzione dell’aggettivo. Nel secondo caso, però, la coerenza è ben maggiore. Agganciati come si è alla promessa, ci si trova, per definizione, nel contesto di una particolarità bisognosa di essere qualificata da coordinate spazio-temporali. Le determinazioni sono costitutive di un impegno che attende di essere realizzato in una dimensione ‘altra’ ma non dimentica di quanto la precede. Il tempo in cui la promessa è stata pronunciata va conglobato entro la sua realizzazione: se scomparisse il ricordo del primo termine anche il secondo sarebbe vanificato. Senza preannuncio non vi è adempimento. L’aggettivo ‘ebraico’ qualifica un’intelligenza della fede che, per Quinzio, è integralmente differente dal logos greco. Quest’ultimo esprime un tempo che, inteso come immagine mobile dell’eterno, è irrimediabilmente circolare. Di contro, l’’emet, nel suo essere memore, giorno dopo giorno, delle promesse di Dio, si colloca su una linea incapace di ripiegarsi su se stessa e 14

aperta verso una realizzazione ancora da venire. In altri termini, la parola che dice il giuramento di Dio attende di diventare pienamente davar, parola-avvenimento. Tra promessa e compimento si estende il territorio nel quale ha luogo l’interminabile confronto tra quanto c’è e quel che deve adempiersi. La promessa giudica il presente ed è, a sua volta, messa in questione da quest’ultimo. Nel corpo a corpo tra i due si apre la voragine della nostra condizione attuale. Essa è irrimediabilmente lontana dal regno e, nel contempo, dotata di una preziosità senza pari, infatti la salvezza di Dio non avrebbe alcun senso se non strappasse dal baratro del nulla il povero frammento di vita del nostro esistere. Nei loro esiti più abissali le pagine di Quinzio furono scritte come si potrebbe farlo quando, secondo il grido del salmista, le acque fossero giunte alla gola (Sal 69, 2): era l’ultima volta che ciò era concesso. Dopo, tutto avrebbe smarrito il proprio senso, o, più radicalmente, tutto si sarebbe perduto. Lo scrivere voleva in tal modo diventare prolessi di un evento salvifico capace di svelare la miseria presente. La nostra povertà è però tale solo a fronte a un regno sempre promesso e mai ancora venuto. Tuttavia la constatazione indica pure l’inesorabilità del tempo: neppure la fine può sanare ogni cosa come se essa non fosse stata. Vi fu un frangente della sua vita in cui Quinzio pensò alla salvezza innanzitutto come alla capacità divina di annullare il passato, di creare un novum che nulla più avesse a che vedere con le miserie della condizione presente. La realtà ultima era vista come la realizzazione della parola biblica stando alla quale nulla è impossibile a Dio (Gen 18, 14; Lc 1, 37). Si attendeva che il passato non fosse più e che tutte le cose fossero diventate per sempre nuove (Is 65, 17; Ap 21, 1). Tuttavia, con il trascorrere dei giorni, per Quinzio la figura perfetta della salvezza divenne la consolazione: salvare il passato equivale alla sua perenne, amorosa custodia. La speranza assunse sempre più i panni della memoria; l’antitesi completa della salvezza divenne allora l’oblio. Per essere consolati occorre conservare vivo il dolore. Se la sofferenza si acquieta nelle blande regioni della dimenticanza e dell’ottundimento, la consolazione, cioè il regno, perderebbe si15

gnificato. Specie negli ultimi anni Quinzio si pose in modo angosciato la domanda se la salvezza ormai non sarebbe giunta troppo tardi. Egli avanzò l’ipotesi che l’adempimento delle promesse fosse paragonabile al caso di un padre che, dopo aver fatto sospirare a lungo al proprio figlio il dono di una bicicletta, gliela desse solo quando il bimbo aveva avuto le gambe maciullate da un treno. L’immagine straziante non rende, però, fino in fondo ragione del pensiero di chi l’aveva proposta. Il paragone dovrebbe essere riscritto così: il padre, fin dal principio, avrebbe voluto regalare la bicicletta al suo bimbo, ma era povero. Facendo dei sacrifici riuscì a risparmiare la somma necessaria. Comprò il dono, ma, proprio il giorno in cui stava per darglielo, il figlio perse le gambe. Guardare alla biciclettina divenne allora lancinante; eppure quell’oggetto, che aumentava il dolore, diventò da quella mattina ancor più prezioso. La salvezza è un mistero di povertà solo perché l’‘essere’ è intrecciato con il ‘tempo’. Il modo di Quinzio di pensare nella fede colpì non pochi filosofi. La suggestione non significò adesione piena. Per loro, infatti, il pensiero era in grado di cogliere tanto il proprio indebolimento quanto quello della fede, per non parlare dello svuotarsi dell’essere stesso. La parola ambivalente di ‘nichilismo’ connota l’area (difficile da delimitare) in cui il pensiero filosofico e il pensare nato entro la fede giungevano a lidi per più versi simili, se non comuni. Per entrambi la salvezza è il destino di un residuo. Il fallimento del cristianesimo consiste nel fatto che lungo i secoli l’ingiustizia, invece di diminuire, sembra addirittura aumentare. Lo stesso vale per la presenza di forze distruttive. Tutto ciò non va letto come una serie di espedienti pedagogici messi in campo da Dio per saggiare la fede umana, né come scacco dei progetti umani che dovrebbe evocare, per contrasto, la risolutività dell’ordine divino. Il fallimento storico del cristianesimo è, in verità, il proseguimento della kenosis, dell’abbassamento di Dio che, per ora, non appare affatto preludere a una restaurazione della potenza e della gloria. Per alcuni pensatori si poteva, su queste basi, trovare un terreno d’incontro tra il dire di Quinzio e la filosofia. A rendere credibile l’eventualità era la fine 16

della metafisica, vale a dire l’impossibilità di proseguire a pensare l’essere come pienezza. Quinzio si affidò alla fede perché quest’ultima gli si manifestò più radicalmente povera del pensiero. In effetti, solo a partire da una fede grande si può affermare la sconfitta di Dio e la povertà della salvezza. Per un credere tiepido questo convincimento diviene la clausola che porta, passo dopo passo, a concludere che Dio non c’è, o, quanto meno, a instillare il dubbio della sua inesistenza. Di contro, la fede-speranza di Quinzio è familiare con la disperazione proprio perché nega di mettere in discussione l’esistenza del Signore. Come Gesù in croce, essa può dire il proprio abbandono solo coram Deo. La risposta della fede è che solo se si è sottratti, anche solo per un capello, alla bocca senza fine del nulla si è nelle condizioni di raccontare la vicenda della nostra povertà. Per certuni, però, la filosofia sarebbe ancor più capace di dire lo svuotamento di quanto non faccia il credere in quanto, a differenza dell’esperienza religiosa, essa può affermare la morte di Dio anche senza il bisogno di alcuna restaurazione finale. Per Quinzio però si potrebbe essere ancor più radicali e sostenere che davanti a noi c’è ormai il venir meno pure del discorso capace di dire il nichilismo. Il nulla è impensabile e indicibile, mentre se si fosse nelle condizioni di raccontarlo, si entrerebbe con ciò stesso già nell’ordine della salvezza. Il narrare quanto è stato è figura di resurrezione, per questo ora lo si può fare solo come provvisoria caparra per frammenti e aforismi. Un procedere sistematico che asserisce lo svuotamento vivrebbe nell’illusione che il pensiero della fede sia ancora forte. In Quinzio vi è, però, anche una componente di altro segno. Non è vero che, per lui, l’annuncio del regno, la vita, la morte e la resurrezione di Gesù abbiano lasciato tutto come prima. Al contrario, da allora la storia ha subito modifiche profonde e irreversibili. Il regno non venuto lascia tracce indelebili e ci consegna a un interminabile tempo di desolazione (cfr. 2 Cr 36, 21). Il tessuto del mondo è sempre più lacerato, tuttavia in quegli strappi vi è un’impronta. Nulla nel mondo è come prima, neppure l’orrore. La seconda venuta di Gesù Cristo è sempre 17

dilazionata, non così l’avvento dell’anticristo: esso è una realtà che si sta compiendo. Lo stravolgimento della salvezza è all’opera nella storia del mondo. Tutto ormai ha luogo sub contraria specie. La realtà non venuta muta quella esistente. Alle spalle del mondo moderno vi è un prepotente quanto capovolto bisogno di salvezza e di riscatto. Nel tempo della tecnica non ci si affida alle eterne ripetizioni dell’esistente. L’età moderna è dominata da una sete di novum sorta dalle scimmiesche metamorfosi del messianismo ebraico. Colto sotto tale angolatura, il pensiero di Quinzio dà luogo, pur nella sua frammentarietà, a una visione compatta che si ritrova lungo tutti i decenni del suo scrivere. In un certo senso in lui l’individuazione dell’anticristicità diviene una forma di paradossale apologetica. Dopo che è stata pronunciata la parola del regno nulla è come prima. Nella perdizione della storia è disseminata un’inestinguibile sete di redenzione. La salvezza è più grande del mondo; ma è pur sempre quest’ultimo a dover essere riscattato nella sua terrestrità e nella sua carnalità. Debbono esservi distruzione e trasformazione, ma esse non possono mai coincidere con il dissolvere l’esistente nello spirituale e nell’eterno. Anche per questo in Quinzio il messianico e l’apocalittico non sono mai disgiungibili. ‘Apocalittica messianica’: siamo di nuovo di fronte al rapporto tra un sostantivo e un aggettivo. In questo accostamento vi è tanto la salvezza che riguarda – nel senso più piano e letterale del termine – carne e sangue, sposo e sposa quanto la catastrofe e l’ulteriorità che osa dire che la morte non sarà più: la regina, anzi la suprema regolatrice di questo mondo, ha i giorni contati. Nessuno come Quinzio ha tenuto fermo, persino contro la lettera del detto paolino (1 Cor 15, 50), che la carne e il sangue, vale a dire la dimensione propria della fragilità umana, erediteranno il regno di Dio. In esso non vi sarà più morte, ma vi saranno ancora le lacrime affinché il Signore possa asciugarle (Is 25, 8; Ap 7, 17). Si danno a un tempo terrestrità e il regno posto al di là della morte. Messianismo e apocalittica rappresentano due campi di tensione che non riescono né a dimenticarsi, né a fondersi. 18

Rita Fulco si è assunta il compito di stendere un’opera su Quinzio, non di scrivere come lui o di dialogare con lui. Il profilo non comune del suo sforzo intellettuale e il rigore del suo procedere sono alimentati dall’umile consapevolezza di muoversi nell’ambito di una scrittura di ‘secondo grado’. Qui non c’è il frammento, l’aforisma, il libero utilizzo delle citazioni che fu cifra della scrittura di Quinzio. Qui il procedere è ordinato, documentato, i riferimenti ineccepibili. Il lavoro rileva una competenza e una tenacia che destano ammirazione. Un’opera di questo genere richiede tempo e fatica, molta applicazione e altrettanta riflessione. Quanto però dà soprattutto spessore a queste pagine è la consapevolezza della distanza tra esse e il modo di procedere di Quinzio: non è più il tempo della mimesis. Il trascorrere dei giorni ha fatto sì che anche il gesto di uno scrivere che doveva e voleva essere ultimo avesse un dopo. Non si tratta di una crescita, ma di nuovo di una dilazione e di uno svuotamento, forse di uno scacco. Nel primo decennio dopo la sua morte si è scritto su Quinzio per lo più all’insegna del ricordo personale, della scoperta di qualche inedito, del pezzo breve, anche acuto ma inevitabilmente parziale. Nelle pagine di Rita Fulco si manifesta invece l’esigenza di restituire a Quinzio una possibilità di ricezione filosofica espressa in un linguaggio consono a un pensiero di secondo livello. Il lavoro vuole interpretare l’opera altrui per confermarne la portata filosofica. Nel nostro tempo la “fine della filosofia” è diventata possibilità tanto reale da non poter neppure più affidarsi all’invenzione di altri linguaggi. Anche il tentativo di filosofare con il martello ci è irrimediabilmente alle spalle. Sarebbe perciò illusorio ritenere possibile trovare un modo di scrivere che giungesse al nucleo del pensiero senza pagare il prezzo dell’ordine e del rigore. Scrivere su Quinzio diviene quindi un modo per comunicarne il pensiero nel tempo della desolazione. Quinzio nell’opera di Rita Fulco è accolto come voce profetica nel deserto di un nichilismo crescente. Nel linguaggio della filosofia viene riscritta la testimonianza di un credente che ha disperatamente tentato di pensare e dire la fede dopo due19

mila anni di cristianesimo. La validità dell’operazione è suffragata dall’acuminato rigore intellettuale e dalla inflessibile consapevolezza di muoversi in una riflessione di ‘secondo grado’ proprie dell’autrice. La pertinenza dell’approccio, dal canto suo, trova fondamento nel tema scelto per costruirvi attorno l’opera: “Il tempo della fine. L’apocalittica messianica”. La scelta di una temporalità che volge al termine e l’accostamento problematico, ma irrinunciabile, tra apocalissi e messianismo qualificano una prospettiva volta a cogliere un pensiero che, muovendo dalla fede, dischiude squarci dei quali anche i ‘filosofi’ possono cogliere tutto il valore testimoniale. In questo contesto, la prospettiva più rilevante è, forse, quella del rapporto tra salvezza e passato. Non a caso, è innanzitutto lungo questa linea che si situa la qualificante proposta interpretativa, avanzata da Fulco, diretta ad evidenziare affinità profonde tra il pensiero di Sergio Quinzio e quello di Walter Benjamin. Piero Stefani

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Capitolo primo

Temporalità ed escatologia

1. Il tempo in questione In principio, la questione del tempo. Dell’inizio e della fine, dell’attesa, del trascorrere, dell’accumulo dei secoli – e dei morti – è comunque necessario, all’inizio, parlare. Farlo in principio non è solo una questione metodologica – all’inizio, bereshit, si impone sempre la questione del tempo – ma anche una volontà di restare fedele all’ordine di importanza dato da Quinzio alle sue riflessioni1, sempre intrecciate alla dimensione esistenziale, nella misura in cui il confronto con il tempo, il suo trascorrere, il rivelare volti sconosciuti, e il nasconderne per sempre altri, sollecita la ricerca di un senso del trascorrere e del permanere. La riflessione riceve sempre un colpo d’ala dalla novitas distendentesi nei giorni della vita più inattesi – per la loro quotidianità, per la loro banalità forse, per il loro ripetersi solito – in cui ogni novitas sembrava impossibile, anzi da temere, da fuggire anche. Quando si dà evento, quando altro giunge, ospite inatteso alle porte della vita, tutto è in movimento, trasmette movimento. Saluto di benvenuto è l’aprirsi che accoglie nella gioia quel che o chi arriva; oppure lacerazione improvvisa se ad arrivare è il “peggio”: incomprensione, malattia, morte. Esperienza dell’oltre di noi, che ci viene incontro in un certo tempo e solo in quel tempo2. Per Quinzio sarebbe bastato, ebraicamente, un solo nome per condensare interamente quest’esperienza teoretica, teologica, metafisica, etica e anche politica. Un nome in cui tutto era salvo, in ogni ora raccolto, felice, vita raggiante: Stefania, nome della compagna amata e persa troppo presto, quasi nell’inizio. Con quel suono d’oro scintillante, promessa di salvezza già venuta, senso della storia, o, almeno, possibilità che la storia potesse avere un senso3. Nelle opere scritte dopo la malattia e la morte della moglie si farà an21

cora più urgente, prepotente, irrinunciabile di quanto lo fosse in precedenza, il bisogno di consolazione e redenzione, che coincideranno unicamente con la fine della storia e l’avvento del Regno messianico4. Una complessa rete di concetti, ma anche di affetti, caratterizza, dunque, le riflessioni quinziane sul tempo, nelle quali è necessario evidenziare i tentativi da lui compiuti per comprendere un chrónos che scorre e non lascia, spesso, che «brandelli da strappare dalla gola del leone» (Am 3, 12), una salvezza povera, lontana da tratti trionfalistici, che giunge, in ogni caso, nel troppo tardi dei secoli accumulatisi sulle promesse di Dio e sulle speranze degli uomini. A fronte di una bibliografia sterminata sul tema, Quinzio si interessa al tempo nella sua dimensione esistenziale prima che teoretica, come storia e non in quanto idea immutabile, lasciando in secondo piano quegli elementi più propriamente ontologici che hanno impegnato il pensiero occidentale, in quanto fondamenti di una tra le sue più antiche e decisive questioni filosofiche5. Occorre, in effetti, mettere preliminarmente in evidenza il non pacifico rapporto tra Quinzio e il logos filosofico. Nella lettura delle pagine quinziane, si avverte una “fatica del concetto”, intesa in senso assai diverso da ciò che l’espressione hegeliana evoca. Essa denuncia una connaturata diffidenza nei confronti del travaglio di concettualizzazione, del trasformare esperienze dall’evidenza immediata, in esperienze condensate nel linguaggio filosofico. Quinzio ritiene che la possibilità – insita nella stessa speculazione filosofica – di offrire una pluralità di punti di vista e di risposte sia segno del sostanziale fallimento di quell’orizzonte ebraico-cristiano di cui si sentiva parte6. Quinzio, sommessamente e in modo sempre più solitario – come gli viene rimproverato da più parti – procede apoditticamente, rischiando, ad avviso di alcuni suoi interlocutori, l’implosione della sua stessa energia del domandare: Credo che tu abbia ragione – scrive nel 1975 a Guido Ceronetti – di considerarmi un disputatore teologico potenziale, chiuso nella sua gabbia e pronto a divorare almeno la mano dell’incauto che magari vorrebbe fargli una carezza. Veramente mi

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capita poco di divorare, perché sono pochissimi quelli che tentano di farmi una carezza. […] Certo posso provare pena per i sacerdoti idolatri uccisi da Elia sul monte Carmelo, ma provo veramente pietà soltanto per Paolo, quando gli ateniesi hanno deriso la sua speranza della resurrezione. Io vengo divorato in questo secondo modo, e ti assicuro che preferirei il primo. Perché io so quale fatica disperata irridevano gli ateniesi, quale difficile e tremante sforzo di sperare l’insperabile, di non abbandonare quelli che sono morti7.

D’altra parte, Quinzio era convinto della necessità dello sforzo di concettualizzazione, per evitare di chiudere in una dimensione solo esistenziale e privata quelle urgenze che, pure, percepiva degne di riflessione. Da tutto ciò nasce l’esigenza di non scrivere pagine “accademiche” – né, tanto meno, di letteratura, da lui considerata spesso segno di decadenza dello spirito – e dare corpo, piuttosto, a un pensiero sempre “interrogante” che, pur non essendo un sistema filosofico, è certamente ricco di feconde e profonde intuizioni teoretiche8. Il rifiuto di un approccio specificamente filosofico non impediva, comunque, a Quinzio di cogliere la complessa dimensione teoretica della questione della temporalità: Un itinerario discendente è quello segnato dallo sforzo speculativo teso a comprendere il senso del tempo, il cui svolgimento accompagna l’itinerario […], che approda alla rinuncia al senso della storia. In poco meno di centocinquant’anni si è passati dal tempo dialettico pregno di razionalità di Hegel, al tempo meccanico e scientista di Marx, che scaturisce da un succedersi di elementi materiali posti gli uni dopo gli altri come se fossero dei corpi solidi, e, di rimbalzo, si è passati poi al tempo psicologico, fluido e inafferrabile di Bergson; per giungere infine al tempo angosciato del singolo di Heidegger: la zona di intelligibilità del tempo si è sempre maggiormente ridotta e contratta9.

La critica all’approccio filosofico, considerato nel suo relativismo diacronico, è inasprita dall’urgenza delle domande quinziane, tra le quali nessuna più di quella sul tempo è segnata da una ricerca di senso sempre delusa e rilanciata, quin23

di, nella dimensione re-ligiosa, di legame con quel Dio che ha gettato l’uomo nell’attesa di una promessa di redenzione ancora in sospeso, riguardante la vita in questo mondo, e che il trascorrere del tempo non fa che dilazionare: «Questa cosa assurda che è il tempo – scrive a venticinque anni – è lo stesso ingrediente della vita e della morte. Dall’interminabile vanità del tempo e dalla sterminata incomprensibilità dello spazio non mi libera nulla»10. Questo pensiero che «trita l’acqua di se stesso»11 per il giovane Quinzio non dovrebbe neppure affiorare alla mente, e viene, anzi, da lui annoverato tra le «cose impensabili», essendo legato soprattutto alla morte, impensabile per eccellenza. Le categorie di spazio e tempo possono avere senso solo se rapportate a un possibile modo altro di leggere i fenomeni, ma non ne hanno alcuno se considerate in relazione al noumeno: Lo spazio-tempo è il campo dei campi […]. Spazio e tempo sono la categoria principe del fenomeno, nulla nel “noumeno”. La fisica contemporanea ci ha aggiunto l’esame delle relazioni reciproche tra queste due “lenti”, che, dice Schopenhauer, deformano in durata ed estensione ciò che è presente, hic et nunc, noumeno, manifestandolo. Non solo quindi “includono” il fenomeno, ma lo “creano” come tale12.

La realtà frammentata nel tempo e negli spazi è un monstrum, fonte unicamente di separazione, dolore e morte, luogo di esilio in cui la frammentarietà implicata dalla dimensione mondana dovrà essere superata da un’esistenza perfetta, inconcepibile nel presente, in cui venga introdotto l’assurdo della negazione del tempo, dell’unione degli spazi: L’insolubilità di molti problemi nasce da questo, che si vedono le cose nel tempo, facendo del tempo una categoria necessaria al reale ed escludendovi, semmai, per eccezione, un Assoluto-Dio (che perciò stesso è reso incomprensibile). Mentre il tutto è fuori del tempo, e l’eccezione è questa, che si è soliti considerare le cose non nel loro insieme, ma diluite da prima a dopo, da vicino a lontano, da causa a effetto13.

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La preoccupazione principale di Quinzio, all’inizio, è ancora rivolta, come si è detto, alla possibilità di trovare un senso al tutto, eliminando la fonte di ogni problema, cioè il tempo stesso considerato nel suo trascorrere. Quest’operazione, più vicina alla speculazione greca dell’origine – tendente ad attribuire senso solo all’essere concepito in quanto totalità e nel suo permanere identico a sé – sottende, in realtà, non un’attrazione verso l’orizzonte filosofico, ma un’ansia escatologica che andrà chiarificandosi sempre più, segnando un distacco abbastanza marcato dalla concezione “eternizzante” di questo primo periodo: «Io sono convinto – scriverà già nel 1975 – che si debba avere il coraggio di considerare le cose non sul piano metafisico greco, secondo la prospettiva dell’eterno extratemporale, ma sul piano temporale, storico, ebraico, che è quello, mai abrogato che io sappia, delle Scritture»14. La differenza e la lontananza con l’orizzonte greco è molto marcata se «veramente reale è, grecamente, solo l’eterno; e l’ebreo, invece, non ha neppure l’idea dell’eternità»15. I greci non concepivano lo scorrere del tempo come un succedersi di eventi che implicava una salvezza finale e, dunque, la scoperta di un éschaton. Questa “impotenza” greca a pensare e a figurarsi un tempo lineare, renderebbe impossibile, secondo Quinzio, anche raffigurasi il destino personale di ogni singolo uomo: «A rendere possibile la personalità del singolo – dice Lévy – è il Dio unico e trascendente […]. L’uomo biblico è un soggetto autonomo di fronte a Dio, mentre l’uomo greco è concepito come privo di volontà autonoma, passivamente sottoposto alle divinità che animano le cieche forze del cosmo e il pubblico potere di ogni città-stato»16. Per i greci e i romani, il passato ritorna come una sorta di origine perenne, rinnovante e vivificante il presente, quale quella prefigurata, ad esempio, dai miti di fondazione delle città, che rimandano sempre ad un antenato eroico già fondatore di altri imperi o città vittoriose17. Sulla scorta di un’autorevole tradizione di studi, Quinzio, in definitiva, pensa l’uomo greco come colui che, essendo guidato da una ragione che valuta l’autenticità e la pienezza dell’essere in funzione del suo permanere identico a sé, non può che consi25

derare il moto e il divenire come espressioni di una realtà inferiore, segnata da un’essenza che si dà o come permanenza o come ricorrenza. Con ciò si spiega l’importanza, in Grecia, del moto circolare, che, conservando e rinnovando ad un tempo gli eventi, mediante la ripetizione, si configura come forma speculare dell’assoluta immobilità, caratteristica del divino18. Dunque, le categorie greche, attraverso cui la temporalità è stata spesso analizzata, ad avviso di Quinzio, impedirebbero, se accettate, la stessa speranza cristiana nella promessa di redenzione e giustizia per tutti coloro che soffrono da innocenti; redenzione per la quale non sarebbe sufficiente la loro sussunzione “nell’uno-tutto”, o “Assoluto-Dio”; è necessaria, piuttosto, la consolazione di ogni singola lacrima versata, di ogni frammento di dolore provato: «Se si esce dall’eternizzante schema metafisico per il quale la sofferenza si dissolve nel male concepito come privo di realtà propria, per entrare nella prospettiva biblica in cui è invece il male che si aggruma in realissima sofferenza, a dominare è il tempo»19. In relazione al dolore passato, come memoria della sofferenza subita, o al dolore futuro, come timore della sofferenza che si potrebbe dover subire, nessun orizzonte eterno è consolatorio e fonte di senso. Ciò non significa che nelle riflessioni quinziane scompaia la ricerca di un senso del tutto, ma essa si complica, ebraicamente implicando, come indica la teoria della shevirat ha-kelim, il recupero di tutte le scintille divine disperse nell’universo, spesso coperte da abissi di dolore20. Quando il tempo escatologico riassumerà in sé anche il tempo mondano, quest’ultimo rivelerà la sua essenza di tempo provvisorio. Sarà l’evento finale, dunque, nella concentrazione massima di azione necessaria al compimento, a rivelare l’unico senso possibile del trascorrere attuale del tempo mondano: «deve perciò giungere la fine che attui l’arché, il comando che è principio e fine, la coincidenza che ha per modello il logos incarnato, l’alfa e l’omega, l’ultimo da ultra, l’estremo da extra, l’inizio da inire (entrare), la fine da figgere (conficcare, fissare)»21. Dunque, dell’idea della temporalità concepita da Quinzio nelle prime opere, resta una priorità accordata al “tutto” finale, unico a poter avere la preroga26

tiva di offrire senso all’assurdità del frammentario presente, che occorre vivere nella dimensione della promessa piuttosto che del possesso. Lo sguardo verso un éschaton che ridoni unità al tutto permane, ma si capovolge l’intenzione originaria del pensiero che, se così si può dire, si fa concreto, pensa le cose proprio nel loro essere diluite da prima a dopo, da vicino a lontano. Pensa i singoli attimi vissuti e i singoli volti dei morti. È una rivoluzione, oltre che una rivolta, nei confronti del greco Uno-tutto che dissolveva, reintegrandoli in sé, i volti degli umani condannati dalla morte. Questa svolta nella concezione del tempo coinvolge anche quel Dio nominato prima come Assoluto-Dio, adesso storicizzato, come l’immagine ebraica della Shekhinah. Lo stesso Dio, infatti, è in esilio con il suo popolo, strappato a se stesso e sottomesso al tempo, quasi bisognoso di redenzione; aspetto che, secondo Quinzio, l’immagine teologica della Trinità, pur contrassegnando dinamicamente l’essenza di Dio, non riesce a veicolare, essendo forzata, dalle categorie greche, in una immobile eternità: «La rivelazione ci parla invece di un Dio che vive nel tempo (i filosofi direbbero forse che si è posto nell’atto stesso in cui ha posto il tempo). Ogni vita è nel tempo. Dio è “l’Anziano” dei giorni (Dn 7, 9), il tempo che passa incide su di lui i suoi segni»22. Dunque, il Dio vivente viene modificato nel corso dei giorni, anche attraverso il rapporto con gli esseri umani «fino a dover assumere “un nome nuovo” (Ap 3, 12)»23, segno inequivocabile, all’interno dell’orizzonte biblico, di un cambiamento di identità e, dunque, di un profondo cambiamento da attendere in Dio stesso, per il quale il trascorrere del tempo non è, dunque, indifferente: «ma ciò non in senso metafisico, in una dimensione ulteriore rispetto a quella della temporalità, ma nel senso che Dio compie nell’ultimo giorno questa signoria di tutti i tempi»24. Il postulato di una simile rappresentazione di Dio implica il suo pieno coinvolgimento nella storia stessa degli uomini e nella loro lotta contro il tempo, in quella dello stesso Quinzio – «La mia battaglia contro il tempo è disperata, come è disperata la battaglia del Signore»25 – che viene assunta come impegno da Dio stesso: «La lotta del Signore è con il tem27

po anzitutto, il più potente degli angeli (1 Cor 15, 24). La fede, finché può sussistere, è che Dio possa consumare il tempo prima che il tempo abbia consumato Dio»26. Alla maggiore attenzione per il tempo, come è evidente, non corrisponde la considerazione di esso in quanto elemento pregno di positività. In esso si consuma, infatti, la vicenda di dolore inerente gli uomini, mentre non si offre alcun possibile orizzonte di senso: «Il danno del tempo cresce in irreversibilità continuamente, anche se la fede dice che l’irreparabilità non sarà mai totale, che qualcosa di maciullato sarà strappato dalla gola del leone, che ci sarà il dolore e non il nulla»27. L’orizzonte di promessa, nonostante sia considerato da Quinzio come possibile chiave per interpretare la realtà, non riesce, tuttavia, a veicolare significati che attenuino il dolore attuale; se la promessa riguarda il tempo mondano, esso è, comunque, davvero tutt’altro dal tempo promesso, tanto da non contenerne neppure un consolante rinvio: Se si proiettano le cose nel divino, dove non c’è più tempo ma eternità, tutto è risolto, si è contemporanei dell’agonia e insieme della risurrezione di Cristo. Ma se si mantengono le cose nell’orizzonte dell’uomo, nel quale Dio si è voluto porre, allora la nostra agonia è solo agonia, non coincide con la resurrezione, è come il grido di Gesù sulla croce, rimasto senza risposta28.

Per un’esistenza in cui la proiezione nell’ulteriorità dell’eterno appare impraticabile e lo srotolarsi dei giorni vanifica la promessa di redenzione, l’approdo del pensiero agli abissi del nulla è sempre in agguato, e non è un caso se più di una volta Quinzio abbia affermato di essere tentato dal nulla29. Se l’orizzonte eterno, infatti, è inadeguato a dare senso alla sofferenza, qualsiasi continuità spaziale e temporale è giudicata come un male a cui bisogna porre fine: «Tutto ciò che è nel tempo è negativo perché è nel tempo, quello che è positivo è positivo perché nega il tempo, la dilazione. Così per lo spazio. […] Fare il regno è strappare dallo spazio-tempo, comprendere, risolvere, mentre lo spaziotempo non è mai risolutivo perché continua sempre. L’antiregno è lo spaziotempo»30. Il concetto stesso di durata è strettamente connesso al male 28

in un’identificazione ontologica, per cui il male dura, con una sua intima potenza, con la quale si prolunga nella diluizione, all’infinito, perché lo stesso durare è male31. La durata del tempo, oltre a procrastinare la venuta del Regno di Dio, renderebbe impraticabile l’insegnamento evangelico che sulla certezza dell’imminenza del regno era fondato: «Il regno non ha durata. La durata è il male, la diluizione. Tutta la durata è, nel regno, vinta. Il regno è impreciso. La precisione va verso il minuto, è la tecnica per il piccolo il parziale»32. L’unico rimedio al male e alla durata sarebbe un intervento diretto di quel Dio che lotta contro il tempo, un suo gesto per porre fine al susseguirsi angoscioso dei giorni, benché ogni singolo giorno che passa diminuisca la forza della speranza e aumenti l’orrore: «Aspetto con estremo e glaciale sforzo della volontà non sostenuto più da nessuna immagine, che il Signore interrompa lui, un attimo prima della totale perdita di significato di tutto, il filo del tempo che si srotola verso l’orrore»33. La consapevolezza quinziana della maledizione della durata giunge a sopraffare anche il normale bisogno di sopravvivenza, se questo dovesse significare oblio della speranza di salvezza, e quindi abbandono dell’orizzonte ebraico-cristiano che l’ha fatta fruttificare: Taglierei il grano verde per impedire al mondo di continuare con la sua crescente valanga di ingiustizia. Non posso non volere che non si compia più nemmeno un gesto, che non si dica più nemmeno una parola, in un mondo come questo dove gli occhi pieni d’amore diventano polvere, prego che finisca l’orrore del tempo che continua. Ma è assurda questa preghiera che per amore della vita chiede la distruzione della vita. Veramente io vorrei che il regno di Dio fosse venuto duemila anni fa, che non ci fossero stati tutti questi secoli, ma anche questo mio volere discende dal fatto che allora il regno di Dio non è venuto34.

Una sorta di contrasto titanico tra la speranza contro ogni speranza e una ragione, si direbbe, fenomenologica – che constata la realtà nel suo puro darsi di dolore che continua, di morti che si accumulano – decostruisce ogni singolo pensiero che volesse aspirare a una non contraddittorietà. La battaglia contro il tempo che tutti, Dio compreso, combattono, appa29

re una battaglia per certi versi già segnata da una sconfitta, quella, cioè, del procrastinarsi dell’attesa dell’evento finale. Questo sovrappiù di dolore, questa dépense di lacrime, è una cosa stessa con il tempo: «Vedi, Piero – scrive a Stefani nel 1990 – resto convinto che il tempo abbia una sua inesorabilità, che non possa essere, nella storia del mondo, veramente restaurato, come se ci fosse un deposito eterno dal quale riattingere ogni volta che è necessario la stessa cosa perduta»35. Convinzione che, certamente, si è rinsaldata a seguito dell’approfondita riflessione quinziana sul contrasto tra il tempo ciclico e il tempo lineare della tradizione ebraico-cristiana e iranica. Quinzio, infatti, tenta di dare corpo teoretico all’urgenza interiore di trovare un senso al tempo, che gli appare sempre più assurdo nel suo prolungarsi, ampliando la sua ricerca a partire dalle risposte offerte dalle concezioni del tempo rintracciabili nelle religioni e nelle culture tradizionali. Sarà soprattutto attraverso gli studi di Eliade, ai quali Quinzio attinge a piene mani, che la sua riflessione si approfondirà, abbracciando anche le religioni orientali e i miti iranici36. In particolare, la questione del tempo è illuminata dal collegamento con le problematiche inerenti al mito, attraverso le quali si tenta di comprenderne l’essenza – probabilmente non dicotomica – antecedente alla differenza, accentuatasi con la scomparsa del mito, tra tempo ciclico delle religioni cosmiche e tempo lineare delle religioni storiche37. Questa dicotomia sarebbe dovuta allo stesso motivo per cui, attualmente, il mito risulterebbe incomprensibile: l’oblio assoluto e, anzi, la volontaria espunzione della “totalità” – unico orizzonte di senso in cui il mito viveva – da parte di una ragione scientifica che tende ad analizzare, parcellizzare e differenziare anziché cercare significati unitari38. Il mito verrebbe così banalizzato mediante definizioni che ne evidenzierebbero solo aspetti simili ai nostri processi di pensiero, occultandone la vera essenza, forse per sempre39. Uno dei pochi modi per accostarsi al mito e alle verità in esso nascoste consisterebbe, invece, nel considerarlo a partire da un orizzonte che gli sia affine, come quello delle religioni. In particolare, ad esempio, riflettendo sul modo in cui 30

le religioni affrontano proprio la questione del tempo, collegandolo, anche nei miti più antichi, al rivelarsi della verità: La verità sacra, sulla quale è fondata ogni possibile verità, è cosmogonica. Il mito infatti “è sempre la narrazione di una creazione: riferisce come una cosa è stata prodotta, come ha cominciato ad essere” (Mito e realtà), come cioè il mondo e l’uomo sono diventati quello che sono ad opera degli Esseri soprannaturali, nel tempo prestigioso delle origini40.

La concezione mitica comportava una consapevolezza, poi perduta, del necessario implicarsi di fine e inizio. In seguito, sembra che un processo inevitabile abbia condotto dall’esigenza di un rinnovamento assoluto, mediante la distruzione, a un’attenuazione operata in chiave simbolica, mediante il rito. Un processo, in definitiva, di demitizzazione ad opera proprio del rito41. In Israele il processo di demitizzazione portato avanti dai profeti biblici avrebbe, invece, determinato una rinascita del mito sotto forma di mito storico. Sarà infatti proprio con i popoli del Medio Oriente che la contrapposizione fra il tempo ciclico e l’irreversibilità degli eventi storici farà emergere l’urgenza della rigenerazione e della conseguente distruzione di tutto il già essente. Quinzio, condividendo sempre l’interpretazione di Eliade, sottolinea che le intronizzazioni dei re – presso le civiltà mesopotamiche, gli iranici, gli egiziani e gli ebrei – erano considerate cerimonie che, mediante la figura del sovrano, potevano rinnovare il mondo. Anche per gli ebrei l’incoronazione di Yahweh come re del mondo faceva di lui il vincitore dei nemici, sia in quanto forze del caos che in quanto avversari storici del popolo, con il risultato di rinnovare, a un tempo, l’alleanza, l’elezione e la creazione: I profeti veterotestamentari introducono così, in luogo del ciclico tempo cosmico, il lineare tempo storico, che attraverso il cristianesimo giungerà al mondo moderno. […] Gli eventi storici diventano teofania come erano stati una volta gli eventi cosmici, qualsiasi momento storico diventa potenzialmente decisivo42.

Sarà il contatto con la religiosità greca orientale e gnostica 31

a mettere in ombra gli elementi ebraici assorbiti dal cristianesimo, facendo passare in secondo piano anche l’attesa del Regno. Si potrebbe, dunque, individuare, secondo Quinzio, una linea discendente che si configurerebbe «dalla prospettiva cosmico-escatologica a quella cosmico-rituale, a quella storicoescatologica, a quella storico-rituale»43. Il ritorno al sacro, che ha segnato gran parte del pensiero filosofico e religioso del Novecento, in realtà, si è caratterizzato per l’ampia diffusione di elementi religiosi orientali. Il loro radicamento nel tessuto socio-culturale dell’Occidente, impedisce, spesso, secondo Quinzio, di percepire le differenze di fondo tra la sacralità di tipo cosmico e il sacro delle religioni storiche44. Quel contrasto, ad esempio, tra religiosità ebraica e greca, già incarnato in poeti come Hölderlin, Heine e Rilke. In ogni caso la sacralità prevalente nel mondo moderno sarebbe proprio quella cosmica: «Il sacro che esercita una così potente attrazione su Jung o su Heidegger, su Hesse o su Eliade, o su Simone Weil, come pure su tanti dei nostri giovani, è il sacro dell’Oriente, di mistica immersione nel cosmo divino, non il sacro storicamente incarnato dell’Occidente cristiano»45. Il motivo di una tale preferenza, inconscia o meno, è legato, secondo Quinzio, proprio alla questione del tempo. La definizione migliore a tal proposito era stata data già da Eliade, che aveva parlato di «terrore della storia»46. Il tempo lineare, e quindi storico, dei giudeo-cristiani non riuscirebbe più, infatti, a reggere le catastrofi del tempo mondano e il proseguire inesorabile dei giorni nel differimento delle promesse di salvezza e redenzione: La via che naturalmente si offre è quella di uscire dall’orizzonte della fede ebraica per ritornare, magari per mezzo di astuzie post-nietzscheane, alla concezione ciclica del tempo con il suo futuro debole che non può essere se non ripetizione del passato e del presente, approssimazione dell’immutabile eternità nel movimento circolare in cui tutto, ritornando, permane identico a se stesso47.

Si cercherebbe, cioè, di evadere dall’imbarazzante impasse del progresso, accompagnato dall’orrore, «per attingere la li32

berazione in una suprema coincidentia oppositorum che vanifica in un unico indefinito, ineffabile senso quello proprio di ogni singola esistenza umana»48. Le differenze profonde tra orizzonte cosmico e orizzonte storico divengono palesi nella misura in cui si sposta l’attenzione sulla singolarità delle esistenze e l’irreversibilità del loro tempo. Questa questione, ad avviso di Quinzio, segnerebbe un baratro incolmabile tra l’orizzonte delle religioni orientali e quello delle religioni monoteiste. Infatti, benché possano essere individuati elementi che, a ritroso, conducano a un sostrato comune, matrice di entrambe le tradizioni culturali, nell’accentuazione della prospettiva cosmica rispetto a quella storica si cela molto più che una questione di differenze prospettiche, le cui conseguenze, invece, sono ontologiche, etiche, politiche: «Ci troviamo di fronte due mondi religiosi profondamente diversi, la cui diversità va posta chiaramente in luce»49. Per farlo, Quinzio si serve, comunque, della distinzione tra religioni cosmiche e storiche operata da Eliade, ma sfrondata dal tentativo di trovare originari elementi comuni e radicalizzata proprio in base alla concezione del tempo50. Il fatto che le religioni cosmiche optino per un orizzonte spaziale, mentre quelle storiche si collochino in uno temporale, segna una differenza qualitativa ineludibile. Nella priorità data allo spazio, le religioni cosmiche assumono il tempo come una pseudorealtà che si annulla da sé nella spirale dell’eterno ritorno, in cui nulla davvero inizia e nulla davvero finisce: realtà e apparenza si scambiano i ruoli senza che questo comporti significativi rivolgimenti «e la salvezza dell’uomo, se di salvezza ha senso parlare, consiste nello spostare la sua considerazione dall’uno all’altro piano»51. Il singolo essere umano sarebbe ridotto a un nulla rispetto alla predominanza del Tutto, e le sue sofferenze farebbero semplicemente parte del gioco delle apparenze, ontologicamente inconsistenti, come inconsistente sarebbe il tempo: «Di fronte al tribunale dell’uno-tutto l’agnello sbranato dal lupo ha torto di lamentarsi, la sua uccisione è una mirabile piccola ruota nel meccanismo universale, un necessario gradino del ciclo dell’alimentazione, e non c’è nulla di meno che per33

fetto nel fatto che i vermi trasformino in grassa terra il volto che amiamo»52. Si tratta, per Quinzio, di una concezione della vita e del tempo assolutamente inaccettabile, poiché conduce, in definitiva, a una loro drastica negazione: «Il tempo non esiste, […] è puramente illusorio come è puramente illusoria la vita dell’uomo, insignificante increspatura alla superficie dell’infinito mare delle apparenze con le quali gioca dio»53. La morte e la sofferenza, l’ingiustizia e la malattia assumono senso solo se riguardano relazioni assolutamente singolari e uniche. Dal punto di vista cosmico non si riesce a cogliere l’orrore del tempo che continua, seminando morte, dolore e ingiustizie: «Si tratta di decidere da che parte guardare, se dalla parte del cosmico divino o dello storico umano»54. Contro il supremo distacco delle religioni cosmiche e della loro concezione ciclica del tempo, la religione storica, quella abramica, accoglie le grida mute di tutti coloro che sono morti, annunciando la folle promessa di vederli redenti, radiosi i loro volti e sanate le loro ferite: Ciò che è storico è particolare, irripetibile, unico, mentre l’orizzonte cosmico è l’orizzonte di ciò che è universalmente necessario. Per il pensiero orientale come per quello classico la vita e la storia degli uomini, in quanto particolari, irripetibili, unici, sono irrilevanti: l’unicità è invece la categoria della religione storica, per la quale Dio è ekàd, unico, e unico, nella radice ebraica, è il suo popolo55.

Quinzio non esclude, comunque, che anche il pensiero ebraico si sia lasciato “tentare” da una concezione ciclica del tempo e, commentando il Qohelet, si misura anche con questo dilemma della circolarità temporale che, improvvisamente, sembra comparire nella sensibilità sapienziale ebraica, trasformatasi, dalla consolante immagine offerta dai Proverbi, nella disperante monotonia del ripetersi del tutto, vanità delle vanità56. La vanitas, termine che rende l’ebraico hevel, soffio debole, ricorrente trentadue volte nel libro del Qohelet, indica l’impermanenza del soffio, che nella sua accezione di potenza vivente è, invece, ruach. Havel havalim, vanità di vanità, diventa un superlativo che va reso mediante un indebolimento, è 34

“fievole soffio”, che nella respirazione ci lega alla vita57. Proprio nella necessità dell’inspirazione e dell’espirazione si legge in modo evidente lo stato di dipendenza della vita di ciascun essere da altro rispetto alla propria volontà. Ruach ed hevel rappresentano, allora, i due estremi di questa dipendenza dall’ulteriorità, a partire dallo stabilirsi dello spirito vitale in un corpo, fino al suo spirare. Una dinamica, quasi, di ospitalità ontologica alla quale è impossibile sottrarsi e che piega il corpo all’evento silenzioso e alla fievole dipartita di quest’etereo ospite. Il Qohelet, in realtà, offrirebbe un esempio non tanto di ciclicità temporale, quanto di innalzamento a una prospettiva astorica, che trova la sua chiave per scrutare il tempo proprio nel finire delle cose e degli esseri viventi, piuttosto che nel loro iniziare58. Naturalmente questo percorso nella precarietà, nella discesa del tempo verso la fine ultima, la morte, non lascia indifferente l’autore del Qohelet, sideralmente lontano dalla stoica accettazione del sistema nascita-morte. L’interesse che questo testo suscita in Quinzio è strettamente connesso, anzi, proprio alla delusione amara di una speranza che non può, comunque, tacere del tutto, rimettendo sul piatto dell’alleanza originaria le promesse di Dio non realizzate, l’obbrobrio di un tempo che non sembra affatto tenere in conto l’io che pure leva il suo grido: La sapienza non risponde all’uomo che vede ogni cosa sprofondare nel nulla, non risponde all’unica domanda che veramente importi: “quel che è stato si è allontanato nell’impenetrabile profondità chi lo ritroverà?” (Qo 7, 24). A che cosa serve la sapienza, se “sotto il sole il posto del giudice è occupato dall’empietà e il posto della giustizia dalla menzogna? (3, 16) […]. A che cosa serve la sapienza se bisogna abbandonarla alle porte dello sceòl (9, 10), se non c’è nessuna differenza tra il sapiente e l’insipiente (9, 2-3; 9, 11), se entrambi cadono nella morte (3, 18-19) ciecamente come bestie nella trappola (9, 12), se entrambi sono destinati ad un identico oblio (2, 16)?59.

La consapevolezza dello scacco vela il desiderio di salvezza, vela la possibilità di continuare a sperare un futuro migliore, perché l’esperienza del passato insegna, mediante il dolore e 35

le ferite subite, a smorzare l’entusiasmo, a riflettere prima di proclamare che il futuro porterà gioie e meraviglie, dato che generazioni di uomini sono stati sepolti nelle “impenetrabili profondità” senza avere avuto giustizia, sprofondati nell’oblio – tema scottante ed estremamente doloroso per Quinzio, soprattutto dopo la morte di Stefania. Sembra che l’acutezza del dolore apra le porte alla plausibilità della concezione ciclica del tempo, chiamata quasi a testimonianza del perpetrarsi di un male incomprensibile che convive con l’uomo, da che mondo è mondo, senza lasciare possibilità di rimpiangere i tempi antichi o di desiderare quelli futuri. Sembrerebbe lo scotto che la sapienza ebraica paga per la sua conoscenza. «Mediante la sofferenza, la conoscenza» diceva Eschilo nell’Agamennone60. E qui la conoscenza sembra essere quella, appunto, dell’assenza di un fine, di un senso, di una qualsiasi progressione. La grande tentazione del dolore è quella dell’abbandono al non senso. Quinzio continua ad affermare, come si afferma anche nel Qohelet, la bontà della sapienza, «ma proprio questo è terribile, che le cose buone non si riesca mai a goderle se non miserabilmente, in modo non perfettamente appagante e per un tempo sempre troppo breve. Sapienza, ricchezze, piaceri sono vani, in definitiva, perché sono destinati ad essere sconfitti dalla morte»61. La sapienza è una lama a doppio taglio e la condanna del sapiente, che vede lo scorrere dei secoli, con il ripetersi delle ingiustizie, del male e della morte, diventa l’emblema di un’esistenza in cui il tempo cronologico non lascia spazio ad alcun evento salvifico, anzi a nessun possibile evento. Il Qohelet, però, resterebbe nell’orizzonte ebraico di un tempo che non si rivela, in fin dei conti, come già detto, ciclico, quanto, piuttosto, astorico, o ancor meglio, involutivo62. È una storia di non salvezza, di decrepitezza dei secoli, di una sapienza che sfronda il tempo dalle illusioni di “magnifiche sorti e progressive”, e lo fa rotolare giù per l’abisso dell’orrore, verso tempi di disgrazia, che, a differenza della prospettiva apocalittica, non prevedono un’apocatastasi, ma solo una consumazione lenta della speranza del popolo e della stessa potenza del suo Dio: «L’Ecclesiaste, 36

come anche il nome dice, è il popolo di Dio, Israele, la chiesa. […] Verso il buio cammina con il suo popolo Dio stesso (Mc 14, 26; Sal 22, 2). Qohelet è Dio, che si consuma scrivendo il Libro mai finito (12, 12), parole che non sono la salvezza»63. Da questo punto di vista il Qohelet, più che un’eccezione, diverrebbe la chiave di volta per offrire un’ermeneutica globale della concezione della temporalità biblica, che, come vedremo, appare, per essenza, involutiva. La concezione involutiva, però, non costituisce, secondo Quinzio, la vera peculiarità dell’orizzonte biblico, essendo comune a molte altre tradizioni antiche. Anche i romani e i greci avevano concepito l’involversi del tempo dall’età dell’oro verso epoche sempre più buie, idea non estranea neppure alla tradizione indiana. Ma, mentre in queste tradizioni, in cui domina una concezione ciclica del tempo, all’ecpirosi segue un’apocatastasi che funge da re-inizio di un nuovo ciclo – che a sua volta procederà verso un ulteriore decadimento – nell’orizzonte biblico «che è storico e non cosmico, e quindi lineare e non ciclico, la catastrofe finale non si ripete periodicamente […], ma è evento assolutamente unico come unico è l’assoluto inizio al quale dà luogo, come unico è Dio contro il molteplice divino pagano»64. Dunque, Quinzio è ben consapevole che la novitas ebraica non è racchiusa tanto nella concezione involutiva della temporalità, quanto piuttosto nella prima parola della Bibbia, bereshit, quella dell’inizio assoluto, e nell’ultima parola, Amen che, con l’attesa dell’apocalisse, invoca anche la fine della storia. 2. Le radici ebraiche del tempo Alla luce delle sue riflessioni sul tempo ciclico e su quello lineare, il tentativo principale di Quinzio sarà quello di assumere il problema del tempo – ereditato in Occidente quasi interamente dalla filosofia greca – proprio a partire dal senso e dalle conseguenze di quell’inizio assoluto che segna la concezione ebraica del tempo: Autori di grande prestigio e niente affatto archeologici – come Mircea Eliade, Karl Löwith e Oscar Cullmann, i quali muovono rispettivamente dalla storia delle religioni, dalla filosofia e dall’esegesi

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biblica – hanno, com’è noto, ritenuto di cogliere una fondamentale opposizione tra due concezioni del tempo: quella fra “tempo ciclico”, o “cosmico”, e “tempo lineare”, o “storico”. In pratica, l’opposizione viene a concretarsi nell’affermazione che esiste una “concezione ebraica del tempo”: quella, appunto, che concepisce il tempo come una linea che va da un inizio ad una fine, anziché rinchiudersi continuamente su se stessa negli eterni ritorni dei cicli cosmici. È infatti il popolo ebreo che – per esempio secondo Eliade – compie per primo una valorizzazione della storia mediante la scoperta di un tempo a senso unico e senza ritorni65.

La concezione ebraica del tempo è considerata da Quinzio la reale fonte e la provenienza destinale di tutte le questioni sulla temporalità. Essa sarebbe stata assorbita e metabolizzata dall’Occidente, che ne ha obliato, in seguito, il luogo d’origine66. Il fatto che una corrente di studiosi abbia tentato di negare la specificità e la differenza della concezione ebraica del tempo ha incuriosito Quinzio, ma non ne ha mutato la convinzione teorica al riguardo, benché ne abbia affinato la prospettiva d’analisi: Probabilmente è davvero necessario rinunciare ad usare una formula come “concezione ebraica del tempo” […]. Di fatto non esiste nella Bibbia nulla di simile ad una riflessione tematizzata sul tempo (se non, forse, nelle tardive espressioni di Qohelet), proprio perché non esiste nella Bibbia nessuna specie di speculazione filosofica. In questo senso è del tutto improprio anche parlare di una “concezione ebraica di Dio”67.

Acconsentendo a negare l’esattezza della formula, in realtà Quinzio accentua la specificità dell’intera tradizione biblica rispetto alla mentalità filosofica occidentale68. Per il resto considera la questione un cavillo intellettuale, dato che studiosi alacri nella critica della possibile esistenza di una “concezione ebraica del tempo”, sono poi costretti ad affermare l’evidente centralità della successione storico-temporale per Israele, vissuta come luogo privilegiato della manifestazione di Dio all’uomo: «Non si viene in sostanza ad ammettere che il ruolo del tempo nell’orizzonte biblico e il modo in cui l’uomo biblico si rapporta ad esso sono del tutto particolari, anzi unici?»69. 38

Anche quelle concezioni che tentano di appiattire l’orizzonte biblico in una sorta di “primitivismo” che lo accomunerebbe alle altre tradizioni antiche non hanno un fondamento solido70. In fin dei conti Quinzio è fermamente convinto che sia impossibile negare la specificità del rapporto ebraico con il tempo, cercando, tutt’al più, di non assolutizzare i confini tra grecità ed ebraicità, con un atteggiamento rigidamente scientifico e concettualizzante, che certamente non è consono alla vivezza propria dell’orizzonte biblico. L’originalità della visione ebraica consisterebbe proprio nel considerare il tempo come linea irreversibile, tempo storico senza ritorni: La specificità del modo ebraico di considerare la temporalità, senza volerla rigidamente assolutizzare (operazione tipicamente greca!), è evidente. Veramente reale è, grecamente, solo l’eterno; l’ebreo, invece, non ha neppure l’idea dell’eternità: il termine biblico “‘olam”, che viene spesso tradotto con “aiòn”, “eternità” atemporale, significa in realtà “tempo lontanissimo”. Il Dio biblico, al quale il termine è riferito (Is 40, 28), non è eterno nel senso che è atemporale, ma nel senso che è libero di fronte al divenire e al perire, che esercita la sua signoria su ogni tempo71.

L’idea dell’assoluta libertà di Dio di fronte al mutamento e al dissolvimento delle cose è conseguenza, non a caso, di una concezione del tutto estranea all’ambito greco: la creazione dal nulla, concetto di matrice ebraica, poi assunto anche dalle altre religioni monoteistiche. È, infatti, proprio la creazione dal nulla, come inizio per eccellenza, a essere considerata, dai teologi delle religioni monoteiste, l’espressione della libertà assoluta di un Dio che può porre un essere diverso da sé72. A differenza di ciò che accade nell’orizzonte del mito, in cui la creazione avviene sempre dando forma a qualcosa secondo un archetipo eterno, nella creatio ex-nihilo non esiste alcuna materia da in-formare. Per Platone, Aristotele e i filosofi greci questa concezione era impossibile proprio per le premesse dei loro sistemi; dato che nulla si può generare da nulla, come afferma Aristotele nella Metafisica, è esclusa la possibilità di un inizio assoluto e il mondo viene considerato senza un inizio e senza una fine. La metafisica aristotelica si limita a occuparsi dei principi di una realtà 39

già data, increata, già da sempre essente. Anche per Plotino l’Uno non può che irradiare obbedendo a un’azione non principiata, ma già da sempre necessariamente tale, in quanto emanazione dall’Uno73. Nell’ebraismo è, invece, assente ogni riferimento a una realtà eterna perfetta e immutabile che si contrapporrebbe al tempo e al mondo. Il fatto che nell’ebraico biblico non esista un termine per indicare ciò che in italiano chiamiamo “cosa”, l’oggetto come Gegenstand, posto di fronte al soggetto e indipendente dalla temporalità, apre ulteriori spazi di riflessione. In effetti il termine dabar, che nella traduzione dall’ebraico è venuto ad assumere il significato di “cosa”, nell’ebraico biblico significava, “cosa”, “fatto”, “oggetto”, “parola”, “avvenimento”, “rivelazione”: «Quale contrasto – sottolinea Neher – tra questa prodigiosa unità di dabar e la dicotomia latina di res e di verbum ed anche la dicotomia greca di lógos e di tá ónta»74. Il fiat della Genesi e la creazione stessa sembrerebbero, in questo termine ebraico, coimplicarsi ontologicamente, come nota lo stesso Neher, fino a una paradossale coincidenza che deriva dall’ipersignificanza di questa parola-sintesi, o “parola monista”, che tiene insieme concetti che la logica greco-occidentale ha provveduto a separare definitivamente, come, appunto, parola e cosa75. Non solo, dunque, viene meno la dimensione eterna e immutabile a favore della sola realtà storica, ma neppure è pensabile l’atto della creazione come azione definitivamente compiuta: Il tempo ebraico è l’ambito totale della realtà. Ciò che è reale è nel tempo, e perciò il tempo biblico è un tempo qualitativo, non è l’astratta misura della durata, ma è inseparabile dal concreto accadere di determinate cose in esso. “Et” significa “momento determinato di/tempo di/per”, e viene infatti tradotto con “kairòs”, mentre “òlam” viene a significare “mondo”76.

Non esiste, allora, un cosmo obbediente a leggi deterministiche, ma una storia in mano agli uomini, segnata dalla loro creatività: «L’ebreo vive nel tempo, vive nella precarietà, teso fra gli estremi della speranza e della disperazione»77. Tutto è storia, a partire da quella parola originaria che ha segnato l’inizio as40

soluto della creazione dal nulla. È proprio dal primo versetto della Bibbia che questa identificazione è, in un certo qual modo, fondata, poiché, come aveva già sottolineato André Neher, l’elemento più importante per chi ha scritto la Genesi non è ciò che ci fu all’inizio, ma che ci fu un inizio, come indica il termine con il quale comincia il racconto, bereshit, che rivela come primordiale proprio il tempo stesso78. Da quell’inizio, la storia ebraica viene vissuta nella consapevolezza di una continuità che, a partire da Adamo, si dipana lungo i secoli fino al giorno d’oggi79. La religione storica, che in apparenza possiede una concezione del tempo più ristretta rispetto alla ciclicità onnicomprendente delle religioni cosmiche, rivela un orizzonte che, probabilmente, perde in estensione ma guadagna in profondità, creando relazioni tra gli esseri umani, il mondo e Dio che si collegano strettamente a tutta la storia, dalla creazione, alla rivelazione, alla redenzione80. Questo è dovuto alla singolare comprensione che gli ebrei hanno sempre avuto del rapporto intrattenuto da Dio con il popolo eletto, rapporto di reciproca influenzabilità, per così dire, che non lascia spazi siderali tra la coscienza del singolo, o collettiva, e un Dio onnipotente che decide del tempo dell’uomo. In realtà sembra che quella creazione assoluta di Dio, implicante la sua libertà, in ultima istanza lo vincoli, mediante l’alleanza stabilita con Abramo, al suo popolo che avrà per sempre il potere di cambiarlo, di cambiare la creazione e, dunque, il tempo, la storia: Il patto d’alleanza, che a Israele apparirà sempre l’opera più grande e perfetta della stessa creazione, appartiene ad una tipica categoria di avvenimenti storici, quelli in base ai quali si è soliti scrivere la storia, e il manifestarsi dei suoi effetti consisterà anzitutto in un altro tipico avvenimento storico, la vittoria degli ebrei sugli egiziani. La storia diventa storia del patto di Dio con l’uomo: da quel momento l’itinerario temporale diventa significativo rapportandosi a Dio, diventando, cioè, storia della salvezza, salvezza promessa, attesa, venuta, perduta, disperatamente ancora sempre sperata81.

Una caratteristica degli ebrei, fin dalle loro remote vicende, è il fatto di essere segnati con il marchio della storia, del cam41

mino verso una direzione possibile e promessa: l’erranza, l’esodo che, se da un lato li avvicina agli altri antichi popoli nomadi, dall’altro li distingue proprio rifiutando sia un itinerario di tipo circolare, da Itaca a Itaca, che un’erranza, come può essere quella degli zingari, che implichi contemporaneamente uno sradicamento tale da implicare un “sentirsi a casa” in ogni luogo. Gli ebrei, ribadisce Quinzio, vogliono punti di riferimento certi, vogliono essere sicuri di potersi rivolgere verso Gerusalemme, vogliono essere sepolti nella terra, dovunque essi si trovino, per potere raggiungere la città santa rotolando nel suolo al momento dell’avvento del Messia. Non a caso nell’Apocalisse si parla di cieli e terra nuovi, ma anche dell’assenza del mare82. Terra e mare possono divenire quasi i simboli di due erranze diverse – esodo e nomadismo – che indicano diversi modi di stare nello spazio e, in ultima istanza, segnano anche una differenza di rapporto con il tempo: «Quando Abramo è chiamato a uscire da Ur dei Caldei per andare verso la terra promessa, di quella terra non sa nulla: come ha scritto Lévinas, l’eroe pagano peregrinante, Ulisse, conosce già l’Itaca che l’attende»83. Abramo, invece, si fida solo di una generica promessa di benedizione per una terra sconosciuta da raggiungere. Uno spazio ignoto e un tempo ignoto sono davanti a lui, con un solo segno, quello di una parola data, di una promessa fatta. Un’apertura a trecentosessanta gradi su un orizzonte di attesa spaziale e temporale, definito dalla promessa, ma indefinito nel tempo: Come il tempo pagano, così anche lo spazio pagano è circolare, va da Itaca ad Itaca richiudendosi su se stesso: sono il tempo e lo spazio dell’eterno ritorno, in cui nulla di realmente nuovo può accadere. Viceversa, come il tempo ebraico, così anche lo spazio ebraico è lineare, va dalla terra di schiavitù verso la terra della promessa: sono il tempo e lo spazio del continuo andare, realmente aperto ad ogni imprevedibile rischio84.

Nel tempo e nello spazio da Itaca ad Itaca, con tutta evidenza, non essendoci posto per un qualsiasi evento davvero nuovo che modifichi radicalmente il corso della storia, meno che mai 42

può essere concepito un evento dirompente che capovolga la storia o ne segni la fine. Il mantenimento delle stesse cose, assicurato mediante il moto circolare, permette solo rinnovati ritorni e non storie nuove, o eventi che risolvano lo spaziotempo. Non vi è dubbio, allora, che l’idea di un evento risolutivo della storia «può nascere soltanto nell’orizzonte di una concezione lineare del tempo, qual è, appunto, quella prevalente nella Bibbia e in generale nell’ebraismo. Anzi, si deve dire, piuttosto, che concezione lineare del tempo, idea di storia e idea di redenzione messianica sono un’unica e medesima cosa»85. La concezione lineare del tempo, infatti, non postula affatto un movimento preordinato e prevedibile verso una fine scontata e già da sempre stabilita. Il bereshit della Genesi, unendo tempo e mondo in un binomio indissolubile, pone anche le basi per quella assoluta libertà che, lungi dal terminare, per così dire, con il mondo, comincia con esso e inserisce l’elemento di sorpresa e novità in ogni istante, poiché tutto l’esistente è opera della volontà di Dio che l’ha posto con la parola della creazione separandolo da sé: «Dio non è una fonte dalla quale emana il mondo secondo un processo continuo di decadimento, e non è un demiurgo che ordina una materia da sempre esistente, ma c’è un’assoluta discontinuità tra Dio e il mondo»86. La linearità del tempo, dunque, deve essere compresa dando il giusto peso alle discontinuità, e dando la giusta rilevanza alle eventuali fratture che, certamente, segnano ogni storia che non si prefigga semplicemente di riflettere un ordine prestabilito nel cosmo: Proprio perché la realtà, in quanto temporale, è in divenire e non ha una stabile e definitiva consistenza, viene percepita come precaria e sospesa, e il futuro assume allora quell’importanza decisiva che non può certo avere nell’orizzonte cosmico in cui tutto eternamente ritorna. Che cosa accadrà nel tempo che viene?87.

L’attenzione al futuro, al tempo avvenire come orizzonte di promessa, appare a Quinzio un tratto peculiare dell’ebraismo. Ma colui che ha la forza di continuare a pensare il futuro deve anche essere consapevole che il futuro è inconoscibile, «è il totale rischio di uno spazio vuoto da riempire»88 e non è in43

scritto, come si potrebbe pensare, da nessuna parte, in nessun eterno già compiuto, in nessun destino necessario, avendo rapporto più con la volontà che con la conoscenza: Il libro del profeta Isaia dice che soltanto Dio conosce l’avvenire, e che è proprio questa conoscenza, impossibile a chiunque altro, a rivelarlo Dio. […] Ma nella Bibbia neanche Dio conosce il futuro nel senso che il suo dispiegarsi è ab aeterno davanti ai suoi occhi, nel senso cioè che esso obbedisce a una già stabilita necessità: Dio sa ciò che accadrà solo in quanto ha la forza di volerlo e di compierlo89.

Non c’è nessun appiglio che dia sicurezza rispetto alla fede nel futuro di salvezza che si attende e neppure la differenza netta tra possibile e impossibile può essere garantita90: «dire che il futuro è oggetto della volontà non solo non implica che sia a portata delle nostre mani, ma non implica neppure che sia a portata delle nostre mani il volerlo»91. Anche rispetto all’esito finale della salvezza, l’ebraismo non ha certezze che vengano in aiuto alle speranze più ottimistiche. Il pensiero di Neher è, per Quinzio, emblematico a questo proposito, poiché mette in luce, a partire dallo studio del silenzio di Dio nella Bibbia, quasi “due teologie” legate a due esiti ritenuti entrambi possibili, l’uno che prevede una fine a cui approssimarsi senza difficoltà, sorretti dalla fede nella misericordia di Dio, e l’altro, gravato dall’ignoto, segnato dall’incertezza radicale92. Il silenzio di Dio è l’orizzonte in cui quest’incertezza prende corpo, unita alla libertà umana che ne moltiplica i possibili esiti finali. Alcuni studiosi, con cui Quinzio non manca di confrontarsi, nonostante l’evidenza di questo modo di concepire l’avvenire nella sua imprevedibilità, hanno voluto negare la centralità ebraica della tensione escatologica a favore di un’omologazione su altre culture coeve a Israele, che si rapportavano al futuro come logica continuazione di strade aperte nel presente. Anzi, la concezione veterotestamentaria del tempo sarebbe, per loro, addirittura antiescatologica e non attenderebbe alcunché dall’avvenire, considerato, appunto, come mera prosecuzione del presente93. In effetti, nei libri biblici più antichi, 44

il futuro viene letto come un dono fatto da Dio al suo popolo proprio nella sua possibilità di essere conferma definitiva della felicità di cui si godeva nel presente. Sarà solo con le delusioni e le sventure subite da Israele che avverrà un’inversione di tendenza, configurante il tempo avvenire come violento capovolgimento e fine dell’infelicità presente: «Le tragiche vicende storiche attraverso le quali Israele era passato, contraddicendo la promessa divina della felicità data al giusto, obbligavano Israele a questa accentuata e drammatica proiezione nel futuro (Ger 31, 31-34) che sarà poi esclusiva della letteratura apocalittica»94. E questo nonostante il fatto che l’evento fondamentale nel quale l’intera tradizione ebraica riconosceva il modello per la sua autoidentificazione avesse già avuto luogo. Infatti, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, l’apertura del Mar Rosso, la morte del faraone e del suo esercito travolti dalle onde, erano già avvento di una condizione nuova e capovolgimento della precedente condizione di schiavitù: È l’esperienza storica successiva al grande evento dichiarato salvifico che, dinanzi al permanere di una condizione ancora irredenta e anzi all’aggravarsi dei mali, obbliga per un verso a ridurlo a evento-simbolo da attualizzare nella ripetizione rituale del tempo ciclico, e per altro verso a spingere lo sguardo in direzione del nuovo e davvero pienamente salvifico evento escatologico da attendere nel futuro95.

L’ambiguità nella considerazione dell’avvenire deriverebbe, secondo Quinzio, anche da una questione grammaticale, dato che nell’ebraico il passato e il futuro sono invertibili. Ad esempio, la celebrazione della Pasqua, come memoria del passaggio del Mar Rosso, da evento già verificatosi, con una rotazione temporale, si trasforma in evento salvifico di là da venire. Senza tenere conto di queste peculiarità, alcuni studiosi, come von Rad, sostengono che l’apocalittica sia più affine alla tradizione sapienziale che a quella profetica, rappresentando l’esito del critico sviluppo dell’idea di salvezza96. Quinzio si trova a doversi misurare così con un’idea che scardinerebbe la sua salda convinzione dell’importanza della dimensione lineare-escatolo45

gica dell’ebraismo. Inserire la tensione escatologica in un orizzonte sapienziale, mettendola, tra l’altro, in netto contrasto con la storia – come lo stesso von Rad sottolinea – significherebbe eliminare la carica di novità che la venuta del Messia avrebbe portato. Come la sapienza non era altro che la conoscenza dell’originario ordine cosmico, comune a tutte le antiche culture, così anche quelle correnti dell’ebraismo che enfatizzavano la fine della storia – per mezzo del Messia o di una catastrofe finale – in primis l’apocalittica, se dovessero implicare la fissazione dei tempi da parte di Dio non sarebbero che un ordinato, benché misterioso, tendere degli eventi verso la loro armonizzazione finale. Il futuro, lungi dall’essere un miracolo improvviso, scaturito dalla misericordia di Dio, si presenterebbe, in tal caso, come «qualcosa di prestabilito da sempre, ed è pertanto possibile calcolarlo conoscendo a che punto si è del corso prefissato dei tempi. […] Rimandando a influenze orientali sul pensiero ebraico, l’apocalittica non sarebbe che un’esperienza marginale in Israele»97. La concatenazione prestabilita di eventi non avrebbe nulla a che fare con l’operare improvviso di Dio che rende il futuro imprevedibile. Anzi esso potrebbe tranquillamente essere previsto a partire dall’interpretazione del passato. Ovviamente Quinzio non può che dissentire da questo filone di studi, considerandoli riduttivi e parziali: «Ma davvero l’atteggiamento apocalittico ha al suo centro la conoscenza dei tempi nella loro successione necessaria?»98. Questa concezione deterministica dell’apocalittica ebraica appare inconciliabile con quello che viene considerato il contributo veramente originale dell’ebraismo: In realtà come la vera originalità del pensiero biblico non sta nella concezione sapienziale, che in Israele affianca non sempre coerentemente la concezione della temporalità storica, così a me pare che si debba vedere nel risvolto deterministico della concezione apocalittica della successione dei diversi tempi fino all’esito escatologico qualcosa di inessenziale, di indotto dal circostante ambiente culturale99.

Ad avviso di Quinzio, il desiderio – che compenetra parte della letteratura apocalittica ebraica – di considerare il tempo 46

preordinato a un destino che ne segna lo svolgersi, oltre a essere frutto di influenze culturali circostanti, sarebbe ancor più da ascriversi all’anelito di consolazione dell’intero popolo, avvilito dalle persecuzioni e, soprattutto, bisognoso «di placare l’angoscioso abisso dell’assenza dalla storia di Dio che salva, dopo la terribile vicenda culminata nel secondo secolo avanti Cristo con la persecuzione di Antioco IV Epifane»100. È un procedimento che si può già riscontrare, ad esempio, nei Salmi o nei libri profetici, collocabile più in un orizzonte di tipo psicologico ed esistenziale che in un quadro teologico. I profeti – nota Quinzio – a volte utilizzano il cosiddetto “passato profetico” per manifestare la loro sicura fede nell’inveramento di un evento annunciato per il futuro. Così come i salmisti parlano di una preghiera come se fosse già esaudita, nonostante nella realtà non lo fosse ancora, per dimostrare la medesima certezza nel suo felice esito. Allo stesso modo «l’apocalittico […] sfugge alla disperazione e trova qualche consolazione nel pensare che in definitiva, malgrado tutto, i tempi appartengono alla signoria di Dio: anche il tempo presente in cui i giusti vengono perseguitati, e che sembra perciò mostrarne l’assenza o l’impotenza»101. Questa questione, che Quinzio affronta da osservatore esterno, nell’ambito dell’orizzonte ebraico affonda le sue radici molto lontano nel tempo, tanto da aver dato origine a varie correnti e messo in gioco alcuni dei fondamenti della stessa religione. Si tratta di tutte le riflessioni connesse alla dimensione messianica, prima ancora che apocalittica, connaturata all’ebraismo102. Essa ha subito un’evoluzione che ha fatto registrare interpretazioni totalmente opposte tra gli stessi ebrei, elemento su cui le pagine quinziane si soffermano a lungo, a partire soprattutto dalla riflessione di Scholem103. Le due correnti che Scholem individua come basilari nella formazione dell’idea messianica nell’ebraismo, quella restaurativa e quella utopica, creano, infatti, un movimento dinamico e dialettico che regge l’intera evoluzione dell’idea messianica ebraica104. Il momento forse più emblematico di questa dialettica è rappresentato dall’utopia restaurativa di Maimonide, così indicata 47

perché, pur collocandosi nella corrente restaurativa, è animata in larga misura da elementi utopici, rivolti, tuttavia, al passato105. Quinzio, invece, prendendo in considerazione solo gli elementi restaurativi del suo pensiero, legge nella concezione di Maimonide uno dei momenti più difficili per le correnti messianico-apocalittiche nell’ebraismo, considerandolo portavoce di un razionalismo garante dell’ordine costituito e prefigurante un Regno messianico tutt’altro che rivoluzionario, in cui il corso naturale del mondo sarebbe continuato senza alcuna introduzione di qualsivoglia innovazione nel creato106. Queste questioni si intrecciano con quelle relative alla distinzione, già evidenziata da Scholem «tra messianismo ebraico e messianismo cristiano (ma si dovrebbe dire, anziché messianismo cristiano, messianismo così come è stato concepito via via che il cristianesimo si è venuto distaccando dal tronco ebraico)»107. La differenza sostanziale si manifesterebbe proprio nel modo di intendere la redenzione: evento pubblico ed eclatante per gli ebrei, evento di ordine più spirituale e interiore per i cristiani che hanno abbandonato le radici ebraiche108. È chiaro, quindi, che una corrente ebraica razionalista, come quella che si è avuta a partire dall’utopia restaurativa di Maimonide, nonché le correnti rabbiniche moderne, possano fornire più punti di contatto per un eventuale dialogo cristiano-ebraico di quanto se ne trovino con le correnti più radicali del messianismo apocalittico che, anzi, segna proprio la pietra dello scandalo e il punto di frattura con il cristianesimo, soprattutto a causa dell’interpretazione della figura stessa del Messia, già venuto per i cristiani, ancora da attendere per gli ebrei109. Sia Quinzio che Scholem, però, sono convinti che la vera novità vivificatrice dell’ebraismo sia proprio il messianismo apocalittico. Esso infatti irrompe in quell’ebraismo medievale condizionato in larga misura dalla dimensione halachica, presentando la riflessione messianica come essenzialmente connessa alla dimensione apocalittica110. L’idea messianica inizia ad assumere una reale effettualità storica nel reciproco implicarsi della tradizione profetica con quella apocalittica che, pur riallacciandosi alle antiche profezie, si serve di un linguaggio enigmatico di assai difficile 48

interpretazione, al contrario delle parole dei profeti che erano, invece, chiare e dirette111. Nell’apocalittica messianica, comunque, sono ben evidenti due aspetti – come vedremo, gli stessi che opereranno nella concezione di Quinzio, certamente inserito nella scia delle teorie di Scholem – e cioè, da una parte una redenzione distruttiva e catastrofica, dall’altra il carattere utopico di essa112. Il nodo più problematico riguarda il modo in cui avverrà il passaggio dal presente storico al futuro messianico. Già nel profetismo si sottolineava la non linearità del trapasso tra mondo presente e mondo futuro, ma nulla si dice e nulla si sa circa le modalità con cui ciò si verificherà, ancor più misteriose se si pensa che Isaia parla sia della fine violenta del mondo, sia della “fine dei giorni” in cui Dio edificherà la sua casa in mezzo ai popoli113. Orrore e consolazione si coimplicano nel travaglio delle doglie che porteranno al parto del Messia, all’inaugurazione della sua era; era che non sarà frutto della gestazione della storia. Anzi, a segnare storia e redenzione è la discontinuità totale prefigurata già dai profeti. Lo stesso Quinzio non ha mancato di sottolineare questo aspetto, individuando in esso l’altra fondamentale questione che accentua la differenza con quello che è accaduto all’idea messianica nel cristianesimo. Nell’ebraismo, infatti, il messianismo è letto nella «sua totale difformità da qualunque concezione di un progresso della storia, sebbene la stessa idea di progresso storico sia nata dal messianismo per diluizione mondana»114. Sulle orme di Scholem, Quinzio considera l’idea di una redenzione derivante dal progresso storico come un mito moderno, che poco ha a che fare con la sua vera essenza: «Non essendo il punto di approdo di una vicenda evolutiva, la redenzione messianica è, all’opposto, la negazione e la violenta cancellazione apocalittica di ogni costruzione storica»115. Anzi, la storia assume importanza per l’apocalittico solo in funzione del suo tramontare, momento in cui essa rivelerà il suo senso. Il fatto che l’illuminazione messianica che si verificherà alla fine possa avere dei gradi intermedi non ha nulla a che vedere con una qualsivoglia idea di progresso. Nonostante alcuni apocalittici abbiano provato a fare calcoli sul49

la fine dei tempi – in funzione di questa idea della manifestazione graduale – la tendenza opposta, che sottolinea l’incalcolabilità del tempo finale, è altrettanto radicata, tanto che se ne fa cenno anche nelle scritture più antiche: «Tre cose arrivano all’improvviso: il Messia, un oggetto trovato, e uno scorpione» (Sanhedrin, 97a). Se Israele si convertisse, annuncia un’altra sentenza, il Messia arriverebbe quello stesso giorno: «Anche oggi, se ascoltate la mia voce» (Sal 95, 7). Queste sentenze aprono un nuovo fronte di riflessione: sembra, infatti, che possano esistere delle azioni particolari che accelerino la venuta del regno messianico. Tuttavia esse rivelano, in realtà, più la preoccupazione di far rispettare una morale piuttosto che l’annuncio dell’evento messianico, tanto da risultare del tutto estranee al contesto apocalittico116. Il mondo, nel momento della venuta del Messia, potrebbe essere o totalmente libero dal male, puro, o assolutamente corrotto. In effetti le formulazioni apocalittiche che annunciano il Regno sono piene di descrizioni terrificanti, tanto che già alcuni maestri del Talmud affermavano: «Che Egli venga, ma io non voglio vederLo» (Sanhedrin, 98a). La centralità dell’idea di redenzione avrebbe dovuto essere la dimensione fondante dell’ebraismo, ma la storia ha portato ben altri frutti, se è vero che, come rileva Quinzio, l’ebraismo rabbinico, allontanandosi dal messianismo apocalittico, si concentrerà totalmente sull’osservanza della Legge: «la tradizione halakika è venuta sempre più separando l’osservanza dei precetti dalla speranza della redenzione, tanto da giungere a negare, come fa oggi Jeshajahu Leibowitz, che la redenzione sia un tema centrale dell’ebraismo»117. Secondo Quinzio l’ebraismo, portando nel suo grembo un’esigenza di realtà assoluta – la realtà messianica contrapposta a quella mondana – diventa impraticabile, invivibile e paradossale nel mondo118. Nell’allontanamento dalla dimensione messianico-apocalittica e nell’orientarsi verso una spiritualizzazione della redenzione, Quinzio legge una comunità di destino tra la religione ebraica e quella cristiana: «Anche nell’ebraismo, insomma, proprio come nel cristianesimo anche se in forme di50

verse, la dimensione conservatrice e istituzionale ha contrastato e ha finito per minimizzare ed emarginare quella che ne era l’istanza più profonda ed originale»119. La conclusione di Quinzio è radicale e si fonda sulla sua fede messianico-apocalittica che vuole la ricapitolazione dell’intera vicenda storica con la redenzione messianica. Il tempo di questo mondo non permette all’ebraismo e al cristianesimo di mantenere le loro forme attuali senza, contemporaneamente, vuotarle sempre più del significato e della verità originari: «Non penso né per l’ebreo né per il cristiano, a una conversione all’“altro”. […] Penso che sia il cristiano che l’ebreo debbano storicamente morire»120. È la storia stessa a esautorarne il significato più profondo, manifestando in modo eclatante la povertà delle due verità considerate separatamente, che, invece dovrebbero trasformarsi nel «loro mondanamente impossibile essere una sola verità»121. Solo l’evento della redenzione messianica rivelerà la loro verità: «Solo nella resurrezione sarà restituito fino all’ultimo capello del loro capo, del loro essere ebrei e del loro essere cristiani»122. L’unica speranza che resta è quella nella rottura apocalittica. 3. Escatologia e messianismo apocalittico Nel pensiero di Quinzio sulla temporalità – nell’ambito del quale, come si è visto, il confronto con le religioni cosmiche e l’ebraismo ha un’importanza non sottovalutabile – assumerà un’evidente centralità la questione del problematico e costante implicarsi dell’idea di storia con quella di redenzione, specificandosi, in modo sempre più peculiare, in relazione alle tracce lasciate dalla tensione escatologica nel pensiero occidentale, tensione che Quinzio assume come conditio sine qua non di ogni sua riflessione123. Egli, con stupore, constata la tenacia con cui le idee messianiche di matrice ebraica siano da sempre state e siano rimaste, senza soluzione di continuità, i cardini costitutivi della propria riflessione124. Questa prospettiva teoretica, teologica ed esistenziale ha comportato per Quinzio il dover pagare un “prezzo dell’escatologia”: «La mia incapacità di scegliermi un ruolo mondano riconoscibile, e la solitudine a 51

cui questo mi condanna, sono una cosa sola con la mia fede intensamente orientata in senso escatologico»125. La fede escatologica di Quinzio, infatti, è ben lontana da un semplice incoraggiamento a credere in un aldilà consolatorio: «Non posso riconoscere il significato di quello che ho sempre cercato di dire sulla centralità fondamentale dell’attesa escatologica come se si trattasse di rinfocolare un po’ la fede cristiana additando la luce della grande beatitudine che ci è promessa»126. All’interno dell’orizzonte escatologico, saranno, infatti, proprio le correnti messianiche e apocalittiche a ispirare e interrogare Quinzio, attraverso pensatori che, a partire dai più diversi orizzonti, hanno riflettuto sulla temporalità analizzandola in rapporto alla sua fine, o al suo fine127; ricercando, quindi, un significato ultimo al tempo presente, questione chiave del domandare di Quinzio, inscindibile, tuttavia, da quella circa il tempo a-venire: si tratta dell’urgenza di comprendere un’ora in cui i crampi dell’attesa del Regno e della realizzazione delle promesse messianiche sono ormai quasi del tutto sciolti nella durata, che annienta ogni imminenza, sottraendo significato alle stesse promesse, sottraendo speranza e fedeltà, sottraendo, soprattutto, gli stessi soggetti dell’attesa, aggiunti, con il trascorrere degli anni, ai morti o a coloro che, adattandosi al mondo, accettano compromessi per sopravvivere. Escatologia, messianismo, apocalittica, sono termini che in Quinzio si coimplicano e, a volte, si confondono, a partire dalle prospettive, già di per sé abbastanza complesse, che segnano questi termini. Quinzio è ben consapevole delle differenze profonde tra la sua concezione del cristianesimo e la dottrina cristiana ufficiale, così come delle divergenze ermeneutiche in relazione a molte pagine del Vangelo, di cui ha offerto letture non conformi a quelle consuete, ritenendole possibili quanto quelle già esistenti, dal momento che la verità, nella sua totalità, potrà emergere solo nell’éschaton, e quindi anche le interpretazioni date dal magistero della Chiesa risentono di un’inevitabile parzialità128. Infatti, la connessione tra verità e realtà escatologica è, secondo Quinzio, un dato ineliminabile all’interno dell’orizzonte ebraico-cristiano: «La 52

realtà non si sa cosa sia e come sia, non abbiamo che interpretazioni della realtà, e per me solo l’escatologica è vera. L’escatologia implica vedere disperato tutto ciò che è prima dell’eschaton»129. Questa “certezza” quinziana sembrerebbe, del resto, ampiamente confermata dalle Scritture, a partire dalle parole di Paolo, che indicano lo stare nel mondo come già in partenza destinato alla non chiarezza, alla parzialità, alle nebbie delle speculazioni sul destino e sulla sua possibile interpretazione; speculazioni che hanno, da sempre, lasciato un senso di incertezza e precarietà: La difficoltà nasce, secondo me, – scrive Quinzio a Piero Stefani – dal fatto che l’essere totalmente posseduti dalla (o il possedere la, perché non sono affatto certo che la verità cristiana postuli un’esclusiva passività) Verità è realtà escatologica. Perciò, in noi, la Verità si mischia sempre con l’opinione: quel che crediamo essere Verità può essere invece opinione personale ed erronea. La Verità è per noi in spe, per speculum, in aenigmate: di qui ogni difficoltà dell’essere cristiani. E dal non rendersene conto la superbia130.

Le infinite dispute a cui ha dato luogo l’interpretazione delle scritture «nell’elefantiasi teologica»131 scaturirebbe, quindi, sia dall’incompletezza della rivelazione, che dalla nostra condizione non ancora redenta, rinviando, perciò, alla pienezza del Regno, in cui, come scrive Paolo ai Corinzi, Dio potrà essere visto «faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), in una totale reciproca conoscenza: Il nostro conoscere è frutto di argomenti, di illazioni, di calcoli, fallibili come tutto ciò che è umano. Credo anch’io fermamente che tutto, alla fine, debba rivelarsi conforme al piano di Dio, […] che ogni capello del nostro capo sia stabilito e contato. Ma io penso che questo possa risultare soltanto quando saremo posti nella realtà escatologica, quando tutto ciò che è oscuro sarà manifesto. Fino a quel momento la nostra fede vede in enigma e come attraverso uno specchio opaco132.

Anteriormente all’ultimo giorno, Dio appare assolutamente “ritirato” cosicché, senza una rivelazione finale, nulla avrebbe senso: «Dio è perché l’éschaton è, ma che l’éschaton è lo af53

ferma la fede. Nella realtà del mondo e della storia Dio non è, ma dall’éschaton la signoria di Dio si estende a ogni tempo e a tutta la storia, che diventano il tempo e la storia della sua intronizzazione»133. Ciò che nella Bibbia è già stato rivelato, come quello che ancora resta da rivelare, non concerne l’essenza metafisica di un Dio lontano, ma la sua possibilità di consolare e di redimere: «Rivelazione escatologica del Nome non è concepire l’essenza divina, ma avere Dio-con-noi (Is 7, 14)»134. La rivelazione di Dio come Dio-con-noi ha un’evidente ricaduta sulla concezione della realtà redenta. Fin dai primi libri biblici, l’accento è posto sulla materialità delle promesse di Dio, sulla loro concretezza135. Quinzio sottolinea il fatto che Dio voglia concedere ad Abramo un’alleanza fatta di promesse tangibili e terrene, il cui segno sarà l’arcobaleno (Gn 9, 17). In particolare: una discendenza numerosa, ricca di beni, una vecchiaia serena (Gn 15, 14-15), così come a Giacobbe promette terra e straordinaria fecondità (Gn 28, 13-14), mentre la liberazione dall’Egitto avrebbe portato il popolo in una terra dove i fiumi sarebbero stati di latte e miele (Es 3, 8). La dimensione escatologica, dunque, aveva un cuore di carne, aveva il sapore del pane e del miele, sollievo di balsamo per le ferite, sensibilità per i bisogni terreni: «È facile dire che queste promesse sono “superate”, che appartengono ad un momento remoto della “pedagogia divina” attraverso la quale Dio innalza il popolo dei suoi fedeli alle verità spirituali, di cui i beni temporali sarebbero soltanto un simbolo»136. Nonostante la tesi di una ‘propedeutica soteriologica’ della pedagogia divina sia stata avallata da molti padri della Chiesa, Quinzio sottolinea la difficoltà di trovare un reale riscontro di essa nella Bibbia. Ancora nelle parole di Paolo ai Romani, l’attesa della salvezza aveva una dimensione materiale riguardante non solo gli esseri umani ma l’intera creazione (Rm 8, 22), sottolineando l’attenzione di Paolo, tipicamente ebraica, alla dimensione mondana, poiché nelle sue parole egli «mantiene intatto l’orizzonte della salvezza come orizzonte concreto, visibile e tangibile, riferito alle creature, all’esistenza, alla corporeità»137. La stessa Apocalisse giovannea parla della nuova Ge54

rusalemme come una città a misura d’uomo, non concepita come unità mistica e spirituale, nella quale si pensa persino la continuazione del tempo con i ritmi di sempre (Ap 22, 2; 5): «Tutto è perfettamente terrestre […]. Il Dio altissimo […] asciugherà le lacrime dei suoi martiri (Ap 21, 4; 22, 14; Mt 10, 39) […]. Fascerà le loro piaghe (Is 30, 26), li stringerà fra le sue braccia (Is 40, 11) […], laverà loro i piedi (Gv 13, 4) e si chinerà per servirli a tavola (Lc 12, 37; Ap 3, 20)»138. Quinzio ricorda come, nei primi secoli cristiani, questa concretezza della tensione escatologica fosse ancora viva, come dimostrano le parole di Ireneo, che – citando Papia di Gerapoli – nel II secolo parlava di un’epoca in cui avrebbero regnato i giusti risorti e la terra avrebbe prodotto cibo abbondante, le viti avrebbero avuto diecimila tralci, un grano di frumento avrebbe prodotto diecimila spighe e tutti gli animali avrebbero goduto pacifici dei frutti della terra, assoggettati all’uomo. Alla base di molti travisamenti e dell’oblio di quella concretezza, può essere imputato ciò che Quinzio chiama “un errore di prospettiva”, consistente nel «consueto, gnosticizzante, considerare opposte fra loro le realtà terrestri che vivono nel tempo e l’eternità celestiale»139. La differenza, che abitualmente viene considerata evidente, tra esigenze terrene ed esigenze spirituali, sarebbe solo fonte di confusione e deprivazione di una totalità a cui, invece, il desiderio della realizzazione del Regno inevitabilmente spinge: «L’esigenza del regno è, a tutti gli effetti, una esigenza terrena: di vedere, di toccare di sapere di godere di possedere, tutte cose concrete, che hanno un nome. È un’esigenza sacra perché è totale, assoluta»140. L’eone presente e l’eone futuro nella concezione biblica, al contrario di quella greca, non indicano la realtà terrestre e temporale in opposizione a quella eterna e celestiale. La contrapposizione è esclusivamente tra realtà redenta e realtà non redenta: «Aspettare e affrettare l’avvento del regno di Dio significa attendere e affrettare il tempo della sua giustizia»141. Gli annunci escatologici originari, paragonati ai nostri desideri deboli e stanchi, «possono oggi misurare la dissoluzione di una speranza che è stata anche moderna. Possono misurare 55

il fallimento di ciò che, a differenza dell’invisibile e ineffabile spirito, non può nascondere il suo fallimento»142. Ogni volta che ci si confronta con la parzialità dei rimedi mondani rispetto all’assolutezza delle promesse, si è ricondotti nel seno dell’escatologia, con la consapevolezza che, paragonati alla resurrezione dei morti, tutti i tentativi di liberazione interiore o di miglioramento della qualità della vita «non sono che deboli varianti sul tema»143. Eppure, venti secoli di riflessione teologica sono trascorsi, secondo Quinzio, nella paradossale e quasi assoluta assenza dell’anelito a una definitiva redenzione della storia, «lasciando cadere ai margini, e rendendola disponibile al fanatismo dei settari, l’attesa escatologica che nel Nuovo Testamento sta innegabilmente al centro»144. Le profezie apocalittiche sono state considerate alla stregua di miti, senza reale efficacia sul vivere mondano: «I cristiani che aspettano il ritorno del Signore dove sono? Eppure quest’ultimo cristianesimo è l’unico che abbia ancora un senso»145. Nell’orizzonte cristiano sembra operare un potente impulso psicologico al rifiuto dell’esito escatologico-apocalittico del tempo, considerato angosciante e inconciliabile con il benessere a cui si aspira: «Mai come oggi teologi e pastori tacciono in proposito […]. Freudianamente un vistoso caso di rimozione collettiva»146. Tutto quello che nelle Scritture viene classificato come “genere apocalittico” diventa inessenziale ed è lasciato a margine, «perché come potrebbe mai apparire essenziale a un professore d’università del XX secolo la vendetta di Dio su tutti coloro che abitano la terra (Gd 15) e l’impaziente bisogno di calcolarne il giorno?»147. Si è preferito, piuttosto, favorire un processo di spiritualizzazione, che rimandasse a un’eterea trascendenza, a un “al di là” e al “regno dei cieli”, ciò che, invece, è redenzione che riguarda questa terra: «Proprio la trasposizione in senso spirituale delle attese profetiche e delle promesse messianiche ha fatto abbandonare ciò che è terrestre, ha precipitato la terra sempre più lontano da Dio»148. La temporalità escatologica, di contro, con la sua potenza di trasformazione, si oppone alle tendenze spiritualizzanti e misticheggianti sia delle religioni cosmiche che delle correnti interne al cristianesimo: 56

L’escatologia è il compimento storico, come la mistica è il compimento cosmico. Nel primo caso si tende alla trasformazione della realtà, e paradossalmente anzitutto di Dio stesso nel suo ruolo onnipotente e trascendente creatore e legislatore, per salvare l’uomo; nel secondo l’uomo e le sue domande si conformano, fino a scomparire, alla necessità universale che tutto sovrasta e nella quale è già tutto dato e risolto149.

La fede escatologica di Quinzio, ebraicamente rivolta a una salvezza concreta, si differenzia profondamente da qualsiasi orizzonte mistico – che delegittima la fede nell’éschaton come unica matrice di senso della temporalità – nel quale il domandare dell’uomo viene, inevitabilmente, subordinato all’abbandono nell’alveo del piano provvidenziale e necessitante che regge il tutto, contro il quale, secondo Quinzio, occorre scagliarsi: «non c’è nessun ‘piano’ dell’eterno, perché il piano in cui si compie il senso delle cose è quello dell’éschaton, dell’evento decisivo: la prospettiva è storica, temporale»150. Alla questione posta dall’oblio della concretezza e materialità delle promesse, se ne affianca, dunque, una, ancor più grave, posta dal dissolvimento, nell’orizzonte mistico e cosmico, dell’istanza escatologica tout court. Già la predicazione dei profeti aveva subíto un destino, per così dire, di attenuazione, venendo interpretata, a causa dell’insostenibilità dei loro ammonimenti, in chiave simbolica; la fine da loro annunciata è stata letta come «la vaga allegoria della signoria divina sul mondo, espressa, con l’accensione fantastica tipica della rozza immaginazione semitica, nelle figure letterarie di un ideale futuro»151. L’annuncio del futuro nelle profezie è stato messo in secondo piano rispetto all’esaltazione delle opere di un Dio operante sempre in mezzo al suo popolo e, quindi, a tutto vantaggio dell’ordine sacro costituito. Allo stesso modo, e a maggior ragione, si è espunto dalle profezie l’annuncio apocalittico, appunto come frutto di fervida immaginazione: «Ma in realtà non esiste profezia che non sia apocalittica (Ger 1, 10; Os 6, 5; 12, 11), a cominciare appunto dal libro di Isaia, a cominciare anzi dal patriarca Enoc (Gd 14-15). Gli oracoli dei profeti sono traboccanti di futuro, e di un futuro che è insieme apocalittico e mes57

sianico»152. Anche la stessa escatologia di Gesù, ad avviso di Quinzio, viene spesso trascurata a vantaggio di elementi secondari. Nelle interpretazioni in cui la dimensione escatologica è eclissata, le parole del Vangelo sono lette alla luce di una provvidenza imperscrutabile153. Questi travisamenti – la spiritualizzazione delle promesse e, in seguito, l’abbandono dell’orizzonte escatologico – avrebbero determinato, secondo Quinzio, un totale rivolgimento della prospettiva biblica, fino a configurarsi come un vero e proprio tradimento delle istanze messianiche. L’evento più drammatico in rapporto al depotenziamento dell’escatologia cristiana nella sua dimensione effettuale – evento che segna anche una profonda cesura tra ebraismo e cristianesimo – è la «separazione del Messia dal regno messianico che, secondo le parole di Gesù, il Messia doveva inaugurare»154. Quinzio non esita ad affermare di sentirsi, su questo frangente, molto più vicino agli ebrei che ai cristiani, «perché loro, attaccati alle antiche promesse, hanno patito e continuano ancora a patire come scandalosa assurdità l’idea di un Messia che non inaugura il regno di Dio»155. In realtà, però, la stessa idea messianica, già nell’ebraismo, seguirebbe questo destino di indebolimento e mutilazione. Anzi, sarebbe proprio questo assottigliarsi dello spessore della speranza messianica a implicare l’intero processo di ‘inquinamento’ del nocciolo puro dell’ebraismo, nonché della radice vitale del cristianesimo, aprendo le porte a un processo di istituzionalizzazione mondana che snaturerà sia il cristianesimo – identificatosi, per usare le parole di Kierkegaard, con la Chiesa trionfante, più che con la Chiesa militante156 – che l’ebraismo, identificatosi, soprattutto in alcune correnti, con la lotta per lo Stato d’Israele157. La via per sottrarsi alla tendenza spiritualizzante e alla mondanizzazione dell’idea di salvezza messianica, è cercata da Quinzio in un diverso modo di intendere il messianismo, più consono, probabilmente, alle istanze che lo caratterizzavano originariamente: «Messianismo carnale, che non significa tripudio della carne trionfante, ma consolazione della carne che soffre e muore. Orrore dello spirituale, che non significa rifiuto di ciò che non è grossolanamente palpabile, ma ri58

fiuto di ciò che nasconde illusoriamente la pena dell’uomo»158. La percezione della brutalità del trascorrere, che precipita la carne fino alla morte, obbliga Quinzio a fare una ben precisa scelta all’interno dell’escatologia, propendendo decisamente verso la corrente apocalittica del messianismo: Fedele alla tradizione delle prime generazioni cristiane, Agostino incitava ancora “ad amare e desiderare il ritorno del Salvatore” (Ep., 199, 1,1): un amore e un desiderio […] da molto tempo tramontati dal cielo cristiano. Che cosa è andato perduto con la perdita della prospettiva apocalittica del ritorno di Cristo per giudicare il mondo, che alle origini era il cuore della fede? Tutto, se è vero che “un’apocalisse è una visione che consegue da un’attesa messianica intensa” (Scholem, Messianic Judaism), in modo tale che non c’è vero messianismo che non sia apocalittico159.

In un certo senso, solo la catastrofe apocalittica, dopo le millenarie delusioni accumulate, sembra in grado di garantire verità al messianismo, facendo scaturire dal tempo cronologico la sua stessa fine e rivelandolo, già da sempre, chrónos apocalypseos. In questa prospettiva, il tempo lineare di cui si è parlato, non avrebbe ontologicamente mai avuto nulla a che fare con una mera durata cronologica, ma sarebbe aperto, in ogni istante, alla possibilità del “salto” apocalittico, della scelta, della de-cisone. L’istante apocalittico non farebbe che rivelarne l’intima verità, resa muta dal trascorrere dei giorni. Bisogna assumere consapevolezza di ciò che si può e si deve sperare, ma anche di ciò in cui è bene non credere più e non sperare più; occorre confrontarsi, cioè, col “nocciolo duro” della speranza, «quella che non bara al gioco, quella che osa guardare senza autoinganni la tragicità della situazione»160. L’unica speranza che può avere queste caratteristiche è proprio la speranza nell’apocalisse, in quanto ciò che si spera in essa coincide con ciò che, per noi, è fatalmente tragico e terrificante. L’attesa del Messia, secondo Quinzio, è giunta ai limiti dell’impossibilità, sia per gli ebrei, che continuano a credervi in gruppi sempre più ristretti e isolati, che per i cristiani, il cui Messia è venuto già, ma non ha ancora instaurato il 59

regno di giustizia promesso; mentre la morte, l’ultima nemica di Dio, che doveva essere sconfitta, ha continuato a passare la sua impietosa falce sui buoni e sui cattivi: Ma proprio questa situazione è già apocalittica. Quando si sprofonda al di sotto del limite di ogni speranza umanamente sperabile si può solo pensare apocalitticamente. Quando ogni senso scompare, l’ultima possibilità di senso è l’apocalisse, che è la possibilità di senso della catastrofe. Non è in nostro potere credere o non credere nell’apocalisse, ma bisogna sapere che non c’è nessun altra possibilità di pensare la nostra attuale condizione161.

L’Apocalisse162 è rimasta l’ultima voce dell’età apostolica. Eppure, più che dai fedeli, questo testo è stato sviscerato e preso in carico da esperti che gli si accostano con grande vis ermeneutica, tentando, innanzitutto, di stabilire quali siano le sue caratteristiche proprie e addentrandosi a tal punto nel suo sezionamento da giungere a negarne l’importanza, riducendo, piuttosto, la sua significatività all’appartenenza a un genere letterario163. Per Quinzio, invece, ciò che costituisce il fulcro dell’Apocalisse e, in genere, di tutti i testi classificati come apocalittici, non sarebbe la loro collocazione letteraria, «ma piuttosto il cercare in direzioni ultime, a monte dell’origine e a valle dell’eschaton, contro il veterotestamentario stare all’immediata concretezza della vita del popolo nel presente. Un’angosciata domanda insomma, più che ben definite risposte»164, domanda scaturita dalle delusioni che la storia ha messo sul conto della promessa di Dio, appellandosi alla sua potenza di porre fine agli orrori del mondo. All’indifferenza cristiana nei confronti dell’apocalittica, farebbe da contraltare, secondo Quinzio, l’ansia per la possibile distruzione del mondo, percepibile, sempre più spesso, sia nella cultura ufficiale, che in culture parallele: «Oggi si parla ovunque di Apocalisse, anche in convegni culturalmente paludati. È un fatto»165. Nell’orizzonte mondano, però, l’apocalisse viene privata del suo orizzonte religioso, fino a chiamarla in causa esclusivamente come sinonimo di distruzione. Essa, dunque, è considerata solo nella sua accezione distruttiva, 60

spogliata del rinvio a una trascendenza e indicata come possibile esito di azioni dell’uomo; perciò stesso la sua ineludibilità è esorcizzata, poiché, dopo tutto, sarebbe un evento controllabile – dunque evitabile – e non dipendente da una realtà metafisica166. Quinzio, da parte sua, si dissocia da queste posizioni ‘ottimistiche’, di eventuale prevenzione della catastrofe, considerando, invece, le visioni apocalittiche moderne in una prospettiva più cruda e dura, che prefigura una catastrofe assoluta proprio «perché priva dei caratteri religiosi dell’apocalittismo della fine del primo millennio cristiano»167. Gli ostacoli che si frapporrebbero all’accettazione del pensiero apocalittico sono, per Quinzio, numerosi. In primis l’idea, intrinseca alla concezione apocalittica, che la storia corra lungo binari di dissolvimento e catastrofe: «Scholem nota che nell’ebraismo l’opposizione all’apocalittismo si è acuita negli ultimi due secoli, perché la cultura dominante faceva sempre più apparire irrimediabilmente irrazionali, superstiziose, fanatiche, certe attese»168. Nel cristianesimo, invece, già a partire dalla Città di Dio di Agostino – come, tra l’altro, aveva notato lo stesso Scholem – si prefigura una situazione in cui una comunità redenta si stabilisce in un mondo non redento, cosicché il suo perdurare pacifico, come ordine sacro, sostituendo o facendo le veci della salvezza finale, «contraddice necessariamente la tensione escatologica»169. D’altra parte, una ferrea logica conduce, inevitabilmente, a questa contraddizione. Il tempo della Chiesa, infatti, dovrebbe essere già stato redento dal sacrificio di Cristo, dunque un esito catastrofico sarebbe in netto contrasto con la salvezza già operante: «Se il tempo dopo Cristo è il tempo redento da Cristo, è arduo concepire che, essendo tale, avanzi invece aggravando di continuo i suoi mali verso un esito catastrofico»170. Per Quinzio, però, l’essenza dell’apocalisse è comprensibile solo all’interno di un orizzonte che contempli proprio una rottura catastrofica finale. Il senso che scaturisce dal chiudersi del Nuovo Testamento con un libro profetico, come del resto accade per l’Antico Testamento, sarebbe molto chiaro: «significa che l’evento decisivo deve ancora compiersi. 61

[…] L’Apocalisse annuncia l’apocalisse, l’orrore crescente della storia del mondo fino alla catastrofe finale che lo distrugge»171. La storia del mondo «arriva alla sua salvezza finale, messianica, attraverso la catastrofe finale della apocalisse […]. Scholem insiste: “Non si dà nell’orizzonte ebraico nessun messianismo che non sia apocalittico”. Cioè nessuna realtà pienamente redenta si instaura se non attraverso la rottura violenta dell’ordine dato»172. Quinzio, dunque, riconosce come unica speranza ciò che indica come «una catastrofe terrificante e liberante insieme, qual è, appunto, quella profetica e apocalittica, con il piccolo “resto” al quale sperare di appartenere. In che cos’altro mai, da millenni, ha senso sperare?»173. Come Geremia, Quinzio è convinto che il significato ultimo, la possibilità di senso della catastrofe, si nasconda nell’apocalisse, non certo come trionfo, ma come quell’estremo gesto rappresentato tragicamente dal profeta Amos nella figura del pastore che strappa un brandello d’orecchio dalla gola del leone; giorno di suprema contraddizione, immensamente desiderabile e temibile; speranza che Quinzio afferma di sentire «anche colpevole, e la morte, per me, giusta e desiderabile»174; speranza messianica debole «sebbene pervicace della pervicacia della disperazione, speranza, non l’aspettativa del gran finale. […] Ma io la voglio lo stesso a qualunque prezzo, un minimo ma reale e visibile sottrarsi alla morte sia pure di un soffio. Meglio il dolore del nulla»175. Questo suo «sperare contro ogni speranza» è animato da «una specie di ansia apocalittica»176, in base alla quale poter permettersi di desiderare lo scorrere del tempo, sorretti dalla certezza che ciò implichi, contemporaneamente, la consumazione della storia stessa. Ci sono, infatti, due modi per pensare l’evento finale della salvezza, come già Scholem aveva sottolineato. Uno la colloca alla fine di un percorso ascendente, come Gioacchino da Fiore, il quale abbraccia una concezione evolutiva del tempo, la cui pienezza nel compimento finale giudica graduale e non improvvisa177. Tutte le teorie che, in nome di un tentativo di giustificazione dello stesso perdurare, propongono soluzioni pacificanti, come quella di un operare nascosto e len62

to del lievito cristiano, sarebbero, tuttavia, illusioni metafisiche, dettate dal fatto che si commette un errore di prospettiva: Ma è lecito capovolgere il binocolo per vedere lontanissimo quello che prima appariva vicinissimo? È lecito sostituire ai tempi brevissimi del Nuovo Testamento – “Figlioli, questa è l’ultima ora” (1 Gv 2, 18) – gli sterminati tempi della moderna paleontologia come fa Teilhard de Chardin? […] L’idea di un graduale processo evolutivo non è invece la trasposizione in chiave mondana del bruciante attimo risolutivo dell’éskaton cristiano?178.

Esiste, infatti, un altro modo di pensare la salvezza, che «è il più fedele all’ottica della rivelazione biblica, ed è quella di concepire la redenzione come un giudizio»179; nella tradizione cristiana giudizio sta per rottura del tempo: «Il “giorno di Dio”, di cui parlavano i profeti, non si instaura attraverso un processo graduale di crescita, di innalzamento della storia e del mondo – come pensava, ad esempio, Teilhard de Chardin – ma si instaura attraverso un giudizio»180. L’istanza escatologica, dunque, lungi dal restare un’idea astratta, deve assumere un carattere di effettiva interruzione del tempo, che si produce in modo istantaneo e imprevedibile. Anche le parabole evangeliche che vengono comunemente interpretate come simboli della gradualità dell’evento messianico, in realtà pongono l’accento «sullo strepitoso passaggio da ciò che è insignificante a ciò che è grandioso»181. Estremamente pregno di significato e massimamente importante era, quindi, «l’istantaneo irrompere (Mt 24, 27) della prodigiosa realtà teofanica, messianica, nella storia»182. Che si dia interruzione del tempo significa che «non c’è nessuna strada dal mondo al regno, tutte le ascesi sono ingenuità. Non abbiamo fatto nessuna strada per giungere alla creazione, ci siamo dentro con un balzo, nessuna strada possiamo fare per giungere al regno (tutto è strada), ci saremo dentro con un balzo del nostro dolore»183. La luce che Dio effonderà nel suo Giorno non sarà in nulla simile a quella, ormai perenne, delle moderne metropoli elettrificate, ma verrà come un lampo, un baleno che attraverserà gli orizzonti del mondo. L’imprevedibile intervento di Dio porrà fine al tempo e alla 63

storia, senza essere preceduto da alcun segno premonitore, nonostante Gesù, nel suo discorso escatologico, avesse lasciato intendere che esistano delle condizioni le quali, precedendo di poco l’avvento del Regno, in qualche modo lo preannuncino184. Ciò che scardina il legame consequenziale tra segni ed evento è il fatto che non si dà un passaggio necessario da essi all’evento. Per Quinzio vale l’itinerario opposto: «È la fede a riconoscere il miracolo, è la chiave di una lettura apocalittica a rendere riconoscibili i segni. Negli antichi profeti, perciò, ogni “crisi” era “la” crisi, perché l’eschaton non è un evento decretato prescindendo dalla nostra invocazione: “venga il tuo regno”»185. Il concentrarsi sulle parole che annunciano l’evento non solleva dalla fatica di una speranza che dovrebbe bruciare quelle stesse parole, in nome del desiderio di un compimento che non tardi più: «Dal mio punto di vista era già un’orribile tragedia che Gesù, anziché fare del mondo il regno messianico annunciato da Isaia, lo annunciasse ancora veniente: parole-evento, certo, miracoli-evento, ma non l’Evento»186. Per questo Quinzio riflette a lungo sul tema del subito. Il «Giorno del Signore» deve essere considerato sempre alle porte, urgente, prope: «Non si può aspettare con ardore un “al di là da venire”, ma un “subito”. Così ci si mantiene nella tensione necessaria, fuori della quale non ha senso parlare di cristianesimo»187. Per il cristiano l’attesa della resurrezione dei morti deve necessariamente essere per “subito”, nonostante la vita continui sulle strade del mondo: «Quel giorno deve venire, e deve venire subito: ogni altra azione è totalmente inadeguata»188. Affinché ciò possa accadere, occorre un supplemento di consapevolezza nel vivere ciascun istante come Jetztzeit189, come attimo in cui il tempo omogeneo e vuoto svanisca per lasciare il posto al kairós; in cui l’evento finale «non solo potrebbe ma deve irrompere come il lampo che esce dall’oriente e guizza fino all’occidente. Non è “apparenza” perché ogni istante è la piccola porta da cui può entrare il Messia, e che il Messia non è entrato si sa solo dopo che l’attimo è passato»190. Il lampo «nuovissimo nel suo irrompere, e vecchissimo»191, segnerà la fine del tempo, dunque, senza avere nessuno sviluppo in esso. Se è assolutamente im64

possibile assicurarsi anticipatamente di questo evento dirompente, poterlo prevedere con esattezza, allo stesso modo, proprio per questo, in ogni istante questa possibilità può annunciarsi: «Se nulla può provarci che l’istante che viene è quello del Messia, nulla può provarci che non lo sia […]. Noi non sappiamo qual è la nostra condizione: potrebbe esserci svelata solo da come apparirebbe nella luce della redenzione messianica»192. Per questa ignoranza metafisica, nonostante l’immane difficoltà e responsabilità che ciò comporta, non è folle continuare a credere che «il lampo del Signore potrebbe in un istante brillare dall’oriente fino all’occidente, illuminare il nulla del mondo e mostrare che la verità e la vita sono solo nel nostro povero desiderio di conformità alla tenerezza del Signore»193. Lungo un periodo abbastanza significativo della sua riflessione, Quinzio ritiene che il nuovo e il vecchio non si coimplichino, ma, anzi, si escludano, si superino con un salto, senza che si possa parlare di un “farsi” del nuovo – che presupporrebbe un movimento, un divenire – mentre ciò che l’avvento del Regno richiederebbe è la distruzione del vecchio e l’evento di un nuovo assoluto, il superamento della pluralità e la conquista dell’unità194. Il rapporto intercorrente tra vecchio e nuovo dovrebbe darsi solo a partire dalla distruzione, poiché nel nuovo assoluto non si potrebbe parlare di differenza qualitativa rispetto al vecchio, dato che, in questo caso, sarebbe proprio una differenza quantitativa a segnare il punto di rottura e impedire ogni analogia e paragone: «Il nuovo è tutta la quantità, tutta la quantità non può crescere. Le qualità sono tutte vecchie. Il vecchio è il parziale e il nuovo è il totale»195. La novità del nuovo, il puro nuovo, concentrerebbe in sé l’immediatezza e la definitività, caratteri del Regno e garanzie dell’impossibilità di qualsiasi “dopo Regno”: «Se c’è un oltre il nuovo, il nuovo non è mai nuovo, è destinato ad invecchiare sempre. L’essere del vecchio è estensione diluizione, l’essere del nuovo è intensità tensione. Preparare è una tecnica. Regno è tutta l’intensità»196. La conferma della priorità logica e ontologica del nuovo sul vecchio all’interno della visione escatologica, Quinzio la individua nel Vangelo di Marco – commentato con grande fer65

vore e passione messianica197 – che riassume in due versetti l’essenza del rapporto nuovo-vecchio: «Nessuno cuce sopra un vestito vecchio un panno nuovo, altrimenti il rattoppo rompe il buono del vecchio e lo strappo diventa peggiore. E nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spacca gli otri; ma vino nuovo in otri nuovi» (Mc 2, 21-22). L’esegesi ufficiale identifica il “vecchio” con la tradizione veterotestamentaria e il “nuovo” con la tradizione neotestamentaria, relegando così il nuovo a qualcosa di detto duemila anni fa, che non avrebbe alcunché da dire ai giorni nostri. Se invece si cerca di leggerlo in un’ottica differente e di dare a questi versetti una voce ancora udibile, essi potrebbero significare solo una cosa: «che il mondo non può salvarsi (“io non prego per il mondo” Gv 17, 9), che il nuovo di Gesù è il nuovo totale e ultimo destinato a travolgere la vecchiaia del mondo. Nulla si salva del passato, tutto quindi deve essere capovolto»198. Il capovolgimento coinvolge tutti i settori della vita, da quelli privati a quelli pubblici, se è vero che non devono più esserci né genitori né fratelli («Chi sono mia madre e i miei fratelli» Mc 3, 33); che quelli che venivano considerati i peccatori divengono gli eletti («Io non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» Mc 2, 17), mentre il Messia viene additato come un sacrilego («Egli bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» Mc 2, 7); che neppure la legge antica ha potere sul nuovo incarnato nel Messia («Il Figlio dell’uomo è padrone anche del sabato» Mc 2, 28). Quinzio sottolinea che l’atteggiamento di Gesù di fronte al “vecchio” è soprattutto di ira e di sofferenza per la durezza dei difensori del vecchio che, d’altra parte, vedevano la novitas di Cristo come opera demoniaca («Egli è posseduto da Belzebul» Mc 3, 22) tanto da meritargli la morte («I farisei vennero a consiglio poi subito con gli erodiani per ucciderlo» Mc 3, 6). La discontinuità tra eone presente ed eone passato si fa bruciante ed indica la totale dissimmetria tra vecchio e nuovo, dando un ordine di priorità assiologica a cui non si può sfuggire: «Non è importante per noi quello che sempre torna uguale a se stesso, ma quello che irrompe nuovo, quello che può sorprenderci nell’imprevisto della storia»199. 66

Nonostante questa grande enfasi sulla centralità di una novitas assoluta, non sorprende, tuttavia, che essa venga, dallo stesso Quinzio, ripensata in maniera sostanziale nel corso di riflessioni più approfondite. Mentre permarrà sempre l’urgenza del sorprendente irrompere dell’istante messianico, con una novitas riconducibile alla sua imprevedibilità, il nuovo assoluto, che in alcune pagine quinziane sembrava dover necessariamente caratterizzare la realtà redenta, verrà ripensato alla luce dell’altra dimensione del tempo, rimasta sullo sfondo nelle riflessioni sulla prospettiva apocalittica, cioè il passato. Il passato si ripresenta, infatti, in ciascuno di quegli istanti nei quali può aprirsi la piccola porta per il Messia, gravido di domande, di contraddizioni e di ricordi che invocano memoria. A questa dimensione sempre a rischio di oblio Quinzio si dedicherà con la consueta passione del suo pensiero. Note Quinzio, oltre ad averne trattato costantemente in tutte le sue opere, ha curato gli atti di un convegno dedicato al tempo, a cui hanno partecipato autorevoli nomi del panorama culturale italiano: AA. VV., Tempo e apocalisse, a cura di S. Quinzio, Spes, Milazzo 1985. 2 Il carattere dirompente dell’incontro con l’altro ha, soprattutto a partire da Lévinas, una grande risonanza nel pensiero del Novecento, trovando in Derrida uno degli interpreti più fecondi. Per una ricca e originale ricostruzione di questo tema si rimanda a C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 3 Quinzio incontra Stefania Barbareschi a Roma e la sposa nel 1963. Dopo pochi anni Stefania muore trentenne a causa di un male incurabile. Per comprendere la disperazione causata da tale evento, si rimanda al testo più intimo e straziante di Quinzio, la cui collocazione all’interno di un rapporto d’amore nulla sottrae alla potenza inerme delle parole in cui vengono rievocati i momenti salienti dell’incontro con Stefania: S. Quinzio, L’incoronazione. Lettera a Stefania, Armando, Roma 1981. Testimonianza del culmine della disperazione può essere considerato, dopo L’incoronazione, il testo Dalla gola del leone (Adelphi, Milano 1980), il cui titolo, non a caso, trae spunto da un brano del profeta Amos, convinto che i figli di Israele possano ormai essere salvati solo «come il pastore salva dalle fauci del leone due zampe o un pezzo d’orecchio» (Am 3, 12). In questo brano, per la prima volta viene affermata nella Bibbia la possibilità della salvezza di un resto dopo la distruzione, così come era in uso salvare una parte della vittima sbranata per documentare al padrone che essa era stata divorata da un leone (cfr. Es 22, 13; Gn 31, 39). L’idea del resto si ritroverà in molti altri profeti, principalmente in Isaia (Is 6, 12; 10, 19-22) e diventerà un tema importante nell’escatologia quinziana. 1

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Per ulteriori dati biografici su Quinzio si rimanda alle testimonianze degli amici raccolte nei volumi collettanei in sua memoria (AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, a cura di M. Iiritano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000; AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, a cura di M. Iiritano e D. Garota, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004), nonché a G. Calcagno, Vaghe stelle di Alassio, in S. Quinzio, La croce e il mare. Poesie 1943-1947, a cura di G. Calcagno, Aragno, Torino 2002, pp. 9-44; A. Scottini, Sergio Quinzio. Il profeta deluso, Ancora, Milano 2006, pp. 13-50; M. Iiritano, Teologia dell’ora nona. Il pensiero di Sergio Quinzio tra fede e filosofia, Città Aperta, Troina 2006, pp. 25101. Particolarmente curata e attenta ai tratti essenziali del domandare di Quinzio appare anche la testimonianza di M. Ciampa, Senza requie, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 10-17. Per ciò che concerne le opere di Quinzio si rimanda, invece, alla completa e accurata Bibliografia di Sergio Quinzio, a cura di Anna Giannatiempo Quinzio, Nicola Baldoni e Calogero Rizzo, “Bailamme”, 20, 1996, pp. 275-301. 5 La questione della temporalità è stata, ovviamente, oggetto di innumerevoli e approfonditi studi. Per la prospettiva che qui ci interessa maggiormente mettere in risalto, tra i molti testi che si potrebbero citare, ci limitiamo a M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990; G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1993; Id., Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, Mondadori, Milano 1990; AA. VV., Dimensioni del tempo, a cura di U. Curi, Angeli, Milano 1987; AA. VV., Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio, a cura di R. Fabris, Laterza, Roma-Bari 2001. Molto importanti e ricchi di spunti di riflessione sono anche alcuni numeri monografici di “Archivio di Filosofia”: 1, 1959: Tempo ed eternità; 2, 1971: Rivelazione e Storia; 1, 1973: Il simbolismo del tempo. 6 Cfr. S. Quinzio, L’esilio e la gloria. Scritti inediti 1969-1996, a cura di A. Giannatiempo Quinzio e F. Permunian, “In forma di parole”, 1, 1998, pp. 38-39. 7 Ivi, p. 60. 8 Del rapporto di Quinzio con la filosofia si è occupata, in un’interessante riflessione – in realtà un’apologia di un certo tipo di filosofia che mette in discussione il duro giudizio quinziano – Ninfa Bosco, La filosofia non salva e non consola, in AA.VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., pp. 127-137. Una trattazione ampia e articolata della questione, che tiene conto del rapporto di Quinzio con i filosofi italiani con i quali egli è entrato in contatto, si può trovare nel lavoro di Massimo Iiritano, permeato dal pathos della conoscenza diretta di Sergio Quinzio e volto a esaltarne, in primis, la figura di maestro spirituale: M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit., in particolare le pp. 200-249. A proposito della critica quinziana alla letteratura si rimanda al saggio di G. Ruozzi, Quinzio e l’idea di letteratura, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 56-66, in cui l’autore sottolinea la contrapposizione mantenuta da Quinzio tra letteratura e vita in nome di una fedeltà «al suo amore per la materia e la carne contro i tentativi di edulcorare il dolore con illusorie vie di fuga» (ivi, p. 57), e ripercorre il rapporto con alcuni degli autori preferiti da Quinzio, in particolare Iacopone da Todi, Dostoevskij, Rozanov e Kafka. La radice del domandare quinziano e anche l’uso del linguaggio sembrano, comunque, avere ereditato i tratti caratteristici della mai quieta ermeneutica ebraica, a proposito della quale si rimanda a B. Rojtman, Feu noir sur feu blanc. Essai sur l’herméneutique juive, Verdier, Lagrasse 1986. 4

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S. Quinzio, Giudizio sulla storia, Silva, Milano 1964, pp. 109-110. Questo fallimento speculativo viene considerato da Quinzio solo uno dei tanti che riguardano il crollo dell’intero modo di porre le questioni da parte dei protagonisti del pensiero occidentale: «Ai nostri giorni essi parlano lingue diverse e non s’intendono tra loro. Uno storicista […] non è in grado di comprendere l’autentico significato delle categorie usate da un esistenzialista; l’esistenzialista impiegherà una vita ad approfondire le implicazioni di una angoscia che per lo storicista è soltanto una condizione psicologica insignificante. Un neoscolastico argomenta di causa finale e di sostanza, parole che per un neopositivista sono prive di qualunque senso. Non si è d’accordo, insomma, su cosa cercare né sugli strumenti da adoperare; in queste condizioni filosofare è divenuto impossibile, ormai è solo possibile giocare ai professori di filosofia» (ivi, pp. 110-111). 10 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 25. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 142. Nelle opere giovanili di Quinzio è ancora presente, nonostante la diffidenza per i teoreticismi, un’attitudine speculativa che si serve di categorie filosofiche, attitudine che scomparirà nelle opere successive per lasciare il posto a un tono decisamente “profetico”. È da rilevare, soprattutto, il cambiamento profondo di prospettiva che si verificherà con il passaggio dall’attenzione all’unità del tutto e al senso della storia proiettata fuori dal tempo, nell’eternità, a un’attenzione rivolta proprio al trascorrere del tempo e della storia. Sulla questione dello spazio nel suo rapporto con il tempo cfr. G. Marramao, Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, cit. 13 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 87. 14 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 62. Massimo Cacciari ha sostenuto – contrapponendosi a tutta la tradizione ermeneutica occidentale, che ha considerato la disinserzione dal tempo naturalistico della Grecia classica una conquista dell’età moderna, verificatasi solo a partire da Kant – che la temporalità originariamente non fosse concepita come continuum cronologico dall’andamento ciclico, legato, appunto, ai tempi della natura, ma come un complesso intreccio tra la dimensione cronologica e la dimensione aionica, nel quale emergerebbe l’essenza kairologica della temporalità. Interpretazione a cui Cacciari giunge con un’originale analisi dei testi classici sul tempo, da Aristotele a Plotino. Decisiva risulta soprattutto l’interpretazione dell’Aión in Plotino – tradotto, solitamente, con eternità: «L’atto perenne eppure istantaneo dell’irraggiare appare unica vera immagine di Aión. Non è substrato, perciò, l’Aión, ma il suo continuo, inesauribile ek-sistere irraggiante, e che irraggiando tutto fa apparire, lascia che sia. L’Aión è il fulmine che governa tutti i generi dell’essere, pre-potenza dell’essere. […] Come l’istante, exaíphnes-nˆyn, da nessun ‘punto’ di Chronos, dunque, Aión è separato, eppure in nessun punto è spazializzabile. L’átopon dell’istante è vera immagine di Aión, della pre-potenza di Aión rispetto ad ogni determinazione» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 279). La possibilità kairologica di Chrónos, dunque, ha subìto un destino di oblio nella rigida separazione in cui sono stati cristallizzati Tempo da un lato ed Eternità dall’altro. Ma, ad avviso di Cacciari, si è trattato più di una questione ermeneutica che di una questione ontologica. Su questi aspetti mi permetto di rinviare anche a R. Fulco, L’istante necessario. Trac9

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ce per un ethos nel tempo, in AA. VV., Tempo sacro e tempo profano, a cura di L. De Salvo e A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 321-336. 15 S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, in AA. VV., Temporalità ed escatologia, a cura di G. Ferretti, Marietti, Torino 1986, p. 81. A proposito della differenza tra considerazione greca e prospettiva ebraica, Löwith, in relazione ai greci, ha osservato: «L’immutabile, quale anzitutto si manifesta nel movimento ordinato dei corpi celesti aveva per loro un interesse maggiore e un significato più profondo di ogni progressivo e radicale mutamento. La “rivoluzione” è originariamente un’orbita circolare naturale, e non la rottura con una tradizione storica […]. Se si pensa che Isaia ed Erodoto erano quasi contemporanei, si può misurare l’abisso incolmabile tra la sapienza greca e la fede ebraica» (K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 26). 16 S. Quinzio, Silenzio di Dio, Mondadori, Milano 1982, p. 71. Quinzio giudica il testo di Bernard Henry Lévy, Il testamento di Dio (tr. it. di E. Cerutti, F. Baldini, L. Rizzo, SugarCo, Milano 1979), abbastanza debole dal punto di vista teorico e, per certi versi, non del tutto convincente. A sostegno della propria posizione, che contrappone in maniera netta Atene e Gerusalemme, cita piuttosto ˇ altri autori che propongono argomentazioni più solide come Lev Sestov o, procedendo a ritroso, Tertulliano. Del resto il tema della contrapposizione tra il mondo greco e quello ebraico ha sempre suscitato una grande mole di riflessioni. Si veda in particolare: L. Strauss, Gerusalemme e Atene: studi sul pensiero politico dell’Occidente, introduzione di R. Esposito, Einaudi,Torino 1998. Tutto il pensiero di Lévinas si inscrive all’interno di questo orizzonte. In particolare si veda: E. Lévinas, Le nazioni e la presenza d’Israele, in Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 105-122. Spunti interessanti anche in Id., Difficile libertà, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004. Il tema ha, comunque, una sua centralità dirimente per il pensiero occidentale, come emerge dalle parole di Derrida: «Siamo Ebrei? Siamo Greci? Noi viviamo nella differenza tra l’Ebreo e il Greco che forse è l’unità di quello che si chiama storia» (J. Derrida, Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, tr. it. G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 197). 17 «Conseguentemente l’interpretazione del passato diviene una profezia retrospettiva, che lo rappresenta come una “preparazione” significativa del futuro» (K. Löwith, Significato e fine della storia, cit., p. 26). Proprio nel suo studio sul profetismo, già André Neher aveva distinto, fuori dal contesto profetico ebraico, altre concezioni temporali: dal tempo rituale – che esprime soprattutto un particolare rapporto dell’uomo con la natura e differisce a seconda dei luoghi – al tempo mitico, in cui prevale la ripetizione, ad un tempo ciclico, che ignora la storia, opposto all’irreversibilità, in cui lo spazio ha la prevalenza su ogni altra dimensione, fino al tempo mistico, in cui è l’istante della fusione con il divino a prendere il sopravvento, giungendo a cancellare la stessa nozione di tempo. Il tempo, nel profetismo ebraico, era, invece, a suo avviso, basato sul concetto di alleanza: «La berit è più l’alleanza di Dio con uomini di cui ha bisogno per creare la sua opera che l’alleanza di uomini con un Dio il cui soccorso è loro indispensabile. È questa la singolarità della berit ebraica. Essa

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pone gli uomini nel tempo di un Dio che li chiama» (A. Neher, Essenza del profetismo, tr. it. di E. Piattelli, Marietti, Genova 1984, p. 97. Su questi temi cfr. ivi, pp. 52-69). Per un approfondimento di queste questioni imprescindibile è M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, tr. it. di G. Cantoni, Borla, Roma 1999, cui va affiancato Id., Trattato di storia delle religioni, tr. it. di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1981, pp. 399-422. 18 Cfr. S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 81. Questa riflessione segue la tesi ermeneutica di H.-Ch. Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2000, di cui Quinzio cita un brano dall’edizione francese (Paris 1978, p. 218, riportato anche in S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano, 1990, p. 65), evidentemente da lui ritenuto abbastanza rappresentativo della situazione dell’uomo greco. Non è un caso che Quinzio si sia interrogato a lungo sulla posizione di un’ebrea come Simone Weil che, proprio nella concezione della temporalità, e nonostante il suo contatto con il cristianesimo, si allinea su posizioni inconcepibili, secondo Quinzio, in un orizzonte ebraico-cristiano (cfr. tra gli innumerevoli passi che si potrebbero citare, ad esempio S. Weil, Quaderni IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, pp. 122-123; 136). Quinzio ritiene che Weil abbia una concezione circolare e ripetitiva del tempo: «in questo senso la Weil è perfettamente greca, o perfettamente indiana, non sospetta neppure la volontà ebraico-cristiana» (S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984, pp. 48-49). Poiché è impossibile dare conto in questa sede della complessa struttura del pensiero weiliano e del suo intricato rapporto sia con la tradizione ebraico-cristiana che con quella greca, mi permetto di rimandare a R. Fulco, Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, Studium, Roma 2002. Per il rapporto di Weil con l’ebraismo cfr. W. Rabi, La conception weilienne de la création. Rencontre avec la Kabbala juive, in AA. VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, a cura di G. Kahn, Aubier Montaigne, Paris 1978, pp. 141-160; T. R. Nevin, Simone Weil. Ritratto di un’ebrea che si volle esiliare, tr. it. di G. Boringhieri, Bollati Boringhieri, Torino 1997. 19 S. Quinzio, La fede sepolta, Adelphi, Milano 1978, p. 80. Queste parole potrebbero leggersi come il segno tangibile di una vera e propria “conversione” in relazione al tempo. In effetti talmente precoce da non dover essere, a rigore, considerata tale, sennonché alcuni strascichi di essa resteranno, come vedremo, non tanto nella concezione del tempo – tutta la riflessione di Quinzio, infatti, si presenta, quasi da subito, unitariamente e continuativamente pervasa da questa attenzione al tempo storico piuttosto che statico ed eterno – quanto nell’idea della totalità, del “tutto” come orizzonte di senso, alternativamente criticato o auspicato. Soprattutto nelle riflessioni sulla specializzazione e parcellizzazione della cultura o sul pluralismo relativistico del mondo moderno, Quinzio sembra propendere per un anelito nostalgico, quanto disperato, ad un Tutto che possa offrire un senso alla frammentazione imperante. Questo anelito è certamente, bisogna sottolinearlo, non tanto un bisogno dell’intelletto, quanto un bisogno specificamente “re-ligioso”, nel senso più pregno di questa parola, come legame tra immanenza e trascendenza, ma anche, nella dimensione orizzontale, di comunione tra gli uomini. Si direbbe, quindi, più vicino al Tikkun ebraico, sempre da farsi, che all’Uno-Tutto della filosofia greca o delle religioni cosmiche. Per

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un’analisi della teoria del Tikkun si rimanda a G. Scholem, La kabbalah e il suo simbolismo, tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1980. 20 Shevirat ha-kelim è la teoria della “rottura dei vasi”, menzionata nel corpus della Kabbalah di Isaac Luria di Safed (1534-1572). Il “racconto” luriano, che occupa molti volumi, com’è noto ha il suo fulcro in tre grandi momenti: lo Tzimtzum, o autolimitazione di Dio, la shevirat ha-kelim o rottura dei vasi, e il Tikkun o riunificazione armonica ed eliminazione del male causato dalla rottura dei vasi. Evidentemente i tre momenti sono interconnessi e dipendenti. Lo Tzimtzum individua nel movimento di ritrazione di Dio il primordiale atto creazionale. Ritirandosi, Dio lascia fuori di sé uno spazio originario, tehiru, che consente l’esistenza di ciò che è altro da Dio. Scholem sottolinea che per i cabbalisti questa ritrazione è una «profondissima forma d’esilio, di autoproscrizione» (G. Scholem, La kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 141). Il Dio che in questo spazio interviene come creatore e che si svela nell’Adam Kadmon, l’uomo originario, si dispiega negli archetipi di tutte le cose, la cui forma è determinata dalle sefiroth, ondate di luce provenienti dalle sue orecchie, dalla bocca, dal naso e dagli occhi. Tutto l’esistente è segnato dal duplice movimento di creazione e ritrazione implicato dallo Tzimtzum: dall’esistenza manifesta di alcuni elementi al nascondimento e alla misteriosità di altri. In particolare la precarietà segna il secondo movimento del mito luriano. I vasi, che erano predisposti per accogliere e raccogliere le sefiroth emananti dagli occhi dell’Adam Kadmon, si rompono sotto il loro urto: «duecentottantotto scintille scaturite dal fuoco del “giudizio”, le più dure e nere, precipitano in basso e si mescolano ai gusci dei vasi spezzati […]. La rottura dei vasi continua in tutti i gradi successivi della emanazione e creazione; tutto è in qualche modo spezzato, tutto ha una macchia, tutto è incompiuto» (ivi, p. 143). Per rimediare a questo spezzamento che segna la creazione, dalla fronte dell’Adam Kadmon escono raggi di natura guaritiva: «La loro azione sta alla base del terzo stadio del processo simbolico, che i cabalisti chiamano Tikkun, restaurazione» (ivi, p. 144), il cui compimento è affidato in parte a Dio, ma soprattutto all’uomo. L’interpretazione della Kabbalah da parte di Scholem ha avuto un grande oppositore in Moshe Idel. Per questo interessante confronto cfr. D. Banon, Messianismi o messianismo? Il dibattito Idel-Scholem, “Humanitas”, 1-2, 2005, pp. 111-121. 21 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi, Milano 1967, pp. 42-43. Questa concezione, secondo Quinzio, abbraccia tutta la creazione, cosicché la Genesi sarebbe già da sempre parte dell’Apocalisse: «La genesi si compie per mezzo dell’apocalisse. Il giudizio finale è la creazione, tutto ciò che lo precede è una mostruosamente lunga gestazione, le catastrofi apocalittiche sono le doglie del parto (Mt 24, 8)» (S. Quinzio, Un Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1995, p. 273). 22 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1993, p. 101. 23 Ibidem. 24 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, intervista a cura di L. Lestingi, Liberal Sentieri, Roma 1996, p. 58. E ancora: «nell’orizzonte della rivelazione biblica l’éschaton non è il próton, non si perviene allo stesso punto dal quale si era partiti, non si chiude nessun circolo» (ibidem). 25 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 57. Solo raramente nei confronti del

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tempo Quinzio assume un atteggiamento costruttivo, ma per rinunciarvi subito: «Il tempo non è nelle nostre mani, è però nostro il poterlo riempire di desideri del nostro cuore. Eppure è più vero l’opposto, che il tempo è nelle nostre mani, nella nostra capacità di desiderarne il compimento nella consolazione, e che tuttavia noi non abbiamo la forza di riempirlo tutto con il nostro desiderio» (ivi, p. 66). 26 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 131. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 136. 29 Dopo la morte di Stefania, il nulla diventa quasi un’ossessione riversata nelle lettere ad Anna Giannatiempo, custode silenziosa di una disperazione ai limiti dell’umanamente sopportabile: «È vero, il nulla mi tenta, mi appare più desiderabile della speranza, ma insieme sento ancora l’orrore di questo. Fino a quando? Io so di non avere più in me nessuna forza, di reggermi ancora come per miracolo. Come sono stanco di non potere uscire dalla contraddizione del mio continuare ad esistere» (S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., pp. 64-65). E ancora: «L’ultima possibilità che ancora mi resta è di sprofondare definitivamente nel nulla ripetendo fino all’ultimo istante le parole del salmo: “il tuo amore è migliore della vita” (62, 4), anche se nel nulla anche l’amore si perde, ogni significato scompare» (ivi, p. 53). 30 S. Quinzio, Religione e futuro, Adelphi, Milano 2001, p. 161. La possibilità della rottura e dell’interruzione dello spaziotempo non è patrimonio, come nota Iiritano, di un orizzonte teoretico, non è una via aperta dalla filosofia: «Spezzare l’inerzia crono-logica di tale continuità spaziotemporale è possibile – è necessario – solo nel gesto paradossale della fede: che istituisce il kairós assoluto di un’altra realtà possibile: il Regno» (M. Iiritano, Apocalisse del nostro tempo, in AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., p. 48). 31 Cfr. S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 136. Ben diversa, quindi, dalla durata bergsoniana, che segnava il trionfo di un tempo singolare e celebrante l’esperienza individuale. Cfr. H. Bergson, Sulla molteplicità degli stati di coscienza. L’idea di durata, in Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896, a cura di P. A. Rovatti, tr. it. di F. Sossi, Mondadori, Milano 1986, pp. 45-81. 32 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 164. 33 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 67. 34 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 125. 35 S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, Fondazione Alce Nero, Isola del Piano (Pesaro-Urbino) 1997, p. 54. 36 Per una ricognizione analitica delle religioni storiche e cosmiche si rimanda soprattutto all’insostituibile opera di Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit.; oltre ai testi di Eliade, cfr. H. e H. A. Frankfort, J. A. Wilson, T. Jacobsen, W. A. Irwin, La filosofia prima dei greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli ebrei, tr. it. di E. Zolla, Einaudi, Torino 1963. Sul cristianesimo si veda in particolare H.-C. Puech (a cura di), Storia del Cristianesimo, tr. it. di M. N. Pierini, Mondadori, Milano 1997. 37 Quinzio trae spunto, in questa ricerca, dalla riflessione di Lévi-Strauss. In particolare cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, tr. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1990. Cfr. S. Quinzio, Mito ed escatologia, in Le dimensioni del nostro tempo, Rebellato, Padova 1970, p. 31.

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La posizione di Quinzio nei confronti della totalità si ripresenta in modo ambiguo. Se in alcune riflessioni egli si schiera apertamente in difesa della singolarità – sia essa la vita individuale, un evento, un pensiero – contro una visione cosmica onnicomprensiva, in altri frangenti, come in questo caso, sembra propendere per la necessità assoluta, in nome anche della verità, di una visione unificatrice e totalizzante. 39 «Quando Lévi-Strauss afferma che “l’oggetto del mito è di fornire un modello logico per risolvere una contraddizione”, è immediato osservare che qualunque operazione culturale non fa, in definitiva, che questo» (S. Quinzio, Mito ed escatologia, cit., p. 32). 40 Ivi, p. 34. Il riferimento in parentesi è all’opera di M. Eliade, Mito e realtà, tr. it. di G. Cantoni, Borla, Roma 1966 (riedito nel 1993). Per l’uomo mitico, nota Quinzio, tutte le attività umane dovevano conformarsi a quelle dei creatori, garanzia dell’esistere stesso della società. Reale era solo ciò che esisteva imitando l’eterno; mentre per l’uomo moderno ciò che determina il presente è la storia, per l’uomo arcaico era il mito. Si ha così una corrispondenza logica tra storia e mito che si trovano ad essere, entrambi, presupposti della situazione attuale. Gli avvenimenti della storia profana, tuttavia, risultano irripetibili, mentre quelli che accadono nel tempo mitico devono essere conosciuti e riattualizzati mediante il rito: «Il rito inverte il corso temporale ripristinando il tempo forte e significativo degli inizi; rende perciò l’uomo contemporaneo della creazione del mondo e, rinnovando la potenza creatrice delle origini, gli dà un magico dominio sulle cose» (S. Quinzio, Mito ed escatologia, cit., p. 35). In questo modo le società arcaiche mettevano in atto una loro storia della salvezza che si compiva non mediante una “riparazione” della vita, ma una sua ri-creazione ex-novo, attraverso la riattualizzazione operata dai miti cosmogonici. Si può comprendere meglio, allora, come la concezione ciclica del tempo fosse legata, in un certo senso, a un bisogno di salvezza, che indicava nel tempo degli inizi un’epoca felice e perfetta, di cui potersi riappropriare mediante il rito; da quest’aspirazione a un’umanità originaria perfetta derivano due conseguenze: da una parte un intento antistorico, che costituisce una costante dei sistemi arcaici, dall’altra, la necessità che venisse distrutto tutto l’esistente presente e passato: «La nuova creazione non può aver luogo prima che il mondo sia distrutto: “l’escatologia non è che la prefigurazione di una cosmogonia dell’avvenire” (M. e R.); “le visioni mitiche dell’‘inizio’ e della ‘fine’ del tempo sono omologabili” (Et. Rit.)» (ivi, p. 36). I Riferimenti in parentesi sono a M. Eliade, Mito e realtà, cit., e Id., Il mito dell’eterno ritorno, cit. 41 Nell’ambito dell’induismo, ad esempio, l’uomo perde la sua funzione di ricreazione periodica del mondo e tenta, infine, solo di evadere dal ciclo cosmico. Agli dei e agli eroi subentrano uomini e personaggi con le loro vicende storiche e con gli avvenimenti drammatici che li travolgono. Con il rifiuto di prestare attenzione ai protagonisti del mito si passa a una speculazione di tipo più filosofico: «Il discepolo del Sâmkhya-Yoga comprende di non avere alcuna responsabilità nella catastrofe primordiale di cui gli parla il mito e di non avere, di conseguenza, alcuna relazione reale con la vita, il mondo, la storia […]. Vicenda analoga percorre la Grecia presocratica passando dagli dei tradizionali ai misteri, attraverso la fase intermedia del mondo omerico in cui il mito decade a 38

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racconto» (S. Quinzio, Mito ed escatologia, cit., pp. 40-41). Alcuni studiosi offrono della ciclicità nell’induismo prospettive differenti e molto interessanti. A tal proposito si veda M. Piantelli, La concezione del tempo nell’esperienza dell’induismo. Spunti di riflessione jaya jayantakantaka, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., pp. 117-156. L’autore dissente con l’idea che nella prospettiva indiana il tempo possa essere considerato omogeneo, opposto, dunque, rispetto alla concezione del kairós. Anzi, al centro della concezione indiana, starebbe proprio una particolare concezione del salto da un istante all’altro. A tal proposito cfr. anche L. Silburn, Instante et cause. Le discontinu dans la pensée philosophique de l’Inde, De Boccard, Paris 1989. 42 S. Quinzio, Mito ed escatologia, cit., pp. 42-43. Quinzio concorda con Eliade anche sul fatto che quest’idea del tempo, fondamento dell’escatologia e dell’apocalittica giudeo-cristiane, sia di origine iranica, poiché in quella tradizione la storia non era considerata eterna, ma, pur ripetendosi infinite volte, si sarebbe conclusa con un termine ultimo, a opera di una catastrofe finale, una sorta di giudizio universale. La prospettiva messianica ebraica e le derivate concezioni cristiane si inscriverebbero in quest’orizzonte, mettendo l’accento sulla storia e ponendo sullo sfondo, in second’ordine, le implicazioni cosmiche, subordinate agli eventi della storia umana. Quinzio, insieme ad Eliade, sottolinea, tuttavia, anche il processo inverso, cioè l’influenza e la penetrazione delle concezioni cicliche nell’orizzonte giudeo-cristiano, «già con il simbolismo dell’anno liturgico. […] Com’era già accaduto per i miti cosmici, anche il mito storico cristiano decade a sua volta nella ripetizione rituale e sacramentale dell’incarnazione, resurrezione e ascensione del Verbo» (ivi, p. 45). 43 Ivi, p. 49. Quinzio è consapevole che molti studiosi accusano la concezione ebraico-cristiana di aver disanimato il mondo classico. Oltre alla feroce critica nietzscheana e – in parte e in modo del tutto differente – a quella weiliana, anche psicanalisti junghiani come James Hillman hanno individuato nella religione ebraico-cristiana l’origine, ad esempio, delle molteplici “fantasie di catastrofe”, nate dalla considerazione del mondo come spazio puramente oggettivo e inanimato, da sfruttare a unico beneficio dell’uomo (cfr. J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2002; Id., L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Biblioteca universale Rizzoli, Milano 2004). Quinzio dissente da questa interpretazione riduttiva dell’orizzonte ebraico-cristiano, sebbene condivida alcune diagnosi sugli effetti nefasti di una certa demitizzazione. Non può, tuttavia, seguire Hillman nelle sue conclusioni che, come rimedio, proporrebbero il ritorno a un mondo in cui tutti gli opposti vengano superati: «Non credo sia aperta la via al ritorno all’infanzia del mondo, che già Leopardi vedeva chiusa. “Lasciar cadere il gioco degli opposti” significa anzitutto non distinguere la vita dalla morte, concepire morte e vita come un indistinto flusso cosmico nel quale scompaiono i volti, significa non serbare memoria, non avere pietà» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 36. Cfr. inoltre ivi, pp. 34-36). Sulla demitizzazione, oltre a R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, tr. it. di L. Tosti e F. Bianco, Queriniana, Brescia 1990 e R. Bultmann - K. Jaspers, Il problema della demitizzazione, tr. it. di R. Celada Ballanti, Morcelliana, Brescia 1995, cfr. anche F. Gogarten, La questione su Dio, tr. it.

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di G. Penzo, Queriniana, Brescia 1978; Id., Demitizzazione e chiesa, tr. it. di G. Penzo e U. Penzo Kirsch, Queriniana, Brescia 1981. 44 La commistione con la religione ebraico-cristiana di concetti ad essa estranei, secondo Quinzio, non è stata considerata con sufficiente attenzione, tanto che molti uomini di chiesa hanno con superficialità consentito, quando non incentivato, la nascita di movimenti orientaleggianti: «si trova qui una tendenza all’immersione nel mistero del cosmo e quindi un allontanamento, anche esistenziale, sia dalla storia che dalla propria concreta presenza nel mondo» (S. Quinzio - G. Caramore, Una conversazione con Sergio Quinzio, intervista a cura di G. Caramore, “Bailamme”, 20, 1996, p. 121). Cogliendo i tratti più discutibili di nuove forme di religiosità come quella New Age, confusa ed epigonale mescolanza delle più disparate tradizioni religiose, espressione di un nuovo consumismo spirituale, Quinzio osserva: «È un modo drammaticamente serio, un documento della fine dell’Occidente e del cristianesimo […]. Quel che si può intravedere in questa direzione è la totale confusione di tutte le tradizioni, lo zen in ville californiane e lo yoga del borghese padano, l’ibrido assoluto e assolutamente sterile, il caos, il nulla» (S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 174). 45 S. Quinzio - G. Caramore, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 121. Lo stesso Eliade afferma che il declino del cristianesimo comporti una speculare accoglienza di forme alternative di religiosità tradizionale (cfr. M. Eliade, Giornale, tr. it. di L. Aurigemma, Boringhieri, Torino 1976). 46 Cfr. M. Eliade, Il terrore della storia, in Il mito dell’eterno ritorno, cit. 47 S. Quinzio, La croce e il nulla, p. 31. 48 Ivi, p. 29. Identiche affermazioni si trovano in S. Quinzio, Ritorno del sacro, in La speranza nell’Apocalisse, postfazione di D. Garota, Paoline, Milano 2002, pp. 32-33 e sgg., in cui si sofferma sui pericoli che quest’attrazione per il tempo ciclico e per il sacro cosmico potrebbe comportare, con la sua conseguente perdita di distinzione tra bene e male e la relativizzazione del tutto, riassorbito nell’ordine cosmico, rendendo vani i secoli cristiani che proprio su questo fronte avevano combattuto: «Insomma, il “ritorno del sacro” cosmico coincide con la fine storica del cristianesimo e della “civiltà” che da esso è nata: si tratterebbe di chiudere una parentesi bimillenaria, di ritornare al punto in cui si era aperta, e di fare come se non ci fosse stata» (ivi, p. 35). 49 S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 31. 50 L’interpretazione di Eliade, infatti, giungeva ad affermare che il tempo lineare non fosse che il frutto di una riduzione dall’orizzonte cosmico dei miti primordiali all’orizzonte storico, con una sottolineatura inedita dell’evento escatologico il quale, nel mito, aveva assunto la forma del riattingimento dell’originaria età dell’oro. Quinzio era rimasto abbastanza colpito da questa analisi: «L’accentuazione della prospettiva escatologica come momento fondante universalmente il mito, anziché come suo particolare e tardivo sviluppo, consente così di superare la dicotomia che separa le religioni cosmiche orientali, con la loro concezione di un tempo circolare dal quale ci si libera per immersione contemplativa nell’Assoluto, dalle storiche religioni monoteistiche mediterranee, con la loro concezione di un tempo lineare che un’azione decisiva spezza in una fine definitiva e in un definitivo inizio» (S. Quinzio, Mito ed escatologia, cit., pp. 43-44).

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S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 18. E aggiunge: «L’India insegna che l’uomo terrorizzato nelle tenebre perché stringe tra le mani un serpente è liberato dal suo terrore quando, illuminatasi la scena, constata che il serpente era un’innocua fune» (ibidem). 52 Ivi, p. 19. 53 S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 37. Quinzio ne era turbato proprio in relazione alle vicende individuali, ridotte a pura contingenza e private del senso profondo che, pure, hanno rivestito nella vita: «l’induismo insegna la vanità di ogni memoria e di ogni speranza, dal momento che – è scritto – l’incontro di due esseri umani – moglie e marito, genitore e figlio – è come l’incontro di due pezzi di legno nell’oceano, che le onde per un momento fanno toccare e poi subito separano nuovamente e per sempre» (ibidem). 54 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 19. 55 Ivi, p. 21. 56 «La vanità – come scrive Piero Stefani – è la maniera in cui, nell’orizzonte del mondo, si presenta il finire; il senso della vanitas culmina quindi nella capacità di osservare la realtà guardandola dal punto di vista del suo venir meno» (P. Stefani, Dies Irae. Immagini della fine, Il Mulino, Bologna 2001, p. 19). 57 O meglio, come scrive Stefani, «fiato che spira, in cui si può far tesoro dell’ambiguità propria di un verbo come “spirare” che indica tanto il muoversi leggero dell’aria, quanto la fine del vivente che esala l’ultimo respiro» (P. Stefani, Dies Irae. Immagini della fine, cit., p. 25). 58 «L’havel è la vita osservata dalla prospettiva del suo venir meno, per questo Qohelet parla sempre dell’esistere e mai del morire, nelle sue pagine non ci sono simboli di morte, ci può essere solo una lunga, fascinosa metafora dell’inesorabile sfasciarsi del corpo umano nel corso della vecchiaia» (P. Stefani, Dies Irae. Immagini della fine, cit., p. 26). Considerando astorica e non ciclica la concezione del tempo del Qohelet, Stefani si pone in dialogo dialettico con autori come Natoli che, invece, fanno della ciclicità del tempo la chiave ermeneutica di questo testo biblico «Il vivere e il morire si svolgono entro la stabilità del ciclo che però non è considerato come vita immortale, ma come morte perenne. Empedocle e Qohelet: parrebbe lo stesso pensiero, mentre si cela una radicale opposizione. In Empedocle prevale la felicità del generare, nel Qohelet la tristezza del morire» (S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 1986, p. 219). 59 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., pp. 230-231. 60 Aeschylus, Agamennone, 177, in Orestea: Agamennone, Coefore, Eumenidi, introduzione di V. Di Benedetto, tr. it. di E. Medda, L. Battezzato, M. P. Pattoni, Bur, Milano 1999. Simone Weil riflette sulle possibilità gnoseologiche della conoscenza, a partire proprio da questa affermazione di Eschilo. Per un approfondimento su questo argomento mi permetto di rinviare a R. Fulco, «Il dolore della conoscenza», in Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, cit., p. 207 e sgg. 61 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 231. 62 Anche se, in realtà, altrove Quinzio sembra propendere per una interpretazione ciclica tout court della temporalità in Qohelet: «Non si può negare che l’idea di tempo ciclico compare in un libro tardo come l’Ecclesiaste» (S. Quin51

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zio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 80); afferma inoltre: «A rigore, sarebbe difficile anche affermare che la Bibbia ha una concezione lineare della storia, come pure tutti ammettono, dal momento che tutti viviamo in un orizzonte storico: ci sono infatti testi, come Qohélet, che la negano esplicitamente» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 69-70). Quinzio sembra concordare con von Rad – citato proprio a conferma di questa teoria: «Il pensiero dell’Ecclesiaste – scrive, infatti, von Rad – è completamente astorico: con esso la sapienza ha perso l’ultimo contatto con il pensiero storico salvifico di Israele ed è ricaduta del tutto coerentemente nel pensiero ciclico orientale» (G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, a cura di M. Bellincioni, Paideia, Brescia 1972, vol. I, p. 511) – ma aggiunge una notazione a margine: «Qohelet però, va notato, è disperato di questo» (ibidem), con l’intento di sottolineare la distanza non eludibile tra l’orizzonte ebraico, sempre attento alla sofferenza del singolo, e l’orizzonte cosmico che dissolve il dolore nella onnisignificanza della totalità. 63 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 233. 64 Ivi, p. 67. Stesse riflessioni in S. Quinzio, Apocalittica neotestamentaria e suo significato attuale, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., p. 180. 65 S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 77. Il testo di Eliade a cui si riferisce è M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, cit. 66 La posizione di Quinzio al riguardo viene meglio esplicitata nel testo Radici ebraiche del moderno, in cui il tentativo di riscoprire la primordiale aura ebraica del mondo occidentale parte, appunto, dalla concezione del tempo. Cfr. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit. Sulla predilezione quinziana per l’ebraismo cfr. M. Iiritano, In lotta contro il tempo, in AA.VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., in particolare le pp. 15-26. 67 S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 79. Quinzio ha presenti anche gli studi di Jenni che, soffermandosi sulla parola ‘et, tempo, afferma: «Dovendo parlare di ‘et nei suoi contesti teologici si possono solo indicare alcune affermazioni e formule usate dai vari autori, e si deve rinunciare ad una trattazione della concezione veterotestamentaria del tempo come tale» (E. Jenni, voce ‘et, tempo, in E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, tr. it. di G. L. Prato, Marietti, Casale Monferrato 1982, vol. II). Cfr. anche P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, Queriniana, Brescia 2004. 68 Quinzio, in certi frangenti, ha però parlato di “filosofia” – sempre virgolettato – riferendosi all’orizzonte biblico, e testimonianza eclatante ne è un’antologia di testi biblici, da lui curata, il cui titolo è La filosofia della Bibbia, a cura di S. Quinzio, Le Monnier, Firenze 1981. Nell’introduzione, Quinzio specifica il senso in cui si può parlare di “filosofia” nell’ambito ebraico, confermando, in realtà, l’assoluta distanza rispetto a ciò che con questo termine si intende nell’orizzonte greco: «La Bibbia è un universo. Le sue pagine […] raccolgono memorie tramandate da un’età remotissima. […] Unificare tutto ciò in una “filosofia” è tuttavia possibile. Accade nella Bibbia quel che accade del popolo che l’ha espressa, gli ebrei […], i quali conservano ancora oggi, malgrado millenni di dispersione in tutti i paesi del mondo, caratteri unici ed inconfondibili, riconoscibili al di sotto dei più disparati condizionamenti ambientali: nei cabalisti medievali come nel pensiero di Marx e di Freud, nei ghetti all’alba del

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mondo moderno come nell’America di Isaac Bashevis Singer, nel chassidismo fiorito durante i due ultimi secoli in Europa orientale come nei sabra palestinesi d’oggi» (S. Quinzio, La filosofia della Bibbia, cit., p. 7). 69 S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 79. Già André Neher, come Quinzio sottolinea, aveva notato questa unicità, ritenendo che il pensiero ebraico, caso unico nel panorama antico, avesse letto il tempo come storia irreversibile e ricca di significati, in cui il destino dell’uomo era sempre in gioco (cfr. ivi, p. 83. Il testo a cui Quinzio si riferisce è A. Neher, Vision du temps et de l’histoire dans la culture juive, in AA.VV, Les cultures et le temps, Payot, Paris 1975, p. 173). Un altro dei maggiori difensori di questa unicità è stato Heschel: «L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo. […] Ci insegna a sentirci legati alla santità nel tempo, ad essere legati ad eventi sacri, a consacrare i santuari che emergono dal grandioso corso di un anno. I Sabati sono le nostre grandi cattedrali» (A. J. Heschel, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, tr. it. di L. Mortara ed E. Mortara di Veroli, Rusconi, Milano 1972, pp. 14-15). 70 In realtà la dimensione ciclica, se ha un’influenza sulla religione ebraica, ce l’ha a partire dall’importanza che i ritmi della natura avevano nel regolare le attività agricole, come si evince, ad esempio, dalla celebrazione delle feste ebraiche, cadenzate ancora all’interno del ciclo stagionale, ad esclusione del Sabato che ha, infatti, un ruolo del tutto speciale per la comprensione della concezione ebraica del tempo: «Il sabato è completamente indipendente dal mese e non ha alcuna relazione con la luna; la sua data non è determinata da alcun evento della natura, ma dall’atto della creazione. L’essenza del sabato è assolutamente al di fuori dello spazio. […] In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo» (A. J. Heschel, Il Sabato, cit., p. 18). Proprio nell’essersi differenziato da questo orizzonte primitivo consiste una delle maggiori peculiarità dell’ebraismo: «Uno dei fatti più importanti della storia della religione è stata la trasformazione delle festività agricole in commemorazione di eventi storici. […] Mentre le divinità degli altri popoli erano associate a luoghi o a cose, il Dio di Israele era il Dio degli eventi: il Liberatore dalla schiavitù, il Rivelatore della Torà […]. Era nata la fede nell’incorporeo, nell’inimmaginabile» (ivi, p. 14). 71 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 20-21. Anche per la voce ‘olam, eternità, la fonte è E. Jenni, voce ‘olam, in E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, cit. Probabilmente in questa sottolineatura della differenza tra orizzonte greco ed ebraico Quinzio è stato influenzato dalla posizione radicale di Neher: «Se esiste, all’origine, un orientamento comune a tutte le forme di pensiero umano, ci si trova qui dinanzi ad una di quelle biforcazioni che hanno definitivamente dissociato l’unità primaria e guidato le avventure dello spirito verso vie diametralmente opposte» (A. Neher, Vision du temps et de l’histoire dans la culture juive, cit., p. 172). 72 «La sua libertà – scrive Scholem – che è nel contempo la sua perfetta autarchia, il suo essere-posto-soltanto-su-di-sé, gli consente di “evocare [anrufen] il nulla”, come dice, nel secolo XI, Shelomon ben Gabirol nella sua poesia in lingua ebraica intitolata la Corona del Re, e di produrre da esso l’essere. Questa chiamata che risuona nel nulla, però, non costituisce affatto una qualche materia della creazione: non è con [aus] la parola ma per il tramite [durch] della pa-

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rola che Dio crea, come suona la corretta formulazione di questa idea» (G. Scholem, Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, tr. it. di M. Bertaggia, Marietti, Genova 1986, p. 45). 73 Sui miti greci della creazione, antecedenti alla speculazione propriamente filosofica, ma che certamente l’hanno influenzata cfr. J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, tr. it. di M. Romano e B. Bravo, Einaudi, Torino 1978. Cfr. anche R. Graves, I miti greci, tr. it. di E. Morpurgo, Longanesi, Milano 1983, pp. 21-28. 74 A. Neher, L’esilio della parola, tr. it. di G. Cestari, introduzione di S. Quinzio, Marietti, Genova 1983, p. 103. 75 Neher precisamente afferma: «Dabar infatti è una di quelle parole-sintesi, o meglio di quelle parole moniste, così frequenti in ebraico, che rispettano l’unità profonda e originale della creazione e che, con la loro esistenza e con la densità dei loro significati simultanei, protestano contro i dualismi e i pluralismi delle culture non bibliche e di quelle che non sono rimaste fedeli alle loro fonti bibliche primitive» (A. Neher, L’esilio della parola, cit., p. 103). Anche Heschel torna su questa peculiarità di davar: «Nell’ebraico biblico non esiste un equivalente della parola “cosa”. La parola davar, che nell’ebraico posteriore è venuta ad indicare la cosa, nell’ebraico biblico significa: discorso, parola, messaggio, resoconto, notizia, consiglio, richiesta, promessa, decisione, sentenza, tema, storia, detto, espressione, affare, occupazione, atti, buone azioni, eventi, modo, maniera, ragione, causa: non significa mai “cosa”. È un segno di povertà linguistica o non piuttosto l’indizio di una visione del mondo non distorta, cioè del non identificare la realtà (derivata dalla parola latina res, cosa) con il mondo delle cose?» (A. J. Heschel, Il Sabato, cit., p. 13). 76 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 21. 77 Ivi, p. 20. 78 Cfr. S. Quinzio Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 82. 79 Come sottolinea Neher, è soltanto una memoria non ebraica sugli ebrei a proiettare nella loro vicenda discontinuità e interruzioni, se non addirittura il totale annientamento di ciò che può definirsi una storia ebraica: «La memoria ebraica si sente radicata nella storia universale in una continuità senza interruzione, e nella coscienza di una luce interiore che la guida dal primo sabato di Adamo fino a quell’ultimo sabato messianico in cui l’incontro degli ebrei con l’uomo, e quello del popolo ebraico con l’umanità ridiverranno evidenti» (A. Neher, Chiavi per l’ebraismo, tr. it. di E. Piattelli, Marietti, Genova 1988, p. 23). 80 Tale relazione dinamica è stata rappresentata, ad esempio, da Rosenzweig mediante lo schema stellare che coimplica Dio-mondo-uomo, sui vertici di uno dei triangoli della stella di David, e creazione-rivelazione-redenzione, sui restanti tre vertici della stessa stella. Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Genova, 1985. 81 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., pp. 21-22. Questa attenzione alla storia è frutto, come si è già detto, anche di una immagine di Dio non come pienezza d’Essere ma essenza che diviene insieme all’uomo: «Il divenire, il tempo, la storia, in cui signoreggiano sofferenza e morte, non potranno più essere rimossi come ontologicamente irrilevanti, se cesseranno di venire commisurati con un “Essere” che è possibile pensare come eterno solo facendo astrazione dal tempo e dalla vita. È nel tempo, non nell’eternità, che va affrontato il problema del

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“senso”» (U. Regina, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, in Id., La soglia della fede. L’attuale domanda su Dio, Studium, Roma 2001, p. 133). 82 Come non ha mancato di segnalare Carl Schmitt nella sua analisi della storica e simbolica contrapposizione tra terra e mare. Cfr. C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, in Terra e mare, a cura di A. Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986, pp. 87-90. 83 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 49-50. Il riferimento è alla celebre affermazione: «Al mito di Ulisse che torna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, p. 219). Non sono mancate, comunque, sulla scorta dell’Ulisse dantesco – il quale, attraversate le colonne d’Ercole, si schianta nel “folle volo” senza ritorno – altre interpretazioni; si veda M. Cacciari, Di naufragi e utopie, in L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 63-91. 84 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 51. André Neher parla del passaggio dalla Genesi all’Esodo, dunque dal momento creazionale alla storia dell’uomo, proprio in relazione alla trasformazione radicale subita da Abram che, dopo la chiamata di Dio, diventa Abramo (Gn 17, 5), nome con il quale da quel momento in poi sarà designato. La valenza di questo cambiamento – che Neher rintraccia sulla scorta della massora, l’antica sapienza ebraica che pone attenzione alle singole lettere, alle maiuscole e le minuscole, agli spazi bianchi – non è solo psicologica, ma anche cosmica: «Passando da Abram ad Abramo, è l’universo intero che compie un salto: il salto dall’Essere al Divenire. La creazione è ormai Storia» (A. Neher, L’esilio della parola, cit., p. 130). 85 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 65. 86 S. Quinzio, La filosofia della Bibbia, cit., p. 8. 87 S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., pp. 83-84. 88 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 32. 89 Ivi, pp. 31-32. Questo deriva dal fatto che la lettura ebraica della Bibbia, alla concezione di un universo creato nella sua completezza «sostituisce la visione di un mondo in cui esistono lacune, vuoti e, inversamente, supplementi e aggiunte. […] Spingendo le cose ancora più lontano, osa penetrare nel mondo per scoprire, con stupore, ma senza compiacimento, che tale opera non è stata assolutamente meditata né realizzata secondo un piano prestabilito, ma, proprio al contrario, è scaturita da una impreparazione radicale, conservando durante tutto il corso della sua esecuzione i caratteri volta a volta deludenti o stimolanti di una improvvisazione» (A. Neher, L’esilio della parola, cit., pp. 71-72). 90 Ma proprio questa incertezza è l’unica precondizione affinché possa darsi evento: «Poiché un possibile che fosse solo possibile (non impossibile), un possibile sicuramente e certamente possibile, anticipatamente accessibile, sarebbe un cattivo possibile, un possibile senza avvenire, un possibile già scartato, per dir così, sicuro della sua vita. Sarebbe un programma o una causalità, uno sviluppo, uno svolgimento senza evento» (J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, pp. 42-43). Su questo tema cfr. C. Resta, «Invii», in Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Guerini, Milano 1990, in partico-

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lare pp. 199-211 e in relazione alla centralità che questo tema assumerà nell’ultimo Derrida, Id., L’evento dell’altro, cit. 91 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 32. 92 Scrive Neher in riferimento a queste due concezioni teologiche: «L’una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull’altra riva, di fronte all’Alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terraferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso. Succeda quel che si vuole sul ponte, anche se il suo tavolato vibra al punto di dar talvolta l’impressione di cedere, esso tiene sicuramente! […] L’altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza […] non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale, non assicurando alla fine essa stessa alcuna garanzia certa. […] Il Dio della prova, dicevamo, è il Dio dei ponti sospesi» (A. Neher, L’esilio della parola, cit., p. 146). Nella Bibbia, del resto, ci sono molti casi in cui la felicità iniziale non è affatto ristabilita, come nella storia di Noemi o di Giobbe. 93 Cfr. G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, cit., p. 131. Questa questione, che aveva occupato Quinzio già negli anni Ottanta (cfr. S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 84 e sgg.), viene ripresa in seguito in Radici ebraiche del moderno, cit., p. 22 e sgg. 94 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 23. Stessa argomentazione in S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 84. 95 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 23. 96 Cfr. ivi, p. 24. 97 Ivi, p. 25. La possibilità di calcolare i tempi ultimi è abbastanza evidente nel libro di Daniele in cui la salvezza disperatamente cercata «diventa oggetto di speculazioni apocalittiche, che rivelano tanto più la loro impotenza quanto più si sforzano di afferrare, di stringere, di possedere la conoscenza dei tempi futuri fino al giorno del Signore. Dal grande vuoto dove tutto sembra perdere significato, l’angoscia proietta nel futuro il bisogno di certezza. L’itinerario temporale appare allora come rigidamente prefissato da Dio (4, 14; 4, 22; 7, 12; 11, 36; Lc 4, 6), che interviene con strepitosi miracoli per correggere il corso degli eventi (3, 49-50; 6, 22-23; 14, 30-42), e quindi il tempo può diventare oggetto di calcolo (10, 20)» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 317). Nonostante la lotta contro l’ellenizzazione della religione ebraica, l’ebraismo rabbinico avrebbe, in realtà, concepito la Torah in maniera ellenistica, considerandola una summa per inglobare la totalità dell’esistenza e del mondo, così come pretendevano le filosofie di epoca ellenistica: «studi recenti non esitano a parlare di dipendenza rabbinica dall’ellenismo» (ibidem). Prima ancora di Gesù, addirittura, la Palestina avrebbe già subito notevoli influenze elleniche: «Martin Hengel, in Ebrei, greci e barbari, giunge fino a definire “il giudaismo dell’epoca ellenistico-romana nella madre-patria e nella diaspora complessivamente come giudaismo ellenistico”» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 66). Insieme a Hengel, Quinzio ricorda anche gli studi di Aimé Pallière e Isaac Heinemann, sottolineando come quest’ultimo «delle duecentocinquantasei pagine del suo libro La loi dans la pensée juive. De la Bible a Rosenzweig ne dedica solo cinque alla Bibbia» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 40).

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S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 25. S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., p. 88. 100 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 25-26. Stesse argomentazioni in S. Quinzio, Figure del tempo nella Bibbia, cit., pp. 88-89. 101 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, p. 26. In effetti, nella sua difesa dell’apocalittica ebraica con la conseguente confutazione dell’idea di von Rad di una collocazione di essa in ambito sapienziale, Quinzio si serve, indirettamente, delle idee espresse da Scholem relativamente a un altro contesto, cioè quello del profetismo biblico. Scholem, infatti, attribuisce quel tipo di motivazioni, per così dire, “esistenziali”, solo alle predizioni dei profeti, ritenendo, comunque, che esse non contengano ancora nessuna concezione compiuta del messianismo; gli apocalittici, invece, partirebbero sempre, a suo avviso, da un orizzonte di comprensione di tipo cosmico, estraneo, dunque, alle concrete situazioni storiche (cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 111-113). Dunque, a rigore, l’apocalittica ebraica sarebbe da considerarsi avulsa da qualsivoglia dimensione esistenziale particolare. La libertà ermeneutica di Quinzio, non a caso, ha suscitato grande diffidenza proprio in ambito ebraico dove, probabilmente, si stenta a capire l’apologetica quinziana del messianismo apocalittico condotta su basi a volte abbastanza estranee a quelle che avevano comportato le fratture interne all’ebraismo stesso. 102 Generalmente, con il termine messianismo, si indica l’insieme delle idee ebraiche relative al Messia e ai tempi messianici. Il m¯a ˇs îah, nella tradizione ebraica, è l’unto del Signore che può incarnare i tratti o di un «messianismo regale» nella discendenza davidica o quelli di un «messianismo escatologico», diversamente accentuato in senso sacerdotale, profetico e apocalittico (cfr. R. Fabris, voce Messianismo escatologico e apparizione di Cristo in Dizionario Teologico Interdisciplinare, vol. II, Marietti, Genova 1977). È da sottolineare, inoltre, che in alcuni elementi tipici dell’apocalittica del II secolo a. C. «l’intervento definitivo di Dio prescinde dal ruolo mediatore di una figura messianica al punto che si può parlare di una “escatologia senza Messia”» (ivi, p. 519). Cfr. anche H. Strauss, Messianisch ohne Messias. Zur Überlieferungsgeschichte und Interpretation der sogenannten messianischen Texte im Alten Testament, Lang, Frankfurt a. M. 1984; P. Stefani, Il nascondimento messianico, “Humanitas”, 1-2, 2005, pp. 169-177. Il tratto comune delle profezie messianiche veterotestamentarie è l’attesa di un nuovo stato di cose realizzato sulla terra, che si concretizzerà, da parte di Dio, in una sua manifestazione eclatante, seguita da un definitivo stabilirsi del suo Regno, e, da parte dell’uomo, in una totale fedeltà al Signore, in perfetta santità e in uno stato di pace e giustizia (cfr. L. Dennenfeld, voce Messianisme, in Dictionnaire de Théologie Catholique, Librairie Letouzey et Anê, Paris 1929, vol. X). Soltanto nei libri di Isaia e Daniele si affaccerà, per la prima volta, l’idea di resurrezione, che allargherà ai defunti la gioia della possibilità di entrare nel regno messianico. Per ciò che concerne il tempo di realizzazione della promessa, dato che la felicità messianica si dovrebbe realizzare sulla terra, nessuno dei profeti l’ha prevista come evento lontano nel tempo, ma, anzi, sempre imminente, se non già alle porte, come si può notare in Amos o Osea. Un di98 99

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scorso a parte meriterebbero quelle teorie che indicano un terreno più antico, rispetto alla storia di Israele, a partire dal quale avrebbero avuto origine le idee messianiche (cfr. L. Dennenfeld, voce Messianisme, cit., p. 1543 e sgg.). Sul messianismo cfr. anche D. Banon, Il messianismo, tr. it. di V. Lucattini Vogelmann, Giuntina, Firenze 2000, nonché l’interessante e ricco volume monografico di “Humanitas”, 1-2, 2005, il cui titolo è “Messianismo”. 103 Cfr. S. Quinzio, «L’ebraismo secondo Scholem», in Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 56-61, nonché gli innumerevoli passi dedicati a quest’autore, disseminati nella gran parte delle sue opere. Quinzio sottolinea la distanza che Scholem prende da quasi tutti gli altri interpreti a lui contemporanei, in particolare da Buber e Rosenzweig: «A Buber, Scholem rimproverava innanzitutto di aver misconosciuto la vera ispirazione della Kabbalah, risolvendo l’istanza suprema espressa dai suoi simboli nel rapporto, in definitiva psicologico, tra l’“Io” umano e un eterno “Tu”. A Rosenzweig rimproverava un sostanziale abbandono dell’autentica prospettiva messianica, in conseguenza della sua mistica concezione della vita ebraica nella condizione d’esilio come già intimamente redenta, in quanto vissuta come consapevole estraneità al mondano. Fu invece più vicino a Benjamin, un uomo che prendeva sul serio l’idea di “catastrofe finale” e che “alla fine della sua vita cadde in una disperazione totale”» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 60-61). 104 La corrente restaurativa mira al ritorno a una condizione passata ritenuta ideale rispetto alla presente e quindi, in essa, la tensione e la speranza sono rivolte a un passato felice segnato dalla vita con i patriarchi di Israele. Quella utopica è basata sulla speranza in un futuro in grado di garantire quella condizione ideale che gli altri identificavano, invece, nel passato. In realtà esse si intrecciano costantemente, poiché nella speranza messianica, di fatto, coesistono. Scholem affianca a queste correnti anche quella conservativa, che, mirando alla difesa della condizione degli ebrei durante l’esilio, in realtà era più preoccupata dell’articolazione e della conservazione della legge religiosa che doveva guidare l’ebreo nel tempo dell’esilio. Per questo motivo tale corrente, incentrata soprattutto sull’halakhah, se è stata fondamentale all’interno dell’ebraismo rabbinico, non ha avuto influenza nella formazione del messianismo in quella società (cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., pp. 109-110). 105 Scholem afferma che «in questa utopia orientata in senso restaurativo consapevolmente o inconsapevolmente, si insinuano elementi che in sé non hanno alcunché di restaurativo e che derivano, invece dalla visione del tutto nuova del mondo, da realizzare messianicamente» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 110). 106 Cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 37. Scrive Maimonide: «Le parole di Isaia: “il lupo abiterà con l’agnello e la pantera si sdraierà accanto al capretto” sono una parabola e un’allegoria la quale significa che Israele abiterà in sicurezza tra gli empi delle nazioni pagane, che sono paragonate a un lupo e a una pantera» (Maimonide, Codice di Leggi, “Regole dei re e delle loro guerre”, 11, 1-4). Secondo Banon, in Maimonide «la priorità è conferita alla legge e ai precetti e non all’escatologia messianica […]. L’avvento del Messia non ha prodromi miracolosi, non si sottrae al processo storico e non libera affatto gli indi-

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vidui dalle loro responsabilità politiche e religiose. In altri termini Maimonide rifiuta ogni antinomismo» (D. Banon, Il messianismo, cit., p. 38). I tempi messianici, dunque, non sarebbero al di là della storia, e dall’era messianica sarebbe escluso ogni elemento soprannaturale, secondo le parole dei maestri: «La sola differenza tra questo mondo e i giorni del Messia è l’asservimento (di Israele) alle nazioni» (Berakhot 34b e Sanhedrin 91b). Uno degli autori moderni che più si sarebbe inserito in questa tradizione razionalista è Rosenzweig, il quale avrebbe avuto una salda volontà di mettere in secondo piano i fermenti apocalittici propri dell’ebraismo, in perfetta sintonia con un antica e ben radicata corrente della tradizione giudaica, di cui egli sarebbe l’ultimo convinto sostenitore, come già sottolineato da Scholem (cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 37-38). Si vedano anche le pagine che Quinzio dedica a Rosenzweig in Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 27-28; Id., La croce e il nulla, cit., pp. 179-180; 201-202. 107 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 38. 108 Cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., pp. 126-127. Si apre qui la complessa questione della differenza tra messianismo ebraico e cristiano messa in luce da Scholem e sulla quale è intervenuto in maniera polemica Taubes, altro grande pensatore del messianismo (J. Taubes, La disputa tra ebraismo e cristianesimo. Su una controversia insolubile, in Il prezzo del messianismo, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 13-27; Id., Il prezzo del messianismo, in Il prezzo del messianismo, cit., pp. 37-44. Su Jacob Taubes, studioso per molti versi eccentrico e frammentario, ma sempre di estremo interesse, è oggi disponibile l’importante contributo di Elettra Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004). Scholem ascrive la spiritualizzazione al solo cristianesimo, ritenendo che ciò comporti un totale oblio della questione messianica e un conseguente atteggiamento di distacco dal mondo, essendo la salvezza, per i cristiani, un evento niente affatto pubblico, ma, anzi, relativo solo all’anima dei singoli. A questa conclusione Scholem era giunto, tra l’altro, mediante un’interpretazione del pensiero di Paolo – considerato come un momento di crisi della tradizione ebraica, simile a quello causato da Sabbatai Zevi. Taubes e Scholem divergono proprio nell’interpretazione di Paolo, come rileva Elettra Stimilli: «Coerentemente alla sua analisi del messianismo, Scholem interpreta Paolo come un momento di rottura, una “crisi della tradizione”. Taubes, invece, individua nel pensiero di Paolo un punto di svolta, ma – e questo è decisivo – intimamente connesso e conseguente alla più autentica logica dell’idea ebraica del messianismo» (E. Stimilli, Il messianismo come problema politico, in J. Taubes, Il prezzo del messianismo, cit., p. 168). L’antinomismo paolino, ad avviso di Taubes, non è affatto antitetico alla tradizione ebraica e fuori da essa, ma, anzi, costituirebbe il risultato della più pura logica messianica, dato che il Messia è proprio colui che, compiendo la Legge, di fatto la supera. Proprio per questo motivo, sia da parte ebraica che da parte cristiana, si sono moltiplicati i tentativi di frenare tutte le istanze autenticamente messianiche. Il cristianesimo, da parte sua, non ha tratto da Paolo le conseguenze che avrebbe dovuto e, anzi, ne ha fatto l’iniziatore di un nuovo dogmatismo e di una forma katechonica di esistenza. In Paolo, invece, l’interiorizzazione, secondo Taubes, coinciderebbe con una fedeltà al kairós mes-

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sianico mai relativo soltanto ai singoli, ma che investe tutta la comunità originaria. Su questo argomento cfr. anche G. Bonola, Taubes contro Scholem. Una diatriba sul messianismo ebraico, “Humanitas”, 1-2, 2005, pp. 122-152. 109 Questa frattura rimane, nonostante si sia tentato, alla luce delle figure messianiche presenti nell’ebraismo, una possibile conciliazione. Il Messia nell’ebraismo viene, infatti, concepito secondo due figure fondamentali, derivanti dalle due correnti restaurativa e utopica, contrapposte, eppure, come abbiamo visto, di fatto sempre intrecciate e contemporaneamente operanti. Attraverso le due differenti ermeneutiche, la figura messianica subisce una sorta di sdoppiamento identificandosi, di volta in volta, o nel Messia della casa di Giuseppe o nel Messia della casa di Davide: «Il Messia ben Josef è il Messia-che-muore, il Messia che perisce travolto dalla catastrofe messianica. Egli assomma in sé, dunque, i tratti dell’aspetto catastrofico. […] Egli è un redentore che non redime alcunché; in lui vengono fissati soltanto i tratti dell’ultima estrema battaglia contro le potenze del mondo. Il suo perire porta con sé il tramonto finale della storia. Viceversa, in questa distinzione delle figure, sull’immagine del Messia ben David si concentra tutto l’interesse utopico. Il Messia ben David, infatti, è Colui nel quale fa già la sua definitiva apparizione tutto il Nuovo, è colui che trionfa definitivamente sull’Anticristo e proprio perciò rappresenta il lato puramente positivo di tale complesso» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., pp. 126-127). Cfr. anche AA. VV., Figures du Messie, a cura di S. Trigano e C. Cohen-Boulakia, In Press Éditeurs, Paris 1996; M. Idel, Mistici messianici, tr. it. di F. Lelli, Adelphi, Milano 2004; AA. VV., Il Messia tra memoria e attesa, a cura di G. Boccacini, Morcelliana, Brescia 2005. 110 Cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 37-38. Come scrive Scholem: «L’idea messianica è, infatti, un contenuto della fede religiosa in generale, ma rappresenta anche un’acuta, viva, aspettativa. Così l’apocalittica appare come la forma che necessariamente assume il messianismo radicale» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 111). 111 Questo aspetto è ritenuto inquietante da Scholem, che si interroga sul motivo per cui l’apocalittico nasconda la propria visione anziché urlarla ai quattro venti come era uso dei profeti. Il carattere di nascondimento si è mantenuto per molti secoli, influenzando anche gli eredi degli antichi scrittori apocalittici che operano nell’ebraismo rabbinico: «In questi, tale carattere affianca la conoscenza gnostica della merkavah, del mondo del trono divino e dei suoi misteri: una conoscenza ritenuta talmente esplosiva da dover essere comunicata sottovoce. Non per altro gli scritti dei mistici della merkavah nell’ebraismo contengono sempre capitoli apocalittici» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 114). Forse non è casuale, come nota lo stesso Scholem, il rapporto direttamente proporzionale tra delusione storica del mondo giudaico, soprattutto dopo la distruzione del secondo Tempio, e aumento della cripticità dell’annuncio messianico. Cfr. per un approfondimento Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. di G. Russo, il melangolo, Genova 1986. 112 Scrive Scholem: «Per sua origine e nella sua natura profonda, infatti, il messianismo ebraico è, e non lo si sottolineerà mai abbastanza, una teoria della catastrofe. Questa teoria accentua l’elemento rivoluzionario e di sovversione nel

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trapasso da ogni presente storico al futuro messianico» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 114). 113 Per questo motivo gli apocalittici considerano l’utopia messianica secondo un aspetto duplice: «Il nuovo eone e i giorni del Messia non costituiscono più […] un tempo unico, bensì configurano due periodi, di cui l’uno – il regno del Messia – propriamente appartiene ancora a questo mondo, mentre l’altro fa parte già completamente del nuovo eone che comincia col giudizio finale» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 115). Se, certamente, questa duplicità ha fatto sentire i suoi effetti, soprattutto nelle influenze che essa ha avuto in relazione al cristianesimo, nella religione ebraica, secondo Scholem, aveva preso corpo a causa di un eccesso di zelo degli eruditi ermeneuti della Bibbia, che si sono distaccati da una visione originaria in cui «catastrofe ed utopia non si susseguivano affatto l’una all’altra, bensì proprio nella loro contemporaneità valorizzavano appieno la doppia faccia dell’accadimento messianico» (ibidem). 114 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 39. 115 Ibidem. Scrive Scholem: «ciò su cui sia i profeti sia gli scrittori apocalittici mettono costantemente l’accento è proprio l’assoluta discontinuità tra storia e redenzione: non c’è progresso di ordine storico che possa condurre alla redenzione. La redenzione non è il risultato di evoluzioni intramondane; questa è un’idea del tutto moderna prodottasi nella reinterpretazione che la cultura occidentale, a partire dall’età dei lumi, ha dato del messianismo, il quale ha così conservato intatta tutta la sua forza ma nella sua forma secolarizzata della fede nel progresso. Per i profeti e gli apocalittici, redenzione è piuttosto l’irruzione della trascendenza nella storia: un evento che comporta il collasso finale della storia stessa la quale, in questo tramonto, si trasfigura inondata dalla luce che emana da un luogo totalmente altro, esterno alla storia stessa» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 117). 116 Secondo Scholem, resta inconfutabile che la venuta del Messia non possa essere preparata: «Egli viene all’improvviso, senza preannuncio, e proprio quando meno lo si aspetta e allorché la speranza nella sua venuta è da lungo tempo caduta» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 119). Questa concezione sarebbe all’origine dell’idea del cosiddetto “Messia nascosto” della mistica ebraica, già venuto nel momento di massima sventura degli ebrei, cioè nel giorno della distruzione del Tempio. Egli starebbe in attesa di un momento ancora peggiore: «Israele chiese a Dio: Quando ci salverai? Ed Egli rispose: Allorché voi sarete caduti al grado più basso, in quell’ora io vi salverò» (Midrash Tehillim a Sal 45, 3). Dopo l’orrore di Auschwitz ci si potrebbe chiedere se esista un grado ancora più basso. Quinzio non ha smesso di chiederselo rispetto alla storia non solo degli ebrei, ma di tutta l’umanità. 117 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 39. Sullo stesso tema Quinzio torna in Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 120-121. Nell’ebraismo questo contrasto si manifesta a partire da quelle che possono essere considerate le due anime che sorreggono l’esegesi midrashica che cerca di sviscerare le più profonde implicazioni delle Scritture. Infatti il midrash fondamentalmente si articola, com’è noto, secondo i due registri dell’halakhah e dell’aggadah. Mentre l’halakhah raccoglie le norme giuridiche per un comportamento conforme alla Torah, l’agga-

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dah travalica il senso della Scrittura, e ne ripropone interpretazioni più libere (cfr. G. Scholem, Rivelazione e tradizione come categorie religiose dell’ebraismo, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 83-84). Il contrasto tra queste due anime si concretizza nella differenza di posizioni tra l’ebraismo rabbinico e le correnti mistiche, che, pur nell’assoluto rispetto della Legge, ne fanno la base per qualcosa di radicalmente nuovo (cfr. G. Scholem, La Kabbalhah e il suo simbolismo, cit., p. 121). Leibowitz, che viene da Quinzio criticato per la sua assenza di ispirazione messianica, d’altra parte è da lui apprezzato per il suo modo di intendere la Legge, molto distante, ad esempio, da quello dei sionisti che, con i loro partiti religiosi, «accettano che la legge dello stato ebraico sia quella della tradizione halachica. Ma proprio un vecchio e celebrato maestro della halakhah, Jeshajau Leibowitz (che non ha nessuna nostalgia messianica), ha additato in questo la suprema profanazione della Legge, il suo uso puramente strumentale, in una menzogna assoluta, dal momento che a stabilire l’osservanza della Legge sono coloro che in realtà non credono affatto in Dio e nella sua Legge, sostenuti da coloro che fanaticamente la professano, identificandola con la causa nazionale» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 84). 118 Tanto che nascerebbe, a volte, nell’ebreo una sorta di ‘invidia’ rispetto alla condizione del cristiano per il quale «il Messia ha un nome, un volto e una sia pur terribile storia, e non è un puro, millenario vuoto. La conversione dell’ebreo al cristianesimo appare perciò, in questo caso, come abbandono dell’attesa purezza messianica e accettazione dell’idea antimessianica che il Regno di Dio è già sostanzialmente venuto in Cristo e resterebbe solo da attenderne un estrinseco compimento» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 62). 119 Ivi, p. 62. 120 Ivi, p. 125. 121 Ibidem. 122 Ivi, p. 126. 123 Le tracce lasciate dalla tensione escatologica non sono solo di ordine religioso, ma si estendono a tutti gli ambiti dell’esistere, poiché l’éschaton, in quanto pensiero della fine del tempo, pervade la storia dell’Occidente fin nei suoi recessi più remoti: «Sia che l’éschaton giunga dall’alto attraverso un intervento di Dio […], sia che esso maturi dal basso della storia degli uomini […], comunque la fine entra a condizionare le vicende del tempo attuale» (G. Lingua, La storia e le forme della fine. Le matrici escatologiche del pensiero del Novecento, Paravia, Torino 2000, p. 11). Sull’escatologia si vedano anche le acute riflessioni di J. Taubes, Escatologia occidentale, a cura di E. Stimilli, tr. it. di G. Valent, Garzanti, Milano 1997, in cui, come sottolinea Ranchetti nella prefazione, Taubes propone un’ipotesi di ricerca e «un progetto conoscitivo della storia Occidentale recuperata e ricompresa come storia dell’idea messianica riconosciuta o negata» (ivi, p. 7). Sull’implicazione tra storia e temporalità escatologico-messianica cfr. anche G. Bensussan, Le temps messianique. Temps historique e temps vécu, Vrin, Paris 2001. 124 Scrive, infatti: «Non so come le speranze e le angosce messianiche e apocalittiche siano entrate in me. Per quanto indietro cerchi di risalire con la memoria nel corso degli anni, non riesco a ricordare un tempo in cui non ci fossero. Ancora più difficile è sapere come abbiano potuto restarci, dal momento

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che non le ho chiuse come nel cerchio di un isolamento monastico, ma ho speso quelle mie inspendibili monete fra gli uomini del mio tempo, stando in mezzo a loro, vivendo la vita di tutti, facendo le stesse esperienze, interrogandomi, penso, con non minore spirito critico» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995, pp. 92-93). Definendo la sua fede, Quinzio si mette a confronto con Dostoevskij, per certi versi distinguendosene, ma sottolineando anche alcune affinità: «Non esito […] a fare mie le parole che seguono: “Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tutt’ora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti contrari!”. E infine, sottoscriverei queste famose parole conclusive, anche se ai filosofi non possono non apparire illogiche nel loro paradossale significato: “Ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”» (ivi, p. 92). 125 S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 21. Scholem, come Quinzio sottolinea, è stato il primo a parlare del prezzo che gli ebrei hanno dovuto pagare per restare fedeli all’idea messianica: «In ogni tentativo di portarla a compimento – scrive Scholem – si spalancano abissi che respingono ad absurdum ogni sua figura» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 147). Scrive ancora Scholem: «Vivere nella speranza è certamente qualcosa di grande, ma anche qualcosa di profondamente irreale. Vivere nella speranza toglie peso specifico alla persona, che non potrà mai realizzarsi perché lo scacco, la costante incompiutezza delle sue intraprese, svaluta proprio ciò che costituisce il suo centrale valore. L’idea messianica ha fatto della vita ebraica una vita in condizioni di rinvio [Leben im Aufschub], nella quale nulla può essere fatto e compiuto in forma definitiva» (ibidem). Ad avviso di Taubes l’impotenza, messa in evidenza da Scholem, non ha impedito all’ebraismo, come alla Chiesa, una forma katechonica di esistenza, dovuta, essenzialmente, alla corrente rabbinica che «vivendo nei quattro cubiti dell’Halacha’ […], per tutti i secoli dell’esilio, ha sviluppato una straordinaria stabilità delle sue strutture» (J. Taubes, Il prezzo del messianismo, cit., p. 55). Dunque, come ha sottolineato Elettra Stimilli, Taubes evidenzia nell’ebraismo una “forza frenante” dello stesso tipo di quella operante nella res publica christiana (cfr. E. Stimilli, Il messianismo come problema politico, cit., p. 181), su cui fondamentali risultano le riflessioni di Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica. La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1986. D’altro canto, per lo più disastrosi sono stati i tentativi, mossi da impazienza, di realizzazione del Regno messianico nella storia. 126 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 72. Rispetto all’insistenza con cui Quinzio si sofferma sull’orizzonte escatologico scrive Paolo Ricca: «Il cristianesimo è escatologia. Per il cristianesimo l’escatologia non è un’appendice, ma la propria sostanza. […] A questo orizzonte escatologico si riferisce Quinzio, a questa presenza della fine, perché con la fine viene appunto la salvezza sempre rimandata e mai adempiuta» (P. Ricca, Il Commento alla Bibbia di Sergio Quinzio, in AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., p. 63). Anche Regina sottolinea quest’aspetto: «L’originalità di Quinzio consiste – come si è cer-

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cato di mostrare – nel riproporre il nesso del “non ancora” escatologico e del “già” cairologico tenendo adeguatamente conto del nichilismo postmoderno e della novità, anche concettuale, che la Bibbia ha introdotto nell’orizzonte di pensiero greco» (U. Regina, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, cit., p. 146). 127 Oltre agli autori ebrei su cui ci siamo soffermati – che dell’idea messianica hanno discusso, riflettuto e, a partire da essa, hanno anche intessuto amicizie o inimicizie: si pensi a Rosenzweig e Rosenstock; Scholem e Taubes; Benjamin e Scholem; Lévinas e Derrida – una notevole importanza rivestono anche i messianici russi. Il rapporto di Quinzio con il pensiero russo meriterebbe una trattazione a sé stante, costituendo certamente uno dei poli di confronto più importanti. La prevalenza dei temi apocalittici e messianici è la caratteristica della riflessione religiosa come anche dell’intima coscienza cristiana russa. Come sottolinea Semën Frank, citato dallo stesso Quinzio, in Russia la morale è spesso messa in secondo piano rispetto all’idea dominante della fine del mondo e dell’avvento del Regno di Dio, che fa apparire insufficiente e impermanente ogni istituzione mondana (cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 117. Il testo a cui Quinzio fa riferimento è S. Frank, Il pensiero religioso russo. Da Tolstoj a Losskij, tr. it. di P. Modesto, Vita e pensiero, Milano 1977). Proprio a partire da questo atteggiamento di fondo si comprenderebbe il sostegno entusiasta che alcuni intellettuali di ispirazione religiosa hanno tributato alla rivoluzione bolscevica, per lo meno all’inizio. Bulgakov, Struve, Berdiaev, Rozanov, Frank resteranno fortemente delusi nel constatare il corso successivo degli eventi: «La rivoluzione russa ha coronato (ed esautorato) un poderoso movimento messianico sorto dal sottofondo spirituale della Russia quando la tecnica e lo scientismo provenienti dall’Occidente hanno definitivamente compromesso le strutture tradizionali» (O. Clément, La Chiesa ortodossa, in H.-C. Puech (a cura di), Storia del Cristianesimo, cit., p. 404). È facilmente intuibile che la grande forza messianica di questa tradizione – prima di quella che Clément definisce «la maggiore colpa storica dell’ortodossia» (ivi, p. 386), cioè il nazionalismo religioso, sviluppatosi negli ultimi anni del 1500 – abbia catturato l’attenzione di Quinzio, che dedica ai russi riflessioni di notevole sensibilità critica, confrontandosi con Avvacum, Belyi, Berdjaev, Bucharev, Dostoevskij, Fëdorov, Florenskij, Gogol’, ˇ Leont’ev, Rasputin, Rozanov, Sestov, Skrjabin, Solov’ëv e altri. Cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 116-131. Si veda, a questo proposito, G. Baffo, “Unghie e capelli”: la “filosofia della resurrezione” del Mysterium iniquitatis, in AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., pp. 59-76, in cui l’autore analizza il rapporto di Quinzio con alcuni pensatori russi rispetto al tema della resurrezione e della tensione apocalittica. Cfr. anche Th. Spidlik, L’idea russa: un’altra visione dell’uomo, tr. it. di S. Morra, Lipa, Roma 1995. 128 La sua convinzione, fin dagli anni giovanili, era, infatti, che il Vangelo non fosse una riproduzione completa ed esaustiva di tutto quello che Gesù avrebbe detto: «Ha detto però che deve essere rivelato “tutto”, e il “tutto” è diverso dal parziale» (S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 73). Qui si giocano due modi fondamentali di intendere la temporalità escatologica e la Rivelazione finale. Come chiarisce Cacciari in relazione alla temporalità escatologica, «una duplice impazienza, opposta e complementare, domina il campo: quella che risolve

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nel Futuro del “giorno di Yahwèh” il senso attuale della rivelazione, e quella che riduce il tempo della Fine al Presente, considerandolo del tutto fondato su ciò che già si è rivelato-espresso. Quest’ultima prospettiva appare, oggi, quella teologicamente-filosoficamente dominante, attraverso il discorso sulla ‘demitizzazione’ (Bultmann), e quello che interpreta l’éschaton, alla luce del concetto di istante, come il novissimum di ogni presente, frutto della decisione irreversibile del Singolo. Alla sostanziale eliminazione del problema escatologico, che questa prospettiva comporta (con ‘brutale’ evidenza, ad esempio, in Cullmann), sembra non poter rispondere che un anelito alla redenzione e al riscatto, fondato esclusivamente sulla constatazione del tutto fattuale della ‘miseria’ dell’Evo» (M. Cacciari, «De Reditu», in Dell’Inizio, cit., p. 609). 129 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 72. 130 S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, cit., p. 33. Per Quinzio il pensiero di Paolo è fondamentale, come si evince dal suo commento alle Lettere, nonché dalle innumerevoli citazioni delle stesse all’interno della sua opera. Paolo viene letto sine glossa, mettendo in evidenza le grandi contraddizioni esistenti tra le prime lettere paoline, quelle ai Tessalonicesi, colme di una viva ansia escatologica, e le lettere successive, le lettere dalla prigionia, segnate da un atteggiamento molto più cauto, che sminuisce l’ansia escatologica e accentua la dimensione spirituale dell’essere cristiani/messianici. Il mutamento, ad avviso di Quinzio, ha la sua radice nell’imponente questione del tempo intermedio, che già in Paolo assume quello spessore di ambiguità che lo lega strettamente al mysterium iniquitatis, evocato nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 3-8), in relazione ai tempi ultimi, all’apostasia e alla forza che tratterrebbe la definitiva rivelazione di Cristo. Tra i numerosi studi dedicati a San Paolo, ci limitiamo a indicare: G. Bornkamm, Paolo apostolo di Gesù Cristo. Vita e pensiero alla luce della critica storica, tr. it. di A. Comba, Claudiana, Torino 1977; S. Breton, Saint Paul, Puf, Paris 1988; E. P. Sanders, San Paolo, tr. it. di P. Urbino, il melangolo, Genova 1997; G. Barbaglio, La teologia di Paolo, EDB, Bologna 2001; K. Berger, L’apostolo Paolo. Alle origini del pensiero cristiano, tr. it. di S. Patriarca, Donzelli, Roma 2003. Un rilievo del tutto particolare assume, com’è noto, l’opera di Barth, anche per la storia dei suoi effetti in ambito teologico, sia protestante che cristiano: K. Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 2002. In tempi recenti le Lettere di Paolo sono state oggetto di originali letture, interessanti soprattutto per i risvolti filosofici. Tra questi segnaliamo: J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997; A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, tr. it. di F. Ferrari e A. Moscati, Cronopio, Napoli 1999; G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 131 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 57. 132 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 117. Benché Quinzio pensi il senso del presente comprensibile solo nell’éschaton, solo dopo, quindi, l’apocalisse, la Rivelazione finale, tuttavia – in ragione della sua convinzione dell’incompletezza, se così si può dire, del Revelatum – se per un certo periodo ha considerato la Fine come preordinata a un piano già deciso di salvezza divina, negli ultimi anni della sua vita considererà, sempre più lucidamente e disperatamente, l’incertezza dell’esito.

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S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 756. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 26. 135 Il tema del contrasto tra materialità e carnalità delle promesse bibliche, rispetto alla spiritualizzazione fattane sia nell’ambito del tardo ebraismo nonché nel cristianesimo, è un magma che ribolle costantemente nella riflessione quinziana, in una polemica serrata contro tutti i tentativi di sviare l’attenzione dalla concretezza della redenzione verso un vago al di là. Per l’approfondimento del rapporto materia-spirito all’interno delle promesse messianiche e della rivelazione biblica cfr. S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., pp. 15-27; Id. La fede sepolta, cit., pp. 38-40; 97-98; Id. Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 7479; Id., Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 30-32; S. Quinzio - P. Stefani, Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma 1975, pp. 67-73, per citare solo alcune tra le numerose pagine di riflessione su questo tema. 136 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 17. Stesse riflessioni si trovano in molti altri passi delle opere di Quinzio, e ne resta traccia anche nel dialogo avuto con i ragazzi di una scuola di Agrigento, durante il quale, cercando la più grande semplicità nel parlare delle profezie afferma: «Come vedete sono profezie molto materiali. Che poi, via via, i Padri della Chiesa hanno interpretato sempre più in senso spirituale. Già gli autori ebrei la interpretavano così. Però in realtà le promesse bibliche sono promesse legate alla corporeità dell’uomo, alla storicità dell’uomo» (S. Quinzio, Dialogo sulla fede, Associazione Culturale Fabrizio De André - Medinova, Agrigento 2000, p. 33). 137 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 28. 138 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 820. 139 S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, in M. Iiritano, Apocalisse della verità, La città del sole, Napoli 2002, cit., p. 131. 140 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 80. Quinzio non nasconde la sua disperazione nel constatare come lui stesso, talvolta, cada in contraddizione a causa del pensiero della morte e del dolore che costantemente lo attanagliano: «Dopo aver sempre predicato che la salvezza di Dio è concreta, tangibile, terrestre, che da lui dobbiamo ricevere, e quindi a lui dobbiamo chiedere, la gioia e la pienezza della vita per subito, ecco che predico l’annientamento e la morte, fino al punto che, in pratica, scompare dalle mie parole, se non proprio dal mio cuore profondo, la speranza della gioia, e la salvezza si fa sempre più simile alla disperazione, alla consapevolezza di aver sofferto e, soffrendo, toccato il fondo dell’amore che sente pietà, tanto più grande quanto inappagata. Ecco che la salvezza, nelle mie parole, si fa sempre più impossibile, sempre più precaria e povera, sempre più lontana, e ingigantisce la desolazione, la morte» (S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., pp. 59-60). 141 S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., p. 131. 142 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 73. 143 Ivi, p. 64. 144 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 63. Stesse riflessioni in S. Quinzio, Apocalittica neotestamentaria e suo significato attuale, cit., pp. 169-170. 145 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 121. Accoratamente scriveva ancora: «C’è un solo cristiano che abbia il coraggio di dichiarare che attende il ritorno 133 134

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di Gesù Cristo per poter finalmente posare la testa sul suo petto, per bere con lui il frutto della vite, per vedere i morti risorgere e regnare la giustizia nei nuovi cieli e sulla nuova terra?» (ivi, pp. 119-120). Questa preoccupazione di Quinzio trovava conferma nel pensiero di Bonaiuti, il quale indicava nell’abbandono della speranza per il Regno la causa dell’atrofia in cui verserebbe la religiosità occidentale (cfr. ivi, pp. 121-122). Milana evidenzia l’influenza di Bonaiuti soprattutto sul periodo della formazione di Quinzio (cfr. F. Milana, Piccole apocalissi. Sergio Quinzio 1945-1970, cit., in particolare le pp. 79-81). 146 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 65. Massimo Cacciari più che una rimozione del discorso escatologico in sé, nota una riduzione, operata dalla teologia, dell’apocalisse a Rivelazione e ritiene i motivi di tale riduzione molto interessanti da analizzare: «Se l’éschaton, infatti, si riduce a tempo Futuro, il Presente non avrà valore che come suo fondamento, come ciò che dà inizio al processo, il cui senso sarà evidente soltanto nell’éschaton. La dimensione del presente finirà tutta con l’‘infuturarsi’, trasformando il Revelatum in semplice espressione della promessa dell’Ultimo. Nello stesso tempo, e per questi stessi motivi, il futuro non appare che come risultato del processo che ha il Presente a fondamento. Da un lato il Presente è divorato dal processo e dal Fine – dall’altro il Futuro ‘si sconta’ nella sua origine. Alla perdita del primo deve corrispondere dialetticamente quella del secondo: se rimando al futuro il senso del Presente, devo fondare nel presente quello stesso Futuro, che ne costituirebbe il ‘sale’. Il circolo è perfettamente vizioso – e perfettamente insuperabile» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., pp. 609-610). Quinzio affermerà che proprio in virtù di tale processo la Chiesa potrà proporsi come concreta anticipazione e prefigurazione del Regno di Dio. 147 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 383. Nel Novecento, nonostante l’insistenza di Quinzio sulla rimozione dell’escatologia, in realtà l’istanza escatologica ha trovato luogo – come lo stesso Quinzio, per altro, non manca di sottolineare – nelle riflessioni di alcuni teologi cristiani, che si sono distinti dall’indifferenza dominante, aprendo la strada a una rinnovata attenzione: «basti fare i nomi di Rudolf Bultmann, di Theilard de Chardin, di Karl Rahner, di Joan Baptist Metz, del “teologo della liberazione” Gutierrez» (S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., p. 132). La riscoperta dell’escatologia, anzi, è una delle caratteristiche della teologia del secolo scorso, in maggioranza protestante, ma anche cattolica. Già dalla fine dell’Ottocento, in campo protestante, Weiss e Schweizer si erano posti il problema del rapporto tra escatologia giudaica e origini cristiane, ponendo le basi di un problema che verrà rimesso in gioco e arricchito dagli autori successivi: Gesù di Nazareth, in quanto figura storica, avrebbe erroneamente partecipato alla grande attesa messianica propria del suo tempo e del suo ambiente, che aspettava come imminente il Regno di Dio, attesa negata dalle vicende seguenti. Le comunità successive avrebbero, quindi, del tutto plausibilmente, abbandonato quella modalità di attesa. Ciò che non può essere giustificato, secondo questa tesi, è, invece, l’abbandono tout court dell’attesa in sé. Questa lettura, chiaramente problematica, mette in luce due tipi di prospettive, cioè quella propriamente storica che riguarda la vita di Cristo e le origini del cristianesimo e quella inerente al contenuto della fede cristiana, in particolare al suo ca-

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rattere escatologico. Gli sviluppi della prima prospettiva si snodano in ambito protestante con Dodd e la sua “escatologia realizzata” e Cullmann, che auspica un’escatologia da interpretare mediante una tensione tra “già” e “non ancora”. La seconda prospettiva, inerente al contenuto della fede cristiana, viene trattata, sempre tra i protestanti, dalla teologia dialettica, in particolare Barth e Bultmann, e dalla teologia del futuro o della speranza, con Pannenberg e Moltmann. In ambito cattolico importanti sono le riflessioni di Loisy, H. U. von Balthasar e K. Rahner. La complessità e la ricchezza delle prospettive rende impossibile soffermarsi ulteriormente sulla questione per l’approfondimento della quale si rimanda a G. Moioli, voce Escatologia, in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. II, cit.; H. Rolfes, voce Escatologia, in Enciclopedia di teologia fondamentale, a cura di G. Ruggeri, Marietti, Genova 1987, nonché alle opere degli autori citati; in particolare, per la comprensione del retroterra quinziano: H.U. von Balthasar, I Novissimi nella teologia contemporanea, tr. it. di E. Ruffini, Queriniana, Brescia 1967; R. Bultmann, Storia ed escatologia, tr. it. di E. Spagnol, Bompiani, Milano 1962; O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. di B. Ulianich, Il Mulino, Bologna 1965; Id., Il mistero della redenzione nella storia, tr. it. di G. Conte, Il Mulino, Bologna 1968; J. Moltmann, Teologia della speranza, tr. it. di A. Comba, Queriniana, Brescia 1970; Id., L’avvento di Dio, tr. it. di A. Comba, Queriniana, Brescia 1996; W. Pannenberg, Rivelazione come storia, tr. it. di B. Baroffio, EDB, Bologna 1969; K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, tr. it. di C. Danna, Paoline, Roma 1984. 148 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 31. 149 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 171. Quinzio sostiene che non sia casuale il fatto che la grande mistica cristiana appaia essenzialmente nella modernità, come fenomeno esploso a partire da Teresa D’Avila e Giovanni della Croce, vissuti nel momento della dissoluzione dell’ordo christianus, cioè quando la salvezza sembrava destinata, ormai, solo all’interiorità. Infatti, mentre per i filosofi greci, a partire da Platone e Aristotele, la contemplazione veniva giudicata come sommo bene, nell’orizzonte cristiano antico essa non aveva mai avuto più valore dell’azione (cfr. ivi., p. 173). Cacciari concorda con Quinzio nell’evidenziare la svolta causata dalla spiritualizzazione dell’attesa escatologica ma, mentre per Quinzio essa segna il depotenziamento progressivo della visione profetica e apocalittica, per Cacciari si identifica con la sua perdita tout court: «La forza della visione non si spiritualizza, ma si perde; e questa perdita rende possibile l’attesa prevedente, progettante, teleologicamente articolata» (M. Cacciari, Chrónos Apocalypseos, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., pp. 28-29). Sulla mistica e la concezione della salvezza a essa connessa, sono preziosi i lavori di Marco Vannini, Mistica e filosofia, introduzione di M. Cacciari, Piemme, Casale Monferrato 1996; Id., La mistica delle grandi religioni, Mondolibri, Milano 2004; Id., Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 2005. 150 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 59. Quinzio spesso sembra considerare contrapposti tempo storico ed eterno, chrónos e aión, mentre altrove mette in evidenza il carattere kairologico di ciascun istante di chrónos, non in quanto istante della decisione del Singolo, come in Kierkegaard o Bultmann, ma come quello in cui potrebbe, sempre, giungere il Messia. Cacciari, a partire dalla sua concezione aionica della temporalità, critica la contrapposizione, spes-

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so presente anche all’interno delle riflessioni sul tempo escatologico, tra Eterno e tempo ‘omogeneo e vuoto’: «Il tema dell’éschaton potrà essere ‘salvato’ dalla sua negazione teo-logica, soltanto se risulta pensabile, nell’attualità dell’istante, Futuro come Futuro eterno, perfettamente distinto dagli altri volti del tempo e inseparabile da essi, per cui il Presente sia tale, Presente eterno, in questa relazione non accidentale col Futuro. Soltanto mostrando come il Revelatum abbia in sé non semplicemente il Futuro come suo dispiegarsi o di-mostrarsi (che è non-Futuro, ma estrapolazione dello stesso Presente del Revelatum), ma il Futuro in verità, e cioè sempre tale – e come questo Futuro aionico sia costitutivo dello stesso Presente (in quanto quest’ultimo è impensabile astrattamente separato dal Futuro) – sarà possibile indicare i termini di una escatologia non ‘sentimentale’ (cupamente pessimistica o consolatoria è lo stesso)» (Dell’Inizio, cit., p. 610). 151 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 270. 152 Ivi, p 268. 153 Ad esempio, quelle con cui Gesù invita a imitare i gigli dei campi e gli uccelli del cielo, che non si preoccupano del domani, sono lette come inno a «una perfetta provvidenza in atto, altrettanto perfetta quando nutre gli uccelli e veste i fiori e quando fa scorrere l’acqua del torrente sul volto del bambino annegato. Mentre quelle parole di Gesù dicono soltanto la nostra impotenza (Mt 6, 27) e insegnano a chiedere insistentemente a Dio (Mt 7, 7-11), a cercare “anzitutto il regno” (Mt 6, 33)» (S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 172). 154 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 118. Mentre i cristiani hanno creduto nella messianicità di Gesù, nonostante il regno di Dio e l’epoca di giustizia a esso legata non fossero venuti, gli ebrei «hanno dedotto dalla mancata venuta del regno così com’era stato annunciato, che Gesù non era il Messia» (ibidem). L’imminenza del compimento, la rottura del tempo, è annunciata in molti luoghi del Nuovo Testamento e proprio «il ritorno di Cristo per i cristiani e la venuta del Messia per gli ebrei non appariranno allora del tutto inconciliabili» (S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., p. 133). La strada per una eventuale conciliazione cristiano-ebraica starebbe, secondo Quinzio, nella possibilità di concepire il Messia sconfitto, «il Messia che fallisce, il Messia che finora ha fallito nell’opera che i profeti e Gesù stesso gli avevano attribuito: l’instaurazione del regno di Dio» (ibidem). Quinzio è consapevole delle difficoltà implicate da questa prospettiva: «se Gesù è davvero il Messia, allora l’ebraismo non ha saputo pensare la sconfitta del Messia (sebbene nell’ebraismo ci sia anche la tradizione dello sconfitto e ucciso “Messia di Giuseppe”, prima del finale trionfo del “Messia di David”); ma i cristiani ne hanno a loro volta negato la sconfitta dichiarando redento quel mondo il cui principe e dio continua invece ad essere il padre della menzogna, omicida fin dall’inizio» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 119). Su queste questioni cfr. anche H. Küng - P. Lapide, Gesù segno di contraddizione, Queriniana, Brescia 1980; G. Vermes, Gesù l’ebreo, Borla, Roma 1983; L. Sestrieri, Gli ebrei di fronte a Gesù, in Ebraismo e cristianesimo. Percorsi di mutua comprensione, Paoline, Milano, 2000, pp. 137-162. 155 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 119-120. 156 La critica alla Chiesa trionfante e al suo adagiarsi nel tempo si trova, sullo sfondo, in tutte le opere di Kierkegaard: «la fede che trionfa è la cosa più ridico-

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la di tutte. Se la generazione contemporanea [a Cristo] dei credenti non ha avuto il tempo per trionfare, non lo troverà nessun altra, perché il compito è lo stesso e la fede è lotta continua; finché continua la lotta, c’è possibilità di sconfitta e quindi, per quanto riguarda la fede, non si trionfa mai anzitempo, cioè mai nel tempo» (S. Kierkegaard, Briciole filosofiche, a cura di S. Spera, Queriniana, Brescia 2001, p. 178). Si nota la presenza, già nelle riflessioni kierkegaardiane, della necessità di un superamento del tempo cronologico nonché della lotta, e della conseguente possibilità di sconfitta; tema, quest’ultimo, da Quinzio approfondito e assunto a concetto fondante di una sua intera opera, La sconfitta di Dio, cit. La questione – che in Quinzio assumerà una valenza ontologica e teologica – in Kierkegaard aveva una declinazione più esistenziale, benché fondata su una teologia crucis. 157 Si tratta della complessa questione delle implicazioni messianiche legate alla nascita dello Stato di Israele e al movimento sionista. Com’è noto nel XIX secolo, con l’integrazione sempre maggiore degli ebrei negli Stati ospitanti e l’indebolimento del sentimento dell’esilio, si era avuta un’accentuazione del carattere religioso dell’ebraismo a scapito del sentimento di appartenenza a una collettività nazionale. Come reazione a questa tendenza «comparve una nuova opzione che rivendicava a se stessa una dimensione totalmente politica e che si distaccava totalmente dalle altre vie che erano state tracciate sul solco dell’emancipazione […]. Il titolo stesso – Lo stato degli ebrei – del libro con il quale Theodor Herzl (18601904) lancia, nel 1896, il sionismo organizzato, prova che lo Stato era al centro della visione sionista» (D. Banon, Il Messianismo, cit., pp. 98-99). Tuttavia, anche nella letteratura rabbinica precedente, nonostante la declinazione nazionalista fosse condannata come eretica e pericolosa, si trovano alcune indicazioni – soprattutto di Yehuda Hai Alkalai (1798-1878) e Tzvi Hirsch Kalisher (1798-1874) – che considerano positivo un maggiore attivismo nei confronti di concezioni messianiche che abbiano sfumature laiche. In Alkalai, ad esempio, è presente la convinzione che «il Messia, figlio di Giuseppe, non è un personaggio storico che deve perire nelle guerre tra Gog e Magog, ma piuttosto un processo che prenderà la forma di una direzione politica che si manifesterà tra gli ebrei in vista della preparazione dell’inizio della redenzione (atchalta digheulà)» (ivi, p. 100). 158 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 40-41. 159 Ivi, p. 222. Come già aveva notato Natoli, «il Cristianesimo, fedele in ciò alla sua matrice ebraica, intende la redenzione come un rovesciamento del presente. La redenzione non coincide con un diverso modo di interpretare il mondo, ma con un suo radicale capovolgimento. In tal senso la redenzione è apocalisse: fine, giudizio» (S. Natoli, Fede e modernità, “Bailamme”, 20, 1996, p. 18). 160 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 224. 161 Ibidem. Per una panoramica complessiva sull’apocalittica neotestamentaria nella riflessione quinziana cfr. S. Quinzio, Apocalittica neotestamentaria e suo significato attuale, cit., pp. 167-182. Il significato del termine apocalisse, come ha sottolineato Cacciari, sarebbe condensato nel rivelare: «Nei Settanta, apocalyptein traduce galeh, rivelare. Il termine greco suona quasi sinonimo di delo¯un, phanero¯un, deiknúnai: manifesto, scopro, faccio conoscere. Scoprendo, rendo manifesto e dunque dò finalmente a conoscere. Scoprendo comunico fatti, verità prima nascoste, coperte, che ora, rese finalmente visibili, fatte apparire (delo¯un,

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phanero¯un), posso indicare (deiknúnai) e perciò far conoscere» (M. Cacciari, Chrónos Apocalypseos, cit., p. 26). Nel chrónos apocalypseos si avrebbe la manifestazione e la contemporanea conoscenza-visione della verità. Questa caratteristica, però, appare molto vicina al modo greco di intendere la verità, segnando, di fatto, il trionfo della visione, nella quale ciò che si vede è la verità (cfr. ivi, pp. 26-27). Tuttavia, a differenza dell’orizzonte greco, in quello ebraico-cristiano il momento apocalittico appare intrinsecamente legato a quello escatologico, che richiede un intervento soprannaturale, del tutto impensabile per la grecità. Cfr. anche K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica: scritto polemico su un settore trascurato dalla scienza biblica, Paideia, Brescia 1977; J. J. Collins, The apocalyptic imagination: an introduction to the jewish matrix of christianity, Crossroad, New York 1987; P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990. 162 Per un’esegesi di questo testo da parte di Quinzio cfr. Id., Sull’Apocalisse, in Un commento alla Bibbia, cit., pp. 791-820; Cfr. inoltre A. Wirkenhauser, L’Apocalisse di S. Giovanni, a cura di G. Rinaldi, Morcelliana, Brescia 1968 (Il Nuovo Testamento Commentato, IX). 163 Uno dei fautori di questa tesi è Jean Carmignac – il cui lavoro è importante in relazione ai testi di Qumrân, che ha curato e tradotto in francese – secondo il quale occorrerebbe abbandonare il termine “apocalittica” e limitarne l’uso solo all’aspetto stilistico-formale (cfr. J. Carmignac, Qu’est ce que l’apocaliptique? Son emploi a Qumrân, “Revue de Qumrân”, 10, 1979, pp. 3-34). Un altro autore problematico è, ad avviso di Quinzio, Eugenio Corsini, che confermerebbe “l’allergia” di molti cristiani all’evento escatologico (cfr. S. Quinzio, Apocalittica neotestamentaria e suo significato attuale, cit., pp. 170-171). Il libro di Corsini (Apocalisse prima e dopo, Sei, Torino 1981) alla sua pubblicazione aprì molti dibattiti. La sua tesi che il testo giovanneo si riferisse a un evento già accaduto, negava, di fatto, la presenza di tensione escatologica nell’Apocalisse, che annuncerebbe semplicemente il compimento, da parte di Dio, della sua opera di salvezza; la costruzione del futuro, dunque, spetterebbe soltanto all’azione dell’uomo. Quinzio prende in considerazione, comunque, anche l’impegno di quegli ermeneuti, come Paolo Sacchi, i quali, benché siano propensi a inserire l’apocalittica in un genere letterario, ammettono anche l’esistenza di una vera e propria tradizione apocalittica giudaica, presente, ad esempio, negli Apocrifi del Nuovo Testamento, giunti a stento fino a noi proprio perché osteggiati, a causa del retroterra apocalittico, sia dalla Chiesa che dalla Sinagoga. Cfr. le introduzioni di Paolo Sacchi in Apocrifi del Nuovo Testamento, Utet, Torino 1981; Id., Riflessioni e proposte per una possibile storia dell’apocalittica, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., pp. 186-198. Un autore che riconosce, invece, nell’apocalittica una corrente di pensiero della tradizione giudaica è W. Schmithals, L’apocalittica: introduzione e interpretazione, a cura di A. Bonora, Queriniana, Brescia 1985. Da altri autori ebrei l’Apocalisse giovannea viene considerata parte della tradizione giudaica, «come uno dei primi libri che l’ebraismo continuerà a produrre per secoli ancora. Libri di rivelazione, di ricerca della rivelazione, di analisi sulla rivelazione» (G. Limentani, Una testimonianza ebraica, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., p. 83). 164 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 41. 165 S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 133. L’importanza del tema

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apocalittico nella cultura contemporanea è ribadita da Quinzio più volte: «Nel nostro mondo si respira un po’ dappertutto aria di catastrofe, e l’aggettivo “apocalittico” è il primo che si affaccia quando si tratta di descrivere gli sterminati orrori della guerra moderna, i possibili effetti della crisi energetica o ecologica, gli incubi della fantascienza, i panorami allucinanti delle metropoli fatiscenti e brulicanti di crimini» (S. Quinzio, Apocalittica neotestamentaria e suo significato attuale, cit., p. 171). Per Cacciari l’ansia apocalittica di cui parla Quinzio, ben poco avrebbe a che fare con l’essenza dell’apocalisse; nel catastrofismo moderno, che Quinzio porta come prova dell’ansia apocalittica dominante, in realtà sarebbe già avvenuta una profonda trasformazione e un travisamento del simbolo apocalittico: «Possiamo dire che la nostra storia è il suo venir meno: escatologia, teleologia, utopia, progetto, programma? Oppure mera enfasi dissolutiva, nella quale il momento dell’epistrophé risulta indefinitamente differito o affatto insperabile? Non sono queste le nostre Apocalissi? Le Apocalissi del nostro tempo? In esse, la dimensione messianica-redentrice è ridotta a favola» (M. Cacciari, Chrónos Apocalypseos, cit., p. 31). Secondo Cacciari, infatti, tutti i significati “futuribili” dell’apocalisse sono “spurie derivazioni”: «L’éschaton è verità ultima, da sempre decisa, non futuro da prevedere» (ivi, p. 27). Nel mondo moderno, dell’apocalisse sembra essere rimasta solo un’insecuritas inquietante, che ha come suo presunto rimedio il “superare”: «Ma questa costrizione al “superare” non ha nulla delle doglie messianiche dell’insecuritas apocalittica. Il “superare” trascorre da catastrofe a catastrofe. Ogni catastrofe è morfogenetica, ogni catastrofe unisce alla dissoluzione del vecchio Nómos la formazione di nuovi termini. Ma essi sono privi di ogni componente messianica. Accade, allora, qualcosa di paradossale: l’apocalisse appare ovunque, la sua inquietudine sembra improntare ogni cosa, il differimento, nel quale viviamo, sembra “distendere” l’apocalisse per tutta la distensio temporis – eppure il simbolo apocalittico è perduto. Dovunque sono i semplici segni dell’apocalisse» (ivi, p. 31). Cfr. anche S. Nicolosi, Apocalittica antica e apocalittica contemporanea, in AA. VV., Tempo e Apocalisse, cit., pp. 99-111. 166 Questa idea traspare dall’interpretazione della catastrofe offerta da Salvatore Natoli, letta in chiave di fine, ma anche di rovesciamento in vista di una diversa prospettiva sul mondo, in cui non si può pretendere più di dare una direzione alla storia, ma «è necessario attrezzarsi per dominare il caso, per portarsi all’altezza dell’improbabile. Dobbiamo rinunciare ad ogni pretesa di totalità e saperci, invece, ben condurre in viaggio. Rendere la terra “gradevole dimora” nel nostro transitare» (S. Natoli, Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Christian Marinotti Edizioni, Milano 1999, p. 8). Quinzio, dal canto suo, dopo aver riflettuto se gli fosse possibile pensare a palliativi ottimistici per rendere meno crudo il suo pensiero sulla catastrofe apocalittica, conclude: «Non posso dare che il vino che ho nel mio otre, e non credo comunque che il modo giusto per affrontare quel che ci afferra alla gola sia far finta di niente, o raccomandare un’irrazionale fiducia nella buona volontà, che la ragione impietosamente continua a smentire. Del resto, di voci rassicuranti che dopo aver elencato motivi per temere concludono esortando all’ottimismo, ce ne sono già tante» (S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 136).

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S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 135. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 65. 169 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 72. 170 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 65. 171 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., pp. 791; 793. 172 S. Quinzio - G.Caramore, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 135. Scholem, in effetti, torna più volte sulla questione del messianismo ebraico come «teoria della catastrofe» (cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 114). Il problema della coesistenza di catastrofe e redenzione nell’evento apocalittico, dato a priori già all’interno del pensiero ebraico, pone molti interrogativi a Quinzio, il cui pensiero si trova stretto nel paradosso di questa contraddizione metafisica ineliminabile. Le sue riflessioni non si sottrarranno mai a tale aporia e avranno un esito alquanto problematico nell’idea del «Messia povero» e della «sconfitta di Dio». Quinzio resta, comunque, ancorato alla teoria di Scholem che coimplica apocalisse e catastrofe: «la parola “apocalisse” continua a designare, come s’è detto, in continuità con tutti i secoli della storia della cristianità, la catastrofe» (S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., p. 128). Umberto Regina, a proposito dell’escatologia quinziana, scrive: «Quinzio dà all’evento messianico, a Cristo, un senso che si potrebbe dire “cairologico alla rovescia”: ogni attimo è l’attimo opportuno non per la salvezza, ma per la catastrofe finale. Certamente, se si considera che questa pone fine al tempo in quanto tendente al peggio, “regressivo”, si deve dire che l’apocalisse è l’inizio della vera storia, e che dunque la catastrofe attesa in ogni attimo coincide con la premessa per una diversa temporalità, nella quale viene salvato tutto ciò che nel tempo regressivo era condannato all’emarginazione, alla “povertà”. L’apocalisse in ogni attimo ha, cairologicamente, portata salvifica» (U. Regina, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, cit., p. 144). 173 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 78. 174 Ivi, p. 93. 175 Ivi, p. 46. 176 Ivi, p. 93. 177 Cfr. S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., p. 129. Già Grundmann aveva sottolineato questo aspetto del pensiero gioachimita che costituirebbe «una svolta dall’ideale escatologico all’ideale di un futuro terreno» (H. Grundmann, Studi su Gioacchino da Fiore, tr. it. di S. Sorrentino, Marietti, Genova 1989, p. 162). E inoltre: «La trasformazione non deve avvenire necessariamente in una catastrofe; secondo la concezione di Gioacchino può essere un trapasso preparato da molto tempo» (ivi, p. 109). Ovviamente il riferimento principale è all’interpretazione dell’Apocalisse da parte di Gioacchino da Fiore (Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, Feltrinelli, Milano 1994). Su Gioacchino da Fiore cfr. anche H. Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, a cura di G.L. Potestà, Viella, Roma 1997; B. Mc Ginn, L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, tr. it. di P. ed E. De Giulio, Marietti, Genova 1990; R. Lerner, Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Viella, Roma 1994; M. Iiritano, La profezia e le sue figure: estetica ed escatologia in Gioacchino da Fiore, in Apocalisse della verità, cit., pp. 17-58. 167

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S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 20. Sulla concezione di Teilhard de Chardin, Quinzio si è soffermato in S. Quinzio, Che cosa ha veramente detto Teilhard de Chardin, Ubaldini, Roma 1967. 179 S. Quinzio - G.Caramore, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 135. 180 Ibidem. Cfr. anche S. Quinzio, L’Apocalisse come rottura del tempo, cit., pp. 129; 132-133. La centralità della “rottura del tempo” nella concezione escatologica era stata già messa in luce, come Quinzio non manca di notare, da altri studiosi, come H. Rolfes, voce Escatologia, in Enciclopedia di teologia fondamentale, cit. 181 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 52. Ad esempio la parabola del grano di senapa o del lievito (Mt 13, 31-33). 182 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 52. 183 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 163. 184 Quinzio si sofferma in particolare sul discorso escatologico contenuto nel Vangelo di Marco, sulla scorta degli studi di Josef Schmidt. Oltre la questione della prevedibilità degli eventi ultimi, ciò che gli preme sottolineare è il fraintendimento a cui sono andati incontro molti interpreti moderni, facendo del richiamo alla vigilanza un ammonimento moralistico, «dimenticando che la stessa vigilanza (da vigilia) non è un atteggiamento morale ma una tensione nella notte che precede l’apocalisse. Per il resto non sanno neppure di che cosa parli, se della distruzione del tempio di Gerusalemme o della fine del mondo, se del ritorno di Gesù Messia glorioso e potente o dell’erezione della Chiesa» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 111. Per i dettagli sulle altre questioni cfr. ivi, pp. 110-119). 185 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 81. Regina sottolinea la dipendenza dell’apocalisse anche dalla storia dei singoli: «La distruzione apocalittica di “questo” mondo è possibile in ogni istante proprio perché la sensibilità di Dio non concerne l’umanità come genere, ma ogni singolo uomo in ogni attimo di tempo. Il vero escatologico è cairologico; il vero cairologico è escatologico» (U. Regina, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, cit., p. 146). Questa sottolineatura chiarisce un dato fondamentale della redenzione che, nell’éschaton, concerne tutta l’umanità, ma certo non nella sua astrattezza, bensì nella sua singolare molteplicità. Per questo motivo bisogna singolarmente invocare la venuta del Regno. A rigore non si potrebbe parlare di “umanità redenta”, ma di “singolarità redente”, senza che ciò costituisca una contraddizione con il fatto che la redenzione riguardi tutti gli uomini, ma uno ad uno. La dimensione corale e singolare dell’apocalisse è costantemente presente in Quinzio, il quale, parlando di «nostra invocazione» non crediamo si riferisca a pochi eletti, ma neppure a una massa indistinta, bensì a ciascuno-insieme-agli-altri: «non possiamo salvarci da soli. Ci si può salvare con tutti nell’unica salvezza, il regno» (S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 138). In ogni caso appare evidente che la «nostra invocazione», per quanto assolutamente necessaria, non determini la venuta del Regno, che resta, invece, evento incalcolabile che scaturisce da Dio. 186 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 83. 187 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 109. Questo è, del resto, il messaggio della prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo: «Il giorno del Signore verrà come 178

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un ladro di notte. Quando diranno “pace e sicurezza”, allora sopraggiungerà improvvisa la rovina, come le doglie della donna incinta, e non ci sarà più scampo» (1 Ts 5, 2-3). 188 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 115-116. 189 Il termine, com’è noto, è utilizzato da Benjamin nelle Tesi XIV e XVIII sul concetto di storia. Il suo significato, complesso e difficilmente traducibile, riassume in sé due aspetti che crediamo di poter attribuire anche all’istante così com’è concepito da Quinzio. Se, da una parte, la Jetztzeit indica una ipersignificanza del presente, nel suo indissolubile legame con un passato che in esso viene riattualizzato, dall’altro rivela la possibilità del puntiforme adesso di annunciare il tempo messianico, con la densità del suo implicare passato, presente e futuro. Jetztzeit, dunque, «che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 55, Tesi XVIII). 190 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 182. Il riferimento è, ovviamente, all’espressione benjaminiana che troviamo nella Tesi B sul concetto di storia, in cui vengono messi in rapporto passato e futuro nella concezione ebraica del tempo. Se gli indovini, nella tradizione ebraica, provavano a investigare il futuro, non lo facevano considerandolo come un tempo omogeneo e vuoto, ma con la consapevolezza, data dalla rammemorazione, che quel futuro poteva essere sede del compiersi di un’antichissima promessa: «Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 57). Dunque, nonostante l’apparenza, per gli ebrei il tempo da interrogare non è il futuro, ma il passato, poiché l’imperativo del ricordo rende anche possibile la redenzione. 191 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 160. 192 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 88. Per meglio comprendere l’importanza che l’istante assume nel pensiero di Quinzio, mi pare si potrebbe fare ricorso a quanto ha sostenuto Cacciari, secondo il quale il chrónos apocalypseos non si oppone al tempo, ma pensa la salvezza del tempo e non dal tempo: «Il próblema dell’apocalisse consisterebbe, allora, nella rivelazione (apocálypsis) non della negazione o del superamento del tempo, ma del simbolo del tempo vero. Il kairós apocalittico non sarebbe fuoriuscita dal tempo condannato alla vanitas dell’incessante catastrofe, ma revelatio di un tempo inconsumabile da ChrónosKrónos; se si vuole, morte di Krónos onnivoro, ma salvezza del Chrónos rivelatore» (M. Cacciari, Chrónos Apocalypseos, cit., p. 34). L’apocalisse sarebbe, dunque, essenzialmente rivelazione di una dimensione occultata della temporalità. 193 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 129. 194 La centralità di un nuovo assoluto, di un «puro dopo», nell’unità monadica di un essere senza alcun legame con tutto ciò che fa parte di questo mondo, è assunta da Quinzio a partire dalle eccentriche teorie di Ferdinando Tartaglia: «Il “puro dopo” di Tartaglia è appunto questo “uno mirabile” perché si è visto sempre e solo pluralità e contrasto sterile sulla terra» (S. Quinzio, Diario

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profetico, cit., p. 102). È importante segnalare l’influenza profonda di Ferdinando Tartaglia e del suo «puro dopo» su una certa fase del pensiero quinziano – dato che Quinzio cambierà radicalmente, in seguito, la sua concezione del futuro e del passato, allontanandosi da Tartaglia – proprio in relazione al tema del legame tra vecchio e nuovo. Il rapporto tra i due, testimoniato anche da un carteggio, si palesa prima come vicinanza assoluta e, in seguito, come “vicinanza stellare” (cfr. S. Quinzio, Ferdinando Tartaglia e la profezia del “puro dopo”, in P. Stefani - S. Quinzio - G. Girolomoni - P. Quinzio, Lettere dal Monastero di Montebello, Tipografia Bramante, Urbania 1973; il saggio è stato ripubblicato in F. Tartaglia, Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi, Milano 2002, pp. 95154. Cfr. anche F. Tartaglia, Chiarimenti al Movimento di Religione, “Fondazioni”, 2, 1948, bollettino del Movimento di Religione fondato dallo stesso Tartaglia). Sarebbe troppo complesso dedicare qui al rapporto Quinzio-Tartaglia il posto che pure merita. Per questa analisi si rimanda all’ottimo e ben documentato saggio di F. Milana, Piccole apocalissi. Sergio Quinzio 1945-1970, “Bailamme”, 20, 1996, pp. 68-99, in particolare il paragrafo «Cieli nuovi e terra nuova», pp. 85-99, dedicato interamente al rapporto con Tartaglia, nonché A. Scottini, Sergio Quinzio. Il profeta deluso, cit., pp. 29-34. 195 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 164. 196 Ibidem. 197 Il Vangelo di Marco, più antico degli altri e dal quale essi dipendono, ha, secondo Quinzio, il pregio di avere conservato la crudezza, persa nei successivi a causa delle aggiunte di riflessioni teologiche e apologetiche. Questa crudezza deriva sia dal linguaggio, intriso di greco volgare, latino e aramaico, sia da racconti non apologetici, che non si preoccupano di sminuire la dignità di Gesù e dei suoi discepoli. Non sono presenti, inoltre, alcune delle pietre miliari su cui la Chiesa ha costruito il suo magistero, come il riconoscimento del primato di Pietro o la preghiera del Padre Nostro. È assente, infine, ogni preoccupazione di ordine culturale che affievolisca l’urgenza dell’annuncio. Non a caso questo Vangelo non ha avuto molta fortuna fin dagli albori della Chiesa, tanto che, nota Quinzio, nessun padre della Chiesa l’ha commentato, e soltanto quattro fra i passi dei Vangeli scelti per le festività liturgiche annuali sono tratte da Marco: «Le affermazioni e le omissioni del Vangelo di Marco dunque, quanto più ostiche nei confronti di ciò che è servito alla Chiesa per la fondazione della sua dottrina, tanto più sono sicure rivelazioni dell’autentica e perduta religione di Gesù» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 63). Si vedano, in proposito, le intense pagine dedicate a tale commento in ivi, pp. 62-130. 198 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 70. 199 S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 32.

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Capitolo secondo

Il frattempo

1. Oblio e rammemorazione Nella concezione escatologica del tempo di Quinzio, l’intera dimensione esistenziale e soteriologica è connessa all’evento finale, che risolverà, nella catastrofe apocalittica, gli enigmi del tempo presente. Tempo segnato dalla possibilità della fine, nonostante in esso si tenda a sminuire la potenza dell’éschaton e a non riconoscerne la priorità metafisica, in virtù della quale, invece, può essere attribuita al futuro messianico una potenza poietica persino sul passato, sfidando, nel “Giorno del Signore”, la legge dell’irreversibilità temporale, inviolabile nel regnum hominis: «Tutto pende dall’éscaton, dal Giorno, la fede stessa, Dio stesso. Ciò che grecamente è stato detto in rapporto all’eterno dev’essere ebraicamente compreso di nuovo in riferimento al futuro messianico (At 3, 20-21)»1. Futuro messianico ben diverso dal futuro cronologico. Esso, infatti, è da Quinzio concepito – in una riflessione che ha senz’altro radici ebraiche – in quanto costituito dialetticamente in rapporto al passato, quasi che l’uno sia l’a priori dell’altro, in una dinamica mai acquietantesi. Una delle figure che esprime con più forza visionaria questa dinamica temporale è quella dell’Angelus Novus di Klee – nell’interpretazione offertane da Benjamin – per il quale, commenta Quinzio, «il tempo scorre dal futuro, che sta alle nostre spalle e non vediamo, verso il passato che abbiamo perciò davanti ai nostri occhi. Quello che il nostro “greco” orientamento protologico vede all’origine sta così, nel futuro, che, dice ancora Benjamin, darà un senso alla vicenda del passato»2. La vera realtà, come Quinzio aveva scritto a Stefani, è solo quella messianica, nella quale, secondo le parole dell’Apocalisse, Dio assumerà la signoria anche di tutto il tempo già trascorso. La luce irradiante dal futuro messianico offrirà senso anche 103

al passato compiendolo definitivamente. Questo rapporto di mutualità dialettica di passato e futuro fa intravedere a Quinzio una via d’uscita dall’impasse del tempo intermedio, quel tempo che si è chiamati a vivere fra le due parusie e che continua a mietere morti, contravvenendo alle promesse messianiche: «In questo riflettersi del futuro sul passato, della presenza di Dio sul tempo della sua assenza […], io vedo, ma purtroppo molto oscuramente, una qualche vita anche in quelli che sono morti»3. Il tema del passato e quello del supremo rischio dell’oblio entrano così di diritto come pilastri del messianismo apocalittico, concepito da Quinzio secondo una linea di pensiero che, in questi sviluppi, non può non riconoscersi benjaminiana. In effetti, queste riflessioni costituiscono una vena differente, ma non secondaria, rispetto a quella del puro dopo4 di origine tartagliana, che, proprio in virtù di queste sopraggiunte urgenze del pensiero, tende a ridimensionarsi, salvaguardando la necessità della novitas, ma ricomprendendola mediante una contaminazione benjaminiana, che incontra il bruciante bisogno quinziano di rammemorazione, di salvezza del passato, dei suoi volti, dei corpi amati. L’assunzione del passato come elemento essenziale della realtà messianica diventa assolutamente evidente nel testo Dalla gola del leone, nel quale il pastore di cui parla il profeta Amos – che cerca di salvare brandelli d’orecchio del suo agnello dalle fauci del leone – può considerarsi un altro volto dell’angelo-bambino di Klee e di Benjamin, che constata il cumulo di rovine crescenti nel tempo. Anche lui potrebbe incarnare la figura dello storico messianico dallo sguardo di veggente, come profeta rivolto all’indietro5. Nello strappare quel pezzo d’orecchio non c’è solo un tentativo di recuperare il passato, ma anche quello di dare un senso al presente, mediante quel medesimo atto, e offrire al futuro messianico un resto da salvare, benché l’azione soteriologica definitiva spetti a Dio: «Ma Dio farà tutte le cose nuove, anche quelle già passate, proprio perché giudica condanna distrugge e crea. Se Dio non può creare un passato nuovo non può nulla»6. Lo scandalo dell’oblio del passato e, soprattutto, del dolore passato, è eclatante nell’orizzonte della temporalità storica, a differenza di ogni 104

orizzonte cosmico in cui esso viene considerato alla luce della virtù taumaturgica del tempo. Questa virtù “assorbente” del tempo, che asciuga tutte le lacrime, per Quinzio «è una maledizione ancora più grande della sofferenza, perché è l’oblio, è abbandonare nel nulla l’esperienza […] più intensa che può fare un uomo, è dimenticare la voce e il volto di chi era la nostra vita e abbiamo visto disperatamente morire e scendere nella fossa»7. Potrebbe apparire paradossale, e per certi aspetti lo è, considerare l’oblio della sofferenza come un male, dato che essa appare già di per sé qualcosa a cui sottrarsi con tutte le proprie forze. Ma per chi vive l’oblio come un orrore e una minaccia sempre incombente, «il suo nulla può essere patito come totale perdita del significato di quello che abbiamo vissuto, e quindi anche di quello che stiamo vivendo e che potremo vivere in futuro»8. La pietà nei confronti del passato diventa imprescindibile se si giunge alla consapevolezza che con l’oblio della sofferenza ci si avvia «verso il luogo arido dell’indifferenza, il luogo più mostruoso agli occhi di Dio, il luogo dell’assoluta difformità da lui»9. Come Benjamin, Quinzio è convinto che la sofferenza possa essere, in qualche modo, già redenta se resa indelebile dal ricordo. Chiunque abbia vissuto la malattia mortale di qualcuno che gli era «perfettamente caro, sopra ogni cosa teme di poter vivere un giorno senza serbare più nessuna memoria della sofferenza passata»10, dato che il dolore passato – rispetto a quello avvenire, ignoto e terrificante – ha proprio il volto di quella persona, è parte della vita singolare, è «felix poena, il tesoro della nostra tenerezza e della nostra pietà»11. L’appuntamento misterioso tra le generazioni, di cui parlava Benjamin, risuona in queste pagine quinziane dischiudendo, con grande tensione, l’orizzonte della debole forza messianica che, benjaminianamente, ci è stata consegnata12. Essa vuole redimere il passato perché solo così potrà compiersi la restitutio in integrum – secondo il modello del Tikkun – che, principalmente, è rammemorazione, e, nel ricordo, “primizia” di redenzione: Il luogo della salvezza promessa non è il luogo dell’oblio – il Lete che abbiamo appreso dai greci, il nirvana che abbiamo appreso da Budda – ma il luogo della memoria, nella quale – dice il

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Talmud – siamo salvati. Da millenni gli ebrei piangono il 9 di av, la duplice distruzione, nello stesso giorno a distanza di secoli, del tempio di Gerusalemme, sapendo che la loro debole memoria è l’unico filo che lega la vita alla promessa di salvarla, e che lo stesso permanere del ricordo è un pegno da parte di Dio, e una primizia, della restituzione di ciò che è morto, perché la debolezza dell’uomo non può non dimenticare presto, e quindi ricordare malgrado tutto ancora è l’operazione di Dio in noi, il lieve segno della sua oscura presenza13.

Lo sguardo dell’angelo, il gesto del pastore di Amos non hanno nulla a che vedere con una memoria di tipo archivistico, ma appartengono a una memoria “attualizzante” che prova a ridare voce ai morti, in modo che mai più il silenzio scenda sulle tombe: «Domandate a chi ha sofferto davvero: nessuno in fondo potrebbe accettare di considerare compatibile con la salvezza della propria vita l’oblio delle sue sofferenze»14. La redenzione è innanzitutto restituzione che già qui si preannuncia nella debole forza messianica15 del ricordo. Essa non è la forza in grado di resuscitare i morti, non è quella apocalittica della fine dei tempi, in cui ogni cosa sarà integralmente restituita e salvata. Benjamin, come Quinzio, udiva il grido di richiesta di giustizia proveniente dal passato e proprio per questo la sua concezione della storia è tanto segnata dall’idea messianica. Redenzione del passato e promessa di salvezza sono, anche per Quinzio, i due volti del futuro messianico: «La salvezza è promessa a chi rifiuta la consolazione dell’oblio (Mt 2, 18; Ger 31, 15), a chi ha il terrore di dimenticare, di non soffrire abbastanza (Sal 137, 5-6; Ger 8, 23)»16. Anche Quinzio ne sentiva le doglie più di una partoriente, e il suo scegliere la strada terribile della memoria della sofferenza non è masochistica volontà di chiusura nei confronti del «dono molto buono» (Gn 1, 31) del creato o rifiuto della bellezza, che, pure, con il suo fulgore splende dalla terra, ma un tentativo di leggerli altrimenti, considerarli da un’altra prospettiva: «vedere il dono molto buono dalla parte di chi l’ha perduto, vederlo dunque con una nostalgia infinita, tanto da preferire il dolore al nulla»17. Questa sua convinzione, quasi una fede, nel legame indisso106

lubile tra passato e redenzione, viene messa, tuttavia, a dura prova proprio dall’incombere dell’oblio dovuto al prolungarsi del tempo, al fatto del mero continuare a vivere, dell’imporsi, malgrado tutto, della potenza di Chrónos-Krónos – come tempo omogeneo e vuoto – che soltanto nel Regno potrà davvero essere trasfigurato in Chrónos-Apocalypseos. La smemoratezza, con il trascorrere del tempo, rischia di annientare la debole forza messianica del ricordo. L’impossibilità di restare tenacemente fedeli alla memoria è uno spartiacque, è quel tra in cui Quinzio fronteggia Dio, lo richiama alle sue responsabilità, la riva dove Giacobbe non ha mai terminato la sua lotta con l’Angelo, con Dio stesso. Perfino la morte della persona più amata e il lutto più inelaborabile possono soccombere scandalosamente all’oblio, come dolorosamente constata Quinzio, a partire dalla sua stessa vicenda personale: La morte non è una rottura che lasci sussistere, sebbene violentemente infranta come uno specchio, la realtà precedente, ma un processo inarrestabile di annientamento di quella realtà, che solo il miracolo del regno può risuscitare. Le morti invecchiano, le ossa secche di cui parla Ezechiele sono morti trionfanti anche sulla memoria. Il passato diventa immemorabile, inconoscibile, sprofonda nel nulla. Non esiste per me un luogo intermedio tra la vita che ho vissuto con Stefania e la restituzione che ne attendo sulla parola del Signore, spes contra spem (Rm 4, 18)18.

Il grido di angoscia che nasce dallo sperimentare l’impotenza di fronte alla morte, è solitamente un grido ammutolito dallo strazio, è il limite in cui la vita sta per precipitare nel non senso, in cui l’amore incontra l’aridità del deserto e la sua acqua si prosciuga, violentemente, repentinamente, facendo seccare tutto, dal filo d’erba al più grosso arbusto, siccità impietosa della fonte della vita, come le ossa rinsecchite di coloro che giacciono da millenni nelle tombe senza resuscitare, senza tornare a visitarci, nemmeno in sogno, per dirci cosa c’è al di là della soglia, per rivelare il segreto del loro sonno, del loro mutismo. Ma ancora più devastante e annichilente è l’esperienza dell’oblio: «L’oblio è il fondo del mistero, perché assurdamente è, insieme, 107

assenza e presenza. Presenza perché l’oblio è oblio di qualcuno e si sperimenta come tale solo perché c’è tuttavia il desiderio, la presenza, di chi stiamo dimenticando»19. L’oblio si configura perciò come il punto di maggior lontananza e di consumazione più profonda, non solo dalla persona amata ma, soprattutto, dal desiderio che aveva animato l’io e che ora lo consuma come l’ultimo carbone sotto la cenere: «Dall’abisso dell’oblio che si apre sotto i miei piedi il dolore mi sembra un miracolo dolcissimo e desiderabile, anche se so che è un’assurdità mostruosa. Lo rimpiango tanto eppure so che è intollerabile»20. Di fronte a questo abisso, il nodo messianico di passato e futuro sembra sciogliersi e lasciare la vela lacerata del pensiero di Quinzio andare alla deriva, tra le incombenti sirene del nulla, mentre le ali spiegate dell’Angelus Novus fanno vela verso il futuro, senza potersi trattenere presso quelle macerie che pure si vorrebbero ricomporre. Quest’orrore stride con la vita che resta da vivere, con la fatica di mantenere vivo, nonostante tutto, il ricordo; con la prova umanissima e disumana di restare fedeli a chi – da Dio? Dal Caso? Dalla vita stessa? – è stato sottratto alla vita, gettando sui sopravvissuti un peso metafisico insopportabile: «Mi saliva nel cuore il passato che il Signore ha permesso fosse distrutto: mi sono sentito in una colpa infinita, imperdonabile in eterno. Una colpa troppo grande perché possa essere imputata a una creatura debole e miserabile come me, una colpa che ritorna su Dio, che ci ha abbandonati»21. In questo frangente la stessa bellezza dell’universo congiura contro il ricordo, ordisce trame contro la rammemorazione, non fa che offrire consolazioni, sempre più difficili da rifiutare, antimessianiche forse, ma sempre più necessarie, come è accaduto alle comunità dei primi cristiani, per i quali la vita vissuta come non, in attesa del Regno imminente, si è trasformata in una lotta impari con il prolungarsi dell’attesa e ha avuto bisogno di trasformarsi nella vita vissuta come se il Regno fosse già venuto: Sarei tentato di parlare di me, di come mi turbino queste prime giornate di cielo sereno, calde, calme. Sole sopra le tombe sempre più vecchie e polverose, senza neanche più una memoria della carne e del sangue, secche, pura natura. Allungo le mani per cercare

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una fotografia, o un oggetto toccato da lei, e poi le tiro indietro, per la pena di trovarmi tra le mani immagini o cose logorate dai troppi tentativi di guardarle, di ricordarle com’erano […]. Ma tutto quello che posso fare è rimpiangere un po’ il mio dolore, e anche questo sempre più spesso invano22.

Il sentimento del dileguarsi del ricordo e del dolore apre varchi differenti nella riflessione quinziana sul passato. Esso, separato dal futuro messianico, ricade, a tratti, nella sua dimensione meramente cronologica e disperante: «Del passato sopravvive solo la morte»23. Misurarsi con la morte di Stefania ha significato per Quinzio mettere alla prova anche la sua speranza contro ogni speranza nell’avvento del Regno e, soprattutto, l’approfondirsi della convinzione che se una salvezza deve venire, deve essere totale, carnale, concreta, restitutio in integrum di tutto il passato. La certezza che Dio compia alla lettera quello che ha promesso sarebbe l’unico balsamo sulle ferite di chi spera disperatamente, «e tanto più alla lettera quanto più l’attesa mi ha ingannato e deluso, sicché adesso non posso chiedere al Signore meno di un adempimento esattissimo delle sue parole: di lavarci i piedi, di chinarsi dinanzi a noi per servirci, di danzare per noi con gridi di gioia, di incoronarci e portarci in trionfo»24. La profonda umanità della richiesta di «lavare i piedi a Sergio e Stefania», poggia sulla consapevolezza di un diluirsi irredimibile della potenza della salvezza a causa di giorni che passano sempre più numerosi, come manciate di terra buttate sulla salma seppellita di un amore impotente, perché, come già i greci sapevano bene, le necessità della vita, a volte, sono più forti dell’amore e della morte. Anche Quinzio è consapevole della ineludibile “legge di gravità” che lega al tempo e alla terra, dell’impossibilità del permanere di qualsiasi immagine nella sua vivezza originaria, anche se si cerca di reiterarla nella mente, di trattenerla ripetendo le parole: «Può ancora salvarci il Signore? La restituzione di Stefania può significare ancora per me quello che avrebbe significato cinque anni fa? Qualche volta penso che il mio amore per lei sia ormai più voluto che sentito, questo pensiero mi stringe 109

alla gola: ancora per quanto, prima di perdersi del tutto?»25. È una consapevolezza paralizzante, che rende la salvezza una possibilità sempre più remota, fino a precludere «ogni possibilità di significato anche del passato»26. Quinzio giunge a postulare l’impossibilità della salvezza che per lui, sine glossa, non deve essere proiettata in compensazioni ultraterrene, ma riguardare la stessa vita terrena. Tuttavia, a causa dell’eccessivo protrarsi del tempo che segna ciascun essere vivente con l’oblio, se ne perde il senso: «C’è un limite oltre il quale la redenzione, la salvezza della nostra povera vita, non ha più senso (Mc 13, 20); c’è un punto al di là del quale la promessa che Dio ci ha fatto non può più essere mantenuta»27. Il nulla incombente e la preclusione di ogni possibile senso potrebbero condurre il dolore al di là di quella soglia che ne consenta ancora una qualche consolazione, non soltanto in rapporto alla sua intensità – soggettivamente variabile – ma, paradossalmente, in rapporto all’indice di oblio, se così si può dire, che il tempo accresce esponenzialmente: «Per questo il futuro mi spaventa, perché il corso del tempo ha già macinato e consumato tutte le possibilità di significato, una dopo l’altra, e il disperato rudere che ne resta sarebbe macinato e consumato presto»28. I tentativi di mantenere intatti i ricordi, di salvaguardare i particolari delle immagini, le sfumature degli odori, le sensazioni, la cui vivezza può essere sorprendente, si scontrano con il loro carattere effimero e fittizio, che li rivela una misera parvenza della realtà, destinata, peraltro, con il tempo, ad affievolirsi: «Mi accorgo inesorabilmente che la memoria non è il fatto. La memoria è un residuato indebolito di quello che è stato il fatto, per cui di anno in anno si dimentica»29. La morte non cristallizza i defunti nella luminosa memoria che, invece, i millenni donano a certi minerali, rivestendoli d’immutabile splendore, anziché ridurli in polvere. Piuttosto li lascia fluttuare nel sangue e nelle lacrime di chi resta, sottomettendoli, inoltre, al disfacimento di chi li ricorda, sempre in procinto di rimorire nell’oblio: «non è che ci sia un momento preciso in cui questo ricordo diventa impossibile; però di fatto c’è una legge ineso110

rabile per quello che si allontana nel tempo e dalla presenza nella coscienza»30. Questo dramma dell’oblio ontologico, dell’inevitabilità dell’oblio, anche contro la volontà, mette in gioco, per Quinzio, la sua stessa fede. La promessa di redenzione dovrebbe, a suo avviso, non tradire nulla del passato, tanto meno la stessa intensità del desiderio di fedeltà alla memoria di chi è morto. Ma se il tempo continua a prolungarsi, questa fedeltà rasenta l’impossibile, come Quinzio sperimenta nella sua personale esperienza: Questo veramente mi spaventa. Posso ancora desiderare la gioia di chi è morta, come la desideravo quando la vedevo soffrire piena di terrore e mi invocava con gli occhi di aiutarla e ogni istante la spiavo per cogliere un segno che potesse farci sperare? E se a questa domanda dovessi avere la forza di rispondere no, allora quello che il Signore, secondo la sua promessa (Lc 21, 16-19), ci restituirà è veramente ciò che abbiamo perduto?31.

La domanda concerne non solo una questione di fede, ma pone interrogativi sulla reale efficacia del futuro messianico, sulla forza della speranza, sulla capacità di restare fedeli alla promessa di redenzione e, infine, sulla stessa natura dell’attesa. Se il desiderio di fedeltà alla promessa di redenzione ha una sua intensità, che consente alla memoria di restare viva e, quindi, di vivere secondo la speranza della promessa stessa, appare chiaro, tuttavia, che tale desiderio non resista intatto ai colpi del tempo. Posti di fronte all’attesa del Regno, prolungatasi per secoli, la forza della speranza e il desiderio di fedeltà alla promessa di salvezza sembrano manifestare tutti i loro limiti, così come, nella sfera degli affetti, chi sopravvive ai propri cari, con il tempo, verrà necessariamente riassorbito dalla vita, con i suoi bisogni. Anche Niobe dai bei capelli, come ricorda l’Iliade, dopo aver pianto i suoi dodici figli ebbe fame32. L’istinto di sopravvivenza e l’oblio che ne deriva, vincono anche il più tenace desiderio di fedeltà e la morte, infine, appare più forte dell’amore. I bisogni inchiodano l’essere umano alla sua finitezza e ridimensionano la fiducia nella potenza del proprio amore. Se nell’ambito terreno il suo inevitabile assopirsi si manifesta con un indebolimento 111

progressivo della vivezza del ricordo, a livello metafisico – nella speranza di redenzione – si verifica, più che un passaggio graduale, un vero e proprio salto quantico, il prospettarsi di una nuova realtà, in tutto e per tutto disperatamente diversa, non perché la si pensi già come peggiore, ma perché, con il ricordo perduto, anche una parte dello stesso soggetto rammemorante si perde, insieme alla certezza che Dio possa attuare davvero la restitutio in integrum sperata: «E se, per restituirci quello che abbiamo perduto, dovesse ricreare anche il desiderio intenso di riaverlo, non sarebbe questo un artificio pesante e un po’ disumano, come se desideri e appagamenti potessero essere meccanicamente maneggiati?»33. Sembrerebbe, dunque, una vittoria dell’oblio ad avere, infine, la meglio sulla debole forza messianica del ricordo34. La fiducia benjaminiana nella potenza redentiva della rammemorazione era consapevole dei propri limiti. Anche Benjamin, benché ritenesse che il compito del “cronista” fosse quello di dar conto di tutto ciò che nella storia è avvenuto – senza distinguere tra avvenimenti primari e secondari, in modo che nulla del passato potesse andare perduto – aveva, in realtà, posto delle condizioni alla possibilità di salvezza integrale del passato: «Certo, solo a un’umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l’ordre du jour” – giorno che è appunto il giorno del giudizio»35. Allo stesso modo, per Quinzio, con accenti paolini, solo l’éschaton sarà in grado di “restituire” trasparenza a quanto ci appare opaco e confuso. L’attenzione messianico-apocalittica di Quinzio è, perciò, tutta protesa al “tempo che verrà”, quel nuovo eone in cui Dio potrà “discolparsi” manifestando la sua presenza, facendo giustizia e resuscitando i morti, perché, come abbiamo visto, solo nell’attualizzazione della redenzione si può leggere il progetto complessivo che ha segnato tutto il passato, mediante la restituzione delle sue maglie cadute, dei nodi mancanti al corso degli eventi, finché non appaia evidente la concatenazione delle generazioni e il senso della storia: «Non è dunque che la pie112

nezza finale sia sapientemente deducibile dal corso dei tempi che la precedono: la pienezza finale può, invece, riflettendo il suo senso sul corso dei tempi che la precedono, rivelarli come prova, o come tentazione, o come supremo rischio attraversato dall’opera di Dio»36. Si torna così alle due immagini che, per Quinzio, più di tutte le altre riescono a veicolare, all’interno dell’ebraismo, la priorità del futuro messianico sull’oblio assoluto, mostrando come il tempo e la storia, fino all’ultimo, si sottraggano a ogni rassicurante pre-visione: «quella, ripresa nell’Angelus Novus di Benjamin, dello stare rivolti con le spalle verso il futuro che viene verso di noi e sorpassandoci si presenta alla nostra vista diventando passato; e quella, comune alla Bibbia come alla letteratura apocalittica, di Dio in guerra per conquistare il suo regno»37. La salvezza, per Quinzio, non è una certezza, un dato scontato, capace, dunque, di consolazione e rassicurazione nel presente. Se essa è davvero evento che, all’ultimo, potrebbe finalmente rivelare la sua potenza redentiva anche nei confronti del passato, allora è solo ciò che possiamo sperare come conclusione di una vicenda dall’esito incerto: «Resto, come posso, legato alla speranza che Dio abbia ancora nelle sue mani una carta da giocare, una carta capace di sorprenderci. “Solo a un’umanità redenta, dice Benjamin, appartiene il suo passato”. Anche il nostro, la nostra vita, il senso di quello che abbiamo vissuto, sta appeso là, al “giorno di Dio”»38. Come per Benjamin, anche per Quinzio non vi può essere redenzione che non sia al contempo anche “restituzione” di tutto il passato: «La nostra speranza implica la possibilità di una “restituzione” di ciò di cui abbiamo forse persino dimenticato l’esistenza, ma che ci ha toccato, sfiorato, almeno qualche volta, almeno una volta»39. Da questa speranza la vita non potrà certo essere rassicurata, ma almeno, forse, guidata e confortata nel dover affrontare il suo incerto procedere: «un rischio sempre più grande, una pietà sempre più dolorosa, un compimento sempre più difficile, una consolazione sempre più dolcemente povera (“anaw”: “povero”, “dolce”)»40. Sarà, così, nella disperazione della speranza, che Quinzio giungerà alla consapevolezza di avere bisogno, non in senso spi113

ritualizzato, ma vivo e concreto, di una consolazione “povera e dolce”: «la croce chi può portarla completamente solo, se Gesù è stato aiutato?»41. Lì dove più prossimo appare lo sprofondare nel nulla e il nichilismo più radicale l’unico sbocco possibile, Quinzio, tuttavia, tenacemente si tiene attaccato a quel filo di speranza che ogni giorno può concedere la grazia di qualche «dolcemente povera» consolazione: «Come sono stanco di pensare pensieri impensabili, ma non posso rinunciare alla tenerezza, alla dolcezza, all’amore che non ho cercato: non si può respingere la tenerezza, la dolcezza, l’amore, quando vengono a te e tu sei nella disperazione e nel nulla»42. 2. Giudizio sulla storia La riflessione di Quinzio, incentrata sulla redenzione e sull’avvento del Regno, non poteva esimersi dal misurarsi con la questione della storia, alla quale egli ha dedicato un’attenzione particolare fin dagli anni giovanili, collegandola, non a caso, con il concetto di giudizio. Il continuum temporale, infatti, non costituirebbe, di per sé, ciò che comunemente viene chiamato storia se a esso non venisse attribuito un senso attraverso un’azione di giudizio, poiché, ad avviso di Quinzio, ciò che fa di un continuum temporale una storia è proprio l’unificazione degli eventi mediante un criterio che permetta di giudicarli. Il rischio che si spalanca davanti al “cronista”43 è, allora, quello della suprema responsabilità che ogni azione di giudizio si assume, per sé, per i venturi, per i trapassati, per i presenti: «La storia implica qualcosa al di là della storia. […] Senza giudizio sulla storia non c’è storia. Il “giudizio” ha una sua emergenza sugli eventi che gli consente, appunto, di rifondare la storia. E in effetti la filosofia della storia nasce prima della storia»44. Ciò che consente di fondare la storia, o meglio le storie, è, in fin dei conti, un insieme di valori, che si impongono per la loro forza di concatenare eventi, di per sé sconnessi, in una successione significativa, «valori emergenti, per l’osservatore, sulla catena dei fatti storici e da lui accettati come criterio di riferimento e di giudizio»45. Per questo Quinzio considera qualsiasi opera di sintesi storica alla stregua di un’opera d’arte, il cui merito esclusi114

vo va all’artista che le ha dato forma. Ciò che viene da lui insistentemente contestato è, dunque, la pretesa di oggettività storica assoluta di cui, pure, molti storici e filosofi della storia si sono attribuiti il merito, sfuggendo alla consapevolezza dell’ineludibile prospettiva assunta nella loro opera. D’altra parte, negare, come sostengono altri, la possibilità di conoscere e giudicare la storia a causa dell’inevitabile sovrapporsi delle prospettive, che, perciò stesso, impedirebbe una conoscenza minima e condivisa, è altrettanto sterile: La pretesa di poter conoscere la storia vera è la vecchia pretesa metafisica; ma la dichiarazione dell’impossibilità di conoscere la storia è la dichiarazione della moderna impotenza. È necessario dunque sostituire al criterio della scoperta il criterio dell’invenzione, e alla verità definitiva e assoluta una verità che è la validità, nello stesso senso in cui questo termine viene usato a proposito di un’opera d’arte o, se si preferisce, di una teoria scientifica46.

La storia, dunque, per Quinzio, non si conosce, ma, a rigore, si “inventa”, dando agli avvenimenti corpo e tempo, nonostante tutti gli infingimenti che possano far pensare il contrario. Mentre la si “inventa”, la si giudica, salvando o obliando eventi e persone in base al criterio di invenzione e giudizio scelto. La ricerca di un senso della storia e il giudizio su di essa, nell’analisi quinziana, sono contrassegnati, dunque, da alcuni elementi fondamentali. Uno dei più evidenti è l’onnicomprensività, caratteristica essenziale del giudizio a cui auspicare di giungere. Ciò non implica che Quinzio valuti positivamente una sussunzione del particolare nell’universale, ma, piuttosto, rivela un suo tentativo di comporre il loro rapporto in un movimento dialettico, mettendone in luce l’intima relazione. Se «il particolare e l’individuale […], isolati nella loro autonomia, sono condannati a perdere ogni valore»47, affinché si possa parlare di un senso della storia o si possa azzardare un giudizio su di essa, occorre pensare le implicazioni di particolare e individuale con il totale e l’universale, riscoprendo la mutualità che caratterizza questa complessa relazione48. Ancora una volta il riferimento a Benjamin è decisivo: «Come dice Benjamin, ogni fram115

mento è destinato messianicamente a rivelare il suo senso solo nella pienezza della realtà redenta»49. Se soltanto un’umanità redenta eredita la pienezza di senso dei singoli frammenti del suo passato, allora la storia dovrebbe essere, sempre, considerata alla luce della categoria di redenzione, attraverso uno sguardo escatologico-messianico. In realtà, dunque, il giudizio onnicomprensivo è anche un giudizio ultimo; un giudizio, cioè, esercitabile solo a partire dalla fine. Ogni giudizio antecedente non può che essere parziale: «La vita di un uomo non è tale che dinanzi alla sua morte. Così anche la storia»50. Questo ci riconduce, circolarmente, alla non neutralità di tutti i passaggi che comportano l’“invenzione” di una storia. Secondo Quinzio, anche l’unitarietà e la successione attribuite ad essa, piuttosto che dipendere esclusivamente da criteri meramente cronologici o di tipo causale, sono strettamente legate al criterio di giudizio scelto, dunque niente affatto neutre. All’interno dell’insieme indicato, la valutazione della qualità dei mutamenti inerenti agli eventi è assiologicamente interpretabile, visto che occorre, «in definitiva, che certe situazioni siano ritenute preferibili a certe altre. Naturalmente mutano anche i concetti di preferenza, e per questo ogni sistema di criteri di preferenza definisce una determinata concezione della storia»51. Ciò comporta una conseguenza etico-politica importante: poiché i criteri di preferenza che riescono ad affermarsi sono, generalmente, quelli condivisi dalla maggioranza dominante, la storia conosciuta sarà, con tutta probabilità e come già aveva notato Benjamin, solo la loro: «Di tutte queste storie, in ciascuna società o cultura, una prevale. La storia che prevale è la storia ufficiale»52. Quinzio sostiene che l’attitudine a giudicare la storia e a cercarne un senso sia, comunque, una peculiarità dell’Occidente, che intuisce una teleologia dove altre civiltà vedevano solo il susseguirsi delle stagioni e dei cicli naturali: «Noi chiamiamo storia quello che per altre culture non aveva un nome e non esisteva. La stessa storicità è una nostra creazione, un nostro rischioso modo di sentire e di comprendere la realtà umana nel suo farsi»53. Le numerose filosofie della storia, che hanno proliferato nella modernità, testimoniano una profon116

da ansia dell’Occidente di rileggere se stesso e il suo cammino, le sue luci e le sue ombre, le vittorie segnate all’attivo e le sconfitte incassate: Dice Spengler: “Noi uomini della civiltà europea occidentale siamo, con il nostro senso storico, un’eccezione e non la regola; la storia universale è un’immagine del mondo nostra, non dell’umanità”. Non sono senza significato, a questo proposito l’idealismo tedesco e le varie forme di evoluzionismo. Nulla di simile era operante nell’animo degli antichi. Gli antichi orientali e gli antichi greci avevano della vicenda umana un concetto ciclico […]. I fatti si succedono senza che della loro successione si possa dir nulla54.

Se, da un lato, Quinzio condivide l’analisi di Spengler, ascrivendo all’uomo moderno la ricerca di un senso della storia, dall’altra si spinge indietro nel tempo, fino alla concezione biblica della temporalità storica, e proprio in essa individua l’origine del primitivo impulso alla ricerca di un significato complessivo del continuum temporale, ivi descritto come procedente dall’inizio assoluto della creazione e tendente verso l’éschaton. A Gerusalemme, dunque, e non ad Atene occorre tornare per comprendere il senso unitario della storia occidentale: «Resto con ciò totalmente all’interno del modello ebraico-cristiano di “filosofia della storia”, che va verso il giudizio finale. Come dice Löwith, tutte le possibili filosofie della storia derivano dal modello biblico»55. Lo sguardo dei profeti si era già elevato dalla monotona insignificanza degli eventi per leggerne alcuni come emergenze kairologiche, come accadimenti suscitati dalla generosità di Dio – la creazione, la promessa ad Abramo, la liberazione dall’Egitto – e non mere conseguenze del caso o del progettare umano. Tuttavia, sarà solo il cristianesimo che porterà a compimento questo embrionale istoreín: «Con il cristianesimo, nella dottrina del peccato di origine di Paolo e nelle profezie apocalittiche circa il regno dell’anticristo e la fine del mondo, finalmente nasce la storia»56. I cristiani delle origini assumono consapevolezza sia del loro passato, in quanto appartenenti al popolo ebraico – da cui sono nati, di cui condividono usi, costu117

mi, leggi, e, soprattutto, l’attesa messianica – che del futuro, in quanto differenti dal popolo ebraico – nella dolorosa separazione a cui li costringe il mutarsi della loro attesa del Messia in fede nella messianicità di Gesù di Nazareth, venuto a instaurare il Regno di Dio. Per ciò stesso la primitiva comunità cristiana avrà un ruolo decisivo nell’idea di storia: «La chiesa è una realtà storica, anzi è la madre della storia, che nasce in quanto consapevolezza della significatività dell’itinerario temporale nel momento in cui le è imposta la meta del regno di Dio»57. La venuta del Messia segna, cioè, l’inizio di un cammino comune in cui l’abitare il mondo e l’agire in esso non sono più rivolti alla costruzione di un benessere terreno relativo a individui isolati o a singoli popoli, ma orientati a un progetto comunitario, di anticipazione del Regno, nell’ecclesía universale, e di attesa del suo compimento nell’éschaton: «Il nostro senso storico ha la sua origine nella cristiana storia della salvezza, la linea cioè attraverso la quale si attua nel tempo la oikonomía, il piano della rivelazione salvifica di Dio»58. Alla fine dell’età apostolica Agostino aveva già offerto al mondo la prima compiuta filosofia cristiana della storia. Anche i Padri della Chiesa erano orientati dall’attesa del compimento del Regno messianico, presupposto imprescindibile di ogni loro asserzione sulla storia, e, nel Medio Evo, alcune delle più importanti e poderose sintesi storiche si basavano sulle attese cristiane; Gioacchino da Fiore ne è il più fulgido esempio. Tali concezioni contemplavano la possibilità di una fine della storia, del raggiungimento di un termine verso il quale era rivolta una tensione costante. Questa stessa tensione, in forma secolarizzata, si ritroverà nelle maggiori concezioni occidentali di filosofia della storia59, finché non verrà smorzata nel disincanto attuale che, trascrivendo la storia in termini di legami causali, ne ha spento la tensione verso il futuro. Infatti, secondo Quinzio, fuori da uno schema teologico-messianico, non può che restare una mera concatenazione di fatti, siano essi determinati dal caso o succedentesi ordinatamente secondo nessi logici60. Uno sguardo sul passato prossimo delle riflessioni sulla storia offre la misura del naufragio di senso e della contraddittorietà pressoché sterile dei passaggi operati: 118

Il mondo moderno, attraverso Voltaire, Condorcet, Hegel, Comte e, da ultimo, Marx, ha imparato a vedere nella storia uno sviluppo indefinito della civiltà al quale, in definitiva, è mancato il collaudo dei fatti. Dalla tesi ottimistica è rapidamente passato così all’antitesi pessimistica, incarnata in Kierkegaard, Dostojevski, Nietzsche e Tolstoj, per giungere infine ad una ben povera sintesi, che consiste nella rinuncia al senso della storia. Jacob Burckhardt nega l’unità della storia, Wilhelm Dilthey esclude qualunque progresso e persino qualunque verità storica61.

Il concetto di causalità, quello di fatto empirico, nonché l’esaltazione del frammento come parte fondante della storia, non hanno prodotto i risultati che ci si attendeva da loro, rivelandosi, in ultima istanza, inadeguati a rispondere all’urgenza di un significato ultimo. Quinzio ritiene che le filosofie della storia basate sulla centralità di tali concetti pongano la questione del senso secondo una modalità ambigua e assolutamente differente da quella che aveva orientato le concezioni ancora influenzate dall’orizzonte ebraico-cristiano. L’elemento chiave, per queste ultime, era una domanda circa il futuro, legata alla temporalità escatologica62. Nella riflessione quinziana tutti i pensatori contemporanei che hanno provato a riflettere sulla storia vengono inscritti, dunque, in un quadro di “pensiero debole”, poiché non hanno saputo sostituire alla potente idea messianica un’altra altrettanto forte. Ciò che, invece, interessa a Quinzio, al di là delle differenti e opinabili posizioni, è la presenza di criteri di giudizio, i quali hanno consentito di definire “fatti storici” alcuni eventi che, altrimenti, sarebbero comunque defluiti nei gorghi di Chrónos, e dimenticati. Le matrici di storia più potenti, quelle che hanno favorito “azioni di giudizio”, sono state, certamente, le varie concezioni religiose, molte delle quali hanno plasmato, nel bene e nel male, intere civiltà. Il termine sine qua non scelto da Quinzio per formulare un suo criterio di giudizio sulla storia è, però, la re-ligione, intesa in senso differente da ciò che comunemente si intende. Più che un insieme di pratiche liturgiche o una specifica confessione, il termine sembra alludere a una enérgeia: «La religione è lo sforzo vivo delle origini di unificare e di superare 119

il differenziato, il parziale, il molteplice, il relativo. È la realtà sintetica dalla quale via via si svolge, per successive analisi e differenziazioni, il cammino della storia»63. Inevitabile concludere che la storia, nel suo farsi effettivo, essendo negazione di quell’unità originaria, diventi anche negazione della re-ligione, del suo principio ontologico di unificazione. La problematicità di un criterio di giudizio fondato sulla religione così intesa è, dunque, scontata, dato che essa si pone, ontologicamente, come la negazione della storia, operando, dunque, in un contesto che dovrebbe contribuire a distruggere. Avendo assunto come criterio di giudizio sulla storia il rapporto con la religione, Quinzio si trova di fronte due concezioni possibili, «una che giudica positivo e l’altra che giudica negativo il dissolversi della religione in cui consiste la storia»64. Poiché la stessa concezione del mondo moderno ne verrebbe inficiata, in una prospettiva mondana a prevalere è chiaramente la prima, in cui i fatti storici possono assumere una valenza evolutiva, mediante l’assunzione dei criteri di giudizio adatti: «tendenzialmente ogni storiografia nasconde un’apologetica della storia»65. L’intenzione quinziana, invece, è ben distante da un’apologetica della storia. La sua concezione vuole muovere da un’azione di giudizio globale su di essa – come, del resto, aveva previsto nel suo criterio dell’onnicomprensività del giudizio storico – e il confronto con la re-ligione gli fornisce le basi proprio per un’azione di tal sorta: «Se il giudizio storico non può che essere questo giudizio globale quantitativo, è precisamente tale il giudizio formulato in relazione all’intensità della religione, e cioè al grado di tensione verso una realtà perfetta, che si manifesta in ogni situazione storica»66. In nome di questa scelta, Quinzio opta radicalmente non solo, come abbiamo visto, per una critica a ogni pretesa di obiettività storica, ma si propone di non tenere in considerazione nessun criterio di oggettività, retaggio di una mentalità scientista: «Non si trova negli uomini autenticamente religiosi del passato nessuna cura dell’esattezza storica»67. Ciò vale soprattutto per la storia di religioni, quali il cristianesimo, che sono sempre matrici di storia e non da essa create: «Vedo un grosso perico120

lo nell’esigenza di esaminare attentamente i fatti per evitare di “restare impigliati in punti leggendari e dogmatici”»68. Le accuse di arcaicismo fatte alla religione, a causa del rifiuto di servirsi di strumenti adatti all’interpretazione razionale dei fatti, sono anch’esse frutto di un giudizio sulla storia, considerata in chiave evolutiva, il quale presuppone che nell’oggi ci sia più luce del passato, anche solo per il fatto di possedere più raffinati strumenti logici. Le civiltà, dunque, saranno “giudicate” da Quinzio in base al loro grado di tensione verso una realtà ultima, tensione squisitamente re-ligiosa, nonostante le possibili secolarizzazioni che, di fatto, hanno operato nella civiltà occidentale. Rispetto al criterio di giudizio scelto da Quinzio, nel mondo moderno non può che registrarsi un affievolimento delle speranze e un ripiegamento verso mete sempre meno alte, poiché «dalla gioiosa potenza dell’unione con Dio, dalla meraviglia dell’età messianica»69, gli sguardi si abbassano, avidi non più della resurrezione dei morti, ma del benessere mondano e della sicurezza. Lo stallo in cui la storia dell’Occidente annaspa, scivolando pericolosamente sulle pareti sdrucciolevoli dell’idea di progresso, sarebbe dovuto, essenzialmente, a un mutato rapporto con la re-ligione, che si è, lentamente, trasformato in un non rapporto70. In modo più esplicito e meno mediato ritroviamo, in sostanza, la stessa esigenza benjaminiana che vedeva nella teologia71 – l’orizzonte escatologico-messianico – la prospettiva senza la quale la storia non avrebbe potuto essere pensata, se non frammentariamente. Se si considera, ad esempio, la dominante idea evolutiva della storia – come il venire al mondo di ciò che ancora non è, e come superamento di una condizione primitiva verso la complessità e l’arricchimento di una condizione superiore – non si può non riconoscere una stretta parentela tra essa e il principio ontologico della re-ligione, con la sua tensione a un’opera perfetta, in sé compiuta e armonicamente dinamica. Tra le religioni, quella maggiormente segnata da un’originaria spinta evolutiva verso un evento finale, instaurante una realtà perfetta, è stata certamente il cristianesimo: «Il cristianesimo è appunto l’annuncio dell’imminenza di questo ultimo at121

to della storia, la buona notizia portata da Cristo è questa: “il regno dei cieli si è avvicinato”. Ciò che si richiede è l’adesione dell’uomo a questa realtà nuova, l’estrema tensione verso questo evento risolutivo»72. È evidente che, non essendosi verificati gli eventi attesi, la temporalità escatologica, con un mutamento proteiforme, è stata adattata al prolungarsi dei secoli in un modo che, certamente, non era stato contemplato dalle primitive comunità cristiane, con buona pace di Kierkegaard e della sua negazione – come si suol dire, troppo bella per poter essere vera – della differenza tra «discepoli di prima mano e discepoli di seconda mano»73. Il mutamento in questione, infatti, ha provocato due fenomeni attualmente ben evidenti e interconnessi: da una parte l’influenza della concezione evolutiva della storia di matrice cristiana su tutto il mondo moderno e, dall’altra, la paradossale identificazione del cristianesimo con la storia dell’Occidente. Il primo comincia a manifestarsi dopo il Medio Evo, quando l’homo faber fortunae suae, rassicurato dalle possibilità insite nel suo fare, del cristianesimo prende e conserva, soprattutto o forse esclusivamente, il senso della storia, di un iter da percorrere, di uno sviluppo da compiere, di una meta da conseguire. Da Campanella e Vico, ancora relativamente vicini alla fonte originaria, all’illuminismo, fino a Hegel e Marx, la tensione verso un “progresso” sta ormai nel fondo più intimo di ogni uomo, come sua unica fede o almeno, bisogno di fede74.

Fin dalle prime comunità cristiane, infatti, l’insegnamento fondamentale era stato quello dell’attesa del Regno, del proiettare lo sguardo e le azioni nel futuro, aspettandosi da esso la redenzione e il compimento della propria speranza. La spinta più potente offerta dal cristianesimo si è rivelata proprio il concetto di Regno, come ascesa verso una meta, che è tutt’ora potentemente operante nella storia: «La coscienza dell’unità della storia e l’esigenza di comprenderne l’essenza e il significato erano sorte con il cristianesimo: l’orientamento dell’intera vicenda storica verso la risolutiva e perfetta meta del Regno di Dio è infat122

ti la matrice della moderna concezione del progresso»75. In fin dei conti, quello che davvero resta del cristianesimo «è precisamente la verità della sua idea di storia, di itinerario ascendente. Attraverso il cristianesimo si va, così, dalla religione al mondo moderno»76. Non si riesce più, anche volendo, a concepire la storia senza pensare a una meta o a uno scopo verso cui essa tende; la vicenda globale dell’umanità prende corpo come insieme significativo nella sua attesa di miglioramento e superamento dei limiti della condizione umana: «In questo implicitamente, l’uomo moderno accetta il cristianesimo. Suo malgrado. Il mondo ha potuto ignorare o respingere il cristianesimo ma non ignorarlo»77. Come Löwith, Quinzio è assolutamente convinto che la vocazione progressiva della storia moderna non avrebbe potuto sussistere se non sulla scia del fallimento delle speranze cristiane. Il loro differimento e l’incalcolabile vuoto da esse lasciato, anziché dare luogo all’esasperazione della richiesta del Regno, si trasforma e si integra con le attese mondane, raggiungibili con i mezzi sempre più potenti della tecnica: «Dal differimento della tangibile salvezza biblica, con la conseguente considerazione di un tempo intermedio, destinato a protrarsi sempre più, è nata l’idea di “progresso della storia”, che nelle sue diverse e più o meno esplicite forme sta a fondamento di tutto il mondo moderno»78. Nell’identificazione, ormai avvenuta, di cristianesimo e storia si registra un progressivo allontanamento dall’intensità delle origini, in cui il sacro era la spinta di tutta la vita protesa all’avvento del Regno. La parabola di depotenziamento della spinta originaria si può seguire prestando attenzione alle tematiche attualmente preminenti che hanno soppiantato, con concetti più consoni alla mentalità corrente, i termini schietti del Vangelo: «Il cristianesimo (un modello della storia del mondo) ha visto il passaggio lento ma netto dai temi dell’impazienza e del giudizio, a quelli della pazienza e della misericordia»79. Parole come tolleranza, calma, pazienza, secondo Quinzio, non sono parole evangeliche ma sostituzioni indebite delle originarie sete, fame, giudizio. Il fatto che si sia attuato un simile capovolgimento è indice di un cambiamento epocale, tanto che la scel123

ta tra questi due campi semantici acquista una rilevanza per il senso della storia, che nella fuga dall’imminenza del giudizio fonda la sua possibilità di durare e progredire: «Accentuare la pazienza e la misericordia significa riconoscere un progresso nella storia dell’umanità, accentuare l’impazienza e il giudizio significa riconoscere una involuzione nella storia dell’umanità»80. Questo passaggio è tipico della decadenza di ogni cultura che dalla potenza vivace e intollerante delle origini trapassa nell’equilibrio della senectus81. Nonostante l’originaria spinta evolutiva del cristianesimo, la sua lenta identificazione con il mondo ha portato in luce il necessario coimplicarsi di una concezione evolutiva con la speranza dell’imminenza del Regno: «Come dalla fede nell’avvento del regno di Dio è nata la fede nella storia, così alla perdita della fede nel regno segue necessariamente la perdita della fede nella storia. La crisi del senso storico è, in realtà, crisi dell’idea di progresso»82. Dal momento in cui l’imminenza viene diluita nella storia, la concezione evolutiva non regge più, soprattutto se il criterio scelto per il giudizio, come nel caso di Quinzio, è la tensione re-ligiosa verso un evento risolutivo: «Se la storia è, per un uomo di religione, la storia del sacro, allora, poiché il senso del sacro, intensissimo alle origini, si è venuto via via affievolendo attraverso i secoli, la storia risulta inevitabilmente involutiva»83. Se la signoria di Dio si compie pienamente solo alla fine dei tempi, nel resto dei giorni, cioè nella nostra storia, resta una stigmata di totale insecuritas84. La fede non garantisce l’esito lieto della fine, ma, anzi, apre sull’abisso di un’incompiutezza radicale, offrendo la possibilità alla storia di continuare indefinitamente come adesso, rendendo l’oblio di Dio sempre più profondo e il trionfo del male, della sua “banalità”, senza appello85. Le aspettative sarebbero destinate a consumarsi nell’equivalenza di tutte le prospettive, cosicché «l’atto di torturare un bambino e quello di accudirlo amorevolmente, diventano sempre più equivalenti ed indistinguibili»86. Nessun avvenimento, interno all’orizzonte mondano, ha, fin’ora, mai segnato un’inversione di rotta o un chiaro segnale messianico; oppure, pur avendo balenato all’orizzonte, si è, in ultima istanza, 124

rivelato inefficace a durare nel tempo: «Se, come dice Benjamin, il senso delle cose sta nel futuro messianico, se solo da quel futuro prendono luce e consistenza, rimanendo fino ad allora precarie e informi, sospese sull’abisso, allora la mancata venuta del regno di Dio implica la perdita totale di ogni senso»87. Sulla scorta di queste riflessioni, Quinzio è spinto a un capovolgimento della concezione trionfante della storia nel suo opposto: da una storia evolutiva a una storia involutiva, lontana, tuttavia, da qualsiasi Sensucht per un passato glorioso e, tanto più, da invettive per la corruzione attuale. Essa, piuttosto, sarà considerata da Quinzio una condizione ontologica immutabile, a meno di accettare consolatorie illusioni metafisiche: «La parabola involutiva della storia non ha di per sé un fondo, è continua, è infinita, è lo spaziotempo»88. La radice di questa concezione involutiva supera a ritroso la concezione cristiana della storia, per andare ad attingere nel sostrato ebraico biblico, non intaccato dalla vicenda evolutiva del cristianesimo mondanizzato: «L’esperienza dell’incombere del rischio supremo che Dio non salvi, e che sia quindi definitivamente sconfitto, era già contenuta nell’esperienza dell’ebreo biblico, perché affidarsi a una promessa di salvezza significa sospendere la propria vita su un abisso»89. I tempi e i modi in cui Dio manterrà la promessa sono assolutamente imperscrutabili, cosicché il rischio di infedeltà si accresce esponenzialmente nei momenti di maggiori difficoltà. Proprio questa condizione renderebbe gli uomini moderni prossimi agli ebrei, che da sempre «sono già stretti nella nostra stessa morsa»90. È evidente, dunque, che Quinzio consideri il modello biblico come involutivo per eccellenza; un modello in cui i protagonisti delle vicende hanno il marchio dell’incertezza radicale, se è vero che né Giobbe né Qohelet mettono in dubbio l’esistenza di Dio, ma non sono affatto certi del suo potere o della sua volontà di salvare i fedeli: «La storia così come la racconta la Bibbia è la storia di una continua caduta, nei confronti della quale gli eventi che testimoniano Dio sono momenti puntiformi, eccezioni che consentono di misurare il decadimento»91. Il tentativo di cercare risposte o segni che risolvano il rebus della storia è vano in 125

un quadro che lascia nell’incertezza lo stesso intervento risolutore di Dio: «La Bibbia, se la leggiamo senza lasciarci troppo ingannare dal nostro antico postulato metafisico o dal nostro moderno postulato evoluzionista, colpisce anzitutto come la registrazione di vicende fallimentari»92. Dopo i primi due capitoli della Genesi, che parlano di ciò che di buono è stato creato, già nel quarto capitolo ci si trova immersi nella vicenda di Caino e Abele, mentre nel sesto si scatena il diluvio universale: «Il nuovo ordine del mondo che si stabilisce dopo il diluvio è dichiaratamente un ordine più basso (8, 21), dove tra l’altro, diventa lecito mangiare la carne degli animali (9, 3)»93. Se si affiancano il momento iniziale della creazione con quello finale della catastrofe, la concezione biblica del tempo non può che essere, nonostante il perdurare dei giorni, involutiva. Una concezione lineare, dunque, ma del tutto diversa da quella che ha assunto il mondo moderno e, con esso, il cristianesimo: L’idea della catastrofe finale è naturalmente legata a una concezione involutiva del tempo. Se la vicenda temporale discende verso il basso, in un progressivo aggravamento dei mali del mondo, allora l’evento salvifico è anche evento catastrofico, cioè spezzamento, violenta distruzione della storia mondana, suo ribaltamento. […] La concezione biblica del tempo è involutiva, coerentemente con l’annuncio del disastro finale come condizione indispensabile per lo stabilirsi del giusto ordine delle cose, del regno di Dio94.

I segni dell’inizio, caratterizzati, secondo quanto detto, da un massimo di intensità e di speranza, sono pochi, rari, e appaiono per lo più come illusori. Quinzio è convinto, infatti, che la fase del ciclo in cui ci troviamo sia quella discendente, prossima, anzi, alla fine95. Ovviamente egli giunge a questa conclusione tenendo conto del criterio di giudizio scelto in precedenza, cioè l’impulso re-ligioso di un’epoca, la tensione verso un superamento risolutivo, nutrito dalla speranza e dalla fiducia nella potenza salvifica. Se si adottasse un metro assiologico differente – come il grado di complessità e specializzazione raggiunti – si potrebbe, addirittura, giungere alla conclusione opposta, e cioè che il sapere scientifico – il quale incarna il culmi126

ne del razionalismo moderno – sia in piena ascesa, così come il ciclo storico che stiamo vivendo: «Optare per l’uno o per l’altro criterio dipende da una scelta iniziale fra l’ideale della complicazione e quello della salvezza che gli argomenti razionali non sono in grado di determinare»96. La potenza originaria si spegnerebbe, dunque, nella luce di un nordico tramonto crepuscolare, ben lontano dal fulgore rubiginoso dei tramonti mediterranei. La situazione attuale, come Quinzio ripete spesso, ricorda quella della decadenza dell’Impero romano, che, com’è noto, ha avuto i suoi momenti di ritorno di splendore; allo stesso modo, nella concezione involutiva della storia, non sono da escludersi momenti di stallo o, addirittura, di evoluzione, che risultano, comunque, inseriti in un ciclo che avrà, come suo momento di compimento, un tempo assiologicamente peggiore di quello che lo precede e migliore di quello che lo segue. Sono cicli che si susseguono lungo un percorso determinato, una sorta di catena posta a spirale sull’abisso. Il procedere storico, infatti, prendendo avvio dal massimo della potenza di certi fenomeni, porta verso un sostanziale decadimento che investe tutti gli ambiti, fino a condurli al punto più basso di un’epoca storica, che Quinzio spesso chiama ciclo, il quale, in tal modo, si chiuderà incatenando a sé un altro ciclo necessariamente inferiore, seguendo una legge che si presenta come l’equivalente analogico dell’entropia definita dai fisici. […] Esaurito un ciclo ne sorge un altro, che è più elevato, nel suo esplodere iniziale, del punto più basso del ciclo precedente (al termine del suo decadimento), ma è anche più basso del punto più alto del ciclo precedente (quello nel quale il ciclo precedente aveva avuto inizio)97.

L’involuzione della storia è dovuta al fatto che in ogni reinizio la potenza unificante degli albori, la re-ligione, la sua debordante enérgeia, non permane immutata ma, piuttosto, appare depotenziata, cosicché ogni reinizio avrà un’intensità decrescente. Per Quinzio non si tratta, tuttavia, di un destino cosmico che ripete, nella storia, i cicli esistenti nell’universo – come accade in certe concezioni tradizionali – ma di un destino di 127

com-unione con il Dio ebraico-cristiano, comunione dell’intero creato che, nel suo divenire storico, segue il destino del Messia ucciso e risorto: «Tutto l’itinerario storico post Christum che di assoluto in assoluto, sempre più allontanandosi dal sacrale e dal celestiale, ha compiuto la chenosi nel profano e nel terrestre […] appare così come totalmente inscritto nell’orizzonte dell’originaria fede cristiana»98. La teoria kairologica della catena-spirale dei cicli storico-involutivi è una singolare costruzione quinziana in cui si incrociano la concezione ebraico-cristiana con gli influssi di Spengler, di Löwith e di Benjamin99. Se l’inizio della catena-spirale è stato il fiat della Genesi, la sua fine coinciderà con l’apocalisse, una sorta di buco nero in cui l’intera spirale verrà risucchiata per implosione. In realtà ogni ciclo potrebbe essere quello finale della spirale, per cui la stessa spirale, anzi ogni porzione di essa, è kairologica per essenza, figura simbolo della storia: «In ogni punto può essere rotta, fatta precipitare, anche se non tutti i punti offrono uguale resistenza. Ciò implica la sua sperimentazione totale e reale, non teorica e non individuale»100. Nella teoria quinziana convergono, in una sintesi per certi versi ambigua ma interessante, tre idee: una temporalità kairologica, per cui in ogni momento è possibile un salto, un’interruzione che proietta oltre la storia; i cicli storici, che nel loro continuo susseguirsi depotenziato e in sé concluso, segnano il tempo disperante e involutivo proprio del mondo; la tensione apocalittica, con l’implicarsi di catastrofe e salvezza. Quinzio ribadisce la sua convinzione confrontandosi anche con il fenomeno della sintropia101, di cui non condivide i presupposti, benché la utilizzi funzionalmente alla sua teoria involutiva dei cicli, considerando i cosiddetti fenomeni sintropici – come la crescita e lo sviluppo di un albero – di fatto, perfettamente integrabili con la prospettiva entropica. L’apparente potenziarsi dei fenomeni sintropici e il loro svilupparsi verso un maximum di ordine e differenziazione celerebbe, in realtà, un processo di decadimento dovuto all’interazione con l’ambiente, dominato dal principio dell’entropia. L’illusorietà di tale potenziamento è dovuta, appunto, al fatto che esso «non avviene in un sistema iso128

lato, e trae energia dall’ambiente circostante, che nel complesso si degrada quindi entropicamente. Così è reso possibile lo scalino per il quale, al sorgere, ciascun ciclo storico sopravanza il punto nel quale terminava il precedente»102. Dall’analogia con l’entropia se ne deduce che il processo involutivo in corso nella storia è irreversibile e lo stato di equilibrio finale verso cui involve coincide con l’esaurimento totale di qualsiasi energia atta a un nuovo inizio. Una morte del tempo, in definitiva, pensata per analogia alla natura: «Se l’entropia è la legge dei fenomeni non vi si sottraggono i fenomeni storici. […] Per quel che riguarda la storia, la vicenda consiste dunque nel successivo esplodere con il massimo della potenza di un fenomeno, che poi decade seguendo la legge dell’entropia»103. Da tale coscienza dell’approssimarsi del disastro, la storia potrebbe trovare la spinta per un nuovo inizio mediante la volontà di rileggere il tempo sulla base di un giudizio assoluto: «Ogni reinizio ha dunque carattere religioso, e ogni ciclo storico riproduce l’intera vicenda della storia, dalla religione alla tecnica, dalla creazione all’applicazione, in un continuo restringimento della speranza iniziale»104. Per non giungere alla fine per épuisement assoluto, occorrerebbe non tanto contrastare l’indebolimento delle origini e la decadenza generale, quanto essere capaci di pensare ad un’alternativa che tenga insieme il massimo del rischio e il massimo della speranza. Quest’azione di interruzione della concatenazione discendente dei cicli potrebbe essere suscitata, come il giovane Quinzio, nello spirito tartagliano che lo animava, continua a ribadire, con una «rinascita in una rinnovata totale esigenza di religione, che forzi la religione oltre le sue estreme aperture»105. Questa forzatura potrebbe suscitare un’apertura all’oltre, nell’accettazione rischiosa dell’incognito, senza progettualità e garanzie, a meno di non tradire la vocazione propria della religione: «Ciò che è graduale non può essere che conforme, omogeneo, fatto della stessa pasta, che è la pasta della storia di cui abbiamo esperienza; soltanto il capovolgimento, il salto, è religione»106. Ma, paradossalmente, proprio perché, per sua essenza, la re-ligione tende a negare il mondo e a oltrepassare la storia, es129

sa ha ben poche chances di poter intervenire nel mondo e, per questo la sua istanza “rivoluzionaria” viene, piuttosto, neutralizzata dal mondo. La re-ligione è, invece, sinonimo di messianismo apocalittico: «Il senso della religione sta nella trasformazione della realtà, e cioè nella trasformazione della storia, nell’uscire dal cerchio vuoto della nostra vecchia vita e della nostra vecchia morte»107. A una tale potenza di rinnovamento e, anzi, di superamento totale della realtà del mondo non possono non attribuirsi caratteristiche messianiche. La re-ligione, così intesa, si pone sempre in antitesi alla storia e non in posizione subordinata nei confronti delle potenze mondane, che, invece, tende a negare o che vorrebbe trasformare. Tanto più nel mondo moderno diventa impossibile un posto per la re-ligione, tanto più diventa urgente credere, e questa fede non dovrebbe avere sapore dogmatico, trionfante, o legato a qualsivoglia istituzione mondana, ma essere totalmente sapida del sale apocalittico, della speranza messianica: «La religione è tanto più difficile oggi quanto più è necessario che sia la religione, o più che religione, perfetta e ultima, la vera e definitiva redenzione e trasformazione del mondo»108. Dunque, la speranza di Quinzio è quella in un nuovo inizio, che neghi la storia e apra la strada all’instaurazione di una realtà perfetta. Sarebbe troppo semplice liquidare una simile meta come inadatta a dare la spinta per un reinizio, proprio perché troppo alta; anzi, ad avviso di Quinzio, quanto più un ideale è alto, tanto maggiore sarà la sua potenza poietica e la sua capacità di suscitare generazioni che abbiano la volontà di lottare per esso, mentre una meta più raggiungibile potrebbe non avere la stessa forza: «D’altra parte non c’è nessuna aprioristica e dogmatica certezza circa ciò che è possibile e ciò che è impossibile. Il reinizio davvero assoluto, superante la diluizione spazio-temporale della vicenda storica, è quello di massima potenza, quello che spera la massima speranza: è la fine della storia»109. Quinzio è convinto che l’interruzione della durata, del susseguirsi dei cicli storici, sia la conditio sine qua non di una reale fine della storia: C’è chi pensa alla “fine dei tempi” come a una fine che implica successivi inizi, non come all’entrare nell’assoluto. […] Per me vo-

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glio una fine della storia che sia la fine della storia, e non una fine su un “piano” per cominciare su un altro commensurabile rispetto al primo. Nell’ultimo giorno si realizza tutto quello che si deve realizzare, si è nell’uno e non ricomincia più il molteplice. […] L’unico senso che ha questa vicenda è dato dal fatto che finisce. Con il “giudizio” la causa è conclusa. […] Stanchi del parziale e del molteplice attendiamo da Dio, secondo la promessa, il soddisfacimento di ogni nostra richiesta110.

Il metro di riferimento a partire da cui Quinzio parla non può che essere il Regno messianico. Regno che si presenta come suprema apertura sorgiva nata dalla suprema chiusura della storia; che ne interrompe l’ultimo cerchio involutivo. L’inizio è apertura che accoglie il tutto per ricomporlo in una realtà in cui non ci sarà più passaggio dal chiuso all’aperto e viceversa; l’aperto definitivo potrà essere anche un chiuso definitivo nella dimensione messianica in cui redenzione, salvezza e restituzione s-chiuderanno i sigilli dell’apocalisse, rivelazione assoluta del nascosto, dis-chiudimento assoluto: «Questo infinito luogo chiuso, antipode del nulla, è il reinizio assoluto nel quale consiste il regno, che rappresenta così l’unico concreto superamento dell’opposizione fra l’antico-chiuso e il moderno-aperto»111. A partire da esso tutte le epoche possono essere rilette nella consapevolezza che un senso della storia, non presente né alle origini, né alla fine, diventi palese solo nell’avvento del Regno: L’idea di una realtà perfettamente intensa è […], l’esplicitazione del criterio di giudizio storico che è stato indicato […] come “misura del grado di tensione verso una realtà perfetta che si manifesta in ogni situazione storica”; costituisce l’individuazione del grado massimo di tensione, e quindi il concretarsi di un metro di riferimento112.

Quinzio riconosce la radice utopica, anzi quasi onirica, della sua tenace speranza nel Regno come possibilità risolutiva, ma la sua originalità sta proprio nel considerare la potente capacità poietica di tale sogno, che diventa indispensabile sostanza di ogni istante della storia da lui pensata, potremmo dire, inventata, sulla scorta di esso. Lo spazio storico quinziano è 131

un universo permeato a partire dall’orizzonte teologico-messianico, presente in ogni anello della catena del tempo. Ma la peculiarità del suo tentativo è proprio nella volontà di interazione dinamica e dialettica di questi anelli del tempo, che non si pongono affatto in opposizione all’evento finale ma lo co-implicano in ogni istante. Lo storico pensato da Quinzio riesce a districarsi dalla tempesta che lo trascina via dal cumulo di rovine del passato, almeno per quell’attimo in cui sa guardarle – e giudicarle – a partire dalla fine della storia, là dove catastrofe e redenzione possono trasformarsi l’una nell’altra. Lo storico è poeta, è rivoluzionario, è visionario, è profeta, è cristiano, cioè, alla lettera, messianico: Che il regno venga o che non venga, che la storia si concluda o che non si concluda, è questione diversa: importante è pensare e volere che la storia si concluda e che venga il regno. A che cosa potrebbe approdare questa volontà di significato del mondo, se non riuscisse ad attingere il suo fine, è impossibile dire. Ma porterebbe certamente a qualcosa che supera il nulla della storia senza senso nella quale siamo condannati a vivere113.

3. Attesa e tempo intermedio Il criterio di giudizio scelto da Quinzio per analizzare la storia – la tensione re-ligiosa verso un evento finale – lo conduce a leggere l’intero processo storico in atto come attesa. Tutta la storia occidentale, nata dal differimento della promessa cristiana di instaurazione del Regno di Dio, avrebbe senso proprio in quanto già da sempre tensione-a e at-tenzione al compimento escatologico-soteriologico – benché l’attesa abbia assunto, nel moderno, la forma secolarizzata del progresso114. Quinzio riflette sulle possibilità esistenziali dell’attendere, mettendo in luce i rischi di ripiegamento autoreferenziale dell’uomo e la conseguente idolatria della storia mondana, sia nel caso in cui tale idolatria derivi dalla fascinazione subita per le magnificenze del progresso, sia in quello in cui a provocarla sia la disperazione di fronte al prolungarsi dell’attesa, dura prova anche per la fede più salda. La battaglia per mantenere attesa e 132

attenzione nella loro tensione originaria si presenta già segnata da clamorose sconfitte, a partire da quella delle prime comunità cristiane con le quali, di fatto, è iniziata la storia come attesa e, quindi, anche la storia dell’attesa. Il Regno che non viene partorisce per il mondo cristianizzato – in attesa messianica – un misterioso ibrido che non è più Chrónos-Chrónos, continuità omogenea e vuota, ma non è neppure Aión, in quanto unione di Chrónos e Kairós – apocalisse di Chrónos nella sua essenza kairologica, Chrónos-apokalypseos – ma è un fra-tempo riempito dall’apparizione messianica in Gesù di Nazareth e svuotato dalla sua morte, riempito dalla sua resurrezione e svuotato dal suo non ritorno, riempito dalla sua promessa e svuotato dalla sua dilazione, una temporalità compiuta e incompiuta, fatta e disfatta, come una tela di Penelope. È un tempo intermedio, o forse un tempo intermediario. Un metaxú-Chrónos che separa-unisce al Chrónos-apokalypseos, in cui si sta e si transita, nel paradosso imponderabile dell’attesa terminata e interminabile115. Un tempo la cui essenza profonda è esperibile, in particolare, proprio per i cristiani, che hanno ricevuto l’insostenibile consegna di attendere il Messia già venuto fino al suo nuovo ritorno: «È vero che i secoli cristiani si sono allontanati dall’unicum dell’attesa e dell’invocazione del regno, ma era possibile per l’uomo perseverare per secoli e secoli in un’attesa smentita dai fatti, perseverare malgrado la delusione? Può chiedere Dio tanto ai suoi fedeli?»116. La prova richiesta sembra del tutto sproporzionata alla capacità limitata dell’uomo, soprattutto in rapporto alla temporalità contratta della vita singolare; è una prova chenotica votata a seguire fino in fondo il destino del Messia, venuto e morto, ponendo il cristiano di fronte alla paradossalità del suo stare nel mondo: È assolutamente impossibile vivere e lavorare nel mondo per quasi tutte le ore del giorno e insieme “cercare il regno”; come sarebbe stato impossibile a Matteo seguire Gesù e insieme continuare a fare l’appaltatore d’imposte. Se, d’altra parte, soffrissimo adeguatamente questa impossibilità non potremmo continuare a vivere117.

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Le indicazioni della pastorale ecclesiastica esortanti a un’attesa fiduciosa e alla vigilanza sul peccato, sono interpretate da Quinzio come appartenenti al quadro di depotenziamento di senso dell’attesa, tendente a sopravvalutarne gli aspetti passivi, che delegano all’illuminazione divina la possibilità di vivere cristianamente. Le soluzioni di compromesso che, di fatto, occorre accettare per sopravvivere – al di là delle rare eccezioni di “santità” – dovrebbero condurre, secondo Quinzio, a considerare, piuttosto, la fatica della con-versione, del vertere lo sguardo al di là dei beni particolari ai quali si rimane, spesso, vincolati: «Il cristiano deve essere più simile a colui che tende con violenza al regno, contraddicendosi, sbagliando, piuttosto che a colui che attende pazientemente. Attesa straziante sì, attesa tranquillamente fiduciosa no»118. Questa “violenza” consiste nel carattere di urgenza improcrastinabile, nel desiderio impellente che il Regno sia “per subito”; è un’attesa che non vuole più attendere, che pretende tutto e subito e reclama ciò che è stato promesso, «di resuscitare i morti, di far miracoli, di parlare le parole che lo Spirito pone sulle labbra»119. Tutto questo pur sapendo, come dice l’Apocalisse, di portare impresso il sigillo della bestia (Ap 13, 16-17), subendo, dunque, il peso del paradosso di un tempo colmo di Dio e vuoto di lui. La stessa Chiesa tenta di blandire le ansie messianiche, mirando, piuttosto, a salvaguardare se stessa e le istituzioni, di cui i fedeli sono parte integrante e a cui, dunque, è opportuno siano anche integrati120. Non a caso il prezzo da pagare per la fedeltà all’attesa è essenzialmente la solitudine. Più l’attesa si dilata, più colui che attende diviene straniero. In realtà, dunque, attesa è sinonimo di lotta; lotta che è soprattutto dell’attenzione, tesa a rimanere orientata alla meta finale e a non trasformarsi in attaccamento al percorso stesso di attesa, nonostante la certezza che nulla potrà cambiare davvero finché non sia giunto il Regno messianico, perché l’unico vero cambiamento sarà la definitiva catastrofe del mondo. La vigilanza messianica, tuttavia, riserva a sé uno scarto, minimo forse, ma infinitamente pregno di significato, lo scarto che rende stranieri, strani ed estranei, a qualsiasi logica di realismo mondano. I gabellieri e i soldati (Lc 3, 12-14), finché il Regno non sia venu134

to, possono continuare a fare i loro mestieri, ciascuno può restare nella condizione in cui si trova (1 Cor 7, 17), ma guai se il gabelliere o il soldato di cui parla il Battista avesse detto: in fondo non c’è niente di male nel fare il gabelliere o il soldato, anzi proprio questo mi pone nella condizione di povertà spirituale per la quale il Messia chiamerà beati quelli come me. Lui doveva dire l’opposto: Signore non posso più sostenere la miserabile vergogna di questa condizione, vieni dunque subito a liberarmene! Solo se diceva questo era dalla parte della povertà, era dalla parte dell’invocazione della salvezza, era dalla parte di Dio che è con i tribolati nella tribolazione (Sal 91, 15)121.

Secondo Quinzio, ciò che realmente è stato richiesto ai fedeli dopo la venuta del Messia e la promessa dell’imminenza del Regno, sarebbe stato travisato nella traduzione dall’ebraico al greco e, soprattutto, al latino122, fin dalle prime parole pronunciate da Gesù all’inizio della sua missione e tramandate dal Vangelo di Marco, il più antico dei quattro: «Quoniam impletum est tempus, et appropinquavit regnum Dei; paenitemini et credite evangelio» (Mc 1, 15). Come sottolinea Quinzio, il tempo impletus può indicare, di per sé, il trovarsi nel “momento opportuno” per la predicazione di Cristo, oppure la pienezza del tempo di questo mondo, giunto alla sua fine, visto che «il Regno di Dio è vicino». Quinzio, inoltre, coglie un travisamento nella traduzione di appropinquavit con “è vicino”, locuzione abbastanza statica e ambigua, meno “inquietante” rispetto al verbo latino, nel quale traluce la dinamicità dell’avvicinamento nel suo essere già avvenuto, evidenziando, dunque, la presenza pressante del Regno, più che una sua vaga prossimità. Anche i termini che traducono paenitere come invito a convertirsi, credere al vangelo e fare penitenza sono travisanti, parole «deboli e scontate», che nascondono il nucleo ben più profondo intrinseco al verbo latino, legato alla greca metánoia e indicante più il passaggio a una vita nuova che il rimorso per colpe passate. Paenitere è ben più pregno di senso di quanto pentirsi e convertirsi comunichino, in quanto «può valere esser malcontento, provar disgusto. Paenitere non ha relazione con poena (pe135

na, castigo, ammenda) ma con paene (quasi, da cui penuria); il suo significato originario è perciò: non esser soddisfatto»123. Non ha nulla a che vedere, dunque, con l’attenzione alla conduzione morale della vita, presente e passata, e la ricerca di eventuali colpe per le quali pagare un’ammenda; piuttosto, si tratta «di accorgersi dell’insufficienza della realtà presente provandone disgusto ed esigendo l’annunciata realtà perfetta del regno di Dio»124. Il desiderio del Regno e il disgusto del mondo esigono la lotta: l’insufficienza della realtà presente richiede di seguire una via ben diversa dall’accettazione passiva, spingendo, anzi, ad acquisire una piena consapevolezza dei limiti ad essa connaturati, per distaccarsene e concentrarsi sulla promessa del Regno di giustizia. La preghiera infatti, legata anch’essa al senso di insufficienza – precor da cui precarietà – si presenta come attesa di qualcosa proveniente da altro da sé, ma anche come lotta affinché l’attesa sia esaudita; traduzione autorizzata, sottolinea Quinzio, dalla radice ebraica qrb, che indica il “recitare preghiere”, ma anche il “fare guerra”, tanto che il pregare può assumere l’aura del combattere125. Gesù, del resto, era stato chiaro e inequivocabile nelle sue affermazioni, ricordate da Quinzio, circa l’imminenza del Regno: «In verità vi dico: alcuni fra i presenti non gusteranno la morte prima d’aver visto il Figlio dell’uomo venire con il suo regno» (Mt 16, 28), perché «i tempi sono compiuti» (Mc 1, 15) e «questa generazione non passerà senza che tutto questo sia accaduto» (Mc 13, 30-31); inoltre, alludendo a coloro che sedevano con lui a tavola, afferma: «Vado a prepararvi un posto, e quando sarò andato a prepararvi un posto, tornerò a prendervi con me» (Gv 14, 2-3). Il carattere di urgenza presente nella predicazione di Gesù è conseguenza, quindi, della sua certezza – elusa da molti esegeti – nel rapido compimento delle Scritture mediante l’avvento del Regno. Per questo l’attesa, intesa come combattimento vigilante, è quella più consona al fra-tempo. L’inizio di questo tempo kairologico intermedio, di questo frattempo messianico, è già annunciato nelle pagine dei Vangeli – dove spesso assume un carattere ambiguo in cui si confonde, come sottolinea Quinzio, l’annuncio della fine del mondo con 136

quello della distruzione del tempio e si lamenta il ritardo del ritorno del Signore (Mt 25, 5; Lc 12, 36; 45) – ma è soprattutto documentato nelle lettere di Paolo, che gli imprimono il marchio dell’incertezza: «Il tempo trascorso dopo la morte e resurrezione di Gesù senza che nulla di decisivo avvenisse, costrinse le prime comunità a differire l’attesa»126. Certamente ciò che dovette causare maggiore sconcerto fu la morte che continuava a colpire coloro i quali avevano accolto la promessa di essere partecipi dell’imminente Regno di Dio: «Ai tessalonicesi Paolo aveva già scritto per rassicurarli circa la sorte dei credenti che continuavano a morire, dando per certo che “noi, i viventi, noi che saremo ancora qui per la venuta del Signore”, ci riuniremo a “coloro che si sono addormentati” (1 Ts 4, 15)»127. Nonostante sia Paolo che i fedeli di Tessalonica «perí tón chrónon kái tón kairón» – circa il tempo e il momento preciso – della parusia non sapessero nulla, se non che il Signore sarebbe tornato come un ladro di notte (1 Ts 5, 1-2), non pensavano, di fatto, che quel tempo si sarebbe potuto protrarre oltre la prima generazione cristiana: «Le esortazioni di Paolo – che sono parola di Dio e non “psicologia dell’apostolo” – tendono a far sì che i credenti di Tessalonica concentrino tutte le loro forze per resistere fino al vicino giorno della parusia»128. L’attenzione di Paolo e delle comunità a cui si rivolgeva, dunque, non si basava su elementi spiritualizzanti o su un “al di là” come luogo in cui sperare di sperimentare la presenza di Dio. Come sottolinea Quinzio, in queste prime parole di Paolo, il momento in cui l’apostolo sentirà ormai vicina la propria morte è ancora estremamente lontano (2 Cor 4, 14; 5, 3), e lo è ancor più quello in cui Paolo desidererà morire per riunirsi a Dio (Fil 1, 23; 2 Tm 4, 6): «Solo quando il ritardo della parusia avrà superato i limiti generazionali profetizzati, Paolo nelle lettere successive tenderà a irrigidire le basi istituzionali delle comunità cristiane perché possano sostenere ulteriormente un’attesa che non può che diventare sempre più precaria»129. La cosa che più colpisce Quinzio, però, è che, in Paolo, il differimento dell’attesa non implica mai la possibilità di un tempo intermedio, inteso come nuova epoca storica precedente il ritorno definitivo di Cristo. 137

Questa possibilità, a suo avviso, non è contemplata neppure nel Medioevo o nei padri della Chiesa, come Ambrogio e Gregorio Magno, tanto meno in Savonarola, che hanno vissuto sempre convinti dell’imminenza del ritorno del Messia. I brani di Paolo che si riferiscono a tempi lunghi (Rm 11, 25) dovrebbero essere letti sempre su base generazionale e non in rapporto ai secoli che si sono accumulati: Proprio perché l’imminenza dell’éscaton è vissuta come certa, l’attesa dell’evento risolutivo che si confida ogni giorno di vedere con i propri occhi diventa ogni giorno più difficile […]. Ogni volta che un credente muore con la sua speranza, la sua morte rimbomba come un masso caduto nell’abisso dell’assenza di Dio, risuona nel vuoto come una smentita della promessa, una smentita della fedeltà di Dio, una smentita di Dio130.

Il fatto che si continui a morire, nella sua tragicità, non è l’unica pietra di scandalo. Il “da farsi” nel continuare a vivere non lo è da meno. La questione delle opere, della loro validità e necessità assume una portata enorme, che sarà anche causa degli screzi di Paolo con i “superapostoli”, Pietro e Giacomo, assolutamente certi della necessità delle opere al fine della realizzazione del Regno131. Anche Paolo, d’altra parte, ha bisogno di mettersi a lavorare, per evitare di creare dissapori e critiche da parte della comunità su cui non voleva pesare (2 Ts 3, 7-9): «Sorge già qui, in queste prime lettere paoline, la questione delle opere, che non ha più senso compiere, ma che non si può non compiere»132. Benché si debba vivere nell’attesa del Signore, non si può evitare di provvedere al cibo e di accudire ai compiti domestici. D’altra parte, ci si chiede se sia lecito, ad esempio, arare e seminare in attesa di un raccolto che verrà dopo molti mesi, cioè quando il Regno potrebbe già essere compiuto; se si debbano organizzare commerci e continuare a lavorare senza pensare alla suprema iniquità (2 Ts 2, 3-4), a cui seguirà il ritorno del Messia che farà giustizia del mondo: «Fra tutte queste incertezze, posto di fronte alla paralisi che minaccia la vita della chiesa (2 Ts 3, 11), Paolo è costretto a introdurre un “tempo intermedio” in qualche misura stabile e definito, sebbene breve (1, 5-10)»133. In questo tempo 138

si manifesteranno, però, segni che preannunciano il Regno e che i tessalonicesi sapranno decifrare. Dunque, fino a quel momento, occorrerà vivere in modo normale, ma, sottolinea Quinzio, quando anche quei segni tarderanno, l’unica via che rimarrà a Paolo sarà la spiritualizzazione che, infatti, costituirà il carattere dominante delle lettere dalla prigionia, in quanto «nuova base su cui sostenere la vita dei credenti e della chiesa nel mondo»134. All’inizio, per i tessalonicesi, quel tempo intermedio breve e definito diventa una soluzione accettabile per contenere il disagio della comunità, benché sia caratterizzato da disordine e corruzione crescenti e, come predetto da Gesù (Mt 24, 29-30), preceda il culmine dell’orrore del Giorno del giudizio; profezia ripresa da Paolo e integrata dall’annuncio della manifestazione dell’Anticristo135. È conforme «al carattere più volte rilevato dei Libri Sapienziali che questo grande annuncio sia accennato in breve e solo occasionalmente, allo scopo di introdurre un “tempo intermedio” capace di affrontare pastoralmente i turbamenti e i problemi della comunità tessalonicese»136. Il Nuovo Testamento, considerato nella sua globalità, offre, dunque, secondo Quinzio, due modi di intendere il tempo dopo Cristo, contraddittori e inconciliabili, che, tuttavia, hanno influenzato tutta la storia del cristianesimo, il quale ne ha esaltato uno a scapito dell’altro. In realtà, nei Vangeli, le due concezioni temporali coesistono paradossalmente in quel fra-tempo rappresentato dall’imminenza del Regno, assumendo due forme: come tragico protrarsi del dominio del male e della morte (1 Gv 5, 19; 1 Cor 15, 26), destinato anzi ad un continuo aggravamento fino alla condizione di invivibilità degli ultimi giorni (Mt 24, 413; Mc 13, 20; 2 Tm 2, 16-17); oppure come provvidenziale continuazione di un tempo mondano (2 Pt 3, 8-9) già vinto da Cristo (Col 2, 15) e dai credenti che fin d’ora spiritualmente regnano con lui in cielo (Ef 2, 6)137.

Solo per un tempo molto limitato si poteva sostenere il peso di questa duplicità: superata la fase critica, il propendere per la spiritualizzazione sarà già il segno della delusione e del rassegnarsi al procrastinamento delle promesse. La tensione tra ciò che è sta139

to già manifestato e ciò che ancora dovrebbe manifestarsi può resistere gravata solo da un ritardo breve e non di millenni, «è evidentemente una condizione limite, non può essere una stabile normalità»138. Si può vivere nella tensione del “come non” solo in sporadici momenti, «con gli occhi fissi all’accorciamento dei dies parvi che è stato promesso e che si sperimenta indispensabile»139. La dominanza, da un certo momento in poi, del modello spiritualizzante è un chiaro segno della volontà degli apostoli di tranquillizzare i fedeli, «mostrando tutto perfettamente conforme al piano di Dio, anche ciò che vistosamente contraddiceva la redentrice vittoria di Cristo»140, e il non leggere questo intento dietro le loro parole mostra una singolare cecità degli interpeti ufficiali, o una necessità di ripetere ancora quell’opera tesa a placare gli animi. Quinzio, dal canto suo, non cede mai al modello della spiritualizzazione e lo fa sulla base dell’interpretazione dell’Apocalisse giovannea come chiave delle Scritture: «L’ultimo libro della Bibbia, l’ultima parola della rivelazione, l’Apocalisse, che è l’unico libro profetico del Nuovo Testamento e in quanto tale svela il significato del tempo dopo Cristo, fa pendere decisamente la bilancia dalla parte della teologia della croce»141. Con l’annuncio del Regno Millenario, nel ventesimo capitolo dell’Apocalisse, la concezione del tempo intermedio si complica ed esprime tutto il suo mistero, inquietante quanto l’incombenza, sulla pace di tale Regno, della presenza di Satana, seppur incatenato per mille anni dall’angelo che lo ha gettato negli abissi; abissi dai quali, però, allo scadere del millennio, si libererà, scatenando la guerra escatologica, come profetizzato da Ezechiele e Zaccaria. Questa guerra, sottolinea Quinzio, è dovuta a un paradossale risveglio delle tenebre, nonostante la loro precedente sconfitta, a causa del quale il popolo di Dio rischia la disfatta; eventualità in sé misteriosamente necessaria, che provoca l’intervento di Dio e del suo definitivo giudizio. Quinzio ritiene che Giovanni pensasse alla guerra escatologica in senso istantaneo e fulmineamente risolutore: Anche qui, la cosa più facile è pensare che Giovanni abbia concepito il regno millenario come un regno terrestre instaurato – entro lo spazio breve, ancora nell’ordine di una generazione, su cui

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insiste l’Apocalisse – dopo l’intervento apocalittico di Dio che mette fine alle persecuzioni distruggendo i persecutori con il loro mondo. Tale regno sarebbe durato fino al breve intervento finale di Satana e alla fulminea (Ap 20, 9) guerra escatologica; in esso Gesù avrebbe visibilmente regnato sulla terra insieme ai martiri risorti. Ireneo afferma esplicitamente, sulla testimonianza di Papia che era stato discepolo di Giovanni, che Giovanni pensava questo142.

Ma il ritardo continua inesorabilmente a porre la domanda sull’essenza di un simile tempo millenario, soprattutto se confrontato all’accumularsi dei secoli, che hanno irrimediabilmente smentito anche la profezia di Giovanni. Quinzio, alla luce di tutto ciò, pensa il regno millenario identificandolo con il frattempo in cui ci troviamo: «Il regno millenario dunque […] non può che essere posto nel tempo fra la prima e la seconda venuta del Signore, il tempo della Chiesa (1 Cor 15, 23-28). Se si osa questo, la profezia del millennio svela la sua potenza»143. Un tempo, in realtà, supremamente ambiguo, in cui Satana incatenato riesce, comunque, a esercitare il suo diaballein e coltivare l’empietà: «Questa identificazione dice che la storia post Christum è il trionfo dell’empietà che precipita verso la catastrofe e, insieme, che il Signore con i suoi santi ne ha il dominio. Il ‘tempo intermedio’, il tempo della chiesa viene connotato così come il tempo caoticamente ambiguo»144. Il numero mille, dunque, per Quinzio, indicherebbe semplicemente la lunga durata del tempo intermedio, in cui ogni prospettiva temporale sarebbe destinata ad essere imprecisa e confusa: «In questa lunga durata i momenti separati da secoli si confondono, la persecuzione patita dai primi cristiani diventa la persecuzione patita dagli ultimi […], la salvezza venuta è quella che deve venire»145. Quinzio, dunque, avanza un’interpretazione di questo tempo ben diversa da quella della teologia cristiana, la quale, pure, lo considera come un tempo teso fra il già della rivelazione di Cristo e il non-ancora del suo ritorno. Essa, però, piuttosto che interpretarlo in chiave chenotica, lo legge come momento favorevole; come accade, ad esempio, ad opera delle tendenze “liberali” della teologia del secolo scorso, «per le quali, nello sforzo di adattamento alla profana cultura dominante, perde senso, o consisten141

za il concetto stesso di tempo intermedio, perché perdono senso o consistenza, un prima e un dopo rispetto alla comune esperienza storico-mondana»146. Per Quinzio, invece, non si può sfuggire al tragico misurarsi con tutti i secoli dopo Cristo, appuntando l’attenzione unicamente sul momento della sua predicazione, morte e resurrezione: «Questi venti secoli devono avere l’articolazione, la complessità, il drammatico movimento interno che li rende confrontabili alla vicenda che va da Abramo a Gesù»147. Solo in questa prospettiva se ne potrà percepire chiaramente l’insostenibilità, dopo le secolari vicende del popolo ebreo, lo scandalo della croce subito dai seguaci di Gesù di Nazareth e, oggi, per i cristiani, l’affievolirsi della speranza messianica. Ciò che resta, infine, è l’urgenza di comprendere l’immane accumulo dei giorni, carpendone il senso occulto: «L’invocazione del regno alle porte, del regno per subito non è il punto di arrivo, ma è stato il punto di partenza. Il centro adesso, in qualche modo, non è più il regno che viene ma il regno che non è venuto, il ritardo del regno»148. La riflessione centrale di Quinzio sul “tempo intermedio”, in effetti, ruota attorno all’evidenza che, fin dalle origini, esso sia legato al ritardo del Regno. Radicalizzando il problema del ritardo, Quinzio caratterizzerà ulteriormente il tempo intermedio alla luce del troppo tardi. Questo tema è connesso essenzialmente all’idea di passato piuttosto che, come potrebbe apparire a prima vista, a quello dell’attesa o del futuro. Se l’attesa non avesse alle spalle un passato e fosse puro istante proteso al futuro, la questione del troppo tardi non avrebbe ragione di sussistere: ancora in un rapporto dialettico, passato e futuro si coimplicano, ma con una priorità ontologica del passato. È quest’ultimo che si allontana sempre più, perdendosi nelle pieghe del tempo, divenendo irraggiungibile e nascosto per quel futuro che viene verso il presente troppo tardi per raggiungere coloro che, trascinati dall’impetuosa corrente del tempo, sono precipitati nelle cascate dell’irreversibilità temporale: «Certe volte mi spaventa l’idea di una promessa che, comunque, sarebbe adempiuta troppo tardi, come se un padre promettesse una bicicletta al suo bambino e gliela facesse sospirare tanto a lungo da dargliela solo quando il bambino ha avuto le gambe 142

troncate dal treno»149. Troppo tardi, locuzione che rasenta il nichilismo e stravolge l’attesa come lo stesso tempo intermedio, il quale, da breve che era nella concezione paolina, diventa il tempo di tutta la nostra storia, involutiva e segnata dalla chenosi, profondamente lacerata dal già da sempre troppo tardi: «Era già tardi per Maimonide, era già tardi nel sesto secolo prima di Cristo, quando il profeta Abacuc diceva della salvezza: “se tarda, aspettala, perché verrà sicuramente, non tarderà (Ab 2, 3)»150. La domanda posta dal ritardo è, in primis, di ordine teologico e mette in discussione lo stesso concetto di Regno, il cui tardare non per anni, ma per secoli, obbliga a un ripensamento del suo significato e dell’azione di Dio. Richiede coraggio nella verità più che capacità di mediazione con le comunità dei fedeli delusi, giungendo a chiedersi «se il permanere delle potenze seduttrici e persecutrici è liberamente scelto da Dio oppure se è un assurdo perdurare anche dopo la resurrezione di Cristo del potere delle tenebre contro Dio»151. Negli anni giovanili le risposte quinziane, mentre sottolineavano già l’eccessivo protrarsi del tempo fra le due parusie, tentavano ancora di dissipare i dubbi sull’eventuale responsabilità di Dio in questo perdurare di un tempo in cui tutto è sbagliato, tutto appartiene alla perdizione, in cui Satana è incatenato, ma il male continua ad avere la meglio: «Ecco quindi che questo tempo fra le due parusie, tempo ultimo (“novissima ora est”; 1 Gv 2, 18), è un tempo assurdo. […] Il mistero è questo: “Mistero d’iniquità” (2 Ts 2, 7). Questo tempo ultimo non è un tempo voluto da Dio; […] Questo tempo è malgrado Dio e contro Dio»152. Gli artefici di questo tempo assurdo, per il venticinquenne Quinzio, erano, anzi, proprio gli esseri umani, perché gli sembrava impensabile che Dio dipanasse nel tempo un progetto fatto di orrori e nefandezze: «Questo tempo lo facciamo noi: come il tempo ante Christum lo fece il peccato d’Adamo»153. Questa risposta teologica e metafisica avrà un’evoluzione radicale, fin quasi a capovolgersi. Non sostenuta più neppure da impalcature teologiche parallele – che pure avevano attirato la sua attenzione – quali l’idea del dolore che dovrebbe colmare la misura dei martiri, come affermato dall’Apocalisse; oppure quella della manca143

ta conversione dei cristiani; elementi, cioè, dipendenti dall’uomo e ritardanti la fine dell’assurdo tempo intermedio. Nella maturità, Quinzio giungerà, infatti, a chiedere: «Vogliamo continuare per altri millenni a giocare al gioco di Dio che non ci aiuta perché non lo meritiamo e dell’uomo che non è in grado di meritare nulla senza il suo aiuto?»154. L’attesa vigilante, il combattimento con lo sguardo rivolto alla meta escatologica sembrerebbero rapportarsi a un Dio sordo e cieco, come gli idoli pagani, che ha smesso di essere il Dio-con-noi ebraico, il quale rispondeva alle preghiere dei suoi fedeli combattendo anche lui come Dio-degli-eserciti, addirittura in questioni che, guardate oggi, appaiono umane troppo umane. La sua presenza, seppure avvertita spiritualmente, non è confermata da evidenti segni di redenzione. I miracoli di guarigione dalle malattie di alcuni, pur confermati dalla Chiesa, restano uno scandalo di fronte ai milioni di miracoli chiesti e non ottenuti. Dio non potrà imputare solo all’uomo il procrastinarsi dell’attesa, l’allungamento indefinito del tempo fra le due parusie e l’affievolirsi della fede che ne consegue, perché anche i più fedeli sono morti o hanno sofferto oltre ogni umana misura; non potrà, dunque, proprio il Creatore, chiedere prove disumane alle sue creature, non riconoscendo, lui per primo, i vistosi limiti con cui le ha create: La parabola del giudice iniquo alla fine si domanda: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà forse la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). La risposta non può essere che questa: egli dovrà venire, se verrà, malgrado la nostra mancanza di fede. E non sarà tutta colpa degli uomini se la fede sarà andata perduta. Noi siamo qui soltanto perché siamo i figli di questo immane, insostenibile ritardo155.

La riflessione di Quinzio, pure così colma di vis polemica contro il Moderno e le costruzioni della Storia, assume, nel profondo, la forma di una potente apologia dell’uomo, della sua incolpevole creaturalità, dei suoi pregi come dei suoi limiti. Con atteggiamento più ebraico che cristiano, Quinzio disputa con Dio, protesta, si difende, talvolta, persino, accusa, chiede spiegazioni, provoca. La creaturalità – concetto ovviamente concepibile solo nel quadro di una delle religioni del Libro – non viene conno144

tata eticamente, né in chiave di dono amorevole del creatore, né di colpa da scontare, ma assunta come dato ineludibile dell’esistenza mondana, con il ventaglio di possibilità, di bene e di male, che le sono implicate. Tale idea ha la sua caratterizzazione proprio nella temporalità intermedia iniziata con la prima venuta del Messia e trasformatasi nell’immane ritardo del Regno. Il supplemento di responsabilità che questo ritardo fa pesare sull’uomo, come se ne fosse l’unico artefice, è da Quinzio rifiutato, perché caricherebbe la creatura di responsabilità che non le competono e che, piuttosto, sono riferibili allo stesso Creatore. La dialettica creaturale nel tempo intermedio assume, allora, ancor più, la forma di un’attesa attiva che, oltre a combattere l’accidia sempre incombente sui cristiani, combatte anche, se così si può dire, la deresponsabilizzazione del Creatore, che non può sottrarsi alle conseguenze implicite nei limiti imposti alle sue creature, sottoposte, tra l’altro, a una “natura” necessitante con i suoi ritmi, con i bisogni che derivano dal farne parte, e di fronte alla quale si avverte tristemente l’insufficienza. Limiti che impongono di chiedersi se, forse, anche Dio – il quale non interviene né come liberatore, né come giudice – non sia, in qualche modo, limitato: «Ma perché Dio non libera oggi, perché non ha liberato ieri, perché libera soltanto domani? Forse perché è vincolato da qualcosa che lo impedisce?»156. L’idea di un Dio liberante non convince Quinzio, che lo considera «il più astratto degli dei»157, poiché se non è libero di liberare non si distingue poi tanto da coloro che deve liberare; piuttosto egli preferisce pensare a un Dio che giudica, attraverso combattimenti e battaglie, anche attraverso la sua morte, un Dio vivente. Il continuare della storia, però, svela, forse, anche un conflitto all’interno di Dio stesso in rapporto alla sua giustizia, che sembra spezzarsi nella tensione tra «gli estremi del rigore – anzi della vendetta, che del resto tante volte le Sacre Scritture attribuiscono a Dio – e della misericordia, rinunciando a comporli, a tenerli in un equilibrio sempre precario e compromissorio che rende possibile il protrarsi della storia»158. Dunque, nel radicale ripensamento del significato del Regno alla luce del suo ritardo, anche Dio non appare più con i caratteri dell’onnipotenza che salva, «ma nella omnipotentia 145

supplex, nell’impotenza che chiede la salvezza, l’umile, la misera ma dolcissima salvezza di essere consolato, che qualcuno abbia pietà di lui, che qualcuno muoia d’amore per lui, sia con lui»159. Non è un caso, allora, che la domanda sul troppo tardi non apra solo questioni teologiche e teoretiche, ma anche baratri esistenziali, derivanti dal prolungarsi della vita stessa, che rimane senza un punto di svolta decisivo; stesso destino della storia che, con la venuta del Messia, non si è conclusa, ma continua a durare lacerata da un’apertura straniante: «E allora inizia un tempo assurdo, invivibile, e che pure deve essere vissuto, e viverlo significa aprirlo al rischio, al rischio illimitato, senza nessuna garanzia, mentre la fedeltà all’evento unico e perfetto implicherebbe l’esclusione di qualunque rischio di perderla, cioè non vivere»160. Nel contrasto tra speranza e disperazione, tra bisogno di certezze e rischio assoluto, si creano lacerazioni alle quali è difficile sfuggire indenni, soprattutto per l’attitudine quinziana a radicalizzare le contraddizioni, senza concedersi spazi di compromesso per sollevare la mente dalla gravità della posta in gioco: «Non so più se il Signore mi si manifesterà in un barlume di consolazione, non ho più la forza di volerlo, forse addirittura non me ne importa più nulla. Troppo tardi. Sono disperato e basta, ma sono disperato perché non posso uccidere in me la speranza»161. La convinzione di fondo, forse il motivo per cui come criterio di giudizio della storia Quinzio ha scelto la tensione re-ligiosa, è che, se questa disperazione del “troppo tardi” riuscisse ad esprimersi coralmente da tutta la creazione, il momento dell’avvento del Regno, forse, potrebbe essere affrettato: «È la sofferenza dei credenti che invocano dalle tenebre dell’esilio e delle persecuzioni, come insegna la tradizione ebraica, ad affrettare la venuta del Messia, il ritorno del Signore»162. Ma già nel suo giudizio sulla storia non sembrano esserci, al presente, elementi per sperare che un grido o una disperazione corale si sollevino dal mondo. Al cristiano (cioè al messianico), che sente l’insoddisfazione della situazione attuale, non restano molte strade, se non continuare a esprimere tale insoddisfazione sottolineando, a ogni occasione, il disastro del ritardo: «Si tratta di ripensare tutta la storia di questi venti secoli per fissarne il tragico mistero»163. La 146

giustizia che Dio aveva promesso non è stata fatta e coloro che sono rimasti fedeli alla messianicità dell’essere cristiani affrontano il martirio, la testimonianza, di una vita da stranieri, anche rispetto alla Chiesa. Proprio quella speranza che li induce a credere sempre ancora imminenti la redenzione e la resurrezione dei morti, che avrebbero dovuto costituire la ricomposizione immediata delle contraddizioni dell’esistenza umana con la venuta del Messia, viene, invece, messa a dura prova per troppo tempo, facendo assumere al martirio una nuova, ma anche primordiale, forma, quella di una sconfitta di fronte al mondo, ma, anche, di fronte alla propria stessa fede: Il Messia, come ha detto Kafka, sarebbe arrivato “solo un giorno dopo il proprio arrivo”, quando l’attesa si è consumata. Dopo interminabili doglie, secondo il testo ebraico di Isaia, “abbiamo partorito vento” (26, 18). Questa è certamente una sconfitta dei credenti, una sconfitta della fede, ma è anzitutto una sconfitta di Dio, che lungo tutte le pagine della Bibbia si rivela come colui che dà la vita164.

In realtà le doglie non sono affatto finite. Piuttosto si continuano a sopportare doglie interminabili nell’incertezza assoluta sul frutto del parto, aperti al rischio che davvero, alla fine, si possa partorire solo vento. La fede quinziana assume fino in fondo il rischio di questa incertezza, rischio a cui, per una strana comunanza di destino, è esposta l’intera storia occidentale. Tuttavia, mentre i protagonisti del mondo, i potenti della terra, possono accontentarsi di palliativi e successi temporanei, il messianico riconosce l’insufficienza di ogni pseudoredenzione mondana, patendo, anzi, lo scandalo del successo delle pseudosalvezze di questo mondo. Esposto agli «schernitori beffardi», come profetizzato nella Seconda Lettera di Pietro165, non potrebbe evitare di riconoscere il fallimento di quanto si attendeva: «Le promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse fallite. Resterebbero tali anche se dovessero compiersi in questo istante, manterrebbero comunque al loro interno, anche se ne venisse cancellata la consapevolezza, un abisso di delusione, di stanchezza»166. 147

Il tema del ritardo del Regno segna, forse, la cesura più profonda con una Chiesa che si propone “madre che salva” – mediante sacramenti e insegnamenti che Dio stesso le elargisce in abbondanza – e prefigurazione del Regno, casa comune di fedeli che, così, tendono sempre meno al Regno e sempre più a sopravvivere nel tempo intermedio di questo mondo. Un tempo in cui, come profetizzato dall’Apocalisse, una forza trattiene il manifestarsi del principe di questo mondo che precederà l’avvento del Regno. Il cristianesimo, allora, non è altro, per Quinzio, che l’assurdo prolungarsi di questo frattempo. Il Messia non era venuto a fondare una Chiesa che resistesse nel tempo, ma ad annunciare imminente la fine del Mondo e l’instaurazione del suo Regno. Proprio per questo Quinzio giunge provocatoriamente ad affermare che il cristianesimo stesso sia destinato a finire e a tramontare, se davvero si deve annunciare il Regno: Mi dicono che la mia è una “visione sempre meno cristiana”. Penso infatti che anche il cristianesimo, come Cristo, debba morire nella storia: la fede era già una scommessa folle per Abramo, e Paolo al tramonto della sua vita ringrazia di averla malgrado tutto custodita. Sono passati altri venti secoli di delusioni, contraddizioni, corruzioni. Non possiamo che essere a una fine. Il cristianesimo è il tempo intermedio: all’inizio, Cristo non era cristiano167.

Tutta la riflessione sulla temporalità, dunque, converge sul tempo intermedio, mostrandone tanto l’orizzonte kairologico e apocalittico-messianico, quanto, anche, il rischio della cronolatria. Nella tensione tra queste possibilità del tempo si fa urgente e sempre più necessaria una riflessione sul Mondo: il prevalere di una o dell’altra non è indifferente, come è già chiaro, rispetto alle diverse possibili forme di esistenza. Note S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 756. S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 48. L’elemento caratterizzante dell’idea di redenzione derivante da questo reciproco implicarsi di passato e futuro sarà, come vedremo, la “restitutio in integrum”. L’Angelus Novus, com’è noto, è una figura che appare nella IX Tesi sul concetto di storia di Benjamin: «C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono 1 2

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spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabile nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., pp. 35-37). L’Angelus Novus è un angelo messianico, anzi la figura stessa del Messia “debole”. Benjamin aveva progettato una rivista che doveva intitolarsi Angelus Novus, legata alla novitas effimera e passeggera di cui gli angeli sarebbero portatori, come scrive nel frammento di annuncio della sua rivista: «Persino gli angeli, secondo la leggenda talmudica – sono creati nuovi in ogni istante, in schiere innumerevoli – perché, dopo aver cantato il loro inno al cospetto del Signore, cessino e svaniscano nel nulla!» (W. Benjamin, Annuncio della rivista «Angelus Novus», in Sul concetto di storia, cit., p. 239). Questi angeli effimeri durano solo quel breve tempo in cui cantano la loro lode. Benjamin era stato molto colpito da questo passo del Talmud nel quale ritrovava l’idea dell’attimo che interrompe il continuum temporale e introduce una scheggia messianica. Da un lato gli interessa il carattere caduco della vita degli angeli, dall’altro il fatto di poterla ricomprendere e ricapitolare nell’istante in cui viene cantata la lode al Signore. 3 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 101. 4 In effetti la prospettiva del puro dopo pone questioni non secondarie rispetto al tema stesso dell’evento escatologico, ma, anche, dell’evento tout court. Quando si dà veramente evento? Come ha notato Derrida, se, da una parte «la condizione perché l’a-venire resti a venire, è che non solo non sia conosciuto ma che non sia conoscibile come tale» (J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, tr. it. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996, p. 94), dall’altra, tuttavia, nell’evento è sempre in gioco una ripetizione. A tal proposito ha osservato Caterina Resta: «L’irruzione dell’evento, tuttavia, per quanto inanticipabile, imprevedibile, se accade, non può non tradire anche quell’assoluta novità con la quale si annuncia. Come potremmo infatti accoglierlo se esso, in qualche modo, provenisse da un oblio assoluto, da nessun passato e da nessuna memoria? È possibile un venire che, per quanto provenga dall’a-venire, non rechi anche, sempre e necessariamente, traccia di un passato, senza il quale neppure più potremmo identificarlo? Può esservi evento o avvenire senza che l’assolutamente nuovo sia attraversato da una promessa – altra cosa, certo, da una previsione! – che lo ha preceduto, da un annuncio, da una memoria, per quanto inarchiviabile, da un’eredità?» (C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, cit., p. 33). Anche Quinzio, certamente, si è trovato di fronte a questo rischioso guado, attraversato, tanto da lui, che da Benjamin e Derrida, su un antico ponte ebraico, quello della memoria. 5 Lo storico messianico, secondo Benjamin, «volta le spalle al proprio tempo, e il suo sguardo di veggente si accende davanti alle vette delle generazioni umane antecedenti che vanno sempre più dileguandosi nelle profondità del passato. È appunto a questo sguardo di veggente che il proprio tempo è presente ben più chia-

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ramente che ai contemporanei che “tengono il passo con lui” […] Chi va a frugare nel passato come in un ripostiglio di esempi o di analogie, non ha la benché minima idea di quanto, in un dato attimo, dipenda dalla loro attualizzazione» (W. Benjamin, Materiali preparatori delle tesi, in Sul concetto di storia, cit., p. 85). Ciò che non viene attualizzato sarà irrimediabilmente perduto. Ricordare, dunque, è azione messianica. 6 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 119. Si noti il registro totalmente differente rispetto al programma di Tartaglia in cui il passato, semplicemente, sarebbe dovuto svanire. Sara De Carli sottolinea la rottura tra realtà vera e realtà attuale, associandola più all’influenza di Kierkegaard che di Benjamin: «C’è una realtà attuale, presente, ma non vera, e c’è una verità non ancora realizzata, che sarà però, alla fine, l’unica reale, solida, consistente, che recupererà pienamente quelle schegge di tempo messianico che sono già presenti e che rendono il tempo presente irriducibile ad apparenza, pur nella consapevolezza che esso non è il tempo decisivo: perché ogni istante che viene può essere quello decisivo. […] Risuona ancora una volta la voce di Kierkegaard: anch’egli distingue storia e storia della salvezza» (S. De Carli, L’apologetica di Sergio Quinzio, in AA. VV., Il messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., p. 122). Tuttavia, almeno per quanto riguarda la temporalità messianica, mi sembra che, per Quinzio, il riferimento privilegiato sia certamente Benjamin, con la sua attenzione alla redenzione del passato. 7 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 80. 8 Ivi, p. 81. In gioco, dunque, nell’oblio del passato, nell’infedeltà a esso, c’è anche il futuro, la possibilità stessa di una compiuta redenzione. In quanto eredi del passato, ne siamo anche infinitamente responsabili, e nella fedeltà a questa tacita consegna, viene lasciata aperta la possibilità a un futuro gravido di memoria. Il compito di ereditare – ben differente dall’archiviare – è affidato alla singolarità di ciascuno. Quinzio sentiva la responsabilità della memoria in prima persona, come in prima persona l’hanno sentita tutti i sopravvissuti dai campi di concentramento. Sull’importanza del tema dell’eredità, in riferimento al passato e alla memoria, in un’assunzione di responsabilità sempre singolare ha, in più occasioni, insistito J. Derrida: «Senza singolarità, non c’è eredità. L’eredità istituisce la nostra singolarità a partire da un altro che ci precede e il cui passato resta irriducibile» (J. Derrida B. Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it. di G. Piana, Cortina, Milano 1997, p. 96). Per un’approfondita analisi di questo tema, anche in riferimento a Hölderlin e Heidegger, si veda C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jaques Derrida, cit., p. 37. Il tema era stato trattato da Heidegger in Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988. 9 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 81. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Anche per Benjamin, come si evince dalla II Tesi sul concetto di storia, passato e redenzione sono legati a doppio filo: «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra

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le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 23). 13 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 82. 14 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 159. 15 Questa “debole” forza messianica può farsi voce anche di chi, nel presente, è costretto al silenzio. Essa, che opera sul passato, può dare senso al presente se contribuisce ad accrescere la consapevolezza dell’orrore del silenzio degli ultimi della terra, del grido inascoltato dei milioni di esseri che non hanno voce, costretti a subire, oltre ogni misura, una violenza che li annienta: «Vi sono altri esseri, più sventurati ancora che, senza morire, sono diventati cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi è alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro. Non si tratta di uomini che vivano più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere» (S. Weil, L’Iliade, poema della forza, in La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. di C. Campo, Borla, Roma 1999, p. 13). 16 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 726. 17 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 82. 18 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 29. 19 S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, cit., p. 37. 20 Ibidem. 21 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 129. La questione del senso di colpa dei “sopravvissuti” ha avuto i suoi esempi più eclatanti proprio tra gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, molti dei quali, anche a distanza di anni, non hanno retto il peso metafisico di cui si sentivano portatori, scegliendo il suicidio. La testimonianza e il ricordo possono diventare espiazione nel tentativo di offrire la propria esistenza come luogo d’ospitalità a coloro che non ci sono più. La vera questione, tuttavia, è che, spesso, nessuna vera testimonianza di quel dolore è possibile. Il testimone è comunque un sopravvissuto, che non ha sperimentato fino in fondo l’annichilimento del “musulmano”, colui che, nei campi di concentramento, si colloca sul limite tra umano e inumano. Di lui non potrà esserci testimonianza, né ricordo, ma solo deboli tentativi di una rammemorazione, destinata, in ultima istanza, a fallire, un brandello d’orecchio strappato dalla gola del leone. Come i più acuti interpreti della Shoà non hanno mancato di segnalare, si tratta di dover testimoniare dell’intestimoniabile: «Parola ancora da dire al di là dei vivi e dei morti, che testimonia per l’assenza di attestazione» (M. Blanchot, Il passo al di là, tr. it. di L. Gabellone, Marietti, Genova 1989, p. 62). Su questa aporia si è soffermato, tra gli altri, anche G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998. 22 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 44. 23 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 120. In quest’oscurità ontologica tutta la cultura odierna appare a Quinzio assolutamente segnata dall’oblio, pervasa solo da un’attitudine estetica che non riesce a comunicare, del passato, altro che forme imbalsamate e prive di vita: «Se al di là di questa sopravvivenza museale della realtà le sopravvivenze del passato possono ancora dirci qualcosa, ci dicono so-

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lo la morte. Lo scrigno della morte non custodisce per noi nessuna vita. Del passato non restano che frammenti e ruderi anche se apparentemente intatti» (ivi, p. 121). Il baleno che attraversa la distanza incolmabile tra epoche abissalmente distanti è costituito solo dalla consapevolezza che noi siamo ancora in vita, mentre le passate generazioni sono già morte. Eppure, forse, è già un passo avanti la percezione del proprio vivere come una perdita, come una esposizione, ad esempio al contatto con quei luoghi che, del passato, ricordano la morte: «Ma se diventiamo consapevoli, come oggi dovremmo, di questo destino, è nella morte che incontriamo la verità. Il cimitero ebraico di Praga ci è fraterno, lì sperimentiamo solo ciò che del passato realmente sopravvive, la morte, senza gli orpelli che cercano di nasconderla. La morte umile dei vinti, per i quali il Castello di Kafka, l’ebreo Amshel ben Enoc, è oggi come ieri lontano e irraggiungibile, eppure brilla, più alto del cielo, proprio nella suprema povertà del morire» (ivi, p. 122). 24 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 78. Quinzio considera a tal punto seriamente questa speranza nel Regno da pensare il culto dei defunti quasi come una smentita della promessa, una negazione della resurrezione: «In fondo solo rassegnandosi alla morte si possono compiere gesti tanto spaventosamente inutili di fronte all’orrore di un corpo in disfacimento» (S. Quinzio, La speranza nell’apocalisse, cit., p. 168). 25 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 78. Sulla fedeltà sempre più difficile al ricordo di Stefania, Quinzio torna in modo sempre più angosciato: ivi, pp. 88, 111-113, 121. 26 Ivi, p. 78. 27 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 726. 28 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 70. 29 S. Quinzio - G. Caramore, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 123. Quinzio torna sulla vanità dello sforzo del ricordo: «Quando tu, dopo alcuni anni, non ricordi più lo sguardo, il sorriso, il timbro della voce della persona che hai amato e che hai visto soffrire e morire, ti sforzi di ricordare, mentre non c’è cosa che più faccia scappare i ricordi come lo sforzo per farli riaffiorare alla memoria» (S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 34; cfr. anche ivi, p. 44). Cfr. inoltre S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., pp. 173; 175. 30 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 44. 31 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 17. Questa riflessione nasceva nell’ambito del carteggio con Piero Stefani che si interrogava sul rapporto tra vivezza del desiderio di redenzione e prolungarsi dell’attesa, trovando in Quinzio una medesima tensione. Cfr. S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, cit., p. 36. 32 Cfr. Iliade, XXIV, 602. 33 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 17. Quinzio tenta anche un ripensamento dell’inevitabilità dell’oblio, provando a considerarlo in chiave di necessità ontologica, sulla scia di una riflessione di origine ebraica: Pinchas di Korez, a chi gli chiedeva il motivo per cui il Messia sarebbe dovuto nascere nell’anniversario della distruzione del Tempio, rispondeva che solo bevendo fino in fondo la pozione dell’oblio può essere aumentata la potenza della memoria. In questo mistero sarebbe racchiusa la forza della redenzione. Proprio nel giorno della rovina, in-

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fatti, la potenza nascosta sotto le macerie avrebbe già iniziato a crescere. Quinzio, sommessamente, si chiede: «Che anche la memoria, come il grano seminato nella terra, debba morire per avere nuova vita è ancora una speranza praticabile?» (ivi, p. 18). Ma la domanda resta inevasa. 34 Quinzio spesso si sofferma sul legame tra oblio e indebolimento della fede, legame fondato su un a priori senza la comprensione del quale sarebbe difficile capire certi passaggi delle sue riflessioni: Stefania, per lui, era icona del Regno messianico, la vita con lei primizia del Regno, il ricordo di lei fedeltà al Regno, per cui la dimenticanza di lei diventa simbolo della dimenticanza del Regno: «Per me – scrive, nel luglio 1975, ad Anna Giannatiempo – come tu sai bene, speranza desiderio e invocazione sono legate a Stefania, se perdo lei perdo tutto, e quindi vivo in una lotta disperata sul filo dei giorni e delle ore, perché ogni momento che passa tutto si fa più impossibile» (S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 56). L’attesa del compimento delle promesse non può resistere immutata per millenni; l’oblio ontologico rischia di prevalere, se persino la fedeltà della memoria alla persona più amata, con il tempo, vacilla: «La morte non finisce col fatto che, dopo, uno non è più vivo, ma col fatto che coinvolge con sé anche l’impossibilità della memoria» (S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 34). Così anche l’attesa del Regno non può essere identica a quella di duemila anni fa. Sempre più distratta, alla fine rischia di svanire, come il ricordo. 35 W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., pp. 23-25, Tesi III. 36 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 27. Tocchiamo qui un punto importante della fede paradossale di Quinzio: da un lato la dolorosa constatazione dell’insensatezza della storia, della vanitas di ogni umano desiderio di felicità e del progressivo affievolirsi dell’attesa di redenzione, dall’altro la tenace speranza, nonostante tutto, che, per quanto solo alla fine, ogni cosa possa assumere un senso diverso e rischiararsi. Quinzio è cosciente della presenza, anche nella speranza escatologica, di una contraddizione legata proprio a questa irrisolta ambiguità. In essa, infatti, la promessa di un senso finale rispetto al trascorrere del tempo e all’accumularsi del dolore non risponde del loro attuale non senso: «Canetti, nell’epilogo di Massa e potere, nota che le religioni “in ritardo o in anticipo, seppure con qualche eccezione, impartiscono la loro benedizione a tutto ciò che accade”. […] Anche per la fede escatologica, sebbene al limite, c’è una qualche accettazione del fatto compiuto del mondo, dal momento che infine deve rivelare un senso. Ma allora è un terribile senso» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 138). 37 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 27. 38 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 128. 39 Ibidem. 40 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 125. 41 Ivi, p. 113. 42 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 70. 43 Il “cronista” di cui Benjamin parla nella II Tesi, ha il compito, come abbiamo visto, di ricordare e riattualizzare tutto il passato, là dove, invece, la storia è sempre storia dei vincitori, attraverso un procedimento di selezione degli elementi da ricordare. Lo storico che Quinzio decide di incarnare, assumerà quasi le sem-

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bianze dell’angelo della storia di Klee, giudicandola solo a partire dalla prospettiva messianica, cioè dalla fine. 44 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 183. Stessa convinzione espressa in S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 96. 45 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 96. Cfr. anche S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 130. Il discorso quinziano sui valori pone alcuni problemi d’interpretazione. Ciò che conta, nell’economia della sua riflessione, è che, alla base di ogni concezione della storia, si nasconda sempre un determinato valore. I valori, dunque, sono considerati come criteri ermeneutici attorno ai quali organizzare una concezione della storia la cui validità sarà misurata in base alla sua verificabilità nei fatti e alla sua capacità di spiegare gli eventi. Ma se la storia assume senso e va giudicata a partire dai valori intorno a cui si attua, come evitare quello che Nietzsche, per primo, ha formulato come “prospettivismo” e Carl Schmitt ha chiamato la “tirannia dei valori”? (C. Schmitt, La tirannia dei valori, tr. it. di S. Forsthroff Falconi e F. Falconi, Pellicani, Roma 1987). Come evitare, insomma, quel relativismo rispetto al quale lo stesso Quinzio ha preso, in più occasioni, le distanze? Evidentemente, la prospettiva escatologica, a partire unicamente dalla quale la storia va giudicata, non può essere assunta come un “valore”, poiché questi ultimi si danno nella storia, mentre l’éschaton è proprio ciò che, decretandone la fine, si sottrae a essa e solo perciò può giudicarla. È stato soprattutto Heidegger a decostruire il concetto di valore a partire dal suo confronto con Nietzsche, offrendone, nel complesso, una decisiva critica (cfr. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 209). In breve, pensare per valori significa restare impigliati in quella metafisica della soggettività che da ultimo, con Nietzsche, conduce alla incondizionata volontà di potenza e al nichilismo, allo scontro inevitabile tra valori, in cui avrà la meglio – ossia avrà maggior valore – quello che saprà imporsi con maggiore forza. Il “relativismo dei valori” è solo la maschera rassicurante, ma anche quella più temibile, di una medesima tirannia dei valori, poiché conduce, infine, proprio alla sospensione del giudizio sulla storia. Quinzio tenta di sottrarsi a questo relativismo storicistico mediante un giudizio che si collochi oltre la storia. 46 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., pp. 43-44. 47 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 32. 48 Nella modernità, invece, Quinzio nota una preoccupante esaltazione del frammento. Da Agostino a Marx, la ricerca era principalmente rivolta a un significato globale del percorso storico. Quinzio ritiene, invece, che l’individualismo moderno, spesso e volentieri, presta la sua lente all’occhio dello storico, ormai del tutto avulso dall’orizzonte ebraico-cristiano: «Si esce, dunque, dall’orizzonte biblico quando si concepisce la prospettiva ermeneutica come luogo nel quale la verità si dà solo nel frammento» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 168). Il frammento diventerebbe emblema della singola vita chiusa nella propria monade esistenziale. È ciò che Quinzio riscontra in Proust e in Joyce, nei quali la vita, considerata nella sua interezza, non avrebbe più importanza, sostituita dal maximum assiologico di certi avvenimenti. In effetti la lettura quinziana di questi autori appare riduttiva. Quinzio interpreta Proust in modo assai diverso da come lo interpretava, ad esempio, Benjamin. Il momento in Proust non è mai mero pre-

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sente, ma un passato riattualizzato attraverso la memoria, che lascia riemergere attimi strappati all’oblio e così, in qualche modo, redenti. Questa memoria involontaria procede per improvvisi “risvegli” che restituiscono alla storia frammenti di tempo. La stessa eccessiva attenzione al presente è da Quinzio riscontrata anche in teologi come Bultmann (cfr. S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 29). Bultmann era già stato criticato, insieme a Barth, per aver intrapreso un percorso che, con il privilegiare esclusivamente il presente, sia pure nella sua declinazione escatologica, portava ben lontano dal senso della storia nella sua globalità. Uno dei teologi più critici nei confronti di questa concezione è Wolfarth Pannenberg, che, invece, difende la storia come unico luogo, nella sua fattualità e concretezza, in cui poter conoscere la rivelazione di Dio (cfr. W. Pannenberg, Rivelazione come storia, cit.). 49 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 32. Stessa riflessione in S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 168. Il riferimento è sempre alla III Tesi di Benjamin: «Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 23). 50 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 130. 51 Ivi, p. 39. 52 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 96. È la preoccupazione dell’esclusiva sopravvivenza della storia dei vincitori, che, secondo Benjamin, deriva essenzialmente dal metodo storicista dell’immedesimazione emotiva con la classe dominante. I valori presenti in essa sono riportati alla luce dallo storico, che tenta di recuperare una “reale” dimensione degli eventi, immedesimandosi, in definitiva, con i vincitori dell’epoca: «L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. […] Chiunque abbia sinora riportato vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 31). L’unico modo per sottrarsi a questo dominio è «spazzolare la storia contropelo», provare a fare emergere quegli eventi e quei protagonisti caduti nell’oblio, perché dalla parte degli sconfitti. 53 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 35. 54 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 195. La concezione spengleriana della storia, com’è noto, tenta di interpretare il succedersi degli accadimenti sulla base di una morfologia mutuata dallo sviluppo degli organismi, che, dunque, nascono, crescono e muoiono, secondo un processo ben identificabile. Le civiltà, secondo Spengler, sono indipendenti l’una dall’altra e, per questo, la storia universale è una mera astrazione. Non esiste, dunque, alcuna teleologia intrinseca alla storia, ma un mero sviluppo, interno a ciascuna civiltà, che, però, lungi dal perseguire un progresso costante, tende, invece, alla dissoluzione naturale. Evento al quale non ci si può opporre e che si deve assumere come “destino”. Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, a cura di F. Jesi, tr. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1981. L’analisi di Spengler non poteva, tuttavia, essere rispondente alle riflessioni quinziane sul senso della storia che, secondo la speranza messianica a esse sottesa, necessariamente nella sua interezza deve essere redenta. I momenti di crisi o di sviluppo, di crescita o di decadenza, indifferenti di per sé, troveranno un loro luogo di significanza nella globalità della vicenda storica assunta nel futuro messianico. La ricerca del senso della storia si lega, dunque, all’intensità della speranza mes-

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sianica che l’uomo riesce ad esprimere: «Spengler, che sopraffatto dalla natura professorale e romantica, nega, nell’assoluto isolamento di una civiltà dall’altra, la possibilità di dare un senso alla storia nel suo insieme, considera la speranza una stanchezza» (S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 125). 55 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 32. In effetti l’interpretazione quinziana ha la sua fonte proprio in Löwith, che tende a dimostrare come l’origine della moderna filosofia della storia sia nella fede biblica in un compimento futuro e finisca, di fatto, con la secolarizzazione del suo modello escatologico. Löwith sceglie di dimostrare la sua concezione mediante l’esposizione delle diverse concezioni della storia, seguendo una linea cronologica che dalla più recente giunge a quella biblica. Per cristiani ed ebrei senso e fine si identificano in quella costruzione che sarà la “storia della salvezza”. Mentre lo storico classico «si chiede: come si è giunti a ciò? Quello moderno si chiede: Come andrà a finire? Questa moderna preoccupazione del futuro ha il suo fondamento nel profetismo ebraico e nell’escatologia cristiana, che hanno entrambi rivolto verso il futuro il concetto classico di istoreín» (K. Löwith, Significato e fine della storia, cit., p. 38). 56 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 196. 57 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 92. È chiaro che qui, con il termine “chiesa”, Quinzio intenda l’ecclesía, la comunità dei primi cristiani. 58 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 32. Il fatto che il nostro senso storico abbia origine nella concezione cristiana di storia della salvezza non significa che la storia venga da Quinzio considerata come “storia della salvezza”. 59 È la nota tesi di Löwith, per il quale la concezione filosofica predominante della storia è quella escatologica, anche nelle sue versioni secolarizzate: «Il futuro è il vero centro di riferimento della storia, supposto che la verità riposi sul fondamento religioso dell’occidente cristiano, la cui coscienza storica è determinata dal motivo escatologico: da Isaia a Marx, da Agostino a Hegel, da Gioacchino a Schelling. Il significato di questa prospettiva di un fine ultimo, in quanto finis e télos, consiste nel fornire uno schema di ordinamento progressivo e di significazione, che possa vincere l’antico timore del fatum e della fortuna. L’éschaton, non soltanto pone un termine al corso della storia, ma lo articola e lo riempie mediante un fine determinato» (K. Löwith, Significato e fine della storia, cit., p. 39). Per un più ampio ventaglio di prospettive cfr. J. Taubes, Escatologia occidentale, cit.; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C. Marelli, Marietti, Genova 1992; G. Marramao, Cielo e Terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994; Id. Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 20052. 60 Esempio di un simile processo di neutralizzazione è, ad avviso di Quinzio, il procedere dello storico il cui compito, in antitesi al “cronista” benjaminiano, pare «debba necessariamente limitarsi all’accertamento dei “rapporti reali” e alla definizione empirica della loro esistenza di fatto» (S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 9. Il riferimento è a M. Weber, per cui cfr. ivi, pp. 24-25). Quale differenza possa essere individuata tra una storia siffatta e le scienze naturali, anch’esse fondate sul legame causa-effetto e sull’osservazione di fatti empirici, è tutto da chiarire e, sottolinea Quinzio, non è un caso se, sull’esempio dei modelli con cui

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la scienza tenta di dimostrare o prevedere certi fenomeni, si sia tentato, anche nell’ambito della storia umana, l’applicazione di “modelli”, ad esempio a livello sociologico, reificando intere generazioni. Il concetto di causalità, del resto, era stato messo in discussione già nel 1927 dallo stesso Heisemberg, padre del principio d’indeterminazione (cfr. ivi, p. 11). Sul rapporto tra scienza e storia e sul modo in cui la stessa scienza ha mutato le sue caratteristiche cfr. ivi, pp. 9-11. 61 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 7. 62 Nonostante l’oblio volontario di molti storici, la domanda sul futuro riaffiora anche in quegli storicisti – come Croce – che avrebbero voluto considerarlo in modo avalutativo, non ponendolo, cioè, come questione: «Ma il futuro, il grande escluso, compare furtivamente in una domanda crociana (formulata in Teoria e storia della storiografia) che coinvolge tutta la filosofia del nostro tempo […] “In qual modo si può pensare a pieno un’epoca storica se non mettendola in connessione con l’avvenire, con la nuova epoca da essa preparata?”» (S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 16). Per il confronto con Croce, la cui interpretazione della storia è considerata da Quinzio parziale e, per certi versi, ambigua, cfr. ivi, pp. 25-29. 63 Ivi, p. 72. 64 Ibidem. 65 Ivi, pp. 72-73. 66 Ivi, p. 106. 67 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 103. 68 Ivi, p. 104. 69 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 107. 70 Sulla crisi della religione, in particolare di quella cristiana, e sulla scomparsa del sacro Quinzio si sofferma lungamente. In particolare cfr. S. Quinzio, Religione e futuro, cit.; Id., Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit.; Id., Mysterium iniquitatis, cit.; Id., Giudizio sulla storia, cit., pp. 45-65, riprese integralmente in Religione e futuro. 71 Cfr., in particolare, W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 21. 72 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 74. Sara de Carli ha messo bene in evidenza come la certezza quinziana nel valore della storia come luogo privilegiato dell’azione messianica di Dio, sia del tutto estranea a qualsiasi storicismo, inteso come valorizzazione del continuum temporale, dal quale più volte Quinzio prende le distanze. L’importanza della storia si estrinseca fenomenologicamente come luogo nel quale – aggiungiamo noi nel futuro messianico, e solo in esso – la redenzione dovrà assumere la caratteristica di evento pubblico e non di conversione meramente interiore. La storia ormai si manifesta, piuttosto, come luogo dell’assenza di Dio e del suo fallimento; ma potrebbe aprirsi all’istante messianico che capovolge il fallimento in salvezza e per questo suo possibile risvolto kairologico non se ne può sottovalutare l’importanza (cfr. S. de Carli, L’apologetica di Sergio Quinzio. La linea curva dell’orizzonte di senso, cit., pp. 119-129). 73 «Non c’è un discepolo di seconda mano. Da un punto di vista essenziale, il primo e l’ultimo sono uguali, solo che la generazione successiva ha nel racconto di quella contemporanea l’occasione, mentre la contemporanea ce l’ha nella sua con-

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temporaneità immediata» (S. Kierkegaard, Briciole filosofiche, cit., p. 174). L’intenzione di Kierkegaard sembra, in effetti, animata dall’illusione che la percezione dell’attimo messianico e della sua potenza possa restare la medesima lungo i secoli, semplicemente mediante l’ascolto delle parole evangeliche. Questo potrebbe essere auspicabile, ma di fatto non avviene già a partire dai tempi in cui lo stesso Paolo scriveva le sue Lettere. Il tempo intermedio muta radicalmente l’attesa dei «discepoli di seconda mano», tanto che già nei Vangeli Gesù chiede: «Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). 74 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 196-197. Anche questa interpretazione si basa sulla riflessione di Löwith: «La coscienza storica moderna si è liberata della fede cristiana in un evento centrale d’importanza assoluta, ma tiene fermo ai suoi presupposti e alle sue conseguenze, e precisamente alla concezione del passato come preparazione e del futuro come compimento, in modo da ridurre la storia della salvezza all’impersonale teologia di uno sviluppo progressivo in cui ogni stadio attuale è il compimento di certe preparazioni storiche. Tramutato in una secolare teoria del progresso, lo schema della storia della salvezza poté sembrare naturale e dimostrabile» (K. Löwith, Significato e fine della storia, cit., p. 212). 75 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 8. 76 Ivi, p. 81. 77 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 197. 78 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 64. «L’intero sviluppo del mondo moderno, caratterizzato dalla sua ansia di “progresso” come liberazione dell’uomo dalla dura necessità della sua condizione, è derivato direttamente, lo ha ben documentato Karl Löwith, dall’istanza escatologica dell’originaria fede ebraico-cristiana nell’avvento del Regno di Dio» (S. Quinzio, La speranza nell’Apocalisse, cit., p. 24). Cacciari problematizza una derivazione diretta, secondo un tracciato ininterrotto, che dall’apocalittica ebraico-cristiana condurrebbe a un’escatologia secolarizzata nell’idea di progresso, come lascia intravedere la teoria di Löwith. Tenendo presenti le caratteristiche proprie dell’apocalisse, sarebbe meglio parlare, a suo avviso, di una totale perdita del significato apocalittico dell’éschaton piuttosto che di una sua trasformazione in teleologia (cfr. M. Cacciari, Chrónos Apocalypseos, cit.) 79 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 120. 80 Ibidem. 81 È probabile che questa idea della senectus come depotenziamento anche di ogni cultura, Quinzio l’avesse assunta, tra l’altro, anche dalla riflessione spengleriana. In effetti, nel passaggio dalla Kultur, inizio fecondo e vivace di ogni epoca storica, alla Zivilisation, tempo ultimo e stanco dell’involuzione di quella cultura, si registrano ovunque segni di decadenza e depotenziamento del vigore iniziale. Spengler, non a caso, pensava che per la civiltà occidentale, giunta ormai al suo tramonto, fosse arrivato anche il tempo della sclerotizzazione della sua potenza plasmatrice. Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 1327 e sgg. 82 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 33. 83 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 120. 84 Cfr. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 27. 85 Sulla questione del male e della sofferenza cfr. M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit., p. 103 e sgg.

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S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 98. Ibidem. 88 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 167. 89 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 97. 90 Ivi, p. 98. Occorre tenere presente che Quinzio si riferisce qui, come si è detto, al modello ebraico biblico. Infatti nell’ebraismo moderno sono stati da lui messi in evidenza gli stessi segni “antimessianici” e “antiapocalittici” di cui è stato vittima e protagonista il cristianesimo. In primis il processo di istituzionalizzazione (cfr. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit.). Anche Taubes, a differenza di Scholem, è propenso a non considerare così differente, nel suo percorso dalle origini alla modernità, la sorte della concezione ebraica della salvezza rispetto a quella cristiana (cfr. J. Taubes, Il prezzo del messianismo, cit., pp. 37-44). 91 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 50. 92 Ivi, p. 51. Bidussa sostiene che, rispetto all’evento escatologico nella storia, si possano distinguere due modelli esplicativi di Quinzio retti da una contraddizione. E cioè l’instaurarsi del Regno come una sorta di rivincita di Dio sui disastri della storia, che avverrebbe nonostante l’uomo, e dall’altro la partecipazione attiva del cristiano nella battaglia per il Regno, sostanzialmente solo a combattere contro il mondo. A questa contraddizione Bidussa fa corrispondere due modi di intendere l’apocalittica: come termine della dissoluzione del mondo, e come capovolgimento del modello imperante in funzione correttiva (cfr. D. Bidussa, La strana compagnia. Sergio Quinzio e “Tempo presente”, “Bailamme”, 20, 1996, pp. 102-103). Se è vero che tutti questi elementi sono riscontrabili nelle riflessioni sulla storia sparse nelle opere quinziane, da una loro interpretazione globale più che di rivincita sulla storia, posto che per Quinzio l’urgenza fondamentale è quella della redenzione del passato, parlerei, piuttosto, ebraicamente, di giustizia sulla storia, la quale dovrebbe derivare, appunto, dal giudizio su di essa. Inoltre, l’evento apocalittico non potrebbe essere correttivo se non fosse anche dissolutivo, come abbiamo sottolineato sulla scorta delle riflessioni di Scholem, alle quali Quinzio sostanzialmente aderisce: catastrofe e redenzione non sono separabili 93 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 51. I numeri in parentesi si riferiscono a capitoli e versetti della Genesi. 94 S. Quinzio, La croce e il nulla, p. 66. Bisogna, però, tenere presente che, a volte, Quinzio ha espresso dei dubbi nel parlare di una biblica concezione involutiva della storia: «Si può attribuire alla Bibbia una concezione involutiva della storia? L’affermazione avrebbe bisogno d’infinite precauzioni e precisazioni, sicché non si potrebbe giungere mai a formularla» (ivi, p. 67). Infatti l’involuzione della storia è anche contraddetta nella Bibbia, come, del resto, accade per moltissime altre questioni, che, non a caso, nella tradizione ebraica hanno dato luogo a infinite interpretazioni. Di fatto, tuttavia, Quinzio non ha dato seguito a questa perplessità ermeneutica, considerando la concezione involutiva come quella assolutamente prevalente nell’orizzonte biblico. L’involuzione, si potrebbe allora dire, più che una tesi esplicitamente enunciata, appare come «ciò che spesso, molto spesso, tragicamente incombe» (ivi, p. 70). 95 Una teoria involutiva non nega, tuttavia, tutti quegli elementi che Quinzio stesso aveva messo in evidenza come fondamentali matrici della storia occidenta86 87

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le, in primis la tecno-scienza. Benché non ne condivida la forma tricotomica, Quinzio ripensa la legge dei tre stadi di Comte come modello di concezione della storia adatto a rendere conto della situazione attuale, cogliendo in esso «un senso acuto e illuminante nel considerare il sorgere della speculazione razionale dei filosofi come l’inizio di un grande ciclo, succeduto alle remote concezioni religiose e seguito poi dalla scienza in funzione dell’operare tecnico che caratterizza la civiltà degli ultimi secoli» (S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 132). Per il rapporto tra storia e scienza nel pensiero di Quinzio cfr. ivi, pp. 140-152. 96 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 153. Il criterio della maggiore complessità e specializzazione, che regge la concezione evolutiva della storia, non riesce, secondo Quinzio, a fornire una spiegazione all’esaurirsi della speranza nel progresso dell’umanità e al conseguente ripiegamento nell’angustia del desiderio di sicurezza e benessere. Il criterio della tensione re-ligiosa verso la salvezza, invece, sarebbe perfettamente «in grado di dare una spiegazione del sempre crescente livello di complicazione e di astrazione che si registra nel cammino della scienza» (ivi, p. 154). Ci chiediamo, tuttavia, se non si tratti di una spiegazione autoreferenziale rispetto al criterio di giudizio adottato. 97 Ivi, pp. 130-131. 98 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 216. 99 Un ulteriore possibile accostamento è anche quello con la dottrina indù dei manvantara (cfr. R. Guénon, La crisi del mondo moderno, tr. it. di J. Evola, Mediterranea, Roma 1991). 100 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 167. 101 Fenomeno che indica la tendenza di un sistema di corpi a raggiungere la massima configurazione di ordine e nello stesso tempo la massima differenziazione, secondo la teoria di Luigi Fantappié (1901-1956), e che dovrebbe manifestarsi nei fenomeni biologici, in contrapposizione alla tendenza definita dall’entropia nei fenomeni fisici. 102 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 159-160. 103 Ivi, p. 158. 104 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 157. 105 Ibidem. 106 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 62. 107 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 158. La religione, infatti, con la sua promessa di redenzione e, quindi, di felicità assoluta, è negazione della storia (cfr. S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 61 e sgg.). 108 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., p. 159. 109 Ivi, pp. 160-161. Già Nietzsche, nella II Considerazione inattuale, con la sua proverbiale preveggenza, aveva affermato che l’estensione del metodo scientifico alla storia avrebbe condotto a una incapacità di azione storica da parte dell’uomo, che sarebbe divenuto osservatore oggettivo, riuscendo a comprendere e accettare indifferentemente ogni tipo di eventi (cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giammetta, Adelphi, Milano 1994). Quest’intuizione profetica avrà molte conferme. Già nel pensiero di Adorno e Horkheimer, si interpreta il predominio della ragione strumentale come causa della progressiva perdita della libertà e della capacità di giudizio soggettivo, co-

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sì come, nell’analisi sociologica di Weber, si mette in evidenza il regime di amministrazione totale tipico della civiltà occidentale. La riflessione di riferimento, però, è quella dei teorici della post-histoire, come Kojève – che ha introdotto il termine nel dibattito filosofico – e Gehlen, i quali, in modi differenti, evidenziano il processo operante nella cultura occidentale, che avrebbe abbandonato il movimento lineare e progressivo per entrare in una fase di stagnazione. Se Kojève coglie e sviluppa da Hegel l’idea della fine della storia, Gehlen la interpreta in chiave sociologica, sottolineando il ruolo della tecnica – con la sua ripetizione costante di una continua mobilità – che conduce, in fin dei conti, a una stasi, nella quale nulla di veramente nuovo è più possibile. Recentemente, tra i teorici della post-histoire, interessanti, per quanto discutibili, sono le riflessioni di Francis Fukuyama, che interpreta l’assoluta predominanza dell’America e del mercato globale – seguita alla caduta del muro di Berlino e del comunismo in Unione Sovietica – come inizio di una società neoliberale senza alternative e, per questo, post-storica. Dal canto suo, Quinzio è interessato a quegli autori che, condividendo una concezione di fine della storia, ripropongono l’esigenza di totalità, di riunificazione della frammentazione imperante, che renda conto di tutto il processo storico, delle contraddizioni a esso intrinseche e niente affatto risolte (cfr. S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., pp. 168-171). 110 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 177-178. 111 Ivi, p. 173. 112 S. Quinzio, Giudizio sulla storia, cit., pp. 164-165. 113 Ivi, p. 175. 114 La possibilità che l’attenzione alla meta escatologica, nella forma pura dell’attesa, si trasformi in qualcosa di ben differente, sembra contenuta in nuce nell’orizzonte semantico che la nomina. Il participio passato latino di attendere, attentus, significa infatti attaccato-a. L’at-tenzione verso una meta ultima, in assenza della consapevolezza della eterologicità della promessa di redenzione, si può facilmente mutare in attaccamento all’idea di redenzione in sé, con qualunque mezzo e a qualunque livello conquistabile, anche semplicemente come benessere, da raggiungere attraverso l’operare dell’uomo. 115 Sui caratteri del frattempo e sulle questioni teologiche, ontologiche, politiche e filosofiche connesse a questa particolare temporalità, ha scritto pagine di ineguagliata intensità Massimo Cacciari, «L’Età del Figlio», in Dell’Inizio, cit., p. 455 e sgg. In particolare, per i temi qui trattati, cfr. «De Reditu», in ivi, p. 597 e sgg. Il tempo intermedio ha suscitato l’interesse di un gran numero di filosofi e teologi. Alcune definizioni a esso legate – come quella di Cullmann “tra già e non ancora” – sono divenute paradigmatiche. Agamben insiste sulla differenza tra la fine del tempo e quel “resto” che si schiude nel frattempo dell’attesa messianica. Egli parla, per questo tempo restante, di “tempo operativo”, mutuando l’espressione dalla linguistica di Guillaume, che gli permette di definire il tempo messianico come «il tempo che il tempo ci mette per finire – o, più esattamente, il tempo che noi impieghiamo per far finire, per compiere la nostra rappresentazione del tempo. […] tempo operativo che urge nel tempo cronologico e lo lavora e trasforma dall’interno, tempo di cui abbiamo bisogno per far finire il tempo – in questo senso: tempo che ci resta» (G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 67; 68).

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S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 90. Claudio Ciancio interpreta l’attesa della salvezza in Quinzio in relazione al perdurare dello scandalo del male, con la conseguente lettura cheonotica delle Scritture (C. Ciancio, Il regno di Dio e lo scandalo del male, in AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., pp. 45-58). Anche Fiorenzo Fontana riflette sul concetto di tensione nel pensiero di Quinzio, indicandola come pre-condizione, ma anche peculiare carattere del Regno di Dio (F. Fontana, Parole per Sergio Quinzio, in AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., pp. 23-25). 117 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 70. 118 Ivi, p. 71. A proposito della difficoltà della perseveranza, Quinzio sottolinea come lo stesso Pietro – nonostante il privilegio di essere discepolo di prima mano, come direbbe Kierkegaard – rinneghi Gesù, benché lo avesse già riconosciuto come Messia; dorma quando il Messia lo invita a pregare, e poi vada a compiere miracoli; tagli l’orecchio a Malco ma assista, anche, alla trasfigurazione sul Tabor; o ancora, dopo avere ricevuto lo Spirito Santo, litighi con Paolo. 119 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 115. Barban ha sostenuto che al discorso escatologico di Quinzio manchi del tutto il tema della vigilanza, il cui esempio per antonomasia è indicato nel servo che attende il ritorno del padrone senza sapere il giorno e l’ora in cui tornerà (Mc 13, 33-37). Ci sembra, in verità, che Quinzio sia stato davvero uno dei pochi a porre in primo piano questo punto. Anzi, Quinzio parla della vigilanza proprio in relazione al brano del Vangelo di Marco in questione: «Gli interpreti dottissimi scorgono il senso di tutto il discorso escatologico di Gesù in un moralistico ammonimento alla vigilanza, dimenticando che la vigilanza (da vigilia) non è un atteggiamento morale ma una tensione nella notte che precede l’apocalisse» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 111). Certamente il paragone che Barban fa con Weil è assolutamente pregnante, in quanto è unanimemente condiviso che il tema dell’attesa e dell’attenzione trovino in lei una delle più acute interpreti nel Novecento. Ciò che rende problematico questo confronto con Quinzio è il fatto che in Weil la dimensione escatologica – nel senso quinziano di compimento messianico-apocalittico – non è presa in considerazione. È per questo che la vigilanza, in Quinzio, assume tutt’altri toni rispetto alla weiliana attesa di Dio (cfr. A. Barban, Il tempo e la vigilanza. Le domande e l’inquietudine di Sergio Quinzio, cit., in particolare le pp. 44-47). Per il tema della vigilanza, in relazione al discorso escatologico di Gesù, si rimanda alle acute riflessioni contenute in S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 109-119. 120 Quinzio era ben consapevole, a questo, come ad altri propositi, della non congruenza di certe sue affermazioni con il magistero della Chiesa: «Protestantesimo? Non mi sarà possibile parlare a lungo senza dire prima o poi qualche parola che presa a sé possa essere accusata di protestantesimo, o di idealismo, o di pragmatismo» (S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 115). Sul rapporto di Quinzio con la Chiesa, Natoli scrive: «Quinzio si sente parte della Chiesa, e nella specie si sente cattolico: nel contempo ne confuta la condotta, scorge il rischio della deriva. Tutto ciò colloca Quinzio in posizione anomala: fa di lui un cattolico antimoderno e nel contempo un personaggio ereticale. Antimoderno perché denuncia la modernizzazione del cristianesimo […]. Ma nel momento in cui assume un at116

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teggiamento antimoderno si pone in una posizione ereticale classica: disseppellire la fede, tornare alle originarie parole del Vangelo» (S. Natoli, Fede e modernità, “Bailamme”, 20, 1996, p. 18). 121 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 83. 122 Questo destino di travisamento è stato in qualche modo segnato anche a causa della profonda differenza della lingua ebraica rispetto al greco e al latino: «È emblematico il fatto che san Girolamo, il tramite principale attraverso il quale la Bibbia è stata conosciuta in Occidente, abbia sognato il Cristo che lo accusava d’essere ciceroniano anziché cristiano. Sebbene l’avesse studiato a lungo l’ebraico gli restò sempre estraneo» (S. Quinzio, La filosofia della Bibbia, cit., p. 3). Molte parole bibliche sono state del tutto travisate rispetto al significato che rivestivano nell’orizzonte ebraico proprio a partire dalla traduzione di Girolamo, ma tramite essa si sono sedimentate e sono divenute il fondamento di molti dogmi assunti dalla Chiesa Cattolica e da tutto il cristianesimo. Uno dei casi più eclatanti è quello che riguarda l’onnipotenza di Dio, termine inesistente nella Bibbia ebraica. Già Spinoza aveva sottolineato le enormi difficoltà nella traduzione dell’ebraico: «Oltre alle cause di ambiguità comuni a tutte le lingue, in questa lingua ne sussistono alcune altre specifiche, da cui nascono ambiguità a non finire […]. È noto che in ebraico le lettere dell’alfabeto sono divise in cinque classi corrispondenti ai cinque organi fonici che ne permettono la pronuncia e cioè: le labbra, la lingua, i denti, il palato e la gola. Così Alef, Ghet, Hgain, He si chiamano gutturali e senza alcuna distinzione (almeno a noi nota) si usano l’una al posto dell’altra» (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, in Etica. Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Tea, Milano 1991, cap. VII, p. 520). 123 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 67. 124 Ibidem. 125 Cfr. ivi, p. 69. 126 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 32. Nel tempo intermedio, rivive la condizione delle prime comunità cristiane, per le quali l’ultimo giorno non arriva, eppure il tempo si restringe, inizia a finire. Scrive Agamben a proposito di Paolo: «Quel che interessa l’apostolo, non è l’ultimo giorno, non è l’istante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e comincia a finire (ho kairós synestelménos estín 1 Cor 7, 29) – o, se volete, il tempo che resta tra il tempo e la sua fine» (G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 63). 127 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 34. Ciò induce Quinzio a sottolineare che «nelle lettere ai tessalonicesi, piene di immediatezza e spontaneità, troviamo l’estrema tensione tra la realtà della morte che continua a colpire i salvati da Cristo e la promessa messianica della vita e della gioia senza fine» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 721). 128 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., pp. 721-722. Sulla vita delle comunità protocristiane, sul suo carattere di angustia e di profonda lacerazione si è soffermato, con la sua proverbiale acutezza fenomenologica, Heidegger, commentando le Lettere di Paolo in M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003. Heidegger analizza alcuni frammenti delle lettere di Paolo proprio in relazione alla temporalità che, nell’esperienza protocristiana, racchiude, a suo avviso, alcuni elementi fondamentali per compren-

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dere la temporalità in generale, che diventerà in seguito il tema dominante di Essere e tempo e, soprattutto, il filo rosso della questione dell’Ereignis. Una delle caratteristiche sottolineate da Heidegger riguardo la vita protocristiana è il suo carattere di revoca, dovuto, appunto, alla consapevolezza di trovarsi nello Zwischen di un tempo nuovo, nel frattempo messianico. Quello che caratterizza il tempo protocristiano, infatti, è proprio l’attesa della parousia che segna la vita con la Stimmung dell’angustia: «Paolo vive in un’angustia particolare che gli è propria in quanto apostolo, ossia nell’attesa del Secondo Avvento del Signore. Questa angustia articola la specifica situazione di Paolo» (M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 138). L’angustia sarebbe provocata dall’evidenza del non-ancora e dal suo contrasto con il già, nonché alla certezza di non avere più davanti a sé tutto il tempo. Con questo stesso tema, come abbiamo già sottolineato, si è, di recente, confrontato, con grande penetrazione ermeneutica, G. Agamben, Il tempo che resta, cit. Per un’interpretazione complessiva della temporalità dell’Ereignis in Heidegger, alla luce dell’esperienza della prima comunità cristiana, cfr. S. Gorgone, Il tempo che viene. Dal kairós all’Ereignis, Guida, Napoli 2005. 129 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 722. 130 Ibidem. Non a caso Heidegger aveva rilevato il carattere di incertezza e insicurezza radicale che segnava la vita protocristiana, leggendo in questa pericolosa sospensione un elemento che le era consustanziale: «Per la vita cristiana non c’è alcuna sicurezza, e la costante insicurezza è anche il tratto caratteristico di tutte “le cose aventi un significato fondamentale” [Grundbedeutendheiten] della vita effettiva. L’insicuro non è casuale, bensì necessario, e questa necessità non è né logica né naturale. Qui, per vederci chiaro, si deve riflettere sulla propria vita e sulla sua attuazione» (M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 146). 131 Cfr. S. Quinzio, Sulla lettera di Giacomo, in Un commento alla Bibbia, cit., pp. 761-766. 132 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 729. 133 Ivi, pp. 729-730. 134 Ivi, p. 730. Paolo Ricca nota come per Quinzio la stessa voluminosità della Bibbia sia dovuta proprio a questi differimenti della salvezza che, lungi dal caratterizzare solo il Nuovo Testamento, riempiono anche le pagine dell’Antico: «Insomma non si arriva mai alla fine, e così tutta la storia della salvezza altro non è che il rinvio della salvezza. Così la Bibbia sarebbe cresciuta a motivo del continuo bisogno che il popolo di Dio ha avuto di spiegare perché la salvezza tanto attesa non fosse mai arrivata. Perciò nella Bibbia si trova sempre più promessa che adempimento» (P. Ricca, Il Commento alla Bibbia di Sergio Quinzio, cit., p. 63). 135 Heidegger accentua nella figura dell’Anticristo introdotta da Paolo un ulteriore inter-rompersi del tempo in tempo della decisione: «Dunque prima deve giungere l’Anticristo, tempo della verifica, della necessità e della decisione suprema, del più drastico aut-aut» (M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 203). È il tempo di una scelta radicale tra il prendere partito per l’antimessia o per il messia. Per nulla facile, anzi, supremo rischio, perché l’Anticristo, e tutto ciò che entra nell’orizzonte anticristico, è simia dei, come anche Quinzio ha sottolineato più volte. In questa decisione ne va il destino singolare di ognuno, che, nella temporalità kairologica dischiusa dall’evento messianico, deve ogni gior-

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no rinnovare la propria scelta. Ma, attraverso questa scelta singolare, si decidono anche le sorti della redenzione finale. 136 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 730. 137 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 99. 138 Ivi, p. 141. 139 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 125. Le indicazioni di Paolo in vista dell’imminente avvento del Regno, condensate nell’hos me, “come non” – «Quelli che hanno moglie siano come non l’avessero; quelli che piangono come non avessero motivo di piangere, […] quelli che usano di questo mondo come quelli che non ne usano» (1 Cor 7, 29-31) – sono l’esempio lampante della lacerazione prodotta dal prolungarsi della vita rispetto all’imminenza del ritorno del Messia. Ma quando i tempi dell’attesa si prolungano a dismisura, come poter ancora sostenere la logica del “come non”? Da qui la protesta di Quinzio: «Ma cosa significa questo nelle lunghe giornate della vita? Ma chi può vivere coerentemente così, per anni e anni di impotenza?» (S. Quinzio, Diario Profetico, cit., p. 125). Su questa questione si rimanda, ancora una volta, alle illuminanti riflessioni di M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. e G. Agamben, Il tempo che resta, cit. 140 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 142. 141 Ivi, p. 99. 142 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 814. Quinzio qui si sofferma su Ap 20, 1-4. 143 Ivi, p. 815. Agamben, riferendosi al medesimo passo della lettera ai Corinti, rileva la forzatura di una eventuale lettura in senso chiliastico, poiché nell’escatologia paolina non ci sarebbe alcun posto per un Regno millenario di Cristo sulla terra, ma, piuttosto, è pensata una sua realizzazione alla fine dei tempi. La comunità primitiva, come sottolinea anche Bultmann, aveva grande consapevolezza di trovarsi in un tra che non era il Regno, ma che non era più semplice non-Regno. La comprensione della questione del Regno, dunque, dipende molto dal significato attribuito al tra: «Ciò significa che le interpretazioni millenaristiche hanno, insieme, torto e ragione. Torto se intendono identificare letteralmente il regno messianico con un certo periodo di tempo cronologico situato fra la parousia e la fine del tempo; ragione, in quanto il tempo messianico in Paolo implica – come tempo operativo – una trasformazione attuale dell’esperienza del tempo, capace di interrompere qui e ora il tempo profano» (G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 72). 144 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 815. 145 Ibidem. 146 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 94. Da questo punto di vista Quinzio propende decisamente per la concezione di Barth di una fede come “altro dal mondo”, ben più sostanziale delle forme umanistiche e storicistiche che, tuttavia, sono risultate vincenti sullo stesso Barth. Come sottolinea Sara De Carli, Quinzio non utilizza il “già e non ancora” come etichetta teologica che, anzi, comprende molte posizioni da lui criticate. «Il “non ancora” di Quinzio non è né l’attesa ebraica né il “già” perfettamente e completamente compiuto: la tensione tra i due momenti torna ad essere l’essenza della questione, non solo come chiave interpretativa, ma proprio come cuore costitutivo del problema

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e luogo della sua risposta» (S. De Carli, L’apologetica di Quinzio. La linea curva dell’orizzonte del senso, cit., p. 123). 147 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 61. 148 Ibidem. Solo nella profonda comprensione di questa nuova prospettiva teoretica, teologica ed esistenziale si può evitare il rischio, ad avviso di Quinzio, di scegliere tra due contrapposte modalità di interpretare la salvezza, comunque parziali: quella di alcuni settari apocalittici e quella dei ‘kierkegaardiani’. La differenza consisterebbe semplicemente nel fatto che i primi «mettono la formula della salvezza che sta per venire al posto di quella, cara alla cristianità kierkegaardiana, della salvezza già venuta» (ibidem). Si offre qui una chiave ermeneutica per leggere la riflessione quinziana in una prospettiva diversa da quella meramente apocalittica con cui di solito la si etichetta. Se è vero che la concezione messianicoapocalittica è il cuore della sua concezione della temporalità e della fede cristiana, è vero pure che la sua riflessione sul tempo intermedio sostanzia il suo pensiero di una grande attenzione alla storia, nel tentativo di ricerca di un senso del vivere nel tra, per quanto sempre proteso verso il compimento apocalittico. La storia non è il nulla, e proprio per questo è necessario riflettere sul tempo intermedio a livello teoretico, etico e anche, per quanto in senso del tutto particolare, politico. 149 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 55. 150 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 164. 151 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 141. 152 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 108. Sulla questione del mistero d’iniquità Quinzio torna a riflettere nella sua ultima opera, S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., pp. 53-87, oltre che, in modo più rapsodico, in quasi tutta la sua produzione, a testimonianza della centralità, nel suo pensiero, di questa questione e della sua costante fedeltà ad essa. 153 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 108. 154 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 38. 155 Ibidem. 156 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 95. 157 Ibidem. 158 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 82. 159 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., pp. 61-62. Su questo tema ha riflettuto in particolare D. Garota, L’onnipotenza povera di Dio, Paoline, Milano 2001. 160 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 131. 161 Ivi, p. 127. 162 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 175. Questa partecipazione degli uomini nel tessere il tempo intermedio è sottolineata anche da M. Iiritano, Apocalisse del nostro tempo, in AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., pp. 46-47. 163 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 72. 164 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 39. 165 «Verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri hanno chiuso gli occhi tutto è rimasto come al principio della creazione» (2 Pt 3, 3-4). La risposta che per Dio un giorno dell’uomo è

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come mille anni e mille anni come un giorno (2 Pt 3, 8), non consola e non spiega. E del resto basta notare, come fa Quinzio, che anche la Seconda Lettera di Pietro era destinata alla generazione a lui contemporanea e parlava di eventi che dovevano compiersi nel breve periodo: «Si è infatti negli “ultimi giorni” (3, 3), i lettori della lettera […] sono invitati ad attendere la venuta del giorno di Dio (2 Pt 3, 12), e viene loro raccomandato: “Nell’attesa di questi eventi, cercate di essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2 Pt 3, 14)» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 37). Argomenti ripresi in S. Quinzio, La fede sepolta, cit., pp. 141-142. 166 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 39. 167 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 84.

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Capitolo terzo

La giudaizzazione del mondo moderno

1. Genealogia del Moderno Nel 1938 Heidegger aveva già assunto la riflessione sul Moderno come momento essenziale di comprensione, non fenomenologica ma ontologica, del tempo presente1. A suo avviso, per comprendere l’essenza del Moderno, non basta descriverne i tratti caratteristici, ma occorre cercare il principio in base al quale avviene ogni evento che in esso si dà. L’interrogazione di Quinzio, pur essendo centrata su un’analisi fenomenologica del Moderno e delle sue forze essenziali, non manca di misurarsi con un tentativo di comprensione ontologica, scandagliandone non solo le radici in senso genealogico, ma ponendo un certo concetto di verità alla base di tutte le manifestazioni e trasformazioni che nel mondo moderno e ipermoderno si danno2. Per comprendere un’epoca, infatti, come suggeriva Heidegger, occorre coglierne l’essenza metafisica a partire dalla riflessione sulla «verità dell’essere in essa dominante. Solo così infatti si può attingere ciò che è più degno di esser cercato, ciò che sorregge e connette l’agire volto all’avvenire al di sopra della semplice presenza in atto, e che lascia aver luogo la trasformazione dell’uomo secondo una necessità proveniente dall’essere stesso»3. Il carattere pre-veggente, e non semplicemente analitico, del pensiero viene auspicato da Heidegger e condiviso da Quinzio che usa il suo dire profetante per rilanciare le questioni essenziali già poste da pensatori come Nietzsche e Heidegger – nichilismo, tecno-scienza, secolarizzazione – continuando a riflettervi da un suo proprio orizzonte ermeneutico. Quinzio è consapevole che il dire qualcosa sul Moderno implica un procedere difficile nel fitto intrico delle prospettive di riflessione accumulatesi negli anni; tuttavia egli compie una scelta ben definita, dettata, si direbbe, dal suo stesso Dasein: 169

nato in Occidente, vissuto da cristiano, ritiene di non poter scrutare il mondo moderno se non dalla prospettiva offertagli proprio da tali fortuite, ma anche ineludibili, circostanze. Una prospettiva, dunque, che gli è intrinseca e dalla quale riesce, in effetti, a gettare sul Moderno uno sguardo acuto e, per colmo di pietas, spietato. Se si volesse indicare, allora, un criterio comune a incertezze e provocazioni4 che Quinzio propone sul Moderno, esso può essere trovato, come lui stesso afferma, proprio nella prospettiva da cui esse sono affrontate: La cosa più evidente è che si tratta della fede cristiana, o, si dovrebbe dire, piuttosto, ebraico-cristiana, dal momento che il cristianesimo autentico si fonda inseparabilmente sulle Scritture ebraiche […] come su quelle greco-romane […]. Malgrado l’ampiezza dell’orizzonte, la prospettiva resta occidentale, non certo nel senso di un occidentalismo orgoglioso di sé che si ritiene in diritto di giudicare dall’alto le altre culture, ma nel senso che la nostra fondamentale esperienza di vita e di pensiero è occidentale, e occidentale anzitutto in quanto ebraico-cristiana5.

Questa scelta prospettica si rivela, in ultima istanza, la più convincente per lo stesso Quinzio, che non la metterà mai in discussione, per lo meno come chiave ermeneutica; essa è utilizzata per scandagliare le ombre più recondite del tramonto dell’Occidente, proprio perché la fede ebraico-cristiana è ritenuta l’unica chiave di lettura possibile per seguire le tracce della “storia involutiva”, sulle cui frange, a suo avviso, ci troviamo a soggiornare. Non si tratta, infatti, di dare risalto a vaghe sfumature che l’ebraismo e il cristianesimo avrebbero impresso sul Moderno, ma di seguire gli umori profondi della loro storia, coincidente, in ultima analisi, con la storia stessa dell’Occidente: «Il pensiero ebraico, “religioso” o “laico”, direttamente o attraverso i fermenti sparsi ovunque dalla sua “eresia cristiana”, ha avuto un ruolo assolutamente decisivo nella formazione e nello sviluppo della modernità, fino ai suoi esiti contemporanei»6. La riflessione quinziana non prende in considerazione la possibilità di interpretare la storia dell’Occidente esclusivamente a partire da teorie che, pur in consonanza con la sua tesi di una storia involutiva, come quelle di Spengler o di Guénon7, 170

non gli sembrano consonanti con la propria decisione di muoversi nell’ambito dell’orizzonte ebraico-cristiano, il quale rappresenterebbe un unicum che va di pari passo con l’irripetibile singolarità del mondo moderno – e quando Quinzio parla di mondo moderno intende sempre occidentale o occidentalizzato – non assimilabile a nessun altra esperienza epocale: «L’unicità del mondo moderno è parallela all’unicità della tradizione monoteistica mediterranea, e prelude ad uno sbocco finale che dovrà avere analoghe caratteristiche di unicità»8. Le categorie bibliche e le loro trasformazioni nei secoli si differenziano profondamente dalle radici greche, che, pure, sono entrate di diritto nella configurazione di un certo tipo di cristianesimo, allontanandolo, non a caso, dall’alveo ebraico da cui aveva preso le mosse. Esse vengono proposte come criterio di interpretazione del Moderno allo stesso titolo, se non in misura maggiore, di quelle greche: «Le categorie bibliche ed ebraiche offrono il criterio di interpretazione della vicenda dell’Occidente, che altri hanno interpretato invece secondo le categorie del pensiero greco»9. Con ciò Quinzio non nega, certamente, l’importanza del pensiero greco, specifica e imprescindibile, per comprendere la modernità; quel che, però, gli preme sottolineare è la priorità, quasi ontologica, dell’orizzonte categoriale ebraico rispetto a quello greco, intervenuto solo in un secondo tempo, non cancellando, bensì intrecciandosi e sovrapponendosi, fino ad occultare quella matrice ebraica dalla straordinaria potenza ideativa che, a suo avviso, ha, di fatto, predeterminato destinalmente l’Occidente, acquisendo una portata inaudita proprio all’interno del cristianesimo, spesso a sua stessa insaputa, o, meglio, per una sorta di rimozione della propria origine. Dunque, se è vero, ad esempio, che nel Medioevo ha preso corpo, nella definizione del cristianesimo, un vero e proprio sincretismo tra ebraicità e grecità – cristianesimo che, sottolinea Quinzio, parlava il latino e assorbiva il diritto di Roma, fondando, però, una teologia razionale a partire dai greci e un monoteismo etico a partire dagli ebrei –, nella modernità si farebbero strada, in modo inequivocabile, le categorie propriamente ebraiche, tanto che, con espressione mutuata da Marx, Quinzio par171

la di giudaizzazione del mondo10 come paradigma del proteiforme trasformarsi del mondo moderno: «La giudaizzazione del mondo, che culmina nel nostro secolo, consiste nell’affermarsi delle categorie ebraiche, le quali […] restano pur sempre riconoscibili come filiazioni o metamorfosi di una vocazione risalente, nella sua origine, alla rivelazione biblica»11. La posizione di primo piano assunta da tali categorie sarebbe verificabile in ogni ambito del mondo moderno, che apparirebbe, in effetti, dominato da un profilo idealtipico molto più biblico che greco, come dimostrerebbero anche soltanto alcune tra le molteplici categorie impostesi in luogo delle corrispondenti idee greche: La speranza della salvezza e non il fato, lo storico e non l’eterno, il dinamico e non lo statico, il particolare e non l’universale, il concreto e non il simbolico, il terrestre e non l’iperuranico ecc. […] Heine, Marx, Freud, Kafka, Proust, Einstein, Wittgenstein, Schönberg ecc., non sono le radici del moderno, sono il moderno, l’evidente trionfo in esso delle “categorie ebraiche”12.

Speranza di salvezza, storicità, dinamicità, particolarità, concretezza – frutto di un movimento che sembrerebbe avere, come esiti indisgiungibili, la precarietà e la profanizzazione della storia – non si possono non riconoscere come fattori costitutivi della modernità e, ancor più, della contemporaneità. Queste categorie ben si sposano con una forma di pensiero che, con la sua inquieta e costante apertura verso nuove frontiere ermeneutiche sulla Scrittura e su ogni aspetto della vita umana, fa dell’irriducibilità a sistema un suo assunto primario e inconfutabile, tanto da divenire segno di riconoscimento del pensiero propriamente ebraico: «È la sua imprendibilità a renderlo inconfondibile. Sono gli ebrei, i quali amano l’autoironia, a dire che dove si trovano due di loro si formano subito tre partiti»13. L’erranza geografica degli ebrei potrebbe, allora, rappresentare l’incarnazione di un intrinseco nomadismo teorico, un’inquietudine parossistica, insostenibile, che porta l’ebreo a trovarsi quasi più a suo agio nelle contraddizioni14. Luogo di un’alterità innanzitutto rispetto a se stesso, l’ebreo può divenire onda sismica della storia, catalizzatore di energie telluriche pron172

te a incanalarsi su per i crateri aperti dalle laceranti domande che furono già bibliche: La presenza ebraica risulterà, così, assai rilevante in ogni impresa di rivolgimento storico […]. Nella forza critica dell’intellettuale ebreo vibra ancora qualcosa dell’antica tradizione antiidolatrica del suo popolo. La fondamentale rivoluzione, quella alla quale ancora apparteniamo e nella quale consiste il passaggio dall’antico al moderno, è la rivoluzione ebraica, che ci ha portato dalla sacralità cosmica alla profanità della storia15.

La vocazione antiidolatrica del popolo d’Israele sarebbe, dunque, conseguenza del concetto di santità legato a Dio e al suo nome. Dal particolare rapporto con il santo deriva la radicale messa in questione del concetto di sacro: poiché la santità di Dio, nella sua separatezza e assoluta trascendenza, rappresenta il punto focale verso cui la tensione del popolo eletto dovrebbe concentrarsi, ogni altro culto particolare, legato alla sacralità – di un luogo, di un tempo, di un dio – come fondamento della religione diviene insensato, dato che il sacro si rivela, comunque, altro dal santo, costituendone, in fin dei conti, una blasfema idolatria. Quello che potrebbe essere definito un vero e proprio attacco al sacro è, in effetti, parte integrante della «rivoluzione ebraica», rivendicato, anzi, come essenziale da pensatori ebrei del calibro di Lévinas16. Nel suo movimento originario, però, l’attacco al sacro non è, con tutta evidenza, una battaglia per il profano, poiché, come si è visto, l’altro termine in gioco è il santo: in virtù della santità di Dio e del comando di imitarla (Lv 19, 1-2), più che un’elevazione continua dell’uomo verso altezze celesti si verifica una onnipervasiva discesa della santità in ogni aspetto della vita, come dimostrano le mitzwòth, le benedizioni, pronunciate dall’ebreo in ogni occasione, anche la più comune, della vita quotidiana. Gli sforzi dell’uomo nella sua vita quotidiana assumono, dunque, dignità in ogni loro piega, al punto che ogni momento viene santificato. Il sacro, come ha sottolineato ancora Lévinas17, rinvia piuttosto al magico, all’idolatria del luogo, là dove, invece, la santità di Dio e la santità dell’uomo e del mondo da lui abitato non con173

templano luoghi o, più ancora, tempi profani; e, dunque, neppure luoghi o tempi sacri. L’orlo del precipizio su cui quest’idea pericolosamente sporge ha, però, conseguenze che Quinzio non manca di rilevare, poiché, con tutta evidenza, se non vi è alcuna differenza tra l’essere occupati nelle più comuni e quotidiane attività e le azioni liturgiche o di meditazione e preghiera, il rischio di una confusione non sarà più tra sacro e santo, ma tra santo e profano: «Questa totale sacralizzazione di ogni aspetto della vita finisce per rivelarsi, al tempo stesso, una totale profanizzazione, dal momento che ogni separazione tra sacro e profano viene, in definitiva, a cadere»18. Poiché, secondo Quinzio, una reale e totale trasformazione del profano nel santo può avvenire solo in un’ottica messianica, l’alternativa rimanente è quella di una radicale deriva del santo nel profano: «Il passaggio dal “sacro” al “profano” è il più grande fra tutti i fenomeni storici. Ma dire “il più grandioso” non significa dire “il più felice” […]. Vedrei in esso al contrario, […] un processo profondamente segnato dalla tragicità»19. L’accusa di Quinzio è rivolta, in particolare, alla corrente predominante nell’ebraismo ufficiale, cioè quella rabbinica, che, a suo avviso, avrebbe messo del tutto in secondo piano le attese messianiche, riducendo la religione a mera ortoprassi: «Mettere in disparte i profeti per far spiccare soltanto l’eccellenza dell’osservanza delle miswot identificandosi esclusivamente con il rabbinismo, relegare alla periferia o decisamente estromettere il messianismo e l’attesa apocalittica […] significa compiere un’operazione riduttiva nei confronti dello stesso ebraismo»20. È nella predicazione di Paolo che si annodarono, all’inizio, in un complesso intreccio, le due radici del Moderno, o, meglio, prese l’avvio la strada dell’imbastardimento della radice ebraica nell’innesto cristiano, che su di essa è cresciuto, proprio per opera della precocissima ellenizzazione. La convinzione di Quinzio è, tuttavia, che, nonostante la forte influenza delle categorie greche sull’opera di Paolo, ergo sulla storia del cristianesimo tout court, ciò che di ellenico è stato assimilato, lo è stato comunque a partire dall’originario modello ebraico, tanto 174

che le Lettere ai Tessalonicesi, «le più aspramente antigiudaiche, sono anche le più profondamente ebraiche»21. Secondo Quinzio, anche se nel Medioevo si registra la prevalenza delle categorie greche su quelle ebraiche, o meglio, una loro con-fusione, resa accettabile e flessibile dal Sacro Romano Impero, tuttavia, già in Tommaso si riscontrerebbe un vero e proprio passaggio dall’idealismo greco al realismo cristiano, ben al di là del suo aristotelismo, poiché in Tommaso la ragione sarebbe utilizzata in funzione strumentale, per dimostrare la veridicità della fede cristiana: «La ragione obbedisce ormai all’intenzione di dar conto di tutto, di stringere in conclusiva certezza tutta la realtà, secondo lo spirito che trionferà poi nei grandi sistemi filosofici moderni»22. Mentre i filosofi antichi, infatti, erano volti alla contemplazione delle verità eterne, convinti della labilità di tutti gli eventi della storia, i filosofi cristiani considereranno la creazione interamente rivolta alla salvezza della vita dell’uomo: «Il bene supremo non è più la conoscenza ma la vita, non importa l’eterno ma il futuro inaugurato dalla prima venuta di Cristo»23. Questi nuovi filosofi trovano una loro collocazione istituzionale in funzione della difesa di tale verità precostituita. Sembra, quindi, che la figura dell’intellettuale nasca anche prima di Tommaso, con Abelardo, considerato da Quinzio il primo intellettuale moderno. Di quest’ultimo, infatti, condividerebbe «la vita agitata e drammatica, peregrinazioni e polemiche, acuto senso critico, egocentrica debolezza, autocompiacimento, affermazioni ardite, paradossali, scandalose. […] Nella sensibilità di Abelardo “ragione” e “fede” sono già divise, e la ragione diventa il nuovo criterio per decidere»24. Una ragione orientata sempre più alla terrestrità, che dello schema greco mantiene il rigore e il metodo, attraverso la quale collaborare all’opera di Dio, finché non prenderà piede l’immagine di un uomo dotato di capacità di autonoma creatività e volontà di possesso, ormai divenuto origine e scopo del domandare: «È il trionfo della prospettiva dinamica e salvifica cristiana»25. Abbracciando con un rapido sguardo la modernità, Quinzio afferma che, però, sarà solo con Marx che la radice ebraico-cristiana, operante in modo sotterraneo nel pen175

siero occidentale, ritornerà esplicitamente alla superficie, con la dissoluzione dell’idea stessa di filosofia, la quale non avrebbe più dovuto fornire ulteriori interpretazioni del mondo, ma trasformarlo: «I contenuti salvifici ebraico-cristiani che erano stati accolti da Tommaso all’interno dello schema concettuale classico, metafisico, eternizzante, diventano espliciti: la redenzione dell’uomo è la meta della storia»26. In sostanza, nonostante nel cristianesimo si sia affermata la corrente ellenizzante piuttosto che quella giudaizzante, una sorta di indelebilità delle categorie ebraiche permette loro di influenzarlo, comunque e profondamente, soprattutto nella sua versione moderna e occidentale. Ovviamente tale influenza, risentendo delle categorie greche, con cui quelle ebraiche sono entrate in contatto, si rivolge non più verso il Regno, ma verso il progresso storico o le rivoluzioni mondane. Ciò accade proprio perché le categorie greche hanno costruito i ponti – tanto criticati da Quinzio – verso la spiritualizzazione del Regno, lasciando il mondo alla mercé delle utopie terrene, in cui l’attenzione ebraica alla terrestrità diverrà sua assoluta esaltazione, come accade perfino nella stessa Chiesa, la cui forma istituzionalizzata soffoca ogni anelito messianico: La storia della chiesa ha dimostrato che il pericolo nel quale la chiesa ha inciampato ed è effettivamente caduta non era una qualche forma di ritorno all’ebraismo, ma la paganizzazione. […] Il fallimento storico della chiesa non è il fallimento di pochi o molti uomini della chiesa, che sarebbe un modesto fallimento: è la negazione e il capovolgimento delle promesse del Signore, è il fallimento dell’opera della redenzione27.

Alle radici del Moderno, dunque, si colloca un doppio fallimento: da una parte quello ebraico, che dall’attesa messianica ripiega verso l’ortoprassi rabbinica, secolarizzandosi; dall’altra quello cristiano che, lungi dal restare aderente alle promesse messianiche, segue l’ebraismo nell’istituzionalizzazione, e, soprattutto, nella secolarizzazione. Per questa via ebraismo e cristianesimo si ritroveranno, stravolti, nel cuore della modernità. Di fatto, poiché i semi ebraici sono stati sparsi nel 176

mondo attraverso “l’eresia” cristiana, si può dire che «dalla cristianità è stata generata, per via della secolarizzazione, anche la modernità, che nasce in apparente antitesi con essa»28. Quinzio intende, con il termine secolarizzazione, la perdita di specificità messianica del cristianesimo e il suo con-fondersi con categorie mondane: «Vedrei la società secolarizzata come regnum hominis, scimmia dell’escatologico regno di Dio […]. Ma attraverso questa esperienza, che è, osiamo dire la parola, anticristica, il moderno precipita nella solitudine, e forse nella morte»29. La questione è posta, però, non in termini meramente storiografici, ma ontologici, sia rispetto al cristianesimo in sé, che al mondo moderno, senza trascurare gli esiti teologico-politici e antropologico-culturali. L’analisi di Quinzio, fondata su tale convinzione, vuole soprattutto mostrare in base a quali elementi la secolarizzazione, iniziata dentro la Chiesa, sia diventata parte integrante del destino che condanna l’Occidente al suo tramonto. Non si sbaglia, forse, se, usando la terminologia jüngeriana, si identifica in un’embrionale mobilitazione totale30 l’elemento che il cristianesimo avrebbe trasmesso all’alba dell’Occidente: Lutero e Sant’Ignazio di Loyola sono considerati, nella riflessione quinziana, precursori proprio di un certo tipo di attivismo produttivistico, che dal piano spirituale si sarebbe riversato, più o meno immediatamente, sul piano pratico. A suo avviso gli Esercizi spirituali di Ignazio, con la loro maniacale definizione di regole minuziose, senza alcuno spazio, tranne che in eccezioni sempre ben controllate, all’iniziativa del singolo, giungono a una sorta di “aritmetica dell’anima” spinta fin quasi alla nevrosi: «l’intenzionale difesa e riaffermazione della religione tradizionale, del passato, finiscono paradossalmente per generare il Moderno, e addirittura il Moderno nei suoi aspetti più radicali»31. Apparentemente sarebbe un’eterogenesi dei fini a condurre verso la deriva attivistica, ma, in realtà, nelle pagine quinziane traspare la convinzione di una intrinseca modernità degli Esercizi proprio in base al loro mobilitare totalmente le energie dell’essere umano, poiché costituiscono già, come acutamente afferma Quinzio, «un “meccanismo” che in quanto tale antici177

pa l’orizzonte meccanicistico della scienza del secolo successivo»32. Da un lato essi insegnano l’obbedienza, e, dall’altro, mediante le gerarchie ecclesiastiche, implicano la possibilità di sorvegliare strettamente l’uomo nei suoi comportamenti: Gli Esercizi sono moderni anzitutto nel loro carattere dinamico, costruttivo, pragmatico: si tratta di cose da fare esercitando al massimo tutte le proprie facoltà, per giungere a concrete scelte di vita, qui e ora. Il totalitarismo moderno può ben riconoscersi nella famosa affermazione: “per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica”. […] D’altra parte anche la tolleranza, la cui affermazione, come mostra il moderno, può ben convivere con il totalitarismo, può riconoscersi in un’altra affermazione del santo basco: che ogni buon cristiano debba essere pronto più a salvare la parola del prossimo che a condannarla33.

Una mobilitazione, quindi, che, partendo da una ferrea disciplina imposta al singolo, possa giungere a governare il gregge dei fedeli34 e a plasmare un “animale gregario” adatto all’obbedienza, bisognoso di un pastore che lo guidi e indirizzi, un tipo d’uomo, dunque, opposto all’homo faber fortunae suae dell’umanesimo. L’elemento portante del Moderno sarebbe proprio il «carattere dinamico, costruttivo e pragmatico» che verrebbe impresso al fare trasformandolo in quel lavoro che diverrà l’idolo delle masse novecentesche35. Un carattere ben esplicitato dal Beruf dei protestanti, in cui vocazione e professione si identificano; anzi, sarebbe stato proprio Lutero ad aver condotto alle sue estreme conseguenze una positiva valutazione del lavoro dell’uomo: «All’inizio del mondo moderno, con l’umanesimo e col rinascimento, la valutazione del lavoro è ancora negativa. Sarà ancora sul terreno cristiano che si verificheranno le novità decisive, in direzione di quel valore centrale che il lavoro verrà assumendo nei secoli moderni»36. Come nell’ebraismo, la positiva valutazione che Lutero dà dell’ambito mondano, secondo Quinzio ha lentamente cancellato ogni distinzione tra sacro e profano, conducendo, in definitiva, a una priorità del profano, per via della sola fides capace di salvare l’uomo: «nel mondo moderno scompare dunque, per que178

sta via teologica, ogni distinzione qualitativa tra le opere dell’uomo […]. Vocazione religiosa e ruolo professionale vengono a coincidere, perché Dio chiama ciascuno a esercitare un determinato ruolo nel mondo»37. Un passaggio ineludibile di una mobilitazione totale per il Regno che diventerà mobilitazione totale per il mondo, con il trasformarsi idolatrico della vocazione religiosa in quella professionale e nell’apprezzamento dei successi terreni come postulato di un compito assegnato da Dio, senza nessuna memoria del rifiuto evangelico di ogni potere mondano. Anzi, Calvino imporrà un’ulteriore svolta in questa direzione, radicalizzando la spinta attivistica e assolutizzando l’importanza della dinamicità e dell’operativismo, «interpretando Beruf, piuttosto che come uno stato, come l’obbligo di porre in opera tutti i propri talenti e tutte le proprie possibilità in vista del bene comune»38. La ribalta del lavoro, appoggiata e promossa dal cristianesimo, diventa l’impronta immanente del principio metafisico della mobilitazione totale che forgerà il mondo moderno: «La storia delle concezioni del lavoro […], è una sola cosa con la storia del cristianesimo e, insieme, con la storia della modernità»39. L’analisi quinziana del lavoro non è, però, di tipo socio-antropologico, ma vuole, attraverso la sua genealogia, cogliere il presupposto metafisico in base al quale si sono verificati i suoi slittamenti semantici in seno al cristianesimo, rintracciabile nel processo di secolarizzazione delle promesse messianiche. Ciò che interessa Quinzio, inoltre, riguarda l’oblio o il rinnegamento, da parte ebraico-cristiana, della complicità nei confronti di una modernità che, lungi dall’essere altro rispetto alla storia delle due religioni, le fa riscoprire in costante connivenza con le derive produttivistiche e con l’iperattivismo imperante: «Dire che il mondo moderno si sviluppa secondo categorie ebraicocristiane non vuol certo dire che è uno svolgimento omogeneo e adeguato della fede cristiana. Anzi, ne è lo stravolgimento»40. Il mondo moderno, al contrario di quello antico che era a-cristiano, è certamente frutto dello sviluppo e della diffusione di tale religione, nonché, appunto, del suo processo di secolarizzazione: «il mondo moderno è, semmai, post-cristiano e 179

anti-cristiano, nel senso che sta in luogo del cristianesimo, occupa il suo posto, risponde in qualche modo alle aspettative di salvezza cristiana storicamente deluse»41. Tale stravolgimento è stato, si direbbe, inevitabile, quasi un destino ineluttabile causato dall’incredibile ritardo nella realizzazione delle promesse messianiche. Tuttavia, il mancato riconoscimento di questo esito tragico, è, per Quinzio, frutto di una mistificazione volta a coprire ciò che di anticristico vi sarebbe tanto nel mondo moderno quanto nella stessa cristianità. L’anticristicità diviene, pertanto, il carattere dominante del Moderno: L’anticristicità non è un tralignamento morale, ma qualcosa d’infinitamente peggiore che trascina poi con sé anche il tralignamento morale: è il capovolgimento della fede cristiana operato dall’interno e in fondo – come ha visto Dostoevskij nell’inquisitore – con la passabilmente buona intenzione di consentire un rapporto con il mondo e l’uomo rimasti in realtà irredenti42.

La condanna di Quinzio non ricade, dunque, soltanto sul processo che ha portato al Moderno, ma, soprattutto, sull’inconsapevolezza cristiana dell’essere parte fondamentale del mistero d’iniquità che vela il mondo e la sua storia: «Poiché il vero regno di Dio non è venuto, e dal momento che il mondo tuttavia è stato cristianizzato, la sua forma categoriale è necessariamente l’anticristicità del regno falso»43. Questa è la certezza che guida le dure parole di Quinzio nei confronti del cristianesimo e della Chiesa, prima ancora che la condanna senza remissione di tutto il Moderno. Nel tentativo di mobilitare la totalità delle sue energie per convertire il mondo alla speranza cristiana, la Chiesa è stata risucchiata dalle dinamiche mondane, anche a causa della durata che si è sostituita all’imminenza dell’evento del Regno. D’altra parte il mondo, come aveva già sottolineato anche Heidegger, è stato a sua volta permeato dalle idee di fondo del cristianesimo: Si è formato un gigantesco ibrido. Fin dove è giunto il cristianesimo è giunto in qualche modo il bisogno di salvare la vita dell’uomo, d’imporre alla storia il senso di un percorso verso una condizione redenta. Così dopo la lunga incubazione medievale

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sono nate la scienza, l’idea di progresso, la rivoluzione sociale. E il moderno Occidente in tal modo cristianizzato ha vinto poi il mondo, imponendogli con ogni mezzo il cristianesimo nella sua forma definitivamente anticristica, separato cioè dalla fede che in Gesù si manifesta la pietà e la tenerezza di Dio44.

Questo gigantesco ibrido possiede, come carattere intrinseco, l’essere, ormai, totalmente avulso dall’originaria fede messianica e proiettato in una dimensione in cui la prospettiva cronologica soppianta del tutto quella cairologica; in cui la storia, come si è visto, non è più considerata escatologicamente nella sua fine, ma teleologicamente nel suo fine, proiettata verso il raggiungimento mondano di un benessere solo terreno. A questa storia un cristiano non dovrebbe aderire, in quanto frutto dell’ideologia del progresso scientifico, mentre dovrebbe essere interessato, unicamente, alla storia che tende all’instaurazione del Regno, la quale, però, è nettamente in contrasto con quella del mondo: «Quando appare quella strana e inconcepibile cosa che è un “cristiano moderno” (una contraddizione in termini perché l’uomo moderno è appunto il portatore del cristianesimo stravolto, si chiami cristiano o no), egli, quasi inconsciamente vive nel conflitto di due storie»45. La vera novità del Moderno, cioè il suo essere contraffazione, simia, delle promesse ebraico-cristiane, è, per Quinzio, la radice della sua anticristicità, dato che il progresso scientifico si presenta come surrogato della promessa di salvezza divina e le rivoluzioni sociali diventano surrogati della instaurazione del Regno, dettate dallo scopo di realizzare un mondo migliore. In questa ricerca di redenzione mondana la potenza del male opera nascostamente, come, ancora, aveva previsto l’Apocalisse, identificando nel mondo la sede privilegiata dell’opera di Satana: «La modernità è lo pseudo-Cristo, l’Anticristo. La sua grandezza nei confronti di tutto ciò che l’ha preceduto sta in questo. La sua erroneità, la sua malignità, non sta in nulla di etico, ma nel suo essere scimmia di Dio, nel tentare l’imitazione della potenza salvifica di Dio con strumenti soltanto umani»46. Si mostra, dunque, tutta l’ambiguità della potenza umana che vuole, non distruggere, ma salvare il mondo al posto di Dio o nel suo 181

nome. L’avvento dell’Anticristo appare, perciò, ad avviso di Quinzio, non immediatamente deleterio e distruttivo, ma ammantato di buone intenzioni, di valori, anzi, di valori supremamente alti e condivisibili: «L’anticristicità è altamente etica, coˇ me si legge in Dostoevskij, in Solov’ëv, in Sestov, e in altri autori russi, gli unici che abbiano usato questa chiave di lettura»47. Quale uomo è capace di far fronte alla mobilitazione totale del Moderno e alla suprema ambiguità dell’etica anticristica? Quinzio è convinto, oltre che dell’unicità rappresentata dal mondo moderno, dell’assoluta novitas costituita dall’uomo moderno, non solo in quanto portatore di un nuovo tipo di soggettività, ma, anche, di una nuova struttura ontologica, derivata dal mutato concetto di verità impostosi nella modernità: un essere umano che opera, che produce, che progetta persino la propria salvezza. Se ciò è il frutto di un processo di liberazione, rispetto ai vincoli del mondo medievale, d’altra parte Quinzio non manca di sottolineare anche gli aspetti forse ancora più cogenti di questa nuova libertà conquistata: «Quando nasce, il mondo moderno ha già due anime: quella ‘libertaria’ che rifiuta l’ormai esangue e solo intrinseco monolitismo del mondo medievale e quella più profonda, ‘autoritaria’, che esige una nuova, unica verità. Senza un’anima come questa non sarebbe nata una ‘civiltà’»48. La modernità rivelerebbe, dunque, i suoi tratti oscurantisti proprio nel suo abbandonarsi, quasi mistico, a una verità apodittica, benché non più rivelata. Un mondo nuovo49, che sia a misura dei suoi disciplinati abitanti, le cui velleità libertarie si piegano di fronte all’evidenza della nuova verità. Quest’uomo nuovo, accecato dai “miracoli” della tecnica, non comprende più il linguaggio della religione ebraico-cristiana di cui, pure, è figlio, ma solo quello di quei nuovi sacerdoti che sono gli scienziati50; soprattutto non comprende il rapporto con un Dio, con un al di là, non sperimentabili e non provabili, eppure giudicati, spesso, come favole, insieme a tutto ciò che non rientra nei parametri occidentali del fare orientato al progresso e alla produzione: Il coscientissimo ed evolutissimo “uomo moderno” (una specie nuova, con un nome apposito), uscito dalla minore età, liberatosi dalle tenebre dell’ignoranza e raggiunta finalmente una

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chiara visione e una razionale spiegazione della realtà, eccolo di nuovo, come i suoi lontani progenitori, prostrato in adorazione davanti a ciò che non capisce. […] Lontanissimo dal sospettare che anche la scienza ha in sé la sua notte e le sue contraddizioni, in nome della scienza che non capisce, condanna molte altre cose che capisce ancora meno51.

La caratteristica fondamentale di quest’uomo nuovo è, quindi, il bisogno profondo di avere una verità, per la quale si possa combattere una battaglia etica e mondiale, condivisa dalla maggior parte e, infine, auspicabilmente, da tutti gli esseri umani; non importa se molti, di fatto, resteranno nel crepuscolo di una conoscenza labile e superficiale, posseduta nella sua completezza solo da pochissimi. Questi pochi, infatti, uomini nuovi e moderni, ovviamente occidentali, «assolutizzando se stessi, creano e impongono ‘una’ nuova verità»52. Nell’epoca della strenua difesa del pluralismo tornerebbe, quindi, l’esigenza parmenidea dell’uno-totale: ‘una’ verità che sia condivisa, o imposta – non importa – è necessaria per gli abitanti di un mondo in cui l’insecuritas domina incontrastata, nonostante i progressi prodigiosi della civiltà occidentale. Proprio questa esigenza di imporre cattolicamente, cioè universalmente, una verità, è radicalmente cristiana, nella forma, però, tipica del Moderno, della sua contraffazione anticristica. Una contraffazione che non poteva non aver luogo dal momento che il cristianesimo si è imposto nel mondo: «Poiché nella storia del mondo la verità cristiana non può affermarsi se non contraddicendosi nella sua forma anticristica, l’affermazione teandrica è diventata, già con il “filosofo cristiano” Hegel, questa: nella storia del mondo trionfa lo Spirito, tutto è nelle nostre mani, noi stessi siamo Dio (2 Pt 1, 4; Gn 3, 5)»53. Il processo di affermazione dell’uomo nuovo della modernità, ad avviso di Quinzio, ha, però, radici ben anteriori alla filosofia di Hegel che, anzi, è potuto arrivare alle sue conclusioni solo perché preceduto da un movimento di pensiero portatore di un’idea di uomo in mutazione continua, nella direzione di un accrescimento esponenziale dell’importanza della soggettività e della sua dinamicità: «L’uomo in itinere dei france183

scani, che per la sua condizione viene anteposto all’uomo paradisiaco immerso nella visione beatifica di Dio, è già l’uomo moderno»54, la cui figura culminerà con Cartesio, nel pensiero del quale «attraverso il “cogito”, l’uomo si avvia a diventare “maître et possesseur de la nature”»55. Il soggetto cartesiano rappresenterebbe, in realtà, un’imitazione degradata dell’uomo redento così com’era prefigurato dalle promesse messianiche; questi, liberato da vincoli diacronici e diatopici e dalla concretezza del mondo – la dura realtà, che limita e pone ostacoli – riversa la sua speranza di salvezza nella ragione, apparentemente dagli illimitati poteri. Come dèi, come esseri già redenti, questi uomini nuovi e pseudo-messianici, interessati alla salute – la salus, l’antica salvezza – la vogliono per subito e nel subito, nell’ora, hanno bisogno di sentirsi bene, confermati dalla nuova verità incondizionata, in una contemporaneità istantanea: «L’uomo contemporaneo esige il subito e rifiuta il dopo: lo manifesta col tendere a intensificare le esperienze e le sensazioni concentrandole nell’istante – successo, soddisfazione sessuale, velocità, droga – e subendo perciò l’attrazione del programma neo-capitalistico di un benessere totale immediato e incondizionato»56. Anche questo vivere in una, se così si può dire, nevrosi escatologica, proiettata sulla consumazione istantanea di tutto, appartiene alla contraffazione anticristica della pienezza messianica. Se, per Quinzio, la durata è male, in quanto allontana dall’avvento del Regno, per l’uomo moderno qualsiasi cosa richieda una gradualità per essere raggiunta diviene segno di un’intollerabile impotenza del soggetto, consumatore e divoratore impaziente di tutto, nell’immediatezza di ciò che, essendo presente, è a disposizione, dato per essere utilizzato: «il futuro è in crisi, appare come un vuoto, un incubo o una maledizione. L’antico contadino che serit arbores qui altero saeclo prosint è l’immagine antipodale dell’uomo d’oggi»57. L’uomo moderno, colmo della fretta che solitamente caratterizza i giovani, è abitato, in realtà, da una vecchiezza che ne ha distrutto la capacità di meraviglia, insieme a quella di attendere una novitas dirompente che scardini le strutture delle certezze quotidianamente rinsaldate: «è invecchiato l’uomo, che 184

ha perduto l’infantile mobilità, la giovanile capacità di ridere e di piangere, di sognare, di entusiasmarsi»58. L’uomo moderno è, dunque, paradossalmente, un uomo vecchio, bisognoso di emozionarsi per sentirsi vivo, proprio nel momento in cui ha eretto a supremo ideale l’eterna giovinezza, grazie alla tecnica che gli fornisce le possibilità di sconfiggere il tempo; riecheggiando Spengler e la sua visione decadente del passaggio dalla creatività della Kultur alla sterilità della Zivilisation, secondo Quinzio i moderni si rivelano, in fin dei conti, «degli schiavi della storia che, non avendo più potenza creativa, discutono delle opere che il passato ci ha tramandato. Questa credo che sia la reale, “speciale” tragicità della nostra situazione»59. Ciò che resta irrimediabilmente condannato al disfacimento è, infatti, l’energia vitale dell’uomo, bisognosa di surrogati tecnico-scientifici, che non dischiudono nuovi orizzonti, ma si limitano a riprodurre o costruire il mondo sulla base di programmi e di calcoli di cui spesso sfugge il fine ultimo. Attorno agli uomini moderni, i fatti accadono senza suscitare meraviglia ma, al massimo, curiosità analitica, al fine di spiegare e padroneggiare meglio la realtà, per poi più efficacemente utilizzarla; niente di simile per l’uomo antico che «era circondato dal meraviglioso che sta al di là di ciò che accade, meraviglioso da intuire e da penetrare. Le parole dell’uomo antico erano suoni contenenti il senso delle cose, le parole dell’uomo moderno sono segni che designano in modo formale e convenzionale le cose»60. L’uomo comune, dunque, può solo rifugiarsi nell’illusione della potenza delle emozioni, anche queste suscitate ad hoc, mediante impianti sempre più sofisticati e controllabili, che lo sollevino dalla fatica dell’evento, dalla sua imprevedibilità che può sconvolgere la vita, destabilizzarne gli equilibri; preferisce, piuttosto, affidarsi alle innumerevoli vite possibili offerte dal mercato tecno-scientifico a consumatori sempre più esigenti: «Una lenta atrofia ci ha fatto scendere via via a tipi di spettacolo intimamente sempre più depotenziati, in cui sempre maggiore è stata la parte non sostanziale da aggiungere per forzare l’attenzione e la commozione»61. Per converso si tratta di attenuare e rendere inoffensive emo185

zioni troppo forti, per cui l’orrore viene reso più blando e il godimento meno straniante; è il trionfo del marcio, sorprendentemente tollerato senza che si trovi un carattere abbastanza forte da voler combattere contro esso battaglie di principio, poiché «a volere la guerra è il guerriero, un tipo umano ormai scomparso: adesso hanno tutti paura del sangue e per questo non possono guardare a Cristo»62. Nessuno scaccia più mercanti dal tempio, ma si pensa, piuttosto, al modo migliore per fare affari con loro. In ultima istanza – come si è già accennato – secondo Quinzio la modernità, con i suoi prodigiosi mezzi tecnici, lungi dal rendere l’uomo più libero, lo imprigiona, come mai prima era accaduto, in un sistema di controlli onnipervasivo: «in nessuna epoca l’uomo è stato altrettanto vincolato e costretto nelle sue scelte dalle strutture sociali, economiche e tecniche, che stabiliscono perfino quando deve attraversare la strada, quali documenti deve tenere in tasca, che gusti deve avere»63. Quest’uomo cogitans, che si sente dominatore e padrone della natura, come aveva segnalato Jünger parlando di “Tipo” umano, finisce con l’assumere tratti sempre più impersonali: «Il soggetto, divenuto ipertroficamente l’unico assoluto (a riprova dell’impossibilità di vivere senza riferimenti sentiti come assoluti), sembra giunto alla sua disgregazione, per effetto della dissoluzione di tutti i suoi rapporti concreti»64. Liberato dalla concretezza, quest’uomo è pronto per essere proiettato in una realtà virtuale, intessuta nell’anonimato della rete telematica, prigioniero di un orizzonte economico che tutto omologa a merce da produrre e consumare: macchina produttrice-consumatrice standard, le cui differenze specifiche di idee e di comportamento in tanto sono accettate in quanto sono irrilevanti e passive, semplice oggetto di occasionale curiosità o di ricerche di mercato, e non possono perciò valere come efficaci modelli sociali: ciò che è personale è un residuo trascurabile, non solido fondamento65.

Il nuovo tipo umano, quindi, per Quinzio non sarebbe tanto l’Arbeiter, figura possente nel suo straordinario Aktivismus, ma una macchina produttrice-consumatrice, omologata senza residui, 186

anche quando proclama di voler affermare la propria personalità. In realtà la mobilitazione dell’ipermodernità non consente vie di fuga che non siano apocalittiche, poiché non si tratta di una questione contingente, ma destinale che, a livello ontologico avrebbe, secondo Quinzio, la sua origine nel concetto di verità che fonda l’Occidente moderno e nella tecnica il mezzo di diffusione globale di ciò che viene nominato come anticristicità. 2. Lo pseudomessianismo della tecnica L’interpretazione della tecnica moderna, occorre tenerlo presente, è compiuta da Quinzio non in qualità di osservatore esterno o soltanto da uomo di pensiero ma, per così dire, da “addetto ai lavori”. Circostanze biografiche, infatti, lo hanno condotto a stretto contatto con quelle che possono, a tutti gli effetti, considerarsi intime pieghe della tecnica più avanzata, dato che, dopo aver concluso il liceo classico e seguito corsi nelle facoltà di ingegneria e filosofia – senza, per altro, mai laurearsi – ha frequentato, come lui stesso scrive negli anni Sessanta, le accademie militari, i corsi di meccanografia ed elettronica, di guerra atomica biologica e chimica e sono ufficiale in servizio permanente effettivo. Per cinque anni ho diretto un centro meccanografico; ho insegnato statistica metodologica, materie giuridiche, elettrotecnica e radiotecnica e, in questo senso, mi sento un “tecnico”66.

Al “tecnico” Quinzio interessa definire lo statuto ontologico della tecnica moderna, la sua origine, le sue conseguenze, la destinazione cui indirizzerà l’Occidente – divenuto il mondo – da essa onnipervasivamente permeato. La mobilitazione tecnica del mondo moderno, investe per Quinzio – come per Heidegger – l’idea stessa di verità. Quinzio, lungi dalla volontà di offrirne valutazioni etiche, è interessato a rintracciare le radici bibliche del concetto di verità, parola fondante dell’ebraismo, nonché della riflessione filosofica, come Heidegger ha ampiamente sottolineato. Proprio a partire da quest’ultimo67, Quinzio tenta di proporre un percorso complementare, se non alternativo, tramite cui, con187

fermando l’ineludibile importanza che la storia di questo termine ha avuto per l’Occidente, tuttavia prende le distanze dalla riflessione heideggeriana, nella convinzione che in essa non vi siano abbastanza elementi per comprendere l’imprevedibile priorità – che ha avuto corso nella storia occidentale – della prassi rispetto alla contemplazione. O meglio, che l’interpretazione heideggeriana – perfettamente coerente e lucida nel sottolineare la progressiva centralità assunta dal soggetto come artefice della verità e, in conseguenza, dell’oblio dell’essere – sia, in un certo senso, una sovrastruttura, necessaria solo se si riflette a partire unicamente dal pensiero greco. L’orizzonte ebraico, infatti, offrirebbe del medesimo processo una spiegazione molto più lineare, anch’essa rintracciabile a partire proprio dal termine ’emèth, “verità” in ebraico. Esso, fin dall’inizio, conterrebbe il seme di tutto il percorso seguito dall’Occidente – che, dunque, sarebbe assolutamente consequenziale, senza dover ricorrere all’oblio dell’essere – che è quello verso la tecnica e il nichilismo, come già mostrato anche da Heidegger. Ciò risulta evidente non appena si provi a pensare ebraicamente, lasciandosi interrogare da una costellazione di significati ben lontani da quelli tramandati dai greci: In Grecia incontriamo un pensiero che separa l’essenziale dal contingente, il soggetto dall’oggetto, e incontriamo comunque la verità riferita alla conoscenza. “’Emet” invece vuol dire innanzitutto “fermezza”, “stabilità”, in riferimento a persona o cosa; in riferimento a parole dette o scritte significa “verità”, ma nel senso di “credibilità”, “certezza”. Un’accezione corrente del termine è quello di “stabile conformità” alla norma di giustizia, nell’ambito giudiziario. Afferma la verità chi si comporta con “costante fedeltà”, con “veracità”. La verità di Dio è la sua “fedeltà” a ciò che misericordiosamente promette […]. “Verità” dunque, nell’orizzonte ebraico, è piuttosto ciò che si direbbe “fedeltà”, e di fatto ’emet si può sempre o quasi tradurre così68.

Che sia a una persona, piuttosto che a Dio, la fedeltà-verità, nell’orizzonte ebraico, non è raggiunta una volta e per sempre, ma occorre coltivarla, praticarla, lottare per essa e a essa edu188

carsi, come si evince oltre che dall’Antico Testamento, anche dal Nuovo e dagli antichi testi ebraici di Qumran, in cui si parla del praticare la verità, il diritto e la giustizia69. È proprio questo l’aspetto che interessa Quinzio e che farebbe della fedeltàverità ebraica uno dei pilastri del moderno imperio del fare sul contemplare: «La verità ebraica non è qualcosa che si conosce ma qualcosa che si pratica, osservando la Legge che è espressione della verità-fedeltà di Dio. […] La verità che si fa nel tempo è completamente altro dalla verità eterna che metafisicamente si contempla»70. Qui, si direbbe, si gioca la differenza ermeneutica con Heidegger, poiché, ad avviso di Quinzio, tra filosofia greca e mondo moderno ci sarebbe una sostanziale discontinuità che l’ermeneutica heideggeriana non terrebbe in sufficiente considerazione71. Una discontinuità che appare evidente se si riflette sul bagaglio di conoscenze tecnico-scientifiche della civiltà greca e sull’uso che ne ha fatto, ben lontano dalla deriva tecnologica della modernità: Il mondo greco, negli ultimi secoli del suo splendore, possedeva tutte le conoscenze necessarie per creare strumenti tecnici di notevole potenza e avviarsi così a quella tecnicizzazione che distingue l’età moderna. Con la sola eccezione di Archimede, si può dire, la civiltà greca ha dato a quelle conoscenze un valore che non teneva minimamente conto della loro portata “pratica”72.

Il mondo era oggetto di contemplazione e non spazio omogeneo e vuoto disponibile allo sfruttamento, tanto più che l’azione pratica, il fare, era categoria servile, senza dignità, in opposizione alla vocazione teoretica propria degli intelletti considerati più raffinati. Possesso e azione pratica, quindi, subordinati alla ragione speculativa, non potevano esercitare che un ruolo secondario e marginale nella costituzione dell’intera civiltà greca: «Gli antichi scienziati non erano sospinti dall’esigenza di risolvere i problemi che si incontrano nella vita quotidiana, ma da un atteggiamento di ricerca, di esercizio, di esaltazione dello spirito. Gli interessi teorici e scientifici precedono l’affermarsi degli interessi pratici»73. Non a caso, però, ciò era particolarmente evidente in Grecia, piuttosto che tra i Sumeri 189

o gli Egiziani, proprio in conformità con un concetto di verità legato alla conoscenza pura, che, ad avviso di Quinzio, solo in seguito a una profonda distorsione avrebbe potuto condurre a una svolta tecnico-pratica nel senso odierno del termine, dato che la scienza greca, «nata con i filosofi ionici, ancora al tempo di Platone distingueva nettamente dalla matematica speculativa le regole di calcolo, comprese sotto il nome di “logistica”»74. Coerentemente con la sua analisi del concetto ebraico di verità, Quinzio individua proprio nel pensiero biblico il terreno di slittamento semantico a partire dal quale il mondo può essere considerato non più mero oggetto di contemplazione, ma di dominio, come appare chiaramente dal libro della Genesi (9, 2) dove si parla esplicitamente della supremazia dell’uomo sul cosmo, stabilita da Dio stesso, nonché dal Salmo 8, in cui l’uomo è descritto come di poco inferiore agli angeli e con un potere che si estende a tutta la creazione: «È vero che la rivelazione biblica […] desacralizza il mondo e ne fa un territorio da dominare. […] La natura non è dunque una presenza divina da venerare, un’armonia da contemplare, ma uno spazio da dominare»75. Chi, infatti, si pone in atteggiamento contemplativo di fronte a una natura considerata «piena di dèi», oggetto di venerazione e custodia, non farebbe su di essa e a suo scapito progetti di sfruttamento e trasformazione, anche se ritenesse gli esseri umani superiori, in quanto razionali, a molte altre specie viventi, né la considererebbe un mero “panorama” a servizio della sensibilità estetizzante dei moderni turisti: «Gli antichi non dicevano “che bel panorama”. Trovavano, come si vede in Omero, che il mare era, più che “bello” o “magnifico”, “infecondo” o “mai quieto”: un giudizio che entra nella natura intima della cosa e ne rivela il carattere unico»76. L’antropocentrismo moderno – ergo ebraico-cristiano – era, come si è detto, del tutto sconosciuto agli incantati contemplatori greci. Tutto il bisogno moderno di redenzione della condizione umana, sia sul fronte ideologico-politico, che su quello tecnicoscientifico, sarebbe conseguenza, dunque, della particolare concezione ebraica della verità; l’ancestrale e atavico bisogno ebraico di fare la verità, quasi come pulsione inconscia, e, per 190

questo, infine, nevrotizzata nell’iperattivismo moderno, avrebbe nascostamente guidato, con l’ansia di redenzione, tutte le scelte epocali della modernità: Il moderno fare è legato al fare del credente biblico. L’uomo che passivamente guardava sulle pareti della caverna le ombre proiettate dalle eterne idee non sarebbe mai divenuto il produttore delle idee, il costruttore delle macchine, il dominatore della terra se attraverso la lunga incubazione medievale non si fosse segretamente operata, per venire alla ribalta nel mondo moderno, la trasformazione del concetto stesso di verità da aletheia a ’emet77.

La novità ermeneutica portata da Quinzio non consiste, dunque, tanto nel collegare, genericamente, il progresso con le radici bibliche, ma nel suo identificarne una precisa radice nell’evoluzione e nell’assimilazione del concetto ebraico di verità; una spiegazione, quindi, teoretica e non esclusivamente teologica o religiosa, che si affianca a quella, sempre presente, della secolarizzazione del motivo messianico. Il suo dissenso rispetto a Heidegger, perciò, non è sulla possibile interpretazione della verità come alétheia, che è pienamente accettata, ma sulla trasformazione di essa, avvenuta nel mondo moderno, e non contemplata nella riflessione heideggeriana, da alétheia a ’emèth. Non meno importante, inoltre, è l’analisi – che Quinzio affianca a quella del concetto di verità – di un altro termine fondante dell’Occidente, anch’esso lungamente sezionato da Heidegger, quello di lógos78. Anche rispetto a questo Grundwort, l’operazione ermeneutica quinziana, muovendosi sempre sulla linea heideggeriana, si rivolge, ancora una volta, all’alveo ebraico, prendendo in considerazione il termine corrispondente davar. Lo slittamento semantico, nel mutamento di lingua, è notevole, come nel primo caso. L’affinità, evidente nell’orizzonte di senso del lógos greco, è, secondo Quinzio, tra idea e parola, impensabile, quest’ultima, senza il suo tessuto metafisico. Lógos, dunque, in greco, rientrerebbe nell’ambito del theorein79; in ebraico, invece, si ha un’identificazione tra cosa e parola, poiché il termine davar indica entrambe. Curvatura, questa, verso una terrestrità densamente percepibile nel 191

grado stesso di concretezza che la parola assume in ambito ebraico, sempre restia alla tentazione di voli iperuranici compiuti per accostarsi a misteriose conoscenze, e tendente, piuttosto, al primato di una prassi concreta e verificabile; in ultima istanza, quindi, a un primato dell’azione: «La parola greca va, come suo ultimo traguardo, verso il silenzio mistico, e la parola ebraica va, come suo ultimo traguardo, verso la redenzione del mondo. La parola ebraica è cosa nel senso che suscita la cosa, come nel “fiat” genesiaco: la parola ordina che la cosa corrispondente sia fatta»80. Anche l’interpretazione di davar costituisce il contrafforte teoretico dell’idea teologico-politica della secolarizzazione in quanto radice della modernità. ’Emèth e davar, dunque, si presentano come i due poli dell’asse ermeneutico della vocazione tecnico-scientifica del Moderno; un’ermeneutica della civiltà occidentale che tende a coglierne elementi di sempre più grave decadenza, lungo un itinerario che avrebbe la sua svolta decisiva nel passaggio epocale dalla priorità della contemplazione a quella dell’azione; idea concepita da Quinzio già negli anni ’60, pur senza un esplicito riferimento alla radice ebraica di questo evento: «Platone e soprattutto Aristotele identificavano il summum bonum per l’uomo, la sua stessa essenza, con la contemplazione; attraverso Spinoza ed Hegel si giunge a Feuerbach e poi a Marx, che chiede l’abbandono della tradizione contemplativa in favore di ciò che egli chiama attività pratico-sensuale»81. Questo passaggio segnerebbe, inoltre, un accrescersi di complessità del reale in ragione del quale l’azione, nel mondo moderno, dovrà essere essenzialmente efficiente ed efficace, così come la parola dovrà servire alla comunicazione di messaggi ben precisi; un’azione e una parola, dunque, «certamente più immediate e più lineari dell’antica contemplazione che serviva l’esigenza della verità, dell’antica parola che ne ordinava l’espressione»82. Contemporaneamente alla puntualizzazione dell’efficienza ed efficacia dell’azione e della parola, un movimento di dilatazione degli orizzonti conosciuti ha attraversato senza sosta l’Occidente, accompagnando quello di terrestrizzazione e portando con sé l’esigenza di un illimitato oltre a cui tendere, come Co192

pernico e, più ancora, Giordano Bruno, dimostrano, seguiti dagli utopisti del XVI secolo, la cui attenzione è polarizzata sul futuro. Quinzio nota come ne La Nuova Atlantide di Bacone la novità più saliente sia offerta proprio dalla descrizione di uno sviluppo miracoloso della tecno-scienza, in grado di moltiplicare esponenzialmente la potenza degli esseri umani – i quali riescono a imbrigliare l’energia dell’acqua e, addirittura, posseggono pseudocondizionatori d’aria, congegni volanti, archeotelefoni – caratteristica che sarà, in effetti, della tecnica moderna: «Bacone si pone questo problema grandemente indicativo: gli scienziati debbono o no diffondere e mettere in opera scoperte scientifiche capaci di provocare sconvolgimenti inauditi nella vita dell’uomo e dello stesso universo?»83. Domanda moderna per eccellenza, risuonante, senza soluzione di continuità, dal Rinascimento in poi; domanda che consente di comprendere il calibro della novitas rispetto a una classicità ormai superata, alla quale verrà sferrato il colpo di grazia dalle molteplici Accademie e Società scientifiche, che tra Cinquecento e Seicento assumeranno, di fatto, la guida del processo di modernizzazione: «Non le filosofie in bilico tra antico e moderno, ma la “nuova scienza” è lo strumento con il quale le intelligenze deluse da secolari voli deduttivi e illuminativi edificano la nuova certezza fondandola sulla necessità ferreamente convincente dell’‘esperimento’»84. Solo a partire dalla certezza il nuovo soggetto acconsente di impiegare le sue energie nella realizzazione del progetto, moderno per eccellenza, di sperimentare e provare la verità in quel nuovo spazio controllato che è il laboratorio: «Il fatto nuovo al quale approda il mondo moderno è certamente la scienza, intesa come metodo necessario per acquisire conoscenze e capacità operative, in vista del potenziamento dell’uomo e della trasformazione della natura»85. Dunque le mete a cui la scienza moderna tende sono l’accrescimento della potenza dell’uomo e la trasformazione della natura, come Nietzsche, Jünger e Heidegger hanno ben visto; a partire da esse la volontà di potenza, come volontà di volontà86, plasmerà l’intera storia occidentale. La scienza moderna, infatti, ha un’essenza circoscrivibile e non fluida, unificata proprio 193

dalla volontà di potenza e dal suo sforzo di oltrepassare sempre nuovi limiti in vista del proprio autopotenziamento: La scienza nel senso moderno, e cioè la scienza in funzione del realizzare tecnico, è la garanzia e lo strumento di quel “progresso” capace di moltiplicare la potenza dell’uomo, di accrescere i beni in suo possesso, di dilatare le sue possibilità, che è la trascrizione, maturata attraverso i secoli, della tensione cristiana verso il “regno”87.

Il totale capovolgimento dalla contemplazione alla dominazione sarebbe stato compiuto dal cristianesimo che, in misura assai maggiore dell’ebraismo, ha avuto una diffusione capillare in Occidente e anche altrove. In comune con la Buona Novella cristiana, ad avviso di Quinzio, la tecnica può vantare la sua assiologia, che si misura sempre con i risultati ottenibili nel futuro; il bisogno di superare una dimensione individuale e di declinarsi in senso universale, al di là di ogni differenza specifica di razze e tradizioni; una fede senza ombre nelle sue capacità salvifiche; la considerazione negativa del presente rispetto all’ottimistica speranza nel futuro; la consapevolezza, per coloro che la padroneggiano, di essere degli eletti, nonché, «il carattere eroico; il carattere missionario; il carattere di meraviglia e di miracolo»88. Attraverso la tecnica, il mondo sembra trapassato nella condizione redenta, rispondendo, in certi casi, alle descrizioni dei profeti che annunciavano tempi in cui anche i deserti sarebbero stati fertili e la produzione sarebbe avvenuta senza la fatica del lavoro, mentre la morte sarebbe stata sconfitta; e non sfugge ad alcuno che, ad esempio, la «conquista dello spazio celeste ha sensi che ci portano vicini alla promessa fatta all’uomo di “giudicare gli angeli”, di essere “stella nel firmamento di Dio”»89. La realtà odierna e non quella del giusto mezzo è più vicina a un’idea messianica, a un’idea che fa della potenza redentiva il fondamento del futuro. La tecnica imita la potenza di Dio, mettendo a frutto tutte le riserve di energia, potenza di una juventus perenne nel suo creare spazi virenti per la vita: «I tentativi della tecnica in direzione della creazione della materia vivente, della conquista del cielo, del superamento della morte, 194

della trasformazione delle sostanze e delle specie hanno, anche nel sapore delle parole, un intenso fondo di religione»90. A dispetto di tutti gli sforzi missionari, sembra che il movimento di cristianizzazione più capillare sia stato compiuto per merito del processo di secolarizzazione delle idee portanti del cristianesimo, diffuse in quel Giano bifronte che è il mondo giudaizzato e cristianizzato della tecnica moderna: «Il mondo è veramente unificato, il cristianesimo è stato veramente predicato fino agli estremi confini del mondo»91. Questo impianto salvifico, infatti, innestatosi sullo scheletro del cristianesimo, è diventato ossatura del Moderno e della storia; nei confronti di esso è utopico tentare di sottrarsi, indugiando su tentativi meramente etici di frenare il sacro furore che pervade gli scienziati, come sarebbe stato inutile cercare di addolcire le visioni dei profeti, prospettando un avvento del Regno più moderatamente accettabile e graduale. Come aveva già affermato Heidegger, «l’essenza della tecnica non è niente di tecnico»92 e, quindi, contro di essa non si possono pronunciare discorsi in grado di mutarne lo statuto ontologico; le varie posizioni che demonizzano le macchine, così come quelle che criticano quanti di esse non avrebbero saputo servirsi, non sono in grado di coglierne il carattere “destinale” e sono, pertanto, condannate all’ineffettualità: «Chi vede nel progresso tecnico-scientifico un male in sé applica in realtà un criterio morale a un fatto che in quanto tale non può essere che moralmente neutro»93. Inoltre sarebbe assurdo non riconoscere alle innovazioni tecnologiche un concreto aiuto all’uomo e un miglioramento di condizioni di vita prima intollerabili; proprio a partire da questo altro dato di fatto, Quinzio vede in alcuni critici della tecnica, a partire da Spengler, un “odio moralistico” fondato sulla convinzione della bontà del passato che ci si è lasciati alle spalle; d’altra parte, però, è convinto che non si possa neppure non prendere coscienza della portata epocale della questione, declassando, come fa una parte dei fautori della tecnica, alcune sue devastanti conseguenze a effetti secondari inevitabili in nome del benessere, e le crisi del settore a difetti di crescita globale, confortati dalla convinzione della bontà del futuro che ci si attende: «Se 195

siamo abituati ad ascoltare i laudatores temporis acti, siamo ormai abbastanza stanchi degli annunciatori delle “magnifiche sorti e progressive”»94. Ciò che Quinzio trova aberrante in queste posizioni è l’analisi della situazione a partire dalla presunta autonomia di tecnica e società, come realtà a sé stanti e potenzialmente in grado di autosostentarsi l’una senza l’altra, mentre la realtà è tale da richiedere analisi olistiche, le cui risposte non siano già, in qualche modo, contenute nei presupposti. La tecnica va oltre la settorialità propria dei punti di vista da cui essa è criticata o lodata, sempre sfuggente agli opposti sciorinamenti di valori messi in campo da detrattori o fautori: «Questo è la tecnica, una concezione e un’operazione sulla realtà che non ammette code moraleggianti, tentativi assurdi di fornirle consigli di temperanza, o magari a buon mercato un’anima docile e senza unghie»95. Ciò non implica la svalutazione delle critiche alla tecnica, che, anzi, per Quinzio, hanno un valore paradigmatico proprio per la loro radicalizzazione contemporanea, che indica un percorso avvertito come foriero di catastrofi: «Quella dell’umanità stritolata dalla macchina dell’organizzazione tecnologica è diventata, attraverso Marcuse, una visione apocalittica corrente. Oggi le implicazioni catastrofiche del progresso tecnologico toccano i temi dell’antica escatologia cristiana»96. Tuttavia, anche coloro che ritengono la tecnica un assoluto bene per l’umanità si inseriscono in un orizzonte messianico-escatologico, in quanto proiettano nell’orizzonte mondano le antiche promesse bibliche: «Ormai questa tesi è accolta da numerosi validi autori di diversissimi orientamenti: basti accennare a Ernst Bloch, a Karl Löwith, a Eric Vögelin»97. Al di là dell’etica e della morale, dunque, la questione della tecnica è ontologica, riguardando l’essenza stessa del pensiero occidentale e della sua storia, segnati dalla Stimmung della volontà di potenza, degenerazione immanente dell’attesa messianica e pietra angolare di quello che potremmo definire un vero e proprio anticristico messianismo tecnico: Per coloro che vedono qualcosa di negativo, o addirittura di demoniaco, nella macchina, l’escatologia si rifà presente nella forma della catastrofe apocalittica. Per coloro che vedono qual-

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cosa di positivo, o addirittura di salvifico, nella macchina, l’escatologia si rifà presente nella forma del trionfo messianico. Comunque la dimensione escatologica s’impone come categoria interpretativa necessaria, proprio quando sembrava sepolta da tempi immemorabili98.

Se Heidegger affermava, per negazione, che l’essenza della tecnica non è niente di tecnico, Quinzio indica l’essenza della tecnica nella sua dimensione escatologica, proprio perché in essa si fondono apocalittica e messianismo, che rappresentano le due anime della tecnica stessa e le prospettive di coloro che su di essa riflettono: «Tecnica e società che la determina e ne è determinata, e cioè l’insieme che può designarsi come éra tecnologica, costituiscono un tutt’uno che presenta congiunti un aspetto apocalittico e un aspetto messianico»99. Considerate escatologicamente, le due facce della tecnica, angelica e demoniaca, lungi dall’escludersi, si implicano a vicenda, poiché la faustiana degenerazione del Wille zur Macht non sarebbe altro che il potenziamento della potenza redentiva messianica, come lo è la sensibilità ormai globale che rende inaccettabile tutto ciò che impedisce di guarire, salvare, alleggerire l’uomo dalle sue fatiche, considerate tetro segno dell’abbandono dell’Eden e della comunione con Dio: «È per effetto della spinta tecnologica che l’uomo d’oggi rifiuta, ormai quasi istintivamente, quello che era abituato ad accettare come fatale: rifiuta la guerra, la fame, la malattia, perfino la vecchiaia e la morte»100. La questione che impegna Quinzio, però, è proprio lo stravolgimento dell’orizzonte ebraico-cristiano operato dalla tecnica attraverso l’imitazione della potenza salvifica di Dio, poiché in essa nessuna esigenza di totalità si manifesta in quanto tendenza al recupero della giustizia del Regno. Nonostante le potenti spinte alla novità su tutti i fronti, in realtà la potenza della tecnica si può estrinsecare solo in un universo che mantenga intatti i suoi canoni immanenti e alcuni criteri decisamente mondani, come quello scientifico. La novità assoluta, nell’alveo dello pseudomessianismo tecnico, è impossibile, nonostante la si invochi a ogni piè sospinto per pubblicizzarla: «questo chiamare nuovo il vecchio, divino l’umano, miracolo la macchina, è 197

anticristicità. Le mete escatologiche vengono negate alterandole nel modo più sottile possibile, più impercettibile, tanto da “sedurre, se fosse possibile, gli stessi eletti” (Mc 13, 22)»101. Questi sono i tratti della tecnica a partire dai quali Quinzio offre un’interpretazione in chiave di passe-partout anticristico del Moderno, definendola, tuttavia – come scrive a Galimberti – «figlia del monoteismo abramitico»102, per evidenziarne la vocazione universalistica capace, addirittura, di superare le differenze tra le tre religioni del Libro. La tecnica, per Quinzio, si inserirebbe, quindi, nelle pieghe più profonde della storia dell’Occidente, costituendone, al limite, non un’aberrazione, ma un figlio legittimo, per nulla frutto di un caso fortuito e infausto: Se penso alla tecnica – scrive sempre a Galimberti – sono costretto a pensarla come inserita nella fede-storia. […] Lo sviluppo delle scienze in funzione dell’operare tecnico, che mi pare caratterizzi ampiamente il moderno, non è che una forma diminuita di quella che originariamente era la speranza escatologica (penso a Munford, a Löwith, a Duhem, in genere all’idea di “progresso”)103.

La vocazione universalistica e salvifica della tecnica, dunque, sarebbe comprensibile solo a partire dall’orizzonte delle promesse di redenzione dell’umanità, che costituiscono il patrimonio proprio delle tre religioni del Libro. Tra loro, paradossalmente, Quinzio ritiene di non trovare altre linee comuni, attraverso le quali accedere a una lettura unitaria o a possibilità di condivisione, al di fuori della tecnica, certamente la più condivisa delle loro eredità: «Posso chiedermi se qualcosa e che cosa di unitario sia rimasto sotto i diversi monoteismi e le diverse ragioni che ne hanno invano tentato il risolutivo superamento. La risposta che trovo è: la tecnica»104. Nella tecnica, infatti, sarebbe ben presente quello che Quinzio stesso definisce «l’esclusivismo monoteistico», la cui essenza consisterebbe nell’espandersi, imponendo a livello universale la sua verità e la sua soteriologia, nonché un certo tipo di ragione ottimisticamente orientata al progresso, ma anche «negativa e critica (per esempio, in Adorno e in altri autori della Scuola di Francoforte) che dello sviluppo della tecnica costituisce l’altro inseparabile vol198

to»105. In maniera assai lucida e in consonanza con altri grandi pensatori della tecnica, Quinzio ne sottolinea il carattere ubiquitario, cogliendo la sua potenza al di là delle false contrapposizioni che, pure, sembrano caratterizzare un mondo diviso tra “buoni” e “cattivi”, anche solo in virtù dei luoghi abitati o delle religioni praticate: «L’unico criterio che oggi, di fatto, si possa presumere d’imporre come universalmente valido per tutti e in tutto il mondo, dopo il fallimento storico dei diversi universalismi, è infatti il dominio della tecnica»106. Non prenderne atto significa non cogliere l’orizzonte epocale ineludibile entro il quale è comunque necessario collocarsi: «Da Huizinga a Marcuse, i prodotti più rappresentativi della cultura di questo secolo sono quelli in cui è stata analizzata e rifiutata la società industriale contemporanea»107. Fine delle religioni convertitesi al regno della tecnica: questo sarebbe il punto d’arrivo della contemporaneità dopo l’oblio delle promesse bibliche. Anche Quinzio, quindi, nella sua ermeneutica del moderno pseudomessianismo tecnico, fa ricorso a un oblio come causa della deriva, che si rivelerà nichilistica, del Moderno. L’oblio delle promesse messianiche delle religioni monoteistiche a favore di un surrogato abbastanza affine da farne dimenticare la necessità di rinvio alla trascendenza in esse contenuta. Anzi, un oblio tale da far preferire imitazioni caricaturali prodigiose per i risultati visibili e istantanei, alle inaudite promesse, rese sempre più “inattendibili”, oltre che dalla loro non verificabilità, dall’incredibile ritardo nel compiersi: «Queste esperienze e queste vicende mostrano con sufficiente chiarezza che nella tecnica si assiste all’ultima metamorfosi del monoteismo, all’ultimo e anticristicamente stravolto, tentativo di giungere alla salvezza che era stata annunciata nella fede»108. In questo estremo travisamento, Quinzio sente risuonare le arcane parole profetiche dell’Apocalisse sulla potenza della Bestia negli ultimi giorni – ma anche quelle di Nietzsche sulla potenza e durevolezza dell’“ultimo uomo”109 – la perfetta simia Dei, che di Dio incarna l’energia creatrice e distruttrice, e che giunge, finalmente, a una immanente divinoumanità, a un Regno trasformato in regnum hominis: 199

Il regno di Dio – divenuto regnum hominis perché Gesù Cristo è l’uomo Dio – viene oggi anticipatamente realizzato dal deus ex machina tecnologico, e cioè ancora proprio da un intervento concreto e tangibile di una potenza ulteriore e decisiva. La tecnica opera miracoli, l’anticristo compie inauditi prodigi (Ap. 13, 13)110.

La riproducibilità tecnica, di cui Benjamin aveva parlato a proposito dell’opera d’arte111, diventa carattere fondamentale del mondo moderno, suo elemento costitutivo che investe ogni ente e non lascia scampo ai selvaggi, per usare il termine con cui Huxley indicava gli umani non tecnicizzati e vivipari, nati, cioè, da madre e padre, nomi ormai impronunciabili nel suo mondo nuovo, tabù e vergogna in un sistema nel quale solo tecnoriproduttori fabbricano esseri umani selezionati e allevati per vivere in un complicato, e al contempo elementare, meccanismo fondato sulla pura biopolitica112. Solo nelle mani degli scienziati e dei tecnici il futuro dell’umanità può aspirare alle vertiginose altezze delle promesse messianiche, poiché loro sarebbero i nuovi tecnoprofeti che preannunciano tecnoredenzioni: L’avanzamento della tecnica è quello che ci salva, la fede nella tecnica è la fede nell’Anticristo, non perché la tecnica sia impotente a salvarci e cattiva, ma proprio perché è l’unica salvezza in cui si possa ancora con qualche ragionevolezza sperare, proprio perché è buona, perché ci aiuta. La sua unicità ci fa ritenere lecito e necessario imporla a tutto il mondo, la rivela come l’ultima forma, definitivamente anticristica, assunta dal monoteismo, e anch’essa svuotata, ormai, di ogni originaria spinta redentiva. Il battesimo non si può imporre a tutti, la tecnica sì, con le vaccinazioni, la televisione, l’automobile113.

Ritorna l’idea, già schmittiana, della tecnica come pseudoreligione114. Non occorrono conversioni per il regno della tecnica, perché fin dal primo vagito ci si trova gettati in un orizzonte da essa permeato. Tutto è stato ormai mobilitato, trasformato; la Bewegung, il movimento, attraversa ogni ente trasformandolo in Bestand, fondo-risorsa, che immagazzina e mette a disposizione energie: «tutti i prodotti della terra e delle viscere della terra sono in nostro possesso»115, sfruttati per 200

produrre merci da scambiare e consumare rapidamente, oggetto di un culto idolatrico poiché il loro possesso è diventato sinonimo di felicità, dato che la felicità è stata degradata a benessere: «Produrre, ergo, è la felicità, produrre comunque qualunque cosa, perché tutti i beni economici si equivalgono, e non ce n’è di più e di meno necessari»116. Sia le previsioni ottimistiche, sull’illimitatezza delle capacità produttive, che quelle pessimiste, sull’impossibilità di tale illimitatezza e sulla «morte per affogamento nel proprio grasso»117, possono avere una percentuale di verità, che, tuttavia, non appare a Quinzio sostanziale e risolutiva, soprattutto rispetto all’ontologia del Moderno, che sempre più appare avviato, come dice il suo predicato principale, alla consumazione e all’usura: la vera minaccia sta nel fatto che la soddisfazione, o magari la felicità, ricavata dalla produzione di singoli beni economici diminuisce con l’aumentare globale dei consumi, e che quindi il processo tende all’insoddisfazione assoluta, all’annullamento del valore delle cose e degli uomini ridotti a cose, in definitiva al consumo e alla distruzione della realtà118.

Non a caso nella sapienza biblica, chi adorava un oggetto prodotto da mani d’uomo veniva giudicato idolatra; se questo anatema faceva ancora sorridere gli illuministi, secondo Quinzio oggi dovrebbe divenire pietra angolare per la riflessione di un Occidente dominato dal culto della merce e dall’idea del consumo, incapace di reazione rispetto al gorgo del mercato globale con i suoi beni impermanenti e fittizi, eppure seducenti nel loro rappresentare la potenza tecnica attraverso sempre più sofisticate caratteristiche che, nell’ipertecnologizzazione, ne fanno oggetti magici come talismani, arcaici catalizzatori di forze primordiali, elementi cultuali, la cui riproducibilità seriale sembra alludere, per quanto in forma stravolta, alla ripetitività dell’esicasmo: «La riproduzione in serie di prototipi, in quantità enormi, può allora ripetere il ritmo iterativo che portava all’esasperazione l’antica preghiera dei monaci esicasti. L’incalzare di sempre nuovi e sempre identici oggetti può ripetere le vicende di nascita e morte e resurrezione del dio»119. Dunque la tecnica, 201

lungi dall’accompagnare il processo di demitizzazione del mondo, finisce con l’ammantarsi dell’aura del mito e della magia120. Se il regime di produzione mostra la sua mitica vicinanza a riti religiosi, non meno pregno di significati mitici è l’utilizzo di quegli stessi oggetti prodotti e il loro essere consumati da parte dell’uomo: «Il consumo dell’oggetto può ripetere il rito teofagico di immedesimazione con la divinità, trasformando così l’uomo in oggetto, alienando la sua umanità in modo ben più radicale di quanto accada nel processo di produzione»121. In un ampio giro di boa, partiti dalla macchina produttriceconsumatrice, si torna ad essa, varcando l’ultima soglia costituita dal mitico oggetto prodotto e dal predicato fondamentale, consumare, a esso connesso. Un verbo che ha trovato la sua originaria consacrazione, come nota Quinzio, nel Vangelo di Giovanni, in cui vengono riportate le ultime parole pronunciate da Cristo prima di esalare l’ultimo respiro: “consummatum est”. Verbo della fine, consumare in luogo di finire, «dunque, come esaurire. La categoria oggi dominante del consumare è la categoria del finire, il sigillo della storia del mondo»122. Paradossalmente, sotto gli occhi dell’umanità, sta il sigillo della sua storia e mai come oggi il numero di coloro che ne sono consapevoli appare esiguo. Consumare, parola d’ordine del mercato globale sempre in cerca di espandersi e di potenziarsi, in realtà è il sigillo dell’épuisement, della lenta ma inesorabile e invisibile consumazione del mondo intero e delle sue più vitali risorse, non escluso l’uomo stesso: «La possibilità di essere consumati non è infatti soltanto degli oggetti, ma tutto ciò che viene trasformato in oggetto non può non essere consumato»123. Dunque, la modernità trova nella tecno-scienza lo strumento principale di consumazione dell’universo intero, tanto che la stessa passione di Cristo potrebbe essere letta in questa chiave: «Il destino degli oggetti è di consumarsi, e Cristo stesso, che ricapitola in sé la realtà, si consuma in quanto oggetto passivo – di passione – che ha il suo prezzo (trenta denari), il suo cartello apposto (I.N.R.I), i suoi compratori e i suoi venditori»124. Nella vicenda paradigmatica del Messia venduto e comprato, l’abominio della desolazione sarebbe già nel cuore del mon202

do ebraico-cristiano e dimostrerebbe che il santo e il sacro non possono essere sottratti al meccanismo del consumo; perfino la morte, infatti, ultimo baluardo della sacralità, con l’inviolabilità tradizionale dei corpi dei defunti, è stata oggi mercificata: «Come merce vengono dunque venduti e comprati non solo cadaveri, ma anche uomini e bambini, e feti abortivi per essere utilizzati in trapianti cellulari, in operazioni di ingegneria genetica, in ricerche biologiche, mediche, perfino cosmetiche»125. Quinzio si domanda quanto tempo e quanto spazio resti prima di varcare la soglia finale di questa corsa nell’illimite, verso mostruosità inimmaginabili, giungendo a considerare quasi più umani i peggiori stermini, in cui, a suo avviso, nella figura del nemico, veniva comunque preservato, nonostante l’orrore, un residuo di umanità: proprio in quanto torturato, l’uomo era comunque considerato un essere vivente e non una merce, mentre «oggi gli uomini sono abbassati, senza residui, fino all’infimo grado di merce, da trattare senza odio e senza amore, senza disprezzo e senza pietà, come oggetti indifferenti»126. L’indifferenza della merce, la sua agghiacciante iteratività, va di pari passo con la riduzione dello spazio a insieme di non-luoghi127. Il senso del sublime nei confronti della natura, con lo sgomento che lo accompagna, sarebbe ormai stato soppiantato dalla ripetizione monotona di paesaggi monocromi. Lo sgomento di fronte alla terra così trasformata, di fronte alla bruttezza intrinseca delle moderne costruzioni umane, che sembra aver per sempre contaminato anche i volti dei loro abbrutiti abitanti, suscita una sorta di “pianto su Gerusalemme” di Quinzio, che, a volte, indirizza sui luoghi amati uno sguardo geofilosofico: «Quella costa, come tutte ormai, vive soltanto per l’estate, anche d’inverno sento che è tutta contaminata dalla meschinità, dalla volgarità, dalla bestialità. La faccia della gente dice solo questo»128. Riecheggiando le impietose notazioni dell’amico Ceronetti129, secondo Quinzio, in un infernale meccanismo circolare, la bruttezza dei casermoni industriali, utilizzati per produrre gli oggetti che riempiranno i luoghi turistici, rimanda alla bruttezza degli alberghi, dei parcheggi e dei centri commerciali, che di 203

quelle fabbriche hanno bisogno per essere “consumati” dai clienti; il tutto segnalato dalle nuove foreste: «cartelli della pubblicità ovunque, sigle di industrie, commerci, istituti, enti, indicazioni topografiche […]. È quasi tutto brutto quello che hanno fatto gli uomini per sfuggire alla cupa solitudine della natura, e adesso che si producono a milioni di tonnellate cemento, lamiere, asfalto, vernici, il brutto ha coperto tutto»130. Ecco un’altra caratteristica delle odierne tecnopoli: esse sono fondamentalmente brutte131. Brutto è l’aggettivo più calzante per descrivere il mondo contemporaneo, benché, invece, di rado venga pronunciato, sostituito spesso da termini più neutri. Neppure i luoghi sacri si sottraggono all’invasione della bruttezza, nel loro assimilarsi sempre più, anche nei materiali con cui sono costruiti – in genere cemento armato – al mondo circostante, tanto che al loro cospetto non si può che piangere e provare sdegno: «Sono passato davanti a una vecchia chiesa […] e sono entrato. […] Ma è peggio che fuori. […] Tutto l’interno è recente e insignificante. […] Sono tante ormai le chiese dove sono andato piangendo, ne ho solo aggiunta un’altra»132. Il recente è assimilato all’insignificante, al senza carattere, senza nulla di unico e irripetibile. Se tutto è merce, infatti, ogni cosa deve essere sostituibile al massimo grado e il calcolo costi-benefici dovrà costituire l’a-priori per la scelta di materiali funzionali e più economici. Tutto, quindi, si presenta in quanto merce disponibile, perfino i paesaggi, perfino gli animali che li abitano. Anzi, la perdita del rispetto per gli animali appare a Quinzio l’antecedente logico della mercificazione degli esseri umani: «il loro essere divenuti in ogni senso merce assolutamente disponibile – uccisi dopo la tortura dell’allevamento industriale o degli stabulari dei ricercatori – è stato l’antecedente dell’attuale riduzione a merce tanto del cadavere umano quanto dell’uomo vivo»133. Avamposto del nulla appare, allora, l’odierno mondo della tecnica, della ragione strumentale, della verità come Aktivismus e del lógos come cosa. La consumazione rivela, in realtà, che le trasformazioni delle promesse messianiche apportate dalla tecnica hanno un carattere involutivo rispetto alla manifestazione 204

della stessa potenza tecnologica. Una vocazione al nulla travestita da vocazione al tutto. L’altra faccia dello pseudomessianismo della tecnica moderna, dunque, sarebbe proprio il nichilismo, dimensione che può essere colta solo da una diversa prospettiva: «Ormai consci del limite interno della scienza e della tecnica, bisogna porsi su un terreno post-tecnologico. Anziché guardare alle possibilità ulteriori con gli occhi della tecnica, bisogna finalmente guardare la tecnica dal punto di vista delle possibilità ulteriori»134. L’ulteriorità a cui si fa riferimento non è certo un’ulteriorità di futuro progresso, ma, dal punto di vista di Quinzio, si tratta di andare ben oltre l’ingannevole apparenza del mondo tecnologico, per allargare lo sguardo su un mondo avvenire: «Bisogna cioè vedere la tecnologia dall’escatologia, e non viceversa. […] Si tratta di forzare la tecnologia oltre le sue intrinseche limitazioni programmatiche, per concepire una più radicale operazione»135, quella, appunto, di ritrovare la radicalità dell’orizzonte messianico da cui la tecnica discende e il cui contenuto trascende tutti i ritrovati tecnici odierni, per quanto avanzati possano essere o diventare; il raggio d’azione dello pseudomessianismo tecnico, infatti, non può che essere parziale e limitato, perché terrestre e mondano, senza riuscire a cogliere la profondità di una speranza che fu, in primis, ebraico-cristiana: «C’è un’immensa zona di speranza che la tecnica neppure sfiora, che esclude a priori come irraggiungibile»136. Lo sguardo ex post del pensatore della tecnica scorge l’eventualità di comprenderla nella dimensione escatologica, non tanto esaltandone la sua potenzialità messianica, ma svelandone l’anima apocalittica. Considerando la tecnica e la modernità nell’ottica ebraico-cristiana, o meglio, dalla prospettiva escatologica che dovrebbe loro essere propria, si può intravederne la fine che, da un istante all’altro, annuncerebbe l’instaurazione del Regno; ma Quinzio non si sente di escludere, dopo la «morte di Dio», anche una loro imponderabile durata, senza la soluzione di continuità introdotta dall’avvento del Regno: «Tutto potrebbe continuare indifferentemente e indefinitamente così come lo conosciamo, e procedere nell’oblio di Dio, […] verso la consumazione di ogni aspettativa e di ogni prospettiva»137. 205

Quest’ultima possibilità sarebbe evidenziata e confermata dal sempre più profondo ed evidente radicamento del nichilismo, stratificato in modo sempre più complesso nel mondo moderno, come lato oscuro dello pseudomessianismo tecnico. 3. Nichilismo e apocalisse Il nichilismo, come ha profeticamente pronosticato Nietzsche, si annuncia in Europa come «il più sinistro fra tutti gli ospiti»138, un ospite la cui venuta, secondo Quinzio, non dovrebbe affatto sorprendere, essendo, in un certo senso, già inscritta nel destino dell’Occidente139. Il nichilismo, infatti, a suo avviso, non sarebbe un accidente esterno alle possibilità intrinseche della storia ebraico-cristiana, ma ne segnerebbe, anzi, le estreme propaggini: «Il nichilismo è un percorso storico, è la fede stessa che sempre di più si avvicina fino all’orlo dell’ultimo precipizio, un istante prima di cadere nel definitivo nulla»140. Il segno più evidente della sua inquietante presenza è rappresentato proprio dall’iperattivismo moderno che nella tecnoscienza trova il suo principale e fedele alleato, come già Nietzsche aveva, in un certo modo, profetato, parlando dell’“irrequietezza” del Moderno, sempre maggiore quanto più ci si volga ad Occidente141. Per Quinzio, dunque, il nichilismo, come la tecnica che lo manifesta, non costituisce affatto un incidente di percorso, una deriva deprecabile del pensiero occidentale e della sua radice ebraico-cristiana, ma, anzi, allo stesso titolo della tecnica, si colloca nel cuore stesso del cristianesimo, così come si è diffuso e affermato nel mondo a causa della non realizzazione delle promesse messianiche: «Non essendo venute la giustizia e la pace del regno di Dio, l’annuncio cristiano è diventato, almeno a cominciare da Paolo […], l’annuncio della “morte di Dio”. […] La storia del mondo ha finito con il sancire quella morte: il grido di Nietzsche è sembrato nuovo, ma non era che un’eco del grido di Cristo»142. Ancora una volta la svolta ermeneutica quinziana avviene utilizzando la fede ebraico-cristiana come chiave di lettura della dimensione epocale del nichilismo, la quale, a suo avviso, non può essere semplicemente un naufragio nel nul206

la che, pure, alita sulla contemporaneità più che in ogni altro tempo143. Il «bruciante affrontamento del nulla», così come è stato sperimentato dai più grandi pensatori del Novecento, è, per Quinzio, una chiave di lettura imprescindibile della storia dell’Occidente alla quale, attraverso la sua lente ebraico-cristiana, aggiunge un’ipotesi ermeneutica, proponendo di interpretare il sentiero moderno verso il nichilismo come sintomatico percorso della stessa fede ebraico-cristiana, della sua storia involutiva, del suo tendere all’apocalisse; una discesa di tutti i gradini dell’assoluto, dal più sublime celestiale al più inconsistente relativo: «L’intera vicenda storica ha ripercorso, non solo estrinsecamente come simia dei, ma anche nella reale partecipazione, il supremo mistero dell’annichilamento divino»144. In dialogo con alcuni filosofi italiani, come lui interessati alla questione del nichilismo – Cacciari, Givone, Natoli, Vattimo, Vitiello145 – la sua tesi ermeneutica presenta, dunque, il nichilismo come strettamente correlato al cristianesimo, fino a considerarlo suo logico compimento, nel rispetto della più intima essenza cristiana, cioè quella tensione kenotica che ha trovato nella vicenda del Messia morto in croce l’evento paradigmatico a cui tornare senza eluderne la drammaticità e il carattere destinale per l’intera storia del cristianesimo e dell’Occidente: «Lo sgretolarsi delle ontologie forti comincia dalla rivelazione biblica; la nietzscheana “morte di Dio”, che riassume il significato del Moderno e del postmoderno, è pur sempre la morte di Dio che sta nel cuore della rivelazione cristiana»146. Tale carattere destinale, quindi, a differenza di quanto si sarebbe verificato per la tecnica – che, perciò, è definita anticristica – non sarebbe dovuto alla sostituzione della potenza divina con quella umana, ma, anzi, alla manifestazione della verità cristiana più originaria, che non rivendica l’onnipotenza e assolutezza di Dio come suoi cardini, ma di Dio rivela l’“abbassarsi” nella condizione umana, il suo calarsi nella storia, il suo affidarsi alla fedeltà dell’uomo. A questa figura di Dio si lega la vicenda del Messia di Nazareth: «Quella che Paolo ha chiamato la kénosis di Dio cioè il suo “abbassamento”, il suo “svuotamento”, diventa, gradualmente, il modello della kénosis del mondo, che, dichiaratosi cristiano, era 207

fatalmente condotto a seguire le orme di quel supremo evento»147. Il nichilismo, dunque, come estrema propaggine della storia del Moderno, non può essere considerato ciò che si oppone al cristianesimo, ma ciò che ne costituisce l’immagine più vera, spogliata dai trionfalismi propri dell’istituzionalizzazione mondana a cui la religione è andata incontro: «Proprio perché il moderno non è – così almeno come appare ai miei occhi – che il calco della rivelazione cristiana, conduce alla fine al nichilismo, anch’esso traduzione secolarizzata del grido di abbandono gridato da Gesù Cristo sulla croce»148. Per questa ragione «i più grandi autori contemporanei, si può dire tutti, da Kafka fino a Thomas Bernhard hanno detto questo. L’ateismo moderno, il nichilismo moderno, non sono altro che l’esplicitazione storica della kénosis di Dio, culminante nel grido di abbandono dell’uomo-Dio Gesù Cristo sulla croce»149. La stessa sopravvivenza di un ordine sacro appare più anticristica del nichilismo più estremo, poiché, in forma mascherata, anch’essa persegue il destino verso il nulla e l’annientamento del mondo e della storia, nello sprofondare del tempo verso l’apocalisse. Nichilismo, per Quinzio, diventa, allora, sinonimo di kénosis divina, destino del cristianesimo e del mondo cristiano, che, alla fine dei giorni, non troverà una luminosa rivelazione, ma un totale non-senso, e solo dopo l’apocalisse potrà, forse, diventare alétheia, non-nascondimento, apocalypsis del Regno. Quinzio è certamente consapevole della parzialità della sua ermeneutica che, del resto, sceglie in modo teoreticamente consapevole, convinto che una lettura a partire da un orizzonte di fede non sia meno plausibile di una, ad esempio, esclusivamente sociologica: «Il nichilismo nascerebbe, insomma, nella mia lettura, dall’accumularsi di smentite storiche, in presenza delle quali sempre si ripropongono nuove mete salvifiche, attraverso la secolarizzazione, la fiducia nel nuovo monoteismo della scienza e della tecnica, la rivoluzione politica»150. A essere in primo piano, in questa analisi, è, quindi, una fenomenologia involutiva della storia, di cui il nichilismo costituirebbe l’oscura ratio, che permetterebbe di connettere ambiti di per sé assai differenti in virtù della loro appartenenza all’orizzonte della se208

colarizzazione delle promesse messianiche, sostituite da incerti e precari surrogati, siano essi religiosi, culturali o politici. Il nichilismo, dunque, parla anche, e soprattutto, dell’imperante declinare di tutte le certezze: «È molto difficile dubitare che la nostra è l’età del nichilismo, nella quale ha luogo il declino di ogni certezza: prima, o ultima, quella di Dio»151. La certezza cartesiana, imperativo del Moderno, mostra, da ultimo, un orizzonte assolutamente periclitante, senza più fondamenti sicuri, o, al limite, l’assenza di ogni fondamento. In questo frangente, soprattutto dopo una rivelazione tanto straniante come quella di un Dio ucciso e sconfitto, anche i discorsi filosofici e teologici su Dio, secondo Quinzio, diventano paradossali, segno, essi stessi, della paradossalità di un tempo abbandonato sulle soglie del nulla: «Per secoli, anzi per millenni, i filosofi hanno filosofato, più o meno tutti, intorno a Dio. Ma dopo il “Dio è morto” proclamato da Nietzsche, e dopo Heidegger, è ancora possibile una “teologia filosofica”?»152 Questa domanda sul ruolo di una teologia nell’epoca del nichilismo compiuto, in realtà abbraccia ogni interrogazione nel vacillare di qualsivoglia Fondamento: «La storia delle antiche certezze sacrali è stata scossa dai maestri del sospetto, Nietzsche, Marx, Freud, che hanno sempre di più messo in discussione tutto e, per questa via, progressivamente, il pensiero moderno perviene agli esiti nichilistici contemporanei»153. Né una teologia né una filosofia, dopo i grandi pensatori del nichilismo, sembrano più in grado di dire una parola che non sia mera ripetizione di luoghi comuni del pensiero occidentale, se rinunciano a confrontarsi con radicalità con la questione del nichilismo e della “morte di Dio”. Il Messia Gesù, in effetti, è divenuto, per il pensiero occidentale, ipostasi del definitivo passaggio dalla figura di un Dio onnipotente a quella di un Dio non-onnipotente, poiché la sua morte non è stata cancellata neppure dalla resurrezione se, come è scritto nell’Apocalisse, fino alla fine dei tempi Cristo sarà “l’agnello sgozzato”: «Se l’unico Dio onnisciente, onnipotente, creatore e signore di tutte le cose è stato per duemila anni il modello di ogni pensiero forte, il Dio-uomo crocifisso è stato il 209

modello di ogni pensiero moderno, che è precipitato nella solitudine, nello smarrimento e nella morte»154. Nonostante Quinzio sia certo che dentro la notte del nichilismo siano ancora aperte eventuali possibilità di redenzione, è tuttavia consapevole del fallimento degli assoluti, sia di quelli sovramondani che di quelli mondani, tecnica compresa: «La via del ritorno agli assoluti celesti è chiusa, impercorribile: può illudersi di percorrerla solo chi dimentica che gli assoluti terrestri recentemente falliti nascevano a loro volta dallo sperimentato fallimento storico di quelli celesti»155. Appoggiarsi sul fallimento di un fallimento appare a Quinzio il destino di tutti coloro che cercano negli assoluti terrestri un surrogato di quelli celesti, credendo di potere attuare, attraverso di essi, una rifondazione universalistica dei principi venuti meno; il “Dio è morto” non è la parentesi visionaria di un folle, quanto un dato di fatto con il quale misurarsi, evitando di compensare, con illusori ritorni nostalgici ad un fondamento, trascendente o immanente, lo smarrimento di fronte all’abisso sul quale si affaccia il mondo. D’altro canto bisogna anche non cadere nella tentazione di coloro che, pur assumendo la crisi degli assoluti celesti, non ne sono teoreticamente o esistenzialmente provocati, ma cercano, piuttosto, di individuare i lati positivi di tale crisi: «Meno risaputo, più consapevole, credo sia il sentiero, o piuttosto la moltitudine di sentieri che attraversano la notte del nichilismo per condurci a vivere la crisi come positiva, come liberatrice di ogni opprimente assoluto»156. In realtà, però, anche il relativismo a tutti i costi avrebbe, secondo Quinzio, una sua radice irrazionale e oscurantista: «come nei tentativi di ritornare all’“assoluto” anche negli opposti tentativi di volere senza rimpianti il non-assoluto, il “relativo”, si vede all’opera, anzi si riconosce ancor più nettamente, un bisogno tutto occidentale e moderno di salvifica liberazione, di reale universale risoluzione»157. L’impulso alla liberazione sarebbe accompagnato da una passione sconfinata per il relativo, non dissimile da quella che l’Occidente ha profuso per l’identificazione di un Assoluto condiviso o imposto; proprio per questo, sembra a Quinzio che la passione del relativo si trasformi, a sua volta, in un assoluto, in apparenza meno 210

opprimente, ma non meno pervasivo e totalizzante, in quanto, di fatto, assumerebbe in sé tutti i caratteri che sono stati dell’assoluto: «L’apologia, nel simbolo del rizoma, della distrazione, del frammentarismo, del pensiero come pulsione non programmata, discontinua, nascente, non mi pare meno accanitamente apologetica di quanto lo fossero le vecchie apologie della salda compattezza dell’assoluto»158. L’idea di Quinzio, dunque, non è quella di un ritorno all’assoluto, così come è stato concepito nel pensiero occidentale; anzi, la sua critica al relativismo si basa anche sulla constatazione di una quiescente brama di assolutezza, che renderebbe farsesca l’apologia del relativo propria del Moderno, accompagnata com’è, per di più, dall’epocale delusione di non trovare in esso il senso che si era sperato, un senso, se non totale, per lo meno parziale. Si verifica, di conseguenza, una situazione altrettanto disperante di quella seguita al fallimento degli assoluti celesti, ulteriormente complicata dalla confusione tra l’anima tragica, presente al fondo del nichilismo, e la versione di un nichilismo attivo inteso come positiva battaglia contro l’oppressione dei valori: «La tragedia sta nel fatto che, per l’uomo contemporaneo, l’assoluto è inattingibile e, insieme, il relativo è invivibile. Due pazzie sono veramente profetiche: quella di Hölderlin, che non poté attingere l’assoluto, o che solo così poté attingerlo, e quella di Nietzsche, che non poté vivere, o solo così poté vivere, il relativo»159. In quest’ottica storico-critica, l’unico nichilismo che serbi una dignità è, ad avviso di Quinzio, quello che si assume la responsabilità di prendere in carico il destino di morte e insignificanza che incombe sull’Occidente. Questo nichilismo, necessariamente, si scontra sia con le molteplici filosofie ottimiste – che si dimostrano, in realtà, la faccia giuliva del nulla – sia con le sue stesse derive interne. Infatti, molti pensatori contemporanei del nichilismo non riescono a pensare né oltre la sua linea, né stando sulla sua linea con la consapevolezza teoretica necessaria160, ma ne fanno, invece, un divertissement filosofico, liberatorio ed edonisticamente compiaciuto dell’assenza di riferimenti universali: «Il nichilismo, finché è stato una cosa seria che ha davvero impegnato tutto l’uomo, rivelava chiaramente – come la nietz211

scheana “morte di dio” – la sua lontana radice nella fede ebraico-cristiana: non sostenendosi su nulla, se non sull’esperienza, anch’essa cruciale, della mancanza di ogni sostegno»161. Il suo essere “l’ultima cosa seria” non è, ovviamente, legato ai suoi esiti, quanto al percorso senza mistificazioni compiuto nell’anima buia dell’Occidente; nella capacità, da parte dei pensatori del nichilismo, di riuscire a guardare, senza remore, le estreme possibilità di una modernità a cui occorre, costantemente, togliere le maschere sorridenti che, non ultima la tecno-scienza, provvede a fabbricare. Tolte quelle maschere, non può che restare o la disperante non-disperazione dell’uomo moderno, con la sua gaia apocalisse, o la consapevole tragica condizione di coloro che affrontano il loro combattimento quotidiano con il nulla. La convinzione di Quinzio, comunque, è che solo da una visione soteriologica possano assumere serietà e profondità le riflessioni che aspirano a misurarsi con il nulla, senza cadere in un disperante vuoto di senso: Molte esperienze del Novecento bordeggiano il nulla, ma lasciando in silenzio la domanda di salvezza: non bonificano la negatività, anzi ne fanno il loro demone interiore, un’odissea senza approdo intorno all’assenza e all’inanità. Si dice così, ma la mia convinzione è che il moderno bruciante affrontamento del nulla, il demone interiore, l’odissea senza approdo intorno all’assenza e all’inanità siano in realtà tali solo perché sussiste una traccia, una memoria, una nostalgia della domanda di salvezza162.

Senza questa nostalgia, anche il nulla diventerebbe pura inconsistenza, poiché solo rispetto a una pienezza esso può anche solo essere nominato. Una cultura radicalmente nichilistica poteva nascere solo da una cultura imbibita di speranza; come sua tragica evaporazione nella luce meridiana, che sembrava accompagnarne il compimento e ne ha, invece, causato la scomparsa: «Il nulla, considerato di per sé, visto dal nulla, non ha niente di tragico, niente di disperato. L’approdo allora appare declino, tramonto, un approdo-naufragio sereno e giocoso, […]. Dopo le alte figure moderne che bordeggiavano il nulla non c’è che il nulla»163. La conclusione logica di questa analisi, 212

però, non si muove nella direzione di una pacifica accettazione del nulla come sponda ultima, come definitivo e non oltrepassabile approdo della storia, né in quella, ad esempio, della ricerca di un nuovo umanismo, magari di ispirazione neo-pagana, per uscire fuori da una situazione di stallo164. Come si è visto, l’unico sbocco per la storia del mondo, agli occhi di Quinzio, può essere solo l’éschaton, nella sua doppia e indisgiungibile implicazione di messianismo e apocalittica, la catastrofe finale che apra finalmente le porte di un mondo altro, del Regno di Dio. Il nichilismo, allora, non sarebbe comunque superabile in un’ottica mondana, ma solo in quella escatologica, essendo stato generato proprio dall’insostenibile procrastinarsi dell’attesa. Lo scarto quinziano si gioca, dunque, sulla differenza, quasi impercettibile, tra nichilismo assoluto e catastrofe apocalittica. Scarto che è stato da lui più volte ribadito, con grande fatica e difficoltà – sia esistenziali che teoretiche – anche rispetto a chi, come Vattimo – nell’ambito della sua riflessione sul nichilismo definito «l’interlocutore che mi ha concesso la maggiore attenzione»165 – chiedeva di «“fare l’ultimo passo” verso il nichilismo che, secondo lui, io avrei contribuito a preparare, ma che io, comunque, non posso compiere»166. La ragione di questa opposizione appare, in ultima istanza, animata, ancora una volta, più che da motivazioni teoretiche, dalla fede messianicoapocalittica. Senza quest’orizzonte di senso, Quinzio, probabilmente, non avrebbe avuto argomenti da opporre al compimento di quell’ultimo passo, poiché l’intera realtà mondana moderna gli appariva, in modo non reversibile, marchiata da un nulla insuperabile. Ciò che lo separa da quel passo appare minimo, ma non eludibile. In un orizzonte escatologico c’è, e non può non esserci, questo «quantitativamente lievissimo scarto della salvezza sul nulla»167 e questa consapevolezza estrema rende Quinzio familiarmente estraneo, se ci è concesso l’ossimoro, alle posizioni più oltranziste del nichilismo, motivando in maniera lucida il suo rimanere sulla soglia del nulla: Perché mi sento separato, sia pure di un soffio, da quel punto di vista: la croce non è il nulla, anche se è qualcosa che le è separato di pochissimo. La croce è, comunque, lo scandalo della cro-

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ce: se essa è qualcosa che si deve accettare come un esaurimento o come l’ultima resa che trabocca verso il nulla, allora c’è la fine, l’annientamento168.

Al di fuori della prospettiva escatologica e soteriologica schiusa dalla fede, l’annientamento non avrebbe nulla di illogico o di condannabile: è un destino al suo fondo inoltrepassabile. Neppure, nello scarto ravvisato tra la salvezza e il nulla, Quinzio pensa a una possibile messa tra parentesi o, peggio, a una giustificazione del male presente nel mondo. Fieramente avverso a ogni teodicea, Quinzio non vuole essere fautore di un’idea epistrofica della salvezza, che riassumerebbe in sé la sua katastrophé. Nessuna epistrophé seguirà, a suo avviso, l’apocalisse, che, tuttavia, non coinciderà con il trionfo del nulla: «Quello che mi sta a cuore dire è questo: c’è qualcosa che viene salvato ‘dalla gola del leone’. Ma il modello della croce resta; a ottenere la vittoria nell’ultimo giorno è il leone di Giuda, ma salirà sul trono come agnello sgozzato, come dice l’Apocalisse»169. Lo scarto tra le derive nichilistiche moderne e il pensiero di Quinzio risiede, dunque, proprio nella possibilità, da lui contemplata, di pensare un “resto”, certo ben misera consolazione rispetto all’immane tragedia della catastrofe apocalittica, ma che, tuttavia, si contrappone al nulla assoluto con la debole forza messianica dell’agnello sgozzato e dei brandelli strappati dalla gola del leone. Il “resto” è lo scarto tra la croce e il nulla. Se si parla di un nichilismo quinziano, dunque, si dovrebbe farlo, forse, solo comprendendone l’identificazione con il suo “pensare apocalitticamente”170, non-soluzione disperante di un pensatore non nichilista del nichilismo. Note «La riflessione intorno all’essenza del Mondo Moderno pone pensiero e azione nella sfera viva delle autentiche forze essenziali di questa epoca. Queste operano come operano indipendentemente da ogni valutazione quotidiana. Di fronte ad esse non c’è che la decisione assoluta o l’evasione nell’astorico» (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., p. 71, nota 1). Sul rapporto di Heidegger con il Moderno cfr. C. Resta, Martin Heidegger e il compimento della modernità, “Il Pensiero”, 1, 1998, pp. 21-35; Id., Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in AA. VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia 1

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pratica. Etica, estetica, politica, religione, a cura di A. Ardovino, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 157-187. 2 Sull’analisi quinziana del Moderno si sono soffermati, anche solo brevemente, quasi tutti gli autori che con Quinzio sono entrati in rapporto per studiarne il pensiero o per dialogare con lui. Ciò a motivo della centralità di tale tema nel suo pensiero. Particolarmente articolato e completo il contributo di V. Omaggio, Le ossa secche della resurrezione. Sergio Quinzio e l’agonia del Moderno, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 37-45, nel quale si può trovare un riferimento a tutti gli elementi essenziali che costituiranno la riflessione quinziana sul Moderno. Tra gli altri autori cfr. S. Natoli, Fede e modernità, cit.; M. Cacciari, Apocalittica di Sergio Quinzio, cit.; C. Ciancio, Il Regno di Dio e lo scandalo del male, cit. Per una visione complessiva sulla questione del Moderno si rimanda a H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit.; V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. it. di E. ed E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1997. 3 M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 71. 4 Non a caso Quinzio titola così un testo in cui raccoglie alcuni tra i più significativi articoli scritti per i giornali a cui ha lungamente collaborato nel corso della sua vita. Cfr. S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, Editrice La Stampa, Torino 1993. 5 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. X. Quinzio ricorda le difficoltà incontrate nel proporre le categorie ebraico-cristiane come chiave privilegiata per la comprensione del Moderno: «Quando, al tempo della giovinezza, ho iniziato a proporre il mio tentativo di lettura della storia e dell’esperienza contemporanea in base all’influsso delle “categorie” bibliche, il tema non aveva nessun ascolto» (ivi, p. XII). Non appare condivisibile, a tal proposito, l’affermazione di alcuni studiosi che giudicano l’analisi quinziana della Modernità carente dal punto di vista filosofico, nonché parziale e inapplicabile a causa della limitatezza della prospettiva scelta, che indicherebbe nell’ebraismo l’unica chiave di comprensione del Moderno (cfr., ad esempio, A. Gaiani, Ebraismo e modernità. Aporeticità e fecondità della riflessione di Sergio Quinzio, in AA. VV., Il messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., p. 137). Se pure in modo non sistematico, Quinzio pensa il Moderno in dialogo con i maggiori pensatori del Novecento europeo, mostrando un’apertura che nella cultura italiana, sia laica che cattolica, non era così scontata, sollevando, inoltre, questioni complesse e radicali alle quali tenta di dare una sua risposta, più o meno condivisibile, certamente, ma che nulla toglie all’acume del suo domandare, esercizio filosofico per eccellenza. Inoltre, non ci sembra esatto dire che Quinzio individui nell’ebraismo l’unica radice del Moderno. Nella maggior parte dei casi parla, infatti, di radici ebraico-cristiane, ben consapevole che in quel cristiane rientri a pieno titolo tanto l’eredità greca che quella romana, senza le quali il cristianesimo stesso, a partire dal suo inizio con Paolo, sarebbe impensabile. 6 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 11. 7 Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit.; R. Guénon, La crisi del mondo moderno, cit. 8 S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit., p. 68. Sull’unicità del mondo moderno e la sua assoluta novità rispetto alle epoche precedenti, ha a lungo riflettuto Heidegger, mettendola in relazione al processo di cristianizzazione del mon-

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do che, da ultimo, paradossalmente, provocherebbe la stessa secolarizzazione: «Non è che l’essenza del mondo da medievale che era divenga moderna; ma è il costituirsi del mondo a immagine ciò che distingue e caratterizza il Mondo Moderno» (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 89). Esso culmina nella costituzione dell’uomo come subjectum che rappresenta l’ente come objectum in vista della sua assicurazione. Ciò comporta una svolta radicale rispetto all’epoca precedente: per il Medioevo l’ente era sempre ens creatum, come per i greci era l’aprentesi, mai posto dall’uomo che, anzi, si poneva nella luce della sua apertura: «L’ente non diviene essente per il fatto che l’uomo lo intuisca nel corso della rappresentazione intesa come percezione soggettiva» (ibidem). Dunque, l’unicità del mondo moderno è, per Heidegger, un’unicità da leggersi nella prospettiva della Seinsgeschichte, come prodotto del soggettivismo moderno, giunto, con Nietzsche, alla sua apoteosi. Anche Quinzio proverà – senza, per altro, approfondire in modo sistematico questa sua intuizione – a considerare quello che, con felice espressione geofilosofica, chiama “monoteismo mediterraneo” in chiave teoretica, servendosi degli stessi elementi posti in questione da Heidegger: soggetto, oggetto, verità. 9 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 12. Sulle radici bibliche dell’Occidente si è soffermato anche P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Mondadori, Milano 2004. Chi aveva dato alle categorie ebraiche un’ampia risonanza all’interno dell’analisi della modernità era stato Karl Löwith, Significato e fine della storia, cit. Per ciò che concerne Heidegger, nonostante la sua grande attenzione al pensiero greco, non è mancata, in verità, da parte sua, un’acuta analisi di alcune categorie ebraico-cristiane come si può evincere, in particolare, dal corso friburghese del 1920-21: M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. Un esplicito richiamo alla tradizione ebraico cristiana per la costituzione della modernità si trova, ad esempio, anche a proposito del processo di secolarizzazione: «Ciò che in tal modo vuol prendere il posto del mondo ultrasensibile non è costituito che da derivati dell’interpretazione del mondo cristianochiesastica e teologica, la quale, a sua volta, ha desunto il suo schema dell’ordo, dell’ordinamento gerarchico dell’ente, dal mondo ellenistico-ebraico, la cui struttura fondamentale venne stabilita da Platone agli albori della metafisica occidentale» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri interrotti, cit., p. 202). Questo punto appare particolarmente importante in quanto Heidegger parla di mondo ellenistico-ebraico come fondamento dell’interpretazione “cristiano-chiesastica e teologica” del mondo, alludendo all’inestricabile intreccio delle due radici. Ciò che avrebbe determinato l’apparente predominanza della radice greca sarebbe dovuta, quindi, all’opera platonica di sistematizzazione, nella quale viene stabilita la “struttura fondamentale” dell’ordinamento gerarchico dell’ente. Sull’importanza dell’influenza del pensiero ebraico nel pensiero di Heidegger, fino a costituirne il rimosso, ha scritto pagine decisive M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, tr. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995. Sui rapporti di Heidegger con il cristianesimo cfr. L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927, Liguori, Napoli 2001. 10 Tanto Marx che Bauer, com’è noto, si sono occupati di questo tema: si veda una recente edizione che raccoglie gli scritti in proposito: B. Bauer - K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004.

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S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 18-19. S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 110. In tutta Europa eminenti figure di ebrei hanno caratterizzato la cultura dei paesi in cui sono vissuti, e, in particolare, proprio la cultura tedesca ne è stata profondamente segnata: «Privata dei nomi ebraici, senza quel lievito, la cultura di lingua tedesca del secolo scorso e della prima metà del nostro, nella quale non è difficile riconoscere il vertice della cultura moderna, sarebbe irriconoscibile» (S. Quinzio, Introduzione a AA. VV., Ebraismo e cultura tedesca, a cura di C. Resta, Sicania, Messina, 1990, p. 8). 13 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 18. 14 Cfr. a tal proposito V. Jankélévitch, La coscienza ebraica, tr. it. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 19952; ma anche J. Roth, Ebrei erranti, tr. it. di F. Bussotti, Adelphi, Milano 1895 in cui l’autore si occupa, in particolare, della differenza profonda degli ebrei orientali così distanti, ad esempio, dal sionismo di molti ebrei occidentali. 15 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 19-20. 16 «Mi sono sempre domandato se la santità, cioè la separazione e la purezza, l’essenza della commistione che si può chiamare Spirito e che anima il giudaismo – o a cui il Giudaismo aspira – può dimorare in un mondo che non sia desacralizzato» (E. Lévinas, Dal sacro al santo, tr. it. di O. M. Nobile Ventura, Città Nuova, Roma 1985, p. 86). 17 Cfr. E. Lévinas, Dal sacro al santo, cit., p. 87. 18 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 31. La questione del rapporto tra sacro e profano nell’ebraismo ha trovato echi differenti a seconda delle prospettive da cui è stato analizzato, come Quinzio stesso nota. Cfr. ad esempio A. Mandel, La via del chassidismo, tr. it. di Y. Colombo, Longanesi, Milano 1965; A. J. Heschel, Il sabato, cit. 19 S. Quinzio, Le Chiese cristiane di fronte alla secolarizzazione, in M. Iiritano, Teologia dell’ora nona. Il pensiero di Sergio Quinzio tra fede e filosofia, cit., p. 281. 20 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 125. Anche qui Quinzio assume posizioni che erano già state di Scholem e di Benjamin. 21 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 738. 22 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 159. Il trionfo della ragione come conseguenza del depotenziamento dei supremi valori era stato messo in luce già da Heidegger: «Al posto dell’autorità di Dio dileguata e dell’ammaestramento della Chiesa subentra l’autorità della coscienza, si impone l’autorità della ragione. […] Il fine ultraterreno della beatitudine eterna si trasforma nella felicità terrena universale. Le cure del culto religioso sono sostituite dall’entusiasmo per le creazioni culturali e per la diffusione della civiltà» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», cit., pp. 201-202). 23 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 160. 24 Ivi, pp. 160-161. Sulla figura dell’intellettuale Quinzio si è soffermato in L’impossibile morte dell’intellettuale, Armando, Roma 1977. 25 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 161-162. 26 Ivi, p. 163. 27 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 798. L’analisi della storia del cristianesimo da parte di Quinzio porta a concludere, come afferma Barban, che la 11 12

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Chiesa, con le sue successive riduzioni etiche, ha sottoposto la fede cristiana «alla più grande riduzione umanistica della sua storia. Di fatto, il cristianesimo ha iniziato, fin dal suo sorgere, un processo di secolarizzazione dei contenuti escatologici del kerygma giungendo, nel tempo moderno, ad una radicale mutazione del suo messaggio di salvezza» (A. Barban, Il tempo e la vigilanza. Le domande e l’inquietudine di Sergio Quinzio, cit., p. 43). 28 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 79. Concetto già presente nelle prime opere: «Attraverso il cristianesimo si va dalla religione al mondo moderno» (S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 42). 29 S. Quinzio, Le chiese cristiane di fronte alla secolarizzazione, cit., p. 281. Non si esclude che Quinzio, nella sua idea della secolarizzazione, sia stato influenzato anche da Heidegger che aveva indicato nella Entgötterung, la sdivinizzazione, termine forse traducibile anche con “secolarizzazione”, una delle manifestazioni principali del mondo moderno (cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 72). Anche per Heidegger come per Quinzio, la secolarizzazione, in quanto carattere specifico del Moderno, lungi dall’essere un fenomeno antitetico al cristianesimo, ne è il suo effetto più eclatante. Non bisogna, comunque, sottovalutare l’ampiezza di orizzonti da cui la questione della secolarizzazione può essere affrontata, come dimostrano le complesse e ricche riflessioni di Giacomo Marramao, che mette in evidenza i vari slittamenti semantici che il termine secolarizzazione ha subito nel corso del tempo (cfr. G. Marramao, Cielo e Terra. Genealogia della secolarizzazione, cit.; Id. Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, cit.). Sul tema della secolarizzazione riferimenti fondamentali, con cui anche Quinzio si è confrontato, sono H. Lübbe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, Il Mulino, Bologna 1972; F. Gogarten, Destino e speranza dell’epoca moderna. La secolarizzazione come problema teologico, Morcelliana, Brescia 1972; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit.; Agamben, invece, interpreta la secolarizzazione sulla scorta di Schmitt, ma alla luce di Foucault, come segnatura, «cioè qualcosa che, in un segno o in un concetto, lo marca e lo eccede per rimandarlo a una determinata interpretazione o a un determinato ambito, senza, però, uscire dal semiotico per costituire un nuovo significato o un nuovo concetto» (G. Agamben, Il Regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 16). La secolarizzazione entrerebbe nel sistema concettuale del Moderno proprio in quanto segnatura che lo rinvia al teologico: «Come, secondo il diritto canonico, il sacerdote secolarizzato doveva portare un segno dell’ordine a cui era appartenuto, così il concetto secolarizzato esibisce come una segnatura che lo rimanda alla teologia» (ibidem). 30 Il termine Mobilmachung è stato utilizzato da Ernst Jünger, che lo aveva mutuato, probabilmente, dal gergo militare in uso durante la prima guerra mondiale, intuendone le potenzialità descrittive rispetto ai fenomeni inerenti il mondo moderno: cfr. E. Jünger, La mobilitazione totale, in Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997. La mobilitazione si riferisce al movimento di trasformazione del mondo nella sua interezza, messo in atto negli anni seguenti alla Prima Guerra mondiale e che finirà per dominare l’Occidente, come chiarisce Resta: «Bewegung, movimento, questo è il Grundwort della nuova epoca che adesso si annuncia, e non è un caso se esso sarà la parola d’ordine del nazionalsociali-

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smo» (C. Resta, «L’imboscato», in L. Bonesio - C. Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000, p. 21). 31 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 83. Non a caso proprio Jünger fa frequente riferimento all’ordine dei Gesuiti o al Prussianesimo come modelli di disciplinamento atti a forgiare il nuovo tipo umano dell’epoca della tecnica. Cfr. in particolare E. Jünger, L’operaio. Dominio e Forma, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma 1991, p. 187. 32 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 84. Non a caso la Machenschaft, la macchinazione, viene considerata anche da Heidegger una figura essenziale del Moderno, intesa come «quella essenza dell’enticità che si predispone alla fattività [Machsamkeit] in cui tutto viene prima statuito [ausgemacht] come fattibile in vista della sua fattibilità [Machbarkeit]» (M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 559). La verità degli enti nel Moderno viene riconosciuta proprio nella macchinazione che persegue il dominio dell’ente mediante il pensiero calcolante. Sulla Machenschaft Heidegger si sofferma anche in M. Heidegger, Beiträge zur philosophie. (Vom Ereignis), hrsg. von F. W. von Hermann, Gesamtausgabe, Bd. 65, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989, §§ 61-68 e in Id., Besinnung, hrsg. von F.W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 66, Klostermann, Frankfurt a.M. 1997. Sulla Machenschaft cfr. S. Gorgone, Machenschaft und Totale Mobilmachung: Heideggers Besinnung als Phänomenologie der Moderne, “Heidegger Studies”, 22, 2006. 33 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 83-84. 34 Sulle orme della genealogia della morale cristiana di Nietzsche, riguardo alle strategie di disciplinamento, a partire da quella della confessione, fondamentali risultano le ricerche di M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, p. 54 e sgg. 35 Cfr. S. Quinzio, «La nascita del lavoro», in Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 85-93. Jünger aveva compreso la nuova dimensione metafisica del lavoro, nell’epoca della tecnica, come orizzonte onnipervasivo, tanto da affermare che «non può esistere nulla che non sia concepito come lavoro. Lavoro è il ritmo della mano operosa, dei pensieri, del cuore, è la vita diurna e notturna, la scienza, l’amore, l’arte, la fede, il culto, la guerra» (E. Jünger, L’operaio, cit., p. 62). Non a caso, dopo Nietzsche, è stato lo stesso Jünger a tematizzare la questione di un “nuovo tipo umano” che fosse all’altezza dell’epoca della tecnica, individuandolo, all’inizio della sua riflessione, nella Figura dell’Arbeiter, l’Operaio, colui che sa corrispondere alla mobilitazione totale attraverso l’arma micidiale della tecnica. Figura dell’uniformità, nata sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale, come Soldato, vestito, appunto, della sua monocromatica uniforme e pronto a morire in serie falcidiato da prodigiose armi di sterminio di massa; infinitamente sostituibile, egli è il milite ignoto, antipode dell’eroe greco o del cavaliere medievale. Anche in tempo di pace la mobilitazione totale non abbandona il mondo, ma solo i campi di battaglia, trasferendosi nelle industrie e nelle metropoli moderne, di cui l’Arbeiter è l’incontrastato attore. Cfr. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, cit. Per i risvolti nichilistici di questa Figura si veda l’ampio studio di P. Amato, Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo, Mimesis, Milano 2001, in particolare le pp. 41-55. Sulla questione del lavoro nel mondo moderno ha scrit-

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to pagine illuminanti S. Weil, Oppressione e libertà, tr. it. di C. Falconi, Edizioni di Comunità, Milano 1956. 36 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 89. 37 Ivi, cit., p. 90. Com’è noto questa tesi è stata sostenuta principalmente da Max Weber, che sottolinea come tale interpretazione sia stata possibile solo a partire dalla traduzione dei corrispondenti termini ricorrenti in ebraico e in greco con Beruf proprio da parte di Lutero, che ne accentuerà il carattere mondano (cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. di P. Burresi, Sansoni, Firenze 1984, pp. 138-163). Su questo argomento si è soffermato anche Agamben, il quale contraddicendo la tesi weberiana dell’indifferenza escatologica che caratterizzerebbe il termine klésis nel linguaggio di Paolo, interpreta, piuttosto, la klésis di Paolo come la «particolare trasformazione che ogni stato giuridico e ogni condizione mondana subiscono per il fatto di essere posti in relazione con l’evento messianico […] La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione» (G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 28-29). 38 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 91. 39 Ivi, p. 93. 40 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 164. 41 Ibidem. 42 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 159. 43 Ivi, p. 126. 44 Ivi, p. 165. 45 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 197. 46 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 80. 47 Ivi, p. 80. Il riferimento principale di Quinzio, ogni qual volta parla dell’Anticristo, è certamente – oltre che alla Seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo e all’Apocalisse giovannea – anche alla grande tradizione russa: V. Solov’ëv, Il racconto dell’Anticristo, in I tre dialoghi e Il racconto dell’Anticristo, tr. it. di G. Faccioli, Marietti, Genova 1996 e la «Leggenda del Grande Inquisitore», narrata in F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Polledro, Garzanti, Milano 1974, 2 voll. Anche il cattolico Schmitt fa spesso riferimento a questa figura supremamente ambigua che domina il Moderno, promettendo benessere e prosperità pianificati, al punto che, per sua mano, «la prigione dell’anima è diventata un’accogliente residenza estiva» (C. Schmitt, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler, tr. it. di V. Bazzicalupo, ESI, Napoli 1995, p. 89). Ma, com’è noto, al contrario di Quinzio, Schmitt auspica, seguendo un’antica interpretazione cristiana, non la fine del mondo, ma il suo resistere all’anomia, in virtù dell’opera ordinatrice del katéchon, su cui ci soffermeremo più avanti. 48 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 14. Carl Schmitt, nel 1929, aveva già delineato una storia del moderno scandita dal passaggio dal teologico al metafisico, avvenuto nel Seicento, quindi al morale-umanitario, durante l’Illuminismo, all’economico, compiutosi nell’Ottocento, all’epoca della tecnica, dominante nel Novecento, per giungere ad un tempo in cui si idolatra la tecnica come pseudoreligione in grado di salvare l’uomo. Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 167.

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49 Titolo del celeberrimo romanzo di Huxley, il quale con lucidità visionaria anticipa mirabilmente molti dei tratti “totalitari” del moderno (cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), in Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo, tr. it. di L. Gigli e L. Blanciardi, Mondadori, Milano 200519). Nello stesso orizzonte cfr. anche il testo, risalente al 1948, di G. Orwell, 1984, tr. it. di S. Manferlotti, Mondadori, Milano 200531, nonché F. Bordewijk, Blocchi (1931), a cura di A. Gnoli e F. Volpi, tr. it. di C. Pietrobelli, Bompiani, Milano 2002. 50 Una riflessione approfondita sul passaggio epocale verificatosi con la sostituzione dell’antica autorità dei sacerdoti con quella della nuova comunità degli scienziati, unici, nel moderno, ad amministrare la verità, era stata condotta da Simone Weil nelle sue opere di critica alla scienza moderna, a partire dalla sua tesi di laurea su Cartesio (cfr. S. Weil, Scienza e percezione in Cartesio, in Sulla Scienza, tr. it. di M. Cristadoro, Borla, Roma 19982). 51 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 91. 52 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 14. 53 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 104. 54 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 162. 55 Ibidem. Anche questa eccessiva enfasi sulla soggettività potrebbe avere una radice nella trasmutazione anticristica della verità cristiana. È stato proprio il cristianesimo, per primo, in particolare a partire da Paolo, a far crescere esponenzialmente l’attenzione nei confronti del foro interiore, della singolarità che, fin dalle Sacre Scritture ebraiche, si considerava creata a immagine e somiglianza di Dio. Quinzio, però, è convinto che l’importanza del singolo in tale tradizione fosse ben lontana dall’assolutizzazione che ne sarà fatta nel Moderno, come dimostra, ad esempio, il fatto che la salvezza e la redenzione messianica, nell’ebraismo, ma anche nel cristianesimo delle origini, non fossero patrimonio delle singolarità, ma del popolo, «non è la salvezza personale della propria “anima”. L’inaccettabilità che sento, dell’ingiustizia e della sofferenza, dell’orrore del mondo e della morte, non è certo qualcosa che riguardi solo, o propriamente, me stesso» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 100). Non a caso una delle tentazioni verso cui Quinzio si sente attratto è la considerazione orientale, rarefatta, della soggettività, anche se questa fascinazione non gli impedisce di scoprirne alcune contraddizioni; in Oriente, infatti, seppure in negativo, alla soggettività viene attribuita enorme importanza: «tutto, in fondo, mi sembra che finisca per ruotare intorno ad essa, come accade a tanti asceti in continua lotta con se stessi. Forse la consumazione del soggetto – alla quale si è giunti in Occidente per la via, in qualche modo opposta all’antica, dell’enfatizzazione della sua assolutezza – chiude il cerchio manifestandone l’inconsistenza» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 99). 56 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 186. 57 Ibidem. 58 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., pp. 85-86. 59 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 107. 60 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 129. 61 Ivi, p. 86. 62 Ivi, p. 135. Accanto all’esaltazione della debolezza, in Quinzio permane l’esaltazione di una forza vitale che, innanzitutto, è forza spirituale, come quella del

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guerriero, a cui occorreva una lunga preparazione prima di affrontare le battaglie corpo a corpo. Come aveva già avuto modo di mettere in evidenza Jünger nelle pagine dell’Operaio, è propria dell’uomo borghese la ricerca della sicurezza e la strenua difesa nei confronti di tutto quanto possa rappresentare una minaccia alla sua quiete. Quinzio, da parte sua, con acutezza, coglie come la ricerca a oltranza della sicurezza si possa trasformare in spasmodico desiderio di controllo, tanto da far avvertire con ancor più risalto il carattere di assoluta precarietà e insicurezza dell’esistenza umana: «Voleva essere l’avvento della sicurezza, fondata sulla razionale organizzazione delle cose; e l’uomo moderno vive in una perenne situazione di insicurezza, sotto continue minacce di guerre, di rivoluzioni di catastrofi di malattie. […] È la notte priva di certezza, la sfiducia di tutti verso tutti, il trionfo della serratura di sicurezza» (S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 92). 63 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 92. 64 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 98. 65 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 171. 66 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 169. Non si tratta, quindi, di un’analisi sostanziata solo teoreticamente, ma di riflessioni di uno ‘specialista’ di certo singolarmente estraneo a un percorso tecnico-scientifico-militare a cui, pure, non si è sottratto, utilizzandolo, anzi, come controprova di molti dei suoi pensieri; circostanza che, ci sembra, dia ancora più spessore alle sue critiche che, da più parti, sono state, invece, interpretate semplicemente come frutto di una visione pessimistica e oscurantista della tecnica e del moderno. 67 Cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 22 e sgg. 68 Ivi, p. 23. 69 Cfr. ivi, p. 24. 70 Ibidem. 71 Cfr. ivi, p. 25. 72 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 48. A rigor del vero Quinzio sembra qui fraintendere la posizione di Heidegger, per il quale la téchne greca è ben diversa da quella della modernità. Heidegger, in effetti, avrebbe sottoscritto l’affermazione quinziana sulla totale assenza di portata “pratica”, nel senso moderno, della téchne greca, anzi, la sua analisi si fonda proprio su questa distinzione: «La τε′ χνη appartiene alla produzione, alla ποι′ησις; è qualcosa di poietico […]. La τε′ χνη è un modo dell’αληθευ′ ειν. Essa disvela ciò che non si pro-duce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e riuscire ora in un modo ora in un altro» (M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 10). Dunque la tecnica, in Grecia, aveva a che fare con la verità come dis-velamento, era un modo di dis-velarsi dell’essere. Ma, e qui si può chiaramente notare la sottolineatura della discontinuità da parte di Heidegger, «il disvelamento della tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un produrre nel senso della ποι′ ησις. il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausfördert) e accumulata. Ma questo accade anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sí spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accu-

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muliamo» (ivi, p. 11). La trasformazione e la discontinuità per Heidegger – per lo meno, per quanto riguarda la questione della tecnica e della scienza moderna – si verifica solo a partire dalla scienza moderna e da Cartesio, dunque in un orizzonte tipicamente moderno, che ha ormai assimilato – e pervertito – tanto le categorie greche, quanto quelle ebraico-cristiane. 73 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 109. 74 Ibidem. Come nel caso del Moderno, sui temi inerenti a scienza e tecnica nel pensiero di Quinzio hanno parlato, anche soltanto accennandone, la maggior parte degli studiosi che con lui si sono confrontati, mettendone in evidenza la centralità in relazione all’analisi del Moderno. Si vedano i testi collettanei AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit.; AA.VV., Il Messia povero, cit.; “Humanitas”, 1, 1999; “Bailamme”, 20, 1996; nonché M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit. 75 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 35. 76 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 128 77 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 25. Interessanti, a tal proposito, le riflessioni di quei pensatori che si sono occupati della comparazione fra il mito occidentale di Faust e quello ebraico del Golem – si direbbe, quasi, un Faust ebraico – tendenti a sottolineare un rapporto diverso, pur sempre assolutamente rischioso, con la tecnica e col fare, valutando attentamente, ad esempio, l’ineludibile dipendenza esistente tra il Golem e il Maharal che, ogni giorno, deve dargli vita. L’essenza di tale rapporto è racchiusa, non a caso, nella parola incisa sulla fronte del Golem, ’emèth, verità, di cui, cancellando la prima lettera, rimane mèth, morte. Cfr. E. Wiesel, Il Golem, tr. it. di D. Vogelmann, La Giuntina, Firenze 1986; A. Neher, Faust e il Golem (Realtà e mito del Doktor Johannes Faustus e del Maharal di Praga), tr. it. di V. Lucattini Vogelmann, Sansoni, Firenze, 1987; G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit. 78 Cfr. in particolare M. Heidegger, Logos (Eraclito, frammento 50), in Saggi e discorsi, cit., pp. 141-157. 79 L’analisi heideggeriana non è così semplicisticamente orientata, in quanto l’ambito del lógos è ricondotto, molto più che al theorein, all’acuein, all’udire. La questione è complessa e non affrontabile in questa sede; si rimanda, piuttosto, a M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, tr. it. di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997; J. Derrida, L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, in La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, tr. it. di G. Scibilia e G. Chiurazzi, Laterza, Roma-Bari 1991. Per una trattazione specifica cfr. C. Resta, Il Logos di Eraclito, in Il luogo e le vie. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 1998, p. 19 e sgg. 80 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 25. Sull’importanza della parola nell’ambito dell’ebraismo sono innumerevoli i contributi. Cfr. in particolare, A. Neher, L’esilio della parola, cit.; A. J. Heschel, Il sabato, cit.; nonché l’opera poetico-filosofica di Jabés. Sull’importanza della parola in Quinzio ha dedicato particolare attenzione A. Scottini, Sergio Quinzio. Il profeta deluso, cit., p. 81 e sgg. 81 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 41. Vedi anche ivi, pp. 158-159. 82 Ivi, p. 40. 83 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 46. Cfr. F. Bacone, La nuova Atlan-

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tide, tr. it. e cura di O. Bellini, Armando, Roma 1998. 84 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 14. Tra le principali manifestazioni del mondo moderno Heidegger aveva indicato proprio la scienza e la tecnica meccanica – insieme all’arte, ricondotta all’estetica, alla cultura in quanto progettazione dell’agire umano e alla sdivinizzazione [Entgötterung]. La scienza moderna, a suo avviso, sarebbe ben diversa da quella antica o medievale, tanto da essere con esse incommensurabile. L’essenza della scienza moderna, infatti, consisterebbe nella ricerca sperimentale, sorretta dal metodo: «La scienza si costituisce a ricerca in virtù del progetto e attraverso l’assicurazione del medesimo nel rigore dell’investigazione. Rigore e progetto divengono però ciò che sono soltanto nel procedimento» (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 76). Non potendo, per ovvi motivi, entrare nel dettaglio di questa definizione heideggeriana, ci limitiamo ad osservare che, di fatto, la scienza moderna è resa possibile dalla matematizzazione e dall’esperimento che riproduce, in ambiente del tutto artificiale, i fenomeni naturali per meglio osservarli e verificare le ipotesi interpretative. Si ricercano, essenzialmente, delle regole e una regolarità nella natura: «Impostare un esperimento significa: rappresentarsi le condizioni secondo cui un determinato complesso di movimenti può esser seguito nella necessità del suo svolgimento e quindi esser controllato anticipatamente col calcolo» (ivi, p. 77). Il metodo scientifico sarà poi applicato anche allo studio dell’uomo. 85 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 47. 86 Secondo la decisiva interpretazione heideggeriana: cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit. 87 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., pp. 47-48. 88 Ivi, p. 50. Quinzio giunge a prefigurare un’identità tra tecnica e cristianesimo: «La tecnica è, oggi, il cristianesimo, con la sua ansia di penetrare il mondo, con la sua cieca fede che penetrarlo significa radicalmente trasformarlo e radicalmente trasformare la condizione dell’uomo» (ivi, p. 48). 89 Ivi, p. 152 90 Ivi, p. 51. Negli anni giovanili Quinzio era anche affascinato da tale potenza, ancora ben lontano dall’idea del Dio impotente e sconfitto che accompagnerà la sua maturità. Nonostante le aspre critiche alla tecnica, per un certo numero di anni la potenza di novitazione della tecnica deve avere esercitato su Quinzio una notevole attrazione. Probabilmente non saranno sfuggiti a Quinzio i possibili nefasti esiti di una riflessione di questo genere, liberata dalla consapevolezza del limite come spazio etico dell’operare umano. Non a caso proprio l’esaltazione di questa potenza, a partire da una certa interpretazione della vita e della volontà di potenza in Nietzsche, ha portato alla messa in questione dell’essenza dell’umano, fino a intravedere la possibilità di scenari post-umani (cfr. a tal proposito D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it. e cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 19992; R. Terrosi, La filosofia del postumano, costa & nolan, Genova 1997; M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino 2004; AA. VV., Umano, post-umano, a cura di M. Fimiani, V. G. Kurotschka, E. Pulcini, Editori Riuniti, Roma 2004; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2005). 91 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 51.

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92 M. Heidegger, L’impianto, in Conferenze di Brema e di Friburgo, a cura di F. Volpi, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, p. 57. 93 S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit. p. 56. 94 Ivi, p. 57. 95 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 51. 96 S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit. p. 63. 97 Ivi, p. 67. 98 Ivi, pp. 68-69. 99 Ivi, p. 70. 100 Ivi, p. 71. 101 Ibidem. 102 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 126. Un’eredità complessa, dunque, quella abramitica, in particolare ebraico-cristiana, che si esplicita su tre fronti fondanti della storia dell’Occidente: quello relativo alla concezione della temporalità, al concetto di verità e a quello di ragione tecnico-scientifica. Un orizzonte categoriale che si rivela filosoficamente rilevante, al di là di ogni contenuto dottrinale e dogmatico, configurandosi come un vero e proprio finis philosophiae, nel senso degli estremi confini raggiunti dalla filosofia, nata in Grecia e diffusasi, con il cristianesimo, nell’intero Occidente, ma anche nel senso del suo intrinseco limite, nell’impossibilità di sopravvivere senza confrontarsi seriamente con la radice ebraica. Nonché del suo essere, anche e sempre, un bordo, strabordante su ambiti che le erano estranei e che sono entrati, di fatto, nella sua costituzione ontologica, come nel caso della tecno-scienza moderna, divenuta una delle questioni, se non la questione filosofica per eccellenza. 103 Ivi, p. 125. 104 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 107. 105 Ibidem. 106 Ivi, pp. 107-108. Oltre che da Jünger, il quale aveva intravisto, assai precocemente, il carattere “universale” della tecnica e l’ambizione planetaria dell’Operaio, anche da Schmitt è messa in evidenza la possibilità, per la tecnica, di presentarsi come orizzonte neutro e pacifico, capace di «unire rapidamente tutti i popoli e le nazioni, tutte le classi e le confessioni, tutte le età e i sessi, poiché tutti si servono con la medesima ovvietà dei vantaggi e delle comodità del comfort tecnico» (C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, cit., p. 178). Come sottolinea Resta, a Schmitt non sfugge, però, anche il carattere ambiguo di una tecnica che, oltre a porsi come elemento di unificazione, «può essere impugnata come un’arma da chiunque […]. Così che la tecnica potrà indifferentemente servire la libertà o l’oppressione, a seconda della decisione politica che saprà servirsene» (C. Resta, Mondializzazione e tecnica nell’epoca del nichilismo. Due prospettive a confronto: Ernst Jünger e Carl Schmitt, in AA. VV., Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di L. Bonesio, Herrenhaus, Seregno 2002, pp. 96-97). Non a caso, nel periodo della guerra fredda, anche gli altri due grandi pensatori della tecnica, Jünger e Heidegger, condividono con Schmitt l’idea di una contiguità paradossale sul piano ontologico tra quelle potenze che apparivano nemiche sul piano ideologico: «Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante

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frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato» (M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1968, p. 48). Così anche Jünger: «Chi guardi in maniera più spregiudicata noterà con stupore una notevole e crescente uniformità che va estendendosi al di sopra dei singoli paesi […]. Un’unica e medesima tecnica viene fatta progredire verso la perfezione» (E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1998, p. 30). E lo stesso Schmitt: «L’odierna opposizione globale di est e ovest non è null’altro che l’espressione di gradi e intensità diversi dell’industrializzazione tecnica» (C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, in Terra e mare, cit., p. 97). 107 S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit. p. 55. 108 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 48. 109 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, tr. it. di S. Giammetta, Rizzoli, Milano 1985. 110 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., pp. 81-82. Anche Schmitt, dopo aver parlato in generale dell’anticristicità del moderno come pseudo-regno e simia dei, individua proprio nella tecnica lo strumento mediante il quale l’Anticristo si farà acclamare giusto dagli uomini, da lui sedotti mediante la potenza di trasformazione che esso incarna: «Il misterioso mago trasforma il mondo, cambia l’aspetto della terra e assoggetta la natura» (C. Schmitt, Aurora boreale, cit., p. 88). 111 Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966. 112 Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo, cit. Nel testo di Huxley, in effetti, si può assistere alle prove generali virtuali di un mondo immerso in un orizzonte interamente biopolitico. Dunque nessun oltreuomo nietzscheano ma, piuttosto, gli anonimi α, β, γ, δ di Huxley, ciascuno identificabile con una mera funzione sociale, a cui corrisponde una caratteristica, si direbbe, zoologica, piuttosto che biologica, sembrano destinati a sopravvivere nelle frange dell’ipermodernità. Non a caso la biopolitica appare, come aveva acutamente intuito Foucault negli anni ’70, una chiave di lettura sempre più in grado di comprendere gli umori di fondo del Moderno e, più ancora, del Contemporaneo. Cfr. a tal proposito M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, tr. it. di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005; R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004; P. Amato (a cura di), La biopolitica, Mimesis, Padova 2004. 113 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., pp. 81-82. 114 Così scriveva, infatti, Carl Schmitt: «Sorge una religione del progresso tecnico, per la quale tutti gli altri problemi si risolvono da sé, appunto per mezzo del progresso tecnico. […] Il XX secolo appare così, fin dall’inizio, come il secolo non solo della tecnica, ma anche di una fede religiosa nella tecnica» (C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, cit., p. 172). 115 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 13. Questa situazione di totale immersione nel mondo democraticamente concentrazionario della tecnica che Quinzio scruta in una prospettiva fenomenologica, era stata oggetto della riflessione di Heidegger che, a tal proposito, aveva parlato di dominio, nel moderno, dello stellen: «Stellen significa ora provocare, esigere, costringere a pre-

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sentarsi. Questo stellen accade in quanto Gestellung, “presentazione obbligatoria”, “obbligo a presentarsi”. Nel comando di presentazione obbligatoria (Gestellungbefehl) essa si indirizza all’uomo. Tuttavia, l’uomo, in mezzo a ciò che è presente nel suo insieme, non è l’unico ente-presente a essere riguardato dall’obbligo di presentarsi. Una regione è gestell, “presa di mira”, in vista del carbone e del minerale metallifero che affiorano in essa» (M. Heidegger, L’impianto, in Conferenze di Brema e di Friburgo, cit., p. 49). Lo stellen può darsi solo nell’ambito dell’ordinare, come tensione verso la sistematizzazione di tutto ciò che è presente, uomini e cose, in quanto risorsa da sfruttare: «Soltanto ciò che è ordinato in modo tale da presentarsi immediatamente lì sul posto sussiste (besteht) come risorsa (Bestand) ed è stabile (beständig) nel senso della sussistenza (Bestand)» (ivi, p. 51). Dunque, alla base del totalitarismo tecnico si troverebbe il principio universale dell’ordinamento: «L’ordinare concerne la natura e la storia, tutto ciò che è, e in tutti i modi in cui ciò che è presente è» (ivi, p. 53). Heidegger utilizza un termine chiave che dovrebbe mettere in luce l’essenza non tecnica della tecnica: «Chiamiamo ora Ge-stell, “impianto”, la riunione in sé raccolta dello stellen, in cui tutto ciò che è ordinabile è essenzialmente nel suo essere risorsa sussistente» (ivi, p. 55). L’impianto, dunque, «è l’essenza della tecnica» (ivi, p. 56). Su questi temi cfr. E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981; M. Cacciari, Salvezza che cade. Saggio sulla questione della Tecnica in Heidegger, in M. Cacciari - M. Donà, Arte, tragedia, tecnica, Cortina, Milano 2000; M. Ruggenini, L’essenza della tecnica e il nichilismo, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1997; C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, cit. 116 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 11. 117 Ivi, cit., p. 15. 118 Ivi, p. 16. In realtà la produzione ossessiva e continua non avrebbe a che fare, come sostiene Quinzio, con la sfera emotiva che legherebbe, mediante la felicità della soddisfazione, desiderio/bisogno e produzione ma, sostiene Heidegger, dal dominio del Gestell tecnico che, in quanto volontà di volontà, si autoalimenterebbe proprio mediante la produzione-consumazione, come chiarisce Resta: «L’uso [Gebrauch] diviene dunque usura [Vernutzung], nel duplice senso che, abusando degli enti, ne provoca il consumo e l’usura, ma anche nel senso che le energie sottratte vengono assicurate come fondo-risorsa [Bestand] disponibili per l’impiego» (C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, cit., p. 182). 119 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 12. 120 Al carattere “magico” della tecnica ha fatto sovente allusione anche E. Jünger. Cfr., ad esempio, A. Gnoli - F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 29-31. 121 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 12. 122 Ivi, p. 14. Com’è noto Bataille aveva offerto della categoria del consumare un’interpretazione articolata che ne definiva una struttura bifronte, basata da un lato sul concetto economico di conservazione e dall’altro su quello di dépense. A quest’ultima sarebbero da ascrivere tutte le spese improduttive per lutti, guerre, lusso, culto religioso, arte. La perdita e non l’accumulo starebbe alla base di questo tipo di attività, cfr. G. Bataille, La nozione di dépense, in La parte maledetta, tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Cfr. anche M. Mauss, Saggio sul do-

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no. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1965. 123 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 14. 124 Ibidem. 125 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 45. 126 Ibidem. 127 È stato Marc Augé a coniare, per questi siti dello sradicamento globale, la locuzione “non-luoghi” in riferimento alla mancanza di qualsiasi caratteristica che ne segni l’unicità e l’appartenenza a una specifica localizzazione in uno spazio qualificato storicamente e simbolicamente (cfr. M. Augé, Nonluoghi: introduzione a un’antropologia della surmodernità, tr. it. di D. Rolland, Eleuthera, Milano 1996). 128 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., p. 116. 129 Cfr. G. Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi, Torino 1983. 130 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., pp. 116-117. Per una illuminante e acuta ricognizione delle questioni relative al paesaggio, non solo dal punto di vista estetico, ma anche da quello geografico e culturale, si rimanda ai lavori di L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993; Id., Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; Id., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002; Id., Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007. In effetti la geofilosofia appare come uno dei fronti più nuovi e originali di riflessione nel panorama del pensiero contemporaneo, anche in Italia, a partire dalle prime pionieristiche pubblicazioni sul tema: cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994; C. Resta, 10 tesi di Geofilosofia, in AA. VV., Appartenenza e località: l’uomo e il territorio, a cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996, pp. 7-24. Interessante e ricco di materiali bibliografici il sito curato da L. Bonesio e C. Resta www.geofilosofia.it. 131 Memorabile l’attacco di Thomas Bernhard, letto e amato da Quinzio, ai politici senza scrupoli e agli architetti, artefici dell’imbruttimento delle città e della devastazione del paesaggio: «Era necessario, chiesi a Gambetti, che in questo secolo l’umanità violasse il più bello di tutti i mondi, per ucciderlo ed estinguerlo? […] Gli architetti hanno sfregiato la superficie della nostra terra, dissi, gli architetti, istigati e aizzati a compiere quello sfregio dai politici spietati. Prima sembrava che fossero state le guerre ad aver mandato in rovina le nostre città e i nostri paesaggi, ma è con mancanza di coscienza ben più grande che essi sono stati mandati in rovina, negli ultimi decenni, da questa pace perversa, dall’affarismo senza scrupoli dei potenti, che hanno dato via libera agli architetti, gli assassini al loro soldo» (T. Bernhard, Estinzione. Uno sfacelo, tr. it. di A. Lavagetto, Adelphi, Milano 1996, pp. 91-92). 132 S. Quinzio, Dalla gola del leone, cit., pp. 117-118. 133 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 47. 134 S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit. pp. 74-75. 135 Ivi, p. 75. 136 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 54. 137 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 98. 138 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1975,

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vol. VIII, t. I, 2 [127], p. 112. Quinzio tenta una lettura di Nietzsche che finisce per smussarne, in realtà, gli aspetti più violentemente anticristiani, pur sottolineando l’ignoranza che Nietzsche dimostra nei confronti del cristianesimo, del quaile – sottolinea Quinzio – egli non sembra conoscere né i dogmi né le Scritture, commettendo goffi errori ermeneutici indegni di uno studioso. Proprio quest’ignoranza, tuttavia, sarebbe, ad avviso di Quinzio, una delle ragioni per cui Nietzsche pronuncerebbe parole “autenticamente cristiane”: «Tolti gli orpelli romantici del compiacimento eroico, è la verità cristiana. […] Dionisio diventa Cristo. Le lettere del gennaio 1889 firmate “Dionisio” e “il Crocifisso” e “Dionisio il Crocifisso” fanno di Nietzsche un povero ma vero profeta cristiano, come si può essere profeti quando da molti secoli la chiave delle parole di Dio è perduta» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 177; cfr. anche p. 176). Per il confronto di Quinzio con Nietzsche cfr. Dionisio il Crocifisso, in La croce e il nulla, cit., pp. 168-177, in cui Quinzio rilegge e commenta alcuni dei frammenti postumi di Nietzsche degli anni 1887-1888. Com’è noto, l’interpretazione quinziana di Nietzsche in chiave cristiana non è originale nel panorama degli studi nietzscheani, affiancata, anzi, da quella di autorevoli studiosi tra cui, ad esempio, Giorgio Penzo, Nietzsche allo specchio, Laterza, Roma-Bari 1997. 139 Della portata epocale del nichilismo parleranno, dopo Nietzsche, Jünger e Heidegger, in un memorabile confronto: cfr. E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19985; Heidegger, nel suo corso universitario del 1940, ricorda come sia stato già Jacobi, probabilmente, a introdurre il termine “nichilismo”, che circolerà, successivamente, grazie a Turgenev, Jean Paul e Dostoevskij. Sottolinea, però, come, certamente, per Nietzsche il nichilismo sia stato “di più”, qualcosa di profondamente differente da ciò che questi autori intendevano: «Nietzsche parla del “nichilismo europeo”. […] “Europeo” ha qui significato storico e vuol dire lo stesso che “occidentale” nel senso della storia occidentale. Nietzsche adopera il nome “nichilismo” per indicare il movimento storico da lui riconosciuto per la prima volta, ma che domina già i secoli precedenti e che darà l’impronta al prossimo, e di cui egli compendia l’interpretazione più essenziale nella breve sentenza “Dio è morto”» (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, in Nietzsche, cit., p. 564). Per un’analisi della categoria di nichilismo, cfr. F. Vercellone, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1992; F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996; S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 19982. 140 S. Quinzio, Nichilismo e rivelazione, “Archivio di Filosofia”, 1-3, 1994, p. 170. Già Nietzsche, in realtà, leggeva il nichilismo in stretta attinenza al destino dell’Occidente nel suo complesso e lo riconosceva in quanto movimento storico-ontologico, da tempo in incubazione, attraverso il quale andrebbe interpretata la storia occidentale nella sua interezza. Heidegger condivide questa posizione – benché l’abbia affrontata da un punto di vista decostruttivo, mentre Nietzsche in una prospettiva genealogica – descrivendolo in termini molto simili a quelli che utilizzerà Quinzio: «Il nichilismo è un movimento [Bewegung] storico e non un modo di vedere o una dottrina qualsiasi sostenuta da qualcuno. Il nichilismo muove la storia in seno al destino [Geschick] dei popoli occidentali […]. Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è «morto», cit., pp. 199-200).

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«Agli Americani gli abitanti dell’Europa si presentano in complesso come esseri amanti della quiete e gaudenti, mentre anche gli Europei ronzano a sciami confusi come api e vespe» (F. Nietzsche, Umano troppo umano I, tr. it. di S. Giammetta, in Umano troppo umano I. Frammenti postumi (1876-1878), in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. IV, t. II, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, af. 285, p. 198). Sulla critica alla modernità, anche in relazione al nichilismo, si è soffermata C. Resta, Nietzsche, l’Europa e il destino dell’Occidente, in AA.VV., Friedrich Nietzsche oltre l’Occidente, a cura di L. Arcella, Settimo Sigillo, Roma 2002, pp. 127-142. Per la comprensione di questi aspetti del pensiero di Nietzsche appare insostituibile la fondamentale interpretazione di Heidegger, la cui summa è costituita da M. Heidegger, Nietzsche, cit. 142 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 56. Il riferimento è al celebre aforisma 125 della Gaia scienza, intitolato L’uomo folle: «“Dove se n’è andato Dio?” gridò “Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi ed io! Siamo tutti assassini! […] Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!”» (F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 19939, af. 125, pp. 162-163). Già Heidegger aveva sottolineato come questo aforisma non fosse, banalmente, un’affermazione personale di ateismo e occorresse, piuttosto, chiedersi se «qui Nietzsche non faccia che pronunciare la sentenza che, inespressamente, fu già sempre alla base della storia dell’Occidente metafisicamente determinato» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», cit., p. 195). La sua importanza, dunque, è legata a una questione ontologica, poiché con questo annuncio, in modo definitivo, si chiuderebbe filosoficamente lo spazio della trascendenza, come spazio a partire dal quale poter porre i valori. Dunque, anche secondo Nietzsche e Heidegger, l’annuncio della morte di Dio risuonerebbe fin dall’inizio della storia del pensiero occidentale e sarà Heidegger a metterlo direttamente e analiticamente in relazione con il cristianesimo. Quinzio, rispetto a queste prospettive, compie, se così si può dire, una sorta di translocalizzazione da Atene a Gerusalemme, conservando, in un certo senso, il metodo heideggeriano e le sue conclusioni, pur rifiutando di attribuire alla filosofia greca la responsabilità della deriva nichilistica, frutto, invece, di un percorso interno a ebraismo e cristianesimo. 143 Sulla concezione quinziana del nichilismo cfr. M. Iiritano, “Sentieri attraverso il nichilismo”. Ultimità e crisi del cristianesimo nel pensiero di Sergio Quinzio, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 46-55, in cui l’autore mette in evidenza la distanza di Quinzio dalle posizioni che non lasciano spazio alla speranza, indicata, invece, come tratto fondamentale della riflessione quinziana. Essa è, infatti, basata sul mistero della croce di Cristo, non tanto come simbolo di vittoria, ma come sfida mai garantita nei confronti del nulla, nella consapevolezza di una possibile “sconfitta di Dio”, rispetto alla quale l’atteggiamento da assumere non sarebbe, comunque, l’accettazione, ma la rivolta. Su questo tema Iiritano torna in Teologia dell’ora nona, cit. La stessa chiave ermeneutica, centrata sulla sottolineatura della croce come possibilità di non naufragare nel definitivo nulla, è assunta da Angelo Scottini che, tuttavia, insiste, forse eccessivamente, sul “radicale pessimismo” di Quinzio, sulla sua solitudine e delusione, assimilandolo quasi più al nichilista passivo di Nietzsche che a un messianico appassionato, quale era in realtà (cfr. A. Scottini, Sergio Quinzio. Un profeta deluso, cit., p. 115 e sgg.); Regina, invece, afferma l’insostenibilità 141

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della tesi di un Quinzio “credente nichilista”, se si intende, con questa definizione, che egli negasse la possibilità di una salvezza piena e la resurrezione dei morti (cfr. U. Regina, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, cit., pp. 131-132). Sulla stessa linea anche Piero Stefani, che critica una certa ermeneutica, di parte laica, del pensiero di Quinzio, tendente a sottolineare semplicemente alcuni aspetti della kénosis di cui egli parla, sottovalutandone la fede nella redenzione finale (cfr. P. Stefani, La croce non è il nulla, “Il Regno”, 8, 1996, pp. 251-253); Ciancio, a differenza di Regina, riconosce, invece, la tesi quinziana della derivazione cristiana del nichilismo (C. Ciancio, Il Regno di Dio e lo scandalo del male, cit., pp. 55-58). 144 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 216. Massimo Cacciari, a partire dalle riflessioni di Quinzio sulla “sconfitta di Dio” e il loro rapporto con il nichilismo, osserva che «la storia non potrà mai determinare che il silenzio di Dio è toutcourt la sua sconfitta – a meno che la stessa “prima” rivelazione non debba venir concepita come rivelazione della morte di Dio» (M. Cacciari, Apocalittica di Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 23). Proprio questa questione lascerebbe emergere, ad avviso di Cacciari, l’ambiguità della posizione di Quinzio che sancirebbe, di fatto, una coincidenza della teologia della croce con “la morte di Dio” (cfr. ivi, p. 24). La via seguita da Quinzio di fronte a queste aporie sarebbe una via non teoretica e non teologica, ma soggettiva. Una rielaborazione fenomenologica, pur profonda e radicale, della sua esperienza di fede disperata, capace di svelare l’orrore, proprio perché capace di sperare contro l’evidenza della necessità della morte. A margine, però, si potrebbe osservare che la rielaborazione di Quinzio, pur nascendo, con tutta evidenza, da un’esperienza soggettiva, rifiuta di essere letta esclusivamente in chiave di confessione esperienziale. Se è vero che per Quinzio cristianesimo e nichilismo coincidono in quanto storia dell’Occidente, ciò significa che la salvezza cristiana non può darsi in questo mondo. Il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia, promulgato da Mysterium iniquitatis è proprio la trascrizione ‘teologica’ di quest’assunto. 145 Cfr. S. Quinzio, Cristianesimo e nichilismo, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 67-70, in cui egli discute alcune delle posizioni filosofiche di questi autori, rilevandone affinità e differenze rispetto al suo pensiero. Per ciò che concerne il rapporto con Vattimo, importante è l’articolo di S. Quinzio, L’ultima buona chance, in S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., pp. 65-68, dedicato alla recensione di un testo di Vattimo (La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Garzanti, Milano 1985), in cui Quinzio entra in un serrato confronto proprio sui temi del nichilismo. Importante anche l’intervista rilasciata dallo stesso G. Vattimo, Nichilismo e salvezza, in AA.VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., pp. 145-151, in cui egli discute del suo rapporto con Quinzio, evidenziando anche un certo debito nei confronti di quest’ultimo in riferimento all’idea del cristianesimo come abbassamento e secolarizzazione e soffermandosi sulle obiezioni mossegli da Quinzio, soprattutto a partire dallo scarto esistente, per Quinzio, tra la salvezza e il nulla; scarto costituito dalla fede nella resurrezione, senza la quale la kénosis finirebbe nell’apocalisse del nulla (cfr. ivi, pp. 147-148). Sul rapporto di Quinzio con i filosofi e gli intellettuali italiani si sofferma lungamente M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit. 146 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., pp. 56-57. In quest’ottica,

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nella morte di Dio annunciata da Nietzsche risuonerebbe, seppure in forma invertita e anticristica, la morte del dio fattosi uomo, e l’avvento del nichilismo come destino dell’Occidente coinciderebbe con il carattere intrinsecamente kenotico e nichilistico del cristianesimo in quanto religione della morte di Dio. È peraltro evidente, al di là della suggestione di questo accostamento, quanto divergenti siano, per altri versi, le visioni di Nietzsche e di Quinzio rispetto al “nichilismo cristiano”. Al di là della nutrita bibliografia sui complessi rapporti tra Nietzsche e il cristianesimo, senza qui poter sviluppare adeguatamente la questione, si può solo brevemente ricordare il giudizio radicalmente critico di Nietzsche nei confronti del carattere profondamente nichilistico di una religione definita plebea che mortifica la vita, per esaltare i deboli e i malriusciti. Per Quinzio, al contrario, è proprio l’aspetto kenotico, la debolezza, persino l’impotenza e la sconfitta di Dio, ciò che è necessario accogliere non solo come il significato più profondo del cristianesimo, ma anche come la tragica vicenda dell’uomo che deve sopportare l’abbandono di Dio. In un certo senso, per Quinzio, non vi è altra testimonianza di fede possibile se non ripercorrere il Calvario che conduce alla morte di Dio. Oltre questo orizzonte nichilistico non si apre lo spazio libero per l’affermazione superumana di una volontà di potenza che predica la sua fedeltà alla terra, in un orizzonte di assoluta immanenza, ma l’oscillazione drammatica tra speranza e disperazione che, alla fine, venga il Regno o il definitivo eclissarsi di Dio. 147 S. Quinzio, Cristianesimo e nichilismo, “Humanitas”, 1, 1999, p. 69. 148 Ivi, p. 70. 149 Ibidem. Del resto, come scrive Anna Giannatiempo, «ormai si può dire che il senso del nichilismo è quasi un senso capovolto: il nichilista non è più colui che nega un fondamento assoluto o dei valori eterni, ma il vero nichilista è colui che non vuol ficcare gli occhi dentro l’orrore, perché questo è oggi – per l’uomo di oggi – la realtà. È nichilista chi ignora che c’è un mondo del ‘sottosuolo’, del buio, dell’assenza, dell’assurdo, del non-senso, della disperazione: e che da questo tocca partire, ma prima occorre patirlo» (A. Giannatiempo Quinzio, La profezia del nichilismo, “Bailamme”, 5-6, 1989, p. 278). 150 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., pp. 55-56. L’ottica di Quinzio potrebbe definirsi, per coglierne i tratti portanti, filosoficamente benjaminiana e teologicamente apocalittica: solo a un’umanità redenta toccherà in eredità il suo passato e solo l’apocalisse potrà porre termine all’abominio della desolazione. Tuttavia, si insinua il dubbio, per Quinzio, che anche la redenzione finale potrebbe essere del tutto inadeguata rispetto all’immane sofferenza subita in tanti secoli di esistenza del mondo pre- e post-Christum. La “sconfitta di Dio” non appare tanto legata alla sua indubitabile terrena morte – a cui sarebbe seguita la resurrezione – ma alla non bilanciabile sofferenza “inutile” che peserà, secondo Quinzio, anche sul piccolo “resto” dei salvati. Anche Iiritano riflette su questa questione, condividendo la lettura “soggettivistica” di Cacciari e descrivendo l’atteggiamento di fondo di Quinzio come un «fermarsi al grido dell’ora nona, obbedire alla sua tragica ultimità che dice l’insostenibile verità della morte di Dio» (M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit., pp. 253-254), convinto che ciò significhi dover sopportare per fede «l’ipotesi di un cristianesimo senza salvezza – o, meglio, come sosterrà Vitiello, senza redenzione» (ivi, p. 254).

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151 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. 100. Quando Nietzsche, interrogandosi sul nichilismo, lo descrive come svalutazione dei valori supremi e mancanza di un fine, di fatto lo assume già come parte di un processo storico, «processo che egli interpreta come la perdita di valore di quelli che erano fino allora i valori supremi. Dio, il mondo ultrasensibile quale mondo veramente essente e tutto determinante, gli ideali e le idee, i fini e le ragioni che determinano e reggono ogni ente e particolarmente la vita umana: tutto ciò fa parte dei valori supremi» (M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», cit., p. 204). Ovviamente, mentre per Heidegger, il presupposto è quello di una verità intesa, cartesianamente, come certezza stabilita a partire da un subjectum, per Quinzio il presupposto è dato dalla verità intesa, ebraicamente, come fare. A nostro avviso queste due prospettive non si escludono affatto ma si possono integrare. 152 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. 100. Dopo Nietzsche l’ineludibilità del confronto con la morte di Dio e, quindi, con il nulla è stata al centro della riflessione dei grandi filosofi del Novecento: «La piena comprensione di un’epoca implica la conoscenza delle sue punte estreme, in questo caso, dunque, dell’incontro col niente sia nel suo aspetto attivo sia nel suo aspetto passivo» (E. Jünger, Oltre la linea, in E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 69). Come Jünger, anche Carl Schmitt e Martin Heidegger sono impegnati a risolvere la grande questione posta dal secolo breve, e cioè «come l’uomo possa resistere all’annientamento nel vortice del nichilismo» (ibidem). Jünger e Schmitt, pensatori del nichilismo, vogliono, in primis, cercare una via d’uscita rispetto al dato di fatto, rilevato anche da Quinzio, del suo ormai strabordante imperio: «insieme a Heidegger, accomunati dal medesimo domandare oltre la linea, oltre l’orizzonte che il nichilismo ha segnato, al di là di quel deserto che ha provocato, alla ricerca di un diverso abitare la terra. Oltre la forma-stato (Schmitt), oltre “il muro del tempo” (Jünger), oltre il Moderno che si prolunga e si compie in quel divenire mondo dell’Occidente e nel diventare planetario di quel nichilismo che Nietzsche, ancora nella metà del secolo scorso, aveva considerato europeo» (C. Resta, Mondializzazione e tecnica nell’epoca del nichilismo. Due prospettive a confronto: Ernst Jünger e Carl Schmitt, cit., p. 88). 153 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 56. 154 Ivi, p. 57. 155 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 211-212. 156 Ivi, p. 213. È probabile che il riferimento sia soprattutto a Gianni Vattimo, come egli stesso suggerisce discutendo delle osservazioni mosse da Quinzio alle sue posizioni filosofiche: «Un’altra considerazione ancor più rilevante […] è che io con la mia interpretazione del nichilismo e della kénosis finivo poi per comprendere anche una sorta di atteggiamento sdrammatizzante nei confronti della tragedia umana» (G. Vattimo, Nichilismo e salvezza, cit., p. 148). 157 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., pp. 213-214. 158 Ivi, p. 214. Per la figura del rizoma e le questioni ad essa connesse, riferimenti fondamentali sono G. Deleuze - F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975; Id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di G. Passerone, Cooper, Roma 2003. 159 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 214.

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L’espressione, come già accennato, deriva dal dialogo Jünger-Heidegger sul nichilismo. Mentre Jünger ritiene possibile “oltrepassare” la linea del nichilismo, Heidegger pensa necessaria, piuttosto, una interrogazione radicale dell’essenza non metafisica del nichilismo stesso. Jünger, a suo avviso, avrebbe tracciato una “topografia” del nichilismo – cioè una descrizione del luogo in cui il nichilismo è radicato e delle azioni che nel suo ambito sono possibili, compresa quella del suo eventuale superamento – in assenza di una “topologia”, intesa come ricerca e analisi del luogo a partire dal quale si de-cide il destino del nichilismo. Pur condividendo alcuni tratti della descrizione del nichilismo offerta da Jünger, Heidegger non pensa possibile la Überwindung, il puro oltrepassamento, della linea del nichilismo, quanto, piuttosto, una Verwindung, un andare oltre essa che, tuttavia, implichi e custodisca i mutamenti che l’avvenuto attraversamento ha provocato, senza pretendere, dunque, di cambiarne nulla. Come sottolinea Volpi, Jünger, in realtà, ritiene che la linea del nichilismo non ne segni il confine ultimo, ma si trovi, in un certo qual modo, nel suo punto mediano. Proprio per questo, dopo averla oltrepassata, ci si può ritrovare in un’ampia “zona grigia”, nella quale il nichilismo diventa esistenza quotidiana e normalità; pericolo supremo messo in luce più volte anche da Quinzio, senza l’ottimismo jüngeriano che ne vedeva, prima o poi, la possibilità di definitivo superamento. Cfr. E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, cit.; fondamentale per comprendere questo dialogo è la prefazione di F. Volpi, Itinerarium mentis in nihilum, in E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, cit., pp. 11-45. 161 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 97. 162 S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 202. 163 Ivi, pp. 202-203. 164 Queste soluzioni erano state proposte da alcuni filosofi con i quali Quinzio non ha mancato di confrontarsi. Cfr. S. Quinzio, Cristianesimo e nichilismo, “Humanitas”, 1, 1999, pp. 67-70; Si veda V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari, 1995, in cui, a partire dalla constatazione della morte del Messia, si prospetta un cristianesimo senza redenzione; cfr. anche i più recenti sviluppi di questa prospettiva: Id., Il dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, in particolare le pp. 113-116 in cui Vitiello si confronta proprio con il pensiero di Quinzio; si veda, inoltre, S. Natoli, I nuovi pagani, il Saggiatore, Milano 1995, in cui l’autore, come rivela il sottotitolo (neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo), propone proprio una nuova etica del finito, non anticristiana, ma presentata a partire dal dato di fatto del sempre più tenace dubbio, nella modernità, sull’esistenza di Dio. 165 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., p. 57. 166 Ibidem. 167 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 757. 168 S. Quinzio - L. Lestingi, La tenerezza di Dio, cit., pp. 57-58. 169 Ivi, cit., p. 58. 170 Per questa prospettiva ermeneutica mi permetto di rimandare a R. Fulco, Pensare apocalitticamente. La lotta messianica di Sergio Quinzio, in AA. VV., La sentinella di Seyr. Intellettuali nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004, pp. 131-164. Anche Iiritano condivide questa chiave di lettura: cfr. M. Iiritano, «Pensare apocalitticamente», in Teologia dell’ora nona, cit., pp. 223-249. 160

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Capitolo quarto

Dal Mondo al Regno

1. Ordine sacro e katéchon Benveniste aveva messo in luce la complessità dell’orizzonte semantico relativo al sacro, a partire dalla constatazione che le lingue indoeuropee non possiedono un unico termine per indicare la religione e che in ciascuna di esse esistono, in genere, almeno due parole ascrivibili a quest’ambito semantico – come sacer e sanctus in latino o hierós e hágios in greco. Una di esse indicherebbe la vitalità e la potenza della salvezza e dell’essere risanati, trasmessa dalla divinità agli esseri umani, mentre l’altra conserverebbe un forte richiamo alla separatezza e alla proibizione rispetto a qualcosa che deve rimanere fuori dalla portata degli uomini, difeso e custodito1. Questa dialettica sembrerebbe comune a tutte le religioni, tese, quindi, tra la dinamica dell’azione e della reazione, dell’apertura a-nomica e della chiusura istituzionalizzante e protetta dal nómos. All’interno delle singole religioni la differenza tra queste due accezioni – di cui l’una sarebbe il rovescio dell’altra – non è affatto chiara, per cui localizzare i punti di rottura e svolta interni è estremamente problematico. Quinzio, nei confronti di ebraismo e cristianesimo, prova a individuare, come si è visto, proprio questa frattura, questo passaggio, a suo avviso nefasto, dalla potenza feconda del messaggio originario, alla chiusura difensiva nel recinto dell’istituzione. La questione dell’istituzionalizzazione mondana dell’originaria comunità messianica è un bersaglio costante della vis decostruttiva quinziana e pietra angolare su cui fonda la critica alla religione ebraico-cristiana secolarizzata e ormai, o già da sempre, connivente con le dinamiche mondane. Abbiamo visto come, a suo avviso, proprio su questa riva si infrangerebbe, disperdendosi, l’onda vivificante della temporalità messianica, del 235

tutto assorbita dalla cronolatria mondana. La critica che Quinzio muove al giudaismo è, su questo fronte, in linea con quella al cristianesimo, benché costruita a partire da presupposti differenti. Da una parte, infatti, la santificazione e assolutizzazione della terrestrità, nei suoi esiti estremi, avrebbe condotto gli ebrei a una commistione con la profanità e, dunque, a una sorta di intrinseco secolarismo assoluto. Dall’altra, la trasformazione dell’attesa del Regno di Dio in una mera speranza spirituale avrebbe provocato nei cristiani, credenti nella reale anticipazione del Regno avvenire nella Chiesa istituzione, una secolarizzazione dei contenuti della fede, così trasformati in cardini della promozione del progresso mondano e della tecnica. All’origine del tralignamento del cristianesimo, infatti, non c’è la Modernità, che, anzi, come abbiamo visto, ne ha dispiegato tutta la potenza, traducendola in forma secolarizzata. È la Chiesa – secondo Quinzio – ad allontanarsi dal nucleo veritativo su cui si fondava, con un progressivo oblio di esso: «La secolarizzazione dell’annuncio cristiano comincia infatti all’interno della Chiesa, anzitutto con l’esperienza del mancato compimento delle promesse e delle attese escatologiche presentate nel Nuovo Testamento come vicinissime a realizzarsi con il ritorno di Cristo, con la sua parusia»2. Sarebbe, allora, proprio nell’ordine sacro, in quanto struttura teologico-politica, che si celerebbe il seme della secolarizzazione e dell’antimessianicità della Chiesa; nella semplice esistenza di tale ordine Quinzio scorge, infatti, la possibilità che esso degeneri in mero ordine umano3. Questa possibilità è ipotizzabile, a suo avviso, già a partire da un’attenta lettura – sine glossa secondo lo stile del Commento alla Bibbia – dei primi libri dell’Antico Testamento, in particolare del Levitico, che assumerebbe un valore paradigmatico ai fini della comprensione del rapporto tra ordine teologico-politico e redenzione: «Nel confronto tra il Levitico e la perfetta purità che Paolo vede instaurata dalla redenzione operata dal Messia c’è tutto il senso del mio “commento”. Che rapporto c’è tra ordine sacro e salvezza?»4. La possibilità di trovare una risposta è cercata nel Levitico perché esso descrive un periodo di stasi in cui la salvezza 236

e l’arrivo nella terra promessa tardano a realizzarsi e occorre, dunque, tenere viva la memoria delle promesse attraverso un complicato rituale, che offre la misura dell’abisso tra ciò che si era sperato e ciò che è realmente accaduto: «Poiché la salvezza è fallita, si edifica in suo luogo l’ordine sacro […]. Il Levitico che lo descrive è, di fatto, un elenco di immolazioni, di malattie, di brutture, di contaminazioni, […] seguito da un meschino tariffario per la valutazione di ciò che è offerto in voto»5. L’ordine sacro, quindi, si formerebbe già da sempre e soltanto in luogo del Regno che sarebbe dovuto venire, in luogo della santificazione assoluta dei tempi messianici, e, nonostante lo sforzo di edificarlo secondo norme che rispecchino la santità comandata da Dio, nulla sembra poter colmare le lacune dovute alla finitezza di coloro che ne fanno parte: «L’ordine sacro è un edificio che appoggia l’una sull’altra sempre più alte purezze, ma tutt’intero si sostiene su sottostanti sempre minori purezze, in definitiva si regge su fondamenta di impurità»6. Di fatto, dunque, l’ordine sacro non è la salvezza e l’appartenervi, rispettandone le regole, non salva; ciò vale per qualsiasi tipo di ordine sacro, in quanto edificato nel mondo. La ragione di ciò sembrerebbe ontologica, ancorché teologico-politica: «Tutta la vita dell’uomo, in quanto separata da Dio che è l’inaccessibile santo, è impura. Se non tutti i gesti che l’uomo può compiere sono dichiarati impuri è solo perché la mente rifugge dalla vertigine dell’abisso»7. La santità appartiene solo a Dio e al suo Regno, mentre il mondo ne è evidentemente escluso, secondo una posizione che Taubes avrebbe definito marcionita8. Quinzio – che si muove in bilico tra la difesa dell’azione violenta di giudizio e condanna attesa da parte di Dio per il Giorno del giudizio e la figura del Dio non-onnipotente e “povero”, senza possibilità di concreto intervento nel mondo, appartenente, invece, a Satana – non può che condannare tutto ciò che nel mondo si pone ciecamente come alternativa al Regno o come suo surrogato. L’insopportabilità del male e del dolore non diminuisce con il trascorrere del tempo, ma, anzi, aumenta sempre più, proprio perché misura il rimandarsi infinito del Regno, in cui ogni lacrima sarà asciugata. Male e dolore, dun237

que, divengono “residui inassimilabili” per una riflessione che parta dal presupposto della fede in un Dio buono e onnipotente9. Il fatto che l’ordine sacro sia nel mondo, non lo condiziona solamente nei suoi sviluppi esteriori, ma nella sua essenza. Il limite, infatti, non è contingente, ma consustanziale alla natura di qualsiasi mondano ordine teologico-politico, destinandolo alla storicità e a “finire” nell’ultimo giorno, che potrebbe essere ora. Ogni ordine sacro – e qui risiede la sua insuperabile contraddizione intrinseca – nel momento in cui è costituito, di fatto è ormai lontano dalla prospettiva della fine imminente, è già secolarizzato, appartiene al mondo e alle sue tenebre. L’ordine sacro è, dunque, segnato dal tragico paradosso di doversi “compromettere” con il mondo, per cui anche la secolarizzazione appare, a ben riflettere, inevitabile e non frutto di un’eterogenesi dei fini: L’ordine sacro, che è ordine necessario, ordine inevitabile, unica possibilità per chi assurdamente vive fuori della salvezza, è sempre impotente a purificare tutta l’immensa impurità, debolezza, pena, fatica che è il vivere nel mondo. Non può mondare i lebbrosi come li monderanno i profeti e Gesù, ma solo controllarli, per dichiararli malati oppure guariti. Il sacerdozio riconosce, distingue, separa, circonda, protegge, limita, non salva10.

Ordine sacro e salvezza sono, quindi, inconciliabili. L’ordine sacro si dà solo in attesa della salvezza, ma, in questo frattempo, dovendo misurarsi con il mondo, finisce per smarrire la propria separatezza da esso. È proprio la perdita della concezione della santità come sfera altra e oltre, la sua con-fusione con l’ordine del mondo, a essere radice della sopravvivenza, anche secolarizzata, dell’ordine sacro ebraico e cristiano, forse storicamente inevitabile, ma non santificabile11. Di qui la radicale insufficienza dell’ordine sacro: «Per questa sua fondamentale inadeguatezza, l’ordine sacro non può che moltiplicarsi, estendersi implacabile nello sforzo inconcludente di giungere a compensare e a riscattare tutta l’impurità»12. Tutto, in esso, si trasforma in ossessionante tentativo di ordinare mediante l’etica e la morale, che, perciò stesso, crescono come un enorme asces238

so sulla semplicità inaccessibile del santo, contrapposta a un complesso apparato di norme, piccoli ingranaggi che servono a muovere il complicatissimo congegno morale imperante in ogni ordine sacro. Una sorta di “apparato” etico al quale sembra impossibile sfuggire e che costituirebbe la malattia mortale dell’ordine sacro: «La maledizione della precisione non è meno necessaria nell’orizzonte sacro che nell’orizzonte tecnico, il quale ne ha preso il ruolo. […] L’ordine sacro, all’opposto della salvezza è complicato. […] Le descrizioni dell’ordine sacro tendono all’estrema precisione, e proprio nel fare questo accumulano errori e contraddizioni»13. Ogni ordine sacro si presenta, innanzitutto, come frutto di una decadenza, di un disfacimento, di un allontanamento, a cui forse solo al profeta, alla sua voce solitaria, è dato sottrarsi: «l’attesa della salvezza da parte del popolo santo decade nella ritualità irrigidita dell’ambito sacrale, la quale riveste poi le strutture mondane di un regno simile a tutti gli altri regni, strutture che infine si disgregano lasciando un vuoto caotico, dove il profeta, l’uomo di Dio, è solo»14. La solitudine del profeta è da attribuire, innanzitutto, alla coscienza vigilante che mai gli fa perdere di vista l’essenza transeunte di ogni ordine umano e, quindi, anche dell’ordine sacro, sacerdotale, dal quale, non a caso, raramente sono sorti profeti. Il profeta resta l’unica sentinella messianica in un orizzonte mondanizzato in cui il rito, lungi dal custodire una potenza vivificante e rinnovatrice – come nelle antiche religioni cosmiche – diventa mortifera nenia per le coscienze, assopite nell’abitudine della ripetizione senza più domande. Dall’Antico al Nuovo Testamento la condanna dell’ordine sacro, dei luoghi di culto, del possesso delle formule di accesso a Dio, trova voci autorevoli ma, per lo più, impotenti, proprio perché fuori dal sistema dell’ordine sacro. Lo stesso Gesù di Nazareth, grande critico dei farisei, zelanti rappresentanti dell’ordine sacro giudaico, aveva messianicamente previsto la fine del tempo in cui l’adorazione dell’unico Dio dovesse essere legata a un luogo o a un popolo, annunciandone uno in cui tale adorazione sarebbe divenuta, piuttosto, azione di coloro che hanno la capacità di adorare Dio in spirito e ve239

rità, “i veri adoratori” (Gv 4, 21-24), al di là di ogni specificità di tempo, spazio e ordine sacro: L’ora dunque è venuta duemila anni fa: l’ora in cui doveva finire l’ordine sacro; in cui non si doveva più adorare Dio in questo o in quel luogo destinato a degenerare sempre in “casa di commercio” (2, 16); in cui non ci doveva più essere tempio, perché il Signore stesso viveva in mezzo agli uomini […]. Il culto sacro è iterazione, condanna alla ripetizione di gesti mai decisivi15.

La decisività è, per Quinzio, segno messianico, mentre tutti gli accomodamenti e i compromessi restano segni tipici della vita nell’orizzonte mondano; così come nella riflessione sul tempo la durata era identificata con il male, l’iteratività rituale viene considerata un male proprio per la mancanza di attimi decisivi. Non potrebbe sussistere un ordine sacro senza una ritualità che rappresenti, mediante una complessa simbologia, un elemento di polarizzazione delle energie spirituali, ma, forse, soprattutto emotive, di chi sostiene, con la propria adesione, lo stesso ordine sacro. A causa di questa sua autoreferenzialità senza vie d’uscita – che non siano verso una sempre maggiore importanza dei suoi amministratori e dei luoghi dove esso, in fin dei conti, si autocelebra – i profeti ne desiderano la fine, come segno messianico per eccellenza. Tuttavia, si è visto, proprio su questa spiaggia si arena la grande arca ebraico-cristiana. Anche per i cristiani, infatti, l’istituzionalizzazione in un ordine sacro diviene ben presto ineluttabile, con tutte le conseguenze che Quinzio aveva già considerato per gli ebrei, ma, se si vuole, con una tragicità ancora più lacerante, a causa della viva certezza dell’identificazione di Gesù di Nazareth con il Messia, dunque dei tempi della prima comunità cristiana con quelli messianici; illusione che, penosamente, i testi che narrano i suoi primi passi nella storia, cercano di eludere: Gli Atti degli apostoli sono perciò il libro più penoso della Bibbia, il più pieno di accomodamenti e di lacune; quello che oggi può consentirci di misurare la tragedia della chiesa […]. L’orizzonte degli Atti non è più quello della terra santa dove a ogni istante si aspetta il compiersi del grande miracolo invocato dai

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profeti, ma quello di un mondo cosmopolita simile al nostro: grandi città ellenistiche […], lunghi viaggi […], autorità pagane […], fabbricanti di idoli […], maghi16.

La simmetria con la modernità è da Quinzio stabilita in base a fattori geopolitici e sociali, ma ciò che appare ancor più impressionante è che la decadenza della primitiva comunità cristiana – quindi la decadenza e il destino che sarà del moderno Occidente, che in essa ha le sue fondamenta – è ancora una volta, come per l’ebraismo, attribuita alla forma istituzionale che, da subito, le prime comunità assumono. Quinzio nota, ad esempio, l’esiguità dei passi neotestamentari in cui si parla di una comunità praticante la totale comunione dei beni, e ritiene che quella scelta iniziale fosse senz’altro di natura escatologica, dettata, cioè, dalla certezza di vivere i tempi ultimi e l’imminenza del Regno. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che già nella comunità di Antiochia, la seconda dopo quella di Gerusalemme, non si prevedesse la comunione dei beni, ma la proprietà personale in vista del proprio sostentamento, giustificata, a suo avviso, da un deciso attenuarsi dell’attesa. Inoltre, cosa ancor più sorprendente, una parte dei credenti nel Messia Gesù continuavano a frequentare regolarmente il tempio, nonostante l’annuncio della possibilità di un’adorazione di Dio non legata a un luogo di culto. Quando Paolo parla ai Tessalonicesi dell’Anticristo, l’uomo dell’empietà, lo descrive come «colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio» (2 Ts 2, 4). Quinzio si chiede a chi pensi, in realtà, Paolo e «la risposta è tremenda: pensa all’“arciapostolo” (2 Cor 11, 5; 12, 11) per eccellenza, a Giacomo “fratello del Signore”, il capo dei giudeocristiani da sempre avversi a Paolo, del quale la tradizione racconta che saliva al tempio (At 3, 1) incoronato con il diadema d’oro sacerdotale (Es 29, 36-38)»17. Un modo, ad avviso di Quinzio, per rivendicare un ruolo di somma autorità in un nuovo ordine sacro, atteggiamento che Paolo, da messianico, considera apostata: «La sua oggettiva apostasia dalla vera fede […], consisteva agli occhi di Paolo, […], nel fatto di 241

affermare la necessaria continuità dell’ordine sacro»18. La suprema apostasia sarebbe, perciò, rappresentata, già allora, dalla volontà di continuità di un culto legato al tempio e, quindi, di un ordine sacro, che ritarda, di fatto, l’avvento del Regno. Esso sarebbe seguito allo svelamento del mystérion tes anomías già in atto [energeítai], e quindi alla rivelazione dell’Anticristo, di cui aveva parlato Paolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 7): «Che cosa poteva, nel tempo apostolico, impedire la manifestazione antimessianica, anticristica, se non l’esistenza stessa di un altro legittimo sacerdozio ancora in funzione, quello mosaico che si celebrava nel tempio?»19. La forza normalizzante di tale potere – che è, anche e soprattutto, potere di contenimento sociale e politico – sedando l’attesa messianica e le dirompenti aspettative a essa connesse, si pone come ordine in quella che doveva essere l’anomia degli ultimi tempi. Questa, per Quinzio, sarebbe la dinamica d’inganno e la fenomenologia della seduzione operante nel mistero di iniquità: all’ordine sacro ebraico succede una comunità messianica che, quasi subito – a opera della seduzione di Satana, signore di questo mondo e del mistero d’iniquità che lo domina – si divide (da dia-ballein) e una sua parte, che si rivelerà vincente, diventa la pietra su cui edificare il nuovo ordine sacro. Essa non riesce più a riconoscere la perversione di ogni comunità che voglia potere nel mondo, che in esso voglia durare, tradendo la vocazione messianica, che avrebbe dovuto sospingerla ad affrettare la venuta del Regno: «Questo culto che si celebra in un tempio svuotato e condannato irreparabilmente alla rovina […] non è forse il segno che sta per rinascere un nuovo ordine sacro (At 6, 7) al posto del Regno non venuto?»20. Questo nuovo ordine sacro non può che essere, ontologicamente, apostata, termine che Quinzio coglie innanzitutto nel suo significato religioso, indicante un “allontanamento”, “una secessione”, “una defezione”. Questi movimenti di diabállein non riguarderebbero una separazione rispetto all’istituzione religiosa ma, questione cruciale, «nei confronti della fede messianica in Gesù»21. Dunque, colui che viene dichiarato apostata, suprema forma di iniquità, che alla fine dei tempi sarà rivelato 242

come Anticristo, deve essere necessariamente, ad avviso di Quinzio, qualcuno che prima aveva fede in Cristo e se ne è, successivamente, allontanato. Già nei suoi anni giovanili, Quinzio è certo che «l’anticristo deve essere un’entità “religiosa”, non politica né giuridica né culturale né geografica. Cosicché da Paolo è designato con il chiaro termine di “apostata”, e da Giovanni con le parole “sono usciti di tra noi ma non erano dei nostri”»22. Nella figura dell’apostata si concentra, quindi, l’iniquità crescente della storia, eppure, nota Quinzio, la Chiesa non si è molto preoccupata di riflettere a fondo su di essa, identificandola, di volta in volta, con realtà esterne a sé, essenzialmente per ammonire i fedeli o per bollare suoi nemici, «realtà per nulla misteriose, e dunque senza rapporto con il mistero di iniquità di cui parla Paolo»23. Preferendo allontanare da sé ogni sospetto, «la Chiesa […] non si è preoccupata del significato che l’“apostasia” poteva, o doveva, avere nei confronti di se stessa in quanto istituzione»24. Alla luce delle sue riflessioni genealogiche sull’apostasia e sul mistero di iniquità, Quinzio non sembra, invece, avere dubbi nell’indicare il luogo dell’apostasia, seguendo semplicemente la storia che dall’ordine sacro ebraico conduce all’istituzione della Chiesa: Non c’è più il tempio di Gerusalemme, nessuno può sedere in esso proclamandosi Dio. Chi sono oggi gli apostati, e dove possono trionfare? Non sono certo i peccatori, che anzi Gesù è venuto a salvare (cfr. Mt 9, 13), ma coloro che, come il fariseo della parabola (cfr. Lc 18, 11-12), sono convinti di avere Dio dalla loro parte, di fare la sua volontà, di possedere la salvezza nella sacralità del tempio (cfr. Ger 7, 4)25.

Inoltre, poiché Roma è sempre stata identificata come sede del potere, dell’autorità eterna, invulnerabile ai mutamenti temporali, e la Chiesa cattolica apostolica è divenuta anche, essenzialmente, romana, secondo Quinzio risulta ancor più evidente la connivenza con il potere mondano, per cui essa incarnerebbe, necessariamente, sia Gerusalemme che Babilonia: Dobbiamo dunque prendere atto dell’apostasia della Chiesa che elude lo scandalo della fede, che lo stravolge più o meno con-

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sapevolmente in ciò che fede non è, che riduce a etica la salvezza escatologica, e perciò ne fa un’opera ragionevolmente umana, anziché riconoscere e attendere l’umanamente incredibile miracolo di Dio. L’apostasia della Chiesa consiste nel porre se stessa come regno di Dio già in atto26.

L’apostasia è il fulcro del mistero di iniquità, secondo un’oscura dinamica che Quinzio rintraccia nella costituzione del nascente ordine sacro della Chiesa cristiana, subentrata a quello sinagogale. In luogo di quest’ultimo, essa è divenuta, anche, la nuova roccaforte della forza qui tenet (2 Ts 2, 6-7), la misteriosa forza frenante, il katéchon – qualcosa, “ciò che trattiene” (2 Ts 2, 6), o qualcuno, “chi trattiene” (2 Ts 2, 7) – che, agendo, ritarda la manifestazione finale dell’Anticristo, necessaria, tuttavia, in quanto preliminare all’avvento del Regno di Dio. Com’è noto si tratta di un passo particolarmente oscuro delle Lettere paoline, che ha conosciuto una ricca – e fantasiosa – fortuna esegetica. A partire da Agostino che non ne fornisce, in realtà, un’interpretazione, ma sottolinea l’importanza del concetto; a Tertulliano, che ha identificato la forza frenante con l’Impero Romano; a Eusebio di Cesarea, che considera la Chiesa strettamente legata all’Impero Romano, e pensa l’impero di Costantino come una manifestazione del katéchon; fino a Tommaso d’Aquino che vede il katéchon incarnato nella raggiunta unità della forza materiale dell’Impero Romano con quella spirituale della Chiesa, consentendone così il passaggio all’epoca medievale e alla potenza della respublica christiana. Se Agostino dichiarava di non comprendere a cosa si riferisse Paolo parlando di tale forza qui tenet, è da notare come Paolo si rivolgesse ai suoi interlocutori come se essi, invece, sapessero perfettamente a cosa o chi facesse riferimento27. Quinzio riconosce in tale funzione katechonica – che, ad esempio, per Schmitt caratterizzava positivamente la potenza e grandiosità della Chiesa28 – un’opera anticristica, e utilizza, quindi, questa categoria teologico-politica schmittiana rovesciandola29. Per comprenderla, Quinzio riflette, ancora una volta, partendo dalla realtà in cui si muoveva Paolo, sottolineando che, nella sua prospettiva temporale, circoscritta a un certo numero di anni, fossero ope244

ranti due forze (indicate con il neutro) identificabili con l’Impero e con Israele, o nelle persone (indicate dal “chi”) dell’imperatore e del gran sacerdote, «ma l’apostasia esclude, nella prospettiva di Paolo (del resto lealista nei confronti dell’impero, Rm 13, 1-7) che si tratti dell’impero pagano. […] A “trattenere” la manifestazione dell’Anticristo è il perdurare della sinagoga e della sua ostilità contro i credenti nel Messia Gesù»30. Dunque, metafisicamente, l’agente dell’anomia31 sarebbe anche lo stesso del katéchon, che, nel tempo apostolico Quinzio, come si è già detto, identificava nell’ordine sacro mosaico, perché, in modo eclatante, ha frenato l’opera del Messia. Ma la sua sede, che i messianici avevano tentato di scardinare dall’interno, è stata ben presto occupata: «nel tempio di Gerusalemme entreranno i cristiani giudaizzanti, gli “apostati” che continuando il culto e restando legati alle opere legali negano la morte salvifica di Cristo (Gal 2, 21)»32. Coloro che diventano apostati hanno anche tutto l’interesse, se così si può dire, a evitare la rivelazione del mistero di tale apostasia, perché, se esso fosse manifesto, anch’essi sarebbero distrutti, insieme a Satana che ne è stato causa33. Egli viene combattuto dal Messia come acerrimo nemico da annientare, svelando, infine, l’iniquità della forza katechonica la quale, lungi dall’essere una forza che, per il bene della comunità cristiana, allontana l’avvento dell’Anticristo, è essa stessa enérgeia dello stesso Anticristo, il quale, attraverso essa, si protegge, nascondendosi nell’apostasia della Chiesa, dall’annientamento finale a opera del Messia34. Lo status indicato come “mistero d’iniquità” – ad esempio secondo le note della Bibbia di Gerusalemme – sarebbe caratterizzato dall’azione di Satana, già da sempre operante nella storia. Secondo Quinzio, Satana, provocando la divisione in seno alla primitiva comunità messianica, causa l’apostasia di una parte di essa (a suo avviso, di quella guidata dai “superapostoli” Giacomo e Pietro, nonché della Chiesa che ne è seguita) conferendole, inoltre, la forza di “trattenere” la rivelazione di tale apostasia, ma, soprattutto, la rivelazione di chi l’ha provocata, Satana stesso. La parte di comunità messianica che non è riuscito a sottomettere, viene da lui perseguitata. Tuttavia, Satana, nel momento in cui dovesse es245

sere “s-velato”, “scoperto”, come Signore di quella parte di comunità apostata anti-messianica, sarebbe costretto a rivelarsi, alla fine, come l’Anticristo. Ma, poiché la parte di comunità messianica sedotta e apostata è diventata quella vincente e istituzionalizzata nella Chiesa, Quinzio può ben affermare: «Io so di dire la verità […] “l’Anticristo ha vinto”»35. La sua vittoria, però, come Quinzio sottolinea in modo abbastanza chiaro, è una vittoria in questo eone, in questo mondo, in cui domina la Chiesa apostata, innalzatasi al posto di Dio. Se stessero così le cose, come sembra di poter dedurre dalla riflessione quinziana, sarebbe Satana a conferire alla “sua” Chiesa – a quella parte di essa, istituzionalizzata, che ha tradito la fede messianica in Gesù – la forza katechonica. Se fosse rivelata l’apostasia e Colui, Satana, che l’ha causata, il mistero dell’anomia lo mostrerebbe nella sua forma finale di Anticristo e, a quel punto, come è scritto e come Quinzio crede fermamente, potrebbe essere sconfitto nell’ultimo giorno da Cristo: «Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta» (2 Ts 2, 8). In sostanza, solo lo smascheramento dell’apostasia, provocando lo scontro finale tra Cristo e l’Anticristo, potrebbe consentire la vittoria finale di Dio – o la sua definitiva sconfitta36. Dunque, secondo Quinzio, nel mistero d’iniquità che domina il mondo, la Chiesa nascente si presenta subito come apostata anticristico, nonché forza qui tenet: questa complessa sovrapposizione in essa di apostasia, anomia e katéchon è ben evidente nell’ermeneutica quinziana37. Tale intricato intreccio farebbe parte integrante del piano di seduzione di Satana, perciò mistero di iniquità: uno status ontologico riguardante il mondo, caratterizzato da un’incredibile durata, grazie al proteiforme nascondimento di Satana: «L’anticristo è uno, o molti; è qualcosa di impersonale, o di personale, come pure la forza che lo trattiene»38. Questa multiformità del male rende lo spazio per la speranza e la ricerca della Verità angusto e ai limiti del soffocamento da parte delle imperanti logiche mondane anticristiche. Un apocalittico messianico come Quinzio non avrebbe, del resto, potuto vedere nel katéchon alcunché di positivo, poiché 246

decisivo era per lui non frapporre ostacoli allo scontro finale tra Cristo e l’Anticristo, preludio indispensabile alla redenzione finale. Non a caso Pietro II – ultimo papa immaginato da Quinzio – arriverà a scrivere l’enciclica Mysterium iniquitatis che decreta il fallimento del cristianesimo e, con la sua morte, invocherà la fine della Chiesa. Estremo gesto di un uomo ormai solo, incapace di rappresentare altro che il fallimento dell’istituzione di cui non può più riconoscersi a capo. Quinzio, che, nella finzione letteraria, prevedeva, dopo quell’ultimo atto, lo spalancarsi delle porte all’evento apocalittico, ha constatato, invece, che il suo gesto di scrittura, e, quindi, anche quello di Pietro II, di fatto non è stato seguito da nulla, né dalla tanto agognata fine dei tempi ma, neppure, da qualche parola significativa della Chiesa, mentre, come decretato, il cristianesimo continuava la sua mondana sopravvivenza, ormai parte integrante e integrata della modernità anticristica: «finora è andata delusa anche la ben più modesta aspirazione: quella che un papa alzi la sua voce per parlare con autorità, in nome di Cristo, del significato sempre più terribile dei tempi che viviamo, della terra che abitiamo, e insieme della salvezza che attendiamo»39. Il «servire due padroni», Anticristo e Cristo, modernità anticristica e Regno di Dio, appare a Quinzio segno inequivocabile del fallimento del cristianesimo istituzionalizzato, di cui si può discutere a livello filosofico o teologico-politico, ma che, dal punto di vista della fede, viene da lui considerato addirittura un, pur dolorosissimo, dogma, come conclude l’amara finzione dell’enciclica Mysterium iniquitatis: «a partire dalla più volte citata profezia paolina sulla trasformazione del tempio di Dio in sede dell’apostasia anticristica, definisco solennemente, nei seguenti termini il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo»40. I termini scelti per definire tale dogma sono durissimi, si direbbe eretici: si afferma, in sostanza, la necessità della morte della Chiesa nel mondo, in attesa della resurrezione, sulla medesima via aperta dal Messia Gesù di Nazareth. Morte doppiamente blasfema dato che, nella finzione, è provocata dalla caduta – non viene utilizzato il termine suicidio, ma non si può non pensarvi – del papa Pietro II, che pre247

cipita dalla cupola di San Pietro dopo esservi salito e aver letto la sua ultima enciclica: «in questa morte culmina, e si consuma, il mistero dell’iniquità che domina l’intera storia del mondo»41. Questo destino di morte, ovviamente, non riguarderebbe solo la Chiesa, ma tutta la modernità e l’Occidente con cui essa si è identificata. Il tramonto dell’Occidente sarebbe, in primis, il tramonto del cristianesimo trionfante nella storia: «Poiché il cristianesimo si è imposto al mondo, la storia del mondo è da duemila anni la storia del cristianesimo. E la fine del cristianesimo è la fine del mondo»42. Quale politica può essere all’altezza di questo destino? O, meglio, vi può essere, di fronte a questo destino, ancora spazio per una politica che non si lasci irretire nelle strategie ritardanti del katéchon? 2. Critica del potere mondano Tra le grandi questioni su cui si è concentrata la ricerca di Quinzio, non si trova una trattazione specifica inerente il Politico, benché questioni politiche siano implicate – come abbiamo già avuto modo di vedere – all’interno della più ampia riflessione messianico-apocalittica. Se è vero, però, che le ansie apocalittiche e messianiche costituiscono, fin dagli anni giovanili, il segno caratterizzante del suo pensiero43, appare più complesso comprendere come esse influenzino direttamente la dimensione politica che, pure, è implicata nel frattempo storico, in cui prendono forma e senso i problemi inerenti modernità, secolarizzazione, tecnica e nichilismo. Tuttavia, a partire dagli scritti di Quinzio risalenti agli anni Sessanta, si palesa un suo singolare, quanto controverso, pensiero politico, che resta a margine e prende corpo solo in determinati frangenti. Questi sporadici momenti di emergenza sembrano, in ogni modo, sufficienti per comprenderne tanto l’evoluzione quanto gli elementi che permangono immutati fino alle ultime opere44. Si direbbe che la riflessione politica quinziana si sostanzi, in realtà, proprio a partire dal frattempo, letto nel quadro della concezione ebraico-cristiana della storia come “storia a termine”. Quest’ultima, del resto, è stata punto di partenza e riferimento sia dei rivoluzionari messianici, come Bloch, Benjamin o 248

Taubes, con la sua “apocalittica della rivoluzione”, che di Schmitt, “apocalittico della controrivoluzione”45. Proprio in tale costellazione ermeneutica, forse, il pensiero politico – o forse dovremmo dire “im-politico”46 – di Quinzio può trovare il suo attimo di conoscibilità. Per questo motivo, se è vero che il discorso quinziano non è propriamente un discorso politico, d’altra parte, non se ne possono sminuire i risultati politici, talvolta persino con espliciti intenti programmatici, come accade nelle sue prime opere, ma che, tuttavia, in forma più mediata, permeano anche le riflessioni della maturità47. Nel pensiero quinziano il concetto “politico” per eccellenza è quello di giudizio, reso autonomo dall’appartenenza alla sfera del diritto e della morale, e restituito alla dimensione messianico-apocalittica del linguaggio profetico; inteso, dunque, come azione suprema e decisiva, di cui lo stesso Quinzio, fin dagli anni giovanili, avvertiva la responsabilità e le potenzialità scardinanti: Intendo esercitare un’azione di rottura nei confronti della morta “cultura ufficiale”, imponendo, attraverso il frammento, una espressione nuova, libera dai “generi” e dai “gusti”, essenziale, immediata, predicante, operante, come forse era il parlare delle origini. Attraverso questo “modo”, voglio suscitare un sentimento della realtà come cosa da giudicare da fare da dominare da risolvere. Il progetto remoto (ma neanche la parola “remoto” va bene) è questa azione di giudizio-creazione, di dominio, di risoluzione. “Religione” dunque (ma se venisse intesa nel senso corrente, neppure questa voce andrebbe bene); e una “nuova politica”, certo48.

L’opera di scardinamento, dunque, dovrebbe essere compiuta, innanzitutto, proprio mediante un giudizio capace di mutare i parametri attraverso i quali la realtà viene interpretata e subita all’interno delle coordinate di un tempo cronologico svuotato della dimensione escatologica e riempito, piuttosto, da quella tecnico-economica. Per sfuggire alla rete tesa dalla «morta cultura ufficiale» e dalle sue logiche, occorre, secondo Quinzio, abbandonare stereotipi d’azione che comporterebbero, co249

munque, l’accettazione delle regole vigenti. Il linguaggio del “frammento” diviene, dunque, dardo scoccato contro il sistema, scheggia che può anche mortalmente ferire, e che, in ogni caso, non può essere trascurata, senza avvertirne il dolore o il fastidio. Ogni parola riappare purificata, come un cristallo ripulito dalla spessa roccia che lo nasconde, essenziale, immediata, e, proprio per questo, predicante, operante. La funzione politica del linguaggio si concretizza, dunque, nel suo incarnare «il parlare delle origini», quello profetico, che “fa la verità”: così la “religione”, religione delle origini, profezia, può essere anche «nuova politica», in un binomio riassumibile, di fatto, dal termine messianismo49. Proprio l’istituzionalizzazione, avvenuta quasi immediatamente a opera delle prime comunità cristiane, ha, però, originato, come si è visto, una frattura, decretando un artificioso sdoppiamento di quella che avrebbe dovuto essere, con l’instaurazione del Regno, la potenza unica e indivisibile del Messia, nelle due differenti forme del potere politico e di quello religioso. Tale cesura tra religioso e politico è considerata da Quinzio come «la remota origine della separazione delle cose di Dio dalla storia, dell’introduzione della doppia verità, dell’individualismo, della riduzione della religione a fatto morale ancorato alla buona fede, e cioè al relativo»50. Il cristianesimo istituzionalizzato avrebbe proiettato, infatti, la sua verità in un orizzonte soprannaturale e spirituale, slegandola dalla terrestrità propria della tradizione ebraica: «Da sempre e ovunque, fin dalle più remote e oscure origini, la politica aveva attinto i suoi modelli dalla religione; il cristianesimo, negando il regno, spezza questo rapporto»51. Per Quinzio, da quel momento, la politica ha perso la luce da cui era illuminata, a causa del cono d’ombra dell’assenza di ogni dimensione verticale, appiattendosi nell’orizzontalità delle discipline sociologiche e delle metodologie amministrative, messe a punto per la tutela della situazione di fatto: «Ciò che doveva essere uno – Dio e l’uomo, religione e politica – è stato spezzato, e le due parti staccate sono diventate nulla»52. Per Quinzio tale frattura assume un carattere destinale, che segna la storia stessa di tutta la politica occidentale – divenuta per essenza katechonica – con la conseguente cancellazio250

ne o radicale secolarizzazione del messianismo, la “religione” che Quinzio considerava tutt’uno con la «nuova politica». Tale cesura avrebbe provocato, in fin dei conti, «l’evasione dal problema di attuare politicamente le dimensioni assolute e perfette che sono il contenuto della speranza religiosa»53. Da questo punto di vista, Quinzio, negli anni giovanili, rivendica il carattere “totalizzante” della prospettiva cristiana: l’affermazione che Dio ha bisogno di Cesare (e Cesare di Dio), che il regno di Dio può coesistere con altri regni (è ancora il politeismo), che il cristianesimo è un fatto di individui singoli che possono scegliere una religione perché c’è chi pensa a mantenerli in vita, a dar loro una casa, un vestito, una moglie, l’ordine sociale, i semafori, le prigioni, la pace interna, la pubblica sicurezza: la “comunità civile”, “il cui principe è Satana”. […] Il cristianesimo uccide ogni altra politica. Una religione è una filosofia che si fa politica54.

L’unica politica “cristiana” sarebbe, allora, quella ispirata dal messianismo apocalittico, che prefigura la fine di questo mondo e di ogni sua forma politica. L’attuazione politica di tali dimensioni non riguarda la dimensione mondana se non nella misura in cui essa ci è data come spazio per l’attesa della definitiva instaurazione del Regno; si ricadrebbe, altrimenti, nell’ambito di quell’ordine sacro che Quinzio critica aspramente. La politica in senso proprio, dunque, non poteva interessarlo – soprattutto in quegli anni giovanili, pieni di fervore nell’attesa del Regno imminente – se non per condannarla come una delle plurivoche manifestazioni anticristiche presenti nel mondo55. Infatti, in linea con la sua fede messianico-apocalittica, l’atteggiamento di Quinzio nei confronti delle istituzioni politico-giuridiche mondane era – e, di fatto, è sempre rimasto – di scetticismo teorico e di sfiducia empirica, basata sull’osservazione della situazione mondiale, a partire dalla sradicata America per finire all’agonizzante Europa56. La questione posta da Quinzio non riguarda – al contrario di Schmitt – quale politica sia in grado di padroneggiare la tecni251

ca, perché quest’ultima gli appare, nei confronti della prima, smisuratamente dominante57. Di fatto, chi detiene il potere economico, può anche garantirsi un potenziale tecnologico dal quale è governato nella stessa misura in cui se ne serve per governare, in un circolo vizioso rispetto al quale la politica appare a Quinzio in una condizione servile, prigioniera, soprattutto, di una violenta riduzione dell’intera realtà a Mercato, ove tutto diviene merce da consumare: «pensare che leggi sanamente illuminate e governi santamente democratici possano risolvere il nodo dell’attuale riduzione della realtà a oggetto di consumo significa ignorare che gli stessi governi e le stesse leggi sono ormai oggetto di consumo, prodotti passivi della situazione, interni a essa, e quindi impotenti a risolverla»58. L’azione politica avrebbe ormai perso del tutto, secondo Quinzio, la centralità riservatele nel mondo classico, ma anche in quello precedente i conflitti mondiali, per assumere la connotazione di mera amministrazione, da espletarsi soprattutto sul piano economico. La politica, quindi, si sarebbe trasformata in un complicato apparato tecnico-burocratico, utile per gestire e organizzare i meccanismi socio-economici globali: «oggi la politica è declassata a tecnica e prassi; le idee, gli scopi ultimi, le ragioni profonde sono al di fuori»59. Il motivo principale per cui le ragioni profonde e gli scopi ultimi resterebbero al di fuori della politica attuale si celerebbe in quella cesura ontologica tra il Religioso e il Politico, che, dal momento in cui il Regno di Dio è stato spiritualizzato e la religione istituzionalizzata, è divenuta marchio del procrastinarsi dell’attesa e poi del suo totale oblio. Se, in ambito religioso, la Chiesa si è proposta ai fedeli come Regno di Dio già in atto, nell’ambito sociale il vuoto determinatosi dall’oblio della dimensione messianica sarebbe stato colmato, ad avviso di Quinzio, dall’astratta «struttura giuridica di una nuova forma pseudo-assolutizzante: lo stato»60. Questa tesi riprende, in sostanza, quella schmittiana secondo la quale tutti i concetti politici deriverebbero da principi teologici secolarizzati, ragion per cui non si potrebbe, a rigore, parlare di politica senza tenere conto della sua matrice teologica61; a differenza di Schmitt, però, Quinzio non ripone alcuna fiducia in 252

simili modelli secolarizzati, poiché la realtà sociale, «una volta trasferiti nel cielo teologico-politico i principi e le attese, rimane definitivamente dominio cieco e chiuso degli interessi particolari in conflitto tra loro»62. Le teorie che distinguono uno Stato, o un potere, buono da uno cattivo, tra i quali un cristiano avrebbe la facoltà di scegliere se aderire o meno, sono, secondo Quinzio, illusioni da respingere come ingenue e fuorvianti, poiché non è scontato che il male intrinseco al potere mondano si manifesti in modo eclatante, anzi «oggi basta guardarsi intorno per vedere che il metodo della seduzione, grandemente perfezionato, rende ormai superflua la persecuzione. La persecuzione diretta e violenta è appena una smagliatura nel sistema della seduzione»63. Lo Stato non sarebbe affatto, dunque, un ordinamento neutrale a cui aderire senza sostanziale partecipazione, in virtù della contrattualità che lo regola e che non obbliga a esplicite opzioni confessionali né ad officiare riti di sorta. Credere in tale neutralità, «significa sottovalutare enormemente gli effetti sugli uomini dell’autorità mondana»64. La condanna dello Stato coincide con quella del mondo e del suo antimessianico perdurare, in quanto esso ne costituirebbe, in un certo senso, la legittimazione e glorificazione, mediante gli onori e il rispetto che circondano tutti i suoi rappresentanti e gli organi che lo compongono. Il potere e l’autorità mondani, per altro, avrebbero una capacità di durare mediante mutazioni proteiformi che impedirebbero una loro radicale messa in discussione. Anche nelle moderne democrazie, in cui la questione dell’autorità sembra superata nella volontà collettiva, assurta a supremo valore, i problemi inerenti al concetto di autorità non sono affatto scomparsi: «all’autorità del più forte, all’autorità determinata dal diritto del sangue, si sono sostituiti via via altri tipi di autorità, fino alla sua attuale coincidenza con il potere economico. Tolto dall’orizzonte cosciente dell’uomo il concetto di autorità, forme sempre più deteriori di autorità hanno preso il sopravvento»65. Sarebbe, dunque, concretamente in atto una crisi concernente l’autorità che da reale e trascendente si sarebbe trasformata, sempre più, in autorità fittizia e immanente, costruita ad hoc 253

per governare masse e non più per guidare verso gli ideali assoluti propri dell’ambito religioso. Se l’unica autorità, come Quinzio ritiene, è quella di Dio, il resto non può essere che potere illegittimo, nei confronti del quale mantenere un atteggiamento di limitato e utilitaristico rispetto: «l’ossequio alla pseudoautorità è soltanto un’azione di uomini “astuti come il serpente” (il diavolo è il serpente), una tattica, un attendere il momento, un temporaneo non resistere alla violenza. La predicazione contro la falsa autorità è fondamentale, è anzi la sola predicazione»66. Sull’autorità in Israele e sui potenti del mondo, ad esempio, si erano già concentrate molte critiche di Gesù – il quale, d’altra parte, perdonava ladri o adulteri – che proprio dal potere mondano dei romani e da quello sacro degli ebrei, verrà crocifisso: «infatti il buon pastore si contrappone da solo a quelli venuti prima di lui, che “sono tutti ladri e malfattori” (Gv 10, 8), i capi di Israele sono una maledetta razza di vipere (Mt 23, 13-33) […]. A dare il potere nel mondo non è Dio ma il maligno – “principe del mondo” (Gv 16, 11) e “dio di questo mondo” (2 Cor 4, 4) –, come è detto nel racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto»67. La questione del rapporto di Gesù con l’autorità era, a tutti gli effetti, di lineare condanna, se non fosse, sottolinea Quinzio, per la frase pronunciata in riferimento al tributo da pagare a Cesare. Infatti, sia Gesù che coloro che lo seguivano non erano obbligati all’obbedienza al potere mondano; non pagavano neppure il tributo per il tempio di Gerusalemme e la moneta con cui lo faranno – non per obbedienza ma “per non scandalizzare” – «è tolta, come cosa estranea, dalla bocca “del primo pesce che verrà su” (Mt 17, 27)»68. Non sottostavano alla legge mosaica, “compiuta” per loro con Cristo (Rm 10, 4), e, dunque, non è peregrino chiedersi come avrebbero potuto obbedire alla legge del tributo da versare a Cesare: «In gran parte sul “date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22, 21) è stato successivamente costruito l’edificio del lealismo, che non si sostiene affatto su una base così esigua»69. Il “date a Cesare” è stato, infatti, utilizzato per sostenere la possibilità della quieta convivenza tra regno e mondo, ma, ad avviso di Quinzio, ciò verrebbe contrad254

detto, in modo assolutamente palese, da tutto il restante insegnamento di Cristo, per il quale quell’affermazione non sarebbe stata altro che una mossa di comodo per evitare uno scontro frontale con il potere, in linea con la raccomandazione di tenere, in certi frangenti, un comportamento basato “sull’astuzia del serpente” (Mt 10, 16), espediente più volte sfruttato da Gesù per evitare le trappole altrettanto astute che, a una mossa falsa, avrebbero determinato la sua incriminazione: «Da tutto ciò risulta un atteggiamento di disprezzo per i detentori del potere del mondo e di astuzia per sottrarsi alle loro insidie»70. Quinzio è ben cosciente, tuttavia, della profonda ambiguità che ha caratterizzato il rapporto dei cristiani con l’autorità politica, a partire dal momento in cui a intervenire sulla questione non è stato più Gesù, ma i suoi apostoli e, in primis, Paolo, il quale, in più occasioni, ha pronunciato parole e compiuto azioni contraddittorie71, giungendo al limite del paradosso con l’identificazione tra potere mondano e autorità divina: «Vuoi non aver nulla da temere dal potere? Agisci bene e ne riceverai la lode, perché è uno strumento di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, temi, perché non è senza ragione che porta la spada: è al servizio dell’ira di Dio per castigare chi fa il male» (Rm 13, 3-4). Quinzio trova questo passo paolino «molto penoso»72, come quelli in cui si raccomanda di pregare per coloro che detengono il potere, raccomandazione condivisa e predicata anche da Pietro: Si può sostenere questo lealismo […] con l’argomento veterotestamentario: è Dio che dà il potere a chi vuole (Prv 8, 15; Ger 27, 5). Ma che Dio dà il potere a chi vuole è negato dal Vangelo, dove è detto che è Satana il padrone di tutti i regni della terra e li dà a chi vuole (Lc 4, 5-7; Gv 12, 31; 1 Gv 5, 19; 2 Cor 4, 4). […] Ma allora la sottomissione ai poteri mondani non è altro che un disgraziato sottostare all’ancora perdurante potere delle tenebre che il Signore è venuto a sconfiggere (Mc 3, 27). […] Il cristiano prega per i potenti del mondo (1 Tim 2, 2) e prega, insieme, perché la vendetta di Dio si affretti ad abbatterli e a distruggerli per sempre (2 Pt 3, 12-13; Ap 6, 10-11)73.

Quinzio nota che il potere che Pietro e Paolo invitavano a rispettare è quello stesso condannato dall’Apocalisse come bestia 255

anticristica: «in realtà, il problema posto dall’assurdo perdurare dei poteri mondani dopo che la redenzione ha aperto le porte del regno perfetto di Dio non ha soluzioni: non è infatti un problema, ma un tremendo mistero (2 Ts 2, 7)»74. Nella sua critica, dunque, Quinzio non difende una qualche forma di potere politico a scapito di un’altra, dal momento che tutto l’orizzonte politico, nella misura in cui esprime un potere esclusivamente mondano, è coinvolto nel destino apocalittico del suo annichilimento, soppiantato dall’instaurarsi del Regno75. Da questo punto di vista anche la moderna democrazia viene considerata frutto della crisi d’autorità verificatasi in ambito protocristiano, nel quale, ben presto, si sarebbe abbandonata l’autorevolezza, e quindi l’autorità, della parola profetica – «Gli spiriti dei profeti sono soggetti ai profeti» (1 Cor 14, 32) – a favore del dogma, proclamabile essenzialmente dalla Chiesa in quanto istituzione: La libertà del profeta, che è l’autorità del profeta, scomparve soffocata dal controllo dell’istituzione ecclesiastica, che è l’antecedente remoto e il modello del controllo democratico. Si affermava già, infatti, un’autorità intesa come riflesso della volontà generale della comunità – garantita dal meccanismo della mediazione giuridica della struttura e da quello culturale della teologia – sull’autorità immediata, fatto e non diritto, del profeta che – spiritus ubi vult spirat – aveva nel suo stesso carisma il suo principio76.

Si avvia, dunque, un processo di sostanziale degenerazione dell’autorità – ancora pura nella primissima comunità cristiana, legata a una reale potenza dell’autorevolezza profetica – verso sempre più stanche mediazioni, che saranno, via via, più “culturali” e meno “religiose” e tenderanno all’affermazione dell’ideale conformistico dell’opinione della maggioranza. Quest’ultimo ha avuto il suo apogeo, non a caso, proprio nell’epoca in cui la tecnica ha imposto i suoi artifici a livello planetario, proponendosi come pseudosalvezza profana, a Occidente come a Oriente, mediante il linguaggio del progresso, nuovo esperanto appreso e condiviso tanto dalle grandi democrazie quanto dalle più brutali dittature. La stessa democrazia, infatti, si rivele256

rebbe un sorprendente congegno di autocorrezione, mediante procedure estremamente formalizzate che comportano «l’abolizione delle azioni libere e della responsabilità di ciascuno mediante una grande macchina autocontrollantesi che trasforma i rapporti tra persone e tra forze in rapporti fra enti e fra norme. A tutto c’è una risposta data a priori. La verità coincide con l’opinione della maggioranza»77. La dittatura della maggioranza è quella di una massa amorfa, culla degli appetiti più elementari alimentati e addirittura indotti da persuasivi e capillari mezzi di “addomesticamento” collettivo. L’apparente assenza di conflitti che caratterizza la democrazia non deriverebbe, perciò, dal raggiungimento di un equilibrio virtuoso, ma dall’assottigliarsi delle possibilità di scontro costruttivo e sostanziale, sostituito dall’imperio di leggi studiate a tal fine: «la democrazia abolisce o attutisce i contrasti ideologici ed economici, tutta la vita vi si manifesta e vi si esaurisce nella “legge”. Tutti gli uomini obbediscono alla legge, e tutti gli uomini fanno la legge: una invenzione straordinariamente pratica»78. Senza la fatica di un’opinione singolare da difendere e tranquillizzati dall’ubiquità della legge, i cittadini delle democrazie credono ancora in quella che, per Quinzio, è una stanca utopia, che si regge sull’imposizione dello «schema astratto del diritto, dove tutto è previsto catalogato risolto stabilito»79. Inoltre, poiché la continuità del potere è quasi automatica, neppure il meccanismo elettivo garantirebbe un reale cambiamento nella gestione democratica del potere e dell’autorità, nonostante l’apparenza assolutamente opposta: «in realtà anche il meccanismo elettivo è sempre assuntivo, nascosto sotto la forma dell’elezione di uomini che in effetti sono già partecipi delle minoranze al potere»80. Anche al marxismo, d’altro canto, non vengono risparmiate critiche, basate soprattutto sull’accusa di aver tradito l’originaria spinta messianico-apocalittica81, sostituendola con una tendenza alla programmazione scientifica del futuro, frutto di un clima che Quinzio definisce culturale e non religioso, cioè ormai privo di quelle spinte alla novitas proprie del re-ligioso. Se, infatti, agli occhi di Quinzio, il marxismo aveva un pregio, esso risiedeva nelle sue radici profetico-messianiche, a partire dalle 257

quali si era, ad esempio, alimentata la grande speranza, da una parte nella tecnica come mezzo ideale per un totale capovolgimento della storia e della natura e, dall’altra, nella critica alla democrazia e alla religione cristiana come mezzo per rinnovare profondamente il mondo. Il marxismo fallisce, a suo avviso, a partire dall’errata interpretazione della religione, unita alla necessità di fornire basi scientifiche alle speranze: «Ateismo e materialismo, con i criteri interpretativi storici e sociologici che ne discendono, possono apparire così come abiti sovrapposti dall’esterno al corpo vivo e potente dell’originario marxismo. La preoccupazione scientifica dalla quale discendono è il limite del pensiero marxista»82. La scientizzazione dell’istanza messianica, l’aver tradotto l’ansia per il Regno in progetto scientifico della sua realizzazione, con il conseguente ateismo e materialismo, rappresenta, dunque, per Quinzio quel rinnegamento dell’originaria radice escatologico-profetica che condurrà il marxismo al fallimento, fino al ripiegamento su posizioni difensive e, paradossalmente, conservatrici se non addirittura totalitarie: «Nella misura stessa in cui il marxismo diveniva istituzione e Weltanschauung scientifica il suo animo rivoluzionario deperiva […]. Il passaggio dall’atteggiamento messianico e demiurgico a quello scientifico e deterministico si riflette sulla potenza e sulle mete del movimento»83. Il marxismo avrebbe spostato, dunque, la sua attenzione dall’urgenza di una rivoluzione radicale all’idea di uno sbocco necessario e programmabile, mediante l’organizzazione burocratica di tappe successive del processo rivoluzionario, sostituitasi alla teoria della catastrofe della società capitalistica su cui esso si basava agli inizi: «Stava per nascere – sul suo rifiuto e sulla parallela prospettiva di un passaggio graduale e pacifico dal capitalismo al socialismo, garantito dal progresso democratico – la socialdemocrazia. Col suo rifiuto dell’utopia il marxismo si era vergognato di se stesso»84. Quinzio sottolinea come, per Marx, la politica avrebbe dovuto rappresentare solo un momento di passaggio, legato ancora al mondo che voleva lasciarsi alle spalle, là dove la società comunista avrebbe dovuto collocarsi in un orizzonte esterno alla sfera politico-statuale, decretandone la fine. Anche il marxi258

smo, inoltre, lascerebbe irrisolto il problema dell’autorità, nonostante i tentativi di Lenin di riproporlo – nel momento in cui era crollata la fiducia nelle azioni spontanee delle masse – mediante la creazione di minoranze qualificate e di un ferreo sistema di centralizzazione. Proprio perché incapace di affrontare in modo radicale il problema dell’autorità, il marxismo avrebbe dato luogo solo a forme di potere ulteriormente degradate e deteriori, dato che, in assenza di un’autorità ben definita, l’alternativa si pone tra l’assenza di principi o l’affermarsi di un’autorità che nascerebbe, per così dire, dalle stesse contingenze: «l’autorità che scaturisce dall’esigenza reale non vista dall’ideologia contraddice l’ideologia: dove non c’è autorità che attinga coscientemente a un principio, si determina fatalmente un’autorità cieca e preda delle contingenze, destinata a involvere nell’esasperazione di una burocrazia intransigente»85. Fallirà, così, l’idea di abolire lo Stato, sostituita, addirittura, dalla sua esasperazione nella dittatura, contro il proposito originario che ne prevedeva l’obsolescenza. A causa di questi slittamenti ideologici e dei problemi lasciati senza risposta, l’afflato escatologico, che aveva animato il marxismo ai suoi albori, è stato del tutto annichilito con il conseguente adeguamento alle strutture mondane vincenti: «gli stessi comunisti più vivi sentono del resto che l’antico entusiasmo è scomparso, oppresso da strutture ormai vecchie e compromesse»86. Situazione corroborata dall’ormai dominante ideologia del benessere, la quale, intorpidendo le coscienze, ha indebolito il bisogno di giustizia – ridotto a richiesta di equità sociale – perfino all’interno del movimento operaio. Anche quest’ultimo, infatti, si sarebbe lentamente trasformato «da fatto capovolgente a fatto correttivo»87. La situazione politica mondiale, dunque, appare a Quinzio dominata, sostanzialmente, da un’inerzia secolare che impedisce reali mutamenti e alternative significative, profilandosi come un fronte unico al quale appartengono, senza dirimenti differenze, uomini, partiti e movimenti, che incarnano uniformemente, in fin dei conti, la moderna civiltà occidentale, i cui conflitti hanno modo di esplicarsi nei luoghi opportunamente isti259

tuzionalizzati e deputati a tale funzione, sorretti da istituzioni politiche e giuridiche ferme alle loro formulazioni sette-ottocentesche: «L’inerzia che caratterizza l’attività politica – condizionata com’è da molteplici colossali interessi – ha impedito l’adeguamento ai tempi, facendo sussistere in politica anacronismi paragonabili a quelli che si avrebbero se in architettura si costruissero edifici neoclassici e nella scienza si continuasse a parlare di flogisto»88. I modelli politici prosperanti sembrano a Quinzio quelli di Montesquieu, Rousseau e Hegel, ormai avulsi dalla concretezza della situazione storica, caratterizzata da una krísis senza precedenti, accompagnata dal disagio e dalla sfiducia di quei soggetti politici che avevano contribuito a scrivere la storia recente dell’Occidente; krísis documentata da coloro che Quinzio ascrive tra i migliori ingegni del XIX e XX secolo, da Dostoevskij a Kafka o Freud; da Nietzsche, Spengler e Heidegger a Adorno; da Camus e Sartre a Pirandello e Pound. Il dato emergente da queste analisi riguarda, innanzitutto, il declinante destino dell’Europa e dei popoli occidentali, contrastati dall’aurora di nuovi protagonisti della storia, popoli nuovi o antiche civiltà, rimasti fino a questo momento a margine, che giungono alle nostre frontiere portando domande alle quali non si riesce a offrire risposte soddisfacenti. L’emergere dei nuovi popoli sulla scena del mondo e la loro ineludibile richiesta di prendere parte alla storia era già prevedibile dal momento in cui gli europei si volsero al mare come nuovo orizzonte spaziale e temporale, proiettandosi oltre i vecchi confini e destrutturando l’idea di frontiera che aveva regolato i rapporti tra gli Stati fino ad allora; processo completato nel momento in cui si operò un ulteriore salto dagli sterminati spazi marini a quelli infiniti dei cieli: «Gli uomini che vanno sulla luna non possono essere governati con la formula della tripartizione dei poteri predicata […] da Montesquieu, quando il mezzo più celere era una polverosa e traballante carrozza»89. Quinzio sottolinea, quindi, l’inadeguatezza di quelle istituzioni e dell’antico nomos che si pretende continui a essere validamente utilizzato nella situazione attuale, la quale, con tutta evidenza, si presenta sostanzialmente differente: «In questa 260

situazione storica, popoli vecchi muoiono al nord e all’occidente e popoli giovani nascono al sud e all’oriente. Per lenti che possano essere, questi due processi hanno uno sbocco inevitabile»90. Tale sbocco non sarebbe, come auspicava Schmitt, un pluriverso di grandi spazi, in grado di fornire un nuovo Nomos della Terra, per quanto non più eurocentrico. L’esito intravisto da Quinzio è, piuttosto, quello di un pluriverso anomico, foriero di ulteriore caos: «Il pluriverso ha sostituito l’universo. Ma pluriverso è solo un nuovo nome del caos e, abbandonata l’unicità razionalmente necessaria che videro nel mondo Spinoza e Hegel, il vuoto della possibilità inesauribile rende la realtà in cui viviamo come il segmento di linea suscettibile di infinite interpretazioni […], e perciò inafferrabile, inconoscibile, insignificante»91. Ciò che si prefigura oltre il caos, assumerebbe, piuttosto, i tratti di un’opprimente unità fittizia, in cui nulla di realmente nuovo potrà davvero emergere. A differenza dello Stato mondiale auspicato da Jünger92, in quanto articolazione unica di molteplici particolarità, per Quinzio la tecnica ha un potere talmente omologante da non lasciar spazio all’affermarsi di alcuna differenza: «I popoli nuovi che sorgono, tuttavia, non portano una loro civiltà, ma soltanto quella dell’Occidente assorbita nella sua manifestazione dominante, la tecnica»93. Il processo di occidentalizzazione del mondo è così pervasivo che le stesse tradizioni religiose sono contaminate o soppiantate dalle ideologie politiche ereditate dall’Occidente, le quali, per altro, hanno già dato prova di tutta la loro insufficienza e inadeguatezza. L’orizzonte che si profila, dominato dal disordine mondiale, non potrà essere rischiarato neppure dalle organizzazioni internazionali, nelle quali Quinzio, fin dagli anni giovanili, ripone scarsa fiducia, ritenendo che la loro azione frenante nei confronti della violenza, in cui si esprime solitamente l’odio fra i popoli, non ne comporti affatto l’eliminazione ma, semplicemente, la trasformazione in forme ipocrite di rapporto, sempre pronte a esplodere in brutali azioni di forza: «non credo che “strumenti di diritto internazionale” possano operare quello che in duemila anni non ha potuto operare la redenzione. Le 261

varie convenzioni internazionali, anche se riuscissero a rendere il conflitto meno cruento o, comunque, meno clamoroso, non lo eliminerebbero»94. Per comprendere tanta sfiducia nelle istituzioni e tanto cupo pessimismo circa la possibilità di dare un Ordine duraturo al Mondo, bisogna comunque tener presente la particolare prospettiva a partire dalla quale Quinzio intende rivolgere il suo sguardo. Benché egli non si nasconda il rischio sempre incombente che l’attuale competitività «potrebbe facilmente portare a un tale grado di distruzione di disordine di stanchezza da dover scrivere “fine” su tutta la vicenda degli ultimi secoli dell’umanità»95, egli rimane, tuttavia, fermo alla sua prospettiva messianica, che solo il presupposto della fede può schiudere. Da questo punto di vista la sfiducia quinziana diventa, ancora una volta, sguardo messianico e, quindi, certezza che un nuovo ordine mondiale non sarà certo frutto di azioni umane, le quali, più probabilmente, condurranno a un devastante conflitto globale. Anche mettendo in conto la possibilità che tale tragico conflitto non avvenga, secondo Quinzio il disordine e la stanchezza non potranno certamente scomparire per lasciar spazio a forme armoniose di convivenza, ma si assisterà al sopravanzare del caos anche «per la mancanza di una concreta forza nuova, di un criterio di sintesi e di organizzazione veramente adeguata alla nuova realtà»96. La storia, a causa dell’assenza di questo «criterio di sintesi e di organizzazione», gli appare, come abbiamo visto, entropicamente giunta a uno di quegli snodi in cui la potenza delle origini è del tutto esaurita, impedendo qualsiasi novitas costruttiva, essendo giunti, ormai, «al di là di qualunque possibilità di cambiamento significativo»97. 3. La «nuova politica» Nell’impeto tartagliano che ha animato tutte le sue opere giovanili, si impone, dunque, a Quinzio la riflessione su una nuova politica – che si delinea in apparenza come un attivismo rivoluzionario, ma si rivelerà, in realtà, un attivismo messianico di impronta paolina – che superi le strutture obsolete che continuano a reggere le sorti del mondo; una svolta che abbia le caratteri262

stiche di una vera e propria rivoluzione copernicana nella politica statica e chiusa dell’Occidente; diventa palese, cioè, «l’esigenza di una novità politica […] per superare l’abisso che separa, determinando paurose fratture nella vita dei singoli e delle società, la politica dalla realtà profonda»98. Se, come Quinzio crede, le forme politiche vigenti incarnano solo vecchie esigenze, un’azione politica valida potrebbe aver luogo «solo rivoluzionariamente, come rottura delle vecchie strutture ad occidente come ad oriente. La potenza delle strutture non deve, facendo apparire impossibile il loro rovesciamento, paralizzarci»99. È, quindi, una politica della rottura che il giovane Quinzio pensa come antidoto alla durata delle strutture politiche mondane, caratterizzate dall’inerzia katechonica, che le sostiene nella stasi secolare di cui sono eredi. Un’inerzia che la politica condivide con l’economia della società delle macchine, la quale, lungi dall’essere dinamica e “novitante”, si regge su un rigido schema, che eleva lo sviluppo a paradigma irrinunciabile per le future sorti dell’Occidente. Questa inerzia fa apparire necessaria l’“accettazione del sistema” nella sua olistica rappresentazione del mondo: «La risposta è in definitiva questa: non possiamo distruggere le macchine. E poiché il nodo del problema è la macchina, il produrre, il consumare, il benessere, non se ne esce più»100. Quinzio non ha l’ingenuità di pensare un paradigma antiproduttivo, come ritorno a una società preindustriale, né, tanto meno, vuole dichiarare mestamente l’impossibilità di un cambiamento a causa di un’impotenza ontologica nei confronti del sistema, quanto, piuttosto, evidenziare l’incongruenza delle posizioni che giudicano immutabile lo status quo: «una volta si diceva: non possiamo abolire la schiavitù. È lo stesso discorso, che nasce dalla stessa incapacità di concepire o anche soltanto d’immaginare qualcosa di diverso dagli schemi correnti»101. L’inerzia che caratterizza il sistema politico-economico avrebbe, infatti, una potenza che può autoalimentarsi solo fino a quando una spinta adeguata, indotta dalle forze messe in gioco, non provochi una destabilizzazione delle strutture politiche attuali: «basta pensare all’eventualità di un conflitto mondiale per rendersi conto di quanto rapidamente potrebbero 263

crollare rivelando il loro nulla»102. Il giovane Quinzio è, però, ben consapevole che tutti i tentativi di costituzione mondana di una “comunità messianica” si sono storicamente risolti con la perdita dell’intensità originaria, fino a divenire pallide ombre della potenza iniziale che li aveva animati, producendo la decadenza delle strutture su cui essi poggiavano – a partire dalla comunità del popolo di Dio, divenuta società economica e organizzazione burocratica: «Mosè portava alla terra promessa, oggi ci portano al frigorifero per tutti; Dante operava per “perducere homines ad statum felicitatis”, oggi si opera perché possano girare in automobile. Questa strada che scende deve essere spezzata per un ultimo tentativo che tenga conto di tutto»103. Il benessere economico della società occidentale è diventato l’ancora grazie alla quale l’intero sistema non va alla deriva, sostenuto dal desiderio di milioni di esseri umani che vedono in esso l’unico scopo vitale, bisognosi di una realizzazione nell’attimo presente, in cui si ricapitolano presente e passato, dunque, «ultima scimmia del regno di Dio»104. Il benessere, tuttavia, come il paradigma produttivistico su cui si regge, è un ideale statico che vela la menzogna insita nella falsa totalità che la storia incarna, incapace di concepire i suoi legami con il passato e novità reali per il futuro. In verità, ad avviso di Quinzio, esiste una possibilità altra di pensare le cose, poiché le macchine si possono distruggere. È certo, anzi, che saranno distrutte, perché è una delle solite dogmatiche ingenuità […], credere che il futuro sia la ripetizione del presente, il suo logico sviluppo conforme e omogeneo, il luogo di realizzazione delle sue premesse e promesse. Non esistono diagrammi in perpetua ascesa. Il futuro non sarà affatto il trionfo interminabile della civiltà dei consumi, di questo si può essere certi105.

Quinzio esige, dunque, che la sua “politica della rottura” sia pensata come una dinamica da sottrarre alla reificazione economica a cui è ormai soggetta l’intera politica mondiale; l’antica parola rivoluzione non gli sembra possa corrispondere appieno a tale esigenza, perché «la civiltà dei consumi sta al di là di ogni possibilità di rivoluzione: ha autenticamente declassato 264

la rivoluzione a oggetto che come tutti gli altri oggetti si consuma, e che se si riproduce si riproduce solo per essere riconsumato»106. Per un’azione politica che abbia la medesima forza capovolgente di una rivoluzione o di un conflitto mondiale, non solo non si possono utilizzare le vecchie istituzioni politiche, ma occorre anche un modo assolutamente nuovo di concepire la stessa azione politica rispetto a quello secondo cui fino al presente è stata pensata, anche nelle sue forme estreme: «la rivoluzione è ancora troppo poco. Una nuova concezione politica, per essere davvero nuova ed efficace, deve discendere da una adeguata e nuova concezione del reale e della storia in tutti i loro aspetti e in tutte le loro implicazioni. Ogni altra politica non può che prolungare l’agonia del mondo»107. La promessa del Regno era promessa di una società perfetta, in cui tutti gli aspetti della vita umana sarebbero stati “salvati” con la costituzione di una comunità redenta, realtà che, con la decadenza della politica a tecnica, è del tutto esautorata; Quinzio, però, fedele all’idea di unificazione totale e risoluzione definitiva mutuata dal Regno messianico, pensa che «la vera azione politica (dove la politica non si snatura) è l’azione globale che tende ad attuare la società perfetta. La vitalità di una politica è sempre in funzione di questa esigenza»108, anche se mai riuscirà ad esaudirla del tutto. Ma quale politica potrebbe avere un’aspirazione che, in fin dei conti, appare più vicina all’idea del Tikkun ebraico, con la sua potenza di restitutio in integrum? Il termine “politica”, consumato anch’esso dalla storia, non coglie l’essenza di ciò che Quinzio aveva in mente, come lui stesso, del resto, chiarisce, destoricizzando e demondanizzando la rivoluzione: «ha senso solo una rivoluzione totale contro la storia, che potrebbe ancora forse chiamarsi religione, perché solo lì la consummatio ha il suo possibile significato ultimo e primo»109. La consummatio della religione è anche re-inizio, ma, come si è visto in relazione alla storia, Quinzio pensa un re-inizio assoluto, una novità che raccogliendo in sé il passato, lo salvi e lo ab-solva dai legami con l’inerzia katechonica che gli impedisce di diventare realmente avvenire: «se dobbiamo oggi iniziare, non possiamo accordarci alle vigenti distinzioni e compartimentazioni, al 265

rispetto delle competenze, alla inesausta serie delle regole convenzionalmente stabilite»110. Solo chi vuole accettare il sistema e ritiene che non possa avvenire alcun cambiamento significativo deve sottomettersi a tali condizioni, rientrando, a pieno titolo, nel panorama culturale del tempo. La cultura mondana, invece, dovrebbe essere guardata con sospetto da coloro che pensano un re-inizio possibile per l’umanità: Il mondo “ci tiene prigionieri” […], il mondo ci fa “urlare piangendo”, e vuole che noi si porti il nostro Dio nelle sue piazze, nelle sue università, nei suoi giornali, nei suoi tribunali, nelle sue prigioni, non può capire il nostro dolore, vuole che il nostro Dio stia accanto ai suoi idoli, e vuole che noi si aderisca alla orgogliosa e vuota sicurezza delle “magnifiche sorti e progressive”. […] Noi dobbiamo rifiutarci di cantare per loro, rifiutarci di pregare per loro […]. C’è un muro fra noi, questa opposizione è reale, e per tutta l’eternità dovrà esistere una separazione dolorosa […]. Noi siamo in terra aliena, siamo prigionieri che non vogliono “collaborare”. Non tutto può essere accomodato in un benevolo eclettismo. Dio e Mammona. Si è al di là o al di qua del muro. […] Nessuno si scandalizzi nella sua vigliaccheria se Gesù Cristo “farà la retribuzione del male che ci è stato fatto”, sfracellando i figli della tenebra contro le rocce. L’indifferenza la mediocrità l’egoismo l’ipocrisia l’ignavia gli aborti il Golgota chiamano la vendetta111.

La politica dell’inizio è, in primis, un’azione di rifiuto dell’ordine vigente, un gesto di sottrazione rispetto alle dinamiche fagocitanti del mondo, un tirarsi fuori e, da quel fuori, osservare le rovine che, come diceva Benjamin, non fanno che aumentare a dismisura; nel tirarsi fuori, la «nuova politica» rivela la sua anima escatologica, rivolta contro ogni cultura mondana: «la proposta escatologica è anzitutto volontà di rifiuto, di ribellione, di condanna, di distruzione»112. Nel confronto con la cultura e con la storia, la «nuova politica» dovrebbe prendere le mosse dall’escatologia, che esprima tutta la sua potenza effettuale negando la storia stessa e la civiltà occidentale, accettando persino l’idea di una fine violenta, dal momento che «la prospettiva escatologica si incarna nella guerra apocalittica»113. 266

Gli uomini della fine del mondo sono quegli inizianti che non possono fare altro che rifiutare tutte le manifestazioni che nel mondo hanno luogo: «iniziare significa […] rifiutare la cultura nelle premesse conscie o inconscie che ne definiscono la particolarità»114. Gli “inizianti” sono consapevoli che ogni religione secolarizzata, scienza o sapienza umana non possono aspirare ad alcuna definitività, votate anch’esse alla fine, come ogni realtà mondana: «non esiste nessun sicuro ubi consistam, e nessuna garantita teoria positiva. Si devono inventare per impadronirsi della realtà, e si può fare l’ipotesi, o tentare la speranza, che si possa inventare qualcosa che ne dia il possesso risolutivo e definitivo, totale»115. Chi si de-cide per l’inizio non può accettare – come ha sottolineato Cacciari a proposito del katéchon – che si facciano compromessi, fosse pure per ritardare la manifestazione dell’Anticristo. Il cristianesimo aveva tentato la strada di fondare una comunità messianica e la Chiesa si è costituita come un corpo politico che incarna in sé sia l’esigenza assoluta di perfezione, che una natura universale, caratteristiche derivate entrambe dal modello del Regno di Dio, rispetto al quale essa si propone, di fatto, come Regno già in atto; per questo Quinzio pensa che Chiesa e Regno siano incompatibili. Una politica messianica, che voglia aprire le porte al Novum, dovrà, quindi, volgersi anche contro la Chiesa: «la Chiesa deve finire, “regno di Dio” non è Chiesa e non ha Chiesa […]. La Chiesa deve essere distrutta, e la distruzione del tempio di Gerusalemme è figura della distruzione della Chiesa di Roma»116. Il suo destino è segnato dalla necessità di finire, come si è visto, già in virtù della parola evangelica riguardante gli adoratori in spirito e verità. Poiché il messaggio cristiano – che aveva condannato, ai suoi albori, una politica e una religione aperte ai compromessi mondani, per aprire la via a una religione che si incarnasse «in una certa politica, aperta alla società perfetta del “Regno di Dio”»117 – si è trasformato nel suo opposto, stravolto e diluito nelle dinamiche mondane, occorre anche un’azione politica che parta dall’interno della stessa Chiesa per decretarne la fine: «l’azione politica è un’azione contro la Chiesa che parte dall’inter267

no della Chiesa, l’azione dei profeti contro il sacerdozio»118. Il problema che ci si trova a dover affrontare è, essenzialmente, un problema escatologico, poiché a essere in questione è la fine. Per questo Quinzio ritiene che “gli inizianti”, coloro che vogliono praticare la politica dell’inizio e della fine, dovrebbero essere animati da una ispirazione escatologica, unica alternativa integrale rispetto a una società avulsa dai valori re-ligiosi che, soli, potrebbero condurre al re-inizio assoluto: La volontà escatologica è la coscienza della necessità e dell’urgenza della liberazione definitiva dalla diluizione dello spazio e del tempo, dall’inutile ripetizione del già noto, è la tensione a realizzare nell’immediatezza di un interminabile presente i valori e le speranze che ci siamo sempre rassegnati a non vedere realizzati e a relegare nei luoghi astratti del passato o del futuro119.

La dimensione escatologica, nelle prime opere quinziane, si riveste, così, di un carattere eminentemente politico, promotrice di un rovesciamento dello status quo in funzione dell’esigenza di radicalità propria di una politica ultima che, di fatto, vuole sospendere tutte le politiche vigenti, negando la loro legittimità e validità. L’escatologia di cui Quinzio parla è, anch’essa, “nuova” come la politica che dovrebbe attuarla e, pur proponendosi come rifiuto del mondo e del già stato, è tuttavia consapevole delle vicende storiche precedenti e della cultura che le ha permeate; tale consapevolezza «la diversifica dalle escatologie antiche, preculturali»120. L’avvenire che quest’escatologia prefigura non è la quiete dell’opera compiuta, né il definitivo superamento del dolore e l’improvvisa comparsa di una gioia senza limiti; non è la negazione del parziale e il dominio assoluto della totalità, «ma il dominio sui dati parziali e negativi colti nell’istante del loro superamento definitivo, che dura eterno»121. Il termine “dominio” è utilizzato per indicare l’azione messianica di ri-unificazione e risignificazione, agente sull’intero passato, nel momento dell’instaurazione del Regno, nell’istante in cui, potremmo dire con Benjamin, l’umanità redenta riceverà in eredità il suo passato. Tale azione si presenta, dunque, come «dominio sull’e268

stensione del tempo e dello spazio, il nuovo eone dell’attesa profetica ebraica, in cui l’olam – tutto ciò che è lontano e disperso, inconoscibile – diventa et – presenza e possesso immediati»122. La possibilità che l’evento escatologico si compia è legata, dunque, anche all’umanità, come comunità escatologica già ricapitolata nella persona del Messia Gesù, uomo e Dio, consapevole del rischio di doverlo seguire nella tragedia della sua fine: «L’ultima escatologia […] coinvolge lo stesso destino, la stessa possibilità di Dio. Si deve attuare, perciò, mediante una catastrofe ancora più spaventosa dell’antica catastrofe apocalittica»123. Nell’«ultima escatologia», il destino e la misura delle cose sono segnate dalla comunanza con il destino del Messia, non come Dio eterno e impassibile, ma come Colui che muore, e la cui resurrezione non è soltanto ritrovata felicità, ma compresenza del dolore già subìto: «Come Gesù ha ingoiato la morte (1 Pt 3, 22), così la storia deve ingoiare la morte. La storia progressiva e garantita della cultura moderna sta alla storia culminante nell’apocalisse e nel trionfo del regno, come il dio trascendente e perfetto dei filosofi e dei teologi sta al Dio di Gesù»124. Si presenta già qui il tema che, nella maturità, sarà elaborato come “sconfitta di Dio”. Per il momento, però, Quinzio è più interessato a come mettere in atto la politica dell’inizio e della fine, la politica ultima: per essa occorrono uomini che abbiano non solo la capacità di concepirne l’idea, ma anche di “prendere il potere” al momento opportuno per realizzare quello che hanno pensato, contro tutte le forze frenanti legate alle vecchie strutture125, poiché «il fine, per essere sentito e perseguito con piena intensità dopo la lunga delusione per i fini differiti, tipici della cultura, deve essere posto come immediatamente risolutivo. E l’escatologia è appunto la religione del presente, del subito»126. La risoluzione totale e definitiva di cui parla il giovane Quinzio non auspica l’avvento di alcun “totalitarismo degli inizianti”, poiché, in realtà, si propone come una totale disappartenenza, un ubi consistam messianico-apocalittico, che abbandoni il piano culturale e politico, nel quale ogni rivoluzione non può che basarsi su categorie circoscritte e fondamenti par269

ziali: «Perché non si può cominciare qualche cosa la quale non abbia fine, ma sia fine?»127. L’azione degli “inizianti”, dunque, è l’azione degli “adoratori in spirito e verità” – il “resto” d’Israele, i “giusti”, i profeti – che vogliono accelerare l’avvento del Regno, in spirito e verità. Essi dovrebbero costituire un’autorità assolutamente alternativa a tutte le autorità deteriori che hanno dominato la storia mondana: «all’autorità mondana, o all’assenza caotica di autorità, si contrappone solo l’autorità escatologica, all’empirismo sociologico, la politica del regno di Dio»128. Secondo Quinzio, il significato originario del termine autorità, ben lontano dal designare forme di dominio legate, ad esempio, all’appartenenza a una classe sociale, alla delega di funzioni o alla competenza relativa a un ambito particolare, era, piuttosto, vicino alle sfumature del verbo augere – accrescere, augurare, aiutare – così come potestas richiamava l’autorità del capo famiglia, ma anche dello sposo: «sul concetto latino di auctoritas come intrinseca qualità personale, come valore della persona, si innesta l’indicazione evangelica dell’autorità come capacità di soffrire. Attraverso il dolore Dio si fa Dio, e ciascuno si fa ciò che deve essere»129. È questa l’autorità messianica che Gesù aveva indicato a Giacomo e Giovanni che gli chiedevano di poter sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno di Dio (Mc 10, 37). In quel frangente Gesù aveva sottolineato che la condizione per avere autorità nel Regno era «la capacità di bere il calice del dolore e di immergersi nella morte come in un lavacro […]. Autorità, gloria, capacità di soffrire, potenza interiore si identificano: è un nuovo concetto del potere, del solo potere legittimo agli occhi di Dio, non certo un rifiuto del potere»130. Il più grande tra i discepoli deve diventare servo degli altri, «perché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10, 45). Quinzio nota, dunque, come Gesù non condanni, in linea di principio, l’aspirazione di Giacomo e Giovanni a un’autorità nel Regno, ma, di fatto, stravolga il senso che comunemente è attribuito a essa, e ribadisce così, a proposito dell’autorità, quello scandaloso concetto che aveva già espresso, immediatamente prima, a proposito della ricchezza cum persecutionibus (v. 30). Il rifiuto cioè

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del potere e della ricchezza che Satana dà ai figli delle tenebre per il vero e definitivo potere e la vera definitiva ricchezza che Dio dà ai figli della luce, in proporzione alla loro potenza nel dolore e nella privazione131.

La capacità di sopportare il dolore, segno dell’autorità messianica, non va, però, letta nella costellazione di un certo dolorismo tipico di alcune frange cristiane – già lucidamente e sufficientemente criticato da Nietzsche – ma come libera assunzione della «debole forza messianica» che ci è stata data132. È Paolo a parlare della forza della debolezza come supremo dono messianico, libertà, autorità messianica, proprio nel momento in cui si sente tormentato e sfinito dall’inviato di Satana incaricato «di schiaffeggiarlo» (2 Cor 12, 7) e prega Dio di liberarlo: «Ed Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo […]. Quando sono debole è allora che sono forte» (2 Cor 12, 9-10). La «debole forza messianica» è, in realtà, la suprema potenza di Cristo, dunque suprema potenza nel Regno avvenire e suprema im-potenza nel mondo. Potere messianico e potere mondano sono irriducibili l’uno all’altro, si contrastano, si escludono, si combattono e nessun katéchon riesce, in verità, a cancellare questa differenza che «gli adoratori in spirito e verità» tengono viva. Il potere messianico, infatti, non può che disinnescare tutte le logiche di potere mondano, sospendere tutte le leggi fondate sulla concezione del potere e dell’autorità mondanamente intesi. La questione, com’è noto, non riguarda, del resto, solo il diritto – civile, penale o internazionale che sia, – e “lo stato d’eccezione” derivante dalla sua eventuale sospensione ma, in primis, la sospensione della Legge, della Torah133. Quinzio se ne occupa in alcuni luoghi e l’approfondisce nel suo Commento alla Bibbia a partire da Rm 10, 4 in cui è scritto che «Il Messia è la fine della Legge»; affermazione corroborata da Paolo che, nella Lettera ai Galati 3, 23-25, dichiara l’abolizione della Legge sacra dopo la venuta del Messia, inaugurante l’epoca della libertà dei figli di Dio e della loro gloria (Rm 8, 21; Gal 3, 26; Mt 271

17, 24-27). Gesù stesso, rispetto all’atteggiamento di assoluta rigidità nell’eseguire i precetti imposti dalla Legge, affermava che il Regno era oltre la Legge e la superava (Mt 12, 6; 8), e Quinzio, sempre in riferimento al Vangelo di Matteo, sottolinea che «la questione legale non si pone nel regno (22, 29). La Legge, come ripeterà Paolo, è legata al peccato e alla morte (Rm 3, 20; 7, 9-11)»134. Anche i pagani convertiti, come Quinzio non manca di mettere bene in evidenza, hanno subìto la medesima contraddizione, in modo ancor più eclatante, in quanto, se per coloro che erano stati educati nel seno della Legge, il suo perdurare dopo la venuta del Messia era una palese contraddizione, «ancora più assurda è l’imposizione di questo giogo (15, 19; Mt 23, 4; 11, 28-30), proprio nel momento in cui viene annunciata la perfetta e definitiva liberazione da ogni schiavitù (Rm 8, 21), a coloro che non l’avevano mai portato»135. Quinzio sottolinea che il problema fu risolto dalla Chiesa nascente con un decreto che, di fatto, era un compromesso, nel quale si indicavano una serie di adempimenti da compiere obbligatoriamente da parte dei pagani per i quali, però, la circoncisione, da cui la disputa era iniziata, non era obbligatoria. Tutte le incongruenze e le insufficienze di questo primo atto pubblico della Chiesa deriverebbero, a suo avviso, dal fatto che la questione che si tentava di risolvere non era risolvibile: Non si poteva abolire la necessità della circoncisione – della Legge – dal momento che la circoncisione è il segno del patto di Dio e quindi la garanzia delle promesse che non si erano ancora adempiute con la venuta del Messia: dal momento che non era ancora venuta la perfetta circoncisione del cuore (Dt 30, 6; Ger 31, 31-34) […]. Ma non si poteva mantenere la necessità della circoncisione – della Legge – dal momento che il Messia era venuto per liberare dal pesante e vano giogo della Legge (15, 10): non si poteva perciò pensare a una continuazione delle osservanze legali se non, al più, come a una breve sopravvivenza nell’attesa dell’irrompere del Giorno (1 Cor 7, 29-31), non certo, dunque, come a una regola da imporre a tutti in quanto necessaria alla salvezza136.

La Legge è sospesa e non lo è. È superata e non lo è. È 272

compiuta e non lo è. Quinzio aggiunge, però, che la Legge è proclamata abolita solo in quanto pienamente compiuta, “colmata” da ciò che la compie: «in quanto, cioè tutto quello che nella Legge è scritto – benedizione e maledizione (Dt 30, 1) – è diventato un fatto (davàr è la parola e la cosa), secondo l’esattezza scrupolosissima di una lettera (Dt 4, 2; Ap 22, 1819; Mal 8, 4; Nm 15, 38; Mt 9, 20) non separabile (‘diavolo’, ‘fariseo’) dalla pienezza del suo significato (2 Cor 3, 6)»137. Ostinatamente Quinzio continua a chiedersi se, nel presente, il compimento abbia davvero avuto luogo, se ciò che proclamavano la Legge e i Profeti sia davvero divenuto un fatto, se la gloria di Dio, quindi, riempia davvero il mondo, e la morte sia scomparsa. Poiché così non è, ciò significherebbe che la Legge «è stata abolita, ma non è stata adempiuta, i fatti non hanno “riempito” le sue parole»138. A fronte di questa situazione, aporetica anche al presente, Quinzio pensa alla «volontà escatologica» come mezzo per smascherare la morale katechonica vigente; pensa una politica messianica che, in effetti, sembra mostrare una prossimità al vivere come non indicato da Paolo (1 Cor 7, 29-32). L’hos me, infatti, costituisce, nelle Lettere paoline, la formula della vita messianica nel frattempo tra le due venute del Messia e, in considerazione dell’imminenza della parousia, non implica un abbandono delle proprie posizioni socio-politiche, ma, piuttosto, un loro distaccato ‘utilizzo’, nella consapevolezza della dispropriazione ontologica nei confronti di tutto il mondano139. Benché anche per Quinzio sia prioritario l’aspetto dispropriante della klésis messianica, tuttavia, all’attesa del Regno non sarebbe sufficiente il vivere come non, tanto più che già nelle prime comunità cristiane si era rivelata la precarietà di una condizione impossibile da mantenere nel lungo termine. Dunque, più vicino a quel Paolo che dà voce ai gemiti della creazione in attesa della definitiva redenzione messianica, l’azione che Quinzio pensa, dopo duemila anni di attesa, è l’attiva accelerazione della venuta del Regno, il che significa, apocalitticamente, l’accelerazione della fine del mondo. Se 273

l’Evo è tenuto in forma dal katéchon, sia esso incarnato nella politica ufficiale o nella Chiesa, l’unico mezzo per accelerare la catastrofe del mondo sarebbe proprio lo smascheramento del katéchon, mediante la reale presa di coscienza e la conseguente assunzione dello stato d’eccezione della katárgesis messianica140. La «nuova politica» vuole la reale sospensione di tutte le leggi e della Legge, la rivelazione del carattere illegittimo di tutte le istituzioni politiche, degli arconti di questo mondo e di ogni ordine sacro che sia compromesso con il katéchon141. Gli «adoratori in spirito e verità» sanno che «passa, infatti, la figura di questo mondo» (1 Cor 7, 32). Contro la logica katechonica della durata, che vuole differire la manifestazione dell’Anomia, la politica messianica di Quinzio intuisce che l’insufficienza di tutte le istituzioni mondane e di ogni ordine sacro deriva dalla negazione dell’istanza messianica, dalla mancata consapevolezza del loro dover aspirare a finire. La nuova politica e la nuova escatologia, consapevoli che il mistero d’iniquità ha il suo freno nel katéchon, vogliono ri-dire che lo stato d’eccezione introdotto dalla venuta del Messia è operante, benché “messo al bando” dalle potenze katechoniche, per cui, con Benjamin, si potrebbe concludere che il compito che davvero resta è «di suscitare il vero stato d’eccezione»142. Lo stato d’eccezione effettivo, per Quinzio, è il Regno. Una politica del Regno è, necessariamente, un’im-politica del mondo, che evidenzia la prossimità del messianismo di Quinzio con quello di Benjamin. Se Tartaglia è stato colui che ha influenzato Quinzio sul tema della «novitazione pura» a livello teorico e ontologico, Benjamin gli ha, probabilmente, offerto motivi di riflessione, oltre che sulla filosofia della storia, anche più specificamente teologico-politici. È Benjamin, infatti, ad affermare che «solo il Messia stesso compie tutto l’accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e crea la relazione fra questo e il messianico stesso. Perciò nulla di storico può voler porsi da se stesso in relazione al messianico»143. Anche per Quinzio, il Regno non poteva essere la meta della storia umana, bensì la sua fine, ed 274

è per questo che, nonostante il Regno di Dio fosse per lui un modello politico, non ha mai pensato che si potesse costruire un ordine profano a partire da tale modello, ma occorresse, piuttosto, affrettare la venuta del Messia proprio per porre termine all’ordine mondano. L’ordine profano, se vuole costituirsi in conformità al Regno deve, infatti, passare e non ergersi a “ordine sacro”: «l’ordine del profano – scrive Benjamin – non può essere costruito guardando all’idea del Regno di Dio, perciò la teocrazia non ha alcun senso politico, ma unicamente un senso religioso»144. La «freccia della dynamis del profano» diverge «dall’intensità messianica», benché possa favorirne l’evento proprio in quanto destinata «all’eternità di un tramonto»145, come suggerisce l’immagine paolina – acutamente accostata da Taubes a queste parole di Benjamin146 – della creazione che “geme” nell’attesa del Messia: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità […] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8, 19-22). Per accelerare la venuta del Regno, direbbe Quinzio, occorre, dunque, accelerare il tramonto, se così si può dire, di ogni dominio profano e di ogni ordine sacro, secondo l’aspettativa di coloro che vogliono la fine dell’Evo e non la sua durata. Nonostante la grande vicinanza di Quinzio alla concezione del messianismo apocalittico di Scholem, su questo punto nodale si evidenzia una frattura incolmabile fra i due – visto che, per Scholem, il messianismo si caratterizza per avere una sua realizzazione storica147 – mentre si evidenzia un’ulteriore vicinanza a Benjamin: «sforzarsi di tendere a questo passare – afferma, infatti, Benjamin – […] è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo»148. Sulla scorta di quanto detto, si potrebbe attribuire anche alla “politica” di Quinzio questo compito, che ci riporta alla vicinanza, da lui spinta fin quasi all’estremo dell’identificazione, tra nichilismo, «ultima cosa seria», e cristia275

nesimo149. La benjaminiana «politica del nichilismo», come la «nuova politica» quinziana, non si serve di logiche mondane, non vuole scontri frontali con un potere troppo più forte, ma opera uno scardinamento, innanzitutto, spirituale e ontologico, di impronta paolina – se si legge Benjamin sulla scorta di Paolo e si interpreta Paolo, ancora secondo il suggerimento di Taubes, come «zelota spirituale»150. Crediamo, infatti, – come Taubes per Paolo – che la concezione della «nuova politica» quinziana apra una nuova prospettiva per discutere della possibilità di leggere Quinzio come «zelota spirituale», nella consapevolezza del suo debito paolino e benjaminiano, e benjaminiano in quanto paolino. Come Paolo e i suoi interlocutori, Quinzio mostra di conoscere la dinamica interna del mistero d’iniquità e di sapere bene da chi e da che cosa sia incarnato, oggi, il katéchon. La sua ultima opera, Mysterium iniquitatis, non fa che confermare una linea appartenente già alle sue riflessioni giovanili, e tenta di accelerare, con l’estremo gesto di Pietro II – ma, innanzitutto, con il gesto stesso dello scrivere quell’ultima “enciclica” – l’avvento dello «stato d’eccezione effettivo», la venuta del Regno, quello che, in giovinezza, aveva embrionalmente concepito come possibile modello di una «nuova politica»; una «nuova politica» che potremmo, infine, connotare come anarco-messianismo151. La definizione di «zelota spirituale» consente, inoltre, di gettare qualche luce su una delle difficoltà maggiori che si incontrano analizzando l’evoluzione del pensiero politico di Quinzio, cioè comprendere fino in fondo la comunità di destino costituita dal Messia e dall’umanità che lo attende; comprendere, per così dire, i ruoli e le parti, a fronte di un linguaggio, soprattutto del periodo giovanile, connotato attivisticamente e che, nelle prime opere, ma anche in quelle della maturità, non esita a parlare della “guerra per il Regno”, e tuttavia, contemporaneamente, aborrisce l’azione rivoluzionaria come metodo di radicale contestazione della realtà. Tutto ciò resterebbe incomprensibile senza il presupposto che l’unione originaria di religione e politica, il messianismo, non 276

allude, appunto, alla conquista di alcun potere temporale, ma intende solo favorire la venuta del Regno di Dio, termine ultimo della storia. 4. La guerra per il Regno Occorre comprendere, dunque, come è inteso da Quinzio il Regno di Dio, visto che non ne ha una visione spiritualizzata, ma ebraicamente connotata esaltandone i caratteri di terrestrità, senza trascurare l’aspetto politico: «in quanto opposizione radicale alla realtà storica mondana che ha conseguito questo approdo, la prospettiva escatologica è politica: il regno di Dio è un modello politico»152. Nel Regno di Dio ogni dimensione di perfezione e assolutezza, impossibile nella storia, troverebbe, a suo avviso, la piena attuazione. In questa società perfetta vigerebbe un ordinamento gerarchico «dove l’autorità sia di tutti secondo i diversi gradi di partecipazione, anziché fittiziamente supposta indivisa e indistinta. L’autorità di ciascuno diventa allora la libertà di ciascuno; perché a chi più ha più sarà dato, come è raffigurato nella parabola dei talenti»153. L’autorità stessa di Dio non sarebbe suprema giurisdizione, attuata insieme ai suoi rappresentanti, su un popolo di subordinati ed eguali, «ma piuttosto un unico ordinamento delle persone, in cui l’immediata vicinanza del vertice si manifesta nel fatto che gli uomini non sono servi ma amici del Dio che si pone fraternamente al loro servizio (Gv 15, 15)»154. Il Regno, dunque, non è pensato da Quinzio come assenza di autorità, ma, anzi, il suo venire è l’essenza avvenire dell’autorità e del potere. In esso, Quinzio immagina realizzabile la società perfetta, «dove ogni cosa ha ciò che è»155; un assolutamente nuovo oltre il quale non è pensabile null’altro, un chiuso in cui tutto è raccolto e consolato, perché «consolare è la suprema potenza»156; la figura della sua intensità è l’amore, «intenso urgente sconvolgente violento, organismo hominum divonque voluptas»157. Riprendendo quasi alla lettera il motivo ebraico dell’instaurazione di un Regno terreno messianico, guidato da un Messia-re, il giovane Quinzio così ne prefigura la venuta: 277

un regno in guerra (una guerra può sempre essere una sconfitta) con altri regni, ha come tutti i regni un’aurora violenta, ha un re che governa con scettro di ferro, è essenzialmente gloria, è dei pochi (il resto d’Israele), è terrestre e celeste, si afferma per distruzione, per vittoria non per evoluzione non per trasformazione […], è istituzione autorità gerarchia, potenza e non persuasione, società e non individui […]. Il re è Gesù Cristo. […]. Il re è uno come noi, come condizione la nostra stessa, con gli stessi rischi e le stesse possibilità. Come deve essere un re. Regno è molto più di una metafora158.

La “guerra” sembrerebbe, dunque, il marchio che necessariamente accompagna un Regno che, pure, è altro dai regni mondani, obbediente ad altre regole e a un’altra logica. Ma la sua potenza, che non è persuasione, appare, essenzialmente, basata sulla forza e sulla violenza, e non necessariamente, a quanto sembra, collocate nell’ambito della finale guerra apocalittica. È difficile comprendere a quale tipo di violenza si riferisca l’ancora giovane Quinzio, anche se lo scettro di ferro, come anche la distruzione che accompagna l’affermazione del Regno, «per vittoria e non per evoluzione», farebbero pensare a una violenza “armata”, se così si può dire. Tuttavia, essa potrebbe leggersi – sulla base della concezione quinziana del potere della parola in quanto azione di giudizio – come violenza del verbum, la sferzante verità portata dal Messia giudice, di fronte al quale solo “un resto” potrà salvarsi. L’autorità del Messia, “uno come noi”, si imporrebbe proprio in virtù dell’autorevolezza del suo giudizio, «perciò il giudizio di Cristo è il “giudizio contro tutti” della Lettera di Giuda (v. 15) e dell’Apocalisse»159. Solo pochi avranno la capacità di ascoltare la parola messianica e accettarne il giudizio, condividendo con il Messia il rischio della sconfitta che il Regno corre nella sua guerra con il mondo, una guerra nel fare la verità, così come le inedite possibilità di vittoria della verità stessa – discorso meglio comprensibile sulla base della già trattata questione del katéchon. Tuttavia, le ambiguità si moltiplicano se si riflette sul fatto che la comunità messianica, e il Regno stesso, vengono descritti come già in lotta con il mondo – dunque già operanti, già costituiti? – e, d’altra parte, ancora a-venire. Si potrebbero risol278

vere queste aporie ipotizzando che, mentre nella storia l’azione del Messia e della comunità messianica sia quella di “fare la verità” mediante il giudizio e lo smascheramento del katéchon – dunque da “zeloti spirituali” – nel momento dell’éschaton, nell’Apocalisse, al giudizio seguirà l’azione violenta dello stesso Messia che “sfracellerà i suoi nemici contro le rocce”. Ciò non elimina, però, la questione della violenza in sé, nei cui confronti la posizione di Quinzio non si può definire lineare. A questa ambiguità di fondo che segna, soprattutto nelle prime opere, la concezione quinziana del Regno in guerra, corrisponde, infatti, un’altrettanto problematica ambiguità, evidente anch’essa soprattutto negli anni giovanili, nella sua considerazione della guerra mondana. In quegli anni, infatti, Quinzio mostra nei confronti della guerra e della violenza che l’accompagna, un atteggiamento che non appare né di condanna tout court né di militaristica difesa, ma di lucida valutazione, che oscilla – a volte in modo francamente sconcertante – tra il realismo politico e la decostruzione disincantata di ogni sovrastruttura etica che si tenti di applicare a essa: Essendo i fatti di per sé privi di valore morale, ed essendo imputabili moralmente solo le intenzioni, la guerra non è né male né bene. Come nota Agostino nella Città di Dio, l’uomo, amando i beni temporali, la vita, la sicurezza, considera gravissime colpe quelle che attentano a tali beni, come l’omicidio e il furto, mentre crede minori colpe l’ipocrisia, l’egoismo, l’invidia, ecc. Così è avvenuto che la guerra, essendo sommamente cruenta, è stata giudicata sommo male. Ma di per sé, ripeto, il fatto “guerra” non è né male né bene160.

Sarebbe, dunque, la mera valutazione delle intenzioni ad autorizzare un giudizio etico che, tuttavia, andrebbe applicato non alla guerra in sé, ma solamente ai suoi promotori e attori, i quali possono decidere di iniziarla e condurla per molteplici, e più o meno giustificabili, ragioni161. La sua visione della polemicità intrinseca del mondo moderno conduce Quinzio, inoltre, a non limitare l’utilizzo del termine “guerra” ai soli conflitti armati tra gli Stati, poiché «è chiaro che dal 279

punto di vista morale altri conflitti non ne differiscono sostanzialmente: rivoluzioni, liti, duelli, vendette, e persino, e forse soprattutto, la guerra legale e incruenta del diritto»162. Non a caso, Quinzio considera utopica l’aspirazione, già kantiana, a una pace perpetua che non sia quella del Regno di Dio e relativizza drasticamente il “fatto” guerra: «è per me troppo chiaro che la guerra che può venire non è la guerra per l’avvento del regno, che sarebbe ormai l’unica da farsi»163. Per questo un discorso sulla guerra che riesca a proferire parole non consumate dall’infinità delle opinioni a favore o contro di essa, non può essere, a suo avviso, un discorso politico, ma “di coscienza”, il più sobrio e onesto possibile, «perché il discorso politico, insegna Schmitt, non può prescindere dalle etichette di “amico” e “nemico”»164. La riflessione politica schmittiana, però, sembra fornire la base per un’evoluzione del pensiero di Quinzio sulla guerra che, negli anni della maturità, si stacca dall’algida analisi fenomenologica relativa all’intrinseca polemicità del mondo e assume uno più specifico carattere critico. La guerra, dunque, diviene per Quinzio uno “stato d’eccezione” che pone questioni etiche estreme, a fronte delle quali non si può non prendere posizione, pur continuando ad assumere il “fatto” guerra come appartenente, di necessità, all’orizzonte mondano: «l’orizzonte della guerra è proprio l’opposto dell’orizzonte filosofico e teologico dell’essere, che eternamente è, da sempre già tutto necessariamente dato nel suo principio. L’orizzonte della guerra è l’orizzonte del rischio supremo, il più radicale degli orizzonti temporali e storici […]. L’aut-aut, la scommessa»165. In ogni guerra che si accetti di combattere o meno, nulla è stabilito a priori e la sconfitta è sempre incombente, così come la possibilità di vittoria. Laddove gli Stati promotori delle guerre sono, in modo indiscusso, anche i detentori del supremo potere tecnico-economico, il termine guerra, con il suo orizzonte di rischio, è già oltrepassato e negato: «Semmai – come Schmitt scriveva già intorno alla metà del nostro secolo, vedendo chiaro in un futuro che per noi è il presente – ci possono essere soltanto “operazioni di polizia internazio280

nale”, il ristabilimento pieno, cioè, del potere, senza sostanziali rischi, da parte di chi lo detiene»166. Di fronte a questo tipo di “operazioni”, la parola assume un ruolo fondamentale, traducendo la battaglia sul piano della responsabilità personale. La sconfitta, infatti, oltre che sul campo di battaglia, può essere anche una débacle etica. Prendere posizione contro una guerra, con una decisa parola di rifiuto, non pone fuori dall’orizzonte di rischio ma, anzi, di fronte all’impero delle grandi potenze, diviene suprema azione politica e messianica di cui, come nota anche Quinzio, la Chiesa, nell’ultimo decennio, si è finalmente fatta carico: «L’idea che la guerra si doveva non fare: questo mi sembra proprio il minimo della decenza cristiana – afferma Quinzio a proposito della guerra del Golfo del 1990 –, non si può dire che stiamo facendo un’operazione di polizia internazionale, una guerra umanitaria: questo secondo me appartiene all’indecente»167. Ciò non presuppone alcuna difesa, da parte di Quinzio, delle così dette “guerre umanitarie”, visto che la sua critica si appunta su ogni idea di “guerra giusta”, a partire dal concetto utilizzato da Agostino168 del quale egli cerca di mostrare l’inapplicabilità in tempi come i nostri, in cui sono impiegabili armi di distruzione di massa e la stessa “legittima difesa” appare estremamente problematica, a fronte dell’enorme sperequazione tra paesi ricchi e poveri. La verità è che nelle situazioni concrete, a suo avviso, sembra quasi impossibile stabilire chi sia realmente l’aggressore e chi l’aggredito, e, ancor meno, chi sia autorizzato ad avviare e controllare le trattative di pace o di guerra; nessuna organizzazione internazionale, né alcun soggetto politico, possono garantire, in nome dell’umanità di cui essi sarebbero i garanti, che i conflitti siano, sempre e comunque, risolti con la diplomazia o, in ogni caso, senza ricorso alla guerra, né decidere il limite oltre il quale non debba più spingersi una guerra di difesa: «può giungere, per esempio, fino a distruggere preventivamente l’arsenale atomico di un paese che ci è ostile, o fino a cancellare intere città, o ad avvelenare i cieli e i mari di un’intera regione del mondo?»169. La parola profetica, il “no” pronunciato di fronte a un 281

consesso internazionale obnubilato dall’idea di una guerra contro il male, non può, forse, che andare incontro a sicura sconfitta, ma ciò non esime dal pronunciarla, con la consapevolezza che, però, anche la pace, nel mondo moderno, è rimessa in questione come concetto fortemente ambiguo. Sempre più spesso, infatti, in nome della promozione di una pace globale e definitiva, si è giunti a concepire e tollerare guerre di inaudita e intollerabile violenza: l’opzione etica fra guerra e pace finisce per rivelarsi, dietro le belle parole che esaltano l’una o l’altra, un’opzione ideologica. […] Guerra e pace, nella realtà, vanno invece stranamente insieme: le guerre sono diventate tanto più ferocemente totalitarie quanto più sono diventate – a cominciare dall’affermarsi delle religioni monoteistiche, per giungere alla modernità che impone ovunque il nuovo monoteismo della tecnica – guerre per instaurare la vera pace. Ogni guerra, allora, diventa concepibile come la decisiva, l’ultima, quella che instaurerà il nuovo ordine del mondo: quell’ordine che va instaurato a qualunque prezzo, appunto perché è quello che metterà fine a ogni guerra, a ogni violenza, a ogni ingiustizia e sopraffazione170.

Ma il carattere ultimo della guerra è assolutamente illusorio se attribuito alle guerre inserite nell’orizzonte storico, che è mutevole e finito, mentre si rivela essenziale per comprendere la guerra escatologica, che «è l’opposto di ogni più o meno sacralizzata guerra mondana, che dall’evento escatologico verrà giudicata, insieme a ogni altra realtà del mondo»171. Nell’ambito politico mondano la guerra e la pace vengono, invece, tradotte dalla dismisura divina nella dismisura umana, superbamente convinta di poter raggiungere risultati attribuibili solo a Dio172. La prerogativa di una guerra “ultima”, non a caso, era, biblicamente, riservata solo a Dio. Torniamo così alla corrispondenza problematica tra la guerra degli uomini e la “guerra di Dio”173, rispetto alla quale Quinzio abbandona tutte le precauzioni etiche utilizzate nell’analisi e nelle sue prese di posizione contro le guerre mondane e, sine glossa, ripresenta l’inquietante immagine veterotestamentaria del Dio guerriero: 282

Dio non fa operazioni di polizia internazionale. La rivelazione biblica, nel nuovo come nell’antico Testamento, dice che fa la guerra, e una guerra per lo herem, l’esecrazione e la completa distruzione; non una guerra, come pure gli antichi popoli e gli ebrei in particolare conoscevano, condotta secondo rituali o morali limitatrici, né una guerra, come l’Occidente moderno ha conosciuto, delimitata da convenzioni e formalismi giuridici internazionali174.

Gli dèi del politeismo, nota Quinzio, combattevano solo guerre per motivi contingenti e inseriti in una logica mondana, mentre «il monoteismo ha generato la guerra santa, l’unica, l’assoluta, la guerra di Dio»175, che non assume mai, però, nell’orizzonte biblico, un’aura di sublimità, neppure quando è lo stesso Dio a volerla. Questo “volere”, infatti, nulla ha a che vedere con una “volontà di potenza” e neppure con l’onnipotenza divina, ma rivelerebbe, piuttosto, la dimensione tragica di Dio, il quale nel guerreggiare, si sottopone all’estremo rischio insito in ogni battaglia, cioè la sconfitta, proprio perché non può assicurarsi una vittoria a prescindere dalla storia dell’umanità. Il tema della guerra per il Regno e per la sua vittoria finale, non verrà mai abbandonato da Quinzio, benché nelle opere della maturità ricorra ormai spoglio dai toni enfatici ancora presenti negli scritti giovanili, fino a giungere alla débacle della sconfitta di Dio, in cui, proprio a partire dal fondante tema del giudizio, verrà chiamata in causa la stessa parola di Dio: «E Dio non farebbe giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui giorno e notte, mentre lui ritarda nei loro confronti? Io ve lo dico, farò loro pronta giustizia» (Lc 18, 6-8). Quinzio, dopo essersi chiesto se questa giustizia sia stata, dopo duemila anni, davvero resa, risponde che non occorrono i nemici del cristianesimo per far presente l’amara verità, cioè che le promesse non sono state mantenute, «che i miti non hanno posseduto la terra (Mt 5, 4), che Dio non ha reso ai suoi fedeli “pronta giustizia” (Lc 18, 8)»176. Ci si può, dunque, chiedere cosa ne sia stato del “progetto remoto” di una religione in quanto «nuova politica», in quest’itinerario che dal Regno messianico conduce alla convinzione della sconfitta di Dio nel mondo. Se nelle mani degli uomini la vio283

lenza del giudizio può diventare volontà di dominio e potenza, la questione determinante, nei confronti della «guerra di Dio», è «se dobbiamo intendere la violenza come segno dello strapotere di Dio che costringe gli altri a fare la sua volontà, o se, al contrario, dobbiamo intenderla come un segno della debolezza di Dio»177. Quinzio, com’è noto, opta per la seconda ipotesi, ritenendo la necessità dell’ingaggiamento di Dio nella lotta un segno della sua non perfetta padronanza sulla creazione. La «guerra di Dio» lo mostrerebbe, in ultima istanza, come non onnipotente, sia quando affronta le veterotestamentarie battaglie insieme a Israele, sia nel terribile finale affrontamento dell’Anticristo: «Se l’ultima istanza di Dio lo spinge a combattere, a fare la guerra, e la guerra decisiva, allora vuol dire che nessun esito è già prestabilito, che la Signoria di Dio sul mondo e la sua stessa divinità non sono garantite da nulla»178. Nel tema della non onnipotenza e della debolezza si ritrovano, dunque, tragicamente unite le azioni umane e l’azione di Dio. Un Dio costretto a combattere, non solo non è un Dio onnipotente, come si è già detto, ma è un Dio che deve subire il rischio della sconfitta, insieme ai più deboli, ai diseredati della terra, ai quali, pure, il Regno è stato promesso in eredità. Nella battaglia, Dio abbandona il posto di Dio e si rivela “uno come noi”: «Il piccolo resto degli ‘anawim, di coloro che sono poveri e hanno “lo spirito di povertà”, ripete così il gesto originario di Dio: quello il cui significato Simone Weil ha espresso come la scoperta della “parentela del male con la forza, con l’essere, e del bene con la debolezza, il nulla”. Gli sconfitti sono dalla parte di Dio, la parte di Dio è la sconfitta»179. Simone Weil era convinta dell’esistenza di leggi del surnaturel altrettanto ferree di quelle – come la forza di gravità – che governano il naturel180, e anche Quinzio sembra individuare nella debolezza una “legge messianica”, il proprium dell’azione di Dio nel mondo, ma anche ciò che lo rimette in questione nella sua essenza. Quest’ultima, infatti, sarebbe rimasta immutata se Egli non fosse coinvolto nella battaglia per il Regno: «Ma se invece Dio è coinvolto, come è scritto, nella guerra, allora la sua vittoria o la sua sconfitta, […], in definitiva l’esserci o il non esserci 284

di Dio, tutto ha senso o non ha senso solo nell’esito della lotta. Dio è la salvezza di Dio, non c’è nessun Dio separato dalla sua e dalla nostra salvezza»181. La debolezza di Dio, il suo essere in lotta, è, dunque, anche la media proporzionale che permette la comunanza di destino con l’umanità. L’attivismo messianico delle prime opere di Quinzio, l’entusiasmo della volontà escatologica, benché fosse sempre accompagnato dal tema della debolezza, era anche animato da una robusta fede nella vittoria apocalittica di Dio. Nelle ultime opere Quinzio si misura, invece, con la possibilità che neppure quel “resto” di Dio – «un “resto di Dio”: nel senso in cui […] permane ancora un residuo di vita in chi è appena morto»182 – sopravvissuto alla crocifissione, riesca a operare per salvare il mondo. Come Mysterium iniquitatis si chiude con il dogma del fallimento del cristianesimo nel mondo, La sconfitta di Dio sembra decretare un ancor più grave verità, mostrando la comunanza di destino degli uomini e di Dio nel segno di una sconfitta che non appare più solo in chiave mondana, ma teologica. Non soltanto perché la debolezza messianica fa sì che non possa darsi per scontata la vittoria finale di Dio, ma anche perché duemila anni di attesa e di invocazioni inascoltate hanno ulteriormente indebolito la comunità messianica alla quale, pure, secondo Quinzio, era ormai affidato “tutto”: Il “resto di Dio”, […] è stato messo in noi con il dono del suo Spirito, che secondo il Vangelo di Giovanni ci è stato fatto lo stesso giorno dell’oscura resurrezione di Gesù […]. Allo Spirito di Dio che è in noi – fiato, vento che spira dove vuole (Gv 3, 8) – è affidato, da allora, tutto. La chiesa d’Oriente ha tramandato questa verità […] nel “mistero”, della “Divinoumanità” […], per la quale in Gesù Cristo, Dio e l’umanità […] sono ormai inseparabilmente congiunti183.

Sarebbe supremo e finale compito di questa “divinoumanità” infondere nuova vita a quel “resto di Dio” che è stato inchiodato alla croce, “sconficcargli” i chiodi, offrendo la vita stessa in questo sacrificio che, come è scritto nella Lettera ai 285

Colossesi, dovrebbe compiere ciò che ancora manca alla passione di Cristo (Col 1, 24) e far giungere, davvero, la fine dei tempi: «Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici per poterlo fare»184. Cosa resta dell’azione messianica e della «nuova politica» di Quinzio in questa stanchezza e delusione? Resta, forse, la voce per pronunciare terribili, lucide parole. Resta l’esigenza di dire verità indicibili, di fare – attraverso la parola – la verità, ossia di essere testimoni, martyroi. Parola che viene scagliata come dardo infuocato contro le certezze di paglia di questo mondo e della Chiesa, che non riesce ad assumere fino in fondo le contraddizioni del Regno non venuto e del suo proprio fallimento nel mondo. La concentrazione dell’azione politica, messianica, di Quinzio è tutta nel suo linguaggio profetico che rompe gli argini di sicurezza che i secoli hanno costruito attorno alla più potente Parola delle Sacre Scritture ebraico-cristiane – nell’orizzonte delle quali, volenti o nolenti, ci troviamo – smorzandone le contraddizioni e le aporie. Dalla rottura di questi argini il Commento alla Bibbia di Quinzio riversa sul mondo la Parola, che l’ha accompagnato durante l’arco di tutta la sua vita, mettendone in luce proprio i punti oscuri, i più ostici, quelli lasciati volutamente in ombra, perché troppo imbarazzanti, controversi, problematici; così come le altre sue opere mettono a nudo le infinite contraddizioni del nostro tempo. Il coraggio di questo atto, che non può essere interpretato esclusivamente come facente parte di un orizzonte personale, è, invece, essenzialmente “politico”, è «l’azione dei profeti contro il sacerdozio»185. E, come per i profeti, tale azione è maturata nel dolore e nella consapevolezza che solo un’umanità redenta riceverà in eredità il suo passato. Dunque, in gioco è sempre una determinata concezione del tempo. Per Quinzio era necessario mantenere viva l’urgenza della tensione verso la “redenzione” dell’umanità, nella certezza dell’essenza messianica del tempo, come sapeva bene anche Benjamin: «in realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di es286

sere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo»186. Notiamo, dunque, ancora una volta, una singolare convergenza di Quinzio e Benjamin, i quali colgono la dipendenza di questo compito «del tutto nuovo», di una «nuova politica», dalla temporalità messianica, sia nel suo declinarsi al passato – come battaglia contro l’oblio nei confronti di coloro che sono già morti – sia al futuro, in quanto possibile avvento di una umanità redenta, che nell’adesso, Jetztzeit, attimo della possibile irruzione del Messia. In Benjamin è certo più evidente l’attenzione al passato di quanto, in apparenza, non lo sia per Quinzio: «Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa, l’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica»187. Ma anche Quinzio, quando scrive la Resurrectio mortuorum, vuole entrare proprio nel cuore di tutte le più remote stanze dei singoli attimi vissuti – anche dagli esseri assolutamente dimenticati della storia dell’umanità – affinché sia ridata loro una vita del tutto nuova: La resurrezione della carne è un raccogliere la debolezza e la finitezza dell’uomo, con le sue gioie e le sue sofferenze, un non lasciar cadere nel nulla il suo passato, la sua memoria, un restituirgli tutto nella sua umiltà, che Dio stesso ha assunto nell’incarnazione […]. La resurrezione ha anche un carattere tragico, come dimostra il racconto di Lazzaro uscito dal sepolcro con il suo sentore di putredine. La resurrezione è l’estremo, il più perfetto atto di carità che può essere compiuto nei confronti di una creatura quando è caduta nella più irrimediabile delle povertà, la perdita di tutto, della sua stessa vita188.

L’azione del Messia, che da risorto scende agli inferi per far risorgere i morti, diviene, nel Regno, suprema azione “politica” di restituzione di tutto, nell’atto di “raccogliere” la debolezza dell’uomo. Con tutta evidenza, infatti, Quinzio non pensa la re287

surrezione come evento spirituale – dunque già avvenuta nel momento della morte del singolo – ma, ebraicamente, come evento concreto e, anche, “pubblico”: la resurrezione, dunque, è la suprema, finale, azione di una politica messianica, che per i cristiani dovrebbe assurgere alla certezza di un dogma, come Quinzio vorrebbe al termine della Resurrectio mortuorum: «Ci sarà, nel futuro, la resurrezione dei morti, e i morti risusciteranno nella loro vera carne umana nella quale sono vissuti per tornare a vivere, senza fine, una vita perfettamente umana sotto nuovi cieli e sopra una nuova terra dove abiterà la giustizia (cfr. 2 Pt 3, 13), in una creazione anch’essa redenta e liberata dalla corruzione della morte (cfr. Rm 8, 19-22)»189. Una fede disperata di fronte alle rovine del passato accumulatesi nei millenni, dalle quali Quinzio non ha mai sviato lo sguardo, tenendo gli occhi fissi su quel volto amato che ha tentato, in ogni sua parola, di strappare all’oblio: «Quando eri al mio fianco guardavo, ma non potevo veramente vedere, l’abominio del mondo. Adesso le cose mi svelano il loro nulla, si offrono alla distruzione. […] Tu adesso per me sei una cosa sola con il regno di Dio, perché solo il regno può ridarci quello che abbiamo perduto»190. Nel frattempo resta la parola: «parla anche tu,//parla per ultimo,//dì il tuo pensiero»191. Un invito, o piuttosto un comando, un imperativo, a cui Quinzio ha obbedito, fino a quando la morte ne ha sigillato lo spazio del dire, lasciandoci, infine, solo il suo detto.

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Note 1 Ad esempio, i termini hierós e hágios indicherebbero, da una parte «ciò che è animato da una potenza e da un’agitazione sacra, dall’altro ciò che è proibito, ciò con cui non si deve avere contatto» (E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, II, p. 441), mentre in latino, sanctus, ad esempio, «è il muro, ma non il territorio che il muro circoscrive, che è detto sacer; è sanctum ciò che è proibito per mezzo di alcune sanzioni. Ma il fatto di entrare in contatto con il sacro non porta come conseguenza lo stato di sanctus […]. Si direbbe che il sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum, che serve ad isolarlo da ogni contatto» (ivi, p. 428), una differenza che, però, in latino tende a scomparire in quanto sanctus non serberà il mero carattere negativo – non-sacro e non-profano – diventando, piuttosto, un concetto positivo: «diviene sanctus colui che si trova investito del favore divino e riceve per questo una qualità che lo eleva al di sopra degli umani […]. Sanctus si applica a coloro che sono morti (gli eroi), ai poeti (vates), ai preti e ai luoghi che essi abitano» (ibidem). Abbiamo già fatto cenno alle fondamentali riflessioni di Lévinas, che attribuisce il sacro a un orizzonte pagano, mentre riserva il Santo per il Dio ebraico, in quanto assolutamente separato e trascendente (cfr. E. Lévinas, Dal sacro al santo, cit.). 2 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 38. Cfr. anche S. Quinzio, Le chiese cristiane di fronte alla secolarizzazione, cit. A proposito del complesso rapporto della Chiesa con l’annuncio evangelico e il suo stare nel mondo si rimanda alle densissime riflessioni di M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 632 e sgg. Secondo Roberto Esposito il fatto che, nel caso del cristianesimo, il presunto punto di svolta da una fluida e viva proclamazione del messaggio evangelico alla sua istituzionalizzazione dogmatica venga retrodatato sempre più – dalla scolastica, a Paolo, fino alle stesse parole del Messia Gesù – «sta ad indicare che non esiste una fase, neanche aurorale, in cui la parola cristiana coincida con la sua pura verità interiore, che non sia già presa nell’esigenza di una formulazione dottrinaria. […] Non esiste un cristianesimo diverso dal cristianesimo storico, dal momento che la storia – come evento e come durata dell’evento – è l’orizzonte di senso originario dell’intero linguaggio cristiano. La secolarizzazione – nel senso letterale di relazione col ‘secolo’ – gli è, cioè, del tutto intrinseca» (R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 72). Interessanti, in relazione a questo tema, le riflessioni di R. Panattoni, «Il tempo del potere», in Scritture. violenza, potere, libertà, Marietti, Genova 2005, in particolare le pp. 81-95 in cu l’autore – antiapocalittico, se l’apocalisse viene quinzianamente ed ebraicamente intesa come implicazione di catastrofe e salvezza – fa riferimento proprio alle posizioni di Esposito. 3 Una posizione, quindi, decisamente anti-schmittiana, se si considera, ad esempio, l’esaltazione della Chiesa che Schmitt compie in Cattolicesimo romano e forma politica, cit. Essa è considerata come luogo privilegiato di una complexio oppositorum nella quale coesisterebbero tutte le forme di governo e di Stato – dall’aristocrazia alla democrazia – e uno spazio teologico in cui Antico e Nuovo Testamento vengono accettati insieme a un’infinità di mediazioni provenienti dalle più diverse istanze. Inoltre, vi sarebbe «una meravigliosa combinazione dell’elemento patriarcale con quello matriarcale, che permette di rivolgere e di orientare

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verso Roma le due correnti che determinano gli istinti e i complessi più primitivi, e cioè il rispetto per il padre e l’amore per la madre […]. Questa infinita ambiguità si combina di nuovo col più complesso dogmatismo e con un Wille zur Dezision, nel momento in cui culmina nella dottrina dell’infallibilità pontificia» (C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, cit., pp. 35-36). 4 S. Quinzio, L’esilio e la gloria, cit., p. 63. 5 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 78. 6 Ibidem. Per Schmitt, al contrario, la Chiesa avrebbe la capacità di rappresentazione sia della civitas humana che dello stesso Cristo: «Nel rappresentare sta la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico» (C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, cit., p. 47). Sulla centralità della questione teologico-politica, che costituisce il presupposto di tutto il pensiero politico di Schmitt, cfr. M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990; C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996. 7 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 82. 8 Cfr. J. Taubes, Walter Benjamin. Un marcionita moderno?, in Il prezzo del messianismo, cit., p. 57 e sgg. 9 Esposito constata la presenza di una “dinamica dell’immunizzazione” al cuore di ogni teodicea: «Per potere svolgere il suo ruolo immunitario nei confronti della comunità afflitta dal male, Dio deve essere stato precedentemente immunizzato dal sospetto di averlo egli stesso reso possibile. Non solo ma attraverso una strada che non passi per la soluzione gnostica dello sdoppiamento in due differenti divinità – una buona e una malvagia – come si è già visto a proposito di Marcione, porterebbe ad un esito autodissolutivo dello stesso corpo cristiano: se il finito fosse cattivo in quanto tale, meglio sarebbe limitarsi ad attenderne la scomparsa» (R. Esposito, Immunitas, cit., p. 91). Non si può negare che proprio quest’ultimo sembra l’atteggiamento prevalente di Quinzio e vicina a questa prospettiva la sua valutazione del mondano. 10 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 82. Il sacerdozio è, invece, rivestito da Schmitt di grande importanza e dignità. Gli è propria una delle funzioni eminenti del razionalismo insito alla Chiesa Cattolica: «la sua grande prestazione consiste nel fare del sacerdozio un ufficio […]. Il papa non è il profeta, ma il Vicario di Cristo. Tutta la rozzezza fanatica degli sfrenati profetismi è così tenuta lontana grazie a quest’opera di ‘formazione’. Dal fatto che l’ufficio è reso indipendente dal carisma, il sacerdote riceve una dignità che pare astrarre interamente dalla sua persona concreta […], il suo ufficio in una catena ininterrotta, risale al mandato personale e alla persona di Cristo. Questa è certamente la complexio oppositorum più sorprendente» (C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, cit., pp. 42-43). 11 Taubes, a differenza di Scholem, ha sempre ascritto, come si è già detto, anche all’ordine sacro sinagogale, in particolare all’ebraismo rabbinico, una forma katechonica di esistenza, fondata sulla stabilità delle sue strutture dovuta alla rigorosa fedeltà all’Halacha’ (cfr. J. Taubes, Il prezzo del messianismo, cit., p. 55). 12 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 83. 13 Ivi, p. 93. Oltre a essere un’invettiva contro l’eticismo dell’ordine sacro, quella di Quinzio appare diretta anche contro l’apparato giuridico che lo imbriglia.

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Ivi, p. 157. Ivi, p. 554. Cacciari, invece, mette in luce l’esplicita indicazione di costituire una Chiesa fatta per durare: «l’affermazione di Matteo, 16, 18 è, sì, la sola dove nei Vangeli compaia il termine ekklesía in riferimento a coloro che credono nel Cristo […], ma suona davvero pesante come pietra: si tratta di edificare una Chiesa, e di edificarla sopra un’autorità chiaramente presente, reale, determinata, in modo che essa possa durare» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 633). Il suo durare sarebbe necessario proprio per i figli che non sono ancora perfetti come non lo è la Chiesa, che, però, potrà iniziare a educarli, a nutrirli perché non smarriscano la via lungo la quale giungere al Signore. Da essa, a ogni istante, ci si potrebbe allontanare, «e perché questi parvuli, stiano ‘ben connessi’, è necessario, in ogni senso, nutrirli» (ibidem). Non sono, tuttavia, gli apostoli che possono nutrire, ma Cristo. È Lui che moltiplica i pani che gli apostoli, tuttavia, devono distribuire affinché i parvuli non muoiano di fame. Proprio nel ruolo giocato da Cristo, forse, la posizione di Quinzio e quella di Cacciari si riavvicinano, dato che Quinzio non nega la necessità dell’istituzionalizzazione, per quanto la consideri nefasta e obbediente a una logica anticristica, ma ne sottolinea la “defezione” progressiva da Cristo. 16 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 582. La questione della legittima continuità tra la comunità apostolica e la Chiesa di Roma è stata posta anche da Simone Weil: «Quando il Cristo ha detto “insegnate a tutte le nazioni e portate loro l’annuncio”, ordinava di portare un annuncio non una teologia. […]. D’altra parte è scritto che l’albero è giudicato dai suoi frutti. La Chiesa ha portato troppi frutti cattivi perché non ci sia stato un errore all’inizio» (S. Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, pp. 33-34). 17 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 731. 18 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 76. 19 Ivi, p. 77. 20 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 587. Un destino che, nel caso delle prime comunità cristiane, viene reso più penoso dalle divisioni che si delineano al suo interno e che, con il passare degli anni, si approfondiranno, alimentando discordie; queste non verranno affatto considerate una paradossale smentita della presenza unificante dello Spirito Santo promesso dal Messia, ma affrontate con metodi pratici, addirittura con l’istituzione di un “apposito ufficio” (At 6, 2-6), «modello e matrice dei successivi sviluppi dell’istituzione ecclesiastica» (ivi, p. 589). L’apposito ufficio, però, non risolverà affatto i conflitti, tanto che un gruppo finirà per soccombere e, da quel momento, «la storia della chiesa è […] la storia degli ellenisti. E la storia che raccontano gli Atti è divinamente vera, come prova il fatto che lungo tutti i secoli la chiesa non farà che allontanarsi sempre più dalle sue radici ebraiche» (ibidem). In effetti, vero protagonista del libro degli Atti non sarà tanto Pietro, che appare solo all’inizio, ma Paolo, l’apostolo delle genti, «tanto che gli atti degli apostoli sono piuttosto, in realtà, gli Atti di Paolo» (ibidem). La predicazione di Paolo, debitamente epurata dai suoi risvolti messianici, diventerà base della teologia dei secoli seguenti e mezzo di diffusione di un cristianesimo in via di istituzionalizzazione, che si sostituirà al Regno di Dio, «per il quale l’inquisizione giungerà a porre i tribunali dei suoi frati al posto del tribunale dell’ultimo giorno» (ivi, p. 665). 14 15

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S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 57. Anche Cacciari mette in luce il fatto che Paolo parli dell’apostasia come «defezione (“discessio”) totale da Dio» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 622), e così la interpreta: «Viene l’“antikéimenos”, lo spirito della separazione: separazione dalla Legge (e non suo compimento), separazione da Colui che è venuto a compierla […]. Ma il suo contrapporsi e separare, il suo dia-bállein (egli viene, infatti, “secundum operationem Satanae”: è “energéia” della potenza che separa), non si configura affatto come un semplice ‘distruggere’ Dio. Egli non proclama affatto che ‘Dio è morto’, ma “mostra se stesso come Dio”. Come l’operazione dei seduttori consisteva nel ridurre a momentum l’Adventus, così quella dell’Anomos consiste nel risolvere l’Aión intradivino nella sua apocalisse, nella sua presenza qui-e-ora» (ibidem). Dunque l’Anomos, secondo Cacciari, sarebbe colui che sottrae Dio al suo nascondimento con un Annuncio che afferma l’assoluta libertà dalla Legge, proponendosi come compimento dell’Annuncio, oltre qualsiasi legame con il Padre, superato dall’assoluta libertà del Figlio: «La defezione non avviene per semplice negazione, ma mostrando il mero momentum (ecco, qui-e-ora si dis-velano tutti i tempi di Dio) come l’esserci stesso di Dio – e affermando di questo momentum l’assoluta libertà» (ivi, pp. 622-623). 22 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 90-91. Il riferimento è alla prima Lettera di Giovanni, in cui, a proposito dei molti anticristi che sarebbero già apparsi e operanti in mezzo ai fedeli, si dice che «Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri» (1 Gv 2, 19). Cfr. anche S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 59. 23 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 58. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 84. Cfr. anche S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 734, in cui è ribadito lo stesso concetto. 26 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 84. 27 «Al mistero dell’anomía (2, 7) – scrive Cacciari prendendo in considerazione la seconda Lettera ai Tessalonicesi – si unisce questo del “katéchon” […]. Eppure se lo sapevano i destinatari di Paolo […] (2 Ts., 2, 6), anche noi dobbiamo poterlo sapere» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 623). Schmitt ha creduto di riconoscere la forza del katéchon innanzitutto nella potenza dell’Impero cristiano medievale: «Il concetto decisivo e storicamente importante, alla base della sua continuità, era quello di “forza frenante” [Aufhalter], di kat-echon. “Impero” significa qui il potere storico che riesce a trattenere l’avvento dell’Anticristo e la fine dell’eone attuale: una forza qui tenet, secondo le parole dell’apostolo Paolo nella seconda epistola ai Tessalonicesi» (C. Schmitt, Il nomos della terra, a cura di F. Volpi, tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 43). Schmitt è convinto che la fede cristiana originaria non possa avere un’immagine della storia che non sia quella del katéchon: «La fede in una forza frenante in grado di trattenere la fine del mondo getta gli unici ponti che dalla paralisi escatologica di ogni accadere umano conducono a una grandiosa potenza storica quale quella dell’impero cristiano dei re germanici» (ivi, p. 44). Egli, d’altra parte, ha alle spalle, come si è accennato, l’interpretazione dei Padri della Chiesa, i quali «concordano nel ritenere che soltanto l’imperium Romanum e la sua prosecuzione cristiana spieghino il sussistere dell’eone e il suo mantenersi saldo contro lo schiacciante po21

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tere del male» (ibidem). Questa genealogia della durata a partire dal connubio tra potere mondano e Chiesa, come abbiamo visto, è condivisa da Quinzio, il quale ne trae, però, conclusioni opposte rispetto a Schmitt che, alla questione posta dall’approssimarsi o meno dei tempi ultimi, ha sempre risposto «affermando irrinunciabile l’esigenza di dilazionare la fine, di rimandare, per quanto è possibile, l’ultimo istante. Forse in questo consiste il suo lato più “conservatore”, laddove da cristiano, avrebbe potuto intravedere, in modo apocalittico, le straordinarie risorse dell’ultimo giorno, la rivelazione che ogni catastrofe racchiude in sé, purché si accetti di tutto offrire al tramonto, in primo luogo se stessi, di farsi assolutamente vuoti senza più nulla trattenere, affinché Altro possa infine annunciarsi» (C. Resta, Stato mondiale o nomos della Terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999, pp. 17-18). 28 Carlo Galli sottolinea come Schmitt consideri, da una parte, la funzione della Chiesa a un livello superiore a quello della storia e dei fatti contingenti, ma, dall’altra, non la ritenga esente dallo schierarsi a favore di una delle parti in lotta per il dominio del mondo, «e questa “parte” è, per Schmitt, la “civiltà occidentale”» (C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 255). La posizione di Schmitt circa il rapporto tra la Chiesa e il katéchon, dunque, è non del tutto chiarita; d’altra parte, secondo Cacciari, se, come si afferma in Cattolicesimo romano e forma politica, «la Chiesa resterà sempre affine a chi sviluppa una ‘grande politica’, essa non potrà non assumere anche i tratti ‘imperiali’ propri del katéchon, e, dunque, tutte le contraddizioni ad esso immanenti» (M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, cit., p. 117, nota 3). Chiunque offra della Chiesa un’interpretazione trionfale, comunque, mostra di dimenticare, ad avviso di Cacciari, il tragico legame di essa con il katéchon: «ignorarlo significa dimenticarne il drâma, trasformarla in passiva testimonianza […] e, soprattutto, ‘rassicurarla’ sul proprio fine e sulla propria potenza di perseguirlo» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 632). Sul tema del katéchon in Schmitt cfr. G. Meuter, Der Katechon. Zu Carl Schmitts fundamentalistischer Kritik der Zeit, Duncker & Humblot, Berlin 1994; M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, cit., pp. 487-492 e 540-554; C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 254 e sgg.; J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996, pp. 32-33; M. Maraviglia, La penultima guerra. Il «katéchon» nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, LED, Milano 2006. Per una visione generale del tema del katéchon cfr. A. Castronuovo, La metamorfosi del katechon, “Trasgressioni”, 1, 1999, in particolare le pp. 96-111. 29 Si potrebbe dire che anche Quinzio si trovi in un “divergente accordo” con Schmitt, forse anche lui interessato a quell’“eccedenza” del pensiero schmittiano che ha consentito, come sottolinea Elettra Stimilli, il suo dialogo con Benjamin e Taubes: «Tale eccedenza […] è quello che ha permesso a Walter Benjamin di usare le categorie della Teologia politica e di volgerle nel loro contrario, e a Jacob Taubes di ripensare l’escatologia in termini rivoluzionari» (E. Stimilli, Prefazione, in J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, cit., p. 15). Taubes rimprovera a Schmitt di non aver compreso che il katéchon costituisce un segno dell’addomesticamento dell’esperienza cristiana del tempo della fine e di aver puntato, piuttosto, tutto sul mondo e sul suo ordinamento: «Era in gioco per me un

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nuovo concetto di tempo e una nuova esperienza della storia, che si apre con il cristianesimo in quanto escatologia […]. Carl Schmitt ne aveva qualche sentore, quando, nella sua eccitazione antiapocalittica e nel suo amore per la forma romana della Chiesa, parlava “del regno cristiano come ciò che arresta (kat-echon) l’Anticristo” […]. Carl Schmitt pensa da apocalittico, ma dall’alto, a partire dai poteri costituiti [Gewalten]; io penso a partire dal basso […]. Il kat-echon, ciò che arresta, su cui posa lo sguardo Carl Schmitt, è già un primo segno di come l’esperienza cristiana del tempo della fine [Endzeit] venga addomesticata, adattandosi al mondo e ai suoi poteri» (J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, cit., pp. 32-33). 30 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 732. In realtà Quinzio, sulla scorta di alcuni passi scritturali (Rm 11, 25-27; Mt 23, 39), ritiene la conversione finale degli ebrei un passo necessario a rivelare il mistero di iniquità in atto e a far giungere il Giorno del giudizio, e, comunque, una conditio sine qua non, che non esclude le altre ma si aggiunge ad esse. Cfr. ibidem. 31 Quinzio, seguendo la Vulgata, traduce anomía con iniquità, ma l’interpretazione che darà di tutte le categorie connesse a questi brani della II Lettera ai Tessalonicesi avrebbe potuto essere sorretta anche mantenendo il concetto stesso di anomía. Il mistero già in atto sarebbe, infatti, come suggerisce Agamben, “mistero dell’anomía” del tempo messianico, dell’“assenza di Legge”, o meglio del suo essere inoperante, in stato di katárgesis. Se questo mistero fosse svelato verrebbe alla luce l’inoperosità della Legge, ma anche l’illegittimità di ogni potere mondano alla luce del tempo messianico (cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 104-105). Proprio questa, come vedremo, sarà la conclusione di Quinzio. 32 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 732. Barth aveva sottolineato la rottura, da parte di Paolo, con potenze e ordini mondani di qualsiasi tipo, dunque con ogni teologia politica positiva (cfr. K. Barth, L’epistola ai Romani, cit.). Scrive Taubes: «Paolo si prefigura il popolo di Dio non come teocrazia, ma come costituzione di un corpo sociale che immagina come ‘corpo in Cristo’» (J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 216). Esposito, tuttavia, sostiene che, nonostante Paolo pensi la comunità in senso universalistico – con la sua dinamica espropriante e superante ogni presupposto identitario – il pensarla a partire dalla metafora del corpo la inserirebbe nella «logica della sua conservazione attraverso regole biologiche e giuridiche che salvaguardano dal male incorporandone il principio. […] La figura paolina che più di ogni altra esprime tale logica immunitaria è quella del katéchon» (R. Esposito, Immunitas, cit., p. 75). 33 Cacciari chiarisce bene il carattere problematico, ambiguo, in ultima istanza tragico di questa forza frenante: «Katéchein ritorna negli scritti neotestamentari sia nel senso di tener stretto, del custodire ciò che è buono (1 Ts., 5, 21), del non disertare dalla “confessione della speranza” (Eb., 10, 23), che in quello di tener prigioniero […]. Come va, in 2 Ts., intesa l’azione del katéchein? Il katéchein (la forma oscilla dal neutro di 2, 6 al personale di 2,7) custodisce in sé l’Anomos? Certamente anche» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 623). Dunque, alla stregua dell’azione dell’Anticristo, che non si pone contro Cristo ma in suo luogo, anche l’azione del katéchein non è un mero porsi contro la manifestazione dell’Anticristo, ma un frenarlo trattenendolo dentro di sé e, proprio per questo motivo, non lo si

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può considerare un semplice nemico dell’Anomos, in quanto, per frenarlo, deve anche introiettarlo, trasformandosi nella sua prigione: «Il katéchon è abitato dall’anomia; ma, nel lasciarsi abitare, nel dar spazio in sé all’anomia, egli anche le impedisce di apparire apocalitticamente. Dunque la contrasta – ma per contrastarla non può che assumerla» (ivi, p. 624). Cacciari, dunque, a differenza sia di Quinzio che di un certo “trionfalismo” di Schmitt, mette in luce l’aporia tragica di questa potenza ritardante. Pur non essendo, quinzianamente, mera forza anticristica, o schmittianamente, mera potenza positiva che combatte l’anomia frenandone la manifestazione, il katéchon è travagliato al suo interno da quell’anomia che deve contrastare: «Il katéchon lotta per contenere in definiti spazi l’apostatés, ma quest’ultimo, volendo essere Dio sopra ogni cosa, non potrà sopportarlo» (ivi, p. 625). Esposito, partendo dal presupposto che la religione incarni un paradigma immunitario, sottolinea non tanto l’evidente carattere frenante del katéchon, ma, in linea con Cacciari, la modalità in cui tale azione si esplica: «il katéchon frena il male contenendolo, detenendolo dentro di sé. Lo fronteggia – ma al suo interno: ospitandolo e accogliendolo al punto di legare alla sua presenza la propria necessità. Lo limita, lo differisce, senza tuttavia debellarlo: in quel caso debellerebbe anche se stesso» (R. Esposito, Immunitas, cit., p. 76). 34 La tragicità del katéchon diventa abissale in rapporto a coloro che vivono fuori dalle sue mura, la cui esistenza, tuttavia, secondo Cacciari, sarebbe possibile proprio a partire dall’azione del katéchon stesso: se è vero, infatti, che il katéchon non può essere né mártys né pistós, tuttavia, contenendo in sé l’anomia, esso lascerebbe uno spazio libero a coloro che testimoniano di aver fede nella Verità e mantengono salda la “buona speranza” (2 Ts 2, 16), «come se volesse concedere loro tempo e luogo, di contro all’enérgeia dell’anomia. […] Il senso di questa azione non potrà mai essere condiviso da chi ha fede nella Verità (cfr. 2, 13): questi vede nel katéchon l’apostasia, non solo il sopravvenire ma l’innalzarsi dell’Anomos; il pistós non potrà non giudicare l’azione vòlta a contenere l’anomia come irrimediabilmente compromessa con la sua stessa potenza. Necessariamente, attenderà la fine del katéchon. E non semplicemente per una sorta di apocalittica impazienza (che Paolo, infatti, non condivide in nulla), ma per il contrasto fondamentale tra l’opera del katéchon e il mandato evangelico» (ivi, p. 626). Paradossalmente, dunque, proprio il katéchon, attraverso la contenzione in sé dell’Anomia, proietterebbe fuori di sé spazi e possibilità di testimoniare la Verità. Per questo suo necessario servire due padroni (Mt 6, 24; Lc 16, 13) – che è defezione e, quindi, apostasia – il katéchon non potrà mai essere sostenuto da chi ha la vera fede e sta fuori dalle sue mura, e proprio in questo servire due padroni, risiederebbe, in definitiva, la sua drammatica antinomicità. Per un ulteriore approfondimento di questi temi si rimanda alle riflessioni, acutissime e rigorose, che Cacciari vi dedica, sviscerandone inedite possibilità ermeneutiche (cfr. «De Reditu», in Dell’Inizio, cit., p. 597 e sgg., in particolare p. 621 e sgg.). 35 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 394. 36 Anche lo Schmitt «apocalittico della controrivoluzione», come lo definisce Taubes, in un suo scritto giovanile del 1917, propone una riflessione che è sorprendentemente vicina all’idea quinziana della possibilità che l’apostasia possa essersi incarnata in una parte della Chiesa, lasciandone un’altra immune. Schmitt

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parla, infatti, della differenza intraessenziale, se così si può dire – relativa cioè all’essenza dell’unica Chiesa – tra due modi di ex-sistere di essa, che darebbero luogo a quelle che egli chiama – con terminologia un po’ ambigua – la “Chiesa visibile” e la “Chiesa concreta” (cfr. C. Schmitt, La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, in Cattolicesimo romano e forma politica, cit., p. 80. Su questo tema cfr. C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 234 e sgg. e M. Nicoletti, Trascendenza e potere, cit., p. 147 e sgg.). La visibilità della Chiesa è necessaria, si direbbe, ontologicamente, in quanto derivante dall’incarnazione di Cristo in forma umana e dal suo aver creato una comunità visibile. Tale Chiesa visibile avrebbe, quindi, un supremo fondamento invisibile, ma non si differenzierebbe da quella concreta o “ufficiale”, se non per il fatto di avere profonda coscienza della contingenza e inessenzialità di tutti i suoi atti mondani. Schmitt, tuttavia, ammette che potrebbe verificarsi, da parte della Chiesa visibile-ufficiale, un processo di “rimozione” della differenza tra essenziale e accidentale nell’adempimento dei suoi compiti mondani. Ciò basterebbe a creare lo scarto essenziale al suo interno che la porterebbe (in-visibilmente) a sdoppiarsi, separandosi dalla Chiesa (in)visibile, la quale resterebbe immune da questo errore, in quanto radicata in Cristo. Tale distinzione tra le due Chiese, secondo Schmitt, rimarrà possibile fino al giorno del giudizio, cioè finché nel mondo esisterà il peccato. Inoltre, poiché, a suo avviso, anche nella Chiesa vale il principio che si debba obbedienza più a Dio che agli uomini, ci sarebbe, anche di fronte all’infallibilità del papa, una riserva, sussistente, comunque, nei confronti del potere di ogni uomo. Questa idea, insieme alla possibilità dell’oblio del fondamento invisibile su cui la Chiesa tutta dovrebbe restare ferma, potrebbe generare anche per Schmitt una paradossale situazione: «Se radicalizziamo quest’idea, si apre persino la possibilità che in tempi di estrema confusione, quando Dio lo permette, l’Anticristo diventi papa, non già un papa legittimo e perciò non il Vicario di Cristo in terra, ma una sua contraffazione dall’apparenza fattuale di “papa legittimo”» (C. Schmitt, La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, cit., p. 81). Una tesi, questa dell’Anticristopapa, che Schmitt considera con grande serietà: «L’incongruenza tra la Chiesa visibile e la Chiesa concreta sarebbe allora diventata un’aperta contraddizione, la punizione più terribile della malvagità umana […]. Anche allora, però, i pochi fedeli continuerebbero a costituire la Chiesa visibile nonostante ogni ottenebramento; […] essa rimane sempre, come ognuno dei suoi membri, peregrina in saeculo et pertinens ad civitatem Dei» (ivi, pp. 81-82). Se pure questo scritto fu concepito nell’aura anticattolica che dominava la Germania di inizio secolo e pensato, probabilmente, soprattutto contro i protestanti, ciò non toglie la potenza della critica. Anche il “ritardatore” Schmitt, quindi, contempla l’ineludibile possibilità dell’apostasia, proprio a causa della seduzione satanica, non semplicemente anomica, bensì, come acutamente ribadisce, regolata da un nomos anticristico (cfr. ibidem). 37 Cacciari, alla luce della sua interpretazione del katéchon, si interroga su quella che, a suo avviso, è una forte ambiguità di Quinzio nella definizione dello status della Chiesa: «La domanda decisiva è: la Chiesa rappresenta il “mistero d’iniquità” o il “katéchon”? Si potrebbe rispondere affermando che il katéchon non può che contenere in sé l’Anomos, e dunque l’Anomia si annida comunque nella

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Chiesa. Ma contenere in sé qualcosa per impedirne la rivelazione non significa essere quella cosa. E allora delle due l’una: o la Chiesa è costitutivamente “mysterium iniquitatis”, in quanto la sua stessa fondazione tradisce l’Annuncio, è “contraffazione anti-cristica” – oppure la Chiesa partecipa all’altro mistero, quello del “katéchon”, e la domanda diviene: perché la Chiesa vuole ritardare (impedire, in base al testo paolino, appare impossibile) l’apocalisse del “filius perditionis”, e dunque la sua distruzione da parte del Signore?» (M. Cacciari, Apocalittica di Sergio Quinzio, cit., p. 25). Perché, cioè, ben oltre il suo comprensibile ruolo di conferimento di un ordine al frattempo, per impedire la degenerazione di una troppo lunga attesa in oblio delle promesse, la Chiesa decide anche di ritardare la definitiva manifestazione dell’Anomos e, perciò stesso, cerca espedienti che ne ritardino la distruzione? Cacciari ipotizza una risposta sulla base, a suo avviso, della stessa riflessione quinziana, che avrebbe come suo esito la dichiarazione del dogma del fallimento del cristianesimo nel mondo e la fine della storia senza che la salvezza abbia avuto luogo: «Se Dio è sconfitto, mentre certamente “energeitai” lo spirito dell’Anomia – se Dio è morto, mentre certamente vive, “indistruttibile come le pulci”, l’ultimo uomo di Nietzsche – che cosa resterebbe da fare alla Chiesa se non ritardare l’ineluttabile? e cioè ritardare la definitiva perfetta vittoria del “filius perditionis”? poiché tale vittoria sarebbe certa dal momento che si afferma che Dio è sconfitto» (ivi, p. 26). La Chiesa avrebbe, dunque, raggiunto per prima la consapevolezza della inevitabile vittoria dell’Anticristo e custodirebbe in sé questo insostenibile sapere, ritardando, perciò stesso, il più possibile la fine. 38 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 77. 39 Ivi, p. 112. 40 Ivi, p. 86. Piero Stefani nota la paradossalità di questa affermazione perentoria a partire dal presupposto, operante nel pensiero quinziano, di una Chiesa colpita da un processo di decadenza che le impedisce di proclamare la verità, come, invece, sembrerebbe fare proprio l’ultimo Papa. Stefani legge questo paradosso facendone il paradigma dell’appartenenza di Quinzio alla Chiesa fino alla fine: «L’appello all’infallibilità dell’ultimo papa fa parte della profonda adesione – spesso sottovalutata – di Quinzio alla Chiesa di Roma […]. Vanno dunque prese sul serio sia la grande centralità attribuita al papa, sia l’esaltazione dei modi (a iniziare dalle encicliche) con cui viene diffuso l’insegnamento papale» (P. Stefani, Dal papa del rinnovamento a quello del fallimento, in AA. VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, cit., pp. 67-68). L’ipotesi di Stefani è condivisibile da un certo punto di vista e profondamente vicina al sentire del Quinzio cattolico fino alla morte, ma mette in ombra alcuni elementi che dovrebbero, forse, essere considerati di primo piano. Quel papa, l’ultimo papa, è, con tutta evidenza, assolutamente altro dalla Chiesa istituzionalizzata e ben salda nel mondo moderno: «Si fa strada in Pietro II una visione radicalmente tragica della storia della Chiesa. Troppi secoli hanno inesorabilmente portato la Chiesa a strutture di potere e a trionfali ruoli mondani […]. L’idea di una Chiesa povera e pura gli appare sempre più come un mito stanco, vecchio di almeno un millennio. […] Quando il suo isolamento è completo anche all’interno delle mura ecclesiastiche, Pietro II si chiede se esiste ancora una possibilità di riconoscersi cristiani in un nucleo essenziale di cose in cui sperare e credere» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., pp. 12-13).

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S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 87. In un ambiguo scontrarsi dell’autorevolezza, che potrebbe essere giudicata superba, del suo giudizio e dell’umiltà – o del timore? – che gli impedisce di trarre le conclusioni estreme del suo dire – e cioè la condanna senza remissione della Chiesa istituzione – la cattolicità di Quinzio, proclamata da lui stesso, appare quanto meno segnata da una profonda tragicità. Non a caso era scandalizzato e profondamente deluso dalla bonaria e ipocrita tolleranza – tipica di un certo cattolicesimo – con la quale furono accolte le sue opere più scandalose come, appunto, Mysterium iniquitatis: «Quinzio a buon diritto pretendeva opposizione, condanna, grinta, ma la vecchia intolleranza intercristiana era ben morta, ormai. Nel suo evangelo contava più della pace, la spada; però come si fa a giostrare rischiosamente e mortalmente con chi di spada non vuol saperne e cerca ad ogni costo di aggiustare tutto e rifiuta il combattimento?» (G. Ceronetti, Per Sergio, in AA. VV., Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza, cit., p. 172). Tuttavia le critiche, anche aspre, non sono mancate del tutto, come ha sottolineato M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, cit., pp. 98-99. 42 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 40. 43 In riferimento alle speranze e alle angosce messianiche e apocalittiche, Quinzio scriverà: «Pensieri simili erano consueti, infatti, fin dalla mia prima giovinezza, e li ho portati in me con sempre maggior pena e maggior delusione fino alla vecchiaia: sono l’arco che congiunge gli estremi della mia vita, l’unico luogo dove posso sperare di trovare un barlume di unità in tutto quello che ho vissuto» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 91). 44 Bisogna sottolineare che le riflessioni più esplicitamente “politiche” di Quinzio, come si è detto, risalgono soprattutto agli anni Sessanta, dunque alla sua giovinezza, e sono concentrate in testi come Religione e futuro (1962), cit.; Giudizio sulla storia, (1964), cit. e Cristianesimo dell’inizio e della fine (1967), cit. In realtà, però, le opere successive, pur non riprendendo direttamente le questioni poste in quegli anni, neppure le smentiscono e, anzi, sembrano indirettamente esasperarle nelle riflessioni sul Moderno, la tecnica, la secolarizzazione, la civiltà occidentale, come si nota in Un commento alla Bibbia (1972-1976), cit.; La fede sepolta (1978), cit.; Radici ebraiche del moderno (1990) cit.; La sconfitta di Dio (1993), cit.; Mysterium iniquitatis (1996), cit., nonché nei numerosi articoli scritti per i giornali con cui Quinzio ha collaborato, molti dei quali si possono trovare in Incertezze e provocazioni, cit. e La speranza nell’Apocalisse, cit. 45 È la nota definizione che Jacob Taubes dà di Schmitt, al quale aveva dedicato una conferenza proprio con questo titolo: «Carl Schmitt può essere letto e compreso sia come giurista che come apocalittico della controrivoluzione. Io sono stato colpito da questo secondo aspetto. In quanto apocalittico l’ho riconosciuto e lo riconosco a me vicino. I temi ci accomunano, anche se tiriamo conclusioni opposte» (J. Taubes, In divergente accordo, cit., p. 28). Lo stesso Taubes aveva riconosciuto nella concezione ebraico-cristiana della storia il punto di convergenza tra la sua riflessione e quella di Schmitt: «Ci accomuna l’esperienza del tempo e della storia come termine [Frist], come termine ultimo davanti al patibolo [Galgengfrist]. Questa è originariamente anche un’esperienza cristiana della storia» (J. Taubes, In divergente accordo, cit., p. 33). È lo stesso Schmitt, del resto, che fa riferimento alla «tesi che esistono molte possibilità di una visione cristiana della Storia, possibi41

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lità nuove o dimenticate, insospettate e insperate la cui ricchezza è infinitamente superiore alla filosofia marxista dell’Oriente e al progressismo occidentale. Non si tratta né di utopie né di ucronie. Da un lato non nascondono la verità che esisterà una fine dei tempi e non semplicemente la fine di un ciclo. Dall’altro, non conducono alle disperate forme di suicidio, cioè la scelta della morte piuttosto che del naufragio nella pura tecnicità» (C. Schmitt, L’unità del mondo, in L’unità del mondo e altri saggi, a cura di A. Campi, Pellicani, Roma 1994, pp. 317-318). 46 Per la particolare accezione di questo termine si rimanda a R. Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1999. 47 Mario Tronti è stato l’unico che ha provato a misurarsi con la im-politicità della riflessione di Quinzio, riconoscendo alle sue domande un ampio spettro di influenza sul Politico, a causa dell’impronta fortemente profetica del suo pensiero: «Quello di Quinzio non è un discorso “politico”, tanto meno è un sentire “impolitico”. E tuttavia la politica, dai suoi pensieri, si sente più che interrogata, si sente provocata, duramente, e richiamata, direttamente, a un altro ordine del giorno. Se la politica è produzione di futuro, profezia e utopia sono due modi, diversi e opposti, di vedere il futuro» (M. Tronti, Profezia versus utopia, “Bailamme”, 20, 1996, p. 27). L’altro ordine del giorno di cui parla Tronti si può forse intravedere seguendo il suo stesso itinerario che l’ha condotto da Operai e capitale (Einaudi, Torino 1966) a La politica al tramonto (Einaudi, Torino 1998) in cui scrive: «A guardarlo dalla fine del novecento, il tempo della politica che hai attraversato ti appare come un fallimento storico. Non erano troppo alte le pretese, erano inadeguati gli strumenti, povere le idee, deboli i soggetti, mediocri i protagonisti. […] Il miserabilismo dell’avversario ha chiuso il cerchio. Non c’è grande politica senza la grandezza del tuo avversario. Adesso si ha paura del criterio del politico. Ma l’amico/nemico non va soppresso, va civilizzato. Civiltà/cultura nel conflitto. Lotta politica senza la guerra: nobiltà dello spirito umano» (ivi, p. XI). 48 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 170. 49 È chiaro che Quinzio, come si è già detto, nel momento in cui connota positivamente il termine “religione”, lo concepisce come sinonimo di “messianismo”, mentre quando ne parla dispregiativamente, tende a identificarla con l’istituzione, l’“ordine sacro”. Non è un caso che nella storia dell’umanità egli riconosca nell’attesa messianica ebraica e nell’originaria comunità cristiana, i momenti cruciali che testimoniano di un rapporto altro tra religione e politica, a partire da un differente concetto di autorità: «La fondamentale esigenza di un’autorità che si opponga all’autorità mondana – che ha caratterizzato sia l’attesa messianica degli ebrei, sia la predicazione di Gesù, sia le immediate origini cristiane – implicava sbocchi ben lontani da quello, storico e mondano, dell’istituzione chiesa» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 136). Per pensare religione e politica nella loro reciproca coimplicazione, occorre leggerle nel segno dell’attesa messianica e, dunque, in funzione della realizzazione del Regno di Dio. 50 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 156. Si tocca qui un punto delicato e non privo talvolta di ambiguità, della riflessione di Quinzio, rischiosamente prossima a modelli teocratici, come lascerebbero presupporre affermazioni del genere: «il potere è unico, non ha senso un potere legislativo che non sia anche esecutivo e giudiziario. Il potere deve essere, e in pratica sotto i veli delle formule ve-

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diamo che è, summa rerum, non limitata da nessuna legge ma fonte di tutte le leggi» (S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 144), laddove Quinzio coglie l’aspetto costituente del potere. Tuttavia non bisogna dimenticare che, per Quinzio, sia la fonte di questo potere che il sovrano che potrebbe esercitarlo sono assolutamente trascendenti: «L’unica autorità è quella di Dio e dei suoi santi: tutto il resto è usurpazione, pseudoautorità, “mondo”. Al mondo non è dovuto in alcun modo alcun genere di ossequi o di obbedienza» (S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 53). Ci può forse aiutare a comprendere la posizione di Quinzio quanto afferma Taubes: «l’ordine del profano, però, non può essere costruito in conformità all’idea del Regno di Dio. In tal senso per essi, per Walter Benjamin, come per Carl Schmitt ed Ernst Bloch – la teocrazia ha un senso esclusivamente religioso, non politico» (J. Taubes, In divergente accordo, cit., p. 39). Anche per Quinzio, a nostro avviso, si potrebbe dire che la teocrazia ha un senso esclusivamente re-ligioso e non immediatamente politico. D’altro canto è tuttavia importante sottolineare come, pur trascendendo l’ordine politico profano, e dunque inapplicabile ad esso, l’orizzonte religioso, con la sua visione teocratica – che per Quinzio, come per Benjamin e Bloch – è il Regno messianico, incalza, sollecita, provoca, inquieta, interroga incessantemente l’organizzazione politica mondana. 51 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 146. Quinzio non chiarisce a cosa si riferisca parlando delle “più remote e oscure origini”. Supponiamo, dunque, che parli, ancora una volta, dell’originaria speranza messianica ebraica e della primitiva comunità cristiana, benché il riferimento potrebbe essere, più generalmente, anche alle grandi civiltà precristiane. 52 Ivi, p. 147. 53 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 164. Nella fiducia – evidente in queste opere giovanili – che la “perfezione” del Regno potesse anticipatamente prendere forma nella politica umana, si cela, forse, l’aspirazione, essendo il Messia già venuto, a costruire una “comunità messianica” la quale, con la sua attesa spasmodica, potesse favorire il definitivo ritorno del Messia. È, probabilmente, anche in quest’ottica che va letto il tentativo, al quale abbiamo già fatto cenno, di Quinzio e di un gruppo di giovani, che lo avevano incontrato in differenti circostanze e a lui si erano legati – Piero Stefani, Pierre Antoine Paulo, Theo Kneifel, Gino Girolomoni, Daniele Garota, Patrizio Quinzio, fratello di Sergio, e altri – di vivere, negli anni Settanta, il più vicino possibile al Monastero di Montebello, a Isola del Piano, in provincia di Pesaro-Urbino: «All’inizio – afferma Gino Girolomoni, l’unico a essere rimasto al Monastero di Montebello, che ha ristrutturato per abitarvi e farne la sede della Fondazione “Alce Nero” – eravamo uniti da una fede comune. Tutto ciò che Sergio ha scritto nei suoi libri era condiviso da me e dagli altri amici […]. Era essenzialmente una speranza religiosa che ci univa» (G. Caramore - S. Quinzio, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 138). Aggiunge Quinzio: «L’attesa, l’aspettativa: dinanzi a Dio un giorno è come mille anni e mille anni sono un giorno. Noi non abbiamo fatto computo di tempo, però questo senso che ha sempre riempito la mia vita e che ha riempito, particolarmente in quegli anni, la vicinanza tra me, Gino, Daniele, Peppino e altri amici di Montebello era proprio questo: che incombesse sulla storia del mondo la possibilità, l’imminenza di un evento decisivo. Quindi era

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una “comunità” legata all’attesa di tempi decisivi per la storia dell’umanità, del momento finale del ritorno di Cristo. Io ho aspettato per tutta la mia vita e in quegli anni abbiamo aspettato insieme a Montebello» (ibidem). Anche la storia di quella comunità, però, è stata segnata dall’inesorabile passare del tempo e dall’accumularsi, anche su quelle giovani vite, dell’immane Ritardo: «Quello che è successo nella storia della Chiesa è successo anche nella nostra povera storia di singoli e di gruppo. Dopo, a un certo punto, le necessità della vita incombono e ti costringono a degli adattamenti. Quindi tu aspetti che Dio ti salvi, ma intanto vai a fare la spesa e vai a preparare la minestra. Tu aspetti il ritorno di Cristo, ma intanto semini in attesa che il grano maturi e magari pianti l’ulivo in attesa che l’ulivo dia i suoi frutti. C’è questa contraddizione fra la speranza di una vita totalmente rinnovata e l’esperienza fatta di una vita che intanto continua e alla quale dobbiamo in qualche modo adeguarci» (ibidem). Su questa esperienza cfr. anche S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, cit., nonché G. Girolomoni, Quando vedete levarsi una nuvola da Occidente, “Il margine”, 1, 2007, pp. 40-53 (numero monografico dedicato a Quinzio: L’attesa di Dio. Il cristianesimo drammatico di Sergio Quinzio). 54 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 205. 55 Questa condanna senza remissione della politica si basa sulla convinzione dell’onnipervasività del katéchon nel frattempo. Essa avrebbe un carattere di necessità, se è vero, come scrive Cacciari, che «il principio del katéchon domina tutto ciò che cerca di ‘tenere in forma’, nel suo dissidio, l’Età del Figlio, in tutto ciò che ne trattiene l’apocalisse. Ogni ‘principato’ di questa Età ne è espressione» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 628). 56 Cfr. S. Quinzio, Le dimensioni del nostro tempo, cit., pp. 7-29; Id., Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 27 e sgg.; Id., Incertezze e provocazioni, cit. 57 Certamente l’importanza che Schmitt attribuiva alla dimensione politica ha ben altro spessore di quella a essa concessa da Quinzio, concentrato, piuttosto, sui modi per accelerare, nell’epoca della tecnica pseudomessianica, la fine del mondo. In quanto apocalittico della controrivoluzione, preoccupato di “tenere in forma” l’Evo, Schmitt pensa, invece, le grandi questioni della Modernità, in primis quella della tecnica, all’interno di un quadro eminentemente politico: «Il significato finale si ricava soltanto quando appare chiaro quale tipo di politica è abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali sono i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno» (C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, cit., p. 182). Caterina Resta sottolinea come proprio la domanda circa la decisione politica nell’epoca della tecnica e, quindi, la ricerca di un politica in grado di far fronte al nichilismo, siano le questioni che segnano in profondità l’intera riflessione schmittiana (cfr. C. Resta, Mondializzazione e tecnica nell’epoca del nichilismo. Due prospettive a confronto: Ernst Jünger e Carl Schmitt, cit., p. 100; Id., Stato mondiale o Nomos della terra, cit.). Anche Heidegger, nell’intervista allo “Spiegel”, ritiene che uno dei problemi fondamentali del nostro tempo sia la questione di una politica all’altezza della tecnica: «Il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza, storicamente determinante, non può essere in alcun modo sopravvalutata. È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico – e quale – all’età della tecnica» (M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. In-

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tervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, p. 131). 58 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 18-19. In realtà anche Schmitt era lucidamente convinto della straripante potenza della tecnica rispetto al potere politico: «Si potrebbe dire che oggi il destino del mondo è la tecnica, più che la politica, la tecnica come processo irresistibile di centralizzazione assoluta» (C. Schmitt, L’unità del mondo, cit., p. 304). È chiaro che Schmitt, a differenza di Quinzio, e nonostante questa salda convinzione, non poteva che continuare a credere e sperare nella possibilità di una politica katechonica, che frenasse la folle corsa de-politicizzante verso la dissoluzione nichilistica promossa dalla tecnica. Interessanti le riflessioni di Agamben che si interroga con acume – andando oltre i limiti cronologici assegnati da Foucault alla sua ricerca sulla governamentalità – sul motivo per cui il potere ha assunto, in Occidente, la forma di una oikonomia, spingendosi fino ai primi secoli cristiani, nei quali, a suo avviso, si è avuta un’elaborazione, nella forma di una oikonomia, della dottrina trinitaria; tale ricerca gli permetterebbe di «mostrare come il dispositivo dell’oikonomia trinitaria possa costituire un laboratorio privilegiato per osservare il funzionamento e l’articolazione – insieme interna e esterna – della macchina governamentale» (G. Agamben, Il Regno e la gloria, cit., p. 9). 59 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 141. Su questi temi ha a lungo riflettuto G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 60 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 165. 61 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, cit. 62 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 165. 63 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 139. Lo stesso concetto è ribadito in altri luoghi: «Il potere antimessianico, anticristico, come è scritto nell’Apocalisse, è insieme persecutore e seduttore, e la seduzione è una negazione più radicale perché opera mediante la falsificazione» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 56). 64 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 54. 65 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 174. 66 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 53. 67 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., pp. 136-137. 68 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 56. 69 S. Quinzio, La fede sepolta, cit., p. 137. 70 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 107. Un altro caso, ad esempio, è quello in cui i capi dei sacerdoti e gli anziani chiedono a Gesù con quale autorità agisca e da chi gli sia stata conferita. Gesù risponde chiedendo, a sua volta, con quale autorità avesse agito Giovanni il Battista, provocando forte imbarazzo nei suoi interlocutori, i quali non potevano rispondere che la sua autorità veniva dal cielo, perché sarebbe stato inspiegabile che non gli avessero creduto; né, ancor meno, che essa fosse una questione meramente umana, poiché temevano la furia del popolo che lo considerava davvero un profeta e, di fatto, finiscono per non rispondere consentendo, di conseguenza, a Gesù di fare lo stesso (Mc 11, 27-33). Secondo Quinzio, in realtà, «gli interpreti hanno addolcito, attraverso un processo graduale e continuo che si può seguire lungo i secoli, la traboccante violenza della religione di Gesù, la quale avrebbe dovuto distruggere la storia del mondo» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 144).

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Essa è stata, invece, spesso tramandata come un coacervo di stucchevoli buoni sentimenti e di attenuazione del conflitto con il potere politico. Secondo Quinzio l’errore più grave sarebbe stato l’aver posto soavità e dolcezza, tenerezza e pietà – per essenza realtà escatologiche – al di qua dell’apocalisse, «mentre in Gesù stanno al di là, come devono: la pace dopo la guerra, il perdono dopo il peccato, la consolazione dopo il dolore, la gioia dopo il ritrovamento» (ibidem). 71 Come nel caso in cui, dopo aver ammonito i fedeli a non ricorrere ai tribunali pagani per risolvere le liti incorse tra loro (1 Cor 6,1; 4, 3), vi ricorre egli stesso addirittura per questioni religiose (At, 25, 9-11); inoltre, come è noto, nella Lettera ai Romani incita vigorosamente i cristiani a pagare i tributi e a sottomettersi alle autorità costituite, sostenendosi sull’argomentazione, supremamente ambigua, secondo la quale qualsiasi autorità verrebbe da Dio e sarebbe, perciò, da Lui approvata e benedetta. 72 S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 660. 73 Ivi, pp. 660-661. In realtà i brani di Pietro e dell’Apocalisse che Quinzio cita per ultimi in parentesi, non parlano affatto di una preghiera mirata all’abbattimento e alla distruzione dei potenti del mondo, ma dell’affrettare la venuta del Regno, dell’impaziente attesa della giustizia di Dio e della fine del mondo nel suo complesso. La sottolineatura è, dunque, da ascrivere all’ermeneutica quinziana, interamente protesa alla condanna di ogni autorità mondana in quanto negazione e opposizione alla venuta del Regno di Dio. 74 Ivi, p. 662. 75 La “politica del rifiuto” ha caratterizzato, del resto, le comunità cristiane primitive, del tutto intolleranti rispetto ai valori che le religioni del tempo propugnavano – tanto che l’iniziale tolleranza di queste ultime nei confronti del cristianesimo fu anche, sostiene Quinzio, la causa della loro definitiva crisi, culminata nelle persecuzioni di chi rifiutava il cristianesimo divenuto religione ufficiale. L’accusa di anarchia era, infatti, frequentemente rivolta ai primi cristiani, perseguitati dall’Impero non in ottemperanza a una norma speciale contro la loro religione, ma sulla base di leggi inerenti ai criminali comuni, con l’accusa di minare le fondamenta della società, avendo eliminato il sacro e tutti i riti a esso concernenti: «Celso – come riporta Origene – definisce i seguaci di Gesù una banda di malfattori, e l’espressione di Tacito: odio humani generis convicti rivela chiaramente che i primi cristiani furono considerati anarchici ribelli, pronti a morire piuttosto di riconoscere l’autorità dell’imperatore romano, che raffiguravano nella mostruosa bestia apocalittica» (S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 142). 76 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 165-166. 77 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., pp. 142-143. La dimensione verticale, secondo Quinzio, dovrebbe, invece, caratterizzare l’organizzazione del potere nel Regno, a differenza di ogni pseudo-organizzazione burocratica fondata sull’orizzontalità, che è anche appiattimento e uniformazione: «L’organizzazione del regno è verticale, autorità e giusto posto di ogni cosa, dopo che ogni cosa ha espresso liberamente il massimo di sé. L’autorità include la libertà» (ivi, p. 137). 78 Ivi, p. 143. 79 Ibidem. Come si può notare, insieme allo Stato e all’autorità mondana, Quinzio condanna, senza remissione, differenziandosi ancor più da Schmitt, il diritto su

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cui essi si fondano, considerato anch’esso anticristico per eccellenza, poiché sottometterebbe il cristiano – il quale, in teoria, sarebbe ormai libero perfino dall’antica Legge in virtù della venuta del Messia – a un ordine giuridico profano, che può essere considerato solo inferiore, parziale, insignificante, rispetto alla giustizia che si dovrebbe instaurare con l’avvento del Regno: «Una delle più grosse case vuote è il diritto, dopo che è stato vuotato dal valore assoluto della giustizia (fas e nefas) e dell’equità a misura d’uomo e non di formula, per trasformarlo in un astratto meccanismo convenzionale, complicatissimo e inconoscibile». (S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 137). La sua opera di astrattizzazione e formalizzazione dei rapporti interumani e di quelli con il mondo appare a Quinzio una pseudosoluzione, colma di ambiguità, che non farebbe che moltiplicare a dismisura le «interminabili e puerili teorie del nulla costruite dai giuristi» (ibidem). Su questi temi, interessanti le pagine che Cacciari dedica alla questione del Nomos a partire da Schmitt, che aprono una ben diversa prospettiva nella considerazione del diritto, cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, cit., pp. 105-130. 80 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 145. 81 Per una riscoperta dell’originario orizzonte messianico del pensiero di Marx cfr. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1994. 82 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 159-160. Quinzio sembra riprendere in toto l’esigenza, posta anche da Benjamin, di restituire al messianismo – quella teologia raffigurata dal “nano gobbo” che nascostamente muove le fila della storia – l’importanza che di fatto gli compete nell’ambito del materialismo storico (cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 21, Tesi I). 83 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., pp. 160-161. 84 Ivi, p. 161. La critica alla socialdemocrazia mossa da Quinzio è simile a quella che ad essa aveva mosso Walter Benjamin, proprio in relazione ad una certa idea di progresso: «La teoria socialdemocratica, e ancor più la prassi, fu determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma aveva una pretesa dogmatica. Il progresso […] era, in primo luogo, un progresso dell’umanità stessa […]. In secondo luogo, un progresso interminabile […]. Esso valeva, in terzo luogo, come un progresso inarrestabile […]. L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale progresso deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 45, Tesi XIII). In gioco, dunque, come per Quinzio, vi è una certa concezione del tempo: un tempo omogeneo e vuoto sostituitosi al tempo messianico gravido del kairós, quella chance, sempre possibile, che possa aprirsi la piccola porta per il Messia. La secolarizzazione dell’idea del tempo messianico divenuta fede nel progresso infinito e programmabile dell’umanità cancella, con questa sua stessa trasformazione, l’attesa urgente del capovolgimento: «Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo omogeneo e vuoto si trasformò, per così dire, in un’anticamera nella quale si poteva attendere, con maggiore o minore tranquillità, l’ingresso della situazione rivoluzionaria» (ivi, pp. 53 e 55, Tesi XVII).

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S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 176. S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 138. 87 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 24. 88 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 138. 89 Ivi, p. 140. È stato Schmitt a mettere in luce l’epocale passaggio, per l’ordinamento politico mondiale, avvenuto con la scoperta del Nuovo Mondo e con la ‘conversione’ dell’Inghilterra all’Illimite degli oceani, dalla quale discende l’odierna sradicatezza planetaria. Il passaggio dallo spazio degli oceani a quello dei cieli costituirà un’ulteriore Entortung, mentre onde elettromagnetiche, impulsi e segnali satellitari imbrigliano il pianeta «diventato un campo di energia, attività e prestazioni umane. […] Viene anche a cadere la separazione di mare e terra sulla quale fu costruito il legame, sino ad oggi esistito, di dominio del mare e dominio del mondo. Viene meno il fondamento dell’appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino ad oggi valido. Al suo posto cresce inarrestabile e irresistibile il nuovo Nomos del nostro pianeta» (C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 81). Sull’importanza geosimbolica del mare cfr. F. Saffioti, Geofilosofia del mare.Tra Oceano e Mediterraneo, Diabasis, Reggio Emilia 2007. 90 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., pp. 139-140. La possibilità, ora divenuta realtà, dell’emergere di nuove forze, al di là dei blocchi che hanno caratterizzato il mondo nell’epoca della guerra fredda, era stata sottolineata ancora una volta da Schmitt, che aveva parlato di una terza forza, preconizzata, con sorprendente lungimiranza, nella Cina, nell’India o nel blocco arabo, oltre che nell’Europa o in altre «formazioni imprevedibili»; forza che, a suo avviso, avrebbe dato avvio a una dialettica plurale tra grandi spazi, poiché a essa ne sarebbero seguite altre, dando, auspicabilmente per Schmitt, origine a un nuovo equilibrio di forze, simile e, contemporaneamente, differente dall’ordinamento interstatale e globale dello jus publicum Europaeum (cfr. C. Schmitt, L’unità del mondo, cit., pp. 308-309). 91 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 45. 92 Cfr. E. Jünger, Lo stato mondiale, cit. 93 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 140. 94 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 79. 95 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 140. 96 Ibidem. 97 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 20. 98 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 139. 99 Ivi, p. 141. 100 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 25. 101 Ibidem. 102 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 141. 103 Ivi, p. 147. 104 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 26. 105 Ibidem. 106 Ivi, pp. 19-20. 107 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 142. 108 Ivi, p. 147. 85 86

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S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 20. Ivi, p. 49. Su queste considerazioni giovanili è evidente, come si è già sottolineato, l’influenza del pensiero di Ferdinando Tartaglia. 111 S. Quinzio, Diario profetico, cit., pp. 134-135. 112 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 197. 113 Ibidem. 114 Ivi, p. 49. Nonostante Quinzio, nella sua vita, non si sia mai sottratto, ma, anzi, abbia sempre partecipato alla vita culturale, in realtà ogni suo discorso, articolo o conferenza ha sempre mantenuto, nei confronti di essa, un carattere di perpetua decostruzione dall’interno. 115 Ibidem. 116 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 148. Questa idea, come si è detto, è ripresa anche in Mysterium iniquitatis, cit. e dunque attraversa dall’inizio alla fine tutta la riflessione di Quinzio. 117 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 156. 118 Ivi, p. 148. Da sottolineare che, nella maturità, Quinzio penserà il necessario tramontare nella storia del mondo non solo della Chiesa di Roma, ma anche di tutte le altre religioni, monoteistiche o politeistiche, occidentali e orientali: «quanto alle tre religioni monoteistiche sorelle […] penso che, in quanto diverse e irriducibili, non abbiano alternativa fra lo scontro reciproco e la dissoluzione, la fine cioè della religione, e non soltanto di quella monoteistica abramica. […] Se vedo una possibilità di comprensione reciproca tra religioni o fedi diverse, è solo nel loro consapevole morire nella storia del mondo, nella negazione che tutte patiscono proprio quando sono ridotte a eticità» (S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., pp. 108-109). 119 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 191. 120 Ivi, pp. 191-192. 121 Ivi, p. 192. 122 Ibidem. 123 Ivi, p. 195. 124 Ivi, p. 196. 125 Cfr. S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 145. 126 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 192. 127 Ivi, p. 50. 128 Ivi, p. 178. Il riferimento è a Mc 10, 28-30: «Pietro allora gli disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». 129 Ivi, p. 179. 130 Ivi, p. 100. 131 Ivi, pp. 100-101. 132 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 23, Tesi II. 133 Sul tema della sospensione delle leggi mondane e della stessa Legge mosaica sono molteplici le prospettive di pensiero individuabili. Sulla relazione tra ha109 110

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lakhah e messianismo, e sulla statuto della Torah, cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., pp. 128-130; tema che si può rintracciare nella trasposizione letteraria di F. Kafka, Davanti alla legge, in Tutti i racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1970 (racconto che si trova anche nel capitolo «Il duomo» de Il Processo). Sullo “stato d’eccezione” il riferimento principale è, ovviamente, a C. Schmitt, Teologia politica, cit.; la questione dello “stato d’eccezione” è stata, inoltre, approfondita da Derrida, che l’ha affrontata in rapporto alla “forza” della legge, anche in relazione a Benjamin: J. Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, a cura di F. Garritano, Abramo, Catanzaro 1996 e da G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, di cui si vedano anche, sulla sospensione della Legge, a partire da Paolo, G. Agamben, Il tempo che resta, cit.; Id., Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 251-270. 134 S. Quinzio, Un Commento alla Bibbia, cit., p. 470. 135 Ivi, p. 596. 136 Ivi, pp. 598-599. 137 Ivi, p. 412. Il rimando a Mal 8, 4 non risulta corrispondere al libro del profeta Malachia, che ha solo tre capitoli. Dunque si tratta, probabilmente, di un refuso. Potrebbe riferirsi, ma è solo una supposizione, a Malachia 3, 4 in cui si parla di un’offerta al Signore gradita «come nei giorni antichi, come negli anni lontani», che riprenderebbe il tema del tramandare comandamenti eseguiti dalle generazioni senza alcun mutamento, come quello, richiamato dalla successiva citazione del libro dei Numeri, di applicare fiocchi ai vestiti per ricordare i comandamenti di Dio. La questione dell’abolizione in relazione al compimento si trova in Mt 1, 22; 2, 15; 2, 17; 2, 23. 138 S. Quinzio, Un Commento alla Bibbia, cit., p. 413. Cfr. anche ivi, pp. 662-665. 139 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 29-31. Sullo hos me si era significativamente soffermato anche M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., pp. 158-165. 140 Scrive Agamben: «Il katéchon è, allora, la forza – l’Impero romano, ma anche ogni autorità costituita – che contrasta e nasconde la katárgesis messianica, lo stato di tendenziale anomia che caratterizza il messianico, e, in questo senso, ritarda lo svelamento del “mistero dell’anomia”. Lo svelamento di questo mistero significa l’apparire alla luce dell’inoperosità della legge e della sostanziale illegittimità di ogni potere nel tempo messianico. È possibile, allora, che il katéchon e l’ánomos […] non siano allora due figure distinte, ma designino un unico potere, prima e dopo lo svelamento finale. Il potere profano – Impero romano o altro – è la parvenza che copre la sostanziale anomia del tempo messianico. Con lo scioglimento del “mistero”, questa parvenza è tolta di mezzo, e il potere assume la forma dell’ánomos, del fuorilegge assoluto. […]. Decisamente, 2 Tess. 2 non può servire a fondare una “dottrina cristiana” del potere» (G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 104-105). In effetti è proprio in questa direzione che sembra muoversi la riflessione politica quinziana, agli antipodi di quella di Schmitt. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 98 e sgg., in particolare pp. 100-101. 141 A tal proposito Cacciari afferma: «Il passo di 1 Corinzi, 2, 6-9, chiarisce definitivamente la natura insieme dell’“arconte” e del katéchon. L’arconte può essere

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‘sapiente’, ma la sua è la sapienza che serve questo secolo; egli ignora la sophía dei “perfetti”, perché questa è la follia della fede unicamente in Cristo. Rimanendo sophós, dunque, l’arconte potrà anche giungere a crocifiggerla – perché sta confitto nel suo stesso principio il contenere-detenere gli opposti principi in stabiliti confini. Sta perciò scritto nella sua essenza, che egli non possa in nessun modo distinguere il Cristo dal semplice ribelle» (M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., pp. 628-629). 142 W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 33, Tesi VIII. Su questo punto cfr. J. Taubes, Walter Benjamin. Un marcionita moderno?, cit., p. 63 e sgg; G. Agamben, Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin, cit. 143 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Sul concetto di storia, cit., pp. 254-255. Illuminanti, sul Frammento teologico-politico di Benjamin, sono le riflessioni di J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., pp. 133-143; Id., Walter Benjamin. Un marcionita moderno?, cit., p. 63 e sgg. 144 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, cit., p. 255. Commentando il Frammento Taubes scrive: «Non significa che i concetti della teocrazia non hanno valenza politica. Tutti i concetti cristiani a me noti hanno un potenziale politico dirompente o possono comunque acquisirlo in determinate circostanze» (J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 136). Non a caso anche Quinzio ritiene che «la nuova politica» possa essere esclusivamente una “religione”, essendo votata all’accelerazione dell’avvento del Regno, ma proprio per questo assolutamente scardinante nei confronti del potere politico mondano. 145 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, cit., p. 255. 146 «Benjamin – ecco il parallelo stupefacente – ha una concezione paolina della creazione, di cui egli vede la sofferenza e la vanità. Tutto ciò sta scritto in Romani 8: il gemito della creatura. Aprite questo testo e leggetelo ad alta voce, poi leggete Benjamin, e non cesserete più di stupirvi. Romani 8, 18. Di questo parla Benjamin. È l’immagine della creazione come fugacità, quando essa è senza speranza» (J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 138). 147 Su questo stesso punto, come evidenzia Elettra Stimilli, si era consumata la frattura tra Benjamin e Scholem: E. Stimilli, «Walter Benjamin – Tra Paolo e Marcione», in Jacob Taubes, cit., p. 238 e sgg., ma anche tra Scholem e Taubes, il quale attribuisce proprio a Paolo e alla sua svolta interiorizzante, una nuova forma di messianismo, quella dello «zelota spirituale». 148 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, cit., p. 255. 149 Ciò può essere ancor meglio compreso se si legge quanto afferma Taubes, commentando il brano di Benjamin: «La mia tesi è che il concetto di nichilismo qui elaborato da Benjamin rappresenta anche il filo conduttore dell’os me contenuto nella Prima lettera ai Corinzi e nella Lettera ai Romani. Il mondo svanisce, la morphé di questo mondo si dilegua. La relazione con il mondo nel senso datole dal giovane Benjamin è politica mondiale come nichilismo, cosa che anche Nietzsche aveva compreso, che a monte di tutto ciò si colloca un profondo nichilismo, operante come politica mondiale finalizzata a distruggere l’Impero romano» (J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 137). O, quinzianamente, a distruggere ogni ordine profano e sacro, ponendosi in ascolto dei gemiti della creazione in attesa del Messia; gemiti che dovrebbero accelerare l’avvento del Regno.

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150 «Gli zeloti politici, infatti, opponendosi a Roma, si sono assunti il rischio militare di una guerra messianica universale […]. Paolo, invece, si oppone totalmente a Roma “da zelota”, ma con tutt’altri mezzi rispetto a quelli usati dagli zeloti nazionali; egli cioè combatte con mezzi spirituali, con cui alla fine mette Roma in ginocchio» (J. Taubes, Walter Benjamin. Un marcionita moderno?, cit., pp. 68-69). 151 Già Scholem aveva sottolineato la tendenza anarchica connaturata al messianico: «È connaturata all’utopia messianica la presenza di un elemento anarchico che dissolve antichi vincoli od obblighi ormai privi di significato nel contesto nuovo della libertà messianica. Il totalmente-nuovo cui apre l’utopia entra così in un rapporto di tensione, gravido di conseguenze, con l’universo di obbligazioni e norme che è proprio dell’halakhah. La relazione tra la halakhah ebraica e il messianismo è, di fatto, tutta impregnata di questa tensione» (G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 128). 152 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 165. 153 Ivi, p. 179. 154 Ibidem. 155 S. Quinzio, Religione e futuro, cit., p. 166. 156 Ivi, p. 164. 157 Ivi, p. 160. 158 Ivi, p. 159. 159 S. Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fine, cit., p. 135. 160 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 79. Del resto già la violenza di Dio raccontata dall’Antico Testamento – che ha scandalizzato molti e ha fatto pronunciare parole di durissima condanna da parte, ad esempio, di Simone Weil – non è mai stata condannata da Quinzio il quale – anche negli anni della maturità – ne mette, anzi, in luce proprio gli aspetti più cruenti, rilevandone le aspre contraddizioni, ma non giudicandola negativa in sé: «sacra, nella Bibbia ebraica, era la guerra: “Jahwé è un guerriero” dice il cantico intonato da Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15, 3), e il profeta Gioele parla in nome di Dio quando, chiamando alla guerra santa, grida: “Santificate la guerra!” (Gl 4, 9; Is 13, 3). Molte pagine della Bibbia sono occupate dalle cruente “guerre di Jahwé”» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 72). Secondo Quinzio tutto ciò resta confermato nel Nuovo Testamento, come dimostrano le maledizioni di Cristo sulle città che non accolgono la sua parola e le parabole che si concludono con massacri di infedeli, per non parlare dei castighi tremendi che Egli annuncia affinché sia ristabilita la giustizia del Regno, che verrà solo in seguito alla terribile guerra escatologica. Il cambiamento dall’Antico al Nuovo Testamento, quindi, non volgerebbe nella direzione di un’attenuazione della violenza, ma, anzi, prefigurerebbe il dilatarsi della guerra a dimensioni cosmiche, fino a distruggere col fuoco apocalittico cieli e terra. Su questo tema cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1996, che, com’è noto, assume una posizione differente da quella di Quinzio, indicando nel Nuovo Testamento e nel sacrificio di Cristo il luogo essenziale dell’interruzione della violenza sacrificale, precedentemente perpetrata attraverso la dinamica del capro espiatorio, che caratterizzava le religioni e le culture antiche, compresa quella del-

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l’Antico Testamento. Quinzio, comunque, non manca di sottolineare che nella Bibbia, insieme all’incombente presenza della guerra e della violenza, esistono delle pagine intense dedicate alla pace: «Se Gioele diceva: “con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci” (Gl 4, 10), un altro profeta, Isaia, aveva annunciato i tempi messianici con le parole: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci: un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo” (Is 2, 4). L’opera di Dio è instaurare shalom, la pace piena di vita» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 74). La vera pace, dunque, può venire solo da Dio. 161 Quinzio ne prende in considerazione molte, dall’obbedienza acritica, al bisogno psicologico di riempire un’esistenza vuota, al desiderio di unificazione o liberazione – o glorificazione ed espansione – della patria; si può fare la guerra «per un rozzo ma generoso desiderio di vendicare un’ingiustizia, o per disperazione; e si può fare la guerra per cieco odio, per desiderio di ricchezza e di preda, o per stroncare un emulo ascendente, per sadismo, per pazzia, per mestiere» (S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 78). In ultima istanza, se si dovesse emettere un giudizio sommario sulle intenzioni e su coloro che promuovono o partecipano a una guerra, egli sostiene di poter dire solo che «per grandi linee, intenzioni passabili, o anche buone […], ci furono più facilmente negli umili che nei grandi» (ivi, pp. 78-79). Sul tema della guerra si vedano le acute riflessioni di U. Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999; Id., Pólemos. Filosofia della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 162 S. Quinzio, Diario profetico, cit., p. 78. 163 Ivi, p. 81. Quinzio considera la guerra metafisicamente connessa al problema del male. Tuttavia, la questione del male nel mondo lo riconduce al suo tema fondamentale, cioè la redenzione non compiuta e, quindi, da una parte, alla possibilità per l’uomo di affrancarsi dal male, e perciò anche dalla guerra, solo in virtù della venuta di Cristo, e dall’altra, l’evidente continuare del mondo su binari palesemente irredenti, in cui il male, e quindi anche la guerra, trionfano. 164 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. 35. Quinzio si riferisce al noto assunto schmittiano secondo il quale il presupposto della politica è la possibilità di distinguere tra “amico” e “nemico”: «la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico [Freund] e nemico [Feind]» (C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, cit., p. 108). 165 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 92. 166 Ivi, p. 93. Schmitt scriveva infatti: «Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali» (C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., p. 430). Le operazioni di polizia internazionale sono pensabili in un orizzonte in cui il potere è effettivamente detenuto da superpotenze rispetto alle quali la forza del nemico è nettamente inferiore e il nemico stesso, da justus hostis diviene incarnazione del male da distruggere: «La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo spalancamento spaziale del teatro di guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l’abisso di una di-

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scriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva» (ibidem). 167 G. Caramore - S. Quinzio, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 147. In realtà, con il documento conciliare Gaudium et spes la Chiesa ha condannato, in vario modo, la guerra, sia per le sue opere di distruzione che per il danno, seppure indiretto, delle spese per gli armamenti che gravano sui poveri della terra. La Chiesa avrebbe, dunque, abbandonato il concetto di “guerra giusta”, ma ciò non significa, secondo Quinzio, poter optare per l’assoluta non violenza: «la logica cristiana è una logica paradossale, e contro le apparenze conduce a Hobbes piuttosto che a Tolstoj e Gandhi» (S. Quinzio, La croce e il nulla, cit., p. 146), soprattutto perché non può concepire un mondo, che non sia quello già redento, in cui la guerra non abbia più luogo. Quinzio non si sottrae a questa ambiguità e, anzi, vi si lascia invischiare, con l’amarezza di una indifferenza escatologica che, in realtà, è anche profonda comprensione della logica ineluttabile del mondo, in cui la guerra, per quanto aborrita, è insopprimibile. 168 Proprio prendendo le mosse da questa teoria, secondo Quinzio, si è compiuto «un processo di sacralizzazione cristiana della “funzione guerriera”, culminante […] nella cavalleria medievale. La sacralizzazione era una forma di controllo, consacrare le armi con la benedizione del sacerdote significava gravare con il peso del sacrilegio il loro uso per scopi malvagi» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 71). Ruolo fondamentale in questa innumerevole schiera di persone era quello svolto dall’esercito dei crociati: «a muovere i crociati – centinaia di migliaia di uomini, e anche donne e bambini – non era la volontà di uccidere, ma piuttosto di soffrire e morire. […] per la liberazione del sepolcro di Cristo, confidavano, molto più che sulla loro forza, sull’intervento soprannaturale di Dio» (ivi, p. 78). Altro elemento della sacralizzazione cristiana della funzione guerriera è costituito, secondo Quinzio, dall’imposizione della “tregua di Dio”, giorni o periodi più o meno lunghi in cui, per evitare il susseguirsi di vendette e omicidi, cessavano le battaglie. Il problema nacque nel momento in cui ribelli violavano tali periodi di tregua e si dovettero istituire milizie per fermarli, «si ebbero così milizie di pace e perfino eserciti diocesani. […] Fu allora che il papa diventò il capo spontaneamente riconosciuto dell’Occidente cristiano, e che con la decima per le crociate assurse a potenza finanziaria» (ivi, pp. 78-79). 169 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. 35. Su questo punto Quinzio appare molto vicino a quanto già Schmitt aveva prefigurato nel celebre saggio del 1927: «se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. […] Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto […] la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità» (C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 139). L’inquietante “dottrina Bush”, con la sua

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“guerra giusta preventiva”, ripropone pienamente lo scenario adombrato da Schmitt. 170 S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., pp. 35-36. L’instaurare la pace a tutti i costi appariva anche a Schmitt un metodo utilizzato, in ultima istanza, per giustificare le guerre più efferate: «Attualmente questo sembra essere un modo particolarmente promettente di giustificazione della guerra. La guerra si svolge allora nella forma di “ultima guerra finale dell’umanità”. Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il ‘politico’, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini» (C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 120). Quinzio non condivide neppure l’idea di un “pacifismo realista”, basato su considerazioni razionali che dovrebbero essere dirimenti nella decisione di non servirsi della guerra. A questa prospettiva egli contrappone un realismo ancora più marcato, che considera le argomentazioni su cui quel pacifismo si basa, utopiche, se non infondate: «Scommettere sulla razionalità del reale è perlomeno imprudente: Dostoevskij, in particolare nei Ricordi del sottosuolo, ha mostrato che le motivazioni dei comportamenti umani sono assai spesso irrazionali e contraddittorie» (S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, cit., p. 38. Da un articolo in risposta a Vattimo, il quale su “La Stampa” del 25 settembre 1992, aveva scritto a proposito del “pacifismo realista”, mostrando di condividerne, a grandi linee, i presupposti e le conseguenze, benché manifestasse nei riguardi di esso solo una speranza debole). 171 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 76. 172 Interessanti e suggestive le riflessioni di Carlo Galli sulla guerra globalizzata, avviatasi all’indomani della distruzione delle Torri Gemelle di Manhattan, alla base della quale ci sarebbe un impianto teologico ben individuabile: «quel giorno, infatti, entra in scena l’ira di Dio contro la capitale del Male» (C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 25). Inoltre, evidenti somiglianze si possono cogliere fra la profezia apocalittica nella quale si è letto il crollo dell’impero romano, e l’evento del crollo delle Twin Towers: «allora come ora, nel I secolo come nel XXI, la teologia che entra in gioco ha certamente significato politico ma non è ‘teologia politica’, sì ‘teologia estrema’» (ivi, p. 27). Questa «teologia estrema» ha come suo nucleo lo svelamento dell’azione annichilente divina: «nella teologia apocalittica che è implicita nell’evento dell’11 settembre è ben presente l’assoluta immanenza della trascendenza, la radicale distruttività dell’eccezione divina» (ibidem). 173 Cfr. S. Quinzio, «La guerra di Dio», in La sconfitta di Dio, cit., pp. 88-95. Proprio l’aver voluto mantenere lo stesso termine “guerra”, a nostro avviso, ha contribuito non poco a generare una certa ambiguità e talvolta una sovrapposizione tra le guerre mondane – anche quelle a cui fa cenno la Bibbia – e la “guerra escatologica”, in quanto azione de-cisiva per l’instaurazione del Regno. Assecondando il suo connaturato “realismo” e il suo bisogno di concretezza, non sempre – ci sembra – Quinzio riesce a distinguere bene il carattere violento, cruento, efferato delle une dalla “violenza” essenzialmente metafisica e spirituale dell’altra, anche quando si traduce in immagini di estrema crudezza. Ciò rende talvolta, a mio avviso, davvero problematiche alcune affermazioni di Quinzio a proposito della guerra e del tema della violenza, a essa strettamente connesso. Una simile

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problematicità nel passaggio non chiarito da una “violenza divina” a una “violenza rivoluzionaria”, si riscontra nel saggio del 1921 di W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981. 174 Ivi, p. 93. Per Benjamin la violenza di Dio – di cui parla a partire da un episodio della storia ebraica – è fulminea, annienta il diritto, non si ferma davanti alla distruzione, purga ed espia, è letale e senza sangue. Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit.,p. 26. 175 S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., p. 75. In questa riflessione occorre, però, distinguere due piani: l’uno riguardante, se così si può dire, una “fenomenologia del monoteismo”, e l’altro, più specificamente teologico, concernente l’essenza stessa di Dio. In relazione al primo aspetto, Quinzio rileva l’ineludibile radice violenta di ogni religione monoteistica, manifestatasi palesemente nella quasi totale cancellazione delle religioni con le quali innanzitutto Islam e Cristianesimo si sono trovati a contatto: «Nel monoteismo c’è una radice di violenza che può dispiacere. […] Quando si fa riferimento ad un unico Dio, l’implicazione è che gli altri che non riconoscono quest’unico Dio sono infedeli e dunque nemici. […] Quindi è intrinseca, purtroppo, tragicamente, questa dimensione di giudizio. E il giudizio è violenza» (G. Caramore - S. Quinzio, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 142). 176 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 37. 177 G. Caramore - S. Quinzio, Una conversazione con Sergio Quinzio, “Bailamme”, 20, 1996, p. 142. 178 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 93. 179 Ivi, p. 53. La citazione di Weil a cui Quinzio si riferisce è in S. Weil, Quaderni, vol. I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 366 e, in essa, si trova, a nostro avviso, il punto di più forte contatto tra i due pensatori. Il tema della relazione da una parte tra male, forza e pienezza d’essere e, dall’altra, tra bene e debolezza è stato uno degli assi portanti della ricerca di Simone Weil, la quale, proprio per questo motivo, aborriva l’immagine veterotestamentaria del Dio guerriero. È importante notare che Quinzio, nonostante abbia per tutta la vita tentato di non sottrarsi alle contraddizioni e leggere la Bibbia sine glossa, approdi, alla fine, alla concezione di un Dio debole, ben lontana da quella del Dio degli eserciti veterotestamentario e chiami in causa, in questo suo passo finale, proprio Weil. 180 Su questi temi mi permetto di rinviare a R. Fulco, Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, cit. 181 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 95. Su questo tema si veda V. Vitiello, Il dio possibile, cit., pp. 113-116, in cui si sottolinea come la debolezza di Dio, la sua abdicazione, sia solo una delle possibilità di affrontare il problema della salvezza e del male nel mondo; affermarla necessariamente sarebbe tipico di una certa hybris del teologo, da cui Quinzio non sembrerebbe esente. Il male, secondo Vitiello, non può essere redento, se con ciò si intende eliminato o sostituito con il bene, ma solo “salvato”, “custodito”, nel rispetto della finitezza propria dell’uomo e del mondo: «In questione non è la potenza o la debolezza di Dio, ma la nostra finitezza: la nostra capacità di amare Dio a distanza. Senza cioè pretendere di legare Dio a noi» (ivi, p.115). 182 S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 102.

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Ivi, p. 103. Ivi, p. 104. 185 «Il profeta – scrive Tronti – compone per immaginazione i segni di Dio e quelli per gli uomini. Il suo destino è di non essere compreso. Ma quando c’è uno scarto dal destino, nello stato d’eccezione, allora si dà un evento di grande storia. La storia profetica è sempre frutto della grande politica. Tra politica e profezia c’è un sottile velo di insondabile complicità. […] Ci interessa il punto storico alto dell’incontro tra profezia e politica» (M. Tronti, Profezia versus utopia, “Bailamme”, 20, 1996, p. 30). 186 W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 55, Tesi XVIIa. 187 Ibidem. 188 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit., p. 42. 189 Ivi, p. 51. 190 S. Quinzio, L’incoronazione. Lettera a Stefania, cit., p. 126. 191 P. Celan, Parla anche tu, in Di soglia in soglia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1996, p. 97. 183 184