La fine della città 9788842095194

Sotto i nostri occhi sta avvenendo una trasformazione radicale della città. Nessuno riesce a definire con certezza quale

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La fine della città
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Saggi Tascabili Laterza 348

Leonardo Benevolo

La fine della città Intervista a cura di Francesco Erbani

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9519-4

Introduzione

Come sarà la città nel futuro? È da questo interrogativo che prende il via la conversazione con Leonardo Benevolo. Storico dell’architettura, urbanista, uomo profondamente colto, Benevolo ha attraversato un periodo sufficientemente lungo della vicenda italiana ed europea per riflettere a ragion veduta sui decenni che ci hanno preceduto e per gettare lo sguardo oltre il presente. Alla storia della città e dell’architettura ha dedicato opere di grande impianto. Nelle sue pagine la città è l’oggetto sul quale confluiscono diverse discipline, da quelle più propriamente legate alla struttura fisica a quelle che evidenziano i tessuti sociali e culturali di un organismo urbano. Ma accanto a questa attività, la biografia intellettuale di Benevolo scorre lungo il percorso della pratica di pianificazione. Benevolo è uno dei grandi protagonisti della stagione urbanistica che inizia nell’immediato dopoguerra. Ha vissuto la ricostruzione del paese, ha condiviso le tensioni politicoculturali che hanno animato l’urbanistica negli anni e nei decenni successivi, ha disegnato l’assetto di territori, ha scritto libri. La sua memoria contiene un repertorio di storie, di volti, di elaborazioni che pochi altri possono vantare nel campo specifico dell’architettura e dell’urbanistica, ma anche al di fuori di questi ambiti. Da questa conversazione emerge come i due percorsi, quello dello storico e quello dell’urbanista, non proceda­v

no parallelamente, bensì si incrocino, influiscano l’uno sull’altro, arricchendosi continuamente e fornendo reciproche occasioni di approfondimenti. Un dato colpisce al di là dello specifico ambiente dell’architettura: la ricerca dell’effetto pratico di tutto ciò che si mette a punto in sede teorica. È un metodo culturale e politico insieme. Serve come verifica puntuale e come stimolo a produrre nuove idee. Sembrerebbe una sottolineatura scontata per chi fa il mestiere dell’architetto e dell’urbanista. Ma scontata non è se si osservano le abitudini invalse in molti esponenti di entrambe le discipline. Nelle parole di Benevolo l’architettura e l’urbanistica hanno il respiro lungo delle scienze che mettono l’uomo, da solo e in comunità, al centro delle proprie attenzioni. Vittorie e sconfitte si accavallano nel racconto delle proprie esperienze professionali, delle occasioni colte e di quelle mancate, delle battaglie condotte perché lo scenario fisico in cui si svolge la vita degli uomini sia il più inclusivo e il più rispettoso dei contesti ambientali e di ciò che il passato ha trasmesso di generazione in generazione, il più concretamente realizzabile nelle condizioni date. Ma il filo rosso del riscontro sociale spicca sia nella narrazione di una storia lunga sessant’anni, sia nella prassi del disegno urbanistico. D’accordo con Benevolo, abbiamo deciso di condurre questa conversazione muovendoci fra due piani: quello della riflessione sullo stato della città e quello di una biografia intellettuale e politica. Ci siamo incontrati nella casa di Cellatica, vicino a Brescia, che Benevolo costruì per sé e la sua famiglia quando a metà degli anni Settanta lasciò Roma e l’università. Abbiamo parlato a lungo intorno a un tavolo tondo nello studio che si affaccia su un grande giardino, dove spesso abbiamo passeggiato spingendoci fino al bordo che dà sulla valle. Il punto di partenza di questa conversazione, si diceva, è appunto una delle questioni cruciali che da anni è davanti agli occhi tanto degli studiosi quanto di coloro che la città la vivono, la abitano, la usano. Il quesito iniziale, quello ap­vi

punto su che cos’è oggi la città, che cosa sarà la città nel futuro, come si è arrivati alla condizione attuale, parte da una considerazione. Noi eravamo abituati ad attribuire alla città alcune caratteristiche, la prima delle quali è che una città ha una forma più o meno definita, che si modifica nel corso del tempo, si allarga, ma è comunque riconoscibile e contiene gli elementi che la differenziano dalla non-città, dal territorio inedificato o molto parzialmente edificato. Questa osservazione poteva valere, grosso modo, fino ad alcuni decenni fa. Non moltissimi, forse due o tre (almeno in Italia, in altri paesi europei ancora di più). Da allora ha cominciato a valere sempre meno. La città è uscita dai suoi confini e ha invaso il territorio circostante. Che ora, pur non avendo acquisito caratteri di urbanità, non è più nettamente distinto dalla città. Ciò avviene prevalentemente nel mondo occidentale, mentre in Africa, Sudamerica e Asia ai bordi delle città si formano immensi agglomerati spontanei, impressionanti baraccopoli che ospitano milioni di persone. Queste trasformazioni che alterano profondamente la fisionomia della città accadono proprio mentre l’urbanesimo raggiunge un traguardo secolare: più di metà degli abitanti del pianeta vive, dall’inizio del terzo millennio, in un contesto che l’organismo delle Nazioni Unite incaricato di studiare la demografia planetaria definisce urbano o non rurale. La città, insomma, cambia, non si sa che cosa sarà proprio nel momento in cui diventa il luogo di vita della maggioranza degli abitanti del pianeta. Su tutto ciò l’urbanistica, ma anche la sociologia, l’economia e, con i suoi mezzi, persino la letteratura riflettono ampiamente. Benevolo aggiunge il suo contributo di storico e di pianificatore, raccordando le discussioni di oggi con il passato e le esperienze vissute. Il piano regolatore di Roma, chiuso all’inizio degli anni Sessanta, il dibattito sulla legge che regolamentava il regime dei suoli (la legge Sullo, mai varata), gli sforzi per dare all’Italia una serie di norme che governassero il territorio almeno simili a quelle vigenti in tutta Europa, l’anomalia che invece il nostro paese ha ­vii

custodito come una gelosa conseguenza di scelte economiche e politiche, i casi esemplari di buona urbanistica (la «sua» Brescia, per esempio), la distruzione sistematica dei paesaggi: questi e tanti altri racconti, come pure il giudizio su molti protagonisti della scena architettonica contemporanea e sullo smarrimento di alcune delle ragioni fondative del mestiere, sono l’altro piano sul quale si è orientata la nostra conversazione. I due piani sono in stretta relazione fra loro. Dall’uno si passa all’altro e viceversa. È difficile in un’introduzione tirare rapidamente le somme di una conversazione molto articolata (e qui corre l’obbligo al curatore di confessare la propria intrusione in un campo disciplinare di cui non possiede gli strumenti e che osserva con attenzione di cronista). Ma forse un punto, non certo di sintesi, può essere sottolineato. Ed è l’attitudine di Benevolo, già segnalata, a portare ad effetto il risultato delle elaborazioni culturali e politiche, a non fare «letteratura urbanistica». La sua storia di urbanista deposita questo insegnamento, che è di merito e di metodo. La pianificazione urbana e territoriale mette le mani nella vita delle persone, ne organizza il quotidiano e cerca di interpretarne le speranze. Misura gli interessi in campo. Valuta le condizioni politiche. Agli occhi di chi ha raccolto e sistemato il suo racconto – occhi di profano, occorre ribadire – sembra che Benevolo abbia voluto interpretare questo ruolo evitando a ogni costo di indossare sia l’abito del demiurgo, invaghito delle proprie idee, sia quello del tecnico, succube di un pragmatismo spiccio. Mi pare di capire che in ogni circostanza abbia messo in opera gli strumenti della lettura, dell’interpretazione e della critica. Ma sempre guidato dal desiderio di individuare, con fatica e costanza, il proteiforme eppur concretissimo interesse generale, al quale subordinare, non schiacciandoli, ma tenendoli a bada, quelli privati. E convinto che alle domande delle persone bisogna dare risposte che le affezionino al disegno complessivo previsto per il luogo in cui si svolge la loro vita e le rendano partecipi delle scelte. ­viii

Il profilo di urbanista che esce dalle pagine che seguono, pur nella crisi che investe questa figura professionale, sembra il più adatto a fronteggiare la sfida di una città che sta cambiando pelle, di cui è incerta la fisionomia futura e le cui trasformazioni non possono essere lasciate né al mercato né al caso. In tempi di glaciazione intellettuale e di una politica che miseramente annaspa, è un insegnamento pieno di speranza. F.E.

La fine della città

1.

La fine della città? (Una riflessione a due voci sul futuro)

Che cos’è oggi la città? Pensando alla città, a quel che sarà di essa e alla sua storia, abbiamo un vantaggio. Quello di considerare un’entità che ha una misura ragionevole, calcolabile. Le origini della città non si perdono nella notte dei tempi. La città nasce cinquemila anni fa, all’incirca. Dopo un periodo di vita ben definito, oggi abbiamo l’impressione che stia accadendo qualcosa che somiglia alla fine di questo periodo storico. La fine della città? Può anche darsi. Ma non anticipiamo le conclusioni di una riflessione molto complessa. Intanto vorrei indicare un altro vantaggio, se così possiamo chiamarlo: noi viviamo in Europa, un territorio ampiamente trasformato dall’avventura urbana. Abbiamo una tradizione di città europea che per varie ragioni è il nostro ancoraggio al passato. E forse, proprio alla luce di questa tradizione, possiamo misurare lo scarto con l’oggi. Mentre prima distinguere la città dal territorio organizzato diversamente era facile, alla portata di tutti, oggi invece abbiamo la sensazione che la differenza fra un dentro e un fuori della città sia diventata più difficile da percepire. Abbiamo davanti la prospettiva di un’esperienza storica che volge alla fine. ­3

Se lei è d’accordo, mi soffermerei prima su ciò che abbiamo alle nostre spalle. Dietro di noi ci sono due fasi che durano entrambe, grosso modo, cinquemila anni: l’età neolitica e l’età che comincia, fra IV e III millennio a.C., con la nascita della città. L’età neolitica è l’epoca in cui l’uomo ha avuto per la prima volta la percezione di non dover essere schiacciato da avvenimenti fuori della sua portata, ma di avere con il territorio un rapporto felice, sicuramente più felice del nostro. È la prima volta che l’uomo esce dai suoi ripari e trova una relazione con l’ambiente che lo vede non più soltanto succube, ma artefice del proprio destino. Di fronte a sé l’uomo trova un grande territorio da esplorare e in qualche modo da trasformare. Ancora adesso gli storici che ricostruiscono il Neolitico convergono sull’impressione di un’epoca felice, in cui si capovolge l’idea che l’ambiente sia troppo più grande dell’uomo e fonte di innumerevoli pericoli. L’uomo si muove nel vuoto e il solo confine è la fine della terraferma e l’inizio del mare. Le costruzioni neolitiche più interessanti che conosciamo sono quelle collocate nei pressi del mare: il mare è il fuori, è il solo limite posto all’esperienza umana. Quali sono i passaggi successivi? A un certo punto anche questa fase si rompe. Mentre l’inizio del Neolitico è avvolto nell’oscurità, la fine del Neolitico e l’avvio dell’era delle città è qualcosa di sensazionale, di così nuovo che le descrizioni che possediamo presentano questo passaggio come sovrumano. Si è salito un gradino nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Lo storico Mario Liverani ricorda come questa transizione sia stata variamente denominata. Qualcuno ha parlato di rivoluzione urbana, mettendo in evidenza gli aspetti insediativi. Qualcun altro si riferisce alla fine dello stato arcaico, sottolineando il profilo sociale e politico. Altri parlano di inizio della storia, riflettendo sulla contemporanea nascita della scrittura, e ­4

dunque di uno straordinario strumento di conoscenza e di documentazione del nuovo corso. Il fatto certo è che l’organizzazione della vita e delle società umane cambia radicalmente. Nell’Ottocento – mi riferisco sempre agli scritti di Liverani – si era individuata prima in Egitto poi, a seguire, in Mesopotamia la culla originaria della nuova civiltà. Ora si ritiene che lo sviluppo sia stato policentrico. Ma, mentre la nascita della città è così evidente, non altrettanto lo è il futuro che ci attende. Siamo di fronte a difficoltà relativamente recenti, in rapporto a questi cinquemila anni trascorsi. Il ciclo sembra chiudersi, ma che cosa ci sia al di là non è facile da capire. Certo non c’è il vuoto, quel vuoto che si presentava al cospetto dell’uomo del Neolitico. Oggi abbiamo difficoltà di tutt’altro tipo: in primo luogo la possibile perdita del rapporto con l’ambiente. Siamo di fronte a una trasformazione che potrebbe avere, se non governata, effetti catastrofici. Cerchiamo di capire le caratteristiche e anche le cause di quella che potrebbe essere la fine della città. Uno dei caratteri che la città sta perdendo o, forse, ha già perso è la finitezza. È così? È così. Ma per spiegare il perché occorre ritornare sulla storia della città. Città compaiono contemporaneamente in tante parti del mondo a breve distanza l’una dall’altra, come se ci fosse una specie di necessità a compiere questo passo. Fino a immaginare, come dicevamo prima, un intervento sovrumano. In una delle più antiche iscrizioni sumeriche possiamo leggere che «quando il regno celeste venne sulla terra, esso fiorì a Eridu». In Egitto, a Saqqara, è stato rinvenuto un grande recinto funerario, la cornice del sepolcro del faraone Zoser, vissuto nella prima metà del III millennio a.C. Il recinto misura 280 per 550 metri ed è modellato all’esterno con una sequenza di sporgenze e di rientranze in cui si trovano 14 porte murate. Una di queste è solo apparentemente murata, è una porta vera che ­5

introduce in una galleria coperta dove le pareti proiettano una serie di ombre e di luci. All’uscita della galleria c’è un vasto ambiente aperto nel quale sono raffigurati molti simboli di una città. In posizione eccentrica nel recinto si innalza la piramide a gradoni in cui è sepolto il faraone. Tutto lo spazio recintato segna una diversità assoluta rispetto a quel che c’è fuori. In quest’opera, di cui conosciamo anche il nome dell’artefice, Imhotep, sembrano pienamente realizzati i principi distintivi dell’architettura: in primo luogo l’invenzione della scala urbana, di un luogo definito, chiuso, uno scenario protetto e visibile da media e breve distanza – questo principio è valido ancora per Le Corbusier, che persegue «le jeu savant, correcte et magnifique des formes sous la lumière»; in secondo luogo, il metodo che attribuisce ad alcuni manufatti civili e religiosi un carattere monumentale, cioè la rappresentazione con materiali più appariscenti e durevoli e in scala più grande delle strutture architettoniche correnti. La scala urbana, dunque, è un elemento definito entro uno spazio recintato. Lo spazio della città è in qualche modo percepito come un insieme, deve essere percorribile in un tempo breve e costituito di elementi ravvicinati. Questo spazio deve apparire durevole nel tempo e vincolante per i successivi interventi edilizi che vi si dovessero praticare. Detto in altri termini: la città deve distinguersi nettamente dall’intorno, ha un suo nome e una sua individualità paragonabile a quella di un essere umano, ma grandemente più stabile. Il principio del recinto, che protegge l’uomo e le sue cose dai pericoli che possono sorgere nei luoghi aperti, dominerà la struttura di questi insediamenti. Il nuovo paesaggio che si definisce deve poter essere memorizzato e diventa uno strumento essenziale per orientarsi nel tempo. Non è casuale, sostengono gli storici, che la città nasca contemporaneamente alla scrittura, che consente di documentare ­6

questo passaggio e che, analogamente alla città, diventa strumento per il dialogo fra le persone, sia nello spazio sia nel tempo. Il territorio abitato in età neolitica è un mondo aperto, dove i manufatti trovano posto liberamente, distanziandosi l’uno dall’altro. La città è invece uno spazio a sé stante, che tende a essere completo entro le misure che si è dato. Ha tutte le caratteristiche che non ha il territorio. E viceversa. Quando Cortés vince la battaglia contro gli Aztechi e si impadronisce del Messico, acquista il controllo di uno spazio illimitato, ma non sa come distribuirlo fra i suoi luogotenenti. E allora stabilisce la regola secondo cui ognuno di essi, collocandosi in un punto, diventa proprietario di tutto ciò che vede da quel punto. Una specie di rudimentale lottizzazione su vasta scala. Ma si provi a immaginare cosa vorrebbe dire applicare lo stesso criterio in una bella giornata serena, quando dal bordo settentrionale della Pianura padana si riescono a vedere gli Appennini. L’impero Moghul in India era provvisto di una serie di pietre miliari che servivano a rendere percepibili molti spazi che non lo erano. Questa è la non-città. Al suo interno, poi, la città ospita manufatti speciali – i monumenti, le sculture, i musei – che si distinguono da quelli ordinari. E questi manufatti, visti dall’esterno, acquistano carattere emblematico, sono segni rappresentativi: dalle ziggurat mesopotamiche alle torri, ai campanili, alle cupole. Lei accennava alla coincidenza fra la nascita della città e la nascita della scrittura. L’analogia fra lingua e città torna altre volte. In Ludwig Wittgenstein, per esempio: «La nostra lingua è come una vecchia città. Un labirinto di viuzze e di larghi, di case vecchie e nuove, di palazzi ampliati in epoche diverse e, intorno, la cintura dei nuovi quartieri periferici, le strade rettilinee, regolari, i caseggiati tutti uguali. Rappresentarsi una lingua significa rappresentarsi una forma di vita» (Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967). E, al pari di una città, aggiunge il filosofo austriaco, una lingua è un organismo vivente, che cresce rispondendo all’esigenza di ­7

nuovi significati, di una cultura che si amplia, di esperienze pratiche o scientifiche che si moltiplicano. Come la lingua parlata precede e alimenta quella scritta, così i modi dell’insediamento neolitico sono la premessa dell’allestimento di un territorio artificiale dentro i recinti urbani. Mi ha sempre colpito un’altra analogia storica fra lingua e città. Limitandoci all’ambito delle regioni italiane, possiamo vedere come la dissoluzione del latino, subito dopo la caduta dell’impero romano, proceda di pari passo con la distruzione di molti organismi urbani. Allo stesso modo la ricomposizione di una lingua scritta, il volgare, diverso dal latino, avviene contemporaneamente alla rinascita delle città. La forma-città quindi può deperire e risorgere. Questi cinquemila anni di storia urbana non sono un continuum lineare. No. Ma a un certo punto, prima del periodo appena citato – quello della dissoluzione seguita alla caduta dell’impero romano –, l’aspirazione alla perfezione, alla rifinitura, che è tipica delle città fin dal loro sorgere, tende a fissarsi in norme canoniche. È quella che chiamiamo età classica. La ricerca di innovazione comporta anche la ricerca di modelli. A differenza del Neolitico, che invece si basa sull’assoluta libertà, tutto ciò che si fa nelle città risponde a regole, a un vocabolario – per tornare all’analogia con la lingua. Nell’inseguimento del futuro c’è sempre un momento in cui prevale l’impressione di aver compiuto un passo troppo lungo e dunque il passo viene rivoltato all’indietro, a riprodurre il passato. Il desiderio di padroneggiare il futuro viene regolato in questo modo e tutte le norme vengono inscritte in una specie di archivio. Si ottengono risultati che si rendono riconoscibili e che ambiscono a una lunga durata. Ai manufatti si chiede di estendersi più nel tempo che non nello spazio. Tutto questo rinforza l’idea che la città pone il senso del limite: non compete con ­8

lo spazio infinito, si organizza per sospendere l’infinità e l’indeterminatezza e intende fondare, invece, uno spazio tutto significativo, concluso, pensato in anticipo. Anche le espansioni rispondono a queste modalità. Dunque anche le espansioni della città sono regolate dal senso del limite. Il limite si sposta in avanti, seguendo modi prefissati, non si annulla. Accade così, in generale, anche nelle trasformazioni che avvengono nelle strutture urbane con la nascita della civiltà industriale. Finché è stato possibile si è tentato, come si dice, di versare il vino nuovo negli otri vecchi. Ragionando all’ingrosso si può dire che per tre quarti di questi cinque millenni le città conservano una misura che è alla portata della percorrenza fisica e della comprensione da parte delle persone che le abitano. Poi il limite è stato allargato. Il ritmo dell’espansione lo danno alcuni fattori, in prevalenza economici, e questi finiscono per togliere alla città gli elementi della sua identità. Lo storico Paul Johnson ha collocato The Birth of the Modern (così si intitola un suo celebre libro, pubblicato da Harper Collins Publishers nel 1991) tra il 1815 e il 1830, in conseguenza della rivoluzione industriale e dopo che l’Europa, liquidato l’impero napoleonico, riassesta i propri confini, fa scomparire la wilderness, il bosco infinito, il selvatico. Ma la città può essere ancora percepita come inscritta in una dimensione definita. A un certo punto questo limite è saltato. La trasformazione quantitativa diventa qualitativa. E, quando le dimensioni della città cominciano a somigliare alle dimensioni del territorio, l’equilibrio garantito per millenni salta. Questo processo, però, copre un periodo lungo. E noi ci troviamo al suo interno, forse alla sua soglia estrema. Posso aggiungere una notazione personale? Certamente. Ho avuto la percezione fisica del limite che saltava quan­9

do sono andato a Chicago, pochi anni dopo la morte di Mies van der Rohe. Erano i primi anni Settanta. Volevo vedere la sua Farnsworth House, la piccola casa che l’architetto tedesco costruì fra il 1946 e il 1950, uno dei simboli dell’architettura novecentesca. Ma lo sa che neanche i più stretti collaboratori del grande progettista erano in grado di localizzarla? Le fascinose ondulazioni nel territorio dell’Illinois le abbiamo girate per un giorno intero, e soltanto dopo molte ore siamo riusciti a trovarla. Era a 150 chilometri dal centro di Chicago. Le trasformazioni attuali sono evidenti, ma sono anche molto accelerate. Una delle caratteristiche della città è il controllo delle distanze, che ha molti scopi. A Tokyo, dove vivono 15 milioni di persone, le strade non hanno nome e non ci sono numeri civici. Uno straniero fa fatica a prendere un taxi, a meno che non vada all’aeroporto. Quando ho vissuto lì per un certo periodo, molti anni fa, abitavo a circa tre quarti d’ora di ferrovia dal centro della città, che voleva dire ad alcune decine di chilometri di distanza. Una volta mi invitarono a una cerimonia ufficiale e chiesi che mi mandassero a prendere con una macchina di servizio: solo così fu possibile raggiungere la destinazione. A Tokyo i postini hanno una conoscenza simile a quella di chi vive in una città medievale: ma sanno orientarsi soltanto nel proprio quartiere. Tokyo, Chicago. Altri esempi si potrebbero fare. Ma forse siamo ancora nelle città grandi, enormi, che però continuano faticosamente a conservare una dimensione percepibile. È vero. Ma non sempre riflettiamo a sufficienza su cosa può succedere se le grandezze che fanno parte del nostro modo di vivere superano un certo limite. Questo fenomeno è apparso subito come ineluttabile. Il controllo della dimensione spaziale viene meno in due sensi: come conoscenza e come possibilità di uso. Vacillano alcune organizzazioni fondamentali dello spazio. In parte siamo aiutati da nuovi sistemi di rilevazione, da Google, per esempio: ma il problema è ­10

che il senso di orientamento in una città concepiva l’organismo urbano come un insieme sufficientemente unitario, ora invece siamo costretti a considerarlo per parti separate. Stiamo andando verso un futuro in cui avremo sempre più difficoltà a riportare su una mappa le trasformazioni urbane. Dunque la nostra capacità di orientarci nello spazio entra in crisi. In qualche modo torniamo al Neolitico. Al Neolitico? Le città contemporanee finiscono per essere di nuovo indistinguibili dal territorio circostante. In tutte le parti del mondo? In linea generale questo accade ovunque. Anche se poi le caratteristiche che il fenomeno assume in Europa, negli Stati Uniti e poi in Asia, in Africa o in Sudamerica, sono diverse. Ovunque le città assumono una connotazione fisica, mentale e progettuale analoga a quella degli insediamenti neolitici. Con la differenza sostanziale che diecimila anni fa l’indistinguibile era il vuoto, oggi abbiamo invece un paesaggio in larga misura artificiale. Il dato in comune è che non c’è, a organizzare lo spazio, quella tipica forma che è stata per millenni la città occidentale, con un centro di impianto antico e la sua corona di insediamenti recenti. L’ambiente abitato non è più strutturato su distanze percorribili a piedi, ma solo in auto. Questa espansione, che riduce l’importanza del centro antico, non è controbilanciata dalla creazione di altri centri, che quando si formano sono un prodotto occasionale e non rispondono a un disegno preordinato. Cambia radicalmente la condizione stessa dell’abitare. È come se la condizione di abitare uno spazio limitato non bastasse più alla civiltà umana. L’uomo esce dal suo involucro. Le arti e le industrie umane, che sono nate dentro i confini della città e sono un prodotto intellettuale ed eco­11

nomico della civiltà urbana, scoprono che la loro condizione è instabile. La vicenda ha anche risvolti drammatici, come drammatica per certi aspetti fu la chiusura di uno spazio definito entro la cinta urbana. La città unifica. La crisi della città prende l’aspetto di una fuga da essa. Secondo alcune stime, i nove decimi di quel che vediamo costruito intorno a noi, almeno in Italia, risale agli ultimi cinquanta-sessant’anni. Noi abbiamo decuplicato le dimensioni materiali delle città. E questo non è senza conseguenze. D’altronde l’Italia è storicamente tutta dentro il ciclo urbano: se andiamo indietro nel tempo, ancora all’epoca di Tacito i Germani erano popolazioni nomadi, mentre da noi la civiltà era già caratterizzata in senso urbano, nei termini della polis greca. La nostra è una civiltà di antica preminenza urbana. Abbiamo un modello che non ha avuto alternative. La pittura rinascimentale, anche quando ritrae paesaggi, lo fa a partire da un punto di vista urbano. I tanti viaggiatori settecenteschi, eredi di un’urbanizzazione recente, sono sedotti dal fascino che trasmette proprio l’antica origine delle città italiane. Una delle caratteristiche dell’autunno che attraversa ora la civiltà urbana è proprio questa ammirazione nei confronti del passato, di quegli ambienti urbani lavorati dal tempo. Istintivamente ci teniamo stretti a un’idea di città. La città è fatta apposta per far sentire l’appartenenza a un luogo definito, a un limite. Parma, ai nostri occhi, è la Pilotta, il Duomo, il Battistero. La Roma raffigurata nella pianta del Nolli, che risale al 1748, è un monumento unico, il risultato di quel deposito lasciato nella scena costruita che è diventato abitudine di vita, al tempo stesso eredità di un’antica civiltà e poi regola per il vivere quotidiano. Ma la città contemporanea continuamente oltrepassa queste immagini e questi limiti. Facciamo un ulteriore passo in avanti. Le periferie costruite ­12

negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta intorno a Parma, per usare il suo esempio, scavalcano enormemente i limiti del centro antico. Ma conservano, anche se contraddittoriamente, un certo legame con quel centro. Ne riconoscono in qualche modo il valore gerarchico di organizzazione dello spazio. Identificano in esso il luogo culturalmente e socialmente centrale di quella che chiamiamo Parma. Da un certo momento in poi questo avviene sempre meno, perché gli insediamenti si allargano ancora, ma dilatandosi diventano meno densi. Non si costruiscono quartieri, ma agglomerati che si sparpagliano. Non più palazzi, ma villette. È la dispersione abitativa. Quella che gli inglesi chiamano sprawl. Noi, a differenza di molti altri studi di urbanistica, siamo ancora abituati a realizzare piani regolatori. Crediamo nella pianificazione del territorio. Quando ero giovane dipingevamo di verde la zona agricola sulle nostre tavole e sapevamo tutti a cosa ci riferivamo. Sebbene fosse un’area complessa, distinta al suo interno, era comunque un luogo che non dubitavamo fosse stabile. Oggi, invece, noi continuiamo a definire «campagna» una serie di posti che non sono altro che deserti in cui sopravvivono segni non più coordinati fra loro di una civiltà scomparsa a causa del disperdersi di frammenti della città. Esercito questo mestiere da sessant’anni e ho avuto modo non solo di vedere questo traumatico cambiamento, ma anche di assistere al mutare vorticoso dei tempi di cambiamento. Noi continuavamo a colorare di verde le aree che credevamo agricole, perché agricole figuravano in tutte le mappe. E invece, all’osservazione empirica e ragionando con gli agronomi, la realtà appariva del tutto diversa. Qui è tutto in disarmo, ci dicevano. Se non ci fossero le sovvenzioni europee non si produrrebbe nulla. Una grande coltivazione di mais, esaurita la produzione, diventava repentinamente ex campagna. Lei ha sessant’anni di esperienze compiute nel pianificare città e territori. E sarà sulla base di questo lavoro e delle ­13

consapevolezze culturali acquisite che si articolerà la nostra conversazione. Il tema di cosa saranno le città del futuro sarà ancorato proprio al racconto della sua vita e della sua carriera di architetto e di urbanista. Proverei ad anticipare qui qualche elemento di discussione. Secondo lei il fenomeno della città che invade il territorio circostante, in maniera spesso scomposta, è un fenomeno ineluttabile, oppure sarebbe possibile introdurre dei correttivi? E se sì, di che tipo? Noi non abbiamo un modello alternativo di città cui fare riferimento. Finché le condizioni lo consentono, il vecchio modello continuerà a funzionare in virtù di un collaudo che dura da secoli, non essendo il frutto di un’intuizione sbrigativa, ma invece un elemento costitutivo dell’Europa. Quel modello non è un ferro vecchio e ancora non ha smesso di darci istruzioni per risolvere i problemi dell’oggi. In questo senso il fenomeno di cui lei parla non è ineluttabile. La migliore urbanistica moderna è quella che sfrutta meglio l’eredità del passato, che riflette sui suoi principi costitutivi e ragionevolmente li adatta alla realtà contemporanea. Se si coltivano questi principi si trovano anche i rimedi ai problemi del presente. Soprattutto nei momenti di grandi trasformazioni, come furono i primi decenni dell’Ottocento, dei quali abbiamo appena parlato, e come sono quelli che stiamo vivendo nella prima decade del terzo millennio. Gli assetti che oggi diamo alle nostre città saranno condizionanti per molti anni futuri, anche quando i modi del vivere, dell’abitare e del pensare saranno diversi da oggi. Lei è contemporaneamente storico e pianificatore della città. Ne indaga il passato e ne costruisce il futuro. La ricerca dello storico giustifica o almeno contribuisce alla responsabilità del pianificatore. I confini fra i due compiti mi sembrano talvolta incerti. Per parte mia non li ho mai analizzati, col rischio di saltare pericolosamente dall’uno all’altro. La città per sua natura è una realtà ­14

aperta nel tempo, include il passato e si prolunga nell’avvenire. Nessuna limitazione critica può cambiare questo carattere e la storia serve a esplorare accuratamente questa «macchina del tempo». Oggi non riusciamo a prevedere e dirigere gli effetti futuri dei nostri interventi. Possiamo solo studiare bene la nostra storia urbana, conservare adeguatamente i paesaggi di pietra ai quali per il momento è affidato l’equilibrio fra memoria individuale e collettiva. Sono scenari fragili, vulnerabili dalla tecnologia moderna, ma anche tutelabili grazie alla tecnologia moderna. Ci sono stati momenti in cui abbiamo sopravvalutato i possibili vantaggi che derivano dal respingere l’eredità del passato o dal modificarla radicalmente, catturati dall’idea di poter rinnovare tutto a volontà. La realtà rurale in Italia offre ancora una resistenza. L’Istituto di sociologia rurale calcola che nel 2006 più di 23 milioni di persone vivessero in comuni definiti rurali e che questa modalità di vita fosse tutt’altro che residuale, quanto a livelli di reddito, per esempio, ma anche quanto a grado di istruzione. Questo dicono le statistiche. Bisogna però verificare quale tipo di ruralità permanga. Ci sono forme diverse, ibride. Ludovico Quaroni negli anni Cinquanta aveva studiato i tipi di insediamenti pugliesi. In molte zone si lavorava e viveva in campagna, ma non vi si dormiva. Il territorio era attraversato da fittissime maglie stradali che si diramavano dai paesi verso le campagne ed erano percorse all’alba in un senso, al tramonto nel senso inverso. Ma, appunto, se si dorme da una parte e si lavora dall’altra, questi non sono più territori solo rurali o solo urbani, ma diventano, come dire, a mezzo servizio. Io che vivo nella parte più industrializzata del paese, vedo un territorio in cui si formano insediamenti sparpagliati che sono al di sotto del minimo accettabile di densità, quella che consente di avere servizi, di fare comunità. Inoltre se una periferia avanza nella campagna, è indispensabile lasciare ai margini zone cospicue ­15

di inedificabilità, anzi queste zone bisogna ricrearle, attrezzarle, poiché, nonostante non producano reddito, servono come aree ecologiche, come luoghi destinati al loisir. In questo modo si rovescia un rapporto durato per secoli e basato sulla campagna che sostiene economicamente la città: qui è la città che sovvenziona la campagna. Ecco, quindi, che gli intrecci fra città e campagna sono sempre in trasformazione e producono singolari effetti. Oltre la diffusione di insediamenti abitati in quello che una volta era ambiente rurale, molte coltivazioni sono inventate in città e dislocate in campagna: pensi ai noccioleti che da tempo invadono le Langhe, che prima non c’erano e che servono per fare la Nutella. Ora gli urbanisti devono, se fanno pianificazione territoriale, indicare anche che cosa non va coltivato. Prima ciò non accadeva. Esistevano terreni vocati naturalmente a certe colture. Prenda le piantagioni di riso intorno a Vercelli, una città che sembrava galleggiare in una distesa d’acqua, una grande lastra che però non era mai una palude, anzi doveva esser disposta rispettando una giusta pendenza. O i granai pugliesi. Certe coltivazioni come l’ortica o la canapa stanno sparendo, a vantaggio delle grandi estensioni di agricoltura industriale, che producono una semplificazione dei paesaggi rurali. I vigneti di nuovo impianto si distinguono nettamente da quelli antichi, che avevano sostegni sufficientemente alti per farvi passare sotto le persone e che ora sono molto più bassi. Ma d’altronde, finché un terreno agricolo è produttivo, non viene abbandonato e non diventa facile preda dell’urbanizzazione. Negli ultimi quindici anni, secondo i dati del censimento agricolo, si sono persi più di tre milioni di ettari coltivati. Non sono stati automaticamente cementificati, ma rischiano di fare quella fine. Spesso ci si sente impotenti di fronte a questi fenomeni. Fino a un certo punto riusciamo a lasciare un posto pri­16

vilegiato alle coltivazioni, e la spia di questo privilegio, chiamiamolo così, è nel fatto che si cerca di salvare anche terreni destinati a produzioni non più economicamente produttive. Non ci sono molti usi possibili per i territori liberi. In Germania si è fatta un’intensa politica per conciliare coltivazioni e attività ricreative, parchi. Le coltivazioni cambiano frequentemente, le foreste, meno. Non solo gli architetti, ma anche gli agronomi o gli economisti agrari devono impegnarsi a trovare soluzioni. Abbiamo imparato nel tempo a considerare il valore della palude. Fino a una certa fase, la palude era solo oggetto di prosciugamento e di bonifica, non si pensava mai di utilizzarla per la sua natura di zona umida. Da un certo momento in poi si è invece cercato di trovare un equilibrio fra le parti interrate, e magari da coltivare, e quelle da lasciare allagate. Un grande geografo, Eugenio Turri, ha coniato l’espressione «megalopoli padana» per indicare l’immenso agglomerato fatto di costruzioni che va da Cuneo a Pordenone. Lei condivide questa descrizione? Sì, la formazione di questo continuum di edificato è avvenuta sotto i nostri occhi. Si parla con sempre maggior allarme di consumo di suolo, anzi di vero e proprio spreco di una risorsa non riproducibile come il suolo: due milioni e mezzo di appartamenti, secondo l’Istat, costruiti nel decennio tra il 1996 e il 2005, più l’abusivismo. 750.000 ettari coperti da case, capannoni industriali, centri commerciali, infrastrutture, stando ai calcoli di Paolo Berdini (cfr. Il consumo di suolo in Italia, in «Democrazia e diritto», 2009, n. 1). Lei condivide questo allarme? Certamente. Questa scienza relativamente recente che è l’urbanistica aiuta a constatare le trasformazioni gravi nel­17

le forme di insediamento umano sul territorio e permette di fronteggiarle, di correggerle. Anticipo ora una domanda che sarebbe più corretto porle più avanti. Ma è una questione che ci accompagnerà durante la nostra conversazione. Lei, che fa parte della categoria degli urbanisti, non avverte un sentimento di impotenza? Le posso rispondere in generale. Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata con fastidio, e preferibilmente accantonata. Dovunque se ne parla malvolentieri, e il meno possibile. Però non è stato sempre così. O sbaglio? No, non sbaglia. L’urbanistica è stata uno degli argomenti più popolari del rinnovato dibattito politico e culturale nell’immediato dopoguerra e ancora dopo, per alcuni decenni almeno. Basti rammentare le discussioni sul piano regolatore di Roma, dai primi anni Cinquanta in poi, le accese contrapposizioni che dalla politica rimbalzavano sulla stampa. Non si può non fare un riferimento ad Antonio Cederna, ai suoi articoli su «Il Mondo», e poi alle campagne giornalistiche di un settimanale come «L’Espresso». L’urbanistica è rimasta per almeno trent’anni uno dei temi principali della vita amministrativa locale, suscitando consensi e dissensi clamorosi fra le parti interessate e anche fra i cittadini comuni. Su questi argomenti torneremo. Ma intanto proviamo a chiederci che cosa abbia provocato la caduta d’interesse. Su questo terreno reale d’intesa e di confronto si sono depositati numerosi ostacoli artificiali, soprattutto durante e dopo la crisi della prima Repubblica, fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta del Novecento: l’instabilità del quadro politico; le formalità assurdamente cresciute degli atti pubblici; le connessioni trasversali, palesi e occulte, fra ­18

i molti ed eterogenei soggetti competenti; i prezzi sempre più alti delle compravendite dei terreni, che spesso hanno reso secondari tutti gli altri valori in gioco. Nei fatti, inoltre, Tangentopoli ha avuto un risvolto urbanistico, nel senso che molte vicende di corruttela hanno riguardato proprio la gestione del territorio, le opere pubbliche. Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza fra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per motivi diversi e anche contrastanti, condividono il desiderio di trascurare, o di far semplicemente a meno di questa disciplina. In questa vicenda io vedo un elemento paradossale. Quale? Tutto questo è avvenuto mentre per l’oggetto realizzato – il paesaggio, le modificazioni portate dall’uomo nel paesaggio, la conservazione e modificazione dei singoli manufatti umani antichi e moderni – l’interesse è cresciuto e continua a crescere anche nel nostro paese. La base di questo interesse non è culturale, come si dice, ma sperimentale. Si vive in questo scenario, stratificato dalle successive modificazioni antiche e moderne, che viene così a integrarsi nella vita quotidiana di tutti noi. Però l’ignoranza delle vicende reali fa sì che i discorsi e i pensieri sullo scenario circostante restino singolarmente sommari: per alcuni manufatti eccezionali si viene a conoscere il nome di un architetto famoso che li ha firmati, ignorando i tempi, i modi e le circostanze della loro fabbricazione. Dei processi generali che modificano l’ambiente di vita non c’è alcuna conoscenza precisa e regnano le più scoraggianti semplificazioni: l’effetto serra, la congestione del traffico, la città tentacolare e inquinata per sfuggire la quale si cercano, sempre più lontano, le spiagge incontaminate, le montagne solitarie, le campagne di una volta. La politica nazionale, dopo aver alienato nel 1970 ogni responsabilità ­19

in campo urbanistico, insiste a ignorare quel che succede in questo campo, anche quando influenza molti importanti problemi di rilievo nazionale: la crisi della raccolta di rifiuti in Campania, per esempio, i nuovi tracciati dei trasporti internazionali stradali e ferroviari, il funzionamento delle grandi città. L’Italia, dove la cancellazione del paesaggio antico è un avvenimento di rilievo mondiale, è anche il paese che rinuncia a riordinare lo scenario antico e moderno coi rimedi già accertati in campo internazionale. È utile descrivere con una certa precisione il corso di questa trasformazione. Occorre sostituire al disagio attuale una realistica comprensione storica; sgombrare le valutazioni polemiche; individuare e possibilmente schivare i pericoli presenti e futuri. Chi ha la mia età e ha lavorato in questo campo per buona parte del periodo, può rintracciare nella sua esperienza gli errori e le correzioni passate, e provare a ricavarne un insegnamento utile ai più giovani. Gli errori contengono alcune verità che sarebbe sbagliato eliminare in blocco; le correzioni funzionano entro limiti appropriati, altrimenti introducono nuovi errori. Solo una valutazione oggettiva può districare il presente accumulo di difficoltà e aiutare a fare meglio. Torno a porle il problema che le ho posto prima. Lei fa l’architetto, l’urbanista, lo fa da sessant’anni. Quanto ritiene sia in grado la sua disciplina di identificare, di conoscere le trasformazioni che abbiamo davanti e quanto di intervenire in esse? Il mio mestiere è l’architettura. Mi sembra più esatto dire così che non «faccio l’architetto», perché l’architettura è una cosa difficile da avvicinare e io ho tentato di farlo con vari mezzi: progettare edifici, disegnare piani regolatori, collaborare alla redazione di leggi, scrivere libri o articoli di giornale, insegnare la storia dell’architettura. Non ho potuto ancora scegliere di fare una sola di queste cose, perché lo scopo che questa disciplina si pone, vale a dire ­20

migliorare anche solo di poco l’ambiente fisico in cui vive la gente, è troppo importante e difficile per tentare di raggiungerlo in un unico modo. Qualche volta è possibile costruire un piccolo pezzo di questo ambiente in un contesto accettabile; qualche volta bisogna tentare di correggere questo contesto, cioè aiutare l’amministrazione pubblica a fare i piani urbanistici; qualche volta invece si scopre che occorre prima rifare le leggi; e qualche volta ancora che non si può fare nessuna di queste cose e dunque non resta che riflettere e scrivere. I tanti modi in cui questo mestiere è possibile forniscono l’idea di una sua grande adattabilità e lo ancorano alla real­ tà, ai contesti in cui opera, alle condizioni date. Ma il suo è anche un mestiere che si appoggia a qualcos’altro – alla politica, per esempio. Certamente. Per fare qualcosa di utile in questo mestiere è essenziale trovare un committente adatto, e soprattutto, quando ci si assegna il compito più importante, cioè studiare e modificare una città, un’amministrazione pubblica che voglia e possa veramente impegnarsi a far questo. Proporsi di lavorare sulla scala nazionale è molto difficile. Ma le amministrazioni comunali sono in Italia più di 8.000 e se anche il 99 per cento fossero inadeguate, ne rimarrebbero pur sempre 80 con le quali tentare di collaborare. Resta il fatto che il rapporto con la politica, anche quella cittadina, sia spesso inconcludente. Talvolta per colpa degli amministratori, talvolta dei progettisti. In questa nostra conversazione parleremo delle mie esperienze concrete. Ora mi lasci dire che la ricerca delle occasioni per fare un lavoro positivo mi ha sempre preoccupato. I miei maestri – Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni, Giovanni Astengo – raccontavano quasi solo sconfitte e fallimenti, e io ero terrorizzato al pensiero di dover fare, ­21

da vecchio, un bilancio altrettanto disastroso. Si può essere rassegnati che molti tentativi, diciamo pure la maggior parte, vadano male, ma bisogna che qualcuno vada bene, per poter fare dei paragoni e perché le sconfitte medesime diventino istruttive. Nel mio studio ho appeso la riproduzione di un disegno di Le Corbusier, spedito a una sua amica nel 1953, in cui sono illustrati i tre doveri di un architetto: «Il faut se battre contre des moulins. Il faut renverser Troie. Il faut être cheval de fiacre, tous les jours». Ecco: per prima cosa bisogna accettare di combattere contro i mulini a vento, che restano in piedi dopo tutti gli assalti. Ma nello stesso tempo bisogna espugnare qualche Troia, con la forza e con l’astuzia, perché la gente crede ai fatti e non solo ai programmi e occorre dimostrare con i fatti la bontà delle proposte. In ultimo, ma va da sé, in questo mestiere contano la pazienza e lo sforzo continuo in una direzione. Come per un cavallo da tiro.

2.

Gli studi

Quando ha pensato di diventare architetto? È stato quasi il risultato di un equivoco. Da bambino disegnavo bene. E i miei avevano un’idea dell’architettura che si collocava in una catena formata da pittura, scultura e le altre arti. L’architettura era il segmento che ai loro occhi appariva meno bohémien. Invece ho scoperto, ma solo quando mi sono iscritto all’università, qual era la chiave del mio interesse. E qual era? Era la capacità di inserire, di localizzare qualcosa in uno spazio. E di esplorare l’ambiente fisico in tutte le sue forme. Non era solo un’attitudine disciplinare: questa predilezione comportava anche l’interesse a conoscere, viaggiare, esplorare nuovi paesaggi. Ho percepito per gradi che valore avesse la conoscenza del nostro stare nel mondo e il ruolo che l’architettura aveva nel dare ordine a questa collocazione. Non era arte né occupazione del tempo libero. C’è una bellissima pagina di Konrad Lorenz (L’altra faccia dello specchio, Adelphi 1974) in cui il grande etologo sottolinea che la coscienza della localizzazione spaziale è un pezzo fondamentale di quel passaggio che porta alla formazione dell’homo sapiens. La capacità di agire in uno spazio tridimensionale è un primato dell’uomo, che con­23

cepisce l’importanza del guardarsi intorno, capire dove si trova, e da quel posto osservare il mondo. Quali sono stati i suoi primi paesaggi? Abitavo a Novara, che non ha un paesaggio particolarmente attraente (ma a distanza di tempo potrei dire che forse non era così). Ho fatto due anni di collegio a Ruta, sopra Santa Margherita Ligure, appena scavalcato il promontorio di Portofino. E lì mi colpì la dimensione solo verticale del territorio, per cui il mare si vedeva esclusivamente dall’alto. Nella sua famiglia c’erano architetti? No. Com’era composta la sua famiglia? Mio padre è morto quando avevo undici anni. Proveniva da una famiglia umile, numerosa, braccianti poveri di Acqui. Mio nonno era diventato ferroviere e mio padre aveva voluto a tutti i costi studiare. Lo faceva di notte perché i suoi genitori erano contrari. Ha preso il diploma di ragioniere, poi è diventato un imprenditore, un industriale elettrico, e ha creato una grande azienda. Io ho trascorso un’infanzia molto agiata. Era la fine degli anni Venti, avevamo la macchina con l’autista e una casa di villeggiatura a Orta, dove sono nato. Allora nelle famiglie borghesi si pensava, per chi poteva permetterselo, che gli ultimi mesi di gravidanza fosse meglio non trascorrerli in città. Sono nato a settembre del 1923 dalla seconda moglie di mio padre, figlia di un colonnello dell’esercito piemontese che aveva fatto le guerre risorgimentali e poi era stato impiegato nella repressione del brigantaggio nell’Italia meridionale. La prima moglie di mio padre era morta a causa della febbre spagnola, subito dopo la fine della guerra. Mio padre aveva già due figli grandi e decise che le ultime classi delle elementari le facessi nel collegio di Ruta. ­24

Fu una costrizione? No. Furono anni felici. Era un collegio inglese, con quaranta ragazzi, organizzati come scout. Mi piaceva la geo­ grafia. Ero appassionato di cartine geografiche. Spesso le disegnavo io stesso, ricalcandole dai libri, e poi le coloravo. Eravamo in un collegio maschile. C’era un’unica ragazza e tutti la corteggiavamo. Io le regalai una cartina fisica dell’Asia, ma dovetti constatare che non le interessava molto. Compivamo escursioni, spesso al mare, a Paraggi oppure a Camogli. Dunque i suoi primi paesaggi furono marini? Sì. Ma poi anche alpini, perché la mia famiglia costruì una casa sotto il Monte Rosa. A quel punto, non so quanto consapevolmente, mi resi conto che l’interesse per i paesaggi era di tipo tridimensionale. Cioè? In pianura il paesaggio ha due dimensioni, ma sulla costiera ligure e sotto il Rosa contano i dislivelli, le altitudini e le profondità. C’era un punto della Val Sesia, la capanna Margherita, da dove si vedeva, verso la Svizzera, un paesaggio tutto montagnoso. Ma orientando lo sguardo verso sud, l’impressione era strepitosa. Il dislivello era superiore ai tremila metri: si poteva scorgere tutta la Pianura padana, con l’intero arco delle Alpi e, dietro gli Appennini, si immaginava il Mar Ligure, che era quasi sempre avvolto in una nebbia. In certe circostanze, a mezzogiorno, quando il sole era in posizione sud, se il tempo era molto buono, si individuava al centro della lastra di nebbia uno spacco, e dentro lo spacco una specie di cuneo nero. Che cos’era? Era il Capo Corso, la punta montuosa della Corsica. ­25

Una delle prime attività che in lei coniugavano occupazione del tempo libero e quello che si stava rivelando come il suo destino professionale e culturale è proprio l’alpinismo. Quando ha cominciato? Da adolescente. L’alpinismo è uno sport che non richiede uno sforzo momentaneo, concentrato, come quasi tutti gli sport. È uno sforzo differito, che richiede tempo e che dunque è ammissibile anche in età avanzata. Sono stato sul Bianco, sul Gran Sasso, sulla Majella e su altre montagne abruzzesi che, pur non avendo delle cuspidi, si aprono su scenari spettacolari. Ho cominciato con le guide, poi sono diventato capo cordata. Ma sono stato anche sulle Ande, sopra i cinquemila metri, nella catena fra il Venezuela e la Colombia. Un’escursione memorabile? Sono riuscito a fare alpinismo senza grandi danni. Solo una volta, durante una salita nel gruppo del Rosa con un amico, mi è capitato un vero incidente. Era la fine degli anni Quaranta. Eravamo legati con una corda di trenta metri. Io ero il secondo e aspettavo che il mio compagno procedesse. Avevo in mano circa venticinque metri di corda. A un certo punto lui è scivolato. Mi sono messo nella posizione corretta per resistere, ma lui si trovava su una salita quasi verticale e poi era una persona corpulenta. Mi è sembrato di essere trainato da un camion. Perdeva quota, mi diede uno strappo e poi si infilò in un crepaccio del ghiacciaio sottostante. Io sono invece volato a mezz’aria e sono entrato in un altro crepaccio più a valle. La caduta è stata lunga; ho avuto il tempo di ricordare una storiella che circolava fra chi faceva alpinismo – un tizio precipitava dal trentesimo piano di un palazzo e, arrivato al decimo piano, si fregava le mani e diceva: «Fin qui è andato tutto bene». Com’è finita? ­26

Avendo raggiunto il limite della corda, sono riuscito a uscire da solo e anche a tirar su il mio compagno. Avevo l’energia che si recupera con lo scampato pericolo. Quando fummo al sicuro, mi sdraiai a terra e ricordo perfettamente che pensai a quanto i metri calcolati in verticale fossero diversi da quelli calcolati in orizzontale. Qual era lo stato di quei paesaggi? Quello ligure di allora è difficilmente immaginabile per una persona di oggi. Si diceva che la costiera da Genova a Portofino era la più bella perché la più piena di case. Infatti le case erano poche ville, tutte con giardini affacciati sul mare, non certo la distesa di casamenti che si vede oggi. A queste percezioni di paesaggi lei attribuisce la scelta di diventare architetto? In parte sì. Le facoltà di Architettura nascono in Italia alla fine degli anni Venti. E quella di Roma fu la prima a essere istituita. Quando sono arrivato io, nel 1941, molti professori di materie tecniche provenivano da Ingegneria. La materia che da subito mi ha appassionato, anzi entusiasmato, fu la geometria descrittiva: consentiva attraverso il calcolo matematico di impadronirsi di uno spazio tridimensionale. Era uno studio tutt’altro che arido. E nei suoi ranghi annoverava personaggi eroici, come Gaspard Monge, considerato l’inventore di quella disciplina. Monge fu anche l’organizzatore della spedizione in Egitto di Napoleone. Dalle formule e dai disegni di precisione si pensava di padroneggiare l’ambiente fisico, fino a percepire una nozione di infinito. Leggevo molti libri di storia, che mi attraeva moltissimo: ricordo ancora – ero bambino – la prima visita che feci al Museo di Arte orientale a Venezia, quando un custode, visti i miei occhi incantati di fronte alle divise dei samurai, mi mise in testa un elmo. Ma trovavo molto più emozionante l’esplorazione dello ­27

spazio che non lo studio della storia passata. Nel tempo siamo obbligati a starci, a volte anche passivamente. Nello spazio si entra fisicamente, si cammina, si osserva. Lì ho capito che l’architettura sarebbe diventata per me una passione, oltre che una professione. Più tardi ho imparato da Konrad Lorenz come la capacità di orientarsi nello spazio sia – si è già detto prima – uno degli elementi formativi della specie umana. L’umanizzazione, come viene definita, ha il suo tirocinio nel sapersi muovere e anche nel saper ricordare, calcolare e rappresentare lo spazio. E ho capito, a partire da qui, anche le connessioni fra l’architettura e le arti, la pittura, la scultura, nonostante la profonda diversità negli statuti. Dunque la passione per l’architettura matura in lei da presupposti scientifici, più che artistici. Ha una dimensione scientifica. Però la rappresentazione dello spazio, la prospettiva, è stata inventata dai pittori, non dagli architetti. Nel 1998 ho scritto un libro, L’architettura nell’Italia contemporanea, in cui tento di individuare quale sia il posto della cultura visiva nell’Italia d’oggi, un’Italia che non mi pare la più adatta a promuovere questo tipo di attitudine. Perché il paesaggio è stravolto (il sottotitolo di quel suo libro recita: Ovvero il tramonto del paesaggio) o per che cos’altro? Il posto per quella cultura visiva oggi non c’è. Un po’ per lo stravolgimento fisico, di cui parleremo in seguito. Ma c’è anche da registrare il tramonto di quella stessa cultura, in cui, per dirla con le parole di Karl Jaspers a proposito di Leonardo, «conoscere significa ritrarre». L’Italia è la patria riconosciuta nel mondo di quella cultura che domina la vita intellettuale dal XV al XIX secolo. La presenza dell’ambiente fisico, del paesaggio, è cospicua nel Sette­28

cento e nell’Ottocento – si pensi a Giuseppe Parini, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, solo per limitarci ai nomi più noti. Il «vago Eupili», Recanati, il lago di Lecco, sono lo sfondo immutabile, lo spunto che dà risalto ai mutamenti dell’esperienza umana, l’elemento cardine del linguaggio poetico e romanzesco. Leggiamo di Leopardi l’Ultimo canto di Saffo: «Placida notte e verecondo raggio / Della cadente luna, e tu che spunti / Fra la tacita selva e in su la rupe / Nunzio del giorno». O La ginestra: «Qui su l’arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo / Lo qual null’altro alberga arbor né fiore / Tuoi cespi solitari intorno spargi / Odorata ginestra / Contenta dei deserti». Per non parlare di Manzoni, della sua determinatezza nel precisare lo scenario spaziale, il gioco dei rimandi fra sentimento dei personaggi e sentimento dei luoghi. Manzoni cura personalmente insieme al genero Massimo d’Azeglio le illustrazioni che arricchiscono l’edizione dei Promessi sposi del 1840. A un certo punto, lei dice, questa cultura visiva vien meno. Si esaurisce l’impegno assunto dalla letteratura di descrizione degli ambienti fisici, la capacità di rappresentare i paesaggi. La relazione fra paesaggio e letteratura, fra paesaggio e cultura in genere, entra in crisi nella seconda metà dell’Ottocento, proprio mentre le città e il territorio vengono trasformati in modo sostanziale. Le città si espandono, il territorio è attraversato da nuove strade e da nuove ferrovie, mentre le innovazioni agricole contribuiscono a mutare ulteriormente lo scenario italiano. Tutti questi sconvolgimenti non vengono minimamente registrati. E mentre le enormi trasformazioni di Londra e di Parigi sono raccontate da Charles Dickens, John Ruskin, Charles Baudelaire, Victor Hugo e Gustave Flaubert, nulla di tutto questo accade in Italia. Da noi prevale una retorica patriottica che sovrappone al territorio una mappa celebrativa e convenzionale di personaggi storici. Le descrizioni ambientali ­29

sono anche più dettagliate, ma più astratte. Si colgono i significati simbolici, rappresentativi, ma molto raramente l’effettiva forma di edifici o di luoghi. Giosue Carducci nomina in Piemonte un gran numero di luoghi, ma poi nel Parlamento fa tramontare il sole dietro il Monte Resegone, che è a nord-est di Milano. Di questo torneremo a parlare. Ma intanto le chiederei di riprendere il filo delle sue esperienze dopo il collegio. Ho finito il collegio a dieci anni. E l’anno dopo è morto mio padre. Gli avevano prescritto una cura di fanghi, ma non si erano accorti di una controindicazione: ha avuto un collasso e nel giro di pochi giorni si è spento. Da allora ho dovuto far da me, anche se non me ne sono reso conto, da tanti punti di vista, sia emotivi che materiali. Per prima cosa le nostre condizioni economiche sono mutate. Abbiamo venduto parte del patrimonio ed essendo presenti dei minori, mio fratello più piccolo ed io, fummo costretti a comprare buoni del Tesoro, che dopo la guerra non valevano più nulla. Fu un tracollo. Io intanto studiavo al Regio liceo Carlo Alberto di Novara. Presi la licenza liceale nella primavera del ’41 e ci trasferimmo a Roma, dove viveva una delle sorelle di mia madre. E nell’autunno del ’41 lei si iscrive ad Architettura. Sì. Avevo avuto già i primi contatti con la Roma fascista, che si approfondirono proprio all’università, dove erano radunati tutti i notabili dell’architettura del regime... Scusi se la interrompo: che atteggiamento aveva avuto nei confronti del fascismo prima di allora? Devo dire che ero molto infantile a quei tempi. Confesso di non essermi costituito un’opinione sul fascismo e sull’Italia di quegli anni. In ogni caso, durante la villeggiatura del 1943 alle pendici del Monte Rosa, fummo colti ­30

dalla notizia dell’armistizio. Venni richiamato alle armi dalla Repubblica di Salò, ma mi rifiutai e rimasi nascosto per due anni in Val Sesia, fino all’aprile del ’45. I tedeschi compirono un paio di incursioni nella Val Sesia, una valle chiusa, ma riuscii a evitare di essere individuato. Di mattina studiavo, soprattutto filosofia, la Fisica e la Metafisica di Aristotele, i Dialoghi di Platone, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica di Kant, i libri di Croce. Nel pomeriggio spaccavo la legna che serviva a riscaldarci. All’università quale ambiente trovò? I professori erano, appunto, gli architetti graditi al regime, primo fra tutti Marcello Piacentini, poi Arnaldo Foschini, Vittorio Ballio Morpurgo, Enrico Del Debbio, che però avevano come assistenti un gruppo formato da Ludovico Quaroni, Luigi Moretti, Saverio Muratori. Plinio Marconi insegnava urbanistica, Virgilio Testa curava le materie giuridiche. Allora non me ne resi conto, ma il centro di gravità di questa accademia fascista era Giuseppe Bottai. Era un gruppo solido, consapevole dei mezzi per avere successo: potere universitario e monopolio dei grandi incarichi pubblici. Alla modestia delle idee e delle capacità faceva riscontro una precisa percezione dei rapporti di forza culturali e politici. Ero arrivato nel ’41, e solo dopo capii quanto essi fossero stati abili nelle mediazioni fra i tradizionalisti e i razionalisti. All’università erano ammessi i primi: Gustavo Giovannoni e Vincenzo Fasolo insegnavano materie storiche. Gli incarichi professionali, invece, erano concessi con maggiore liberalità anche ai giovani architetti razionalisti. Giovanni Michelucci e Giuseppe Pagano erano stati chiamati da Piacentini a realizzare la nuova città universitaria. Il gruppo guidato da Michelucci aveva vinto il concorso per la stazione di Firenze. Adalberto Libera e Mario Ridolfi si erano aggiudicati due dei quattro concorsi per gli uffici postali di Roma. Luigi Piccinato aveva progettato il piano di Sabaudia. Sempre Piccinato, insieme a Pagano, aveva collaborato al progetto dell’E42. ­31

Di Piacentini quale ricordo ha? Era molto simpatico, ma senza scrupoli. Sicuro di sé ed espansivo. Era un ras dell’università e come professionista aveva accaparrato una tale quantità di commissioni che a un certo punto ebbe una specie di esaurimento e dovette andare a vivere in albergo, perché non poteva sopportare altra incombenza che non fosse finire i lavori che aveva accumulato. Dopo la guerra, io l’ho frequentato un po’ di più e un giorno mi disse: «Sa, caro Benevolo, io non sono mai stato fascista, pura coincidenza cronologica». Era un iperattivo che non ha mai mostrato grande intelligenza. Il piano regolatore di Roma del 1931 l’aveva disegnato in sei mesi. Contemporaneamente sceglieva l’arredo della casa di Bottai ed entrava nel consiglio d’amministrazione della Triennale. Era già Accademico d’Italia e rappresentava il regime in missioni all’estero, dal Brasile alla Germania. È l’emblema dell’architettura gradita al fascismo. La dittatura alimentava i tentativi di vari gruppi culturali di monopolizzare a proprio vantaggio l’etichetta, molto vaga, di «cultura fascista». Accadeva nel campo dell’arte, della letteratura e dell’architettura. Anche i giovani architetti razionalisti, fra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, volevano accreditarsi come interpreti della più genuina «cultura fascista». E come tali si rivolgevano a Mussolini. Mussolini e i vertici del fascismo facevano buon viso a tutti, senza legarsi a nessuno, lasciandosi le mani libere per affidare gli incarichi a seconda delle convenienze. Detto questo, occorre rilevare che mai l’architettura italiana ha goduto di una copertura politica e culturale così solida come durante il fascismo. La figura di Piacentini è centrale in questo quadro. Smistava commissioni e incarichi in maniera strumentale al mantenimento del proprio potere. Ne nasceva un’architettura estesa da un classicismo sempre più involgarito alle stilizzazioni futuriste, novecentiste ­32

e metafisiche, fra le quali molta critica di oggi si diletta a scoprire le più sorprendenti contaminazioni. Ben si adatta a queste operazioni la definizione di Pagano, di «internazionale dei pompieri» (così intitolò un suo articolo su «Casabella» nel 1940). Le architetture più care al regime rivelano la medesima fiacchezza e tetraggine e si sovrappongono con agghiacciante esteriorità ai paesaggi delle città e delle campagne. Inoltre proseguono e diventano più aggressivi gli sventramenti nelle città antiche. Per chiudere su Piacentini le racconto questo episodio. Un giorno – erano passati alcuni anni dalla fine della guerra – ero a casa di Bruno Zevi e lui, davanti a un meraviglioso De Chirico del periodo metafisico, me lo indicò e mi disse: «Ecco perché odio Piacentini». Questo per Piacentini. E Foschini? Foschini era probabilmente il cervello del gruppo, la vera testa pensante. Delle sue esperienze durante il fascismo non ho una conoscenza diretta. Ma certamente ha rappresentato la continuità fra il regime e la democrazia. Sopravvissuto al fascismo, era diventato l’uomo forte della Dc nell’architettura e aveva assunto la direzione tecnica degli interventi del Piano Ina-Casa del 1949. Riuscì a mantenere unito il gruppo, facendo di tutto per evitare che i suoi membri venissero epurati. E fece riammettere chi, come Del Debbio, era stato allontanato per i suoi palesi trascorsi fascisti. Aveva il controllo di tutte le facoltà di Architettura, essendo un membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione. Le università erano presidiate da un gruppo di accademici ex fascisti, legati a lui. Era il preside a Roma quando mi sono laureato, nel 1946, e poco dopo andò in pensione. Ma per farle capire il peso che ha continuato ad avere le racconto che durante i giorni caldi del ’68 molti professori della facoltà di Architettura, che era il baricentro della contestazione, andavano la notte da lui per chiedere come occorreva comportarsi con gli ­33

studenti. E lui aveva parole di grande saggezza, di grande moderazione. Surclassava i suoi avversari. Aveva la sicurezza dell’uomo di potere. Fisicamente sembrava sempre sull’orlo di spirare. Parlava con un filo di voce. Ma comandava. A differenza di Piacentini, nel dopoguerra non ebbe bisogno di dichiarare che non era mai stato fascista. Di questo non si occupava. Era al di sopra. Ma dal punto di vista accademico era feroce. Agli architetti moderni dava lavoro, ma aveva imposto che restassero fuori dall’università, compresi i suoi assistenti, come Quaroni e Muratori, per i quali si accordò con Giuseppe Samonà affinché finissero a Venezia, che riteneva sufficientemente isolata e poco fastidiosa per lui. E così Venezia diventò un punto di concentramento dei moderni, un’eccezione tollerata dove furono accolti buona parte dei giovani docenti esiliati da Torino, Milano e Roma – Giovanni Astengo, Ernesto Nathan Rogers, Lodovico Belgiojoso, Ignazio Gardella, Franco Albini, Bruno Zevi, Luigi Piccinato. Foschini è stato forse l’unico, certamente il primo, a capire il grande valore di Mario Ridolfi. Ma sapendo quant’era bravo gli aveva sbarrato le porte dell’università. Non doveva entrarci neanche come inserviente. In sostanza la sua adesione al classicismo più accademico si riduceva a un instrumentum regni. Come architetto valeva poco. Ha fatto pochi, brutti edifici, come la chiesa dei Santi Pietro e Paolo all’Eur. Preferiva essere considerato un grande accademico. A lui non interessava essere un grande architetto, cosa che interessava a Piacentini; lui voleva essere il padrone dell’architettura. E dirigendo l’Ina-Casa lo diventò. Padrone dell’architettura: in che senso? Guidando l’Ina-Casa, il piano per 350.000 alloggi popolari lanciato dal ministro del Lavoro Fanfani, si procurò il piacere di essere il committente dei suoi avversari, architetti moderni, razionali, per dimostrare che era aperto a tutti. Quella non fu un’operazione da poco nell’Italia del 1949. ­34

La possiamo raccontare? L’iniziativa durò quattordici anni, fino al 1963, e con essa, io credo, si decise in larga misura il futuro dell’architettura e del paesaggio italiano. Dopo la vittoria alle elezioni del 18 aprile, la Dc varò un programma di edilizia sovvenzionata pagato da lavoratori e datori di lavoro. L’obiettivo primario, però, non era dare casa a chi non ce l’aveva, quanto di occupare manodopera: non è un caso che questo programma fosse guidato dal ministro del Lavoro. L’intervento fu organizzato accentrando in un’agenzia ogni decisione e fuori da ogni logica di pianificazione del territorio, affidandosi al mercato privato per l’acquisizione delle aree, senza quindi scalfire minimamente l’egemonia della speculazione privata. Foschini distribuì generosamente incarichi a tutti, compresi molti dei moderni, non facendosi mancare il gusto di apparire liberale e magnanimo. Fu così che confermò il predominio della cultura accademica. E questo, lei aggiunge, fu alla base del sistematico sfascio del paesaggio italiano. In una certa misura sì, perché d’accordo con i responsabili politici della Dc si è salvaguardata ancora per una generazione l’alleanza degli interessi tradizionali legati allo sviluppo edilizio e urbanistico, e cioè la speculazione fondiaria, la bassa produttività edilizia, la rigida limitazione del campo di intervento pubblico, la prevalenza della «libera professione» e la copertura culturale garantita dalla continuità del training accademico. Ecco: queste premesse hanno reso possibile il boom edilizio successivo, la costruzione di 35 milioni di stanze e la valanga di opere pubbliche che hanno sfigurato l’Italia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. È impressionante, nel suo racconto, la continuità fra fascismo e post-fascismo e la lunga durata di questi processi, ­35

che rende evidente la struttura del potere in Italia e le sue connessioni con gli ambienti economici. Al centro di questi intrecci si situa la figura di Foschini, una figura apparentemente secondaria. Non direi secondaria. A parte queste vicende, io ebbi con lui anche una disavventura universitaria. Che tipo di disavventura? Nell’autunno del ’46 avevo terminato tutti gli esami con una media molto alta. Avevo preparato la mia tesi, il progetto per una chiesa, e intendevo laurearmi. Ma una notte venne a casa mia Muratori, mandato da Foschini con l’incarico di chiedermi di rinunciare a discutere la tesi. Perché? Perché quel progetto non piaceva a Foschini. Non lo riteneva aderente ai suoi principi. Ma io insistetti. Data la mia media non potevano darmi meno di 110 e lode. Subito dopo la discussione, Foschini mi fece un discorsetto, una specie di ramanzina in pubblico. Disse che ero bravo, ma avevo il difetto di non mettermi in relazione con gli anziani e che questo era un difetto da correggere. Capii la lezione e da quel momento diventò un mio impegno di vita quello di non avere relazioni del tipo suggerite da Foschini.

3.

Gli inizi

Dopo la laurea iniziò subito a lavorare? Macché. Vivevamo di espedienti. Una volta a una riunione vedemmo arrivare Quaroni in Lambretta. Ricordo lo stupore generale, come se lui avesse raggiunto uno status inimmaginabile per la gran parte di noi. Ed era solo una Lambretta, che forse gli avevano comprato i genitori. Chi erano i suoi colleghi? In quelli e negli anni successivi ho lavorato con Carlo Melograni e Tommaso Giura Longo, e talvolta con Piero Barucci. Fra il ’49 e il ’51 ebbi la tubercolosi e fui costretto a lunghi periodi di degenza. Mi salvarono i primi antibiotici. Sul finire degli anni Cinquanta lei lavorò per il programma di assistenza alla ricostruzione di una parte dell’Abruzzo per conto del Cepas e dell’Unrra-Casas, di cui era vicepresidente Adriano Olivetti. Vuol ricordare quell’esperienza? In fondo non si trattava di un lavoro da architetto o da urbanista. È stata per me un’esperienza fondamentale, in primo luogo perché ho conosciuto tante persone che avrebbero avuto grande rilievo nella mia vita: Adriano Olivetti, Adriano e Teresa Ossicini, Maria e Guido Calogero, Anna Maria ­37

Levi, la sorella di Primo, e poi Manlio Rossi-Doria e Paolo Volponi. Fu Quaroni, che insegnava al Cepas, la scuola per assistenti sociali fondata alla fine degli anni Quaranta da Maria e Guido Calogero e patrocinata da Olivetti, a introdurmi in quell’ambiente. Al Cepas ho insegnato per alcuni anni. Direttrice della scuola era Angela Zucconi, talvolta sostituita da Volponi o altri quando era in viaggio. Volponi e io diventammo amici carissimi, ho imparato da lui tante cose. Parlava come scriveva, usando una lingua molto tornita. A quel tempo era soprattutto un poeta. Ci siamo frequentati anche a Roma, negli anni successivi, attraverso lui ho conosciuto Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini. Tornando al gruppo di persone che si riuniva intorno al Cepas, va detto che era composto come i tanti che Olivetti animava e che prendevano la forma di una ragnatela, estendendosi su diverse specializzazioni, dall’architettura alle scienze sociali. Quaroni aveva alle spalle altre iniziative olivettiane, realizzate fra i primi anni e la metà di quel decennio: il borgo rurale La Martella, progettato a Matera insieme a Federico Gorio, Michele Valori e altri, dove vennero ospitati molti sfollati dai Sassi, e prima ancora la commissione di studio sulla città, per la quale lavorarono il sociologo Tullio Tentori, l’economista tedesco emigrato in America Friedrich Friedman e il medico materano Rocco Mazzarone. Anch’io mi sentivo in qualche modo a cavallo fra l’esperienza di progettazione, di pianificazione urbanistica e quella di analisi e di intervento sociale. Ce n’è traccia negli articoli che scrivevo per «Centro sociale», la rivista del nostro gruppo, diretta da Anna Maria Levi. Il progetto Abruzzo nasce fra la fine del 1957 e i primi mesi del 1958. L’Unrra-Casas – l’agenzia promossa dalle Nazioni Unite e dagli americani per la ricostruzione delle zone bombardate durante la guerra – e il Cepas preparano un piano che viene accolto e parzialmente finanziato dall’Unesco. In che cosa consisteva e chi erano i suoi compagni in quella vicenda? ­38

Siamo andati in Abruzzo per un’iniziativa di assistenza sociale, una pratica che in Italia era poco conosciuta e che veniva sostenuta da Olivetti. Il Cepas formava assistenti sociali. E in Abruzzo il progetto era coordinato da Angela Zucconi, Manlio Rossi-Doria, per la parte economica e soprattutto agraria, e da me, che lì avevo lavorato in due riprese, realizzando nel 1952 un piano di coordinamento territoriale e nel 1957 il piano regolatore di Pescocostanzo. E c’era anche Volponi? Sì. L’area individuata dall’Unrra-Casas era quella della linea Gustav, fra Ortona e Cassino, che durante la guerra divideva in due l’Italia: a nord i tedeschi, a sud le truppe alleate sbarcate a Salerno. Lungo quella direttrice le battaglie furono terribili e terribili le distruzioni. Molti paesi erano stati evacuati. In alcuni i tedeschi avevano compiuto orribili stragi, come a Pietransieri, una frazione di Roccaraso. Volponi circoscrisse per l’intervento del Cepas una zona dell’Alto Sangro, per la quale inventò il nome di «Zona E». Sulle carte geografiche lì cadeva la «e» di «Abruzzo e Molise». I comuni interessati erano dodici, cinque in provincia dell’Aquila – Pescocostanzo, Rivisondoli, Ateleta, Rocca Pia, Roccaraso – e sette in provincia di Chieti – Colledimacine, Lettopalena, Montenerodomo, Palena, Taranta Peligna, Lama dei Peligni e Torricella Peligna. Da quell’esperienza Volponi trasse l’ispirazione per molte poesie. Come avvenne successivamente per i romanzi. Volponi, che è stato poi il direttore dei servizi sociali della Olivetti, ha raccolto, per esempio in Memoriale, tanti aspetti della società industriale, e della vita interna alla fabbrica in particolare, riproducendo il conflitto, in termini culturali, fra questo mondo e quello contadino. Ma a quel punto erano già prevalenti per lui le contraddizioni della società industriale. E il romanzo rappresentava una via di fuga. ­39

Torniamo al progetto. Il programma apparteneva alla grande famiglia olivettiana che si definiva di sviluppo della comunità (community development). Noi non dovevamo occuparci di ricostruire gli edifici. Come primo impegno, ci proponemmo di capire che tipo di impatto sulle popolazioni avevano avuto la guerra, le stragi naziste e la presenza delle truppe americane, portatrici di valori e di concezioni del mondo molto diverse da quelle locali. Fino ad allora quelle popolazioni erano vissute ai margini della storia. Tenga conto che questo territorio era attraversato da due sole strade, la Tiburtina Valeria, che arrivava tutta asfaltata all’Adriatico, e la litoranea. Il resto era in uno stato primitivo. Ci muovevamo su jeep dell’esercito americano. Partivamo la mattina con sette, otto ruote di scorta che cambiavamo quasi ogni giorno perché il manto stradale era molto accidentato. Facevamo interviste ai cittadini comuni e alle autorità, trattavamo i temi dell’emigrazione, della salute, del lavoro, ma dovevamo evitare che la nostra azione si trasformasse in un soccorso spicciolo, un’elemosina a persone che avevano bisogno di tutto. I progetti che portammo avanti erano due. Il primo riguardava la scuola, il secondo il turismo. Intanto RossiDoria aveva l’incarico di studiare le occasioni di crescita dell’agricoltura, che in quella regione si riferiva a modelli molto tradizionali. L’agricoltura era poverissima, prevalentemente cerealicola. In qualche zona c’erano allevamenti di bestiame, ma moltissimi bovini erano affetti da brucellosi o da tubercolosi. L’Abruzzo è fatto di altipiani e di conche che in primavera si riempiono d’acqua. Rossi-Doria voleva capire come sfruttare questa potenzialità al fine di trasferire l’agricoltura anche in alta quota. L’acqua agevolava la fertilità dei terreni, ma solo stagionalmente. Avviò un monitoraggio di quei fenomeni climatici e studiò il modo per renderne duraturi gli effetti positivi. Vogliamo parlare del progetto per la scuola? ­40

Le popolazioni che incontrammo avevano la rassegnazione mite di molta parte del mondo contadino meridionale. Ma non volevano che questo atteggiamento si estendesse ai loro figli. Sopportavano le difficoltà, ma si battevano perché i più giovani avessero altri orientamenti nei confronti della vita e non sopportassero le loro stesse fatiche. Volevano la scuola. Ma di scuole medie ce n’erano poche e solo in alcuni comuni – Casoli, Rivisondoli, Castel di Sangro –, che d’inverno erano difficilmente raggiungibili. Considerammo varie ipotesi, come quella di far sì che alcuni professori si spostassero periodicamente da un pae­se all’altro, facendo lezione, assegnando i compiti e poi passando a controllarli. Ma la scuola doveva essere una comunità e in questo modo non lo sarebbe stata. Sistemare scuole in tutti i comuni era altrettanto sbagliato: molte classi avrebbero avuto un numero troppo esiguo di alunni. Troppo costoso e troppo faticoso per i bambini sarebbe stato anche organizzare un sistema di trasporti per raggiungere le scuole. Pensammo allora di istituire dei collegi e di insediarli nei paesi più importanti dove c’erano le scuole. Prendemmo in affitto degli edifici e li attrezzammo per ospitare i ragazzi, che risiedevano lì per tutta la settimana, dormivano, mangiavano, erano assistiti da alcune donne. La mattina andavano a scuola, il pomeriggio facevano il doposcuola e poi il sabato tornavano a casa. Una specie di colonia. Sì. Il progetto fu accolto calorosamente. Dovevano essere direttamente le famiglie a finanziarlo e i costi erano molto più bassi di quelli che avrebbero sopportato adottando altre soluzioni. Per la prima volta gli abitanti di quei paesi si sentivano protagonisti di una svolta che cambiava la loro vita. Il progetto si realizzò. Angela Zucconi, io e gli altri del Cepas ci facemmo da parte, lasciammo che fossero le famiglie a decidere dove collocare i collegi, come farli funzionare. Doveva diventare un elemento di quello che oggi ­41

chiameremmo sviluppo locale. Nel bellissimo libro di Angela Zucconi, Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, scritto poco prima che morisse, nel 2000, e pubblicato da L’ancora del Mediterraneo, sono raccolte le lettere di alcuni ragazzi che avevano frequentato i pensionati. Angela li aveva rintracciati a distanza di anni. Uno di loro le scrive di aver imparato in quei collegi «a convivere con le persone, a gestire le proprie cose, dai soldi ai vestiti, a essere più preciso e puntuale, a rispettare gli altri, a essere più ben disposto verso le altre persone». Angela avviò una serie di programmi culturali, come le proiezioni di film seguite da dibattiti, film che sollecitavano gli abitanti a riflettere sui problemi che più li assillavano – l’emigrazione, il lavoro, la cooperazione, la famiglia – e di cui senza quegli stimoli forse mai avrebbero parlato in pubblico. Che sorte ebbe il secondo progetto, quello sul turismo? Quella parte dell’Abruzzo era bellissima, avrebbe potuto attrarre visitatori e villeggianti. Ma invece di proporre la costruzione di alberghi o altri impianti turistici, che avrebbero alterato i paesaggi, suggerimmo di attrezzare le case dei contadini per garantire qualche forma di ospitalità. In questo modo si dotavano le case di servizi essenziali, che allora erano scarsissimi. Mancavano i bagni e feci studi approfonditi su come inserirli in quelle case contadine senza stravolgerle. Avremmo migliorato in assoluto le condizioni abitative. E poi si offrivano occasioni di lavoro e di reddito. E questo progetto funzionò? Non avemmo il tempo di portarlo a termine. La nostra presenza suscitava gelosie negli apparati politici, in particolare della Democrazia cristiana, che si vedeva sfuggire un’occasione per creare reti assistenziali proprie e quindi clientele. Ma anche il Partito comunista era diffidente. In ­42

genere incontrava l’ostilità dei partiti tutto quel che avveniva saltando la loro mediazione e cercando direttamente il rapporto con le persone, che poi era il metodo olivettiano. Cambiarono i vertici dell’Unrra-Casas; Olivetti, che per un breve periodo ne fu il vicepresidente, si accorse che i suoi margini di intervento si riducevano e che l’ente, la cui presidenza spettava al ministro dei Lavori pubblici, mai sarebbe diventato l’organismo che lui avrebbe voluto. E si dimise. Angela Zucconi racconta nel suo libro che più il progetto Abruzzo cresceva nella stima dei vari organismi internazionali che lo sostenevano, più i risultati diventavano tangibili, più si deterioravano i rapporti con l’Unrra-Casas. Il Cepas fu poi estromesso e «l’Unrra-Casas incamerò i venticinque milioni che l’Unesco aveva assegnato al progetto», scrive. Mi fermerei ancora su queste vicende chiedendole che ricordo ha della Zucconi. L’ho conosciuta come direttrice del Cepas. Le ho voluto molto bene, siamo stati amici fino a quando è morta. Aveva una formazione internazionale, originariamente di tipo letterario, conosceva molte lingue, traduceva dal tedesco e dal danese. Per le Nuove Edizioni Ivrea di Olivetti tradusse Kierkegaard. Aveva un carattere forte. Era a tratti inaccessibile. Quaroni diceva che si metteva sempre sul chi va là. Angela era al centro di quella che ho chiamato la ragnatela olivettiana. A me che ero poco più che un ragazzo, sembrava una signora di mezza età, anche se aveva solo quarant’anni. Dominava tutti gli altri con il suo ascendente intellettuale. Io non la conoscevo e potevo appena intuire la sua storia, le vaste letture, una competenza che spaziava su diversi campi. Si presentava a noi insegnanti con le sue conoscenze relative ai problemi sociali. Capii subito quanto fossero intrecciate con il mio lavoro di architetto, e da allora non ho mai avuto dubbi a considerare Angela come la guida e l’arbitro assoluto in questa materia. ­43

E dal punto di vista più propriamente umano? Lei mi parlava di un carattere forte... Ero affascinato dal suo comportamento, che mi è sempre parso diverso da quello di quasi tutte le intellettuali che ho conosciuto. Non aderiva per niente ai modelli maschili, e per molti aspetti era decisamente femminile. Ma la ricordo spesso in guerra con qualcuno. Al Cepas diceva che ogni discussione serviva a fare meglio. Angela ripeteva, riprendendo le parole di Guido Calogero, che dovevamo ispirarci «al principio del dialogo». Il suo metodo consisteva nell’istruire gli allievi a mettere il massimo impegno nelle operazioni di assistenza sociale, ma mantenendo un certo distacco dagli ambienti in cui si interveniva, senza identificarsi con essi. Su questo aspetto era molto marcato il dissenso nei confronti di un’altra scuola, quella di Danilo Dolci a Partinico, in Sicilia. Noi dovevamo conservare una spiccata oggettività, che era uno degli attributi fondamentali perché l’intervento riuscisse e perché poi le popolazioni interessate camminassero con le loro gambe. Non doveva esserci partecipazione di tipo affettivo. Angela era molto tenace nel difendere le proprie idee e lo fece con fermezza anche dentro il Cepas tutte le volte che si imbatteva nelle persone legate a Dolci. Dopo la morte di Olivetti, nel febbraio del 1960, cambiarono molte cose. Sì. Il Cepas perse ogni indipendenza. Venne prima cinto d’assedio, finché fu omologato nel gran calderone dell’università. Dopo tanti anni non vale la pena di ricordare i piccoli calcoli che hanno mosso questa vicenda, e che purtroppo hanno coinciso con la stagione di centro-sinistra. Invece non si devono dimenticare gli enormi sprechi culturali che ne sono derivati, in questo e in tanti altri settori. E uno degli sprechi più vistosi riguardò proprio Angela e il suo lavoro. ­44

Cosa successe ad Angela Zucconi? Dopo tutte queste vicende, Angela, che non avrebbe mai sopportato di tenere disgiunti pensiero e azione, e neanche di rifugiarsi nella scrittura (un’attività che le riusciva superbamente), ha scelto di rimpicciolire il suo impegno, andando a vivere ad Anguillara, sul lago di Bracciano, in quel territorio umbro-laziale a cui era legata da tanti ricordi familiari e personali, essendo nata a Terni. Decise anche di impegnarsi nella difesa del patrimonio artistico e naturale e di lavorare come direttrice della Biblioteca comunale. Queste sue scelte mi lasciarono perplesso, pur conoscendo la crudeltà dell’ambiente romano nel reprimere e possibilmente eliminare i talenti più singolari. Nella mia professione esistono parecchi casi: ho già fatto cenno a Mario Ridolfi, il più dotato architetto della sua generazione; parleremo poi di Pietro Barucci; ma vorrei ricordare anche Italo Insolera, dimenticato e isolato fino a scuotere il suo carattere. A lungo ho temuto che anche Angela sprecasse le sue energie in un ambiente troppo angusto. Ma dopo la sua morte ne ho capito le vere intenzioni, e gli insegnamenti che ne derivavano. Angela ha speso nell’ambientalismo una ricchezza inconsueta di preparazione culturale, e ha offerto l’esempio di una difesa del paesaggio e del territorio intelligente, paziente, persuasiva, attenta alle connessioni col progresso e alla crescita democratica del nostro paese. Lei ha conosciuto Adriano Olivetti. Che idea ha dei suoi progetti in materia di comunità e dei suoi programmi, delle sue realizzazioni urbanistiche e di architettura? L’ho conosciuto, ma non l’ho frequentato molto. Era impossibile non restare colpiti dalle sue idee sullo sviluppo comunitario, elemento essenziale per una società civile, per la sua organizzazione politica e istituzionale. Ma non sono mai stato coinvolto direttamente nelle sue iniziative di urbanistica e di architettura, come lo furono Quaroni e ­45

altri. Olivetti concepiva l’urbanistica come una disciplina essenziale per le sorti di una democrazia. La pianificazione di un territorio la interpretava in termini complessi, intrecciando dati fisici, sociali ed economici e alla luce dell’idea che il fondamento della vita pubblica fosse l’organizzazione comunitaria. Non ebbi nessuna parte nelle esperienze politiche di Olivetti, né nel movimento di Comunità né nell’avventura delle elezioni politiche del 1958, quando Olivetti candidò una propria lista e venne eletto, ma solo lui, in Parlamento. Lei lo votò? No. Chiudiamo qui questa lunga vicenda che la vede più orientato verso l’impegno sociale che non nella professione di architetto. A questo proposito le chiedo: non ha mai lavorato per l’Ina-Casa? No. Per due anni mi occupai di progettazione presso la Società generale immobiliare. Che fu tra i protagonisti della speculazione edilizia nella capitale. Lo so bene. Ma erano gli unici che davano un lavoro continuato. All’università ho iniziato a insegnare come assistente di Fasolo, professore di Storia dell’architettura. La mia situazione precaria finì solo nel 1960, quando, grazie al mio amico Carlo Chiarini, conobbi Vito Laterza, che mi propose di scrivere la Storia dell’architettura moderna. Torniamo un attimo indietro, agli anni dell’immediato dopoguerra. Lei ha raccontato che la vostra generazione, subito dopo la Liberazione, ebbe l’occasione di guardare all’Italia, ai suoi paesaggi rurali e urbani, con occhi nuovi. Può spiegare questa sensazione? ­46

Molti di noi furono portati a vedere luoghi che non avrebbero mai visto se non ci fosse stata la guerra. Scoprimmo la campagna, da dove provenivano, spesso di nascosto, i prodotti necessari a sopravvivere sotto i bombardamenti. Abbiamo esplorato l’Italia, che prima osservavamo di sfuggita, velata dai luoghi comuni della retorica fascista. Tra le tante traversie, i tanti drammi, questa scoperta dell’Italia la dobbiamo alla guerra. Ancor più lo sguardo nuovo ebbe modo di estendersi finita la guerra. Finalmente erano accessibili paesi e città per lo più ignoti a tanti di noi. L’impressione che ne ricavammo era quella di un pae­ se inedito, distrutto dalla guerra, ma intatto nei suoi paesaggi. È la stessa sensazione che si ricava rivedendo i film di Roberto Rossellini, che in Roma città aperta registrava in maniera rasserenante lo squallido paesaggio dei casamenti popolari, delle stazioni ferroviarie, degli edifici incompiuti dell’E42. E che, in Paisà, compiva un viaggio struggente fra la costa rocciosa della Sicilia orientale, i quartieri antichi di Napoli, il Corridoio Vasariano di Firenze e le paludi del Polesine. Per noi giovani architetti ebbero straordinario rilievo i reportage fotografici di Pagano, morto nel lager di Mauthausen, che tentava una ricognizione delle case rurali. Persino un commediografo egocentrico come Eduardo De Filippo si è impegnato nella raffigurazione non convenzionale di luoghi e tempi reali in Filumena Marturano. Questo sguardo nuovo, lei aggiunge, si identifica per voi giovani architetti in una forma di realismo. In che senso? Sentivamo di possedere nei confronti dei più anziani un elemento distintivo, il distacco dai miti, lo scrupolo di verificare e accettare con riserva le loro esperienze. In altri termini maturavamo la convinzione che l’architettura non dovesse nascere da altra architettura. Né per conformarsi né per contrastarla. E che invece dovesse formarsi in una realtà esterna, oggettivamente considerata. Era questo il nostro realismo. ­47

Roma e l’ambiente romano che influenze esercitavano su di voi? I punti di riferimento erano molti. Quello internazionale era Walter Gropius. Lui più di Le Corbusier, Mies van der Rohe e Aalto. Fra gli italiani Ridolfi, Albini, Michelucci e Quaroni. Ben presto ci orientammo sul Manuale dell’architetto di Ridolfi, che proponeva i particolari esecutivi della progettazione edilizia romana del tempo, e facemmo nostra la sua capacità di leggere l’architettura povera. Questo era un atteggiamento innovativo. Un edificio che mi colpì particolarmente fu il rifugio di Cervinia di Albini, architetto di spiccata raffinatezza: è una specie di trascrizione delle case rurali valdostane, con le colonne che le distanziano dal terreno per evitare che entrino i topi. A Roma dove abitava? In una casa d’affitto vicino a piazza Vescovio, sul limitare dell’espansione raggiunta dalla città in quel momento. Ho vissuto lì per una ventina d’anni. Nei primi anni Cinquanta a Roma si avviò la preparazione di un nuovo piano regolatore. Quello precedente risaliva al 1931 e, come lei stesso ricordava, era stato firmato da Marcello Piacentini. Fu la principale impresa urbanistica del tempo. Il lavoro di progettazione iniziò nel 1953 con l’istituzione di un comitato tecnico formato con prudenti dosaggi. I nomi vennero suggeriti dagli ordini professionali, dalle facoltà universitarie e dall’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica. Nei fatti si imposero le soluzioni prospettate dai principali specialisti, Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni. Il progetto consegnato nel 1957 conteneva le loro principali intuizioni: lo sbilanciamento dell’espansione di Roma verso est per spostare il baricentro della città moderna fuori del nucleo antico, e il disegno della periferia orientale arricchito ­48

da un «asse attrezzato» di viabilità e servizi terziari, pronto per fornire gli sbocchi alla rete delle future autostrade. Una soluzione molto moderna e funzionale. Certo. Ma una nuova amministrazione comunale, più spostata a destra, respinse quell’impianto e fece redigere un piano che stravolgeva ampiamente quell’impostazione. L’espansione della città fu autorizzata in tutte le direzioni. Il trionfo della crescita «a macchia d’olio», come venne definita. Esattamente. La storia del piano di Roma è un groviglio inestricabile. In quei mesi Italo Insolera, Michele Valori, Mario Manieri Elia, Manfredo Tafuri e io raccontammo la vicenda in oltre trecento pagine uscite su «Urbanistica», la rivista dell’Inu. Non possiamo in questa sede seguire tutti i passaggi. Mi soffermerò solo su una questione. Dando per acquisite le responsabilità gravissime dei proprietari fondiari, dei costruttori e delle amministrazioni comunali, va detto che noi prendemmo una cantonata colossale. Una cantonata? Che cosa vuol dire? Ci siamo completamente disinteressati dei metodi di attuazione del piano, sia amministrativi sia economici. Pensavamo che una volta che un’iniziativa fosse prevista dal piano stesso, essendo legge, fosse un obbligo e quindi dovesse realizzarsi automaticamente. Ci sentivamo molto lusingati dalla possibilità che avevano gli urbanisti nel redigere un piano: immaginare una serie di cose che diventavano legge. In realtà, proprio per questo disinteresse a come metterlo in pratica, il piano non ha funzionato per niente. Anche i nostri maestri, Luigi Piccinato in primo luogo, si sono occupati solo della forma della città, che non si è assolutamente realizzata. Roma è stata dominata dall’abusivismo. Negli anni Sessanta e Settanta la città è ­49

stata costruita in larghissima misura, fino all’80 per cento, in modo illegale. È stata per noi una terribile lezione. Di che cosa foste colpevoli? Di astrattezza? Abbiamo assimilato la lezione di Foschini e degli altri accademici, i quali adottavano le scelte formali, senza scendere mai nella pratica delle attuazioni. Quelli erano gli anni della speculazione. Noi credevamo che il rimedio all’espansione caotica delle città – lo potemmo verificare bene a Roma – fosse solo il piano regolatore. Una volta compiuto quel passo ogni cosa sarebbe derivata di conseguenza e sarebbe andata nella direzione giusta. Lo credevamo sulla scorta della lezione di Giuseppe Bottai, secondo il quale un testo scritto, il piano appunto, avendo forza di legge, era in grado di controllare e dominare tutti i fenomeni, come nelle lapidi sui monumenti della Roma antica. In realtà era quasi il contrario. Non appena se ne sono offerte le occasioni, i grandi costruttori, i grandi proprietari di aree, ma anche chi pensava di tirar su una casa per conto proprio, hanno operato al di fuori delle previsioni del piano. Quando la crescente domanda edilizia si è scontrata con un’insufficienza dell’offerta legale, si è rapidamente diffusa un’offerta illegale molto più abbondante. Questo è successo a Roma. Un’espansione abusiva di quelle dimensioni – un calcolo compiuto negli anni Ottanta stimava in 800.000 i romani che abitavano in case abusive – non ha paragoni in Europa e si ripete in scala più ridotta in molte città italiane, soprattutto al Sud. E, pur essendo al di fuori della legge, simili iniziative non sono mai diventate un reato. A Roma ci siamo resi conto di esserci affaccendati per dieci anni intorno a una parte sola del compito, quella di disegnare la forma delle cose, senza preoccuparci di come realizzarle. Alcuni, i più intelligenti, lo avevano capito. Quaroni ­50

diceva: non si può avere un’urbanistica socialista e un’esecuzione liberale. Che cosa voleva dire? Era una metafora politica. Quaroni stigmatizzava il fatto che da una parte ci fosse la tentazione di risolvere le cose dall’alto, a colpi di pronunciamenti legali, di espropri, di pianificazione rigida. Lasciando, poi, dall’altra parte, che nei fatti fosse il mercato delle aree a regolare la crescita di una città. In fondo che cos’era la proposta di riforma del regime dei suoli avanzata dal ministro democristiano Fiorentino Sullo se non la proprietà pubblica di tutte le aree fabbricabili? L’esperienza europea attestava che quella era la strada giusta da seguire. Noi non ci siamo preoccupati altrettanto degli aspetti giuridici, dei rapporti di forza economici. Il progetto Sullo era per questo impraticabile. Durante il fascismo, con Bottai ministro dell’Educazione nazionale, le cose potevano funzionare così: uno Stato autoritario emetteva un decreto di esproprio e poi seguiva un’esecuzione coercitiva. La dittatura consentì a Virgilio Testa, che fu mio professore di materie giuridiche, di avviare l’urbanizzazione pubblica dell’E42, poi diventata Eur, a Roma, senza nessuna difficoltà. Uscivano i decreti di esproprio e tutti ubbidivano. Certo, le convenienze per i proprietari erano altre e si fece leva anche su queste per costruire l’Eur. Ma in una dittatura i meccanismi sono tutti più semplici. In un regime democratico questi rapporti sono più complessi. Mi verrebbe da dire che in democrazia non si ubbidisce. Ma non è questo il punto. Il problema è come fare in modo che la legge diventi un patrimonio di tutti. Come far capire che serve a tutti e che alla sua realizzazione devono collaborare anche coloro che ne sono oggetto. La democrazia l’abbiamo imparata così. Lei resta però convinto che la soluzione per un’espansione cor­51

retta della città sia quella per cui il Comune acquisisce le aree soggette a trasformazione cedendo successivamente il diritto di superficie, cioè la sola possibilità di costruire, ai privati? In tutto il mondo il sistema dell’urbanizzazione pubblica, da lei descritto, non soppiantava il sistema tradizionale, ma in alcuni paesi veniva sperimentato su larga scala per realizzare grandi insediamenti unitari. I quartieri satelliti delle capitali scandinave, per esempio, sono realizzati così: sono quartieri che ospitano dai 15.000 ai 30.000 abitanti e, raggruppati in complessi, arrivano anche a 60.000 abitanti. In Francia i grands ensembles degli anni Sessanta vanno da 30.000 a 100.000 abitanti e successivamente le villes nouvelles potevano arrivare anche a 450.000. La stessa procedura vale per le new towns inglesi, iniziate già nel dopoguerra, che hanno una popolazione complessiva fra i 50.000 e i 100.000 abitanti, mentre quelle più recenti ne contano da 250.000 a 430.000. In Inghilterra hanno insediato cinque milioni di persone senza spendere neanche una sterlina. E un indirizzo analogo hanno seguito gli ampliamenti di grandi città come Amsterdam e Rotterdam. In Italia perché non si è proceduto in questo modo? Per molti motivi, che riguardano i rapporti fra la politica e l’economia, investono la struttura della nostra economia e della nostra democrazia. Ne parleremo più volte nel corso di questa conversazione. Torniamo per un attimo alla vicenda dell’Ina-Casa. In quella circostanza si cercò di incrementare e qualificare l’edilizia pubblica e popolare, ma la diffusione troppo capillare degli interventi e il fatto che si preferissero tecniche costruttive tradizionali, che si rinunciasse a costituire un ufficio di progettazione interno e che si affidassero gli incarichi a professionisti esterni, hanno impedito che l’intervento pubblico costituisse una vera alternativa al sistema dell’urbanizzazione privata e speculativa. Sono stati costruiti anche grandi quartieri, fino a ­52

10.000 abitanti, ma buona parte dell’iniziativa si è inserita con coerenza nell’urbanizzazione selvaggia delle periferie italiane che si sviluppava nello stesso periodo. Solo alcuni interventi – l’unità d’abitazione orizzontale al Tuscolano a Roma, i quartieri Bernabò-Brea e Forte Quezzi a Genova – rappresentano una reale alternativa ai sistemi prevalenti nelle città italiane. Ma anche questi si riducono a frammenti isolati in una periferia eterogenea, che oltretutto ne impedisce il buon funzionamento. Il suo è un giudizio molto negativo di quell’esperienza di edilizia pubblica. L’esperimento non ha raggiunto i suoi obiettivi. Numerosi interventi Ina-Casa hanno consentito la realizzazione di infrastrutture – strade, allacciamenti e altro ancora – che hanno favorito i proprietari dei terreni da esse attraversate, valorizzandoli e favorendo ulteriori operazioni speculative. Il principio politico osservato fin dall’immediato dopoguerra nell’urbanistica italiana resta il compromesso fra amministrazioni comunali e possessori dei suoli, al quale si subordina l’intervento pubblico. La rendita fondiaria non è stata intaccata dall’Ina-Casa, che quasi sempre ha comperato i terreni a prezzi di mercato e quando ha ottenuto di risparmiare, perché acquistava fuori città, ha comunque fatto un favore ai proprietari valorizzando i suoli circostanti. Uno degli effetti di queste politiche, quello che più interessava milioni di cittadini, è stato che i prezzi delle case non sono stati affatto calmierati. Ma, allontanandoci dall’esperienza dell’Ina-Casa, lei individua responsabilità nella disastrosa crescita delle città italiane anche nel fronte che si opponeva alla speculazione? Un aspetto di quelle responsabilità lo possiamo individuare proseguendo nel ragionamento che avevo intrapreso: noi abbiamo subito pensato a trovare le soluzioni più com­53

plete, perché eravamo disabituati al metodo del confronto democratico. Finché questa strategia è stata coltivata dalla politica nazionale i risultati prodotti sono stati appunto modesti. Quando poi dal piano nazionale si è passati alle amministrazioni locali, la lezione tratta dal fallimento dell’esperimento romano è servita. E così in molte città emiliane, lombarde e di altre regioni, quella pratica è stata adottata largamente e con successo. Se posso, aggiungerei un dettaglio apparentemente poco significativo: una delle caratteristiche di molte amministrazioni in cui si fece buona urbanistica fu la presenza in esse di avvocati e di giuristi, che nella loro disciplina mettevano una forte tensione civile.

4.

L’università

Nel precedente capitolo abbiamo ragionato sulla sua formazione e sui suoi esordi come urbanista. E su come crescevano le città italiane, sulle dinamiche del loro disordinato sviluppo e su chi governava queste dinamiche. Prima di procedere le chiederei qualcosa sulla sua attività non di urbanista ma di critico, di attivista. E poi di insegnante. Fu un periodo, come lei stesso ha ricordato, di grandi discussioni sull’urbanistica e l’architettura. Ho lavorato per buona parte di quegli anni Cinquanta nella sezione romana di Italia Nostra, nata nel 1955. E della sezione romana sono stato per un certo periodo presidente. Era un ambiente molto vivace, a tratti litigiosissimo: ricordo i battibecchi frequenti di cui erano protagoniste alcune delle figure di maggior spicco dell’associazione, come Desideria Pasolini dall’Onda ed Elena Croce, entrambe fra le fondatrici di Italia Nostra insieme a Umberto Zanotti-Bianco, Giorgio Bassani e altri ancora. Ma, al di là di questo, la sezione romana fu protagonista di battaglie molto coerenti in difesa del patrimonio storico-artistico e del centro antico della città. Ancora prima che nascesse Italia Nostra fu condotta la campagna contro lo sventramento di via Vittoria, una battaglia che vincemmo grazie soprattutto ad Antonio Cederna, che scoprì quel terribile progetto e lo denunciò sulle pagine de «Il Mondo» con ­55

un articolo intitolato I vandali in casa – come poi l’editore Laterza avrebbe chiamato la raccolta di gran parte degli scritti di Cederna sul settimanale di Mario Pannunzio. Era il 1951. Si riuscì a mobilitare un gran numero di intellettuali, che andavano, come si disse allora, dalla A di Corrado Alvaro alla Z di Cesare Zavattini e Bruno Zevi, e a far loro sottoscrivere un appello. Il progetto prevedeva la devastazione di tutta la zona compresa fra il Pincio e piazza Augusto Imperatore. Era un’idea di Piacentini. Sì, che ne riprendeva un’altra già prevista nel suo piano regolatore del 1931. In pratica dal gomito di via Veneto di fronte all’ambasciata americana, dove c’è l’hotel Majestic, si sarebbe aperto l’imbocco di una galleria che sarebbe passata sotto Villa Borghese e sfociata sotto Villa Medici. Da un grande piazzale che avrebbe distrutto via Margutta sarebbe poi partita una strada larga venti metri che avrebbe squarciato via del Babuino, via Vittoria, via del Corso e sarebbe finita in piazza Augusto Imperatore. Si sarebbero distrutte decine e decine di edifici e al loro posto sarebbero sorti palazzi uguali a quelli già realizzati nelle zone di sventramento fascista. La mobilitazione contro questa sciagura fu compatta. Intervenne il ministero dei Lavori pubblici e bloccò tutto. Forse quello fu l’atto di nascita del movimento a difesa del nostro patrimonio, da cui sarebbe poi scaturita anche Italia Nostra. Quali erano i suoi rapporti con Antonio Cederna? Erano di grande amicizia. L’ho conosciuto poco dopo il suo arrivo a Roma, sul finire degli anni Quaranta. Tutta la stagione di Italia Nostra l’abbiamo vissuta insieme, siamo stati in stretto contatto durante la gestazione del piano regolatore della città. Finché ha scritto per «Il Mondo» ha avuto grande libertà, poi le difficoltà sono iniziate quando ha cominciato a collaborare con il «Corriere della Sera». ­56

Alcuni dei suoi interventi non erano affatto ben visti dalla proprietà del giornale. Lui era un archeologo, un intellettuale dai vastissimi interessi, un umanista, e noi lo considerammo sempre uno di noi, un urbanista ad honorem. I suoi articoli furono fondamentali, sia quando sortivano effetti positivi, sia quando, purtroppo, non ne avevano. Non va dimenticato il suo contributo alla Carta di Gubbio, che diede una sistemazione disciplinare agli interventi di restauro nei centri storici. La sua figura è scolpita nella storia dell’urbanistica. Pensando a tutto questo e al nostro rapporto, non riesco a liberarmi del rimorso per come poi si è rovinata la nostra amicizia. Racconti. Siamo molto tempo dopo le vicende romane, a metà degli anni Novanta, quando lavoravo al piano regolatore di Venezia. Entrai in contrasto con altri colleghi, come Edoardo Salzano, che era stato assessore e aveva preparato un piano per il centro storico della città, e Luigi Scano, che aveva curato le norme. Loro avevano lavorato con il sindaco Antonio Casellati, commettendo l’errore di trattare, appunto, solo il centro storico. Io fui incaricato da Massimo Cacciari, insieme a Roberto D’Agostino e allo staff dell’ufficio. Questo argomento lo riprenderemo in seguito. Che cosa successe con Cederna? Cederna era già malato. Prese posizione contro il lavoro che conducevo, schierandosi con Salzano e Scano. Ma finché la polemica rimase fra le associazioni, tutto era confinato in uno scambio anche duro. Un giorno però Cederna scrisse una lettera a Cacciari, che era il mio committente, segnalandogli tutta una serie di miei presunti sbagli. Ecco: questo gesto mi amareggiò moltissimo. Eravamo amici, non poteva rivolgersi a chi mi aveva dato un incarico senza parlare prima con me. In quel momento non mi resi conto di quanto stesse male. Non volli avere più rapporti con lui. ­57

Negli ultimi mesi di vita lui mi cercò, mi fece sapere che avrebbe avuto piacere di vedermi. Io rimasi insensibile, e ho sbagliato. Ora sento fortemente il rimorso per questo. Avrei dovuto far prevalere un sodalizio lungo cinquant’anni rispetto a quel brutto episodio veneziano. Tornando agli anni Cinquanta, è in quel periodo che si colloca anche il suo impegno nell’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica. Sì. Ancora alla fine degli anni Quaranta, insieme ad altri esponenti dell’Apao, l’Associazione per l’Architettura organica promossa da Bruno Zevi, attuammo una specie di assalto alla diligenza dell’Inu, che era una vecchia istituzione fascista. Ci iscrivemmo in massa, diventammo la maggioranza e chiamammo alla presidenza Adriano Olivetti e alla segreteria, appunto, Zevi. E da quella postazione abbiamo condotto tutte le battaglie contro la speculazione e contro il piano regolatore di Roma, per esempio. Quando comincia la sua attività universitaria? Io avevo avuto un incarico accademico molto presto, nel 1953, come docente di Storia dell’architettura. Ma subito sperimentai gli effetti della mia diffidenza nei confronti dei rapporti gerarchici all’interno del corpo docente. Non litigavo, ma facevo quello che volevo, non seguivo i consigli. Ho cominciato a prendere botte tremende. Sono stato bocciato per tre volte di seguito ai concorsi di ordinario. La prima volta nel 1960. Credo sia un caso quasi unico nell’università italiana. Può sembrare un atto di immodestia, ma devo dire che al primo concorso, che coincise con l’uscita della Storia dell’architettura moderna, mi presentai con dei titoli che, non dico i miei concorrenti, ma neanche i miei giudici possedevano. Andai a parlare con Giulio Carlo Argan, che era in commissione, e ancora ricordo quel colloquio gelido. La quarta volta, nel 1970, mi hanno ­58

incluso nella terna. Sono stato a insegnare a Palermo, poi per tre anni a Roma. Ma nel ’76 ho abbandonato l’università. Un’esperienza molto contrastata. Quando sono diventato professore di Storia dell’architettura a Roma – le cattedre di Storia erano due, la mia e quella di Bruno Zevi – la facoltà era piena di insegnanti che facevano in modo di avere meno studenti, pubblicando i loro programmi in maniera quasi clandestina, con termini molto stretti di iscrizione. Era un sistema, perverso, per reggere l’impatto con il grande numero di studenti che affluivano all’università in quegli anni. Siamo all’indomani del ’68. Lei come si comportò di fronte agli effetti dell’università di massa? Non me la sentii di adottare questi stratagemmi. E mi proposi di vedere cosa sarebbe successo se non avessi posto limiti alle iscrizioni. Mi ritrovai con tremila iscritti. E dovetti inventare un modo per fronteggiare questa emergenza. Le lezioni non ponevano problemi: dei tremila se ne presentavano al massimo trenta-quaranta. Ma gli esami sarebbero diventati un problema. Decisi di far svolgere una prova scritta, con le stesse modalità di un concorso pubblico. Ottenni per un giorno una serie di aule nella sede di piazza Fontanella Borghese, nel centro di Roma, feci consegnare fogli bollati e dettai delle domande. Questi temi – sono in totale 2.793 – li ho conservati e anche in parte pubblicati in un volumetto laterziano che si intitola La laurea dell’obbligo. Quali furono le sue considerazioni? Era per me difficile accettare che ragazzi a quel punto della loro formazione compissero tanti errori grammaticali e di sintassi, che lasciassero i periodi in sospeso, che ­59

sbagliassero platealmente nomi e date appiattendo tutta la storia in un confuso passato. Una metà di loro fu bocciata. Gli altri superarono la prova, ma complessivamente l’impressione era sconfortante. In quei temi c’era scritto «privileggio», «abbusivismo», «spazzio». Si parlava di «classi meno ambienti», si scriveva «congiura» al posto di «congiuntura». Altri collocavano nel 1848 la scoperta dell’elettricità, Lenin e Le Corbusier. Rimasi colpito dal fatto che, quasi senza eccezione, quei circa tremila temi manifestavano uno stesso indirizzo di sinistra. Ma gli argomenti addotti erano così generici da togliere ogni credito a questa collocazione. Eppure il tono del discorso rivelava un sentimento genuino, tanto più vivace quanto meno compiutamente espresso o esprimibile con le parole. I bersagli della polemica erano sempre il sistema, la politica, i padroni, il capitale. Ma dietro gli sfoghi contro queste figurazioni c’era il disagio di una condizione effettivamente insopportabile, vissuta individualmente e collettivamente nel recinto universitario: era la testimonianza della gravità della crisi universitaria. Nel ’76 lei lascia l’università. Una decisione abbastanza clamorosa, che suscitò reazioni. Lei tracciò un quadro della scuola, non solo dell’università, di desolante fallimento. Nonostante se ne parlasse molto, la scuola e l’università rimanevano un oggetto misterioso, da cui ogni tanto emergevano fatti eclatanti, le occupazioni, e poi i professori sequestrati, gli esami registrati sui verbali ma mai effettuati, oppure quelli di gruppo. Si aveva l’impressione di una dissociazione. Non so se riesco a rendere l’idea. Ma questo distacco fra i fatti e la loro registrazione negli ultimi anni della mia carriera universitaria era diventato per me un ostacolo insuperabile. L’università e tutta la scuola pubblica mi apparivano un sistema chiuso, con rapporti sempre più scarsi nei confronti degli altri settori della società e con automatismi interni sempre più marcati. Naturalmente ciò ­60

accadeva con la complicità delle forze politiche e sociali. La struttura messa in piedi era assolutamente circolare, come era dimostrato dal fatto che scuola e università crea­ vano una massa di disoccupati intellettuali e poi offrivano loro se stesse come sbocco. Per moltissimi la carriera scolastica era un tutt’uno con la carriera professionale e la scuola diventava l’orizzonte definitivo di una vita. Una più attiva circolazione fra l’insegnamento e gli altri lavori avrebbe attenuato questa impressione di un sistema chiuso, che invece era prevalente. Questa è la sua riflessione in generale sullo stato dell’università. Ma c’era qualcosa che si riferiva specificamente alla facoltà di Architettura, che a Roma fu l’epicentro della contestazione studentesca? Alcuni meccanismi dell’università di massa ad Architettura erano esasperati. Per esempio, l’aumento degli studenti nei primi anni Settanta fu, in proporzione, più cospicuo che altrove. Molti insegnanti, particolarmente i più giovani, manifestavano scontentezza, mentre i professori di ruolo erano ancora la minoranza esigua e compatta dei decenni precedenti, quella che aveva resistito con eccezionale successo ai cambiamenti del dopoguerra e che, come dicevo prima, appariva corresponsabile della gestione politica e organizzativa del boom edilizio italiano fra gli anni Cinquanta e Sessanta. C’è dunque una sovrapposizione fra i problemi dell’accademia e il disastro che avviene ancora in quegli anni nel territorio italiano. È così? Qui occorre riferirsi alla situazione a partire dai primi anni Sessanta. In quel periodo i disagi degli universitari si sommavano agli effetti del malgoverno edilizio e urbanistico, contro cui era già in atto una vibrante polemica giornalistica – basti citare gli articoli di Antonio Cederna, le inchieste dell’«Espresso» ancora sul finire degli anni ­61

Cinquanta – e alimentavano una contestazione particolarmente vigorosa e motivata. Chi arrivava nelle facoltà di Architettura all’inizio del decennio con una buona preparazione si trovava di fronte un’istituzione rigida, antiquata e che non esprimeva il meglio della cultura contemporanea. I docenti più giovani, che avevano compiuto le loro scelte al tempo della lotta contro il fascismo, erano relegati ai margini. I cattedratici più anziani erano meno informati e più ignoranti, arroccati nei privilegi accademici come se questi fossero delle forme di protezionismo culturale, che nascondevano idee e interessi tradizionali, ma anche pigrizia, sottosviluppo, incultura. A Milano gli studenti di Architettura si erano schierati contro il professor Cassi Ramelli perché, nonostante il movimento moderno avesse già una storia lunga quarant’anni, insegnava ancora a fare progetti in stile classico. La vicenda poi si complicò perché la differenza fra professori «tradizionalisti» e «moderni» prese ad assottigliarsi. Nell’anno accademico 1963-64 vennero richiamati a Roma Bruno Zevi, Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni. Franco Albini, Ernesto Nathan Rogers e Lodovico Belgiojoso ebbero incarichi a Milano. Contemporaneamente l’anziano Foschini veniva collocato a riposo non senza, a mio avviso, aver prima coordinato questa operazione, che metteva fine all’ostracismo accademico nei confronti dei moderni, fino ad allora relegati a Venezia con Samonà. Ma questo rinnovamento non intaccava il tradizionale inquadramento culturale e professionale dell’edilizia e dell’urbanistica italiane. Tenga conto che proprio nel 1963 si chiudeva, dopo quattordici anni, il piano Ina-Casa e il predominio del mercato privato su quello regolato dall’autorità pubblica appariva consolidato per il successivo ventennio. La mia impressione allora fu che i protagonisti dell’architettura moderna, immessi all’università, non fossero in grado di portare proposte alternative sul ruolo dell’accademia, ma solo una variante ideologica che fu facilmente assorbita nell’eclettismo tradizionale. ­62

Queste vicende che conseguenze ebbero? L’oggettiva concordanza fra professori moderni e non moderni, per dirla sinteticamente, venne avvertita negativamente dagli studenti, che intensificarono la protesta – siamo negli anni 1965-67. Presa di mira era adesso tutta l’istituzione universitaria, con le sue formalità e i suoi meccanismi. Nelle facoltà di Architettura vigeva un ordine di studi anacronistico, palesemente legato al modello di gestione tradizionale della città e del territorio, il quale resisteva con successo ai tentativi di riforma, appunto per l’uniformità dei comportamenti economici, amministrativi e professionali, riprodotti e resi omogenei dalla continuità universitaria. Il disagio degli studenti era collegato a questa situazione. La sistematicità degli studi pareva promettere al futuro architetto un ruolo determinante, ma nella realtà si prospettava per lui una funzione subalterna al malgoverno edilizio e urbanistico. Possiamo provare a tirare le fila di un bilancio di quella stagione? Per l’esperienza che ne ho avuto, la parte più importante della contestazione è quella compresa fra il 1962 e il 1965. Poi l’università ha adottato le contromosse, e ha reagito cercando di assorbire la protesta. E così dal ’68 il movimento studentesco perse molto del suo spazio operativo. E anche i contributi teorici si diluirono, si stemperarono in analisi generali sul sistema sociale che cominciavano a rivelare sfiducia e incipiente disimpegno. Gli slogan del maggio francese – «l’immaginazione al potere», «siate rea­ listi chiedete l’impossibile» – mi pare che esprimessero già la certezza della sconfitta, una specie di ripiegamento estetizzante in una frase a effetto. Quindi l’allargamento d’orizzonte, secondo lei, rese più evanescente la protesta? ­63

I riferimenti internazionali – la Cina, il Vietnam, la Grecia, più tardi il Cile – mi pare abbiano facilitato la confusione e lo scambio fra vari orizzonti e al tempo stesso offerto una facile via di evasione dai problemi specifici. In questa fase la rivolta studentesca divenne una moda, invase libri e riviste. Ma questa diffusione finì per disintegrare il nucleo genuino delle esperienze iniziali. Gli stessi studenti ricevettero di rimbalzo questa versione banalizzata e se la portarono dietro senza convinzione, trovando scarse corrispondenze fra i nuovi disagi e le vecchie forme espressive. Lei venne contestato dai suoi studenti? Sì, poco prima delle mie dimissioni, quindi a metà degli anni Settanta. Furono messi sotto accusa i miei metodi, le prove scritte. Feci di tutto per spiegare che servivano per tenere alta la formazione professionale degli architetti e per evitare che la laurea si traducesse in un supporto della tradizionale, rovinosa gestione del territorio italiano. Io ho sempre seguito le contestazioni studentesche e collaborato con esse, ma non sopportavo le frasi fatte e molte posizioni degli studenti erano davvero vuote di contenuti. Quindi il dissesto dell’università, delle facoltà di Architettura, era in stretto rapporto con la realtà dell’urbanistica italiana? Sì. Per dirla sinteticamente serviva a sostenere professionalmente quella gestione del territorio fondata sulla prevalenza dell’edilizia costruita su terreni privati, in cui la rendita, cioè il guadagno derivante dalla compravendita dei terreni e dalle decisioni che l’amministrazione pubblica prende a proposito di quei terreni, dichiarandoli edificabili, prevale sull’utile imprenditoriale; quella gestione fondata su limitati programmi di edilizia pubblica che offrono una quota di case popolari insufficiente per soddisfare i bisogni; e fondata, ancora, su opere pubbliche concepite ­64

indipendentemente dai piani di coordinamento territoriale. Ecco, le scelte politiche di governo del territorio erano connesse a questa impostazione. Per coltivare la rendita occorreva uno sviluppo a oltranza dei nuovi insediamenti e la decadenza di quelli esistenti. Come realizzare tutto questo? Era necessario che la maggior parte degli specialisti scegliesse la libera professione, fosse cioè disponibile individualmente per i compiti di progettazione e di esecuzione, senza avere la possibilità di discutere i ruoli richiesti e coltivando invece l’aspirazione a una libertà personale di ordine superiore, artistico. Contemporaneamente era indispensabile che gli uffici pubblici rimanessero piccoli e sguarniti e non prendessero in mano la gestione del territorio. Tirando le somme, si può dire che le facoltà di Architettura e l’Ordine degli architetti promossero questo modello sfornando esperti generici che erano la copia grottesca – perché impreparati e perché troppi – del libero professionista di una volta.

5.

Anni Sessanta, anni Settanta

A questo punto torniamo all’esperienza urbanistica, e in particolare a un tema accennato precedentemente. Dopo quello che lei definisce il fallimento del piano regolatore romano e dopo che viene ritirato il progetto di riforma di Sullo, l’urbanistica italiana prende a muoversi su un’altra scala. Da quella nazionale a quella delle città, in particolare le città del Nord. Le chiederei di raccontare brevemente questo passaggio. L’occasione di partenza è una legge nazionale, la 167, varata nel 1962, che per la prima volta autorizza i Comuni ad acquistare terreni al fine di realizzare quartieri di edilizia economica e popolare. Quasi tutti i piani regolatori che si confezionavano allora, compreso quello di Roma, erano largamente sovradimensionati e immaginavano espansioni edilizie enormi (nella capitale si prevedevano cinque milioni di abitanti: oggi si arriva a poco più di due e mezzo). Appunto per questo, i prezzi dei terreni restavano accessibili. In quelli e negli anni successivi furono approvate altre norme importanti – la legge-ponte del 1967, subito dopo la frana di Agrigento; i decreti del 1968 sui cosiddetti standard edilizi, che fissavano le quote di verde e di servizi per ogni abitante; la legge 865 del 1971, che facilitava economicamente l’esproprio dei terreni. Non possiamo in questa sede ricostruire le vicende urbanistiche dei decenni Sessanta e Settanta, rimandando ai suoi libri e a quelli di altri autori, come Se questa è una città di Vezio De ­66

Lucia (Donzelli, 2006). Ma qualche traccia possiamo seguirla, attraverso soprattutto la sua esperienza personale. Quel che si può dire, per avviare il discorso, è che in questi decenni cominciano a emergere gli effetti delle politiche urbanistiche adottate dal dopoguerra in poi. Complessivamente il territorio italiano risente fortemente di una gestione sregolata. Fra le prime conseguenze c’è la crisi degli alloggi, nonostante la produzione edilizia dal dopoguerra in poi. Se si guarda alle cifre si può osservare come il numero delle case sia raddoppiato e sia stato capovolto il rapporto tradizionale fra le stanze e gli abitanti. Vogliamo vederle queste cifre? Il censimento del 1971 calcolava che in Italia esistevano 63 milioni di stanze e 54 milioni di abitanti: 10 milioni di stanze in più rispetto agli abitanti, mentre nel 1951 se ne contavano 10 in meno. Nel solo periodo fra il 1955 e il 1964 se ne sono costruiti 19 milioni, mentre il cosiddetto «schema Vanoni», dal nome del ministro delle Finanze che aveva messo a punto un piano «per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito», ne prevedeva 13 milioni. In nessun altro pae­se del mondo, credo, si è investito così tanto nell’edilizia come in Italia. E in nessun altro paese l’edilizia ha avuto il ruolo economico e politico che ha assunto in Italia. E, nonostante questa produzione crescente, la crisi degli alloggi persisteva? Persisteva e per certi aspetti si aggravava. Quasi un quarto di questo immenso patrimonio edilizio era inutilizzato oppure sottoutilizzato. Le case erano inaccessibili a molti strati della popolazione italiana: agli operai, ai ceti popolari e soprattutto a coloro che emigravano nelle città del Nord dai paesi e dalle campagne del Sud. All’inizio degli anni Settanta si compiono i primi bilanci del fenomeno migratorio e la contabilità fa impressione, avvicinandosi, secondo alcune stime, ai quasi 20 milioni di persone che fra la metà ­67

degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta cambiarono residenza, con spostamenti che avvenivano prevalentemente dal Sud al Nord, dalle zone interne a quelle costiere, dai paesi alle città grandi e che interessavano in modo massiccio l’area compresa fra Milano, Torino e Genova. In Italia costruivano prevalentemente i privati su suoli privati e la logica della rendita favoriva un’utilizzazione sempre peggiore del patrimonio edilizio esistente e un aumento delle ricostruzioni e delle nuove costruzioni che produceva una distribuzione squilibrata degli abitanti negli alloggi, secondo una spirale senza fine. La domanda di una casa adeguata a un prezzo giusto diventava una rivendicazione fra le più urgenti del movimento sindacale: il 19 novembre del 1969 si svolse il primo sciopero generale su questo tema e cominciò la vertenza che condusse all’approvazione della legge sulla casa, nell’ottobre del 1971, di cui si è detto prima. Ma appare chiaro che dalla produzione corrente non si poteva aspettare la risoluzione del problema. Le stime del fabbisogno futuro, fatte all’indomani della legge e pubblicate su «Edilizia popolare» nel 1974, concordano nel prevedere che gli squilibri sarebbero cresciuti più rapidamente delle nuove case prodotte. Sicché, come spesso si è detto, più case si costruivano più case mancavano. Al dramma sociale di chi era senza casa si aggiungeva la tragedia di città costruite sempre peggio: centri storici che si svuotavano, quartieri residenziali che sorgevano in luoghi paesaggisticamente pregiati, periferie inospitali che dilagavano dove un tempo era campagna. Il dissesto delle città e del territorio italiano è stato raccontato più volte in saggi, romanzi e film. In generale posso dire che le costruzioni guidate dall’interesse della rendita fondiaria (che è una cosa diversa dal profitto d’impresa), allora come ora, tendono a sfruttare il più possibile le aree fabbricabili, anche restando nei limiti delle norme vigenti oppure, quando se ne intraveda la convenienza, oltre questi limiti, abusivamente. Questa edilizia – che serve so­68

prattutto a monetizzare gli aumenti di valore dei terreni, più cospicui dell’utile imprenditoriale – finisce per andare contro le esigenze complessive degli utenti; invade e snatura gli ambienti naturali e storici; accresce la densità, quindi la promiscuità, la congestione, il rumore dei nuovi quartieri; occupa o rende troppo costose le aree per gli usi pubblici non remunerativi. Poi obbliga i Comuni a eseguire senza contropartita i servizi primari – le strade, le fognature, gli impianti idrici, elettrici, telefonici – e ritarda o impedisce la realizzazione dei servizi secondari, le scuole, gli asili, i mercati, i campi da gioco, i giardini pubblici. Chiunque leggerà le sue parole non avrà difficoltà a veder scorrere davanti ai propri occhi il quartiere in cui vive o quello che attraversa tutti i giorni a piedi o con la macchina. Insomma saprà figurarsi l’ambiente che abita, le strade che percorre, le scuole che ha frequentato o che frequentano i suoi figli. Roma, Milano, Torino, Napoli, Palermo, Bari rispondono, quale più quale meno, a questa logica. Dopo due o tre decenni di questo «sviluppo» su larga scala, la degradazione dell’ambiente costruito diventava evidente per tutti. L’aumento delle nuove costruzioni ha fatto sparire le carenze tradizionali all’interno degli alloggi: ormai tutti o quasi tutti hanno la luce elettrica, il bagno, il riscaldamento; molti hanno i doppi servizi, i pavimenti di marmo e locali più spaziosi e più alti di quelli consueti in altri paesi del mondo. Ma queste comodità non trovano riscontro nell’ambiente esterno. Le finestre degli alloggi lussuosamente rifiniti guardano, a distanza di pochi metri, le finestre degli alloggi di fronte. Fuori dalla porta, una scala e un androne conducono in una strada anonima e uniforme, con due marciapiedi di cemento e un nastro d’asfalto ingombro di automobili in sosta o in marcia. Ma nei quartieri delle grandi città del Sud, afflitti dall’abusivismo, le strade sono spesso senza pavimentazione e non sono illuminate, le fognature non esisto­69

no, gli allacciamenti dell’acqua, dell’elettricità e del telefono sono concessi in ritardo, dopo le sanatorie. Le condizioni dell’abitare che lei descrive disegnano lo squilibrio fra spazi privati e spazi pubblici che pare una costante nella storia d’Italia e che investe molti altri campi, anche oltre l’assetto urbano. Insieme agli spazi privatissimi dell’abitazione si privilegiano i negozi, forse i cinema, ma le scuole sono insufficienti, i campi sportivi e le palestre mancano, i bambini e gli anziani non hanno un posto dove giocare o dove passeggiare. Il traffico di auto diventa sempre più caotico. I servizi pubblici faticano a seguire l’espansione delle città dettata da interessi speculativi. Ma in Italia accade anche qualcosa di peggio: nei casi di densità e di disordine eccessivo, l’edilizia compromette l’equilibrio del suolo e produce frane e alluvioni, a Salerno, Napoli, Agrigento, Genova. La frana di Agrigento, del luglio 1966, indusse a varare, come lei ricordava, alcune leggi di riordino in materia urbanistica. Quel disastro, che per puro caso non provocò vittime, mise in luce una gravissima situazione di supersfruttamento edilizio, in parte illegale, in parte avallata dal piano regolatore vigente. L’inchiesta ministeriale prontamente decisa dal ministro Giacomo Mancini e diretta da Michele Martuscelli, presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, è rimasta memorabile. Andrebbe continuamente riletta. Possiamo qui ricordare solo alcuni passaggi della lettera di accompagnamento? Certo. Scriveva Martuscelli: «Le prime fotografie apparse sui quotidiani dopo la frana hanno mostrato per la prima volta al paese, al mondo, il volto di una città che nulla aveva a che vedere con i passi letterari o con i ricordi di soli pochi ­70

anni addietro». Martuscelli si riferiva alle parole dedicate da Guido Piovene ad Agrigento in Viaggio in Italia (Mondadori, 1957). «Forse gli stessi autentici agrigentini, dagli abitanti dei catoi agli schivi uomini di cultura, ebbero in quell’istante un’illuminazione, che permise loro di vedere nelle reali dimensioni quel nuovo mondo mostruoso, che pezzo per pezzo si stava montando, in scala gigantesca, attorno all’antica e nobile città di Girgenti, ed alcuni pezzi del quale, forse più per imperizia degli uomini che per oscuri eventi naturali, erano tutt’a un tratto crollati. Le domande si intrecciavano alle denunce e l’angoscia assaliva: come era potuto succedere tutto questo? E non solo la frana, ma tutto il disordine edilizio che nelle fotografie dei rotocalchi, ma ancor più nella attonita visione diretta del nuovo flusso di visitatori, appariva inspiegabile». I lavori di quella commissione produssero risultati importantissimi. A livello locale, però, le denunce rifluirono in un processo che le annacquò con risultati deludenti. La commissione Martuscelli raccomandò un provvedimento nazionale che entrasse nel merito dei contenuti dei piani, prescrivendo una serie di standard da osservare in ogni caso, fissando limiti generali di edificabilità. Infatti la legge 765 del 1967, la cosiddetta «legge-ponte», e il successivo decreto ministeriale del 1968 stabilirono una classificazione delle zone costruite: i centri storici, dove vigono particolari cautele anche prima della formazione dei piani; le zone periferiche parzialmente edificate; le zone periferiche nuove; le zone industriali; le zone agricole; le zone per i servizi pubblici di quartiere e cittadini, per le quali in particolare viene prescritta una misura minima: 18 metri quadrati ad abitante per i servizi di quartiere e 15 metri quadrati ad abitante per i servizi cittadini. Quindi dal governo centrale arrivano segnali che occorre cambiare direzione di marcia, che il territorio italiano non può essere spremuto. ­71

Non tutto va nel verso giusto anche sul piano nazionale. Prima che entrassero in vigore le nuove norme venne imposta la moratoria di un anno, durante il quale si scatenò una furia distruttrice, con licenze edilizie chieste e ottenute in poche ore. Ma i piani regolatori non bastavano a migliorare l’ambiente di vita, nonostante il loro contenuto corrispondesse a quegli standard. Di fatto i piani regolatori non si traducono in realtà, né per la parte privata, né per quella pubblica. I piani sono sovradimensionati e le previsioni esagerate servono ai costruttori privati, ai quali si aprono diverse possibilità alternative fra cui scegliere quelle che più convengono loro. D’altro canto le spese per i servizi primari e secondari sono a fondo perduto e la loro contropartita è incamerata dalla rendita. Quindi si fanno in ritardo oppure non si fanno affatto. Gran parte delle previsioni rimangono sulla carta, con la conseguenza che molti terreni restano vincolati perché destinati a usi che non si realizzeranno mai. Contro questi vincoli eterni i privati si appellarono alla Corte costituzionale, che nel 1968, con una celebre e discussa sentenza, stabilì che i vincoli non possono durare in modo indeterminato. Quella sentenza provocò vivaci proteste da parte dell’Inu e di molti urbanisti, secondo i quali la Corte aveva sancito che nei fatti il possesso di un suolo dava anche diritto a edificare, un diritto che invece doveva essere concesso dall’autorità pubblica: una questione che usciva dallo specialismo giuridico. In molti casi si paralizzarono i processi di pianificazione. Ma quegli anni accelerarono e radicalizzarono due posizioni, in qualche modo opposte: da un lato quella di chi cercava con pazienza soluzioni che confermassero nel concreto, anche con rettifiche sperimentali, indirizzi più generali; dall’altro quella di chi, colto da impazienza per le difficoltà, si rifugiava in una contestazione ideologica. Per rimediare a quel pronunciamento della Corte costituzio­72

nale i vincoli vennero prorogati fino alla legge Bucalossi, approvata nel 1977, che tentò di risolvere la controversia formale trasformando la licenza edilizia in una concessione onerosa e subordinando le previsioni dei piani ai programmi di attuazione, per periodi di tempo definiti. Ma la svolta nella gestione del territorio trovò le sue motivazioni più convincenti nelle esperienze pratiche di alcune città, piuttosto che negli argomenti teorici e nelle discussioni generali. La svolta si manifestò a Bologna, a Modena, a Como e in altre città in cui si cercò di saldare il circuito fra progettazione, esecuzione, consuntivo dei risultati e progettazione rettificata, che è la condizione per rompere finalmente l’isolamento fra cultura urbanistica e vita civile. Gli abitanti di una città erano disposti ad accettare cambiamenti nelle procedure, e anche cambiamenti che turbavano interessi e abitudini vigenti, se vedevano i risultati concreti del cambiamento stesso e così si convincevano che quel risultato era possibile e desiderabile. Inoltre, mentre l’urbanistica italiana dibatteva e si divideva, venivano alla luce, proprio fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, i risultati ottenuti in altri paesi europei che da tempo avevano adottato politiche più moderne. A questo tema abbiamo già accennato, ma forse conviene tornarci. In Inghilterra lo sviluppo spontaneo di una grande città come Londra è stato arrestato nel 1939, con l’istituzione di una green belt, una cintura verde che dura tuttora e che nessuno pensa di intaccare. Le nuove città programmate nel 1946, in alternativa allo sviluppo tradizionale, sono state costruite nei trent’anni successivi e ospitano milioni di persone, con bilanci in attivo e condizioni ambientali e di vita in costante miglioramento. In Olanda il piano di Amsterdam è stato interamente realizzato e i quartieri occidentali intorno al lago Sloterplas formano un agglomerato di circa 130.000 abitanti, tutto disegnato dall’amministra­73

zione pubblica su aree libere. La colonizzazione delle terre prosciugate nello Zuiderzee è quasi terminata, con parecchie nuove città e un insieme coerente di insediamenti agricoli e industriali. Nel bosco artificiale di Amsterdam e in molti altri parchi di ogni dimensione gli alberi piantati trenta o quarant’anni fa, a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta, sono cresciuti, formando un sistema ricchissimo di ambienti ricreativi. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, dalla Francia alla Germania, comprendendo anche alcuni paesi del blocco orientale, come l’Ungheria o la Polonia, dove la pianificazione delle città evita o riduce il disordine di una crescita edilizia come quella italiana. Le occasioni vengono colte in alcune città del nostro Nord, che si allineano alle esperienze europee, cercando di sfruttare al meglio le istituzioni esistenti. Si prevede di agire in condizioni di pareggio economico; si investono quattrini nell’acquisto di aree che poi vengono rivendute a chi costruisce. È interessante notare che le appartenenze politiche di chi forma le amministrazioni interessate a questi progetti sono le più varie: democristiani, comunisti, repubblicani e anche liberali. Queste manovre urbanistiche possono comprendere anche il recupero dei tessuti edilizi antichi, avendo come obiettivo un generale riequilibrio delle città italiane medie e piccole. Quali sono i casi più significativi? Ne conosco bene alcuni, in particolare quello di Brescia, una città alla quale ho dedicato gran parte della mia esperienza di lavoro e di vita. A Bologna nel 1960 arriva come assessore Giuseppe Campos Venuti, che per prima cosa ridimensiona drasticamente le previsioni edificatorie contenute nel piano regolatore redatto da Plinio Marconi nel dopoguerra. Nel 1969 viene approvata una variante ispirata a questi criteri. Poi Modena, dove operano come sindaco Germano Bulgarelli e come assessore all’Urbanistica Maurizio Borsari, che nel 1975 fanno approvare una ­74

variante al piano regolatore. Dello stesso anno è la variante al piano di Ferrara. Ma possiamo citare anche Como, dove un sindaco molto avveduto, Antonio Spallino, commissiona un’analisi storica sul centro della città. L’indagine è coordinata da Luigi Dodi e pubblicata nel 1970. Ad essa collaborano economisti, come Giancarlo Lizzeri, e sociologi, come Guido Martinotti e Anna Pizzorno. Grande rilievo assume l’analisi storico-tipologica sul tessuto antico condotta da Gianfranco Caniggia. Sono città dell’Emilia e della Lombardia molto diverse fra loro, ma che forniscono modelli di crescita e di riorganizzazione interna molto simili. Sì. Senza scendere nei dettagli, si può dire che tutte ridimensionano l’espansione in base a calcoli sul reale fabbisogno di case. Questi calcoli sono simili e si aggirano sul 20 per cento del patrimonio edilizio esistente, diviso a metà fra edilizia pubblica (i Peep, i piani di edilizia economica e popolare previsti dalla legge 167) ed edilizia privata. Vengono vincolate le aree libere occorrenti per i servizi pubblici, di quartiere e cittadini, rispettando gli standard previsti dalle leggi nazionali. Infine nei centri storici il vincolo uniforme è sostituito da una disciplina differenziata, a seconda dei tipi edilizi. E poi c’è il caso di Brescia, che conosco direttamente... E di cui parleremo nel prossimo capitolo. Ma intanto le chiedo che lezione lei trae da queste diverse esperienze. Ripeterò cose già dette: anche senza innovazioni legislative, difficili da ottenere e che spesso restano sulla carta, ma usando correttamente gli strumenti esistenti, è possibile tradurre in realtà alcuni degli obiettivi cari a un fronte politico e culturale molto ampio, vale a dire la difesa dell’ambiente, la difesa e il restauro dei centri storici, il controllo dell’espansione delle periferie, l’abbassamento dei prezzi ­75

delle aree e il pareggio delle iniziative pubbliche. La speculazione fondiaria svuota i centri storici, ne favorisce la distruzione e sposta i residenti sempre più nelle aree periferiche, che si ingrandiscono a dismisura invadendo il territorio rurale. Tutto ciò provoca il forte aumento dei valori immobiliari nel centro storico, che alimenta continuamente questo processo. Una politica alternativa mira invece a stabilizzare gli abitanti nel territorio, tutela i nuclei centrali delle città, evita l’eccessivo consumo di suolo e mira a equilibrare interessi pubblici e privati.

6.

Brescia

A questo punto occorre soffermarsi su una delle vicende alle quali lei fa riferimento, per vederla dall’interno, per capire nei dettagli politici e tecnici come hanno funzionato queste pratiche urbanistiche. E quindi le chiederei di parlare della sua esperienza a Brescia. Qui le vicende italiane si intrecciano con quelle sue personali. Nel 1977 lei, lasciata l’università, abbandona dopo quasi trent’anni anche Roma. Una doppia scelta di vita. E si trasferisce, appunto, a Brescia. Perché? Brescia è stata principalmente un’occasione di lavoro, che aveva anche un nome e un volto, quello di Luigi Bazoli, il quale nel 1970 mi incaricò di redigere insieme agli uffici comunali una variante generale al piano regolatore. Con Luigi i rapporti si sono stretti, sono diventati anche familiari – uno dei miei figli ha sposato una sua figlia – e sono durati fino alla sua morte, avvenuta per un incidente stradale nel 1996. Abbiamo vissuto momenti di intenso lavoro, abbiamo condiviso progetti e una più complessiva visione del mondo, politica e culturale. Attraverso lui, poi, si è rovesciata anche su di me una delle tragedie che hanno afflitto l’Italia in quegli anni Settanta: sua moglie fu una delle vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia, nel 1974. All’inizio della collaborazione io insegnavo ancora e vivevo a Roma. Ma con il passare degli anni il mio impegno crebbe, finché non decisi di trasferire tutta la fa­77

miglia e cominciai a considerare Brescia l’ambiente in cui far crescere i miei figli e passare gli ultimi anni della vita. Avevo già tagliato molti anni prima, arrivando a Roma, le mie radici originarie e da allora in qualche modo ho sempre cercato di sostituirle con una scelta ragionata. Roma, naturalmente, restava la mia passione principale. Lo è tuttora. Ma è una passione non ricambiata e resa drammatica dall’impossibilità di fare alcunché per quella disgraziata città, a parte scrivere molti libri. Andai via da Roma e dall’università, quasi nello stesso periodo, per delusione. Brescia, invece, è stata una passione operativa, motivata dalle esperienze fatte. Amo questa città poco appariscente, ricca dentro i portoni e gli edifici, invece che fuori, questo cielo velato, la presenza della campagna tutt’intorno, i laghi vicini, che mi ricordano confusamente i luoghi dove sono nato. Ma amo più ancora il paesaggio umano, l’ottimismo, la prontezza nel fare, il senso di solidarietà che equilibra la spinta alle iniziative e ai guadagni individuali. Lei si sente ora bresciano? Mi sembra una scelta non solo di appartenenza geografica, ma forse più generale, comprendendo l’attrazione per il clima politico, culturale in senso largo, che si respirava nella città. È così? La mia qualità di bresciano di complemento, ancora incerto dopo oltre trent’anni dal momento in cui mi sentii pienamente accettato in questa città così restia, mi procura un misto di prevenzione e di lucidità. Le virtù e i difetti di questa città mi sembrano inseparabili fra loro. Non so bene se nella realtà o nella mia testa. E mentre amo Brescia per i pregi già detti, soffro per i suoi difetti che talvolta, come accade quando ci si sente legati, mi sembrano insopportabili. Il culto della brescianità, per esempio: lei sapeva che esiste una enciclopedia bresciana? Chissà se ne esiste una cremonese o pavese. E poi, connessa a questo, la presunzione che il mondo finisca a Mandolossa e a Rezzato. La diffidenza per il mondo di fuori. La mancanza dell’arte ­78

di conversare e anche caratteristiche meno importanti, come l’abitudine di alzar la voce nelle trattorie, un po’ come al Sud, ma con l’aggravante delle tremende vocali longobarde. Questi sentimenti positivi e negativi hanno contribuito a farmi sentire a casa. A lungo andare ho imparato ad apprezzare la parlata bresciana, con le sue ondulazioni di voce, dove l’eleganza veneta tempera in parte la pesantezza lombarda, e soprattutto la capacità di esprimere in dialetto i più complicati tecnicismi dell’officina e del cantiere. Mi tranquillizzano i santuari collocati sulla sommità di ogni collina, e quando rivedo da lontano la Madonna della Stella che sta sopra casa mia, so di essere finalmente arrivato. E poi c’è il legame con la gente, inespresso e unilaterale, ma per parte mia fortissimo, che viene dal lavoro che ho svolto, da una pianificazione urbanistica per buona parte tradotta in realtà. Senza che nessuno se ne sia compiutamente reso conto, io e le altre persone che hanno lavorato con me abbiamo influito sulla vita quotidiana di moltissima gente. Anzitutto, abbiamo eliminato centinaia di miliardi di sovrapprezzi sugli acquisti di case, che avrebbero ingrossato la rendita fondiaria. Abbiamo fermato lo sviluppo edilizio compatto sulle aree private e si è consentito alla maggior parte delle famiglie bresciane di vedere, dalle finestre di casa, non solo le finestre della casa di fronte, ma anche spazi liberi alberati e coltivati, e i paesaggi delle montagne circostanti. Inoltre l’abbondanza degli spazi liberi già acquistati ha permesso di realizzare aree e servizi pubblici inconsueti in Italia. La gente si è abituata a queste cose e non vi si sofferma, ma reagisce quando teme che vengano a mancare. È in queste occasioni che il progettista percepisce segretamente la dimensione affettiva del suo impegno, che lo ripaga di ogni sforzo. Ho lavorato, come dice Le Corbusier, per il mio fratello uomo e il poco che ho fatto sopravvive nella vita di qualcun altro, che pure non mi conosce. Insomma, coltivo l’impressione di aver avuto una piccola parte nell’allestimento di uno scenario fisico che rende meno grave la fatica del vivere ­79

insieme e ho dato qualcosa alla città da cui aspetto i benefici di una tranquilla convivenza. Veniamo alla sua attività di pianificatore della città. A Brescia c’era un’amministrazione come quelle di cui abbiamo parlato precedentemente. Quasi tutti gli assessori avevano formazione giuridica. E in particolare Bazoli, che era titolare dell’Urbanistica ed era entrato in giunta molto giovane, nel 1965. Siamo negli anni della «solidarietà nazionale», governava la Dc, ma i comunisti, pur non essendo nel governo della città, l’appoggiavano dall’esterno e sostenevano molti programmi dell’amministrazione. Si era convenuto che un comunista, per esempio, presiedesse la Commissione urbanistica comunale. Bazoli era l’esponente di un movimento di giovani Dc che si era formato anche per contrastare le scelte urbanistiche precedenti della città. Era un avvocato, titolare di uno studio fra i più importanti a Brescia, e coniugava tensione morale e attenzione a come realizzare concretamente, nel rispetto delle norme giuridiche, gli obiettivi politici. Restò in carica per tre legislature, fino al 1980. L’esperimento bresciano è uno dei più significativi nella stagione dell’urbanistica italiana negli anni Settanta. Proviamo a raccontarlo. In termini sociologici, e anche politici, il nostro lavoro è consistito nello spezzare l’alleanza fra i costruttori e i mercanti di aree e nel realizzare un’alleanza dei costruttori con gli utenti, emarginando i proprietari terrieri, i quali, privati del sodalizio con gli imprenditori edili, si sono trovati disarmati. Luigi Bazoli è stato l’artefice di questa operazione. Ha lavorato in condizioni difficilissime, osteggiato da una parte della classe dirigente cittadina. Quando ho iniziato a occuparmene, a Brescia c’era un piano regolatore che risaliva a Marcello Piacentini, l’autore dei terribili sventramenti ­80

d’epoca fascista nel centro storico della città. Quel piano era stato bocciato dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici, presieduto da Michele Martuscelli. Ma aveva comunque alimentato aspettative enormi: prevedeva un’espansione della città per circa 450.000 stanze, come se i residenti dovessero passare da 200.000 a oltre 500.000. Le previsioni che facemmo noi erano del tutto diverse e commisurate al reale fabbisogno: non più di 40.000 stanze. Lei capirà la mole di interessi che colpivamo, interessi tutti virtuali, ma enormi: ogni singolo proprietario riteneva che, grazie al vecchio piano, i suoi terreni resi fabbricabili avrebbero prodotto una ricchezza enorme, valutabile, senza esagerazione, in alcune migliaia di miliardi di vecchie lire. Con il nostro piano queste previsioni si riducevano a un decimo. Ma i proprietari di aree bresciani avevano anche loro una rappresentanza nella Dc, il partito di Bazoli? Certamente. Lo scontro infatti avvenne dentro la Democrazia cristiana. A quel tempo c’era l’obbligo che un assessore fosse anche membro del consiglio comunale. I suoi avversari cercavano di colpire Bazoli proprio su questo terreno, facendo di tutto perché al momento della composizione delle liste venisse penalizzato e non fosse eletto. A ogni elezione era la stessa storia. Per fortuna lo schieramento Dc a lui favorevole riuscì a mobilitare persino le suore di diversi conventi, il cui apporto nelle urne in alcuni casi fu decisivo. Bazoli ha resistito per quindici anni, tre legislature. Poi fu costretto a farsi da parte. Fu un periodo molto lungo. È vero. Ma era il minimo indispensabile per realizzare risultati concreti. Come ho già detto, a Brescia, al pari di Bologna, di Modena, o anche di Bergamo, si poté fare quello che non si poté fare nelle grandi città, dove un imprinting di cultura fascista continuava a essere presente nei partiti e ­81

nelle classi dirigenti, scavalcando le divisioni e contagiando persino i comunisti. Torniamo a Brescia. La giunta di Brescia era formata dalla Dc, che era vicina alla maggioranza assoluta, ed era sostenuta dal Pci. I socialisti erano in una posizione molto critica verso l’amministrazione. Un compromesso storico in miniatura. Sì, il quadro dei riferimenti nazionali era quello: Berlinguer, Moro, la terza fase. Ma nelle città medie di Lombardia ed Emilia contava molto l’interesse, comune a molti settori del Pci e della Dc, a far funzionare bene le città e a fare una buona urbanistica. Scoprivamo un possibile consenso alternativo alle rivalità politiche consolidate dal dopoguerra. Il Pci sembrava animato da un gran senso della concretezza. L’ho potuto sperimentare anche in altre città dove ho lavorato, e dove i comunisti erano maggioranza assoluta. A Modena, per esempio, il Comune possedeva più della metà di tutte le aree edificabili: e per questo i nuovi quartieri della città offrono tuttora degli standard eccellenti. Qui il Pci aveva il 60 per cento; è stato anche fondamentale l’appoggio della Dc di Ermanno Gorrieri. Noi a Brescia intravedevamo che c’era una prospettiva nazionale, ma l’elemento locale era fondamentale. Lei era iscritto alla Dc? No, non sono mai stato iscritto. Pur avendo esperienza a Brescia di una Dc completamente diversa, non mi pareva possibile prendere la tessera di un partito contro il quale avevo tuonato per i trent’anni in cui avevo vissuto a Roma. Sono passato da Franco Evangelisti e gli andreottiani a Bazoli, tuttavia non ho mai pensato di iscrivermi. Mi sono sempre mosso in un ambiente interpartitico. ­82

Lei però, dal punto di vista politico e culturale, appartiene al filone cattolico-democratico. Sì. A Brescia fondammo un movimento, la Lega democratica, interno alla Dc, ma orientato alla collaborazione, in particolare con il Pci, per superare le divisioni modellate su quelle che allora caratterizzavano la scena internazionale. Facevamo riferimento a Nino Andreatta, ma anche a Benigno Zaccagnini, che allora era il segretario del partito. Devo però dire che, a livello nazionale, solo alcuni nella Dc avevano capito che cosa facevamo. L’urbanistica restava un oggetto misterioso. Forse andava meglio con il mondo cattolico in generale e con i vertici ecclesiastici? Giovan Battista Montini era nato a Concesio, nelle campagne bresciane, figlio di un avvocato che al momento della nascita del futuro Paolo VI, nel 1897, dirigeva un quotidiano, «Il cittadino di Brescia». Il fratello maggiore di Giovan Battista, Ludovico, anche lui avvocato, poi deputato e senatore democristiano, era il socio di studio del padre di Luigi Bazoli. Anche i Bazoli erano un’importante famiglia bresciana, impegnata in politica fin dall’inizio del Novecento: il nonno di Luigi – che si chiamava anche lui Luigi Bazoli – fu tra i fondatori del Partito popolare nel 1919, e il padre fu deputato all’Assemblea costituente. Quel nucleo di intellettuali e professionisti era stato il nerbo dell’opposizione al fascismo, che a Brescia era patrimonio del mondo cattolico. Erano legati a don Primo Mazzolari. Ma per definire il quadro del cattolicesimo bresciano va ricordata la figura di padre Ottorino Marcolini, un sacerdote laureato in Ingegneria e Matematica, amico di Montini, che dopo la guerra e la deportazione in Germania avviò un grande piano per il lavoro e per la casa, che lo portò a fondare prima una cooperativa di muratori e poi a ideare un’altra cooperativa – La Famiglia, si chiamava – per realizzare villaggi di case popolari. ­83

Fu un’esperienza di grande rilievo nella Brescia di quegli anni. I primi villaggi nacquero nella zona ovest della città. Il primo in assoluto fu quello in una località chiamata Violino: 252 appartamenti con chiesa, scuola materna e scuola elementare. Padre Marcolini riuscì a mobilitare varie forze culturali, sociali ed economiche. Alla sua morte, nel 1978, 25 anni dopo la costruzione del primo alloggio, il centro studi La Famiglia stava realizzando 473 appartamenti in 30 cantieri diversi. Dal 1953 al 1987 gli alloggi marcoliniani furono oltre 6.500, assicurando l’abitazione a circa 25.000 bresciani. Le sue competenze tecniche, il suo realismo, le sue doti di organizzatore mi sono sempre apparsi come uno strumento per moltiplicare in scala industriale un antico servizio per il prossimo: la traduzione moderna di una delle opere di misericordia, che poi è anche una definizione al tempo stesso semplice e impegnativa della parola «architettura», che spesso adoperiamo in contesti tanto diversi e tanto più astratti. La scena fisica in cui si svolge la vita è certamente meno della vita, ma altrettanto certamente è uno dei fattori della vita, intrecciato ad altri in un tessuto di dipendenze che hanno aspetti prevedibili e altri imprevedibili. Chi lavora a preparare questa scena non può illudersi di dirigere la vita degli altri, ma deve valutare la responsabilità di questo apporto parziale e vivere il suo lavoro come la componente di una prestazione moralmente molto impegnativa, che l’insegnamento cristiano mette in parallelo con il rapporto verso Dio. D’altronde non dice il Vangelo: «Quello che avete fatto al più piccolo dei fratelli, lo avete fatto a me»? Ho sempre pensato che la complicazione dei mezzi tecnici ci fa dimenticare questa realtà elementare, che invece padre Marcolini aveva perfettamente chiara e che esprimeva nel modo in cui amava il prossimo, adoperando i meccanismi del credito oppure orientandosi con competenza in un cantiere, e anche usando questi strumenti come il mantello o il bicchier d’acqua della tradizione evangelica. ­84

Lei lo ha conosciuto personalmente, lo ha frequentato? Quando sono arrivato a Brescia ha voluto accompagnarmi nei suoi cantieri. Io gli domandavo dettagli, volevo avere chiarimenti su aspetti specifici. Ma lui riportava sempre il discorso ai suoi muratori e a chi abitava nelle sue case. In ognuno dei suoi quartieri mi portava a visitare una famiglia diversa e dovunque ci veniva offerto un bicchiere di vino. L’impressione che mi è rimasta si riferisce ai rapporti umani, più che alle strade o alle case. Entrambe queste cose potevano essere migliorate, ma sempre che si mirasse a soddisfare la relazione fra le persone, non gli architetti o i funzionari pubblici. A distanza di tanti anni devo riconoscere che, pur con difetti, quei villaggi restano una sfida pungente. Quando stavamo per realizzare il quartiere di San Polo, di cui credo che parleremo fra un po’, facemmo venire dei tecnici francesi, i quali hanno girato a fondo la periferia della città, ma niente li colpì come i tipi edilizi e la socialità dei villaggi di padre Marcolini. Nel nostro mestiere non si tratta di preferire modelli più o meno aggiornati, o di contrapporre in astratto modelli ad altri modelli, ma di progettare, partendo da un interesse primario per la vita umana, un ambiente civile e integrato, adatto alle necessità dell’individuo, della famiglia e della società. L’interesse di padre Marcolini a costruire case per chi non ne aveva partiva da questa lezione, che per i credenti ha un fondamento nel Vangelo. D’altronde la sua esperienza lo ha sempre accostato, ai miei occhi, a don Lorenzo Milani, che faceva scuola su una montagna a poche decine di ragazzi, e che lasciò scritto nel suo testamento: «Ho voluto bene a voi più che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e scriva tutto sul suo conto». Torniamo al suo lavoro di pianificatore a Brescia. Tutto iniziò quando conobbi Luigi Bazoli nel 1962. Ci incontrammo a un convegno sui temi dell’urbanistica promosso dall’Università Cattolica... ­85

Mi scusi se la interrompo. Nel 1962 era in discussione il progetto del ministro Fiorentino Sullo per riformare il regime dei suoli, che prevedeva la possibilità d’esproprio per tutte le aree soggette a trasformazione, sulle quali dunque si sarebbe dovuto costruire, cedendo poi ai privati, tramite un’asta, il diritto a edificare. In che rapporti era lei con Sullo, anche lui un esponente della sinistra democristiana? Nessun rapporto. Sapevo che il suo progetto non avrebbe portato da nessuna parte: non si poteva pensare di cancellare con una legge tutta la giurisprudenza, che faceva capo anche alla Corte costituzionale. La democrazia è un ambiente complesso, dove ci si deve muovere con delicatezza. Quella legge era frutto di un entusiasmo presente sia nel mondo degli urbanisti sia in quello della politica, ma non si misurava con i dati di fatto. E poi: a Roma i socialisti erano fra i principali sostenitori di quel modello urbanistico, acquisizione pubblica delle aree e cessione ai privati del diritto a costruire. Ma nelle città in cui ho lavorato, a Brescia in primo luogo, i socialisti me li sono sempre trovati contro. Dalla nostra parte c’erano invece i repubblicani, come Bruno Visentini e Pietro Bucalossi. A Brescia vi ispiraste allo stesso concetto del controllo pubblico dei terreni da urbanizzare. Ma usaste altri criteri, altre procedure. È così? Noi comperavamo i terreni nelle zone in cui ritenevamo che la città dovesse espandersi. Realizzavamo le opere pubbliche e le infrastrutture e poi rivendevamo quei terreni ai costruttori privati che avrebbero edificato. Vendevamo a un prezzo che non solo ci consentiva di ottenere il pareggio di tutta l’iniziativa, e dunque di non gravare sui bilanci comunali, ma che era, al tempo stesso, di molto inferiore a quello normalmente pagato per le aree fabbricabili private. E queste le mandavamo fuori mercato. Siamo riusciti a rendere conveniente l’operazione pubblica. Abbiamo vinto una battaglia condotta sul mercato e con le leggi di mercato. ­86

Un’operazione tutta a vantaggio del pubblico. Sì. Per mantenere in equilibrio l’operazione, nel piano regolatore abbiamo individuato due quantità identiche di terreni, una di proprietà pubblica e una privata, nelle quali sarebbe stato possibile costruire, dopo aver decurtato le gigantesche previsioni edificatorie del vecchio piano. Una quindicina d’anni dopo abbiamo fatto il conto: le aree pubbliche erano state integralmente costruite, quelle private appena per il 20 per cento. Ripeto: è stata un’operazione condotta con criteri di mercato, facendo valere il principio della concorrenza e riuscendo a ottenere che della concorrenza si avvantaggiasse il pubblico. Tutto qui. È possibile inquadrare questa iniziativa, oltre che nel contesto di un’urbanistica socialmente avanzata, in linea con le esperienze europee, anche nell’ambito del solidarismo cattolico? Indubbiamente la matrice cattolico-democratica è evidente, soprattutto in direzione di una distribuzione più equa delle risorse attraverso una politica della casa. Ma, come lei diceva, operazioni analoghe le hanno condotte i laburisti in Inghilterra, i socialdemocratici in Germania o nei paesi scandinavi. A questo punto le chiederei che tipo di città veniva formandosi seguendo tali direttrici. Il vantaggio di costruire una città con l’iniziativa pubblica consiste nella possibilità di dare al tutto un assetto unitario, di programmare gli interventi e di procedere passo dopo passo, semmai correggendo, ma avendo di vista un obiettivo. Si apre la possibilità di fare progetti architettonici coerenti con questa scala, anziché confezionati ognuno per conto proprio, in maniera caotica, lotto per lotto, casa per casa. Dunque se ne avvantaggia anche la qualità del costruito. La città che cresce così funziona meglio. Le reti ­87

di trasporto sono concepite e realizzate preventivamente e non devono rincorrere pezzi di città che si espandono per conto proprio, provocando o costi enormi per la collettività, costretta a spendere molti quattrini per realizzare reti di metropolitane, oppure traffico, congestione e inquinamento. Ma, per andare a esempi più minuti, consideri che tutti gli impianti vengono interrati sotto strisce di prato, per cui quando occorrono riparazioni non si bucano le strade. Ecco: uno sguardo unitario nell’accompagnare la crescita della città, garantito dalla mano pubblica, consente tutto questo. Il privato si occupa di sistemare al meglio la propria particella. A Brescia siete intervenuti solo nelle zone di espansione o anche nel centro storico? Nel centro storico abbiamo seguito lo stesso indirizzo che Pier Luigi Cervellati aveva intrapreso a Bologna, e che resta una pietra miliare nell’urbanistica italiana di quegli anni. Cervellati, ricordiamolo, era dal 1970 assessore all’Edilizia pubblica del capoluogo emiliano, dopo aver collaborato con Giuseppe Campos Venuti all’assessorato all’Urbanistica. Dal 1973 il Comune acquistò via via sempre più appartamenti nel centro storico, li fece restaurare seguendo i criteri dell’analisi tipologica – che individuava e riproduceva i principi costruttivi tradizionali – e li riaffidava ai vecchi inquilini. Anche noi a Brescia abbiamo acquistato una parte consistente del patrimonio edilizio del centro storico più degradato, circa ottocento alloggi. Li abbiamo restaurati grazie anche ai contributi della legge per la casa varata nel 1971, offrendo a chi ci viveva di tornare in quelle abitazioni o di andare in appartamenti abbastanza vicini, sempre di proprietà del Comune. Questa soluzione era il frutto della sapienza giuridica e amministrativa di Bazoli. Ma tutto ciò non si sarebbe potuto ottenere senza riformare l’assetto degli uffici comu­88

nali. Bazoli istituì un gruppo di lavoro che aveva in mano l’intera operazione, dall’acquisto delle case alle singole procedure per il restauro. Per l’amministrazione fu uno choc salutare, vennero fuori energie prima mortificate che resero la macchina comunale un esempio di efficienza. Le posso chiedere di soffermarci sull’argomento centri storici? Lei è stato uno dei protagonisti delle riflessioni sul valore che i nuclei antichi rivestono all’interno del complessivo organismo urbano. La vicenda bresciana, come quella bolognese, si inscrive in una svolta culturale maturata a partire dai primi anni Sessanta, con la Carta di Gubbio, che considera il centro storico nel suo complesso, nel suo tessuto viario, di edilizia anche minuta e non solo come contenitore di pregevoli monumenti. Alla svolta di cui lei parla aggiungerei la ridefinizione dell’oggetto da conservare, che non è più un insieme di manufatti fisici – monumenti e opere d’arte, tutelati in nome di un interesse specializzato, storico e artistico – ma un organismo abitato, quel che resta della città preindustriale, con la sua popolazione tradizionale, caratterizzato da una qualità che manca nella città contemporanea e che è richiesta nuovamente dalla ricerca moderna: la stabilità del rapporto fra popolazione e quadro edilizio, cioè la riconciliazione tra l’uomo e il suo ambiente, di cui ha parlato Le Corbusier, il quale riconosce nelle antiche città del Mediterraneo i valori di continuità ambientale perduti. L’organismo antico diventava un elemento della futura città moderna, un elemento contenente un’alternativa valevole per tutto il resto dell’insediamento urbano e del territorio. Non a caso Le Corbusier prende a testimone Venezia come modello della città nuova. La conservazione, dunque, come elemento della modernità. La tutela di un centro antico come uno dei prodotti della cultura moderna. ­89

Un centro storico doveva conservare molti residenti, con i loro servizi di quartiere identici a quelli previsti nelle zone nuove. Bisognava conservare la convivenza di diverse classi sociali, come nella città preindustriale. Già allora questi tre obiettivi apparivano difficili da raggiungere, perché la crescita delle città portava in un’altra direzione. Le sue sono considerazioni che si riferiscono agli anni Sessanta e Settanta, ma valgono drammaticamente anche per l’oggi. Sono d’accordo. Allora come ora bisognava selezionare quali attività, quali funzioni fossero compatibili con un tessuto edilizio antico per salvaguardare la vita dei suoi abitanti. Quindi occorreva capire quali fossero le trasformazioni edilizie coerenti, quali quelle improponibili, quanto si potesse ripristinare delle parti storiche, quanto si potesse eliminare degli interventi moderni che più avevano compromesso l’antico. A Brescia, come nel resto d’Italia, si capì che per conservare realmente la porzione di città antica occorreva intervenire simultaneamente in tutte le zone dell’edificato. Il tessuto edilizio originale doveva essere protetto e restaurato, distinguendo le tipologie degli edifici per determinare i possibili usi moderni e le operazioni ammissibili di adattamento. Ma bisognava intervenire anche nelle zone contigue e in quelle più periferiche, cercando di limitare o di arrestare la crescita urbana, indirizzando gradualmente le iniziative pubbliche e private verso il riattamento del patrimonio esistente. L’individuazione di tecniche e di competenze specifiche, sia dal punto di vista delle conoscenze sia da quello operativo, cresce in Italia, appunto, a partire dai primi anni Sessanta e diventa un tema importante anche nel dibattito politico. Il restauro architettonico, le procedure tecniche di ristrutturazione degli edifici antichi acquisite in Italia si presentavano come un modello applicabile in ogni circostanza e, secondo me, come il contributo più rilevante dell’Italia alla moderna ricerca internazionale. ­90

Un aspetto di cui, insomma, l’architettura italiana può menar vanto. Esattamente. L’esempio bolognese è seguito da noi a Brescia, poi a Modena, a Ferrara, a Como e ancora a Taranto, a Matera, a Venezia, fino ad arrivare alla prima ricostruzione, dopo il terremoto del 1980, delle antiche periferie napoletane – dove c’erano centri storici anche in periferia –, avviata da Vezio De Lucia. Questo patrimonio di saperi, di conoscenze tecniche, è stato discusso in sede europea, approvato dal Consiglio d’Europa e dall’Unesco, e poi diffuso in Francia, in Olanda, in Germania, in Inghilterra, in Polonia. Insomma è un lavoro che gli italiani sanno fare bene. Ritorna qui il tema dell’architettura moderna che sa intervenire sull’antico. Di centri storici riparleremo a proposito di Roma. Riprendiamo intanto il filo delle iniziative bresciane. La più importante è il quartiere di San Polo. Vuole raccontarla? Individuammo una vasta area, circa 300 ettari, rimasta libera fra la ferrovia e l’autostrada Milano-Venezia e molto vicina al centro della città. La nostra idea era quella di realizzare, su 150 ettari, un parco pubblico e intorno un quartiere di altri 150 ettari dove realizzare circa 20.000 stanze. Un intervento molto grande. Sì. L’area era completamente priva di infrastrutture che, una volta acquisiti i terreni, realizzammo integralmente. Questo ci ha consentito, come si dice, a futura memoria, di calcolare esattamente il costo dell’intervento pubblico e quanto si sarebbe incassato rivendendo a prezzi maggiorati gli stessi terreni, un prezzo comunque molto più basso di quelli praticati dai privati. Anche per San Polo costituimmo un unico ufficio comunale a disposizione di un collegio di assessori coordinati dal sindaco. Dieci an­91

ni dopo, quando abbiamo fatto una verifica, delle 20.000 stanze previste nelle rimanenti aree private della città ne era stata costruita solo una parte. Le 20.000 sulle aree pubbliche di San Polo erano tutte esaurite. Qual è il risultato oggi di quell’intervento? San Polo è un quartiere che funziona? Funziona bene, con alcuni grandi limiti. Il primo dei quali è che non c’è il parco. Bazoli andò via a circa metà dell’operazione e non siamo riusciti a tenere i rapporti giusti fra l’acquisto dei terreni per le case e l’acquisto dei terreni per i servizi e per il parco. Quindi negli anni Novanta nell’area del parco si è cominciato a costruire. Avevamo previsto di realizzare un ospedale e invece un ordine religioso ha edificato una clinica in un luogo che non era quello da noi previsto. Un peccato. È stata una sconfitta. Il quartiere non è costato un soldo all’amministrazione. Ma il parco, purtroppo, non c’è. Era cambiato il clima? La stagione della solidarietà nazionale era finita. L’ultima occasione era stato il lavoro di una commissione istituita da un importante parlamentare bresciano, Pietro Padula, sottosegretario ai Lavori pubblici, il quale nel 1978 chiamò Cervellati, Bazoli, Edoardo Salzano, allora assessore a Venezia, e me per scrivere nuove norme per disciplinare gli interventi nei tessuti storici delle città. Lavorammo a lungo, ma gli esiti furono deludenti. Ricordo che ci incontravamo proprio nei giorni del sequestro Moro e le nostre discussioni, nei viaggi in treno per Roma, erano attraversate dalle notizie angosciose e dalla sensazione che quel clima di collaborazione stesse per finire. Tutta l’esperienza bresciana si ferma nel 1980, quando il sindaco, Cesare Tre­92

beschi, per evitargli una clamorosa bocciatura alle elezioni amministrative, spinse Bazoli a non ricandidarsi. I proprietari delle aree avevano ripreso il controllo della Dc e dell’amministrazione pubblica. Cambiò qualcosa anche dentro il Pci? In Emilia Romagna certamente sì. Proprio mentre viene allontanato Bazoli, i comunisti rimuovono Cervellati da Bologna, Bulgarelli da Modena e Radames Costa da Ferrara, e li mandano alla Regione, dove però non hanno le stesse condizioni di lavoro e dunque dopo un po’ si fanno da parte. Perché queste scelte del Pci? Cervellati e gli altri incontravano sempre più ostacoli fra gli esponenti del Pci vicini alla Lega delle cooperative, che era una potenza economica ed era danneggiata nelle sue iniziative altrettanto quanto lo erano i proprietari fondiari di Brescia dalla politica di Bazoli. Il partito del mattone teneva insieme pezzi del Pci e della Dc, che sconfissero l’alleanza fra altri pezzi degli stessi partiti. A vederlo oggi, quel periodo di grandi fermenti mi pare quasi un miracolo: almeno abbiamo dimostrato che le cose si potevano fare e che c’era un’alternativa praticabile alla distruzione delle città. Ma l’errore del Pci fu anche un altro. Quale? È un errore commesso negli anni precedenti, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1968 che aveva giudicato illegittimi i vincoli di inedificabilità mantenuti per un tempo indefinito. L’Istituto nazionale di urbanistica, di fatto controllato da esponenti vicini al Pci, preferì lo scontro frontale contro questa decisione. Campos Venuti scrisse un libro che aveva come titolo proprio L’urbanistica incostituzionale (Marsilio, 1968). Le tre confederazioni ­93

sindacali, in un convegno unitario del 1970, invocavano ancora l’esproprio generalizzato e la separazione del diritto di edificare dal diritto di proprietà, come nel decennio precedente. Un misconoscimento così settario dei successi ottenuti in una diversa prospettiva politica ha da allora in poi spaccato in due il dibattito italiano. La sua ricostruzione aprirà un vivace dibattito, sia in sede storica sia in quella politica. Dal 1970 in poi, viene attuata la cornice amministrativa prevista dalla Costituzione: l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, distinguendo le loro competenze da quelle dello Stato. Nella Costituzione l’urbanistica è elencata – insieme alla caccia, la pesca nelle acque interne, le fiere e i mercati, le acque minerali e termali, le cave e torbiere – fra le materie locali di esclusiva competenza delle Regioni. Un’indicazione così ignorante è stata presa alla lettera. È stata abolita la direzione generale dell’Urbanistica presso il ministero dei Lavori pubblici. Lo Stato ha ristretto i suoi compiti ad alcune opere tradizionali, attribuite al Consiglio superiore dei Lavori pubblici, organo tecnico supremo al livello nazionale. Questa scelta ha avuto pesanti conseguenze. Lo Stato italiano, diversamente dagli Stati europei più progrediti, si è privato di una responsabilità globale per l’assetto del territorio e si è obbligato a circoscrivere i suoi interventi in un ambito ristretto (sicché anche il ministero dell’Ambiente, quando più tardi viene istituito, riceve un compito limitato ai valori ecologici, contrapposti a quelli tecnici). Lo Stato rinuncia anche ad emanare una legge-quadro per coordinare le nuove leggi regionali, e apre un vuoto che le Regioni stanno oggi finendo di colmare. Fra le Regioni, si muovono per prime quelle amministrate dalla sinistra, nella prospettiva di contrapporsi al governo. L’Inu, ormai schierato nel confronto politico nazionale, le coadiuva e le induce a enunciare i principi teorici generali, anziché far riferimento ai caratte­94

ri specifici del loro territorio. È nato così gradualmente un colossale garbuglio giuridico, privo di motivazioni concrete ma assurdamente meticoloso, che appesantisce il lavoro dei progettisti e degli uffici, fa dimenticare i problemi reali e soprattutto contraddice il carattere «medico», empirico, sperimentale dell’urbanistica moderna, indispensabile a cogliere l’individualità delle situazioni concrete. Il piano regolatore comunale viene abitualmente scomposto in due «documenti», uno per le intenzioni generali (piano «strutturale» o «strategico»), l’altro per le prescrizioni effettive (piano «esecutivo» o «regolamento»), assegnando all’uno o all’altro durate ed effetti diversi. Il secondo viene sincronizzato (invano ma ripetutamente) col mandato politico di cinque anni del sindaco, che già per conto suo va incontro a frequenti modificazioni. In alcune regioni anche le prescrizioni per gli insediamenti esistenti e quelle per i nuovi si collocano in documenti separati.

7.

Roma

Lei lascia Roma nel 1977 per trasferirsi a Brescia. È evidente una forte delusione per gli indirizzi che prendeva l’urbanistica romana e per l’impossibilità di vedere concretamente realizzata una serie di progetti. Eppure lei continuerà a lavorare per Roma anche successivamente. Insieme a Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, fra i primi anni Ottanta e la metà del decennio, metterà a punto un piano per l’area archeologica romana, meglio noto come «progetto Fori», un piano che avrebbe regalato alla città, nel suo centro storico, un enorme parco archeologico che avrebbe avuto significativi effetti su tutto l’assetto urbanistico di Roma. Questo piano arrivava dopo che un consistente movimento d’opinione si era battuto affinché venisse suturata la ferita inferta alla città dal fascismo, con la distruzione del colle della Velia e di un intero quartiere nel cui vuoto posticcio sarebbe sorta la via dei Fori imperiali. Fra gli esponenti di quel movimento troviamo in primo luogo Antonio Cederna, ma anche suoi colleghi come Italo Insolera e Vezio De Lucia, il soprintendente archeologico di Roma Adriano La Regina e l’archeologo Filippo Coarelli. Ma soprattutto fra i motori di quell’iniziativa c’era il sindaco di Roma, Luigi Petroselli, considerato alla sua elezione un grigio burocrate di partito e rivelatosi invece un geniale amministratore, capace di riscoprire i valori culturali che Roma esprimeva e di ricucire il tessuto sociale slabbrato di una città dalle immen­96

se e derelitte periferie. Dopo quel progetto lei continuerà a occuparsi di Roma con altre iniziative, praticamente fino a oggi, alle più recenti vicende dell’urbanistica romana. Ma cominciamo con i Fori. A Roma abbiamo un’immensa fortuna: una delle zone archeologiche più grandi e pregiate del mondo è collocata esattamente nel centro della città moderna. Un’area viva, che fa parte del tessuto più vitale della città e che contemporaneamente documenta la sua continuità storica, che procede ininterrotta da secoli. Del tutto diverso, per esempio, è il caso di Atene. Nonostante il Partenone, l’agorà, l’areo­ pago, la capitale greca per mille anni è stata un sobborgo turco di scarsa importanza, con l’area archeologica sepolta e di fatto dimenticata. Se ripenso alle tensioni intellettuali e politiche di allora, oggi che quella vicenda pare definitivamente chiusa, vengo colto da un sentimento di sconcerto e di rabbia per il modo in cui in Italia, e a Roma, siamo incapaci di cogliere tutte le opportunità che una situazione del genere offre. La zona archeologica di Roma, sia quella di età repubblicana che di età imperiale, è come Trafalgar Square o Westminster Abbey per Londra – inserita perfettamente nel cuore urbano. È un grande tema di architettura che tentammo di recuperare, Vittorio Gregotti e io, facendo leva sia sugli aspetti della tutela archeologica sia su quelli più prettamente urbanistici. Ma purtroppo il nostro progetto è rimasto inattuato. Prima rinviato, poi abbandonato, infine escluso, senza tanti clamori, dall’orizzonte della città dalle giunte di tutti i colori. L’area dei Fori poteva diventare, non solo un museo en plein air, ma un luogo di passeggio, un sublime spazio pubblico. Il funzionamento della città ne avrebbe guadagnato. Ma di tutto questo restano i due volumi con eccellenti saggi, tante mappe e bellissime fotografie pubblicati a cura della Soprintendenza. Il progetto Fori è uno snodo da molti considerato decisivo nell’urbanistica italiana. Vogliamo vederlo più da vicino? ­97

Il centro monumentale della città antica, quello dei Fori, del Colosseo e del Teatro di Marcello, del Palatino, del Circo Massimo, del Celio e del colle Oppio, si trova al limite fra la zona costruita nei secoli successivi all’età classica e il verde della campagna che sfila verso l’Appia Antica e che è, a tutti gli effetti, una campagna intra moenia. È un immenso spazio libero che si incunea nella compagine edificata fino alla sistemazione michelangiolesca del Campidoglio. Quest’area funziona come raccordo fra i due paesaggi della città, quello vivo e quello morto. Dall’Unità d’Italia e dal trasferimento della capitale a Roma ogni corretta sistemazione della città tiene conto del fatto che l’area archeologica è inglobata in un grande tessuto urbano, ma decentrata quanto basta per realizzare una specie di dualità con il centro storico più propriamente detto, quello cinquecentesco e poi barocco. Grazie all’iniziativa di Guido Baccelli e di Ruggero Bonghi, tutto il vasto settore fra il Campidoglio e Porta San Sebastiano viene acquisito dallo Stato e sottratto a ogni forma di espansione edilizia. Nasce la Passeggiata archeologica, e questa sistemazione ha gli stessi caratteri di un parco recintato e alberato come Villa Borghese. Prima di arrivare alle questioni più specificamente urbanistiche, può spiegare come coabitano una città viva e una città morta? Benissimo, se la coabitazione è adeguatamente governata. Il mito culturale di Roma si fonda su un doppio confronto. Di tipo diacronico, il primo: la magnificenza del passato si confronta con la rovina del presente. E di tipo sincronico: da una parte la dimensione urbana colossale, perduta e silenziosa, dall’altra la dimensione ordinaria, quotidiana e vissuta. Il confronto ha sempre suggerito l’idea di quanto le imprese umane avessero dei limiti. Roma, da questo punto di vista, non è la città eterna. È anzi il luogo di meditazione sull’impossibilità dell’eterno nel mondo di qua. Queste ­98

sono le riflessioni di Goethe, di Stendhal e di Mommsen; le ritroviamo persino in quel rispetto popolare per le rovine che viene colto da Giuseppe Gioachino Belli e da Trilussa. Torniamo al suo percorso cronologico. Durante il fascismo questa zona sgombra diventa, da una parte, il luogo per le celebrazioni di sé del regime, dall’altra, il varco ideale per far passare le grandi arterie di traffico che collegano il centro con i quartieri meridionali, la direzione scelta da Piacentini e dal piano regolatore del 1931 in cui doveva procedere l’espansione della città. Su questa vicenda Antonio Cederna ha scritto pagine fondamentali, raccolte in Mussolini urbanista (edito da Laterza nel 1979, ripubblicato nel 2006 dalla Corte del Fontego). È da lì che traggo le mie riflessioni. Il fascismo fece distruggere un intero quartiere del centro storico, circa 5.000 vani, e uno dei colli di Roma antica, la Velia, per aprire la via dell’Impero, oggi via dei Fori imperiali, che doveva rendere visibile il Colosseo da piazza Venezia e consentire di svolgere le parate militari. Quella strada era un obbrobrio geometrico, una linea retta tracciata con la riga solo per far marciare le truppe. I precedenti piani regolatori ottocenteschi prevedevano invece tracciati curvilinei che assecondavano le forme preesistenti. La conseguenza fu che la maggior parte dei monumenti dei Fori si trasformavano in quinte scenografiche per la propaganda fascista, ma anche le sedi per le correnti del traffico sempre più massiccio diretto a sud. Fino alla guerra questo flusso di auto private, pur in crescita (in tutta Italia si passò da 40.000 a 300.000 macchine), restava sopportabile. Più insopportabili erano gli accenti di retorica futurista accolti da Antonio Muñoz, il responsabile delle Belle Arti nel governatorato di Roma, per invocare che i motori, con la loro vita pulsante, irrompessero fra i ruderi della Roma imperiale. ­99

La distruzione della Velia fu un vero misfatto. Assolutamente. Al sommo del colle, come racconta Cederna, c’era il bellissimo giardino rinascimentale Silvestri-Rivaldi, che, pur inselvatichito, sfoggiava fontane, gradinate e criptoportici. Sotto il colle erano attestate le antiche fasi della civiltà laziale, tombe, pozzi. Poi gli avanzi di dimore che risalivano al penultimo secolo della Repubblica, le colossali fondazioni della Domus Aurea. Secondo Lorenzo Quilici, che fece una descrizione della Velia in base a documenti e fonti letterarie, per avere un’idea della devastazione occorreva immaginare che una strada sbancasse il Palatino con tutto quello che avrebbe incontrato. Tornerei sull’aspetto urbanistico. Lei accennava al problema del traffico, che allora non poteva ancora mostrarsi in tutta la sua gravità. Da un certo momento in poi, però, la questione sarebbe diventata molto più critica. Nel 1937 si decise di realizzare l’E42, che sarebbe diventato l’Eur, il quartiere per l’Esposizione universale progettato a sud, perseguendo l’obiettivo mussoliniano di spingere Roma verso il mare. Gli attacchi viari fra il centro storico di Roma e l’Eur si collegavano alla Passeggiata archeologica, che si trasformava in una via di traffico fondamentale. La drammaticità della situazione emerse nei decenni successivi alla guerra, con la popolazione che negli anni Settanta sarebbe triplicata, il numero degli alloggi sestuplicato, interessando in buona parte proprio le aree intorno ai collegamenti fra il centro e l’Eur, dove si sarebbe scatenata la speculazione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta. Le macchine, cresciute di trenta volte, avvolgevano i monumenti trattandoli alla stregua di spartitraffico. Insomma: nella seconda metà del Novecento l’area archeo­logica è in relazione non più solo con il centro storico, ma con l’immensa periferia che va costruendosi intorno. Questa situazione diventerà esplosiva nel 1978, quando La Regina ­100

denunciò la corrosione dei marmi a causa dei gas di scarico. Fu istituita una commissione presieduta dallo storico dell’arte Cesare Gnudi e il sindaco Giulio Carlo Argan dichiarò: «O i monumenti o le automobili». Riprese quindi vigore un’idea che avevo formulato già all’inizio degli anni Settanta, in un libro che si intitolava Roma da ieri a domani (Laterza, 1971). L’idea era di eliminare la via dei Fori imperiali e altre strade che attraversavano quei 250 ettari di zona archeologica. Qualcosa era stato già realizzato da Petroselli. Il sindaco, da poco insediato, fece demolire la via che nel Foro romano divideva il Campidoglio dal Foro repubblicano, e ricompose l’area fra il Colosseo e l’Arco di Costantino. La cultura al centro dell’immagine che Roma offre di sé: questo era il senso dell’operazione. La cultura che diventa il punto gerarchicamente predominante e intorno al quale si fanno ruotare le altre funzioni della città – una città che bandisce il criterio dell’espansione speculativa, che aspira a funzionare meglio e che crea un enorme spazio pubblico fatto di verde e di arte in grado di interrompere la pressione del cemento. Abbiamo ricordato il ruolo svolto da Petroselli, il sindaco di Roma che però muore all’improvviso, nell’ottobre del 1981. Il progetto redatto da lei e Gregotti viene pubblicato nel 1985. Vogliamo ricordarne i punti principali? In primo luogo proponevamo di eliminare le strade di traffico pesante introdotte nell’area nei cinquant’anni precedenti: via dei Fori imperiali, via del Teatro di Marcello, via di San Gregorio, via dei Cerchi, via delle Terme di Caracalla. Il progetto rispondeva anche a un’altra esigenza: evitare che lo stradone dei Fori imperiali immettesse migliaia di macchine in piazza Venezia, indirizzandole verso via del Corso. Si sarebbero poi condotti gli scavi archeologici intorno al Colosseo e in altre zone, verso il Foro di Nerva, in modo da mettere in comunicazione il Foro romano con quelli imperiali. Pensammo a un riassetto complessivo di ­101

tutta la rete stradale che rendesse possibili le soppressioni. Ci ponemmo anche i problemi connessi con tutto questo e immaginammo una revisione del piano regolatore della città, in relazione agli insediamenti residenziali, a quelli degli uffici, ecc. E inoltre c’era il riordino dell’intero paesaggio compreso fra le Mura Aureliane e piazza Venezia, paesaggio di verde e di eccezionali valori archeologici, che doveva diventare in gran parte solo pedonale, e in minima parte aperto al traffico delle macchine, come Villa Borghese, che ha un ruolo analogo all’altra estremità del centro storico di Roma. Fra le altre realizzazioni, proponevamo di ricostituire il colle della Velia, sistemando al suo interno un grande museo. Un’impresa imponente, che avrebbe dato un volto diverso a tutta la città. E che invece è rimasta sulla carta. Ci siamo imbattuti in primo luogo in un conflitto fra le due soprintendenze archeologiche romane: quella statale, guidata da La Regina, che è stato uno dei promotori dell’intero progetto, e quella comunale, affidata a Eugenio La Rocca, il quale era contrario. Poi trovammo di fronte a noi uno sbarramento di tipo culturale. Qualcuno sosteneva che in quell’area tutto fosse storico, comprese le strade novecentesche, compresa la via dei Fori imperiali voluta dal fascismo. C’è il Colosseo, dicevano, e ci sono le sistemazioni di Antonio Muñoz. Tutte le epoche hanno la loro dignità. Tutto è uguale, tutto va ugualmente tutelato. La prima differenza fra noi e loro era che Gregotti e io eravamo due professionisti indipendenti, gli altri erano tutti insediati nelle amministrazioni, nei partiti. Non voglio fare polemiche a distanza di tanti anni. Ma il primo che si scagliò contro il progetto fu un mio bravo allievo e assistente, Mario Manieri Elia. Poi con argomenti diversi intervennero contro lo smantellamento di via dei Fori imperiali illustri storici dell’arte come Giuliano Briganti, Federico Zeri, Cesare Brandi. Ricordo anche il latinista Luca Canali. ­102

Lei cosa risponde a queste obiezioni? Rispondo che i valori non sono sullo stesso piano. Altrimenti si conserva tutto o, viceversa, si demolisce tutto. Occorre il discernimento di un progetto, che invece ripristini l’evidenza di quel che è successo, eliminando quello che si ritiene improprio, come, appunto, le ridicole sistemazioni di Muñoz, con le colonnine e le scalinatine posticce. La Basilica di Massenzio non aveva un retro. Un retro invece è stato realizzato truccando il rovescio di una muratura di sostegno. Così ora, chi passa da via dei Fori imperiali vede un rudere che non è un rudere. Gli intellettuali italiani, a differenza dei loro colleghi che nel 1953 si mobilitarono contro lo sventramento di via Vittoria, denunciato su «Il Mondo» da Cederna, e sottoscrissero un appello fermando quel terribile scempio, nel caso dei Fori restarono zitti. La storia può diventare un elastico che ognuno tira come vuole. L’urbanistica, come l’architettura, si fonda sempre su una valutazione complessiva dei valori. Invece dire che tutto è storico, come sosteneva qualche erudito di passaggio, produce l’immobilismo, che apparentemente è innocuo, ma innocuo non è, perché non toccare niente non è innocuo. Anche la politica non crede più in questo progetto. Dopo la morte di Petroselli una commissione nominata dal Comune di Roma sposta in un futuro indefinito il progetto, sottomettendolo a una serie di condizioni burocratiche. Lo stesso successore di Petroselli, Ugo Vetere, sempre del Pci, è molto più freddo. Nel 1983 si dichiara contrario il ministro per i Beni culturali, il democristiano Nicola Vernola, smentendo i suoi predecessori Oddo Biasini e Vincenzo Scotti. Venendo a tempi più recenti, non hanno creduto a quel progetto gli eredi di Petroselli, da Francesco Rutelli a Walter Veltroni. È molto più facile governare senza grandi progetti e invece sminuzzando i fatti. Alla fine degli anni Ottanta – c’era ­103

non ricordo quale sindaco democristiano – fummo invitati a una grande manifestazione nella Sala delle Bandiere del Campidoglio. Gregotti e io illustrammo il progetto e ci furono gli interventi degli amministratori. Da parte del Comune fu un’idea geniale. Poco dopo capimmo che era una trappola: con grandi cerimonie e onori si siglava l’atto conclusivo del lavoro, che poi sarebbe stato chiuso in un cassetto. Successivamente, sia per Rutelli che per Veltroni, quel progetto è apparso come un grande impiccio: non hanno mai avuto alcun interesse a portarlo avanti. Noi pubblicammo il progetto e tutti gli studi di accompagnamento in due volumi curati dalla Soprintendenza archeologica. Di solito succede così: quando si pubblica un libro su una vicenda di pianificazione è perché questa non ha avuto nessuna attuazione. Posso dire una cosa che apparirà eccessiva? Prego. Il nostro progetto era troppo bello. Fummo vittime di una selezione al rovescio, che è tipica di certa cultura e di certa politica in Italia. Anche Gregotti ha lavorato poco in Italia, rispetto a quel che ha fatto in altri paesi. Io sono credo l’unico ordinario che sia stato bocciato per tre volte consecutive a un concorso universitario. Ma non voglio parlare solo di noi. Pietro Barucci ha dovuto chiudere lo studio, perché non gli faceva fare più niente nessuno. È stato una delle vittime della sciagurata gestione urbanistica di Roma. È stato messo al bando. Del progetto Fori non si è più parlato. No. Cederna ne fece il punto qualificante di una proposta di legge su Roma capitale nel 1989, quand’era deputato indipendente nelle liste del Pci. Ma anche quella legge restò lettera morta. Non si fa alcun cenno al progetto Fori nel nuovo piano regolatore della città, varato nel 2008. Nel ­104

frattempo la pietra tombale l’aveva messa nel 2002 l’allora soprintendente ai Beni architettonici Ruggero Martines, il quale ha posto un vincolo anche sulle strade novecentesche, su via dei Fori imperiali, sui ridicoli cippi di Muñoz. Ora è tutto vincolato e dunque non si può toccare niente. Al povero Cederna, che aveva tuonato contro quelle sciocchezze, è toccata anche la beffa: qualcuno ha voluto intitolare a suo nome l’orribile balconata che si affaccia sulla Basilica di Massenzio. Il suo racconto riporta alla memoria altre tre vicende che riguardarono Roma negli anni Settanta e si agganciano a un progetto da lei elaborato intorno al 2003-2004. Da questi tre episodi si traggono molte lezioni anche per l’oggi e forse per il domani della capitale. Mi riferisco al concorso per costruire un edificio in piazza del Parlamento accanto all’ampliamento che di Palazzo Montecitorio fece nei primi del Novecento Ernesto Basile, all’ipotesi di demolire il Palazzo di Giustizia in piazza Cavour, quello che i romani chiamano «il palazzaccio», e infine al programma di «restauro urbano», come lei lo ha definito, che interessa tutta l’area intorno alla basilica di San Pietro. Vediamoli in ordine. Nelle polemiche fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta lei intervenne ed ebbe un ruolo di primo piano. Nel 1966 la Camera dei deputati pubblicò un bando di concorso per costruire un edificio nell’area libera a nord del palazzo. Si volevano realizzare uffici per i parlamentari, la biblioteca e un parcheggio. Le esigenze erano corrette. La Camera doveva restare nel centro storico, essendo adatta alla cornice edilizia da conservare, oltre al fatto che non ci sono funzioni più indicate per la parte antica di una città che quelle politiche, rappresentative e di prestigio. Altre erano invece le attività incompatibili: gli uffici a grande affluenza di pubblico e i centri commerciali, senza parlare delle auto che raggiungono in massa questi luoghi. Ma il punto da contestare era che la Camera dovesse completare ­105

l’opera di sventramento avviata sessant’anni prima con il palazzo di Basile, e che produsse la demolizione di tutta la parte posteriore dell’edificio al quale avevano lavorato Gian Lorenzo Bernini e Carlo Fontana, oltre ad altri isolati circostanti. Fu un’operazione deprecabile quanto quella di via della Conciliazione e di piazza Augusto Imperatore. Ritornano qui argomenti che abbiamo già affrontato: l’architettura moderna aveva già da tempo messo in luce i limiti di queste ipotesi di «adeguamento» di un centro storico che davano la preminenza alle funzioni terziarie e di traffico. Basile e i suoi committenti pensavano che il Palazzo di Montecitorio fosse niente più che un numero civico che si sarebbe dovuto allargare fino alla dimensione adeguata ai bisogni. Questo era accaduto a Milano, a Roma e altrove per tutta la prima metà del Novecento, con un’intensificazione durante il fascismo. Ma, appunto, l’architettura moderna doveva trovare altre soluzioni. Tornando a piazza del Parlamento, appariva chiaro che il completamento tardivo di quella lottizzazione, oltre che urbanisticamente inattuale e dannoso al carattere del centro storico, sarebbe stato insufficiente per le necessità crescenti della Camera. E invece qual era la soluzione? Molto semplicemente, le esigenze di un moderno Parlamento coincidevano proprio con la struttura di un centro storico come quello di Roma, dove gli spazi esterni e gli edifici formano un organismo unitario. Per cui il Parlamento avrebbe dovuto occupare altri edifici, interessando un’intera zona, senza immaginare nuove costruzioni. Il problema era quello di adottare corretti criteri di risanamento conservativo, adattando alla Camera sia palazzi sia luoghi aperti, senza far perdere a questi il carattere di autenticità che deriva dalla loro storia. Un solo progetto presentato a quel concorso rispettava questi criteri, quello di Italo Insolera, che parlava di «Parlamento aperto» e che però non entrò fra i diciotto ­106

premiati ex aequo perché contestava alla radice il bando. La premiazione non servì a nulla, perché quel concorso restò lettera morta e la Camera si è di fatto ampliata negli edifici circostanti, senza un piano preordinato. L’altra polemica riguardava il palazzo di Giustizia. Sì. Il «palazzaccio» venne sgomberato nell’aprile del 1970 perché si erano aperte delle crepe e perché tutta la statica dell’edificio era a rischio. Riemergevano vecchi problemi di cui si era parlato fin dalla costruzione. Per ristrutturarlo si parlò di una spesa di 17 miliardi: e siamo nel 1970. Il primo a parlare di demolizione fu Carlo Melograni su «Rinascita». Sul settimanale comparve anche un disegno di come sarebbe diventata la piazza Cavour senza il palazzo, con i giardini affacciati sul Tevere. Quale fu la sua posizione? Sostenni l’idea di Melograni. Il danno recato da quel palazzo era evidente allora e lo è tuttora. Visto dal colle del Gianicolo il suo ingombro sovrasta tutto l’abitato del quartiere Prati, toglie qualunque risalto a Castel Sant’Angelo e copre la vista del fiume. Visto dal Tevere declassa una zona delicata del centro storico e impone dal bordo di piazza Navona uno squallido paravento umbertino; un’opera senza senso che nella piazza Cavour impedisce il giro dei marciapiedi e respinge lungo tutto un lato la circolazione dei pedoni. Levando il palazzo si sarebbe creata una grande area che avrebbe compreso anche Castel Sant’Angelo, 500 metri per 300, che in una visione d’insieme e su larga scala si connettono con la via della Conciliazione, il frutto del dissennato sventramento dei Borghi voluto da Piacentini e Spaccarelli. Resto convinto che prima o poi quella deturpazione imposta a una delle aree monumentali più importanti del mondo, l’area intorno alla basilica di San Pietro, vada eliminata. Allora Insolera scriveva che, tolto ­107

l’Auditorium, il primo degli edifici sulla destra venendo dal Tevere, tutti gli altri palazzi costruiti nell’immediato dopoguerra con materiali scadenti e con procedure già invecchiate erano in rovina. Il restauro urbano dello sventramento di via della Conciliazione avrebbe ricreato l’ambientazione berniniana di San Pietro, come descritto più avanti. Torna qui il tema affrontato prima: non tutto quel che ci consegna il passato è degno di essere conservato. Se l’architettura è anche interpretazione dei luoghi, via dei Fori imperiali e via della Conciliazione non hanno lo stesso valore del Circo Massimo o di Castel Sant’Angelo. Lei ha già introdotto il terzo dei tre punti dai quali ci eravamo mossi. Il più delicato e il più complesso. Pensando al progetto che ha elaborato viene da dire che anche un restauro o un ripristino possono avere un impatto sull’assetto di una città come e forse più di un gigantesco grattacielo. I miei studi su San Pietro sono cominciati negli anni Ottanta, quando avevo da poco lasciato Roma, ma ebbero impulso dal dibattito sorto in occasione del Giubileo e dei lavori che interessarono quell’area per via del parcheggio nelle Mura Vaticane e che di nuovo segnalavano i pericoli di una modernizzazione incurante del passato. Serviva invece una vera modernizzazione, studiando con rigore filologico quanto dell’intervento di Piacentini e Spaccarelli fosse reversibile. Quei due progettisti ebbero in sorte di intervenire in un contesto tanto più importante di loro e si mossero assecondando lo stereotipo, fintamente moderno e in voga già nel secolo precedente, di piazzare uno stradone sull’asse del monumento, distruggendo l’assetto urbanistico previsto da Gian Lorenzo Bernini. Lo sventramento è consistito nello spianamento di tutta la spina centrale del quartiere di Borgo, compreso il Palazzo dei Convertendi (Bramante e Peruzzi), quello del Governatore (Antonio da Sangallo il giovane) e la chiesa di San Giacomo a Scossacavalli. Attorno a questo vuoto, sono stati ­108

salvati alcuni edifici, come il Palazzo Torlonia e la chiesa di Santa Maria in Traspontina, ma gli altri edifici ai lati della strada sono stati distrutti – la casa di Jacopo Bresciano, attribuita a Raffaello, le quattrocentesche case Soderini, la scuola di San Lorenzo in Piscibus, il Palazzo Alicorni – e sostituiti con edifici nuovi, in certi casi battezzati con il nome di quelli abbattuti e fregiati di alcune rifiniture sottratte alle demolizioni. Per coronare questo scempio, grande cura è stata prestata alle due estremità dello stradone: verso il Tevere due edifici con colonne e fontane, e verso la basilica due avancorpi con logge e portici, contro i quali terminano gli obelischi che scorrono lungo tutta la via della Conciliazione... ...i loro basamenti ricordavano a Cederna «lo scodellino di ferro smaltato dei vecchi candelieri sui comò di campagna: manca solo il manico a riccio». Sì, quelli. Queste manomissioni, lo sconvolgimento del contrappunto fra case modeste e monumenti e del fitto gioco di rotture architettoniche sopra la base catastale dopo oltre mezzo secolo conservano i loro effetti micidiali. Non ci si può abbandonare, come per i Fori, a una rassegnazione storicista, che assegna a tutto ciò che è stato compiuto il diritto a esistere e che anzi si sforza di riconoscere pregi artistici o di testimonianza a tutto ciò che sia sufficientemente stagionato. Non è più una riflessione storica, ma metastorica, che sconfigge ogni intelligenza e ogni interpretazione. Ma c’è anche un aspetto urbanistico da segnalare: lo sventramento della porzione meridionale di Borgo distacca il complesso vaticano dal resto del centro storico romano e lo omologa al quartiere di Prati, che si costruisce a partire dai primi del Novecento, e al quale si aggancia l’espansione della città negli anni Sessanta e oltre: si accelera il consolidamento dello scenario cosiddetto «moderno» circostante. Produce una specie di décalage culturale di quella meraviglia dell’architettura. ­109

Lei motiva in maniera assolutamente convincente l’entità di quel disastro. Ma a questo punto, scaduto il primo decennio del Duemila, che cosa è possibile fare? Una serie di assetti urbanistici sono irreversibili, ma non tutti. Cinque degli otto isolati sui due lati di via della Conciliazione, belli o brutti che siano, restino dove sono, perché sono sostanzialmente allineati come le antiche strade di Borgo. Ma andrebbero demoliti i due della testata ovest, quelli con le logge e i portici di fronte alla basilica, in quella che ora si chiama piazza Pio XII, e quello adiacente lungo il lato nord, il primo a sinistra andando verso il Tevere. E dopo le demolizioni? I dettagli di questo intervento sono raccontati nel mio libro San Pietro e la città di Roma, edito da Laterza nel 2004. Qui si può dire che si ripristinerebbe una parte limitata dell’antico tessuto edilizio, sia al centro di via della Conciliazione, sia ai bordi, con un’operazione che complessivamente è di restauro urbano. Tutto questo in seguito a un approfondito studio filologico. Non si tratta di riprodurre completamente quel che è stato distrutto, ma di realizzare nuovi edifici che riproducono i caratteri significativi di quelli demoliti, utilizzando anche gli elementi decorativi che allora si sono salvati e che o sono stati rimpiantati in loco o trasferiti altrove (la fontana di piazza Scossacavalli, al centro della spina di Borgo, opera di Carlo Maderno, è finita di fronte alla chiesa di Sant’Andrea della Valle). Per far capire in che cosa consiste il ripristino edilizio, occorre pensare al trattamento delle lacune, al risarcimento che si pratica abitualmente per il restauro delle pitture. Sembra quasi di immaginarla questa città che modernamente riacquista, anche se parzialmente, l’assetto stravolto da una serie di interventi manipolatori che ne hanno scardinato gli equilibri. Le città cambiano volto anche recuperando forme ereditate dal passato, le cui ragioni urbanistiche e di ­110

qualità del vivere siano sufficientemente motivate e culturalmente fondate. Gli scenari che lei prefigura sono consegnati al presente, ma soprattutto al futuro. Occorre anche immaginare una classe dirigente, non solo cittadina, in grado di raccogliere queste sfide. Ma a questo punto tornerei all’oggi. Messe a sedimentare queste idee, chiuso in un cassetto il progetto Fori, restano i problemi del riassetto dell’area archeologica ancora attraversata quotidianamente da un fiume di macchine. E resta il problema del centro storico della città sulla quale lei ha continuato a lavorare. Una delle questioni sulle quali si è impantanato il progetto per l’area dei Fori è stato quello di tentare una soluzione alternativa per la viabilità. Si è cercato, detto in altri termini, di provare a far circolare le macchine altrove per riconnettere il sud della città con il centro. Ed è questo un punto cruciale. Questa soluzione non si può trovare perché non c’è. E perché non c’è? Perché il problema va tagliato alla radice, senza cercare ipotesi di mediazione: il centro storico non deve essere in alcun modo attraversato dalle auto. Del centro storico di Roma si è tornati a discutere di recente, quando la giunta di Walter Veltroni ha proposto di realizzare un parcheggio sotto il colle del Pincio, un intervento poi annullato dall’amministrazione di Gianni Alemanno. Quel parcheggio non mi ha mai persuaso. Le ragioni, come si dice, trasportistiche erano addirittura meno convincenti di quelle addotte per costruire un altro parcheggio sotto il Gianicolo, che già erano deboli. In quel caso il sindaco era Francesco Rutelli. In entrambe le vicende il Comune di Roma prendeva atto passivamente che nel centro della città le auto possono circolare liberamente, salvo alcune limitazioni, e possono parcheggiare dovunque. I nuovi parcheggi, diceva il Comune, offriranno posteggi sotter­111

ranei – oltre al Pincio anche negli argini del Tevere – e ci libereremo delle auto dalla superficie. Qual è il suo parere, invece? Detto molto semplicemente: questo piano non tiene conto di un dato incontrovertibile, vale a dire l’incompatibilità fisica fra lo scenario antico e la circolazione moderna. Un’incompatibilità che in molte città europee si è tradotta nel semplice divieto d’ingresso dei veicoli a motore dove permane quello scenario. Io credo che la conservazione integrale di questo lascito, che a Roma comprende la porzione abitata, quella incorporata nelle zone archeologiche e i terreni circostanti sottratti al consumo edilizio, sia il compito minimo della nostra generazione. La conservazione è una nozione moderna, accettata generalmente in Europa: essa ammette solo usi compatibili con la cornice fisica attuale per consentire una equilibrata percezione dei suoi valori sia nel contesto quotidiano sia nel tempo libero. Inoltre i centri storici – tutti i centri storici – si salvaguardano come degli organismi viventi, non come dei siti archeologici che vanno visitati: gli unici cambiamenti ammissibili sono quelli che consentano di essere vissuti e abitati, di possedere quel congegno di relazioni umane ed economiche che li hanno alimentati per secoli. Proprio per questo, avendo di mira questo proposito, nella parte antica delle città le macchine sono incompatibili. E vanno vietate, restituendo il centro alla sola circolazione pedonale. Torna una prospettiva di grande respiro. Non teme che la si possa tacciare di utopia? E perché mai? Per capire che è possibile realizzare questo obiettivo guardiamo a cosa succede a Manhattan, che non è una città antica: l’80 per cento dei suoi quattro milioni di abitanti non possiede una macchina e il 20 per cento che la possiede la parcheggia fuori, soprattutto nel New Jersey. A Roma si può fare ancora meglio: grandi parcheggi fuori ­112

dell’area protetta, in prossimità delle linee metropolitane e quote di posti auto a disposizione di chi abita nei rioni centrali. Ma essenziale è imporre il divieto di circolazione a tutte le auto private, sostituite da una rete di metropolitane di cui, sebbene lentamente e con ritardi enormi rispetto alle altre città europee, anche Roma si sta dotando. Due linee sono già in funzione, una terza è in esecuzione, altre tre sono preventivate. Da dove comincerebbe per la pedonalizzazione? Ho preparato un progetto che prevede di togliere le auto dal Lungotevere di sinistra, quello che dai quartieri meridionali sfila accanto al centro storico e porta verso i quartieri settentrionali. Le auto possono essere eliminate nel tratto fra Ponte Sisto e il Ponte della Libertà. Il Lungotevere di destra, invece, diventerebbe a due sensi di marcia, liberato dai parcheggi. Inoltre si potrebbero realizzare dei sottopassi all’altezza della Farnesina, per ridare l’ampiezza originaria al giardino. Ma intanto si stanno costruendo sottopassi e parcheggi anche nel Lungotevere di sinistra, all’altezza di Ponte Margherita. Quel sottopasso deve assolutamente essere evitato. Come pure i parcheggi che, come dicevo, non devono sorgere nel centro storico. La pedonalizzazione di almeno uno dei Lungotevere restituirebbe alla città il fiume, che ha sempre avuto un ruolo primario nella storia del paesaggio urbano di Roma, fino a quando negli ultimi anni dell’Ottocento non sono stati costruiti, appunto, i due stradoni che lo fiancheggiano e che tagliano fuori il Tevere dalla città banalizzando i loro rapporti. Trasformarne almeno uno in una grande passeggiata attenuerebbe la frattura. Questa sistemazione è correggibile ulteriormente, dove non si è formato un fronte edilizio compatto, vale a dire proprio nel tratto più significativo, che avvolge il Campo Marzio. ­113

A questo punto ci imbattiamo in una spinosissima questione: l’intervento di Richard Meier in piazza Augusto Imperatore, il nuovo museo che ricopre l’Ara Pacis. Lei sa meglio di me quante polemiche ha suscitato. In fondo è la prima volta, da alcuni decenni, che si mette mano al centro storico di Roma introducendovi un’opera d’architettura moderna. E questo è già un primo punto di discussione. Un secondo è di ordine urbanistico e riguarda le sue dimensioni, il rapporto con gli edifici circostanti. Lei che opinione si è fatta di questo intervento? L’edificio di Meier nasce da un equivoco. Il disastroso sventramento compiuto alla fine degli anni Trenta e le realizzazioni di Vittorio Ballio Morpurgo sono state lette dai tecnici del Comune di Roma come prodotto del razionalismo italiano. Invece sono il frutto del peggior accademismo classicheggiante d’epoca fascista, di quella che Giuseppe Pagano chiamava «l’internazionale dei pompieri». Sulla base di quel presupposto Meier è stato chiamato come esponente di un fantomatico «razionalismo americano». Ma non è tutto. Invece di pensare a una nuova teca per l’Ara Pacis, si è immaginato di costruire il quarto lato della piazza con un edificio che contenga, oltre al monumento romano, una lunga serie di ambienti accessori, destinati a immiserirlo. Devo dire che Meier correttamente ha attenuato questo programma, per cui la sua costruzione è elegante e moderata, ma completamente spaesata. Lei ha immaginato per piazza Augusto Imperatore tutt’altro assetto, che si collega all’idea della pedonalizzazione del Lungotevere e di questa grande porzione di centro storico. Vogliamo vederla, pur per sommi capi? La sistemazione fascista, con le demolizioni e la costruzione dei tre grandi edifici, ha creato un invaso in cui il Mausoleo di Augusto sta decisamente troppo stretto. Questa sensazione di stretto è accresciuta dal quarto lato costruito ­114

da Meier. Attualmente quella piazza è ridotta a un percorso per macchine, a un parcheggio di bus e altre macchine: è insomma un accessorio al servizio dell’area commerciale di via del Corso e di via Tomacelli. E invece? Invece deve tornare a essere un recinto archeologico che ripristina una corretta gerarchia di valori. Io ho pensato a due soluzioni, una concepita per la lunga durata, una più immediata. La prima prevede la demolizione di due dei tre edifici di Ballio Morpurgo che maggiormente schiacciano il Mausoleo, vale a dire quelli che, dando le spalle all’Ara Pacis, sono a sinistra e di fronte. So benissimo che si tratta di un programma ambizioso, per cui si è previsto, più a breve termine, l’abolizione di tutte le strade e degli spazi carrabili fra via Tomacelli, via Ripetta, via della Frezza e il Corso. Resterebbe di fatto solo la strada che congiunge il Corso e il Lungotevere Augusta, ma ridotta nella larghezza. Lei prevede anche il ripristino del Porto di Ripetta. Anche questa è un’ipotesi collocata nel futuro: la rimozione di quella parte di Lungotevere e dei relativi muraglioni, recuperando la quota di sponda antica. Per realizzare questo progetto occorre anche eliminare una parte dell’intervento di Meier, la grande parete, le scale e la fontana, tutti gli elementi che sono esorbitanti rispetto all’obiettivo di fare una teca per proteggere l’Ara Pacis e che, nei fatti, rappresentano la chiusura del quarto lato della piazza. Questa operazione diventerà praticabile e significativa solo in una prospettiva non immediata, quando sarà possibile l’eliminazione della circolazione di macchine nel centro antico. È una prospettiva incerta. Ma è necessario tenere aperti gli spazi anche per i programmi futuri. Credo che una ragionevole mediazione fra i provvedimenti vicini e lontani sia uno dei compiti principali della cultura urbana. ­115

Roma si è comunque dotata di un piano regolatore, varato definitivamente nel 2008. In una stagione in cui la pianificazione urbanistica o viene esplicitamente scartata, come a Milano, oppure viene aggirata con un’infinità di deroghe che di fatto annullano ogni disegno unitario, Roma, appunto, un suo piano lo ha. Ma su questo piano sono piovute molte critiche. Da un fronte che include tanti suoi colleghi urbanisti e un po’ da tutte le associazioni ambientaliste, il piano è stato giudicato fortemente e gravemente espansivo: in una città che vede ridurre ormai da qualche decennio la residenza, si dice, si prevedono all’incirca 70 milioni di nuovi metri cubi, molti dei quali già realizzati o in via di realizzazione, e gran parte dei quali per altra residenza. Lei condivide queste critiche? Condivido alcuni aspetti del piano. Per esempio quello che prevede la «cura del ferro», un potenziamento del trasporto pubblico su rotaia: va però sottolineato che l’esecuzione di questa rete sta andando avanti con una lentezza insostenibile, e questo incoraggia la richiesta di nuove strade o di allargamenti, superflui o dannosi, perché danno l’impressione che l’uso della macchina sia sempre indispensabile per la mobilità. Invece il segnale che va dato è esattamente il contrario. Si è creato un circolo vizioso che va spezzato. L’alternativa alle auto sarebbe una via senza ritorno e bisogna capire che è impossibile aspettarsi miglioramenti dalla costruzione di nuove strade attrezzate o di nuovi parcheggi sotterranei o sopraelevati, che snaturano gli abitati, sia antichi, sia moderni. Del piano di Roma condivido anche il fatto che vi siano una serie di ambiti da definire successivamente, in maniera che gli adattamenti si possano realizzare non coinvolgendo l’intero piano. Ma è indubbio che l’espansione di cui lei parla non sia dettata da esigenze effettive della città. Anzi questa espansione non può che rendere ulteriormente drammatici i problemi di mobilità di cui la città già soffre, se, come sembra, gli insediamenti residenziali ai margini della città cresceranno ancora. ­116

Un’espansione senza controllo danneggia il buon funzionamento della città. C’è qualcosa di più grave rispetto a quella crescita di 70 milioni di metri cubi di cui parlava lei. Vale a dire? Quello che è disegnato sulla carta, con tutti quei volumi in più, è ancora una frontiera che vacilla. Di fatto si sta già verificando una politica di insediamenti al di fuori dell’area indicata come edificabile dal piano regolatore, perché i terreni vengono resi edificabili da accordi di programma stretti fra il Comune e i proprietari delle aree. I principali costruttori romani hanno comperato da tempo una gran parte dei terreni oltre il Grande raccordo anulare, compresi i suoli destinati a verde o ad agricoltura. La procedura speciale, questo sistema di deroghe incautamente introdotte da una serie di leggi statali, usata in modo così sistematico e abbondante, come si sta facendo a Roma, diventa una forma di urbanizzazione parallela, analoga all’occupazione abusiva realizzata dopo il piano del 1962, ma ancor più micidiale perché comporta una connivenza anticipata dell’autorità pubblica. Questo sistematico consumo di terreni graverà in modo intollerabile sull’organismo della città. È come un cappio che si stringe intorno al collo. L’agro romano è stato così descritto da Giacomo Leopardi nella Ginestra: «l’erme contrade, / Che cingon la cittade / La qual fu donna dei mortali un tempo, / E del perduto impero / Par che col grave e taciturno aspetto  / Faccian fede e ricordo al passeggero». Ebbene, quella corona di spazi disabitati che dal primo Medioevo fu un luogo complementare allo scenario abitato di Roma sta diventando un’appendice tumorale, autorizzata dallo stesso corpo amministrativo che ha adottato l’attuale piano regolatore. Siccome l’area disabitata è più vasta di quella finora investita, c’è da temere che la trasfor­117

mazione in corso diventi un’anomalia di scala geografica, e snaturi una vasta porzione dell’Italia centrale, cancellando un tessuto debole di somma importanza storica. Alcune porzioni già costruite secondo questo procedimento sembrano aeroliti piovuti da un altro mondo sulla campagna laziale e sono più eloquenti di qualsiasi discorso. Roma potrebbe diventare un esempio di quella città che perde i caratteri di finitezza di cui abbiamo parlato in precedenza. Infatti. Il problema non risolto dal nuovo piano e anzi aggravato è che qualunque limite venga imposto all’espansione si sa già che verrà oltrepassato. La cintura continuerà a crescere su se stessa e questo è davvero la figurazione del tracollo urbanistico. Da questo punto di vista, la via milanese alla quale anche lei faceva riferimento... ...quella per cui il piano non si fa neanche più, ma viene sostituito da un documento di indirizzo generale e tutto viene affidato alla contrattazione fra pubblico e privato... ...e quella di Roma sono nei fatti equivalenti. Ancora una volta, fra le grandi città italiane che hanno un buon piano e lo eseguono troppo lentamente, come Torino, che hanno un piano ancora migliore e lo tengono chiuso in un cassetto, come Venezia, Roma riceve il trattamento peggiore. La città, tutte le città, ormai, si pianificano sempre meno. Se la città è alla mercé di uno sviluppo che non è stato né disegnato né calcolato e che non si sa dove va a finire, è perduta. E la situazione è più grave di quella degli anni Sessanta e Settanta, quando l’abusivismo occupava gli interstizi immediatamente a ridosso della parte già edificata. Qui invece si procede all’infinito, senza rispettare il limite che è invece essenziale perché la città sia città.

8.

I piani

Le sue esperienze di pianificazione sono tantissime. Di alcune, come quella bresciana, abbiamo parlato diffusamente. Se posso permettermi di sintetizzare, da profano della materia, quello che più mi colpisce del suo metodo, direi che al primo posto c’è il modo in cui si compie l’indagine su un luogo, che investe sia i suoi aspetti fisici che le storie, gli interessi, le aspettative di chi lo abita. In questa attività lei mette a frutto le competenze di storico dell’architettura e di storico tout court. Ma questo non basta, infatti l’indagine dà vita a un’idea di quel luogo che si proietta nel futuro. Questa idea viene discussa, messa a punto scientificamente e, per quanto possibile, condivisa con gli attori presenti su quel territorio – le amministrazioni pubbliche, le associazioni di cittadini, le categorie economiche. Diventa un piano. Ha di fronte a sé una serie di vincoli – essenzialmente la forma di quel luogo, ciò che la storia vi ha depositato e le interpretazioni che questa storia suscita – e delle aspirazioni. Aspirazioni che però non sono univoche e spesso generano conflitti, che un piano deve in qualche modo, di nuovo, interpretare. Un altro punto che colpisce è la capacità di comprendere, fermi restando questi obiettivi, le condizioni politiche ed economiche, i rapporti di forza, gli assetti proprietari, e di ricavare da queste conoscenze gli elementi per ottenere il miglior risultato possibile: più volte lei sottolinea in questa conversazione l’importanza che l’urbanistica si sostanzi in risultati concreti ­119

che le persone possano apprezzare, difendere se minacciati, e che inducano speranza di risultati ancora migliori. Questo doppio registro fatto di orizzonti e di pratiche rimanda a uno più generale di intelligenza e operatività. Nella realtà italiana di oggi, il disastro prodotto in tante parti del nostro territorio è la dolorosa metafora di un disastro più complessivo. E mi pare che questo doppio registro contenga anche un’indicazione per il futuro, un punto d’appoggio sul quale costruire una prospettiva diversa. In fondo da un’urbanistica pur screditata, come lei dice, arrivano indicazioni sia culturali che politiche sulle quali far leva. Ma ora torniamo alle sue esperienze. Fra i suoi lavori di pianificazione inizierei con quello palermitano. L’impegno a Palermo si situa a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. La delibera del Comune – sindaco Leoluca Orlando, assessore all’Urbanistica Renato Palazzo – è del marzo del 1988, alla quale è seguito, nel luglio successivo, l’incarico a Pier Luigi Cervellati, Italo Insolera e me di realizzare un piano particolareggiato del centro storico cittadino. Nel luglio del 1989 consegnammo gli elaborati del piano. Dal punto di vista politico la situazione palermitana era fuori dell’ordinario. Si era aperta una stagione di formidabili speranze: per la prima volta dal dopoguerra c’era un’amministrazione che faceva dell’antimafia la propria bussola di orientamento. Orlando, un democristiano non colluso con i vecchi potentati presenti dentro e fuori del suo partito, era sindaco dal 1985. Ma nel 1987 dalla giunta erano usciti i socialisti e si era formata una coalizione con i Verdi e gli indipendenti di sinistra, appoggiata dal Pci. Anche lì, come altrove, si era realizzato un movimento formato da gruppi minoritari della Dc e del Pci. Come segnale più importante di rottura operata da quella giunta con il precedente siste­120

ma va ricordata la fine del monopolio dei grandi appalti di manutenzione e di forniture che andava avanti dal dopoguerra. Poco prima del nostro incarico, nel gennaio dell’88, era stato ucciso un ex sindaco, il dc Giuseppe Insalaco, che proprio sul tema della manutenzione di strade e fogne e sull’illuminazione pubblica aveva avuto un durissimo scontro dentro la Dc e aveva denunciato Vito Ciancimino. Ma un altro punto decisivo della giunta Orlando fu proprio l’urbanistica. Prima ancora che per il centro storico, io venni incaricato, insieme a Francesco Indovina e Guglielmo Zambrini, di adeguare il vecchio piano regolatore della città alla normativa nazionale sugli standard, che risaliva al 1968 e che prevedeva spazi pubblici, verde, servizi, ma che in una città grande come Palermo, cresciuta nel più assoluto disordine, non era mai stata rispettata. Poi arrivò l’incarico per il centro storico. Un’area di rilievo enorme, grandiosa ma minacciata da un processo di marginalizzazione senza paragoni con le altre città europee. La forma urbana include apporti di età fenicia, cartaginese, greco-romana, bizantina, araba, normanna, aragonese, spagnola, borbonica, che coesistono applicandosi all’impianto viario, al taglio degli isolati, agli snodi monumentali, alle sistemazioni di margine. Una decina di anni prima era stato nominato un comitato comprendente Giuseppe Samonà e Giancarlo De Carlo, che avrebbe dovuto produrre uno studio. Ma invece aveva prodotto ben poco. I grandi luminari avevano mandato i loro collaboratori, i loro studenti, decine e centinaia di persone che lavoravano in maniera disordinata e precaria, con un senso di estraneità verso quel tessuto storico. Lo studio aveva un vizio d’origine: non era uno strumento urbanistico, dotato di una forza amministrativa e di una validità giuridica. Era, appunto, solo uno studio, un esempio di quella che Piccinato definiva «l’urbanistica scritta». Non poteva modificare la disciplina prevista dal vecchio piano regolatore del 1962, il quale prevedeva un generalizzato massacro di quella preziosa struttura urbana, abbastanza vitale nono­121

stante i danni prodotti dai bombardamenti e dove invece si immaginavano distruzioni di interi isolati per realizzare reti viarie e nuova edilizia. Nel frattempo quella parte di città, dove ancora negli anni Cinquanta vivevano 140.000 abitanti, si andava svuotando, raggiungendo le 30.000 persone negli anni Ottanta, e crollava a pezzi. Ma nonostante l’abbandono e i danni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, il centro storico di Palermo restituiva l’immagine di una fastosa capitale, con le sue architetture barocche, i portali monumentali, i giardini, gli androni, le cupole maiolicate, gli immensi edifici conventuali. È vero che era, ed è, luogo di marginalità urbana, scenario privilegiato da piccola e grande criminalità, ma è vero anche che lì hanno sede le più importanti istituzioni cittadine, l’università, le biblioteche, i musei. Senza contare i tre magnifici mercati, quello del Capo, nel mandamento Monte di Pietà, quello di Ballarò, nel mandamento Palazzo Reale, e quello della Vuccirìa, nel mandamento Castellamare. Sono esempi di cultura materiale rimasti intatti nei secoli, di scambi, di convivenza oltre che della vendita di prodotti di agricoltura pregiata. E quindi arrivò l’incarico di Orlando che fu salutato come un avvenimento di rilievo nazionale, molto sostenuto da tutte le associazioni di tutela, Italia Nostra in primo luogo, da Antonio Iannello, che di Italia Nostra era il segretario generale, da Antonio Cederna... Oltre a Orlando, ricordo anche un’altra persona di rilievo, un bravissimo assessore socialdemocratico, Renato Palazzo. Ci colpì molto, appena arrivati a Palermo, l’entità del compenso previsto per noi, un compenso altissimo, determinato da un calcolo tabellare fondato sulla quantità di metri cubi investiti dal nostro piano. Ma poco dopo aver iniziato ci rendemmo conto di una situazione paradossale. Al Comune di Palermo lavorava tanta gente, in certi casi esorbitante, come in tutte le amministrazioni ­122

dell’isola. Molta parte di quel personale era stata assunta per tramiti clientelari. Vagavano per gli uffici senza che si sapesse bene che cosa facessero. Ma trovammo anche tanti funzionari capaci e che non aspettavano altro che di poter lavorare sulla propria città. Ci mettemmo d’impegno e individuammo una ventina di persone di spiccate qualità che avrebbero potuto collaborare con noi. Ma, al di là della spinta ideale che le animava, volevamo che fossero incentivate e che si potesse dimostrare che anche il settore pubblico aveva orgoglio e dignità all’altezza di quel compito. E così proponemmo al Comune di prelevare metà del nostro compenso per integrare il loro stipendio. I risultati di un piano si misurano sui tempi lunghi della sua attuazione, che è consegnata nelle mani dei tecnici comunali. In definitiva provammo a ribaltare ciò che avveniva di frequente nel rapporto fra consulenti esterni e uffici comunali: piuttosto che utilizzare l’ufficio come strumento per redigere il piano, cercammo di utilizzare la redazione del piano come occasione per consolidare l’ufficio, addestrando i suoi componenti e dotando Palermo di un organismo permanente, in grado successivamente di approfondire il nostro lavoro, di correggerlo, e poi di intervenire direttamente o controllare gli interventi di altri soggetti. Un modello di rapporto fra pubblico e privato che contrasta fortemente le abitudini correnti. In che cosa consisteva quel piano? Intanto il nome. Si chiamava «Piano particolareggiato esecutivo del centro storico», una dizione poco corretta dal punto di vista amministrativo, ma che ci consentì di estendere a Palermo gli stessi criteri che negli anni precedenti avevamo applicato, Cervellati a Bologna e io a Brescia. In una realtà molto più grande, complessa e parcellizzata come quella del centro storico di Palermo, con le sue stratificazioni che risalivano alla dominazione araba e che versava in condizioni assai più degradate di quelle di qualunque ­123

città del Nord. Avevamo tempi strettissimi. Avremmo voluto procedere scoprendo e impostando i problemi, come correttamente insegna l’urbanistica che si propone come attività al servizio dei cittadini. Ma se alla scadenza del nostro mandato avessimo presentato al Comune solo una lista di problemi non avremmo assolto al nostro compito. Abbiamo letto e interpretato le molte cartografie storiche e contemporaneamente diviso il territorio in molte particelle, classificando le tipologie edilizie, per ognuna delle quali individuavamo trattamenti specifici. Il metodo messo a punto da Muratori, Caniggia e Maretto di cui abbiamo parlato... Per alcuni edifici proponevamo l’acquisto da parte del Comune, che avrebbe poi ristrutturato e affittato o venduto. Ci imbattemmo subito in una limitazione: circa il 20 per cento di tutta l’area compresa nelle mura, quindi appartenente al centro storico, era interessato da altri piani che mal si incastravano con quello che noi avremmo voluto realizzare. In particolare all’Albergheria c’erano state demolizioni e ricostruzioni che avevano cancellato ogni traccia storica. Quali erano invece i principi alla base del vostro ragionamento? Partivamo dalla moderna nozione di restauro, applicato non solo ai monumenti, ma al complesso della città, il cui organismo comprende uno scenario costruito e un corpo sociale legati fra loro, discendenti entrambi da una storia lunga. A noi interessava conservare e usare correttamente, che sono l’unica accezione possibile della parola «restauro» applicata non all’isolamento di un oggetto in un ambiente protetto, tipo il museo, ma a una relativa continuazione degli usi passati e quindi un inserimento nella sfera della vita quotidiana. Un approccio fatto di attenzione, discrezione e fedeltà: le caratteristiche, le strutture, le forme sono già ­124

contenute nell’oggetto da restaurare, e non devono essere introdotte dall’esterno. L’intervento deve mettersi al suo servizio, aggiungendo quanto basta a chiarire, rendere durevole e far convivere l’oggetto con gli altri elementi della realtà contemporanea. In questa voluta limitazione sta la vera innovazione culturale. Il centro storico palermitano non è un oggetto anomalo collocato in un dato punto della città, ma il relitto di una realtà sussistente in un dato periodo del passato ed estesa su tutto il territorio urbano e rurale anche fuori dal perimetro delle mura. I borghi, le coltivazioni di agrumi della Conca d’Oro erano stati travolti dallo sviluppo edilizio, ma la loro trama e i pezzi superstiti, per quanto consumati e maltrattati, qualificavano ancora, con sorprendente efficacia, l’ambiente della città contemporanea. Quel che sta dentro il perimetro formava, e forma ancora oggi che son passati vent’anni, un organismo compatto che, al di là della sua emarginazione, dello svuotamento di residenti, del decadimento fisico, avevamo il compito di riqualificare, ripopolare e rifunzionalizzare. Vogliamo entrare nel dettaglio di qualche intervento? Uno dei punti chiave del nostro piano era il ripristino dell’affaccio al mare del centro storico. Per questo proponevamo di mandare in galleria per due chilometri la strada litoranea, da via Crispi all’Oreto, acquisendo e demolendo alcuni edifici. Il restauro del fronte a mare – il Castello, la Cala, la muraglia settecentesca di bordo della passeggiata a mare, la passeggiata alta sulle mura – che era vista come una grandiosa opera di archeologia urbana. Poi la sistemazione del rinterro verso mare come giardino pubblico in collegamento con l’Orto Botanico. E, ancora, il restauro della Kalsa e il ripristino del fronte del quartiere di Castello San Pietro. Più in generale intendevamo definire i compiti dell’amministrazione pubblica. Non era possibile e neanche desiderabile che il Comune si sostituisse agli operatori pubblici o privati, ma spettava al Comune aprire ­125

la strada ai privati nelle zone più rovinate, dove nessuno avrebbe iniziato a intervenire. Occorreva formare un patrimonio pubblico di case destinate all’affitto per garantire la permanenza di tutte le classi sociali e per spostare temporaneamente o definitivamente gli abitanti delle case vicine durante i restauri. Qualcuno obiettò che i costi erano ingenti. Certo. Ma noi replicammo che si spendeva altrettanto in vent’anni per la manutenzione di una grande cattedrale gotica: occorreva persuadersi che l’affaccio al mare, il bastione dello Spasimo o il Papireto sono monumenti della stessa importanza. Come si concluse la vicenda palermitana? Noi consegnammo il lavoro – lo ricordavo prima – nell’estate del 1989. Il piano venne reso pubblico, fu allestita una mostra. Ma la giunta Orlando venne fatta saltare una settimana prima della data in cui il piano sarebbe stato votato in consiglio comunale. Quell’amministrazione, che aveva impresso una svolta netta nella vita politica cittadina, era minata da contrasti interni violenti, dai quali non mi sento di escludere anche quelli intorno al nostro piano: era evidente che in città esistevano potenti interessi che non volevano alcun tipo di piano e difendevano a oltranza la situazione precedente, in cui tutto era fermo e tutto era possibile. Come ultimo atto, in una notte di febbraio del 1990, la giunta Orlando decise di adottare il piano con i poteri del consiglio. Era urgente, infatti, mettere in salvaguardia il piano, vietando cioè tutti gli interventi contrari alle sue previsioni. Questa decisione, assolutamente legittima, scatenò reazioni durissime. Una parte degli assessori democristiani, legati alle correnti che avversavano Orlando, votarono contro o si assentarono per protesta. Ne nacque una vicenda amministrativa che poi si concluse a favore dell’amministrazione comunale, nonostante la forte ­126

opposizione del Psi, che aveva sempre osteggiato la nostra azione e in generale la giunta di Orlando. Gli esponenti palermitani di quel partito andarono a Roma, per chiedere conforto a Paolo Portoghesi, ma Portoghesi li sconfessò, difendendo invece il nostro piano. Dopo la caduta di Orlando si andò a elezioni, nel maggio del 1990. Sì, e il piano fu uno dei punti sui quali Orlando, che si ricandidò, impostò la campagna elettorale. La città partecipava a quelle vicende con grande tensione. Ricordo che il giorno in cui era previsto un voto decisivo in consiglio comunale, il tassista che mi accompagnò dall’albergo in cui risiedevo mi riconobbe e mi rivolse parole di incoraggiamento. Orlando vinse le elezioni restando nella Dc. Ma dopo pochi mesi, ruppe con quel partito e si dimise. Seguì un periodo convulso, arrivò anche un commissario prefettizio. Poi nel ’93, fondata La Rete, Orlando tornò da trionfatore a Palazzo delle Aquile. Nel frattempo nella composizione della giunta cambiarono molti nomi. Venne escluso Palazzo. E ci accorgemmo che l’interesse della politica per il piano del centro storico, pur approvato definitivamente dalla Regione nel 1993, era venuto meno, ogni assessore tirava diritto per la sua strada e Orlando non svolgeva più, sull’urbanistica, quelle funzioni di regia che fino ad allora aveva assolto. Il Comune, che avrebbe dovuto rendere esecutive le nostre indicazioni, non trovò il modo di procedere. Il piano era comunque approvato, caso abbastanza raro. Venne giudicato un documento agevole da consultare, chiaro nelle prescrizioni: insomma chi doveva intervenire nel centro storico di Palermo sapeva che cosa poteva e che cosa non poteva fare. Sì, il piano è stato approvato ed è pienamente efficace anche dal punto di vista giuridico. Noi abbiamo detto che cosa fare. Ma spettava e spetta ad altri farlo, Comune e ­127

operatori economici. Da allora si sono mosse numerose iniziative, anche disordinatamente. È stato avviato il recupero di molti edifici. Dopo quella vicenda, a Palermo si è rimesso mano al piano regolatore generale – se n’è occupato Cervellati – ma anche lì il rapporto fra la politica e le sue convulsioni, da una parte, e l’urbanistica, dall’altra, hanno prodotto risultati deludenti per la città. Muovendoci in maniera disordinata dal punto di vista cronologico le chiederei ora di soffermarsi su un’altra esperienza di rilievo, completamente diversa da Palermo: Urbino. A Urbino ho lavorato nei primi anni Ottanta, durante un intervallo del lunghissimo impegno di Giancarlo De Carlo in quella città, un impegno durato cinquant’anni e che aveva prodotto, nel 1971, l’approvazione del piano regolatore. Ho esercitato una specie di supplenza. Lui ha avuto rapporti intermittenti con l’amministrazione comunale, che non era un interlocutore facile. De Carlo aveva interesse a pianificare, ma anche a progettare edifici pubblici. Il Partito comunista urbinate dipendeva molto dalle decisioni prese a Pesaro, che aveva problemi del tutto diversi. E ogni tanto De Carlo veniva licenziato. In una di queste occasioni, per un periodo abbastanza lungo, mi sono occupato a fondo del centro storico. Io e un gruppo di collaboratori prelevati in diversi luoghi individuammo la grammatica in base alla quale era stato concepito quell’organismo, e il suo substrato tecnico, in maniera che la sua conoscenza potesse servire agli interventi. Urbino ha un rilievo singolarissimo nell’urbanistica rinascimentale. Il suo straordinario decorso è circoscritto in un tempo breve, poco meno di un ventennio, dal 1465 al 1482, l’ultima stagione del lungo regno del duca Federico, e in uno spazio strettissimo, 35 ettari, la stessa superficie di oggi, più grande di Pienza, più piccola di Ferrara e Mantova, che ospitava 7.000 abitanti: insomma Urbino è forse l’unica ­128

città dell’evo moderno che sia arrivata a toccare il massimo livello culturale non superando la soglia aristotelica dei myrioi, i 10.000 abitanti. Le vicende politiche e militari successive determinarono l’isolamento della città, ma in questo modo ne preservarono l’assetto originario, anche se la piccolezza di oggi è pericolosa, perché per una serie di scelte sbagliate favorisce un costante esodo di popolazione e mette a repentaglio la stessa sopravvivenza fisica della città. Il paesaggio costruito è ovviamente protetto da vincoli, ma rischia di diventare una scena vuota se non alimentato dalla vita delle persone. Il lavoro su Urbino è una delle grandi avventure della pianificazione moderna, perché garantisce alla città una sistemazione degna del suo grande passato. Ma a patto che la gestione moderna resti aderente ai valori trasmessi dal passato. Questa è una real­ tà che rende meno improbabile l’utopia di cercare, come diceva Piet Mondrian negli anni Trenta, «la bellezza realizzata nella vita». Il mondo contemporaneo sembra andare nella direzione opposta, viviamo in un ambiente che non riusciamo a rendere né armonico né ordinato, per cui siamo costretti a cercare la bellezza negli oggetti che non appartengono all’esperienza quotidiana, ma sono gli oggetti dell’arte, quelli conservati nei musei. Come ha proceduto? Merito del piano di De Carlo era la salvaguardia integrale del centro storico. Noi abbiamo aggiunto un programma di interventi diretti dell’amministrazione pubblica per acquisire e restaurare gli alloggi più degradati, cercando di conservare la residenza e sistemando nella parte antica i servizi occorrenti alla città contemporanea. La mano pubblica doveva governare anche l’espansione della città, per ridurre quello spreco edilizio che pure Urbino aveva conosciuto. Ma su un altro punto ci impegnammo a fondo, come avevamo fatto a Brescia e come avremmo poi fatto a Palermo: il potenziamento dell’ufficio urbanistico comu­129

nale, che avrebbe dovuto seguire le realizzazioni previste dal piano, evitando, per esempio, che scadesse la qualità architettonica degli interventi in periferia. Il suo lavoro è stato in contrasto con quello di De Carlo? No, complementare. De Carlo ha poi conservato il nostro contributo, e quando ha risolto i problemi con l’amministrazione comunale, io mi sono tirato indietro. I nostri rapporti non si sono mai guastati. Lui pensava sempre al mestiere della progettazione. Tutti i suoi interventi a Urbino li ho condivisi. De Carlo ha sviluppato le sue idee con una curiosità inesauribile, una disposizione verso l’imprevisto che lo spinge continuamente alla frontiera del nuovo. E anche oggi, quando sono trascorsi cinque anni dalla sua morte, è difficile riconoscergli una fisionomia stabile. Le sue cose migliori le ha realizzate quando ha lavorato lungamente in un luogo e per committenze un po’ eccezionali. A Urbino è successo questo, con gli interventi iniziati nei primi anni Cinquanta – è del 1952 il restauro della casa dei Montefeltro diventata sede universitaria – e durati fino alla sua scomparsa nel 2005. De Carlo ha lavorato per incarico del rettore Carlo Bo, e per conto del sindaco Egidio Mascioli, un ex minatore. Ha sistemato gli istituti universitari in antichi palazzi recuperandoli all’abbandono e costrui­ to gli alloggi per gli studenti nella zona di espansione. Nell’operazione di recupero dell’area di Mercatale, dove ha proposto una copertura di forma inedita, il suo lavoro ha sollevato vive proteste. Del suo lavoro a Venezia abbiamo accennato precedentemente, ricordando il doloroso scontro con Cederna. A lei la giunta di Massimo Cacciari, che aveva vinto le elezioni del 1993, affidò l’incarico di seguire il piano regolatore della città. Appena un anno prima era stato prodotto un piano relativo alla città storica insulare, elaborato su iniziativa di Edoardo Salzano, assessore all’Urbanistica. Il vostro disegno e quello di Salzano erano in pieno contrasto fra loro. ­130

Noi pensavamo che bisognasse mettere ordine nel mosaico di strumenti urbanistici eterogenei per epoca, livello giuridico, concezione tecnica e incidenza normativa che nel loro insieme non fornivano un disegno unitario per tutta la città e compromettevano l’equità dell’azione amministrativa, l’uguaglianza di trattamento fra i cittadini dello stesso territorio comunale. Alcuni di quegli strumenti, poi, ci apparivano gravemente insufficienti, impraticabili, e dovevano essere corretti a breve scadenza. Questo lungo processo minacciava ogni visione d’insieme dell’organismo urbano. E tanto più era dannoso per Venezia, che invece aveva bisogno di rivedere i suoi rapporti all’interno di un ambiente geografico più vasto, la laguna, i suoi bordi e l’intero territorio di terraferma, che scaricava e scarica problemi su tutta la città, sulla parte antica e poi su Mestre e Marghera. La variante per la città antica, alla quale lei si riferisce, era l’unico prodotto coerente di tutta la gestione urbanistica dei precedenti decenni e doveva essere rifusa nel nuovo piano regolatore. Noi ne confermammo le scelte principali – la classificazione degli edifici in famiglie tipologiche, il suo carattere immediatamente operativo e la subordinazione dei progetti, in certe zone, a un piano urbanistico più complessivo. Ma perché tali scelte diventassero funzionanti occorrevano alcune correzioni. In questa vicenda sembra di assistere alla rottura di un fronte politico-culturale che in fondo appariva consolidato. Sia lei che Salzano e anche Cederna appartenete a uno schieramento che nei decenni condivide indirizzi, valori e battaglie. Ma in una vicenda delicatissima, come quella veneziana, questo schieramento si divide. Provo qui a riproporre gli argomenti di Salzano e di Luigi Scano, il giurista scomparso qualche anno fa che curò le norme di quel documento. Il loro piano, essi sostengono, definiva una serie di regole su come conservare, modificare o ripristinare edifici storici o parte di essi che il nuovo piano avrebbe allentato. Inoltre sarebbe stata introdotta da voi una eccessiva libertà nei cambi di ­131

destinazione d’uso degli edifici, consentendo che più facilmente chi possedeva un’abitazione la potesse trasformare in albergo o bed & breakfast, indebolendo una delle funzioni già debolissime a Venezia, quella appunto della residenza. Lei che cosa replica? Su Venezia si trascina da lungo tempo una polemica teorica, staccata da esperienze concrete di lavoro e di intervento, che ormai ha perso di vista i veri problemi della città e non aiuta a risolverli. I riferimenti alle etichette politiche sono particolarmente ingannevoli: le militanze e i relativi programmi non danno per ora nessun affidamento. Massimo Cacciari per un periodo, Roberto D’Agostino come assessore all’Urbanistica, io e poi Cervellati come consulenti, insieme a Mariolina Toniolo e a un gruppo affiatato di funzionari abbiamo messo a punto un progetto organico per il prossimo futuro di Venezia, inglobando i contributi dell’Unesco, le riflessioni dei geografi, le diagnosi dei trasportisti e degli ambientalisti. Fra le principali innovazioni indichiamo la modernizzazione della navigazione lagunare, per ripristinare la complementarità con i percorsi pedonali storici, rifiutando le opzioni traumatiche delle metropolitane subacquee. Accanto a questo immaginiamo la redistribuzione degli arrivi turistici, alleggerendo la concentrazione a piazzale Roma e l’affollamento del Canal Grande. La soluzione consiste nell’arrestare i mezzi di comunicazione terrestre – a eccezione dei treni – sulla gronda lagunare, in modo che si possa raggiungere la città per acqua, più i people-movers da riservare principalmente alle comunicazioni urbane veloci fra Venezia e Mestre. È in base a questo che si possono valutare le alternative per il futuro. Va preso atto che il congelamento subito dal nostro lavoro è fondato sull’inamovibilità di una lunga gestione politica che sopravvive a tutte le avventure recenti. Un altro intervento molto delicato, anche se di minore entità, lei lo propose per il lungomare di Napoli. ­132

Partecipammo a un concorso che intendeva ridare il mare a Napoli, ricostruendo il litorale di Chiaia, l’arenile lungo la via Caracciolo, da Mergellina a Castel dell’Ovo, mentre l’arteria stradale sarebbe stata parzialmente pedonalizzata. Usufruendo di tutte le conoscenze dell’ingegneria marittima e costiera, si sarebbe dovuta ripristinare una spiaggia larga anche settanta metri. Una spiaggia non la creiamo noi. Si tratta di stabilire le condizioni perché i movimenti marini la facciano rinascere. L’ingegnere che consultammo era lo stesso che aveva ricostituito le spiagge di Pellestrina, una delle isole che chiude la laguna di Venezia. Non conviene più fare dei muraglioni, che sono una difesa perdente contro l’urto delle onde. Invece la spiaggia non è soltanto la parte emersa, si fonda su una base sommersa e deve essere continuamente alimentata dal moto ondoso. Le spiagge sono un’attrattiva fondamentale, uno spazio pubblico vitale, uno sfondo paesistico nel quale impiantare molte attività ricreative. Tanto più in una città grande come Napoli, che vive il suo mare solo parzialmente. Una spiaggia sull’orlo della città è decisiva a trasformarne la qualità. Come accade a Copacabana o a Barcellona. Diversi usi possono essere combinati fra loro, per restaurare un paesaggio, oppure per crearne uno nuovo. Per arrivare a Mont-Saint-Michel, in Normandia, è stato realizzato un intervento molto complesso, tutto l’entroterra è stato bonificato per stabilizzare il fiume, e sul lido è stato costruito un pontile che si può percorrere con un trenino oppure a piedi: purtroppo in Italia facciamo molti progetti e poi li mettiamo in un libro, in Francia fanno i progetti e li realizzano. Sono necessarie una coraggiosa iniziativa pubblica e un’imprenditoria in grado di realizzare le idee. In Italia si punta immediatamente al vantaggio economico. Per esempio, per restare a spiagge e litorali, tutto è concentrato intorno ai porti turistici, che da soli non formano paesaggio. Dove c’è molto spazio si possono fare tante cose, anche i porti turistici, ma non dovunque: il porto, con i suoi pennelli, occupa un’estensione enorme. Per avere il ­133

doppio risultato di un ritorno economico accettabile e di un paesaggio di qualità bisogna che l’iniziativa pubblica sia determinante e che sappia controllare l’esecuzione dei progetti. Ho visto la foce del Reno a Rotterdam, che è un porto fra i più grandi del mondo, dove sono ospitate macchine colossali: lì il paesaggio, sebbene non naturale, sebbene integralmente manipolato, ha prodotto delle trasformazioni che sono a loro volta paesaggio. Anche ad Amburgo c’è un porto su diversi rami dell’Elba, che poi diventa un estuario e poi, alle spalle, un insediamento residenziale. Ecco solo due esempi. Ritorniamo al nodo incontrato molte volte in questa nostra conversazione. In Italia esiste un predominio della componente privata nella trasformazione dei luoghi e un arretramento sia dell’urbanistica sia della politica. È un aspetto molto importante: il rapporto corretto fra il pubblico e il privato ha prodotto la vitalità delle città nel Mare del Nord. L’iniziativa aveva una base pubblica: lì c’erano una legislazione e anche un’abitudine radicata per cui i prosciugamenti li faceva il pubblico, poi interveniva il privato per realizzare una serie di lotti costruiti. L’anomalia italiana sta nel manico, nella mancanza di una base di autorità che crei queste condizioni. O c’è un caso eccezionale già creato dalla natura, oppure ci deve essere una parte pubblica che si occupa del disegno complessivo e che lascia ai privati gli interventi più parcellizzati. Com’è che in Italia si sono prodotti risultati così disordinati? Di solito non è né la quantità né la velocità: di solito il problema è l’assoluta mancanza di ordine, che ha lasciato che tutto accadesse caoticamente, non nei tempi o nelle successioni giuste. Anche la speculazione ha il suo posto nelle trasformazioni di un paesaggio o di una città, ma va contenuta. Però la politica, abbiamo già visto, è sostanzialmente indifferente rispetto alle vicende dell’urbanistica. Non c’è un colpevo­134

le, manca la distribuzione corretta delle parti nel realizzare iniziative che più sono grandi più estendono l’occasione di risultati, di metodi e quindi di danni. In un’iniziativa veramente completa ci vuole la regia pubblica, è l’impegno pubblico che definisce la scala entro cui si moltiplicano le occasioni. L’Italia era avviata bene in questo campo. La bonifica delle paludi pontine, ad opera del fascismo, aveva molti difetti: ma esisteva un luogo pubblico in cui le diverse soluzioni tecniche potessero essere discusse. Successivamente lo Stato non ha visto più i vantaggi derivanti dal conservare questo ruolo, vantaggi politici, ma anche economici. Assistiamo al comportamento di uno Stato che trova più conveniente l’essere arretrato rispetto a un settore privato molto avanzato. È la domanda che si pone John Kenneth Galbraith negli ultimi capitoli del suo Stato industriale (Einaudi, 1968): perché riusciamo a mandare i missili su altri pianeti, dove l’iniziativa pubblica è preminente, e non riusciamo a farlo per altri settori? Lo Stato italiano non ha organismi pubblici in grado di innescare la complementarità fra pubblico e privato. C’era da noi un’impalcatura di strutture pubbliche, ma poi è stata smantellata. Come organo tecnico generale c’è solo il Consiglio superiore dei Lavori pubblici, che un tempo, fino ai primi anni Settanta, aveva un ruolo fondamentale in tutta la materia urbanistica – anche se appariva strano che l’urbanistica fosse sistemata presso i Lavori pubblici, di cui diventava, di fatto, una subordinata, mentre sarebbe stato più corretto il contrario. C’è stato un momento in cui la Direzione generale dell’urbanistica comprendeva persone intelligenti e colte. Era presieduta da Michele Martuscelli e c’erano dirigenti di prim’ordine come Vezio De Lucia. Comunque, tutto questo è cambiato. Lo Stato ha lasciato la materia alla competenza esclusiva delle Regioni e non ha neanche provveduto a fare una legge quadro. Questa è una vicenda molto negativa. Lo Stato ha atteso di vedere che cosa succedeva e le Regioni per parecchio tempo non hanno saputo cosa fare, poi alla fine hanno fatto loro delle ­135

leggi. I Comuni sono rimasti addetti alla realizzazione e gestione dei piani regolatori. Ma questa vicenda ha avuto effetti micidiali, si è verificato un buco nell’amministrazione pubblica. Infine si è arrivati, nell’ultimo periodo della legislatura 1996-2001, con un governo di centro-sinistra, alla riscrittura del titolo V della Costituzione, un’operazione condotta con straordinaria superficialità. È stata compiuta una revisione che attribuisce all’urbanistica dei compiti che prima non aveva, compiti vastissimi, quello di coordinare, organizzare e supervisionare tutta la legislazione e la pratica. E si è cominciato dalla nomenclatura: la parola «urbanistica» è stata sostituita dall’espressione «governo del territorio», sostenendo che questa copre tutte le attività pubbliche in materia di urbanistica. La Corte costituzionale ha stabilito che l’urbanistica è solo una componente del governo del territorio che investe tutti gli interventi riguardanti le città e le campagne, e anche la difesa dei valori culturali, assorbendo di fatto le competenze che sono del ministero dei Beni culturali, le cui prerogative però restano in piedi. La situazione è straordinariamente confusa, con competenze che si disperdono fra il ministero dell’Ambiente, quello dell’Agricoltura e altri ancora. I Beni culturali sono strutturati in un ministero solo dalla metà degli anni Settanta, ma hanno una storia lunga, che risale all’inizio del Novecento, con le soprintendenze, gli ispettori. La duplicazione produce una situazione insostenibile: se c’è un conflitto su un piano di governo del territorio, che comprende anche un’area di competenza dei Beni culturali, che cosa succede? Chi decide? La Costituzione all’articolo 9 stabilisce che la Repubblica assume l’onere di proteggere il paesaggio. È stata creata una specie di zona franca, una casella di nuovi poteri per cui non c’è posto nella realtà. Questo non fa altro che danneggiare oppure paralizzare quelli che dovrebbero tutelarla.

9.

Pazienza e impazienza

L’impazienza, lei dice, è uno dei caratteri dominanti dell’architettura contemporanea. Che cosa vuol dire? È un’espressione che traggo da Le Corbusier. La caratteristica dell’architettura moderna, diceva, è la «recherche patiente». Occorre essere pazienti, l’architettura non è un’attività che si realizza producendo cose dall’oggi al domani. È un’arte difficile, dove quasi non esiste la precocità e tutta una vita basta appena per imparare la virtù principale, cioè la capacità di distinguere fra quel che è importante e quel che non lo è. È un tirocinio lento. Invece il successo precoce – un successo di pubblico o mediatico – è una caratteristica oggi frequente e spesso decisiva, che talvolta congela una ricerca in atto rendendo definitive le carenze di ogni esordio e attribuisce immediatamente a un autore un’immagine riconoscibile. Mi fa un esempio? Daniel Libeskind, classe 1946, realizza fra il 1989 e il 1999 il Museo dell’Ebraismo a Berlino. La conformazione e la sequenza degli ambienti interni, deformati sia in pianta che nell’alzato, sono un commento architettonico mirabilmente adatto ai fatti storici che lì sono raccontati e ai documenti esposti in quel museo. È un edificio efficace e ­137

commovente. Ma poi Libeskind separa questo linguaggio dai suoi contenuti e ne fa la costante di opere successive completamente d’altro genere: l’Imperial War Museum di Salford, vicino a Manchester, o il Postgraduate Center della London Metropolitan University. E questo linguaggio lo adopera, in scala gigantesca, nel progetto per la ricostruzione di Ground Zero a New York. Oltre Libeskind mi pare che altri architetti usino soluzioni molto simili fra loro per occasioni diverse. Questi protagonisti impazienti della scena attuale arrivano al successo e si sentono prematuramente soddisfatti. In questo modo, però, perdono quella pazienza raccomandata da Le Corbusier e ricadono, volentieri o no, nel mercato delle tendenze ideologiche dominanti. Qual è il segno di questa impazienza? La spia è la tendenza alla ripetizione e al manierismo individuale, che convive con l’organizzazione complessa degli studi oppure conduce a scaricare il lavoro su consulenti specializzati esterni, mentre gli atelier personali conservano un’impronta artistica e debordano in molti casi verso una produzione virtuale. Ci avviciniamo ai territori luminosi e fosforescenti delle archistar? «Archistar» è un termine munito addirittura di copyright. L’hanno coniato nel 2003 due studiose italiane, Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, in un libro intitolato Lo spettacolo dell’architettura, attribuendolo agli architetti scelti per fare da testimoni a marchi famosi – Rem Koolhaas per Prada, Alessandro Mendini per Alessi, Santiago Calatrava per Mercedes, Massimiliano Fuksas per Renault, Jean Nouvel per Vitra. A parte i nomi che ho citato, e parlando in generale, le archistar appartengono a un sistema che non è quel­138

lo che chiamiamo architettura moderna. È un’altra attività che ha più a che fare con l’advertising, con la pubblicità. La caratteristica prevalente è che tutto gira intorno a remunerazioni elevatissime. È un’architettura che piega verso la creazione artistica: se l’architettura viene giudicata come uno dei mezzi per influire sul mercato delle idee, dell’immagine, della moda, è pronta per entrare in un mondo del tutto diverso da quello cui siamo abituati. Se torniamo alle parole di Le Corbusier, l’architettura è un servizio che si presta all’uomo, per l’intera vita quotidiana, non solo per la ricreazione. Il sistema delle archistar slitta in un campo dove ci sono molti più soldi e dove i tempi sono brevissimi, dove un battage ben riuscito crea la fama di una persona. Nel 2005 un critico famoso, Germano Celant, ha auspicato che l’architettura si liberi dagli aspetti funzionali. «Lavori sulla pelle», ha scritto, «e poi ci metta dentro i servizi». Qualcuno sostiene che questa architettura sia comunque portatrice di innovazioni. Lei che ne dice? Vedendo caso per caso, non è detto che non ci sia nulla da imparare dalle cosiddette archistar, per esempio nell’uso dei materiali. Solo un esempio: c’è stato un periodo in cui andava di moda fare le cantine delle aziende enologiche. Per quei lavori si sono sperimentate tecniche di un certo interesse. Consideri alcune delle cantine realizzate dagli svizzeri Herzog e De Meuron, per esempio. Di interesse, sempre che ci si limiti a quel campo specifico, però. È un mondo diverso. È il mondo della pubblicità, del loisir, non delle esigenze quotidiane. L’architettura, tornando alle cose che lei sostiene, non è più il modo per concepire la localizzazione dell’uomo nello spazio e per disciplinare questa localizzazione. L’oggetto maggiormente curato dall’architettura moderna è sempre stata la residenza. Non è un’esigenza tramontata: facendo il conto delle ore di una giornata, la casa continua ­139

a essere il luogo in cui è occupato un terzo del tempo di vita di una persona. L’archistar non pensa alla residenza, ma all’allestimento di uno sfondo decorativo. Sono attività in cui si raggiungono subito lo scopo e il riscontro. Il design produce utensili spesso essenziali per la vita quotidiana. Ma creare il benessere o anche solo il conforto complessivo è un’attività più complessa, che richiede attenzione e tempi lunghi. Un conto è l’allestimento dell’intero involucro fisico in cui vive l’uomo, un conto concentrarsi sull’arredo. A me questa parte dell’architettura, che ricerca effetti spettacolari, non interessa. Resto fermo alla distinzione che risale agli anni Venti del Novecento fra l’architettura che è cura complessiva dello scenario in cui l’uomo si muove e quella che offre divertimento e pause, andando incontro alla pigrizia del destinatario e dei mezzi di comunicazione. Lei tocca una questione delicata. L’architettura occupa molto spazio nel sistema informativo. Quotidiani e riviste sono piene di immagini d’architetture e parlano spesso di architettura. D’altronde i grandi studi hanno apparati di press agent che fanno invidia alle case cinematografiche. Proviamo a fare un passo indietro: quand’è che l’architetto diventa un personaggio da rotocalco, un uomo o una donna alla moda? Credo che ciò accada a partire dagli anni Ottanta, più o meno in coincidenza con il sorgere dell’ideologia postmoderna, quando Ray C. Smith scrive il celebre Supermannerism. New Attitudes in Post-Modern Architecture (la traduzione italiana, di Laterza, è del 1982, il libro è del 1977), dando per avvenuta la fine dell’architettura moderna. In quel periodo l’architetto diventa un protagonista mediatico, i problemi dell’architettura trovano ampio spazio sulla stampa periodica e arrivano – molto spesso in forma banalizzata – al grande pubblico. L’establishment dell’architettura si organizza e si complica; nascono o si moltiplicano le pubblicazioni, le mostre, le occasioni per esporre progetti. Si organizzano convegni e prende il via ­140

un premio che vuole proporre riconoscimenti all’eccellenza in tutto il mondo, il Pritzker, molto imparzialmente assegnato nel 1979 a Philip Johnson, l’anno successivo a Luis Barragan e quello ancora dopo a James Stirling. Cambia la fisionomia dell’architetto, il suo ruolo sulla scena pubblica. Se la paragoniamo a quella che si impone con il movimento moderno, non c’è dubbio. Walter Gropius ha sempre insistito sul fatto che la misura principale del lavoro degli architetti fosse quella del progresso comune, non della grandezza individuale. Gropius non è stato il più eminente architetto del Novecento, ma la grande opera della sua vita è stata proprio aver tentato di definire il carattere unitario, razionale, oggettivamente controllabile del movimento moderno. Dal canto suo, Le Corbusier si impegna in un compito chiarissimo: scopo dell’architetto non è la modificazione della forma degli edifici nel quadro della città tradizionale, ma l’invenzione di una città diversa. Insiste sulla razionalità e la generalizzabilità delle proprie indicazioni, rifiutando di lasciarsi trascinare nel mondo dell’intrattenimento e di diventare un artista soddisfatto e strapagato. Le posso leggere un brano tratto dai suoi appunti scritti nell’estate del 1965, un mese prima di morire? Certamente. Scrive Le Corbusier: «Ho 77 anni, e la mia morale si può riassumere così: nella vita bisogna operare; agire, cioè, nella modestia, nell’esattezza, nella precisione. L’unica atmosfera possibile per la creazione artistica è la regolarità, la modestia, la continuità, la perseveranza. L’unica cosa trasmissibile è il pensiero, la parte nobile del frutto del lavoro. Questo pensiero può diventare, o no, una vittoria sul destino al di là della morte e assumere forse un’altra dimensione imprevedibile». ­141

Proviamo a introdurre qualcuno di questi protagonisti della scena architettonica. Di Libeskind abbiamo parlato. Tocca a Frank O. Gehry. Gehry è un architetto già anziano, che da poco ha compiuto gli ottant’anni. La sua fama mondiale comincia dal Museo Guggenheim di Bilbao. L’area scelta per quell’edificio era in una zona periferica della città, ma lui ne preferì una più ristretta in pieno centro. Ne è nato un manufatto insolito, dove la presenza dei locali interni è nettamente subordinata al prestigio dell’immagine esterna in quel particolare contesto cittadino, che indubbiamente ha contribuito a rivitalizzare. La finitura delle forme plastiche produce un effetto paesistico sorprendente. Ma ritengo che, in questa come in altre opere successive, la predilezione per le forme oblique e curvilinee in fondo è molto meno elastica dell’ortogonalità. Provo a dirlo in altri termini: troppe curve non consentono di avere la stessa disponibilità di spazio garantita da pareti lineari. Che per un museo non è cosa di poco conto. Penso che Gehry paghi un prezzo figurativo e non solo funzionale molto elevato. Si vincola a una serie di effetti che impoveriscono il suo lavoro. Non ha l’aria di credersi un genio, parla spesso come un artigiano. Lo conosco personalmente, sono i suoi ammiratori che lo ritengono tale: inoltre molti suoi estimatori hanno creato intorno ai suoi edifici un alone artificialmente aggressivo. Ho l’impressione che Gehry si diverta a inventare forme avendo persino la consapevolezza che contino poco, ma gli portano un sacco di soldi. In molte sue opere l’ornamentazione di volute metalliche diventa una specie di decorazione aggiunta a richiesta. A Los Angeles per la Walt Disney Concert Hall, era partito disegnando una grande sala di forma irregolare, ma studiandola a fondo, analizzando gli effetti acustici è tornato sui suoi passi e ha realizzato uno spazio molto meno complesso. Le forme possono essere ­142

manipolate, ma solo se si ha in mente un esito complessivo, un guadagno da questo sviluppo. Le consuete modanature metalliche che rivestono l’edificio producono un effetto inaspettato in quella zona di Los Angeles, imprimendo un segno vigoroso nel paesaggio cittadino. Zaha Hadid? Zaha Hadid è un’artista nel senso tradizionale della parola. Realizza sculture e soprammobili. Che hanno un loro mercato, ma coprono una fetta infinitamente meno importante nella vita delle persone. Fa una dichiarazione ben strana: perché limitarsi, dice, a considerare solo l’angolo di 90 gradi? E non invece gli altri 359? E lei come valuta questa affermazione? C’è indubbiamente un privilegio nel considerare tutti interi i 360 gradi. Ma qui occorre tornare, come si dice, ai fondamenti: nel Poème de l’angle droit (Edition Verve, 1955) Le Corbusier spiega che nelle dimensioni di un manufatto dentro il quale l’uomo vive, il pavimento e le pareti in altezza stanno fra di loro in un rapporto di angolo retto. Questo rapporto non è un capriccio: è condizionato dall’attrazione terrestre che attraversa come un asse il corpo umano consentendogli di stare in piedi. Non è una di quelle regole che si possano violare per amor di bizzarria. Introdurre angoli diversi, senza motivi adeguati è un impiccio o un imbroglio. Santiago Calatrava lo ha conosciuto? No, ma vedo le sue cose. Esordisce come un carpentiere, realizzando costruzioni ferroviarie e ponti. Poi si innamora di certi effetti che queste forme producono se combinate fra loro e diventa un decoratore. Ama queste nervature che diventano ventagli. I ponti gli riescono bene se si riesce a farglieli fare nelle condizioni in cui l’invenzione è ­143

guidata da un effettivo senso. Nel 2004 ha realizzato i manufatti per le Olimpiadi di Atene, forse il suo intervento più ambizioso. In questi edifici sono evidenti le sue capacità e i suoi difetti: la megalomania, la preferenza per gli effetti vistosi e le strutture semoventi. Se lo si lascia libero, le conseguenze sono imprevedibili. Con lui accade come con gli attori al cinema: se il regista è bravo non lascia mai che l’attore reciti per conto suo e lo riprende. Proviamo con qualche italiano: Massimiliano Fuksas. È stato un mio studente a Roma. Un simpatico bohémien. Ha trovato il successo in Francia, ma poi lo ha moltiplicato in Italia e ora è un protagonista della scena architettonica. Sta realizzando il Palazzo dei Congressi a Roma, formato da una teca dentro cui ha immaginato una nuvola che ha la forma del cadavere di una pecora. Si affida completamente all’invenzione, ma non sa conformarvi le realizzazioni concrete. Non conosce, per esempio, i giunti che sappiano rendere fluida una forma composta di pezzi eterogenei. Come nel caso della pensilina di vetro alla Nuova Fiera di Milano che forma una specie di portico ed è sostenuta da un’armatura metallica. Non sono cose semplici. Altro esito ha la cupola di Norman Foster per il Reichstag di Berlino. Renzo Piano, invece, fa parte ai suoi occhi di un’altra categoria. Certamente. La sua base è tecnologica, ma è capace di correggersi, credo che sia la sua dote principale. Invece di seguire il percorso più tipico delle archistar, che è quello di fare un po’ le cose come vengono, e quindi di peggiorare, lui inventa modi per ottenere dai materiali nuovi effetti. Per esempio studia pareti vetrate con pezzi saldati fra loro, realizzando una interessante varietà di forme. Come è accaduto a Tokyo, discute con il vetraio e scarta determinate ricerche che lo allontanano dal suo obiettivo. Se fa un grattacielo, come quello del «New York Times» a Manhattan, ­144

si preoccupa che sia possibile la pulizia e quindi invece dell’acciaio adotta la ceramica. Anche Gehry ha l’inventiva, ottiene bellissimi effetti con il titanio: ma da questo alla qualità dell’intero manufatto ce ne corre. La produzione di Piano sale di tono a cominciare dagli anni Novanta e le sue ultime opere sono quasi sempre di prim’ordine: il Centro culturale Jean Marie Tijbaou in Nuova Caledonia, l’Auditorium Niccolò Paganini di Parma, la Torre Kpm di Rotterdam, la Maison Hermès a Tokyo, il Museo della Scultura di Dallas, il Paul Klee Museum di Berna e la Bridge Tower di Londra. Piano resta l’esempio dell’attitudine a migliorare se stessi anche alla soglia e oltre i settant’anni. Koolhaas? Sperimenta se stesso in una quantità di campi, l’architettura, l’urbanistica, l’elaborazione culturale, l’animazione teorica e poi il cinema, la critica, l’insegnamento. Il suo libro Delirious New York, uscito nel 1978 (tradotto in Italia da Electa), offriva un apprezzamento per il caos e la congestione urbana e fece rapidamente il giro del mondo. Le sue doti sono evidenti. Si interessa meno di molti altri architetti dell’apparenza epidermica e gioca con la distribuzione spaziale dell’edificio, sviluppandola con forme libere che spesso nel loro insieme sono montate in modo compatto. La Casa da Musica di Oporto è un esempio recente. Ha assunto sempre più importanza sulla scena internazionale sia con le sue opere sia con le teorizzazioni sul rapporto fra architettura e società. Il primo lavoro di rilievo lo realizza ad appena 35 anni, nel 1979, pochi anni dopo la fondazione del suo studio, l’Oma, ed è un lavoro su scala urbana: il piano di Rotterdam Zuid avviato dopo che le attività portuali lì concentrate si sono spostate verso la foce del Maas, liberando le banchine e destinandole ad altri usi. In questa vicenda, Koolhaas guida progetti realizzati da Foster – il grattacielo dell’Autorità portuale – o da Piano – la Torre Kpm, già ricordata. Ma a suo vantaggio ­145

è da ascrivere la gestione pubblica di tutta l’operazione, decisa dalle autorità olandesi, che rende razionale l’uso dei suoli fabbricabili, seleziona i progetti migliori e garantisce che la libertà dell’architettura serva gli interessi generali e non quelli della proprietà privata. La stessa procedura caratterizza il riuso dell’area Ij Plein ad Amsterdam. Fra gli anni Novanta e i primi del Duemila realizza alcune opere, la Torre Mab a Rotterdam Zuid, il Congrexpo a Euralille e il centro d’affari costruito intorno alla stazione del Tgv, di cui coordina il piano urbanistico. Poi arrivano i grandi edifici americani, il Guggenheim di Las Vegas, il Campus Center dell’Illinois Institute of Technology e la Central Library di Seattle. Questi edifici producono una serie di interrogativi, a cominciare dal quesito se la sommarietà dell’apparenza visiva sia o meno un espediente polemico voluto da Koolhaas stesso o un residuo della tendenza decostruttivista molto diffusa all’epoca degli esordi dell’architetto olandese. Qui si tocca un punto problematico dell’esperienza di Koolhaas: l’abitudine, spesso artificiosa e fuorviante, di affiancare all’edificio una presa di posizione teorica, che talvolta ha la meglio sul lavoro concreto. In questa riflessione su Rem Koolhaas colpisce il rilievo che lei dà alle procedure urbanistiche in Olanda. Esse ripropongono metodi ormai sperimentati in quel paese che, aggiornati, consentono alla progettazione di toccare vertici di innovazione e di libertà altrove improponibili. È uno dei punti centrali anche di questa conversazione, che ora volge al termine. Provo a sintetizzare con un’espressione forse troppo semplice, ma che spero renda l’idea: la buona architettura nasce dalla buona urbanistica. Non c’è progetto che regga alla sfida di una società democratica e complessa che non sgorghi da una pianificazione territoriale, da una preoccupazione per gli effetti che si producono in un territorio vasto. Dagli anni Ottanta in poi in Italia è prevalsa l’attenzione alle trasformazioni puntuali a scapito di quelle che investono il territorio inteso come sistema. Si bada al dettaglio, più ­146

che all’insieme. All’individuale e non al collettivo. All’immediato e non alla lunga scadenza. È invalso il regime della deroga alle norme, degli accordi di programma fra autorità pubblica e proprietà privata al posto dei piani. L’urbanistica è diventata occasione di contrattazione, di scambio e non è più la scienza che dovrebbe organizzare gli interventi e le trasformazioni, coordinandole fra loro. La sempre più frequente dissociazione fra la disciplina collettiva che l’urbanistica propone e l’individualità della progettazione architettonica è spesso schizofrenica. Le due istanze possono combinarsi, ma anche paralizzarsi l’una con l’altra, impedendo un approccio soddisfacente alle sfide che si presenteranno nel futuro. Occorre recuperare, laddove è smarrito, il punto di equilibrio fra il controllo pubblico delle trasformazioni e la spontaneità dei singoli interventi: questo, come abbiamo visto, è il principio sul quale si è retta l’esperienza europea ed è anche il solo ideale di perfezione urbana a cui possiamo aspirare in una società democratica. Questo modo di intervenire nella città e nel territorio è ancora prevalente in Europa, ma viene spesso accantonato e non solo in Italia. Si prenda l’esempio di Berlino e degli interventi attuati dopo la caduta del Muro. Che cosa è successo a Berlino? Per sistemare l’Innerstadt, cioè la zona centrale della città, sulla quale ricadevano gli effetti della divisione, si è deciso di vendere i terreni pubblici agli imprenditori privati, riservandosi esclusivamente un potere di controllo attraverso una serie di piani e, solo dopo il 1999, mediante un piano complessivo curato da Hans Stimmann. L’area di Potsdamerplatz è stata ceduta nel 1990 e un anno dopo è stato avviato, in seguito a un concorso, un piano. Ma questo piano, in fasi successive, è stato sostanzialmente modificato, finendo con il lasciare assoluta libertà ai progetti architettonici e quindi ai possessori delle aree. Ma se ­147

nell’area di proprietà della Daimler Benz, grazie al piano di settore di Richard Rogers, e poi ai progetti dello stesso Rogers, di Arata Isozaki, Rafael Moneo, Hans Kollhof e Renzo Piano il risultato è accettabile, nella zona di proprietà della Sony non lo è affatto. Che cosa insegna questa vicenda? Che la cosiddetta ricostruzione critica della città è vanificata se si attua questo procedimento a cascata, per il quale tutto è rivedibile fino all’ultimo gradino della progettazione. Nessuna delle scelte iniziali, quelle che maggiormente riguardano l’assetto complessivo della città, può dirsi consolidata e si preferisce che le varie fasi siano sganciate fra loro, per salvaguardare l’assoluta libertà – economica, tecnica e formale – dell’ultimo passaggio, cioè il progetto d’architettura. C’è un solo episodio che abbia manifestato una qualità pari all’importanza delle vicende del 1989, la ristrutturazione del Reichstag di Norman Foster. Avviandoci alla conclusione, è inevitabile tornare all’Italia, al paese in cui la speculazione edilizia ha imposto la direttrice di marcia a gran parte della crescita urbana nella seconda metà del Novecento e tuttora. La speculazione non è eliminabile in un’economia moderna. Non si può pensare di cancellarla, ma di limitarla affinché non pregiudichi le trasformazioni del territorio solo a proprio utile. Purtroppo l’esito delle lunghe vicende che qui e altrove ho raccontato appartiene alle temibili evenienze che il nostro paese ha inscritto nella propria storia: si è in larga misura distrutto lo scenario antico, che ha avuto un ruolo fondamentale nella cultura mondiale. Viaggiando per l’Italia si scorgono alcuni singoli paesaggi, in qualche misura protetti, che formano un ristretto deposito, la cui marginalità è fattore di pregio. A quali luoghi pensa? ­148

Soltanto per citarne qualcuno, alla Val Nerina, fra Marche e Umbria, o al Montefeltro, intorno a Urbino, o alla Val d’Orcia, in Toscana, oggetto negli ultimi anni di tensioni e di interventi minacciosi. Oppure alle città medie e piccole che custodiscono capolavori d’arte e di architettura. Ma la situazione complessiva contraddice radicalmente il quadro offerto, per esempio, dalle grandi descrizioni di viaggio dei secoli XVIII e XIX e ancora per metà del XX. Quel quadro non esiste più. Le procedure urbanistiche sono diventate una merce di scambio fra operatori economici potenti e amministrazioni pubbliche deboli, come debole è la politica retrostante. La contrattazione è al ribasso. Gli spazi pubblici vengono ridotti a occasione per compensare la richiesta di sempre maggiori valorizzazioni immobiliari, per cui un costruttore per poter ottenere quel che vuole va dall’amministratore e gli offre verde o asili o piste ciclabili in cambio di concessioni edilizie per lui vantaggiosissime: il disegno della città in questo modo passa di mano e finisce in quelle private. Molto istruttivo è l’esempio di Milano, che in qualche modo è l’epicentro della cultura professionale italiana. Le principali trasformazioni investono il riuso di aree abbandonate. Tranne il caso della Bicocca, che resta un’eccezione, il meccanismo della valorizzazione fondiaria relega le scelte progettuali in zone marginali, dove l’amministrazione pubblica, muovendosi in casa d’altri, ha compiti ulteriormente subordinati, anzi inesistenti. Eppure vediamo mettersi in gioco grandi progettisti, i più noti al mondo: nell’area Garibaldi-Repubblica lavorano Ieoh Ming Pei e Cesar Pelli. Per l’area Montedison a Santa Giulia è stato coinvolto Norman Foster (ma al momento sembra tutto fermo), per l’area Ansaldo c’è David Chipperfield, a Sesto San Giovanni Renzo Piano. Molto indicativa è la vicenda della ex Fiera, dove sono stati selezionati Zaha Hadid, Daniel Libeskind e Arata Isozaki. Qui il Comune avrebbe ­149

potuto acquistare temporaneamente le aree, rivendendole agli operatori divise in lotti edificabili, in una condizione di pareggio economico, guadagnando però la libertà di intervenire nel progetto e in particolare regolando i rapporti su scala urbana, cioè controllando che i nuovi edifici avessero una relazione soddisfacente con il resto della città. E invece si è proceduto in altro modo. Infatti. È stato scelto il progetto peggiore: tre grattacieli da collezione frammentano il parco previsto. Isozaki ha clonato un suo lavoro precedente, l’ampliamento di una stazione a Tokyo, mentre Libeskind e Hadid hanno messo a punto due grattacieli che sembrano sculture gesticolanti e che è difficile immaginare di veder realizzate a grandezza naturale. Una vicenda istruttiva davvero. In Italia sono state stracciate le regole, si è costruito ovunque, dissipando territorio e paesaggi. Sì, ma ancora più preoccupante dell’aumento delle costruzioni è il privilegio accordato al disordine, che produce una voglia di edificare distinguendosi dagli altri e monetizzando le differenze. Questa è la vera sconfitta dell’architettura: i suoi risultati non vengono migliorati per selezione, come accade per tutti i prodotti dell’industria, perché quel che si ricava dalla rendita, dal comprare e vendere un terreno, è quasi sempre superiore a quel che si ricava dall’attività imprenditoriale, cioè dalla costruzione vera e propria. L’edificio è spesso un sottoprodotto che peggiora la situazione precedente. La distruzione del paesaggio italiano non è stato un fatto casuale o un risultato dell’incuria: è stata pagata in contanti. L’ammontare di questo esborso lo vediamo ristagnare nell’economia del nostro paese e lo riconosciamo nel prevalere del comparto finanziario rispetto a quello industriale, della rendita rispetto al profitto d’impresa. ­150

Gli autori

Leonardo Benevolo è il più noto studioso italiano di storia dell’architettura. Per i nostri tipi ha pubblicato, tra l’altro: La cattura dell’infinito (1991); L’Italia da costruire. Un programma per il territorio (1996); Le origini dell’architettura (con B. Albrecht, 2002); San Pietro e la città di Roma (2004); L’architettura nell’Italia contemporanea. Ovvero il tramonto del paesaggio (2006); Storia della città (4 volumi, 20062); L’architettura nel nuovo millennio (n.e., 2008); Storia dell’architettura del Rinascimento (n.e., 20082); Introduzione all’architettura (n.e., 20086); La città nella storia d’Europa (20089); Storia dell’architettura moderna (n.e., 20107); Le origini dell’urbanistica moderna (201022). Francesco Erbani lavora nella redazione culturale di «Repubblica». Nel 2003 ha vinto il Premio di Giornalismo civile e nel 2006 il Premio Antonio Cederna. Per i nostri tipi è autore, tra l’altro, di Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente (2002), L’Italia maltrattata (2003) e Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe (2010) e curatore di I vandali in casa. Cinquant’anni dopo di Antonio Cederna (20072) e La cultura degli italiani di Tullio De Mauro (n.e., 20103).

Indici

Indice dei nomi

Aalto, Alvar, 48. Albini, Franco, 34, 48, 62. Alemanno, Gianni, 111. Alvaro, Corrado, 56. Andreatta, Nino, 83. Antonio da Sangallo il giovane, 108. Argan, Giulio Carlo, 58, 101. Aristotele, 31. Astengo, Giovanni, 21, 34. Baccelli, Guido, 98. Ballio Morpurgo, Vittorio, 31, 114-115. Barragan, Luis, 141. Barucci, Pietro, 37, 45, 104. Basile, Ernesto, 105-106. Bassani, Giorgio, 55. Baudelaire, Charles, 29. Bazoli, famiglia, 83. Bazoli, Luigi (fondatore del Partito popolare), 83. Bazoli, Luigi, 77, 80-83, 85, 8889, 92-93. Belgiojoso, Lodovico, 34, 62. Belli, Giuseppe Gioachino, 99. Benevolo, Leonardo, v-viii, 32.

Berdini, Paolo, 17. Berlinguer, Enrico, 82. Bernini, Gian Lorenzo, 106, 108. Bertolucci, Attilio, 38. Biasini, Oddo, 103. Bo, Carlo, 130. Bonaparte, Napoleone, 27. Bonghi, Ruggero, 98. Borsari, Maurizio, 74. Bottai, Giuseppe, 31-32, 50-51. Bramante, 108. Brandi, Cesare, 102. Bresciano, Jacopo, 109. Briganti, Giuliano, 102. Bucalossi, Pietro, 73, 86. Bulgarelli, Germano, 74, 93. Cacciari, Massimo, 57, 130, 132. Cagnardi, Augusto, 96. Calatrava, Santiago, 138, 143. Calogero, Guido, 37-38, 44. Calogero, Maria, 37-38. Campos Venuti, Giuseppe, 74, 88, 93. Canali, Luca, 102. Caniggia, Gianfranco, 75, 124. Carducci, Giosue, 30.

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Casellati, Antonio, 57. Cassi Ramelli, Antonio, 62. Cederna, Antonio, 18, 55-57, 61, 96, 99-100, 103-105, 109, 122, 130-131. Celant, Germano, 139. Cervellati, Pier Luigi, 88, 92-93, 120, 123, 128, 132. Chiarini, Carlo, 46. Chipperfield, David, 149. Ciancimino, Vito, 121. Coarelli, Filippo, 96. Cortés, Hernán, 7. Costa, Radames, 93. Croce, Benedetto, 31. Croce, Elena, 55. D’Agostino, Roberto, 57, 132. d’Azeglio, Massimo, 29. De Carlo, Giancarlo, 121, 128130. De Chirico, Giorgio, 33. De Filippo, Eduardo, 47. De Lucia, Vezio, 66-67, 91, 96, 135. Del Debbio, Enrico, 31, 33. De Meuron, Pierre, 139. Dickens, Charles, 29. Dodi, Luigi, 75. Dolci, Danilo, 44. Evangelisti, Franco, 82. Fanfani, Amintore, 34. Fasolo, Vincenzo, 31, 46. Flaubert, Gustave, 29. Fontana, Carlo, 106. Foschini, Arnaldo, 31, 33-36, 50, 62. Foster, Norman, 144-145, 148149. Friedman, Friedrich, 38. Fuksas, Massimiliano, 138, 144. Galbraith, John Kenneth, 135. Gardella, Ignazio, 34.

Gehry, Frank O., 142, 145. Giovannoni, Gustavo, 31. Giura Longo, Tommaso, 37. Gnudi, Cesare, 101. Goethe, Johann Wolfgang von, 99. Gorio, Federico, 38. Gorrieri, Ermanno, 82. Gregotti, Vittorio, 96-97, 101102, 104. Gropius, Walter, 48, 141. Hadid, Zaha, 143, 149-150. Herzog, Jacques, 139. Hugo, Victor, 29. Iannello, Antonio, 122. Ieoh Ming Pei, 149. Indovina, Francesco, 121. Insalaco, Giuseppe, 121. Insolera, Italo, 45, 49, 96, 106107, 120. Isozaki, Arata, 148-150. Jaspers, Karl, 28. Johnson, Paul, 9. Johnson, Philip, 141. Kant, Immanuel, 31. Kierkegaard, Søren Aabye, 43. Kollhof, Hans, 148. Koolhaas, Rem, 138, 145-146. La Regina, Adriano, 96, 100. La Rocca, Eugenio, 102. Laterza, Vito, 46. Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret-Gris), 6, 22, 48, 60, 79, 89, 137-139, 141, 143. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 60. Leonardo da Vinci, 28. Leopardi, Giacomo, 29, 117. Levi, Anna Maria, 37-38. Levi, Primo, 38.

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Libera, Adalberto, 31. Libeskind, Daniel, 137-138, 142, 149-150. Liverani, Mario, 4-5. Lizzeri, Giancarlo, 75. Lorenz, Konrad, 23, 28. Lo Ricco, Gabriella, 138. Maderno, Carlo, 110. Mancini, Giacomo, 70. Manieri Elia, Mario, 49, 102. Manzoni, Alessandro, 29. Marcolini, Ottorino, 83-85. Marconi, Plinio, 31, 74. Maretto, Paolo, 124. Martines, Ruggero, 105. Martinotti, Guido, 75. Martuscelli, Michele, 70-71, 81, 135. Mascioli, Egidio, 130. Mazzarone, Rocco, 38. Mazzolari, Primo, 83. Meier, Richard, 114-115. Melograni, Carlo, 37, 107. Mendini, Alessandro, 138. Micheli, Silvia, 138. Michelucci, Giovanni, 31, 48. Mies van der Rohe, Ludwig, 10, 48. Milani, Lorenzo, 85. Mommsen, Theodor, 99. Mondrian, Piet, 129. Moneo, Rafael, 148. Monge, Gaspard, 27. Montefeltro, famiglia, 130. Montini, Giovanni Battista, vedi Paolo VI. Montini, Ludovico, 83. Moretti, Luigi, 31. Moro, Aldo, 82, 92. Muñoz, Antonio, 99, 102-103, 105. Muratori, Saverio, 31, 34, 36, 124. Mussolini, Benito, 32.

Nouvel, Jean, 138. Olivetti, Adriano, 37-39, 43-46, 58. Orlando, Leoluca, 120-122, 126127. Ossicini, Adriano, 37. Ossicini, Teresa, 37. Padula, Pietro, 92. Pagano, Giuseppe, 31, 33, 47, 114. Palazzo, Renato, 120, 122. Pannunzio, Mario, 56. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 83. Parini, Giuseppe, 29. Pasolini, Pier Paolo, 38. Pasolini dall’Onda, Desideria, 55. Pelli, Cesar, 149. Peruzzi, Baldassarre, 108. Petroselli, Luigi, 96, 101, 103. Piacentini, Marcello, 31-34, 48, 56, 80, 99, 107-108. Piano, Renzo, 144-145, 148-149. Piccinato, Luigi, 21, 31, 34, 4849, 62, 121. Piovene, Guido, 71. Pizzorno, Anna, 75. Platone, 31. Portoghesi, Paolo, 127. Quaroni, Ludovico, 15, 21, 31, 34, 37-38, 43, 45, 48, 50-51, 62. Quilici, Lorenzo, 100. Raffaello Sanzio, 109. Ridolfi, Mario, 31, 34, 45, 48. Rogers, Ernesto Nathan, 34, 62. Rogers, Richard, 148. Rossellini, Roberto, 47. Rossi-Doria, Manlio, 38-40. Ruskin, John, 29. Rutelli, Francesco, 103-104, 111.

­157

Salzano, Edoardo, 57, 92, 130131. Samonà, Giuseppe, 34, 62, 121. Scano, Luigi, 57, 131. Scotti, Vincenzo, 103. Smith, Ray C., 140. Spaccarelli, Attilio, 107-108. Spallino, Antonio, 75. Stendhal (Marie-Henri Beyle), 99. Stimmann, Hans, 147. Stirling, James, 141. Sullo, Fiorentino, vii, 51, 66, 86. Tacito, Publio Cornelio, 12. Tafuri, Manfredo, 49. Tentori, Tullio, 38. Testa, Virgilio, 31, 51. Toniolo, Mariolina, 132. Trebeschi, Cesare, 92-93.

Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 99. Turri, Eugenio, 17. Valori, Michele, 38, 49. Veltroni, Walter, 103-104, 111. Vernola, Nicola, 103. Vetere, Ugo, 103. Visentini, Bruno, 86. Volponi, Paolo, 38-39. Wittgenstein, Ludwig, 7. Zaccagnini, Benigno, 83. Zambrini, Guglielmo, 121. Zanotti-Bianco, Umberto, 55. Zavattini, Cesare, 56. Zeri, Federico, 102. Zevi, Bruno, 33-34, 56, 58-59, 62. Zoser, faraone, 5. Zucconi, Angela, 38-39, 41-45.

Indice del volume



Introduzione

v

1.

La fine della città? (Una riflessione a due voci sul futuro)

3

2.

Gli studi

23

3.

Gli inizi

37

4.

L’università

55

5.

Anni Sessanta, anni Settanta

66

6.

Brescia

77

7.

Roma

96

8.

I piani

119

9.

Pazienza e impazienza

137



Gli autori

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Indice dei nomi

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