Tamerlano, Il conquistatore delle steppe che assoggetto l'Asia dando vita a una nuova civilta 9788869737749, 9788869737039

Tamerlane was born in Asia during the disintegration of the Mongol empire, not far from Samarkand, into a family of the

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Tamerlano, Il conquistatore delle steppe che assoggetto l'Asia dando vita a una nuova civilta
 9788869737749, 9788869737039

Table of contents :
Tamerlano
Frontespizio
Introduzione
Note Introduzione
I. Esordi inconfessabili
Note Capitolo I
II. Emergere nella storia: l’ombra della tradizione mongola
Note Capitolo II
III. Difficili campagne in Asia centrale
Note Capitolo III
IV. Le guerre persiane di Timur
Note Capitolo IV
V. Dal Khorasan alla Georgia
Note Capitolo V
VI. Timur entra nel regno muzaffaride
Note Capitolo VI
VII. Il nemico nomade
Note Capitolo VII
VIII. Shāh Manṣūr e Sulṭān Aḥmad
Note Capitolo VIII
IX. Assestamenti anatolico caucasici
Note Capitolo IX
X. La resa dei conti con Toqtamish
Note Capitolo X
XI. L’India
Note Capitolo XI
XII. Delhi, le pendici del Himalaya e la Grande Moschea di Samarcanda
Note Capitolo XII
XIII. Mīrānshāh tenta di appropriarsi del potere e altre irrequietezze famigliari
Note Capitolo XIII
XIV. Contro i Mamelucchi
Note Capitolo XIV
XV. Dalla devastazione di Baghdad ai confini ottomani
Note Capitolo XV
XVI. La guerra ottomana
Note Capitolo XVI
XVII. Dopo Ankara
Note Capitolo XVII
XVIII. Ultime imprese
Note Capitolo XVIII
XIX. Fortune del mito di Tamerlano in Asia
Note Capitolo XIX
XX. Tamerlano europeo
Note Capitolo XX
NOTE
Glossario
Bibliografia
1. Fonti
2. Studi
Cartine
Indici
Indice dei nomi
Indice

Citation preview

PROFILI direttore ANDREA GIARDINA condirettori LUIGI MASCILLI MIGLIORINI e GHERARDO ORTALLI 106

MICHELE BERNARDINI

TAMERLANO

SALE RNO E DITRIC E ROMA

La collana «Profili», già diretta da Giuseppe Galasso, è stata fondata da Luigi Firpo. * Il volume è stato stampato con un contributo del “Progetto MUR - Storia, lingue e culture dei paesi asiatici e africani: ricerca scientifica, promozione e divulgazione”. Copertina: Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di Tamerlano (1552-1568). Firenze, Galleria degli Uffizi. Elaborazione a cura di Grafica Elettronica, Napoli * Composizione presso Graphic Olisterno, Portici (NA) Cartine di Luisa Sernicola

edizione digitale: settembre 2022 ISBN 978-88-6973-774-9 1a edizione cartacea: settembre 2022 ISBN 978-88-6973-703-9 1a

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2022 by Salerno Editrice S.r.l., Roma

Ad Angelo Michele Piemontese

I NTRODUZ ION E Sin da epoche molto remote, in Oriente come in Occidente, la figura di Timur, noto in Italia come Tamerlano, è stata investita di caratteri sovrannaturali che hanno portato a riscrivere la sua vita attraverso trattati filosofici, opere teatrali e musicali, poemi e poesie, scritti sull’arte della guerra, cronache universali, opuscoli, quadri, statue, scenografie teatrali, film e persino fumetti. Eppure, esistono poche traduzioni integrali moderne delle cronache contemporanee o immediatamente posteriori a Timur e, con rarissime eccezioni, gli studi piú seri sul personaggio sono rimasti appannaggio degli specialisti. Le ininterrotte campagne militari del condottiero trecentesco hanno portato storici e apologeti a paragonarlo ad Alessandro Magno. A queste comparazioni se ne aggiungeranno altre con personaggi del passato, magari Chinggis Khān,1 il Re Sole, Napoleone, Nādir Shāh o persino personaggi piú recenti come Stalin. Questi parallelismi hanno orientato la stesura di un numero imprecisato di biografie che esaltavano e ancora oggi esaltano i tratti eroici di Tamerlano in libri dai titoli altisonanti, necessari per garantirne la vendita nelle librerie. Ricorrente è l’attribuzione di tratti ieratici e monumentali a un uomo che in realtà aveva una salute precaria, e controllava con difficoltà la sua stessa famiglia. Un individuo che si dedicò principalmente alla guerra con alcune intuizioni politiche, ma con ridotte, se non nulle, capacità di legislatore; praticava una religiosità di comodo, quando non era incline alla superstizione e alla magia, e aveva limitati interessi culturali, fondamentalmente destinati a una ossessione autocelebrativa prossima alla megalomania. Eppure, la concezione eroica prevale e pervade la mente di molti suoi biografi, che ne esaltarono e ne esaltano le gesta mescolando spesso un certo gusto per gli eventi cruenti a un piacere esotico per il personaggio. In Oriente, il successo fu uguale, non solo in India, dove i suoi discendenti diedero vita alla dinastia Moghul, ma anche nella Persia safavide e persino nell’Impero ottomano che gli sopravvisse con difficoltà e dove fu celebrato tra le righe delle cronache talvolta come modello da emulare; naturalmente in Asia centrale la sua figura dominò una vasta letteratura che sconfinava nel fantastico. Negli ultimi decenni Timur è diventato protagonista di libri scolastici e trattati scritti ad arte nell’attuale Repubblica dell’Uzbekistan, dove è stato eletto, non senza anacronismi, come fon9

introduzione

datore dell’odierna nazione centroasiatica, con tanto di grandiose statue equestri nelle piazze del paese e giubilei celebrativi. L’insieme di queste testimonianze non può essere trascurato. Questa mescolanza di “sacro e profano” infastidisce molti specialisti ma un’indagine storica su Tamerlano deve tener conto del magma di informazioni che ne modellarono la percezione, fin dalle sue prime imprese. Tale influsso risulta ancor oggi determinante per tracciare il profilo di Timur, tanto che sembra difficile sottrarsi alla sua leggenda, vuoi per l’orrore che certe imprese suscitano, vuoi per l’apparente invulnerabilità sistematicamente attribuitagli dalle fonti. Ho deciso, perciò, di impegnarmi in un lavoro che non intende assolutamente ristabilire verità spesso incerte, ma vuole offrire lo spaccato di un periodo storico in fin dei conti inesplorato e forse, piú di altri, rimaneggiato e manipolato con intenti diversi, ma condizionati da un unico postulato di fondo: che Tamerlano fosse una sorta di creatura titanica, proveniente da un oltre-mondo, dotato di sovrannaturale potenza, e capace di assoggettare l’altrui volontà secondo un disegno di dominio universale. Questo assunto di base, pur nella sua banalità, ha trasformato un fenomeno storico complesso in un castone cristallizzato al cui fascino, uomini anche di grande valore, non hanno saputo per secoli sottrarsi. Timur si inseriva nella storia del mondo come fattore straordinario, fuori dalle logiche consolidate. Un corto circuito nel piú “naturale” divenire degli eventi: in poco piú di trent’anni invade mezza Asia e poi gran parte dei suoi regni si dissolvono in un tempo altrettanto breve. Se i suoi discendenti hanno fondato una civiltà straordinaria, spesso comparata al Rinascimento, furono anche i primi ad abbandonare lo spirito che aveva guidato il fondatore della dinastia. Non sono mancate le dispute accademiche: alcune possono sembrare curiose, se non francamente pedanti a posteriori. Hanno fatto però versare fiumi di inchiostro. Una per tutte: il sultano ottomano Bāyazīd, fu davvero rinchiuso da Timur in una gabbia dopo la sconfitta di Ankara? Sembrerebbe di no, ma a ben vedere nulla impedisce di credere il contrario. Affrontando le cronache del tempo, sviscerandole e cercando di capire le biografie di chi le ha scritte, tentando di definire il contesto storico e geografico nonché lo spirito di quelle opere, ci si renderà conto presto che numerose interferenze hanno condizionato pressoché tutti gli autori che si sono dedicati a Timur. Alcuni con adulazioni piú o meno indotte hanno redatto autentici panegirici, è il caso di Sharaf al-Dīn ‘Alī di Yazd, storico 10

introduzione

quattrocentesco persiano estensore di un trattato annalistico di successo copiato in centinaia di manoscritti fino al XX secolo. Altri piú accorti hanno provato a inserire dati autobiografici, arricchendo cosí i propri lavori, come il meno noto Niẓām al-Dīn Shāmī, l’affascinante ‘Azīz Astarābādī autore di una biografia di Burhān al-Dīn di Sivas, rivale di Tamerlano, o l’enigmatico Naṭanzī. In alcuni casi dei cronachisti dell’epoca hanno riversato la propria finezza intellettuale nelle loro descrizioni, come è il caso di Ḥāfiẓ-i Abrū. Altri si sono soffermati su aspetti particolari della sua vita, come Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī che ne descrisse dettagliatamente la campagna indiana. Alcuni letterati, avvelenati dalle vicende personali, hanno lavorato per demolirne sistematicamente il mito, tra questi l’arabo Ibn ‘Arabshāh che ci ha lasciato una controstoria tesa a smentire molto di ciò che troviamo nelle cronache ufficiali. Cosí tutte le opere che descrivono la storia dei regni che tentarono di contrastare Timur hanno affrontato il personaggio demonizzandolo, oppure sminuendo l’entità delle sue imprese. È il caso delle fonti ottomane del Quattrocento e di quelle georgiane, di quelle mamelucche e di quelle indiane, queste ultime tra tutte le piú laconiche. Numerosi testimoni, estranei alla celebrazione o al discredito, sono stati spinti a loro volta da una forte curiosità e non si può non citare la memorabile spedizione dell’ambasciatore di Castiglia Ruy González de Clavijo, cosí come la vicenda del ruvido soldato bavarese Johannes Schiltberger, la dottrina di Beltramo Mignanelli, o le acute considerazioni dello storico maghrebino Ibn Khaldūn. Ciò detto, le fonti persiane arabe o turche, nonché europee, bizantine, armene, georgiane, indiane e cinesi forniscono ancora una miniera di dati da esplorare. Ci si può intravvedere incertezze, critiche nascoste, motivi di autentica ammirazione, alcune rivalità tra gli autori e una innegabile componente letteraria; allo stesso tempo, esse forniscono preziosi dati antropologici, geografici, economici, sociali e culturali, talvolta attraverso cenni e allusioni, talaltra con intere divagazioni e un’infinità di riferimenti al passato a dimostrazione che la storia di un uomo ne contiene necessariamente molte altre. Non mancano le mistificazioni, come le presunte Istituzioni (Tuzūkāt) di Timur, scritte in realtà in epoca moghul e utilizzate spesso come fonti indiscutibili sulla sua vita, o l’opera di chi in Occidente si è divertito a introdurre episodi mai avvenuti, tale è la storia del genovese Axalla, oppure le numerose fantasie di Jean du Bec e quelle consimili del Seigneur de Sainctyon. 11

introduzione

Il dato evenemenziale costituisce una filigrana indispensabile, ma può dirsi solo parzialmente esplorato nel caso di Timur. Per evento non si intende solo ovviamente le battaglie o gli episodi biografici, ma anche la diffusione delle idee, le vite dei contemporanei, le credenze religiose, i conflitti sotterranei e alcuni rari momenti di pace in cui necessariamente questo personaggio dall’energia inesauribile si è dovuto pure lui fermare. In quei momenti è diventato il committente di straordinarie costruzioni. Non vi mancano elementi psicologici e una dimensione esistenziale talvolta molto cupa che condizionò le scelte di Timur nei momenti cruciali della sua vita. Nel mio caso mi sono dedicato a districare un groviglio testuale: particolari apparentemente insignificanti sono diventati pregni di senso e motivazioni, una volta ricollegati a un contesto piú generale che è quello dell’Asia islamica all’indomani della dominazione mongola. Un’età definita premoderna da chi ha voluto fare quest’omaggio alla periodizzazione storica nata e sviluppata in un’Europa lontana. Piú semplicemente si potrebbe parlare di una fase storica di mutazione di assetti sociali e culturali particolari, in un quadro geografico molto vasto. Se c’è un tratto di modernità esso sta proprio nella nascita dopo Tamerlano di nuovi stati che, mutatis mutandis, sono divenuti la Persia safavide, l’Impero ottomano, l’India moghul, gli stati shaybanide e astrakhanide d’Asia centrale, tutte entità politiche alle quali sono debitrici appunto le moderne nazioni di Turchia, Iran, India, Uzbekistan, per rimanere alle principali. Neppure l’idea di un’epoca di decadenza che sarebbe iniziata allora può risultare convincente. Senza soffermarsi sulle straordinarie scoperte scientifiche del principe Ulugh Beg, diretto discendente di Tamerlano, si può certo affermare che non vi fu un “addormentamento” storico, quanto piuttosto un’evoluzione consistente del mondo asiatico islamico, e non solo, che aveva visto la conclusione del ciclo vitale del dominio califfale piú di un secolo prima. Non necessariamente un progresso, ma neanche un regresso, un processo di rigenerazione dello stesso mondo islamico che aveva da tempo perduto alcuni dei tratti originari e ora entrava in una nuova dimensione sociale e culturale. Se c’è un dato che colpisce nelle imprese di Timur, è quello di una profonda cesura storica, forse ancor piú di quanto non fosse avvenuto col suo predecessore Chinggis Khān, spesso additato come suo modello. Ci sono poi le ossessioni formali della ricerca odierna dominata dai dibattiti su quale linguaggio sia piú adeguato a definire in modo corretto, o 12

introduzione

forse politicamente corretto, fenomeni storici, culturali e sociali del passato. È il caso del termine « orientalistica », ora diventato « studio dell’Asia » (come se questo facesse la differenza), un tabú lessicale imposto alla materia dopo molti arrovellamenti e riflessioni estenuanti. Campioni di questo genere di trasformazioni concettuali sono alcuni maestri degli studi post-moderni e post-coloniali che non solo hanno inventato nuovi linguaggi, ma si sono dedicati, in maniera sistematica, alla ridefinizione della materia di studio, ne siano un esempio la Global History o la World History, o l’uso pervasivo di tecnicismi inutili come l’inglese persianate, per definire la diffusione del persiano con una sottintesa volontà di affermare primati culturali in un mondo caratterizzato da molteplici tradizioni linguistiche, e non solo, poco avvezzo in quel lontano passato a sentimenti nazionali come noi li intendiamo oggi. È evidente che si debba trovare continuamente un nuovo modo di vedere le cose, ma è altrettanto evidente che questo modo di procedere nasconda delle insidie: una di esse sta nella semplificazione dei fenomeni e spesso nella costruzione di calderoni di ridotta utilità per lo storico, se non per far scrivere trattatelli brillanti con conclusioni che perdono peso poco dopo essere state espresse. Queste possono indurre a un loro uso strumentale, a volte anche molto manipolatorio. Ho deciso perciò di esprimere concettualizzazioni solo dopo attente riflessioni e dove esse mi sembravano inderogabili per la comprensione di ciò che dicevo. Non l’inverso: partire da postulati, magari suggestivi, per ridefinire gli eventi sotto angolature accattivanti. ★

Ci sono infine ricerche e figure di studiosi che hanno dominato il mio lavoro; alcuni appartengono al passato, altri al nostro tempo. Non sono mancati infatti, e non mancano oggi, gli studiosi che hanno permesso di rileggere la storia di Tamerlano in modo nuovo. Vasilij Bartol’d (1869-1930) è forse stato il primo a rimettere sui binari una tradizione narrativa francamente caotica con una serie infinita di precisazioni fondamentali per capire la figura di Timur. La sua Opera omnia (Sočinenija) è una vera e propria enciclopedia di cui nessuno può fare a meno se vuole occuparsi di Asia centrale. Jean Aubin (1927-1998) è stato invece un sovvertitore sistematico di idee preconcette e di cattive formulazioni storiche, soprattutto a lui si deve lo sforzo per il disvelamento degli angoli piú bui della carriera di Tamerlano, in particolare quelli relativi ai primi quarant’anni della sua vita.

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introduzione Tra gli autori piú recenti, John Woods ci ha permesso di conoscere a fondo la storiografia del tempo, superando banalizzazioni e denigrazioni superficiali. Con il suo fondamentale articolo The Rise of Tīmūrid Historiography del 1987, ha ricostruito un universo che risultava di fatto inesplorato; non mi soffermerò sul resto delle sue ricerche, di cui mi sono pure ampiamente servito. Ho avuto la rara fortuna di poter scambiare con lui idee e opinioni, fondamentali per capire il mio stesso lavoro e lo ringrazio sentitamente per l’aiuto fornitomi. Ringrazio Beatrice Forbes Manz, autrice del saggio pionieristico The Rise and Rule of Tamerlane apparso nel 1989, la quale mi ha offerto in anni lontani la sua amicizia preziosa, permettendomi di capire un’infinità di aspetti particolari o sostanziali. Devo molte riflessioni acute a Denise Aigle, grande esperta francese dell’età mongola e dei fenomeni religiosi che ritroveremo spesso in questo saggio. Verso Maria Szuppe, raffinata conoscitrice dell’età timuride e studiosa di valore, sono debitore di un rigore analitico profondo, direi “senza scampo”, quando si tratta di ripercorrere la storia dell’Asia centrale. Lisa Golombek è stata tra gli iniziatori dei miei studi timuridi e non posso non esserle riconoscente; lo stesso vale per i compianti Īraj Afshār e Saadullo Asadulloev, con i quali ho intrattenuto una proficua corrispondenza, nonché preziosi scambi di libri in anni lontani. Angelo Michele Piemontese mi ha introdotto alla straordinaria figura di un testimone d’eccezione, il senese Beltramo Mignanelli, nonché alle rappresentazioni teatrali della Persia, oltre a numerosi altri insegnamenti, il suo magistero ha lasciato in me una traccia indelebile. Voglio ringraziare Gaga Shurgaia per le fondamentali precisazioni e riletture delle parti relative alla Georgia, a lui devo autentici contributi a questo libro. Lo ringrazio qui ma avrei dovuto disseminare il libro di ringraziamenti. Non ultimo anche per i pareri illuminanti di Vladimer Kikilashvili su alcuni punti specifici relativi alla Georgia. Un aiuto molto importante mi è stato dato da Anna Sirinian per i famosi colophon armeni di cui ha una conoscenza straordinaria. Ringrazio Tommaso Trevisani per avermi introdotto alle Canalizzazioni del Ferghana, film mai proiettato di Eisenstein che molto aveva a che fare con Tamerlano. Quanto ad Antonio Rollo e Alessandro Taddei, devo a loro acute riflessioni sulle fonti greche con consigli sempre puntuali. Stefania Cavaliere e Francesco Sferra mi hanno fornito indicazioni relativamente all’India di cui ho fatto tesoro. A Serpil Bağcı devo impagabili scambi d’opinione sull’arte timuride. Quanto al compianto Bert Fragner, lo ringrazio per delle fondamentali conversazioni sul mondo iranico, ancor oggi utilissime insieme al suo libro Die Persophonie. A Luisa Sernicola devo le splendide carte che ho inserito nel testo. Un ringraziamento sentito va a Claudio Lo Jacono, amico carissimo e generoso “patrono delle arti”. Insieme a Daniela Amaldi sono coloro che mi hanno piú sostenuto in questi anni. Con questi ultimi due studiosi ringrazio l’Istituto per l’Oriente « Carlo Alfonso Nallino » e l’Università di Napoli « L’Orientale », istitu-

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introduzione zioni vitali per le ricerche orientalistiche in Italia. Ringrazio Roberta Giunta per i suoi consigli sempre adottati perché fondamentali, lo stesso vale per Natalia Tornesello, rigorosa osservatrice e conoscitrice della letteratura persiana. Arturo Annucci mi ha permesso di penetrare negli anfratti insidiosi della numismatica. A Francisco Appellaniz devo molte informazioni sui Mamelucchi, nonché un consiglio che mi ha stupito. A Giampiero Bellingeri, Francesca Bellino, Luca Berardi, Roberta Denaro, Ersilia Francesca, Donatella Guida, Francesca Manzari, Giuliano Lancioni, Stefano Pellò, Veronica Prestini, Roberto Tottoli e Claudio Zanier, devo numerose osservazioni storiografiche, arabistiche, turcologiche e islamistiche di peso. Last but not least, un ringraziamento particolare va a Guia Boni che ha spesso permesso di migliorare larghe parti del mio lavoro coi suoi commenti illuminanti. Un problema comune di questo tipo di libri è quello della traslitterazione delle lingue orientali: ho cercato di rendere coerenti i nomi delle persone affidandomi al metodo impiegato nell’Encyclopaedia of Islam, pur con diversi aggiustamenti. Ho lasciato in italiano diversi nomi geografici usando il minor numero possibile di traslitterazioni per permetterne più agevolmente l’individuazione sulle carte moderne. Per i nomi turchi ne ho semplificato quando possibile la grafia perché sono spesso oggetto di numerose varianti grafiche nei testi persiani e arabi che vi fanno riferimento. Per i nomi di persona e di luogo relativi alla Turchia ottomana, ho adottato l’attuale alfabeto turco con i segni diacritici utilizzati tra gli specialisti. Per il russo mi sono servito del sistema invalso in Italia, cosí ho fatto per altre lingue. Ho lasciato le date dell’Egira e quelle dell’Era cristiana, per permettere a tutti gli studiosi di identificare con precisione gli accadimenti nelle cronache. Ho scelto di chiamare il protagonista del volume Timur, piuttosto che Tamerlano, adattamento posteriore certamente piú noto ma sostanzialmente scorretto. Ho usato Tamerlano, invece, nell’ultima parte del volume, quando mi sono riferito ai numerosi testi rinascimentali e barocchi che si dedicarono a lui.

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I E SORDI I NCON F E S SABI LI 1. La ricostruzione di un antropologo forense sovietico Tra il 16 e il 24 giugno 1941 un’équipe guidata dal matematico e storico della scienza Tašmukhamed N. Qari-Niyazi (Kary-Niyazov), alto esponente dell’allora Accademia delle Scienze della Repubblica Socialista sovietica dell’Uzbekistan, fece aprire la tomba di Tamerlano (Timur) nel suo mausoleo a Samarcanda: il Gūr-i Mīr. Fu un gesto con molteplici implicazioni politico-ideologiche, anche se lo scopo era apparentemente di natura piú scientifica. Basterà qui ricordare che, a livello popolare, molti fecero notare la coincidenza tra l’apertura della tomba e l’attacco all’Unione Sovietica da parte dell’esercito tedesco, aggiungendo che l’aggressione nazista era una conseguenza di questa profanazione. Di tali aspetti magico-politici si parlerà spesso nel resto di questo libro che intende fornire un quadro complessivo della figura di Timur, non solo da un punto di vista storico, ma anche per il sorprendente successo mitico che questa figura ebbe e ancor oggi ha.1 Volendo tracciare qui una biografia della sua vita, si può affermare che il ritratto piú veritiero che possediamo di Timur consiste proprio nei suoi resti mortali. Nella commissione guidata da Qari-Niyazi, oltre al celebre epigrafista e paleografo Aleksandr A. Semënov e ad altri studiosi,2 c’erano due antropologi, Mikhail M. Gerasimov e Lev V. Ošanin, che furono incaricati di verificare l’autenticità del corpo e di studiarne le caratteristiche antropologiche. L’occasione forní diverse informazioni: se i diversi corpi presenti nel Gūr-i Mīr, tra i quali quelli di due figli, potevano sollevare interrogativi e perplessità, il corpo di Timur sembrava essere autentico per numerose ragioni e coincidenze. Ošanin compí l’analisi delle ossa riscontrando diversi dati interessanti, mentre Gerasimov si cimentò nella sua specialità come antropologo forense: la ricostruzione scientifica di volti e corpi di individui morti di cui si era persa l’identità.3 Ne venne fuori il ritratto di un uomo di una certa statura, circa un metro e 70 cm., di tipo “Mongolico” si disse, con diverse patologie: nel braccio destro fu riscontrata un’affezione cronica al gomito che ne impediva il movimento, forse si trattava di una forma tubercolare che gli aveva infine 17

tamerlano

paralizzato il braccio, o forse, suggeriva Gerasimov, la spalla destra era stata trafitta da una freccia, come dimostravano delle tacche sull’osso. Di fatto molte fonti ricordano questa sofferenza e sembrerebbe che di ritorno dalla sua campagna indiana Timur risentisse fortemente di un dolore al braccio.4 Anche il fatto che Tamerlano (il cui nome è l’occidentalizzazione del turco-persiano Timur-i lang, ovvero Timur ‘lo zoppo’)5 avesse un problema a una gamba, che aveva finito col danneggiare anche l’altra, fu confermato da Gerasimov, il quale notò che il malanno all’arto aveva anche compromesso la spina dorsale. Lo studioso proseguí la sua analisi notando che la curvatura delle ossa della gamba poteva derivare dal suo andare a cavallo fin dalla tenera età, cosa che era servita in età matura, secondo Gerasimov, anche a nascondere le sue altre infermità, conferendogli un atteggiamento altero piú consono alla sua posizione. La ricostruzione plastica del volto di Timur sortí infine un busto nel quale il soggetto coperto da un elmo appuntito mostrava una faccia di tipo asiatico con gli occhi a mandorla e un’espressione marziale che tuttavia non riusciva a nascondere anche dei problemi nella struttura del volto affetto da una plagiocefalia, ovvero una deformazione del cranio in età infantile, che aveva avuto conseguenze significative in età adulta. 2. Una madre poco menzionata Le fonti piú antiche su Timur6 risalgono agli ultimi anni della sua vita e riportano, con scrupolo cronachistico, soprattutto gli eventi intercorsi dopo la sua ascesa al potere nel 771 dell’Egira (1370). Per quanto riguarda ciò che avvenne prima non si può neanche parlare di versioni orali o di trasmissioni tramandate da testimoni oculari. Spesso è l’invenzione a prevalere, celando maldestramente un tratto propagandistico molto marcato. È il caso della complessa questione della sua data di nascita, sancita ufficialmente il 25 sha‘bān del 736 dell’Egira, ovvero l’8 aprile 1336,7 come ci informano le fonti persiane commissionate da Timur e in seguito dai suoi successori per celebrarne le gesta: La sera del venticinque di sha‘bān del Settecentotrentasei [dell’Egira], nell’anno del Topo secondo il calendario mongolo, nei dintorni della fiorente città di Kish, la virtuosa e pura Takine Khātūn che, seguendo il costume e la legge islamica, aveva portato nel proprio grembo questo nobile (noyan), nel rispetto della sharī‘a e in conformità con la virtú del matrimonio, mise al mondo il sole dell’esistenza

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i · esordi inconfessabili di Sua Eccellenza, il Signore della Congiunzione Astrale (Ṣāḥib-qirān) dal prospero oroscopo, facendo riverberare i propri raggi sulla Luna piena che illuminava il mondo dalla sua fausta casa astrale.8

La descrizione dello storico Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī offre al lettore diversi spunti, il primo è relativo allo stile ridondante del suo Ẓafarnāma (Liber victoriæ, una sorta di Res Gestae Tamerlani, titolo usato anche per altre cronache contemporanee). Ci dovremo abituare allo stile a volte iperbolico usato per celebrare gli eventi in questo tipo di fonti che fanno ricorso al ricco repertorio stilistico della letteratura persiana di epoca post-mongola. In secondo luogo, la descrizione di Sharaf al-Dīn è uno dei rari casi in cui compare il nome della madre di Timur, la Takine Khātūn: esaltata come devota musulmana, forse con l’intento di contraddire chi non la considerava tale, è destinata a sparire dalle vicende posteriori del figlio.9 Secondo il Mu‘izz al-ansāb, una fonte determinante per molte questioni relative alla famiglia di Timur, sarebbe stata la sorella di un misterioso Qapchūrī Bahādur, dal cui nome possiamo evincere solo che indicherebbe un certo grado di nobiltà (bahādur, lett. ‘eroe’, costituisce un titolo generico).10 Probabilmente faceva parte del clan tribale degli Yasavur, stanziale nei dintorni di Samarcanda, con i quali Timur avrà molto a che fare in seguito.11 Giovanni di Sultaniyya, ambasciatore presso Carlo VI di Francia, sostenne invece che aveva una madre indigente di origini vili (de ville condition) e che lo stesso Timur non mancava di sottolinearlo.12 Cosa questo significasse non è dato sapere, certo è che Timur soffrí di complessi di inferiorità nella sua vita, tanto da limitarsi ad assumere per sé il titolo di amīr, ‘comandante’, ‘emiro’, senza mai attribuirsi quello di khān, perché evidentemente consapevole e intimorito dalle proprie origini. Il fatto che la madre non fosse di nobile stirpe lo portò a combinare spesso matrimoni con donne di alta stirpe mongola per poter acquisire un grado di nobiltà e soprattutto conferirlo alla propria discendenza, facendo ricorso al complesso sistema matrilineare turco-mongolo di successione. Non si trattò nel suo caso del cosiddetto ötchigin (lett. ‘principe del focolare’),13 che garantiva la successione per via femminile e il diritto al trono per “via di carne” al figlio maschio piú piccolo che aveva avuto piú rapporti con la madre, quanto piuttosto di un sistema ibrido. Timur si attribuí presto anche il titolo di küregen, ‘genero’, dopo aver sposato nobili dame mongole sottratte ai signori chinggiskhanidi sconfitti all’inizio della sua carriera.14 Quanto al titolo di « Signore della [triplice] Congiunzione Astrale » 19

tamerlano

(Ṣāḥib-qirān), esso gli fu attribuito in seguito, quando gli astronomi stabilirono per lui un oroscopo che prevedeva la congiunzione di Giove, Sole e Venere in un’unica casa astrale. Se Sharaf al-Dīn ci propone questo fausto oroscopo, un autore piú tardo, ‘Abd al-Razzāq Samarqandī, preciserà in un verso esaltato che « del Sole aveva la rettitudine, di Venere l’aspetto e di Giove la sapienza ». Si trattava di un titolo già impiegato da alcuni signori turchi dell’Asia centrale, come i Ghaznavidi, che alla fine del X secolo avevano fondato un impero a cui Timur si ispirò sistematicamente.15 3. Taraghay della stirpe dei Barlas Del padre di Timur, Taraghay, sappiamo qualcosa di piú. Proveniva dai Barlas, o Barulas, una tribú che Sharaf al-Dīn fa risalire alla figura di Qarachar, contemporaneo di Chinggis Khān e membro del suo Keshig, la ‘guardia del corpo imperiale’.16 Qarachar e il suo ruolo nel Keshig sono confermati dal Mu‘izz al-ansāb17 e dallo Yüan Shih, una cronaca cinese completata nel 1369-’70.18 Un’ampia discussione è insorta tra gli storici su questa figura di « generalissimo », come lo ha definito John E. Woods.19 Lo stesso studioso ha ricostruito la discendenza di Timur, partendo dall’iscrizione sulla lastra in nefrite della sua tomba, confrontandola alle numerose ricostruzioni elaborate dalle fonti storiche. Anche in questo caso è una figura femminile a dominare la scena: Alan Qo’a “la radiosa”, che ribadisce la priorità attribuita alla discendenza matrilineare: antenata di Chinggis Khān, Alan Qo’a sarebbe stata toccata da un magico raggio di luce irradiato su di lei da ‘Alī b. Abū Ṭālib, il genero del Profeta dell’Islam Muḥammad, rimanendo gravida dell’Amīr Buzunchar (il cui nome mongolo era Dobun Mergen, antenato di Chinggis Khān e capostipite ulteriore dei Barlās).20 Prodotto di una geniale, quanto inverosimile ricostruzione storica, la mitica genesi del gruppo tribale doveva ancora una volta aggiustare una situazione imbarazzante, fornendo una solidità islamica a un’appartenenza mongola, magari con il prestito dal cristianesimo di una specie di “spirito santo”, qui esemplificato da un raggio che escludeva l’immoralità dell’antenata e ne garantiva il ruolo di musulmana in pectore.21 L’iscrizione specifica che Alan Qo’a non era una prostituta, un’excusatio non petita che induce ancora a riflettere: Non è noto il padre di quest’uomo illustre [l’Amīr Buzunchar], ma solo la madre Alānquwā [Alan Qo’a]; si narra che non fu una prostituta, essa era gravida grazie

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i · esordi inconfessabili a un raggio di luce. Si dice che [l’Amīr Buzhunjar] fosse tra i discendenti del Leone di Allāh, il Trionfante, ‘Alī b. Abū Ṭālib.22

Va però sottolineato che quando nacque Timur, i Barlas giocavano un ruolo alla pari coi numerosi altri clan operanti in Transoxiana e, anzi, si direbbe che proprio il ristretto nucleo famigliare di Taraghay ricoprisse un ruolo minore e forse soffrisse di indigenza economica e inconsistenza politica. Si trattava di uno dei cinque clan principali della tribú dei Barlas, di certo non quello egemone.23 Gli equilibri per il controllo della Transoxiana verranno discussi in seguito; ci si limiterà qui a constatare alcuni aspetti di questa figura paterna abbastanza indefinita: il nome di Taraghay, ‘allodola’,24 allude a un nome totemico turco, dunque non a un nome musulmano. La data di conversione all’Islam della tribú è oscura, forse non molto precedente alla nascita di Timur, e le discrepanze nel racconto delle fonti sono significative: solo la controversa introduzione dello Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn ne fornisce un ritratto di un certo spessore, come uomo vicino alla fede che proveniva da genti comunque forse molto meno inclini all’Islam: Ed egli [Aylangīr Noyan]25 ebbe un figlio di nome Burgul Non era incline al comando e al regno, Riottoso fu anche nelle questioni di fede; Oltre ai confini della regione di Kish, Non si appropriò di altri reami. E costui ebbe due figli l’Amīr Ṭarāghāy e l’Amīr [Balte].26 L’Amīr Ṭarāghāy è il padre del Signore della Congiunzione Astrale […]. L’Amīr Ṭarāghāy fu uomo solido nella fede e nella sua promozione, si dedicò al patrocinio e alla custodia dei musulmani, la corte del suo regno fu continuamente meta per le necessità degli ulamā e dei sapienti, e la sua sublime assemblea riuniva gli uomini pii e gli asceti. Fu seguace dello sceicco eminente Shams al-Dīn Kulār che era associato con […] il defunto Shaykh al-Islām Shihāb al-Dīn Suhravardī (Abbia Iddio cara l’anima sua!).27

L’introduzione allo Ẓafarnāma Sharaf al-Dīn fornisce anche la data della morte di Taraghay a Kish nel 762/1360-’61. In questa stessa città egli fu poi sepolto da Timur nel complesso del Dār al-Siyādat, dove poi verranno deposte le spoglie anche del figlio prediletto, Jahāngīr.28 Altre fonti celebrative persiane sembrano ignorare Taraghay, la stessa continuazione dello Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn, non dà gran peso alla di21

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scendenza di Timur da Qarachar Barlas, istillando vari dubbi sulla coerenza tra l’introduzione e il resto del testo.29 Lo Ẓafarnāma di Niẓām alDīn Shāmī, opera completata prima della morte di Timur (806/1404), non parla proprio di Taraghay, limitandosi ad affermare la nobile discendenza di Timur da Qarachar.30 Semmai ci sarebbe da considerare chi lo descrive come un uomo costretto a fare il calzolaio per ristrettezze economiche,31 altri lo ritraggono come un uomo di bassa origine, sprovvisto di mezzi economici, avvezzo alla rapina e al brigantaggio.32 È molto difficile bilanciare le fonti che demoliscono Timur come Ibn ‘Arabshāh e quelle che ne forniscono un ritratto postumo assolutamente sopra le righe, magari presi dal sacro furore della celebrazione dell’intera dinastia. Una certezza si potrà individuare nel fatto che Timur nascose accuratamente il proprio passato mentre i suoi adoranti cronachisti inventarono varie storie fantastiche come quella che lo vede giocare da bambino con un fantoccio di paglia che ingaggia in battaglia, cattura, processa e decapita.33 Altri episodi risultano ottimi esempi dello spirito agiografico della letteratura posteriore. È il caso di quello che descrive un incontro di Timur fanciullo insieme al padre in visita a un tarkhān (tur., titolo nobiliare che indicava una figura esentata da obblighi e tassazioni per i meriti acquisiti). Interrogato su come ci si dovrebbe comportare con degli schiavi, il giovinetto avrebbe dato segni premonitori della sua straordinaria disposizione al comando.34 4. Uomini e cavalli Le descrizioni fatte dagli storici e dai viaggiatori che incontrarono Timur non permettono di dire molto di piú. I dati ottenuti da Gerasimov, però, lasciano supporre una gioventú travagliata e persino un’infanzia difficile, segnata probabilmente dall’indigenza e da diversi incidenti. Fu un uomo che trascorse gran parte della sua vita a cavallo, come è ovvio per le numerose campagne militari che realizzò, ma anche forse un tipico esempio di sovrano nomade, sul modello turco-mongolo di vari autorevoli predecessori, primo tra tutti Chinggis Khān. Il cavallo era stato fin dall’antichità il protagonista principale di un’infinità di azioni militari culminate nell’evento piú eclatante della storia dell’Asia, l’espansione che aveva portato i Mongoli a consolidare un impero di dimensioni mai viste, che dall’Oceano pacifico arrivava ai Balcani, includendo tra le sue terre la Cina, la Persia, le steppe dei Qipchaq, dei 22

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Bulgari del Volga e l’Europa orientale, l’Anatolia e parte del Medio Oriente. Depositario tra i Mongoli di un carattere mitico, se non magico,35 il cavallo occupava uno spazio di primaria importanza in tutte le civiltà di quel vasto continente nomade. Per i Turcomanni era il veicolo per eccellenza per fare parte del cosiddetto Türkmen Deryası,36 il ‘Mare turkmeno’, ovvero quel flusso di genti in continuo liquido movimento per l’Asia che si contendevano territori dai confini vagamente definiti per formare nuovi stati ora stanziali, ora ancorati in modo ancestrale alla pratica nomadica, accerchiando antiche civiltà sedentarie incapaci di resistergli. Erano regni con frontiere evanescenti, spesso numerose capitali (o nessuna), e immense distese territoriali nelle quali il cavallo era insieme al proprio proprietario, ovvero chi ne sapeva fare uso, il vero protagonista. Un sovrano di stirpe mongola, Muḥammad Shaybānī Khān, amava ripetere, ancora nella seconda metà del XVI secolo, che la sua capitale era la sua sella.37 Il cavallo era il primo elemento dell’economia, e se questo è vero per il mondo mongolo dove rappresentava la fonte principale di ricchezza,38 il suo possesso insieme ad altro bestiame costituiva una priorità assoluta anche per i gruppi tribali turco-mongoli che popolavano la Transoxiana nella prima metà del XIV secolo. Questa visione del mondo basata sull’uso del cavallo ridefiniva anche la struttura della società e il suo sistema gerarchico, creando una concezione del potere39 in cui il cavallo aveva un ruolo centrale per definire lo spazio politico dei gruppi tribali e il loro potenziale bellico. Se agli uomini si dava un peso, questo derivava dalla loro dotazione in termini di bestiame e soprattutto di cavalli. Il che portava spesso a fortune piú o meno effimere derivate in origine dalla razzia come strumento principale di ascesa sociale. Una tra le fonti piú avverse a Timur, Ibn ‘Arabshāh, descrive i suoi esordi come quelli di un sopraffino conoscitore di cavalli che grazie a queste sue capacità avrebbe intrapreso la propria carriera. Pur poco credibile per diversi aspetti, l’episodio sembra cogliere in pieno il ruolo dei cavalli nella gioventú del signore centroasiatico. Entrato in relazione con un proprietario di cavalli, questi lo avrebbe introdotto presso uno dei potenti dell’epoca: Timur era uno di quelli che conoscevano a perfezione ogni parte di un cavallo e potevano distinguere con un rapido sguardo una mandria buona da una cattiva. Talché, dopo averne sondate le competenze il proprietario dei cavalli imparò egli stesso l’arte per suo tramite e crebbe in lui la stima tanto che finí col volerlo sem-

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tamerlano pre con sé. Lo portò persino al cospetto del sultano con dei cavalli che aveva acquisito, mostrando a quest’ultimo le capacità di Timur e quanto egli stesso avesse imparato dalle sue capacità.40

L’episodio nel quale è descritto riduttivamente uno dei primi incontri che Timur ebbe con un importante signore dell’epoca, il sultano kartide Mu‘izz al-Dīn Pīr Ḥusayn, autoproclamatosi sultano a Herat nel 743/1342, ci conferma quanto il possesso di cavalli abbia avuto un peso negli esordi (molto oscuri) di Timur. Lo stesso sultano dovette interrompere le proprie relazioni con lui attorno al 1368, per una razzia che aveva compiuto nei territori kartidi.41 Di razzie parla anche Clavijo, che racconta storie raccolte quando era a Kish, città di origine del clan dei Barlas, riportando che in un momento della sua gioventú: [Timur] andò in una terra ricca di bestiame che si chiama Sistan, dove si impossessò di molti montoni, cavalli e quant’altro riuscí a trovare. Quando compiva queste imprese aveva con sé circa cinquecento uomini a cavallo. Gli abitanti di questo territorio, appena seppero quello che aveva fatto, si unirono contro di lui e una notte, mentre rapinava una mandria di montoni, gli piombarono addosso e uccisero molti dei suoi uomini. Egli fu disarcionato e gravemente ferito alla gamba e alla mano destra, restando zoppo e privo di due dita. Credendolo morto, fu lasciato sul campo, ma riuscí a rialzarsi e a raggiungere un accampamento di nomadi, dove rimase finché non fu guarito.42

Questa versione sembra essere confermata da Ibn ‘Arabshāh, che descrive la razzia nel Sistan in un modo diverso: Una notte Timur rubò un montone e se lo caricò sulla schiena, ma il pastore del gregge lo colpí alla spalla con una freccia che lui schivò. Allora il pastore ne scagliò un’altra verso la coscia che lo colpí. Questa ferita aumentò la sua miseria e la sua cattiveria, la sua crudeltà e la rabbia nei confronti della gente di quel posto.43

5. L’ascesa dei Qarawna Ritroviamo le razzie di Timur in numerose altre descrizioni con varianti e aggiunte, ma andrà notato che la pratica di predare l’altrui bestiame era molto diffusa e rispecchiava anche lo stato di frammentazione territoriale in cui si trovava l’Iran orientale, quello che oggi è il nord dell’Afghanistan e la Transoxiana, regione che aveva dato i natali al futuro 24

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condottiero e nota al tempo tra i geografi musulmani come l’Oltrefiume (ar. Ma’ wara’ al-nahr). Agli inizi del XIV secolo, regnava ‘Alā al-Dīn Tarmashirin Khān (726734/1326-1334), un discendente del secondogenito di Chinggis Khān, Chaghatai, che sarebbe stato l’artefice dell’imposizione dell’Islam a questo ramo della famiglia, tra i piú riluttanti ad accettare questa fede. Tarmashirin conservò nel proprio nome le tracce della fede buddhista praticata in precedenza44 e dovette combattere contro fortissime opposizioni soprattutto perché si dedicò a contrastare diversi usi mongoli, come ci informa il maghrebino Ibn Baṭṭūṭa che visitò la regione durante il suo regno.45 Stando a quest’ultimo, l’ampio dominio ciagataico (ulus, ‘dominio’) che si estendeva dal Turkestan orientale (l’odierno Sinkiang) e arrivava in Occidente, sino alla Transoxiana, subí una sorta d’implosione politica con la definitiva separazione delle regioni orientali, che da allora furono definite Moghulistan (‘Terra dei Mongoli’)46 e di quelle occidentali includenti il Ma’ wara’ al-nahr, con le importanti città di Bukhara e Samarcanda.47 L’ulus ciagataica aveva subito un destino analogo ad altre potenze del disgregato Impero mongolo. In Persia gli Ilkhanidi, discendenti del quartogenito di Chinggis Khān, Tolui, si erano estinti quale dinastia nel 736/1335, con la formazione di principati di varia natura: se da un lato il potente stato kartide sopravviveva in Oriente, in particolare nelle regioni di Balkh e Herat, nel cuore dello stato ilkhanide sorgeranno diverse entità regionali come quella muzaffaride e quella jalayiride, o ancora il « regno senza re » dei cosiddetti Sarbadār nel Khorasan; altri principati di grandi e medie entità, ma anche di ridottissime dimensioni, erano sorti piú a occidente in Anatolia, un territorio dipendente, seppur nominalmente, dall’Impero ilkhanide negli ultimi anni della sua esistenza. Quanto ai domini ciagataici, avevano subito un progressivo declino, perdendo, dopo il regno di Tarmashirin, la loro influenza sulle frontiere indiane, quelle che le fonti persiane chiamano Sarḥadd-i Hindustān, ovvero il controverso limes indiano dei Mongoli, situato nell’odierno Afghanistan. In alcune città principali, in particolare Balkh e Ghazna, gli Ilkhanidi avevano messo, a garanzia delle proprie frontiere, una tamma, tecnicamente ‘truppa di mille elementi’, e delle « truppe di sostegno »48 non mongole guidate da un comandante mongolo (tammachi) che si insediavano soprattutto in aree di frontiera. Già all’epoca della conquista della Persia da parte del fondatore della dinastia ilkhanide Hülagü (1256-1265), il fratello Möngke, Gran Khān dell’Impero mongolo, aveva disposto sotto la 25

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sua autorità un tataro del ramo Tutuqliut, Sali Noyan, che in precedenza aveva imperversato sulle frontiere indiane e aveva operato con i Ciagataici.49 Tra i suoi uomini costui aveva un generale mongolo di nome Negüder, che aveva servito a sua volta un altro ramo dei discendenti di Chinggis Khān, quello dell’Orda d’Oro. Costui era stato assoldato per guidare un contingente locale con sede a Ghazna. Nelle infinite guerre che opposero i vari rami della famiglia chinggiskhanide, gli Ilkhanidi finirono con l’accogliere un principe ciagataico transfugo, Mubarak-Shāh, che fu messo a capo dell’esercito di Negüder « nella regione di Ghazna ».50 Costui fu poi sostituito in una data imprecisata, da ‘Abd Allāh Oghul, un altro capo militare che governava su un contingente di Qarawna, come le fonti persiane cominciano a definire questo insieme di individui. I Qarawna (o Qarawnas, Qaraghuna)51 sono dunque un’entità politica « etnogeneticamente » prodotta,52 non ancora una dinastia all’epoca di Negüder (sono stati anche detti Negüderi, ‘quelli di Negüder’). Si connotano sempre di piú come un’entità autosufficiente nell’ultimo quarto del XIII secolo. Marco Polo, che ebbe la sventura di incontrarli nel 1272, parla di loro come di un elemento molto pericoloso: nella versione toscana sono detti « scherani », ma in altre versioni sono denominati Carans/Charaunas/Caraonas e controllano il regno fantomatico di Reobales, il Rudbar o una regione del sud-est della Persia:53 In questo piano à castella e città e ville murate di terra per difendersi da scherani che vanno robando. E questa gente che corre lo paese, per incantamento fanno parere notte .vij. giornate a la lunga, perché altri non si possa guardare; quando ànno fatto questo, vanno per lo paese, ché bene lo sanno. E’ son bene .xm., talvolta piú e meno, sicché per quello piano no li scampa né uomo né bestia: li vecchi uccidono, gli giovani ménagli a vendere per ischiavi. Lo loro re à nome Nogodar, e sono gente rea e malvage e crudele. E sí vi dico che messer Marco vi fu tal qual preso in quella iscuritade, ma scampò a uno castello ch’à nome Canosalmi, e de’ suo’ compagni furo presi asai e venduti e morti.54

Nella versione francese del racconto di Marco Polo, il Devisement du Monde o Livre des Merveilles du monde, viene fornita invece una ulteriore spiegazione delle loro origini che risulta piú convincente di quelle formulate anche dagli studiosi: dice infatti Marco Polo che essi sarebbero di madre indiana e di padre tartaro. D’altronde il testo francese spiega anche molto bene la loro presenza sulle frontiere indiane.55 Gli studiosi si sono abbastanza arrovellati attorno ai Qarawna.56 Il loro 26

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stesso nome costituisce un enigma, forse risolto da Jean Aubin, che riprese Marco Polo e vide nell’uso dell’aggettivo turco qara (‘nero’) la base di una sorta di etnonimo (qarawna: ‘nerastri’) per definire un meticciato tra genti mongole e indiane.57 Operando in quella regione, costoro catturavano molte donne destinate alla schiavitú e sembrerebbe non siano mancati i matrimoni misti. Lo storico persiano Vaṣṣāf menziona questi individui58 e cosí anche Rashīd al-Dīn,59 ma senza dare definizioni esaustive delle loro origini e del loro nome.60 Non è chiaro neanche se essi dipendessero dagli Ilkhanidi o dai Ciagataici, alla fine del XIII secolo.61 Forse da entrambi, come ha provato a dimostrare Aubin.62 Sicuramente erano “pagani”, intendendo con questo termine il loro attaccamento alle varie fedi seguite dai Mongoli. Ghazna sembra avere avuto un ruolo molto importante nella storia della loro configurazione come entità politica. Già capitale del vasto impero di Maḥmūd (998-1030), la città era diventata un centro periferico in epoca mongola, pur conservando la sua importanza strategica in direzione dell’India. Agli inizi del XIV secolo i Qarawna sembrano essere collocati in una ulus,63 guidata dal capo mongolo Boroldai, concentrata soprattutto tra la regione di Qunduz e di Baghlan nell’Afghanistan settentrionale e piú a sud Ghazna.64 Essi si espandevano comunque fino a raggiungere la Persia del Sud-Est, dove li ritroviamo a razziare il Kerman e il Sistan. Occasionalmente raggiungono in varie occasioni il Khorasan con analoghi scopi. Attorno al 1320 sono artefici di un’ampia espansione che li porta da un lato verso l’India: è probabile che Tughluqshāh, fondatore del sultanato Tughuq di Delhi, abbia avuto origini qarawna, forse perché semplicemente era il prodotto, come altri, della fusione di elementi mongoli con elementi indiani.65 Un altro gruppo avrebbe invece rivolto le proprie attenzioni alla Transoxiana, finendo con il salire a capo di una sorta di turbolenta confederazione di signori locali, tra i quali anche la tribú dei Barlas dalla quale ebbe origine Timur. Se il loro regno appare solo dal 1347, certamente la loro presenza è attestata prima: un certo Baktut li avrebbe sottratti dalla dipendenza dagli Ilkhanidi per morire nel 1320 per mano ciagataica. Da quest’epoca in poi inizia la loro alleanza con i Ciagataici e andrà notato che il loro signore Boroldai è descritto come uno dei piú fidati comandanti di Tarmashirin attorno agli anni ’30 del Trecento.66 Probabilmente convertito all’Islam insieme al suo signore Tarmashirin, Boroldai dovette trasformare questo gruppo umano in una nuova direzione. 27

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Assai poco menzionati dalle fonti timuridi, ove si escluda l’opera di Naṭanzī,67 essi costituiscono un oggetto oscuro da definire, almeno fino all’ascesa di un loro primo emiro, Qazaghan. Oramai islamizzato, sulla scia dell’inevitabile processo inaugurato da Tarmashirin Khān, questo principato, pur non battendo apparentemente moneta in proprio, adottò un sistema di riconoscimento del proprio statuto emirale, collocando al potere dei signori fantoccio ciagataici che ne garantivano la legittimità nel quadro della disgregazione generale. Il sistema sarà poi adottato anche da Timur che è debitore ai Qarawna nei suoi esordi politici e nel suo successivo metodo di governo.68 6. La Transoxiana agli inizi del XIV secolo Non è facile definire la società della Transoxiana all’inizio del XIV secolo. Le invasioni mongole avevano duramente colpito la regione al tempo di Chinggis Khān (1220-’21), quando città come Samarcanda, Bukhara, Termez e la stessa Kish (odierna Šahrisabz dal pers. Shahr-i Sabz, ‘Città verde’) subirono radicali devastazioni con un depauperamento progressivo in termini demografici ed economici. Non è qui il caso di ritornare sugli incerti dati statistici di uno sterminio generalizzato soprattutto delle popolazioni urbane.69 Basterà ricordare la distruzione integrale di antiche metropoli dell’Asia come Marv, Ray o Nishapur, per avere un’idea della portata del massacro. Marv, considerata una delle città principali del mondo islamico medievale perse forse 700.000 abitanti, restando un semplice villaggio per piú di un secolo.70 A tale carnaio andrà associato il collasso economico causato anche dalle deportazioni di intere popolazioni e dalla riduzione complessiva del volume d’affari in tutto l’Iran e l’Asia centrale. In questo quadro ebbe peso anche il propagarsi della peste in tutta l’Asia centrale: si tratta anche in questo caso di un fenomeno scarsamente identificabile nel dettaglio e marginalmente studiato in termini statistici. Se sono documentate le prime manifestazioni in Cina già forse negli anni ’50 del Duecento, la peste ebbe una recrudescenza significativa attorno al 1331, quando cominciò a diffondersi verso occidente.71 Veicolo dell’epidemia sarebbero stati proprio i Mongoli, in particolare quelli dell’Orda d’Oro, che la portarono anche in Occidente: generalmente si considera l’assedio della colonia genovese a Caffa, compiuto nel 1346 dal Khān Jani Beg, come l’elemento scatenante della pandemia in Europa. Nel cuore dell’Asia centrale la presenza della peste è già attestata nel 1338-’39 da alcune 28

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stele siro-turche presso il lago Issyk Kul, comunque è variamente testimoniata nei territori dell’Orda d’Oro, dove dei commercianti pisani sembra l’abbiano contratta a Tana (Azak) nel 1343.72 Ibn al-Wardī ce ne descrive l’itinerario dal Khiṭā’ī (la Cina) e le terre dell’Orda d’Oro fino alla Transoxiana, alla Persia e infine alla Crimea.73 A Samarcanda è segnalata da uno scienziato andaluso, Ibn Khātima, già dal 1341.74 Nei domini ciagataici essa doveva essere diffusa ampiamente come ci informa Ghiyāth al-Dīn Faryūmadī che parla di numerosi morti nella famiglia reale stessa.75 In Persia la peste ebbe ampia diffusione, come attesta Zayn al-Dīn b. Ḥamd Allāh Musṭawfī quando descrive, forse esagerando, la morte di trecentomila persone a Tabriz nel 771/1369-’70.76 Se ne segnala anche la presenza tra i nomadi nel contesto khorasanico negli stessi anni.77 Gli studi di Michael Dols hanno portato a stimare il numero di morti in Egitto attorno a un quarto della popolazione;78 meno studiata in Asia centrale, la peste ebbe sicuramente un’incidenza analoga sia in ambito urbano che rurale. Quanto la peste abbia inciso sull’universo dei Qarawna e in seguito sul mondo timuride non è dato sapere con precisione. Dal canto loro le cronache persiane del periodo la descrivono sporadicamente: è il caso di Ḥāfiẓ-i Abrū, che riferisce di una violenta epidemia di peste (ṭā’ūn) nella regione caspica del Gilan all’epoca della campagna di Timur del 1389.79 Questa rara descrizione della peste lascia pensare che, pur diffusa anche in ambito rurale, la malattia colpiva soprattutto le grandi città. È possibile che di peste o di colera sia morto nel 1378 il primogenito di Timur, Jahāngīr, il cui repentino decesso sconvolse il padre per lungo tempo. Sospetto risulta il silenzio sulle cause della morte di questo principe che non fu certamente conseguenza di azioni militari. Piú tardi di peste sarà colpita a piú riprese la sua stessa famiglia al tempo di Shāhrukh che salirà sul trono timuride nel 1409, soprattutto durante una forte recrudescenza nel 838/ 1434-’35.80 Nel corso del XIV secolo, la società dell’Oriente islamico si trovava in un momento di impasse: il superamento psicologico dell’annientamento provocato dalle invasioni mongole e, a seguire, la tragedia della peste avevano avuto un prezzo consistente fondamentalmente nel ridimensionamento delle certezze religiose dell’età califfale. Questo processo portò, da un lato, all’adozione integrale di quel riordinamento dottrinario già sancito nel corso dei secoli XI e XII da pensatori, come al-Ghazālī, che avevano contrastato eresie profonde e latenti, come quella Ismailita, o ancora la libertà dei “filosofi”, per ristabilire l’ordine in quel “libero pensiero” che 29

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aveva a loro modo di vedere corrotto la vera natura dell’Islam. Da un altro lato, a questo modo rigoroso di vedere le cose si contrapponeva l’emergenza di uno spiritualismo individualista, in netta contrapposizione con i giuristi e i teologi ufficiali, il cui pensiero risultava messo in discussione nell’impianto dogmatico. Ne derivarono forme sempre piú organizzate di pensatori esoterici che ricorrevano quasi ossessivamente all’« unità divina » (il tawḥīd) e a forme radicali di misticismo, estranee o comunque marginali nell’Islam ortodosso. Se il pensatore andaluso Ibn ‘Arabī (1165-1240) aveva giocato il ruolo di promotore filosofico e teologico del tawḥīd, il successo della formula vide l’adozione pedissequa del modello in letteratura e nel pensiero religioso, dove di fatto si impiantò una sorta di conformismo spirituale che, da un lato, portava all’estremizzazione del concetto fino a concepire « l’annientamento in Dio » ( fanā) come espressione massima di un rifiuto di qualsiasi rapporto con il mondo terreno inevitabilmente corrotto. Dall’altro, generò fenomeni profondamente individualisti in una società come quella islamica, dove non è mai stato visto di buon occhio l’ascetismo. Questo modo di pensare ebbe un largo successo in Iran, in particolare nel Khorasan e in Azerbaigian. I famosi sufi (per la veste di lana, sūf, che indossavano) potevano ora aderire a conventi (khānqāh, o tekke), confraternite, o agire in gruppi con varie denominazioni, e presto divennero un elemento importante politicamente, perdendo il genuino carattere originale. Da questi gruppi provenivano i principali predicatori che progressivamente convertirono all’Islam i signori mongoli. In alcuni casi queste conversioni potevano essere puramente strumentali, come sembra essere stata inizialmente quella dell’ilkhanide Ghazan Khān (1295), descritta inizialmente come un espediente politico,81 o piú sentite, come sono state quelle di alcuni signori dell’Orda d’Oro82 e apparentemente quella di Tarmashirin Khān in Asia centrale.83 Altri nobili, piú raffinati, cercarono di fare proprie le idee stesse di Ibn ‘Arabī, come il qāḍī Burhān al-Dīn, signore di Sivas, che identificò nell’ “uomo perfetto” predicato da Ibn ‘Arabī un modello ideale in una sorta di utopia politica.84 Finita la supremazia, anche solo teorica, del califfato, annichilito dopo la morte nel 1258 dell’ultimo califfo al-Musta‘ṣim, ucciso per ordine del Khān ilkhanide Hülagü, l’Islam stava prendendo altre strade. Se in Egitto il polemista Ibn Taymiyya (1263-1328) aveva predicato con violenza il jihād contro i Mongoli, anche denunciandone l’ipocrisia presunta all’indomani della conversione degli Ilkhanidi, l’Oriente musulmano era paladino ora 30

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di una visione assoluta della fede nella quale erano cambiate radicalmente le coordinate ideologico-politiche, nonché religiose. Si tornerà spesso sul peso sociale di molte scelte maturate in epoca mongola e poi consolidate nel periodo timuride.85

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II EM ERG ERE N ELLA STORIA: L’OM BRA DELLA TRADI Z ION E MONGOLA 1. L’ulus ciagataica e la sua frammentazione dopo Qazan La storiografia persiana dedicata a Timur descrive un condottiero ossessionato dalla volontà di unificare un regno frammentato in piccoli domini, tutti esposti a un potere straniero, quello dei discendenti di Chagatai.1 Queste entità di tipo feudale sono dette « regni delle fazioni » (mulūk al-ṭawā’if), termine dispregiativo che indica chiaramente l’assenza di una coesione intertribale tale da contraddire il principio di unitarietà del territorio, che si doveva concentrare nelle mani di un unico sovrano, riflesso in terra dell’unità divina. Gli storici musulmani usavano la stessa terminologia per i Diadochi successori di Alessandro, cosí come per l’Andalusia musulmana (in spagnolo Rejes de Taifas), e in seguito essa sarà riadottata dagli storici ancora nel XX secolo, per l’Anatolia pre-ottomana e l’Iran. Questa visione rigida non tiene conto dell’implosione del sistema mongolo, entrato in crisi nella regione per l’incapacità ciagataica di contenere le spinte locali di numerose signorie di varia origine che tentavano in modi diversi e con motivazioni diverse di appropriarsi del khanato in difficoltà per i suoi conflitti interni. Le informazioni rinvenibili nelle fonti della fase che va dal 1320 al 1360 sono vaghe. Un periodo molto oscuro nel quale si sviluppano in tutto il Mashreq (l’Asia orientale musulmana), già dominato dai Mongoli, piccoli e medi potentati in lotta tra loro. Un’ampia discussione è sorta sul concetto di aristocrazia in questo universo frammentato. Molti hanno parlato dell’esistenza di un’aristocrazia nomade, ricollegandola spesso al mondo mongolo,2 e facendone risalire le origini a una consolidata tradizione che risale al tempo degli Xiongnu (gli Unni), nel quale si definí forse per la prima volta un principio di élite: ci si è chiesti se questo statuto era un prestito nelle epoche piú antiche di altre culture vicine, come quella cinese o quella persiana.3 Il dibattito molto sviluppato coinvolge il concetto di autorappresentazione del potere, e in definitiva porta a ragionare sulle capacità carismatiche di alcuni condottieri nomadi di mantenere la coesione politica, in un mondo che possiede ridotte frontiere naturali (montagne e fiumi), e un concetto di attacca32

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mento al territorio assai diverso da quello convenzionale nel mondo sedentario. Il presidio del territorio sarà uno degli aspetti cruciali del governo di Timur. In queste prime fasi esso resta limitato a pochi centri urbani attorno ai quali nomadizzano le tribú che cercano di trarre i maggiori vantaggi possibili dalle attività cittadine e da quelle agricole che si sviluppano attorno. Il Muntakhab al-tavā’rīkh di Mu‘īn al-Dīn Naṭanzī opera redatta in maniera divergente rispetto a quelle generalmente adottate come fonti ufficiali timuridi, descrive in maniera abbastanza chiara la situazione in Transoxiana e nelle regioni a meridione, oggi parte dell’Afghanistan. Tutto inizia durante il dominio ciagataico di Qazan b. Yasavur, signore dell’ulus ciagataica a partire dagli anni attorno al 1340-’43:4 Quando il sultano Qazān, il “sanguinario”, raggiunse l’apice e decise di dedicarsi all’uccisione dei grandi emiri, il noyan Qazaghan appartenente alla gente dei Qarāghunās, che era da un anno signore di Munk e Sarāy5 si rivoltò contro di lui e lo contrastò in battaglia due volte. Nel secondo scontro Qazaghan uccise Qazān e si appropriò del regno. Per quanto sia pervenuta menzione dell’accaduto all’accampamento reale ciagataico (ūrūgh), quei sovrani rimasero incapaci di controllare la situazione e lui [Qazaghan] poté imporre il proprio potere. Dopo un certo periodo, un individuo ignoto gli tese un agguato e lo uccise. Dopo di lui suo figlio, nello stesso modo, governò per un anno. Dopodiché fu la volta dei “Regni delle fazioni”, dimodoché ogni tribú (qawm) aveva a capo un individuo e [costoro] gettarono le fondamenta della sedizione (  fitna) e del tumulto (āshūb). Talché i Suldūz erano comandati dall’Amīr Buyān, la tribú dei Jalāyir dall’emiro Bāyazīd e gli eserciti di Kish e Nakhshab6 avevano come capo Ḥājjī Beg Barlās. La tribú degli Yasavur era comandata dall’emiro Khiżr, mentre le città di Andkhūy e Shaburghān7 finirono sotto il dominio di Ḥamīd Khwāja Naymān; i figli dell’emiro Qazaghan presero Kābul e Ghaznīn.8

Molte sono le informazioni che questo brano, pur scarno, ci offre. La prima è relativa al sovrano Qazan, il “sanguinario”, e alla rivolta contro di lui da parte di una coalizione guidata da Qazaghan, signore dei Qarawna. Qazan è ricordato nelle fonti come un khān che cerca di ristabilire il potere ciagataico in una regione in preda alle spinte dei signori turco-mongoli locali che dominano la Transoxiana e parte dell’odierno Afghanistan. Un raffinato autore persiano, Ḥāfiz-i Abrū, lo descrive come estremamente violento, tirannico, oppressore e distruttore delle famiglie piú antiche (khānvāda-yi qadīm), guidate dai grandi emiri (umarā-yi buzurg) 33

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dell’area, provocando una reazione da parte di questi signori. Ḥāfiz-i Abrū riporta un discorso di Qazaghan che si dilunga davanti agli altri emiri sulla necessità di mantenere l’unità nella regione: « Se oggi non lo contrasteremo tutti insieme, egli [Qazan] ci eliminerà gradualmente a uno a uno. La prudenza e il giudizio suggeriscono di unirci e, combattendo contro di lui, sradicheremo questa perversione ».9 L’anno della rivolta fu il 747/1346-’47. Ḥāfiz-i Abrū aggiunge che all’epoca Timur aveva dieci anni, tuttavia l’esclusione della sua figura da questo evento storico sembra dubbia e forse, come s’è detto, la sua età si aggirava già attorno ai vent’anni. Dunque, fu probabilmente protagonista, o quantomeno testimone degli eventi. Ciò risulterebbe anche dall’alta considerazione per Qazaghan che emerge dalle fonti, e sembrerebbe che Timur imitò molti suoi tratti personali, non ultimo l’uso di adottare un sovrano fantoccio di stirpe mongola, per contrastare anche simbolicamente e ideo­ logicamente il potere ciagataico fortemente avversato.10 In altre parole Qazaghan avrebbe riprodotto un modello turco-mongolo di confederazione nomade, sul genere di molti altri casi antichi: era un primus inter pares che aveva riunito vari gruppi tribali. Esattamente quanto avrebbe fatto in seguito Timur. 2. Geografia dell’ulus ciagataica: i principati transoxiani I vari insiemi tribali descritti nel Muntakhab al-tavā’rīkh possono essere divisi sostanzialmente in due gruppi maggiori, uno “settentrionale”, stabilito in Transoxiana, l’altro “meridionale”, che occupava parte dell’Afghanistan odierno (vd. cartina n. 1). L’opera di Naṭanzī si sofferma sui principali potentati, legandoli a una o piú città e al territorio circostante: tutti avranno successivamente un ruolo nello stato di Timur, ma il processo di unificazione di questi gruppi tribali è stato uno dei compiti piú ardui e, come vedremo, Timur dovrà giocarsela alla pari con i numerosi beg (‘signori’) locali. Seguendo l’ordine proposto da Naṭanzī inizieremo con i Suldus (Suldūz in Naṭanzī). Costoro erano una componente della guardia di Chagatai. Sono in tal senso menzionati dal Shu‘ab-i panjgana, un trattato genealogico scritto dal celebre ministro ilkhanide Rashīd al-Dīn.11 Andrà subito notato che diversi di questi gruppi tribali, principalmente mongoli o turco-mongoli, avevano servito nella guardia imperiale, il keshig, questa volta di Chagatai, che ne aveva fatto un corpo di élite.12 Essendo il keshig un’istituzione “som34

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mersa”, le fonti non lo menzionano quasi mai e non è chiaro se i Suldus ne abbiano fatto realmente parte o piuttosto siano stati semplici emiri di un tümen (un’unità di 10.000 soldati nell’esercito mongolo). Quest’ultimo aspetto sembrerebbe piú verosimile. Rashīd al-Dīn13 descrive i Suldus come autori di alcune gesta epiche al tempo di Chinggis; erano di stirpe turco-mongola, ed ebbero un peso anche in epoche successive,14 diventando un potentato locale attorno al 1350. Dal 1360 si sembrerebbero divisi in due gruppi distinti: uno era stanziale a Hisar-i Chaghaniyan (Denau) e nel Hisar-i Shadman (Gissar) nell’odierno Uzbekistan, l’altro a Balkh (oggi Afghanistan settentrionale); è a quest’epoca che si distinsero al servizio di Qazaghan durante una sua campagna contro la città di Herat, allora capitale dalla dinastia kartide.15 Al tempo erano guidati da Buyan Quli, che era subordinato al signore dei Qarawna. Come i Suldus, un altro gruppo di stirpe schiettamente mongola, i Jalayir, che nei testi degli studiosi occidentali sono ricordati come Jalayiridi, stanziavano a ridosso del versante meridionale del Sir Darya (l’antico Iassarte). Anch’essi ebbero a che fare inizialmente con i Chinggiskhanidi nello stesso complesso regime di vassallaggio che si è visto per i Suldus. Un loro capo, Muqālī, ebbe un particolare peso nella Cina settentrionale fino alla sua morte nel 1223, fungendo da servitore particolare di Chinggis. Anche Muqālī avrebbe ricevuto in appannaggio un tümen, nel quale due hazāra (‘unità di migliaia’) erano costituite da truppe jalayiridi.16 Dopo la grande frattura che si verificò al momento dell’ascesa di Möngke come Gran Khān dei Mongoli, i Jalayiridi rimasero strettamente legati alla linea ögödeide rivale. Una dichiarazione di fedeltà sulla quale si tornerà, anche perché potrebbe aver condizionato alcune scelte di Timur successive. Essi compaiono nell’opera di Rashīd al-Dīn, insieme ai Suldus e ad altri gruppi tribali mongoli.17 I Jalayiridi furono protagonisti di una vera e propria diaspora che li portò in Azerbaigian, in Mesopotamia e in Asia centrale.18 Per quanto riguarda la loro collocazione, erano stanziali a Khujand (odierno Tajikistan) ed erano stati inclusi nella divisione in due parti dell’ulus dei discendenti di Chagatai, pur mantenendo buoni rapporti con i signori del Moghulistan. Un loro beg importante, Bāyazīd Jalayir, venne ucciso al tempo della seconda invasione della Transoxiana da parte del khān ciagataico orientale Tughluq Timur nel 762/1361.19 Anch’essi, come si vedrà, non mancarono in seguito di avere turbolenti rapporti con Timur. Dei Barlas (o Barulas) si è già riferito per quanto riguarda la genealogia 35

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di Timur. Analogamente agli altri, dunque, rivendicavano un’origine nel Keshig di Chinggis Khān. Rashīd al-Dīn li considera al pari degli altri attribuendo loro forse meno peso di quello conferito ai Suldus e ai Jalayir.20 Come abbiamo visto, le manipolazioni posteriori rasentano il fantastico; inoltre, sembrerebbe che nel quadro della stessa tribú dei Barlas vi fossero cinque linee claniche distinte, gli Shirga, gli Yesünte Möngke, i Lala, gli Ildiz e gli Ijal. Nel corso degli anni ’50 del Trecento, il comando della tribú sembra attribuito a Ḥājjī Barlas, discendente di Yesünte Möngke, mentre si direbbe che la discendenza di Timur, da Ijal, avesse un peso assai minore e sicuramente un ruolo subalterno. Definito nelle fonti come zio di Timur (‘amm), Ḥājjī Barlās ricopre nel Mu‘izz al-Ansāb un ruolo di rilievo col titolo di emiro, che poi verrà rilevato da Timur. È lui che insedia i Barlas a Kish e a Nakhshab (Qarshi),21 dove ebbe la sua origine l’emirato Barlas, precursore di quello di Timur. Sempre seguendo l’elenco del Muntakhab al-Tawā’rīkh, segue la menzione degli Yasavur, che Naṭanzī non colloca in un luogo preciso. Il loro nome clanico derivava da quello di un principe ciagataide i cui antenati avevano servito Chinggis sempre tra i soldati della guardia personale.22 Vissuto attorno alla prima metà del XIV secolo, Yasavur aveva tentato di ritagliarsi un potentato giocando sui litigi tra i rami dei discendenti di Chinggis. Infine, trovò la morte nel 1320 per mano di un esercito ciagataico inviato dal potente khān Kebek.23 Al tempo della comparsa di Timur, gli Yasavur dovevano essere una discreta potenza, per altro l’unione del padre Taraghay con la Takine di stirpe yasavuride corrispose forse a un’elevazione di grado: i loro stanziamenti a Samarcanda e forse Bukhara risalirebbero agli anni ’50 del Trecento, alla fine dei quali emerge la figura di Khiżr Yasavur, anch’esso noto come emiro. I legami con questo gruppo tribale rimarranno solidi anche dopo la morte di Amīr Yasavur nel 766/1365, con vari matrimoni politici posteriori.24 3. Gli emirati meridionali del Sarḥadd-i Hindustān I Nayman di cui parla il Muntakhab al-Tawā’rīkh, riferendosi questa volta agli emirati “meridionali” dell’ulus ciagataica pur senza dirlo esplicitamente, andrebbero identificati con gli Apardi, un clan di discreta importanza visto anche che operava anche nel Khorasan. Cosí almeno sembra essere per la città di Shaburgan (oggi Sheberghan, nell’Afghanistan settentrionale). Lo stesso dicasi per Andkhuy (Andkhud), altra città dell’Afgha36

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nistan settentrionale odierno. Nella storiografia tradizionale i Nayman sono legati alla storia immediatamente precedente all’ascesa di Chinggis Khān, quando quest’ultimo li sconfisse. Un loro discendente, Güchlüg, fuggí in Occidente dove si scontrò coi Mongoli chinggiskhanidi per morire ucciso da questi ultimi nel 1218. Dopo la sua morte, elementi Nayman rimasero nei territori occupati dai Mongoli come contingenti militari sparsi sul territorio. Questo spiegherebbe la loro associazione agli Apardi, un gruppo tribale ignoto sino ad allora che si andò a fondere con altri gruppi per servire potentati maggiori, come quello dei Qarawna. Non era un fenomeno raro, delle costruzioni etnogenetiche come quella dei Qarawna, o, in Persia, dei Jawn-i Qurban, erano nate, come s’è visto, da contingenti militari guidati da mongoli ma includenti forze locali. Insieme a Shaburgan e Andkhuy, gli Apardi si ritrovano anche oltre l’Oxus ad Arhang e nel Khuttalan.25 Dei Qarawna si è già parlato nel precedente capitolo. Va aggiunto che al momento dell’ascesa di Timur essi operano nell’Afghanistan in un quadrilatero che comprendeva a nord le città di Balkh e i centri di Munk e Sali Saray (nell’odierno Tajikistan) e a meridione la città di Ghazni e di Kabul. Ghazni fu una loro capitale nel corso del XIV secolo.26 Con l’ascesa al trono di Qazaghan, oscuro signore del clan dei B’biyat, egli sembra essersi appropriato per vie matrimoniali dell’ulus di Boroldai,27 trasformando quegli elementi militari, sino ad allora asserviti a un comandante mongolo, in una vera e propria dinastia che, pur vassalla (col sistema dei sovrani fantoccio di stirpe mongola), godeva di una certa indipendenza.28 4. Alleanze improvvisate e tradimenti repentini: il caos politico nell’ulus ciagataica Finché regnò il signore dei Qarawna, Qazaghan, la confederazione dei principali capi militari che lo avevano aiutato a rovesciare Qazan nel 1346, da lui messa in piedi, sembrò funzionare come un vero e proprio Stato. A Qazaghan si devono alcune imprese notevoli, come quella di essere riuscito a estendere il proprio potere su tutta la Transoxiana creando uno stato di proporzioni significative che andava da Ghazni, nel meridione, sino ai confini col Moghulistan, a settentrione. Proprio l’uccisione di Qazan lo aveva portato a coalizzare tutti i gruppi tribali della Transoxiana, ora sotto il suo comando. Di lui parlano le fonti indiane riferendo di un 37

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suo coinvolgimento nelle campagne di Muḥammad Tughluq di Delhi, nel 1350, al quale avrebbe fornito suoi reparti militari per combattere nel Gujarat.29 Nel 1351 riuscí a battere, in una battaglia campale, il potente signore della dinastia kartide di Herat, Mu‘īzz al-Dīn Pīr Ḥusayn e a tenere d’assedio la città.30 In tal modo i Kartidi riconoscevano di fatto il potere ciagataico che Qazaghan rappresentava attraverso il sovrano fantoccio Buyan Quli.31 È piú che probabile che Timur abbia seguito Qazaghan negli ultimi anni della vita di quest’ultimo. Tuttavia, Qazaghan venne assassinato in circostanze poco chiare agli inizi del 1358, gettando lo stato ciagataico di Transoxiana nel caos. La morte del figlio ‘Abd Allāh un anno dopo, per mano di due importanti capi militari della Transoxiana, l’emiro Buyan Suldus e l’emiro Hājjī Barlas, zio di Timur, segnava l’inizio di una vera e propria guerra civile, senza esclusione di colpi.32 Le cronache non mancano di mostrare un certo biasimo contro queste due figure, in particolare Buyan Suldus viene criticato come un irresponsabile e un alcolista votato solo ai propri interessi, utilizzando uno stereotipo storiografico molto diffuso tra i cronachisti musulmani, quello di essere artefice di una fitna (‘rivolta’).33 Ognuno dei potentati turco-mongoli della Transoxiana decise in qualche modo di agire in proprio, e questo finí col provocare una violenta reazione da parte dei Ciagataici “orientali” che si trovarono obbligati a intervenire nella regione per ristabilire la propria autorità, anche perché un altro sovrano fantoccio, Timurtash, era stato inopinatamente ucciso, proprio dal potente zio di Timur, Hājjī Barlas.34 Dopo due anni di conflitti tra bande rivali, il khān ciagataico Tughluq Timur intervenne nella regione con energia. Cosí, nel 1360, entrò nello stato già detenuto dai Qarawna per ristabilire l’ordine e l’obbedienza all’ulus ciagataica. Fu in questa occasione che Timur prese una risoluzione strategicamente molto importante, che mostrava tuttavia la sua fragilità come astro nascente nelle politiche regionali: mentre Hājjī Barlas fuggiva nel Khorasan, lui decise di trattare col nemico al fine di poter “salvare” il proprio potere feudale nella città natia di Kish. Si recò da Tughluq Timur, mettendosi al suo servizio e ottenendo di fatto un tumān, ovvero la possibilità di gestire un esercito di diecimila uomini nella regione. Le fonti persiane descrivono l’episodio come un gesto di suprema responsabilità, non mancando di sottolineare che molti altri si erano adattati alla situazione, anche se con intenti predatori: « i denti affilati dalla brama di saccheggiare la regione e la smania di appropriarsi delle ricchezze del paese ».35 Gli auto38

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ri non mancano di introdurre una idea romantica di attaccamento alla « patria » (vaṭan, o khān-u-mān) che avrebbe mosso l’operato di Timur e la sua resa, mentre lo zio fuggiva.36 I ciagataici avrebbero addirittura intravisto un alone divino che circondava il suo capo (il farr-e īzādī), provando per lui soggezione. In realtà si trattò di un colpo di mano nei confronti dello zio e dell’intera tribú dei Barlas, di cui Timur poteva ora rivendicare il comando, ma la fuga dello zio non significava la sua sparizione, e fin quando visse37 il capo tribú fu osteggiato con tenacia e con alleanze a lui ostili, a cominciare da quella con Amīr Ḥusayn, signore dei Qarawna e nipote di Qazaghan.38 Si potrebbe definire questo momento come il primo vero “ingresso nella storia” di Timur. In realtà è molto probabile che l’episodio sia stato sovrastimato ad arte: le fonti tentano di delineare il ritratto di un abile mediatore capace di sopire o alimentare i vari conflitti intertribali. Il gesto di Timur può però essere inteso come l’emergere di un giovane parvenu, fino ad allora oscuro ai piú. Sharaf al-Dīn cerca di giustificare il fatto dichiarando che il suo non era stato un atto di egoismo (khwīshtandārī), e aggiunge una nota patetica, ricordando la morte del padre nello stesso anno 1361: « Nell’intimo sapeva che se davanti a ciò avesse agito da egoista, la patria avita (vaṭan-e aṣlī) sarebbe finita sottosopra in un nulla e il luogo ereditato sarebbe stato raso al suolo da un capo all’altro. Il padre Taraghay lo lasciava in quell’anno per raggiungere la protezione del Veritiero ».39 Nelle fonti persiane questo tipo di excusatio non arriva mai per caso,40 di fatto le cronache descrivono Timur come impegnato a fermare i propri compagni dal compiere atti imprudenti. Avrebbe cominciato lui stesso la trattativa che lo portò a diventare un tributario dei ciagataici; non fu il solo, altri si adeguarono, come gli Yasavur e i Jalayiridi che unirono le proprie forze a quelle del nemico. Il capo ciagataide Tughluq Timur si trovò presto costretto a ritornare in Transoxiana (marzo 1361), dove i vari gruppi tribali continuavano a mostrarsi molto irrequieti. Fu cosí eliminato il turbolento Buyan Suldus e vennero rimessi in discussione gli accordi presi con vari altri beg, tra i quali lo stesso Timur. Alla sua partenza Tughluq Timur lasciò il potere nella regione al figlio Ilyās Khwāja che lo mantenne con fermezza fino al 1364, anno di morte del padre. In questo quadro di sottomissione generale, non mancarono gli accordi sotterranei tra i capi militari: tutti avevano le loro ambizioni, ma il potere ciagataico era particolarmente ferreo. Ed è in questo frangente che emer39

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se la personalità di Amīr Ḥusayn, futuro capo dei Qarawna. Nasce cosí quel “sodalizio” che vede quest’ultimo e Timur razziare la regione di Marv e finire prigionieri per poi essere liberati poco dopo. A quell’epoca Timur si nascose a sud dell’Amu Darya, dove fu contattato a piú riprese dal signore kartide Mu‘izz al-Dīn, suo antico conoscente (si ricordi la storia di Timur conoscitore di cavalli), e costui gli forní mille dīnār e varie provviste.41 Sembrerebbe dunque che nella situazione di incertezza regionale, Timur, oramai estraneo al suo servizio per Tughluq Timur, agisse in proprio, cercando nuove alleanze. Per esempio, quella coi Kart, alla quale sembra aderire anche l’Amīr Ḥusayn. In due momenti differenti però i due furono costretti a fuggire e si recarono nel Sistan (odierno Iran meridionale), dove, insieme ad altri Qarawna comandati da un altro transfugo, Tuman Garmsīrī, compirono razzie e collaborarono con vari potenti locali nella guerra civile regionale che lí era endemica da tempo.42 Potrebbe essere stato questo il momento in cui Timur fu ferito alla gamba durante una razzia. Con una certa abilità, Amīr Ḥusayn riuscí a compattare le forze già presenti nella vecchia confederazione qarawna e quando nel 1364 ottenne il permesso dai Cagataici di acquisire un ulteriore sovrano fantoccio,43 proclamò un kuriltai (‘assemblea dei maggiorenti’), dove diventò il nuovo emiro della regione continuando di fatto le strategie politiche di Qazaghan. Timur era all’epoca un suo vassallo e partecipò al kuriltai. La presunta amicizia giovanile con Amīr Ḥusayn mutò presto in disaccordo: il conflitto era determinato dalla simpatia di Timur per il movimento dei Sarbadār, i “pendagli da forca” – come li chiamavano i loro detrattori – che avevano fondato quella che impropriamente viene chiamata una repubblica, forse piú correttamente un “regno senza re”, nella regione khorasanica di Sabzavar.44 Profondamente sciiti, costoro agivano anche quali sobillatori sociali – fatto che avrebbe fatto guadagnare loro il nome sprezzante –, con rivendicazioni soprattutto fiscali che andavano a ledere gli interessi dei vari comandanti militari mongoli e turcomanni. La simpatia mostrata per loro da Timur costituiva seriamente un problema per il nuovo signore dei Qarawna Amīr Ḥusayn.45 Lo stesso Timur non esitò ad appropriarsi di imposte alle quali probabilmente non aveva diritto.46 Ancora una volta Timur dovette affrontare un ulteriore scacco alle proprie politiche e fu costretto dalla reazione di Amīr Ḥusayn a fuggire in gran fretta con la famiglia nella regione di Marv, dove si nascose nel piccolo villaggio di Makhan.47 40

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5. Il colpo di stato a Balkh (771/1370) Si potrebbe a lungo discutere del mutevole funzionamento delle allean­ ze turco-mongole, e della personalità degli emiri locali pronti a offrire i propri servigi ai migliori offerenti.48 L’arte di soppesare la propria potenza e di comprendere quella degli avversari in termini di forze in campo, di appoggi politici e di rischio di sconfitta accompagnerà Timur per tutta la sua vita e sarà decisamente uno dei motori anche della sua propaganda: il discredito degli avversari avrà un peso considerevole, cosí come l’esagerazione dei propri meriti. Ciò detto, rintanato nell’oasi di Marv, Timur imparò a riconoscere i compagni piú fedeli: divenuto capo della tribú Barlas, seppe bilanciare ad arte il peso di un esteso parentado senza che il proprio clan personale prendesse il sopravvento, allo stesso modo diede una posizione di rilievo a Chaku Barlas, capo di un’altra famiglia della tribú, che lo seguí ovunque fino a quando morí nel 1383-’84:49 in quei primi incontri clandestini, Timur premiò la sua fedeltà e il suo attaccamento con la promessa del futuro comando delle forze Qarawna.50 Un’altra figura ebbe un peso notevole, Zinda Hasham degli Arpardi, anche se presto quest’ultimo e il potente Amīr Mūsā si rivelarono alleati inconsistenti, se non insidiosi nel quadro delle rivalità intertribali.51 A questo primo nucleo si aggregò presto il potente Kaykhusraw Khuttalānī, che doveva vendicarsi dell’omicidio del fratello da parte di Amīr Ḥusayn. Altri patti piú oscuri e meno attestati Timur li andò a stringere con potenze “straniere” rispetto alla Transoxiana. Sicuramente nel 1366 cercò un’alleanza con i Kartidi di Herat, anche se l’anno successivo l’accordo sarebbe venuto meno, forse per il rifiuto di Timur di presentarsi da sottomesso innanzi a Mu‘izz al-Dīn Pīr Ḥusayn.52 Nel 1368 si verificò il primo scontro con Amīr Ḥusayn, il quale contava anche lui su solide alleanze53 e aveva potuto conquistare Kish. La tensione calò probabilmente per la minaccia di una nuova invasione ciagataica. E se Timur poté riavere la sua città natale, Amīr Ḥusayn operò per appropriarsi del potere in tutta l’ulus ciagataica: un errore molto grosso che viene stigmatizzato dalle fonti timuridi come uno dei tanti eccessi e delle ambizioni sfrenate del signore dei Qarawna. Le accuse portavano anche una critica alla costruzione di mura attorno a Balkh, che Amīr Ḥusayn avrebbe eletto come propria capitale, uscendo di fatto fuori dal territorio della Transoxiana e usurpando i possedimenti dei Suldus che non indugiarono 41

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a rivolgersi a Timur, insieme a molti altri che vedevano nelle ambizioni di Amīr Ḥusayn un’infrazione al suo ruolo di primus inter pares.54 Molti risposero all’appello fatto da Timur per combattere i Qarawna dell’Amīr Ḥusayn: lo Shāh Muḥammad del Badakhshan e altri piccoli e medi eserciti di signori locali si aggregarono. Altri decisero di tradire, come era frequente; è il caso dell’emiro Mūsā Taychiut, che posto nell’avanguardia si dileguò e raggiunse le fila nemiche. Dopo aver passato le cosiddette « Porte di ferro » a Qahalgha, sopra Termez,55 Timur apparentemente suggestionato da un asceta, il sayyid Baraka, decise di attaccare il nemico dall’accampamento di Biya.56 Agli inizi di aprile del 1370, Timur cinse d’assedio Balkh con un esercito oramai consistente. Nel contempo convocò un suo kuriltai, in cui riuní tutta la nobiltà turco-mongola. In quella sede, secondo la procedura già impiegata dai Qarawna, fece eleggere dai propri nobili un personaggio di alto lignaggio mongolo: Soyurghatmish Khān. Era il 12 ramaḍān 771/10 aprile 1370. Shāmī si dilunga sulle motivazioni ideologiche di questa scelta, probabilmente rifacendosi a un discorso di Timur nel kuriltai: dopo aver dichiarato che un regno senza ombra divina (ovvero senza il diritto musulmano) non potrà praticare né dominio, né giustizia, poiché il caos sarebbe stato sovrano, con riferimenti biblico-coranici l’autore persiano fa un uso sorprendente del termine jihād contro gli infedeli e i nemici della fede e arriva cosí a giustificare la necessità di restaurare il casato ciagataico, perché Chinggis Khān era stato colui che per primo aveva conferito gloria a Qarachar Barlas, antenato di Timur. Per spiegarlo con piú semplicità: Chinggis Khān e i ciagataici, feroci nemici dell’Islam, avevano alla fine favorito quella religione attraverso gli antenati di Timur.57 Sharaf al-Dīn si affretterà invece a celebrare il rispetto della consuetudine mongola della yasaq, il diritto mongolo.58 È il trionfo di una formula politica che unisce la tradizione mongola a quella islamica: la sintesi ancora mancante di due sistemi giuridici e statali in netto contrasto tra loro sulla quale torneremo spesso.59 Quanto all’insediamento del khān fantoccio: questi non era di stirpe ciagataica, ma discendeva dal terzogenito di Chinggis Khān, Ögödei. La scelta di cambiare ramo di riferimento della famiglia è forse legata all’intento di delegittimare definitivamente i ciagataici, ed è forse da questo momento in poi che i ciagataici vennero chiamati Jete, utilizzando un termine dispregiativo mongolo per indicare i « predoni » (čätä).60 Come era avvenuto per i Qarawna, Timur funse da “tutore”, alcuni lo hanno 42

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persino paragonato a un atabeg (‘tutore’) selgiuchide, e non senza ragione.61 Lui, per sé, mantenne il titolo di amīr (‘emiro’), al quale aggiungerà presto quello di küregen di cui si è già parlato.62 La notizia del cambiamento al potere nello stato che era stato comandato fino ad allora dai Qarawna fu resa pubblica. Timur poté cosí procedere all’attacco della cittadella di Balkh e, dopo uno scontro apparentemente molto violento, Amīr Ḥusayn decise di prendere la fuga con il tesoro, malgrado apparentemente Timur gli offrisse una resa onorevole. Rifugiatosi in un minareto della Grande Moschea della città, sarebbe stato raggiunto da un soldato che cercava il proprio cavallo ed era salito lassú per individuarlo nel circondario. Le fonti persiane rasentano il patetismo quando descrivono il tentativo di corrompere quell’individuo con le ricchezze portate via con sé. L’uomo, dopo aver finto di assecondare Amīr Ḥusayn, non esitò di avvertire i seguaci di Timur che lo trascinarono giú dal nascondiglio improvvisato.63 Le stesse fonti si dilungano sui tentativi di Timur di salvare il proprio prigioniero nonché ex-amico, ma devono cedere il passo alla sua incapacità di contrastare la volontà di vendetta dell’emiro Kaykhusraw Khuttalānī, il quale aveva perduto un fratello per mano di Amīr Ḥusayn. In separata sede e con alcuni suoi sgherri, Kaykhusraw si prese la sua rivalsa scannando il prigioniero. 6. Timur getta le basi dello Stato Una volta ucciso Amīr Ḥusayn, Timur sembrò turbato per la perdita di quello che era stato suo compagno nell’ascesa politica negli anni ’60 del Trecento. L’enfasi sul suo rammarico viene bilanciata ad arte col biasimo per il personaggio che per debolezza avrebbe ceduto « alla cupidigia ». Cionondimeno il corpo dell’ultimo emiro dei Qarawna fu sepolto nel mausoleo di un compagno del Profeta a Balkh e Timur non eccedette nei confronti dei soldati nemici che poterono tornare nelle loro dimore.64 Gli autori persiani si dilungano piuttosto sulla spartizione delle mogli di Amīr Ḥusayn: con cura meticolosa Timur scelse per sé una figlia di Qazan, che sarà la sua sposa principale, con un peso politico considerevole: la Sarāy Mulk Khānum.65 Prese anche per sé anche una figlia di Buyan Suldus, la Ulus Āghā, e una figlia dell’emiro Yasavur, Khiżr, la Islām Āghā. Le altre spose e concubine le distribuí tra i suoi seguaci piú fedeli, in particolare l’emiro Chaku e Zinda Hasham, compagni della prima ora.66 43

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Nel sistema turco-mongolo, la spartizione delle mogli aveva una funzione di cui s’è parlato. Timur per la verità aveva contratto già matrimonio con delle dame mongole, è il caso della Turmish Āghā, figlia anch’essa di Qazan, forse sposata nel 1356, che sarà la madre dell’amatissimo figlio Jahāngīr, o ancora della Uljay Khatun.67 La scelta di adottare il sistema matrilineare si rivelerà fondamentale per stabilire i complessi meccanismi della successione ed è certo che il matrimonio con la Sarāy Mulk Khānum è praticamente un atto fondativo della nuova dinastia. Forse già a Balkh Timur batté moneta col proprio nome e con quello di Soyurghatmish Khān;68 questo primo conio risale al 771/1370 e segna un salto di qualità rispetto ai Qarawna, che non avevano mai coniato monete in proprio. Se il rimprovero ad Amīr Ḥusayn di essersi incastellato a Balkh conteneva anche una critica implicita al sedentarismo,69 Timur elesse subito a propria « capitale » (paytakht) Samarcanda e lí si insediò nel palazzetto del Kök Sarāy, anche se continuò a praticare il nomadismo preferendo restare spesso in accampamenti, magari nella città natale di Kish.70 Era necessario chiudere definitivamente col proprio passato e i legami con gli eserciti Qarawna. Cosí quel versante meridionale del suo regno, subito affidato a un governatore di fiducia, Murād b. Chugham Barlas,71 perse l’importanza capitale che aveva avuto in precedenza anche se la regione rimase turbolenta ancora per un certo tempo, necessitando spesso interventi diretti dello stesso Timur. Arrivato a Samarcanda, si affrettò a dare un segno alla sua aristocrazia nascente per evitare che questa si ribellasse: con precisione notarile Sharaf al-Dīn si applica nell’elenco di queste figure. Amīr Dāvud Dughlat72 fu nominato governatore (darugha) di Samarcanda, un incarico molto importante perché prevedeva anche la riscossione del tributo. Quanto ai capi militari, Sharaf al-Dīn snocciola un lungo elenco che comincia con Chaku Barlas, e continua con gli emiri Sayf al-Dīn, ‘Abbās, Iskandar, ‘Ālim Shaykh, ‘Alaqa Qawchin, Ardashīr Qawchin, Qumārī Īnāq. Tutti ricevettero importanti comandi militari nei tuman e delle hazāra. Aggiunge Sharaf al-Dīn che furono nominati tuvājī, ovvero ‘comandanti’ dell’esercito a sostegno della corona sultaniale, « secondo il costume dei Turchi ». Altri ancora furono aggiunti all’elenco con funzioni diverse.73 Tutte queste nomine riflettono evidentemente accordi precedentemente presi, ma segnano nel contempo la fondazione dello Stato: a Samarcanda Timur costituí il dīvān, ovvero la ‘Cancelleria’, che diventerà il cuore del suo Stato in seguito. Tra gli altri, incaricò l’emiro Aqbugha dell’edificazione di Sa44

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marcanda e delle sue mura cittadine: può sorprendere che dopo aver criticato Amīr Ḥusayn di volersi inurbare, tradendo lo “spirito nomadico”, Timur facesse esattamente la stessa cosa, senza che ciò risultasse per nessuno una contraddizione.

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III DI F F IC I LI CAM PAG N E I N AS IA C ENTRALE 1. Il kuriltai di Samarcanda del 1370 In quanto capo turco-mongolo o forse mongolo turchizzato, Timur aveva un serio problema a imporre il proprio carisma innanzi ai suoi pari. Ci si può interrogare su quale lingua utilizzasse per rivolgersi ai suoi contemporanei: apparentemente parlava una variante del turco, quello che tradizionalmente viene chiamato turco ciagataico.1 Ibn ‘Arabshāh dichiara che era a conoscenza di turco, mongolo e persiano, ma che non sapeva l’arabo. Aggiunge questo autore che era un illetterato.2 Il persiano doveva essere una lingua molto usata in Transoxiana insieme al turco in quest’epoca. E per quanto i Persiani (o Tagichi, come vengono chiamati dalle fonti) fossero profondamente disprezzati, la convivenza con loro faceva parte di quel modus vivendi definito dal binomio turk-u-tājīk (‘turco e tagico’)3 che prevedeva questi due mondi integrati in un’unica civiltà. C’era stato già chi in passato aveva affermato che « un Turco senza un Persiano non è possibile, cosí come un copricapo senza testa non ha ragion d’essere ».4 Non è necessario spingersi oltre nel fare ipotesi su quanto le proprie conoscenze del persiano incidessero sulla cultura politica di Timur. È sicuro, però, che l’arte del governo persiana aveva condizionato molte corti turche e mongole in precedenza: cosí opere quali il Siyāsatnāma (Libro della politica) del celebre ministro selgiuchide Niẓām al-Mulk (m. 1092) avevano avuto ancora una loro influenza in epoca mongola e la continueranno ad avere anche in seguito; Rashīd alDīn si rifaceva a esse nella sua concezione politica e molti usavano quel linguaggio e quelle strategie propagandistiche molto consolidate.5 Timur non sembra tuttavia aver seguito, almeno inizialmente, questa tradizione che vedeva una sintesi tra ministri persiani e comandanti militari turchi o mongoli.6 Elemento fondamentale del suo mondo era piuttosto il clan privato e la tribú e a seguire i gruppi tribali alleati. Se c’è un ruolo per i Persiani, questo è svolto da figure religiose (vedi Sayyid Baraka prima dello scontro contro Amīr Ḥusayn). Costoro rivestono una sorta di potere magico prossimo talvolta alla pratica sciamanica e sono spesso interpellati. Inoltre, in questa fase, sicuramente il controllo del potere è il risultato di 46

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un negoziato tra i comandanti militari; la capacità di aggregare piú forze possibili e dunque il carisma per mantenere la coesione tra elementi anche molto irrequieti e individualisti. L’insediamento a Samarcanda in tal senso giocò un ruolo di rilievo: esso coincise con un grande kuriltai nella sua nuova capitale Samarcanda. Qui, come ci dice Sharaf al-Dīn, Timur convocò gli emiri dei tümen e delle hazāra per definire i progetti del futuro e la struttura stessa del nuovo “Stato” per il quale fu usato il termine dawlat che significava anche l’idea di “regno”. Malgrado le fonti descrivano una corte imperiale forse piú rispondente a periodi successivi, Timur sembra in questo momento preoccupato a tenere in piedi la sua coalizione. Deve ascoltare per esempio le scuse maldestre dell’emiro Zinda Hasham che non si è presentato innanzi a lui. Nei mesi successivi, questi sarà protagonista di varie azioni ostili, fino a rinchiudersi nella fortezza di Shaburghan, dove Timur fu costretto a spedire il fido Chaku Barlas, che assediò la città e convinse infine ad arrendersi il ribelle, in nome della vecchia amicizia tra i due. Lo stesso Timur ostentò un perdono rivelatore della fragilità del nuovo Stato.7 2. Contro i Jete del Moghulistan È molto probabile che queste ribellioni venissero alimentate dal vicino Moghulistan. Con questo nome, si indicava la parte orientale del khanato ciagataico, una regione che si estendeva sino all’odierno Sinkiang (Turkestan orientale) e comprendeva buona parte del Kazakhstan meridionale.8 Diviso dalla Transoxiana dall’insormontabile catena del Tien Shan, il Moghulistan costituiva un mondo molto diverso dai “domini ciagataici occidentali”. L’islamizzazione di quelle regioni era stata recentissima: probabilmente il primo a adottare questa fede era stato, in quelle remote terre, Tughluq Timur, che abbiamo visto intervenire in Transoxiana nel 1360 e nel 1361. La morte del suo successore Ilyās Khwāja nel 1365 aveva provocato il caos e fatto emergere un gruppo tribale, quello dei Dughlat, rappresentato da Qamar al-Dīn, un personaggio che ha diversi tratti in comune con Timur e che si rivelò per lui un nemico molto coriaceo. Qamar al-Dīn si riteneva un khān, titolo inappropriato per lui (e si è visto come neanche Timur osò mai ardire di farne uso).9 Il mancato riconoscimento di Qamar al-Dīn da parte di molti gruppi tribali mostra chiaramente che il Moghulistan era entrato in uno stato di conflitto interno molto serio.10 Descritto come molto violento e tirannico, fu proprio con47

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tro Qamar al-Dīn che venne rispolverato il titolo di Jete per definire i ciagataici.11 In tal modo ora la propaganda timuride poteva finalmente esprimere la propria avversione nei confronti di chi era considerato un usurpatore in un regno snaturato rispetto alle proprie origini chinggiskhanidi. Qamar al-Dīn e poi anche Toqtamish Khān, signore dell’Orda d’Oro, erano rampolli mongoli che si erano attribuiti il potere nelle vecchie ulus mongole.12 Saranno i nemici piú ostici per Timur che non sarà mai in grado di catturarli né di sottomettere stabilmente i loro domini “nomadi”, per altro impossibili da presidiare. Se con le popolazioni sedentarie e inurbate, Timur ebbe straordinari successi, con gli eserciti nomadi incontrò spesso consistenti difficoltà e dovette compiere estenuanti inseguimenti per le steppe, con scarse possibilità di bottino e molte frustrazioni. La prima missione fuori dal proprio contesto costituí un vero e proprio banco di prova per Timur. Un suo alleato dell’ultima ora, Kebek Timur, gli si rivoltò repentinamente contro e Timur si trovò a dover intervenire personalmente per l’inefficienza dei propri emiri, costretti a una pace frettolosa col nemico dopo aver rischiato di essere sopraffatti.13 Dopo aver richiamato tutti coloro che potevano combattere, Timur giunse a Sayram (attuale Kazakhstan meridionale) mettendo in fuga i ribelli, nel contempo erano stati catturati i traditori a Shaburghan, in particolare Zinda Hasham e Amīr Mūsā.14 Pur non spingendosi oltre la zona a meridione del lago Issyk Kol, Timur era riuscito a compiere qualche devastazione e a fare del bottino. Siamo nell’anno 773/1371-’72. Deciso a uccidere Zinda Hasham e l’Amīr Mūsā, costoro si sarebbero salvati grazie all’intercessione di Sarāy Mulk Khanum (sorella dell’Amīr Mūsā) della quale cominciamo a vedere il peso nelle decisioni di Timur.15 Da quel momento in poi questi emiri ribelli vennero imprigionati a Samarcanda dove vissero per un certo tempo grazie al timore di Timur di entrare in dissidio con i loro seguaci. Episodi secondari, le prime due campagne nel Moghulistan vengono descritte come exploit di un certo rilievo e mostrano la volontà espansiva di Timur, che si considerava ora signore anche dell’ulus ciagataica orientale, il Moghulistan. In realtà questo episodio è solo il primo di una lunga serie di tentativi di sottomettere un’area molto estesa che sfuggirà al suo comando, rimanendo per molti anni una spina nel fianco del suo regno insieme alla Corasmia, stato della frontiera nord-occidentale, dove sorgevano importanti città come Urganch e Kat (oggi tra Turkmenistan e Uzbekistan), prospere metropoli di un regno potente. 48

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3. La prima campagna corasmica Libero dall’obbligo di rispondere alla potenza ciagataica del Moghulistan, oramai declassata a orda di predoni, Timur ideò un piano per “ristabilire l’ordine” nelle regioni vicine che considerava alle dipendenze dell’ulus, ovvero di sé stesso, emiro del khān Soyurghatmish che aveva messo sul trono a Balkh prima di rovesciare l’Amīr Ḥusayn. Ancora una volta concepí le cose considerando saggiamente le conseguenze dei suoi atti sul piano della legittimità di fronte ai propri sottomessi: gli Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn e Shāmī descrivono un’ambasciata inviata presso il signore locale Ḥusayn Ṣūfī16 che era a capo di una dinastia di Mongoli appartenenti al gruppo tribale dei Qonqirat (o secondo varianti Ongirat o Qunggrat). Al tempo di Chinggis Khān questa famiglia aveva ricoperto un certo peso che confermò con legami matrimoniali diretti con i vari Gran Khān che gli succedettero. Tuttavia, nella stretta considerazione delle genealogie che guidava molte scelte di questo tempo, i Qongirat non facevano propriamente parte di quel altan uruq dei parenti intimi di Chinggis, anche se rivendicavano anch’essi un legame con la mitica Alan Qo’a; perciò Timur poteva rivendicare il proprio protettorato sulla regione attribuendola al dominio ciagataico e, come si vedrà in seguito, lo stesso faranno i signori dell’Orda d’Oro piú tardi. Si trattava di un argomento spinoso: Ḥusayn Ṣūfī doveva il proprio titolo di Ṣūfī al fondatore del suo casato, il padre Naghdai che era stato investito di importanti cariche al tempo del Khān dell’Orda d’Oro Özbeg (colui dal quale derivò poi il nome degli Uzbeki). Questo importante sovrano, regnante dal 1312 al 1341, era stato convertito all’Islam dall’eminente asceta Sayyid Aḥmad, detto Sayyid Ata, con la conseguente (ri-) conversione in massa di tutta l’Orda d’Oro. Naghdai può essere solo marginalmente oggetto del nostro interesse qui: va detto però che fu un uomo dai grandi tratti di pietà musulmana, dedito alla guerra contro gli infedeli e asceta lui stesso.17 Da ciò il nome di Ṣūfī per i suoi discendenti che evidentemente si rifacevano a quel retaggio religioso. Timur, dunque, sconfinava su un terreno pericoloso e andava a toccare un dominio già conteso tra i Ciagataici e i loro rivali dell’Orda d’Oro. Tuttavia, rinvigorito dal successo nel Moghulistan ritenne che questa impresa fosse fattibile: le città di Kat, Khiva e Urganch, in Corasmia, erano sorte in tempi remoti in una regione molto prospera dove i fiumi Amu Darya e Sir Darya confluivano nel Mare d’Aral. La loro conquista era vista 49

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come un motivo di sicuro arricchimento, fattore quest’ultimo molto importante per permettere a Timur di controllare i propri sudditi irrequieti. Varrà anche la pena ricordare che nella missiva che inviò a Ḥusayn Ṣūfī, Timur inaugurava una tecnica che poi utilizzerà in seguito: proporre un accordo pacifico impossibile per poter procedere alle maniere forti. Lo stile dell’epistola è interessante; dopo aver spiegato che Ḥusayn Ṣūfī si era appropriato con la forza di quei domini, Sharaf al-Dīn aggiunge: Kāt e Khīvaq [Khiva] sono dipendenze dell’ulus di Chagatai e in questo periodo in cui sono rimaste senza un signore, tu le hai fatte rientrare tra le tue conquiste. Ora è necessario che esse, insieme alle loro dipendenze e i loro sudditi tu le restituisca a questa eccellenza [cioè Timur] affinché rimanga aperta la via della cordialità e dell’amicizia tra le nostre signorie e i segni della concordia e della collaborazione rimangano inalterati.18

Per tutta risposta Ḥusayn Ṣūfī mandò a dire a Timur: « Questa regione l’ho presa con la spada della conquista e con la medesima bisognerà sottomettere me ». Timur espresse tutta la sua ira al ritorno degli inviati, ma un suo muftī, il pio musulmano Mawlānā Jalāl al-Dīn Kāshī, lo convinse a fare un altro tentativo per evitare quello spargimento di sangue dei musulmani che sarebbe stato causato solo « dall’arroganza di un solo individuo ». Il sant’uomo una volta giunto in Corasmia incontrò però una risoluta opposizione, altrimenti definita dalle cronache come spirito di rivolta e sobillazione, e addirittura venne arrestato. Il racconto finisce con due versi dedicati a Timur: « Fu dato ordine di radunar le truppe / presso la fortunata corte del Protettore del Mondo ». Pur in quella ingenuità un po’ patetica che caratterizza tutta la propaganda timuride, queste descrizioni ci danno alcune informazioni importanti. La prima è che Timur si rivolgeva alle autorità religiose prima di intraprendere le sue campagne, usandoli come mediatori, e costoro, impauriti, cercavano in tutti i modi di convincere gli avversari. Un loro imprigionamento era causa garantita di guerra (in ciò Timur faceva esplicito riferimento al modus operandi di Chinggis Khān). Cosí, nella primavera del 773/1372, Timur radunò i suoi uomini, li riempí di denaro e regalie e, dopo aver lasciato a Samarcanda un uomo di fiducia della sua famiglia, l’emiro Sayf al-Dīn Nuquz, arrivò nei pressi di Bukhara dove sconfisse l’esercito nemico di Ḥusayn Ṣūfī, il quale si asserragliò a Kat. Qui avvenne un imprevisto che ancora una volta sottolinea l’incertezza delle alleanze di Timur: l’emiro Kaykhusraw Khuttalānī, già 50

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uccisore dell’Amīr Ḥusayn, e alleato della prima ora di Timur, con i suoi contingenti passò dalla parte di Ḥusayn Ṣūfī. Questa svolta causò alcune difficoltà e lo stesso Timur si trovò in una impasse personale, ma alla fine Ḥusayn Ṣūfī « morí di paura » e il suo alleato estemporaneo fu catturato e, dopo un “processo pubblico” esemplare,19 consegnato ai discendenti dell’Amīr Ḥusayn perché lo scannassero a loro piacimento per vendicare la precedente esecuzione da parte sua del loro avo. 4. Un matrimonio regio Mentre Timur era impegnato a processare Kaykhusraw Khuttalānī, ricevette alla sua corte un atto di sottomissione da parte del fratello di Ḥusayn Ṣūfī, Yūsuf Ṣūfī che non solo si piegò a tutte le richieste del suo nuovo padrone, ma accettò di dare in sposa la propria figlia Sevin Beg, detta la khānzāda (‘principessa’), al figlio prediletto di Timur, Jahāngīr.20 Costei è descritta di una bellezza straordinaria e apparentemente Timur la considerò come un autentico bottino: il legame era importante perché di fatto garantiva anch’esso il diritto sul territorio corasmico. La sposa sarebbe dovuta arrivare in pompa magna presso la corte di Timur per la celebrazione ufficiale delle nozze. Nel contempo, però, l’uccisione di Kaykhusraw Khuttālānī aveva provocato l’inquietudine di alcuni emiri della tribú degli Yasavur. Guidati da un figlio di Kaykhusraw, Sulṭān Maḥmūd, essi si rivolsero a Yūsuf Ṣūfī e con lui intervennero in Corasmia compiendo razzie nella regione di Kat, contravvenendo alle disposizioni di Timur, nominalmente nuovo sovrano dell’area. Timur era deciso a mettere fine a queste operazioni e nel mese di ramaḍān del 774/ febbraio-marzo 1373, compiendo una breve avanzata nel territorio corasmico ottenne subito la richiesta di scuse da parte di Yūsuf Ṣūfī, che decise di perdonare senza troppe esitazioni, insieme agli altri ribelli, con i quali preferí non entrare in conflitto: evidentemente la reazione degli emiri alla morte di Kay Khusraw Khuttālānī lo convinse ancora una volta a usare delle accortezze nei confronti dei suoi, ancor piú che contro coloro che andava sottomettendo.21 Il matrimonio non si concretizzò che l’anno successivo (775/1374), le fonti, soprattutto Sharaf al-Dīn, si soffermano sulle cerimonie che precedettero lo svolgimento delle nozze. Gli autori persiani si sbizzarriscono in un genere che troveremo spesso in seguito, quello del bazm-u-razm (‘banchetto e battaglia’), in quella dimensione lirico-narrativa delle vicende 51

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reali che prevedeva l’alternarsi di guerre a sfarzose feste. I narratori elencano i doni sontuosi, incluso un trono d’oro, assai improbabile se si considera il giovane regno ancora in formazione e le sue finanze presumibilmente ridotte.22 Può risultare interessante in questo quadro il ruolo giocato delle dame di corte nell’apprestare il cerimoniale, comparve ad esempio una moglie di un figlio del khān ögödeide Qaidu, Qaratqa (QRTQĀ) Khatūn,23 a legittimare la cerimonia con un riferimento alla stessa discendenza di Soyurghatmish, il khān fantoccio insediato da Timur. Queste scelte non erano mai casuali e in questo caso richiamavano dispute remote sul legittimo detentore del titolo di Gran Khān, fin dai tempi immediatamente successivi alla morte di Chinggis Khān. L’uso di addobbare la città di Samarcanda con tende e decorazioni « teatrali »,24 diventerà in seguito un’abitudine. La città in tal senso sembrava ospitare una tendopoli e per lungo tempo cosí rimarrà, con una convivenza tra elementi cittadini (spesso maltrattati) e nomadi che la facevano da padroni. E quando Timur deciderà di monumentalizzare la sua capitale, costruendo viali e compiendo varie distruzioni, rimarrà traccia dell’elemento tessile nella decorazione degli edifici che ai tappeti e alle tende si ispirava.25 5. Le difficoltà del Moghulistan e altre sedizioni Il grande affetto che legava Timur al suo secondogenito Jahāngīr era stato sicuramente il motore principale di quel matrimonio, cosí vistosamente celebrato. Timur confidava in questo principe per assegnargli un ruolo significativo nelle sue campagne militari – probabilmente lo considerava già il suo erede al trono –, e con lui concepí il piano di conquistare il Moghulistan per sopprimere l’avversario Qamar al-Dīn, che continuava a ospitare ancora molti suoi nemici. Ma anche nel suo esercito non mancavano le incertezze e i problemi: partito per il Moghulistan, si fermò una prima volta per le intemperie e il grande freddo, evidentemente non aveva ancora delle truppe equipaggiate in maniera adeguata. Giunto a Qatvan, a nord di Samarcanda, luogo già famoso per una violenta e funesta battaglia del passato tra i Qara Khitai e gli shāh di Corasmia,26 ebbe il presentimento di non riuscire a continuare la propria spedizione e tornò rapidamente a Samarcanda dopo aver perso numerosi uomini e cavalli. Si rimandò tutto all’anno successivo e nel mese di shavvāl del 776/ mar52

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zo 1375, dopo aver assegnato a Jahāngīr l’avanguardia (manqalai) dell’esercito insieme allo shaykh Muḥammad della tribú dei Suldus, ‘Ādilshāh dei Jalayir e Türken degli Arlat, li spedí in avanscoperta nell’insidiosissimo territorio nemico. Superato il Sir Darya e raggiunto il sito di Jarunqa (Jārūn), i Timuridi catturarono un ciagataico che fu subito spedito presso Timur. Costui riferí che l’esercito di Qamar al-Dīn era accampato a Kök Tappa (Kok Tobe, la ‘Collina blu’, nell’odierno Kazakhstan del Sud-Est).27 L’avanguardia guidata da Jahāngīr partí rapidamente verso quella destinazione dove, intanto, Qamar al-Dīn attendeva un altro capo jalayir che si chiamava Ḥājjī Beg.28 Probabilmente i due non prevedevano l’arrivo di questo esercito, ma altrettanto probabilmente furono avvertiti da chi accompagnava Jahāngīr, e in particolare da ‘Ādilshāh, anche lui jalayiride, cioè di fatto proveniente da una delle tribú che erano state piú tiepide se non ostili all’ascesa di Timur. Qamar al-Dīn allora adottò una strategia molto spesso impiegata dalle orde mongole, quella della fuga in regioni remote e spesso inadatte a una battaglia campale per attirare il nemico lontano dalle altre guarnigioni e poterlo attaccare di sorpresa. Non si deve immaginare queste guerre in modo troppo convenzionale: gli eserciti nomadi giocavano la gran parte delle proprie strategie sulla rapidità degli spostamenti secondo tecniche belliche maturate nel corso di millenni. Non ultimo si faceva ricorso spesso, e Timur ne farà grande uso, ai rovesciamenti di fronte e ai tradimenti repentini predisposti prima della battaglia. L’esercito di Timur doveva essere già temibile agli occhi del nemico, se Qamar al-Dīn fu obbligato a scegliere queste tattiche. Nel contempo, il signore del Moghulistan sapeva di poter contare sull’estensione del proprio territorio assai inospitale e sulle incertezze all’interno dell’esercito timuride, evidentemente da lui esasperate ad arte tramite emissari inviati per sobillare quegli elementi. Cosí, stando alle cronache persiane, si andò a rifugiare in un luogo che prendeva il nome di Berke Ghuriyan, coincidente con la regione dell’odierno fiume Sharyn nella Semireče (lo Yeti Su, la ‘Regione dei Sette fiumi’, a meridione del Lago Balkash),29 dove, riferiscono le fonti, « tre fiumi confluivano tra tre montagne » in una zona impenetrabile di cui probabilmente Timur non aveva alcuna conoscenza diretta. E solo con estrema difficoltà l’avanguardia di Jahāngīr riuscí a raggiungerlo, non senza alcune perdite umane nell’attraversamento del fiume Ayile (il fiume Ili).30 Mentre si avvicinava, Qamar al-Dīn fuggí però nuovamente. Fu a quel punto che Timur intervenne personalmente decidendo di limitarsi al saccheggio e al massacro delle 53

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popolazioni che si trovò a incontrare. Si recò anche personalmente alla città di Baitak (oggi Kara Kasmak, nel distretto di Atbaši in Kirgizistan),31 dove si trovava l’accampamento principale di Qamar al-Dīn e dove si appropriò dell’intero harem del rivale, in particolare di due dame, una delle quali poi sposerà subito dopo sulla via del ritorno, la Dilshād Āghā, figlia di Qamar al-Dīn.32 Al di là dei saccheggi e dell’uccisione di vari “infedeli”, la campagna sembrò non costituire un successo particolare e anzi Timur, dopo essere rimasto a Baitak per 53 giorni, si decise a tornare indietro, forse presagendo ancora dei pericoli interni che si verificarono prima ancora del previsto. Fu proprio sulla via del ritorno a Khujand (attuale Tajikistan) che i comandanti che erano stati spediti al seguito di Jahāngīr, ai quali aveva conferito un onore particolare, ponendoli nel manqalai, tentarono di ucciderlo. Fallito il tentativo alcuni fuggirono, ma furono ripresi; ‘Ādilshāh il jalayiride preferí consegnarsi di persona per implorare perdono. Almeno cosí narrano le fonti. Studiosi avveduti hanno visto una scelta politica precisa nella clemenza verso il membro del clan piú ostico per i Timuridi; quanto a Muḥammad Suldus, capo di un’altra tribú importante ma dominata da dissidi interni, fu processato in seguito davanti a un tribunale che non esitò a farlo uccidere con ferocia insieme ad altri cospiratori proprio facendo leva su vecchi risentimenti.33 A dimostrazione dell’incertezza del governo di Timur, proprio coloro che avevano goduto della clemenza del loro signore non esitarono a compiere nuove rivolte. Accingendosi a un’ulteriore missione punitiva nei confronti della Corasmia, la terza, nella primavera del 777/1376, convinto della fiducia che poteva riporre nei suoi emiri, Timur ordinò che ‘Ādilshāh Jalayir e altri comandanti andassero nel Moghulistan a caccia di Qamar al-Dīn, con l’ordine di ucciderlo ovunque lo trovassero. Gli emiri partirono mentre il grosso dell’esercito di Timur muoveva verso il nord-ovest. Ma la fiducia riposta in loro, come per altro quella nei confronti di un altro emiro, Türken Arlat, anche lui perdonato dopo le congiure di pochi mesi prima, si rivelò assolutamente infondata, mettendo di nuovo in crisi Timur. Türken Arlat non esitò a tradire subito, fuggendo in direzione della Corasmia e cosí un’avanguardia dell’esercito timuride lo raggiunse, ingaggiando un furibondo combattimento che si concluse con la morte di Türkan stesso sul terreno di battaglia. ‘Ādilshāh Jalayir e alcuni elementi qipchaq pensarono a loro volta di poter assediare Samarcanda mentre Timur era lontano, e cosí quest’ulti54

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mo dovette fare marcia indietro riaffidando a Jahāngīr l’avanguardia dell’esercito, per andare a riprendere la sua capitale. A Bukhara Jahāngīr affrontò i ribelli e li sconfisse. Essi fuggirono questa volta verso le steppe settentrionali alla corte di Urus Khān, il Signore dell’Orda Bianca (che contendeva all’epoca il potere all’Orda d’Oro). Sventata questa serissima insidia Timur poté rientrare a Samarcanda, ancora una volta nell’incertezza. Si riparlerà di Urus Khān e delle orde Jöchidi, ovvero dei discendenti del primo figlio di Chinggis Khān, Jöchi. Dopo aver provocato disordini anche nel paese di colui che li aveva ospitati, ‘Ādilshāh Jalayir e i suoi fuggirono ulteriormente nel Moghulistan. ‘Ādilshāh convinse Qamar al-Dīn ad attaccare Andijan (nella valle del Ferghana, odierno Uzbekistan), dove si trovava il primogenito di Timur ‘Umar Shaykh, in modo da trascinare Timur in quella regione. Questo fu uno dei momenti piú difficili per il Grande Emiro che si trovò a dover personalmente combattere in una imboscata dalla quale riuscí a stento a uscire. ‘Umar Shaykh era stato abbandonato dai suoi e Timur stesso lo salvò da un pericoloso agguato.34 Ma una prova molto peggiore aspettava il nuovo signore dell’Asia centrale. 6. La morte di Jahāngīr Molte angosce turbavano la mente di Timur. Queste le ritroviamo nei suoi sogni, descritti dalle fonti persiane come delle autentiche visioni: in una di queste, avvenuta dopo essere scampato all’agguato di Qamar alDīn, il defunto Shaykh Burhān al-Dīn Qilich35 avvicinava Timur senza dargli risposte riguardo alle domande che il Grande Emiro gli poneva a proposito del figlio Jahāngīr, che aveva lasciato ammalato a Samarcanda. Altri sogni funesti seguirono nei giorni successivi. Arrivato nella sua città Timur dovette arrendersi all’evidenza, il figlio era morto, il che lascia pensare che se ne fosse andato per un’epidemia, come s’è detto, essendo il colera e la peste endemici nella regione. Nessuno scende in dettagli sulle ragioni di una morte cosí repentina, ma è sicuro che essa produsse un trauma profondo in Timur, che esacerbò la sua propensione all’estrema violenza e forse produsse un cambiamento di strategia coi suoi indisciplinati emiri. La descrizione del lutto all’arrivo di Timur a Samarcanda è molto interessante laddove si vogliano studiare gli usi funebri del tempo: tutti si tolsero il turbante e si vestirono di feltro nero, accogliendo tra le grida Timur che entrava nella città. L’esercito in55

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vece si vestí di nero e di blu mentre i maggiorenti della città si cospargevano di polvere.36 La morte di Jahāngīr poneva nuovi problemi: all’epoca ventenne, il principe era diverso dai suoi fratelli, privi del suo temperamento e della sintonia col padre, si veda ad esempio il caso del sopracitato ‘Umar Shaykh, che si era rivelato incapace di gestire l’esercito ad Andijan. Il terzo figlio di Timur, Mīrānshāh (o Amīrānshāh), aveva all’epoca appena dieci anni. Un quartogenito, Shāhrukh, nascerà poco dopo la morte di Jahāngīr, ma resterà in una posizione defilata per anni. Vi era poi un problema piú profondo: Jahāngīr era nato dall’unione con la principessa ciagataica Turmish Āghā, una delle prime mogli di Timur, mentre gli altri figli nacquero tutti da concubine reali che non avevano lo stesso pedigree. Ciò spiega perché Timur insisterà finché sarà in vita a lasciare in eredità il suo impero ai suoi nipoti, figli di Jahāngīr (Muḥammad Sulṭān e Pīr Muḥammad) piuttosto che ai propri figli, un fatto quest’ultimo probabilmente all’origine della « follia » di Mīrānshāh e dei conflitti sanguinosi tra i successori dopo la morte di Timur nel 1405.37 Andrà anche aggiunto che al momento della morte di Jahāngīr, i figli come i parenti prossimi di Timur costituivano una delle garanzie migliori del suo successo: durante questi primi anni, però, Timur non era in grado di dislocarli ancora nelle province che conquistava e sono veramente poche le persone sulle quali potesse fare affidamento assoluto. Se le fonti dichiarano essere suoi molti territori oltre il Sir Darya, fino al lago Issyk Kul, la realtà è che Timur non riusciva a istallare insediamenti stabili oltre la valle del Ferghana.38 Cosí a settentrione i domini dell’Orda d’Oro rimasero sempre un problema soprattutto per ragioni di presidio. Gli stessi figli e discendenti, dopo la morte del padre, preferirono le zone inurbate produttive e redditizie, piuttosto che la stessa Samarcanda, città che in qualche modo risulta ancora di frontiera in quest’epoca. Inoltre l’economia di razzia, termine usato spesso per indicare il periodo di Timur, non si rivelava adeguata alle steppe, dove sicuramente i bottini erano assai magri, malgrado le fonti li decantino come opulenti, soprattutto in termini di schiavi. In questo stato d’animo e con il rischio di perdere il potere per le macchinazioni continue di Qamar al-Dīn, che aveva ricevuto presso la sua corte ‘Ādilshāh e meditava con lui un’ulteriore rivincita nei confronti di Timur,39 il tradimento dell’emiro jalayiride non poteva essere piú perdonato. Fu cosí che Timur concepí un piano piú prudente delle campagne 56

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precedenti, inviando un gruppo molto ristretto di suoi esploratori a osservare le mosse del nemico. Qui essi avvertirono Timur che ‘Ādilshāh si trovava non distante da Otrar (anche nota come Fārāb, nell’odierno Kazakistan) e subito partí un’avanguardia che raggiunse il ribelle e ingaggiò con lui un combattimento nel quale ‘Ādilshāh trovò la morte. Quanto a Saribugha, un altro emiro ribelle jalayiride, si presentò a Timur che lo perdonò, mettendolo a capo della tribú. Evidentemente questa scelta politica era forzata; in seguito Saribugha si dimostrerà un uomo di fiducia di Timur sino al 1383, ultimo anno in cui viene menzionato nelle cronache.40 Anche la quarta campagna di Timur contro Qamar al-Dīn gli impedí di impadronirsi del suo rivale principale. Ancora una volta il capo dei Jete (se lo si vede alla maniera delle cronache persiane) o il khān dell’ulus ciagataica (come lui stesso si era autoproclamato) sfuggiva a Timur: un esercito inviato al suo inseguimento, raggiunte le steppe di Quratu (nella regione dell’Issyq Kul), riusciva solo a compiere razzie e a predare schiavi.41 7. Toqtamish Khān, un possibile alleato Le cronache persiane amano enumerare le campagne di Timur, come se fossero tutte uguali. La verità è che anche la quinta volta che il Grande Emiro si diresse nel Moghulistan, la spedizione, che raggiunse la Semireče, non poté sortire altro che i soliti saccheggi e razzie di schiavi: gli uomini probabilmente destinati a rinforzare le riserve del suo esercito e le donne a diventare schiave della sua gente. Era il 1376, in cinque anni Timur non era riuscito a eliminare l’insidia costituita dal khanato di Qamar al-Dīn e tanto meno a ucciderlo, né era riuscito a prendere definitivamente la Corasmia tra i propri domini. In quest’incertezza avvenne un fatto abbastanza straordinario che spiega quanto ancora all’epoca gli equilibri tra le ulus chinggiskhanidi avessero un peso. Di ritorno dall’inconcludente spedizione, Timur venne avvicinato da un personaggio che avrà un ruolo di rilievo nei successivi vent’anni: Toqtamish Khān. Questo principe si dichiarava discendente del primo figlio di Chinggis Khān, Jöchi, e dunque legittimo sovrano dell’Orda d’Oro,42 in conflitto con Urus Khān, signore dell’Orda Bianca.43 Toqtamish si rivolgeva a Timur per riavere il suo trono con una promessa formale di alleanza. Non a caso, le fonti timuridi riferiscono dell’incontro come di una visita reale44 e la presenza presso la sua corte di questo khān “legittimo” do57

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vette avere un certo effetto su Timur, incutendo forse anche in lui una certa soggezione: un’alleanza con l’ulus che era stata di Batu, Berke e Özbeg che godeva di un’ampia reputazione in Asia centrale, poteva avere risvolti molto significativi, contribuendo a risolvere l’annoso conflitto con l’ulus ciagataica della quale Toqtamish faceva mostra di essere nemico. L’episodio dell’incontro è riportato da Shāmī e dagli altri cronachisti con grande risalto: Toqtamish oghlān (il ‘figlio’, ovvero il ‘discendente’), impaurito da un gruppo che aveva meditato di tradirlo, si stava recando alla corte dell’Emiro Signore della Congiunzione Astrale (Timur) e aveva spedito un proprio emissario, Tuman Timur,45 in avanscoperta. Costui incontrò il Grande Emiro a Uzkand di ritorno dal Moghulistan.46 Arrivato a Samarcanda Timur accolse Toqtamish con tutti gli onori destinati a un principe regnante (pāshāzāda), per lui fu apprestato un sontuoso ricevimento e gli furono donati oro, ricchezze, stoffe pregiate, cavalli e cammelli, tende, padiglioni e tamburi, bandiere e altre ricchezze.47 Timur pensò bene in questa circostanza di assegnare al suo nuovo alleato il governo di tutte le regioni che aveva sottomesso a settentrione della Transoxiana: Sighnaq, Sayram e Saray, oltre ai domini dei Qipchaq che considerava legittimi possessi dell’Orda d’Oro. Sighnaq era stata una capitale Jöchide, contesa dai Ciagataici e pericolosamente vicina al regno di Timur, che con la sua nuova alleanza intendeva ristabilire l’ordine sulle proprie frontiere settentrionali. Inoltre, dotò Toqtamish di un esercito per contrastare il fratello Urus Khān che già avevamo visto ospitare l’emiro ribelle ‘Ādilshāh nelle steppe dei Qipchaq. La spedizione contro Urus Khān si rivelò un fallimento perché Toqtamish non fu capace di sconfiggere il rivale e anzi si dovette ritirare presso la corte di Timur che lo accolse nuovamente, ridandogli una seconda armata che questa volta affrontò una vera e propria coalizione di vari signori delle steppe, i quali non solo lo sconfissero ma lo costrinsero a una fuga rovinosa in un bosco, nudo e ferito alla mano da una freccia, dopo che aveva attraversato a nuoto il Sir Darya. Qui venne salvato da un ufficiale timuride, Edigü Barlas,48 che Timur gli aveva inviato in soccorso, forse presagendo le incapacità militari del suo nuovo alleato. Lo stesso Shāmī le sottolinea, facendo parlare Edigü Barlas che avrebbe suggerito al rampollo mongolo di essere piú « virile » e « coraggioso » negli affari del regno (mardāne va dalīr).49 Mentre Toqtamish giungeva alla corte di Timur in pessime condizioni, quest’ultimo dovette anche ricevere gli ambasciatori di Urus Khān che gli 58

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chiedevano il khān reo dell’uccisione in battaglia di suo figlio, Qutlugh Bugha. In caso di rifiuto il khān dell’Orda Blu era pronto a intervenire contro Timur stesso. Sdegnosamente, il Gran Signore si rifiutò di consegnarlo.50 Timur, dunque, ancora una volta accolse Toqtamish, ma decise a questo punto di agire in proprio. Era la stagione invernale e imperversava un freddo eccezionale nelle distese a nord del Sir Darya: Quando oltrepassarono il Seyhun [il Sir Darya] l’esercito vittorioso [di Timur] piantò le tende nelle steppe di Otrar, dal canto suo Urus Khān, dopo aver radunato tutta l’ulus di Jöchi si dispose a Sighnaq che è a ventiquattro parasanghe [ca. 150 km.] da Otrar. Cadde neve e pioggia, generando un freddo molto intenso: da ogni lato scorrevano torrenti come l’Oceano. […] L’aria divenne gelida al massimo grado tanto che le membra degli animali rimasero paralizzate. In queste condizioni quei due immensi eserciti restarono fermi per tre lunghi mesi, come due mari senza sponde, immobili l’uno innanzi all’altro senza che nessuno riuscisse a muoversi.51

Era l’inverno del 1377. Sul finire di quella stagione terribile, Timur inviò un’avanguardia guidata da un fidatissimo comandante di stirpe Qipchaq, sottile conoscitore della regione, Khaṭāy Bahādur,52 per tentare un attacco notturno contro il nemico. Avvicinandosi all’esercito di Urus, incontrò il principe Timur Malik, col quale ingaggiò una violenta battaglia in cui lo stesso Khaṭāy Bahādur morí e con lui molti altri elementi dell’esercito timuride. Per quanto le fonti celino il disappunto, Timur è costretto a cambiare strategia, a causa della destrezza di Urus: fece ampio uso di spie e inviò piccoli gruppi di esploratori a catturare elementi nemici che, una volta a corte, rivelarono posizioni e intenzioni dell’avversario. Costoro informarono Timur che da parte di Urus si stava compiendo lo stesso sforzo. Queste azioni di esplorazione reciproca hanno qualcosa di affascinante: sono l’occasione per sperimentare tecniche militari e stratagemmi particolari. Ad esempio, un agguato in cui vennero uccisi dalle truppe timuridi molti nemici, ma Timur non fu in grado di attaccare il grosso dell’esercito di Urus. Dal canto suo quest’ultimo, comunque provato anche lui da quella stagione eccezionale, si risolse infine a ritirarsi. Gli eventi successivi sono descritti in maniera molto confusa e discordante dalle fonti. In un periodo imprecisato e per motivi variamente descritti Urus Khān morí.53 Gli succedette il figlio Toqta Kiya che morí poco dopo anche lui. Timur ritenne quindi possibile lasciare Toqtamish sul 59

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trono a Sighnaq per potersene tornare a Samarcanda. E poco dopo vide ricomparire Toqtamish che si lamentò di un attacco da parte di un altro pretendente all’Orda di Jöci, Timur Malik. Timur lo dotò di un ulteriore esercito col quale anche questo contendente fu sconfitto. Ora Toqtamish poteva considerarsi il signore dell’Orda d’Oro e iniziò alla fine del 778/1377 (secondo Sharaf al-Dīn),54 o agli inizi del 780/1380 (secondo il piú verosimile Shāmī) la sua espansione nelle steppe, arrivando a conquistare Saray sul Volga che divenne la sua capitale55 e a sconfiggere il rivale Mamai, in Crimea, che contendeva il dominio dell’ “ala destra” del regno, ovvero le steppe russe. Qui egli iniziò una sua nuova vita e la sconfitta di Mamai lo portò a un’ulteriore espansione: nel 1382, con l’aiuto del principe Oleg di Rjazan’, conquistò e devastò Mosca, dove sterminò l’intera popolazione.56 Iniziavano a sorgere nuove ambizioni che nel decennio successivo creeranno grandi problemi a Timur. 8. Una nascita importante, un matrimonio Poco prima che Toqtamish compisse le sue imprese contro Timur Malik, venne al mondo Shāhrukh, quart’ultimo figlio di Timur. Non ci soffermeremo sulle varie leggende relative a questa nascita, che avvenne il 5 del mese di rabī‘ ii del 779/11 agosto 1377, sorte per giustificare il nome del principe attribuito durante una partita a scacchi (pers. shāhrukh, ‘alfiere’).57 Sentendosi al sicuro sulle sue frontiere settentrionali, Timur ritenne necessario definire definitivamente la questione del controllo della Corasmia, rivelatasi terra irrequieta e sottomessa malvolentieri al suo potere: durante la guerra con Urus Khān, Yūsuf Ṣūfī aveva approfittato della situazione per compiere saccheggi a Bukhara. Questo poteva essere un casus belli. In realtà, la definitiva sottomissione di quell’importante regione aveva un altro scopo: quello di garantirsi il controllo assoluto di Transoxiana e Corasmia per poter intraprendere una campagna espansiva verso il meridione. Fu cosí che inviò alla corte di Yūsuf Ṣūfī un’ambasceria in cui protestava contro l’accaduto e – raccontano le cronache persiane – l’ambasciatore fu imprigionato o forse ucciso, cosí avvenne con un secondo emissario.58 Timur attese prima di intervenire e decise invece di celebrare il suo matrimonio con una figlia dell’Amīr Mūsā, Tuman Āqā, donna che amò profondamente e che all’epoca doveva essere giovane, visto che sopravvisse a lungo dopo la morte del marito, per finire lei stessa i suoi giorni nel 60

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1444. Per Tuman Āghā, Timur fece costruire un giardino, oggi scomparso, il Bāgh-i Bihisht (‘Giardino del Paradiso’), che andava a sostituire un insieme di 12 giardini di precedente istallazione, ognuno dedicato a una costellazione dello zodiaco, di cui purtroppo non si sa molto di piú.59 Iniziava a quest’epoca la costruzione dei numerosi giardini che caratterizzeranno la città di Samarcanda in seguito, spesso grazie alla committenza femminile che ebbe un grande peso anche nell’edificazione di edifici e opere religiose. La stessa Tuman Āghā sarà l’artefice di un complesso che includeva un mausoleo e forse una moschea nello Shāh-i Zinda (‘il Re vivente’), una necropoli situata a Nord della città, alle pendici della collina dove sorgeva Afrasyab, la città antica di Samarcanda, prospera durante i secoli precedenti. Lo Shāh-i Zinda deve il suo nome a una leggenda legata a un personaggio lí sepolto forse per primo, Qusam b. ‘Abbās, un “martire” morto al tempo di una sua missione per islamizzare la città nel VII secolo. Malgrado la morte apparente, Qusam avrebbe continuato a vivere in un pozzo all’interno del quale c’era in realtà il suo palazzo principesco. La leggenda, tipica nel suo genere fantastico, è però all’origine della fortuna del sito, che vedrà numerose altre tombe “aggregarsi” a quella di Qusam, dotata di particolare santità. La necropoli include anche una serie di edifici di Tuman Āghā che, tuttavia, non fu mai sepolta lí.60 9. Morte di Yūsuf Ṣūfī Dopo la festa, durante un soggiorno nell’accampamento invernale (qish­laq) nel sito di Zanjir Saray presso Samarcanda, Timur si risolse a muovere contro la Corasmia; era il mese di shavvāl del 780/gennaio 1379. Le fonti descrivono l’attacco alla città di Iski Ukuz (‘Antica Ukuz’),61 si tratta della città di Urganch, che altri fonti denominano come kuhna (pers. ‘antica’),62 ovvero Konya Urganch, facendo riferimento alla piú antica città di Urganch (oggi Köneürgenç, in Turkmenistan).63 Era la capitale del regno di Corasmia e spesso veniva chiamata essa stessa Khwārazm, a indicare il suo ruolo principale in quello stato. Città solidamente fortificata, impegnò per la prima volta Timur in un vero assedio che si rivelò abbastanza complesso. Inizialmente fece costruire un castelletto di fronte alla città, mentre i suoi soldati lanciavano il loro grido di guerra, il terribile surūn. Qui le cronache descrivono un episodio abbastanza romanzesco ma con un fondo di realismo, se lo si interpreta come un tentativo di afferma61

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re il proprio carisma da parte di Timur innanzi ai suoi. Leggiamolo nella descrizione di Sharaf al-Dīn, includendo i versi poetici che alternano la prosa, per poter godere anche dello spirito letterario col quale sono descritti gli eventi. Timur aveva inviato alcuni reparti dell’esercito che avevano saccheggiato la Corasmia, riportando numerosi schiavi e bottino. In quel mentre Yūsuf Ṣūfī inviò una lettera al Signore della Congiunzione Astrale, con queste parole: « Fin quando il popolo che ci circonda vivrà nel tormento? A causa di due persone migliaia di musulmani son stati destinati alla distruzione e il mondo è condannato alla rovina. È un dovere che noi due si scenda nell’arena del coraggio »: « Rimettiamoci alla volontà di Dio, Battiamoci e tentiamo la fortuna! Vediamo a chi il rapido Firmamento Mostrerà in questo momento il suo favore! Dei piccoli giochi del Cielo che illumina la Terra, A chi resterà il fulgore? E chi finirà invece i suoi giorni? Chi sarà glorificato sul campo di battaglia? Chi procurerà dolore nel cuore degli amici? ». Il Signore della Congiunzione Astrale per quelle parole provò una genuina commozione ed esultante e gioioso rispose: « Io rispondo a Dio Altissimo! ». Senza tergiversazioni né incertezze, al colmo della sincerità e della fede: Si vestí il Signore della Congiunzione con l’armatura Si ritirò in privato senza esitazioni E su di sé indossò la gloriosa cotta di maglia, E sul capo ripose un elmo degno di Cosroe. Cinta infine la spada a tracolla, salí sul destriero della fortuna e partí in direzione delle mura della città. I noyan (i ‘nobili’) e gli emiri gli andarono incontro e si prostrarono in ginocchio innanzi a lui, pregandolo di non muoversi che non era cosa conveniente per una tale eccellenza. Il Signore della Congiunzione Astrale non prestò loro alcuna attenzione e partí. L’emiro Ḥājjī Sayf al-Dīn, con molta sincerità e affezione, afferrò le sue redini e, in preda all’empito, si gettò involontariamente in ginocchio ai piedi del suo cavallo. Con parole concilianti disse: « finché saranno in vita i sudditi, come può addirsi che il loro Signore dal respiro benedetto si faccia carico della guerra [lui solo]? ». Quando Cosroe da solo scende nel campo di battaglia A che servono in questa piana tutti i cavalieri? Il Signore della Congiunzione Astrale emise fiamme di collera, e trattato costui con disprezzo, brandí la spada, l’emiro lasciò subito le redini e si fece indietro. E sua Signoria convinto e confortato dell’assistenza divina (ta’yīd-i ilāhī) andò fino all’orlo del fossato e quando fu lí esclamò con voce stentorea:

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iii · difficili campagne in asia centrale « Dite a Yūsuf Ṣūfī che sono venuto su sua sollecitazione! Ho mantenuto la mia parola! Esci fuori, in modo che ti veda! A chi Dio, la Guida, concederà la vittoria? ». Yūsuf Ṣūfī tremò di paura e colto dall’angoscia ebbe strozzato il respiro. Il Signore della Congiunzione Astrale ripeté l’incitazione: « La morte è meglio della vita per chi non è di parola! ». E sebbene lo incitasse con altre parole di questo tenore, affinché facesse mostra del proprio valore, Yūsuf Ṣūfī pensò a salvare l’anima piuttosto che a dare lustro alla sua fama.64

Yūsuf Ṣūfī non risponderà alle richieste di Timur e quest’ultimo tornò nel suo accampamento, dopo aver dato questa dimostrazione di coraggio. L’episodio è interessante da diversi punti di vista: fatta come al solito la tara sullo stile delle cronache, appare evidente che Timur dovesse esporsi innanzi ai suoi, ancor piú che di fronte all’avversario. Finita la provocazione se ne tornò in buon ordine, al sicuro, per evitare rischi. Un altro aspetto meritevole di considerazione, sul quale torneremo, è quello dell’« assistenza divina » (ta’yīd-i ilāhī) che accompagna le gesta del condottiero. Vale la pena tenere a mente quest’espressione, usata infinite volte dalle fonti, che indica un intero programma ideologico: ancora una volta le necessità di legittimazione hanno un peso ragguardevole nel linguaggio propagandistico timuride. Infine, un cenno sul carattere di Timur: impulsivo, non sa contenere l’ira, neanche con i suoi, e anzi sguaina una spada per minacciare un vecchio sceicco che lo implora di non andare a esporsi inutilmente. È, nel contempo, pronto al buon umore, segue infatti alla disfida sotto le mura un curioso episodio in cui Timur mangia squisiti meloni e ne fa portare anche alcuni per scherno su un vassoio d’oro agli abitanti della città. La frutta viene depositata dai suoi ufficiali sul bordo del fossato: calmatosi dalla furia, il Signore della Congiunzione Astrale si lascia andare alle ironie. Dopo che Yūsuf Ṣūfī aveva fatto gettare i meloni nel fossato e donato il vassoio a un guardiano della città, alcuni dei suoi tentarono una sortita e anzi sembrò scatenarsi una furibonda battaglia che finí con numerosi morti. Per tre lunghi mesi la città rimase assediata e alla fine Yūsuf Ṣūfī morí, secondo le fonti persiane per l’angoscia e il patimento.65 Malgrado i suoi opponessero una certa resistenza, cedettero infine agli invasori, la città fu saccheggiata e gli uomini di fede nonché gli artigiani vennero deportati in massa a Kish, città natale di Timur. Cosí finiva la quarta campagna di Corasmia, erano gli ultimi mesi del 781/1379. 63

IV LE G UERRE P ERS IAN E DI TI M UR 1. Il Turan contro l’Iran L’intenzione di conquistare l’Iran, o, come viene chiamata nelle fonti italiane medievali, la Persia, nasce sicuramente da una volontà di espansione sulla quale ci sarebbe in effetti ben poco da dire, se non che vi fosse anche l’intento di emulare molte figure del passato: Chinggis Khān in primo luogo, ma anche il suo successore Hülegü e la figura piú remota nel tempo di Maḥmūd di Ghazna, il piú importante sovrano della storia dell’Asia islamica medievale: vissuto tra il X e l’XI secolo, quest’ultimo ispirò piú di tutti Timur. Maḥmūd era un turco la cui famiglia aveva subito una “persianizzazione” che aveva portato suo padre Sebüktegin da una condizione di servitú militare1 a diventare sovrano indipendente. Quest’ultimo proveniva da genti Qarluq della regione dell’Issyk Kul,2 nell’odierno Kirghizistan e aveva iniziato la sua carriera come schiavo al servizio della dinastia samanide operante in Transoxiana tra il IX e l’XI secolo. È molto significativo che a questa stessa origine si rifacevano anche i Qarakhanidi, altra dinastia che si affermò in Transoxiana, dove soppiantò i Samanidi a partire dal 1005, quando i territori già dominati da questi ultimi furono suddivisi tra Qarakhanidi e Ghaznavidi. I Ghaznavidi furono attenti promotori della civiltà letteraria persiana che avevano rilevato a tutti gli effetti dai loro antichi padroni Samanidi.3 Maḥmūd di Ghazna si circondò in particolare di una “pleiade” di panegiristi persiani e per lui operò anche il famoso poeta Firdawsī, autore dello Shāhnāma (Libro dei re, o Libro regio) destinato a celebrare le gesta degli antichi re fino al suo tempo. Firdawsī, al contrario dei suoi contemporanei, non si dedicò alla celebrazione panegiristica del suo sultano. Preferí offrirgli una storia ciclica che probabilmente era concepita in origine per descrivere i predecessori di Maḥmūd e far spiccare quest’ultimo come il sovrano del tempo, in scia con una tradizione consolidata fin dal periodo preislamico di cui l’autore era un nostalgico profondo. Ma le cose non andarono cosí per uno scontro tra il poeta e Maḥmūd che portò il letterato a fuggire e a scrivere una lunga invettiva contro il sovrano. Una parte importante dello Shāhnāma è costruita attorno al conflitto 64

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tra l’Iran e il Turan, due regioni metastoriche che si contrappongono nel mito ma che sono l’espressione piú vistosa del dualismo che caratterizza tutta l’opera. L’Iran corrisponderebbe a una macroregione includente l’antica Perside (Fars), l’Iraq arabo e quello persiano, il Sistan, il Khorasan e l’Azerbaigian; quanto al Turan, esso è l’Asia centrale, terra piú incognita geograficamente e assai meno definita. Nessuna delle due componenti riesce a sopraffare l’altra e i re, acerrimi nemici, risultano poi essere sempre connessi tra loro da legami di sangue.4 Se con questa epica si sottintende il perenne conflitto tra gli opposti, luce e tenebra, bene e male, iranicità e aniranicità, il fenomeno principale che l’opera definisce è il ciclico intercambiarsi dei due elementi. La dinastia dei Qarakhanidi, dal canto suo, si era affidata alla figura di Afrāsyāb, il piú temibile re turanico, per costruirsi un profilo di legittimità (si facevano definire Āl-i Afrāsyāb, gli ‘Afrasyabidi’). Gli stessi avevano promosso epiche antagoniste allo Shāhnāma in lingua turca, dove vistosamente si accoglieva quell’antica contrapposizione.5 I Qarakhanidi rimproveravano ai Ghaznavidi di avere abbandonato la loro fiera natura turca, i Ghaznavidi vedevano probabilmente nei Qarakhanidi dei semi-barbari. Afrāsyāb è, come abbiamo visto, anche il nome antico di Samarcanda, ma incerta è la ragione per l’attribuzione del toponimo a questo eroe epico. Timur conosceva questa tradizione, e le sue cronache molto posteriori agli anni della sua ascesa vi fanno continuamente ricorso, probabilmente seguendo alcune sue indicazioni.6 Possiamo solo dire che al momento del suo incontro a Damasco con il celebre pensatore Ibn Khaldūn nel 1401, Timur fece un improbabile riferimento al sovrano iranico Manūchihr, come un suo possibile antenato per parte materna,7 e ribadire che nella sua mente quei riferimenti non erano affatto sconosciuti, come non lo erano stati a molti suoi predecessori turchi nella regione. D’altronde il suo acerrimo detrattore Ibn ‘Arabshāh racconta che amava circondarsi di cantastorie, tanto da correggere i loro stessi errori quando sbagliavano nel descrivere le vicende di un re piuttosto che di un altro. Fosse in viaggio o a riposo, era assiduo ascoltatore delle storie e delle cronache dei Profeti (su di essi preghiere e pace!), le gesta dei re e i racconti degli uomini del passato, sempre in persiano. Siccome queste letture gli venivano ripetute nelle orecchie, egli le intese e memorizzò tanto che maturò in sé una seconda natura, a tal punto che se un lettore si imbrogliava, lui lo correggeva. Persino un’asina impara a forze di ripetere!8

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È certo però che Timur considerava la Persia come un nemico storico, quasi naturale delle popolazioni provenienti dalle steppe centroasiatiche: un’inimicizia che era stata caratterizzata da un numero elevatissimo di invasioni, basti pensare a quelle eftalite nel VI secolo, in periodo sasanide, o quelle posteriori selgiuchidi nell’XI. Quanto poi ai Persiani, come abbiamo già detto, il disprezzo nei loro confronti era molto forte tra i Turchi che ora si sentivano particolarmente esaltati da un loro nuovo campione. Si potrebbe anche affermare, compiendo una forzatura storiografica, che nei disegni di Timur la conquista della Persia presupponeva un nuovo programma imperiale, deciso quando il suo potere si cominciava ad assestare e i suoi vicini erano stati apparentemente messi nell’impossibilità di nuocergli. 2. Una prima realizzazione monumentale: l’Āq Sarāy di Kish Il capitolo che precede le vicende persiane nello Ẓafarnāme di Sharaf al-Dīn, e non sarà un caso, comincia con un’esaltazione della città di Kish come « Cupola della scienza e della letteratura » (qubbat al-‘ilm va’l-adab).9 Probabilmente questo titolo, che in passato era stato attribuito a Bukhara, rinomato centro del sapere medievale, rispondeva a una logica campanilistica: la città natale di Timur andava a sostituire in tal modo un’antica capitale che avrà da questo momento in poi un ruolo subordinato rispetto alle città di Kish e a Samarcanda.10 È dunque probabile che la costruzione di numerosi edifici derivasse da un’esigenza di valorizzare la città come seconda capitale dopo Samarcanda. Forse il tentativo di farne la prima città del regno era già fallito a quest’epoca.11 Comunque per essa Timur doveva aver già concepito dei piani urbanistici specifici che includevano un quartiere per gli ulamā, una Grande Moschea e varie zone commerciali destinate agli artigiani, ruotanti attorno a un quadrivio (chahārsūq) al centro della città. Timur la dotò anche di mura difensive. La città inoltre inglobava antiche costruzioni qarakhanidi, come due edifici termali.12 È in quest’epoca che i prigionieri catturati a Urganch13 cominciarono la costruzione di un palazzo imponentissimo caratterizzato da un immenso portale che si apriva in direzione di Samarcanda grazie a una volta alta 22 m. La costruzione, oggi solo parzialmente integra, è decorata con della ceramica invetriata colorata principalmente di blu, tinta che caratterizzerà anche gli edifici timuridi posteriori. Il palazzo, che avrà vicende costruttive alterne e non verrà mai completato, subendo gravi danni in se66

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guito da parte di ‘Abd Allāh Khān nel XVI secolo,14 prenderà poi il nome di Āq Sarāy (il ‘Palazzo bianco’), laddove per āq (‘bianco’) si intendeva piú un aggettivo simbolico che cromatico, a indicare l’eccellenza dell’edificio piuttosto che il colore dei suoi rivestimenti.15 Non mancheranno in seguito numerose leggende popolari sulla costruzione che inaugurano una tradizione di cattivi rapporti tra Timur e gli architetti di cui si riparlerà spesso in seguito: un architetto dell’Āq Sarāy sarebbe stato gettato dall’alto della costruzione per evitare che progettasse un edificio analogo altrove.16 Con la costruzione di questo palazzo a Kish, poi rinominata Shahr-i Sabz (‘Città verde’), Timur intendeva rivaleggiare con la celebre Qubbat al-Khaḍra (la ‘Cupola verde’), come poi riferirà lo storico Faṣīḥī di Khwāf,17 con un’allusione al celebre palazzo del califfo abbaside alManṣūr a Baghdad, di cui si fa menzione nelle epigrafi.18 L’ambasciatore castigliano Ruy González de Clavijo, che visitò il palazzo nel 1404, lo descrive cosí: Condussero gli ambasciatori a vedere alcuni imponenti palazzi che il Signore aveva fatto costruire, dicevano che era da vent’anni che ci stavano lavorando numerosi mastri. Questi palazzi avevano un’ampia entrata ed erano molto alti. A destra e a sinistra del portale c’erano degli archi in laterizio, coperti di ceramiche smaltate (azulejos), composte con molti intrecci (lazos). Nella parte bassa c’erano delle sorte di stanze senza porte e avevano il pavimento ricoperto di ceramiche smaltate. Ciò era stato realizzato per far sedere coloro che lí erano in attesa del Signore. Oltre questo portale, se ne apriva un altro innanzi al quale si trovava un gran cortile, lastricato di pietre bianche e circondato da portici riccamente decorati. Nel centro del cortile c’era un’ampia vasca per l’acqua. Questo cortile aveva un’ampiezza di trecento passi di estensione. Dal cortile si raggiungeva un gruppo di case con grandi e alti portali lavorati in oro, azzurro e ceramiche smaltate, di gran bella fattura. In cima al portale e nel centro di esso, era raffigurato un leone collocato entro un sole; e alle estremità dell’insegna ne figurava un altro. Queste sono le insegne del Signore di Samarcanda.19

Clavijo aggiunge che l’insegna di Tamerlano era in realtà un’altra, ovvero tre cerchi disposti in asterismo (OOO) che avrebbero rappresentato il suo governo sulle tre parti del mondo e che figuravano sulle sue monete. Cosa che risponde a molta sua monetazione a partire dai conî degli anni ’80 del Trecento. Il simbolo intendeva probabilmente rappresentare la tripli67

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ce congiunzione astrale di cui Tamerlano si fregiava come epiteto (Ṣāḥibqerān, ‘Signore della Congiunzione Astrale’), un simbolo già noto ai Ghaznavidi, ma forse d’origine sogdiana, che ora ritornava in auge come a ribadire i miti di dominio universale del conflitto tra Turan e Iran. In monete di sovrani posteriori i tre cerchi saranno sostituiti dall’epiteto Ṣāḥibqerān.20 3. Kartidi e Sarbadār signori del Khorasan Alcuni storici hanno compiuto il non facile sforzo di definire in modo sistematico la storia della Persia dall’epoca di dominazione ilkhanide al periodo timuride. Agli inizi dell’ultimo ventennio del XIV secolo, si assiste alla compresenza di almeno quattro grandi stati (Kartidi, Sarbadār, Muzaffaridi e Jalayiridi),21 ai quali si possono aggiungere vari potentati locali di maggiore o minore entità, operanti in un quadro di conflitto continuo gli uni con gli altri, se non all’interno degli stati stessi. Quando pensiamo alla Persia del XIV secolo, rischiamo di fare un errore prospettico profondo se applichiamo le delimitazioni geografiche odierne a quel territorio,22 per non parlare della natura etnico-linguistica dei suoi abitanti. Si può anzi dire che, a partire dall’XI secolo, la Persia vide spostare sistematicamente le sue frontiere, e la sua geografia politica regionale non ha mai corrisposto almeno dal VII al XVI secolo, se non oltre, all’assetto odierno. Un esempio può essere la macroregione del Khorasan (‘l’Oriente’, ovvero il luogo dove sorge il sole), oggi suddivisa tra vari stati: l’Iran, il Turk­ menistan e l’Afghanistan, ma all’epoca costituente una vasta area che si estendeva dall’Oxus (Amu Darya) e il Badakhshan alle montagne del Tokharistan (nel cuore dell’odierno Afghanistan), fino a Bamiyan, Ghazna e Kabul e i monti del Ghur, dove ha le sue sorgenti il fiume Hilmand a segnare un confine con il Sistan. A occidente il Khorasan raggiungeva la Corasmia, da cui era diviso da un’area desertica, e infine il Caspio. Al suo interno includeva grandi città come Herat e Nishapur, seppur quest’ultima fortemente ridotta in termini demografici e di estensione dopo le distruzioni operate dai Mongoli. Il quadro fornito qui è quello che descrive Ḥāfiẓ-i Abrū, uno degli autori piú colti e scrupolosi del periodo timuride.23 Lo stesso scriverà una storia dei Kartidi, non senza varianti rispetto alle storie contemporanee.24 Val la pena di aggiungere che il Grande Khorasan è storicamente diviso 68

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geograficamente dal resto della Persia da due grandi deserti, il Dasht-i Lut e il Dasht-i Kavir. In tal senso è stato spesso dominio di dinastie locali, maturando anche una propria tradizione che si confrontava, politicamente e culturalmente, piuttosto con la Transoxiana che non con il lontano Fars o altre regioni piú remote ancora, come l’Azerbaigian. Si è già parlato dei rapporti che Timur ebbe con la dinastia kartide fin dagli inizi della sua carriera. Si è anche ricordato i conflitti che opposero questa dinastia ai Qarawna durante l’emirato di Qazaghan. Quest’ultimo, assediando la loro capitale Herat al tempo di Mu‘izz al-Dīn Pīr Ḥusayn (752/1351), avrebbe espresso in versi un’invettiva: Di che casata è costui per arrogarsi un regno? Se in origine Chinggis Khān glielo conferí, Nessuno ricorda questa natura regia, Molti lignaggi per l’odio han causato rovine A un granello non si prostrano dieci Afrāsyāb, Diresti che proviene da stirpe di fabbri Che per combattere usano invece della clava, il martello. In che modo un Tagico può dunque pretendere di governare?25

Queste parole, riportate da Ḥāfiẓ-i Abrū, sembrerebbero riassumere un atteggiamento che Timur mutuò da Qazaghan, quello di un sovrano disprezzo per una dinastia che considerava di poco conto. In realtà i Kartidi erano stati un casato importante: la loro storia inizia nell’epoca immediatamente successiva alle invasioni di Chinggis Khān, quando, alla stregua di altri regni di Persia, diventarono un regno vassallo dei Mongoli (643/1245). Erano di origine shansabanide, cioè discendevano da una celebre famiglia del Ghur (nel cuore dell’odierno Afghanistan), rivendicando antichi antenati nella tradizione persiana. Lo statuto conferito loro dai Mongoli era quello di malik, ovvero ‘re’ (vassalli), le vittorie di Qazaghan li avevano costretti a entrare nell’orbita ciagataica.26 Mu‘izz al-Dīn Pīr Ḥusayn morí nell’anno in cui Timur prese il potere a Balkh (771/1370). Al suo posto salí sul trono di Herat Ghiyāth al-Dīn II Pīr ‘Alī, il quale, malgrado le raccomandazioni del padre sul letto di morte,27 entrò presto in conflitto col fratello che governava per conto suo a Sarakhs (odierno Iran, ai confini col Turkmenistan) per poi addivenire a fragili patti che crolleranno alla prima occasione.28 Quanto a lui, risiedeva a Herat29 e governava gran parte dell’Afghanistan fino al Ghur, probabilmente anche Ghazna era in questo periodo controllata dai Kartidi. 69

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La personalità di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī non aveva le caratteristiche gloriose dei suoi predecessori. Ḥāfiẓ-i Abrū ce lo descrive come un bon viveur dell’epoca, dedito alle feste e al vino, in tempi non troppo facili per le vicende che avvenivano attorno al suo regno.30 Questo modo di descrivere i perdenti sembra fin troppo scontato, ma doveva rappresentare all’epoca un conflitto durissimo per il controllo del Khorasan. Suo avversario principale fu per lungo tempo il signore dei Sarbadār, ‘Alī b. Mu‘ayyad, meglio noto come il khwāja (‘signore’) ‘Alī,31 un condottiero che governò per un periodo piuttosto lungo (1362-’86)32 “l’altra parte” del Khorasan, ovvero uno stato che si estendeva nell’odierno Khorasan iraniano da Sabzavar fino appunto ai confini kartidi con propaggini varie a occidente. Riparleremo a breve dei Sarbadār, per il momento vogliamo limitarci a ricordare i conflitti che li avevano opposti a Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī, perché questi fanno da sfondo alle vicende successive. Alla fine del 773/1372 gli eserciti dei due si erano scontrati a Nishapur. Tra gli argomenti portati da Ḥāfiẓ-i Abrū per questo conflitto c’era una motivazione religiosa, Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī sarebbe stato indotto dai suoi uomini di religione a contrastare l’eresia sciita, professata da Khwāja ‘Alī, e in quanto hanafita ortodosso33 non poté esimersi dal contrastare l’avversario « che aveva conquistato il regno (mamlakat) del Khorasan [da Bistam] fino a Farhadgird, faceva pronunciare la khuṭba battendo moneta a suo nome,34 manifestando la propria adesione allo sciismo e all’ahl-i bayt [la ‘gente della casa’, ovvero i discendenti di Muḥammad] ».35 I conflitti proseguirono con esiti devastanti negli anni successivi (774-’75/1373-’74), sempre per il controllo della regione, ma senza mai modificare lo stato delle cose.36 Ci troviamo dunque di fronte al conflitto tra due signori di un certo livello molto diversi tra loro. Uno, il Khwāja ‘Alī (‘Alī b. Mu‘ayyad), è un condottiero combattivo che ha riunito un regno, quello dei Sarbadār suddiviso tra fazioni in conflitto, e ha seguito la predicazione di Muḥammad ibn al-Makkī, altrimenti denominato al-Šahīd al-awwal (il ‘primo testimone’, ovvero il primo martire) dello sciismo.37 L’altro è il signore di una dinastia oramai decaduta che è costretto a combattere, rinunciando alle tradizionali gioie della corte. Uno è insomma un signore dinamico, l’altro decisamente statico. Se dei Kartidi abbiamo descrizioni abbastanza convenzionali da parte degli storici antichi e moderni, i Sarbadār hanno eccitato la fantasia generale: alcuni hanno visto, soprattutto nei loro esordi, una « repubblica » – in epoca sovietica l’idea risultò molto attraente ai teorici di un movimento 70

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anti-feudale –,38 altri piú tardi hanno parlato di una « monarchia senza re », sottolineando il ruolo dell’estremismo sciita che avrebbe condizionato anche alcune significative scelte sociali,39 ciò con una differenza sostanziale rispetto a tutti gli altri stati della regione. Sicuramente il ruolo giocato da certo sufismo popolareggiante, e poi dallo sciismo, sembra aver condizionato quel tratto sociale dello sciismo che i Sarbadār incarneranno in seguito; furono forse però – e perciò il nome denigratorio – anche uno stato formato da avventurieri dediti al saccheggio. Ma nel periodo di cui stiamo parlando, questi esordi cosí particolari erano cosa lontana. Anzi, il nostro Khwāja ‘Alī, pur professandosi un fanatico sciita, e con una certa abilità politica, era soprattutto un comandante militare che per altro non esitò a sbarazzarsi dei dervisci che contrastavano il suo nuovo corso. Sarebbe molto interessante intrattenersi su queste figure, ma dovendoci limitare a una biografia di Timur, ci siamo limitati a un accenno, soprattutto per una certa fascinazione che costoro produssero nel signore centroasiatico. Sicuramente Timur vide nelle debolezze di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī il pretesto per aggredire una preda “facile”, mentre considerò i Sarbadār elemento piú sfuggente: andrà anche detto che i Kartidi non seppero riconoscere in tempo l’insidia, i Sarbadār furono invece molto piú abili e diplomatici. 4. Herat porta della Persia C’erano anche altri protagonisti: nell’attesa dell’attacco alla Persia, Timur vene raggiunto da ‘Alī Beg, il signore di un emirato minore, per quanto temibile, anch’esso del Khorasan (regione di Tus e Mashhad), quel­ lo dei Jawn-i Qurbān. Costoro, similmente ai Qarawna, erano una sopravvivenza della tamma mongola, ovvero si trattava in origine di un’armata, probabilmente formata da elementi servili sotto il comando di un mongolo, che si era resa indipendente nel corso del Trecento.40 ‘Alī Beg, che vantava un’alleanza con un altro signore con il quale avrà a che fare Timur – l’Amīr Valī che governava sul Mazanderan – e aveva un odio profondo per i Sarbadār, coltivava un sogno egemonico sul Khorasan e veniva a chiedere a Timur di intervenire contro i Kartidi, forse pensando di potersi guadagnare qualcosa in una successiva conquista dello stato dei Sarbadār. Un comportamento giustamente considerato contraddittorio che fu presto smentito dagli eventi.41 71

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Timur visitò anche, inoltrandosi in Persia, un’autorità religiosa, il mawlānā (ar. ‘monsignore’) Zayn al-Dīn Tayabādī, che si rivolse a lui con estrema insolenza, imponendogli di presentarsi al suo cospetto. L’inusuale tolleranza mostrata da Timur contro un simile affronto viene spesso giustificata come una forma di soggezione per santoni e uomini di fede; in realtà la conquista dell’Iran, ancor piú che di altri luoghi, mostrò il peso delle autorità religiose nei disegni politici del signore centroasiatico.42 Tayabādī si rivolgeva a Timur per mostrargli la sua profonda ostilità nei confronti del governo kartide, che non rispettava la loro autonomia nella città di Jam. Questa città, nota per un santuario importante, aveva un gruppo di shaykh (ar. ‘autorità religiosa’) che non facevano mistero della propria adesione al credo sciita e per questo avevano subito le angherie di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī, all’epoca impegnato nella sua guerra di religione contro gli eretici. Le epistole inviate da Tayabādī sono un importante documento storico, piuttosto raro nel suo genere nel panorama documentario persiano dell’epoca. In esse si sottolineava ulteriormente con insistenza il carattere imbelle e poco combattivo di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī.43 Timur si era premurato di inviare la solita ambasciata che precedeva le sue campagne, invitando Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī a recarsi da lui per assistere al kuriltai che decise di tenere nel suo accampamento invernale (781/1379-’80). L’ambasciatore, Ḥājjī Sayf al-Dīn fu accolto a Herat con tutti gli onori, ma il sovrano kartide fece ripartire l’emissario con la promessa di raggiungere Timur e subito si dedicò a fortificare la sua città, dotandosi di viveri e armi per resistere a un assedio. Dopodiché si pose in attesa di questa nuova minaccia. Ibn ‘Arabshāh, che descrive a tinte fosche ogni impresa di Timur, riporta che la lettera che l’ambasciatore pretendeva un’immediata sottomissione, con la consegna di un certo numero di schiavi e il pagamento di un tributo ingentissimo, in caso contrario il regno kartide sarebbe stato attaccato e la sua capitale distrutta.44 Timur, deciso ad agire contro “l’ostinazione” dell’avversario, nominò suo figlio Mīrānshāh governatore del Khorasan e lo spedí in direzione di Herat con un numero ragguardevole di suoi fidati ufficiali.45 Il ricorso a questo nutrito esercito derivava forse dalla consapevolezza della giovane età del figlio, quattordicenne e può darsi anche già allora di natura impulsiva, che necessitava del sostegno di persone piú esperte. Dopo aver raggiunto Balkh e lo Shaburghan, Mīrānshāh arrivò a Badghis e depose il regolo locale, catturando bottino e ricchezze. L’esercito di Mīrānshāh fu seguito da quello di Timur alla fine del 782/1381. Dopo aver costruito un 72

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ponte di barche sull’Amu Darya, si fermò ad Andkhuy dove Timur si recò a visitare la tomba di un derviscio locale, Bābā Sankū, per mostrare la sua devozione. Qui Timur tenne un curioso discorso pieno di fervore, affermando che lui aveva sempre considerato il Khorasan, il “torace” del mondo e ai Timuridi ora spettava questa terra secondo la volontà di Dio. Mentre ripartiva, ricevette un emissario del fratello di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī, che abbiamo già visto contendere al re kartide la città di Sarakhs, il quale gli mostrava sudditanza. Timur compí delle stragi a Fushanj (Pushang), importante città nelle vicinanze di Herat, e infine raggiunse quest’ultima, dove già l’esercito di Mīrānshāh aveva iniziato l’assedio. Presto il malik di Herat, come lo chiamano alcune fonti con spirito denigratorio, capí di non essere in grado di difendersi. Tutti concordano sul fatto che fu preso dal panico e soprattutto non venne seguito dalla sua popolazione, forse già fomentata da alcune sottili manovre propagandistiche contro Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī operate dagli ambiti religiosi. Secondo Naṭanzī, il signore di Herat si rese presto conto del fatto che un persiano (tāzīk) non poteva pretendere nulla in guerra contro l’attacco di un guerriero mongolo, e come un daino non poteva nulla contro l’artiglio di un leone, cosí disperò anche che la sua gente lo avrebbe aiutato.46 Ibn ‘Arabshāh, dal canto suo, lo descrive come confuso e incapace di agire e soprattutto ricorda le conseguenze dell’assedio sulla popolazione, che fu severamente provata dalla sua incapacità di reagire.47 Postosi in sicurezza nella cittadella, si era allontanato di fatto dai suoi anche se continuava a sollecitarli a combattere. Ciò fece sí che gli abitanti fossero molto freddi di fronte a quella chiamata alle armi e cosí si risolsero a inviare una principessa figlia del celebre condottiero mongolo Toghay Timur, insieme a suo figlio e a un nobile locale, Iskandar Shaykhī, che si diceva discendente dell’antico re iranico Bizhan, per implorare perdono a Timur. La delegazione fu rispedita indietro trattenendo solo Iskandar Shaykhī, per ricavare informazioni sulla città, intimando nel contempo a Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī di uscire dalla cittadella. Accettata la condizione, le porte della città si aprirono e comparvero tutti i maggiorenti innanzi a Timur, che li accolse calorosamente. In seguito, fu la volta del malik che si presentò ai piedi della cittadella e accolse Timur nella sua residenza reale, mentre i soldati timuridi smontavano un’imponente porta di ferro dei bastioni urbani per portarla quale trofeo a Kish. La città subí un saccheggio che portò ad acquisire diversi tesori e Timur impose agli abitanti il pagamento di un gravoso tributo.48 Herat fu 73

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conquistata con grande acume politico, piú che con le armi. Soprattutto Timur capí in questa circostanza che in alcuni casi la popolazione non era molto ben disposta nei confronti dei propri governanti e conveniva far leva su queste ostilità, garantendo salva la vita ai cittadini. Timur inoltre deportò le menti migliori e gli artigiani a Kish e dichiarò Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī suo vassallo. Lo resterà sino al 785/1383, quando, accusato di fomentare una congiura, verrà ucciso da Mīrānshāh con la conseguente annessione di Herat ai domini timuridi. Cosí finí la storia di un importante regno persiano che era durato per 130 anni.49 5. Khwāja ‘Alī e Timur L’ingresso di Timur nel Khorasan è descritto in modo difforme dalle cronache, il passaggio in diverse città della regione allora sotto il dominio dei Sarbadār o di altre signorie ci mostra che Timur compí scelte derivanti in molti casi da una strategia politica diversificata, attenta alle particolarità locali. Numerosi rappresentanti di città e villaggi gli vennero incontro spontaneamente per sottomettersi offrendo il proprio vassallaggio e la richiesta di risolvere le proprie contese con il potere kartide o con altri poteri militari e politici.50 Dopo aver sollecitato ad ‘Alī Beg Jawn-i Qurbān di presentarsi innanzi a lui, Timur non esitò a recarsi in visita della presunta tomba di Abū Muslim, già eroe della rivoluzione abbaside nell’VIII secolo, nei sobborghi di Nishapur. Qui incontrò Khwāja ‘Alī, che rispose immediatamente a una sua richiesta inquisitoria sul suo orientamento sciita: Quando Khwāja ‘Alī gli fu indicato come uno sciita, [Timur] lo interrogò sulla sua dottrina (mazhhab) e sul suo credo (mu‘taqad). Egli rispose [in arabo]: « Gli uomini seguono la fede dei loro re, ovvero il popolo si adegua alla fede dei sovrani. La mia dottrina è il rito del Signore delle Congiunzioni astrali ». Questa spiegazione fu accolta bene e Khwāja ‘Alī venne lodato.51 [Timur] rispose: « Come ha detto il Profeta – su di lui la pace e il saluto! – Chi si separa dalla sunna non pretenda la mia intercessione e altrove ha detto sia benvoluta la comunità!, e siccome io voglio unire i [nostri] due regni ne ricaverò un popolo sunnita e un’unica comunità ».52

L’episodio segnerà l’inizio di una lunga collaborazione tra i due. Jean Aubin afferma che Timur, conservatore in politica e tradizionalista in fatto di religione, trovava in Khwāja ‘Alī un avversario esperto nel comprendere le deviazioni sovversive e amava il suo valore e il suo parlare franco, non74

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ché i suoi solidi e ponderati giudizi.53 La necessità di allearsi con alcune potenze per poterne sottomettere altre comportava proprio delle scelte personali, quelle che giustamente a mio giudizio Aubin aveva individuato, indicando cosí un tratto molto importante della psicologia di Timur. Affidarsi al proprio intuito lo portò spesso a sorvolare sulla questione religiosa per preferire le persone piú intelligenti (e temibili), a quelle che mostravano una intrinseca debolezza personale. Una riprova sono sicuramente gli episodi successivi: quando Timur arriva innanzi a Isfarayn (oggi nel Khorasan iraniano), Khwāja ‘Alī non esita a venirlo a sostenere insieme ad ‘Alī Beg dei Jawn-i Qurbān. Entrambi vengono riveriti e omaggiati con rispetto.54 Del primo Timur accolse, forse giustamente, la sincerità; nel secondo vide subito quell’ “ipocrisia” che gli verrà poi rimproverata al momento del suo successivo tradimento. Isfarayn rientrava in questo periodo tra i domini di Amīr Valī, signore del Mazanderan, anch’esso speranzoso di ritagliarsi una posizione nella contesa sulla regione. La città fu presa in pochissimo tempo: « Giungere e prendere la città furono una cosa sola, dopo avere prodotto delle brecce entrarono nella cittadella, uccisero molti abitanti e le costruzioni che incontrarono furono rase al suolo dalla fortezza alle residenze, dalle abitazioni agli alloggi dei piú umili ».55 Timur procedette subito a inviare una missiva nel Mazanderan ad Amīr Valī, nella quale gli chiedeva di recarsi immediatamente presso di lui per rendergli omaggio. L’ambasciatore fu accolto con tutti gli onori e Amīr Valī « baciò la lettera, e la pose sul proprio capo » promettendo di sottomettersi e recarsi presto alla corte di Timur.56 Quest’ultimo si sentí soddisfatto e disposto al perdono. Cosí ne approfittò per andare a « vendicare » lo zio Ḥājjī Barlas (suo parente e fiero contendente nel passato) che nel 1361 era stato ucciso nel vicino villaggio di Khworashah, non lontano da Tus; il luogo fu posto a ferro e fuoco con l’uccisione di tutti i suoi abitanti.57 6. Attraverso il Khorasan Finite le stragi dimostrative e le vendette personali, Timur si dedicò a chi doveva governare la regione, destinando varie posizioni di potere nelle città conquistate, come quella di darugha, un titolo mongolo che in origine indicava una sorta di delegato per i poteri locali. A quest’epoca indicava un vero e proprio capo della polizia cui era demandato il compito di 75

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controllare la popolazione locale. Il Khorasan rimase nelle mani del figlio Mīrānshāh, mentre Timur tornava rapidamente in Transoxiana, e il suo terzogenito spediva a Samarcanda il signore di Sarakhs, Muḥammad, fratello di Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī, perché si prostrasse di fronte a Timur. L’occasione portò ‘Alī Beg Jawn-i Qurbān, forse irritato dai favori attribuiti a Khwāja ‘Alī, ad allearsi con Amīr Valī per ribellarsi e tentare di prendere Sabzavar, dove il signore dei Sarbadār si ritrovò a fronteggiare un assedio. Timur, che aveva perso una figlia, l’Aka Bigi, durante la sua assenza, venne consolato dalla sorella, Qutlugh Turkan Agha, che secondo Sharaf al-Dīn si prodigò col fratello in consigli « amorevoli », invitandolo a tornare in Iran a combattere « l’umana malvagità e distruggere le case dei ribelli »; Timur, dice l’autore persiano, fu impressionato da quelle parole e si risolse a partire nuovamente per il Khorasan.58 L’episodio, pur con le sue ingenue rappresentazioni di vita intima del sovrano, rivela l’importanza del ruolo delle donne nella corte di Timur, anche come consigliere negli affari militari. In gran pompa venne messo in piedi un esercito e da Bukhara, dove si era ritirato per festeggiare i successi militari, riprese a guidare la marcia verso il Khorasan, ‘Alī Beg si precipitò a Kalat, che era la sua città, per fortificarla e rinchiudervisi dentro con l’esercito e la sua famiglia. Considerando la montagna sulla quale Kalat sorgeva, pensava cosí di impedire a Timur di raggiungerlo. Timur dovette in effetti chiedere il sostegno dell’armata di Mīrānshāh per intervenire. Coscienti di non riuscire a prendere con la forza la città, usarono uno stratagemma, fingendo di andare verso il regno dell’Amīr Valī. In realtà i Timuridi si predisposero in modo da attaccare simultaneamente le quattro porte della città, ognuna con un esercito diverso. Anche ‘Alī Beg fece ricorso a un trucco, inviando un emissario che, in sua vece, chiedeva perdono al sovrano centroasiatico. In realtà aveva concepito un agguato, e quando Timur si presentò con soli cinque cavalieri davanti alla porta della città in attesa dell’uscita del rivale, costui non uscí confidando nell’imboscata. Lo stratagemma di ‘Alī Beg fallí, perché i suoi non ebbero il coraggio di aggredire Timur, cosí almeno vuole la narrazione delle cronache timuridi. Questa circostanza, in cui Timur fece ancora mostra del proprio coraggio, galvanizzò il suo esercito che partí con un attacco generale. Furono utilizzati in questo caso i montanari del Badakhshan e i Merkit (Mekritiyān), abili scalatori che si inerpicarono lungo il crinale sul quale poggiava la fortezza e in poco tempo riuscirono a mettere in difficoltà i Jawn-i Qurbān. 76

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Seguirono trattative miste a minacce reciproche e infine, dopo un lungo e complesso assedio, ‘Alī Beg fu catturato e subito rilasciato, ma la dinastia dei Jawn-i Qurbān cessò d’esistere (rabī‘ i 784/maggio 1382).59 Gli eventi di Kalat portarono Amīr Valī a ritirarsi in tutta fretta da Sabzavar che aveva tenuto in scacco per quattro mesi.60 Fu poi la volta della città fortificata di Turshiz. Per raggiungere questo importante centro del Khorasan situato nel Kuhistan (lett. ‘territorio montuoso’, una parte importante della regione), Timur attraversò indisturbato i territori controllati dai Sarbadār, segno del funzionamento dell’alleanza con Khwāja ‘Alī.61 Turshiz era stata assegnata in precedenza, da Ghiyāth al-Dīn Pīr ‘Alī, a un gruppo di Sadīdī (dal nome del loro comandante ‘Alī Sadīdī), che erano guerrieri « Ghuridi », come ci informa Sharaf al-Dīn, ovvero Kartidi. Fieri combattenti ed esperti nel resistere durante gli assedi, costoro resero la fortezza pressoché inespugnabile e si misero sulla difensiva contro colui che avrebbe dovuto essere il loro nuovo signore. Timur si rivolse allora a Ghiyāth al-Dīn, costringendolo a un’umiliante mediazione: Il Signore delle Congiunzioni disse allora al malik Ghiyāth al-Dīn: « questi sono tuoi nawkarān [‘sudditi’] e questa fortezza gliela hai data tu e siccome adesso tu obbedisci ai nostri ordini e comandi, perché costoro si rivoltano? ». Il malik Ghiyāth al-Dīn andò allora ai piedi della fortificazione e per quanto esortasse costoro, le sue parole non li convinsero a scendere.62

L’assedio fu lungo e complesso: Timur fece largo uso per la prima volta di macchine da guerra che poi divennero abituali nelle sue campagne, come il manjanīq (il ‘trabucco’) e l’ ‘arrāda (l’ ‘onagro’).63 Infine riuscí a svuotare il fossato e a far crollare parte delle mura, col risultato che i Sadīdī si arresero. Vennero inglobati per il loro valore nell’esercito timuride e la città venne subito consegnata a Mīrānshāh, il quale vi nominò un suo darugha. Ora Timur era intenzionato a completare questa sua missione persiana con un’ulteriore vittoria su un altro temibile avversario, l’Amīr Valī del Mazanderan. Il padre di costui era stato un vassallo di Toghay Timur, uno degli ultimi beg mongoli di stirpe chinggiskhanide a dettare legge, tra molte traversie, fino agli anni ’50 del Trecento. Morto lui, Amīr Valī si era attribuito un suo regno di media importanza nella regione caspica del Mazanderan, con capitale Astarabad nel Gurgan, sulle rive meridionali del Mar Caspio. In conflitto con i Sarbadār a partire dal 1356, aveva tentato in 77

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varie occasioni di contendere loro il potere nel Khorasan e nel Gurgan. L’assedio di Sabzavar di cui si è parlato fu l’ultimo episodio di una lunga serie di scontri e di alleanze incerte.64 Oramai nemico di Khwāja ‘Alī, sembrava un obbiettivo molto appetibile per Timur. Mentre si avvicinava ai suoi domini, Amīr Valī si affrettò a chiedere perdono e a Timur che glielo accordò; anche ‘Alī Beg, che aveva tentato un’altra rivolta a Kalat, si ribellò, ma fu catturato e portato innanzi a Timur che lo perdonò ulteriormente ma deportò ciò che restava dei Jawn-i Qurbān a Samarcanda. Oramai i principali signori della Persia si rivolgevano tutti a lui con suppliche e ambascerie: Shāh Shujā‘, signore della potente dinastia dei Muzaffaridi, inviò una sfarzosa ambasceria piena di doni, tra i quali le famose perle del Golfo Persico che erano state uno dei doni preferiti dai khān mongoli.65 Quanto a Khwāja ‘Alī, che aveva dato un contributo decisivo alle operazioni nel Khorasan, forse anche solo tenendo a bada gli irrequieti Sarbadār, ricevette il governo delle terre da lui precedentemente possedute, anche se ovviamente sottoposte al vassallaggio timuride.66 Ciò non impedí alcune rivolte regionali che furono annientate nel sangue: nello stesso 1383, a Herat, un complotto ordito da forze fedeli a Ghiyāth al-Dīn ‘Alī fu duramente represso da Mīrānshāh e la città divenne a tutti gli effetti un dominio timuride, spezzando dunque definitivamente in due aree amministrative il Khorasan (i domini dei Sarbadār con centro a Sabzavar, e quelli già dei Kartidi ora inglobati tra i possedimenti del potere timuride, con centro a Herat).67 I nuovi successi comunque avevano consentito a Timur di tornare a Samarcanda, dove intendeva festeggiare le proprie conquiste. Giunto nella città dovette affrontare altri due lutti dolorosi: la morte della sorella Qutlugh Turkan Agha, che abbiamo conosciuto come sua consigliera, alla quale seguí quella della moglie Dilshād Āghā (785/1383). 7. Verso il Sistan, terra di Rustam È difficile stabilire quali fossero le conoscenze geografiche di Timur al­l’epoca, alcuni affermano che fossero vaghe.68 Cionondimeno, di alcune regioni aveva una conoscenza piú precisa, e questo era il caso del Sistan che aveva conosciuto personalmente in gioventú, rimanendo semiparalizzato, anche per le ferite infertegli dai locali ai tempi delle sue razzie giovanili. Il Sistan storico era una regione che aveva goduto di una certa prospe78

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rità nei secoli precedenti, in particolare durante il periodo abbaside e in seguito soprattutto all’epoca del dominio saffaride (a partire dal IX secolo) e poi dei loro successori noti come « Signori mihrabanidi di Nimruz ».69 Successivamente il Sistan era entrato nell’orbita kartide e dopo la dissoluzione di quel regno era ora governato da una figura abbastanza misteriosa che si era attribuita il titolo di Shāhinshāh (‘Re dei re’), Quṭb al-Dīn Muḥammad, a capo della ristabilita dinastia mihrabanide. Il titolo richiamava certamente lo Shāhnāma di Firdawsī, che aveva attinto a fonti sistaniche per un suo ciclo incastonato nelle leggende avestiche, quello dell’eroe Rustam, una sorta di Ercole iranico celebrato anche lui per le sue gesta e le sue « fatiche ». Non a caso Sharaf al-Dīn nel suo Ẓafarnāma evocò quella figura in relazione alla campagna del Sistan.70 Lo stesso fece l’autore sistanico Malik Shāh Ḥusayn in senso inverso, vedendo in Timur la vendetta dei Turanici contro le gesta di Rustam.71 Sottomettere il Sistan aveva dunque molteplici motivazioni: la prima era di natura strategico-politica, indubbiamente, ma il riferimento al conflitto millenario tra Iran e Turan trovava nella conquista di questa regione una sua seconda fonte d’ispirazione di natura mitico-psicologica. Prima di partire per quest’impresa, Timur inviò un esercito nel Moghulistan a caccia di Qamar al-Dīn, impresa che tuttavia si rivelò un fallimento nel suo intento principale: quello di catturare il khān mongolo. Vennero raggiunti l’Issyk Kul e la Semireče con scarsi risultati.72 Fu un semplice rinvio della resa dei conti con un rivale ben diverso e piú sfuggente di quelli che ora Timur affrontava in Persia. Nel suo percorso verso il Sistan, Timur passò per Sabzavar, dove si era verificata una rivolta che ha fatto discutere molto in seguito. Protagonista di questa “sobillazione” era un certo Dāvud Sabzavārī: la scuola sovietica vide in questo episodio una rivolta popolare contro Khwāja ‘Alī, evidentemente accusato di essere un oppressore delle masse.73 Aubin ribatté piú tardi che vi era stato un fraintendimento da parte di quegli studiosi derivante da una cattiva interpretazione della titolatura attribuita a Dāvud Sabzavārī, aggiunse che lo storico russo Petruševskij riteneva includere il titolo di shaykh (‘venerando’) con riferimento a un movimento locale di dervisci contrari alle politiche economiche di Khwāja ‘Alī.74 Pur condividendo in parte le critiche di Aubin (a volte un po’ troppo veementi), andrà notato che l’episodio disvela un tratto peculiare della personalità di Timur, quello di adottare due pesi e due misure: quando si trattava di punire la plebe e le sue rivolte, il trattamento era assai diverso da quello riservato 79

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ai membri delle aristocrazie che sconfiggeva. La “vendetta”, come la chiamano le fonti timuridi, fu atroce e ha il sapore di un grande disprezzo per le istanze sociali. Apparvero le mostruose torri di esseri umani (piú tardi saranno solo le loro teste): Timur catturò infatti duemila ribelli, li fece assemblare ancora vivi con malta e mattoni fuori dalla città a severo monito per i popoli.75 Si tratta di quei sinistri minareti (minārhā) che poi ritroveremo in tante città conquistate. Avvicinandosi al Sistan, fu raggiunto dal signore di Farah, Jalāl al-Dīn, che si sottomise prontamente, anche se Timur reputò i suoi doni un po’ scarsi. Poi arrivò a Zarang, che le fonti chiamano Shahr-i Sistān (‘Città del Sistan’), e lí subito Quṭb al-Dīn gli andò incontro anche lui per fare atto di sottomissione ed evitare stragi. Ma i cittadini con fierezza non condivisero le scelte del loro re e si ingaggiò una violenta battaglia. Dopo aver fatto incatenare Quṭb al-Dīn, forse ritenuto responsabile di una macchinazione, e aver perso numerosi soldati, Timur ebbe la meglio sugli insorti. Quṭb al-Dīn chiese allora di potersi rivolgere a Timur e finí col convincerlo del suo totale assoggettamento. Il Grande Emiro accettò, ma siccome la città continuava la sua rivolta, mettendo persino a repentaglio la vita stessa di Timur, essa subí un destino atroce con un saccheggio spaventoso (Sharaf al-Dīn dice che i suoi soldati si appropriarono persino dei chiodi infissi nelle porte), il massacro della popolazione e la distruzione delle abitazioni. Infine, fu dato fuoco a ciò che restava della città e Zarang cadde in rovina.76 Quṭb al-Dīn fu trasferito a Samarcanda, dove verrà ucciso in prigionia nel 1383, un suo successore però, Tāj al-Dīn, ebbe un altro destino: riabilitato come vassallo, si rivelò un ottimo alleato di Timur e lo serví negli anni successivi al comando di una sua armata.77 Fu poi la volta della importante città di Bust, anch’essa parte del Sistan storico (oggi Qal‘a-yi Bist, o Lashkargah, in territorio afgano). Qui venne distrutta una diga sul fiume Helmand, la cosiddetta « Diga di Rustam » (Band-i Rustam), con danni incalcolabili per l’agricoltura locale che si andavano ad aggiungere a quelli già prodotti dai Mongoli:78 la distruzione degli impianti idrici fu di fatto una vera e propria strategia di Timur le cui devastazioni mostrano ancora oggi le proprie conseguenze nell’inaridimento generale della regione. Il Grande Emiro venne anche a sapere che un certo Tuman Negüderī, sicuramente originario delle genti qarawna, minacciava dal Makran e aveva intenzioni bellicose. Nel tentativo di convincerlo (forse in nome dell’antico legame coi Qarawna), Timur inviò il fedele emiro Sayf al-Dīn 80

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e altri ufficiali a cercare di convocare questo personaggio a recarsi presso di lui e a unirsi al suo esercito. Rifiutatosi, Tuman Negüderī fu sconfitto e decapitato e la sua testa venne consegnata a Timur, il quale incontrò in seguito anche un nobile locale che veniva a sottomettersi, Mamqatū. Timur riconobbe in lui colui che gli aveva ferito il braccio con una freccia quando compiva le sue scorrerie nel Sistan con Amīr Ḥusayn: fece eseguire all’istante la sua vendetta, confermando il risentimento che le ferite riportate nel Sistān ancora risvegliavano in lui.79 Ora Timur penetrava in quei territori che erano stati luoghi elettivi della sua gioventú. Le fonti ci parlano di Avghāniyān (‘Afgani’): questo termine già esistente nell’antichità si ritrova nelle fonti islamiche dal X secolo, sebbene il suo uso sporadico permetta di dire che avevano poco a che vedere con gli odierni Afghani, almeno per quanto riguarda un concetto nazionale assolutamente non percepito all’epoca. Sicuramente questi afghani erano residuali dei Qarawna e l’esistenza di elementi Negüderi in tutta l’area conferma questa presenza. Oramai sbandati e privi di un loro potere politico, si rivolsero in un primo tempo a Timur per chiedergli l’assegnazione di uno shaḥna (‘prefetto’) che li comandasse.80 Timur accettò seguendo una prassi vincente che aveva accresciuto il suo esercito e aveva lasciato un certo spazio alle autorità locali quando esse accettavano incondizionatamente di sottomettersi. Tuttavia, gli afghani si ribellarono subito e vennero repressi duramente nelle loro sedi sulla catena del Kuh-i Sulayman (una catena montuosa che va dal Baluchistan iraniano al Pakistan, a ridosso della frontiera afghana odierna). Timur lasciò che di loro si occupassero i suoi perché aveva un altro obbiettivo, la città di Qandahar. Qui arrivò dopo che le sue avanguardie avevano già preso la città. Impiccò il governatore locale e dispose la messa in sicurezza dell’intera regione, che sapeva essere strategica per le sue scelte espansionistiche. Dopodiché si ritirò a Samarcanda. La conquista dell’Iran orientale poteva dirsi completata.

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V DAL KHORASAN ALLA G EORG IA 1. Primi bilanci Negli anni che vanno dal 1380 al 1383, la concezione del nuovo stato timuride era cambiata radicalmente. È stato giustamente affermato che da quel momento in poi Timur si appoggiò spesso sulle potenze locali sottomesse, concedendo loro uno statuto di vassallaggio,1 è il caso del Khwāja ‘Alī, ma anche di molti altri attori minori nella regione. Il suo obbiettivo non era quello di compiere annessioni, quanto piuttosto di neutralizzare pericoli esterni.2 Questo lo distingueva in qualche modo dai Mongoli suoi predecessori, anche se nel Khorasan Timur usò una violenza inusitata, fino ad allora inedita, che ricorda molto quella chinggiskhanide. Una vera e propria strategia del terrore che faceva sí che i suoi avversari si arrendessero spesso ancor prima di combattere. E coloro che si opponevano subivano atroci destini.3 Ora non troviamo piú le rivolte intestine degli emiri dell’antica confederazione. Le componenti tribali insieme agli eserciti acquisiti nel corso delle campagne persiane erano oramai parte di un’unica e solida entità, partecipando alle conquiste con considerevoli vantaggi. Il primo era quello economico, naturalmente. Se combattere contro gli sfuggenti nemici centroasiatici resterà un considerevole problema per Timur, la Persia era una terra assai piú ricca e facile da sottomettere. Il perfezionamento degli assedi lo aveva portato a dedicarsi a città che garantivano ingenti ricavati, ripartiti con una porzione consistente a Timur e alla sua famiglia e con una minore, ma sempre calcolata, agli altri elementi dell’esercito. Si è parlato giustamente di un’economia di razzia.4 Inoltre chi si arrendeva doveva corrispondere un riscatto (amān) che veniva estorto con puntualità da una massa di contabili specializzati nella monetazione, capaci di valutare eventuali ammanchi e abilissimi a spremere fino all’osso l’intera popolazione assoggettata. Tutto confluiva a Samarcanda e a Kish che divennero, come già abbiamo cominciato a vedere, città imponenti, piene di ricchezze e di schiavi che si dedicavano alla loro costruzione. Divennero anche dei crocevia commerciali di prim’ordine. Timur continuava a farsi chiamare semplicemente amīr, ma il contatto 82

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insistente con le autorità religiose, talvolta anche piuttosto riottose nei suoi confronti, mostra come la convinzione di un mandato divino nella sua missione cominciasse a farsi strada. Si può intravedere questo aspetto nel continuo riferimento al ta’yid-i ilāhī (‘assistenza divina’), al quale le fonti timuridi fanno un ricorso ossessivo, e anche nella menzione crescente del concetto coranico di baṣīra (la ‘visione profonda’) che avrebbe animato le sue azioni.5 Preso in prestito dal suo impiego esoterico nella mistica, il termine indicava anche un’autorizzazione a compiere indisturbato azioni atroci, senza dover rendere conto del proprio operato a nessuno. Il connubio tra pensiero mistico e potere politico ha qui una sintesi totale che si traduce appunto in un autentico potere assoluto. Da quest’epoca in poi Timur diventa anche un raffinato propagandista, comincerà presto a usare il termine jihād e a definire le proprie azioni come ghazā (lett. ‘razzia’, ma spesso usato con il senso di ‘guerra di religione’).6 La propaganda in quest’epoca iniziava a rivolgersi ai regni del tempo, denunciando le debolezze dei suoi avversari e il suo ruolo di conquistatore universale.7 Tra le numerose frasi che gli vengono attribuite con tono sapienziale, vi è quel motto rāstī-rustī (‘rettezza e vigore’)8 che diventerà famoso e ancor oggi viene utilizzato in Uzbekistan come una sorta di attributo nazionale. Certo, rimanevano i nemici delle steppe, primo tra tutti Qamar al-Dīn, al quale poi si aggiungerà Toqtamish: costoro avevano le stesse finalità di Timur e non solo lo combattevano, ma gli contendevano l’arte stessa della guerra che loro praticavano con modalità analoghe a quelle del Grande Emiro transoxiano. Periodicamente li ritroveremo nel tentativo di rovesciare il suo potere per estendere il proprio, Timur di fatto non riuscí mai a sconfiggerli completamente. La Persia invece si presentava come un paese in difesa, spesso con delle contese interne che saranno di grande utilità per Timur. 2. Il Mazanderan: un problema irrisolto Alla fine del 786/13859 l’esercito timuride riprendeva la marcia per un’impresa che avrebbe impegnato Timur per molti anni. Questa volta non si trattava piú di sondare il terreno, ma di completare la conquista del territorio. È molto probabile che Timur concepisse una resa degli avversari abbastanza facile: pur conoscendo la resistenza di alcuni, da altri si aspettava una rapida sottomissione. Mandò perciò un emissario a Shāh 83

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Shujā‘ affinché inviasse sua figlia, che avrebbe voluto far convolare a nozze con uno dei figli del defunto Jahāngīr, Pīr Muḥammad.10 Ed essa giunse ricevuta in prima persona dalla Sarāy Mulk Khānum, che dispiegò grande sfarzo per l’occasione. Timur confidava probabilmente molto in questa unione e forse credette di poter sottomettere il Fars (l’antica Perside) in maniera “pacifica”. Ma doveva risolvere ancora molti problemi: il primo era Amīr Valī, signore di Astarabad e del Mazanderan, che si era rivelato forse tra i suoi piú ostici avversari, malgrado le profferte di amicizia iniziali. Giunto nell’antica città di Nisa (nell’odierno Turkmenistan), una parte dell’esercito timuride si avvicinò al sito di Kavkuresh, dove si scontrò con l’esercito di Amīr Valī. Vi fu una battaglia molto aspra dove venne ferito seriamente al collo il nobile timuride Mubashir11 e morirono numerosi soldati. Alla fine Amīr Valī fu costretto a fuggire di fronte all’avversario con un esercito ben piú numeroso. Timur entrò nella regione del Gurgan a Kabud Jame, città che subí fortemente il suo passaggio. Conquistò varie città, in particolare Damghan, che non oppose resistenza. Inoltrandosi oramai nei domini dell’Amīr Valī, Timur ebbe un qualche timore e ordinò che l’esercito rimanesse coeso, imponendo ai propri soldati di rinunciare a compiere saccheggi nei villaggi e a disperdersi. La preoccupazione era giustificata: l’Amīr Valī, che per ammissione delle fonti persiane stesse si era battuto con molto coraggio, compí un attacco notturno contro gli accampamenti timuridi e solo dopo una furibonda battaglia dovette fuggire per la differenza delle forze in campo. Timur fu costretto per alcuni giorni a fortificare il proprio accampamento, anche perché Amīr Valī aveva disseminato il territorio di trappole, incluse delle fosse profonde riempite d’acqua che impedivano il passaggio al convoglio timuride. Infine, preceduto ancora da Mīrānshāh, Timur decise di attaccare e dopo numerosi combattimenti raggiunse la città di Astarabad, dove compí una carneficina uccidendo gran parte della popolazione, mentre Amīr Valī fuggiva di nuovo inseguito dai timuridi che raggiunsero Ray (vicina all’odierna Teheran). Qui si andò a rifugiare nelle impenetrabili foreste della regione di Rustamdar e gli inseguitori tornarono ad Astarabad, dove Timur si fermò per vari giorni, insediando il principe mongolo Luqmān, figlio di Toghay Timur, fuggito al momento dell’ascesa di Amīr Valī sul trono del Mazanderan.12 Oramai determinato a estendere la propria egemonia sulla Persia, e a 84

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sconfiggere definitivamente Amīr Valī, Timur ripartí per Ray che, come abbiamo visto, era già stata attraversata dalle avanguardie del suo esercito. In questo modo il Grande Emiro voleva porre il proprio dominio su una città che era stata molto contesa tra i Jalayiridi, i Muzaffaridi e Amīr Valī.13 Città fiorentissima nei secoli precedenti, Ray era stata duramente colpita dall’invasione dei Mongoli e queste guerre per il suo controllo la rendevano un facile obbiettivo anche perché Amīr Valī intanto fuggiva, mentre il sovrano jalayiride Sulṭān Aḥmad14 rinforzava le difese nell’antica capitale ilkhanide, Sultaniyya, per poi fuggire verso Baghdad con la sua famiglia (787/1385).15 La presa di Sultaniyya si rivelò cruenta, avendo gli abitanti della città ucciso alcuni esattori che erano arrivati per proporre la resa della città con la richiesta del riscatto.16 Ora Timur poteva addentrarsi nel Mazanderan, dove colpí Amol e Sari, che vennero conquistate con la resa immediata dei loro governatori, subito consegnati a Luqmān, ritornato signore di Astarabad, dopo che Timur lo aveva reinsediato sul trono di quella regione.17 Era tempo di ritornare a Samarcanda, dove Timur andò a trascorrere alcuni mesi del 788/1385-’86. 3. Il tradimento di Toqtamish La conquista del nord della Persia confermò le certezze di Timur sui suoi avversari in quella ampia regione. Ma, ancora una volta, dovette entrare in allarme per le azioni di un suo alleato che gli contendeva il primato come condottiero. Nel suo soggiorno a Samarcanda venne infatti informato di una drammatica incursione militare di Toqtamish che calava sulla città Tabriz.18 Tabriz era stata la città piú importante dell’ulus ilkhanide. Non era stata toccata dall’invasione mongola, divenendo un crocevia di primaria importanza per i commerci, tanto che gli Italiani, in particolare i Genovesi (che la chiamavano Tauris), vi avevano addirittura insediato una sede del loro Ufficium Gazarie, composto da mercanti che controllavano i traffici da Caffa in Crimea fino alla Cina. Rimase in piedi sino al 1344, quando dei moti xenofobi fecero partire gli agenti genovesi che in seguito si rifiutarono di avere accordi con i signori locali.19 Dopo la caduta degli Ilkhanidi, Tabriz era stata oggetto delle mire di molti comandanti militari. Finí col diventare la capitale dello stato Jalayiride, un regno retto da un gruppo mongolo importante che, agendo in varie 85

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regioni dell’Impero chinggiskhanide, acquisí infine un ruolo a partire dalla metà del XIII secolo, anche nello stato ilkhanide. Qui mutò progressivamente la loro condizione da emiri tribali in sovrani indipendenti con la cattura nel 1336 dell’antica capitale ilkhanide, al tempo della signoria di Shaykh Ḥasan, meglio noto come Ḥasan-i Buzurg (‘Ḥasan il Grande’), in contrapposizione a un suo rivale che si chiamava Ḥasan-i Kuchak (‘Ḥasan il Piccolo’).20 L’apogeo della dinastia fu durante il regno di Shaykh ‘Uvays (1356-1374). Al tempo dell’ascesa di Timur, il regno jalayiride era governato da Sulṭān Ḥusayn (r. 1374-1382), una figura opaca costretta a dipendere da un capo militare, ‘Ādil Āqā, che fungeva da vero e proprio comandante a Tabriz.21 In continuo conflitto con le numerose potenze che circondavano il suo stato, Sulṭān Ḥusayn fu soppiantato e ucciso dal fratello Sulṭān AḤmad, che occupò Tabriz nel 1382. Il suo regno si estendeva dall’Azerbaigian all’Iraq, intendendo con quest’ultima regione l’ ‘Irāq ‘arabī (‘Iraq arabo’), ovvero la Mesopotamia, coincidente piú o meno all’Iraq moderno e parte dell’ ‘Irāq ‘ajamī (‘Iraq persiano’). La città di Baghdad divenne cosí la seconda capitale jalayiride. La figura di Sulṭān Aḥmad è di indubbio interesse: amante delle arti, in particolare quella del libro – sotto di lui fiorí un’importante scuola di miniatori –, egli fu abile nella sua ascesa, riuscendo a sbarazzarsi dei “grandi emiri” che avevano circondato il fratello. Timur ne intuí le capacità e perciò conferí nella forma di un soyurghal (‘concessione fondiaria’)22 l’autorità su Sultaniyya e Tabriz23 ad ‘Ādil Āqā, « contribuendo al processo di decentralizzazione e indebolimento dell’autorità Jalayiride ».24 Descritto con toni poco lusinghieri da un’importante testimonianza dell’epoca, il Bazm-u-Razm di ‘Azīz Astarābādī, autore di cui si parlerà spesso oltre,25 Sulṭān Aḥmad rimane tuttavia un personaggio di un certo spessore: oltre alle sue doti di mecenate, riuscí a sfuggire a Timur nel corso della sua vita, sopravvivendogli sino al 1410, quando il suo regno (che in qualche modo fu sempre dominato precariamente dai Timuridi) cadde nelle mani dei Turkmeni Qara Qoyunlu (‘Quelli del montone nero’) e lui morí cercando invano di contrastarli.26 ‘Azīz Astarābādī descrive l’occupazione di Tabriz da parte di Toqtamish dopo un excursus autobiografico in cui narra la sua gioventú felice nella regione, l’ascesa di Sulṭān Aḥmad e la drammatica invasione di Toqtamish, considerata la conseguenza del clima di discordia e di disordine che regnava nella corte jalayiride: 86

v · dal khorasan alla georgia Nel mese di zhu’l-Ḥijja del 787 [gennaio 1386], Tokhātmish [Toqtamish] Khān con un esercito di dieci tūmān [ca. 100.000 uomini] lanciò i suoi uomini sull’Azerbaigian dal Bāb al-Abwāb [Darband nel Caucaso] e la capitale del regno, Tabrīz – oggetto d’invidia del Paradiso celeste –, venne saccheggiata con l’uccisione di diecimila uomini. Furono fatti prigionieri altri diecimila figli di musulmani che furono deportati nel lontano Turkestan. Nessuno scampò ad abusi, vessazioni e altre mostruosità.27

Cosa era che spingeva Toqtamish verso il regno jalayiride e a tradire l’alleanza con Timur? Andrà notato che penetrando in territorio persiano Timur aveva in qualche modo “internazionalizzato” il conflitto. Lo si percepisce nelle azioni diplomatiche delle principali monarchie islamiche del tempo: in Egitto regnavano ad esempio i Mamelucchi che erano forse la potenza principale dell’Islam sul finire del XIV secolo. Il loro sovrano Barqūq (r. 1382-1389), di cui Timur stesso riconoscerà poi le qualità (senza affrontarlo mai), aveva saputo gestire in maniera molto abile le sue relazioni con alcuni stati del tempo. Era stato avvicinato a partire dal 786/1384’85 da un’ambasceria di Toqtamish, che intendeva probabilmente ricostituire l’antica alleanza tra Orda d’Oro e Mamelucchi.28 Toqtamish non era il solo che chiamava in causa il sultano mamelucco, anche altri protagonisti entravano ora in scena, i jalayiridi Sulṭān Ḥusayn e Sulṭān Aḥmad, ad esempio – seguendo una consolidata tradizione di scambi diplomatici con la corte mamelucca,29 si erano già rivolti a Barqūq nel 783/1381-’82 e nel 785/1383-’84, con due ambasciate evidentemente derivate dalla preoccupazione che Timur generava nella regione.30 A loro si aggiungeva un altro personaggio, Qara Muḥammad Töremish, signore della confederazione turcomanna dei Qara Qoyunlu, che operava tra Nakhchevan ed Erzurum, e dopo alcuni contenziosi coi Jalayiridi aveva avvicinato Sulṭān Aḥmad per stringere con lui un’alleanza che doveva suonare molto ostica per Timur.31 4. Tabriz In questo quadro internazionale, Toqtamish si sentí probabilmente in grado di guidare quell’attacco e probabilmente fu su istigazione di Qamar al-Dīn che concepí un piano di conquista. Malgrado le fonti esprimano pareri molto discordanti sulle sue intenzioni e sui suoi presunti ispiratori, si potrà notare che gli antichi progetti espansionisti dell’Orda d’Oro erano 87

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stati riesumati.32 Era oramai guerra aperta con Timur, il quale non esitò a ritornare in Persia per una missione militare che durò tre lunghi anni.33 Nel 788/1386, Timur attraversò il meridione dell’Iran dove attaccò la regione del Piccolo Lar (Laristan), che era controllato da un signore locale, Malik ‘Izz al-Dīn, accusato di essere autore di diversi misfatti, oltreché di vessare i viaggiatori che attraversavano la regione. Ed essendo pervenute a Timur notizie di attacchi (veri o presunti) a pellegrini diretti alla Mecca, questa occasione fu propizia per vendicarli con uno zelo ribadito con forza dalle fonti. Dopo essere arrivato a Vurugird e Khurramabad,34 che fece saccheggiare uccidendone gli abitanti, facendoli precipitare da alti dirupi, si dichiarò dominatore della regione. In questa circostanza il Khwāja ‘Alī, che era stato un fedele servitore, perse la vita a causa delle ferite riportate durante uno scontro.35 Il regno dei Sarbadār fu suddiviso tra due figli, non tanto per seguire il principio del divide et impera, quanto piuttosto, come afferma Jean Aubin, conformandosi agli usi del tempo che prevedevano che i regni venissero ripartiti tra i figli dei re, uno dei quali avrebbe dovuto essere riconosciuto come superiore dagli altri. Questo ruolo fu ricoperto dal Khwāja ‘Imad alDīn Mas‘ūd, che si affrettò a riconoscere Timur e gli antichi accordi presi dal padre. Costui presto si espanse, appropriandosi anche dei regni dei fratelli.36 Fu nel Piccolo Lar che Timur venne informato del fatto che Sulṭān Aḥmad Jalayir era tornato da Baghdad a Tabriz, dove Toqtamish era rimasto per alcuni mesi, preferendo ritirarsi forse per l’arrivo di Timur. Quest’ultimo rapidamente si spostò verso Tabriz facendo fuggire anche Sulṭān Aḥmad, che venne inseguito da un esercito inviato contro di lui. Il sovrano jalayiride dovette rapidamente abbandonare le sue ricchezze e i suoi cavalli per evitare di essere catturato. Fatto ampio bottino, una parte di quell’esercito tornò da Timur. Uno degli emiri timuridi Iliyās Khwāja decise però di continuare la missione e superato Nakhchevan, oggi capoluogo della regione autonoma della Repubblica dell’Azerbaigian, a meridione dell’Armenia, trovò infine il sultano jalayiride a Namakzar, il quale con un suo contingente militare ingaggiò una violenta battaglia, potendo godere di una certa superiorità numerica. Ferito gravemente, Iliyās Khwāja si dovette ritirare e cosí Sulṭān Aḥmad sfuggí alla cattura e ritornò a Baghdad.37 Nakhchevan fu messa a ferro e fuoco e un ufficiale in particolare, Qumārī Īnāq, si distinse per particolare ferocia, dando fuoco a un edificio denominato Gunbad-i Żiyā al-Mulk con cinquecento persone 88

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dentro che morirono a causa del fumo che si era sprigionato all'interno. Timur intanto sottometteva Tabriz.38 ‘Azīz Astarābādī descrive l’episodio con orrore: [Dopo nove mesi dall’invasione di Toqtamish] la Madre del tempo, che è sempre gravida di stelle infauste, mise al mondo un’altra calamità: l’emiro Timur, disgrazia estrema e supremo patimento, con un esercito di trenta tūmān, giunse a Ha­ madān da dove lanciò i propri soldati su Tabrīz. Sulṭān Aḥmad fuggí verso Baghdād. In quaranta giorni i demoni (‘ifrīt) ciagataici e tatari si avventarono sull’Azerbaigian, sottomettendo con la forza gli abitanti che erano rimasti. Vi furono confische infami, rivendicazioni abbiette, e [i Timuridi] si mostrarono quanto piú possibile corrotti, depravati, tirannici e iniqui. La descrizione sarebbe lunga. Appena giunto in Iraq, Sulṭān Aḥmad ordinò di organizzare un convivio e dopodiché, in compagnia di qualche suo intimo, trascorse il tempo a banchettare, bevendo e dandosi alla musica. Per ben sette anni si dedicò alla baldoria e alla cura del suo harem, mai un istante si occupò degli affari del regno e delle questioni del suo stato!39

La descrizione di ‘Azīz Astarābādī offre un’idea della percezione di Timur che si stava diffondendo. Il termine ‘ifrīt indica un tipo di genio maligno, del quale gli Arabi avevano particolare timore. Come in altre occasioni, l’autore di Astarabad non manca di constatare la mollezza scellerata, a suo giudizio, di Sulṭān Aḥmad che non si rende conto degli eventi piú preoccupanti per il regno.40 Dopo la presa di Tabriz, Timur si ritirò nel Shanb-i Ghazan (un sobborgo della città dove era seppellito Ghazan Khān, importante sovrano ilkhanide). Qui ricevette le autorità locali che si erano precipitate a sottometterglisi ed emise un firmano nel quale imponeva il māl-i amān (‘il prezzo del riscatto’) alla popolazione che i contabili si premurarono di depositare nelle casse del tesoro.41 Malgrado l’accoglienza non mancò un tentativo di attentato, quando Timur si recò in un edificio termale della città.42 Durante l’estate che trascorse lí, Timur decise di farla finita con Amīr ‘Ādil, al quale aveva assegnato in precedenza il governo di Sultaniyya: costui si era affrettato a raggiungerlo nell’accampamento, ma Muḥammad Sulṭānshāh, uno degli emiri che piú si era distinto nella presa della città, insinuò dei dubbi sulla sua condotta in Timur, accusandolo di malversazioni finanziarie. E quando Timur chiese di compiere un’indagine sugli introiti dell’Azerbaigian si accorse che le casse erano state svuotate e l’Amīr ‘Ādil fu torturato e infine gettato da una muraglia mentre la sua 89

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casa veniva saccheggiata.43 Quanto alla città, fu vuotata dei suoi migliori artigiani e operai, che vennero prontamente deportati a Samarcanda.44 Nel frattempo, nella provincia di Khalkhal, città oggi nell’Azerbaigian iraniano, venne scovato l’Amīr Valī che vi si era rifugiato per sfuggire a Timur. Giustiziato sul posto dal solerte Qumārī Īnāq, fu decapitato, secondo la Yasa (o Yasaq, ovvero la ‘legge mongola’), e la sua testa venne consegnata a Timur45 che si liberava cosí di uno dei suoi piú accaniti avversari nella regione. L’esercito si diresse allora verso settentrione, dove passò il fiume Aras (l’antico Arasse, che oggi forma il confine tra Iran, Turchia, Azerbaigian e Armenia) attraverso un ponte che Timur ebbe modo di ammirare per la sua splendida fattura. Furono attaccati in rapida successione diverse città e incastellamenti, a Korni il signore locale fu preso e portato in catene a Timur; poi a Shurmalu (Surmalu, detta anche Surbmar, a nord-ovest di Nakhchevan)46 fu catturato il signore « di quelle genti », Tuman Turkmān. Infine, fu la volta di Qars (Kars, oggi in Turchia), che era considerata una delle città meglio fortificate della regione, dove governava un altro turcomanno, Pīrūzbakht, che si difese con valore, tanto da essere risparmiato poi, quando fu catturato dopo un sanguinoso assedio. Ciò non impedí il saccheggio e la distruzione della sua città.47 5. Timur campione del jihād Si è spesso detto che Timur fu un abile propagandista. Sino alla presa di Tabriz, questa sua qualità non sembra emergere che sporadicamente. Tuttavia, nei mesi successivi alla cattura della città azerbaigiana, Timur sembrò rendersi conto del fatto che la sua figura non incuteva piú solo timore, ma costituiva oramai un “caso”, venendo associata alle invasioni mongole del passato. Insomma, i suoi detrattori non esitavano piú a considerarlo un nemico dell’Islam da contrastare con sacro zelo. Come reagire a questa insidia che risultava assai peggiore della pur coraggiosa resistenza di castellani e monarchi locali persiani? Bisognava attrezzarsi e diventare campioni del jihād. Jihād e ghazā sono termini complessi che necessitano qui di qualche parola. Il primo termine (ar. jihād, lett. ‘sforzo’) non era uno dei cosiddetti « pilastri » dell’Islam, costituiva piuttosto uno sforzo supererogatorio che i sovrani turchi avevano già utilizzato nel passato per acquisire lustro e legittimità vuoi al cospetto del califfo (finché questa figura è esistita a Baghdad), vuoi in seguito al cospetto del mondo mongolo islamizzato, dei si90

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gnori mamelucchi, cosí come dei sultani di Delhi. Il suo significato di ‘guerra santa’ rappresenta ancor oggi un’estremizzazione del suo senso originario, quando letteralmente significava uno sforzo per comportarsi da buoni musulmani da esprimere nel Dār al-Islām (‘la dimora dell’Islam’, le regioni islamizzate) o fuori, nel Dār al-Ḥarb (‘la dimora della Guerra’, le regioni non musulmane).48 C’era (e ancor oggi c’è) un jihād maggiore e uno minore. Il maggiore era uno sforzo « spirituale », mentre il minore aveva finalità piú « fisiche » e sarebbe legato al nostro caso.49 Il secondo termine, ghazā, indica il concetto di ‘razzia’ (sembra anzi che la parola razzia derivi proprio dal termine arabo). Nel secolo scorso la ghazā è stata l’oggetto di una teorizzazione e poi di una discussione accademica molto intensa. Nel corso del XIV secolo, molti si attribuirono il titolo di ghāzī (da ghazā o ghazw), termine che cela molto bene nella sua ambiguità concetti diversi, principalmente quello appunto di ‘razziatore’ e quello di guerriero che in nome della fede combatteva una guerra santa contro gli infedeli per l’espansione dell’Islam. Un curioso dibattito, tipico di certa orientalistica, vide uno studioso austriaco, Paul Wittek, costruire alla fine degli anni ’30 del secolo scorso un vero e proprio modello storiografico, sul quale vale la pena brevemente di soffermarsi.50 In buona sostanza Wittek, in una visione spesso considerata poi « romantica »,51 esaltava il caso dell’Impero ottomano, in qualche modo dando particolare enfasi alla sua specificità, cosa assai discutibile a posteriori, essendo il jihād e la ghazā praticati da epoche molto antiche e patrimonio condiviso da tutti o quasi i musulmani fin da tempi remoti.52 L’idea romantica di Wittek consisteva proprio nella concezione di uno Stato nato e basato sul concetto di guerra santa. Piú tardi il suo teorema venne adottato, anche se con sfumature diverse, dalla comunità accademica. Gli studiosi turchi si esercitarono a distinguere il termine ghazā dal concetto di jihād, un concetto espresso in via teorico-teologica dalla “classe” degli ulamā, gli uomini di fede; quanto ai ghāzī, cioè ai guerrieri impegnati nell’azione sul terreno, sarebbero stati i promotori delle numerose campagne espansive ottomane. Questo dibattito nato nel mondo anglosassone si sviluppò poi in quello turco con una curiosa sudditanza nell’assunto di base, anche se con modificazioni parziali.53 Nel resto d’Europa, in particolare in Italia, rimase oggetto di ridotta discussione, forse per una percezione meno deterministica della storia o per una disattenzione al dibattito storiografico, fatto quest’ultimo che meriterebbe a posteriori un supplemento d’indagine in termini di percezione della storia orientale. 91

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Timur rappresenta un modello contrastivo rispetto alla figura delineata da Wittek e la tesi di quest’ultimo fu giustamente ridimensionata da John E. Woods, che vide nei conflitti del jihād uno sforzo « attributivo » (ascrip­ tive) per stabilire una legittimità in linea con la tradizione pan-oghuzica (cioè peculiare della percezione « nobile » delle suddivisioni tribali turche, come erano state definite da un’ampia letteratura), al fine di costruire un richiamo universale per le popolazioni turcomanne del mondo islamico orientale.54 Il concetto per Timur fu decisamente politico-strategico e costituí un motore per contrastare le accuse ricorrenti di una scarsa, se non in certi casi nulla, azione islamizzatrice del conquistatore. Rivendicando la propria adesione al progetto universale di conquista del mondo pagano, Timur si ergeva a campione della fede e finiva col passare sotto silenzio le sue origini decisamente poco esaltanti. Giustamente Anne Broadbridge ha visto nell’anno 788/1386-’87 l’inizio di una fase decisamente nuova nella carriera di Timur.55 In particolare ora che si trovava ai confini con il regno di Georgia, un potentissimo stato cristiano del Caucaso, Timur aveva finalmente l’occasione per entrare in un gioco piú grande. Andrà anche presa in considerazione la posizione di uno studioso georgiano, Ivane Ǯavaxišvili, che individuò in questa prima incursione (cui ne seguiranno altre sette) la conseguenza di un sospetto: Toqtamish non avrebbe potuto compiere la sua incursione su Tabriz se non si fosse preventivamente accordato con il regno di Georgia. Lo stesso Ǯavaxišvili segnalava la presenza di infedeli tra le fila di Toqtamish. Il regno georgiano teneva in mano i passaggi naturali dal Caucaso settentrionale: Dariali da sempre e spesso anche Darband. Pertanto, lo stesso Ǯavaxišvili indicava che, al di là del pretesto, l’obbiettivo militare di Timur era quello di impadronirsi – direttamente lui o tramite formazioni politiche ridotte allo stato di vassallaggio –, di queste due gole. Giunse infatti nel tardo autunno del 1386, quando si verificarono delle nevicate premature: in queste condizioni Toqtamish non avrebbe potuto soccorrere i Georgiani, qualora vi fosse stato un precedente accordo. Dunque, nei fatti, si trattò anche (o principalmente) di una vendetta.56 6. La prima campagna georgiana Niẓām al-Dīn Shāmī introduce l’attacco alla Georgia descrivendo Timur che si rivolge ai maggiorenti del regno con un discorso ispirato da una delle sue visioni: 92

v · dal khorasan alla georgia Ho una visione meravigliosa e percepisco un imperativo straordinario: ciò che sta accadendo in questo periodo è conseguente a epoche storiche turbolente e sediziose in cui sono cadute le regole e i costumi dei re sono divenuti instabili. Non suscita stupore, poiché non ci sono piú ambiziosi sultani. Ovunque il disordine e la discordia governano, la mia meraviglia deriva semmai dagli eventi dei sovrani del passato e dei regni antichi che malgrado l’estensione dei loro domini, le ambizioni, le regioni conquistate e le vittorie, nel cuore dei loro regni hanno ancora un’accolita di Georgiani che sono contrari alla fede di Muḥammad – Sulla sua dottrina la salvezza e il saluto! –, e hanno acquisito un’estrema potenza, pretendendo regni e potenza. Credete che il loro monarchico zelo e l’orgoglio della loro sovranità non sia una buona ragione per contrastarli e sopprimerli? Insomma, dove sono finiti i musulmani e gli uomini di fede? Gli idolatri (butparastān) osservano le dottrine della propria vana fede e si dedicano al disprezzo e all’umiliazione del credo dei loro avversari. Siccome le loro divinità, che sono idoli (ki butān-and), sono incapaci di soccorrerli, si sono alleati con un gruppo di seguaci dell’Islam che sono convinti che il Glorioso Signore e la Divina Promessa che è stata emanata li sosterranno e li aiuteranno. In che modo ammettono che questi infedeli (kāfirān) abbiano ambizioni e possiedano regni? E per quella minima gloria che ricavano, perché si accontentano? In ogni modo oggi, che è la volta di province e regni nella conquista del mondo, giunta a noi per la gloria della Profezia, è d’obbligo il nostro zelo e si impone il nostro dovere di sforzarci per estirpare la loro miseria e purificare l’abominio grazie al seme dell’Islam.57

Al di là della retorica, questa dichiarazione di guerra descrive un avversario temibile, capace di allearsi con gli stati musulmani vicini, ovvero di incutere loro timore. In secondo luogo, andrà considerata la descrizione dei cristiani (i Georgiani) come degli idolatri che hanno varie divinità. Questo è abbastanza tipico dell’enfasi jihadista, ma dà anche un’idea del modo di concepire le cose da parte di Timur, che non tenne in considerazione il ruolo, generalmente ammesso, delle minoranze cristiane ed ebraiche nell’ambito del mondo musulmano. Di certo Bagrat V (13601393), detto “il Grande”, era un sovrano molto potente, apprezzato dagli storiografi bizantini e armeni. Se prima di Timur il suo regno era stato flagellato dalla peste (ne morí anche la moglie Elene) e dovette affrontare la rivolta degli Svani (1367), egli era riuscito a conservare il regno di Georgia, come una grande potenza.58 Si trattava del nemico piú insidioso che Timur avesse fino ad allora affrontato. Alla fine del 1386, Timur raggiunse prima Kitu (forse Qars),59 o probabilmente Axalc‘ixe (oggi in territorio georgiano),60 e infine arrivò a Tbili93

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si (Tiflīs nelle fonti persiane) che era assai ben fortificata. Timur aveva truppe ingenti, è assai improbabile che fossero 800.000 mila effettivi, a quanto dicono iperbolicamente alcuni testimoni oculari.61 Vista comunque la superiorità numerica delle truppe di Timur, il re georgiano aveva ordinato ai soldati di asserragliarsi nelle fortezze. Lui stesso si trovava a Tbilisi.62 Secondo gli storici, l’assedio durò a lungo: sei mesi secondo Vaxušt’i Bat’onišvili,63 un periodo del tutto improbabile anche se tutti concordano sulle difficoltà che una simile impresa prevedeva. Le fonti georgiane offrono anche diverse descrizioni della tattica adottata dai Geor­ giani, consistente in numerose uscite che danneggiarono seriamente il nemico.64 Non è improbabile che in questa circostanza siano state utilizzate delle armi da fuoco, le stesse fonti georgiane alludono a dei randandazan, evidente traslitterazione di ra‘dandazān (‘sparatuoni’), probabilmente delle bombarde.65 Le fonti persiane rivelano poi l’utilizzo, da parte delle truppe di Timur, anche di baliste, catapulte, trabucchi e altri macchinari d’assedio. Il 21 novembre66 si svolse una battaglia molto intensa che si concluse con la cattura di Bagrat V, il quale fu portato innanzi a Timur in catene.67 Fu indubbiamente un successo per Timur, che per festeggiare non esitò a compiere una battuta di caccia estensiva nella regione. Viene descritto per questo episodio il jarga, ovvero l’uso di formare un cerchio di cavalieri che si stringe progressivamente per poter raccogliere piú prede possibili. Un atto anche simbolico, che rappresentava in forma quasi teatrale le gesta militari. Timur trattenne in ostaggio sia Bagrat che sua moglie Ana, insieme al principe Davit, e non mancarono i massacri e persino il trafugamento di libri dalla biblioteca reale. In seguito, Timur decise di recarsi nel Qarabagh per la transumanza invernale. Nel percorso compí numerose devastazioni e saccheggi. Chiese anche che fosse portato al suo cospetto il re georgiano che era rimasto imprigionato a Tbilisi, mentre alcune sue truppe depredavano la regione: ciò avvenne a Shakki (Shəki, nell’attuale Azerbaigian), nella provincia di Tankghut (Taghut o Ataqut, nel Qarabagh), e nel « Castello rosso » (Qal‘a-yi surkh) che si trovava nella regione.68 Nel qishlāq del Qarabagh, Timur e Bagrat si rincontrarono. Si trattò di un evento abbastanza surreale se seguiamo le fonti persiane che, con profusione di citazioni coraniche, descrivono Timur impegnato a convincere (riuscendoci, ovviamente) il sovrano georgiano a adottare la fede musulmana e a entrare nel suo esercito. Le stesse fonti parlano di una conversione di massa che certamente non si verificò.69 Timur in quella circostanza 94

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avrebbe anche esaltato « il respiro di Gesú » e il profeta Davide, cosa che sembra contraddire l’immagine dei Georgiani idolatri delle invettive precedenti la campagna militare. Ma le fonti georgiane e armene fanno riflettere su una probabile difficoltà di Timur nei confronti di Bagrat V e ricordano come il Grande Emiro avesse provato a convertire Bagrat già a Tbilisi: « Timur-lang [lo] invitò [ad accogliere] la fede di Maometto, ma il re non gli diede retta e fu preso in ostaggio ».70 Come si vedrà, la conversione forzata di Bagrat alla dottrina hanafita e la consegna di un esercito di 12.000 uomini per islamizzare la Georgia contraddicono il Bagrat V incatenato e costretto a convertirsi per salvarsi. Un sovrano ben diverso, che forse, non avendo mai abiurato la sua fede, non esitò a massacrare l’armata che Timur aveva messo a sua disposizione al tempo di una seconda incursione degli eserciti timuridi nel 1387, di cui però non compare una traccia chiara nelle fonti persiane.71 L’autore armeno Tommaso di Metsop (Tovma Mecop’ec’i) vide nel comportamento di Bagrat un’astuzia: avrebbe richiesto a Timur i 12.000 uomini per « convertire all’Islam le popolazioni della Georgia », Timur felice di questa proposta gli avrebbe concesso il contingente di cavalieri che una volta condotti in regioni impervie sarebbero stati massacrati.72 In quest’epoca molti signori del Caucaso e delle regioni circonvicine si recarono da Timur, tra i quali lo shāh di Shirvan, Ibrāhīm, signore di un regno esteso in quello che oggi è l’Azerbaigian.73 Altre attestazioni di sudditanza giunsero da piú oscure figure come quei « sovrani del Gilan » che si precipitarono dalla regione caspica, per riconoscere il nuovo conquistatore. 7. Toqtamish attacca l’esercito timuride Mentre soggiornava nel Qarabagh, all’inizio del 789/1387, Timur ricevette anche la visita di alcuni esponenti dell’Orda d’Oro, guidati dallo shaykh ‘Alī Beg dei Qongirat, che arrivarono dalla regione di Ardabil per omaggiarlo.74 Quella delegazione riferí dei piani di Toqtamish che era penetrato fino a Darband con l’intenzione di attaccare Timur e il suo esercito. Darband era una posizione strategica, il nome persiano indica il concetto di ‘argine’/‘diga’ e nell’antichità si chiamava anche Bāb al-abwāb (ar. ‘Porta delle porte’; oggi la città è nella Repubblica autonoma del Daghestan) perché il suo controllo era strategico per il dominio del Caucaso. Val la pena di ricordare che di città cosí ce n’erano diverse: proprio nell’Uz95

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bekistan si trovava un altro sito (Darband Qahalgha), conosciuto come « Porta di Ferro » (Bāb al-ḥadīd) che ricopriva un’analoga funzione.75 Se i Cinesi avevano costruito la Grande Muraglia, i Persiani si erano dotati, sin dall’antichità, di un sistema che li separava (anche se spesso senza troppo successo) dai popoli delle steppe.76 In Georgia le barriere naturali erano da sempre un limite difficile da superare.77 L’attacco alla Darband caucasica ricopriva dunque ancora una volta un ruolo simbolico per Timur, che concepiva probabilmente una sua geografia mitica, e questa nuova offensiva da parte dell’Orda d’Oro echeggiava un’antica e mai sopita rivalità con la Persia delle popolazioni centroasiatiche, che ora veniva trasposta nel conflitto tra le due potenze dell’epoca. L’attacco si rivelò estremamente insidioso e diede risalto anche al fatto che Toqtamish si era attrezzato rispetto al passato, costruendo alleanze con varie potenze locali e perfezionando decisamente le sue strategie militari. Una delegazione di transfughi che raggiunse Timur raccontò che l’antico patto era stato infranto a causa di Qazanji Bahādur,78 un vecchio alleato di Urus Khān, che avrebbe ucciso il padre per unirsi a Toqtamish79 e avrebbe spinto quest’ultimo a entrare in conflitto con Timur. Contrariamente a molte campagne del passato, il Grande Emiro sentí l’insidia profonda e, soffocando in qualche modo la sua ira proverbiale, inviò al di là del fiume Kura, un’altra frontiera naturale “storica”, un esercito in avanscoperta guidato da alcuni dei suoi migliori emiri che sarebbero stati raggiunti in un secondo momento da suo figlio Mīrānshāh, governatore di Persia. L’avanguardia fu sbaragliata e quando Mīrānshāh arrivò si trovò innanzi a una scena straziante di desolazione e di morte. Ancora una volta le steppe riservavano brutte sorprese a Timur e c’è da chiedersi perché non fosse lui personalmente a guidare la campagna. L’esercito di Mīrānshāh inseguí quello dell’Orda d’Oro sino a Darband, dove si scatenò un ulteriore scontro violentissimo che finí con la sconfitta di Toqtamish, il quale ancora una volta si dileguò nelle steppe, lasciando nelle mani degli inseguitori numerosi prigionieri che furono condotti da Timur. Il signore dell’Orda d’Oro aveva ottenuto il suo scopo, ovvero di sconfiggere le truppe timuridi almeno per una volta. Ma contro Mīrānshāh non avrebbe avuto le forze necessarie per opporsi. Tra i prigionieri che il principe timuride catturò c’erano vari nobili, uno dei quali, Shūrīda, era stato ferito in battaglia, che furono ricevuti da Timur con benevolenza e rinviati da Toqtamish dopo essere stati lungamente interrogati sulla vita che il khān dell’Orda d’Oro conduceva. 96

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Le fonti timuridi descrivono questo incontro come un atto estremo di paterna arrendevolezza nei confronti di quello che Timur « considerava di diritto come un figlio » (ki miyān-i mā ḥaqq-i pidar farzand-īst),80 ma c’è da interrogarsi sul timore che quel « figlio » incuteva. Se la cosa si risolse con la liberazione dei prigionieri che si dovevano fare latori di un messaggio a Toqtamish perché si riprendesse da quello « sbandamento » e tornasse all’alleanza prestabilita, rimangono forti dubbi sull’atteggiamento pacifico di Timur. Come a voler mitigare l’episodio, i cronachisti persiani spostano l’attenzione sull’arrivo nell’accampamento della Sarāy Mulk Khā­ num, la « regina madre », con il pargolo Shāhrukh e il nipote Khalīl, di cui lei curava personalmente l’educazione. Timur li incontrò e li festeggiò a Marand (città oggi dell’Azerbaigian orientale iraniano), per poi ripartire verso una campagna contro la fortezza di Alinjak, all’epoca in mano a ufficiali dell’esercito del jalayiride Sulṭān Aḥmad, che venne facilmente conquistata.81 8. Qara Muḥammad e Muṭahhartan: Timur tra Anatolia e mondo iranico Quando Timur terminò quella che può essere definita la sua prima impresa caucasica e si ritrovò in Azerbaigian, ritenne di potersi rivolgere all’Anatolia orientale, allora dominata da un insieme di gruppi turcomanni che controllavano un territorio estesissimo quanto variato. Di Qara Muḥammad si è già accennato a proposito degli accordi che costui avrebbe preso col sultano mamelucco. Ma chi erano i Qara Qoyunlu? Se il termine qoyun, ‘montone’ o ‘castrone’, come è stato tradotto di recente,82 fornisce un riferimento totemico a un animale, piú interessante risulta il cromatismo qara, ‘nero’, che indica un dato geografico, con un riferimento all’occidente (aq, ‘bianco’, indicherà invece l’ ‘oriente’). Di dinastie “nere” ce ne erano state diverse nel passato, basti pensare ai Qarakhanidi, che operarono soprattutto in Transoxiana, o ai Qara Khitai di stirpe turco mongola, che avevano invaso il potente Impero corasmico nel XII secolo. In origine, probabilmente, nero e bianco indicavano il settentrione e il meridione, piuttosto che l’occidente e l’oriente.83 La sostituzione dell’occidente con il settentrione e l’oriente con il meridione è presente nelle carte geografiche del Medioevo, in particolare in una rara testimonianza nota come mappa di Maḥmūd di Kashgar, datata 1076 e oggi conservata a Istanbul,84 che è rovesciata di 90° rispetto alla moderna cartografia in cui 97

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compare un mondo centrato sulla città di Balasaghun, antica capitale turca d’Asia centrale. I Qara Qoyunlu, all’epoca dell’arrivo di Timur, erano una potenza ragguardevole, avendo riunito attorno a un nucleo oghuzo un significativo numero di gruppi tribali, tanto che per il loro stato si usa il termine « confederazione ». Era un regno nomadico che aveva come al solito due aree principali dove si stabilivano gli accampamenti: una prima ruotava attorno alla capitale Mossul, dove i Qara Qoyunlu nomadizzavano d’inverno, d’estate era la città di Erzurum a costituire il loro centro. I testi che fanno riferimento alle vicende di Timur descrivono questi gruppi tribali con termini poco lusinghieri, spesso i Turcomanni sono definiti « idioti » e « privi di raziocinio » e soprattutto vengono considerati come dei predoni. In altri casi vengono usati termini piú lusinghieri, come per i rivali dei Qara Qoyunlu, gli Aq Qoyunlu (i ‘Montoni bianchi’), che costituiranno un alleato importante di Timur.85 Il pretesto comunque per entrare in Anatolia era quello di contrastare dei briganti che ostacolavano i transiti carovanieri e in particolare quelli dei pellegrini diretti alla Mecca:86 uno dei motivi ricorrenti della propaganda timuride era quello di garantire ai mercanti di « poter attraversare le regioni dell’Asia indisturbati, con un vassoio colmo d’oro ».87 Indubbiamente Timur entrava in quello scenario cosciente del fatto che le coalizioni che i suoi avversari stavano costruendo erano un’insidia molto pericolosa. Ricomposto l’esercito, richiamando anche alcuni ufficiali come quelli che presidiavano Alinjak, Timur mosse verso Doğubeyazit (nelle fonti persiane è chiamata Aydin), città che oggi costituisce un importante passaggio sulla frontiera con l’Iran. Qui cominciavano le terre turcomanne, che vennero devastate e saccheggiate in maniera sistematica. Infine, i Timuridi arrivarono a Erzurum che, conquistata senza sforzo, cedette all’invasore. Da questa città Timur inviò un ambasciatore a Mu­ ṭahhartan (o Tahartan),88 che era il signore indipendente di Erzincan, altra grande città turca abitata da una maggioranza cristiana, principalmente armeni, ma anche greci ortodossi89 e persino alcuni latini, che convivevano pacificamente con i dominatori turchi. Anzi, proprio i rapporti con i Comneni di Trebisonda avevano permesso al beg di Erzincan di accrescere la sua potenza.90 Timur chiedeva a Mu­ṭahhartan la sottomissione perché questa era indispensabile per contrastare i Qara Qoyunlu. Mu­ṭahhartan è un personaggio molto interessante: compresso tra vicini molto potenti, è una figura non priva di ambizioni, anche se la disgrazia di allearsi con Ti98

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mur lo renderà un vassallo tanto fedele quanto depotenziato, visto che da questo momento in poi « trascorrerà la sua vita a combattere » per un altro sovrano.91 In realtà il suo potere era soprattutto economico: lo dimostrano le miniere di rame, che erano ben note persino in Italia, come si deduce dalla Pratica della mercatura, opera di Francesco Balducci Pegolotti della prima metà del Trecento.92 Per certi versi il rapporto con i cristiani dovette imbarazzare Timur, che chiese in seguito un riscatto in cambio della loro salvezza di 9000 hyperpera che Mutahhartan si affrettò a pagare, come riporta Clavijo, il quale ci informa anche della ricchezza che costoro producevano.93 Timur che, come s’è detto in altri casi, vedeva nei cristiani un nemico giurato, dimenticò dunque la sua guerra di religione per poter usufruire dei vantaggi che questo alleato offriva.94 L’accoglienza offerta agli emissari di Timur fu sicuramente valutata positivamente. Intanto, un esercito inviato da Timur tentava di battere quello dei Qara Qoyunlu, che in uno stretto di montagna misero i Timuridi in seria difficoltà. E solo dopo una sanguinosa battaglia riuscirono ad avere la meglio mentre Qara Muḥammad fuggiva tra le montagne. Non rimase che devastare la regione, anche se alcuni elementi furono uccisi, come Shāh Malik figlio di Ghiyāth al-Dīn Barlas.95 Timur proseguí verso Muş, Ahlat ed Erciş, queste ultime due città attorno al Lago Van, dove i signori locali si affrettarono a riconoscere il suo potere. Poi decise di prendere Van,96 lí il signore ‘Izz al-Dīn si asserragliò nella fortezza che risultava imprendibile data anche la sua posizione con un lato sul lago e l’altro rivolto alla terraferma. Tuttavia l’assedio portò ‘Izz al-Dīn a tentare una mediazione che fu contestata vivamente dalla popolazione, il che costrinse Timur a venti giorni di assedio e alla fine al massacro dell’intera cittadinanza, usando la pratica di gettarli legati dalla cima del monte vicino.97 La campagna terminò a Erzincan, dove Mu­ṭahhartan ebbe cura di ricevere Timur con tutti gli onori. In cambio ricevette l’investitura dell’emirato di Erzincan. Quanto a ‘Izz al-Dīn, fu graziato e gratificato col governo del Kurdistan.98

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VI TI M UR ENTRA N EL REG NO M UZAF FARI DE

1. La terra di ‘Ubayd-i Zākānī e Ḥāfiẓ Conclusa la sua spedizione nell’Anatolia orientale con l’acquisizione di nuove alleanze – ma anche senza essere riuscito a catturare i suoi rivali principali –, Timur ritornò in territorio persiano, fermandosi a Maragha, città importante dell’Azerbaigian (oggi Azerbaigian iraniano). Qui ingiunse a Zayn al-‘Ābidīn, signore che condivideva il potere con altri membri della dinastia muzaffaride e governava Shiraz, di presentarglisi innanzi.1 I Muzaffaridi erano l’ultima potenza da sottomettere per il dominio definitivo della Persia. Malgrado i successi, Timur aveva ancora molti problemi da risolvere: il jalayiride Sulṭān Aḥmad era riuscito a sfuggire alla cattura; altri potenti signori tentavano dei colpi di mano come nel caso piú eclatante di Toqtamish che lo aveva preceduto a Tabriz. In piú il presidio della Persia risultava molto problematico e malgrado l’energia profusa, il figlio Mīrānshāh aveva avuto piú volte bisogno dell’aiuto di Timur per risolvere le questioni che gli erano state affidate. Per queste ragioni Timur considerava ancora la possibilità di un accordo coi signori muzaffaridi, i quali erano stati loro stessi, al tempo di Shāh Shujā‘, a richiedere il suo aiuto. Almeno cosí affermano le fonti timuridi. Morto nel 786/1384, Shāh Shujā‘ aveva lasciato una epistola per Timur che costituiva a giudizio di quest’ultimo un autentico mandato per imporre ai Muzaffaridi un suo ruolo nella politica regionale. Torneremo su questa lettera, sulla sua autenticità, e sul ruolo che giocò. Vale la pena, tuttavia, di spendere alcune parole sui Muzaffaridi e sul loro regno, quando Tamerlano tentò per la prima volta di portare a termine la sua conquista della Persia. Costoro discendevano da un gruppo di origini arabe che si era stabilito nel Khorasan al momento della conquista islamica della regione nel VII secolo.2 Durante la dominazione mongola, un loro discendente piuttosto oscuro, Ghiyāth al-Dīn Ḥājjī, si era spostato da Khwaf verso la florida città di Yazd, allora governata da un atabeg che agiva per conto dei Mongoli.3 La regione di Yazd, al pari del Fars, era rimasta abbastanza estranea alle devastazioni mongole, divenendo infine un potentato praticamente autonomo. 100

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Fu l’Amīr Muẓaffar, a metà degli anni ’80 del Duecento, a dare un aspetto diverso alla famiglia (da lui deriva per altro il nome dei Muzaffaridi), quando divenne un yasavul per conto dei Mongoli:4 il termine turco-mongolo indicava, in origine i significati di ‘guardia del corpo’, ‘scudiero’, o ‘sorvegliante’. In seguito, acquisí il senso uomo di fiducia del khān,5 per estensione un emiro. Morto Muẓaffar nel 713/1314, fu sostituito da Mubāriz al-Dīn Muḥammad (713-’59/1314-’58) che può essere considerato il vero fondatore di un regno indipendente, soprattutto dopo la caduta degli Ilkhanidi, quando eliminò la potenza injüide nel Fars,6 e conquistò Shiraz e il Kerman.7 Mubāriz al-Dīn è stato spesso definito un sovrano ultra-ortodosso – fece chiudere le taverne e fustigò i costumi (a suo giudizio dissoluti) degli abitanti di Shiraz –, promuovendo atteggiamenti che oggi chiameremmo fondamentalisti; fu anche però il vero costruttore di uno Stato potente e florido dove l’economia e la cultura prosperarono. Ne sono un esempio i numerosi poeti che iniziarono le loro carriere sotto di lui, tra i quali merita ricordare ‘Ubayd-i Zākānī (m. 1371) e Ḥāfiẓ (m. 1390) che scrissero le loro opere durante il suo regno e durante quello piú illuminato del suo successore. Vale la pena soffermarsi su di loro brevemente: il primo scrisse delle satire, replicando col suo lavoro a quello di un altro grande poeta di epoca mongola, Sa‘dī, anche lui di Shiraz. Queste opere offrono un ritratto vivido della società muzaffaride in cui l’autore mostrò l’ipocrisia dei controllori della morale, ritrasse i contesti mercantili cittadini, e sottolineò le violenze dei caporioni turco-mongoli in uno dei migliori esempi di satira della letteratura persiana.8 La società che descrive ‘Ubayd-i Zākānī nella sua Etica dei nobili (Akhlāq al-ashrāf )9 può essere a buon diritto considerata una società allargata, “borghese”, se si intende con questo termine una classe che godeva della ricchezza diffusa derivante dai commerci e dalla produzione materiale. È una società ben diversa da quella centroasiatica, è un mondo dove la presenza persiana si manifesta in tutto il suo splendore e con tutte le sue contraddizioni. Quello stesso mondo lo ritroviamo nei ghazal di Ḥāfiẓ, anche se qui è la chiave mistico-allegorica ad avere la prevalenza. Queste liriche hanno piuttosto un carattere metaforico che trasforma i cittadini in emblematici protagonisti della caducità delle cose terrene. Esaltando amori impossibili, finiscono con lo spiritualizzare la realtà, identificando nella figura amata la divinità intangibile e irraggiungibile. Si tratta una volta di piú di quella dimensione fatale del mondo terreno in cui non si è altro che creature transitorie. 101

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Una leggenda, riportata dal memorialista Dawlatshāh, vorrebbe che Ḥāfiẓ abbia incontrato Timur durante la campagna persiana del 1387, anche se in realtà Dawlatshāh fa riferimento a un secondo ingresso di Timur nella città (1393) posteriore alla morte del poeta (1390), un errore che ci convince dell’inattendibilità della storia.10 In questa circostanza il poeta avrebbe scritto un celebre verso di fronte al conquistatore transoxiano che, spiazzato, si sarebbe infuriato: Se quella Turca di Shiraz mi prendesse in mano il cuore Samarcanda e Bukhara per il suo nero neo io darei.11

Al di là del problema dell’autenticità dell’incontro, ma il verso sembra sicuramente di Ḥāfiẓ, la storiella rivelerebbe l’inquietudine che il signore di Samarcanda (Timur) ingenerava nei Persiani. Abituati alla presenza di signori turco-mongoli, anzi si direbbe da molto tempo sottomessi a signorie non-persiane, i cittadini del cuore della Persia avevano maturato strategie comportamentali, spesso venate da un pessimismo profondo. Quello stesso che fioriva nelle dottrine dei sufi, sempre piú vive e lontane dalla dottrina ufficiale. In fondo il verso di Ḥāfiẓ riassume l’atteggiamento rindī (‘debosciato’), che si poteva osservare nei comportamenti dei malamātī (i ‘riprovevoli’), coloro che per esser piú prossimi a Dio arrivavano a compiere veri e propri scandali innanzi ai potenti – per esempio, andare in giro nudi o orinare in una moschea –, sfidando la morte e mostrando un sovrano disprezzo per il mondo terreno.12 Di questi Timur ne incontrò parecchi e spesso ne rimase impressionato,13 sebbene l’ortodossia religiosa professata da molti religiosi suoi accompagnatori (i « bigotti », un altro bersaglio di Ḥāfiẓ) lo portò in diversi casi a usare maniere molto forti contro chi risultava fuori dai dettami della dottrina ufficiale. Il caso piú eclatante sarà quello degli Hurufiti di cui si riparlerà oltre.14 2. Shāh Shujā‘ Il successore di Mubāriz al-Dīn, Shāh Shujā‘, cambiò atteggiamento riguardo all’intransigenza religiosa, ridando una certa libertà agli abitanti di Shiraz. Fu anche un patrono convinto delle scienze, delle arti e della letteratura:15 il regno che Mubāriz al-Dīn aveva esteso al Kerman, arrivando nel 760/1359 a conquistare anche Tabriz per breve tempo, si caratterizzò per l’introduzione di nuove forme artistiche e la promozione di numerose pregevoli costruzioni. 102

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Quando Shāh Shujā‘ salí al potere nel 760/1359, iniziarono numerose lotte intestine con altri pretendenti al trono muzaffaride. In particolare, Shāh Shujā‘ dovette contrastare Shāh Maḥmūd che, alleato dei Jalayiridi, arrivò a prendere anche Shiraz nel 767/1362, ma la stessa città ritornò a Shāh Shujā‘ grazie al sostegno della popolazione e delle sue élite.16 Il che indubbiamente dimostrava un raro riconoscimento di un sovrano da parte delle comunità urbane. Con la morte di Shāh Shujā‘, però, i giochi si riaprirono in modi piú convulsi di prima. Zayn al-‘Ābidīn, che salí al trono nello stesso 1384, dovette vedersela con due suoi cugini, Shāh Yahyā e Shāh Manṣūr, che ora gli contendevano il potere muzaffaride.17 Era l’occasione propizia per Timur per irrompere in quel regno. Come abbiamo anticipato, Timur faceva leva su una lettera inviatagli da Shāh Shujā‘ che le fonti timuridi citano collocandola nella narrazione della prima penetrazione in territorio muzaffaride, ovvero tre anni dopo la sua stesura. Questa lettera fa sorgere alcuni dubbi sulla sua autenticità: non ne parla Shāmī, autore che scrisse quando Timur era ancora in vita, che si limita a menzionare degli scambi diplomatici tra i due.18 La lettera riappare in testimonianze posteriori: a darle grande risalto è l’opera di Sharaf al-Dīn, che forse modificò un documento in cui il sovrano muzaffaride esprimeva minore entusiasmo.19 Comunque è evidente che l’ambasceria di Shāh Shujā‘ e il matrimonio di una delle sue figlie con il principe Pīr Muḥammad costituivano un pretesto per Timur. La lettera, dunque, non fa altro che confermare il progetto, definendo, per voce di Shāh Shujā‘, le aspirazioni del Signore della Congiunzione Astrale. L’intitulatio descrive Timur attribuendogli cariche altisonanti, non ultima quella di gūrkān (‘signore universale’), che con un abile escamotage era andata anche nella monetazione a sostituire l’omografo Küregen (‘genero’), che Timur si attribuiva da tempo.20 Seguiva una digressione sulla natura incostante della storia, e sugli sforzi compiuti da Shāh Shujā‘ per rispettare la volontà divina e operare nel segno della rettitudine. La lettera esaltava l’alleanza voluta da Shāh Shujā‘ ed esprimeva cosí il suo desiderio, annunciando la sua prossima dipartita: Siano dunque benedetti il regno, l’ambizione all’amicizia, la corte e i domini di quel Signore glorioso come Salomone e di rango uguale ad Alessandro! E l’ombra della sua giustizia si espanda sui popoli, per la verità del Veritiero e delle sue genti!21

E prosegue facendo riferimento a suo figlio Zayn al-‘Ābidīn: 103

tamerlano Il mio caro figlio Zayn al-‘Ābidīn – Dio mantenga il suo favore su di lui per tutta la sua vita all’ombra della vostra protezione! –, Lo consegno a Dio e a voi! e gli altri miei figli e fratelli che da sempre non vedono ragioni per lasciare la protezione del Protettore dei regni [Timur] e che so essere contrari all’idea di uscire dalla verità di quel ambizioso signore, fin quando ci sarà la benevolenza generosa e l’ampia grazia di quest’epoca e di questi luoghi, questo buon patto per la fede che è stato stabilito per loro con regola ferma, insieme ai loro accoliti, lo disporranno per il loro signore benedetto, e ne ricaveranno protezione e beneficio per le loro vicende. Di modo che il tempo remunererà le loro opere minori e quelle maggiori che nei secoli verranno ricordate. E gli invidiosi e i ruffiani che da anni desiderano la mia dipartita non avranno occasione di sarcasmo né possibilità di conquista. Sanno che il senso di ciò deriva dall’incetta di bei ricordi e di ampie riconoscenze per questo amico particolare che fu trovato con la promessa di un patto amorevole e il favore del ritiro spirituale. Ciò con la disposizione del conseguimento della prosperità, affinché esclamando la Fātiḥa,22 e altre preghiere per consentire a questo sincero amico detentore del regno la dipartita, per il quale valgano i versetti: Oh se il popolo mio sapesse! Sapesse come m’ha perdonato il Signore e tra gli onorati mi ha accolto! [Cor., 36 26-27].23 Sia dunque fermo il motto Questo è il nostro patto verso di lui, un patto con Dio nei due Mondi! che ci accompagna alla corte del Dispensatore delle Grazie, e la Verità dell’Altissimo vi benedica insieme al Profeta e alla sua famiglia gloriosa!

3. La strage di Isfahan Nell’autunno del 789/1387,24 dopo aver atteso ancora una risposta da Zayn al-‘Ābidīn e non ricevendo alcun segnale, Timur fu preso dalla collera e accusò il sovrano muzaffaride di essere vittima della corruzione (fasād) per non aver seguito le disposizioni del padre. Fu apprestato un grande esercito: Mīrānshāh doveva svolgere la funzione di governatore delle terre già sottomesse, fermandosi nei pressi di Ray con il resto dell’esercito. Timur si diresse verso il Fars. Due versi di Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī enunciano il programma: Mosse in direzione dell’eletta Iṣṭakhr Patria dei re dell’Īrān-zamīn.25

Iṣṭakhr era una celebre città della Persia, non lontano da Persepoli e Pasargadae, culle delle antiche civiltà achemenide e sasanide. Per quanto Sharaf al-Dīn abbia aggiunto sicuramente una sua pennellata al racconto,26 per 104

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dare vigore ancora alla contrapposizione Iran-Turan, è improbabile che questa terra cosí ricca di storia fosse ignota a Timur: già in epoca Salghuride, ovvero al tempo di una dinastia suddita dei Mongoli del XIII secolo, i siti antichi erano stati trasformati in edifici islamici, come la cosiddetta tomba di Ciro a Pasargadae, che era stata circondata da colonne per farne una moschea.27 Questo sito veniva chiamato Mādar-i Sulaymān (‘La madre di Salomone’), mentre Persepoli aveva preso il nome di Takht-i Jamshīd (‘Il trono di Jamshīd’) con un riferimento esplicito all’epopea iranica. Non ci soffermeremo qui sulla ibridazione delle figure di Jamshīd e Salomone che caratterizza proprio il folklore del Fars sin da epoche remote. Basterà dire che questo doveva essere conosciuto al tempo e non mancheranno in epoca timuride momenti in cui questi siti furono eletti come luoghi deputati per parate e manifestazioni di potere, con un’ulteriore identificazione in quel passato che tanta nostalgia suscitava.28 Timur entrò nel Fars dopo essere passato da Hamadan e Gulpayigan. Lo zio di Zayn al-‘Ābidīn, Muẓaffar Kāshī, che era stato messo al governo della città di Isfahan, si affrettò a venirgli incontro per fare atto di sottomissione, implorando clemenza. Timur sembrò mostrarsi soddisfatto e fece presidiare la città strada per strada, sistemandosi nel castello di Tabarruk. Qui ordinò che gli fossero consegnate le armi e i cavalli presenti nella città, poi si passò all’esazione del riscatto. Dopo aver fatto pagare i notabili fu la volta dei quartieri cittadini, dove fu richiesto il māl-i amān. Un tale Kuchapā, descritto come « fabbro » (āhangar), suonò un tamburo nella città aizzando il popolo, evidentemente già vessato dalle angherie degli esattori. La folla uccise la maggior parte dei funzionari preposti a quelle confische. Esplose la rivolta e vennero uccisi anche diversi soldati, le fonti parlano esplicitamente di una rivolta contro i « Turchi », nella quale trovarono la morte anche alcuni ufficiali timuridi.29 Infine, gli insorti riconquistarono anche le porte della loro città pronti a opporsi in battaglia alle orde timuridi. Il coraggio degli insorti di Isfahan ebbe conseguenze terribili: Timur ordinò una vendetta esemplare e malgrado le suppliche di alcune eminenze religiose di Isfahan, la disposizione fu che nulla e nessuno fosse risparmiato: Fu emesso lo yarligh [‘editto’] della vendetta: i tumān, gli hazārāt, i Ṣadajāt dovevano consegnare una certa quantità di teste degli uccisi e i tuvājī [i ‘prefetti’] del dīvān [‘l’ufficio contabile’] le dovevano custodire. Si riseppe poi da alcuni testimoni che

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tamerlano molti soldati non volevano prestarsi a uccidere con le proprie mani gente virtuosa (mubāshir, ovvero musulmani). Perciò compravano dagli intendenti di giustizia le teste e le consegnavano. All’inizio una testa valeva venti dīnār kebeki,30 ma alla fine, quando tutti avevano portato il proprio quantitativo, il prezzo era sceso a mezzo dīnār per testa e nessuno piú ne comprava. Chiunque incontrassero veniva ucciso sul posto e chi, per grazia di Dio era sfuggito di giorno, la notte pensò di fuggire. Siccome aveva nevicato costoro lasciavano le proprie impronte sulla neve, facendosi cosí scoprire dagli inseguitori carichi d’odio che tiravano fuori i fuggitivi da ogni luogo nel quale si erano nascosti, per giustiziarli con la spada della vendetta.31

Le teste ricavate da questo macabro bottino furono settantamila.32 Con esse vennero eretti numerosi minareti in diversi luoghi della città, realizzati unendo quei trofei con della malta in modo da restare in piedi a lungo (6 zi l-qa‘da 789/18 novembre 1387).33 Sharaf al-Dīn non riesce a nascondere l’orrore per questo spaventoso carnaio, ma come al solito una certa morale fatalista e una spiegazione astrologica bastano a giustificare l’atrocità dell’eccidio.34 Shāmī parla di una manifestazione del giorno del giudizio.35 La versione del massacro di Isfahan fornita da Ibn ‘Arabshāh è invece, ovviamente, diversa da quella delle fonti persiane: innanzitutto è collocata cronologicamente dopo la morte di Shāh Manṣūr nel 1393. Inoltre, la strage sarebbe stata la conseguenza di una rivolta voluta da un comandante (forse ‘il loro governatore’, ra’īsuhum) che avrebbe lui suonato il tamburo. La rivolta portò secondo l’autore arabo all’uccisione di seimila timuridi, cosa che causò l’atroce vendetta di Timur; questo racconto include infatti un’orrenda strage di bambini promossa da Timur stesso. Radunati su una collina per sfuggire alla morte, sarebbero stati raggiunti da Timur con i suoi che li avrebbero schiacciati sotto gli zoccoli dei loro cavalli.36 4. Shiraz si arrende senza combattere L’arrivo di Timur a Isfahan creò il panico nelle città del Fars. In questo frangente, però, si può percepire a pieno lo spirito conflittuale che divideva la famiglia muzaffaride dopo la morte di Shāh Shujā‘. Zayn al-‘Ābidīn, signore di Shiraz, pur nominato come successore sul trono muzaffaride da Shāh Shujā‘, aveva con il cugino Shāh Manṣūr un contenzioso che si rivelò molto controproducente se lo si vede retrospettivamente. Con l’in106

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tento di fuggire a Shushtar, città del Khuzistan (Iran sud-occidentale), venne imprigionato da Shāh Manṣūr che aveva eletto quel luogo come sua capitale.37 Infatti, quando Zayn al-‘Ābidīn giunse a Kazirun con il proprio esercito, Shāh Manṣūr non ebbe difficoltà a farlo prigioniero, dopo aver convinto i suoi soldati ad abbandonarlo e a passare nel suo esercito. Nelle fonti timuridi la fuga di Zayn al-‘Ābidīn è vista come un segno di ingratitudine, essa però mostra la fragilità e l’assenza di carisma di questo sovrano, privo sicuramente delle doti del padre. Mostra anche la determinazione di Shāh Manṣūr che non esitò, una volta imprigionato il re nella fortezza di Salasil, a punire i suoi soldati, rei di avere tradito il loro precedente signore e di appropriarsi del tesoro che Zayn al-‘Ābidīn si era portato appresso.38 A differenza di Zayn al-‘Ābidīn, Shāh Manṣūr era un uomo molto determinato, contava probabilmente sul fatto che l’altro contendente al trono muzaffaride, il fratello Shāh Yahyā, avrebbe contrastato l’invasore. Ma la cosa non avvenne.39 Shāh Yahyā accolse Timur, che si trovò innanzi ai maggiorenti locali terrorizzati dopo aver visto di cosa fosse capace. La situazione era ideale per Timur: gli avversari divisi tra loro e Shiraz, cuore del Fars, che si arrendeva senza rivolte né pericoli di sorta, con gli abitanti che accettarono subito di pagare 1000 tūmān kebeki (ovvero 10.000 dīnār) pronunciando la khuṭba in nome di Timur. Era un successo della “strategia del terrore” e, nel contempo, l’ennesima riprova della disinvoltura con la quale Timur sapeva sfruttare le rivalità interne dei suoi nemici.40 Oltre a vari principi muzaffaridi, guidati da Shāh Yahyā e da un fratello di Shāh Shujā‘, Sulṭān Aḥmad, signore di Kirman, si sottomisero diversi signori persiani come gli atabeg del Piccolo e Grande Lar, che si precipitarono a omaggiare il conquistatore. Di questi ultimi, Sharaf al-Dīn si affrettò a sottolineare le nobili origini turaniche (uno di essi sarebbe stato un discendente di Gurgīn Milād, eroe mitico dell’epica firdusiana). La conquista del Fars rappresentò un evento di grande portata, Timur credette di aver completato la sottomissione della Persia: ciò lo indusse a far compilare dai munshī (‘segretari’) dei fatḥnāma (‘editti di vittoria’) che vennero diffusi in tutte le terre dei domini timuridi perché venissero letti nelle khuṭba pronunciate nelle moschee.41 Ma la conquista della Persia era solo agli inizi: la figura piú importante della famiglia muzaffaride, Shāh Manṣūr, era nei suoi domini dell’Iraq persiano e altri nemici tentavano di trarre vantaggio da quella lunga assenza da Samarcanda di Timur. Toqtamish, infatti, insidiava la stessa Transoxiana con una coalizione di principi 107

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mongoli: dopo aver superato il confine stabilito a Sighnaq, essi assediarono Sayram. Non riuscendo a prendere quella piazzaforte dilagarono a meridione, nel territorio timuride. Da Andijan nel Ferghana, il primogenito di Timur ‘Umar Shaykh tentò di contrastare le varie ondate dell’esercito dell’Orda d’Oro, alle quali si aggiunsero quelle di un nuovo attore sulla scena centroasiatica, Engke Tura, proveniente dal Moghulistan.42 Impegnato su diversi fronti, ‘Umar Shaykh mostrò la debolezza dei presidi assegnatigli da Tamerlano. A Chulak, non distante da Otrar, le forze di ‘Umar Shaykh furono sconfitte e lo stesso principe reale rischiò di essere ucciso dopo essersi trovato a combattere isolato dai suoi. Il grosso dell’esercito dell’Orda d’Oro, guidato da Toqtamish e con l’aiuto dei signori di Corasmia, dopo aver passato Tashkent e aver devastato la Transoxiana, pose l’assedio a Bukhara.43 Impegnato contro Engke Tura, ‘Umar Shaykh non fu in grado di contrastare Toqtamish. Quando le notizie giunsero a Shiraz, Timur fu obbligato a lasciare la città, dove nominò Shāh Yahyā governatore. Isfahan fu consegnata al figlio di quest’ultimo, Muḥammad, mentre Kerman venne riconsegnata a Sulṭān Aḥmad, fratello di Shāh Shujā‘. Dopodiché, alla fine del mese di muḥarram del 790/gennaio-febbraio 1388, Timur prese la via di Samarcanda.44 Giunto nella città ordinò il processo contro quegli emiri che non avevano saputo contrastare l’arrivo di Toqtamish: a uno di loro, Berat Khwāja Kukeltash, che si era mostrato poco combattivo, fece tagliare la barba, tingere la faccia con della biacca, vestendolo da donna per metterlo in ridicolo innanzi agli abitanti della città. Con l’arrivo di Timur, Toqtamish aveva tolto l’assedio e se ne era tornato nei suoi domini. Ma un fatto era evidente. Il controllo delle terre conquistate (la Corasmia) e dei suoi stessi domini (Bukhara) presentava molti problemi. Di lí a poco la Persia sarebbe tornata anch’essa a essere terra di conflitti interni, richiedendo uno sforzo ulteriore a Timur che vi aveva frettolosamente lasciato la famiglia muzaffaride, considerata oramai sottomessa. La conquista definitiva si sarebbe rivelata molto piú lunga del previsto. 5. La Corasmia punita La provocazione messa in atto da Toqtamish era stata sostenuta e forse voluta dal regno di Corasmia, con un disegno non difficile da immaginare: la lontananza di Timur costituiva sempre un’occasione per queste pe108

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netrazioni, come abbiamo visto in altre circostanze. Una riprova dell’alleanza tra il regno corasmico e l’Orda d’Oro era stata la fuga di Sulaymān Ṣūfī e Ilegmish Oghlan, appena Timur si era messo in marcia45. Sulaymān Ṣūfī era il sovrano che era succeduto a Yūsuf Ṣūfī, morto in una precedente campagna di Timur;46 Ilegmish Oghlan un signore mongolo dell’Orda d’Oro che aveva sposato la sorella di Sulaymān Ṣūfī e condivideva con quest’ultimo il governo del regno, probabilmente con funzioni di raccordo con Toqtamish. Timur ordinò a Mīrānshāh un inseguimento che si rivelò tuttavia inefficace, malgrado i saccheggi e il bottino preso in itinere. Quando Timur arrivò nella capitale della Corasmia, Gurganj (Urganch), a metà del 790/1388 fece deportare l’intera popolazione a Samarcanda, poi dispose di radere completamente al suolo la città.47 Malgrado Sharaf al-Dīn si affanni a dimostrare che in seguito la città fu ripopolata, essa non tornerà a essere quella di prima mai piú. Si potrà constatare che, rispetto a Isfahan, qui fu la città a essere distrutta in maniera radicale, la popolazione invece venne deportata, forse per il particolare talento dei suoi abitanti che ritroveremo in seguito al lavoro per l’edificazione della capitale. Altre città della Corasmia subirono delle devastazioni, come Kat, già duramente colpita in precedenza. Mentre Timur guidava il proprio esercito verso la Corasmia, Abu’lFatḥ e Muḥammad Miraka, quest’ultimo marito di una principessa reale, la Sulṭān Bakht, compirono un improvviso voltafaccia fuggendo anche loro, ancora forse su istigazione di Toqtamish. Inseguito dall’esercito timuride che stanziava in Transoxiana, Abu’l-Fatḥ, che voleva raggiungere il fratello, venne catturato e condotto innanzi a ‘Umar Shaykh che presidiava Bukhara. Interrogato e torturato, Abu’l-Fatḥ confessò il piano eversivo del fratello per rovesciare Timur, che oltretutto aveva compiuto devastazioni nella città di Termez, colpendo anche i territori di alcuni membri della famiglia reale. ‘Umar Shaykh si affrettò a dirigersi contro questo nemico interno che vistosi abbandonato dai suoi fuggí solo nel Khuttalan, dove il signore locale Jalāl al-Dīn si guardò bene dall’accogliere le sue richieste di protezione. Di nuovo in fuga, Muḥammad Miraka venne facilmente arrestato quando era rimasto con soli quattro inservienti e fu giustiziato in loco, senza neanche aspettare che Timur desse il suo assenso. Altri focolai di rivolta guidati da vari principi mongoli si verificarono nel Baghlan e in regioni circonvicine (in un’area oggi tra Uzbekistan e Afghanistan). Non senza difficoltà gli eserciti timuridi riuscirono a sconfiggerli: alcuni fuggirono verso il sultanato di Delhi altri furono massacrati.48 109

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Dunque, non mancavano ancora i tentativi di rivolta contro Timur. Addirittura, qui si trattava di una faida interna alla famiglia. Questa volta il presidio di ‘Umar Shaykh si era rivelato efficace ma sempre con alcune difficoltà. Durante la campagna verso la Corasmia morí anche il sovrano ciagataico fantoccio che Timur aveva insediato nel 1370 a Balkh, Soyur­ ghatmish Khān, che fu prontamente sostituito con suo figlio Maḥmūd che accompagnerà il Grande Emiro fino alla sua campagna anatolica nel 1402.49 A Samarcanda i trionfi in Corasmia vennero festeggiati con gran pompa. Timur predispose dei matrimoni collettivi, ornando come di consueto la città con delle stoffe e dei tendaggi che formavano una scenografia urbana. Il giardino detto del Paradiso (Bāgh-i Bihisht)50 fu ricoperto di tappeti e di grosse istallazioni di stoffa (i sarāparda, ‘cortina di tende’). Vennero sparse gemme e gioielli e la famiglia reale festeggiò mentre Timur benediceva i matrimoni dei suoi figli e dei nipoti con le principesse che lui stesso aveva scelto per loro.51 6. Un’altra guerra nel Dasht-i Qipchaq Toqtamish era divenuto un’ossessione. Incapace di convincere il nemico, divenuto oramai una figura di prestigio nel panorama delle monarchie islamiche dell’epoca, Timur decise di compiere un intervento decisivo. Mentre il Signore dell’Orda d’Oro si avvicinava alle frontiere settentrionali del Sir Darya. Timur abbandonava l’idea di un ritorno in Persia per avventurarsi ancora una volta verso le “steppe dei Qipchaq”, come venivano chiamate, genericamente, le terre a nord della Transoxiana.52 Era l’inizio dell’anno 790/1388, e un inverno particolarmente duro poneva numerosi problemi per il grande esercito timuride. Inoltre, Toqtamish aveva stretto diverse alleanze: Sharaf al-Dīn afferma che c’erano Circassi, Bulgari, Qipchaq, Alani, Crimeani, e genti di Caffa, e di Azak.53 Non si capisce a cosa si riferisca l’autore quando parla di gruppi nomadici, per es. gli Alani, i Bulgari e i Qipchaq, ma altri riferimenti inducono a riflettere: la comunità genovese di Caffa aveva intrapreso, dopo un periodo di conflitto, relazioni con il khān dell’Orda d’Oro tra il 1386 e il 1387, anno nel quale venne stipulato un trattato tra l’agenzia e il khanato.54 Piú oscuro appare il riferimento ad Azak, ovvero Tana, dove operavano i Veneziani (e non solo). Come è stato detto, i Genovesi volevano questi accordi con Toqtamish soprattutto per garantire la propria sicurezza:55 in questa fase non è verosi110

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mile che sostenessero l’Orda d’Oro sul campo di battaglia, né forse lo faranno mai. In seguito, come vedremo, saranno loro a promuovere una nuova alleanza, questa volta con Timur, dopo la sua campagna del 1395. L’avanzata di Toqtamish obbligò Timur a proclamare una mobilitazione generale delle sue truppe: l’esercito nemico procedeva pericolosamente verso Khujand (nell’attuale Tajikistan) dopo aver attraversato il Sir Darya.56 Raggiunto dal figlio ‘Umar Shaykh, Timur avanzò rapidamente in direzione del nemico, malgrado le numerose perplessità espresse dai suoi notabili che vedevano un rischio molto grosso in quell’impresa, soprattutto per le condizioni climatiche estreme. Timur tentò un attacco di sorpresa cercando di accerchiare l’esercito di Toqtamish con l’invio di ‘Umar Shaykh, che avrebbe dovuto aggredire le retrovie allo scopo di impedire la fuga del khān e di catturarlo. Ma l’esercito di Toqtamish fuggí rapidamente e Timur non riuscí a prendere altri che un bakhshī (‘segretario’), dal quale tentò di ricavare il maggior numero di informazioni; poi ritornò a Samarcanda nel mese di ṣafar del 791/gennaio-febbraio 1389. Quello stesso anno ripartí a caccia di Toqtamish, ma le sue avanguardie riuscirono solo a liberare la città di Sawran (odierno Kazakhstan meridionale), che era sotto assedio, mentre il khān dell’Orda d’Oro si dileguava ulteriormente. Molte nuove minacce si stavano palesando: una rivolta nel Khorasan richiedeva particolare attenzione. Sembrò piú saggio però a Timur, consigliato dai suoi emiri, occuparsi del Moghulistan, dove era avvenuto un cambiamento significativo di potere: un nuovo sovrano, Khiżr Khwāja, che operava in antagonismo a Qamar al-Dīn, era il nuovo protagonista della storia del Turkestan orientale. La resa dei conti con Toqtamish doveva essere procrastinata. 7. Fermenti nel Moghulistan Engke Tura, che calava dai regni ciagataici orientali, era inizialmente una figura oscura per i Timuridi e le cronache persiane sorvolano sulla sua provenienza. Fatta eccezione per alcune recenti ricerche,57 questo personaggio è rimasto abbastanza poco noto anche agli studiosi: il Tārīkh-i Rashīdī, ovvero la Storia di Rashīd al-Dīn Dughlat,58 un principe ciagataico del XVI secolo che ha lasciato un raro esempio storiografico delle vicende avvenute nelle steppe del Moghulistan, sorvola su alcuni aspetti della storia della seconda metà del XIV secolo, preferendo rifarsi alle scarse informazioni fornite dalle fonti timuridi. Giustamente è stato notato il contra111

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sto tra queste reticenze e il fiume di notizie (contraddittorie) divulgate con profusione dalle fonti timuridi su quanto avvenne in seguito al primo conflitto tra Timur ed Engke Tura.59 Engke Tura, come il suo contemporaneo Khiżr Khwāja, compare invece nelle fonti cinesi: è citato in una lettera inserita in un Glossario sino-barbaro di epoca Ming del 1389,60 dove viene associato a un altro oscuro personaggio Namun, detto “il genero”. Quanto a lui, ha lo pseudonimo generico di batur (baghatur, ‘eroe’). I due provenivano da un luogo denominato Qaradel e avrebbero ricevuto in eredità i territori destinati da Chinggis al suo secondogenito Chagatai. Il fatto che avessero rapporti con la dinastia Ming fa pensare a un loro ruolo nelle regioni orientali dell’ulus, in quello che si chiamava anticamente Turkestan orientale, oggi il Sinkiang cinese. Namus (Namun) è menzionato anche nel Muntakhab al-tavārīkh, da Naṭanzī, che nell’informarci di un atto di sottomissione a Timur da parte di Khiżr Khwāja, signore della parte orientale dell’ulus insieme a Yūsuf Shāh, in contesa con Qamar al-Dīn, riferisce non senza una certa ambiguità del fatto che Engke Tura e Namun erano suoi sottoposti.61 Quanto a Qaradel, sembra che la sua collocazione fosse nella Regione dei Sette fiumi (Semireče/Yeti Su), in quella che Sharaf al-Dīn chiama Qarā Tāl (‘Steppa nera’) dove questi signori ciagataici avrebbero nomadizzato.62 Khiżr Khwāja e Yūsuf Shāh si erano opposti all’ascesa di Qamar alDīn, che avrebbe usurpato il potere nell’ulus: Khiżr Khwāja era discendente diretto, infatti, di Tughluq Timur, antico signore della linea ciagataica al quale, come abbiamo visto, Timur stesso si era sottomesso all’inizio della sua carriera; Khiżr Khwāja era anche riconosciuto dai Ming, che si erano già rivolti a Timur nel 1387 e nel 1388 con due missioni che ebbero un certo peso in seguito.63 Qamar al-Dīn, che proveniva alla potente tribú dei Dughlat, aveva un piú oscuro pedigree ed era avversato per la sua brutalità e per aver in definitiva permesso ai Timuridi di intervenire pesantemente nel Moghulistan, grazie alla discordia che aveva creato. Non ultimo, pesava il conflitto tra Qamar al-Dīn e la famiglia di Tughluq Timur che aveva portato a un cambiamento profondo delle prospettive politiche nell’ulus.64 Nel 1389 i danni causati dai vari conflitti interni e dalle precedenti devastazioni compiute da Timur avevano reso molto vulnerabile l’ulus del Moghulistan. Se Engke Tura e un altro emiro, Khudāydād, non potevano aspirare al potere nella regione, potevano però sostenere degli aspiranti sovrani ciagataici e cosí fecero in qualità di kingmakers, indicando ognuno un proprio candidato: Engke Tura sosteneva un certo Gunashiri, legitti112

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mato perché discendente da Chagatai, Khudāydād preferí il figlio di Tugh­ luq Timur, Khiżr Khwāja.65 Il conflitto contro Qamar al-Dīn, dunque, era certamente giustificato dalla sua illegittimità e la lotta che ne seguí nel khanato si trasformò in una vera e propria guerra civile. L’enigmatico Engke Tura divenne, come abbiamo visto, un nemico molto temibile per Timur, quando aggredí ‘Umar Shaykh approfittando dell’assenza del Grande Emiro, impegnato in Persia. Ed è probabile che il repentino abbandono della campagna persiana di Timur per combattere questo nemico derivi anche da una volontà di intervenire pesantemente nelle scelte relative alla successione dell’illegittimo Qamar al-Dīn. Questa volta, però, Timur doveva fare affidamento completo su Mīrānshāh per mantenere l’ordine in Iran: agli inizi del 1389 ricevette ad Al Qushun, un villaggio in cui era accampato nelle steppe Qipchaq, la notizia che un membro dei Jawn-i Qurbān, Ḥājī Beg b. Ölmes, che lui aveva nominato governatore di Tus nel Khorasan, si era posto in aperta rivolta e aveva stretto un’alleanza con uno dei discendenti del defunto sarbadaride Khwāja ‘Alī, Mulūk Sabzavārī, che governava la regione di Juvayn. L’insidia rappresentata da questa rivolta era molto grande: ora che Timur aveva sottomesso Shiraz e Isfahan, il controllo del Khorasan risultava fondamentale per garantirgli il transito verso le regioni meridionali. Inoltre, Timur si rendeva conto che la famiglia di Khwāja ‘Alī, piú che i Jawn-i Qurbān, era stata un alleato fondamentale senza il quale il controllo della Persia sarebbe stato molto difficile. Mīrānshāh fu informato nel dettaglio su come procedere: raggiunta la regione con notevole rapidità, calò sugli insorti che avevano messo in difficoltà il governatore di Herat. Nel mese di jumāda ii del 791/giugno 1389, i ribelli vennero duramente sconfitti da Mīrānshāh, mentre Mulūk Sabzavārī fuggiva verso il regno di Shāh Manṣūr e un altro rampollo dei Sarbadār, Khwāja Mas‘ūd, si affrettava a dichiarare la propria sottomissione ai Timuridi, ristabilendo l’antica e proficua alleanza.66 Mīrānshāh si era rivelato all’altezza della situazione. Avere un viceré efficiente in Persia era forse il successo principale di Timur. 8. Cinque eserciti contro il Moghulistan Fu cosí che, nello stesso 791/1389, Timur poté partire per il Moghulistan, passando da luoghi difficilmente identificabili come Buribashi e Tu113

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palik Qaraq, e dal transito montano di Ornak (o Ortak, come suggerisce Barthol’d).67 Fu ordinata una caccia per poter rifornire le truppe che sembravano stremate dalla fatica e un periodo di riposo anche per permettere ai cavalli di riprendersi. Vennero catturati numerosi onagri (asini selvatici) nella pianura di Ayghir Yali (o Bali)68 e con centomila uomini Timur si stabilí nella pianura di Ulan Charliq, in un luogo denominato Chapar Ayghir,69 dove incontrò mille cavalieri di Engke Tura guidati da Ulan Bugha e Inkajik, che vennero rapidamente sconfitti. I prigionieri catturati dissero che il loro signore Engke Tura si trovava a Urung Yar. Dopo un forsennato inseguimento, Timur e il suo esercito finirono per perdersi, dimostrando che il suo avversario sapeva muoversi decisamente meglio. Questi, infatti, raggiunse le pendici del Tarbaghatai e solo con infiniti sforzi un contingente guidato da ‘Umar Shaykh riuscí a raggiungerlo a Qubaq, dove lo ingaggiò in una battaglia che proseguí nei giorni successivi in altri luoghi, verso i quali Engke Tura si spostava per sfuggire al nemico. Il suo esercito fu duramente sconfitto ancora nel deserto dell’It Ichmas, nell’Ala Köl, dopo un ulteriore scontro con quello di ‘Umar Shaykh, in cui forse trovò la morte lo stesso Engke Tura.70 In questa circostanza anche ‘Umar Shaykh dimostrò di avere raggiunto la maturità necessaria per sostenere il padre nelle sue campagne: inviati numerosi prigionieri in schiavitú a Samarcanda, Timur si ritirò a Saray Ordam, già sede dei sovrani ciagataici sul fiume Emil, dove indisse un kuriltai. Nel kuriltai fu proclamata una campagna generalizzata per la « distruzione » dell’ulus dei Jete. Il piano che venne esposto prevedeva di suddividere l’esercito in cinque armate che si sarebbero dirette verso obbiettivi diversi per smantellare lo stato nemico. Venne fatta una disamina di tutte le conoscenze geografiche di cui si disponeva, nonché si cercò di comprendere la consistenza degli avversari anche grazie ai numerosi elementi catturati, alcuni dei quali furono inglobati nell’esercito timuride. Queste colonne militari si sarebbero infine dovute riunire per raggiungere la parte settentrionale del Tien Shan, al fine di dare il colpo di grazia agli avversari. Per compiere l’impresa Timur dispose che ognuno di questi eserciti fosse guidato da persone che conoscevano le regioni dell’Impero ciagataico, elementi locali, evidentemente passati dalla sua parte e definiti dalle fonti ghajarji, o qulavuz (‘guida’).71 Il piano con costoro fu elaborato nel dettaglio: ogni emiro che comandava una delle armate veniva dotato di una di queste guide. Infine, si stabilí che il ricongiungimento degli eserci114

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ti sarebbe stato a Yulduz, non lontano da Turfan (nel Turkestan orientale) per il ritorno a Samarcanda. A ‘Umar Shaykh, e all’« esercito di Andakan » che comandava, vennero assegnati il principe ciagataico Burhān Oghlan e il nobile ciagataico Bayan Timur, figlio di Bikijik. Questo gruppo attraversò la montagna Dubshin Andur verso Qara Qocho, già centro importante della civiltà uighura nel Turkestan orientale. L’Amīr Jahānshāh, insieme allo Shaykh Bahādur, si spinse con trentamila uomini, guidati dal nawkar (lett. ‘suddito’, ma qui inteso piuttosto come ‘ufficiale’) ciagataico Sonqur, a Qara Art e Shurogluk, compiendo devastazioni. Un terzo esercito era guidato da ‘Uthmān ‘Abbās, con altri ventimila uomini e sotto la guida dell’emiro ciagataico Jalāl Ḥamīd; essi raggiunsero la città di Sughulaghan, dove pure furono compiuti raid e saccheggi. L’emiro timuride Khudāydād Ḥusaynī e Mubashir Bahādur, con ventimila uomini, raggiunsero le temibili tribú dei Bulghachi e degli Ilker, con le quali ingaggiarono violentissimi combattimenti finendo col vincere in una battaglia che durò ventiquattro ore. Infine, Timur in persona guidò il quinto esercito, dirigendosi verso l’Iligh Köl guidato sempre da un ciagataico, Kalanduji, per combattere anche lui i Bulghachi che fuggivano dalla precedente battaglia.72 In questa straordinaria campagna Timur aveva adottato un metodo nuovo. La presenza delle guide locali (i ghajarji) rivela una totale scarsità di conoscenze del territorio rivale, ma anche una capacità notevole di fare uso dei prigionieri, ora diventati parte del suo esercito con una logica tutta nomadica che prevedeva nuove alleanze con i piú forti. L’esercito infine raggiunse Khiżr Khwāja, che presumibilmente vide nel caos la propria occasione per regnare sull’ulus. Costui si arrese facendo ciò che molti dei suoi avevano fatto prima di lui: si dichiarò suddito di Timur. L’intero Turkestan veniva nel frattempo messo a ferro e fuoco dagli altri eserciti. Infine, tutti si ritrovarono a Yulduz. Qui ‘Umar Shaykh venne incaricato di recarsi alle Porte di ferro di Qahalgha (non lontano da Termez, nell’odierno Uzbekistan)73 per contrastare altre scorrerie dei Jete fuggiti verso quella regione. Ora il grande esercito, di nuovo riunito, poteva rientrare a Samarcanda con un bottino consistente soprattutto in numerosi schiavi, e con un nuovo vassallo che Timur lasciò in qualche modo sotto la custodia di alcuni dei suoi. La campagna non solo aveva avuto successo, ma aveva anche allargato l’orizzonte geografico di Timur, che dunque si era appropriato finalmente della conoscenza logistica necessaria della parte orientale di 115

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quello che era stato l’Impero ciagataico. Nel Moghulistan Khiżr Khwāja approfittò della situazione creatasi per escludere dal potere i suoi rivali e i loro sostenitori: Qamar al-Dīn, come vedremo, uscirà di scena di lí a poco. Lo stesso Khiżr Khwāja intessé relazioni particolari con i Ming, che gli permettevano di mantenere il suo potere. Engke Tura, probabilmente morto in battaglia, non costituiva piú un problema, e cosí il re che aveva sostenuto, Gunashiri, il quale si stabilí nella piú distante Hami (oggi nella parte orientale del Sinkiang), dove poter intavolare rapporti con il potente stato cinese per garantirsi la sopravvivenza.74

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VII I L N EM ICO NOMADE 1. Proiezioni estremo orientali La campagna diretta nel Moghulistan aveva allargato gli orizzonti geografici di Timur, superando la catena montuosa del Tien Shan. I suoi eserciti erano entrati in una regione che era stata di dominio cinese dal tempo delle “Quattro Guarnigioni” (epoca Tang), per poi diventare un regno uiguro significativo, spesso implicato nelle vicende cinesi. Nella campagna, condotta alla fine del 1389, il Grande Emiro finí col valicare una frontiera storica che aveva un valore simbolico particolare: superò il limes orientale stabilito al tempo delle invasioni islamiche, fissato nel 751 dalla battaglia di Talas, quando gli eserciti musulmani avevano sconfitto i Tang e fermato la loro avanzata verso occidente. Timur entrava a pieno titolo in vicende diplomatiche che coinvolgevano dunque anche il nascente Impero Ming e numerosi altri attori minori, che tentavano di trarre i propri vantaggi dall’anarchia politica nello stato ciagataico generata da Qamar al-Dīn. Come è stato notato, l’ascesa al potere di Khiżr Khwāja, consacrata definitivamente nel 1391, faceva diventare quest’ultimo un khān a tutti gli effetti, almeno in questa fase, riconosciuto a occidente da Timur e a oriente dalla dinastia Ming, con la quale si affrettò a stringere relazioni diplomatiche.1 Dal canto suo Timur aveva già inviato delle missioni nell’Impero Ming che, val la pena di ricordarlo, era nato nel 1368 dal collasso della dinastia Yuan per mano di Zhu Yuanzhang il quale presentava delle curiose similitudini con il conquistatore centroasiatico. Entrambi, con motivazioni diverse, e a pochi anni uno dall’altro, avevano contrastato le precedenti potenze mongole, accettando infine di avere uno stato che molto si rifaceva a quel passato2 Una prima oscura missione timuride sarebbe giunta in Cina il 2 ottobre 1387, come attestano i registri Ming, che riferiscono di Timur definendolo « genero » ( fuma) del sovrano, ovvero usando la sua titolatura nel senso piú corretto. La spedizione guidata da quello che i Cinesi chiamano Manla Hafeisi (Mullā Ḥāfiẓ) avrebbe portato quindici cavalli e due cammelli come « tributo ».3 Una seconda delegazione avrebbe raggiunto 117

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la Cina il 15 ottobre del 1388, guidata da un certo Tāj al-Dīn, ed era composta da 59 persone. Questa volta con trecento cavalli e due cammelli. Seguirà una terza ambasceria nel gennaio del 1390 con 670 cavalli. Se ci si attiene alle fonti cinesi, è probabile che l’intermediazione per questi tributi sia stata svolta da Khiżr Khwāja, presso la corte Ming.4 Il fatto che non restino tracce di queste ambascerie nelle fonti timuridi lascia pensare che esse si rivolgessero con un atto di sottomissione al sovrano Ming. Una strategia mirata ad accattivarsi quella potenza in ascesa nel momento in cui ci si sarebbe dovuti avventurare negli insidiosi territori del Turkestan orientale. D’altronde Timur, nel riconoscere Khiżr Khwāja, riabilitava in qualche modo Tughluq Timur, che aveva conosciuto ai tempi dei suoi esordi politici e di cui era stato anche vassallo. Ora che era Khiżr Khwāja il vassallo si ribaltava la situazione e si può supporre che nella mente di Timur la cosa costituisse una ragione di trionfo personale. Da questo momento le relazioni diplomatiche con i Ming diventeranno piú intense. Alla fine del 1389, però, Qamar al-Dīn era ancora in vita il che costituiva indubbiamente un problema. Durante il suo ritorno, Timur, dopo aver festeggiato i suoi trionfi con delle cacce in cui faceva un uso simbolico di rapaci, nonché aver maritato la figlia Sulṭān Bakht5 con il principe dughlat Sulaymānshāh, ascoltò anche il rapporto di Mīrānshāh sulla sua missione persiana, che reputò positiva nei suoi esiti.6 Infine giunto a Samarcanda proclamò un grande kuriltai ad Aq Yar, non lontano da Kish, nella primavera del 792/1390. Fu deciso che Sulaymānshāh e diversi altri principi dovessero recarsi nel territorio dei Jete, ossia nuovamente nel Moghulistan. Costoro partirono per la Semireče all’inseguimento di Qamar alDīn. Una volta individuatolo, oltrepassarono l’Irtish, raggiunsero il lago Balkash (Atrak-kul, ‘Lago dei Turchi’, nelle fonti persiane),7 ma spossati si limitarono a incidere i propri « sigilli » (tamghā) sugli alberi delle foreste di quell’area per segnalare che erano arrivati sino a lí. Qamar al-Dīn si eclissò nell’Altai. Impossibilitati a raggiungerlo, i Timuridi tornarono a Samarcanda.8 Malgrado l’insuccesso di questa spedizione, che non fu coronata dalla cattura del fuggitivo Qamar al-Dīn, sembrerebbe che la vicenda storica di quest’ultimo si sia conclusa con quest’ennesimo inseguimento nelle steppe. Abbandonato dai suoi e con Khiżr Khwāja oramai legittimato a governare, l’ “usurpatore” dell’ulus ciagataica usciva di scena definitivamente. 118

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2. Le steppe dei Qipchaq La sottomissione dei Jete si rivelò alla fine meno disagevole di quanto previsto: la parte orientale dell’ex-ulus ciagataica era ora controllabile, cosí la Semireče nella quale Timur e i suoi si erano avventurati non senza iniziali difficoltà. Inoltre, le nuove relazioni diplomatiche con i Ming, e dunque con la signoria di Khiżr Khwāja, coincidevano anche in fin dei conti con una apparente sicurezza nel controllo territoriale. Ben diversa era la situazione nel Dasht-i Qipchaq (la ‘Steppa dei Qipchaq’). Questo nome, anch’esso usato (analogamente al termine Jete) come una diminutio capitis, si rifaceva al passato pre-mongolo della regione, quando le steppe russe, fino ai Balcani e parte dell’odierno Kazakhstan, erano state appunto abitate dai Qipchaq, ovvero quelli che gli Europei chiamavano Cumani e i Russi Polovci.9 Le invasioni mongole, e in particolare l’espansione che si concluse nel 1241, portarono alla dispersione dei Qipchaq: alcuni arrivarono sino in Egitto, dove poi formeranno la dinastia Mamelucca, altri negli stati europei e taluni persino in Transoxiana. Se ne trovano tracce nello stesso esercito di Timur, è il caso dell’emiro ‘Abbās Bahādur.10 In queste steppe Qipchaq dominavano ora le forze dei discendenti di Jöchi, con le varie orde che abbiamo già incontrato: trattandosi di un territorio vastissimo (in gran parte disabitato), esso ospitava numerose altre popolazioni principalmente nomadi e aveva sulle rive di alcuni fiumi i suoi centri principali, in particolare il Volga, che le fonti persiane chiamavano, con un nome turco, Itil, o ancora l’Ural, noto come Iayik o Zhajyk, e infine il Dniestr, conosciuto con l’antico nome scitico Tura, o Turba. Si trattava di un territorio estesissimo che includeva a occidente quella che poi sarà chiamata la Grande Russia, con le signorie di Mosca, Tver’, Vladimir e Suzdal’, e quella di Nižni Novgorod. Tutti questi potentati riconoscevano in modi diversi Toqtamish. A oriente, la Piccola Russia, ovvero l’odierna Ucraina, costituiva un vasto territorio e i domini di Toqtamish arrivavano all’odierno Kazakhstan, fino a quella frontiera segnata dai siti di Sighnaq e Sayram (Sawram) coi quali abbiamo già familiarizzato. In questa estesa regione del mondo, Toqtamish era riuscito a formare un suo stato potente soprattutto dopo aver contrastato il rivale Mamai che, fuggito a Caffa in Crimea, fu eliminato dai Genovesi nel 1380.11 Dopo aver devastato Mosca nel 1382, riprendendo il terreno perduto dall’Orda d’Oro nei confronti dei Russi, Toqtamish stringerà rapporti col granduca di Lituania Vytautas (Vitovt, Witold) che dopo l’unione di Kravo tra Li119

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tuani e Polacchi (1386) aveva acquisito una posizione di rilievo in quello scenario.12 Si può dunque sottolineare che quella che per i Timuridi era una terra incognita in realtà era molto famigliare a Toqtamish, il quale andava consolidando con energia quel potere che i predecessori mongoli avevano perso nell’area a partire dalla seconda metà del Trecento. Per affrontare questo nuovo conflitto, Timur poteva contare su alcuni elementi qipchaq presenti nel suo esercito, che chiamava in alcuni casi anche turcomanni proprio per le loro caratteristiche di nomadi delle steppe, ma aveva problemi logistici assai maggiori di quelli incontrati nella parte orientale dell’ulus ciagataica per l’oggettiva estensione del territorio che mai nessuno dei suoi aveva percorso in precedenza. Questa campagna contro Toqtamish durerà 11 mesi (dall’inizio alla fine del 1391), costringendo l’esercito timuride a estenuanti traversate in alcuni casi di interi mesi, spesso senza trovare cibo e in condizioni meteorologiche a volte davvero proibitive. Ma la sottomissione di Toqtamish era divenuta una priorità: crescendo la potenza del rivale, l’autorità di Timur veniva messa essa stessa in discussione. Inoltre, a Mosca nel 1382 Toqtamish si era dimostrato capace della stessa ferocia di Timur, con una determinazione che non aveva apparentemente piú nulla a che fare con le antiche debolezze mostrate ai tempi dei suoi esordi. Ingenuamente la popolazione della città aveva avuto la malaugurata idea di aprirgli le porte e le conseguenze furono devastanti: oltre al massacro dei notabili che in processione si erano recati innanzi a lui per dichiarare la propria sottomissione, le devastazioni portarono alla distruzione della città, inclusi i numerosi libri sacri portati dai paesi circonvicini al fine di « salvarli » dalla furia mongola.13 3. Toqtamish cerca di nuovo un accordo La campagna militare in questi territori oggi appartenenti alla Russia, nei quali l’esercito di Timur, formato forse da duecentomila uomini, percorse tra andata e ritorno piú di 5000 km., viene descritta dalle fonti timuridi con toni affascinanti che evocano la migliore letteratura di esplorazione (vd. cartina n. 2). Quei territori erano conosciuti molto vagamente, si cita spesso tra le fonti islamiche piú antiche la rara testimonianza di Ibn Faḍlān, che nel X secolo descrisse il regno dei Turchi bulgari (in ar. saqāliba) sul Volga e il loro sovrano,14 ma non è affatto detto che Timur e i 120

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suoi conoscessero questa fonte. Come vedremo, l’idea di un popolo “bulgaro” stabilito sul Volga e sull’Ural era famigliare a Timur come lo era stata tra i Mongoli che si erano spinti verso occidente alla metà del XIII secolo.15 Nel 791 dell’Egira/dicembre 1390,16 o secondo altri nel 792/inizio del 1391,17 Timur decise di partire. Probabilmente colpito da una crisi malarica, rimase bloccato per quaranta giorni a Tashkent.18 Qui riordinò l’esercito con molta cura e decise di prendere con sé una sola moglie che lo avrebbe seguito nel viaggio, la Chulpān Malik.19 Ancora una volta si dotò delle sue guide (ghajarji), catturate o transfughe dalle fila dei sudditi di Toqtamish. Tra costoro comparvero tre personaggi: il primo e il secondo erano due principi mongoli chinggiskhanidi, Timur Qutlugh Oghlan, figlio di Timur Malik Khān, e con lui un altro membro della famiglia, Gönche Oghlan; il terzo era un nobile Manghit, Edigü, che avrà un grande peso in seguito. Forse anche questi tradimenti spinsero Toqtamish a inviare un atto profondo di contrizione tramite degli ambasciatori che raggiunsero l’esercito di Timur mentre si fermava a Qara Saman, a occidente di Otrar, nell’odierno Kazakhstan. Naturalmente questo dicono le fonti timuridi, che non riescono però a nascondere una certa persistenza del rapporto in qualche modo magnetico che legava Timur a Toqtamish: inizialmente il primo diede mostra di sovrano disinteresse per l’ambasciata del secondo, non attribuendole molto peso (ziyādat iltifātī nafarmūd). Il messaggio di Toqtamish era pieno di contrizione: seguendo un tipico copione, egli dichiarava di essere stato trattato come un figlio da Timur, anzi il figlio minore, con un riferimento probabile al ruolo determinante dei figli minori (secondo la pratica dell’ötchigin). Se i suoi comportamenti erano stati scorretti e sleali, ciò dipendeva eminentemente dai cattivi consiglieri e dalla perfidia di alcuni che lo avevano portato a compiere certi passi. Ora Toqtamish chiedeva indulgenza e prometteva di sottomettersi, dichiarando che non avrebbe mai piú messo un piede fuori dalla via dell’asservimento e neanche si sarebbe ritratto dall’obbedienza.20 Timur avrebbe risposto facendo mostra della sua « magnanimità ». Questo passaggio presente nello Ẓafanāma di Sharaf al-Dīn è ovviamente molto manieristico e ricalca alcuni tropi storiografici molto usati per mostrare una sorta di clemenza cesarea che sicuramente non corrisponde a come andarono realmente i fatti. Cionondimeno non mancano aspetti vagamente verosimili: a cominciare dal tentativo pur estremo di ricostituire un 121

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quadro mongolico, cosa che per altro era già avvenuta per l’ulus ciagataica, dove Timur era riuscito a rovesciare l’usurpatore Qamar al-Dīn per il piú “legittimo” Khiżr Khwāja. Ricordando il passato, Timur afferma: Venne a cercarci coperto dalle ferite inflittegli dai nemici e affranto. Come è noto a chi sa le cose, lui fu accolto tra i miei figli come fosse un infante della mia corte. Per lui apprestai un esercito contro Urus Khān e per la stessa ragione misi a disposizione quell’inverno diversi cavalli, soldati, ricchezze e denaro ingente. Mi adoperai allora per sostenerlo e attrezzarlo, tanto che infine conquistai per lui un regno separandolo da quello di Urus e glielo consegnai. Lo resi cosí potente che affermò il proprio dominio sul trono dell’ulus di Jöchi, grazie alla munificenza di Dio Altissimo che per mano mia agiva. Lo sostenni con parole affettuose e compassionevoli, quelle che si rivolgono a un figlio. Mi chiamava padre ma quando consolidò il suo potere e si sentí sicuro della sua forza e della sua grandezza? dimenticò presto i doveri della gratitudine e della benevolenza e non si attenne agli obblighi filiali. Quando poi invademmo l’Īrānzamīn e fummo occupati con la conquista del Fārs e dell’ ‘Irāq, si mise in rivolta e inviò i suoi eserciti nei paraggi dei nostri regni compiendo distruzioni. Cionondimeno non valutammo di togliere ancora l’ombra del nostro favore, pensando che il suo sconsiderato operare derivasse dalle compagnie spudorate e dai loro intrighi. Per il vino dell’arroganza aveva perso il senno e non distingueva piú il vero dal falso. Una volta condusse un esercito da cui spedí un’avanguardia che entrò nelle nostre province. Appena ci siamo mossi contro di lui fuggí talmente in fretta che non vide neanche da lontano le nostre nere schiere. E ora che è venuto a sapere della nostra grandezza, si sente impotente e chiede venia, implorando di stringere un accordo, come abbiamo piú volte fatto con lui passando sopra a patti e promesse disattese. Ma è nostra volontà, con la composizione degli eserciti e l’ausilio del sostegno di Dio, arrivare a completare i nostri intenti. Affinché si sappia qual è la volontà del Creatore! Ritorna dai tuoi! Ché ora noi veniamo a loro coi nostri eserciti, ai quali non potranno resistere e li cacceranno dalla lor terra miseri e disprezzati (Cor., 27 37). Tuttavia se dice il vero e chiede la pace, deve mandare da noi il suo ministro ‘Alī Beg, perché sia concordata la pace nel modo piú acconcio.21

Timur però non perse tempo, ordinò un kuriltai il 18 di rabī‘ i del 792/21 febbraio del 1391 nel quale onorò gli ambasciatori stranieri con delle vesti di gala (khil‘at) che vennero assegnate loro solennemente. Dopodiché l’esercito ripartí, tenendoli con sé prigionieri, in direzione delle steppe, e dopo aver oltrepassato Yassi, Karachuk, Sayram, avanzarono in territori aridi e desertici per due settimane.22 122

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4. La stele di Karsakpay I soldati di questo enorme esercito arrivarono spossati sulle rive del fiume Sariq Uzen (oggi Sary Su, in Kazakhstan) dove poterono rifornirsi di acqua, anche se poi il fiume stesso fu attraversato con grandi sforzi dato che era straripato, allagando l’area. Qui due attendenti di Edigü, approfittando del trambusto, fuggirono attraverso il deserto per raggiungere Toqtamish Khān, e malgrado Timur li facesse inseguire non riuscí a catturarli. Erano passati tre mesi, nei quali erano stati coperti all’incirca settecento chilometri. Infine, superato il Bikichik Dagh (la ‘Montagna Piccola’), raggiunsero l’Ulu Dagh (la ‘Montagna Somma’, oggi Ulytau), una catena montuosa ricca di fonti idriche (il sito di cui si parla è l’Altinshoky, non lontano dall’Odierna Karaganda). Qui, salito sulle montagne, Timur invitò i suoi manovali a incidere su delle pietre il suo nome per lasciare una memoria dell’evento: Shāmī compara questa impresa, nel suo racconto, a quelle dell’eroe iranico Jamshīd.23 Nel 1940 lo studioso sovietico Nikolaj Poppe pubblicò un’iscrizione che era stata rinvenuta nel 1935 dal geologo Kanysh Satpayev nella miniera di Karsakpay. Si trattava di una grossa lastra di basaltite nera sulla quale era riportata una duplice iscrizione in arabo e in lingua turca ciagataica (in caratteri uiguri), probabilmente frammento di una superfice piú estesa andata perduta. L’iscrizione suscitò scalpore e fu trasportata all’Hermitage. Ancor oggi costituisce una testimonianza molto importante sulla scrittura ciagataica, nonché sull’inseguimento di Toqtamish operato da Timur.24 Se la parte araba dell’iscrizione rientra nel repertorio dossologico tradizionale in lode di Dio, il seguito offre informazioni molto significative: Nel settecentonovantatré, nel mezzo dei mesi primaverili dell’anno del montone, il sultano del Turan, Timur-Beg, giunse qui con duecentomila soldati (iki yüz miŋ cherigh) per [inseguire] il re dei Bulgari Toqtamish. Raggiunta quest’area, ha fatto erigere questo tumulo come memoriale. Se Dio (Teŋri) vorrà, farà giustizia! Dio abbia pietà per le genti della regione. Che ci ricordino nelle loro preghiere.25

Dunque, l’evocazione forse dispregiativa dei Bulgari, il testo in turco ciagataico in caratteri uiguri, la menzione di duecentomila soldati, tutto sembra essere concepito perché venga anche letto dai rivali (forse essendo l’allusione ai Bulgari dispregiativa). La stessa invocazione in arabo all’inizio e la dossologia testimoniano di questo uso doppio delle scritture e dei 123

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registri linguistici, in quella che i linguisti chiamano diglossia, fenomeno ampiamente sviluppato nel mondo timuride (ed esteso, come abbiamo detto, anche al persiano). Ma è inoltre probabile che questa rozza lapide sia stata concepita per emulare le numerose iscrizioni che i re turchi hanno lasciato sin dal VI secolo, in varie scritture, in una vasta regione che va dal Kazakhstan alla Mongolia (le piú famose sono quelle rinvenute vicino al fiume Orkhon).26 L’esercito attraversò il fiume Ilanjik (Ilek) e dopo otto giorni di marcia raggiunse il sito di Anaqarghuy. I viveri scarseggiavano tanto che i soldati iniziarono a mercanteggiare gli animali che avevano al seguito e un montone poteva raggiungere il prezzo di cento dīnār kebeki. Timur sembrò preoccupato di questi comportamenti e impose una muchlukā, letteralmente un’ ‘intesa’, di fatto un decreto che regolava l’uso del cibo.27 Nessuno avrebbe dovuto usare nell’esercito la farina per fare del pane, né altri derivati. Non si doveva cucinare, se non una miscela di orzo e di un’erba che viene chiamata nelle fonti muṭr, che prevedeva la cottura di erba appositamente essiccata e poi bollita.28 Infine Timur vide un’ultima possibilità in una battuta di caccia che avrebbe coinvolto l’esercito intero: le steppe russe, desolate e incolte, offrivano comunque molte risorse dal punto di vista della cacciagione (si vedano le antilopi saiga, chiamate nelle fonti bilan, o delle marmotte particolari che emettevano dei sibili sinistri nel cuore della notte).29 Molti di quegli animali erano sconosciuti ai soldati timuridi e risultavano esotiche creature anche per i piú eruditi seguaci di Timur. La caccia fu dunque occasione di scoperte e una specie di esercitazione militare per i duecentomila soldati affamati. Stando alle cronache, se ne ricavò un numero consistente di prede utili per il nutrimento e per fare della carne essiccata da portare appresso. 5. La battaglia sul Kandırcha Alcuni studiosi sono convinti del fatto che l’esercito timuride fosse composto da duecentomila effettivi, ciò almeno sembrerebbe risultare dall’accordo di fonti diverse tra loro – non ultima l’iscrizione sull’Ulu Dagh –,30 vi è però sempre un’esagerazione nelle affermazioni dei cronachisti e la stessa iscrizione sembra scritta per intimorire i nemici e va presa con cautela. In ogni caso, una consistente massa umana pare indicare un deciso cambiamento rispetto al passato: ora l’organizzazione segue sempre piú rigorosamente il metodo mongolo.31 124

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Timur era abilissimo a gestire il campo di battaglia, soprattutto nelle battaglie campali contro eserciti sedentari. Negli scontri con eserciti nomadi, la tattica era comune a quella impiegata dai nemici e ciò rendeva le cose piú difficili. Inoltre, le dimensioni dell’esercito timuride potevano in molti casi costituire un ostacolo piú che un vantaggio: operando in territori sconosciuti Timur doveva dare molto peso al fattore ambientale e ai rischi di scollamento, nonché, come si è notato, ai problemi di vettovagliamento di uomini e cavalli. Andrà però aggiunto che Timur, come già abbiamo avuto modo di vedere, sapeva prendere dalla sua parte elementi dell’esercito nemico che indubbiamente subivano il suo fascino, mentre v’era apparentemente forse una qualche forma di disprezzo per Toqtamish. La remunerazione dell’esercito avveniva principalmente con il bottino preso ai nemici, ma non mancavano forme particolari di pagamento, non ultime delle assegnazioni territoriali di piccola e media entità, o anche l’attribuzione di particolari posizioni a corte. In ogni caso un’attenta gestione del tesoro da parte di Timur in persona era di fondamentale importanza. In previsione dello scontro con Toqtamish, Timur affidò l’avanguardia al nipote Muḥammad Sulṭān, figlio dell’amato e defunto Jahāngīr.32 Il giovane, appena sedicenne, fu inviato a compiere un’ispezione che raggiunse il fiume Tobol, nella Siberia occidentale. Qui furono osservati dei resti di accampamenti con dei fuochi che dovevano essere spenti da poco tempo. Ma non si trovarono tracce dei nemici. Timur sopraggiunse con il grosso dell’esercito mentre altri esploratori suggerivano di andare verso lo Iayik (l’Ural). Timur attraversò questo fiume nel suo corso superiore agli inizi di giugno del 1391. La cattura di tre elementi dell’esercito di Toqtamish permise finalmente di avere notizie piú precise e di comprendere che Toqtamish era informato sulle mosse del nemico. La sua localizzazione impose al grande esercito di Timur di muovere in assetto di combattimento, non senza un rallentamento. Le fonti ci informano anche dell’importante emiro timuride, nonché « guardasigilli » (muhrdār), Eyegü, che perse la vita in battaglia quando era al comando di un reparto di avanguardia, e trovandosi isolato fu facile preda per Toqtamish.33 Questo ingenerò una certa costernazione tra i soldati timuridi che avevano avuto presagi negativi anche a causa del fatto che spingendosi verso settentrione, i soldati vedevano per la prima volta accorciarsi le giornate senza comprenderne la ragione. Per calmare i suoi Timur fece varie elargizioni e insigní diversi individui del titolo di tarkhān, 125

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che conferiva a chi lo deteneva numerosi privilegi, da quello di poter essere presenti innanzi al sovrano in qualsiasi momento, sino a quello di non essere punibili di delitti commessi per ben nove volte consecutive.34 La conoscenza dei movimenti dell’esercito di Timur permetteva a Toqtamish una strategia di ritirate e piccoli assalti a contingenti che si separavano dal grosso dell’esercito. È stato giustamente notato che la strategia del khān dell’Orda d’Oro era quella di portare l’esercito di Timur allo sfinimento e all’esaurimento delle scorte,35 ma Timur impedí all’avversario, con un’abile mossa strategica, questo modo di procedere di cui conosceva perfettamente le insidie. Dispose che ‘Umar Shaykh partisse con ventimila uomini per ingaggiare il nemico in combattimento e impedirgli di muoversi: conosceva evidentemente l’entità inferiore dell’esercito nemico. Una volta inchiodato in battaglia Toqtamish, ‘Umar Shaykh avrebbe dovuto resistere fino al sopraggiungere di Timur con il resto dell’esercito. Bloccato Toqtamish, Timur gli piombò addosso con le sue armate, suddivise in sette nuclei efficienti e autosufficienti, il 15 rajab 793/18 giugno 1391.36 Lo scontro si svolse in un sito difficilmente identificabile con precisione: Kandırcha, forse il fiume Kundurcha, tra le odierne città di Samara e Orenburg. Lí si scatenò una battaglia che durò diversi giorni con uno spargimento notevole di sangue e numerosi cambiamenti di fronte. Alcuni emiri di Toqtamish voltarono le spalle al loro khān per darsi alla fuga.37 Altri, pur combattendo con straordinaria energia, soccombettero. Infine, Toqtamish decise di prendere egli stesso il largo, lasciando l’ulus di Jöchi « in mano ai nemici e al terrore » come ci informa Sharaf al-Dīn.38 Non è chiaro se raggiunse la Georgia o il re di Lituania. Inseguito con pochi seguaci rimasti, mentre altri elementi del suo esercito si disperdevano in varie direzioni, lasciò un ingente bottino per i Timuridi: tra le cose catturate vanno segnalate le tende nomadi che venivano montate su dei carri dotati di ruote che ne permettevano il trasferimento senza necessitare di essere smontate e rimontate.39 Moltissimi schiavi e schiave di particolare bellezza furono spartiti tra i vincitori per essere poi deportati a Samar­ canda.40 Ai tre transfughi dell’esercito di Toqtamish, Timur Qutlugh, Gönche Oghlan e Edigü, che avevano anche combattuto a fianco delle truppe timuridi, furono accordate le regioni richieste nell’ulus di Jöchi; vennero poi lasciati ripartire con la promessa di un loro futuro ritorno, promessa che solo Gönche Oghlan rispettò.41 Le avanguardie timuridi invece cor126

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sero all’inseguimento dei sopravvissuti raggiungendo il Volga e spingendosi anche oltre, sebbene è fortemente improbabile che siano arrivati sino a Tana (Azaq) o a Ḥājjī Tarkhān (Astrakhan).42 Dopo vari festeggiamenti e festini tenuti nelle steppe russe, il grande esercito finalmente tornò in Transoxiana nel mese di zhi’l-qa‘da del 793/ottobre 1391. 6. Una rara testimonianza figurativa della vita nella steppa Per avere un’idea della vita quotidiana negli accampamenti timuridi che attraversarono le steppe ci si può rivolgere a un repertorio iconografico molto raro quanto straordinario. Si tratta di una serie di immagini che sono sopravvissute in due album particolarissimi, conservati presso il Museo del Topkapı Sarayı (Hazine 2153 e 2160) che prendono il nome dal loro ultimo proprietario, Ya‘qūb Beg (r. 1478-1490), sovrano degli Aq Qoyunlu che raccolse insieme un certo numero di raffigurazioni dipinte su carta e su seta. Passati agli Ottomani nel XVI secolo come bottino di guerra, questi due album costituiscono una raccolta tra le piú curiose e affascinanti espressioni dell’arte centroasiatica e iranica orientale del XIV e degli inizi del XV secolo. Si tratta di un insieme di opere di vari artisti realizzate in periodi diversi. Attribuite nel passato a un unico illustratore denominato Siyāh Qalam (‘Calamo’ o ‘Pennello nero’), sono state piú di recente suddivise in gruppi, sia per la tecnica d’esecuzione che per i soggetti, anche se in molti casi alcuni artisti dei primi del XV secolo hanno significativamente ripreso le tematiche raffigurate da quelli precedenti risalenti a un periodo imprecisato del XIV.43 Un gruppo di queste pitture, il piú antico, sembrerebbe risalire al periodo in cui visse Timur, anche se non è assolutamente possibile né corretto fare un’associazione diretta tra di esse e il sovrano centroasiatico. Un fatto, quest’ultimo, avvalorato dalla totale assenza di codici miniati illustrati contemporanei attribuibili all’ambiente della corte di Timur stesso, mentre numerose sono le sopravvivenze artistiche posteriori realizzate nelle varie corti timuridi. Definiremo per comodità questo gruppo piú antico di opere come quelle di Siyāh Qalam, ben coscienti del fatto che questa attribuzione fu fatta posteriormente apponendo sui codici una firma che indicava forse piú una tecnica che non un artista preciso. Si tratta di una singolarissima raccolta, unica nel suo genere, di immagini riportanti fondamentalmente due tipi di scene: da un lato delle raffigurazioni della vita nomade, dall’altro delle scene semifantastiche con 127

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demoni. Nel primo caso si potrà osservare un accampamento con un soldato e dei servitori nell’atto di riposare, oppure la costruzione di edifici lignei da parte di alcuni carpentieri, o ancora dei personaggi che lavorano, pestando in un mortaio e mescolando in un secchio del materiale. Diverse figure di asceti, anch’essi evidentemente coinvolti nella vita nomadica, sono raffigurate nell’atto di compiere rituali estatici o sembrano mendicare come erano soliti i kalāntar, o, per dirla alla persiana, i dervisci che praticavano vita errante vivendo di ciò che veniva loro donato. Una donna velata stringe a sé dei bambini petulanti mentre un asino mangia e, nel contempo, defeca. In molte miniature compaiono animali e in alcune di esse dei personaggi tengono in mano delle tavole che hanno fatto supporre che queste immagini illustrassero delle narrazioni, probabilmente anche comiche di scenette di vita comune. D’altronde non sono rappresentati dei nobili, ma della gente del popolo, cosa rarissima nell’arte islamica del periodo. In una di queste scenette un uomo fa brillare una sorta di fuoco d’artificio; in un’altra due uomini tengono in mano un filo a piombo per compiere una misurazione. Quanto ai demoni, si noterà il loro aspetto particolarmente caricaturale, mentre digrignano denti acuminati e rapiscono uomini o animali, oppure compiono diabolici balli con degli enigmatici panni annodati che volano per aria. In essi si può certamente intravvedere un elemento buddhista transitato nell’arte centroasiatica dal mondo uighuro, dove permanevano i residui della tradizione manichea e del culto del Buddha Maythreia,44 probabilmente per il tramite del sufismo e con la mediazione della tradizione persiana dei dīv (‘demoni’), ma forse anche gli spettri interiori che dominavano lo spirito dei Timuridi, come a voler esorcizzare la violenza estrema alla quale ognuno partecipava quotidianamente. 7. Pīr Muḥammad viceré d’Afghanistan Quando il convoglio arrivò nella piana di Aqar nei pressi di Kish, Timur diede un’udienza ufficiale in cui fu disposto che il governo dell’imponente regno che era stato di Maḥmūd di Ghazna, estendentesi da Ghazna a Kabul, fino a Qandahar e alle frontiere indiane, fosse attribuito a un altro figlio di Jahāngīr, il diciasettenne Pīr Muḥammad (1374-1407).45 Tale attribuzione comportava molti aspetti significativi, da un lato preconizzava la campagna che si svolgerà in seguito verso l’India, anticipando con questa mossa quella futura impresa.46 L’intento era di riprendere le 128

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attività di conquista rivolte verso il subcontinente che non erano riuscite ai signori ciagataici. Il riferimento a Maḥmūd di Ghazna intendeva anche riproporre le imprese del maggiore sovrano della storia persiana medievale dell’Islam orientale, di cui Timur si rivelerà un emulo convinto.47 Vi era poi un altro aspetto di rilievo: durante la campagna contro Toqtamish era stato assegnato un esercito al giovanissimo Muḥammad Sulṭān, anch’egli figlio di Jahāngīr e fratellastro di Pīr Muḥammad. Ora una posizione di rilievo (anche se non ben definita, nelle fonti), che chiameremo per comodità di “viceré”, veniva assegnata a quest’altro membro di quel ramo famigliare. La scelta non era casuale e sembra dimostrare le volontà di esaltare due rampolli del ramo prediletto da Timur, quello di Jahāngīr, che discendeva da una principessa ciagataica, confermando l’adozione di una discendenza matrilineare da parte di Timur.48 Questo fatto escludeva gli altri figli di Timur che non avevano un pedigree di eguale nobiltà, essendo le loro madri delle concubine; era un’ipoteca sulla successione che vedrà sorgere numerose rivalità, alcune delle quali già quando Timur era ancora in vita. Completata questa cerimonia Timur indisse una festa per celebrare un matrimonio collettivo a Samarcanda. A Qān-i Gil, prateria deputata per gli assembramenti e le cerimonie pubbliche (nonché per le esecuzioni capitali),49 venne allestito un accampamento al centro del quale si ergeva Timur in trono, tanto da simulare, come dicono alcuni versi di Sharaf alDīn, la figura dell’eroe turanico Afrāsyāb ora disposto al centro del proprio esercito in una sorta di apoteosi araldica.50 Ora Timur sentiva che doveva tornare in terra di Persia, abbandonata da troppo tempo, per contrastare il disordine che si andava riformando dopo la sua partenza contro il Dasht-i Qipchaq. Dopo aver indetto la mobilitazione dell’esercito, partí da Samarcanda il 15 rajab 794/7 giugno 1392. Superata Bukhara, alla fine dello stesso mese fu però colto da una grave malattia che gli impedí di proseguire. Quale fosse l’indisposizione che tenne Timur in condizione di non muoversi fino alla fine di luglio non è dato sapere. Da questo momento in poi, tuttavia, dei malesseri temporanei si ripresenteranno spesso, molti dei quali legati alle sue ossa, il che ha fatto supporre che soffrisse di una forma di tubercolosi ossea o di artrite deformante.

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VIII S HĀH MANṢŪR E S ULṬĀN AḤMAD 1. Una seconda invasione in Persia I successi militari avevano finito col conferire a Timur un tratto titanico che indubbiamente incuteva terrore in chiunque intendesse attaccarlo. Restava però un limite nelle sue conquiste, quello di non essere capace di mantenere un presidio durevole dei territori. Il fatto di lasciare ai regnanti locali il dominio delle provincie rivelava in maniera vistosa quanto a un successo militare indiscutibile si accompagnasse un’incapacità politica vistosa che costrinse di fatto, in questa fase, Timur a compiere dei veloci quanto repentini ritorni nelle regioni già sottomesse. Non ultima pesava l’incapacità dei membri della sua famiglia a contenere le spinte numerose che nei territori conquistati riemergevano a ogni ripartenza del sovrano transoxiano. Se per compiere le campagne centroasiatiche Timur aveva dovuto contare sugli eserciti dei suoi figli, di fatto la Persia era stata abbandonata a sé stessa e non mancò il ricomporsi di scontri tra fazioni e gruppi in contesa tra loro. Questo fu certamente il caso del regno muzaffaride, che Timur aveva dovuto abbandonare frettolosamente per salvare le proprie difese settentrionali. I membri della casata si riappropriarono dei propri territori nel Fars, nell’ ‘Iraq ‘Ajami (l’Iraq “persiano”) e nel Kerman, riprendendo le contese tra i discendenti di Shāh Shujā‘, in un conflitto centripeto dove molti protagonisti si scontravano tra loro.1 In questo scenario emerse una personalità forte, sicuramente uno dei peggiori nemici per Timur in Persia: Shāh Manṣūr, che già abbiamo imparato a conoscere. Andrà notato che alcuni dei cronachisti persiani che celebrano Timur erano stati in precedenza alla corte di Shāh Manṣūr, e forse per questo ne esalteranno in maniera vistosa le doti guerriere mentre useranno parole severe per gli altri.2 Dopo la ripartenza di Timur, Shāh Manṣūr aveva assunto il controllo di Shiraz, obbligando il fratello Shāh Yaḥiyā, lí insediato da Timur, a fuggire a Yazd dopo sei mesi di governo della città.3 Shāh Manṣūr catturò l’importante snodo di Abarquh, che Timur aveva affidato al Pahlavān Muhadhdhab Khurāsānī, un comandante muzaffaride del tempo di Shāh Shujā‘, che a sua volta fu tradito dai suoi alleati e amici e finí 130

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prigioniero di Shāh Manṣūr per poi venire ucciso nella fortezza di Malus.4 Shāh Manṣūr non riuscí a prendere Isfahan, limitandosi a devastarne le periferie agricole, mentre la città restava nelle mani del cugino Zayn al‘Ābidīn, che vi era stato accolto dai maggiorenti della popolazione.5 Yaḥiyā tentò di accordarsi con quest’ultimo e con un altro cugino, fratello di Shāh Shujā‘ e signore muzaffaride di Kerman, Sulṭān Aḥmad, per contrastare le ambizioni di Shāh Manṣūr. I negoziati che seguirono nel 793/1391 a Sirjan portarono a un’unione che non serví a impedire l’ascesa di Shāh Manṣūr per le defezioni e i tradimenti, primo tra tutti quello di Shāh Yaḥiyā: Zayn al-‘Ābidīn fu costretto a fuggire da Isfahan e finí con l’essere catturato e accecato mentre raggiungeva i dintorni di Ray da un signore locale che lo consegnò al cugino.6 Shāh Manṣūr procedette poi trionfalmente verso Yazd, che venne devastata. A questo punto impose l’alleanza agli altri coalizzati per contrastare Timur. Fallito tuttavia il tentativo per le discordie interne, si ritirò a Shiraz tentando di mantenere il regno coeso e cercando il maggior numero di alleati in previsione dell’arrivo di Timur. Era questo lo stato delle cose in Persia; altri problemi sorgevano in diverse regioni, per esempio nel Mazanderan e nel Gurgan, dove, come vedremo, si consumerà l’eccidio da parte di Timur di numerosi “eretici”. Ancora una volta il controllo mai imposto con troppa decisione imponeva di ritornare « a mettere ordine », un modo di dire che ricorre nelle fonti persiane. Sharaf al-Dīn descrive l’avanzata in Persia come la « campagna dei cinque anni » (yūrish-i panj sāla), narrando l’impresa con toni roboanti, irrorati da riferimenti coranici funzionali a giustificare un’impresa bellica difficile da sostenere: unica motivazione plausibile per la conquista era quella di reprimere la sedizione interna contro chi sarebbe stato prescelto da Shāh Shujā‘, ovvero Timur.7 Fu cosí che il 15 rajab 794/7 giugno 1392 un grande esercito mosse ora verso la Persia e, ancora una volta, Timur fu colto da un malessere all’altezza di Yulduz, un sobborgo di Bukhara dove vennero organizzate preghiere collettive e grandi elemosine per implorare la sua guarigione. Timur fu anche sottoposto alle cure dei medici coordinati dal fedelissimo emiro Ḥājjī Sayf al-Dīn e dall’insieme delle mogli imperiali che si prodigarono per soccorrere il loro signore. La sua guarigione è descritta come un prodigio divino, un ulteriore elemento di forza per questo sovrano che in realtà sembra piuttosto minato da diverse sofferenze fisiche.8 Solo alla fine di luglio fu possibile ripartire. 131

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2. Le foreste del Mazanderan Il 10 di ramaḍān 794/31 luglio 1392 Timur si fermò ancora ad Amuya (l’odierna Charzhou/Türkmenabat, in Turkmenistan), situata sulla sponda occidentale dell’Amu Darya, dove finalmente poté congedare il fido emiro Ḥājjī Sayf al-Dīn perché tornasse a tenere saldo il potere a Samarcanda mentre lui si dirigeva verso la Persia. Con lui ripartivano le regine mogli, Sarāy Mulk Khānum e Tūmān Āghā, che insieme ad altre dame di corte lo avevano accudito durante quella grave e misteriosa crisi. Dopo aver attraversato il Khorasan Timur raggiunse Makhan e Abivard, e nel sito di Yassi Diyan fu celebrata la festa del sacrificio. Nei giorni seguenti Timur seguí la strada che lo avrebbe condotto nel Gurgan, regione dalla quale avrebbe potuto accedere al Mazanderan. Seguiva in questo modo il percorso delle precedenti conquiste, contemplando le terre che aveva già sottomesse. Qui l’autorevole figura del Sayyid Baraka condusse innanzi a Timur il Sayyid Ghiyāth al-Dīn figlio di Kamāl al-Dīn, che si presentava a lui facendo atto di sottomissione: si trattava del capo di una famiglia sciita che richiamava col proprio nome la discendenza dal Profeta (sayyid). Timur mostrò in questo caso di non apprezzare minimamente il loro fanatismo, a differenza di quanto aveva fatto in altri casi, per esempio con i Sarbadār. Dopo aver raggiunto e superato Astarabad, dove fu omaggiato da Luqmān Pāshā,9 si ritrovò di fronte a una foresta fittissima. Questa foresta, la foresta « ircana », dal nome della regione caspica, rimarrà proverbiale nelle descrizioni posteriori del Mazanderan per la sua impenetrabilità. In effetti, il suo disboscamento costituí una difficoltà considerevole per il grande esercito timuride che voleva raggiungere il litorale. La foresta aveva costituito durante i millenni una difesa naturale per questa regione che era stata da sempre un rifugio di eretici e fuggiaschi, ed era stata anche una delle ultime aree a convertirsi all’Islam, permettendo la sopravvivenza di un mondo iranico arcaizzante estraneo al resto dell’Altopiano.10 Una volta superato l’ostacolo l’esercito arrivò a Sari “la Gialla”, una delle piú antiche città caspiche. Lí si scoprí che il Sayyid Kamāl al-Dīn era fuggito per rifugiarsi dal Sayyid Riżā al-Dīn a Mahanasar, un incastellamento sul mare nei sobborghi del grande centro di Amol, contravvenendo agli accordi presi. Caratteristica di questa fortezza era che su un lato dava a precipizio sul Mar Caspio, inoltre una barriera naturale formata da alberi che si intrecciavano tra loro costituiva una difesa invalicabile per il 132

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sito, e quando il mare era agitato o in piena la fortezza risultava essere circondata dalle acque potenziando le difese da eventuali assalitori. Tutti i notabili della regione avevano finito col fuggire nella fortezza insieme alle loro ricchezze e lo stesso avevano fatto i mercanti che operavano sul Caspio. Superata a fatica quest’altra foresta e numerose paludi, Timur arrivò ad Amol, dove ordinò al Sayyid Ghiyāth al-Dīn di fargli venire incontro il padre. Aggiunge Sharaf al-Dīn, memore di antiche tradizioni denigratorie sul Mazanderan: E godendo la regione di malafama, e di usi e costumi depravati, quella gente impura diede mostra di tale avversione all’Islam, e ostilità alla fede, che fu proprio il figlio a dover pronunciare a Kamāl al-Dīn e al resto della gente questa requisitoria intrisa della collera [di Timur]: « La gente della tua provincia segue tutta una malvagia dottrina (bad mazhhab), non hanno una moschea, non hanno luoghi per radunarsi, e mai si riunisce per la preghiera; non assolvono i loro obblighi né mostrano interesse per le tradizioni inaugurate dal Profeta e se qualcuno si impegna a chiamare alla preghiera viene tormentato e finisce coll’essere ucciso. Falsa è la siyādat [ossia la supremazia dei sayyid] professata da queste persone, e come possono proclamarsi discendenti del Profeta (sayyidzāda)? ».11

Cosí Timur diede l’ordine di disperdere tutta l’acqua presente attorno alla fortezza travasandola altrove. Poi gettarono cataste di legna nelle paludi, un lavoro che costò intere faticosissime giornate, in cui fu rasata un’intera foresta fino ad arrivare a ricoprire una parasanga di territorio (ca. 6 km.) e il 26 di zhi’l-qa‘da 794/14 ottobre 1392 si scatenò una battaglia all’esterno del castello. Vi perdette la vita un giovane membro della tribú dei Barlas, Ḥubbī Khwāja, un muhrdār (‘portasigillo’) della famiglia di Shaykh ‘Alī Bahādur.12 Trascorsi tre giorni dopo lo scontro, il Sayyid Kamāl al-Dīn e un altro maggiorente della città, il Mawlānā ‘Imād al-Dīn, finirono col chiedere la resa, preoccupati dall’esercito che si trovavano innanzi. Timur chiese che venissero consegnati dai Sayyid tutti i loro beni e che per dimostrare la loro fedeltà ognuno di loro consegnasse uno dei propri figli. L’accordo venne rifiutato e Timur inviò tutti i barcaioli del Jayḥūn (ovvero l’Amu Darya) che si era portato appresso, con l’ordine di catturare delle barche nemiche perché assalissero con degli artiglieri (ra‘dandāzān)13 e degli incendiari (nafṭandāzān, ‘lanciatori di nafta’) quelle restanti, disposte a difesa del lato sul mare delle fortificazioni. L’attacco alle mura fu dunque facilitato dalla parte del mare e, innanzi alla moltitudine dei soldati timuridi, la 133

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fortezza finí col capitolare. I Sayyid si arresero e implorarono clemenza, che stando a Sharaf al-Dīn sarebbe stata loro accordata da Timur non senza una dura reprimenda religiosa in cui veniva pronunciata una requisitoria contro lo sciismo.14 Seguí un saccheggio sistematico del luogo e la distruzione della fortezza ridotta a un « mucchio di terra » (tūda-yi khāk). Venendo a conoscenza del fatto che vi erano ancora molti « fanatici » ( fidā’ī),15 ciò portò a una caccia all’uomo con una mattanza guidata da Shaykh ‘Alī Bahādur e da tutti coloro che avevano perso un parente in battaglia. Amul fu la sede di una spaventosa carneficina; mentre il Sayyid Kamāl al-Dīn fu deportato col figlio in battello verso la Corasmia, altri furono spediti a Samarcanda. 3. Le insidie del Kurdistan sulla via del Khuzistan Nel mese di muḥarram del 795 dell’Egira, tra novembre e dicembre del 1392, Timur fece predisporre una grande cerimonia per poter « comunicare al mondo » i suoi successi nel Mazanderan. Fece addirittura costruire un palazzo, di cui non restano tracce, a Shasman,16 non lontano da Gurgan, a est del Caspio, e richiamò le principesse reali da Samarcanda insieme a molti principi. Riconfermò diversi principi locali che lo avevano aiutato o si erano recati da lui prima dell’invasione lamentandosi di essere stati spodestati dai Sayyid. Le fonti descrivono l’itinerario delle dame di corte guidate dalla Sarāy Mulk Khānum con tutte le tappe. Per raggiungere Timur superarono persino una tempesta di neve ed ebbero varie disavventure.17 A Jilawun, infine, il corteo delle dame si riuní all’esercito di Timur per compiere i festeggiamenti nel palazzo di Shasman. Qui furono stabilite nuovamente le strategie per questa guerra persiana: ancora una volta venne prediletto il nipote Muḥammad Sulṭān, figlio di Jahāngīr, insieme al fratellastro Pīr Muḥammad, per guidare un’avanguardia (manqala) insieme all’élite dell’esercito timuride che partí all’inizio del 1393 in direzione del Fars, mentre Timur li seguiva con le sue regine madri predilette. L’esercito raggiunse in progressione Damghan, Simnan e Ray, mentre l’avanguardia arrivava a Qazvin e dava battaglia al governatore locale Shaykh Shāhsuvār, catturandolo e facendolo condurre al cospetto di Timur. Raggiunsero anche Sultaniyya, dove era morto il governatore Aqchakī, che Timur vi aveva insediato, ed era stato sostituito da un suo sottoposto, Aznaqshāh, che pensò bene di fuggire mentre gli eserciti timuridi avanzavano.18 Da qui si spinsero nel Kurdistan (ira134

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niano) che venne devastato e saccheggiato su ordine di Timur, il quale dispose anche di sottomettere con tutti i mezzi i Curdi. Un non meglio identificato ufficiale locale li raggiunse invitandoli a prenderlo come ghajarji con la speranza di essere nominato governatore locale, cosa che fu fatta senza esitazione visto che quei territori erano ignoti ai comandanti timuridi.19 Questo permise a questa avanguardia di ottenere anche la sottomissione di signori locali, come il signore curdo Ibrāhīm Shāh, che inviò il proprio figlio Sulṭānshāh con numerosi doni e atti di sottomissione. Quest’ultimo atto fu accolto con grande favore e il ghajarji, vedendo sfumare le proprie illusioni di ottenere qualcosa per sé, uccise a tradimento mentre cenava il grande emiro Shaykh ‘Alī Bahādur,20 che era al servizio di Muḥammad Sulṭān e aveva servito Timur sin dai suoi esordi. Il ghajarji fu torturato nel peggiore dei modi e poi bruciato, cionondimeno l’atto che aveva compiuto dimostrava ancora una volta quanto complesso fosse avventurarsi in terre incognite e a quanti imprevisti si sottoponevano le avanguardie. Timur in quel momento si trovava nel Lar, in un luogo denominato Shahriyar. Decise pertanto di muovere e affrettarsi col proprio esercito verso occidente in direzione del Khuzistan, lasciando in quella regione Mīrānshāh, che avrebbe dovuto attendere il resto dell’esercito che arrivava da Astarabad, in modo tale da accerchiare i domini muzaffaridi di Shāh Manṣūr con un’avanguardia questa volta comandata da lui stesso. Si diresse perciò a Vurugird (odierna Burugird, nell’Iran centrale). Nel contempo ‘Umar Shaykh, comandante dell’ala sinistra, si diresse verso Ava, nel Laristan, e assediò la fortezza strategica di Giv. Nel febbraio del mese di rabi‘ al-akhir del 795/1° febbraio del 1393, Timur entrava a Vurugird; da lí raggiunse Khurramabad, dove il signore locale non ebbe il coraggio di opporglisi, fuggendo rapidamente. Nel Laristan delle squadre appositamente inviate compivano massacri accanendosi in particolare contro dei predoni che ne assalivano gli accampamenti. Nel frattempo, Mīrānshāh si avvicinò anche lui col grosso dell’armata e man mano che si approssimava incontrava la resa dei governatori locali, incluso quello di Kashan che obbediva a Shāh Manṣūr. ‘Umar Shaykh dal canto suo arrivò a Huveyza. Poco oltre i Timuridi poterono osservare il ponte/diga costruito dai prigionieri romani catturati dallo shāh sasanide Shāpūr I (Shāpūr-i dhu’l-aktāf, ‘Shāpūr: quello con le spalle’) quando sconfisse l’imperatore Valeriano nel 260 d.C.21 Sharaf al-Dīn descrive questa struttura, che dovette molto impressionare i cavalieri timuridi e lo stesso 135

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Timur: ventotto imponenti archi in pietra e laterizio e una struttura incredibilmente solida, all’epoca apparentemente intatta.22 Forse vi è nella descrizione una svista sulla localizzazione del sito, che in realtà si trova leggermente piú a nord di Huveyza, a Tustar (l’odierna Shushtar), città capitale di Shāh Manṣūr. In questa città, Timur non trovò il sovrano muzaffaride, e neanche i governatori ‘Alī Kutvāl e Isfandiyār che avevano preso la fuga in direzione di Shiraz, dove si trovava presumibilmente Shāh Manṣūr. Gli abitanti della città, però, non esitarono a prostrarsi innanzi ai nuovi arrivati, cosa che non li risparmiò da un saccheggio che continuò in seguito anche nelle campagne circostanti, dove soprattutto vennero catturati muli e cavalli. 4. La battaglia contro Shāh Manṣūr Da Tushtar (Shushtar) l’esercito timuride marciò verso Shiraz nel mese di rabī‘ al-avval 795/aprile del 1393. Nel suo percorso Timur fu raggiunto da numerosi signori locali che gli rendevano omaggio, come l’atabeg di Ram Hurmuz che si chiamava Pīr Aḥmad ed era il governatore del Grande Lar. Nel suo itinerario Timur attraversò diverse città del Fars. Nella via di comunicazione tra Bihbahan e Shiraz passò anche dalla Qal‘a-yi safīd (la ‘Fortezza bianca’), una cittadella fortificata in cima a un monte considerata imprendibile.23 Si trattava di un luogo autosufficiente, capace di resistere per mesi grazie alle coltivazioni e alle risorse idriche che aveva in un ampio pianoro al suo interno. Governata da un coraggioso comandante denominato Sa‘ādat (‘Prosperità’) e perciò deriso dalle fonti persiane, che ironizzano sull’epiteto poco felice, la Qal‘a-yi safīd era in una posizione molto favorevole per chi la difendeva. Il castellano (kutvāl) riuscí a resistere per piú di due giorni agli assalti nemici infliggendo anche varie perdite agli assedianti. Infine, grazie a una prodezza dell’emiro Aqbugha, i Timuridi si riversarono all’interno e catturarono lo stesso Sa‘ādat. Mentre costui fu portato al cospetto di Timur, tutti i soldati della sua guarnigione venivano gettati dall’alto delle mura della cittadella e lui stesso fu passato a fil di spada. All’interno venne trovato il principe Zayn al-‘Ābidīn, che Shāh Manṣūr teneva in prigionia, verso il quale Timur mostrò una certa magnanimità, evitando di ucciderlo anche perché la sua cecità lo rendeva di fatto un innocuo rivale.24 L’esercito ripartí con i due principi-nipoti Muḥammad Sulṭān e Pīr Muḥammad, rispettivamente all’avanguardia e all’ala destra. L’emiro 136

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Aqbugha, ampiamente premiato con una porzione consistente del bottino, fu messo al comando della retroguardia.25 Come si può notare, l’attribuzione di una posizione in campo di battaglia poteva essere considerata una promozione significativa e in questo scontro decisivo contro Shāh Manṣūr, Timur volle al suo fianco anche il giovane rampollo Shāhrukh.26 Un battaglione in avanscoperta ebbe un primo scontro con un reparto dell’esercito di Shāh Manṣūr, uscito da Shiraz in ricognizione, annientandolo, non senza catturare alcuni feriti che vennero portati al cospetto di Timur per descrivere i posizionamenti dei nemici. Arrivato in prossimità della città l’esercito nemico si presentò in assetto di guerra e con al centro Shāh Manṣūr, che si scagliò con quattromila uomini nelle retroguardie timuridi, riuscendo infine a raggiungere Timur stesso che fu colto per un istante di sorpresa. Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī, uno storico che aveva servito Shāh Manṣūr e in seguito servirà Timur, racconta questo episodio non senza una certa ammirazione per il suo antico protettore: Scatenata una pioggia di frecce, l’ala destra di Shāh Manṣūr si fissò dietro il centro dell’esercito imperiale e l’ala sinistra del Gran Signore compí anch’essa azioni gloriose, penetrando nell’ala destra del primo. Poi il Gran Signore [Timur] sconfisse le ali destra e sinistra di Shāh Manṣūr. Per quanto l’intelletto raziocinante sperimenti per giusto ciò che scioglie il dubbio e i testimoni della via retta ammoniscano che Sebbene tu sia leone, temi gli ammazzaleoni! non far il prode con gli ammazzaprodi! Il giovane cervo, per quanto coraggioso sia, è meglio che scuota la briglia innanzi al leone maschio tuttavia, come falena innamorata dalla lampada della battaglia, Shāh Manṣūr si lanciò sulle file in combattimento. Simile a leone infuriato, si scagliò su alcuni reggimenti che erano formati da Jarrāsūn [dei corpi speciali dell’esercito timuride], e subito li sbaragliò. Tuttavia, costoro non tradirono e furono rapidamente annientati per difendere il reggimento di “fedelissimi” [i vafādār, la guardia personale di Timur] nel quale si trovava lo stesso Gran Signore del Khanato. Alla fine, al Signore Protettore del Mondo non restarono piú di cinque uomini. Shāh Manṣūr con circa cinquecento cavalieri, eccellentemente armati di turcassi, e muniti di spade, lance e clave come fanatici devoti alla morte, si lanciò sul reggimento dei “fedelissimi”. Tutti arcieri, esperti in guerra, scagliafrecce, tutti combattenti sciogliferro corazzati, tutti a gettar il corpo negli abissi della distruzione, tutti a cuore aperto, bersagli in pericolo.

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tamerlano Shāh Manṣūr vibrò tre colpi di scimitarra sul Gran Signore del Khanato, ma Khumārī il yasavul e Tukel il bāvurchī si frapposero e respinsero quei colpi. Uno di essi colpí Khumārī e lo ferí lievemente; essendovi però il favore del Creatore – Memore e Vittorioso sulla faccia della terra – nessun danno toccò alla Maestà benedetta. Quando Shāh Manṣūr si ritirò dall’ala destra di questo reggimento con la guardia e il labaro, l’esercito del Protettore del Mondo [Timur] si ricompattò. Il combattimento divampò ancora, senza prendere la piega giusta, e allorché i nawkar della guardia personale si riunirono sotto la bandiera somma, Shāh Manṣūr non riuscí a spazzar via guardia e labaro. I vessilli restavano saldamente in piedi, il Gran Signore tornò e oltrepassò l’ala sinistra. Essendovi il favore del Creatore della congiunzione dell’epoca imperiale, i combattenti del Detentore della Vittoria [Timur] presero nel mezzo la guardia e l’ala sinistra di quelli e, spazzata via la catena umana che avevano formato, li sconfissero e li dispersero. Con Shāh Manṣūr rimasero una decina di uomini, che si ridussero a tre e, infine, restò solo Shāh Manṣūr, nessuno piú lo riconosceva. Aveva una freccia sul collo, una nella spalla, una scimitarra lo aveva colpito in volto e ciononostante, spada in pugno, egli combatteva. Uno tra i sudditi del Gran Signore lo disarcionò da cavallo ed egli si ritrovò a terra. Il cavallo gli rotolò appresso, cosí egli cadde a terra e perse l’elmo. I nawkar allungarono le mani sulla sua cotta di maglia: ancora non sapevano che lui era Shāh Manṣūr e lui disse: « L’uomo che cercate sono io: datemi da bere dell’acqua e portatemi vivo da Sua Maestà il Gran Signore, io sono Manṣūr ». I nawkar non prestarono attenzione a quelle parole e gli colpirono la testa nuda con un altro fendente di spada, uccidendolo. Immediatamente la battaglia terminò: non si può descriverla nel modo giusto. In questo scontro Shāh Manṣūr mostrò le arti della guerra e del coraggio a un tale grado che porterebbero all’oblio le imprese dell’epica di Rustam. Tuttavia, siccome maggior gloria era stata promessa, nella pagina della sua vita fu posto in tal modo il sigillo finale.27

Le gesta di Shāh Manṣūr sono considerate quelle di un eroe nazionale e ancora nel 1988 lo studioso Bāstānī-Parīzī le celebrava come un momento importante dell’opposizione persiana all’invincibile Timur. Lo stesso studioso, dopo aver ricordato che Shāh Manṣūr aveva fatto affidamento sulla resistenza della Qal‘a-yi Safīd, che invece non si verificò, ricorda la leggenda del calderone, ovvero riprende un aneddoto raccontato da Ibn ‘Arabashāh, secondo il quale Shāh Manṣūr avrebbe fatto legare saldamente alla coda di un cavallo selvaggio un calderone di bronzo avvolto in una tela e lo avrebbe lanciato nel campo avversario durante la notte. I soldati risvegliati dal frastuono e dalle intemperanze dell’animale avrebbero preso a uccidersi tra di loro e lo stesso Shāh Manṣūr sarebbe intervenuto uc138

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cidendone diversi altri.28 Naturalmente la cosa sembra inverosimile, ma ricalca fortemente le gesta eroiche degli antichi re e lo stesso Timur sembra, nell’opera di Ibn ‘Arabashāh, punire severamente l’uccisore di Shāh Manṣūr, artefice di un misfatto piuttosto che di un atto di prodezza. Dunque il gesto di Timur, pur osannato dalle fonti persiane, nascondeva forse una delle piú ingiuste guerre svolte da questo sovrano, lasciando una memoria ulteriormente negativa delle sue avanzate persiane.29 5. L’eliminazione dei Muzaffaridi Dopo la battaglia le porte della città vennero chiuse e si procedette all’esazione, mentre gli scribi preparavano le lettere che comunicavano la vittoria all’intero mondo islamico30. Timur stesso procedette a premiare i soldati piú coraggiosi con i premi migliori. Dal canto loro, i principi muzaffaridi dichiararono tutti incondizionatamente di sottomettersi, lo proclamarono loro sovrano nella khuṭba. Shāh Yaḥiyā partí da Yazd coi suoi figli per rendergli omaggio, cosí fece Sulṭān Aḥmad, signore del Kermān, che giunse anche lui con numerosi doni e cavalli. Arrivarono Sulṭān Mahdī, figlio di Shāh Shujā‘, e Sulṭān Ghażanfar, figlio di Shāh Manṣūr, e mentre Timur festeggiava a Shiraz bevendo vino entro coppe d’oro, giunse anche Sulṭān Abū Isḥāq, signore di Sirjan, con doni per il nuovo conquistatore. Timur, dal canto suo, nominò governatore del Fars il figlio ‘Umar Shaykh, che inaugurò perciò una lunga presenza di questa linea della discendenza timuride nella regione. Con questo gesto, il regno persiano dei Muzaffaridi veniva loro sottratto per sempre. Ora c’era un controllo diretto. D’altronde l’occasione di avere tutta la famiglia muzaffaride riunita sembrò ottima a Timur per mettere fine a questo casato, che le fonti descrivono come molto litigioso: accecamenti, uccisioni, guerre intestine venivano additate come uno dei principali motivi della loro immoralità. Cosí, il 23 di jumādī ii 795/6 maggio 1393, furono tutti arrestati e venne emanato l’ordine di depredarli dei loro beni e saccheggiare le loro residenze, mentre veniva ufficialmente insediato ‘Umar Shaykh, insieme a diversi emiri e notabili della famiglia timuride. Unici a salvarsi furono Zayn al-Ābidīn e il principe Shiblī, che erano considerati innocui perché entrambi ciechi, il primo a causa di Shāh Manṣūr e il secondo per colpa del padre Shāh Shujā‘. Ad essi Timur assegnò delle proprietà fondiarie (iqtā‘) e li fece spedire a Samarcanda, dove fece anche deportare artisti e uomini di scienza.31 Quanto agli altri, ripar139

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titi per la conquista dell’Iraq ‘Ajami, mentre erano sulla strada per Isfahan, a Qumisha (8 rajab 795/20 maggio 1393) la carovana si fermò e venne ordinato lo sterminio dell’intera famiglia muzaffaride, che fu eseguito sul posto. Altri maschi della famiglia furono uccisi a Yazd e a Kerman.32 Era la fine di una delle dinastie piú significative dell’Iran trecentesco: la fiera opposizione di Shāh Manṣūr rappresentava una prova tangibile della possibilità di opporsi a questo nemico titanico, ma le contese famigliari e i personalismi avevano di fatto impedito una seria resistenza al nemico. I Timuridi posteriori saranno profondamente debitori della civiltà muzaffaride, quella stessa aveva generato stili pittorici e artistici e sotto di essa erano stati attivi Ḥāfiẓ e numerosi uomini di lettere e di dottrina.33 Timur stesso fu avvicinato da alcuni di loro, come è il caso del famoso lessicografo Majd al-Dīn Fīrūzābādī, autore di uno dei piú importanti dizionari enciclopedici dell’arabo esistenti (il celebre Qāmūs), che incontrò il Grande Emiro in almeno due circostanze, una delle quali sembrerebbe proprio nel 1393, al momento della sua permanenza a Shiraz.34 6. Turcomanni e “pagani” nel Kurdistan Le fonti persiane, per quanto celebrative del nuovo padrone centro­ asiatico, sono molto sensibili quando si tratta della conquista dell’Impero muzaffaride e tradiscono in questa parte delle loro narrazioni molte ambiguità. Un’ambiguità in cui si riverberano le vicende stesse della famiglia timuride, coinvolta ora in una spartizione del potere in Persia. Shāmī dedica ampio spazio alla nomina di ‘Umar Shaykh come nuovo governatore della provincia del Fars,35 mentre Sharaf al-Dīn non spende che qualche parola al riguardo. Quest’ultimo concentra assai piú la sua attenzione sulla figura di Mīrānshāh, che viene nominato di fatto l’erede del regno di Hülagü, ovvero del fondatore della dinastia ilkhanide dell’Iran: a lui furono attribuiti i regni di Azerbaigian, Ray, Darband, lo Shirvan e i paesi adiacenti, fino all’Anatolia, che si andavano ad aggiungere al controllo del Khorasan.36 In questa divisione territoriale si potrà osservare un tratto saliente della percezione geografica del territorio persiano: da un lato l’irrequieto settentrione, includente il Khorasan, le province caspiche, il Caucaso e le frontiere anatoliche, assegnato al ruvido Mīrānshāh, che come vedremo non esiterà a usare tutti i mezzi per governarle; dall’altro il Fars, la regione di Isfahan e l’Iraq arabo e persiano, governati dal ramo dinastico di ‘Umar 140

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Shaykh. Quest’ultima parte della Persia medievale era riuscita a sottrarsi alla dominazione mongola grazie a un casato locale, quello dei Salghuridi, che aveva stabilito un pur problematico vassallaggio nei confronti dei Mongoli, salvando quella vasta regione dalle devastazioni.37 Con questa nuova ridistribuzione territoriale Timur aveva ristabilito gli equilibri geo­ grafici precedenti ai Jalayiridi e ai Muzaffaridi, autori questi ultimi, secondo lui, di uno stravolgimento illegittimo. La nomina a Hamadan di Mīrānshāh nel mese di sha‘bān del 795/giugno 1393, segnava però anche una svolta nelle decisioni relative alla ripartizione tra i suoi eredi: i due figli maggiori venivano di fatto esclusi dall’assegnazione di Samarcanda e del centro dell’impero. Come vedremo questo produrrà frustrazioni in seguito, con conseguenze molto insidiose per Timur stesso. Subito dopo le decisioni di Hamadan, Mīrānshāh venne subito spedito nella piana di Qulaghi, che doveva essere bonificata in previsione dell’arrivo del Grande Emiro. Nelle montagne circostanti del Kurdistan si era arroccato un turcomanno, Sāriq Muḥammad, che fermò l’avanzata del principe sul nascere, imponendo ancora una volta un intervento diretto di Timur. Arrivato in quei paraggi, l’esercito timuride compí numerosi sforzi prima di avere il sopravvento sull’avversario. Quando alla fine il nemico fu sconfitto, i soldati si lasciarono andare a un terribile carnaio. La fortezza di Habashi, dove si trovava il nucleo della difesa di Sāriq Muḥammad, venne rasa al suolo. Sharaf al-Dīn fa riferimento in questa regione a dei « ghebri » (gabr), termine in antico usato per gli zoroastriani e ora per estensione a tutti i « pagani », non è chiaro a chi si riferisca in questo caso.38 È anche possibile che qui si praticassero dei riti cristiani di un qualche genere, o persino che vi fossero degli Yazidi. Non è neanche molto chiaro a cosa si riferisca il termine “turcomanno”, né chi sia l’altrettanto enigmatico Sāriq Muḥammad, ‘Muḥammad il Predone’: probabilmente l’etnonimo cela una confusione abbastanza consueta tra Curdi e Turcomanni. Questo ulteriore ritardo allungò i tempi dell’avanzata verso il regno jalayiride. Era giunto infatti il momento di occuparsi dell’altro grande signore dell’Iran, Sulṭān Aḥmad, che era fuggito da tempo da Tabriz a Baghad. La città, come vedremo, era lo spettro di ciò che era stata l’antica capitale califfale, essa interessava Timur soprattutto perché pensava di catturarvi il sultano che era già riuscito a sfuggirgli e che, come vedremo, gli sfuggirà anche in questa circostanza. Patrick Wing è arrivato alla conclusione che l’estromissione dal dominio di Baghdad da parte di Sulṭān Aḥmad, descritta solo da fonti poco lusinghiere nei suoi confronti, che lo 141

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consideravano tirannico39 e dai costumi licenziosi,40 aveva sicuramente un peso simbolico per Timur.41 Aggiunge Wing che se da un lato Shāmī si sofferma sulla mancata emissione di conî dedicati a Timur da parte di Sulṭān Aḥmad, nonché sulla sua ostinazione a negare ogni forma di sottomissione,42 gli storici mamelucchi raccontano una storia diversa: Sulṭān Aḥmad avrebbe in effetti dato segni di sottomissione, ma sarebbe stato tradito da un a‘yān (‘notabile’) di Baghdad, che invitò Timur ad appropriarsi della città.43 7. Baghdad Nel cuore del Kurdistan, ad Aq Bulaq (un villaggio dell’odierno Kurdistan iraniano), il primo giorno del mese di shavvāl del 795/10 agosto 1393, Timur ruppe il digiuno rituale che lo aveva tenuto fermo per quasi tutto il mese di ramaḍān in quella zona. Qui ricevette un emissario di Sulṭān Aḥmad, l’autorevolissimo shaykh Nūr al-Dīn ‘Abd al-Raḥmān Isfarāynī, una delle principali autorità religiose della città di Baghdad.44 L’ambasceria fu accolta in modo molto tiepido, ma il fatto piú interessante è sicuramente l’uso di fare donazioni a gruppi di nove (tur. toquz) animali o oggetti.45 In questo caso Timur ricevette un piccolo giardino zoologico, con nove cervi (del tipo murkin, probabilmente l’elaphus maral, tipico delle regioni caspiche); nove leopardi (bārs) “cacciatori” (shikārafgān); e nove cavalli pregiati con delle selle d’oro.46 Congedato l’ambasciatore, Timur decise di “alleggerire” l’enorme convoglio, rimandando le dame di corte e le ricchezze acquisite a Sultaniyya. Preso il comando dell’esercito, Timur si avvicinò di gran carriera a Baghdad coprendo in meno di quindici giorni piú di cinquecento chilometri, in condizioni estreme determinate dal grande calore. Quando l’ultimo giorno di shavvāl del 795/9 settembre 1393 arrivò sulle rive del Tigri, Sulṭān Aḥmad aveva preso la fuga distruggendo il ponte sul fiume e affondando tutti i battelli. ‘Azīz Astarābādī, che abbiamo già visto molto critico nei confronti di Sulṭān Aḥmad, cosí descrive la conquista di Baghdad da parte di Tamerlano: Infine arrivò l’Amīr Timur, con un esercito di cavallette e di formiche il cui fracasso lambí lo zenit di Samāk [la Spica Virginis]. Un’armata i cui destrieri trafiggevano la schiena stessa di Samāk! Erano dei tali cani che bevevano il sangue dei musulmani, Ne mangiavano la carne e ovunque andavano ringhiavano

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viii · sh ā h man ṣū r e sul ṭā n a ḥ mad Erano cosí satanici da dedicarsi alla tortura degli uomini Erano dei tali ‘ifrīt che bevevano a sorsi il sangue umano Ma nessuno li proteggerà nel Giorno del Giudizio! Sono radicati nel male ed è impossibile attribuire loro delle qualità. Timur piombò sull’Īrānzamīn, e dopo aver devastato e ridotto in macerie i regni del Fārs, del Kirmān, del Khūzistān, del Māzanderān e di Isfahān, giunse da Hamadan con l’intenzione di appropriarsi del Dār al-Khilāfat [la ‘Dimora del califfato’, ovvero Baghdād]. Il 20 di shavvāl47 [795/29 agosto 1393], entrò a Baghdād come una maledizione celeste e un’improvvisa sciagura. Come un alone sulla luna e delle mosche sullo zucchero, lui [Timur] e i suoi accerchiarono questo luogo fiorente. I diavoli ciagataici s’abbatterono sul Dār al-Islām. Hanno rivolto le loro spade spargendo il sangue dei musulmani contro le loro ricchezze che hanno arraffato. E tutti coloro che individuavano li riducevano in catene per diventare schiavi e se li portavano via prigionieri. Li gettavano nelle grotte per torturarli, e colui che si opponeva rimettendosi al cielo, lo gettavano in terra e lo calpestavano come fosse la piú vile e abbietta fanghiglia. Conducevano alle proprie libagioni delle vergini che non mostravano mai il proprio viso né al sole né alla luna, stracciavano loro le caste vesti per svergognarne gli intimi segreti. Gog e Magog corrompono la nostra terra! [Cor., 18 94]. E sebbene tutti puntassero i propri sguardi sull’oro, credendo di lustrarsi gli occhi con l’argento, con i propri artigli estirparono l’aureo sole dalla volta di lapislazzuli e con i loro denti azzannarono la luna simile a ferro di cavallo, impedendo il suo alternarsi al sole. Spezzarono i ceri nelle moschee, impiccarono gli imam e distrussero i miḥrāb. Bruciarono i minbar, e le madrase divennero scuderie per i loro cavalli. Nei luoghi destinati alle lezioni e ai doveri religiosi, cantarono canzoni invece di pregare e prosternarsi. Negli spazi destinati alla scienza e alle conoscenze, strimpellarono le corde degli strumenti musicali. Non temevano il Signore né si preoccupavano dei suoi fedeli, ma erano coloro che barattano la vita terrena con l’altra e il tormento non sarà loro alleggerito, né troveran chi li aiuti [Cor., 2 86].48

Questa drammatica testimonianza, in linea con lo stile elaborato della storiografia persiana, è una testimonianza diretta di ‘Azīz Astarābādī, che racconta anche della fuga rocambolesca di Sulṭān Aḥmad attraverso la Siria. Una fuga che lo avrebbe portato poi in Egitto, sulla quale torneremo. Altri autori raccontano la propria esperienza personale al cospetto di Timur in modo differente: Shāmī, fu tra i primi cittadini a prostrarsi davanti al conquistatore: La prima persona tra i residenti di questa città che giunse a prostrarsi innanzi [a Timur] fu quest’umile servo [l’autore Shāmī] verso il quale Timur mostrò favore

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tamerlano e ordinò di averlo al cospetto della sua eccellenza per benedirlo. Gli fece delle cortesie dicendo parole benedette: « che Dio abbia misericordia per te che sei stato il primo uomo di questa città a uscire per pararmisi innanzi ».49

Non deve stupire la disparità delle versioni. Di fronte all’esercito di Timur ci si poteva salvare solo in due modi: o si fuggiva per tempo, come fece ‘Azīz, oppure ci si assoggettava completamente, come in quest’ultimo caso. Ma si può ritenere che pur imponendo il solito riscatto Timur non fu molto feroce contro Baghdad in questa circostanza: di certo avvennero saccheggi e si diede una caccia senza quartiere a quanti non volevano sottomettersi al pagamento del tributo. A dimostrazione di quanto era considerato lascivo e inetto Sulṭān Aḥmad, che era fuggito innanzi al nemico, si scatenò anche una campagna moralizzatrice: stando a Ḥāfiẓ-i Abrū, fu rovesciato cosí tanto vino nel Tigri che i pesci ubriachi galleggiavano rovesciati per la sbornia. Timur fece anche restaurare il mausoleo del venerato imam Aḥmad b. Ḥanbal, fondatore nell’IX secolo di una delle scuole di pensiero piú rigorose dell’Islam.50 A Baghdad Timur rimase due mesi interi. Qui ricevette il nipote Muḥammad Sulṭān che tornava trionfalmente da un massacro di Curdi nella regione, molti dei quali gettati dalle cime delle montagne.51 Al momento di ripartire, il governo di Baghdad venne assegnato al Khwāja Maḥmūd Sabzavarī, figlio del sarbadār Khwāja ‘Alī e suo successore. La scelta, come ipotizza cautamente Aubin, fu determinata dalla volontà di controllare la popolazione sciita della città, che certo non vedeva di buon occhio questo nuovo invasore.52 8. Sulṭān Aḥmad fugge presso il sultano mamelucco Barqūq Nella sua fuga, Sulṭān Aḥmad si diresse in un primo momento verso la città santa di Karbala in Iraq. Inseguito dalle forze timuridi, abbandonò in fretta e furia i suoi averi e persino dei membri della nobiltà e degli artisti di corte, che finirono prigionieri dei timuridi capitanati da Mīrānshāh, il quale, stando a Shāmī, nel suo itinerario giustiziò numerosi arabi e « nomadi » (Ṣaḥrānishīn), verosimilmente beduini nelle regioni di Bassora e Wasit: « Chiunque non si sottoponesse al giogo dell’obbedienza gli spiccavano dal corpo la testa e ne sequestravano le proprietà; i rimanenti terrorizzati pagavano testatico e riscatto ».53 Ma lo scopo della missione era un altro; nei dintorni di Karbala, Mīrānshāh: 144

viii · sh ā h man ṣū r e sul ṭā n a ḥ mad Eseguí l’ordine di portare a Samarcanda le donne di Sulṭān Aḥmad e suo figlio ‘Alā’ al-Dawla, con gli artisti (hunarvarān) delle diverse corporazioni e gli artefici (pīshavarān), del Dār al-Salām [Baghdad], i quali erano ognuno tasselli dell’insieme della perfezione e della completezza. C’era anche il Khwāja ‘Abd al-Qādir, famosissimo per i suoi commentari e le sue descrizioni relative all’arte musicale, il cui apice è stato raggiunto [dal commento agli] Adwār [il Kitāb al-adwār, Libro dei cerchi].54

La cattura di artisti e artigiani da parte di Timur non era una novità, al pari di quella degli uomini di scienza. Sembrerebbe che Timur conoscesse la presenza di questi artisti, che introdussero poi le loro competenze soprattutto nel campo della miniatura nel mondo timuride, anche se è ancora molto controverso il riconoscimento in quel contesto della « scuola di Baghdad ».55 Quanto al maestro Khwāja ‘Abd al-Qādir Marāghī, egli rimase presso i Timuridi come menestrello di corte fin dopo la morte di Timur e fu un grande teorico della musica islamica medievale.56 La fuga di Sulṭān Aḥmad verso la Siria è stata descritta dettagliatamente da Patrick Wing, che si è basato sulle fonti mamelucche e timuridi,57 partendo dall’accoglienza prima ricevuta a Raḥba in Siria, in seguito ad Aleppo e infine al Cairo, dove il signore jalayiride ricevette onori particolari dal sultano Barqūq. Val la pena di sottolineare che Barqūq è un personaggio abbastanza straordinario. In Italia conobbe una sua fortuna storiografica grazie all’opera del senese Beltramo Mignanelli (1416), l’Ascensus Barchoch, che ne descrisse le avventurose vicende, dalle sue origini circasse alla presa del potere nel sultanato egiziano, fondando il ramo burjita-circasso della dinastia, fino a diventare una figura molto autorevole nello scenario internazionale.58 Conoscitore profondo dell’arabo – tanto da guadagnarsi la definizione di « primo arabista italiano » –, Mignanelli è un acuto osservatore e un incalzante narratore.59 Si sofferma sul nome di Timur, che conosce in due versioni: Thomorbeg (Timur ‘il signore’, tur. beg), e Tomorasach e Tomorleng (Timur ‘lo zoppo’, tur. aksak, pers. lang). Mignanelli narra la conquista di Baghdad (Baldachus) e del nobile lignaggio di Sulṭān Aḥmad, che però definisce privo di coraggio (nomine, de antiqua progenie sed pauci valoris quia vere indicibilis homo erat): quando arriva al Cairo, Sulṭān Aḥmad si presenta umilmente al sultano, e d’innanzi a un’ambasceria di Timur che mostra segni di amicizia, ma anche delle implicite minacce, Barqūq non solo si rifiuta di consegnargli il sultano, ma rifiuta tutte le altre richieste di Timur.60 145

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La lettera di Timur è descritta anche in altre fonti storiche, per esempio in Sharaf al-Dīn: latore della lettera è lo Shaykh Sāva’ī (Sāvajī) qui definito hunarvar, ‘artista’, anche ‘uomo di scienza’. In essa di fatto Timur traccia un suo progetto politico che parte dalla figura di Chinggis Khān come modello ideale, pur sottolineando poi che a causa dei Mongoli le genti siriane soffrirono vari travagli. Esaurita la linea chinggiskhanide, in Persia come altrove, si verificò il caos. La lettera indica però che proprio un ristabilito rapporto tra Ilkhanidi e Mamelucchi aveva favorito i commerci. Se dietro alle allusioni di Timur si può leggere anche la richiesta di consegnare Sulṭān Aḥmad (ritenuto da Timur illegittimo), d’altro canto si dovrà notare una certa soggezione per Barqūq e verosimilmente una volontà di non sconvolgere l’antica suddivisione del mondo tra Mamelucchi e Ilkhanidi, con i loro importanti legami commerciali.61 Bisogna sottolineare che Barqūq mostrò un grande coraggio e che di fatto Timur non lo attaccò mai direttamente. Anzi, Barqūq si erse a protettore di tutti coloro che avevano subito torti da Timur o che erano sotto la sua minaccia: il Qāḍī Burhān al-Dīn di Sivas, per esempio, che ricevette una richiesta di sottomissione da parte di Timur nel 796/1393-’94; torneremo anche su questo personaggio, altro coraggioso oppositore di Timur, il quale pure si rivolgerà a Barqūq per fare fronte comune contro l’avversario. Il sultano mamelucco sollecitò gli Ottomani, in quegli anni in un momento di gloria, a fare fronte comune contro il barbaro invasore riprendendo antichi legami già stabiliti dal padre di Bāyazīd, Murād I. Barqūq mandò emissari in quel fatidico anno dell’Egira 796, a cavallo del 1393 e del 1394, anche a Toqtamish Khān.62 Sembrava insomma che la potenza di Barqūq e il coraggio di coloro che con lui si alleavano inducessero Timur temporaneamente a fermarsi. Fin quando visse lui (m. 1399) e il Qāḍī Burhān al-Dīn (m. 1398), Timur non osò toccare i loro stati. Quanto alla presenza di Sulṭān Aḥmad al Cairo, essa fu l’occasione per grandi cerimonie e festeggiamenti che tendevano a conferire un’importanza particolare all’ospite, cui furono pure consegnati 200.000 dirham d’argento oltre che schiavi, vesti, cavalli e un’elegante residenza. Inoltre, Barqūq finí anche con lo sposare una principessa jalayiride, fatto quest’ultimo che creava una significativa dipendenza, oltre ad accrescere ulteriormente il potere e l’autorevolezza del sultano d’Egitto. Sulṭān Aḥmad ritornerà a Baghdad il 1° sha‘bān 796/1° giugno 1394, dopo l’abbandono della città da parte dei Timuridi, in qualità di nā’ib (‘luogotenente’) del sultano mamelucco.63 146

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9. Ulteriori conquiste nell’Iraq arabo Seguendo un tipico espediente delle fonti timuridi, Sharaf al-Dīn introduce a questo punto delle vicende mesopotamiche di Timur la storia di alcuni mercanti che si rivolgono al Grande Emiro e che si lamentano di una città, Tikrit: grazie alla propria fama di città imprendibile, era divenuta rifugio per depravati ribelli che saccheggiavano le carovane, in particolare quelle provenienti dall’Egitto.64 Si notino due aspetti: il primo è quello di Timur che ascolta i mercanti in udienza e garantisce implicitamente con le sue azioni la prosperità economica; in secondo luogo, qui è descritto mentre garantisce la prosperità dei traffici con l’Egitto. Una logica continuazione di quanto affermato poco prima nella epistola a Barqūq. Naturalmente le fonti avverse, come Ibn ‘Arabshāh, vedono nell’attacco a Tikrit un’altra dimostrazione della spietata ferocia di Timur e dei suoi ‘ifrīt che, come cavallette, devastano l’Iraq e in seguito quella che oggi è la Turchia orientale. Nota Ibn ‘Arabshāh, con la solita presunzione di obbiettività, che gli eserciti raggiunsero questa città da Mossul sorprendentemente in cinque giorni, quando ce ne sarebbero voluti almeno dodici,65 ma la città di Mossul potrebbe essere stata presa dopo dai Timuridi (e la logica lo conferma). La distruzione di Tikrit fu cosí spaventosa che ancora secoli dopo la città viene descritta come spopolata e immiserita, mentre era stata un centro molto importante durante l’età califfale. A Tikrit era nato il campione dell’Islam Ṣalāḥ al-Dīn (Saladino). L’arrivo a Tikrit di Timur fu per via fluviale, vi giunse su un battello percorrendo il Tigri, fermandosi in tappe molto significative, che potremmo definire iniziatiche. Visitò, ad esempio, appena uscito da Baghdad, la tomba di uno dei tanti “pazzi sacri” che amava celebrare: Buhlūl, ‘il pagliaccio’, cosí chiamato per le sue storielle paradossali.66 Varie figure di antagonisti umoristici del tiranno ricompaiono ciclicamente e, come nel caso di questa visita, Timur stesso sembra sollecitare questo corto circuito, anche se le fonti descrivono in questo caso Buhlūl come un santo sceicco e non piú come un trickster, ovvero uno di quei personaggi che ribaltano la realtà col paradosso, un po’, per intendersi, come il nostro Bertoldo.67 A Timur sarà associata piú tardi soprattutto la figura semi-mitica di Nasreddin Hoca, che domina ancor oggi la letteratura popolare d’Anatolia e d’Asia centrale.68 Continuando ad avvicinarsi, qualcuno vide un leone (ancora, a quei 147

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tempi, esistevano dei leoni in Persia e Mesopotamia, l’ultimo esemplare morí probabilmente nel 1944). Si tenne una caccia grossa in cui furono uccise cinque grosse belve,69 evento narrato con enfasi alludendo velatamente a quei bassorilievi del Vicino Oriente antico dove il re era raffigurato nell’atto di combattere personalmente il leone. Infine, con il suo battello fluviale, Timur giunse il 4 di muḥarram 796/9 novembre 1393 nei pressi di Tikrit e ricevette i signori di Irbil e di Mossul, con i già ricordati doni a gruppi di nove. Costoro dopo essersi prostrati innanzi a lui chiesero clemenza, il che lascia supporre che almeno in questa circostanza le loro città vennero risparmiate. Sharaf al-Dīn passa poi all’assedio della fortezza, che a suo dire risaliva al periodo sasanide e non era mai stata conquistata, anzi era ritenuta imprendibile. La comandava un certo Amīr Ḥasan, che viene descritto come un capo predone che non sottostava a nessun sovrano. Ma quando arrivò Timur si affrettò anche lui a dichiarare il proprio assoggettamento, mandando un fratello, la madre e il figlio come ambasciatori, con ricchi doni tra i quali numerosi cavalli. Timur decise di passare oltre ai “peccati” del signore sotto assedio e rinviò gli emissari indietro sani e salvi. Ma pretese che Amīr Ḥasan uscisse dalla sua città per venire di persona a sottomettersi. Come spesso accadeva tra coloro che subivano un assedio da Timur, Amīr Ḥasan, una volta tornata l’ambasciata, si rifiutò di compiere quel gesto per giocarsi il tutto e per tutto e si predispose al combattimento. La scelta si rivelò catastrofica: dopo aver rasato le torri delle fortificazioni, la città venne presa, Amīr Ḥasan fu trascinato con un cappio al collo innanzi a Timur e, mentre la popolazione veniva apparentemente risparmiata, tutti i soldati catturati furono torturati e uccisi. Vennero eretti i soliti minareti di teste umane, questa volta con dei sinistri cartelli ammonitori.70 Era il 25 di muḥarram 796/30 novembre 1393. Le truppe che erano sparse per l’Iraq, a questo punto, vennero tutte incontro a Timur. C’era chi aveva preso Wasit e Bassora e chi ritornava da Hilla, ovvero Mīrānshāh, che si era spinto insieme a Muḥammad Sulṭān sino allo Shaṭṭ al-‘Arab, compiendo massacri di quelli che le fonti chiamano dispregiativamente « Arabi predoni ».71 L’Iraq arabo era stato sottomesso come si occupa una terra selvaggia, con una sorta di operazione di polizia. Ora le mire del Grande Emiro volgevano a nord-ovest. Dopo aver consegnato Baghdad a Khwāja Mas‘ūd Sabzavārī il Sarbadār, Timur prese la via dell’Alta Mesopotamia, verso la città di Diyarbakır, oggi estrema provincia orientale della Turchia. Il governo di Baghdad da parte di 148

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Mas‘ūd è lodato da Shāmī, ma la storiografia posteriore ridimensiona i suoi meriti. Dopo meno di un anno dovette abbandonare quel governatorato per il ritorno di Sulṭān Aḥmad, che lo costrinse a ritirarsi a Shushtar, a ulteriore conferma del blando presidio che di fatto Timur aveva lasciato in quelle terre.72

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IX AS S E STAM ENTI ANATOLICO CAUCAS IC I 1. L’universo turcomanno dell’Anatolia orientale Come abbiamo visto, Timur avvicinò il turbolento contesto turcomanno una prima volta nel 1387, quando penetrò in territorio anatolico orientale per contrastare quello che sarà uno dei suoi obbiettivi prin­ci­ pali, i Qara Qoyunlu, i ‘Montoni neri’, guidati sino al 1389 da Qara Mu­ ḥammad e in seguito dal successore Qara Yūsuf. Quest’ultimo sarà un tenace oppositore di Timur e finirà anche lui col rifugiarsi presso la corte mamelucca per sfuggire al conquistatore centroasiatico. L’altra dinastia turcomanna, quella dei ‘Montoni bianchi’, gli Aq Qoyunlu, interessò Timur a partire dal 1393. Costoro, sin dalla fine della dinastia ilkhanide nel 1335, avevano affermato il proprio potere in una regione che si estende­ va dall’Alto Eufrate, con epicentro inizialmente nella città di Bayburt, fi­no ai confini con l’Impero comneno di Trebisonda sul Ponto. Si tratta­ va di un principato che originava dal gruppo tribale dei turcomanni Ba­ yundur. Di origini remote – ne abbiamo notizia per la prima volta in Asia centrale durante il periodo selgiuchide (X-XI secc.) –, gli Aq Qoyunlu erano stati alleati degli Ilkhanidi e si stabilirono durante il dominio di questi ultimi in Anatolia orientale, dove poi affermarono, come altri gruppi confederativi turchi, la propria indipendenza verso la metà del XIV secolo.1 Stando a Panaretos, attorno alla metà del XIV secolo Turalibeg (Τουραλιπέης), a capo degli Aq Qoyunlu, ovvero degli Ἀμιτιώται, come vengono chiamati in questa fonte greca, avrebbe stretto un accordo matrimoniale con lo stato bizantino di Trebisonda, sposando il figlio Qutlu nel 1351 con la despina Maria Comnena.2 L’unione seguiva diverse incursioni nel territorio dell’Impero di Trebisonda col quale gli Aq Qoyunlu ebbero un rapporto molto particolare. Si trattava di una delle manifestazioni di quell’« eccezione pontica », come l’ha definita Anthony Bryer, che vide un interessante esperimento di convivenza, piuttosto che un conflitto inesorabile, tra elementi bizantini ed elementi turcomanni.3 Abū Bakr Ṭihrānī, storico degli Aq Qoyunlu, conferma il riconoscimento “alla pari” dei Comneni, attribuendo al loro sovrano un titolo islamico, quello di sulta150

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no, quando costui si avvalse dell’aiuto di Qutlu, successore di Turalibeg a partire all’incirca dal 1360.4 Le vicende di questi beg turcomanni prima dell’avvento di Timur sono ampiamente trattate in una delle epiche di fondazione dello stato degli Aq Qoyunlu, il Libro di Dede Korkut, un vero e proprio ritratto della presenza turcomanna in Anatolia, nel quale compare il matrimonio del signore Aq Qoyunlu con una principessa cristiana, qui denominata Saljan, conseguente a un rapimento da parte di Turalibeg (in realtà Qutlu). Piú che un atto ostile, questo episodio rifletterebbe la pratica rituale turco-mongola del “ratto della fidanzata”, molto diffusa e ancor oggi praticata, in forme neppure troppo simboliche, in molte parti dell’Asia centrale, ad esempio l’alyp qashu nel moderno Kazakhstan.5 All’epoca dell’arrivo di Timur, gli Aq Qoyunlu erano nel pieno di un conflitto interno determinato dalla suddivisione del regno da parte di Qutlu prima della sua morte, avvenuta nel 791/1389. Lo scontro tra due linee di discendenza coinvolgeva diversi attori, si potrà qui ricordare tra i principali protagonisti il già menzionato signore di Erzincan, Muṭahhartan, che si opponeva ad alcuni degli Aq Qoyunlu, e soprattutto il potente qāḍī Burhān al-Dīn di Sivas. Per lo scopo Muṭahhartan non esitò ad allearsi con Qara Muḥammad, signore dei Montoni neri prima che costui morisse nel mese di rabī‘ i 791/aprile 1389.6 Nel conflitto generalizzato emerse una particolare personalità che avrà un peso molto significativo per l’alleanza che fornirà a Timur, Qara ‘Uthmān (anche noto come Qara Yüllük, probabilmente ‘Il glabro nero’), che salí sul trono della confederazione degli Aq Qoyunlu, oramai riunificata, facendo guadagnare loro particolare peso nella regione.7 L’Anatolia orientale ha anche diversi altri protagonisti, uno di questi è l’oramai ridotta dinastia degli Artuqidi. Di antica stirpe turcomanna, erano già nel Diyār Bakr al tempo dell’invasione selgiuchide e discendevano dal gruppo tribale dei Döger. Al tempo di Timur, il loro signore Majd alDīn ‘Īsā al-Ẓāhir controllava le importanti città di Mardin e Hisn Kayfa (in turco moderno Hasankeyf).8 Gli Artuqidi erano in contesa con un’altra dinastia, quella degli Ayyubidi, che poteva vantare un illustre fondatore: Saladino. Costoro cercavano a loro volta di avere il controllo sulla regione e divennero fedeli alleati di Timur, mentre gli Artuqidi pagheranno forse il sospetto di un legame politico con i Mamelucchi, ma anche il prezzo del proprio coraggio nell’affrontare Timur.9 Un altro principato locale di una certa entità dev’essere qui menziona151

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to, quello dei Dhu’l-Qadr o Dhulqadiridi. Costoro costituivano uno stato contiguo all’Impero mamelucco nella regione piú meridionale dell’Anatolia orientale. Anch’essi turcomanni, adottarono spesso una politica ostile nei confronti dei loro potenti vicini siro-egiziani. Al tempo di Timur, il loro signore Suli (o Sevli),10 come altri, si proporrà di guidare gli eserciti timuridi in Siria provocando una seria tensione con il sultano Barqūq. 2. Il qāḍī Burhān al-Dīn. Uomo di lettere e oppositore morale di Timur Nel variegato mondo anatolico spicca una figura particolare, quella del giurisperito (qāḍī), poi sultano, Burhān al-Dīn di Sivas. Di lui abbiamo già parlato in varie circostanze, ma la sua figura merita di essere tratteggiata per l’atteggiamento virtuoso che oppose all’invasione timuride, anche se di fatto non ebbe mai uno scontro diretto con l’invasore centroasiatico. Uomo di dottrina, Burhān al-Dīn discendeva anche lui da un gruppo tribale turcomanno, quello dei Salur. Diventato visir nel 1378 della dinastia di stirpe mongola degli Eretna,11 nel 1381 assunse il governo dello Stato, come sultano indipendente, su un territorio che aveva come centro Sivas (l’antica Sebaste) e arrivò a estendersi a meridione fino a confinare con il beilikato karamanide. Il suo Stato può essere considerato uno dei principali in Anatolia al momento dell’arrivo di Timur; sicuramente visto come un avversario temibile da quest’ultimo, egli lo contrastò con decisione in un momento di confitti violenti per il dominio dell’area. Letterato di grande valore, oltre che uomo di legge – scrisse un importante dīvān (‘canzoniere’) in lingua turca –,12 Burhān al-Dīn è stato recentemente rivalutato anche per le sue teorie politiche che, come abbiamo visto, riversò nel suo Iksīr al-Sa‘ādāt.13 Un suo biografo di cui si è già accennato, ‘Azīz Astarābādī, ci ha lasciato una testimonianza molto rara per i tempi: anch’egli vittima delle invasioni timuridi, ‘Azīz si era rifugiato alla corte di Burhān al-Dīn dopo essere stato fatto prigioniero da Mīrānshāh a seguito della cattura di Baghdad, una detenzione dalla quale fuggí in modo rocambolesco.14 Cosí descrive ‘Azīz l’arrivo di Timur e dei suoi ‘ifrīt (‘demoni’) ciagataici nei territori di Rum (l’Anatolia) nel 1394: dopo aver inviato un messaggero a Burhān alDīn e aver ricondotto a sé i propri alleati Muṭahhartan e Amīr Sirāj al-Dīn, signore di Köylühisar, l’antica Nicopolis d’Armenia, Timur cominciò a indagare sul potente avversario: 152

ix · assestamenti anatolico caucasici D’un tratto, in quei giorni, l’esercito del sultano [Burhān al-Dīn], composto da gente del luogo e suoi compatrioti, era sbandato e il sultano si ritrovò solo con pochi fedelissimi al suo fianco. Quando la notizia raggiunse Timur, recatagli da un tale che conosceva bene gli affari dei regni di Rum, questi fu interrogato sulle condizioni dello Stato del sultano e sull’entità numerica nonché le dimensioni del suo esercito. [Timur] disse: « Chi sono i suoi nemici e i suoi avversari, qual è il loro peso in termini militari? ». Costui rispose: « C’è l’Amīr Muṭahhartan con cinquemila uomini; il signore di Karaman con diecimila uomini; Maḥmūd Chelebī, con mille uomini; il signore di Tashan con mille uomini; il valī [governatore] di Bavra [Bafra] con duemila uomini.15 Tutti gli sono ostili e sono suoi nemici. In altre regioni Mongoli, Tatari e Turcomanni del Diyār Bakr e di Siria, pressappoco ventimila cavalieri, sono anch’essi in contesa con lui ». Sorpreso da queste parole, Amīr Timur si girò verso i suoi comandanti e chiese loro: « Che razza di individuo è colui che resta solo contro diverse migliaia di uomini? Come è possibile che siano incapaci di combatterlo quando hanno la superiorità e tutte queste forze? Come può non riconoscere la sconfitta per mano loro? ». Non sapeva che la grazia del Signore e l’aiuto del Veridico erano dalla parte del suo avversario, contro qualsiasi armata fosse anche innumerevole: fece scendere eserciti invincibili a voi [Cor., 9 26]. Qualche giorno dopo giunse un corriere che portava una lettera di Amīr Timur. Il sultano [Burhān al-Dīn] – Centro dei Regni –, che stava verificando la lealtà e il coraggio del suo esercito, inviò dei capi militari ad accoglierlo. L’inviato fu ricevuto in città con grande rispetto e condotto in un luogo dove si teneva un’adunanza pubblica. Il sultano si informò del modo col quale il nawkar Amīr Muṭahhartan lo aveva accolto a Erzincan e se ci si era prodigati per riceverlo. Quello rispose che l’Amīr Muṭahhartan gli aveva inviato incontro la maggior parte dei suoi luogotenenti affinché lo accogliessero in città col massimo rispetto e con onore. [Muṭahhartan] aveva anche fatto dispiegare in terra stoffe meravigliose, e rarità quali la seta e il cammocato (kīmkhā)16, della lana e del saqirlāt.17 Avevano lanciato dell’oro su di lui e lo avevano blandito. Quando l’Amīr Mu­ ṭahhartan aprí la lettera di Amīr Timur, tutti i nobili e i suoi dignitari si alzarono, ordinarono di portare una sedia e il gran visir si sedette, iniziando una lettura molto solenne dell’epistola. Arrivato al nome di Amīr Timur, tutti si prosternarono e baciarono la terra, gettandosi in ginocchio secondo il costume mongolo, mentre declamavano preghiere. Ascoltata questa storia il sultano rise ma evitò di emulare queste cerimonie con freddezza e non mostrò alcuna umiltà nei suoi confronti.18

Burhān al-Dīn dichiarò che era « meglio morire che perdere la propria 153

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dignità ». ‘Azīz descrive anche una lunga requisitoria nella quale il dotto uomo di legge, prima ancora che sultano, si scagliava sulla condotta di Timur, deviata dalla Sharī‘a e dalla fede stessa. Egli si collocava secondo lui fuori dalle leggi, dalla virtú religiosa e dallo sforzo ( jihād). Disonorava il velo delle donne, violava la libertà degli uomini liberi, induriva i cuori, aveva una malvagia natura e uno spirito ostile, era rude e sconvolgeva l’esistenza legalizzando la scelleratezza. Burhān al-Dīn non mancò di constatare che il mondo intero ne era oramai consapevole, e diceva ciò non a caso: le sue esternazioni erano rivolte a risvegliare l’interesse del sultano mamelucco.19 Analoghi argomenti ritornano in seguito, quando per esempio il sultano si rivolse a un ambasciatore di Muṭahhartan – oramai suo nemico –, ricordandogli che i comportamenti di Timur derivavano dalla concupiscenza e dalla corruzione. Egli mancava agli accordi ed era sleale. Era ostile alla futuwwa e alla muruwwa.20 Quest’ultimo aspetto è molto significativo dell’uso politico di certo linguaggio del sufismo: la futuwwa (letteralmente ‘gioventú’) era una vera e propria corrente di pensiero che ispirava canoni di comportamento nobili, azioni virtuose, al pari della muruwwa (‘virilità’) invitava alla magnanimità e alla generosità nei confronti del prossimo. L’Anatolia era pervasa da questo linguaggio da piú di un secolo; seguendo la predicazione di un grande pensatore dell’ultima fase del califfato, Shihāb al-Dīn Yaḥyā Suhravardī, il signore di Sivas riformulava l’invito a una forma di giustizia inedita per il tempo, quella implicita nei concetti di futuwwa e muruwwa.21 Timur non riuscí ad avere la meglio su Burhān al-Dīn. Sicuramente, però, il linguaggio del pensiero politico aveva subito oramai una mutazione e di fatto l’opposizione a Timur coincideva ora a un richiamo al jihād, lo ‘sforzo’ dei credenti per un comportamento da buoni musulmani. Le fonti ufficiali timuridi non fanno quasi mai menzione di Burhān al-Dīn, con l’eccezione forse del dotto Ḥāfiẓ-i Abrū, che accenna fugacemente a un’alleanza di Timur con i cosiddetti Tatari neri di Anatolia, dei quali si riparlerà al momento dello scontro con Bāyazīd.22 Quanto a Ibn ‘Arabshāh, lo descrisse in un appassionato capitolo come un sottile intellettuale, uomo dall’elegante parlare, introducendo anche alcuni aspetti leggendari della sua vita. L’autore arabo, che è anche colui che ci ha lasciato il principale racconto della vita del biografo ‘Azīz,23 narra anche la tragica morte nel 1398 di Burhān al-Dīn per mano di Qara ‘Uthmān (Qara Yüllük).24 154

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3. Ruha (Urfa) città di antiche glorie biblico-coraniche Nel suo itinerario verso le regioni degli alti Tigri ed Eufrate, Timur non incontrò particolari opposizioni: a Kirkuk, oggi importante città a maggioranza curda dell’Iraq, la popolazione lo accolse con segni espliciti di sottomissione e lui la assegnò come soyurghal25 all’emiro ‘Alī Mawṣilī. Seguí l’assoggettamento del castellano di Altun Kupru, al quale Timur conferí particolari omaggi, donando alle donne e ai figli di questo nobile locale oro, stoffe e gioielli. Anche Arbil (Erbil, l’antica Arbela, oggi capitale del Kurdistan iracheno), accolse Timur con tutti gli onori e infine fu la volta di Mossul. Qui Timur fece restaurare, con diecimila dīnār kebekī, una moschea e un santuario attorno alle tombe del profeta Giona e di Nabī Jirjīs, ovvero san Giorgio, testimonianza di un culto sincretico nella regione e luogo di pellegrinaggio. Ancora una volta il pur intollerante Timur dimostrava particolare attenzione per il culto dei santi locali, anche quando questi rivelavano aspetti abbastanza eterodossi per la dottrina sunnita ufficiale.26 A Mossul l’accoglienza fu particolarmente trionfale, un signore locale qara qoyunlu, Yār ‘Alī, dispose un banchetto particolarmente sontuoso per accoglierlo. Sarà poi il suo ghajarji nell’avanzata verso Ruha (oggi Urfa, l’antica Edessa, in territorio turco) insieme ad altri come il Dhulqadiride Suli. Nel suo percorso incontrò un emissario del sultano artuqide di Mardin (il già citato Majd al-Dīn ‘Īsā) che si affrettava anche lui a proporgli la sua sottomissione. Gli autori persiani parlano della volontà di attaccare la Siria mamelucca, che in realtà si limitò in questo caso solo alla presa di Ruha, Timur si rivolgeva ai nuovi sudditi per sondare la loro disponibilità militare in future imprese. Mentre alcune avanguardie timuridi si dedicavano a devastare la regione dominata dai Qara Qoyunlu, Timur arrivò infine a Ruha. Il signore locale, detto Güzel (‘il Bello’), ebbe l’infelice idea di fuggire insieme a diversi abitanti andandosi a nascondere su una montagna vicina. Inseguito, fu catturato insieme ai suoi e trascinato innanzi a Timur. La cattura di Ruha è descritta nell’Ascensus Barchoch da Beltramo Mignanelli, che parla del massacro di cinquecento cavalieri inviati dal sultano mamelucco in difesa della città.27 Le fonti timuridi si dilungano sulla bellezza di Ruha, « tutta costruita in pietra di taglio » (majmū‘ az sang tarāshīda).28 Anche questa città conservava tradizioni biblico-coraniche molto importanti che lo spirito enciclopedico di Sharaf al-Dīn non manca di sottolineare: 155

tamerlano Si dice che fu costruita da Nimrod e la leggenda vuole che qui Abramo sia stato gettato nel fuoco – Sui nostri profeti la preghiera e il saluto! –, e che una fonte d’acqua sarebbe apparsa per salvare Abramo e spegnere il fuoco. Ancor oggi si possono osservare le tracce dell’incendio e del fumo.29

Dopo aver rimirato questo « luogo prodigioso », Timur e i suoi si fecero il bagno nella fontana, forse per acquisire le virtú miracolose di quelle acque che bevvero per altro con spirito devoto. Nella città Timur restò per diciannove giorni in cui furono dati feste e banchetti. Qui fu raggiunto dal signore artuqide di Hisn Kayfa, che fu ricevuto con tutti gli onori, mentre l’altro rappresentante della famiglia, Majd al-Dīn ‘Īsā, che governava a Mardin, non si presentò. L’atto fu considerato come ostile e indusse il Grande Emiro a muovere verso la città, non senza aver accolto in itinere i signori di altri centri curdi dell’area, come Sulṭān ‘Alī, signore di Arzin sull’Alto Eufrate,30 e il governatore di Batman, altro snodo importante dell’Anatolia orientale sull’omonimo fiume. Nel mese di rabī‘ i 796/gennaio 1394, Timur disponeva il proprio esercito in prossimità di Mardin e a questo punto il sultano artuqide Majd alDīn ‘Īsā non poté fare a meno di andargli incontro per corrispondergli numerosi doni e cavalli e gettarsi in ginocchio al suo cospetto in segno di sottomissione. Alla domanda del perché non si fosse arreso, ‘Īsā ricorse alle piú umilianti dimostrazioni di assoggettamento per strappare al signore centroasiatico un difficile perdono che alla fine ottenne.31 Timur però si accampò di fronte alla città. 4. Morte di ‘Umar Shaykh e assedio di Mardin Il principe ‘Umar Shaykh, già governatore del Ferghana, era stato invitato da Timur a raggiungerlo in Anatolia orientale. Abbandonò perciò l’assedio che stava compiendo alla città di Sirjan nel Kerman e intraprese la strada per Mardin. A Sirjan, era esplosa una rivolta di partigiani muzaffaridi contro il governatore della regione, Edigü Barlas, che Timur aveva nominato nel 1393. Soccorso questo emiro evidentemente in difficoltà, e ripulita la regione dalle ultime sacche di resistenza, ‘Umar Shaykh poté ripartire per raggiungere il padre a Mardin.32 Giunto a un piccolo villaggio fortificato del Kurdistan che si chiamava Khurmatu (Duz Khurmatu, nell’odierno Iraq), il principe salí su una collina per osservare l’intera regione ma venne colpito da una freccia lancia156

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tagli contro dalla fortezza. Centrato al collo, morí istantaneamente creando lo sconcerto tra coloro che lo accompagnavano, probabilmente spaventati dalle conseguenze di quell’incidente. Khurmtu fu rasa al suolo e tutti i suoi abitanti furono massacrati.33 Quando la notizia giunse nella regione di Mardin, dove Timur era accampato, quest’ultimo mostrò una particolare freddezza (cosa che non era avvenuta per Jahāngīr), forse anche per la casualità dell’evento – non uno scontro bellico, ma probabilmente una disattenzione di ‘Umar Shaykh –, e si affrettò a consegnare il regno del Fars al giovanissimo figlio del principe, Pīr Muḥammad, che godeva del suo favore. ‘Umar Shaykh verrà poi inumato a Kish nel Dār al-Siyādat, non lontano dalla tomba del fratello, anche se la sua ubicazione rimane controversa.34 Non è chiaro cosa nascondesse questo atteggiamento distaccato da parte di Timur nei confronti di un figlio che pure lo aveva fedelmente assistito in passato. Come s’è detto, a differenza di Jahāngīr, ‘Umar Shaykh era nato da una concubina.35 Inoltre, questa morte, avvenuta per una certa sua avventatezza,36 creava un grande problema a Timur che si ritrovava con soli due figli sui quali contare per le sue campagne militari: Mīrānshāh e Shāhrukh. Il primo lo metterà in difficoltà, e forse Timur ne aveva intimamente una ridotta stima già in quest’epoca. Quanto al secondo, era ancora giovane e comunque di temperamento moderato e religioso, si distingueva in maniera netta dal padre. Dopo che il principe Majd al-Dīn ‘Īsā accettò di pagare il tributo e di sottomettersi, gli esattori timuridi entrarono a Mardin per raccogliere i profitti concordati. Furono però insultati dalla popolazione, cosa che causò un’immediata reazione di Timur, il quale chiamò nuovamente al suo cospetto ‘Īsā. Il signore artuqide uscí coraggiosamente dalla città mentre gli abitanti si asserragliarono all’interno e Timur lo accusò di avere usato uno stratagemma, anche se in tal modo costui sacrificava la sua stessa vita pur di salvare il suo popolo. Ibn ‘Arabshāh racconta una versione della resa parzialmente confermata da Sharaf al-Dīn: ‘Īsā si sarebbe rivolto ai suoi dichiarando che avrebbe raggiunto « quest’uomo » (hadhā al-rajul) per offrirgli la sua sottomissione, raccomandando di non lasciare la cittadella altrimenti avrebbero perso tutto, inclusa la propria vita, perciò, anche se avesse chiesto loro di arrendersi, non dovevano farlo. Una volta nelle mani di Timur, si recò con lui davanti alla cittadella e chiese loro di aprire le porte ma, vista la loro opposizione, avrebbe offerto a Timur cento tumān in dirham d’argento per aver salva la vita.37 157

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La strategia di ‘Īsā funzionò: lui fu ridotto in prigionia, ma Timur rinunciò all’assedio, che si rivelava particolarmente complesso. Yazdī afferma che, mancando in quella zona l’erba per permettere ai numerosi cavalli dei Timuridi di nutrirsi, sarebbe stato difficile reggere a lungo.38 In realtà Mardin era dotata di una cittadella imprendibile e una volta usciti gli esattori timuridi, la città si rivelò impenetrabile. Fu uno scacco che impose a Timur di lasciar perdere quella difficile preda, mentre Majd al-Dīn ‘Īsā veniva trascinato via da lui in catene. Abbandonata Mardin, i Timuridi si diressero verso Mossul. Accusato di aver derubato alcuni doni inviati a Sultaniyya da Timur, il signore di Jazira (Jazīrat ibn ‘Umar, oggi Cizre, al confine tra Turchia e Siria), Malik ‘Izz al-Dīn, che si era dichiarato obbediente a Timur, si asserragliò nella città e qui fu assalito con estrema rapidità dalle avanguardie timuridi. Finito prigioniero di un soldato, riuscí comunque a fuggire mentre la città veniva devastata e ne venivano saccheggiate le ricchezze. L’intero bottino fu portato a Mossul, dove Timur era accampato con la maggior parte dei suoi. La mancata presa di Mardin doveva pesare molto su Timur che sino a quel momento non aveva fallito un assedio nella regione. Perciò si ripresentò di nuovo davanti a Mardin il 22 jumādi ii 796/24 aprile 1394 con le sue truppe. Andrà ricordato che nel frattempo Mīrānshāh devastava la regione circostante; stando ad alcune fonti siriache, nel marzo del 1394 si era dedicato allo sterminio sistematico delle popolazioni cristiane, compiendo eccidi a Midyat e nei dintorni del monastero di Qartamin, dove i monaci e numerosi laici si erano rifugiati in delle grotte per sfuggire al massacro. Con la tecnica di gettare delle fascine di paglia bruciate, i Timuridi produssero del fumo all’interno e morirono soffocati in centinaia, incluso il vescovo Giovanni Tommaso di Bā Sabrīnā.39 Timur dal canto suo, pose l’assedio a Mardin, che si rivelò meno complesso del temuto. Una volta presa la città, però, molti fuggirono nel Kūh (lett. il ‘monte’, in realtà la cittadella fortificata di Mardin), che risultò particolarmente difficile da espugnare in quanto sembrava non avesse accessi. Le sue pareti erano tutte una continuazione in verticale della svettante collina sovrastante la città e anche se un ingresso c’era sul lato meridionale, questo era assai angusto e doveva sembrare irraggiungibile.40 Sharaf al-Dīn riferisce di una fonte d’acqua che sgorgava dalla fortezza alimentata da un mulino (āsiyāb), probabilmente una noria. L’autore non manca di sottolineare che la cittadella era stata descritta dal grande poeta 158

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arabo di epoca artuqide Ibn Sarāyā (Ṣafī al-Dīn b. Sarāyā al-Ḥillī), che l’aveva chiamata Qal‘a Shahba (‘Castel grigio’).41 Probabilmente fu la cattura e la tortura di vari abitanti che non erano riusciti a rintanarsi nella cittadella a giocare un ruolo psicologico sugli assediati, che infine cedettero e chiesero quartiere, uscendo con dei toquz (‘doni a gruppi di nove’) e dei cavalli, garantendo il pagamento del tributo.42 La città però fu duramente saccheggiata, con un massacro generalizzato della popolazione, la sua Grande Moschea venne severamente danneggiata e tutti coloro che vi pregavano dentro furono uc­ cisi.43 Il primo giorno di jumādi i 796/4 marzo 1394, intanto, era nato un figlio al principe Shāhrukh, che aveva appena 19 anni. Prenderà il nome di Ulugh Beg (il ‘Sommo signore’) e sarà un intellettuale e uno scienziato sopraffino, oltre che per pochi anni anche sovrano dei Timuridi (1447-1449). Il suo osservatorio a Samarcanda gli permise di stabilire le celebri efemeridi (Zīj) con 992 astri, un catalogo astronomico di primaria importanza poi impiegato anche in Occidente dove fu studiato da Copernico e Tycho Brahe.44 Poco dopo (6 shavvāl 796/4 agosto 1394) sarebbe nato anche un altro figlio di Shāhrukh, Ibrāhīm Sulṭān, che si distinguerà per la sua passione per la miniatura e la calligrafia e fin quando vivrà (m. 1435) sarà uno dei massimi patroni dell’arte timuride.45 La differenza tra Shāhrukh e il padre si vedeva anche nei suoi figli, figure raffinate che promossero l’arte e la scienza, a differenza di Timur che si limitò a catturare artisti per deportarli, ma non fu mai partecipe delle loro creazioni. 5. La presa di Amida (Diyarbakır) Durante l’assedio di Mardin, Timur inviò l’emiro Jahānshāh Barlas46 verso la città di Amid (oggi Diyarbakır, in Turchia orientale). Amid (o Amida, come è chiamata nelle fonti classiche) era stata una delle principali città del limes orientale romano-bizantino e le sue fortificazioni conservano ancor oggi in parte tracce della presenza armena, romana, bizantina e araba, oltre che il monumentale restauro compiuto in epoca artuqide di cui si scorgono in modo piú vistoso ancor oggi le vestigia. All’epoca dell’arrivo di Timur il centro era in mano dei Qara Qoyunlu, che vengono nominati in modo sommario da Naṭanzī, il quale ci informa del fatto che all’arrivo degli eserciti timuridi, Qara Yūsuf si era nascosto sulle montagne per evitare lo scontro.47 Sharaf al-Dīn, che non menziona i Qara 159

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Qoyunlu, offre tuttavia una descrizione dettagliata delle mura di Amida che merita di essere ripresa: Quella fortificazione è cosí solida e ponderosa che nessuno ne ha mai viste di simili al mondo. Che muraglia! È estremamente alta e costruita in pietra da taglio saldata da solida malta. Il suo spessore è cosí ampio che corrisponde al corpo di due cavalli disposti in fila. In cima a queste mura, sia sul lato che dà all’esterno che verso l’interno, sorge un’altra muraglia dell’altezza di un individuo, tutta eretta in pietra da taglio. In cima ad essa aggetta verso l’esterno un altro muro sorretto da architravi (kangarhā), di modo che l’intera fortificazione sembra a due piani: cosí quando piove a dirotto, il freddo è intenso, o il caldo soffocante, la gente può ritirarsi nei vani inferiori. Vi sono state disposte torri altissime distanti tra loro tra i dieci e i quindici gaz.48 All’interno della fortezza ci sono due splendide fontane di pietra nelle quali sgorga acqua corrente e vari giardini. Questa descrizione è una testimonianza diretta di chi scrive, non è redatta per sentito dire. Si narra che la costruzione dell’edificio della fortezza abbia quattromila e trecento anni e che in nessuna epoca mai un nemico sia riuscito a espugnarla e a conquistarla, fatta eccezione ai primordi dell’Islam per Khālid b. Walīd49 – lo accetti Iddio! – che a capo di un distaccamento musulmano si dedicò al suo assedio e vi riuscí penetrando dai condotti delle acque reflue.50

Naturalmente quell’illustre precedente è narrato per esaltare la conquista: arrivato infatti Timur, si accampò fuori dalle mura, l’armata venne disposta attorno alla città mentre veniva bersagliata da pietre e frecce, infine però i Timuridi riuscirono ad aprire due brecce. Entrati nella città, i soldati si diedero al saccheggio e diedero fuoco alle case. Nota sempre Sharaf al-Dīn che, una volta presa Amida, i soldati non riuscirono nell’intento di demolire le mura: « ci sarebbe voluto un secolo ».51 Secondo alcune fonti siriache ad Amida vi fu un massacro di cristiani. Durante l’assedio Timur fu avvicinato da un « uzbeko » (az ṭāyfa-yi ūzbak) che dichiarò che un certo Yayiq Ṣūfī progettava una rivolta notturna. Costui fu presto arrestato, ma non venne ucciso. Dopo un sommario processo fu imprigionato mentre i suoi complici vennero tutti eliminati. L’episodio suona abbastanza curioso, dato che non si evince chi sia questo Yayiq. È però probabile che si sia trattato di un membro della famiglia della dinastia Ṣūfī, deposta in Corasmia, di cui restava qualche elemento all’interno dell’esercito timuride. Ciò spiegherebbe la denuncia da parte di un « uzbeko », intendendo con questo termine un soldato corasmico. La denuncia rivelava anche la possibilità di alcuni dissensi nell’esercito, so160

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prattutto tra i soldati che erano stati reclutati tra gli sconfitti nel corso delle guerre precedenti.52 6. Verso il castello di Avnik L’attacco di Timur ai Qara Qoyunlu continuò verso la regione dell’Ala Tagh (Ala Dağ, una catena montuosa oggi in Turchia, tra Erciş e il Tendürek Dağ).53 Il luogo era ideale per fermarsi, grazie alle rigogliose praterie che erano una meta privilegiata durante le campagne militari. Mentre i cavalli si rifocillavano, Timur ricevette i capi locali che Sharaf al-Dīn descrive nella loro varietà come ḥukkām, ‘governatori’; kūtvalān, ‘castellani’; muta‘īnān ‘osservatori’; sardārān ‘comandanti’, fornendo un’informazione significativa dei « feudi » e « sotto-feudi » nella regione anatolica orientale.54 La natura di questo modo di suddividere il territorio è oggetto di una discussione storiografica in cui ancora una volta gioca un suo ruolo il Bazm-u-Razm di ‘Azīz Astarābādī. Di recente Jürgen Paul ha ripreso la questione dei cosiddetti beilikati (le ‘signorie’) in Anatolia orientale, proprio in relazione a questa fonte, ridisegnando il quadro di una realtà molteplice turco-mongola che si basava sullo spirito dell’ulus (dominio territoriale) nomadico ereditato dalla tradizione ilkhanide all’interno di entità statali secondo modelli piú convenzionali, come possono essere considerati appunto i beilikati, regni di media entità sorti con la fine dello stato selgiuchide tra il XIII e il XIV secolo. Un peso considerevole avevano in questa realtà le necessità determinate dalla transumanza, che finirono col creare dei domini mobili, spesso legati a un rapporto col territorio molto particolare, dove avevano rilievo gli incastellamenti e i pascoli, piuttosto che le città. Questo comportava rapporti di vassallaggio tra le signorie maggiori e i piccoli potentati, e l’atteggiamento di Timur sembra tener conto dell’importanza di tutti questi piccoli e medi “feudatari”, considerandone accuratamente il potere e le risorse economiche.55 Il Grande Emiro passò per le regioni curde che erano sotto il dominio dei Qara Qoyunlu di Qara Yūsuf, dalle quali era già transitato in parte nel 1387. Superate Mayyafariqin (l’antica Martyropolis, oggi Silvan), Batman e Ashma, attribuí come guide i soliti ghajarji a ogni emiro dei tumān. Il principe Muḥammad Sulṭān prese la via di Chapāchūr (le fonti persiane usano qui una variante del nome armeno Čapałǰur), l’antica Romanoupolis, oggi corrispondente alla città turca di Bingöl. Timur, insieme a Shāhrukh, si 161

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avviò sulla strada per Sivas attraverso il Ṣaḥrā-yi Mūsh (la ‘piana di Muş’) senza incontrare resistenza, mentre Mīrānshāh si dirigeva a Bitlis, non lontano dal lago Van, dove fu raggiunto dal corpo di spedizione di Muḥammad Sulṭān e da Timur stesso.56 Come riferisce Tovma Mecop‘ec‘i, un’avanguardia di Ciagataici si sarebbe già scontrata nella regione durante la campagna del 1387 con i Qara Qoyunlu guidati da Pīr Ḥasan, l’emiro che aveva ucciso Qara Muḥammad, finendo annientata. Il Signore locale accolse Timur offrendosi come sua guida contro i Turcomanni, ma gli sconsigliò di inseguire Pīr Ḥasan.57 A Bitlis, il governatore locale Ḥājjī Sharaf è descritto come uno di migliori signori del Kurdistan per « bontà e rettezza » (nīkī va rāstī);58 anche lui offrí il proprio assoggettamento, donando cavalli e ovini. Timur gli lasciò il possesso della sua terra e gli consegnò Yayiq Ṣūfī perché lo tenesse imprigionato nella sua fortezza. Dopodiché, ci informa Sharaf al-Dīn, « fece fare una indagine approfondita sulle strade e ordinò che fosse messa per iscritto ».59 Dispose perciò che un membro della famiglia dei Barlas, Muḥammad Darvīsh,60 partisse in direzione di Alinjak (oggi Alinja, in Azerbaigian), città collocata in una posizione strategica di primaria importanza, che avrà un peso notevole negli avvenimenti successivi e che già era stata oggetto di una prima conquista nel 1387. Mentre lui decise che il resto dell’esercito dovesse dedicarsi alla cattura di Qara Yūsuf. Rimasto a Muş, Timur usò particolare fervore nella caccia a tutti i signori locali che non si erano assoggettati; per lo scopo Mīrānshāh fu incaricato di reperire ognuno di costoro e portarlo al suo cospetto. Dopodiché avrebbe dovuto unirsi anche lui all’assedio di Alinjak. Infine, Timur dispose che si reclutassero soldati per l’esercito e che fossero condotti a Muş (lashkar jum‘a karda ba-pāya-yi sarīr-i ‘ālī āvarand).61 Questo invito rivelava alcune incertezze nei piani di Timur, preoccupato che le sue bonifiche territoriali da coloro che chiamava « corrotti » o « briganti » potessero ostacolare la sua avanzata. Invitò anche le dame di corte che erano a Sultaniyya a raggiungerlo e, come era consueto, la solerte Sarāy Mulk Khānum si prese il carico dell’organizzazione di un viaggio complesso per soddisfare le volontà del marito insieme ad altre principesse, per le quali Timur assegnò la scorta al giovane Shāhrukh, che le avrebbe dovute accogliere in territorio persiano. Ad Akhlat (Ahlat, nell’odierna Turchia), l’emiro locale ‘Ādil Jawz Khāqān62 (che Timur già conosceva, come ci dice Sharaf al-Dīn) venne incontro a Timur per fare anche lui atto di sottomissione. Dopo una cac162

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cia nella regione, l’esercito si spostò a sud dell’odierna Doğubeyazit, nel sito di Üç Kilise (‘le Tre Chiese’), celebre per le sue chiese armene a ridosso dell’Ala Tagh. Qui si incontrò con le sue regine che gli presentarono il loro cordoglio per la morte di ‘Umar Shaykh, e ancora una volta Timur mostrò una certa freddezza al riguardo. Inviò perciò ulteriore assistenza all’assedio di Alinjak, che evidentemente si rivelava complesso. Quanto a lui, avanzò verso la fortezza di Aydın (l’odierna Doğubayezid),63 dove ancora una volta la popolazione si sottomise. Ritornato a Üç Kilise, incontrò il suo principale alleato anatolico, Muṭahhartan, che in questa circostanza giocò un ruolo determinante nella conquista di Avnik, importante snodo strategico in mano ai Qara Qoyunlu. Avnik, a occidente del fiume Aras (Arasse, in Anatolia orientale),64 era una città sulla quale sorgeva una cittadella molto ben fortificata, governata all’epoca da un altro figlio di Qara Muḥammad, Miṣr Khwāja. Costui pensò bene di ritirarsi con i suoi soldati nella cittadella dopo essersi assicurato di bloccare ogni accesso. Ciò evidentemente non bastò e alla fine si risolse a far uscire un suo luogotenente per trattare. Senza dubbio i “buoni consigli” di Timur non dovettero fare presa sull’assediato, che decise pertanto di resistere. A nulla valsero anche i consigli di Muṭahhartan, che tentò una difficile mediazione, lungamente descritta dalle fonti persiane. E sebbene Miṣr inviasse alcuni dei suoi, incluso il figlio di sei anni, che si sarebbe “gettato” ai piedi di Timur per implorarlo, il Grande Emiro voleva risolutamente parlare col padre, lo rispedí indietro con l’ordine per Miṣr Khwāja di presentarsi suo cospetto; in seguito fu la volta della madre, che pure pregò Timur di risparmiare il pavido figlio ma che fu rimandata al mittente.65 Presi dalla sete e bersagliati in continuazione dalle pietre scagliate dai mangani, i comandanti della piazzaforte gettarono le armi a terra e si arresero all’assediante. Rimasto solo con la madre (anche gli abitanti rifugiati nella cittadella si erano in precedenza arresi), Miṣr Khwāja finalmente cedette. Timur non lo uccise ma lo inviò sulla strada di Samarcanda insieme a ‘Īsā di Mardin, che resterà detenuto invece a Sultaniyya. In compenso uccise tutta la guarnigione turcomanna della città.66 Ad Avnik, lasciò come governatore l’emiro Atilmish, mentre conferí il governo di Erzincan a Muṭahhartan con particolare enfasi, era il 17 shavvāl del 796/15 agosto 1394.67 L’avversario principale, Qara Yūsuf, era sfuggito ancora a Timur. Questo nemico giurato, come vedremo, si riprenderà molti dei territori catturati appena Timur uscirà dallo scenario anatolico senza aver lasciato un 163

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reale controllo sulla regione. In quel momento la priorità era un’altra, a dire delle fonti persiane: quella di invadere nuovamente la Georgia. 7. L’uccisione di Fażl Allāh Astarābādī Mentre Timur pianificava la sua invasione della Georgia, di cui si parlerà a breve, avvenne un fatto apparentemente secondario se stiamo alle fonti ufficiali persiane, che, come vedremo, almeno nel caso di Sharaf al-Dīn avevano buone ragioni per non riferirne. Un mistico persiano, Fażl Allāh di Astarābād, venne catturato a Shamakhi, capitale dello Shirvan, da un gruppo di soldati proveniente da Astarabad, il 1° dhū’l-qa‘da 796/28 agosto 1394. Egli fu consegnato a Mīrānshāh mentre quest’ultimo si dedicava all’assedio di Alinjak. Le accuse contro di lui non sono note, ma le sue dottrine erano state messe al vaglio di due commissioni di ’ulamā  riunite allo scopo nel Gilan e a Samarcanda, dopo che costui aveva chiesto a Timur di aderire alla sua dottrina. Condannato da una fatwa (‘sentenza’) emessa da un certo Shaykh Ibrāhīm, Fażl Allāh fu giustiziato il 6 di dhū’l-qa‘da del 796/2 settembre 1394. La sentenza di morte fu eseguita personalmente da Mīrānshāh, che decapitò con la sua spada il mistico. Piú tardi, nell’864/1401-2, Timur richiese la sua testa e il suo corpo per farli bruciare.68 Prima di tornare su questa truculenta esecuzione e i suoi drammatici esiti, vale la pena ripercorrere brevemente la vita e il pensiero di Fażl Allāh per comprendere una certa temperie che attraversava il mondo turco-persiano sul finire del XIV secolo. Nato ad Astarabad nel 740/1339-’40, costui era cresciuto in un ambiente sciita, dedicandosi piuttosto alla vita ascetica che non alla carriera di giudice (qāḍī) alla quale sembrava inizialmente destinato. Intraprendendo una carriera da sufi, Fażl Allāh si concentrò in un primo tempo soprattutto sui suoi sogni visionari, in uno dei quali piú tardi vedrà sé stesso pregare al cospetto di Timur.69 Iniziò a fare l’interprete di sogni e ad acquisire seguaci ai quali impartiva la propria dottrina, l’hurufismo, il cui nome derivava dal vocabolo ḥurūf (pl. di ḥarf, ar. ‘lettera’), che è stata spesso identificata frettolosamente come una forma di cabalismo, limitandone di fatto la portata teologica e sapienziale. Se da un lato la speculazione sulle lettere del Corano e la loro interpretazione basata sul sistema dell’abjad (ovvero del valore numerico delle lettere) portavano a dei “calcoli” interpretativi del testo sacro, dai quali si sarebbe evinto l’unico “senso del vero”; dall’altro erano proprio le cosmogonie hurufite (gli ele164

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menti del mondo si trasformano nei cicli infiniti della sua esistenza) e l’antropomorfismo (le lettere venivano usate per comporre delle raffigurazioni umane) a costituire il cuore del suo complesso pensiero. La predicazione portò Fażl Allāh finalmente a definire sé stesso un profeta, anzi « il Signore del tempo » (Ṣāḥib al-zamān), dotato di un’essenza divina.70 Si trattava della fondazione di una nuova fede, autonoma rispetto all’Islam, organizzata su regole di comportamento virtuose, quelle, per intenderci, che abbiamo visto già nel pensiero della futuwwa e della muruwwa, ma ora con un salto di qualità che portava a un vero e proprio stravolgimento socio-religioso che fu considerato aberrante per l’Islam ufficiale, e non senza implicazioni politiche: tra i sogni del mistico vi era anche quello di sposare la figlia di Toqtamish Khān.71 Nella fatwa dello Shaykh Ibrāhīm, di cui non resta traccia se non in dubbi testi posteriori, Fażl Allāh era stato forse accusato di identificare il Trono Divino con la forma umana, un pensiero impronunciabile per qualsiasi dotto ortodosso del tempo (e di oggi), fosse esso sciita o sunnita. Ciò lo portò alla condanna e all’esecuzione immediata. Un dato interessante riguarda proprio la figura di Mīrānshāh, considerato da questo momento in poi negli ambienti sufi il Dajjāl (una sorta di Anticristo musulmano), col soprannome denigratorio di Mārānshāh, ‘Re dei serpenti’). Innestandosi nel quadro della martirologia, cosí caro al mondo sciita, Fażl Allāh aveva finito col creare un culto in bilico tra esoterismo ed esplicita esternazione. Molti suoi seguaci ne subirono le conseguenze, a iniziare dal poeta Nasīmī che aveva opposto un plateale rifiuto a incontrare Timur e fu in seguito squartato vivo nell’810/1407 ad Aleppo. Altri furono attratti da questa dottrina, non ultimo lo stesso Sharaf al-Dīn, che si dovette difendere nell’830/1427 dall’accusa di aver contribuito a una cospirazione mirata all’uccisione di Shāhrukh, ordita per vendicare le gesta del fratello Mīrānshāh.72 Quest’ultimo, ucciso da Qara Yūsuf nel 810/1408, portò il sovrano qara qoyunlu a diventare una sorta di sacra incarnazione per gli hurufiti. La tomba di Fażl Allāh divenne invece un santuario frequentatissimo73 e questo spiega forse anche la volontà (fallita) di Timur di sradicarne la venerazione quando bruciò i suoi resti. Il culto si sarebbe diffuso fino ad arrivare nell’Impero ottomano, dove è stato oggetto di celebrazione da parte dei Bektaşi, una delle forme piú eterodosse del sufismo islamico. Dunque, ecco che la simpatia di Timur per santoni e dervisci, come quel « pazzo sacro » Buhlūl, riverito nel suo santuario iracheno un anno 165

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prima, non impedirono al Grande Emiro e al suo brutale figlio di agire in modo estremamente deciso innanzi alle deviazioni piú gravi, accettando e forse promuovendo i giudizi di condanna delle autorità religiose ortodosse. L’episodio dell’esecuzione di Fażl Allāh rimase però una macchia indelebile e può testimoniare di un’altra forma di opposizione alle invasioni timuridi, quella di alcuni rappresentanti sufi che potevano promuovere pericolose deviazioni sociali nel grande calderone della “fantasia religiosa” che dall’Anatolia alla Persia vedeva manifestazioni sempre piú eclatanti. 8. Una campagna islamizzatrice di razzia in Georgia Sharaf al-Dīn ‘Alī, come per altro gli altri autori delle cronache encomiastiche persiane che celebrano Timur, ama iniziare i capitoli dedicati alle missioni timuridi nelle terre dei non-musulmani con piccole premesse edificanti sul valore dell’affermazione della fede islamica tramite la ghazā e il jihād. La terza campagna georgiana, che fu lanciata nell’estate del 796/1395 dalla regione dell’Ala Tagh, sembrò però destinata piuttosto al saccheggio sistematico. Lo studioso georgiano Ivane Ǯavaxišvili si mostrò perplesso sulla volontà jihadista, interrogandosi sulla scelta di attaccare la regione di Samtsxe (in Georgia) senza dirigersi subito verso la valle dell’Aragvi, come poi Timur fece.74 Un esercito separato, comandato da quattro emiri di prim’ordine, Burhān Ughlan, Sayf al-Dīn, Jahānshāh, ‘Uthmān Bahādur75 – con circa 40.000 uomini –76 fu inviato in direzione di Aqsiqa, la capitale del principato (georg. Axaltsixe, ‘la Fortezza nuova’), ma ebbe anche l’ordine di sparpagliarsi nel territorio con lo scopo evidente di razziare e molto probabilmente di sedare un’insurrezione esplosa in quell’area.77 Facendosi precedere da questi contingenti, Timur, dal canto suo, iniziò il suo itinerario dalla città di Qars (Kars), che rientrava nei confini politici del regno di Georgia78 e precisamente nel principato della Samcxe. Questa era governata allora dall’atabeg Ivane Ǯaqeli-Tsixisǯvareli, il cui casato durante i secoli aveva subito una trasformazione da governatori per conto del re di Georgia a signori feudali indipendenti che lo detenevano per eredità. Ivane vi regnerà sino al 1395. Timur trascorse qualche tempo nei pressi della città, poi si avviò verso l’altura di Kola, qui si accampò e fu raggiunto da una sua armata che tornava dalla Samtsxe, dove avevano espugnato molte fortezze.79 166

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Dopo una permanenza di tre settimane a Kola, il 13 settembre Timur penetrò nella la valle del fiume Aragvi. Timur era stato avvertito dell’incursione di Toqtamish e dei suoi noyin nello Shirvan attraverso Darband e delle sue devastazioni.80 Senza accordi presi con la corte georgiana e i capi del Daghestan, il khān mongolo difficilmente avrebbe potuto attraversare quel passaggio naturale tra il Caucaso settentrionale e quello meridionale. Dalla valle dell’Aragvi, inoltre, si poteva rapidamente raggiungere la Geor­ gia o, verso sud, la Persia.81 Penetrato nelle montagne, Timur compí diversi massacri nei villaggi di alcuni georgiani che erano chiamati in turco Qara qalqanliq (‘Quelli dagli scudi neri’, ovvero i montanari Pšavi e Xevsuri) che incontrava sul suo cammino. Il tono vittorioso di Sharaf al-Dīn stride con le notizie locali: forse i montanari e le truppe del re di Georgia riuscirono a infliggere delle perdite alle truppe timuridi, che dovettero ritirarsi.82 Attraversata Tiflis (Tbilisi), Timur raggiunse la piana di Shakki (Šak‘a, oggi Şǝki, in territorio azerbaigiano), dove la sua avanzata si fermò. Sayf al-Dīn e Jahānshāh, intanto, proseguivano le loro scorrerie: attaccarono il principe Bertāz (forse si allude qui al feudo dei Baratašvili ‘Sa-Barat-ian-o’), catturando schiavi e accumulando numerose ricchezze. Inviò anche Shaykh Nūr al-Dīn83 verso il Kūhistān georgiano (probabilmente la Kuxeti)84. Non riuscí a incontrare Sīdī ‘Alī, il signore di Shakki, un arlat, ovvero un discendente di un importante clan mongolo85 che aveva fondato un suo potentato nella regione ed era fuggito prima dell’arrivo dei Timuridi. Seguirono le consuete devastazioni.86 La campagna nella Georgia settentrionale però si fermò perché, come s’è detto, dallo stato vassallo dello Shirvan giungevano notizie preoccupanti: un esercito di Toqtamish, preceduto da diversi suoi emiri, aveva superato la regione di Darband e avanzava verso la Persia. Partito immediatamente da Shakki, Timur non fece in tempo a raggiungere gli avversari che si ritirarono rapidamente nelle loro terre e fu perciò costretto a fermarsi per la rigidezza dell’inverno che avrebbe impedito una sua avanzata verso il Dasht-i Qipchaq. Nel villaggio di Fakhrabad (oggi nell’Azerbaigian iraniano), Timur stabilí il proprio qishlāq per svernare e riorganizzare l’esercito dopo che aveva spedito le spose reali indietro con tutti i frutti delle razzie compiute.

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X LA RE SA DEI CONTI CON TOQTAM I S H 1. Toqtamish redivivo Nel 1850 il principe russo Michail Andreevič Obolenskij pubblicava uno yarligh (‘editto’)1 disposto da Toqtamish l’8 rajab 795/20 maggio 1393, mentre quest’ultimo si trovava sulle rive del Don. Lo yarligh era stato fatto redigere da Toqtamish ed era destinato al sovrano lituano Jogaila (Jagiełło/ poi Vladislaus, Ladislao), l’ultimo re pagano d’Europa a convertirsi al cristianesimo che, dopo alcuni conflitti col rivale Vytautas, aveva finito con lo stringere un’alleanza con lui nel 1392, divenendo sovrano di Polonia e Lituania. Questo accordo lo portò a impegnarsi in un’attività diplomatica che culminò nell’accordo con Toqtamish.2 Il patto conveniva a entrambi: Toqtamish si era ripreso dalla sconfitta del 1391 sul fiume Kundurcha ed era riuscito a ristabilire la propria potenza – « ironia della storia », come è stato detto – sulle parti occidentali del proprio stato.3 Nel trattato Toqtamish annunciava di aver sconfitto i propri rivali e dichiarava di voler intraprendere rapporti amichevoli con la potenza lituano-polacca. Non mancava per altro di chiedere il tributo dovuto sulle terre che gli erano appartenute, cosa che non costituiva una novità perché rifletteva precedenti accordi già stabiliti con Vytautas. Come è stato notato, Toqtamish pretendeva solo i tributi dalle terre di sua pertinenza, in particolare la Rutenia meridionale.4 Questa intensa attività diplomatica di Toqtamish continuò con altre ambascerie, questa volta rivolte agli antichi alleati Mamelucchi: nel mese di sha‘bān 795/giugno-luglio 1393,5 Barqūq ricevette i suoi legati evidentemente per stringere rapporti piú stretti, dato che la storica alleanza tra Orda d’Oro e Mamelucchi era andata fiaccandosi rispetto a un piú glorioso passato delle relazioni diplomatiche tra i due stati. Seguí una seconda ambasciata giunta a Damasco il 23 jumādā i 796/26 marzo 1394.6 Un’ulteriore missione diplomatica arrivò quando l’esercito di Timur era già penetrato nel territorio dell’Orda d’Oro (2 dhu’l-Ḥijja 797/18 settembre 1395).7 L’alleanza dell’Orda d’Oro con i Mamelucchi prevedeva un ampio programma diplomatico con implicazioni di vario genere, dalla rivendicazione di antiche pretese sulla Persia, alla necessità di nuovi pascoli per le 168

x · la resa dei conti con toqtamish

mandrie, fino a un sogno di dominio sul Mar Nero che aveva già caratterizzato le epoche precedenti. Nel yarligh del 1393, Toqtamish faceva riferimento a delle cospirazioni contro di lui, e c’è da supporre che si trattasse dei principi Edigü e Timur Qutlugh che, come già abbiamo visto, avevano aiutato Timur e ora agivano in proprio nel khanato. I due costituivano un serio problema per Toqtamish, perché ovviamente erano in aperta contesa per il potere sull’Orda, tuttavia essi non avevano seguito poi Timur, anche se non è improbabile che quest’ultimo invece fosse informato su di loro e avesse con loro degli scambi regolari di informazioni. Questo spiega anche forse le difficoltà di Toqtamish a sviluppare i propri sforzi verso oriente. D’altronde Timur doveva essere a conoscenza dei tentativi espansionisti del comandante in capo dell’esercito di Toqtamish, Begyariq, che contendeva il potere in quegli anni a Timur Qutlugh e Edigü nella regione del Dniepr, e del fatto che Jogaila e Vytautas erano anche loro interessati al controllo strategico della Crimea. Timur Qutlugh e Edigü sembrano aver sostenuto Timur, ma con le dovute distanze, un sostegno “neutrale”, insomma, finalizzato alla necessità che soprattutto Edigü aveva in quel momento di contrastare Toqtamish.8 La politica internazionale di Toqtamish coinvolse probabilmente anche gli Ottomani a occidente, come dimostra una lettera scritta nel 1395 dall’hospodar di Moldavia, Stefano I, a Jogaila, in relazione alle questioni centroasiatiche.9 Ma l’ipotesi di Zeki Velidi Togan che Bāyazīd non fosse poi cosí attento ancora a queste questioni « orientali », mentre Timur le seguiva con attenzione è condivisibile.10 Di fatto Bāyazīd ebbe piú tardi uno scontro con Toqtamish, quando costui insidiò la Moravia nel 1398.11 Se un’alleanza ci fu, questa fu momentanea nel clima generale di fermento che animava le principali dinastie musulmane per il sovvertimento dell’Asia che Timur aveva prodotto. Semmai un particolare valore può assumere la lettera spedita da Timur a Bāyazīd I nel febbraio del 1395, dove Timur esaltava Bāyazīd e lo invitava a una guerra santa contro Toqtamish, reo di essersi alleato con i “Franchi”, ovvero con lo stato lituanopolacco, ma anche con i Latini di Caffa e i Georgiani.12 Torneremo su questa epistola, ma val la pena di sottolineare che Timur agiva anche lui su canali diplomatici e dunque conosceva i movimenti dei suoi avversari. Insomma, la situazione internazionale era esplosiva. Toqtamish giocava su vari tavoli per prepararsi a un’azione clamorosa contro il suo eterno rivale. 169

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2. Timur passa Darband Provocato, Timur aspettò la fine dell’inverno del 1395, cosciente delle insidie che le steppe celavano nella stagione fredda, cosa che ha permesso comparazioni forse improprie con Napoleone e Hitler. Ma la ragione principale era che Timur non voleva questa volta lasciare niente al caso. Si adoperò meticolosamente a preparare il proprio esercito, attingendo al tesoro per distribuire donazioni in denaro (ūkalkā, dal mongolo ögülgä)13 ai suoi soldati che prelevò direttamente dai propri fondi.14 Congedò le dame di corte e predispose il qishlāq (‘accampamento invernale’) nel percorso che portava verso nord-est attraverso il Caucaso (sull’itinerario vd. cartina n. 3). Era il mese di jumādī i del 797/febbraio 1395. Qui scrisse una lunga lettera a Toqtamish che, come al solito, suonava di ammonimento ma anche tentava una conciliazione in extremis e che Sharaf al-Dīn trasforma in versi nella sua narrazione: La lingua dei consigli è punta di freccia aguzza Da un lato è umile e dall’altro può accanirsi Cosí elabora un discorso diviso in due metà Una metà è speranza, l’altra, terrore.

Formulava poi l’accusa: Toqtamish era stato distolto dalla retta via dai « demoni della superbia » (dīv-i ghurūr) e si era dimenticato delle distruzioni prodotte da Timur nel precedente conflitto. Inoltre, come poteva il signore dell’Orda d’Oro dimenticare i favori che aveva ricevuto? Nessuno sfuggiva alla sua inesorabile vendetta. E pur dichiarando di ricevere la guerra a braccia aperte, Timur invitava il nemico a riflettere sulla pace che avrebbe accolto immediatamente dopo un atto di sottomissione.15 Ancora si riproponeva il rapporto ambivalente tra Timur e il suo ex-pupillo, salvato in molte circostanze e ora rivale accanito. La lettera di Timur fu consegnata a Shams al-Dīn al-Māliqī, « uomo sapiente ed esperto », « abile negoziatore », affinché la consegnasse al khān. Costui raggiunse Toqtamish e secondo Sharaf al-Dīn quest’ultimo avrebbe mostrato delle incertezze che però i suoi ministri fugarono subito « a causa della loro ignoranza e ostilità ».16 La risposta fu dunque un rifiuto secco di ogni accordo e quando Shams al-Dīn al-Māliqī tornò, Timur, che intanto aveva passato il fiume Samur (nel Daghestan, oggi segna l’attuale confine tra Russia e Azerbaigian), si risolse a muovere in assetto di guerra. L’armata superò perciò il sito strategico di Darband. Nel valicare 170

x · la resa dei conti con toqtamish

questo luogo, probabilmente Timur si identificò con Alessandro Magno che era considerato il primo (leggendario) costruttore delle sue possenti mura.17 Superata la città, Timur si trovò innanzi un gruppo nomade di partigiani di Toqtamish, i Qaytāgh;18 oggi il distretto del Daghestan, dove vive ancora questo popolo parlante una lingua caucasica settentrionale del gruppo Dargo, si chiama in russo Kaitagski Rajon (‘Distretto dei Kaitag’). Fu l’occasione per una prima prova di forza contro una tribú (qawm) che è descritta come composta da infedeli (bīdīnān), e si concretizzò con una strage e la distruzione dei loro villaggi. Nel frattempo, un ambasciatore, o forse un esploratore inviato da Toqtamish, che si chiamava Ūrtāq (Ortaq), giunto nei pressi dell’esercito di Timur vide una tale moltitudine di soldati, e se ne tornò sui suoi passi con un certo sconcerto per comunicare al proprio signore quanto aveva osservato. Intanto, Timur raggiungeva la città di Tarqi (Darqi, Tarhu, probabilmente Semender). Qui venne a sapere che un’avanguardia di Toqtamish, comandata da Qazanji,19 era accampata sulle rive del fiume Khuy (il fiume Goysu, in Cecenia, oggi Sulak). Timur stesso partí con un contingente d’élite, ottenendo una facile vittoria, con il conseguente carnaio, e si fermò sul fiume Sevenj (Sunža, tra Cecenia e Ossezia settentrionale) in attesa del resto dell’esercito. Anche Toqtamish lo attendeva, si era schierato con un’imponente armata sulle rive del fiume Terek. Quando Timur si approssimò alla sua posizione, l’esercito dell’Orda d’Oro prese la fuga col suo khān verso il fiume Quri a settentrione (Kuri nella valle del Terek, da non confondersi con il Kura piú a meridione). In seguito, però, tornò indietro dopo aver ricompattato i suoi, mentre Timur seguendo il corso del fiume Kuri verso nord arrivava nel sito di Jawlat, dove il suo esercito poté rifocillarsi e far pascolare i cavalli dato che il territorio era particolarmente verdeggiante.20 Qui i comandanti dei qarawulān (‘avanguardie’) avvertirono che Toqtamish era ora dietro di loro e seguiva anche lui il corso del Kuri. Timur fece disporre i suoi, e i tuvājī (‘comandanti delle divisioni, ispettori’)21 ordinarono di scavare delle trincee (khandaq) protette dagli scudi dei soldati e difese da un’ulteriore trincea posta innanzi a loro. I soldati dovevano restare fermi, nel silenzio piú assoluto, senza accendere fuochi o emettere suoni di sorta.22 Qualcuno abbandonò il campo per passare col nemico, che intanto si schierava sul fronte opposto. Era il 22 jumāda ii del 797/14 aprile 1395. 171

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3. La battaglia sul Kuri (regione del Terek) Le battaglie di Timur non furono tutte uguali. Quelle in Persia, per esempio, furono battaglie campali piuttosto tradizionali, dove la cavalleria aveva un ruolo principale e la fanteria una funzione di sostegno, soprattutto per gli arcieri che bersagliavano preliminarmente gli avversari con i celebri archi compositi, che potevano avere una gittata di diverse centinaia di metri. Nel caso delle battaglie persiane la superiorità dell’esercito timuride consisteva principalmente nelle caratteristiche tradizionali degli eserciti nomadi: velocità, spirito di sacrificio fino all’estremo, assoluto carisma del capo e infine piena maneggevolezza delle armature leggere23 che, unita a un’esercitazione costante nell’arte di cavalcare, faceva la differenza contro i “sedentari”. Inoltre, si può affermare che Timur fosse dotato di un servizio di informazione che non solo studiava i movimenti del nemico, ma spesso avvicinava i gruppi tribali nemici che potevano diventare utili alleati nel corso della battaglia. Nel caso di Toqtamish, come sí è detto, Qutlugh Timur e Edigü parteciparono alla battaglia nell’ala sinistra, ma si mostrarono poco attivi, « neutrali » dice Togan, tanto da essere poi costretti a scusarsi con Timur per il loro operato.24 Quello che colpisce al tempo di Timur è la numerosità degli eserciti composti da esperti di vario tipo, che già abbiamo avuto modo di conoscere negli assedi, come abili genieri oppure artificieri. Spesso eccedente le duecentomila unità, l’esercito di Timur permetteva di essere scomposto in varie formazioni. La principale era la miriarchia, ovvero il tumān (tur. tümän, ‘diecimila unità’),25 un’armata che sottostava a un unico comandante, il piú delle volte un emiro di rango, il quale gestiva autonomamente le sue unità, pur seguendo le linee strategiche indicate da Timur. Ma queste armate erano scomponibili in chiliarchie (pers. hazāra, tur. miñlik/biñlik, ‘migliaia’) e infine in centurie (pers. ṣada, tur. yüzlük, ‘centinaia’), che potevano agire in proprio per missioni particolari. La disciplina nell’esercito era ferrea. Esso era diviso in forma gerarchica: Timur premiava gli emiri e i principi piú valorosi disponendoli in posizioni di rilievo, c’erano poi gli elementi acquisiti che potevano essere capi militari che si erano sottomessi volontariamente o prigionieri che svolgevano funzioni spesso non di primaria importanza ed erano soggetti a un certo controllo, onde evitare che tradissero o si allontanassero dal campo di battaglia, un aspetto che Timur sapeva ben sfruttare nei suoi avversari e che dunque temeva nei propri ranghi. 172

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La disposizione dell’esercito seguiva strettamente la struttura di quello mongolo, ma si distingueva da esso per le scelte che di volta in volta Timur faceva. Si trattava di scelte importanti vuoi per disorientare gli eserciti nemici, vuoi per adattarsi a terreni particolari oppure alla tipologia dell’esercito avversario. Nelle avanzate militari i ghajarji precedevano l’intero esercito; nel momento della battaglia, però, giocavano un ruolo secondario, spesso senza combattere. Seguiva il qarawul (‘avanguardia’) che precedeva il qul (‘cuore’), dove era collocato solitamente Timur. Generalmente l’avanguardia svolgeva anche azioni preliminari o poteva essere inviata in campagne di saccheggio e “pulizia”, mentre il resto dell’esercito sostava e si approvvigionava. Altre avanguardie erano quelle delle ali (qumbul), che servivano a proteggere queste armate maggiori da attacchi. Le ali erano il javanghar (‘ala sinistra’) e il baranghar (‘ala destra’). Si trattava degli elementi piú esposti dell’armata perché solitamente gli avversari cercavano spesso in prima istanza di attaccare il cuore passando dalle ali, anche se Shāh Manṣūr a suo tempo era riuscito a raggiungere Timur attaccandolo da dietro. Le ali avevano anche dei fianchi: il destro e il sinistro a ulteriore difesa. Infine, vi era la retroguardia (chaghdavul), dietro alla quale erano disposte le retrovie (gejighe). In questa modalità di combattimento alle ali, che muovevano con estrema rapidità, era assegnato il meglio della cavalleria e comandare questi reparti costituiva una ragione di prestigio importante.26 Lo schema compatto qui delineato è comunque solo uno schema di massima. Nel caso della battaglia che stiamo per affrontare, esso fu radicalmente rimaneggiato, trattandosi di uno scontro simmetrico con un esercito che seguiva la stessa logica e dinamica di combattimento. Timur divise il proprio esercito in sette corpi d’armata (haft qul, ‘sette centri’), mettendo a capo di ognuno guerrieri consumati e comandanti prestigiosi: il principe Muḥammad Sulṭān – da lui indubbiamente prediletto per le sue capacità e per essere di nobile origine –, comandava il qul principale. Davanti a loro dispose i fanti, che infilarono in terra i propri scudi per formare una barriera a un attacco frontale davanti alla trincea che avevano predisposto; questa protezione permetteva di uscire dalla difesa per compiere attacchi soprattutto sulle ali. I fanti erano dotati di lance, clave, spade, reti e lazi per catturare gli avversari. Con Muḥammad Sulṭān c’era l’élite. Timur, dal canto suo, dirigeva ventisette compagnie selezionate (i qushun). Il nemico attaccò per prima l’ala sinistra: l’emiro dell’Orda d’Oro Gönje 173

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Ughlān, il generale Begyarıq, Uqtā, Dāvud Ṣūfī (membro della famiglia reale corasmica) e Utukū (o Uturkū) con una grossa armata aggredirono questo settore e Timur si dovette affrettare in persona, uscendo da dietro i trinceramenti, a soccorrere i suoi perché non soccombessero. In effetti molti timuridi morirono dopo questo primo attacco e gli aggressori arrivarono vicini a Timur che impose un ripiegamento ma non fece in tempo perché una mischia generale si era generata su quel lato. Cercando di approfittare della situazione e di colpire direttamente Timur, molti altri sopraggiunsero fino a insidiare importanti emiri come Shaykh Nūr al-Dīn che si prodigò per difendere Timur stesso, ingaggiato anche lui in combattimento. Alla fine, il Grande Emiro fu salvato perché alcuni dei suoi catturarono dei carri (arāba) nemici per disporli davanti a lui in modo da proteggerlo e permettergli di ritirarsi dietro ai trinceramenti predisposti il giorno prima. A quel punto numerosi emiri timuridi raggiunsero il settore attaccato e si impegnarono strenuamente in combattimento, mentre i fanti reggevano l’onda d’urto degli avversari scagliando contro le armate nemiche un numero ragguardevole di frecce. Nell’occasione l’emiro timuride Khudāydād si insinuò tra il piú agguerrito comandante dell’Orda d’Oro, Gönje Oghlān, e l’emiro Uqtā, e grazie a un lancio forsennato di frecce e al combattimento diretto contro questi avversari costoro furono respinti coi loro eserciti mentre Mu­ḥammad Sulṭān e i suoi mettevano definitivamente in sicurezza Timur. Il giorno seguente, fu la volta dell’ala destra timuride, guidata da Ḥājjī Sayf al-Dīn, di essere attaccata da altri emiri dell’Orda d’Oro, Amīr ‘Isā Bi e Bakhshī Khwāja, che la impegnarono severamente, obbligando il suo tuman a scendere da cavallo per formare una barriera di scudi che li difendesse e scagliando frecce contro gli avversari. Ci fu uno scontro durissimo che infine si concluse con numerose perdite, ma anche con la ritirata delle armate dell’Orda d’Oro: risolutivo fu forse l’intervento del tuman di Rustam, figlio di ‘Umar Shaykh, che arrivò per soccorrere Ḥājjī Sayf alDīn. Alcuni, come Yaghlī Bi, invitarono gli avversari a un confronto diretto con provocazioni esplicite, in questo caso all’indirizzo di ‘Uthmān Bahādur. I provocati – come spesso avveniva in queste battaglie – non si sottraevano anche a rischio di mettere a repentaglio i propri uomini. In questo caso la cosa si risolse con un confronto diretto dei due qushun insieme ai loro due comandanti. Malgrado l’iniziale successo, l’esercito di Toqtamish era stato battuto dalla strenua e coesa difesa dei Timuridi. Di fronte al nemico, sicuramen174

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te superiore per unità e meglio disposto sul campo, il khān mongolo intuí la disfatta e, prima che Timur lo attaccasse direttamente, fuggí con i suoi ufficiali e i piú alti membri della nobiltà, come già aveva fatto in passato. Persi di fronte alla fuga del loro sovrano, i soldati dell’Orda d’Oro si sbandarono, disperdendosi, per finire uccisi quando non riuscivano a fuggire.27 4. Inseguimento di Toqtamish Timur non poteva sopportare quest’ennesima fuga che doveva sembrargli calcolata, ancora una volta, per evitare lo scontro diretto. Lasciò perdere l’ingente bottino di armi e armature lasciato sul terreno, oltre al bagaglio di Toqtamish, affidando ad altri il compito di occuparsene. Non si curò piú di tanto neanche del figlio Mīrānshāh che si era rotto una mano cadendo in combattimento da cavallo. Partí all’inseguimento di Toqtamish con degli “uzbeki”,28 ovvero dei rinnegati, in questo caso dell’Orda d’Oro, seguaci di Timur Qutlugh e Edigü, che conoscevano bene il territorio e le mosse eventuali del nemico, e insieme a molti dei suoi elementi di élite arrivarono al fiume Itil (il Volga), quando già Toqtamish lo aveva attraversato. Qui Timur dovette fermarsi al guado di Taratur (gudhār-i Tarātūr).29 In difficoltà a proseguire l’inseguimento, convocò un figlio di Urus Khān, Qoyrichaq Oghlan, che era al suo seguito e lo incoronò con una certa solennità signore dell’ulus di Jöchi. A lui assegnava tutti gli “uzbeki” che erano al suo seguito, invitandolo a radunarli per creare il suo stato. Questa decisione escludeva oramai Toqtamish da qualsiasi forma di legittimità nominando un discendente del suo peggior nemico, Urus Khān – già sconfitto con l’aiuto di Timur –, come nuovo signore dell’Orda d’Oro. Infine, Timur proseguí verso nord lungo il Volga, arrivando a Ukak (Ükäk, oggi in russo Uvek, non lontano dall’odierna Saratov). Qui compí un massacro di molti cavalieri di Toqtamish che erano rimasti indietro, altri bloccati tra il fiume e i loro assalitori si arresero, altri ancora riuscirono a fuggire con dei battelli. Toqtamish abbandonò ciò che gli restava e fuggí nelle foreste ( Jangalistān)30 con pochi fedelissimi in direzione di Bular, toponimo che è stato piú volte interpretato come Bulghar,31 ma molto probabilmente va letto come ‘terra dei Polacchi’; quella che le fonti mamelucche definiscono « terra dei Russi » e Naṭanzī, Libka o Libta, con probabile riferimento alla Lituania.32 L’esercito timuride ripercorse un itinerario che già conosceva, spingen175

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dosi sempre piú a nord in un territorio dominato « dalle tenebre », se seguiamo la prosa di Sharaf al-Dīn che qui fa implicitamente allusione al mito di Alessandro e alla terra di Gog e Magog. Abbandonato temporaneamente l’inseguimento, i Timuridi si dedicarono al saccheggio del Dasht-i Qipchaq. La descrizione del bottino risulta molto interessante: oltre ai gioielli, l’oro, l’argento, le pellicce e il bestiame, vi sono indicati numerosi schiavi fanciulli, dal bel volto efebico, e giovinette simili a urí, destinati entrambi verosimilmente alla schiavitú domestica e alle pratiche sessuali dei loro nuovi proprietari. La conquista di queste “bellezze”, descritte con toni aulici, divenne proverbiale tanto da essere ripresa in seguito piú volte: forse si trattava di slavi, o comunque di persone dalla carnagione chiara e la capigliatura bionda, fatto insolito per i nostri conquistatori.33 Infine, Mīrānshāh, insieme a tutti i contingenti che muovevano dalla regione del Terek ed erano guidati dall’emiro Ḥājjī Sayf al-Dīn, raggiunse Timur con il resto dell’esercito in un sito enigmatico situato a YuqluqBuzuglug (che Togan localizza sul Don, non lontano dall’attuale Vo­ ronež)34 per continuare l’avanzata verso le terre occidentali. Per lo scopo inviò vari suoi elementi di punta per controllare lo stato delle cose nelle terre appena conquistate, costoro appena arrivati nell’attuale Azerbaigian persiano, ad Ardabil, furono messi a conoscenza dei progetti di Qara Yūsuf che muoveva con il suo esercito per riprendersi le terre perdute nell’ultima campagna di Timur in Anatolia orientale. Il principe Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, e Mīrānshāh, che facevano parte di questa spedizione, riunirono un esercito per attaccare i Turcomanni che intanto avevano catturato il sito montano di Qara Dere (attualmente al confine tra Turchia e Iran).35 Ma anche questi principi tornarono per la missione maggiore: distruggere il dominio di Toqtamish. Timur mosse verso occidente spingendosi nel territorio oggi ucraino. Cosí arrivò al fiume Uzi (il Dnepr) e le sue avanguardie, guidate dall’Amīr ‘Uthmān, già distintosi nella valle del Terek, s’avvicinarono a Minkirman, nome col quale si allude probabilmente a Kiev,36 e in questa regione l’esercito timuride si accaní contro i villaggi che erano considerati di Begyarıq, il generale dell’Orda d’Oro che aveva inferto un duro colpo all’ala sinistra dell’esercito di Timur sulla valle del Terek. Begyarıq si salvò a sua volta dallo scontro diretto con difficoltà, fuggendo verso la Russia, inseguito da un’avanguardia guidata da Mīrānshāh e dal principe Jahānshāh. Un altro emiro dell’Orda d’Oro, Aktav, fu l’artefice di una 176

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migrazione di massa: non avrebbe mai piú rivisto la sua terra d’origine, finendo nella Tracia ottomana insieme al suo tuman di « Tatari bianchi ».37 L’avanguardia di Mīrānshāh e Jahānshāh seguí Begyaruq nella « nazione dell’ala destra di Jöchi » o « la provincia di destra », usando la vaga terminologia militare (barānghar-e ulus; dast-e rāst) di Sharaf al-Dīn e di Shāmī,38 ovvero la regione del basso Dnepr, l’Urusjuq (‘Piccola Russia’), che fu devastata. Dal canto suo Timur era diretto verso la regione di Mosca. 5. Mosca non fu mai presa da Timur! La discrepanza tra le fonti persiane e quelle russe si fa a questo punto abbastanza macroscopica. Vi è un fondo di verità in quanto affermava uno studioso russo brillante come Roman Grekov, che definiva le fonti persiane come totalmente ignare della realtà geografica della Russia,39 vedi quelle vaghe descrizioni di « nazione dell’ala destra di Jöchi » o « la provincia di destra » di cui si è detto prima, o, come sottolinea Grekov, la menzione di luoghi non identificabili come Qarasu, oggetto di saccheggio e devastazioni da parte dei Timuridi citato da Sharaf al-Dīn, che però Togan riconnette saggiamente a Černigov.40 Andrà detto che le fonti russe parlano principalmente di sé stesse, anche loro, e per quanto informate siano, vedono spesso le vicende storiche dal proprio punto di vista, cosa per altro inevitabile. Ci si potrà anche attardare sulla veemenza di altri studiosi russi contro alcuni loro colleghi europei, come è il caso di George Vernadsky, il quale si scagliò contro Edward G. Browne e Lucien Bouvat che, prendendo alla lettera Sharaf al-Dīn, avevano accolto l’idea che i Timuridi conquistarono Mosca, cosa che in realtà non avvenne. In quel caso Vernadsky tuonò, nella sua Storia dei Mongoli e la Russia, uno « slavica non leguntur! » che ancor oggi potrebbe essere adottato per tante lingue sconosciute in un mondo accademico oramai totalmente anglofono e anglofilo.41 Al di là dell’emotività degli studiosi, però, spesso sopra le righe e amanti della disputa, queste esternazioni aiutano a capire anche il modo in cui i fenomeni furono studiati, financo nella intransigente epoca staliniana in cui visse Roman Grekov. Ci ritorneremo. A ben vedere, per quanto serve a noi, si può trovare una conciliazione tra le fonti. Senza entrare nell’agone della filosofia della storia, mi limiterò a dire che l’impiego comparativo delle versioni persiane e di quelle russe è estremamente utile a definire le vicende storiche, pur “in qualche mo177

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do” e non certamente con affermazioni deterministiche, venate di passione. D’altronde la storiografia timuride è piena di incongruenze dovute alla sua tarda comparsa e alle inevitabili lacune e manipolazioni che le testimonianze dei reduci di quelle guerre portavano con sé. Si potrà notare tuttavia che Sharaf al-Dīn, sulla scorta del grande lavoro geografico svolto da Ḥāfiẓ-i Abrū, si sforzò di fornire informazioni accurate sui luoghi con il suo spirito enciclopedico e una certa curiosità personale, spesso espressa, come s’è visto, in brani didascalici ed esplicativi. Altri come Naṭanzī, al pari del contemporaneo ‘Azīz Astarābādī, si sono interessati spesso al dato etnologico, definendo il ruolo di tribú e gruppi umani che oggi non conosceremmo senza di loro. A sua volta Shāmī, forse il piú genuino di tutti, scrisse quando ancora Timur era in vita, immettendo una testimonianza piú diretta dei fatti. Inoltre, molte sono le descrizioni scritte, oggi perdute, che questi autori adottarono; John E. Woods ne ha identificate diverse creando un quadro complesso di indubbio interesse.42 Insomma non si può parlare di questo mondo come di un arido insieme omogeneo e neppure come di un mondo privo di curiosità intellettuale. È forse anche tempo di finirla con l’idea che questa letteratura è solo celebrativa ed encomiastica: chi la legge veramente in maniera accurata può ricavare in tal senso numerose sorprese inattese. Secondo gli Annali di Nikonov, una delle fonti russe piú informate su questo drammatico periodo, i Russi erano a conoscenza di quanto stava accadendo, e in particolare dello scontro tra Timur e Toqtamish. Pertanto, si prepararono a ogni eventualità: il Gran Duca di Vladimir, Vasilij Dimitrevič, indisse la mobilitazione generale tra il mese di giugno e il mese di luglio del 1395, e nel mese di agosto concentrò le sue forze a Kolomna. Una grande guarnigione fu lasciata a Mosca sotto gli ordini del principe Vladimir di Serpuchov, già eroe della battaglia di Kulikovo Polje combattuta dai Russi contro l’Orda d’Oro e i suoi alleati lituano-polacchi nel 1380. Vasilij si pose poi a difesa del fiume Oka. Intanto Timur nel mese di luglio aveva percorso il Don su due colonne, una sulla riva destra e una sulla sinistra. Quella occidentale era agli ordini di Timur in persona e raggiunse il principato di Rjazan’ nel mese di luglio, ricongiungendosi all’altra colonna. Insieme compirono un attacco alla città di Elec, situata sul Sosna, un affluente del Don, catturandone il principe locale e numerosi abitanti.43 Se in effetti questi eventi sono descritti in maniera lacunosa dalle fonti persiane, è anche vero che Timur decise di proseguire in direzione di 178

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Mosca (Maskū o Maskav, come la chiamano i Persiani). Qui avrebbe compiuto un attacco « generalizzato alla città e alla regione » che portò i frutti di un ampio saccheggio di cui Sharaf al-Dīn fornisce un elenco in versi: oro e argento in lamine, cotoni e stoffe di Antiochia, pellame di Qunduz, zibellini neri (samūr-i siyāh) ed ermellini (qāqum).44 Sharaf al-Dīn si concentra sul conflitto con gli elementi dell’Orda d’Oro dispersi nella regione: Muḥammad Sulṭān si dedicò ai territori di un certo Qabuji Qarawul, un capo mongolo con un titolo bizzarro di « custode » (qabūjī, lett. ‘portiere’) delle « pattuglie » (qarawulān), e altre popolazioni tatare riconducibili a Kurbuqa, Pirlān, Yurkun, tutti nomi tribali già noti nelle fonti russe.45 Significativamente il controllo della città non è mai descritto nelle fonti persiane, il che francamente non permette di dire che la città sia stata sottomessa, piuttosto che uno scontro si sia forse verificato nella regione, e questo malgrado Sharaf al-Dīn menzioni esplicitamente la città di Mosca tra gli obbiettivi conseguiti da Timur. Inoltre, la repentina ritirata di Timur lascia pensare che abbia incontrato una certa resistenza, presumibilmente sul fiume Oka, dove erano disposte le difese russe, ma la confusione sugli eventi russi è sovrana e non mancano i tratti leggendari. Alcune cronache russe piú tarde attribuiscono la ritirata di Timur a un evento magico: il Gran Duca Vasilij avrebbe chiesto al Metropolita di Mosca Cipriano di portare nella città la venerata icona della Madre di Dio custodita al tempo nella cattedrale di Vladimir dalla metà del XII secolo. Questa Theotókos, un dipinto bizantino dell’XI secolo, veniva attribuita addirittura alla mano di san Luca Evangelista in persona e quindi possedeva nelle credenze popolari un potere magico particolare; dalla Palestina arrivò a Kiev e da lí avrebbe raggiunto infine Vladimir. La traslazione avvenne il 15 agosto 1395, quando un corteo formato da gente del popolo e da religiosi avrebbe portato la sacra immagine da Vladimir a Mosca, dove giunse il 26 di agosto, giorno dell’anniversario della precedente occupazione della città da parte di Toqtamish. Di grande effetto sulla popolazione locale, l’evento avrebbe avuto anche un risvolto sulle decisioni di Timur, che in sogno avrebbe visto la Madonna vestita di rosso e sarebbe stato accecato dalla luce che la Madre di Dio emanava. Preso dal terrore, avrebbe infine abbandonato la regione per ritornarsene verso meridione.46 Questa leggenda della traslazione a Mosca del sacro dipinto oggi conservato nella Chiesa di San Nicola, annessa alla Galleria Tret’jakov, dove 179

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fu poi portata in epoca sovietica, è stata rivista criticamente nei minimi dettagli da molti studiosi; in realtà fa riferimento a eventi posteriori ed è parte del repertorio di tradizioni legate alla costruzione dell’identità russa.47 Insomma, se gli autori persiani avevano manipolato le memorie dell’occupazione di Mosca, in definitiva i russi non erano stati da meno, come dimostra la storia della Theotókos di Vladimir nelle loro cronache. 6. La presa di Azak (Tana) e l’incontro coi Genovesi Nella sua peregrinazione russo-ucraina, Timur seguí il Don guidato da un ghajarji che lo fece passare da una città, Balchimgen, di difficile identificazione. Arrivò infine alle porte di Azak (Tana per gli Italiani e Azov per i Russi); qui le fonti persiane ci informano sommariamente del fatto che, dopo aver diviso i musulmani dagli infedeli (i cristiani), Timur si dedicò al jihād, presumibilmente uccidendo i secondi, distruggendone le case che diede alle fiamme.48 Di fronte alle succinte spiegazioni delle cronache persiane, esiste una testimonianza abbastanza straordinaria della presa di Tana, conservata nel Chronicon Tarvisinum (ca. 1428), opera di Andrea Redusi da Quero, un cancelliere del comune di Treviso vissuto tra Trecento e Quattrocento (morí attorno al 1464), il quale si rifaceva alla descrizione di uno dei tre figli del suo concittadino Giovanni Miani, che era stato fatto prigioniero da Timur insieme al genovese Giovanni Andrea.49 Andrea Redusi descrive la comunità di Latini che si trovava al momento dell’arrivo di Timur innanzi a Tana come composta da mercanti veneziani, genovesi, catalani, della Biscaglia e di altre “nazioni”. Costoro, dopo aver tenuto un consiglio d’emergenza, decisero di inviare a Timur dei messi che rappresentavano ogni comunità con dei doni. Gli inviati raggiunsero Timur (Tamberlam) e Andrea offre una rara descrizione dell’accampamento imperiale:50 si trattava di una città di tende che aveva al centro il padiglione di Timur, decorato con oro e seta. Per raggiungerlo gli inviati avevano dovuto superare tre ampi recinti, ognuno dei quali presidiato da numerosi soldati – che Andrea calcola essere circa centomila –, nel terzo recinto si trovavano trecento dame di corte vestite alla persiana destinate alla « soddisfazione delle libidini di Timur ».51 Qui si trovava un albero fatto d’oro, con le foglie che emettevano piacevoli suoni, come campanelle, quando scosse dal vento; forse un inserto tratto dal racconto dell’albero realizzato da Guillaume Boucher presente 180

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nelle descrizioni degli accampamenti del Karakorum,52 anche se un albero simile venne visto da Clavijo a Samarcanda, il che fa pensare piuttosto che Timur avesse imitato quel modello precedente.53 Andrea parla anche di tappeti appesi nell’accampamento, cosí come vari oggetti preziosi disposti ogni dove. Dopo essersi tolti le scarpe, soprabiti e i copricapi, gli inviati si prostrarono tre volte innanzi al re esclamando Ave Rex Regum et Domine dominantium, una formula forse evocativa del titolo persiano di Shāhinshāh (‘Re dei re’), che doveva essere tratta dal protocollo timuride. Poi intercedettero per i Franchi della città di Tana e chiesero la protezione per le proprie attività commerciali. Stando al Chronicon Tarvisinum, Timur era seduto accanto a due frati francescani e mostrò agli emissari una larga vasca capace di contenere cinque metretes (circa 190 l.), realizzata interamente di carbunculum (‘carbonchio’, una pietra simile per colore al rubino) e piena di vino che gli invitati furono invitati a bere. Timur chiese loro se un re dei Franchi avesse mai visto niente di simile e quelli risposero di no. Allora aggiunse che lui lo aveva preso dall’ “imperatore” di Persia. Infine, Timur permise agli emissari di tornare a Tana, facendoli accompagnare da uno dei suoi che simulò molta affabilità ma studiò molto attentamente le galee e le altre navi sulla foce del Don, nonché i mercati, in cui fece pure degli acquisti. Dopodiché se ne tornò all’accampamento di Timur che informò di tutto. Cosí avvenne che quest’ultimo attaccò la città e ne saccheggiò tutte le mercanzie. Alcuni degli occidentali si rifugiarono nelle imbarcazioni e presero il largo, altri furono catturati e rilasciati in seguito al pagamento di un riscatto.54 La testimonianza riportata dal Chronicon Tarvisinum segna un momento importante: viene descritto un primo incontro diretto di Timur con degli europei, anche se forse qualche avvicinamento doveva già essere avvenuto. Chi sono, ad esempio, quei due frati francescani che stanno con lui (à latere suo habens duos Fratres antiquos Ordinis Minorum Regulam Francisci observantes)? A una prima lettura si potrebbe pensare a una confusione, ma a ben vedere potrebbe trattarsi di alcuni francescani già presenti nella loro sede episcopale di Sultaniyya, quelli che in seguito saranno gli artefici di una celebre ambasceria, guidata appunto da Giovanni di Sultaniyya, di cui si riparlerà. Per altro un misterioso francese, Jacques du Fay, sembrerebbe aver incontrato Timur prima della battaglia di Nicopoli (1396), come ci dice Jean Froissart nelle sue Chroniques posteriori.55 181

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Malgrado il disastro avvenuto ad Azak, da questo momento in poi le potenze europee cominceranno a interessarsi al conquistatore centroasiatico: di lí a poco, come vedremo, inizieranno stabili e proficui rapporti diplomatici (soprattutto per i Genovesi e con essi i Francesi, che all’epoca governavano il porto ligure). 7. Devastazioni caucasiche Lasciata Azak in direzione del Kuban’, con l’intenzione di infliggere una dura punizione a chi aveva aiutato e sostenuto Toqtamish nel Caucaso, Timur incontrò diversi problemi in Circassia, dove la popolazione locale aveva dato fuoco a tutti i pascoli, cosa che causò una moria dei cavalli che per otto giorni rimasero senza foraggio. Ne seguí una violenta repressione dei Circassi, guidata da Mīrānshāh e Jahānshāh, che causò la loro fuga sulle montagne. Chi non riusciva a fuggire veniva ucciso e i suoi beni erano saccheggiati dai Timuridi, era l’inizio del 798 dell’Egira/ottobre-novembre 1395.56 Sharaf al-Dīn introduce qui un avvenimento che le altre fonti tacciono: non senza nascondere un certo scandalo, ricorda di un increscioso fatto che si verificò tra le fila dei seguaci piú fidati di Timur. L’emiro ‘Abbās b. ‘Uthmān, un Qipchaq che aveva acquisito notevoli meriti nelle campagne militari e fungeva da atabeg (‘tutore’) dell’infante Ibrāhīm Sulṭān, venne inquisito per reati che « non avevano fondamento » dopo che alcuni calunniatori avevano espresso dei sospetti su di lui. Timur, malgrado la posizione di quel comandante e i suoi meriti, non esitò a farlo giustiziare sul posto. Quali fossero le accuse rivolte al comandante, che svolgeva anche funzioni importanti quale mīr-i dīvān (‘ministro dell’ufficio dell’esazione’), nonché quella di comandante di un tuman, non è dato sapere.57 Poi l’esercito timuride ripartí in direzione della catena montuosa dell’Elburs per combattere l’ennesima guerra di ghazā contro la Georgia, lanciandosi nella regione (īl) di Buri contro i clan di Burībeg, i Burīberdī (Böriberdi) del signore Burāqan (o Burāghān) che vivevano in una foresta. Come per tutta la campagna in queste regioni del Caucaso, in merito alla quale regna una discreta confusione nei testi, si tratta di figure piuttosto oscure: i nomi sono indubbiamente turchi.58 Burāqan però è definito come signore del popolo degli Ās, che sono senza dubbio gli Osseti59 (in greco sono chiamati ἄσιοι, radice che troviamo nel georgiano ovsi, o osi, nel 182

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russo osetin; nell’attuale Inguscezia, poi, si trova il fiume Assa). Timur fece abbattere un bel tratto di foresta in modo che Ḥājjī Sayf al-Dīn potesse sistemarsi nell’area con tutto l’accampamento imperiale. L’abbattimento della foresta permetteva anche a Timur di andare verso l’Elburs per attaccare i Georgiani. Qui incontrò numerosi castelli e cittadelle che secondo le cronache persiane riuscí a prendere in gran numero, passando « a fil di spada » molti infedeli. Ciò non gli impedí di tenere una grande festa, utilizzando un padiglione con pali d’oro e pioli d’argento e piazzandosi su un trono d’oro incrostato di pietre preziose. Si servirono vivande in piatti d’oro a tutta la corte radunata e si bevve molto vino, presumibilmente il celebre vino georgiano che in seguito farà distruggere insieme alle vigne con grande zelo.60 D’altronde l’uso di abbondanti libagioni non era un segreto: Ruy González de Clavijo ne descriverà diverse, piú tardi, al tempo della sua visita a Samarcanda.61 In seguito, si dedicò a due enigmatici castelli abitati da infedeli e governati da Kula e Ta’us, « comandanti dell’Elburs », secondo alcuni,62 mentre altri definiscono con questi nomi gli stessi toponimi, indicanti fortezze su impervie montagne o addirittura confondono persone e luoghi nello stesso testo.63 Per conquistarli Timur fece ricorso al tumān dei mongoli Merkit, specializzati, come abbiamo già visto, quali arrampicatori in missioni di montagna. La gente della fortezza di Ṭa’us è definita come Arakawūn/ Aragawūn. Quest’ultimo nome induce a qualche riflessione: potrebbe trattarsi di una trascrizione approssimativa di Aragv-el-i, ossia abitanti della valle di Aragvi, la quale però è distante dall’Elburs che si trova tra le terre Balqar e la Svanezia, in Georgia occidentale. Qualora invece Kula e Ta’us fossero trascrizioni deformate di K’ola e Tauride, tutto si potrebbe iscrivere nella cornice della campagna timuride del 1394 con una sovrapposizione cronologica. Muovendosi da ovest a est sul versante settentrionale del Caucaso nel 1395, Timur passò a nord di Darialan, che è nota nelle fonti georgiane anche come « Porta di Aragvi ». Cosí compare nel racconto piú antico in georgiano a proposito del fiume Terek, ossia nella Vita dei re georgiani di Leont’i Mroveli.64 I Georgiani, per altro, talvolta chiamavano il fiume Terek « Aragvi »,65 ed è possibile che vi sia un qualche nesso tra questo modo di dire e Arakawūn/Aragawūn. La conquista di Kula e Ṭa’us si rivelò particolarmente ostica, con la perdita di numerosi elementi. I loro comandanti, ci dice Sharaf al-Dīn, furono fatti prigionieri e giustiziati sul posto.66 Da lí l’esercito si spostò verso un’altra fortezza dalla denominazione altrettanto ambigua, detta 183

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qal‘a-yi pūlād, ‘il castello di acciaio’ (pūlād/fūlād ‘acciaio’) o, piú correttamente, seguendo Ḥāfiẓ-i Abrū, « castello di Beg Fūlād Oghlan ».67 Sotto la protezione di costui si trovava Uturkū, « uno dei Grandi emiri del Qipchaq », ovvero dell’Orda d’Oro. Timur catturò suo fratello e gli ordinò di andare da Beg Fūlād intimandogli di consegnare Uturkū, che intanto era fuggito in una foresta verso l’Itil (il Volga). Seguendo questo misterioso itinerario, Timur si sarebbe fermato a Balqan, luogo che Vladimir Minorsky identifica con delle isole alla foce del fiume Terek,68 mentre Togan ci vede la terra dei Balqar (la Balkaria).69 Passò poi ad Abasa, molto probabilmente Abaza, termine che corrisponde agli antenati degli attuali Abcasi-apswa, molto verosimilmente l’Abkhazia.70 In Abkhazia, il signore locale Muḥammad Oglan b. Ghāyir Khān, che si era presentato in precedenza a Timur per fare atto di sottomissione e aveva fatto da ghajarji nelle foreste caucasiche, accolse Timur con tutti gli onori. Nel suo percorso verso la Georgia, Timur distruggeva chiese e edifici religiosi cristiani, considerati dalle fonti come opere di infedeli.71 Arrivò anche a Bashkent, una città presumibilmente dei Dargo, dove fu ricevuto dalla popolazione esultante. E continuando in un’azione centripeta di distruzione delle popolazioni non musulmane e non sottomesse, raggiunse la regione abitata dalla tribú dei Qazaq Jadvar (o Chatvar), molto probabilmente cristiani di origine avara, sul fiume Terek, che furono duramente colpiti, con il saccheggio integrale dei loro villaggi.72 Sharaf al-Dīn si sofferma su uno dei prodotti piú saccheggiati: il miele. Qui Timur si fermò per svernare nel Boghaz Qum, dove ricevette in udienza le popolazioni della steppa dei Nogai nel Caucaso settentrionale a Mamuqtu e Qazi Qumaq (Kazi-Kumukh oggi nel Daghestan). Mentre Timur svernava, inviò dei suoi reparti a devastare delle comunità di pescatori (balikchiyān) che abitavano su alcune isole sul Caspio. Era una missione minore, nel quadro di questa campagna di repressione di ribelli e infedeli che, in gran numero, risultavano a suo modo di vedere complici delle imprese di Toqtamish. 8. Verso il cuore dell’ulus di Jöchi: Sarāy e Ḥājjī Tarkhān Timur era cosciente del fatto che il cuore economico e politico del vasto impero di Toqtamish era in due città sul Volga: Hajji Tarkhan (l’odierna Astrakhan) e Saray. Insieme a Tana (Azov) costituivano i poli di un’at184

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tività ancora molto fiorente nel XIV secolo, malgrado gli splendori del grand commerce di epoca mongola avessero subito un severo ridimensionamento.73 Le operazioni svolte nel Caucaso, oltre a realizzare delle ghazā, erano servite anche a seminare il terrore nella regione e a prepararsi a un difficile attacco ancora impossibile nel cuore dell’inverno tra il 1395 e il 1396. Le due città avevano una storia gloriosa. Ibn Baṭṭūṭa le descrive entrambe dopo averle visitate nel 1332: Hajji Tarkhan, città sul delta del Volga lí dove sfocia nel Caspio, si chiamava cosí secondo lui, perché era un luogo « esente da imposte ». Tarkhan, come abbiamo visto, era un titolo attribuito a figure eminenti che potevano essere dispensate da obblighi fiscali e giuridici,74 e ḥājjī tarkhān significava appunto il ‘pellegrino tark­han’. Specifica Ibn Baṭṭūṭa che il nome della città era stato attribuito da un « pio pellegrino turco stabilitosi colà, in onore del quale il sultano aveva esentato l’area dal pagamento dei tributi »,75 cosa che dimostrava anche l’esigenza di accogliere e tutelare dei mercanti stranieri. Tant’è che la città si riempí di rigogliosi mercati. Non ultimo, Ibn Baṭṭūṭa descrive l’uso del fiume gelato come via commerciale, che alla fine dell’inverno diventava pericoloso al momento dello scioglimento dei ghiacci.76 Era il primo centro che incontravano i Genovesi e i Veneziani che partivano da Tana (Azak) e dove, evitando gli intermediari tatari, armeni e russi a Caffa o a Solghat in Crimea, si rivolgevano direttamente ai produttori sul Volga.77 La città di Saray è oggi scomparsa dalle carte geografiche, anche se è stata individuata non lontano dall’attuale Kolobovka, 370 km. a nord di Astrakhan. Il suo nome Saray (‘Palazzo’) è tipico di molti insediamenti nomadici centroasiatici, ed era riferito in antico a un’altra città piú a meridione sull’Akhtuba, affluente del Volga, e già capitale al tempo di Batu (1227-1255). Al tempo di Berke (1257-1267), venne rifondata piú a nord prendendo il nome di Saray-i Berke, che Ibn Baṭṭūṭa descrive come Sarā al-Jadīd (la ‘Nuova Saray’) e come capitale del piú celebrato khān dell’Orda d’Oro, Özbeg (1312-1341), il quale incontrò lo stesso viaggiatore maghrebino. La città era molto ampia e Ibn Baṭṭūṭa ci tiene a specificare di averla vista in lungo e in largo, spendendo giornate intere. Dotata di moltissime moschee, era caratterizzata da una suddivisione rigorosa per comunità dei suoi quartieri, includendo i Mongoli, gli Āṣ (gli Osseti), i Qipchaq, i Circassi, i Russi e i Bizantini « che sono tutti cristiani ». Tra i musulmani identificava mercanti siriani, egiziani e iracheni,78 ai quali si 185

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potevano aggiungere i numerosi latini che trafficavano in pelli pregiate e schiavi, uno degli articoli principali nella regione.79 Terra anch’essa inevitabile di guerra di religione, a Timur interessava soprattutto per chiudere definitivamente la partita con Toqtamish. Stando a Sharaf al-Dīn il casus belli sarebbe stata una denuncia di tal ‘Umar Tābān, incaricato da Timur di sovrintendere Hajji Tarkhan (curiosamente prima della sua conquista). Costui accusò il kalāntar (‘maggiorente’, qui ‘governatore’) della città, Maḥmūdī, di aver espresso segni di ostilità nei confronti di Timur. Tanto bastò per decidere di raderla al suolo. Timur lasciò che l’accampamento e le grandi ricchezze accumulate fossero riunite da Muḥammad Sulṭān, Mīrānshāh e Ḥājjī Sayf al-Dīn e partí con il meglio delle sue truppe verso settentrione,80 invitò anche Pīr Muḥammad, l’emiro Jahāngīr e Jahānshāh Bahādur verso Saray.81 Pur finendo l’inverno, il clima si rivelò subito molto aspro e la neve rese molto difficile il transito sulle strade disagiate. Infine, l’esercito arrivò innanzi a Hajji Tarkhān e ancora una volta Sharaf al-Dīn si dilunga in una delle sue glosse enciclopedico-geografiche: Ḥājjī Tarkhān è sulle rive dell’Ātil [Itil, il Volga]. Uno dei lati delle sue fortificazioni è contiguo al fiume che si insinua tutto intorno alla cinta in un fossato. Siccome d’inverno l’acqua gela la usano per fortificare come fosse terra, prendendo pezzi di ghiaccio coi quali costruiscono dei mattoni che legano con la malta formando un alto muro e di notte vi gettano l’acqua che si consolida in un attimo. In questo modo diventa una cortina omogenea in cui si apre anche una porta urbana. Invero questa disposizione è una meraviglia e merita una menzione.82

Quando Timur arrivò fu accolto da ‘Umar Tābān, che presumibilmente gli consegnò la città. Entrato all’interno, Timur ne fece evacuare la popolazione, gli animali e fece prendere tutte le ricchezze che conteneva, dopodiché la fece rasare al suolo, mentre i suoi affogavano sotto allo strato di ghiaccio Maḥmūdī. Fu poi la volta di Saray, che venne data alle fiamme dopo il saccheggio. Cosí facendo, si completava la vendetta contro Toqtamish. Sharaf al-Dīn si dilunga però anche su alcune conseguenze negative di questa campagna: Timur aveva dovuto abbandonare il Fars e l’Iraq, lasciando sguarnito quel fronte. Inoltre, il freddo aveva messo a dura prova i cavalli che a causa delle basse temperature morirono in gran numero mentre il cibo scarseggiava e nell’esercito si mercanteggiava il frumento: un mann (ca. 800 g.) di fieno costava diciasette dīnār kebeki, e una testa di vacca si comprava per cento dīnār. Timur fu perciò costretto a dividere 186

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tutto il ricavato delle razzie compiute in battaglia tra i soldati del suo esercito oramai allo stremo. Introducendo il ritorno dell’esercito verso meridione, vengono elencate le conquiste in modo trionfalistico: la steppa caspica (Dasht-i Khazar) insieme alla destra e alla sinistra dell’ulus di Jöchi erano state sottomesse, da Ukak a Maju (Ukek, vicino all’odierna Saratov, e Maju, luogo di piú difficile identificazione), Russia, Circassia e Bashkiria, Makas, cosí Balchimgen (la Palude Meotide) e la Crimea, Azak, Kuban’ e la terra degli Ālān. Agli inizi della primavera del 798/aprile del 1396, Timur si allontanò dalla regione dall’accampamento di Boghaz Qum in direzione di Darband, da cui era partito. In strada non mancarono le imprese: a Ushkuje fu lanciata una ghazā contro Shawkil di Qazi Qumaq (Kazi-Kumukh) che con tremila uomini tentò una disperata difesa e soccombette contro un reparto di cinquecento cavalieri di élite dell’esercito timuride, Mubashshir lo decapitò e ne portò la testa a Timur. La maggior parte di quei nemici fu uccisa, gli altri furono lasciati in vita a condizione che si convertissero all’Islam e combattessero essi stessi il jihād. Costoro misero tutto il loro zelo per dimostrare la propria abnegazione: catturata Ushkuje (Aškujan o Aškuja, capitale delle comunità Akuša-Dargo), misero a morte i cristiani facendone i corpi a pezzi. Cosí anche i capi dei Qazi Qumaq si piegarono convertendosi tutti all’Islam.83 Timur attaccò anche la fortezza di Nargis (Nerges o Arkas, oggi nel Daghestan) che catturò e devastò con « la spada della ghazā », andando a prendere coloro che si erano rifugiati in alcune grotte nelle montagne circonvicine. La scena della cattura delle persone nascoste nelle grotte è raffigurata mirabilmente dal pittore Bihzād in una delle miniature dello Ẓafarnāme di Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī, oggi a Baltimora nella John Work Garrett Library.84 Vi si vede la tecnica di calare dall’alto delle casse da cui dei soldati armati penetravano nelle grotte. Fu poi la volta di numerosi altri incastellamenti che subirono lo stesso destino, è il caso delle fortezze di Mika, Balur e Darkalur (Dargalu) ai piedi dell’Elburs, nel cuore del Caucaso. L’esercito era pieno di spolia e di schiavi, in particolare ragazze (ognuno ne portava fino a cinque o sei con sé), e oramai tutti si arrendevano al suo passaggio. In un luogo denominato Zirrihgaran (il nome significa ‘armaiuoli’, ‘coloro che fanno le cotte di maglia’), gli abitanti, o forse « tutti gli armaioli della regione », fecero mostra di sottomettersi portando come dono delle cotte di maglia e delle corazze, che erano un prodotto tipico dello Shirvan.85 187

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Passata Darband e arrivato infine a Baku, Timur godette dell’ospitalità di uno dei suoi migliori alleati, Shaykh Ibrāhīm, valī (ovvero ‘signore vassallo’) dello Shirvanat, il quale aveva accompagnato Timur per tutta la campagna contro Toqtamish. Timur e il suo grande esercito furono accolti come trionfatori con pubbliche celebrazioni e festeggiamenti.86 Poi si trasferí a Shamakhi, poco a est di Baku, dove trascorse vario tempo a distribuire cariche e a festeggiare le sue vittorie. Se lo Shaykh Ibrāhīm fu reinvestito dei suoi incarichi, Mīrānshāh ebbe anche lui confermato il proprio potere, ma il Khorasan fu consegnato al fratello Shāhrukh, mentre gli elementi di Mīrānshāh che si trovavano nell’odierno Iran orientale lo dovevano ora raggiungere in Azerbaigian.87 Mīrānshāh ricevette anche la disposizione di catturare la fortezza di Alinjak che continuava a costituire un problema per la sua conquista da parte di Qara Yūsuf. Timur dispose anche molte concessioni territoriali ai comandanti del suo esercito come premio per le imprese compiute.88 9. Sulla via del ritorno. Yazd assediata Il ritorno in patria di Timur prevedeva il passaggio dalla Persia. Qui i governi locali presentavano molti problemi e a posteriori si può affermare che tanto il Grande Emiro era capace a conquistare dei luoghi, tanto gli uomini che sceglieva per governarli durante le sue lunghe assenze si rivelavano al di sotto delle aspettative nella gestione delle città e delle aree sottomesse. Il caso di Sirjan fu emblematico: da tre anni continuava a essere sotto assedio da parte dello Shāh-i shāhān del Sistan, fedele servitore di Timur. A resistere era un comandante cittadino Gūdarz (kutvāl, ‘castellano’) che opponeva una resistenza strenua, secondo alcuni fino a restare nella città con solo sei persone per poi arrendersi. Secondo altri, Gūdarz trattò con lo Shāh-i shāhān in cambio della vita salva. L’uomo catturato, però, fu consegnato a Edigü, governatore di Kerman, che lo decapitò facendo recapitare la testa a Timur. Le mura furono smantellate e la popolazione sopravvissuta, trasferita a Bimand, fu obbligata a ricostruirvi le case e il bazar. La città di Sirjan si riprenderà solo dopo mezzo secolo.89 Nella ridente Yazd il darugha locale Tamuk (o Tamuka) Qawchīn lasciò la sua città per recarsi a omaggiare Timur presso l’accampamento imperiale, mentre questi attraversava l’Iran. Lasciò pertanto un luogotenente che venne ucciso con parte della sua guardia khorasanica, insieme ai suoi ser188

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vitori e a numerosi mercanti e autorità della città, da Muḥammad, figlio di Abū Sa‘īd, che governava la vicina città di Tabas.90 Siccome Tamuka aveva raccolto numerosi proventi dell’esazione di due anni nella regione e aveva acquistato molta stoffa per spedirla alla Sarāy Mulk Khānum, prima regina di Timur, Muḥammad si appropriò del denaro e dei tessuti pregiati ponendosi infine in aperta rivolta (yāghīgarī) contro i Timuridi insieme a un gruppo di ladri che arraffarono quanta piú ricchezza poterono. Allora Timur inviò il figlio di Jahāngīr, Pīr Muḥammad, o forse piú correttamente, seguendo Ḥāfiẓ-i Abrū, Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh,91 accompagnato da diversi emiri e un imponente esercito che mise sotto assedio Yazd. Improbabile sembra il fatto che non trovandosi però erba a sufficienza per far pascolare i cavalli, l’esercito ritornò a Isfahan e si diresse nuovamente verso Yazd a piedi, come racconta Sharaf al-Dīn.92 Ḥāfiẓ-i Abrū, da parte sua, descrive l’ira di Pīr Muḥammad contro i suoi, rimasti nell’accampamento mentre cinquecento cavalieri provenienti da Yazd li attaccavano. Insomma, l’impressione che si ha è quella di un notevole caos. Alla fine, un soldato timuride avrebbe scagliato una freccia colpendo il capo dell’insurrezione, tal Ḥājjī Ābdār, un khorasanico che aveva anche emulato Timur costruendo delle torri di teste mozzate. La sua fine concluse di fatto la rivolta. In seguito, iniziò una guerra di logoramento sotto le mura della città, che si protrasse a lungo con continue sortite dalla città e l’incapacità dei Timuridi di catturarla.93 In quei mesi esplose anche una rivolta a Nihavand; qui viveva un nawkar che si chiamava Bahlūl ed era al servizio del kutvāl Mazīd Barlas, governatore della città. Ucciso il suo signore, Bahlūl si appropriò della città. Anche in questo caso, l’incapacità degli emiri locali costrinse Timur che si trovava ad Ardabil, a inviare un altro esercito a mettere fine a questa insurrezione. Guidati dal principe Sulṭān Ḥusayn e da Khudāydād Ḥusaynī, il contingente timuride raggiunse Nihavand che fu conquistata in quattro mesi, mentre Bahlūl catturato, venne bruciato vivo. Ḥāfiẓ-i Abrū fa entrare in scena a questo punto Pīr Muḥammad b. Jahāngīr che arriva a Yazd per mettere fine all’assedio, cosa che avvenne perché la popolazione locale era oramai alla fame. I ribelli tentarono la fuga scavando una galleria sotto le mura, ma furono catturati e uccisi poco lontano da Yazd. I due Pīr Muḥammad, ora riuniti, spedirono la testa di Abū Sa‘īd insieme a un fatḥnāma (‘editto di vittoria’) a Timur e se ne tornarono nelle province di cui erano governatori. Quando i Timuridi entrarono nella città e la trovarono in rovina, con morti ovunque e devastazio189

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ni nei mercati, Timur stesso ne rimase apparentemente turbato, tanto da esentare per due anni la popolazione sopravvissuta a quella catastrofe dalle imposte.94 Intanto un’altra spedizione guidata da Muḥammad Sulṭān devastava il litorale persiano del Golfo persico e forse l’isola di Hormuz. Timur rientrò a Samarcanda l’11 shavvāl 798/18 luglio 1396. Qui si tennero grandi cerimonie per celebrare i successi, ma l’Iran costituiva ancora un problema.

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XI L’I N DIA 1. Un conquistatore speculare: Bāyazīd Nella lettera che Timur inviò a Bāyazīd nel febbraio del 1395,1 il Grande Emiro formulava l’ipotesi di un’alleanza con quello che considerava uno dei principali artefici della propagazione dell’Islam del suo tempo. La lettera, infatti, esordiva con una lode di Bāyazīd come campione dell’Islam nelle regioni occidentali del mondo e Timur, a sua volta, elencandone le gesta, si proponeva come l’alleato ideale sul fronte asiatico. Insieme avrebbero dovuto compiere un’impresa in quel Sarḥadd-i Firang (la ‘Frontiera franca’), termine con cui si considerava la frontiera coi Russi, i Polacchi, i Lituani e molto probabilmente anche i Genovesi loro alleati. Timur, che si dichiarava successore di Chinggis Khān, Hülagü e soprattutto Maḥmūd di Ghazna, si accaniva contro le nefandezze di Toqtamish e le sue alleanze con i “Franchi” per ottenere lo scopo di combattere il signore dell’Orda d’Oro. Non mancava di sottolineare anche la corruzione di altri suoi avversari, questa volta musulmani, quali Aḥmad Jalayir e Qara Yūsuf, protetti da Bāyazīd, e tutti coloro che si opponevano a questo progetto universale di dominio musulmano. La lettera non ricevette risposta. Piú tardi Timur si lamenterà di questa mancata opportunità, ricordando le difficoltà che gli Ottomani avevano avuto già al tempo di Murād I (r. 13601389) nel sottomettere i vari beylikati anatolici e l’errore in definitiva di Bāyazīd nel seguire strategie sbagliate.2 Come era avvenuto con Toqtamish, Bāyazīd era un condottiero speculare a Timur: perseguiva scopi espansionistici di grande portata, continuando le imprese del padre Murād che aveva portato in Europa gli Ottomani, sul finire degli anni ’60 del Trecento, a conquistare la Tracia, la Bulgaria, l’Epiro, la Macedonia, la Bosnia e infine la Serbia, impresa che però costò a Murād la vita nella battaglia di Kosovo Polje il 1° agosto 1389.3 Continuando nello spirito del padre, dopo aver sottomesso i diversi beylikati anatolici, Bāyazīd I iniziò un duro assedio di Costantinopoli (1394-1402) e si spinse fino a scontrarsi contro l’Ungheria, dove regnava all’epoca Sigismondo di Lussemburgo. Quest’ultimo riuscí a formare una coalizione per una Crociata contro gli Ottomani che finí però in una dram191

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matica débâcle il 25 settembre 1396 a Nicopoli (sulla riva destra del Danubio, oggi in territorio bulgaro).4 Oltre agli Ungheresi c’erano i Bulgari, i Valacchi, i Francesi, i Borgognoni e i Tedeschi, che furono sconfitti in maniera inesorabile: da un lato emerse l’inadeguatezza a fronteggiare le nuove tecniche di combattimento inaugurate dagli Ottomani, anche grazie all’uso del corpo dei Giannizzeri, ai quali si aggiungevano i temibili cavalieri incursori irregolari (akıncı) e l’ancor piú potente contingente serbo del principe Stefano che, sconfitto e ucciso il padre Lazar a Kosovo Polje, era entrato al servizio di Bāyazīd. Artefice principale del disastro della coalizione cristiana fu la cavalleria francese che, noncurante dei timori espressi dagli Ungheresi, giustificati da esperienze pregresse, si lanciò contro gli avversari in modo avventato, subendo la piú umiliante delle sconfitte.5 E mentre Sigismondo fuggiva, gli Ottomani catturarono l’intera armata francese, uccidendo i soldati e trattando il riscatto con i nobili per lasciarli in vita. Cosa che venne fatta grazie all’abilità di un personaggio notevole, il cavaliere Jacques de Helly, che conosceva già gli Ottomani e parlava turco.6 C’era il fior fiore della nobiltà francese e borgognona, da Guglielmo di la Tré­ moille, maresciallo di Borgogna, a Giovanni di Nevers (Giovanni senza paura), dal maresciallo Jean Le Maingre II, detto Boucicaut, al connestabile di Francia Filippo di Artois, conte di Eu, e il condottiero Enguerrand di Coucy. Il riscatto richiesto mise a dura prova le finanze di molti, che a fatica riuscirono a reperire l’esorbitante montante richiesto.7 Jean Froissart riporta le trattative e la frustrazione dei Francesi.8 Un’altra descrizione dell’episodio è restituita da Johannes Schiltberger, figura che ritroveremo in seguito come soldato nell’esercito di Timur dopo la sua cattura ad Ankara nel 1402, e autore di una testimonianza tanto genuina quanto fuori dall’ordinario. Costui assistette a tutta la carneficina dei soldati a Nicopoli, eccezion fatta per quelli che avevano meno di vent’anni. Lui rientrava in quest’ultima categoria: aveva combattuto in quel frangente per conto del cavaliere bavarese Leinhart Richartinger e dopo la morte di quest’ultimo in battaglia, si ritrovò tra i numerosi schiavi degli Ottomani, che poi serví come soldato.9 Se la disfatta di Nicopoli fu un evento sconvolgente per l’Europa cristiana,10 fu invece oggetto di euforia per molti musulmani che videro in Bāyazīd il campione dell’Islam e della conquista dei territori europei. In Egitto, dove Bāyazīd aveva già inviato dei prigionieri “Franchi” presi nel Mediterraneo orientale,11 la notizia del successo dell’impresa di Nicopoli fu festeggiata come un trionfo. 192

xi · l’india

Timur fino a quel momento, ove si escludano i Georgiani, aveva combattuto solo contro dei musulmani, spesso con massacri inauditi e devastazioni, cosa che lo poneva in una pessima luce agli occhi dei suoi correligionari. E anche in Russia aveva combattuto principalmente contro Toqtamish e i suoi seguaci, senza arrivare piú di tanto a quei “Franchi”, Lituani e Russi che pur vengono decantati come suoi nemici. Non è un caso che scegliesse per sé come modello Maḥmūd il ghaznavide, eroe dell’espansione in India dell’Islam.12 Ma la propaganda necessitava anche di fatti, e a quel tempo le notizie circolavano abbastanza rapidamente: Timur venne a conoscenza dei successi del sultano ottomano e accusò il colpo. E cosí concepí l’idea di invadere l’India, modello per eccellenza del mondo pagano e contraltare orientale delle imprese contro i cristiani di Bāyazīd. Scottato dalla mancata risposta del sultano alla sua epistola, ora doveva ricostruire la propria immagine, aspetto che diventò cruciale nel suo operato successivo. 2. Alcuni mesi di riflessioni e festeggiamenti Non è un caso che le fonti descrivano con sempre maggiore solennità l’operato di Timur. Come abbiamo detto, c’è un po’ di confusione sulle date del suo ritorno a Samarcanda dalla grande campagna contro Toqtamish. Sembrerebbe che in itinere si sia fermato piú volte. Sicuramente sostò a Sultaniyya, dove lo aspettavano le sue mogli e dove fu plausibilmente raggiunto da vari suoi governatori in Persia. Si dedicò anche a premiare con denaro e doni diversi i suoi nobili; colpisce tra questi regali il nome di un cavallo, Ṭahhartan, che sembra echeggiare ironicamente quello del suo alleato Muṭahhartan (anche noto appunto come Ṭahhartan “il Purificato”), che donò all’emiro Rustam Barlas. Non mancò anche, percorrendo il Khorasan, di punire alcuni individui che avevano approfittato della sua assenza per compiere illeciti sulle rendite fiscali. Dopo aver attraversato l’Amu Darya, volle recarsi a Kish e poi a Samarcanda, dove la cittadinanza aveva addobbato la città di fiori e tappezzerie, con numerosi musici che suonavano nei mercati. Anche qui fece molte donazioni, soprattutto ai dervisci, poi si recò nel Gok Sarāy (‘il Palazzo blu’), al tempo sua residenza – oggi distrutta –, dove i poeti lo esaltarono con dei panegirici. Emise sentenze contro chi aveva commesso abusi in sua assenza e premiò chi meritava. Il quadretto idilliaco descritto da Sharaf al-Dīn propone un modello ieratico del potere politico: sorta di ritrat193

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to di un “Buongoverno” all’orientale,13 serve a riempire le pagine relative a un vuoto cronologico di numerosi mesi di inattività militare e nel contempo precede l’impresa indiana. Timur non mancò in questa circostanza di far costruire un parco imperiale dotato di padiglione che prese il nome di Bāgh-i Shimāl (‘Giardino del nord’), che Sharaf al-Dīn data alla primavera del 799/marzo-aprile 1397, dove poi trascorse altro tempo. Per decorare l’edificio fu fatto un largo impiego di artisti provenienti da varie parti del mondo da lui sottomesso e Timur lo trasformò in una specie di piccolo museo delle spolia razziate. Due colonne di marmo furono portate da Tabriz, mentre pittori di Persia e di Baghdad decoravano le mura dell’edificio di cui oggi non sopravvive piú nulla.14 Fece anche restaurare un altro giardino preesistente, il Bāgh-i Dilgushā (‘Giardino rallegrante’), di cui invece sono sopravvissute alcune tracce delle fondamenta di un padiglione.15 I lavori iniziarono sul finire del 799/estate-autunno 1397, seguendo la forma persiana dei giardini quadripartiti, con raffinate decorazioni che utilizzavano ceramiche invetriate (kāshī) che Timur aveva ammirato nella Persia muzaffaride e faceva riprodurre nella sua città, sempre piú simile a un “trofeo” delle conquiste.16 Durante questi ozii, Timur conferí ufficialmente il regno del Khorasan a Shāhrukh, una decisione che avrà molte conseguenze in seguito, visto che in quella regione, e in particolare a Herat, Shāhrukh trasferirà, dopo la sua ascesa al trono nel 1409, la capitale timuride. L’esaltazione di questo principe da parte di Sharaf al-Dīn e Ḥāfiẓ-i Abrū17 non è condivisa apparentemente da Shāmī, che scrisse quando Timur era ancora in vita, e va presa con cautela. È certo che Sharaf al-Dīn e Ḥāfiẓ-i Abrū inserirono la notizia di questa nomina come un castone destinato a elogiare un potente del tempo (Shāhrukh),18 tuttavia l’ultimogenito di Timur fu realmente destinato a Herat, come dimostra il fatto anche che non partecipò alla campagna indiana, lo stesso Mīrānshāh rimase nei territori a lui attribuiti. Forse non casualmente, la nomina di Shāhrukh coincide con la scelta di Timur di chiedere in sposa per sé una figlia di Khiżr Khwāja, la Malikat Āgha (Tukal Khānum), che avvenne proprio in quei mesi.19 Pacificato il Moghulistan, che comunque sarà sempre tenuto sotto controllo con l’invio di Muḥammad Sulṭān come governatore, ancora una volta Timur cercava un discendente di vaglia e siccome Shāhrukh era un figlio di una concubina, al pari di Mīrānshāh, la decisione di sposare una principessa di 194

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stirpe mongola mostrava il segno dei dubbi segreti che Timur nutriva sui due unici figli che gli erano rimasti. L’attenzione per il Moghulistan era stata anche sollecitata dalla visita di una ambasceria del Tonghūz Khān (‘il re maiale’),20 ovvero l’imperatore Ming Zhu Yuanzhang (Hongwu, r. 1368-1398), che probabilmente rispondeva a un’ambasceria timuride del 1395, anno in cui degli emissari cinesi guidati dai funzionari Fu An, Yao Chen, Guo Chi e l’eunuco Liu Wei erano a loro volta ripartiti in direzione di Samarcanda. Il ricevimento del 1397 sulle rive del Sir Darya, a distanza di piú di un anno dall’arrivo degli ambasciatori, ha fatto presupporre in realtà la loro detenzione da parte di Timur, questo spiegherebbe forse anche il titolo denigratorio di Tonghūz Khān affibbiato all’imperatore cinese, ribadito piú tardi da Clavijo.21 La Cina, era già un obbiettivo per Timur e il suo accostamento all’India non è casuale, come vedremo dalla dichiarazione di Timur al momento della partenza per l’India, ma l’ambasceria ripartí carica di doni a dimostrazione di un doppio binario nei rapporti internazionali e di qualche manipolazione posteriore dei cronachisti.22 In quella stessa regione, oltre il Sir Darya, tra la fine del 799 e l’inizio dell’800/fine del 1397, Timur visitò anche un luogo che avrà poi un peso rilevante nella storia successiva: il mausoleo di Aḥmad Yasavī, a Yasi (oggi Turkestan nel Kazakhstan), di cui decise la ricostruzione integrale. Il personaggio qui celebrato, non era uno dei soliti sant’uomini ai quali Timur si riferiva, si trattava piuttosto di una delle piú venerate figure religiose del mondo turco d’Asia centrale e oltre. Vissuto nel XII secolo, costui aveva scritto versi in vernacolo turco, oggetto di grandi discussioni filologiche anche relativamente alla loro autenticità nella forma in cui li possiamo leggere oggi.23 Aḥmad Yasavī incarnava e incarna ancor oggi, una figura cruciale per i Turchi d’Asia centrale che si adoperarono alla creazione di un mito attorno alla sua persona.24 Si è spesso detto che il suo santuario costituiva una specie di seconda Mecca in Asia centrale, una Mecca dei Turchi, perché in esso si racchiudeva tutto lo spirito della conversione delle genti turche all’Islam, in un sincretismo molto importante sul piano simbolico e politico. Timur, perciò, non badò a spese e ordinò un edificio di particolare monumentalità al quale poi se ne aggiunsero diversi altri sino al XVI secolo. Sormontato da una cupola di notevoli dimensioni, esso presenta ancor oggi un campionario straordinario del repertorio decorativo timuride, con un programma che unisce a uno sfondo di mattonelle invetriate turchesi, un impressionante varietà epigrafico-calligrafica.25 195

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3. Proclamazione della guerra indiana Il progetto di conquistare l’India non era una novità: la nomina nel 1391 di Pīr Muḥammad, figlio di Jahāngīr, come governatore su quel Sarḥadd-i Hindustān (la ‘Frontiera indiana’), contraltare della Frontiera franca (Sarḥadd-i Firang), riprendeva antichi progetti di epoca mongola, non ultime le sfortunate imprese del ciagataide Du‘a (r. 1291-1305) e del suo successore Tarmashirin Khān (r. 1326-1334).26 Nei mesi di soggiorno a Samarcanda, dopo le imprese nel Dasht-i Qipchaq, Pīr Muḥammad b. Jahāngīr fu inviato in quelle regioni lontane per preparare il terreno a una grande campagna militare. La spedizione portò Pīr Muḥammad fino a Multan, allora estrema frontiera del sultanato di Delhi, retto dalla dinastia dei Tughluq. La città era comandata dal generale Sārang Khān, fratello di Mallū Khān, altro generale tughluq insieme al quale era stato insediato sul trono di Delhi Maḥmūd Shāh, un sovrano abbastanza opaco, controllato dalla sua nobiltà irrequieta e da capi militari ambiziosi. Peter Jackson fa notare che il governo ombra di Sārang Khān e Mallū Khān, descritto da Sharaf al-Dīn, in realtà portò, proprio grazie all’occupazione timuride di Multan nel mese di ramaḍān dell’800/giugno 1398 e alla morte in quella circostanza di Sārang, al sopravvento da parte di Mallū Khān. Ora questo generale e il debole sovrano Maḥmūd Shāh governavano il sultanato di Delhi.27 La notizia giunta a Samarcanda della presa di Multan fece pronunciare a Timur un solenne discorso che costituiva un vero e proprio programma. Il discorso, tenuto nel mese di dhu’l-ḥijja dell’800/agosto 1398, era preceduto da un prologo del cronachista pervaso da alto lirismo e cosí pro­ seguiva: Durante l’inverno [Timur] ordinò la transumanza ad Ahangaran [nell’odierno Afghanistan]. Il principe Muḥammad Sulṭān fu incaricato della provincia del Moghulistan con l’ordine di rafforzare questa frontiera e di prevedere in quest’area costruzioni e insediamenti agricoli. Il Chiaro pensiero [di Timur] impose perciò questa risoluzione: « Che l’esercito proceda alla repressione e alla soppressione degli idolatri del Khiṭā e del Khotan [oggi nel Sinkiang cinese]. Ma innanzi tutto che ognuno ascolti in questa nobile assemblea: benché le bandiere della fede di Muḥammad – la pace sia su di lui! – sventolino sulle terre di Delhi e su Kanbāyat [luogo simbolo delle campagne indiane di Maḥmūd di Ghazna, oggi Kambay, nel Gujarat] e in altre città dell’India, e sebbene le iscrizioni monoteiste figurino nei dirham e nei dīnār di questo paese, la gente di questi regni è resa immonda dalla presenza straniera costituita dagli infedeli che sono ovunque laggiú. Sono im-

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xi · l’india mondi idolatri che vivono nella depravazione collettiva. Laggiú, i re si contentano solo di incassare i tributi e il testatico e i loro soggetti perseverano nel paganesimo e nell’ignominia. [Questi re] non ardono nello zelo di contenere i propri errori né si oppongono ai danni che essi provocano ai propri sudditi. È per questo che Sua Eccellenza il Signore della Congiunzione Astrale ne vorrà sempre la sottomissione, visto che chi laggiú tiene le redini del comando del popolo è in realtà sottomesso da quest’ultimo. Com’è possibile che la fazione che detiene il potere tolleri tali oppositori e anzi conviva laggiú con loro? Come può il loro capo allontanarsi dalla fede e dalle glorie del sultanato senza produrre reazione alcuna? ».28

Ci si può soffermare su diversi elementi di questo proclama: in primo luogo l’invasione dell’India è collegata a quella della Cina, in realtà del Khiṭā e del Khotan, ovvero il Turkestan orientale. Ma la conquista di queste ultime è procrastinata a data da destinarsi. In secondo luogo, l’India non è propriamente un paese idolatrico ma conquistato dai musulmani, costoro (pur gloriosi un tempo) non hanno saputo estirpare il paganesimo. A continuazione del racconto, Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī aggiunge alcune note di tipo storiografico, con la celebrazione di Maḥmūd di Ghazna, da lui paragonato al giovane principe Khalīl Sulṭān, figlio di Mīrānshāh, audace a combattere contro gli elefanti. Per celebrare Maḥmūd, in effetti, il riferimento al grande storico ghaznavide Abū Naṣr ‘Utbī è obbligatorio per Ghiyāth al-Dīn e cosí aggiunge anche la memoria del padre di Maḥmūd, Sebüktegin, che per primo si diresse verso l’India con l’intento di islamizzarla (X-XI secolo).29 Ma chi erano i Tughluq? Abbiamo già detto che l’eponimo della dinastia Tughluq potrebbe essere stato un Qarawna, e forse in origine suo padre, che si chiamava anche lui Tughluq, fu uno schiavo. Altri affermano che provenisse dal Khorasan anche se le sue origini nomadi lo ricollegherebbero sempre a gente sottomessa ai Mongoli.30 Questa origine, naturalmente mai espressa nelle fonti timuridi, lascia intravvedere una comunanza con Timur stesso, che con i Qarawna ebbe molto a che fare nei primi anni della sua carriera. Tughluq, che ascese al trono già appartenuto alla dinastia dei Khaljī nel 1320, aveva combattuto con successo i Mongoli che insidiavano il sultanato e sembra condividere anche questo con Timur, che anni dopo si batté insieme ai Qarawna contro il duro regime ciagataico imposto in Transoxiana.31 Ma furono sicuramente altri due membri della dinastia a rendere famo197

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so quel casato, Muḥammad b. Tughluq (r. 1325-1351) e Fīrūzshāh (r. 13511388). Nei loro lunghi regni portarono la dinastia all’apogeo della potenza estendendo territorialmente il proprio dominio sul Deccan e imponendo uno Stato solido, nel quale la diffusione dell’Islam giocava un ruolo principale. Fīrūzshāh, come vedremo, sarà un modello per Timur, che però non mancò di sottolineare la decadenza di quel casato, proponendosi ancora una volta come “restauratore” dei Tughluq. In effetti sul finire del Trecento Yaḥyā Sirhindī, uno storico indiano sul quale torneremo, affermò che « gli infedeli dell’Hindustān hanno preso forza, si astengono dal pagare il testatico e la capitazione, saccheggiando i cittadini musulmani ».32 Inoltre i conflitti interni e la moltiplicazione delle cariche portarono a un oggettivo indebolimento della dinastia che culminò con l’ascesa al trono di Maḥmūd Shāh nel 1393. A differenza della situazione nell’Asia centrale profonda (Dasht-i Qipchaq e Moghulistan), spesso terra assolutamente incognita per Timur, l’India era decisamente piú nota e praticata da mercanti e uomini di cultura. Inoltre, Timur aveva corrisposto con Fīrūzshāh e il figlio di quest’ultimo, Muḥammad (1390-1393), gli avrebbe chiesto aiuto nella sua contesa contro il rivale Abū Bakr Shāh, anche se queste relazioni diplomatiche non hanno contorni molto chiari.33 Con Maḥmūd Shāh la debolezza era cresciuta e Timur lo considerò un fattore propizio per un intervento in India. 4. I “Nerovestiti” del Kāfiristān Come è avvenuto per la Russia, le notizie fornite dalle fonti storiche indiane mostrano diverse discrepanze rispetto alle fonti persiane. In questo caso, però, si potrà notare che gli Indiani tendono a inserire succintamente l’invasione timuride tra le tragiche fatalità di un paese disastrato, soprattutto non si curano degli antefatti né si interessano dei loro avversari, definendoli tatari o talvolta khorasanici, secondo una convenzione oramai diffusa, insomma, una sorta di basso profilo. Comparando l’opera dello storico indiano Yaḥyā Sirhindī con quella di Sharaf al-Dīn, Irfan Habib ha notato l’impermeabilità delle due tradizioni narrative, sottolineando una certa povertà di informazioni nei testi indiani, ma con qualche aspetto sfuggito a quelli persiani. Sirhindī, ostile a Timur, si mostra decisamente sintetico per ragioni che sono riconducibili alla committenza della sua opera che era stata ordinata da Khiżr Khān, un nobile che fu 198

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investito da Timur del governo dell’India nel 1399, di ritorno dalla campagna, e fondò piú tardi la dinastia dei Sayyid (1414) che soppianterà i Tugh­ luq.34 Torneremo su questi aspetti, si può solo aggiungere qui che Sirhindī fu un autore profondamente impacciato e lo stesso si può dire delle cronache posteriori indiane, soprattutto di quelle moghul che vennero scritte al tempo di coloro che discendevano direttamente da Timur. Quindi ci si deve rifare soprattutto alle cronache persiane molto dettagliate, a partire da Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī fino a coloro che a lui si ispirarono in gran parte, apportando numerose aggiunte, talvolta ricavate da conoscenze estranee agli eventi. Le fonti indiane sono utili per alcuni dettagli, come quando, parlando della spedizione di Pīr Muḥammad a Multan, ci dicono che prese anche la fortezza di ‘Uchch, cosa che non viene ricordata da nessun autore della nutrita compagine di storici timuridi.35 Le cronache persiane sembrano comunque disporre di informazioni migliori: Ghiyāth al-Dīn impiegò per esempio la descrizione, oggi andata perduta, di un diretto partecipante alla campagna indiana, il Mawlānā Qāżī Nāṣir al-Dīn ‘Umar, del quale riporta anche le gesta nella sua opera insieme ad altre informazioni. Non è il caso qui di tornare sulla complessa questione critica dell’opera di Ghiyāth al-Dīn,36 basterà dire che la sua cronaca costituisce la base di numerose narrazioni successive che la integrarono ed emendarono. La campagna di Timur partí dunque dall’Afghanistan, dove, dopo aver attraversato Termez e l’Amu Darya, l’esercito composto da circa centomila elementi raggiunse Andarab. Qui gli abitanti espressero vigorose lamentele contro le malefatte degli « idolatri di Katvar », che estorcevano denaro ai musulmani. Questo fatto viene riferito da Shāmī e da Sharaf al-Dīn, ma non da Ghiyāth al-Dīn. Solo Ḥāfiẓ-i Abrū e Sharaf al-Dīn, d’altro canto, chiamano questi infedeli i Siyāhpūshān (‘Nerovestiti’).37 Erano i cosiddetti Kafiri (da kāfir, ‘infedele’) 38 del monte Katvar (o anche Kator), che qui gli autori confondono con il nome di una città o di una regione. Noti da tempi immemori con altri nomi, i Kafiri si dividevano forse già in quest’epoca in Siyāhpūshān e Safīdpūshān (‘Biancovestiti’). Pagani, sopravvissuti all’islamizzazione, erano stati oggetto di conquista in alcune campagne di Maḥmūd di Ghazna ed erano entrati a far parte del­la memoria collettiva.39 Questo spiega anche l’innesto enciclopedico semifantastico di Sharaf al-Dīn, il quale ci informa del fatto che erano dei giganti – Ḥāfiẓ-i Abrū li chiama nasnās, con riferimento a dei mitici mostri –40 che giravano nudi; avevano dei governanti (kalāntar) denominati ‘adā e 199

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‘adāshū e parlavano una lingua a parte che non era né persiana né turca e neppure indiana. Per altro non conoscevano altra lingua che la propria e se non ci fossero stati gli abitanti delle regioni vicine, che parlavano la loro lingua, nessuno li avrebbe capiti.41 I Siyāhpūshān vivevano in una cittadella su un grande fiume e all’arrivo dell’esercito timuride si sarebbero nascosti sulle montagne. Quando l’esercito guidato da Timur raggiunse a stento la cittadella la trovò vuota. I Siyāhpushān furono poi individuati nelle alture attorno e dopo tre giorni di aspri combattimenti si arresero all’esercito di Timur, il quale impose che si convertissero all’Islam se volevano salva la vita. Dopo aver accettato, costoro però attaccarono la guarnigione timuride che li sorvegliava, uccidendo tutti i soldati. La reazione fu violentissima e si consumò il massacro dell’intera popolazione. Non mancarono i minareti di teste (« che non avevano mai baciato la terra per pregare ») accanto ai quali Timur fece erigere una stele di marmo con la storia di quanto avvenuto. Aggiunge il nostro Sharaf al-Dīn che neanche Alessandro Magno era riuscito a domare questo popolo.42 La spedizione inviata contro i Siyāhpūshān non sembra però essere stata una cosa semplice e ciò malgrado il dispiegamento dell’esercito timuride: un’avanguardia guidata dai due emiri Rustam e Burhān Oghlan risultava dispersa. Quest’ultimo, anzi, viene descritto nell’atto di compiere un alto tradimento, fuggendo di fronte a questi pericolosi nemici. I Siyāhpūshān ebbero la meglio su molti soldati che furono a loro volta massacrati. Quando l’esercito timuride, partito alla loro ricerca, li trovò, si scatenò un violento combattimento, ma i Siyāhpūshān che si erano nel frattempo appropriati delle armature dei timuridi, dei loro cavalli e di tutte le armi resero l’impresa molto difficile. Completata l’operazione, Burhān Oghlan fu portato innanzi a Timur che, tuttavia, essendo costui membro del gruppo mongolo dei Qiyat,43 non ritenne di farlo giustiziare ma semplicemente allontanare dalla corte, anche se poi fu reintegrato, a dimostrazione del trattamento che il Grande Emiro riservava all’aristocrazia turco-mongola, ben diverso da quello destinato alla gente comune.44 Completata l’operazione contro i Siyāhpūshān Timur si fermò in una piana denominata di Durin, dove ricevette numerose ambascerie. Accolse nel proprio accampamento degli emissari che provenivano da Timur Qutlugh e Edigü, nonché da Khiżr Khwāja, che ribadivano la loro fedeltà e ammettevano degli sbandamenti nei loro comportamenti pregressi. 200

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Preoccupato del progetto indiano, Timur accettò le scuse senza esitazioni e un editto di perdono fu subito stilato. Evidentemente l’invio in quella regione di Muḥammad Sulṭān aveva sortito l’effetto desiderato e la situazione, ora sotto controllo in Asia centrale, permetteva di fronteggiare con maggior serenità l’India.45 Alcuni giorni dopo arrivò anche un emissario calmucco, Tayzī Ughlan, che probabilmente annunciava l’ascesa del nuovo sovrano Ming (Zhu Yunwen)46, anche se per Shāmī e Yazdī costui fuggiva dalle terre dei Calmucchi, col cui qa’an Tayzī Ughlan aveva avuto un diverbio. Questo principe avrebbe poi seguito Timur nelle sue cam­ pagne ma i contorni della vicenda rimangono oscuri.47 Torneremo su una figura con lo stesso nome che ricompare negli ultimi anni di vita di Timur.48 Sempre in quei giorni Timur arrivò a Iryab. Gli abitanti si lamentarono, stando a Ghiyāth al-Dīn, degli atti compiuti da alcuni Afghani (Avghāniyān) della tribú dei Varakzāy (Barakzay) che operavano come briganti e saccheggiatori.49 Si trattava forse di un gruppo di etnia Pashtun, che aveva lo stesso nome di coloro che fonderanno poi un’importante dinastia afghana nell’Ottocento. Ma è anche probabile che costoro fossero, come ci dice Shāmī – o semplicemente la versione del suo testo che fu recensita da Felix Taeur –,50 dei Varkūnī (Varkoni; Varkūyī in Ḥāfiẓ-i Abrū),51 un nome che farebbe pensare a dei discendenti degli Avaro-unni/Eftaliti (var-huna), anche se questa ipotesi si basa esclusivamente su una trascrizione evidentemente ipotetica del nome mal riprodotto nelle fonti persiane. Anche loro furono sterminati. Sharaf al-Dīn introduce alcune novità nel racconto: quelli che vengono chiamati Varakzāy/Varkūnī sarebbero in realtà stati dei Kirkis (Kirgizi?) guidati da Mūsā Avghānī, autore dell’omicidio del fratello di Malik Muḥammad, shāh degli Avghānī che aveva servito Timur. Mūsā Avghānī avrebbe distrutto la fortezza di Iryab, appropriandosi delle ricchezze che conteneva e impedendo a chiunque di accedervi. Timur convocò cosí Mūsā Avghanī ordinandogli di rimettere a posto la fortezza e restituire quanto rubato, dopo di che giunse nella città per vedere i lavori, ma un operaio che lo vide girare attorno al fossato a cavallo scagliò improvvidamente una freccia contro di lui, senza però riuscire a colpirlo. Gli operai che avevano compiuto quell’atto disperato furono uccisi con orrende torture. Quanto a Mūsā Avghanī, Timur gli mise contro Malik Muḥammad che poté godersi la sua vendetta, ovvero la decapitazione di ogni membro dell’intero clan dei rivali.52 Questa versione dei fatti di Iryab è comunque molto confusa e piena di scarti narrativi, a 201

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dimostrazione dei dubbi e perplessità che gli stessi autori cercano di emendare con loro interpretazioni particolari. Il racconto di altri eventi è piú coerente, anche se i dati geografici sono sempre incerti: a Naghz (probabilmente Nagar), Timur fa anche in questo caso restaurare la fortezza, e invita il signore del vicino villaggio di Parniyani (o Parniyan), altro luogo enigmatico erroneamente confuso con Parvan, abitato dagli Avghānī, a venire a omaggiarlo. Ma questo loro capo, che Ghiyāth al-Dīn chiama Mall, ebbe l’infelice idea di far fare un agguato a una carovana guidata da Pīr Muḥammad b. Jahāngīr e la città di Parniyani subí il tragico destino dei principali centri conquistati. Lo stesso avvenne a Kalat (lett. ‘fortezza’), altra città oggetto di devastazioni.53 Iniziava l’anno 801/settembre 1398. A Naghz Timur ricevette due ambascerie prestigiose. La prima era quella di un’importante autorità religiosa, Sayyid Muḥammad Madanī, che giungeva direttamente da Mecca e Medina. Costui fu accolto con tutti gli onori e sebbene non sia chiara la conversazione che intercorse tra lui e Timur, il sayyid avrebbe chiesto a nome delle autorità dei governatori (ḥukkām) e degli sceriffi delle città sante di venire in visita, ovvero in pellegrinaggio. Con il sant’uomo si trovava anche un emissario di Sikandar Shāh (Sikandar Botkishān o Botshikan, ‘Alessandro l’abbattitore [o il frantumatore] di idoli’ nelle fonti persiane d’India),54 signore del Kashmir che si sottometteva a Timur e che gli promise di raggiungerlo a Dibalpur (Deobalpur) a capo delle sue truppe, dopo la conquista della città.55 Il primo emissario forse fece vagheggiare a Timur dei sogni di restaurazione del califfato, l’accoglienza al secondo era invece il preludio di un’alleanza fondamentale per non avere sorprese da settentrione nella sua penetrazione indiana. Curiosamente sopravvivono tracce del Sayyid Muḥammad Madanī nel Kashmir, dove costui evidentemente si recò dopo l’incontro di Timur, dando vita a un particolare centro religioso, il cosiddetto Madin Sahib a lui intitolato a Srinagar. 5. Oltre l’Indo: il “signore dell’isola” Shihāb al-Dīn Mubārak Tamīm e il Punjab Se la descrizione dell’Afghanistan profondo si caratterizza per molte confusioni e sovrapposizioni cronologiche, sul superamento dell’Indo e gli eventi che seguirono gli storici persiani concordano tra loro, pur con le solite aggiunte di Sharaf al-Dīn, e diverse incertezze toponomastiche (vd. 202

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cartina n. 4). L’Indo fu attraversato il 12 del mese di muḥarram 801/25 settembre 1398, in un luogo che viene descritto come la « Steppa di Jalāl » (Chūl-i Jalālī), con riferimento al punto in cui Jalāl al-Dīn Mangburni, ultimo rappresentante dei Khwārasmshāh, vi avrebbe combattuto e perso una battaglia contro i Mongoli nel 1221, attraversando poi il fiume a nuoto. In realtà, Timur attraversò l’Indo a Dhankot (prossimo all’odierna Kalabagh in Pakistan),56 ma l’evocazione delle gesta di Jalāl al-Dīn inizia una lunga serie di citazioni di eroi del passato che avevano attaccato l’India, utili a dimostrare che Timur li aveva superati per zelo e risultati. Oltrepassato l’Indo con un ponte di barche, venne raggiunto dai raja hindu (rāyā) del monte Jūdī, che lo avevano aiutato ad attraversare il fiume e che ora offrivano la loro sudditanza. Questi signori locali si rivelarono alleati preziosi, malgrado non fossero musulmani.57 Lo stesso non avvenne per un signore musulmano, Shihāb al-Dīn Mubārak Tamīm, che si era autoproclamato sovrano nella sua provincia sulle rive del fiume Jhelum (per le fonti persiane Jamd), il quale si era rivolto in precedenza a Pīr Muḥammad come suddito dei Timuridi. Accusato di aver tradito questi accordi, portò Timur a compiere una deviazione rispetto all’itinerario che si era proposto per arrivare a Delhi, raggiungendo la sua cittadella su un’isola che si trovava all’incontro dei fiumi Jhelum e Chenab, due dei cinque fiumi che formano il Punjab (panj āb, ‘i cinque fiumi’: Indo, Jhelum, Chenab, Ravi e Sutlej). Era stato preceduto dallo Shaykh Nūr al-Dīn, che sarà poi uno degli eroi della campagna indiana. I Timuridi riuscirono a catturare numerosi battelli ai soldati di Shihāb alDīn, il quale fuggí sul fiume in barca, gettando in acqua la moglie e i figli.58 Seguí la distruzione della cittadella e un massacro della popolazione. In quella regione Timur elevò un ponte per il transito del suo esercito. Ancora una volta viene evocato un predecessore di Timur, Tarmashirin Khān, che pur riuscendo ad attraversare il fiume Jhenab, non era però riuscito a costruirci un ponte! L’esercito si spostò allora verso settentrione e arrivò a Tulumba (Tolomba, Talmīna nelle fonti persiane, a nord di Multan) sul fiume Ravi. Qui tra la fine del mese di muḥarram e l’inizio del mese di ṣafar dell’801/ ottobre 1398 e dopo essersi accampato ai lati della città, che era molto ben fortificata, Timur ricevette però i signori locali capeggiati dal loro navvāb (‘nababbo’) che portava con sé due lak (hindi lakh, 100.000 unità, quindi probabilmente 200.000 monete locali) come riscatto della città.59 Furono esentati dal riscatto i numerosi uomini di fede e i sayyid della città, alcuni 203

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dei quali si aggregarono alla corte di Timur. La situazione però precipitò: col pretesto che l’esercito aveva bisogno di grano, fu autorizzato a entrare nella città per requisire ogni tipo di cereale, cosa che portò allo scontro con la popolazione di cui furono incendiate e razziate le case. Il divieto di toccare gli uomini di fede (musulmani) fece sí che costoro non rimanessero nella città una volta allontanatosi l’esercito timuride. Cosa comprensibile, visto il trattamento riservato agli altri evidentemente non musulmani. Inoltre, la scorrettezza compiuta dai soldati entrando in maniera sconsiderata nella città sembrava aver « aperto gli occhi » ai governanti locali vicini, che sino ad allora si erano arresi senza grandi timori e ora divennero apertamente ostili.60 Ripartito da Tulumba l’esercito seguí il corso del fiume Ravi. Rimase dieci giorni a Shahnavaz, dove Timur venne a sapere che il governatore di Lahore, Jasrat (o Nuṣrat come lo chiamano le fonti persiane), fratello del potente Shaykhā, capo della tribú dei Khōkar, che governava dal Ravi al Chenab, si era predisposto in armi nella regione tra Tulumba e Dibalpur (Deobalpur) pronto a combattere. I Khōkar erano un gruppo indigeno, spesso confusi con i Gakhkhar, di origine persiana, o i Kakar, di origine afghana;61 costoro divennero una potenza regionale considerevole e soprattutto dopo l’abbandono della regione da parte di Timur saranno un potentissimo stato per tutto il XVI secolo. Jasrat affrontò l’esercito timuride in una battaglia campale sul « melmosissimo » fiume Beas (Biah), nella quale Sulṭān ‘Alī Tuvāchī62 rimase ferito gravemente e fu necessario l’intervento del qawchīn (‘reggimento’) guidato da Shaykh Nūr al-Dīn e dall’emiro Allāhdād che alla fine sconfisse l’esercito di Jasrat e ne uccise molti soldati, infilzandone le teste mozzate che furono portate come trofei a Timur. Ghiyāth al-Dīn afferma che di Jasrat (Nuṣrat) non si seppe piú nulla, forse morí o fuggi sparendo per sempre.63 In realtà fu catturato da Timur che lo portò poi con sé a Samarcanda, dalla quale tornerà dopo la morte di Timur per ristabilire un lungo periodo di una pur travagliata dominazione della regione di Multan e Lahore (morirà attorno al 1436).64 Anche a Shahnavaz l’esercito timuride si dedicò alla requisizione di tutto il grano depositato nei magazzini della città. Dopodiché Timur in persona ordinò di incendiare i magazzini affinché i « ghebri » (gabr) indiani non potessero ricavare nulla da quelle riserve. L’uso del termine ghebri da parte di Ghiyāth al-Dīn è ancora una volta indicativo delle scarse conoscenze dei Timuridi sulle religioni “pagane”, in questo caso sull’Indui204

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smo. Confuso con molti altri termini quali butparast (‘idolatra’) e kāfir (‘infedele’), gabr verrà utilizzato sistematicamente dai cronachisti timuridi e, come vedremo, lo stesso Ghiyāth al-Dīn si eserciterà nella sua cronaca in una lunga divagazione sui pagani e sugli eretici. Basti dire qui che, nel complesso, spesso anche i musulmani indiani vengono confusi in questa categoria, con un pregiudizio sulla loro carnagione scura e le loro consuetudini considerate immonde. Il 12 ṣafar 801/24 ottobre 1398 fu la volta di Janjan, sempre sul fiume Beas; qui restarono diversi giorni, nei quali il principe Pīr Muḥammad b. Jahāngīr raggiunse l’accampamento imperiale. Raccontò di come si era svolto, nel corso di sei mesi, l’assedio di Multan: la popolazione spossata e priva di viveri era stata costretta a mangiare delle carogne (murdār) per poter sopravvivere e infine Sārang Khān era fuggito dalla città permettendo cosí la presa della città, secondo Ghiyāth al-Dīn, mentre per Sirhindī sarebbe stato catturato e imprigionato da Pīr Muḥammad.65 Presa Multan, però, un forte monsone (Sharaf al-Dīn usa qui il termine hindi pashakāl, ma potrebbe anche indicare la presenza di un’epidemia causata da una moltitudine di zanzare, pasha zār, come scrive Ghiyāth al-Dīn)66 causò la morte di molti cavalli, mentre quelli sopravvissuti furono messi in sicurezza nella città. Ciò favorí una rivolta dei governatori locali e in particolare i signori di Dibalpur, che si erano in precedenza sottomessi, i quali uccisero il darugha che doveva controllare la città, Musāfir Kābulī, insieme a mille uomini posti per il suo presidio.67 In seguito, asserragliatisi dentro la cinta muraria, i Timuridi da assedianti divennero assediati, fino all’arrivo di Timur, quando preferirono fuggire a Bathnair, liberando la città dall’assedio.68 Pīr Muḥammad chiese anche perdono per alcuni personaggi che erano fuggiti in India durante le guerre corasmiche di Timur e che dopo la presa di Multan si recarono dal principe perché intercedesse presso Timur. Quest’ultimo li perdonò non senza risparmiar loro il bastone del yasaq, ovvero averli fatti prendere a legnate, prima di mandarli via dall’accampamento.69 Nell’itinerario verso oriente, dopo aver passato Sahival e Jamival, fu catturata anche Ajudan (Ajodhan, vicino all’odierna Pakpattan, a sud di Dibalpur [Deobalpur]); qui degli uomini di dottrina, lo Shaykh Munawwar e lo Shaykh Sa‘d, avevano preventivamente fatto fuggire gli abitanti verso Bathnair, piú a est. In seguito, erano fuggiti anche loro in previsione dell’arrivo di Timur. Il loro tradimento causò molta irritazione e 205

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Ghiyāth al-Dīn non perde l’occasione per fare dello spirito sui loro nomi assolutamente contraddetti dai loro « corrotti » comportamenti (munawwar, ‘luminoso’; sa‘d, ‘prospero’). In compenso Timur impose a quella città il governo di Nāṣir al-Dīn ‘Umar, del quale invece Ghiyāth al-Dīn fa un elogio sperticato definendolo un firishta (‘angelo custode’); lo ritroveremo in seguito tra i piú feroci esecutori di carneficine in prossimità di Delhi.70 6. Bathnair Ad Ajodhan, Timur visitò anche la tomba del celebre sufi e sayyid Farīd Shakar Ganj (anche noto come Farīd Ganj-i Shakar, o soprattutto Bābā Farīd),71 un asceta del XII-XIII secolo appartenuto alla ṭarīqa (‘confraternita’) della Chishtiyya, un ordine con princípi di apertura mentale nei confronti delle altre religioni, aspetto che forse Timur non era in grado di apprezzare. Né sapeva, come avremo modo di vedere, che Bābā Farīd aveva avuto un peso considerevole nella conversione all’Islam di numerosi nuclei di popolazione della regione. Il santuario a lui dedicato era un vero e proprio centro di irradiazione del sufismo e dell’Islam nel Punjab, nel Rajastan e anche oltre. Entrato in quello che oggi è territorio dello stato indiano, Timur marciò in direzione Bathnair (oggi Hanumangarh nello stato del Rajastan), dove si erano rifugiati gli abitanti di Ajodhan e di altre città circonvicine. Tra le caratteristiche di Bathnair vi era una cinta muraria solidissima, che Sharaf al-Dīn non manca di celebrare nel suo catalogo di mirabilia.72 Si trattava di fortificazioni messe in piedi in tempi antichi e poi restaurate all’epoca di Shēr Khān, un cugino del sultano di Delhi Balaban nel XIII secolo. Oggi la conosciamo piú o meno in quella solida forma, concepita allora anche per fermare le avanzate mongole. Al tempo di Timur, Bathnair era controllata da nobili Rajput del gruppo tribale Bathi, un importante clan composto da elementi diversi come i Jāt e gli stessi Khōkar. A partire dal XIII secolo queste popolazioni avevano iniziato un processo di islamizzazione coincidente con un particolare sviluppo dell’agricoltura nel Punjab. Principale artefice di questa conversione fu proprio Bābā Farīd.73 Tra questi convertiti, vi era il ragià (rāy, o rāw) di Bathnair Dūljīn o Davaljīn, come lo chiamano le fonti persiane (Dalachandra/Dulchand o Daljīt, Jaljin e Juljayn, nelle fonti indiane).74 Costui, stando a Ghiyāth al-Dīn: 206

xi · l’india Aveva un seguito imponente e una milizia numerosa: teneva saldamente le redini del potere e percepiva il tributo di quelle terre, ma i mercanti e le carovane non si sentivano al sicuro quando si trovavano al suo cospetto. Quando il Sole della bandiera del Conquistatore [Timur] sorse da quei paraggi, il ragià Dūljīn, rinchiuso nella sua solida cittadella e con molti effettivi al seguito, si fece arrogante e scosse la testa dal giogo della sottomissione, sottraendo il collo alla catena dell’obbedienza.75

Dopo aver attraversato in pochi giorni a tappe forzate piú di centocinquanta chilometri da Ajodhan e aver distrutto e ucciso numerosi indiani « dal volto corvino » (zāgh-chahra) nel villaggio di Band, i Timuridi si trovarono davanti le fortificazioni di Bathnair. Malgrado gli sforzi compiuti per contrastare Timur, il ragià Dūljīn finí con l’arrendersi. Tutti i profughi che si erano rifugiati nella città non avrebbero permesso di reggere a lungo a un assedio, e cosí inviò numerosi doni e il proprio figlio accompagnato da un luogotenente (nāyib) che menava con sé bestiame e cavalli pregiati. Il giorno successivo (27 ṣafar 801/8 novembre 1398) uscí lui stesso, accompagnato dallo Shaykh Sa‘d al-Dīn di Ajodhan, recando i doni a gruppi di nove esemplari, e vennero concordati i termini per il pagamento del riscatto di Bathnair. Sembrava dunque che la cosa potesse risolversi in termini pacifici e, aperte le porte della città, gli emiri Sulaymānshāh e Allāhdād si dedicarono al presidio di tutto il centro urbano. Timur però chiese che la gente di Dibalpur che si trovava in città uscisse fuori. Accusati di aver provocato la morte di Musāfir Kābulī a Multan e di mille soldati, cinquecento di loro furono giustiziati sul posto, i loro figli e le loro donne furono catturate e ridotte in schiavitú. Furono uccisi anche altri individui di Ajodhan con la stessa procedura di sequestro dei congiunti. Innanzi a questi massacri e forse con qualche avventata ambizione, mentre il ragià Dūljīn era sotto custodia nell’accampamento di Timur, suo fratello Kamāl al-Dīn fece chiudere le porte della città ma dovette cedere appena si accorse della macchina di guerra che si andava apprestando sull’altro versante. Quando finalmente i Timuridi riuscirono a rientrare a Bathnair per la riscossione del riscatto, i nobili locali si rifiutarono e i ghebri che stavano nella cittadella: diedero fuoco alle proprie mogli, ai figli e alle loro ricchezze. Quelli che si professavano musulmani sgozzarono le loro donne e i figli, come fossero montoni. Poi i due gruppi si allearono, mettendosi in combutta, risolvendosi alla guerra e

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tamerlano allo scontro in battaglia fino alla morte. Erano tutti forti come leoni ed elefanti, grandi e grossi come statue, simili a pantere e coccodrilli, col cuore di pietra e il fegato di ferro.

Ma: « Sul fronte opposto, l’esercito era un maestoso e tremendo flusso oceanico e le sue fiamme tumultuose lambivano le Pleiadi ». Timur vinse anche questa battaglia, poi diede ordine di far sprofondare le mura, che furono smantellate in alcune parti, e dispose che i soldati avessero mano libera sui beni che riuscivano a saccheggiare, sarebbe stato questo un “suo” dono per il loro spirito di servizio. Ci fu un ulteriore massacro della popolazione e le cataste di morti che sorgevano all’esterno della città iniziarono a decomporsi producendo un odore insopportabile che impose a Timur di ripartire in direzione di Delhi.76 La descrizione dell’itinerario è caratterizzata da informazioni di tipo antropologico da parte dei cronachisti: a Sarsoti (tra Bathnair e Delhi) la maggioranza della popolazione era pagana e mangiava carne di maiale, anzi teneva dei porci in casa. Tutti fuggirono mentre l’esercito si avvicinava, anche se dopo essere stati inseguiti furono uccisi in molti. A Fathabad la popolazione era invece stata « deviata da Satana », si presume che si trattasse di sciiti, tanto bastò per il loro annientamento. Ad Ahruni (oggi Ahirwan) nessuno si presentò e la gente del posto che non era fuggita fu giustiziata sul posto. A Tuhana (Tohana) le fonti persiane descrivono una tribú di Jāt, creando volutamente una confusione col termine mongolo jätä (‘predone’), attribuito ai ciagataici del Moghulistan (Jete). Nel caso dei Jāt, invece, il riferimento è piuttosto a coloro che noi oggi chiamiamo zingari (definiti nel mondo islamico Zuṭṭ e proprio da queste regioni deportati a piú riprese in occidente e oggi sopravvissuti nel Rajastan, nel Punjab e in Afghanistan).77 Duecento di loro vennero uccisi, mentre gli altri fuggivano nel deserto. Un altro massacro di Jāt fu consumato nei giorni successivi, mentre un sayyid del luogo riceveva tutti gli onori. Il 23 del mese di rabī‘ i 801/3 dicembre 1398, fu raggiunta un’altra città di ghebri, Toghluqpur, non lontano da Panipat, a un centinaio di chilometri da Delhi. Qui gli abitanti parlavano in termini dualistici di « luce e ombra », di dio e Ahriman (ovvero l’entità malvagia del mazdeismo), ma non si capisce bene a cosa Ghiyāth al-Dīn faccia riferimento, forse una comunità zoroastriana, ancor meno si capisce chi fossero i Salwān (o Sūlūn) che abitavano il castello della città, i quali fuggirono tutti per l’avanzata timuride e perché la loro città veniva data alle fiamme. Fuggirono anche gli 208

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abitanti di Panipat in direzione di Delhi, mentre le truppe razziavano un’ingente quantità di grano e di cibo.78 7. Il Jahānnumā e la strage di Luni L’attraversamento del Punjab e del Rajastan e infine la presa di Bathnair avevano lasciato una scia di morti e di devastazioni. Come abbiamo visto, le requisizioni sistematiche in ogni villaggio dei beni suntuari, del grano, del foraggio e la cattura degli schiavi avevano “appesantito” l’esercito con un seguito di persone da nutrire e numerosi carichi da trasportare. Inoltre, i soldati, che avevano avuto modo di arricchirsi con le razzie e di dedicarsi al massacro degli Indiani, erano particolarmente galvanizzati: ogni villaggio e paese era oggetto di preda e violenze di ogni tipo. Non si esitava a dare fuoco alle abitazioni dopo averle svuotate, in alcuni casi anche senza svuotarle e con gli abitanti dentro. Timur consentiva – quando non incitava lui stesso – gli eccidi, come quello degli abitanti di Dibalpur e di Ajodhan massacrati alle porte di Bathnair. Torneremo a breve sulla brutalità di queste azioni, per altro oggetto di studi sulla psicologia collettiva e l’ideale concezione politica nell’Islam del XIV secolo.79 C’è però un altro aspetto che merita di essere sottolineato in questo irrompere di Timur in India, quello della ricerca della memoria di un passato glorioso dei suoi predecessori. Timur propone in qualche modo un calco del loro operato, ripetendone gli itinerari e riproducendone le gesta.80 Ma sono anche fonte di ispirazione per nuove costruzioni: nel suo arrivare nei sobborghi di Delhi, Timur volle fermarsi in un grande complesso palaziale sul fiume Jawn (Jamna, oggi Yamuna), per il quale le fonti persiane usano il composto Jahānnūmā (il ‘Mostramondo’), ma che è noto soprattutto come Kotla Fīrūzshāh (‘cittadella di Fīrūzshāh’), in realtà una città-palazzo sulle rive dello Yamuna, caratterizzata da numerose costruzioni al suo interno. Tra le meraviglie del sito vi era una delle due colonne che saranno attribuite ad Ashoka, trasportate come spolia da Fīrūzshāh da Tobra e da Meerut, per poi riposizionarle nei suoi edifici. Quella del Jahānnūmā prese il nome di mīnār-i zarrīn (‘minareto d’oro’) e divenne un simbolo, al pari di altre portate a Delhi dai suoi predecessori, come quella istallata accanto al Quṭb mīnār (il ‘minareto polo’), posto a dimostrazione dei grandi successi di Aybak, primo sultano di Delhi (1199).81 Ghiyāth al-Dīn descrive l’escursione nella Kotla di Fīrūzshāh come una sorta di esperienza iniziatica: 209

tamerlano Allorché gli edifici del Jahānnumā furono irradiati dalla luce delle bandiere che sottomettono la Terra [quelle di Timur], la corte di quel luogo delizioso risplendette per l’aureola attorno al diadema adornamondo, rendendo esplicito il significato del nome « Mostramondo » ( Jahānnumā) e la sua veridicità. Il sultano Fīrūzshāh, nel dare quel nome, era stato ispirato correttamente e tra le meraviglie del mondo lasciò una traccia, poiché questo edificio sarebbe stato, da un lato, espressione della presenza umana, dall’altro, avrebbe mostrato il mondo agli eserciti. […] Tutto il mondo è testimoniato da un palazzo e tutto il popolo della Terra contempla una sola essenza. In un’ora, si contempla la Visione profonda (baṣīra), che attraversa i tempi delle ere della rotazione terrestre, fino all’annientamento della vita umana.82

Questa altisonante dichiarazione estetico-esoterica, derivante dal linguaggio del sufismo (la « Visione profonda » e l’« annientamento in Dio »), fu scritta per una costruzione che rifletteva in pieno quanto poi Timur riprodurrà nella costruzione della Grande Moschea di Samarcanda al suo ritorno dall’India.83 Un autore indiano, Shams-i Sirāj ‘Afīf, autore di una storia di Fīrūzshāh, riportò dopo il passaggio di Timur una testimonianza importante quanto difficile da verificare. Innanzi ai cosiddetti « Pilastri di Ashoka », o i « minareti », come li chiamano le fonti persiane, Timur avrebbe affermato che non esisteva al mondo nulla di simile e che simili costruzioni erano destinate a rimanere segno perenne della ricerca della fede da parte di Fī­ rūzshāh.84 Finita la visita del Jahānnumā, Timur riprese le sue manovre di avvicinamento ai Tughluq, e Ghiyāth al-Dīn sottolinea che dopo la morte di Fīrūzshāh degli schiavi senzadio avevano ripreso ad agire in modo “tirannico” trasgredendo la legge islamica. Timur ritornò in un centro abitato dal quale era forse già passato, uccidendo la popolazione e distruggendone gli abitati. Era il borgo di Luni, oggi inglobato nelle periferie settentrionali di Delhi. Qui, forse ispirato dal Mostramondo, dove poté osservare anche un dīvān-i khāṣṣ (‘palazzo delle udienze private’), si accampò nel mese di rabī‘ ii 801/dicembre 1398, e iniziò a distribuire doni ai membri del suo esercito e a processare coloro che avevano disatteso ai suoi ordini, impartendo lezioni di alta morale derivanti dai dettami della tūra (diritto consuetudinario) e del yasaq (la legge mongola). Si dedicò anche a lungo alle arti teoriche della guerra ridistribuendo i comandi delle truppe e stabilendo la disposizione di ognuno al momento della battaglia. In questo quadro solenne emerse la questione dei prigionieri che le 210

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fonti persiane stimano fossero centomila, con il problema del rischio di probabili rivolte che comportavano. Venne emesso il decreto che ne sanciva l’immediata eliminazione fisica. Nāṣir al-Dīn ‘Umar si propose come un campione dello zelo della ghazā, affermando che, non avendo sino ad allora ucciso neanche un montone in sacrificio a Dio, ora avrebbe ucciso dieci indiani tra i suoi prigionieri con quello scopo, operazione che eseguí all’istante e diede l’inizio a un frenetico massacro. I soldati dovevano risparmiare, prendendoli tra le donne e i bambini, una persona ogni dieci per la custodia del bestiame.85 Questa strage è celebrata da tutte le cronache timuridi, che non mostrano alcuna remora al riguardo, quasi a voler confermare il fatto che un infedele, al pari di un animale, possa essere ucciso senza troppe esitazioni poiché non fa parte del genere umano. Un paradosso ancor piú sorprendente si ricava dalla lettura delle fonti indiane, come Sirhindī, che invece riducono considerevolmente il numero dei morti, ridimensionando quel gesto e diminuendo la portata della propaganda avversaria. Ma Sirhindī non manca di sottolineare il fatto che Timur non faceva piú di tanto distinzione tra indú e musulmani, piuttosto sottolinea il terrore che aveva ingenerato nella regione provocando la fuga di numerosi profughi nei deserti e sulle montagne circonvicine per evitare di essere uccisi.86 8. La battaglia alle porte di Delhi Mentre Timur usciva dal Jahānnumā e attraversava lo Yamuna, il generale Mallū Khān con quattromila cavalieri, cinquantamila fanti e ventisette elefanti tentò un attacco a sorpresa all’esercito timuride accampato sullo Yamuna. L’attacco fu respinto da due qūshūn timuridi guidati da Sevinjek Bahādur e Khwāja Mubashshir. Si trattava tuttavia di una prova di forza per sondare l’esercito timuride in vista dello scontro maggiore che si sarebbe verificato nei giorni successivi. Ghiyāth al-Dīn introduce la battaglia con una lunga premessa di tipo solenne infarcita di citazioni religiose e letterarie, in cui l’autore sottolinea con forza il disprezzo che Timur avrebbe provato per le previsioni astrologiche: « per quanto i segni vi siano, questi non hanno senso senza le scelte del Veritiero! ».87 Timur si affidò piuttosto a una lettura casuale del libro sacro secondo la pratica dell’istikhāra (divinazione facendo uso del Corano). Il versetto prescelto dal fato era nella sura di Giona (Cor., 10 24): 211

tamerlano La vita della terra somiglia all’acqua che facciamo discender dal cielo e che si mescola all’erbe della terra, che nutrono gli uomini e i greggi, cosí che quando la terra si veste dei suoi ornamenti e s’adorna di lussureggiante bellezza e quelli che l’abitano s’illudono di possederla, le giunge un Ordine nostro, nelle tenebre della notte o nel chiarore del giorno, ed eccola mietuta e la ricchezza di ieri come non fosse stata.

Ghiyāth al-Dīn non ha dubbi sull’argomento manifesto del versetto e sul pronostico positivo nel quale intravvede l’illusione degli Indiani di vivere in prosperità e la capacità distruttiva di Timur che sarebbe stato una sorta di mano divina giunta per mietere la ricchezza di ieri come non fosse stata. Lo stesso autore non manca anche di descrivere il pronostico negativo che avrebbe ricevuto in contemporanea Mallū Khān compiendo anche lui la stessa operazione. Si noti anche la descrizione di tipo etnico del rivale, seguendo tutti i parametri di un certo razzismo tipico dell’epoca e indicando Mallū Khān come il vero signore dell’India, piuttosto che il legittimo sovrano Maḥmūd Tughluq: Altrove, Mallū Khān, che era di nero aspetto e governava il paese dell’India, ordinò di esprimere un pronostico e ne uscí questo versetto della sura dell’Ape [Cor., 16 76]: Dio fa ancora una similitudine: due uomini, uno muto che non è capace di nulla ed è un peso per il suo padrone; ovunque egli lo mandi non porta nulla di buono. Son forse uguali quest’uomo e un uomo che comandi con giustizia, su un retto pensiero?88

Aggiunge Ghiyāth al-Dīn che l’analogia tra un credente e un pagano corrisponde in realtà a quella tra un uomo libero e uno schiavo i quali, nel Giorno del Giudizio, non si troveranno mai di fronte. La doppia lettura del Corano è qui esemplificativa di come si preparavano le battaglie, incluse le consultazioni casuali del testo sacro e le predizioni astrologiche, qui apparentemente disprezzate da Timur. Superato lo Yamuna, Timur predispose un trinceramento per proteggere la fanteria a ridosso di una collina denominata Bahali. Il 7 rabī‘ ii 801/17 dicembre 1398, l’esercito venne schierato in modo piuttosto convenzionale, secondo le impostazioni che già conosciamo. La scelta della collocazione nelle armate fu meticolosa: sul fianco destro fu collocato Pīr Muḥammad, figlio di Jahāngīr, uno dei principali protagonisti delle campagne indiane, insieme a una schiera di altri emiri; l’ala sinistra invece era comandata dal sultano Maḥmūd, ovvero il sovrano fantoccio ciagataico che aveva sostituito Soyurghatmish sul trono timuride; nel centro, ovviamente, emergeva Timur.89 212

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Quanto a Sulṭān Maḥmūd e Mallū Khān, disponevano di diecimila cavalieri, ventimila fanti e centoventi elefanti da guerra armati e catafratti: I combattenti erano seduti su banchi di legno che si trovavano sopra torri disposte sul dorso di queste vere e proprie montagne; dietro le file degli elefanti c’erano dei balestrieri90 e dei ra‘dandāzān [dei moschettieri?] e su alcuni elefanti c’erano degli arcieri. Le proboscidi di quegli animali erano legate tra loro e l’esercito vittorioso, per quanto fosse avvezzo e abituato alla guerra e al combattimento, nonché coraggioso al punto che molti incedevano terrificanti e cacciavano nei vortici le anime, si sentí tuttavia assai inquieto in quel luogo, di fronte agli elefanti infuriati che si presentavano come montagne alte sino alle nuvole e già da lontano incutevano estremo terrore. Cosí alcuni maschi dimenticarono la propria virilità. È il caso del Gran mawlanā Khwāja Fażl, figlio del sultano degli ulamà e degli shaykh Jalāl al-Ḥaqq wa’l-Dīn Kāshī, e del gran mawlanā ‘Abd al-Jabbār, figlio del re dei qāżī del Mondo Nu‘mān al-Dīn […]. Sua Maestà il Gran Signore chiese loro: « quale sarà la vostra posizione in battaglia? », ed essi risposero ribollenti di terrore e al colmo della confusione « il posto di questi servitori è dove ci sono le sultane ». Sua Maestà il Gran Signore del Khanato, Detentore della Congiunzione, rise di gusto e siccome i due eserciti si approssimavano tra loro nel campo di manovra alle pendici dell’alta collina di Bahālī, salí sopra di essa, dando indicazioni in ogni direzione: giunsero insieme avanguardia ed esploratori che ingaggiarono battaglia.91

Questo sapido episodio dà un’idea del terrore che incuteva l’esercito indiano. Curiosamente Ghiyāth al-Dīn non si sofferma sulla strategia impiegata per affrontare il “muro” costituito dagli elefanti. Sharaf al-Dīn riferisce nel dettaglio un’astuzia ideata da Timur per superare l’ostacolo apparentemente insormontabile: dopo aver fatto scavare il fossato, protetto dagli scudi, fece venire dei bufali facendoli coprire di cuoio sui fianchi, sul collo e sulle zampe e vi fece predisporre sopra delle balle di sterpaglie secche che avrebbero dovuto essere incendiate. Insieme, fece preparare dei grossi triboli di ferro che i fanti avrebbero dovuto gettare innanzi agli elefanti quando questi caricavano. Sharaf al-Dīn aggiunge che questo espediente non fu necessario perché Timur rinforzò l’ala destra con la retroguardia e questo permise di attaccare in forze l’esercito indiano sul fianco sinistro, dove era piú debole, finendo col prendere gli elefanti da dietro, catturarli facilmente e condurli via « come dei buoi ».92 La versione riportata a piú riprese da varie fonti posteriori fu poi spesso ingrandita e rivisitata aggiungendo altri animali, come i cammelli, alla storia della bat213

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taglia. In realtà l’esclusione della storia dei bufali incendiari nella cronaca di Ghiyāth al-Dīn è conseguente forse proprio al fatto che questo non fu mai messo in pratica o forse semplicemente che non fu neanche mai concepito. La disfatta per i Tughluq fu totale, Sulṭān Maḥmūd e Mallū Khān riuscirono a malapena a uscire dal campo di battaglia e a fuggire verso Delhi, mentre i loro uomini venivano macellati tanto da formare una montagna di cadaveri che « superava in altezza anche il monte Bahali »; l’eccidio viene comparato a quelli di Isfahan e del Sistan oramai superati per la quantità dei morti uccisi.93 Oltre alla cattura degli elefanti, che poi entrarono a far parte dell’esercito timuride, sequestrati ai vari emiri e principi e portati a Timur, divenendo oggetto di vari panegirici inseriti nelle cronache evidentemente destinati a celebrare ogni volta un committente diverso, la battaglia sembra aver messo in luce il potenziale delle armi utilizzate, incluse quelle da fuoco.94 Sicuramente i numeri forniti dagli autori timuridi non riflettono, al ribasso, la vera entità dell’esercito indiano, ma, come ha fatto notare Peter Jackson, si trattò comunque di un esercito molto ridotto rispetto a quelli che per esempio aveva schierato Fīrūzshāh nelle sue precedenti campagne nel Bengala e a Thatta (dove si parla di 80.000-90.000 cavalieri e fino a 480 elefanti).95 Anche da questo punto di vista, il declino militare era conseguente a una profonda crisi economica e politica del sultanato che ancora una volta Timur seppe sfruttare ad arte.

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XII DELH I, LE P EN DIC I DELL’H I MALAYA E LA G RAN DE MOSC H EA DI SAMARCAN DA 1. Il presidio impossibile di Delhi L’impressione ricavata da Ibn Baṭṭūṭa quando visitò Delhi nel 1334 era quella di un insieme di città, quattro per l’esattezza, congiunte da un’imponentissima cinta difensiva, ma in definitiva non comunicanti tra loro. L’autore maghrebino la definisce una città densamente popolata anche se è difficile stabilire quanti abitanti contenesse al tempo della sua visita.1 Di certo la città aveva avuto un ampio sviluppo sin dalla sua occupazione ghuride nel 1192, vedendo la crescita progressiva della presenza musulmana. In epoca mongola ospitò molti profughi, tra i quali numerosi intellettuali, primo tra tutti il poeta Amīr Khusraw che morí nel 1325, dopo aver celebrato i sovrani tughluq con un suo poema epico (il Tughluqnāma). L’occupazione della città da parte di quelli che poi saranno chiamati sultani mamelucchi (‘schiavi’, al pari dei Mamelucchi d’Egitto), intendendo con questo termine le origini servili e turche dei fondatori, aveva portato, da un lato, all’affermazione della dottrina sunnita, esemplificata dall’imponente Quṭb mīnār (il ‘minareto polo’), affiancato dalla moschea Quwwat al-Islām (‘La potenza dell’Islam’); dall’altro, la città divenne un centro intellettuale in cui si verificò quella fusione tra mondo indú e mondo islamico cosí aborrita da Timur, ma altrettanto inevitabile in quel contesto. Piú che altrove Delhi era luogo di un’integrazione complessa e si potrebbe dire che smentiva ancora una volta l’idea riduttiva di un Islam soggetto alle “influenze” dei popoli che conquistava, dimostrando piuttosto il suo ruolo come promotore di una nuova realtà socio-culturale che assorbiva e inglobava altre tradizioni in una realtà nuova. Proprio Amīr Khusraw può essere considerato uno dei rappresentanti piú eloquenti dello scambio intellettuale che l’India intessé in quest’epoca con il resto del mondo musulmano e non è un caso che sarà proprio lui a ispirare molti lavori di autori persiani in epoca timuride piú tarda. Negli anni in cui Ibn Baṭṭūṭa visitava la città, vi imperversava la peste, che ne causò un drastico ridimensionamento demografico. La città conobbe una nuova stagione di ricchezza economica e floridità al tempo di 215

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Fīrūzshāh, che la trasformò in una capitale potente, favorendone una rinascita economica soprattutto grazie a una rivalorizzazione dell’agricoltura nella regione. Il calo progressivo del prezzo del grano, insieme a un incremento sostanziale della produzione, ebbe sicuramente un suo ruolo e portò anche a una crescita demografica e allo sviluppo di quartieri e periferie urbane.2 Come abbiamo visto, lo stesso Timur fu profondamente suggestionato da questo sovrano la cui fama era diffusa fuori dell’India, come attestano le sue ambascerie inviate in Egitto, principale potenza dell’epoca e sede di un rinato califfato abbaside dopo la caduta di Baghdad nel 1258, cui lo stesso Fīrūzshāh chiese la legittimazione politica.3 Quando Timur arrivò alle porte di Delhi, Mallū Khān e il sultano Maḥmūd, insieme all’alto dignitario Toghan Khān, erano appena fuggiti dalla città da due porte meridionali del Jahānpanāh, rifugiandosi « nelle foreste e nei deserti vicini » (8 rabī‘ ii 801/18 settembre 1398).4 Ḥāfiẓ-i Abrū, che fu testimone diretto dell’intera campagna indiana, racconta che Timur diede un’udienza nello ‘Īdgāh (‘Piazzale cerimoniale’) di fronte al Darvāza-yi Meydān (‘Porta dei tornei’) situato davanti al Ḥawż-i Khāṣṣ, nella città-quartiere del Jahānpanāh.5 Il sovrano fu subito accolto da tutti i notabili della città e da Fażl Allāh Balkhī, il luogotenente di Mallū Khān, insieme a tutti i membri del dīvān, centro dell’amministrazione del governo tughluq, i quali si prosternarono innanzi a Timur. Cosí fu stabilito che in cambio del riscatto gli abitanti di Delhi sarebbero stati lasciati in pace. Stando a Sharaf al-Dīn, gli elefanti che erano presenti in città e persino un rinoceronte furono portati innanzi a Timur. Questi 120 animali si prosternarono anch’essi davanti al Grande Emiro emettendo barriti e lui li fece inviare in tutte le province conquistate, incluso Erzincan, dove il suo allea­ to Mutahhartan ne ricevette uno. A questa narrazione se ne aggiunge un’altra, proposta dal cronachista indiano Sirhindī, che narra di uno scontro violento tra Iqbāl Khān, fratello di Mallū Khān, e i Timuridi, che si affrontarono in battaglia nei pressi del Ḥawż-i Khāṣṣ. La sconfitta di Iqbāl Khān avrebbe portato alla cattura degli elefanti che aveva con sé, poi condotti via « con mille stratagemmi particolarmente crudeli ».6 Due giorni dopo Nāṣir al-Dīn ‘Umar entrò nella città e ordinò ai notabili tughluq di far pronunciare in gran pompa la khuṭba a nome di Timur e di Pīr Muḥammad b. Jahāngīr, insieme a quello di Fīrūzshāh e dei suoi predecessori, nella Grande Moschea. I segretari emettevano editti di vittoria da estendere ai principali sovrani del tempo. La celebrazione fu seguita da alcune cerimonie apparentemente festose. Il giorno successivo fu 216

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trascorso a occuparsi della riscossione da parte dei bitikchī (‘segretari contabili’), mentre le dame imperiali debitamente scortate si avventuravano in una visita alla città interessate « da un palazzo con mille colonne » nel Jahānpanāh. Gli emiri timuridi erano disposti sulle porte cittadine con i contabili, i soldati invece si diressero nei magazzini per il prelievo della canna da zucchero e del grano. Fu anche ordinata la cattura dei ribelli. Il che provocò un afflusso di soldati incontrollato nella città, i quali si diedero al saccheggio e a incendiare le case con la conseguente reazione della popolazione inviperita.7 Forse profondamente sofferente – anche se le cronache dicono che passò quei giorni in banchetti privati –, Timur rimase appartato nell’accampamento, dopo aver proclamato 15 giorni di sosta nella città. Nessuno ebbe il coraggio di disturbarlo quando cominciarono gli attacchi ai soldati in una sorta di guerriglia urbana che presto precipitò in una vera e propria battaglia. I ghebri si ribellarono a Siri, nel Jahānpanāh, e nella città vecchia. Divamparono degli incendi, appiccati, a dire di Ghiyāth al-Dīn, dagli indiani stessi che avrebbero bruciato le proprie case, con mogli e figli dentro, pur di non cedere nulla alla soldataglia che imperversava (era la celebre pratica del jowhar). Il 17 rabī‘ ii 801/27 dicembre 1398 esplose una rivolta generalizzata che continuò per tre giorni, con stragi oramai ovunque, incluso nella Grande Moschea. Vennero saccheggiate tutte le botteghe della città vecchia e gli artigiani furono catturati per essere deportati come schiavi. Una volta distribuiti tra i vari membri della nobiltà, furono selezionati i marmorini e i tagliatori delle pietre che divennero proprietà personale di Timur, il quale aveva espresso la volontà di usarli a Samarcanda, soprattutto nella Grande Moschea che stava progettando. Il resto della popolazione fu oggetto di un carnaio spaventoso che durò altri cinque giorni, durante i quali Timur non si mostrò in pubblico. Infine, riuscí a richiamare i suoi e a fatica riprese in mano la situazione.8 Era tempo di andarsene, la situazione si era fatta incandescente e forse Timur, riemerso dalla sua misteriosa assenza, evidentemente causata dallo stato precario della sua salute, fu in grado alla fine di radunare l’intero esercito con l’immenso bottino accumulato dal saccheggio sistematico della città, per decidere finalmente la ripartenza. Non mancò però di attribuire il governo di Delhi a Khiżr Khān insieme all’iqṭā‘ (una concessione territoriale temporanea) di Multan e Dibalpur.9 A Khiżr Khān Timur avrebbe imposto un tributo da versare a Shāhrukh, ma questa imposizio217

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ne ha contorni non molto chiari. Fondatore della dinastia dei Sayyid, che doveva il proprio nome a una presunta discendenza dal Profeta Muḥammad, Khiżr Khān non riuscí a risollevare le sorti del sultanato di Delhi e per altro non acquisí mai lo statuto di sultano, limitandosi al titolo di Rāyat-i a‘lā (‘Stendardo sommo’) e ad agire come suddito dei Timu­ ridi.10 2. Da Meerut al Gange La meta della sua avanzata indiana questa volta era la città di Meerut (che le fonti persiane chiamano Mirat, oggi nello stato federale dell’Uttar Pradesh). La scelta non era casuale: ancora una volta Timur voleva ripercorrere le gesta di alcuni suoi predecessori in India, in particolare quelle di Tarmashirin Khān, che nel 1328 sarebbe arrivato alle porte di Meerut senza però riuscire a conquistarla.11 Nella cittadella si asserragliò un gruppo di resistenti, a cominciare da Ilyās (o Almās) “l’Afghano”, un seguace di quel Nuṣrat Khān, che contendeva il trono a Maḥmūd Tughluq, Aḥmad di Thanesar, discepolo del poeta sufi Nāṣir al-Dīn Chirāghī, e un piú misterioso Ṣafī detto “il Ghebro”, i quali sbeffeggiarono gli emissari preventivamente inviati da Timur per la resa, ricordando loro appunto che Tarmashirin non era riuscito a prendere la città e neanche Timur ci sarebbe riuscito. Ghiyāth al-Dīn chiosa il loro parlare « sconsiderato » mettendo in bocca queste parole a Timur: « Quante teste, in ragione della propria favella, sono rotolate come palle del gioco del polo: quante anime, per le troppe parole dette, sono state annichilite! ». E aggiunge un verso: La lingua è di carne, la spada di ferro!12

Il 29 rabī‘ ii 801/8 gennaio 1399 furono scavate delle gallerie mentre l’esercito timuride penetrava nella cittadella e i “ribelli” tentavano la fuga. Ilyās l’Afghano fu catturato insieme ad Aḥmad di Thanesar. Quanto a Ṣafī il Ghebro, morí in combattimento « bruciando nel fuoco di cui era adoratore » dopo aver ucciso la sua intera famiglia.13 Tutti i ghebri della città furono massacrati, mentre le loro donne e i loro bambini venivano portati via in prigionia. Le torri delle fortificazioni vennero fatte crollare mentre Timur consumava la vendetta per i torti subiti da Tarmashirin.14 218

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Completate le operazioni Timur dispose che il principe Barlas Jahānshāh Bahādur15 si dirigesse con l’ala destra dell’esercito verso il Gange, che dista una quarantina di chilometri a est di Meerut. L’ordine era di superare il fiume per intraprendere delle imprese di ghazā nel segno del jihād.16 Timur, dal canto suo, avrebbe dovuto attraversare il Gange piú a nord, a Fīrūzpūr. Nel percorso fu accompagnato da Sulaymānshāh Bahādur dei Dughlat,17 che aveva nel frattempo compiuto varie azioni contro i ‘ghebri indiani’. Infine, si accamparono a Mansura (oggi Muzaffarnagar) per trascorrervi la notte. Gli eventi che seguono, pur registrati meticolosamente, danno l’impressione di un itinerario a caccia degli infedeli, finalizzato solo allo scopo di registrare diverse azioni di ghazā. Le varie armate di Timur compirono azioni collaterali a quelle del convoglio imperiale, in una terra che diventava sempre piú incognita: ne è un esempio la difficoltà che Timur stesso incontrò a oltrepassare il Gange, per spingersi sino a Tughluqpur (probabilmente l’odierna Nurnagar) in cerca di un guado.18 A Tughluqpur il convoglio si fermò perché Timur venne colto da un violentissimo dolore al braccio, mentre un gruppo di indiani si avvicinava minacciosamente navigando con 48 barche sul Gange. Come vedremo, questo malore che gli gonfiava un braccio si riproporrà poi ancora, forse un infarto che si manifesta in questo modo, oppure un postumo di quella tubercolosi di cui Gerasimov trovò poi le tracce nel suo braccio. Ghiyāth al-Dīn lo usa come pretesto per dimostrare la fede di Timur e il suo zelo come combattente per il jihād. Infatti, stando al suo racconto, avrebbe richiamato i suoi al combattimento e ne sarebbe scaturita una violenta battaglia che permise infine a Timur di avanzare e arrivare a Tughluqpur.19 I suoi avevano finalmente trovato un guado e si poterono accampare. Sulla riva opposta li aspettava Mubārak Khān, un signore locale con diecimila uomini. Invitati da Timur a compiere la prima di una serie di ghazavāt (pl. di ghazā), i guerrieri timuridi si lanciarono in un attacco forsennato in cui la cavalleria travolse i nemici. Ma un’insidia piú grande si stava palesando su un monte vicino: durante il saccheggio che era seguito alla battaglia, Timur fu informato di un gruppo di indiani che si era radunato in un luogo dal nome enigmatico, stando alle cronache persiane: Kupila o Kūvila, che corrisponde in realtà alla città di Haridwar, secondo Kishori Saran Lal, uno degli studiosi piú attenti al dato toponomastico, che ci informa della confusione compiuta tra il nome del sito e quello di un saggio che l’avrebbe occupato (Kapil).20 Preoccupato dai possibili at219

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tacchi che sarebbero potuti arrivare da altre direzioni, Timur inviò cinquecento uomini in quella direzione e in effetti faceva bene a temere altre aggressioni al suo esercito principale. Questa volta fu un equivoco a causare lo scontro: un certo Shaykhā “il Ghebro”, venne erroneamente identificato con Shaykhā Khōkar, alleato e guida di Timur, asservito all’inizio della campagna indiana. Si credette dunque che costui giungesse per assistere l’avanzata, mentre avvenne il contrario, dato che lo pseudo-Shaykhā ingaggiò una battaglia che causò diverse perdite all’esercito timuride. Stando alle cronache timuridi, lo stesso Timur si sarebbe lanciato contro di lui colpendolo alla testa con la spada. L’uomo fu legato con una corda e trascinato dall’esercito. Ma non riuscí a parlare a Timur perché morí per le ferite che il sovrano stesso gli avrebbe causato.21 L’episodio, dai contorni confusi e dal sapore fantastico, è stato male interpretato.22 Se Sirhindī descrive Shaykhā Khōkar come una guida di Timur,23 sembra improbabile che costui compisse un attacco infliggendo molte perdite all’esercito timuride dopo un tradimento repentino, il suo stesso destino non sarebbe plausibile visto che lo ritroviamo oltre nelle fonti persiane.24 Le fonti comunque si attardano a descrivere tre successi militari in un solo giorno (3 jumādā i 801/11 gennaio 1399), ciascuno chiamato ghazā, ritenendo cioè che gli avversari di Timur fossero tutti pagani, cosa che è altamente improbabile. 3. Distruzione dell’idolo bovino Distruggere gli idoli è uno dei momenti cruciali di molte campagne dei sovrani musulmani per la conquista e l’islamizzazione. Varrà la pena soffermarsi brevemente su alcuni precedenti importanti. Già nel IX secolo, il sovrano saffaride Ya‘qūb b. Layth, protagonista della storia del Sistan, era stato tra i primi artefici di un’espansione in profondità sulle “frontiere indiane”, in particolare nella odierna regione di Kabul, quando nel 869 Ya‘qūb si appropriò di numerosi idoli che furono poi spediti al califfo alMu‘tamid come trofei.25 Ma fu soprattutto all’epoca di Maḥmūd di Ghazna che si verificò la distruzione di un idolo che diventerà in seguito una sorta di paradigma delle conquiste musulmane. Nel 1026, infatti, il sultano Maḥmūd calò sulla penisola di Kathiawar nel Gujarat, dove conquistò la città di Somnath in cui sorgeva un tempio dedicato a Mahādeva (Shiva) contenente al suo interno un simulacro fallico (lingam) che il sovrano di Ghazna si applicò a 220

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distruggere, razziando anche un’ingentissima quantità di denaro e di tessuti pregiati. Il successo dell’impresa fu grande e valse molti riconoscimenti a Maḥmūd come campione della fede, non ultimo quello del califfo che lo nominò Kahf al-Dawla wa’l-Islām (‘Rifugio del regno e dell’Islam’).26 Sicuramente Timur conosceva quest’ultimo episodio, ampiamente celebrato. Curiosamente, nel caso che stiamo per descrivere, Niẓām al-Dīn Shāmī e Ghiyāth al-Dīn non fanno riferimento a Maḥmūd per quanto riguarda la distruzione dell’idolo.27 Andrà notato però che il tempio di Somnath si trovava nelle vicinanze del fiume Kapila, con una curiosa similitudine col nome fantasioso della valle di Kupila attribuito a Haridwar dalle fonti timuridi. Altre analogie tra i due siti sono ragguardevoli: a Somnath in uno dei 12 jyotirlingam dell’Induismo, ovvero uno dei templi principali dedicati a Shiva, si trovava il lingam e presumibilmente la raffigurazione di un toro (Nandi) che è solitamente il “veicolo” di Shiva. Quest’ultimo tipo di scultura si trovava anche nel sito prossimo alle sorgenti del Gange dove arrivò Timur. Come per mettere una toppa a una negligenza storiografica, Sharaf alDīn introdurrà in seguito una digressione enciclopedica sulle imprese di Maḥmūd senza però citare mai l’impresa di Somnath.28 A cosa è dovuta l’omissione di questo ricordo delle cronache piú antiche? Probabilmente al fatto che il primo episodio fu un evento davvero di grande portata, mentre il secondo sembrerebbe non aver dato i frutti sperati soprattutto in termini di saccheggio. Kishori Saran Lal afferma per altro che l’attacco timuride ebbe esiti dubbi sul piano militare.29 Rimane comunque nelle fonti persiane una sorta di implicita menzione degli eventi ghaznavidi. Questo tipo di catene della memoria non era una novità: come ha dimostrato Hasan Anooshahr parlando dello stesso Maḥmūd, l’emulazione poteva spingere fino a costruire calchi letterari che arrivavano alla figura di Alessandro Magno, naturalmente secondo la tradizione coranica, con allusioni piú o meno implicite a eventi storici e mitici del passato.30 Ghiyāth al-Dīn narra che con un esercito che aveva l’ala destra comandata da Pīr Muḥammad, figlio di Jahāngīr, viceré dell’India, all’urlo del takbīr (l’atto di gridare Allāhu Akbar, ‘Allāh è il piú grande!’), venne seminata l’Apocalisse tra gli avversari, e aggiunge l’autore, con un piccolo saggio di letteratura jihadista: Un giorno, e che giorno! Saranno inchiodate le bocche al silenzio, il fuoco della punizione sarà posto sulle labbra, la terra abbietta sparsa sui volti, e non si potrà

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tamerlano invocare né vociare, perché tacerete voi lingue parlanti, e gesticolerete voi con le braccia e le mani, a causa del silenzio. O mercanti sulla Via ultima, mostrerete le vostre mercanzie; o disobbedienti, leggerete i vostri rendiconti!31

Questa esternazione è in stile con tutta la letteratura delle ghazavāt e costituisce un vero e proprio castone del genere letterario, anche se le descrizioni sommarie evidenziano una scarsa conoscenza dei fatti, magari riportati da narrazioni tanto imprecise quanto vaghe. Lo stesso Ḥāfiẓ-i Abrū, testimone diretto degli eventi, fornisce un quadro molto limitato degli eventi.32 Infine, i guerrieri timuridi raggiunsero il 4 jumādā i 801/12 gennaio 1399 le sorgenti del Gange (Gangotri) e il monolite idolatrico a forma di bovide (sangī ast bar shakl-i gāvī), oggetto di adorazione da parte di pellegrini che vi si recavano anche da molto lontano per dedicargli dei sacrifici. Aggiunge Sharaf al-Dīn, con un paragone al pellegrinaggio alla Mecca, che gli Indiani sono soliti bruciare i propri morti e gettarne le ceneri nel Gange, nonché di farsi il bagno nel fiume dopo essersi rasati la testa e il viso.33 L’eliminazione di questa statua è data per scontata e Ghiyāth al-Dīn non rinuncia a una di quelle tipiche digressioni antropologiche dell’eresiografia islamica, pregne di uno spirito scientifico di tipo classificatorio: tra coloro che praticano l’esoterismo, alcuni, definiti « accidentalisti », credono nella luce e nelle tenebre; mentre i partigiani delle « sostanze » sono ulteriormente suddivisi in due gruppi, il primo propende per i minerali, il secondo per gli animali. E coloro che credono nei minerali si suddividono ulteriormente in chi adora gli astri, ovvero le sostanze superiori, e chi crede nelle sostanze inferiori. Quanti invece credono negli animali sono anch’essi divisi in due sottogruppi: il primo sceglie l’uomo come divinità, questi sarebbero i cristiani e gli sciiti; mentre il secondo propende per i quadrupedi. Quelli poi che adorano le statue sono divisi a loro volta in tre gruppi: quelli che pregano la pietra, perché sottomessi agli idoli, quelli che scolpiscono la pietra loro stessi con sembianze naturali, e infine quelli che scolpiscono una vacca, ovvero « gli adoratori del vitello ».34 Questo interessante excursus è un raro esempio di percezione dell’alterità nel lavoro dei cronachisti timuridi che fanno ampio ricorso a opere preesistenti di piú ampio respiro,35 con una sorta di manieristico pressappochismo. Resta il fatto che nella percezione corrente del tempo i cristia222

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ni e gli sciiti erano considerati idolatri in quanto adoravano la figura umana. Cosí gli « adoratori del vitello », qui inseriti pour cause, riassumono il culto degli idoli da parte di individui definiti botparastān, un termine persiano nel quale ritroviamo la parola bot (‘idolo’, derivata dal nome di Buddha) e parast (imperativo del verbo parastīdan, ‘adorare’). Inutile dire che è proprio l’Islam (ortodosso) a costituire la barriera contro questa miscredenza e questo Islam è descritto nella sua forma migliore attraverso la baṣīra (‘Visione profonda’) che Timur incarna al meglio. Impresa cruciale di ghazā con un numero imprecisato di vittime, l’incursione su Haridwar e le foci del Gange costituisce una consacrazione di tipo ideologico e politico: ora Timur poteva tornare a Samarcanda riattraversando il Gange, per curare i suoi mali e riportare indietro un esercito orami privo della motivazione necessaria a continuare questa campagna in terre pervase dalla pestilenza e dalla carestia. 4. Alle pendici dell’Himalaya Il proposito di tornare indietro però fu provvisoriamente messo da parte per l’ulteriore necessità di racimolare ricchezze, fattore che, oltre alla gloria delle imprese di ghazā, rispondeva ad altre esigenze.36 Timur sembrò preoccuparsi infatti della remunerazione dei piú poveri nell’esercito, ai quali sarebbero andati tutti i proventi di queste ultime campagne di razzia. Cosí vengono descritti i « derelitti dell’esercito che non hanno un asino e sono rimasti appiedati » (miskīnān-i lashkar ki ūlāgh nadārand va piyāda mānda-and), patendo molte sofferenze.37 Ghiyāth al-Dīn offre un dettagliato resoconto del percorso seguito e degli eventi, scandito dai giorni come se si trattasse di appunti registrati in qualche documento, ma non mancano le difficoltà interpretative sui singoli luoghi raggiunti, riportati in modo arbitrario e spesso con qualche sovrapposizione di memorie di eventi storici precedenti. Sharaf al-Dīn, dal canto suo, cerca una volta di piú di ampliare le informazioni con le sue indubbie conoscenze, ma a sua volta aggiunge nuovi dati tutti da verificare. L’assenza di riscontri nelle fonti indiane completa il quadro incerto della registrazione delle ultime imprese. La decisione di aggredire gli Indiani alle pendici della catena sub-himalayana dei monti Sivalik (Shiwalik, che percorre 2400 km. a nord dell’India partendo dal Pakistan e raggiungendo il Nepal e il Buthan) è descritta con un vago riferimento a un non meglio identificato Raja Bihrūz, deten223

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tore di un piccolo regno locale, nonché di una rendita di un lak, ovvero centomila dang,38 ricavata dall’esazione delle tasse nella sua regione. Informato di quella ricchezza, Timur raggiunse le vicinanze di questo sito il 6 jumādī i 801/13 gennaio 1399. Qui fu invitato dai suoi a riposarsi, forse ancora per le sue cattive condizioni fisiche, ma volle lui stesso comandare l’impresa contro il ragià che viene deriso da Ghiyāth al-Dīn, giocando sul suo nome: « si chiamava Bihrūz [lett. ‘buon giorno’] ma era in realtà badrūz [‘cattivo giorno’] » e aggiunge un verso: « I negri infedeli danno i nomi al contrario! ».39 Pīr Muḥammad e Jahānshāh Bahādur, sull’ala destra, fungevano da contraltare di altri due eroi della campagna indiana, Shaykh Nūr al-Dīn e Shāh Malik, sull’ala sinistra. La battaglia contro Bihrūz portò all’uccisione di molti infedeli e all’acquisizione di un cospicuo bottino, inclusi quattrocento capi di bestiame, che Ghiyāth al-Dīn si affretta a dire fu distribuito tra i deboli e i malati nell’esercito. La tappa successiva dell’itinerario permette di individuare la regione in cui Timur aveva compiuto l’escursione alle pendici del Shiwalik: si tratta, stando alle fonti persiane, di Pahra, nella regione di Bakri, provincia di Mayapur, ovvero la moderna Boghpur, a sud di Haridwar. Da lí raggiunsero Sarsava, l’odierna Sarsawan, a ovest di Haridwar, in quattro giorni, percorrendo brevi tratte a causa dell’ingente bottino accumulato.40 Superato il fiume Jumna (Yamuna) vennero nuovamente raggiunte le pendici del Shiwalik, lí dove questa catena montuosa si unisce ai monti Gangotri (Kuka nelle fonti persiane).41 Qui fu la volta di un ragià che le fonti chiamano Ratan, confondendo il titolo del signore locale, il Ratan Singh, col suo nome. Costui aveva riunito un grosso esercito dalle regioni circonvicine che si nascose nelle foreste impenetrabili dell’area paragonate, non a caso, a quelle del Mazanderan dove Timur aveva incontrato tante difficoltà in precedenza. Venne ordinato l’incendio della foresta per poter snidare i nemici, i quali furono presto sconfitti con prede molto ingenti, forse anche esagerate nelle descrizioni (ogni soldato avrebbe avuto tra i cento e i duecento buoi, oltre a una ventina di schiavi pro capite). Il 16 jumādī i 801/24 gennaio 1399, Timur e il suo esercito si spinsero verso settentrione, a Nagarkot (Kangra, oggi nell’Himachal Pradesh), un altro sito già conquistato da Maḥmūd di Ghazna nel 399/1008-1009, con un considerevole bottino,42 e per quanto Ghiyāth al-Dīn e quelli che a lui si ispirarono si affannino a dire che dei distaccamenti timuridi avrebbero compiuto una ghazā anche in quella regione, mentre Timur li osservava dall’alto 224

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di una montagna vicina, questa impresa sembra essere ancora un calco delle gesta di quel predecessore.43 Ghiyāth al-Dīn menziona cumulativamente piú di venti ghazavāt effettuate nell’arco di un mese, che si presume comportassero il maggior profitto possibile grazie alle razzie che le caratterizzavano. Avvenne anche che, in un caso, una fortezza fosse abitata da musulmani che convivevano con dei ghebri e per altro pagavano tributi a Shaykhā Khōkar, suddito e guida di Timur. Costoro si arresero senza opporre resistenza ma furono sottoposti all’imposizione di un tributo cosa che causò delle liti. Ghiyāth al-Dīn aggiunge una storia che ha dell’inverosimile: avendo proposto a costoro il « conveniente baratto » di cedere, in cambio della vita, i loro logori abiti insieme alle armi, costoro accettarono e cosí furono tutti uccisi una volta disarmati, cosa che viene descritta come una formidabile astuzia. Un’altra cittadella comandata dal ragià Dīv (Deva Rai) venne conquistata e distrutta insieme al massacro dei suoi abitanti.44 5. Il Kashmir Timur aveva scelto un percorso settentrionale forse per evitare di ritornare sulle regioni già battute in precedenza, ma anche con l’intenzione di raggiungere il Kashmir dove il suo fedele alleato Sikandar Shāh il botkishān si aspettava di accoglierlo, forse insieme al sayyid meccano Muḥammad Madanī che aveva incontrato nel suo percorso di andata a Nagar. Ogni luogo costituiva ovviamente l’occasione per un’ulteriore ghazā, cosí a Bayla (Baila, a nord del Jammu, Kashmir), incontrò un agguerrito esercito di « gente coraggiosa che usava la foresta come riparo » e aveva messo in piedi delle palizzate per impedirne l’accesso. Costoro diedero battaglia al tumān guidato da Khalīl Sulṭān, cui poi volle aggiungersi Timur stesso e altri membri del clan dei Barlas che li sconfissero (16 jumādī ii 801/23 febbraio 1399). Nei giorni successivi una delegazione di Sikandar Shāh lo raggiunse mentre l’esercito si spostava verso settentrione, dopo aver dichiarato la completa sottomissione del loro signore. Timur avrebbe dato in dono a Sikandar due elefanti maschi e come racconta una fonte locale, il Rājataṅgiṇī del paṇḍit Jonāraja, questi sarebbero stati consegnati perché « il capo dei Barbari [Timur] temeva il sultano del Kashmīr ». Stando a questa descrizione Timur aveva proposto a Sikandar di definire una frontiera tra i loro due stati lungo la linea lasciata dalla secrezione dagli elefanti in ca225

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lore. Comunque, lo Shāh avrebbe accolto il dono giunto da quel signore « del Nord ».45 La storia vista sul versante timuride è ovviamente diversa: nello stesso febbraio 1399 sarebbero tornati gli emissari timuridi con la lettera di Sikandar Shāh che accettava di diventare vassallo di Timur e che era pronto a incontrare il Grande Emiro a Jhaban (Chibhan, odierna Bhimber, non lontana da Jammu). I contabili di corte in maniera frettolosa predisposero un prezzo esorbitante di riscatto, consistente in 30.000 cavalli e 100.000 durust d’oro, che dovevano pesare 2 mithqāl e mezzo ciascuno (ca. 2,50 g.). Raggiunta Jhaban, gli emissari vi trovarono Sikandar che di fronte a quel riscatto disse che doveva tornare indietro a prendere l’ammontare per poi tornare rapidamente da Timur. Quest’ultimo, venuto a conoscenza del riscatto, richiamò i suoi e si infuriò ritenendo il riscatto troppo alto e impossibile da pagare. Per cui gli emissari furono rispediti invitando Sikandar a tornare perché Timur gli avrebbe chiesto molto meno e che si sarebbero incontrati nuovamente sull’Indo nei giorni successivi.46 A quanto sembra Sikandar avrebbe raggiunto in seguito l’Indo come pattuito, ma oramai Timur lo aveva già attraversato.47 Intanto, devastando i villaggi che incontravano e razziando tutto il foraggio possibile, l’esercito avanzava verso occidente. Il Kashmir appena abbandonato offre l’occasione a Sharaf al-Dīn per una digressione: situato nel quarto clima, e l’autore indica con precisione le sue coordinate, il Kashmir confina col regno di Delhi e le terre indiane, a settentrione col Khorasan e il Badakhshan, a occidente coll’Afghanistan e a oriente col Tibet (Tubbat). È circondato da montagne e ha al suo interno diecimila villaggi tutti ben costruiti; v’è abbondanza d’acqua e terre ubertose e coltivate. È pieno di bellezze locali aggraziate e di grandi poeti persiani. Particolare impressione fanno i frutti che si possono trovare nei suoi mercati: datteri, arance e limoni portati da fuori perché in quel paese non potrebbero essere prodotti a causa del clima. I sovrani del Kashmir vivono a Naghz (Nagar, errata trascrizione dell’ultima parte del composto Śri-nagar, ‘Città gloriosa’), una città attraversata da un fiume (il Jhelum) che ricorda il Tigri a Baghdad, sgorga veloce da una sorgente detta Dīr (forse Vīr, da Verinag o Vitastatra) ed è caratterizzato da numerosi ponti di barche incatenate tra loro. Il fiume compie un lungo tragitto fino a sfociare nel Golfo di Oman dopo essere confluito nel Jhelum. Molto interessante è la descrizione della regione come zona di commercio: le strade che provengono dal Khorasan e quelle che vanno in India sono molto 226

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ardue da attraversare, e i mercanti non possono portare le merci su delle bestie da soma, ma sono costretti a portarle sulla propria schiena durante viaggi estenuanti. La via del Tibet invece è piú praticabile ma per lunghi tratti l’erbaggio per le cavalcature non può essere mangiato in quanto velenoso.48 6. Verso Samarcanda: notizie, inquietudini, malesseri Oltrepassato il fiume Tawi (e non Chenab, come sostengono le fonti persiane), venne attaccato il villaggio di Minu (errata trascrizione di Bhao nelle cronache persiane) che fu devastato. Poi catturarono il ragià di Jammu che aveva tentato un’azione contro l’esercito timuride ed era stato ferito e preso dallo Shaykh Nūr al-Dīn. Costui fu trattato onorevolmente e perciò diede mostra di convertirsi all’Islam, « mangiando carne di vacca, che è proibita ai Ghebri ».49 Fermatisi in quella regione il 23 jumādī ii 801/2 marzo 1399, furono raggiunti dall’armata che era andata a Lahore per conquistare la città e richiedere il prezzo del riscatto. Qui catturarono Shaykhā Khōkar che governava Lahore, reo di aver tenuto dei comportamenti inadeguati: le ragioni dell’arresto sono motivate da Ghiyāth al-Dīn sulla base delle ambizioni che Shaykhā Khōkhar avrebbe mostrato estendendo i propri domini al di là dei confini prestabiliti, nonché per le negligenze nel pagamento del tributo destinato a Timur, da lui dimenticato mentre si dedicava alle libagioni e ai piaceri carnali. Timur lo risparmiò sul momento, ma nei giorni successivi si convinse di alcune « ragioni esoteriche » che spingevano il suo vassallo ad agire in maniera ipocrita e adulatoria, e Shaykhā Khōkhar fu torturato e decapitato per il semplice fatto che dopo aver servito Timur si era permesso d’agire in proprio, prendendo Lahore.50 L’attraversamento del fiume Janava (Chenab, oggi nel Pakistan settentrionale) costò la vita a molti soldati, forse perché sovraccarichi di bottino ma sprovvisti di cavalli, tanto che Timur si affrettò a ordinare che ognuno avesse un cavallo per continuare la traversata. Il 25 jumādī ii 801/4 marzo 1399 il convoglio fu raggiunto da un nawkar (‘ufficiale’) di Mīrānshāh che lo rassicurava sul suo governo quale viceré d’Azerbaijan, Iraq, Siria e Anatolia. Timur doveva avere delle perplessità su questa informativa: la fortezza di Alinjak non era stata ancora conquistata e questo era fonte di irritazione, ma soprattutto altri fatti sembravano essersi prodotti, di cui ancora Timur non riusciva a vedere chiaramente i contorni. 227

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In quella circostanza giunse anche il nawkar di Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, a sua volta viceré della Persia, che diede varie notizie inclusa quella di un’ambasceria egiziana che aveva portato doni tra i quali delle spade mamelucche considerate di altissima qualità.51 Sicuramente alcune inquietudini dovevano attraversare i pensieri di Timur: Tra i suoi nemici il qāżī Burhān al-Dīn di Sivas era morto nel 1398 ucciso dagli Aq Qoyunlu – nei mesi successivi al ritorno di Timur, sarebbe deceduto anche il sultano d’Egitto Barqūq (15 shavvāl 801/20 giugno 1399) –, il che rappresentava un’occasione propizia per aggredire quei regni, ma le incertezze offuscavano la mente di Timur, dal jalairide Sulṭān Aḥmad, ancora libero, alla crescente potenza ottomana che non lasciava presagire nulla di buono. Perciò affrettò l’andatura dei suoi, come dimostra il fatto che Sikandar Shāh non ebbe modo di incontrarlo sull’Indo. Stando a Badaōnī, Timur avrebbe liberato numerosi prigionieri – fatta eccezione per gli artigiani –, grazie all’intercessione di Shaykh Aḥmad Kathū, un derviscio che avrebbe avuto un certo ascendente su di lui.52 Ma è anche probabile che liberandosi di loro accelerava il suo ritorno in Transoxiana che era stato per altro già annunciato da un suo emissario. Perciò già il 1° rajab 801/9 marzo 1399, l’esercito timuride e tutto il suo seguito raggiunsero il Chūl-i Jalālī o un sito diverso, come abbiamo già visto nel viaggio di andata, per attraversare l’Indo. A metà marzo stazionavano a Nagar e pochi giorni dopo arrivarono nella regione di Kabul, dove Timur poté osservare il grande canale, o « Canale nuovo » ( Jūy-i naw) che aveva ordinato lui stesso di costruire. Man mano che si avvicinava alla Transoxiana, Timur veniva raggiunto da membri della sua famiglia, come le mogli, prima tra tutte la Sarāy Mulk Khānum. Shāhrukh giunse da Herat, mentre il convoglio superava le montagne che danno accesso alla regione di Termez. Su queste montagne Timur soffrí ancora di un fortissimo dolore alla mano, o forse al braccio, che gli impediva di cavalcare. Quasi a indicare i sintomi di un malore psicosomatico, Ghiyāth al-Dīn afferma laconico: « il tempo tiranno pone le fondamenta della malattia e i giorni crudeli inducono a cattivi pensieri ».53 Sopra una lettiga, però, Timur continuò il percorso a tappe forzate. Infine, il dolore sembrò essere scemato, ma i cronachisti avvertono che anche un piccolo malore del loro signore aveva creato un « dissesto nell’ordine terrestre », come a dire che forse qualcuno aveva messo in dubbio la propria obbedienza. Superate Baqilan, Qarabaghlan e Khulm, Timur arrivò all’Amu Darya nella regione di Termez, incontrando diversi nobili che 228

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onorò con doni e riconoscimenti. Il 22 sha‘bān 801/29 aprile 1399 giunse infine a Samarcanda tra l’esultanza generale.54 7. La costruzione della Grande Moschea di Samarcanda Al tempo del ritorno dall’India, Samarcanda aveva già conosciuto delle costruzioni timuridi, di cui si è parlato, tuttavia la campagna indiana imponeva l’erezione di un edificio monumentale, una sorta di trofeo delle imprese compiute. Questo edificio sarebbe sorto a sud della Porta di Ferro, tra il sito antico di Afrasyab e i nuovi quartieri che si erano sviluppati nella parte meridionale della città. La costruzione avrebbe dovuto far parte di un vero e proprio piano urbanistico destinato alla monumentalizzazione della città. Purtroppo, l’edificio originale ha subito imponenti distruzioni e rifacimenti a partire da un devastante terremoto nel 1897, sino a piú moderni restauri deturpanti che fanno sí che solo una base di minareto sia rimasta in piedi, seppur molto rimaneggiata, oggi. L’edificio originario consisteva di un ampio portale affiancato da due minareti che dava accesso a una costruzione che riprendeva la tradizionale forma delle moschee-madrase iraniche caratterizzate da quattro īvān (‘portali’) su una corte centrale. Questa era circondata da alcuni porticati e culminava nel lato opposto del portale monumentale in una moschea ipostila, al cui centro sorgeva un’ampia sala cupolata preceduta da un secondo elevato portale. Il tutto era decorato con un uso estensivo di mattonelle invetriate secondo la tecnica dello hazārbāf (‘mille trame’), che definisce una specifica fattura di questi laterizi caratterizzati da un uso dominante del blu, insieme al bianco, al nero e ad altri colori. Nella Grande Moschea varie iscrizioni riportavano dati importanti quali la data d’inizio della costruzione, 801/1399, e quella della fine dei lavori nell’806/1404, nonché l’intera genealogia di Timur che rimontava a Qarachar Noyan. Lisa Golobek e Donald Wilber, sulla scorta dei lavori sovietici e di numerose altre testimonianze, hanno proposto un’accurata ricostruzione dell’edificio con alcune ipotesi: è molto probabile che Timur si sia ispirato alla Grande Moschea tughluq che vide nel Jahānpanāh a Delhi, ma la moschea fondeva insieme diverse caratteristiche di altri edifici di epoca post-mongola, pur con molti aspetti originali per il tempo, quali ad esempio gli īvān laterali cupolati. Inoltre, il suo aspetto prossimo a un edificio fortificato intendeva significare che era stata ispirata dalla campagna indiana, ricalcando in 229

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qualche modo la tipologia del ribāṭ, ovvero gli edifici fortificati che accoglievano i ghāzī impegnati nelle campagne di conquista e islamizzazione sulle frontiere del Dār al-Islām. Infine, andrà registrato il rarissimo uso estensivo di pietra ispirato principalmente all’India, ma anche all’Azerbaigian.55 Le cronache persiane si dilungano in numerosi elogi esaltanti le virtú religiose dell’edificio per poi menzionare la campagna indiana, nella quale Timur si era dedicato con abnegazione alla distruzione dei templi pagani. Indicano altresí la data d’inizio della costruzione il 14 ramażān 801/7 maggio 1399, con l’anno del calendario mongolo (quello della lepre) e il complesso oroscopo. Per la costruzione erano stati impiegati 200 operai tra i piú abili, provenienti da diverse parti del mondo. Quelli che, per intenderci, Timur deportava sistematicamente, e in particolare gli Indiani. Altri cinquecento lavoravano per portare i materiali e trarre dalle cave vicine pietra e arena. Vi erano anche 95 elefanti catturati in India e utilizzati per il trasporto dei materiali. Principi ed emiri erano incaricati di sovrintendere l’erezione, altri privati lavoranti erano stati reclutati ai confini con le terre dei Jete (il Moghulistan) e malgrado le sue precarie condizioni di salute Timur passava molto tempo a sovrintendere i lavori, rimanendo nella prospicente madrasa fatta costruire dalla Sarāy Mulk Khanum56 o nel khānqāh (‘ricovero dei sufi’) eretto dalla Tuman Āqā.57 L’edificio aveva quattrocento colonne di pietra, materiale col quale era rivestito il pavimento e il soffitto. In ogni angolo sorgeva un minareto che serviva per fare la chiamata alla preghiera in direzione dei quattro « cantoni del Mondo ». La porta a sua volta era formata da sette parti che evocavano i sette climi. Il testo coranico pervadeva l’edificio, il minbar (‘pulpito’) e il muro della qibla (la direzione della Mecca).58 8. Altre vicende della Grande Moschea La Grande Moschea di Samarcanda viene solitamente associata al nome di Bībī Khanum (‘La Gran Dama’) e molti hanno riferito questo epiteto dell’edificio alla potente Sarāy Mulk Khanum che, come abbiamo visto, aveva eretto di fronte alla Grande Moschea la sua madrasa e aveva un forte ascendente su Timur. Il nome della Bībī Khanum potrebbe essere stato associato in seguito alla Grande Moschea, ma sicuramente già al tempo di Timur essa giocò un suo ruolo nella costruzione.59 Clavijo descrive la moschea nel 1404 nel modo seguente, confondendo la Sarāy Mulk Khanum (Caño) con sua madre: 230

xii · delhi, le pendici dell’himalaya La moschea che il signore del mondo fece costruire in onore della madre della Caño era la piú venerata della città. Quando la moschea fu costruita, [Timur] non fu soddisfatto del portale troppo basso e lo fece demolire. Furono scavati due fossati innanzi per gettarvi le fondamenta. Al fine di accelerare le operazioni, lui stesso si mise a dirigere i lavori su un lato, mentre inviò due suoi intimi perché si incaricassero dell’altra metà. Si sarebbe visto cosí chi tra loro avrebbe portato a termine l’opera prima. La malattia del Signore gli impediva di andare a cavallo e neppure poteva stare in piedi, tanto da dover essere portato sempre su una lettiga. Cosí su quella lettiga si faceva condurre ogni giorno sul luogo, incitando per gran parte del tempo [i lavoranti] a finire il lavoro. Si faceva portare molta carne bollita e ne faceva gettare dell’altra a coloro che lavoravano nel fossato, come se l’avesse lanciata a dei cani. Talvolta ne gettava lui stesso brandelli con le sue mani ed era sorprendente che fosse lui a incalzarli in quel modo. Talvolta faceva gettare del denaro nel fossato. Ci fu un gran lavorare all’impresa e alla costruzione della strada, giorno e notte, finché non iniziò a cadere la prima neve.60

Timur era adirato per l’impresa costruttiva e per alcuni ritardi e difetti strutturali dell’edificio. Quando Clavijo visitò Samarcanda, erano trascorsi cinque anni dall’inizio della fabbrica e, certo, questo fatto procurava ulteriore irritazione. La penna intrisa d’odio per Timur di Ibn ‘Arabshāh descrive alcuni incidenti nella costruzione con toni velenosi: Quando si trovava in India Timur ebbe modo di osservare una moschea per la vista dolce e piacevole, le sue volte erano erette ad arte, coperte da marmi istoriati, e di marmo candido era anche il pavimento. Meravigliato dalla sua forma, desiderò riprodurre il modello a Samrcanda e perciò scelse la collocazione e ordinò che fosse costruita, dando direttive sul suo progetto: doveva essere di solido marmo. Per l’opera scelse una persona chiamata Muḥammad Jild, un suo aiutante, nonché sovrintendente nel suo dīvān. Costui prese a lavorare di buona lena all’edificio, costruí i pilastri e voleva dare il meglio nel suo lavoro dalle fondamenta, alla struttura, fino alla decorazione. Concepí quattro minareti senza mai demandare ad altri costruttori e architetti il lavoro in modo tale che nessuno potesse rivaleggiare con lui nella costruzione. Confidava in un ringraziamento da parte di Timur che ne avrebbe accresciuto il riconoscimento a corte. Tuttavia, di ritorno dalla sua campagna, Timur osservò ciò che era stato fatto in sua assenza e andò a ispezionare la Grande Moschea. Dopo averla guardata un istante, fece scaraventare faccia a terra Muḥammad Jild e gli fece legare le gambe facendolo poi trascinare senza sosta, strapazzandolo finché, trattato in quel modo, non fu ridotto in pezzi. Dopodiché si appropriò dei suoi beni, dei suoi schiavi e dei suoi figli. C’erano numerose ragioni per cui Timur agiva cosí: la principale era che la

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tamerlano Regina maggiore (al-malikat al-kubrà), moglie principale di Timur, aveva fatto costruire una madrasa e gli architetti e gli ingegneri l’avevano disposta nello stesso luogo di fronte alla Grande Moschea. Le colonne di questo edificio erano piú solide e piú eleganti dell’altro. Timur che aveva la natura di un leopardo, e il comportamento di un leone, non poteva sopportare che qualcuno alzasse la testa piú di lui, né che facesse ombra alla sua eccellenza. Schiantava tutto ciò che lo sovrastava o chiunque si comparasse a lui. Insomma, avendo visto che la struttura della madrasa era migliore della sua ed era piú solida, fu colto dall’ira e dal furore e fece quello che fece con quel sovrintendente, il quale ricavò tutt’altro che la fortuna alla quale ambiva. Questa storia fa da premessa a un’altra: la moschea era come il suo padrone, il quale aveva i fianchi e le spalle appesantiti dalle pietre delle sue malefatte e delle sue origini, gravanti sul suo collo tanto da indebolirlo e da ricordare il versetto: Quando il cielo si spaccherà [Cor., 82 1]. Siccome Timur non era riuscito a demolire l’edificio e a ricostruirlo, dandogli la forma che avrebbe voluto lui, dato che era egli stesso piegato dai malanni, ordinò a sudditi e cortigiani di radunarvisi dentro e di partecipare alle preghiere del venerdí. E l’edificio restò cosí finché visse e anche dopo che morí. Quando riuniva le persone all’interno per pregare, queste temevano che per l’ira di Dio sarebbero cadute sulla loro testa delle pietre e che l’Angelo della Montagna avrebbe recitato in quel luogo il versetto: E rammentati anche di quando squassammo il monte sopra di essi [Cor., 7 171]. Una volta mentre quel luogo era pieno di gente, tutti furono presi dal panico perché caddero dall’alto alcuni pezzi di pietra. Ognuno fuggí subito terrorizzato, accalcandosi alle porte d’uscita. Tra i presenti Allāhdād61 seppe come stavano veramente le cose e informò gli altri, mettendo fine ai loro timori. Quando la funzione cessò, lo stesso Allāhdād, uomo sagace ed esperto che aveva fatto migliaia di deambulazioni attorno alla Ka‘ba mi disse: « Questa moschea dev’essere detta la moschea del ḥaram [lett. la moschea ‘interdetta’] e la preghiera al suo interno è la preghiera del terrore ». Poi spiegò quanto aveva appena detto: « È chiaro, se seguiamo il motto del poeta che va inciso come monito sull’iscrizione del portico: Udii che hai costruito una moschea con la rapina, Ma tu – sia lode a Dio! – non m’aggradi. Sei come i bambini che son stati corrotti, A te la malasorte! Non voglio da te né obblighi, né cortesie! ».62

La storia della costruzione della moschea è l’indizio di un certo dissapore con la moglie prediletta? Come s’è detto, Timur non nutriva una particolare simpatia per i capimastri e gli architetti che, come si è già visto relativamente all’Aq Sarāy, potevano fare una brutta fine, almeno cosí vogliono le leggende popolari. Nel 1470 un miniatore raffigurò vividamente la sce232

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na della costruzione della Grande Moschea su una doppia pagina di un manoscritto dello Ẓafarnāme di Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī: in un concitato cantiere, si osservano artigiani di ogni sorta in un febbrile lavoro, mentre un elefante arriva col suo carico di pietra. Da una porta sbuca un personaggio che, armato di una stanga, incita al lavoro gli operai, ma forse in quella scena Timur è raffigurato nel foglio affrontato, con l’aria di un uomo attempato che si sorregge a un bastone mentre segue i lavori da sotto un portico.63 Un’altra miniatura del 1494, attribuita al celebre pittore Bihzād, raffigura anch’essa un cantiere. Sebbene si tratti dell’illustrazione di un’opera del poeta Niẓāmī, gli Haft Peykar (Le sette principesse), che descriveva la costruzione del palazzo del Khavarnaq in Mesopotamia per il re sasanide Bahrām Gūr (421-438 d.C.), l’edificio è chiaramente timuride e probabilmente riprende il tema già rappresentato della costruzione della Grande Moschea.64 Ciò che colpisce è che l’episodio letterario raffigurato ha una storia affine a quella del povero Muḥammad Jild. Anche in quel caso l’architetto Simnār subí un amaro destino: alla domanda « se avessi conosciuto la ricompensa che hai ricevuto, avresti costruito un palazzo piú bello? », rispose di sí. Cosí fu gettato dall’alto dell’edificio e la sua uccisione è diventata proverbiale come « l’uccisione di Simnār ».65 Non è tanto importante sapere se l’episodio epico abbia influenzato quello storico – Timur conosceva probabilmente l’opera di Niẓāmī –, semmai sarebbe da chiedersi quanto gli storici del tempo fossero imbevuti di questi aspetti piú o meno leggendari che riverberano nelle loro opere. Di certo però Timur realizzò una rivoluzione urbanistica brutale e violenta nella sua Samarcanda sulla quale vale la pena di spendere ancora alcune parole. 9. Samarcanda e le utopie monumentali di Timur Nel 1950 lo studioso sovietico Š.E. Ratija pubblicava un’interessante ricostruzione del progetto di un intervento urbanistico estensivo, realizzato da Timur durante il suo regno a Samarcanda.66 Un lungo viale coperto e porticato sarebbe dovuto partire dalla piazza in cui sorgono ancor oggi la Grande Moschea e la madrasa di Bībī Khānum, per raggiungere l’estremità opposta della città. Lo stesso affermava che di quell’intervento non era rimasta traccia e che lui lo aveva ricavato dalla testimonianza di Clavijo. Pur con alcuni vizi derivanti dalla passione per le ricostruzioni tratte da descrizioni spesso lacunose e talvolta frammentarie (se non im233

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maginarie), il disegno di Ratija era però verosimile e rispecchiava quanto detto dall’ambasciatore di Castiglia: In questa città di Samarcanda si trattano ogni anno molte merci provenienti in vari modi dalla Cina, dall’India, e dalla Tartaria, come da molti altri luoghi, inclusa la vasta terra del Signore. Siccome non esisteva un luogo deputato per compiere transazioni ordinate e regolamentate, il Signore ordinò di creare una strada che avesse sui due lati delle botteghe e degli ambiti per la vendita delle mercanzie e questa strada doveva percorrere la città da un’estremità all’altra. Incaricò per l’opera due dei suoi principi [mirasses, dal pers. mīrzā], facendogli sapere che se non si fossero dedicati con abnegazione all’opera, lavorando giorno e notte, li avrebbe ripagati mozzando loro la testa. I due principi intrapresero il lavoro demolendo le case nella zona indicata dal Signore per la costruzione della strada. Chiunque fosse il proprietario, fuggiva in tutta fretta al momento dell’abbattimento, racimolando i propri beni e tutto ciò che possedeva. Come un edificio era demolito, giungevano quelli che dovevano innalzare le nuove costruzioni. Fecero un viale amplissimo, fiancheggiato da botteghe su un lato e sull’altro, innanzi alle quali venivano disposti degli alti pancali, rivestiti di pietra bianca. Ogni bottega era doppia e il viale era coperto da volte con delle aperture per far passare la luce. Appena le botteghe erano terminate vi venivano istallate le persone che vendevano in esse di tutto e a intervalli si trovavano delle fontane e le persone che vi lavoravano erano retribuite dalla città. Veniva per quest’opera tanta gente quanta ne richiedevano gli incaricati alla costruzione: coloro che lavoravano di giorno erano sostituiti di notte da altri, gli uni demolivano le case, gli altri spianavano il terreno, altri ancora eseguivano altre opere, facendo un tale fracasso di giorno e di notte che parevano indiavolati. Dopo appena venti giorni, la grande opera fu conclusa: un’autentica meraviglia. Coloro ai quali era stata distrutta l’abitazione si lamentavano ma non osavano dirlo al Signore, sebbene alcuni di essi finirono col mettersi insieme e andarono da un cayri [ar. khayr, ‘venerando’] che era intimo del Signore e questi cayri sono del lignaggio di Maometto. Un giorno giocando a scacchi col Signore i cayri gli dissero che siccome era suo piacere far abbattere quelle case, per creare quell’area, che desse almeno una compensazione a chi ne veniva privato. Ma lui s’infuriò per ciò che chiedevano e rispose: « Questa città è mia! L’ho comprata coi miei soldi, cosa che è documentata dalle carte che vi mostrerò domani e, se avete ragione, darò quanto richiesto ». Ma tali erano le sue parole che i cayri rimasero interdetti e si meravigliarono di non essere stati uccisi e di averla scampata bella. Dicevano che tutto quello che fa il Signore è cosa buona e che le sue disposizioni devono essere eseguite.67

Questo evento, che nella mente di un italiano può ricordare eventi urbanistici analoghi della nostra storia recente, può essere letto come motivato 234

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da varie intenzioni: l’ossessione per i commerci di Timur coincideva con una certa presenza di mercanti, persino greci e forse latini, che effettivamente avrebbero dovuto produrre ricchezza. Piú sorprendente è la considerazione della città come una proprietà privata. In effetti questa dimensione fa pensare che anche il commercio era in qualche modo considerato un appannaggio personale. Lo stesso Timur riproduceva nel suo accampamento i suoi mercati con delle pantomime in cui i commercianti e gli artigiani dovevano rappresentare i propri mestieri. Nella città poi le vie commerciali dovevano svolgere una funzione cerimoniale, questo spiega l’ossessione per gli addobbi con tessuti e con l’esibizione delle ricchezze e l’uso di cantori e menestrelli entro i portici e nelle botteghe che caratterizzavano ogni rientro nella capitale del Grande Emiro.68 Vi era infine un fattore campanilistico: Samarcanda doveva rivaleggiare con le metropoli del mondo islamico. Non a caso Timur aveva fatto costruire dei giardini che chiamava con i nomi delle principali città dell’epoca: Misr (Egitto, ovvero Il Cairo), Damasco, Baghdad, Sultaniyya, Shiraz, che ruotavano attorno al centro urbano e simboleggiavano il suo dominio sul mondo. A livello letterario si svilupparono anche delle vere e proprie laudes urbium, o delle pasquinate come quelle scritte su Tabriz piú tardi dal poeta Lisānī.69 Scritte con salaci e a volte sboccate quartine, poi divenute dei veri e propri poemi di piú ampio respiro (mathnavī). Questo tipo di opere era detto shahrāshūb (‘tumulti urbani’), con un riferimento alle giovani bellezze dei garzoni che costituivano, appunto, ragione di tumulto nel cuore di chi li osservava.70

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XIII MĪRĀN S HĀH TENTA DI AP P ROP RIARS I DEL P OTERE E ALTRE I RREQUI ETEZZ E FAM IG LIARI 1. La ribellione di Mīrānshāh In uno dei rari documenti timuridi conservati, stilato quando Timur era in vita, il 27 ramażān 798/4 luglio 1396, il figlio Mīrānshāh, attribuendo una concessione nel suo “vicereame”, faceva riferimento nell’intitulatio a Sulṭān Maḥmūd, il sovrano fantoccio messo sul trono ciagataico per legittimare il potere timuride. Il testo non forniva nessun riferimento a Timur, attribuendo a Mīrānshāh il titolo di kurkān (küregen, ‘genero’), tanto da dare chiaramente l’impressione di una disinvolta appropriazione da parte del principe di poteri che non gli spettavano. Si trattava di un ordine esecutivo (yarligh) destinato allo Shaykh Dursūn Maraqānī, che evocava quelli emessi da Timur stesso, cui il figlio si sostituiva. Il documento non permette di dire molto di piú, conferma però il fatto che dopo la morte di Jahāngīr e ‘Umar Shaykh, Mīrānshāh ambisse alla successione al trono. Timur, invece, gli prediligeva abbastanza spiccatamente il nipote Muḥammad Sulṭān, figlio di Jahāngīr, per varie ragioni alle quali abbiamo spesso accennato. Per potersi garantire la successione, lo stesso Mīrānshāh – come aveva già fatto Timur ai suoi esordi unendosi in matrimonio con nobildonne mongole – aveva sposato dopo la morte di Jahāngīr una sua moglie, Sevin Beg detta Khānzāda (‘Principessa reale’), la quale gli garantiva il ruolo di küregen, quello stesso che il padre aveva adottato per poter esibire il ruolo di emiro di tutti gli emiri, anche se, come s’è detto, non prese mai quello di khān.1 Torneremo sulla Khānzāda, con la quale Mīrānshāh ebbe turbolenti rapporti coniugali. Ricordiamo soltanto che su altri due documenti Mīrānshāh fa un analogo uso disinvolto del titolo di küregen. Uno data al 796/1394, l’altro all’800/1398.2 L’intento di spodestare il padre portò Mīrānshāh, durante la campagna indiana di Timur, a tentare un colpo di mano, fino a quel momento rimasto impossibile da realizzare. Le fonti, per altro, che descrivono gli eventi in epoche posteriori alla morte di Timur, fortemente condizionate dai vari signori timuridi che patrocinavano quelle cronache, ovvero dai discendenti che si contesero il potere dopo la morte del Grande Emiro, ri236

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sentono dei conflitti dinastici, inducendo gli autori a sostenere con le loro opere l’uno o l’altro partito nella lotta per il trono. Ma una lettura incrociata delle cronache permette di intravvedere con un margine di certezza un tentativo di appropriazione del potere che non lascia molti dubbi su questa contesa interna per la successione, o forse su una vera e propria usurpazione quando ancora Timur era in vita. Clavijo, osservatore esterno, anche se forse anche lui imbeccato da voci che aveva sentito da rappresentanti della corte, scrive senza dare un’idea in merito a quale periodo si riferisca: Mirassa Miaxa [Mīrānshāh], figlio maggiore di Tamurbec [Timur Beg; Timur] […] che era imperatore di questa terra [l’Azerbaigian], aveva con sé numerosi cavalieri e soldati che gli erano stati assegnati da suo padre. Quando stava nella città di Tauris [Tabriz], fu preso dalla smania e fece distruggere le case e le moschee, nonché i palazzi della sua città che rase in gran parte al suolo. Poi, partí per andare a Soltania, e fece fare lo stesso in quel luogo. Entrò nel castello e si appropriò di gran parte del tesoro che il padre vi custodiva e lo distribuí ai suoi cavalieri e alla sua gente. Fuori della città in un luogo abbastanza appartato, c’erano alcuni grandi edifici simili a palazzi principeschi costruiti da un nobile che vi si era fatto seppellire. Li fece distruggere e fece tirar fuori il cadavere del signore che lí stava sepolto. Alcuni affermavano che agisse cosí perché preso da follia (locura); altri dicevano che avrebbe detto: « Io sono il figlio del piú grande signore del mondo. Quale opera posso io realizzare in queste città che resti famosa per i posteri? ». Quando si mise a concepire delle costruzioni si rese conto che non riusciva a far nulla di meglio dei suoi predecessori e diceva: « Come è possibile che non riesca a lasciare alcun ricordo di me? » e cosí faceva distruggere tutti gli edifici di cui s’è detto affinché si dicesse che Mirassa Miaxa non ha costruito nulla, ma ha fatto distruggere le migliori opere del mondo. Quando il padre che stava a Samarcanda venne a conoscenza dei fatti, andò subito dal figlio, il quale appena seppe che lui arrivava, si presentò con un cappio al collo innanzi al padre implorando perdono. Il padre voleva ucciderlo ma fu dissuaso dai suoi cavalieri e dai suoi parenti, con tanta convinzione che alla fine lasciò perdere e lo perdonò. Però, gli tolse la signoria che gli aveva conferito e gli uomini che gli aveva attribuito. Dopo averlo deposto, chiamò un suo nipote, Aboaquer Mirassa (Abū Bakr Mīrzā), figlio di Miaxa Mirassa, e gli disse: « Tuo padre ha sbagliato, prenditi dunque la sua terra e il suo regno ». Il nipote rispose: « Signore, Dio non voglia che io m’appropri di ciò che era di mio padre: appena la vostra ira si placherà, glielo restituirete ». Visto che non accettava, Timur chiamò un altro nipote, figlio di questo Mirassa Miaxa, e gli diede la signoria e gli uomini che erano stati del padre [‘Umar]. Ora costui è nemico del padre e del fratello e vorrebbe ucciderli come ascolterete poi.

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Clavijo aggiunge, oltre: Quando Mirassa Miaxa fece queste cose, era sposato con una donna che si chiamava Gansada [Khānzāda]. Costei se ne andò di nascosto da lui, camminando giorno e notte fino a raggiungere Tamurbec. Quando arrivò lo informò di quello che il figlio [Mīrānshāh] stava combinando, e che facesse attenzione perché quello voleva rivoltarglisi contro. Per questa ragione [Timur] gli tolse il regno come s’è detto e si tenne la Gansada con sé, con molti onori, impedendole di tornare dal marito. Mirassa Miaxa ha con lei però un figlio che si chiama Caril Zoltan [Khalīl Sulṭān]. Mirassa Miaxa ha quarant’anni, è corpulento e ha la gotta.3

La testimonianza di Clavijo, che riporta discorsi uditi alcuni anni dopo gli eventi, quando era alla corte di Timur, non lascia molti dubbi sulla natura inquieta se non instabile di Mīrānshāh, che già avevamo avuto modo di intravvedere in alcune circostanze. Quanto alle fonti persiane, andrà notato che Shāmī, unico cronachista persiano contemporaneo di Timur, non fa menzione della follia di Mīrānshāh.4 Mentre altri si dilungano sul tema. 2. La versione delle cronache timuridi Sharaf al-Dīn riprende il tema della follia di Mīrānshāh: durante l’autunno dell’801/1399, sarebbe caduto da cavallo battendo la testa e restando a lungo svenuto. Fu curato male, da un medico corrotto, tanto che questo re, il quale aveva « detenuto il trono di Hülagü »5 (ovvero l’Azerbaigian e l’Iraq), uscí di senno. Uccideva per un semplice sospetto e dilapidava i beni del tesoro. Faceva distruggere gli edifici piú celebri e si comportava in modo disonorevole per un principe. Una delle azioni che diedero un segnale maggiore della sua dissolutezza fu che partí durante un’estate rovente con tutto il suo esercito per riconquistare Baghdad tornata tra i domini di Sulṭān Aḥmad durante l’assenza di Timur. Immaginandosi la fuga dell’avversario al semplice suo arrivo, giunto nel sito di Ibrahimlik (a nord di Baghdad), venne a sapere che vari « nobili e sovrintendenti » (a‘iyān va muta‘īnān) della sua corte si erano coalizzati per ribellarsi6. Lui però si ostinò a continuare per la sua strada e piantò le tende davanti a Baghdad. Sulṭān Aḥmad, che conosceva le insidie della stagione calda in quella regione, decise di resistere chiudendosi nella città. Siccome da Tabriz giungevano in continuazione dispacci che riferivano della congiura, il sovrano si risolse dopo due giorni a tornare indietro. Giunto in città giustiziò un 238

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gran numero di persone e se la prese in seguito con il principe Arlat, Sīdī ‘Alī Shakkī, che già abbiamo avuto modo di conoscere in precedenza, andando a devastare i suoi possedimenti. Fu poi la volta dei Georgiani che, approfittando dell’assenza di Timur, « si misero in rivolta », mentre Ṭāhir, il figlio di Sulṭān Aḥmad Jalayir, riusciva a rifugiarsi nella fortezza di Alinjak. Timur aveva ordinato di assediarla lasciando il suo presidio agli emiri Sulṭān Sanjar e Ḥājjī Sayf al-Dīn, i quali però non riuscirono a prenderla per come era solidamente fortificata. In quel frangente i Georgiani si ammassarono alle frontiere, e Sīdī ‘Alī Shakkī, che era stato un servitore di Timur, si uní a loro pur di rovesciare Mīrānshāh che lo aveva aggredito poco prima e attaccò anche lui gli assedianti di Alinjak per liberare Ṭāhir che vi si era asserragliato dentro. L’esercito georgiano compí numerose scorrerie in terra timuride. Le fonti georgiane offrono vari dettagli di questa impresa e riferiscono di un attacco da parte di Giorgi VII (Gurgīn nelle fonti persiane, figlio di Bagrat V, che era morto nel 1395 e della principessa Elena di Trebisonda) per soccorrere il suo alleato jalayiride. Oltre alle truppe del regno (si veda oltre), aveva fatto pervenire anche genti nord-caucasiche.7 Sulṭān Sanjar e Ḥājjī Sayf al-Dīn si trovarono costretti ad abbandonare l’assedio di Alinjak in tutta fretta per ritirarsi. Mīrānshāh inviò allora il figlio Abū Bakr davanti alla fortezza per assediarla e respingere i Georgiani, ma costoro lo precedettero e dopo aver liberato Ṭāhir piazzarono nella fortezza tre celebri aznavūr (aznaur, titolo nobiliare georgiano)8 oltre a degli emiri musulmani, Ḥājjī Ṣāliḥ e il sayyid Aḥmad Oghulshāhī.9 Gli aznavūr georgiani riuscirono anche ad attaccare l’esercito timuride, che dovette difendersi con forza mettendo anche in pericolo la vita del principe Abū Bakr che lo comandava. Ma la morte di Sīdī ‘Alī di Shakkī, per una freccia scoccata da Abū Bakr stesso, avrebbe messo fine al combattimento e permesso una rovinosa fuga al figlio di Mīrānshāh. Una fonte georgiana del tempo, lo Ʒegli eristavta (Costituzione degli Eristavi) riferisce dell’intervento di re Giorgi VII che avrebbe compiuto un’incursione ad Alinǯa (ovvero Alinjak) con un esercito formato da elementi provenienti da diverse regioni (Kartli, K’axeti, Imereti, Mesxeti e Shirvan), i quali avrebbero inflitto ai Timuridi una dura sconfitta per poi tornare in Georgia.10 Sharaf al-Dīn conclude che queste erano le conseguenze nefaste dell’alienazione di Mīrānshāh, che passava il suo tempo a ubriacarsi e a giocare a dadi (nard) compiendo scelleratezze. Un giorno, discutendo vivace239

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mente con la Khānzāda, ne avrebbe offeso la virtú con un sospetto che portò questa regina a cercare la causa della calunnia. La Khānzāda fece uccidere numerose persone e costrinse il visir Dawlatkhwāja Īnaq11 a fuggire insieme alla sua famiglia a Ray, mentre la residenza del visir veniva saccheggiata. E tale fu il conflitto tra la Khānzāda e Mīrānshāh che anche lei fuggí a Samarcanda, giungendovi nel momento in cui Timur tornava dall’India. Cosí riuscí a informarlo delle nefandezze del marito, ricordandogli che quello si apprestava a ribellarsi e che aveva sperperato le ricchezze dell’Azerbaigian in sollazzi. Questo impose un intervento di Timur immediato nella regione.12 Piú avanti, il racconto di Sharaf al-Dīn riporta dell’incontro tra Timur e Mīrānshāh in prossimità della città di Ray. Quando il figlio arrivò, Timur non volle riceverlo subito, evidentemente per far sbollire il proprio animo. Infine, Mīrānshāh si presentò a lui mettendosi in ginocchio, ma Timur lo trattò con profondo disprezzo. Sharaf al-Dīn sorvola su quanto Timur e Mīrānshāh si sarebbero detti, di sicuro il figlio fu esautorato da ogni funzione, anche se lo ritroveremo in seguito in diverse campagne.13 Altri non subirono lo stesso destino: in quei giorni di resa dei conti, erano stati inviati a Tabriz diversi emiri che catturarono molti luogotenenti e funzionari (navvāb va ‘ammāl) e requisirono i registri del dīvān con le operazioni contabili compiute negli ultimi anni, che furono subito scrutinati minuziosamente, e si riscontrarono ammanchi e cancellazioni arbitrarie. Furono arrestati anche tutti i musici (arbāb-i sāz), colpevoli di avere irretito il loro padrone, che furono immediatamente impiccati, in modo da dare l’esempio agli altri. Sharaf al-Dīn lamenta anche vittime innocenti in questo frangente, come Muḥammad Quhistānī, votato alle scienze e alla letteratura, e i musicisti Quṭb al-Dīn il nayī (‘suonatore di flauto’) e Ḥabīb lo ‘ūdī (‘suonatore di liuto’), che insieme a diversi altri furono giustiziati con una penosa esecuzione, durante la quale il mawlānā Muḥammad recitò dei versi laconici e orgogliosi sul proprio destino, prima di morire.14 Ove si escludano i dettagli e la descrizione dei disastri militari di Mīrānshāh, la testimonianza di Sharaf al-Dīn coincide nella sostanza con quella di Clavijo. Ivi incluso il dissidio tra Mīrānshāh e la Khānzāda, che dà un’idea calzante di un vero e proprio psicodramma famigliare, cosí insolito nelle pur caute descrizioni della casa timuride. Colpisce la distruzione degli edifici, segno di una follia in cui il figlio sembra ossessionato dall’emulazione del padre. Altre testimonianze del dissidio, come quella di Ibn ‘Arabshāh, appaiono meno credibili: stando a lui, Mīrānshāh avreb240

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be scritto una lunga lettera al padre chiedendogli di farsi da parte perché oramai vecchio e malato. Questa lettera infarcita di riferimenti storici e religiosi avrebbe convinto Timur ad andare a cercare il figlio, anche se poi arrivati al redde rationem lo avrebbe risparmiato. Ibn ‘Arabshāh però aggiunge anche lui che Mīrānshāh era stato consigliato da cattivi compagni ed era devoto in modo smodato a un musico, Quṭb di Mossul, che sembra essere lo stesso citato da Sharaf al-Dīn.15 3. Il quadro geopolitico all’inizio di sette anni di campagne militari Pur scontando i postumi della malattia e le indubbie fatiche che l’India aveva prodotto, cosí come l’ira per il tentativo di usurpazione che Mīrānshāh aveva messo in atto, Timur si adoperò per mettere ordine nella sua famiglia e nel controllo delle sue conquiste precedenti con un piglio deciso. L’elenco dei problemi era lungo: la situazione in Azerbaigian necessitava di un intervento e la Georgia aveva rialzato la testa.16 C’era anche da sistemare la questione della fortezza di Alinjak che non era stata conquistata, con tutto il corollario di defezioni e manchevolezze da parte degli ufficiali timuridi preposti all’assedio. Timur chiese a Shāhrukh, l’ultimogenito, di cui poteva fidarsi, di andare con l’esercito del Khorasan verso l’Azerbaigian, invitando l’emiro Sulaymānshāh a prendere il controllo di Tabriz.17 Partirono cosí tre emiri, tutti di sicura fiducia, dell’entourage di Shāhrukh perché l’esercito del Khorasan muovesse verso l’Azerbaigian. Gli eserciti incontrarono diverse difficoltà – inclusa una moria dei cavalli a causa di « erbe velenose » che ingerirono –, fino a che giunsero a Firuzkuh a sud del Caspio dove stabilirono un quartier generale e lí furono raggiunti da altre armate arrivate dal nord. Timur nominò Muḥammad Sulṭān viceré della Transoxiana, collocandolo nella sede del trono Samarcanda.18 Si trattava di una dimostrazione delle sue intenzioni dopo l’esautorazione di Mīrānshāh nelle contese interne alla famiglia timuride. Muḥammad Sulṭān fu affiancato da numerosi emiri e prese molto sul serio la sua funzione. Altri membri della nobiltà furono messi a capo degli eserciti dispiegati sulle frontiere settentrionali del regno in modo da mettere in sicurezza i domini di Timur. Infine il Grande Emiro si mise in movimento col grosso dell’esercito l’8 di muḥarram 802/10 settembre 1399: erano passati meno di quattro mesi dal suo ritorno dall’India. Nel suo itinerario compí molte tappe in santuari religiosi, visitando le tombe di varie autorità del passato. Quando si 241

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fermò nel Qarabagh si occupò della sua politica internazionale. Venne infatti a conoscenza della “lieta novella” di molti decessi, quali la morte di Timur Qutlugh, che aveva insediato negli antichi domini dell’Orda d’Oro e che Sharaf al-Dīn definisce un principe ingrato. Shāmī invece descrive il dissesto del regno dopo la morte di Timur Qutlugh e la guerra civile che ne conseguí.19 In realtà, dopo la sconfitta di Toqtamish nel 1395, Timur Qutlugh insieme a Edigü avevano sbaragliato una coalizione messa in piedi da Toqtamish con il principe lituano Vytautas e un’intera armata di cavalieri tedeschi dell’Ordine teutonico sul fiume Vorskla (12 agosto 1399). Saccheggiarono poi Kiev e la Lituania, mettendo fuori uso uno dei principali nemici di Timur che uscí definitivamente dai giochi per il controllo delle steppe Qipchaq.20 Morto anche Timur Qutlugh se ne andava un alleato incerto e scomodo, anche se rimaneva Edigü, che stando a Clavijo deteneva il potere con un esercito di duecentomila cavalieri e aveva risposto con toni da sovrano indipendente alle richieste di Timur di sottomissione.21 Dopo la morte di Barqūq (15 shavvāl 801/20 giugno 1399), il sultanato mamelucco era allo sbando, in mano a un giovanissimo sultano privo di autorevolezza, Faraj.22 In Cina, l’imperatore Ming Tunghuz Khān (‘il re maiale’, Zhu Yuanzhang) era passato a miglior vita nel 1398 nel suo « regno di idolatri », anch’esso nel caos se ci affidiamo sempre alle nostre cronache. Quanto al Moghulistan, Khiżr Khwāja era morto nel 1399, lasciando i suoi quattro figli a contendersi il suo regno.23 Quest’ultimo decesso aveva incitato il quindicenne principe Iskandar, figlio di ‘Umar Shaykh, che aveva rilevato i possedimenti del padre nel Ferghana, a partire da Andakan (odierna Andijan), a compiere un’azione militare in quello che oggi si chiama Sinkiang, arrivando sino a Kashghar insieme a un consistente esercito e spingendosi in seguito ad Aqsu (Aksu), a Khotan (Hotan), a Qara Khwāja (Qocho, oggi Gaochan), ancora piú a est, lambendo le frontiere del Khaṭā (l’Impero cinese) dove « sorge la città di Khānbaliq » (Canbalu in Marco Polo, Pechino).24 Iskandar non si spinse oltre e inviò dei doni sia a Timur che a Muḥammad Sulṭān. Quest’ultimo non gradí l’intraprendenza del principe, che aveva agito in proprio senza aspettare le disposizioni del viceré del Turan il quale avrebbe anche deciso di farlo arrestare al suo ritorno. Catturato, fu consegnato a Muḥammad Sulṭān legato, mentre si svolgeva contro di lui un processo (yarghu) che portò alla morte del suo tutore (atabeg) Bikijik con ventisei suoi attendenti (nawkar). Il giovane e impulsivo principe fu 242

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evidentemente risparmiato, ma ancora una volta all’interno della famiglia timuride si era verificato un conflitto tra due nipoti di Timur, diretti discendenti del Grande Emiro.25 4. Timur a caccia di Khamshā (Ximšia) in Georgia La questione di Alinjak coinvolgeva numerosi protagonisti. Il tradimento di Sīdī ‘Alī di Shakkī aveva prodotto un problema nell’area, suo figlio Sīdī Aḥmad, però, terrorizzato, si rivolse a Timur che soggiornava nel Qarabagh, con l’intermediazione dello Shāh dello Shirvan Ibrāhīm, e Timur non esitò a perdonarlo per avere dalla sua parte quell’importante alleato.26 Insieme a Ibrāhīm si prodigherà in seguito ad accompagnarlo contro i Georgiani.27 Vladimir Minorsky, che ha offerto un quadro dettagliato di quelle vicende caucasiche, sottolinea come il caso di Sīdī ‘Alī fosse legato alla Geor­ gia e quanto la figura del figlio del sultano jalayiride Aḥmad, Ṭāhir, vi fosse anch’essa implicata. Stando a una fonte siriaca, Ṭāhir si era unito matrimonialmente con la casa georgiana e questo aveva portato il rampollo jalayiride a rifugiarsi ad Alinjak in quel periodo. Trovandosi sotto assedio, fu soccorso da Sīdī ‘Alī che operava per conto di Giorgi VII. Una volta sconfitto e ucciso Sīdī ‘Alī dal figlio di Mīrānshāh, Abū Bakr, Ṭāhir sarebbe fuggito a Tbilisi provocando l’ira funesta di Timur.28 Ibn ‘Arabshāh, dal canto suo, racconta di una storia relativa ad Altūn, un nativo del luogo, probabilmente il castellano di Alinja (ovvero Alinjak), che aveva un fratello famoso per i suoi costumi peccaminosi (bi-l-fasaq mashūr) e costui si sarebbe unito alla madre di Ṭāhir in un rapporto illecito, cosa che provocò l’ira di Ṭāhir che avrebbe ucciso il fratello di Altūn e la sua stessa fedifraga genitrice mentre Altūn era assente. Tornato il castellano, si vide chiudere innanzi le porte di Alinjak che difendeva da dodici anni. Altūn, perciò, si rivolse al governatore di Marand (oggi nell’Azerbaigian persiano) che era agli ordini di Timur e costui, preso dal terrore di aiutare uno di coloro che stavano ad Alinjak, non esitò a decapitarlo e a inviarne la testa a Timur. Di fronte a quel gesto, Timur fece uccidere immediatamente il governatore di Marand che evidentemente gli aveva tolto un utile alleato per conquistare la fortezza.29 La storia la dice lunga sulle difficoltà che Timur incontrava ad Alinjak. È indubbio che la vittoria degli aznavūr georgiani sull’esercito timuride di Mīrānshāh, pur portando alla morte di Sīdī ‘Alī Shakkī, aveva gettato nel 243

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caos il vicereame dell’Azerbaigian e questa era una delle ragioni principali dell’ispezione ordinata da Timur a Tabriz, nonché del perdono strategico di Sīdī Aḥmad di Shakkī. Ma c’era un ulteriore protagonista, che Vladimir Minorsky individua nella persona di Khamshā (Ximšia), ovvero un capo locale con molti interessi su Alinjak.30 Costui contribuí al conflitto per sbloccare l’assedio alla fortezza, e non Giorgi VII, il quale molto verosimilmente non intervenne personalmente nel conflitto. Era questa figura a interessare Timur, che penetrò nel Caucaso in cerca del temibile Khamshā, un nome che si ritrova negli atti della donazione della cattedrale di Mtskheta datata 13 aprile 1405 come Maraleli (ovvero un Marali di Suram), probabilmente un amīr alkhwor (‘grande scudiero’) con funzioni di ministro del regno di Georgia.31 Alcuni studiosi georgiani hanno evidenziato la scelta strategica vincente di Timur di aggredire la Georgia da oriente, ovvero da dove il regno non disponeva di valli e montagne come confini naturali; inoltre Timur, cosí facendo, pensava forse di islamizzare i Georgiani con l’appoggio della popolazione musulmana di quelle regioni.32 Guidato da Sīdī Aḥmad di Shakkī e da Ibrāhīm Shāh di Shirvān (che erano stati vassalli di Giorgi VII), Timur penetrò in Georgia a caccia di Khamshā,33 per compiere l’ennesima ghazā nella regione contro gli infedeli georgiani, cosí qualificati, ovviamente, da Sharaf al-Dīn. Nell’estate dell’802/1400, Timur passò da Shakki e fece costruire un ponte di barche sul fiume Kur (il Kura in tur., Mt’k’vari in georg.), arrivò dalla valle del fiume Aqsu (il fiume Qurmukh in georg. Kurmuxissc’q’ali) in Eliseni (oggi in territorio azerbaigiano), una regione boschiva che rallentò il transito dell’esercito, costringendolo a disboscare il percorso.34 Malgrado la tarda primavera, vi furono grandi nevicate per venti giorni, complicando l’ingresso nella regione. Tuttavia, la tenacia di Timur lo spinse contro gli abitanti dei villaggi che venivano uccisi sistematicamente in itinere, facendo tingere la neve « col rosso del sangue degli infedeli », mentre le armate avanzavano per catturare Khamshā.35 Infine, questi incontrò Timur col quale si affrontò in una accanita battaglia in cui perirono anche moltissimi soldati timuridi. Khamshā abbandonò il campo solo dopo aver intuito che gli avversari avrebbero vinto.36 Fuggí nelle foreste e fu impossibile catturarlo, in compenso la campagna si rivelò un’occasione per distruggere i vigneti che gli invasori incontravano, e Sharaf al-Dīn offre al riguardo una delle sue note di sapore antropologico: 244

xiii · m ī r ā nsh ā h tenta di appropriarsi del potere Siccome non c’è vita per questi pervertiti senza vino digestivo (bīkhamar gavāranda), è abitudine per uomini, donne e bambini di berne, al punto che ognuno che muore: Mette come ultima volontà quando l’anima lo lascia Che il coperchio della bara sia di legno di vite, impregnato di vino. E non viene sepolto se non ha del vino accanto. Per poter produrre un danno agli infedeli e affliggerne l’esistenza – sia ingiuria per loro! –, venne emesso l’ordine che le loro vigne e i loro orti fossero fatti a pezzi dall’esercito del Portator di Trionfi. Salirono sino in cima alle montagne per sradicare le vigne che quei dannati (ahl-i nār) avevano con cura coltivato per fare quel vino soave. Strapparono anche dagli alberi le foglie lasciandoli nudi. Rasero al suolo gli edifici e in particolare le chiese che erano il luogo dei culti repellenti di quegli esseri vili.37

Aggiunge Sharaf al-Dīn una comparazione tra le imprese di Georgia e quelle indiane, allorquando erano stati distrutti i templi idolatrici. Comunque, dopo un mese tra le montagne e soprattutto le vigne dei Georgiani, Timur prese la via del ritorno, non senza incontrare diversi problemi determinati dal freddo: molti cavalli morirono perché non trovavano il cibo.38 Forse non del tutto soddisfatto degli esiti della campagna, Timur fece un processo a coloro che non si erano distinti ad Alinjak. Dopo aver fatto condannare due suoi ufficiali il qipchaq Ḥājjī ‘Abdullāh ‘Abbās39 e Muḥammad Qazaghan, rei di essere fuggiti quando erano arrivati i georgiani, li fece bastonare « davanti e di dietro » (pas va pīsh chūb-e yasaq zadand). Quanto a Yumn (?) Ḥamza Apardi, che si era rifiutato di combattere, costui fu condannato a morte e salvato solo dopo l’intercessione di vari nobili di corte, subendo comunque il trattamento dei suoi due compagni di sventura. Gli ufficiali di Mīrānshāh furono tutti pesantemente multati, fatta eccezione per il giovane principe Abū Bakr, unico eroe di una vicenda, per il resto, poco edificante.40 5. Congiure persiane a Shiraz L’irrequieta famiglia di Timur, comunque, non mancava di dare preoccupazioni al Grande Emiro: inquieto per la situazione dei territori conquistati, inviò da Jam il principe Rustam Barlas, suo fedelissimo, per controllare lo stato dei domini e forse anche per andare a verificare voci, che gli sarebbero giunte dopo il ritorno dall’India, di irregolarità e malgover245

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no. Rustam fu accolto con tutti gli onori a Shiraz dal fratello Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, che gli donò una veste e centomila dīnār kebeki. Rustam allora decise di prendere la via di Baghdad insieme a vari nobili locali, lasciando a Shiraz i suoi uomini, tra cui Sa‘īd Barlas, per compiere una ispezione sulla situazione nella regione come gli era stato ordinato da Timur. La spedizione a Baghdad prevedeva nelle stesse disposizioni del Grande Emiro la presenza di Pīr Muḥammad a capo dell’armata, ma costui oppose un diniego dicendosi malato e, quando il convoglio era già partito da tempo, mosse anche lui in direzione di Baghdad, ma se ne tornò indietro una volta arrivato a Nawbanjan nello Shulistan, poco distante da Shiraz.41 Nell’attesa del fratello, Rustam si dedicò a saccheggiare il Luristanak, giungendo sino a Dizful, e nel mese di jumādī ii 802 / gennaio-febbraio 1400 arrivò infine a Mandali, non lontano da Baghdad, dove l’emiro locale, ‘Alī Qalāndar, che governava per conto del jalayiride Sulṭān Aḥmad, oppose una qualche resistenza, ma finí col soccombere insieme ai suoi che vennero sterminati, mentre la città fu saccheggiata. ‘Alī Qalāndar fuggí alla corte di Sulṭān Aḥmad a Baghdad, informandolo di ciò che stava accadendo nella regione e aumentando il suo terrore per la piega che gli eventi stavano prendendo. Intanto Pīr Muḥammad a Shiraz era stato circuito da « un gruppo di malfattori tajiki », ovvero dei Persiani, che gli « misero in testa fantasie corrotte » (khiyālī fāsid) confezionando dei veleni mortali (sumūm-i qātil) per mettere in atto una cospirazione42. Sa‘īd Barlas, che era probabilmente la vittima designata di queste macchinazioni, venne a sapere della cosa e in qualità di nuovo governatore della città imprigionò Pīr Muḥammad nel Quhandizh (‘la cittadella’), vigilando lui stesso sul nobile rampollo e lasciando il controllo della città ad ‘Alī Beg ‘Īsā. Subito Sa‘īd Barlas inviò un dispaccio a Timur descrivendo gli eventi. Giunti nel Qarabagh, gli emissari informarono Timur che mandò il fidato Allāhdād per verificare quanto avveniva a Shiraz e mettere sul trono di questo vicereame il fratello Rustam Barlas, conducendo al suo cospetto Pīr Muḥammad incatenato per processarlo. Allāhdād prese molto sul serio la cosa e appena arrivato giustiziò il mawlanā Muḥammad Khalīfa, il sayyid Jarrāḥ e Rustam Khurāsānī, ovvero i tajiki che avrebbero insegnato a Pīr Muḥammad le tecniche di avvelenamento. Ad altri fece tagliare le braccia e le gambe, inviando diversi sospetti da Timur perché fossero utili nel suo processo. Dopodiché fece pervenire a Rustam Barlas il decreto che lo nominava viceré ed egli interruppe subito le sue incursioni per tornare a Shiraz. 246

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Poco distante dal Fars, nel Khuzistan, un altro governatore locale, Shirvān (?), si era appropriato del tesoro pubblico, imponendo gravose ed evidentemente non previste tassazioni ai notabili della regione. Uccise anche i kalāntar (‘maggiorenti’) di Huvayza per poi fuggire a Baghdad, sottomettendosi a Sulṭān Aḥmad, distribuendo ingenti somme ai nobili della sua corte in segno di amicizia. La cosa non sfuggí a Sulṭān Aḥmad, che fece subito arrestare uno di loro, tale Rāfi‘, decapitandolo poi con le proprie mani. Ordinò di uccidere lo stesso Shirvān che compiva al seguito del suo esercito una operazione di polizia nella regione attorno a Baghdad. Shirvān fu decapitato e la sua testa inviata a Baghdad, dove Sulṭān Aḥmad si dedicò a una purga sistematica in cui morirono duemila persone, inclusa la matrigna Vafā Khātun, che venne soffocata con un cuscino, insieme a numerose donne del suo harem, alcune delle quali provvide lui stesso a eliminare gettandole nel Tigri. Ossessionato dalla paranoia, Sulṭān Aḥmad fece chiudere le porte del palazzo impedendo a chiunque di entrare per timore di un qualche attentato. Infine, fuggí in gran segreto dalla città, per andare dal signore dei Montoni neri Qara Yūsuf che convinse a venire a Baghdad, usando come argomento persino il permesso di saccheggiare la città. Tornati insieme, Qara Yūsuf fu colmato di doni e cosí Sulṭān Aḥmad riuscí anche a convincere i suoi turcomanni a risparmiare Baghdad. Mentre Timur penetrava in Anatolia, tuttavia, Sulṭān Aḥmad, evidentemente ossessionato, pensò che fosse opportuno fuggire insieme a Qara Yūsuf, lasciando un governatore locale nella città.43 I due approssimatisi alla Siria si scontrarono ad al-Sajur contro Timurtash, governatore di Aleppo, e Dūqmāq, governatore di Hama, il 24 shavvāl 802/18 giugno 1400, sconfiggendoli grazie ai Turcomanni, che catturarono anche Dūqmāq chiedendo un riscatto per rimandarlo indietro. Nel frattempo, però, i due fuggitivi con i loro eserciti inviarono un messaggio al sultano Faraj, in cui dichiaravano di non voler combattere contro i Mamelucchi, ma la risposta del sultano fu durissima e la richiesta di catturarli li costrinse a dirigersi verso la corte ottomana.44 Questi episodi descritti solo da Sharaf al-Dīn possono mostrare molti aspetti contraddittori, se non vere e proprie fantasie. Tuttavia, per quanto riguarda la storia di Shiraz, è stato già notato che essa rivela l’uso sistematico di ispezioni contabili da parte di Timur, molto attento alle questioni finanziarie.45 Inoltre l’accusa a dei Tajiki di corrompere i principi della casa timuride non è una novità, la ritroveremo anche al tempo della campagna siriana di Timur e in altre circostanze. Essa serve a coprire altri 247

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eventi che vedono protagonisti i suoi parenti stretti: di fatto Pīr Muḥammad verrà risparmiato da Timur, ma anche in questo caso si assiste a una crisi politica interna alla famiglia. Quanto all’altro episodio, quello del tradimento di Shirvān, sembra trattarsi anche qui in origine di una malversazione economica, anche se dimostra che in questo caso il misterioso governatore tentò anche lui di tradire la causa timuride, ma con esiti del tutto controproducenti: frainteso, venne ucciso. Le assenze di Timur e forse la sua salute cagionevole costituivano un’insidia maggiore di quelle che incontrava in battaglia. 6. Contro re Giorgi VII, signore di Georgia L’accoglienza da parte di Giorgi VII offerta a Ṭāhir, figlio di Sulṭān Aḥmad, doveva suscitare un’ira profonda in Timur, che tra l’altro era stato informato delle vittorie conseguite dai Georgiani contro gli eserciti inviati da Mīrānshāh. Nel Qarabagh Timur, all’inizio della primavera dell’802/ 1400, convocò un grande kuriltai nel quale premiò l’esercito e i suoi ufficiali con del denaro. Stava pianificando una campagna contro il regno di Georgia. Partí subito dopo il kuriltai, arrivando a Barda‘ (oggi in Azerbaigian) dove fu raggiunto dal suo fedele alleato anatolico Mu­ṭahhartan, beg di Erzincan, che veniva a porgergli i suoi omaggi. L’episodio è importante perché è premonitore di eventi successivi: Muṭahhartan di fatto espose la situazione in Anatolia, forse con dei riferimenti a Sulṭān Aḥmad e Qara Yūsuf che avevano già raggiunto la corte ottomana. Dopo averlo onorato con molta cura, Timur lo rispedí indietro confermandogli il titolo e in­ vitandolo a presidiare le frontiere dalle possibili mire espansioniste ottomane. Quanto a Giorgi, Timur gli inviò un ordine tassativo di consegnare il principe jalayiride Ṭāhir che si era rifugiato da lui, ma la risposta fu estremamente dura, « al colmo dell’ignoranza e dell’aberrazione » (az ghāyat-i jahl va żalālat), il che provocò la partenza immediata di Timur con un’avanguardia, lasciando il grosso dell’esercito indietro.46 Secondo Parsadan Gorgiǯaniʒe, Giorgi si rifiutò invece diplomaticamente, dicendo che non era uso tra i Georgiani consegnare una persona che aveva chiesto asilo.47 Iniziò cosí l’ennesima ghazā georgiana, e i Timuridi compirono sul proprio itinerario numerose devastazioni, distruggendo le abitazioni e le coltivazioni, gli alberi da frutta e soprattutto le vigne.48 Molti georgiani fuggirono verso impervie montagne dove si rintanarono entro delle grotte 248

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fortificate, apparentemente imprendibili (« la cui conquista non era neanche da prendere in considerazione »). Tuttavia, con il solito curioso espediente, i soldati venivano issati sulle cime entro delle casse di legno e da esse sbucavano all’improvviso sugli avversari, lanciandogli dei materiali in fiamme, costringendoli cosí a uscire a causa del fumo dalle loro grotte che erano protette da difese in legno, un modus operandi già piú volte praticato a Qartamin e altrove. Ciò portò a una strage di georgiani e permise a Timur di raggiungere Tbilisi, da cui il re Giorgi era fuggito per evitare uno scontro diretto.49 Vennero distrutti numerosi edifici religiosi, tempi di culti « non accetti » (nāmaqbūl).50 Diversi aznavūr si sottomisero, anche se le fonti georgiane parlano pure di numerosi scontri con forze locali.51 Sconfitto il re Giorgi, ma non catturato, Timur decise di attaccare altri potentati georgiani, prendendosela questa volta con Jānī Beg Gurjī, ovvero Ǯanibeg Zedgniʒe, signore feudale molto noto nelle fonti narrative e documentarie e signore del feudo di Saamilaxvro, a ovest della valle dello Ksani.52 La regione di quest’ultimo fu devastata e Jānī Beg si arrese cedendo « il castello e la caverna » (ḥiṣār va maghāra) in cui viveva.53 Venne perciò inviato Sayyid Khwāja, figlio di Shaykh ‘Alī,54 a compiere altre spedizioni in Georgia, passando da Samava (Samtavisi) dove tutto l’esercito si sarebbe riunito infine. Una fortezza a Bil (probabilmente Gori), che era in altura, impose un assedio complesso: dopo la sua cattura venne rasa al suolo, ma i numerosi distaccamenti spediti dall’esercito a caccia di Giorgi tornarono ancora a mani vuote. Tornato sui suoi passi Timur passò il Kura, e fu informato del fatto che numerosi aznavūr si erano rintanati nella fortezza di Zarit (la fortezza di Ortubani, sul fiume Zama, nei pressi dell’antica città di Mʒoreti), anch’essa in cima a una montagna, che fu conquistata e rasa al suolo, stando sempre alle fonti persiane, esuberanti nelle descrizioni. Qui apprese che Giorgi era nel Savanit (il Savanisubani, ossia il ‘quartiere di Savane’, sul versante del Monte Lixi che costituisce confine naturale tra la Georgia orientale e quella occidentale). Questo portò Timur a dirigersi con l’intero esercito verso settentrione, ma Giorgi riuscí a fuggire in Abkhazia, mentre i Timuridi devastavano il Savanit. Attraversati i fiumi Ayghar ed Enguri, qui confusi nell’ordine dalle fonti persiane (forse prima l’Enguri e poi il Q’virila, un affluente del Rioni, ma il passaggio è davvero oscuro), Giorgi si dileguò verso le steppe dei Qipchaq, il che significherebbe semplicemente verso settentrione, congedando l’oramai ingombrante principe jalayiride Ṭāhir che avrebbe do249

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vuto rifugiarsi presso gli Ottomani per raggiungere il padre. Poi inviò un ambasciatore di nome Ismā‘īl a Timur, probabilmente un alto dignitario di quest’ultimo, che Giorgi avrebbe preso in ostaggio in precedenza,55 per intercedere per lui. Stando a Sharaf al-Dīn, costui si sarebbe prostrato a terra implorando clemenza nei confronti del re Giorgi.56 Il perdono apparente datogli da Timur sembra essere piuttosto un modo di mascherare il fallimento del tentativo di catturarlo. Timur continuò le sue imprese in Georgia e questa volta nei domini di un altro principe, Īvānī (Ivane), che era uno dei piú potenti signori dell’area, devastandone la regione. Fedelissimo di Giorgi, Ivane utilizzava il titolo turco di atabeg come governatore della Samcxe, il principato piú potente del regno di Georgia. Secondo le fonti georgiane, Timur lo attaccò proprio per la sua fedeltà al re, dopodiché si mise sulla via del ritorno. Le fonti persiane sono succinte a proposito di questa impresa, ma sembrerebbe che egli sia giunto nella valle dell’Aragvi attraverso la Trialeti e concretamente, nella valle del Teʒma, abbia distrutto il ricco monastero di Rk’oni, sempre nella zona, sul corso superiore del fiume.57 Un’epigrafe del cenobio riferisce della devastazione del monastero da parte di Timur nel 1400.58 Questa epigrafe riporta anche la distruzione di altre chiese, cosa che trova conferma in entrambi i testi della Nuova vita della Kartli, che parlano di Svet’icxoveli e Kvabtaxevi, nonché dell’incontro nuovamente coi Qaraqalqanliq, ovvero gli ‘Scudi neri’, che aveva già combattuto in precedenza.59 Timur ripartí in seguito per lo yaylaq di Minkūl (Mingöl), uno dei suoi accampamenti preferiti in Transcaucasia.60 Apprese che a Farasgird (Panask’ert’, località nella regione di T’ao), si erano radunati molti nemici e cosí vi inviò in avanscoperta l’emiro Shaykh Nūr al-Dīn con un suo esercito, dopodiché lo raggiunse lui stesso, conquistando sette castelli in cinque giorni, con grandi massacri della popolazione. Tornò infine nelle praterie di Minkul per far ristorare i suoi cavalli in quelle terre verdeggianti che tanto amava. Qui avvenne un fatto che curiosamente è sfuggito a molti storici: Sharaf al-Dīn riferisce di alcuni ambasciatori « franchi » (ifrank) che giunsero con un prigioniero, « il figlio del qayṣar di Rūm », ovvero del sultano ottomano Murād I (il padre di Bāyazīd). Chi fossero questi ambasciatori « franchi » non è dato sapere e si possono fare solo ipotesi.61 Una delle piú verosimili è che si trattasse di bizantini, o di genovesi che operavano con loro, o ancora di un ambasciatore del maresciallo Boucicaut allora gover250

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natore di Genova che aveva forzato l’assedio di Bāyazīd a Costantinopoli e cercava alleanze con Timur. Numerosi altri personaggi potrebbero essere identificati: incluso un emissario del re di Francia Carlo VI, che di lí a poco riceverà una celebre lettera da Timur. Per altro le attività diplomatiche erano già state avviate attorno al 1398 per il tramite dei Frati Francescani, quando uno di loro, Giovanni, era stato nominato da papa Bonifacio IX arcivescovo di Sultaniyya.62 Potrebbe trattarsi qui anche di un riferimento a quel Giuliano Maciocco, o Maiocho, che agiva probabilmente per conto della comunità genovese di Pera e che incontrò in modo misterioso Timur, anche se la sua ambasciata potrebbe piú verosimilmente essersi svolta in Anatolia.63 Il prigioniero non era sicuramente uno dei figli di Murād I, forse un nobile, caduto nelle mani dei Genovesi o dei Francesi. Timur, che già aveva incontrato i Genovesi ad Azov, mostrò grande simpatia per gli occidentali che si presentarono alla sua corte e li fece ripartire per Trebisonda dopo averli colmati di doni. La prospettiva di quelle alleanze doveva sembrare molto proficua in vista del suo ingresso in Anatolia. 7. L’espansionismo ottomano Nel corso degli anni ’90 del Trecento, l’espansionismo ottomano correva di pari passo con quello timuride. Il primo, a differenza del secondo, seguiva un progetto piú coerente e forse meno ideologizzato, per quanto la vittoria di Nicopoli avesse conferito uno straordinario strumento di legittimazione a Bāyazīd. Ove si escluda la sua espansione balcanica e l’assedio che impose a Costantinopoli tra il 1394 e il 1395, l’Anatolia lo aveva visto protagonista di una progressiva unificazione sotto la bandiera ottomana di quelli che per convenzione vengono chiamati beylikati (‘signorie’), a partire dai beylikati occidentali dei signori di Aydın e Menteşe sulle coste dell’Egeo nel 1391, cui va aggiunta l’annessione del regno germiyanide avvenuto un anno prima. Al 1392 risale la conquista di Sinope sul Mar Nero e negli anni successivi l’annessione di numerosi “castelli” e signorie locali che si assoggettarono alla sua volontà. La piú significativa delle campagne anatoliche fu quella contro Konya, allora governata dai potenti Karamanidi nell’800/1397-98, lo stato forse principale dell’Anatolia insieme a quello di Burhān al-Dīn di Sivas. 64 Quest’ultimo personaggio, di cui si è ampiamente parlato, oppose una seria resistenza a Bāyazīd. Lo aveva già sconfitto nel 1391 a Çorumlu (nel251

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la regione di Kastamonu), in una campagna alla quale partecipò anche l’imperatore bizantino Manuele II, allora vassallo del sultano ottomano, il quale nel suo epistolario ci ha lasciato una vivida quanto disincantata testimonianza dell’evento.65 Johannes Schiltberger descrive anche un altro conflitto tra Burhān al-Dīn e Bāyazīd per il controllo della città di Amasya, che alla fine sarebbe passata a Bāyazīd.66 Burhān al-Dīn fu catturato da Qara ‘Uthmān (Qara Yüllük) della confederazione degli Aq Qoyunlu, suo alleato che gli si rivoltò contro, imprigionandolo per chiedere un riscatto alla popolazione di Sivas. Dopo che i maggiorenti della città si rifiutarono di pagare, Qara ‘Uthmān mise fine alla brillante carriera di Burhān al-Dīn decapitandolo sotto le mura cittadine nel 1398.67 Di Qara ‘Uthmān si riparlerà per il ruolo che ricoprirà come alleato di Timur. In questa fase certamente la sua personalità emerge nel quadro politico generale anatolico e la fine del regno di Burhān al-Dīn segna un momento molto propizio per Qara ‘Uthmān, coincidendo di fatto con la fine di quella che John Woods ha definito la prima guerra civile all’interno dalla confederazione degli Aq Qoyunlu. Anche se i tentativi di Qara ‘Uthmān di prendere Sivas furono vanificati dagli abitanti della città che si rivolsero a Bāyazīd affinché ponesse come governatore della città suo figlio Süleymān. Questo portò Qara ‘Uthmān a rivolgersi a Muṭahhartan, un tempo suo rivale, e insieme a lui a recarsi presso Timur quando quello si recò nel Qarabagh per omaggiarlo: i due invitarono caldamente il Grande Emiro a intervenire in Anatolia.68 Approfittando anche della morte di Barqūq nel giugno del 1399, Bāyazīd fu cosí in grado di appropriarsi di Malatya (l’antica Melitene), città strategica dell’Anatolia sud-orientale, e dopo aver catturato nel mese di muḥar­ ram 803/agosto-settembre 1400 la città di Erzincan, spedí la famiglia di Muṭahhartan in ostaggio a Bursa. Era arrivato il momento per Timur di intervenire in difesa di colui al quale aveva appena consegnato il potere nella regione.

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XIV CONTRO I MAM ELUCC H I 1. Corrispondenze diplomatiche di Timur Esistono solo due lettere originali di Timur: la prima, indirizzata a Bāyazīd e conservata nel Topkapı Sarayı (evrak, num. 10750), è datata 804/1402; la seconda, indirizzata a Carlo VI di Francia, risale al 1° muḥarram dell’805/1 agosto 1402.1 Altre lettere sono trascritte nelle raccolte epistolari ottomane, le münşe’āt, e diverse sono dedicate a Bāyazīd, a partire da quella già menzionata che chiedeva un’alleanza per far fronte comune nella guerra contro gli infedeli al momento del conflitto tra Timur e Toqtamish nel 1395,2 cui si aggiungono diverse altre reperibili principalmente nella monumentale raccolta di Ferīdūn Bey Aḥmed del XVI secolo.3 Accanto a queste missive, ve ne sono molte altre riprodotte nelle cronache storiche che presentano diversi problemi, non essendo né documenti originali né copie di documenti, ma semplici riproduzioni del testo con talvolta riduzioni e aggiunte, oppure manipolazioni posteriori. A quest’ultima categoria appartiene una lettera scritta da Timur a Bāyazīd e riportata da Sharaf al-Dīn nella sua cronaca. Si tratta di una lettera che non riflette in alcun modo lo stile né il protocollo seguito dai documenti o dalle loro copie e questo sia che si tratti delle campagne precedenti, nelle quali Timur si esprimeva con toni ossequiosi nei confronti del sultano ottomano, sia nelle lettere successive alla campagna siriana, in cui questi toni si fecero piú accesi. Senza entrare nel merito degli scambi epistolari che presentano numerose altre difficoltà interpretative4 e costituiscono un mare magnum ancora da esplorare nell’insieme, la lettera riprodotta da Sharaf al-Dīn si rivolge al sultano con toni durissimi, chiedendogli una resa incondizionata con una serie di insulti sorprendenti che difficilmente sarebbero apparsi nella corrispondenza ufficiale: Bāyazīd viene definito un « barcaiolo turcomanno » (turkmān kashtībān), che dovrebbe stare attento a non finire con la sua barca nell’abisso con le vele della sua temerarietà. Tuttavia, anche questa lettera come molte altre riprende un tema caro a Timur, quello della lotta comune contro gli infedeli e in particolare contro i “Franchi”, qui identificati probabilmente con i Serbi che Bāyazīd aveva incluso nel suo eserci253

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to dopo la battaglia del Kosovo Polje e con altre potenze europee. Cosí comportandosi Bāyazīd tradiva i suoi antenati, continua Sharaf al-Dīn, mettendo in bocca a Timur una vera e propria arringa in cui compara Bāyazīd a una formica che combatte contro un elefante e a una colomba che sfida un’aquila. Alcuni passaggi di questa presunta lettera sono esposti in versi, altri in prosa, aumentando cosí le perplessità sulla trasposizione letteraria forse di uno o piú testi, magari posteriori.5 Infatti in altre epistole di un momento successivo Timur, con toni piú protocollari, si lamentò della cattura della famiglia di Muṭahhartan a Erzincan da parte degli Ottomani.6 Un delitto al quale accostò i crimini commessi a suo giudizio dal sultano d’Egitto, tra i quali la detenzione del suo « fratello di latte » (kukiltash) Atilmish, custode della fortezza di Avnik, e l’uccisione degli emissari timuridi inviati per recuperarlo.7 Il conflitto con quello che Timur chiama in modo denigratorio vālī-i Miṣr, « governatore d’Egitto », ovvero il sultano Faraj, imponeva la restituzione del prigioniero che era stato consegnato a Barqūq a suo tempo da Qara Yūsuf Qara Qoyunlu, durante il periodo della « follia » di Mīrānshāh. Se ci si affida alle fonti mamelucche, queste descrivono anche Bāyazīd in difficoltà che cerca l’aiuto del Cairo dopo essersi appropriato di Malatya. Cosí quest’ultimo veniva deriso: « Ora è diventato nostro amico! Ma quando è morto il sultano Barqūq, ha attaccato le nostre terre a Malatya. Lasciamo che combatta per le sue terre e noi combatteremo per i nostri possedimenti e il nostro popolo ».8 Timur su queste premesse marciava verso Sivas, per riprenderla agli Ottomani e ristabilire i propri diritti, ma è evidente che congiuntamente perseguiva l’obbiettivo di raggiungere la Siria (vd. cartina n. 5). 2. Sivas Gli autori ottomani descrivono gli eventi che precedono la presa di Sivas con alcuni dettagli importanti. Due cronachisti ottomani, ‘Āşıḳpāşā­ zāde e Neşrī, dopo aver raccontato l’invito della popolazione della città a Bāyazīd di venire a insediarsi lí per difenderla, raccontano anche della cattura della moglie e dei figli di Muṭahhartan e del loro invio a Bursa da parte del sultano. Lo stesso ‘Āşıḳpāşā­zāde si dilunga nel descrivere il fatto che i beg dei beylikati, che erano stati usurpati da Bāyazīd, si erano affrettati a rivolgersi a Timur per chiedergli aiuto.9 Erano fuggiti dalla loro prigionia dalla fortezza di İpsala, in Tracia, in modo rocambolesco: si trat254

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tava del signore di Germiyan, Ya‘qūb Beg II, che insieme al suo visir si erano travestiti da addestratori di orsi e scimmie; di quello di Menteşe, Muḥammad Beg, che invece aveva tagliato la propria barba e i suoi capelli; del signore di Aydın, ‘Īsā Beg, che a sua volta si passava per un venditore ambulante. Insieme a loro si sarebbero uniti gli ambasciatori di altri emiri locali d’Anatolia, come quello del casato degli Isfandiyār. Di fronte a questi nobili anatolici in disarmo, Timur rimase perplesso e mostrò molta diffidenza, dichiarando che non erano privi di colpe: non ultima, quella di non essersi uniti contro Bāyazīd, lasciandolo fare. Loro però si prostrarono innanzi a lui riconoscendolo come Signore della Congiunzione Astrale (Ṣāḥibqirān), definendo invece Bāyazīd un tiranno. Il che bastò a Timur per prenderli come alleati, anche se di fatto erano sprovvisti dei propri eserciti che erano stati inglobati in quello del sultano ottomano.10 Non è chiaro che ruolo costoro giocarono nella presa di Sivas; Muṭahhartan, dal canto suo, sfruttò l’occasione politica: considerato oramai un fedelissimo di Timur, aveva un suo contingente e aveva favorito l’abboccamento con i beg.11 A lui si aggregò Qara ‘Uthmān (Qara Yüllük) con i suoi Aq Qoyunlu, che da tempo avevano scelto di allearsi con Timur.12 Giunto ad Avnik, dopo aver ricevuto una risposta sprezzante da parte di Bāyazīd, Timur fu anche raggiunto dall’emiro Allāhdād che portava in catene il giovane principe Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, il quale venne processato senza troppi complimenti, ricevendo anche lui la sua dose di bastonate per poi essere rilasciato, privato dei possedimenti che gli erano stati affidati. Pene ben piú severe furono inflitte ad alcuni elementi del suo entourage che furono passati a fil di spada.13 Le accuse contro di lui sembrano pretestuose, celando forse piuttosto i dissapori interni alla famiglia timuride con la consueta procedura di attribuire le colpe dei membri della famiglia ad altri. Ciò non toglie che la punizione inflitta a Pīr Muḥammad fu particolarmente severa; un altro episodio lo vedrà colpito dalla severità del nonno, in un’altra circostanza. Dopo la morte di Timur finirà assassinato in modo inglorioso nell’812/1409.14 Raggiunta Erzincan dove fu accolto da Muṭahhartan, il 1° di muḥarram 803/22 agosto 1400, Timur mosse con l’esercito verso Sivas (l’antica Sebaste). La città era circondata da imponenti mura di pietra che risalivano al sovrano selgiuchide ‘Alā’ al-Dīn Kayqubād (r. 1219-1237), come ricorda l’erudito Ḥāfiẓ-i Abrū, poi ripreso pedissequamente dagli altri, un fatto quest’ultimo confermato dalle fonti selgiuchidi alle quali faceva riferi255

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mento.15 Innanzi alle mura si trovava un profondo fossato pieno d’acqua che si rivelò un ostacolo difficile da superare con le gallerie sotterranee di cui faceva uso Timur per minare le fortificazioni. Inoltre, stando a Shāmī, all’interno della città Bāyazīd aveva lasciato un castellano, di nome Muṣṭa­ fā, con quattromila soldati.16 Sharaf al-Dīn parla anche di un figlio di Bāyazīd, che chiama Kirishjī, il quale, insieme a un importante emiro turco, Timurtash, si era spinto in direzione della città con un esercito per poi ritirarsi quando Timur avanzava. Il termine kirişjī deriverebbe dal greco bizantino kyritzes o krytzes (‘giovane uomo’) corrispondente al turco çelebī, che era l’espressione con la quale veniva definito Meḥemmed, il futuro sultano Meḥemmed I.17 Il dato è confermato da Clavijo, che descrive l’arrivo di Muzulman Chalabi (Meḥemmed Çelebī o forse, come vedremo, suo fratello Süleymān Çelebi), che avrebbe tentato di raggiungere la città in tempo per impedire a Timur di controllarla e poi fuggirsene quando questo era prossimo alla sua cattura.18 Ibn ‘Arabshāh, a sua volta, fa riferimento a Süleymān Çelebī che invece avrebbe cercato di rendere il presidio di Sivas piú solido, ma fuggí innanzi all’avanzata dei Timuridi.19 La città fu infatti circondata e cominciò a essere bersagliata dalle pietre scagliate dai trabucchi (manjāniq) e dalle baliste (‘arrāda) che produssero un autentico bombardamento. Ci vollero una ventina di giorni20 per arrivare a scavare sotto alcune torri fino a farle crollare, dando fuoco a delle impalcature in legno che reggevano la galleria. Infine, Muṣṭafā e i suoi dovettero arrendersi, avendo contro un esercito probabilmente di centomila uomini, pronto a entrare con la forza nella città. C’erano anche degli elefanti in assetto di guerra, nell’esercito di Timur, che suscitarono ulteriore scalpore: il castellano si presentò a Timur con tutti i maggiorenti della città, pronto a pagare il prezzo del riscatto.21 Shāmī ricorda che i musulmani vennero salvati, ma essendo la maggior parte dei cavalieri di Bāyazīd armeni, quattromila di loro furono gettati in dei pozzi e lí sepolti vivi. La notizia è ripresa dalle fonti persiane senza particolari aggiunte.22 Stando a Schiltberger, i morti furono tremila e novemila giovani donne vennero fatte prigioniere e deportate a Samarcanda.23 Clavijo si dilunga sulla presenza dei cristiani armeni e greci a Sivas e racconta che una volta entrato nella città, Timur si sarebbe prima garantito il tributo, accogliendo i maggiorenti che si sentivano al sicuro per il fatto di aver pagato. Ma Timur fece scavare due grandi fossati e siccome aveva promesso di non versare il loro sangue li fece seppellire vivi senza 256

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però passarli a fil di spada, il che secondo lui esaudiva le loro richieste. Poi Timur avrebbe dato il via al saccheggio della città.24 3. Incursione nel regno dei Dhulqadiridi e presa di Malatya Abbiamo già accennato alla potenza regionale turcomanna dei Dhulqadiridi che stanziavano nella regione tra Elbistan e Malatya, facendo un riferimento al signore Suli che si era offerto di guidare Timur in territorio anatolico.25 Al momento della presa di Sivas da parte di Timur, tuttavia, Suli era stato ucciso dai Mamelucchi (800/1397-’98), e il breve regno di Ṣadaqa (801/1399) si era concluso con un intervento di Bāyazīd che lo rimpiazzò con un cugino rappresentante di un ramo rivale della famiglia dhulqadiride, Nāṣir al-Dīn Muḥammad, nello stesso 801/1399. Salito sul trono a Elbistan (deformazione dell’antico nome armeno Ablasta, città della Piccola Armenia storica, oggi parte della Turchia), costui mutò atteggiamento dovendo sostenere il suo protettore e dunque divenne un nemico naturale per Timur.26 Volendo il Grande Emiro spingersi verso meridione, entrava cosí nel cuore di un conflitto regionale tra Mamelucchi e Ottomani, sfruttandolo ad arte. La necessità di occupare la Siria imponeva di eliminare chiunque potesse ostacolare la successiva campagna che stava progettando contro Bāyazīd. Se i Dhulqadiridi avevano svolto la funzione di stato cuscinetto fino a quel momento tra Ottomani e Mamelucchi, con l’espansionismo di Bāyazīd gli equilibri erano saltati e ora Timur si trovava di fronte a un’occasione propizia di cui il piccolo stato turcomanno avrebbe fatto le spese. I Dhulqadiridi sopravvissero in seguito fino al 1515.27 Il pretesto della presa di Elbistan sarebbe stata una razzia di cavalli rubati all’esercito timuride, da questi « dissennati » Turcomanni,28 ma risulta piú che evidente che un simile gesto avrebbe avuto conseguenze devastanti per questa potenza regionale, il che rende la motivazione quasi ridicola. Non a caso, all’arrivo di un’avanguardia guidata da Shāhrukh e dal principe Sulaymānshāh, i Dhulqadiridi fuggirono ma furono raggiunti e massacrati.29 Fu dunque la volta di Malatya (l’antica Melitene), città strategica già conquistata da Bāyazīd ai Mamelucchi. Il sultano ottomano l’aveva assegnata al figlio di Muṣṭafā, governatore di Sivas, il quale, invitato ad arrendersi da un dispaccio inviatogli da Timur, ebbe l’infelice idea di imprigionare l’emissario che portava l’ambasceria. All’arrivo di Timur fuggí rapi257

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damente, lasciando la città incustodita e facile preda per Timur che la prese in un giorno.30 Georgiani e Armeni, presenti in gran numero, vennero fatti prigionieri, mentre i musulmani poterono salvarsi pagando il riscatto. Timur dispose anche che alcuni contingenti saccheggiassero la regione e usassero la massima severità contro chi opponeva resistenza, fu conquistato anche il castello di Kakhta (odierna Kahta, alle pendici del Nemrut Dağ) che costituiva uno snodo strategico importante nella regione.31 Malatya fu in seguito assegnata a Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu, un fatto significativo del ruolo assunto da questo personaggio all’ombra di Timur. Ora diventava, pari a Muṭahhartan, una vera e propria potenza regionale. Come vedremo, giocherà un ruolo di rilievo anche nelle imprese successive di Timur contro i Mamelucchi.32 Il disprezzo mostrato dalle cronache timuridi per i Turcomanni, qualificati come stolti e soprattutto briganti, è significativo dell’atteggiamento assunto nei confronti dei propri avversari. In taluni casi la guerra contro di loro assume i toni di un vero e proprio jihād e non è un caso che vengano associati ad altri ‘ghebri’, come i Georgiani presenti nell’area. Parlando di questi ultimi, le cronache li associano ai Mamelucchi burjī (‘quelli delle torri’), che Timur considerava in termini dispregiativi per le loro origini servili: il cuore di quei reggimenti era costituito da elementi che in origine erano insediati al Cairo in alcune torri – dalle quali derivava appunto il nome di ‘turriti’ –, era composto da Abkhazi/Circassi cosí potenti che si è finito col definire questo periodo come « epoca burjita », o appunto periodo circasso. Esprimendo il suo disprezzo contro i Circassi,33 Timur diede il via all’attacco ai domini del giovane sultano Faraj, figlio di Barqūq, all’epoca appena undicenne e perciò definito da Beltramo Mignanelli « sultano-fanciullo ».34 Shāmī, che può essere considerato uno dei testimoni principali degli eventi, entrò in seguito a questa campagna a far parte dell’entourage di Timur e ne riportò un vivido racconto: descrisse nella sua cronaca la lettera inviata a Faraj dal Grande Emiro. In essa si faceva allusione a una missiva inviata in precedenza al padre Barqūq nel 795/1393, scritta da Baghdad e recapitata da un autorevole shaykh della città di Sava che fu ucciso da Barqūq. Timur chiedeva la restituzione di Atilmish, suo servitore, vedi schiavo (ghulām), arrestato in un precedente conflitto e detenuto in Egitto, evocando la vendetta di Chinggis Khān per le uccisioni degli ambasciatori da parte degli shāh di Corasmia eseguita piú di un secolo prima.35 Con uno dei suoi tipici ritocchi alla descrizione di Shāmī, Sharaf al-Dīn inserí 258

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una lunga invettiva di Timur, destinata a Faraj, dove, lamentandosi dei comportamenti del padre, lo invitava pertanto alla prudenza perché le conseguenze sarebbero state un bagno di sangue. Proseguí però narrando il fatto che ad Aleppo anche questi ambasciatori furono imprigionati e aggiunse dei versi nei quali qualificava Barqūq come uno schiavo circasso (ghulām-i charkas) privo di lignaggio (bītabār), acquistato piú volte perché di vile schiatta, proprio come Faraj.36 Probabilmente Timur inviò diverse lettere che sono documentate in varie fonti egiziane.37 Anne Broadbridge – che ha studiato a fondo le cronache mamelucche – ha ricollegato queste ambascerie alle condanne del khān ilkhanide Ghazan espresse nei confronti dei Mamelucchi al momento dell’incursione su Mardin nel 698/1299 e alle sue lettere alla popolazione. La stessa studiosa ricorda il tentativo forse di accattivarsi la simpatia dei Siriani da parte di Timur, sottolineando che alcuni notabili timuridi erano restii ad assecondare quella conquista.38 La figura di Ghazan è interessante perché a lui potrebbero essere state attribuite delle lettere che in realtà facevano riferimento alle gesta siriane di Timur, in un falso storico molto significativo che ricollegherebbe i due episodi in modo vistoso.39 Ancora una volta il passato veniva utilizzato come strumento ideologico per le imprese del presente. 4. Bahasna e ‘Antab. Un’assemblea mamelucca ad Aleppo Un esercito guidato da Shāhrukh attaccò la fortezza di Bahasna (oggi Besni, nel sud-est della Turchia). Shāmī ricorda che gli assediati si opposero con energia all’assedio con un trabucco girevole (manjanīq-i gardān) che era stato piazzato nel cuore della fortezza ed era capace di colpire all’esterno verso tutte le direzioni. Dopo aver scavato una galleria sotto le mura, i Timuridi la riempirono di materiale infiammabile; nel frattempo veniva costruito dagli assedianti un altro trabucco che riuscí a colpire con una grossa pietra quello all’interno della fortificazione distruggendolo, mentre le mura crollavano. Oramai privi di protezione gli assediati si arresero inviando in tutta fretta dei giudici e degli imam della città con dei doni. Costoro chiesero a Shāhrukh di intercedere presso Timur per gli abitanti della città e quest’ultimo accettò evitando spargimenti di sangue. Subito i muezzin esclamarono il nome di Timur e i suoi titoli dai minareti.40 Sharaf al-Dīn aggiunge colore alla vicenda narrata da Shāmī, scrivendo che Timur avrebbe assistito da una collina vicina all’intero assedio che si 259

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rivelava molto difficile, mentre diversi incursori saccheggiavano l’area. Secondo questo autore sarebbe stato un castellano, tale Muqbil, a costruire un trabucco che scagliò un masso che rotolò innanzi alla tenda di Timur; questa azione avrebbe causato l’attacco e Sharaf al-Dīn non manca di notare, esagerando, che Timur fece costruire venti trabucchi attorno alla città, uno dei quali proprio dove era caduto il proiettile nemico. Quest’ultimo avrebbe colpito il trabucco all’interno della cittadella. Era il 7 ṣafar 803/27 settembre 1400. Raggiunto dall’esercito del principe Rustam, i Timuridi avrebbero alla fine fatto crollare le mura costringendo Muqbil a piú miti consigli. Forse qualcuno che Sharaf al-Dīn definisce di corte vedute (kūtāh-naẓar) aveva consigliato a Timur di lasciar perdere l’assedio,41 ma questa annotazione è probabilmente un ulteriore espediente letterario per aumentare il valore dell’impresa. Proprio a proposito degli espedienti letterari, Ibn ‘Arabshāh, a differenza delle asciutte fonti mamelucche, descrive l’ingresso in Siria dell’esercito timuride come quello di un branco di animali selvaggi, ognuno dei quali corrisponde a un luogo tra quelli conquistati in precedenza: c’erano uomini del Turan e guerrieri d’Iran, insieme a leopardi del Turkestan; tigri del Badakhshan; falchi del Dasht-i Qipchaq e del Khata (la Cina); avvoltoi mongoli; rapaci jete; vipere di Khujand; serpenti di Andakan; rettili di Corasmia; bestie feroci del Jurjan; aquile del Saghaniyan (Chaghāniyān); mastini di Hisar Shadman (luogo della Transoxiana); cavalieri del Fars; leoni del Khorasan e del Mazanderan; linci del Jibal; iene del Gilan; coccodrilli di Rustamdar e Taliqan; membri delle tribú del Khuzistan e del Kerman; gente vestita di seta di Isfahan; volpi di Ray, di Ghazna e di Hamadan; elefanti dell’India, del Sind e di Multan; arieti del Lur; tori del Ghur; scorpioni neri di Shahrazur e scorpioni gialli di ‘Askar Mukarram (Iran) e Jundishapur.42 Aggiunge che gli schiavi, come cuccioli di iene, si avventarono sui resti dei nemici uccisi e dei magi (majūs) persiani avrebbero accompagnato l’esercito. In altre parole, Timur giunto dalle terre di Gog e Magog ( Jūj wa Majūj) era l’ “anticristo” islamico, il Dajjāl.43 L’esercito passò poi alla conquista di ‘Antab (‘Ayntāb, Gaziantep, oggi in Turchia) che Shāmī descrive come piú semplice, ricordando i prodotti del luogo, grano e frutta, per poi aggiungere che la città fu distrutta e la popolazione massacrata.44 Mentre Timur avanzava verso Aleppo, la preoccupazione pervase i Mamelucchi. Timurtash, malik ul-‘umarā, ovvero il ‘comandante degli emiri’ della città siriana, inviò un messaggio allarmato in Egitto al sultano Faraj in cui descriveva la situazione mentre venivano 260

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mobilitate le forze di Damasco, Tripoli, Homs, Hama, Baalbek Safad e Qal‘at al-Rum, che raggiunsero Aleppo.45 Timuritash è descritto da Beltramo Mignanelli (che lo chiama Domordex El Chasichi, Timurtash alKhāṣikī, ‘il Nobile’) come un cristiano, secondo lui delle parti di Salonicco, poi convertito all’Islam, che aveva 30.000 uomini.46 Ibn ‘Arabshāh lo dà come alleato segreto di Timur.47 Tra gli emiri che si ritrovarono ad Aleppo c’era il malik ul-‘umarā di Damasco, Sūdūn, col quale si tenne un’infuocata assemblea di nobili mamelucchi. Shāmī si attarda sulla psicologia di Timurtash, titubante e prudente, che in un pubblico discorso avrebbe invitato alla cautela e a non prendere decisioni avventate nell’affrontare Timur, che considerava come un nuovo Chinggis Khān.48 Sharaf al-Dīn aggiunge che avrebbe esortato i suoi a mettere il nome di Timur nella khuṭba e sulle monete.49 Altre persone, però, « che avevano meno esperienza », guidate da Sūdūn reagirono con sdegno a questa resa, esaltando le virtú dell’esercito mamelucco dotato di solide fortificazioni e di armi migliori. La descrizione della differenza tra i Timuridi e i Mamelucchi è istruttiva dello spirito sprezzante verso i nomadi centroasiatici da parte dei comandanti siriani: « I loro castelli sono di fango e terra, i nostri castelli e le nostre città di solida pietra e persino d’acciaio ». Secondo Sūdūn l’assedio delle città mamelucche sarebbe durato mesi, se non anni, e il comandante si dilungò sugli archi di Damasco, le spade egiziane, le lance arabe, nonché gli scudi di Aleppo. Inoltre, Sūdūn affermò che la forza del regno mamelucco stava nei suoi sessantamila villaggi e se solo una persona fosse arrivata da ognuno di essi avrebbero prevalso su Timur, il quale, secondo Sūdūn, viveva nel deserto in tende di corda e di pellame mentre i Mamelucchi stavano nelle loro solide case.50 La discussione si accese tra chi voleva la guerra e chi la resa: se un gruppo di “gente equilibrata” invitava l’assemblea alla prudenza, altri volevano lo scontro. Alcuni Persiani ( jamā‘atī az ‘ajam) « famosi per il loro stile di vita », che invitavano alla calma e alla riflessione, furono accusati di essere delle spie timuridi e fu impedito loro di uscire dalla città.51 5. La battaglia di Aleppo I Siriani si dedicarono alle difese della città, predisponendo tutti gli accorgimenti per proteggere le torri e le mura. Intanto, l’esercito Timuride avanzava in territorio siriano, accelerando il proprio cammino e compiendo tappe di due giorni in uno solo. Giunto innanzi ad Aleppo, Timur 261

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fece predisporre delle trincee a difesa delle sue truppe e la sua fanteria si dispose dietro ai propri scudi per fornire un’immagine impressionante al nemico. Il giovane principe Sulṭān Ḥusayn, figlio di Aka Bigi, a sua volta figlia di Timur, compí varie azioni con i suoi nawkar contro le avanguardie nemiche, catturando tre individui che furono portati legati innanzi al Grande Emiro. Altri principi, come Abū Bakr, figlio di Mīrānshāh, si dedicarono a combattimenti con pochi effettivi contro contingenti mamelucchi particolarmente numerosi.52 Fu cosí dispiegato l’esercito timuride. Un peso specifico avevano coloro che si erano distinti in India, ma l’esercito di Timur includeva, come aveva affermato in modo pittoresco Ibn ‘Arabshāh, diversi elementi reclutati in precedenti campagne, lo stesso dichiarò che sarebbero stati ottocentomila, cosa inverosimile, forse si può parlare di 200.000 uomini.53 C’erano diversi elefanti corazzati, con i loro piloti armati. Sull’ala sinistra stava Abū Bakr b. Mīrānshāh, sulla destra Jahānshāh b. Chaku Barlas. Forse col compito di impegnarsi a riguadagnare il rispetto del padre, Mīrānshāh stava nell’ala destra, mentre nell’ala sinistra si trovava il khān Maḥmūd b. Soyurghatmish.54 Da altre fonti apprendiamo che Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu partecipò anche lui alla battaglia.55 I Mamelucchi fuggirono dopo un tentativo si sortita,56 o forse furono attaccati all’improvviso con la tattica mongola della fuga simulata,57 tanto che la porta della città si riempí di cadaveri di cavalieri mamelucchi, permettendo ai Timuridi di entrare nella città camminando sopra di loro; i soldati che tentarono la fuga furono presi e uccisi, molti cavalieri furono disarcionati perdendo anche loro la vita.58 Entrati ad Aleppo, i soldati timuridi si dedicarono a catturare prigionieri mentre Sūdūn e Timurtash si asserragliavano nella cittadella. Da lí cominciarono a « sparare » (ra‘dandāzī āghāz kardand) sui Timuridi, anche se con questo modo di esprimersi Shāmī vuole forse intendere che lanciarono dei proiettili incendiari sui nemici.59 Di fronte a questa scena, Timur campeggiava su un tappeto disposto innanzi alla trincea, protetto dalla sua fanteria. Presto vennero scavate le gallerie sotto le mura. Shāmī, testimone della scena, racconta che stava tornando dal pellegrinaggio alla Mecca e fu preso prigioniero ad Aleppo. Si trovava per l’esattezza su un tetto prossimo alla porta di Aleppo, dove stavano lavorando i genieri. D’un tratto vide aprire le porte della città e dalla cittadella furono calati cinque coraggiosi guerrieri legati tra loro che tentarono in questo modo una sortita. Colpiti da una pioggia di frecce furono subito issati indietro nella fortezza, anche 262

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se Shāmī non è in grado di dire se fossero vivi o morti nel momento in cui raggiunsero la sommità delle mura. Timur si rivolse con un messaggio agli “imprudenti” assediati, invitandoli ad arrendersi. Dopo poco Sūdūn e Timurtash aprirono le porte e si presentarono a lui coi qāżī e gli imam della città, per consegnargli le chiavi di Aleppo e quelle del tesoro. Immediatamente, i due comandanti mamelucchi furono arrestati e imprigionati in catene. Il tesoro venne subito sequestrato e Timur si dedicò alla sua spartizione tra i principali protagonisti della battaglia, tra questi c’erano vari alleati, come il comandante ‘Izz al-Dīn Malik Hazārgarī, governatore del regno del Qumis, e lo Shāhshahān del Sistan, Abū-’l-Fatḥ, discendente del sovrano Quṭb al-Dīn.60 Timur spedí a Hama un gruppo di razziatori guidati da tre emiri, e poi si diresse anche lui verso quella città, conquistando vari castelli e inviando a Faraj una richiesta ulteriore di avere indietro Atilmish, che ove non eseguita avrebbe causato l’eccidio di tutti i prigionieri nella cittadella.61 Hama si arrese subito e qui l’esercito si fermò per venti giorni. Ḥāfiẓ-i Abrū notò che un’enorme pietra, presumibilmente romana, fu portata via con delle corde dall’emiro Jalāl al-Islām dai dintorni della città.62 A Hama Timur fece erigere un dīvānkhāna, in realtà una tendopoli-città con tutte le residenze per la sua nobiltà. Dopo la presa di Hama, si arrese anche Homs, aprendo subito le porte agli invasori, fu catturata anche Baalbek, città considerata secondo una consolidata convenzione quale fondata da Salomone, cosa che le fonti timuridi ripetono come una ragione particolare di soddisfazione: le costruzioni romane vennero ammirate per la loro solidità, ora riutilizzate come fortificazioni, e sono descritte come create dai jinn (‘demoni’), ma la ragione principale di questa facile conquista fu quella di appropriarsi di grano e orzo che insieme alla frutta permisero di sfamare quel gran numero di soldati. Timur, nel frattempo, si dedicò alla visita di una tomba attribuita a Noè.63 6. Timur incontra Ibn Khaldūn di fronte a Damasco La popolazione fuggita da Aleppo si ammassò alle porte di Damasco. Faraj fu piú volte invitato a intervenire, finalmente mise insieme un esercito eterogeneo col quale raggiunse la città e si dedicò a sovrintendere al consolidamento delle mura, mentre Timur si avvicinava da Baalbek. Il grande storico tunisino Ibn Khaldūn fu obbligato dal sultano a seguirlo, e 263

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malgrado una certa riluttanza accettò giocoforza di accompagnare la spedizione mamelucca, che dopo aver passato Ghaza e Shahqab arrivò a Damasco nell’inverno dell’803/ultimi mesi del 1400. Nella sua narrazione di quei giorni concitati presente nel Kitāb al-‘Ibar, Ibn Khaldūn racconta che l’esercito si accampò nel sito della Qubbat Yalbugha, un mausoleo a sud di Damasco, mentre Timur si stabilí su un poggio dove rimase per un mese a osservare il nemico.64 Appena arrivato inviò delle spedizioni per razziare Sidone e Beirut.65 Mentre si trovava a Damasco, Faraj spedí tre emissari di fiducia che raggiunsero l’accampamento di Timur con dei pugnali nascosti negli stivali, forse per compiere un attentato contro di lui. Una volta arrivati al cospetto di Timur « vennero scoperti », come ci racconta Sharaf al-Dīn, che descrive anche l’ira di Timur, solitamente molto attento agli ambasciatori, il quale in questo caso fece uccidere il capo della missione esponendone il corpo innanzi al nemico, mentre agli altri due fece tagliare il naso e le orecchie, rispedendoli indietro.66 Ibn Khaldūn nota che i due eserciti si affrontarono tre o quattro volte in scontri che non ebbero esiti particolari, a un tratto il sultano Faraj ricevette la notizia che al Cairo alcuni emiri avevano messo in atto una congiura contro di lui e perciò si mise in tutta fretta sulla via del ritorno per evitare di essere deposto da una rivolta popolare.67 Quanto questa versione sia vera o quanto piuttosto la fuga non dipendesse dal timore di perdere sul campo di battaglia, oppure da altri fattori, non è dato sapere. Quel che è certo, sempre stando al racconto di Ibn Khaldūn, è che la popolazione di Damasco rimase sgomenta di fronte a quella fuga repentina. Beltramo Mignanelli descrive anche lui l’episodio della fuga, riportando un discorso di Timur che pur esaltando la « vittoria » sul sultano, invitava a proseguire con estrema prudenza, senza prendere alcuna decisione divergente dagli ordini impartiti.68 I giudici della città avevano convocato Ibn Khaldūn pregandolo di intercedere per loro e le loro famiglie presso Timur. Alla fine, dopo le molte perplessità dei militari a presidio della città, Ibn Khaldūn fu calato dall’alto delle mura perché venne chiamato in persona da Timur che desiderava incontrare quest’uomo di fama, il quale fu preceduto da una missiva che chiedeva clemenza per gli abitanti. Ibn Khaldūn venne cosí preso in consegna da alcuni funzionari timuridi e condotto innanzi a Timur da Shāh Malik, un membro della famiglia Barlas69 al quale Timur aveva attribuito il governo di Damasco. Quando Ibn Khaldūn arrivò da Timur, lo trovò che stava mangiando sdraiato su un letto. Lo storico fu interrogato 264

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in primo luogo sul Maghrib, con domande precise di tipo geografico, e sul suo rapporto col sultano Barqūq. Prima di congedarlo Timur ordinò che gli scrivesse un rapporto dettagliato sulle sue terre. In seguito, Ibn Khaldūn ritornò da Timur con una bozza della sua descrizione e intrattenne con lui una conversazione di altro tenore nella quale espose una sua teoria che è di indubbio interesse a posteriori, vuoi per l’erudizione di Ibn Khaldūn, vuoi per la reazione che suscitò in Timur. Dopo avergli descritto alcune predizioni in cui si preconizzava l’arrivo conquistatore centroasiatico, lo storico impaurito pensò bene di cambiare argomento: Mi rivolsi a lui in questi termini: « Che Dio ti assista sire! Sono trenta o quarant’anni che spero di incontrarti! », e l’interprete rispose: « Per quale ragione? ». Allora dissi: « Per due ragioni, la prima è che voi siete il sovrano dell’Universo e il re del mondo. Io non credo che sia mai apparso dai tempi di Adamo un sovrano come voi. Io non sono uno di quelli che parlano invano, sono uno studioso e vi spiegherò quanto dico: il potere non esiste se non per la coesione sociale (‘aṣabiyya).70 Piú numeroso è il gruppo umano, maggiore è l’ampiezza della sovranità. Gli studiosi, prima e dopo, concordano sul fatto che la maggioranza della razza umana sia composta da Arabi e da Turchi. Voi sapete come era il potere degli Arabi quand’erano uniti dalla religione attorno al loro Profeta. Quanto ai Turchi, sia sufficiente ricordare le loro rivalità col regno di Persia al quale Afrāsyāb ha sottratto il Khorasan, un segno delle loro origini regali e tra loro della coesione (‘aṣabiyya). Nessun re della terra può essere comparato a loro, né Cosroe, né Cesare, né Alessandro e neppure Bukhtnaṣr [Nabucodonosor]. Cosroe era a capo dei Persiani, loro re, ma che differenza tra i Persiani e i Turchi! Cesare e Alessandro erano re di Rūm.71 E ancora che differenza tra la gente di Rūm e i Turchi! Quanto a Nabucodonosor, era a capo dei Nabatei, ma quale differenza tra loro e i Turchi! Questo costituisce una prova di quanto ho affermato su vostra maestà. La seconda ragione per la quale speravo di incontrarvi è relativa a quanto era stato pronosticato nel Maghrib dai divinatori e dagli uomini pii che ho menzionato prima ». Allora lui mi chiese: « Ho visto che hai menzionato Nabucodonosor accomunandolo a Cosroe, Cesare e Alessandro, ma non può essere considerato al loro livello, trattandosi solo di un generale persiano, cosí come me che altri non sono che un luogotenente del Signore del Trono e ora sono qui! ». Fece un gesto in direzione della fila di persone che stava dietro di lui. Voleva indicare l’uomo di cui aveva sposato la madre in seconde nozze, dopo la morte del padre [di quella persona], Sāṭilmish.72 Costui che solitamente stava dietro a lui era assente in quel momento. Poi girò la testa verso di me e mi chiese: « A quale popolo apparteneva Nabucodonosor? ». Risposi: « Ci sono opinioni diverse al riguardo, alcuni dicono che

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tamerlano fosse un nabateo, ovvero gli ultimi re di Babilonia, altri lo ritengono persiano ». Disse: « Questo significa che discendeva da Manūshihr (Manūchihr) ».73 Risposi: « Sí è stato detto cosí ». Mi disse: « Noi discendiamo da Manūshihr per linea materna ». Discussi con l’interprete l’importanza di questa affermazione e dissi a lui: « Questa è un’altra ragione per me di incontrarvi ». Allora il sovrano mi disse: « Qual è la tua opinione al riguardo? ». Risposi: che era uno degli ultimi re di Babilonia, ma lui insisté che era meglio l’altra opinione. Dissi: « Facciamo riferimento alle considerazioni di Ṭabarī,74 è lo storico della tradizione islamica, il solo a sostenere questa ipotesi ». Rispose: « Noi non dipendiamo mica da Ṭabarī », [rivolgendosi all’interprete] aggiunse: « Vai a prendere i libri sulla storia degli Arabi e dei Persiani e cosí discuterò con lui ». Io dissi dal canto mio: « Io difenderò il punto di vista di Ṭabarī ». Ciò mise fine alla discussione e lui rimase in silenzio.75

La discussione ebbe termine perché si erano aperte le porte della città e dei giudici stavano arrivando per negoziare, confidando nella concessione dell’aman (il riscatto per la resa). Poi Timur venne issato sul cavallo perché soffriva vistosamente a un ginocchio e si allontanò verso Damasco. L’episodio dell’incontro offre molti spunti d’interesse. Uno di essi è sicuramente il riferimento al sistema matrilineare di discendenza sul quale Timur faceva grande affidamento. Un altro aspetto di rilievo sta nel confronto tra Timur e Ibn Khaldūn sulla lettura della storia. Il primo sfodera le sue conoscenze sugli antichi re di Persia tratte, come abbiamo già detto, dallo Shāhnāme di Firdawsī, Ibn Khaldūn ribatte su un piano “scientifico”, con un riferimento erudito che la sua controparte non può accettare semplicemente perché contraddice le sue idee. Di certo l’ossessione di Timur per le genealogie sembra qui confermata. Piú in generale l’episodio mostra la necessità di Timur di essere celebrato, cosa che lo spinse, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, a ordinare la stesura di cronache che lo ricordassero. In seguito, Ibn Khaldūn incontrò di nuovo Timur, al quale consegnò la stesura definitiva della sua opera sul Maghrib. L’occasione fu l’arrivo di un uomo che proveniva dalla cittadella ancora sotto assedio che dichiarava di discendere dai califfi Abbasidi, quest’uomo chiedeva che fosse riconosciuta la sua legittimità e Timur convocò i giurisperiti e lo stesso Ibn Khaldūn, i quali furono interrogati sulle sue affermazioni. Lo storico tunisino fece una vera e propria lezione ricordando tra l’altro che quando il califfato fu soppresso da Hülagü, sopravvisse grazie al sultano mamelucco Baybars che lo avrebbe reinstaurato mettendo sul trono un discendente della fa266

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miglia, Aḥmad al-Ḥākim.76 La conclusione dello storico fu che la persona che si rivolgeva a Timur non era un legittimo discendente del califfo, infatti il Grande Emiro lo mandò via invitandolo a non fare alcuna ulteriore rivendicazione.77 Arrivato innanzi a Damasco, come già abbiamo visto dalla narrazione di Ibn Khaldūn, Timur si dedicò allo scontro con i Mamelucchi. Piú tardi, al sicuro sulla via del ritorno per il Cairo, Ibn Khaldūn avrebbe espresso le sue vere opinioni su Timur e dopo aver affermato che era un ciagataico, figlio di Taraghay, artefice di numerosi orrori, aggiunse: I Tatari [ovvero i Timuridi] non si possono contare per quanto sono numerosi, sembrano approssimarsi senza errore al milione e non si può dire il contrario. Quando si accampano riempiono lo spazio intero e quando si spostano occupano tutta l’estensione del suolo. Similmente ai beduini arabi, hanno una forte propensione alle incursioni e al saccheggio, alle violenze contro la popolazione alla quale fanno subire i peggiori supplizi pur di arraffare del bottino. Il re Timur è tra i re piú grandi e potenti. Alcuni gli attribuiscono della scienza (‘ilm), altri lo considerano un rafidita per le sue preferenze sulla discendenza del Profeta, altri ancora lo considerano un mago dedito alla stregoneria. Di fatto non è niente di tutto ciò; è semplicemente un uomo molto intelligente e perspicace, che si presta al dibattito su ciò che conosce cosí come su ciò che non sa. Ha tra i 60 e i 70 anni, ha un ginocchio paralizzato perché, come mi ha detto, quando era ragazzo fu colpito da una freccia. Può cosí camminare per brevi tratti trascinando la gamba. Quando deve percorrere lunghi itinerari degli uomini lo portano a braccia. Gode del favore divino e lo concede a coloro che sceglie tra i suoi servitori.78

Stando a Shāmī, che ricorda le stesse vicende descritte da Ibn Khaldūn, ma sul versante opposto, una volta arrivato a Damasco, dall’alto della collina dalla quale dominava il territorio, il Grande Emiro ordinò che si dispiegasse l’intero accampamento dotandolo di difese. Shāmī descrive in poche righe gli scontri col nemico, enfatizzando l’uccisione di molti avversari, in particolare dei fanti, che si svolsero il 19 jumādī i 803/5 gennaio 1401.79 Mignanelli parla di una dura battaglia, dopo numerose scaramucce, che si tenne dopo l’epifania del 1401 con un numero impressionante di morti.80 L’esercito mamelucco si ritirò nei dintorni meridionali della città e anche quello timuride si spostò in alcuni orti della periferia di Damasco. Timur fece anche esibire i propri elefanti schierati per terrorizzare il nemico.81 Dopo aver fatto svuotare il fossato che circondava la città, si dispie267

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garono davanti ai Mamelucchi. Mentre ciò avveniva, gli alti dignitari mamelucchi intrapresero una discussione ancora una volta tra quanti temevano le conseguenze di una vittoria di Timur e quanti invece consideravano le fortificazioni solide e adeguate al conflitto. Faraj, che si trovava ancora a Damasco, intanto aveva inviato un messaggio a Timur chiedendo ulteriormente la pace e minimizzando gli scontri precedenti. Quella stessa notte Faraj fuggí. 7. Un curioso tradimento. Timur scrupoloso esattore Durante gli scontri che si verificavano mentre Timur si approssimava a Damasco, un membro della sua famiglia, Sulṭān Ḥusayn, si dileguò verso la città. Era apparentemente un tradimento. Se stiamo alle fonti timuridi il nipote, che pure si era distinto ad Aleppo in battaglia, forse perché ubriaco oppure perché irretito dai soliti « Persiani » (tajik)82 prese la fuga per dirigersi a Damasco, un fatto che viene descritto come « curioso » (gharīb).83 Non è chiaro cosa avvenne, né se Sulṭān Ḥusayn avesse un seguito, fatto sta che gli autori mamelucchi lo descrivono del tutto sobrio al Cairo, dove si sarebbe presentato con una corona gemmata, ricevuto in gran pompa da Faraj che gli attribuí delle vesti d’onore e altri doni sontuosi.84 Anzi in quella circostanza gli erano stati tagliati i capelli per adeguarlo alle norme mamelucche e il principe si sarebbe anche dilungato in descrizioni dell’esercito timuride.85 Per alcuni giorni restò alla corte di Faraj che lo aveva accolto personalmente per esibirlo poi nella città. In seguito, fu avvistato durante uno scontro coll’esercito mamelucco a causa del fatto che era particolarmente alto e usava la sua bandiera personale, tanto che un muhrdār (‘portasigilli’) di Shāhrukh, Tublaq Qawchin, riuscí a raggiungere il suo cavallo e a prenderne le briglie conducendo il ribelle da Timur che provvide a incatenarlo insieme ai suoi e a infliggergli forse alcune bastonate.86 Grazie all’intercessione di Shāhrukh, il principe venne rapidamente perdonato e nulla vien detto di ciò che avvenne ai suoi « cattivi consiglieri ». Solo Sharaf al-Dīn afferma che fu allontanato dal Majlis-i humāyūn (‘il consiglio imperiale’), cosa che le altre cronache non confermano.87 Anne Broadbridge ha formulato un’interessante ipotesi riguardo a questo strano episodio in cui la clemenza di Timur risulta eccessiva e forse anche il carattere un po’ nebuloso degli eventi sembra celare qualcosa: in effetti le ambizioni di Sulṭān Ḥusayn potevano essere legate alle questioni 268

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di successione che erano insorte a piú riprese nella famiglia di Timur, soprattutto dopo la sua scelta di nominare il nipote Muḥammad Sulṭān quale candidato alla sua successione dopo la ribellione di Mīrānshāh. A differenza di quella rivolta, però, Timur non sembra dedicarsi a indagini per quello che era un alto tradimento e non manca il sospetto che il presunto tradimento non potesse essere piuttosto un’operazione di spionaggio, cosa che ancora una volta confermerebbe l’abilità di Timur in questo tipo di azioni di infiltrazione tra i nemici.88 La lettera che Timur inviò a Faraj, subito dopo la fuga di Sulṭān Ḥusayn, per riavere indietro Atilmish, non fa menzione del principe, il che confermerebbe l’ipotesi di un atto spregiudicato di spionaggio.89 Dopo che Faraj fuggí da Damasco, Timur non ebbe particolari difficoltà a circondare la città e lo stesso giorno ne occupò una buona metà, facendo ricco bottino di bestiame e di armi, oltre a capi di seta, merce e cibo. Timur si dedicò anche ad alcune visite di luoghi sacri, come i santuari di Umm Salama e Umm Ḥabība, entrambe spose di Maometto, nonché del celebre Bilāl al-Ḥabashī (‘l’abissino’) compagno del Profeta. Infine, Timur si sistemò nella residenza del sultano, il Qaṣr al-Ablaq.90 Jean Aubin ha ipotizzato che Timur usò una particolare clemenza nei confronti della popolazione per scelta politica, rimandando a un piú articolato studio le sue osservazioni sulla strategia impiegata in Siria.91 Quanto però questa clemenza fosse strumentale lo si potrà dedurre da cosa accadde con la popolazione di Damasco. Beltramo Mignanelli, che notò la sorpresa dei Damasceni nel constatare la mitezza dei Timuridi, aggiunse che si accorsero della fuga del loro sovrano e cominciarono a temere il peggio. Dopo alcune ore di disorientamento, decisero pertanto di rivolgersi a Timur inviando quattro qāḍī della città e dopo che il Grande Emiro aveva chiesto chi fossero costoro, fingendo di non conoscerli, gli emissari si misero in ginocchio davanti a lui il quale infine pronunciò il seguente discorso, che viene riportato da Mignanelli: Voglio informarvi che sono venuto da queste parti dalla mia lontana regione con grande dispendio per liberare voi, uomini buoni e devoti maomettani (ma lui credeva meno di me a Mahomet!) da un morbo letale che ha infestato questa santa patria, nonché dal maledetto giogo cristiano e, peggio, dal sultano e dai suoi che sono cristiani, per liberarvi – se Dio vuole! – dal sultano e dai suoi uomini e dai suoi falsi cristiani che non si basano su alcuna legge. E con profonda deferenza per il nostro santissimo Mahomet, al quale son da sempre devoto, questa città di Damasco è in mio potere – e voi potete vedere che la posso distruggere con

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tamerlano tutti i vostri possedimenti – io la dono e la concedo a voi [a condizione] che coloro che sono fuggiti quando hanno saputo del nostro arrivo, siano esclusi dalla nostra benignità e dalla grazia. Perciò tutte le proprietà del sultano, dei suoi seguaci e di coloro che sono fuggiti entreranno a far parte del nostro tesoro.92

Mignanelli descrive anche la vana gioia dei quattro qāḍī, che lo ringraziarono esaltandolo come un buon musulmano. A capo della delegazione c’era un giudice, Ibn Mufliḥ, appartenente alla rigorosa scuola giuridica hanbalita e stando alle fonti mamelucche Timur pretese un trattato di pace e lodò alla fine la città. Pretese inoltre che gli abitanti gli corrispondessero i già noti toquz, doni formati da nove elementi, corrispondenti a cibo, bevande, cavalcature, animali da soma, come un segnale benaugurante. Ibn Mufliḥ riuscí a tornare indenne e radunò giudici, giurisperiti e mercanti per rispondere in maniera adeguata alle richieste di Timur. Tutti aderirono, fatta eccezione per il comandante della cittadella che però fu escluso dalla trattativa. La delegazione alla fine si recò da Timur con quanto richiesto. Timur confermò nelle loro posizioni alcuni dei giudici, il visir, gli esattori delle tasse, promettendo con un firmano la sicurezza della città. Ma chiese ulteriormente un riscatto per gli abitanti di un milione di dīnār d’oro.93 Vennero inviati nella città vari emiri per riscuotere il riscatto, c’era lo shaykh Nūr al-Dīn, Shāh Malik, Allāhdād, insieme a diversi bitikchi (‘segretari’) come il khwāja Mas‘ūd e Jalāl al-Islām.94 Venne messo su un “ufficio” per l’esazione al Bāb al-Farādis e le altre porte della città furono rese inaccessibili con cumuli di pietre e calce. Presto l’intera somma fu raccolta e consegnata da Ibn Mufliḥ a Timur, il quale, tuttavia, non si reputò soddisfatto. E anzi impose un piú pesante riscatto di altri mille tumān, ovvero diecimila dīnār d’oro. In un suo brillante articolo Stefan Heidemann spiega le ragioni di questa insoddisfazione, ripercorrendo il disperato tentativo degli abitanti terrorizzati di corrisponderlo: seguendo il racconto di Ṣayrafī, ogni individuo, maschio o femmina, e persino gli schiavi dovevano dare dieci dirham d’argento, altri centomila dirham furono prelevati dalle fondazioni pie e dalla Grande Moschea omayyade, nonché da numerosi altri edifici religiosi. Il popolo fu gravemente provato da questa esazione: alcuni furono torturati per estorcere loro il denaro e le provviste cominciarono a scarseggiare con un vertiginoso aumento dei prezzi.95 Per meglio comprendere l’ira di Timur e le sue motivazioni, non cosí chiare nelle fonti mamelucche, Heidemann riprende le accurate osserva270

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zioni di Mignanelli a proposito della moneta damascena, che doveva conoscere molto bene, essendo lui vissuto nella città in precedenza. L’autore toscano indica il prezzo del riscatto in un milione e seicentomila dirham (dragmas argenti) d’argento, che vennero effettivamente consegnate a Timur, il quale volle di persona vedere e soppesare le monete, constatando che quei dirham erano d’argento per poco piú della metà e per il resto erano di rame. Perciò disse: « Cos’è questo? ». I cadí risposero: « È il denaro che vi è stato promesso ». Thomor [Timur] disse: « Quanto avete promesso? ». Risposero: « Un milione e seicentomila dracme ». Thomor disse: « È la verità », e i cadí risposero: « Dunque prendeteli con piacere, questi sono ». Thomor disse loro: « Ho sempre saputo che voi Damasceni non siete uomini ma esseri infernali, nemici di Dio, delle leggi e dell’umanità, pieni di malvagità e che non rispettate le promesse » e diceva il vero, poiché la gente di Damasco era totalmente malvagia. « Volete ingannarmi, rifilandomi la vostra falsa e inutile moneta che nessuno accetta? ». Fece perciò portare delle dracme della sua patria che erano di puro argento e molto piú pesanti di quelle di Damasco. Tanto che una delle monete di Thomor ne valeva dodici di quelle di Damasco.96

Heidemann nota che Timur faceva riferimento alla tanka, che pesava tra i 6,15 e i 6,20 g. contro i 2,7 e i 2,8 g. delle dracme siriane che avevano un contenuto d’argento tra il 48% e il 57% ed erano probabilmente calate di peso anche negli ultimi anni del Trecento. Comparando le considerazioni di Beltramo Mignanelli a quelle di Sharaf al-Dīn, che parla esplicitamente di una svalutazione della moneta siriana e ricorda che le monete raccolte vennero ribattute in una zecca da campo, sottolineando che erano state in precedenza contraffatte per riuscire ad arrivare all’ammontare richiesto.97 Il peso delle nuove monete corrispondeva alla tanka timuride, riprodotta in 600.000 nuove monete. Rimandiamo allo studio di Heidemann per quanto riguarda le testimonianze numismatiche che confermerebbero quanto affermato dallo storico persiano (alcune monete di Timur ritrovate in Siria pesano effettivamente tra i 6,10 e i 6,25 g. e hanno l’82% d’argento).98 Questa era l’economia di saccheggio, non un semplice atto di rapina, quanto piuttosto un’attività organizzata sistematicamente. Se l’idea della razzia può presupporre la predazione, essa serviva anche a dare una consistenza al tesoro e, come in altre circostanze, a Damasco serví certamente a retribuire anche chi aveva partecipato all’impresa militare. 271

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8. Le devastazioni damascene Il comandante della cittadella di Dasmasco, il kutval (‘castellano’) Yazzadār, che era di nomina reale ed era stato scelto indipendentemente dal governatore della città, si arroccò coi suoi all’interno della fortezza.99 Come già s’è visto, si era mostrato profondamente contrario alla resa e probabilmente la pesante umiliazione imposta alla città da Timur consolidò la sua volontà di resistergli, cosa che fece usando armi di tipi diversi incluse quelle da fuoco (ra‘d), i trabucchi (manjanīq) e persino delle sorte di granate (qārūra) o fiasche elopile,100 riempite di nafta da scagliare sul nemico. Timur, dal canto suo, non perse tempo e diede le consuete indicazioni ai suoi, e dopo aver scelto al comando alcune delle eminenze principali della sua corte e averne escluse volutamente altre,101 fece scavare le solite gallerie sotto le mura e fece istallare dei trabucchi attorno per ricambiare i lanci di oggetti, pietre e proiettili di vario tipo che arrivavano dall’interno. La cittadella fu gravemente danneggiata e molti assediati morirono. Le varie descrizioni delle cronache differiscono in maniera abbastanza vistosa l’una dall’altra. Sharaf al-Dīn narra il crollo della grande torre detta Ṭārma, sul lato nord-occidentale della fortificazione, cui seguí il collasso dell’intero muro settentrionale della cittadella. Questi due cedimenti delle mura furono determinati entrambi dal lavoro dell’emiro Alṭūn Bakhshī che faceva parte della cerchia personale di Timur.102 Il crollo, però, provocò molti morti nell’esercito stesso di Timur, sollevando un grande polverone e permettendo agli assediati di riposizionarsi ricostituendo una barriera difensiva. Mentre si aprivano altre brecce nella fortificazione, Yazzadār si sarebbe finalmente deciso alla resa consegnando le chiavi e il tesoro della cittadella a Timur, il quale dopo averlo accusato di averci messo troppo lo fece giustiziare sul posto. All’interno vennero trovati dei veri e propri tesori e Timur proibí che venissero toccati i granai pieni e pronti per rifornire la Mecca e Medina, anzi puní chi già ne aveva razziata una parte e comprò a caro prezzo una discreta quantità di grano per farne dono ai luoghi santi. Il resto dei magazzini invece fu oggetto di un intenso saccheggio e la popolazione catturata fu ridotta interamente in schiavitú. Sharaf al-Dīn non manca di descrivere tutti i gruppi umani che costituivano le guarnigioni mamelucche: circassi, abissini, neri africani, che furono tutti suddivisi metodicamente tra gli assalitori. Vennero separati dalla massa degli schiavi, i letterati, gli artigiani e gli operai che furono spediti a Samarcanda. Due 272

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famosi medici, Mawlānā Jalāl al-Dīn Muḥammad e Mawlānā Sulaymān, seguirono lo stesso destino.103 A questo punto, stando a Shāmī, Timur ebbe una visione (ṣūratī) che esternò subito ai propri emiri. Ancora una volta era la storia antica il soggetto principale, con particolare riferimento agli Omayyadi, prima dinastia califfale che regnò da Damasco un territorio che andava dal Marocco all’India tra il VII e l’VIII secolo. Spesso considerati empi e colpevoli dell’eccidio di Karbala, in cui morí Ḥusayn, figlio di ‘Alī, gli Omayyadi erano mal visti soprattutto nei contesti sciiti: Da sempre si sente parlare di questo regno che fu per un certo periodo governato da Mu‘āwiya e Yazīd i quali mostrarono una palese ostilità contro la casa di Muṣṭafā (Maometto) – siano la lode e la salvezza di Dio per lui! – e in particolare contro suo genero ‘Alī, l’« Eletto », e l’eccellente figlia di quest’ultimo Fāṭima, la « Lucente », sia per lei il Paradiso di Dio! [Gli Omayyadi] scelsero di combattere, arrestare e uccidere i discendenti [di Maometto] mentre il popolo siriano approvava. Per tanto sono sorpreso e mi domando: « Come può una fazione della Umma [la comunità dei musulmani] credersi migliore del Profeta e abbandonare le luci dalla sua retta via per l’aberrazione piú oscura? E come possono elevarsi all’Islam che è giardino paradisiaco, dall’ipocrisia che è prigione infernale? Cosa vedo ora? In questa città con gran dispiego di energia e arroganza, hanno eretto svettanti costruzioni ed elevati bastioni, luoghi prosperi e giardini rallegranti, infine castelli che raggiungono il cielo in altezza. Ma le mogli benedette del Profeta – le benedizioni e la salvezza divina su di loro! – che riposano qui non sono state oggetto di alcuna cura, come si conviene alla muruvvat e alla fede in Dio! Nessuno ha eretto un santuario santo attorno alle loro tombe! Dove sono gli edifici destinati a ospitarle?104

Lo scandalo di Timur, cosí come espresso da Shāmī, rivela una volta di piú le simpatie ‘alidi, già riscontrate in passato. Qui ovviamente l’argomento “anti-omayyade” è strumentale e ricollega Damasco a un passato remoto che, guarda caso, aveva a che fare anche con la Grande Moschea, uno dei capolavori dell’arte omayyade e forse uno dei principali edifici del mondo islamico. Le cronache timuridi si dilungano sull’accidentalità dell’incendio che divampò al suo interno il 2 sha‘bān 803/18 marzo 1401 e sul fatto che Timur si era particolarmente preoccupato di evitare che i soldati la danneggiassero. Dopo quel discorso anti-omayyade, però, viene da pensare che l’incendio non fu affatto casuale. Stando a Schiltberger e Giovanni di Sulta273

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niyya, l’incendio sarebbe stato voluto e portò alla morte di migliaia di persone che si erano rifugiate nel luogo di culto. Entrambi riferiscono che Timur avrebbe chiesto a tutti i religiosi di riparare nella Moschea, cosa che essi fecero con le famiglie e i figli. Una volta dentro, però, Timur fece accatastare della legna alle porte e le fu dato fuoco. Schiltberger aggiunge che fece anche costruire tre grandi minareti di teste mozzate davanti alle mura della città.105 Ibn ‘Arabshāh, da parte sua, ricorda che a dare fuoco sarebbero stati dei rafiḍiti del Khorasan, ovvero, seguendo il suo modo di scrivere, degli sciiti che per l’appunto odiavano gli Omayyadi.106 Curiosamente anche Sharaf al-Dīn menziona dei khorasanici e dei sistanici che furono utilizzati per il primo attacco alla città e non è improbabile che ciò fosse stato ordinato con un proposito malizioso. Quanto alle fonti mamelucche, descrivono il crollo del tetto e numerosi danni all’interno.107 Forse, stando a Sharaf al-Dīn, crollò anche uno dei minareti dell’edificio, tuttavia quest’ultima notizia non trova conferme altrove.108 Con l’incendio di Damasco e il suo forsennato saccheggio, numerose persone fuggirono fuori dalla città, raggiungendo il deserto. Completate le operazioni, Timur, stando a Shāmī, ordinò ai suoi di essere clementi con la popolazione e lui stesso accelerò le manovre della ripartenza. 9. Il ritorno dalla Siria Fu nello stesso mese di sha‘bān 803/marzo 1401 che, dopo aver saccheggiato meticolosamente la città, questa orda di ‘cavallette e demoni (‘ifrīt)’ abbandonò Damasco in direzione del sito di Qara, a nord della città, passando per la prospera oasi della Ghūṭa dove si trovava già una gran parte dell’esercito accampato. Timur ordinò di compiere un raid ulteriore ad ‘Antāb al principe Sulṭān Ḥusayn, evidentemente perfettamente riabilitato dopo il suo plateale tradimento, e al principe Khalīl Sulṭān, figlio anche lui di un ribelle, Mīrānshāh. Altre spedizioni di saccheggio furono inviate contro dei turcomanni che si erano opposti all’esercito timuride. Fu effettuata una grande razzia di bestiame e beni che costoro avevano dovuto frettolosamente abbandonare. Stando a Sharaf al-Dīn si trattava di elementi dhulqadiridi della città di Tadmir (Tadmur, l’antica Palmira) che tentavano di fuggire nel deserto, mentre altri militari raggiunsero Antakya (Antiochia sull’Oronte).109 È anche probabile che alcuni contingenti abbiano raggiunto Gerusalemme per razziarla, come appare da un’annotazione in un sinassario georgiano e da un colophon armeno.110 274

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Il grosso dell’esercito Timuride arrivò a Hama, dando fuoco alla città che aveva tentato di opporsi e riducendone integralmente la popolazione in prigionia, nel contempo gli emiri Sulaymānshāh e Jahānshāh, devastarono la costa “franca” (sāḥil-i ifranj) fino a raggiungere forse anche Acri (oggi Akko, in Israele). Poi le armate di Timur raggiunsero a Bira sull’Eufrate (odierna Birecik, in Turchia), dove è probabile che Timur soffrí di un qualche malessere, anche se viene descritto poi guarito innanzi ai maggiorenti della città che lo ricevettero con tutti gli onori; lo stesso avvenne a Ruha (Urfa/Edessa) che festeggiò con tutti i suoi notabili l’arrivo di Timur.111 Sulle rive dell’Eufrate l’intero esercito si dedicò a una grande caccia.112 Dirigendosi verso oriente, Timur fu accolto da numerosi principi locali che avevano già avuto occasione di incontrarlo in precedenza. La signoria ayyubide di Ḥiṣn Kayfa, che già avevamo avuto modo di conoscere durante l’escursione del 796/1393-94, si sottomise senza opporre resistenza e fu riconosciuta come vassalla secondo lo statuto attribuitogli da tempo, lo stesso avvenne per il signore di Arzin Sulṭān ‘Alī.113 Quanto a Mardin, il principe artuqide Majd al-Dīn ‘Isā era stato catturato al momento dell’assedio del 796/1394 e spedito a Sultaniyya. Perdonato in seguito, fu reinsediato sul suo trono. All’arrivo di Timur mostrò ancora una volta i “segni” della sua disobbedienza e questo indusse Timur a piazzarsi di fronte alla città. Cosciente dell’impossibilità di un assedio, Timur invitò Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu a dedicarsi lui a questo compito.114 La rivalità tra questi due emiri turcomanni avrà esiti anche dopo la morte di Timur: Qara ‘Uthmān attaccherà Mardin, e per contrastarlo Majd al-Dīn ‘Isā formerà una coalizione con Mamelucchi e Curdi, trovando la morte in quella circostanza (809/1407).115 La premura di Timur ad abbandonare la difficile conquista di Mardin era legata al piano di saldare i conti rimasti in sospeso con il sultano Aḥmad, Alinjak ancora non era stata presa e Baghdad era tornata in mano al ja­ layiride, dopo un esilio presso Bāyazīd di vari mesi.

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XV DALLA DEVASTAZ ION E DI BAG HDAD AI CON F I N I OTTOMAN I 1. Alinjak cede ai Timuridi La premura di Timur ad abbandonare Mardin, città che avrebbe richiesto un assedio molto lungo, derivava dalla volontà di saldare i conti rimasti in sospeso con Sulṭān Aḥmad.1 Alinjak ancora non era stata presa e Baghdad era tornata in mano jalayiride, anche se Sulṭān Aḥmad restava in esilio presso Bāyazīd dopo essere fuggito, insieme a Qara Yūsuf Qara Qoyunlu, ripercorrendo al contrario l’itinerario che Timur stava compiendo in Medio Oriente. Giunti a Bahasna, Sulṭān Aḥmad e Qara Yūsuf ebbero un diverbio violento, dovuto – ci dice Ḥāfiẓ-i Abrū – a maldicenze « piú impure dei cani » che li indussero a separarsi e a seguire itinerari distinti. Dopo aver attraversato l’Anatolia, Sulṭān Aḥmad fu ricevuto con tutti gli onori da Bāyazīd che gli assegnava la città di Kütahya come timar (attribuzione territoriale con ricavato fiscale). A distanza di poco tempo anche Qara Yūsuf raggiunse la corte ottomana, ricevuto sempre come un alleato; a lui Bāyazīd avrebbe assegnato Aksaray.2 Nella primavera dell’803/1401, però, Sulṭān Aḥmad decise che era tempo di tornare in Iraq e, dopo aver chiesto a Bāyazīd il permesso, ritornò a Baghdad: quando vi arrivò, alla fine dell’803/1401-’02, la trovò devastata da Timur.3 Poco prima di questi eventi, nel 1401, Timur aveva ordinato ai suoi emiri un’altra incursione in Georgia. Shāmī allude agli sconfinamenti da parte dell’esercito georgiano e alla sua insolenza che preludeva all’apertura « della porta di una condotta riprovevole ».4 È stato anche ipotizzato che l’esercito georgiano abbia scacciato via la guarnigione lasciata da Timur nella città di Tbilisi, una delle pochissime fortezze che egli non distrusse nel paese.5 Uscito dai dintorni di Mardin, Timur emanò a un corposo esercito l’ordine di portare a termine l’assedio di Alinjak e in seguito di spingersi verso la Georgia. L’intenzione era chiara: battere i Jalayiridi e i loro alleati georgiani, ma, soprattutto, riappropriarsi della cittadella che aveva nella regione un ruolo strategico e oramai simbolico, visto che resisteva da dieci anni all’assedio timuride. L’esercito destinato ad Alinjak era formato da vari principi, principalmente quelli accusati di indisciplina o 276

xv · dalla devastazione di baghdad ai confini ottomani

tradimenti come Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, e Sulṭān Ḥusayn, accompagnati da altri principi e nobili, come Abū Bakr, figlio di Mīrānshāh, e Jahānshāh, figlio di Chaku Barlas, o ancora lo Shaykh Muḥammad Darugha. Erano anche accompagnati dagli eserciti di Shāhrukh e Mīrānshāh. Secondo T’abat’aʒe, si trattava di 50.000 uomini.6 Quando questo imponentissimo esercito arrivò in prossimità di Alinjak, la cittadella era allo stremo: gli assedianti timuridi avevano costruito un secondo giro di mura che impediva qualsiasi rapporto degli abitanti con l’esterno. Le riserve alimentari erano esaurite e dopo aver mangiato « tutto il cuoio di cui disponevano » i coraggiosi resistenti iniziarono a morire di fame. Fu per questo che il kutval della città, il sayyid Aḥmad Oghulshāhī, decise finalmente di proporre la resa. La cittadella fu catturata senza problemi e il castellano venne consegnato a Timur in catene. Quest’ultimo visiterà la fortezza al ritorno della sua campagna contro Baghdad nello stesso anno.7 L’enorme esercito che Timur aveva predisposto non ebbe bisogno di fermarsi ad Alinjak e prese la strada della Georgia con l’obbiettivo di piombare sul re di quel paese. Ḥāfiẓ-i Abrū afferma che i difensori di Alinjak avevano chiesto a re Giorgi VII di aiutarli e che lui aveva promesso loro di scacciare personalmente gli eserciti timuridi e di liberare la fortezza.8 Ed è per questo, forse, che al loro passaggio i Timuridi lasciarono devastazioni e razziarono tutto ciò che trovavano. Giorgi VII, però, si mostrò sorpreso dell’aggressione e si rivolse ai principi timuridi, ricordando loro che si considerava un vassallo fedele di Timur (almeno cosí affermano varie fonti persiane). Disse anzi che lo aspettava per accoglierlo con tutti gli onori. Timur, avvertito di queste dimostrazioni di sottomissione, ordinò che venissero fermati i saccheggi e l’intera campagna georgiana. Aveva in realtà bisogno di quegli eserciti per prendere Baghdad.9 2. Baghdad obbiettivo prioritario Visto il successo senza neanche combattere ad Alinjak e il terrore che oramai incuteva nella regione, Timur decise di riunire tutti i suoi eserciti e di muovere direttamente su Baghdad. Da Mossul lanciò un appello ai tuman dei vari emiri perché lo raggiungessero in Iraq. Sulṭān Aḥmad aveva nominato in sua vece un governatore a Baghdad che si chiamava Faraj (o Farrukh, secondo la versione di Ḥāfiẓ-i Abrū),10 ed era anche lui d’origine jalayiride. Stando al racconto di Sharaf al-Dīn, costui era riuscito a radu277

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nare molti guerrieri turchi e arabi nella città tanto da confidare nel successo in un eventuale scontro diretto con le avanguardie timuridi. I nomi dei comandanti di questo esercito eterogeneo sono significativi della loro provenienza: c’era un ‘Alī qalāndar di Mandali e un Jān Aḥmad di Ya‘quba, che giunsero dalle vicinanze di Mada’in (l’antica Ctesifonte) passando per il Tigri. Da Hilla arrivò Farrukhshāh, mentre Mikā’īl veniva da Sib, non lontano da Bassora. Tutti questi capi locali e Faraj si ritrovarono a Sarsar, non lontano da Baghdad, con tremila uomini pronti al combattimento. Timur aveva spedito delle avanguardie guidate dai principi Rustam Barlas e Sulaymānshāh che sconfissero le truppe nemiche miste di beduini arabi e guerrieri turchi. Jān Aḥmad fu ucciso, molti altri fuggirono attraversando il Tigri. Stando alle fonti timuridi, che spesso forniscono interpretazioni abbastanza libere dei comportamenti dei nemici, Faraj avrebbe affermato davanti ai suoi che si sarebbe arreso solo di fronte a Timur, altrimenti avrebbe resistito a chiunque altro si fosse avvicinato. Fu cosí che Timur « decise di intervenire personalmente ». Superata Nusaybin (Nisibi), i cui abitanti consegnarono le chiavi della città in tutta fretta, anche se la città sembra non essere sfuggita alle devastazioni,11 e Mossul, dove il grande esercito impiegò una settimana per superare il Tigri su un ponte di barche, Timur puntò dritto su Baghdad.12 Passò da Altun Kopru e si accampò davanti alla porta di Baghdad detta Qariyat Alqab (o al-‘Aqab),13 dove dispose che tutti gli scavatori del genio (naqabchī) si mettessero all’opera attorno alle mura. Faraj mandò un emissario perché voleva vedere se si trattasse di Timur in persona. Stando a Sharaf al-Dīn, l’uomo fu ricevuto con tutti gli onori e poté tornare sano e salvo indietro, ma Faraj lo accusò di mentire e lo fece imprigionare.14 Dopodiché predispose la città per affrontare l’assedio con difese che si rivelarono ostiche per gli assedianti timuridi. Due personaggi di rilievo, Minglī Khwāja e Mas‘ūd Simnānī, vennero colpiti da un lancio di frecce mentre stavano costruendo una piattaforma per l’assedio (maljūr).15 Morirono poco dopo per le ferite riportate. Evidentemente preoccupato per la stagione calda che avanzava e per alcune difficoltà nell’assedio, Timur ordinò all’esercito di Shāhrukh di raggiungerlo, e appena questo arrivò fu inviato insieme a Mīrānshāh di fronte a un’altra porta detta del Sūq al-Sulṭān. Timur bloccò anche il Tigri che tagliava nel mezzo la città, impedendo a qualsiasi battello di raggiungerla o di fuggirne. Davanti alla città assediata processò in maniera platea­ 278

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le il castellano di Alinjak, il sayyid Aḥmad Oghulshāhī, che venne giustiziato sul posto. Nella stessa udienza l’emiro Mūsā si presentò a Timur per riferire delle vicende riguardanti Samarcanda, sotto il solido controllo di Muḥammad Sulṭān, e gli consegnò in dono un rubino di centoventi mithqāl (ca. mezzo kg.) rinvenuto nelle miniere del Badakhshan.16 Arrivati al mese di luglio, i timori sul calore, che già si era rivelato un alleato degli assediati ai tempi dello sfortunato tentativo di Mīrānshāh, mostrarono tutta la loro fondatezza. Gli abitanti di Baghdad si adoperavano a ricostruire i tratti di mura a ogni crollo, vanificando l’opera degli scavatori. Inoltre, era impossibile utilizzare armature di alcun genere con quella calura e questo portava l’esercito ad avvicinarsi con cautela alle mura. Un bombardamento sistematico di pietre sulla città veniva realizzato dalle baliste e dai trabucchi disposti all’esterno, sopra le piattaforme rialzate di cui si è parlato, ma non sembra desse risultati soddisfacenti. Timur chiese ai suoi di pazientare e fu assistito dal fatto che diversi militari jalayiridi fuggirono dalla città per arrendersi, coscienti dell’impossibilità di resistere troppo a lungo.17 Il 27 di zhu’l-Ḥijja 803/8 agosto 1401, nel pieno di una giornata rovente, quando gli abitanti della città erano tutti ritirati nelle proprie abitazioni per sfuggire all’insopportabile temperatura, venne ordinato un attacco generale e gli assalitori riuscirono ad avere la meglio sui pochi che erano rimasti a sorvegliare le mura, piazzandovi il tugh.18 Nella città si diffuse il panico, molti si gettarono nel Tigri annegando o utilizzando piccoli battelli che divennero bersaglio di una pioggia di frecce. Lo stesso governatore Faraj tentò la fuga con una figlia e riuscí inizialmente a dileguarsi su un’imbarcazione, ma, scoperto, venne inseguito dalle sponde del fiume e bersagliato dagli arcieri che lo costrinsero a gettarsi in acqua dove, probabilmente ferito, annegò. Il suo corpo fu recuperato e gettato sulle sponde del Tigri.19 A questo punto Timur scatenò una drammatica caccia all’uomo: ogni soldato doveva portare almeno una testa di abitante al suo cospetto, poco importava se fossero « infanti di otto anni o vecchi di ottanta », né tantomeno se erano popolani o gente di rango.20 Si ripeté cosí la costruzione rituale dei minareti di teste umane e vennero distrutti tutti gli edifici della città che non fossero di natura religiosa: la maledizione di Baghdad, che già aveva subito le terribili devastazioni mongole del 1258, ora veniva riproposta con impliciti riferimenti a quel passato. Inoltre, contro l’ostinata resistenza della città, Timur aveva tentato di convincere gli abitanti dei “vantaggi” della resa,21 ma il loro rifiuto e la loro “ostinazione” erano state 279

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le cause della carneficina. Il bavarese Schiltberger narra che l’assedio durò un mese intero e che, in seguito, gli edifici vennero distrutti in modo tale che nessuno ne trovasse piú le tracce. Aggiunge anche la storia del ritrovamento di alcune casse piene d’oro e d’argento in una cittadella di difficile identificazione.22 3. Tabriz capitale “sorella” di Baghdad Timur fu obbligato ad abbandonare Baghdad per l’insopportabile fetore dei cadaveri che imputridivano nell’acqua del Tigri. Seguendo il corso del fiume a settentrione, passò a visitare il mausoleo del “sommo imam” Abū Ḥanīfa, fondatore ed eponimo della scuola giuridica hanafita molto seguita dal mondo turco e centroasiatico.23 Sulṭān Aḥmad, vero obbiettivo (mancato) della conquista di Baghdad, ritornerà nella sua desolata città nell’inverno successivo dell’804/1401 e, come ha notato Patrick Wing, si adopererà alacremente a tentare di rimettere in sesto la città, cercando di sostenere le famiglie di coloro che erano stati colpiti da Timur.24 È chiaro però che quella che era stata la capitale del califfato abbaside era ora lo spettro del suo passato. Timur non mancò di inviare anche delle avanguardie a compiere devastazioni nella regione, cosa che fecero a Hilla e Wasit, mentre a Najaf, stando a Sharaf al-Dīn, si limitarono a pregare, cedendo alla potenza della suggestione mistica del luogo.25 Passando da Shahrazur e Qalaghi, Timur mosse verso Tabriz, non senza adottare alcune precauzioni per la presenza di alcuni Curdi che assalivano a sorpresa qualsiasi elemento militare si distaccasse dai corpi principali dell’esercito per depredarlo di armi e bottini acquisiti. Una trentina di loro furono catturati e impiccati a delle querce (ballūṭ), cosa che permette a Sharaf al-Dīn di lanciarsi in una lunga digressione enciclopedica sul fatto che questi alberi producono un anno delle ghiande e nell’anno successivo delle galle (māzū).26 Superato il fiume Jaghatu (oggi Zarrina Rud, nell’Azerbaigian iraniano) si approssimò a Tabriz, dove venne avvicinato dalle sue mogli e da un ampio corteo di nobili. Qui Timur ebbe un incontro in particolare con la Tuman Agha, una delle sue preferite, di cui lui aveva un’altissima considerazione.27 Timur conosceva il legame stretto che Baghdad aveva con Tabriz sin dal periodo mongolo. Dopo la devastante invasione del Khān Hülagü, che nel 1258 aveva messo fine al califfato, Baghdad era rimasta a lungo uno spettro dell’antica capitale abbaside, o, come si è spesso affermato, da ca280

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pitale era diventata un centro provinciale a tutti gli effetti. Gli Ilkhanidi la assegnarono a governatori di valore, come il celebre storico ‘Alā’ al-Dīn ‘Aṭā Malik Juvaynī, che ebbe il governatorato della città per 21 anni fino alla sua morte nel 1283. Malgrado gli sforzi compiuti da Juvaynī per ridare vitalità alla città, un certo risorgimento urbano si verificò solo con l’ascesa della famiglia jalayiride, che a partire dal regno di Uvays – forse il piú brillante sovrano della stirpe – era tornata ad appropriarsene (766/1365). Capitale della dinastia, la città dovette condividere questo ruolo con Tabriz, che, già potentissimo centro in epoca mongola, trovò coi Jalayiridi un suo significativo risorgimento.28 In quest’epoca Baghdad ospitò artisti di prim’ordine e numerosi poeti come ‘Ubayd-i Zākānī, Khwājū Kirmānī e Salmān-i Savājī, che poi faranno fortuna nella Shiraz muzaffaride. Que­ st’ultimo, spesso considerato come un campione di artifici letterari e di ambigue anfibologie, fu un attento panegirista, soprattutto di Uvays, prima di morire nel 778/1376. A Baghdad dedicò vari suoi poemi e ne lamentò persino la tragica condizione al momento di una drammatica inondazione che si verificò nel 775/1373, naturalmente con l’uso disinvolto delle metafore che lo caratterizzava: Nell’anno settecentosettantacinque, si palesò la catastrofe per l’acqua che sparse polvere sul capo della città gloriosa. Cordoglio per le aiuole di Baghdad, luogo paradisiaco, ora andato in rovina: dimora diruta oramai è il mondo!29

Timur, che aveva svuotato la città dei suoi artisti miniatori durante la campagna del 1393, ora le infliggeva un colpo letale. La città di Tabriz, invece, eletta dal jalayiride Uvays capitale estiva, veniva confermata tale da Timur e sua sede di residenza persiana insieme a Sultaniyya, dove il Grande Emiro aveva una base anche economica, conservando lí i proventi dell’esazione di tutto l’Azerbaigian, l’Iraq e l’Alta Mesopotamia. Concorrevano molti fattori al connubio tra Baghdad e Tabriz: possederle entrambe significava dominare integralmente lo stato jalayiride, ma anche dominare in qualche modo il cuore dell’Islam asiatico e in particolare gli antichi domini ilkhanidi. Timur ripeteva cosí la tradizione mongola con una magistrale operazione d’immagine in cui si proponeva come secondo Hülagü. Inoltre, i fallimenti del figlio “folle” Mīrānshāh, che si era dedicato infruttuosamente alla cattura di Baghdad, dovevano pesare come un’onta. Quanto a Tabriz, sarà une delle principali città timuridi 281

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anche dopo la morte di Timur, per diventare in seguito ancora una capitale dei Qara Qoyunlu, degli Aq Qoyunlu e infine dei primi shāh safavidi. Snodo principale dei commerci nel periodo mongolo, Tabriz aveva subito un drastico crollo in epoca jalayiride malgrado i tentativi di Sulṭān Uvays di rivitalizzare i rapporti con Genova e Venezia.30 A questi stessi mirava molto probabilmente Timur, in particolare Genova, che tentò in vari modi di ricostruire i rapporti proprio puntando sulla città azerbaigiana. Clavijo parla di un castello che alcuni genovesi avevano acquistato nella città ai tempi di Uvays (Soltanvays). Il sovrano si sarebbe in seguito pentito, e dopo un contenzioso con loro avrebbe messo a morte i genovesi.31 In realtà questa descrizione potrebbe fare riferimento ai tentativi fatti da Uvays di stringere nuovi rapporti coi Genovesi, come è attestato da alcuni documenti dell’epoca. Tentativi che fallirono per il blocco commerciale imposto allo stato jalayiride dalla repubblica ligure già negli anni ’40 del Trecento.32 Ora Timur si faceva carico della ripresa di quelle antiche relazioni e, come vedremo, questa alleanza sarà particolarmente proficua in Anatolia, anche se si dissolverà immediatamente dopo il ritorno di Timur dalla campagna contro gli Ottomani del 1402-’3. 4. Meditando strategie: ozi caucasici Mentre si dirigeva in Anatolia, Sulṭān Aḥmad sapeva che avrebbe perso i suoi averi e soprattutto le sue dame di corte, inclusa la sorella Sulṭān Dilshād, che venne catturata e deportata in catene dai Timuridi.33 Questo doveva suscitare certamente una ragione di profondo risentimento da parte di Sulṭān Aḥmad che una volta raggiunto da Qara Yūsuf cominciò a premere insieme al suo temporaneo alleato su Bāyazīd perché intervenisse al confine orientale dei suoi domini, in particolare contro Erzincan, controllata da Muṭahhartan.34 Bāyazīd arrivò innanzi alla città, sconfisse Muṭahhartan e con i due nuovi alleati catturò anche il suo luogotenente, certo Muqbil, che finí prigioniero di Qara Yūsuf. Quanto a coloro che vivevano nella città, dovettero pagare il riscatto a Bāyazīd che si appropriò delle mogli e dei figli di Muṭahhartan prontamente deportati a Bursa, capitale del sultanato ottomano. Timur, all’epoca accampato a Hashtrud (oggi Sar Askand, nell’Azerbaijan iraniano), inviò l’esercito di Shāhrukh a recuperare la città insieme ai tuman di numerosi emiri, inclusi coloro che si erano recati in Georgia e avevano disposto il proprio accampamento estivo di Mingöl.35 282

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Sharaf al-Dīn descrive Bāyazīd come spaventato da questa reazione e narra di come attraverso un nipote di Muṭahhartan, tal Shaykh ‘Alī, avrebbe fatto atto di sottomissione e pentimento nei riguardi di Timur. In realtà inizia in questa fase un nuovo scambio di epistole che gettano le basi del conflitto successivo: in esse Timur considerava l’usurpazione di Bāyazīd a Erzincan, nonché la protezione da lui offerta a Sulṭān Aḥmad e Qara Yūsuf, come un vero affronto politico. Ferīdūn Bey elenca almeno quattro missive nelle sue Münşe’āt, che coprirebbero un periodo tra il 1401 e il 1402. Nella prima lettera, in arabo, la richiesta di consegna immediata di Sulṭān Aḥmad e Qara Yūsuf è giustificata dal fatto che si tratta degli artefici di una fitna, termine arabo qui impiegato per indicare una ‘sobillazione’, con riferimenti a episodi storici del passato. Ferīdūn Bey non manca di riportare anche la risposta, che sembra ben diversa da quanto afferma Sharaf al-Dīn: Bāyazīd apostrofa Timur di essere piú empio del takfūr (ovvero il sovrano bizantino)36 e di essere un tataro della steppa. Il sultano ottomano si dichiara pronto a mettere in atto una ghazā contro questo empio infedele. La lettera non è datata, ma sembra proprio riferirsi a questo stesso periodo.37 Di poco posteriore sembra essere una seconda lettera di Timur, nella quale, questa volta in persiano, il signore centroasiatico si dilunga sui quarant’anni di successi conseguiti, riprendendo la questione di una ghazā comune e ricordando che è stato costretto a conquistare Sivas e Malatya. La lettera vuole essere un monito da parte di Timur, che non esita a dichiararsi discendente degli Ilkhanidi, ma ancora una volta sembra avere toni moderati nei confronti di colui che doveva apparire come uno dei principali sovrani musulmani del tempo. Inutile dire che la risposta di Bāyazīd riprende un argomento consueto contro Timur: la presa di Sivas avrebbe “svelato” le sue vere intenzioni mettendo a nudo il personaggio. E se c’era stata una volontà di unire l’Anatolia, questa derivava dalla necessità di riunire gli stati che continuavano a essere dominati da « fazioni contrapposte » (ṭavā’if-i mukhtalifa)38, proprio quello che stava piú a cuore a Timur stesso. È stato già anticipato il contenuto delle altre due lettere, in cui il Grande Emiro lamentava la presa di Erzincan e il sequestro della famiglia di Muṭahhartan, pretendendo la consegna immediata di Sulṭān Aḥmad e Qara Yūsuf.39 In un crescendo retorico e sempre con le stesse argomentazioni, Timur ribadiva gli stessi concetti ricevendo analoghe risposte.40 Sicuramente Timur voleva chiudere un conto rimasto in sospeso con i 283

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Jalayiridi e i loro alleati georgiani e ciò anche malgrado gli accordi presi con questi ultimi. Non è casuale che per prima cosa, dopo essere passato da Qum Tupa e Nakhchevan, si recò a visitare il castello di Alinjak, ora in mano timuride. Qui avrebbe ricevuto Muṭahhartan, latore della improbabile lettera di Bāyazīd in cui il sultano gli chiedeva scusa per il proprio operato.41 Da Alinjak Timur spedí un ambasciatore a Giorgi VII per chiedergli il tributo, poi penetrò fino al Gökche Tengiz (il lago Sevan, ovvero in armeno Sew-vank‘, ‘il Monastero nero’). Fu un periodo di riposo in una regione fredda, dopo le calure dell’Iraq: qui compí delle battute di caccia e si spostò nella città georgiana di Shamkur (in georgiano è Šamkori, oggi Şəmkir, in Azerbaigian) dove fu accolto dal fratello di Giorgi VII, K’onst’ant’ine,42 che portava diversi doni, promettendo la fedeltà del sovrano georgiano. È probabile che Timur abbia inviato i propri messi a Giorgi il 21 luglio del 1401. Secondo alcune fonti georgiane, però, il re non ebbe alcuna fretta di rispondere e i messi raggiunsero Timur solo quando oramai era arrivato a Shamkur.43 Timur rispose “perdonando” Giorgi e invitandolo a trattare onorevolmente i musulmani di Georgia.44 Il 22 di rabī‘ ii 804/29 novembre 1401, dopo essere passato da Ganja e Barda‘, Timur fece disporre l’accampamento nel Qarabagh, dove fu raggiunto dal principe Muḥammad Sulṭān in vista di pianificare la grande impresa contro Bāyazīd. Durante questo incontro venne processato il principe Iskandar, figlio di ‘Umar Shaykh, che Muḥammad Sulṭān aveva portato con sé, colpevole, come abbiamo visto, di aver svolto una missione non prevista. Anche questo rampollo indisciplinato non sfuggí ai soliti colpi di bastone riservati ai principi disubbidienti, e come gli altri fu poi lasciato libero di andarsene.45 5. Sulṭān Aḥmad torna a Baghdad Dopo la sua fuga in Anatolia, Sulṭān Aḥmad abbandonò Bāyazīd a Kayseri una volta certo della ripartenza di Timur per ritornare a Baghdad, passando da Qal‘at al-Rūm e attraversando l’Eufrate in modo avventuroso. Come s’è già detto, trovò la sua capitale devastata ma si adoperò a ricostruirla. Cosí descrive il suo arrivo Sharaf al-Dīn: « Baghdad era distrutta dalle fondamenta e ridotta in miseria. Lui si dedicò a riedificarla e a riunire molti tra quei nemici [di Timur] che si erano smarriti per il terrore e rifugiati in luoghi angusti, o dispersi in impervi romitaggi come formiche alate ».46 Timur allora ingiunse a Pīr Muḥammad b. ‘Umar Shaykh e 284

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Sulaymānshāh di andare verso il Luristan e il Khuzistan e Wasit; assegnò ad Abū Bakr il compito di raggiungere Baghdad e a Sulṭān Ḥusayn e Khalīl Sulṭān ordinò di rendersi nell’Iraq arabo, mentre Burunduq doveva prendere Huvayza e ristabilire l’ordine accanendosi in particolare contro i Curdi che avevano osato aggredire l’esercito timuride. E proprio nel Kurdistan l’inverno cominciava a farsi rigido e molti curdi furono costretti a ritirarsi dalle montagne per rifugiarsi nella città di Darband Tashi Khatun (o Darband Taj Khatun, un centro di media entità, oggi totalmente in rovina nel Kurdistan iraniano).47 Qui avvenne un massacro generale di tutta la popolazione, incluso chi si arrendeva e intendeva sottomettersi. Abū Bakr intanto prese la via di Baghdad insieme all’emiro Jahānshāh, cosí rapidamente da cogliere totalmente di sorpresa Sulṭān Aḥmad che preso dal panico fuggí con la sola camicia su un battello col quale attraversò il Tigri, per poi continuare la fuga a cavallo da Hilla insieme al figlio Ṭāhir e pochi altri intimi, non senza essersi premunito di distruggere i ponti sull’Eufrate per evitare Jahānshāh che lo inseguiva.48 Quest’ennesima fuga di Sulṭān Aḥmad era uno scacco ulteriore e a dispetto della descrizione di Sharaf al-Dīn, che ricama un po’ sulla sorpresa, un piano di evacuazione rapida con distruzione dei ponti sembrava essere stato predisposto con molto anticipo e nel dettaglio. Il governatore di Mandali, ‘Alī Qalāndar, prese anche lui la fuga radunando un piccolo esercito. I fanti timuridi però riuscirono a passare il fiume a nuoto e una volta sulla riva opposta sconfissero facilmente i nemici catturando tutti i soldati e uccidendone diversi. Altri saccheggi vennero compiuti a Saki e Fili da un altro esercito timuride proveniente da Shushtar. Un ghajarji curdo, Uvays, indicò i vari guadi sull’Eufrate facendo transitare molti soldati.49 Timur intanto continuava a inviare contestazioni a Bāyazīd, richiedendo questa volta la consegna immediata di Qara Yūsuf in catene, con una motivazione pretestuosa: il signore “turcomanno” era colpevole di ostacolare il transito verso la Mecca. Inoltre, non sarebbero mancati ancora i richiami a una comune ghazā contro i cristiani. Secondo le fonti timuridi, Bāyazīd sarebbe stato avvicinato dai suoi notabili che avrebbero tentato di persuaderlo a non affrontare Timur.50 Ma di queste corrispondenze non restano altre tracce, né tanto meno restano memorie di tentativi di dissuasione. Si direbbe, a leggere alcune fonti ottomane come la cronaca di ‘Āşıḳpāşāzāde, che l’atteggiamento su quel versante fosse piuttosto di scherno.51 285

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Sharaf al-Dīn aggiunge anche la presenza di alcuni ambasciatori ottomani al suo cospetto nel Qarabagh: Timur li avrebbe trattati con tutti gli onori, portandoli a caccia con lui ad Aq Tam, oltre l’Arasse. Il rituale della caccia per accerchiamento sembrava mirato allo scopo di mettere soggezione agli emissari mostrando abilità militari particolari, gli ambasciatori stessi sarebbero stati coinvolti nelle attività venatorie. In seguito, Timur indisse grandi banchetti e rispedí la missione ottomana, colmandola di doni, insieme ad altri ambasciatori timuridi con una lettera per Bāyazīd.52 Tra gli ambasciatori timuridi che arrivarono alla corte di Bāyazīd vi era lo storico Ḥāfiẓ-i Abrū, che dopo aver descritto uno scambio di battute tra gli emissari di Timur e Bāyazīd a proposito di un oroscopo che Timur avrebbe fatto apprestare, riporta che il sultano avrebbe richiesto che lo stesso astrologo si recasse alla sua corte e Timur acconsentí inviandolo con l’ordine preciso di rispondere a tutto ciò che Bāyazīd chiedeva. Ma soprattutto Ḥāfiẓ-i Abrū dà un’importante descrizione dell’ambasceria per quanto riguarda l’aspetto linguistico: L’umile servo autore di questo compendio [Ḥāfiẓ-i Abrū] seguiva il menzionato ambasciatore presso Bāyazīd “La Folgore” (Yıldırım) e insieme raggiunsero la corte di quest’ultimo. Noi non capivamo bene i discorsi in turkī [il turco parlato al tempo in Anatolia] e lui non capiva il pārsī [il persiano]. Tuttavia, arrivò un interprete e chiese di questo evento [l’oroscopo] e il mawlānā rispose: « Sí, in questo libro è scritto proprio cosí ». Dopo [Bāyazīd] fece alcune altre domande e ascoltò ognuna delle risposte. Poi rivolse l’invito a ognuno di noi di tornare dopo un’ora, uno alla volta, dicendo che avremmo poi compreso il perché. Cosí famigliarizzai con quella gente conversando con loro per un’ora. Ne conservo un buon ricordo.53

Se ci rivolgiamo a Sharaf al-Dīn, lo storico si dilunga sulla stanchezza dei soldati timuridi e la loro necessità di riposare in quella fase. Shams al-Dīn al-Mālighī, un uomo di dottrina in rappresentanza di vari membri dell’aristocrazia, avrebbe tentato di dissuadere Timur da una campagna anatolica, giudicata perigliosa, e sembrerebbe che secondo questo intimo del sovrano gli oroscopi sarebbero stati tutti contrari ai Timuridi. Fu perciò interrogato ‘Abdallāh Lisān, uno dei migliori astrologi del tempo, e questi vide una cometa (zhū zhanāba) che sarebbe entrata nel segno dell’Ariete, a indicare che ci sarebbe stata la conquista dell’Anatolia e il signore ottomano sarebbe stato fatto prigioniero.54 286

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6. Timur costruisce un canale e attacca Tartum, Haruk e Kamakh In questo periodo di riposo oltre l’Arasse, Timur avrebbe anche disposto il restauro di un antico canale che aveva visto abbandonato durante la caccia nel Qarabagh. Lo rinominò Nahr-i Barlas, ovvero ‘fiume dei Barlas’. È stato notato che questo tipo di progetti era molto apprezzato da Timur che dava molto spazio proprio all’irrigazione,55 e forse anche l’elezione della regione del Qarabagh come luogo prediletto per trascorrere l’inverno sembra avere un significato particolare. Qui sarebbero stati edificati villaggi con mulini, vigne e edifici proprio per la nobiltà.56 Una sorta di regione destinata alla transumanza invernale (qishlāq) che cosí trasformata grazie a quell’opera monumentale diventava una regione specifica timuride in quell’inverno dell’804/1401-’2. Agli inizi della primavera il vasto esercito, insieme a tutta la nobiltà, alle mogli reali e agli alti funzionari si spostò nella regione stepposa di Shamkur, sulla riva meridionale del fiume Kura (8 sha‘bān 804/13 marzo 1402). Qui Timur fu raggiunto da Muḥammad Sulṭān. In seguito, si avvicinò alle frontiere del regno georgiano sul fiume Tabadar, dove nacque un figlio a Shāhrukh, Muḥammad Juki. I Timuridi poi passarono a impossessarsi della fortezza di Tartum (un tempo Tortomi, nel principato georgiano del Samtskhe-Saatbago, oggi Tortum, a nord di Erzurum in Turchia orientale). Shāmī chiama il signore di questa regione Gurjī Beg, seguito poi dalle altre cronache successive;57 è probabile che un signore locale Ta’qa Panask’et’eli avesse affidato la fortezza a Gurjī Beg.58 Sharaf al-Dīn descrive l’insolita clemenza di Timur nei confronti del castellano georgiano,59 anche se gli abitanti della fortezza si rifiutarono probabilmente di pagare il tributo e dopo cinque giorni di resistenza vennero tutti massacrati. Sebbene Shāmī riporti che la fortezza fu « estirpata dal suolo »,60 due anni dopo Clavijo, che la chiama Tarcon, la trovò ancora funzionante e dichiara che la fortezza si era opposta a Timur e che al momento del suo passaggio era tornata un dominio georgiano.61 Da qui gli eserciti timuridi guidati da Nūr al-Dīn e Burunduq62 presero la roccaforte di Haruk (Hark o Havīk, arm. Apahunik’), dove si erano rinchiusi i contadini della regione, che furono massacrati. Il controllo risultava importante per Timur, che incontrò anche in questo sito una certa resistenza: Shāmī chiama i suoi occupanti chītāgh, un temine turco che indica dei ‘ribelli volontari’, soggetti in questo caso a Bāyazīd.63 La demo287

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lizione di questa fortezza e il massacro dei chītāgh impegnò vari elementi dell’esercito. Timur si approssimava agli Ottomani e la riconquista di Kamakh, non lontano da Erzincan (oggi Kemah, in Turchia), già appartenuta a Muṭahhartan e presa dagli Ottomani attorno al 1400, indicava certamente un segnale del suo avvicinarsi inesorabile in territorio ottomano. Stando a Ḥāfiẓ-i Abrū, protagonista dell’impresa fu Muḥammad Sultān.64 Le fonti timuridi descrivono la rinuncia a ogni ulteriore trattativa col sultano e in definitiva la risoluzione di Timur ad attaccare i suoi domini.65 Anche le mogli avevano ripreso oramai da tempo la strada per Sultaniyya, dove erano accampate mentre Timur era in campagna. Era giunto il momento di predisporre l’esercito contro un rivale che si contrapponeva a Timur anche sul piano ideologico. Uno scontro che avrà esiti considerevoli nella storia successiva dell’Asia islamica, cosí come in Occidente, dove sempre piú si definiva la figura di Timur. Val la pena di soffermarsi su questo punto. 7. Eco in Occidente delle imprese di Timur Si è già detto dei primi contatti che Timur ebbe probabilmente con degli Italiani, quando assediò Tana (Azak) nel 1395. Sono stati menzionati anche vari incontri con elementi europei dopo la battaglia di Nicopoli: c’erano personaggi difficili da classificare, come quel Jacques du Fay che si ritrovò con Tamburin, come Froissart chiama Timur nelle sue cronache.66 Da diversi anni i Veneziani avevano intrapreso tentativi diplomatici e seguivano con regolarità i movimenti dei Timuridi fin dal 1394.67 Sono loro a coniare il nome Zamberlanus, forse per primi, cosa che porterà poi a infinite varianti fino al piú recente Tamerlano. Lo descrivono soprattutto riguardo alle sue devastazioni a Tana. Presto, ovvero probabilmente l’anno successivo, anche i Genovesi intrapresero sforzi diplomatici. La città ligure versava in un momento particolarmente complesso della sua storia, dal 1396 era passata sotto la tutela diretta del re di Francia Carlo VI e dopo che vari governatori, come Waleram de Luxembourg, François Fresnel e Colard de Coleville, erano stati costretti a domare rivolte e persino a fuggire dalla città (è il caso di Colard de Coleville), la città finí con l’essere governata da Battista Boccanegra.68 Il re di Francia reagí inviando come governatore il maresciallo Jean Le Maingre II, detto Boucicaut, che nel 1401 fece giustiziare Boccanegra dopo aver preso in mano le redini del governo della città. Boucicaut è certamente figura degna di interesse: 288

xv · dalla devastazione di baghdad ai confini ottomani

oggetto di apologie69 come di giudizi molto negativi,70 è un vero protagonista della lotta contro gli Ottomani, oltre al suo ruolo nella storia di Genova. Già prigioniero a Nicopoli, dove si distingue come cavaliere ma finisce vergognosamente prigioniero, fu il campione di una religiosità fervente e talvolta ottusa, tentando inutilmente di far entrare i Genovesi nell’orbita avignonese.71 Compí alcune imprese abbastanza velleitarie, come quella micro-crociata per forzare il blocco imposto a Costantinopoli nel 1399, portando via dalla città assediata l’imperatore Manuele II e lasciando la reggenza a Giovanni VII Paleologo, fino a poco prima suo rivale.72 Boucicaut fu tuttavia l’artefice di un avvicinamento diplomatico sistematico a Timur. Divenuto governatore di Genova si occupò anche delle sue agenzie in Anatolia e nel Mediterraneo. Fece concludere alla colonia di Pera accordi con Timur e inviò ispettori a Caffa, Tana, Chio e Famagosta, con l’intento di elaborare una strategia comune.73 Ciò avveniva probabilmente anche per bilanciare le mosse dei Veneziani, che da Creta rispondevano alle sollecitazioni che arrivavano da parte dei Timuridi. In un documento del 1402, in effetti, si riferisce di una pace offerta da Timur alla Signoria di Creta per mezzo di un misterioso luogotenente detto Epso e il Senato veneziano invita ad accettare l’accordo proponendo di estenderlo a tutta la Repubblica.74 Una missione diplomatica genovese indipendente, guidata da un certo Giuliano Maioco, o Maciocco, aveva già raggiunto Timur a Sivas nel 1400.75 Nei primi mesi dell’anno successivo un altro ambasciatore genovese raggiunge Timur,76 e altre ambascerie timuridi arrivarono a Pera il 19 agosto 140177 e tra il 18 maggio e il 21 giugno del 1402.78 A questi eventi si incrociava la diplomazia papale: risale al 1398 la riattivazione da parte del papa Bonifacio IX (il napoletano Pietro Tomacelli, 1389-1404) dell’arcivescovato di Nakhchevan, dove venne trasferito il domenicano Giovanni, poi autore di un’importante memoria. Lo stesso Giovanni avrebbe edotto Timur degli eventi di Nicopoli, proprio in quegli anni.79 L’ambasceria di cui fu incaricato da Timur portò Giovanni e il frate Francesco Sandron in Europa, il primo, e a Costantinopoli, il secondo (1401).80 Giovanni raggiunse la corte d’Inghilterra e quella francese, recando con sé delle lettere di Timur e di Mīrānshāh destinate a queste corti. La lettera di Timur rivolta a Carlo VI è conservata negli archivi dell’Assemblea Nazionale a Parigi,81 quelle di Mīrānshāh sono invece pervenute in traduzioni latine eseguite verosimilmente dallo stesso Gio289

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vanni, che non esitò a compiere alcune manipolazioni, ritoccando la volontà di Timur per renderla piú appetibile ai sovrani del tempo. Per le stesse ragioni, nella traduzione della lettera che gli consegnò Enrico IV d’Inghilterra per Timur nel 1402, Giovanni avrebbe eliminato l’invito a battezzarsi rivolto al Grande Emiro.82

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XVI LA G UERRA OTTOMANA 1. Timur, nemesi degli Ottomani La campagna che vide Timur combattere, sconfiggere e catturare il suo rivale Bāyazīd costituisce un vero e proprio snodo nella periodizzazione di un gran numero di trattati storici sin da epoche molto remote. In Occidente, l’episodio ha permesso a molti studiosi di inserire Timur nel quadro delle vicende dinastiche ottomane: la sua comparsa fu considerata un corto circuito, forse il piú grave e drammatico per quella dinastia che resse uno dei principali imperi della storia dall’inizio del Trecento sino al 1922. Lo stato ottomano, già in un’avanzata fase espansiva, con una forte ambizione su Costantinopoli, che Bāyazīd teneva sotto uno stretto blocco navale mentre si affermava come inesorabile e imbattibile avversario a Nicopoli, rappresentava infatti uno degli incubi maggiori per gli stati europei. La sua sconfitta colpirà l’immaginazione popolare a tal punto da finire in drammi, opere liriche, romanzi d’appendice come una sorta di drammatica e liberatoria nemesi storica. Nelle prossime pagine parleremo pure della fortuna incredibile della storia che vorrebbe Bāyazīd rinchiuso in una gabbia da Timur, per il momento ci soffermeremo sulla rinascita storiografica del tema della battaglia nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, una brillante studiosa rumena, Maria Matilda Alexandrescu-Dersca Bulgaru, che aveva completato i suoi studi a Parigi, pubblicò a Bucarest la sua tesi di dottorato intitolata La campagne de Timur en Anatolie (1402).1 L’opera era dedicata alla memoria del « venerato maestro », nonché studioso di prim’ordine e primo ministro della Romania negli anni ’30, Nicolae Iorga, il quale era stato ucciso da alcuni sicari della temibile Guardia di Ferro proprio nel 1940, quando l’Alexandrescu-Dersca presentava il proprio lavoro innanzi al collegio dottorale. La pubblicazione del libro, in quel cupo periodo, voleva forse fornire una risposta alle atrocità dei tempi ed era introdotta in rumeno e in turco da Franz Babinger, trasferitosi in Romania su invito dello stesso Iorga. Di lí a un anno Babinger sarà costretto anche lui ad abbandonare Bucarest. In seguito, Babinger sarà l’autore di una monografia su Mao291

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metto II che apparirà nel 1953. Ci si potrebbe interrogare a lungo sull’attenzione portata per questi signori tardomedievali dell’Asia da parte di studiosi che sfuggivano o affrontavano i rovesci della storia d’Europa nazifascista: proprio in Romania una nemesi ulteriore sarà messa in atto di lí a poco dall’Armata rossa. Iorga aveva scritto una sua storia dell’Impero ottomano, pubblicata in Germania a partire dal 1908, nel cui primo capitolo venivano trattati molti temi poi ripresi dalla sua discepola.2 Il volume della Alexandrescu-Dersca, con la metodicità tipica delle tesi dottorali, forniva un’ampia descrizione della tradizione degli studi, partendo da quella Geschichte des osmanischen Reiches che il Barone Joseph von Hammer-Purgstall aveva stampato a Pest tra il 1827 e il 1833: una monumentale storia dell’Impero ottomano in 10 volumi, ripubblicata in seguito in numerose edizioni e in traduzioni, non ultima una italiana (Storia dell’Impero osmano) che apparve in 24 volumetti dal 1828 al 1831. Il settimo libro del terzo tomo di questa bellissima traduzione italiana esordiva in modo eloquente con il nome di Timur: « Il ferro soggioga il mondo, e il nome Timur, cioè ferro, portato dal figlio di Tharaghai, il cui proavo in quarto grado era Karaciar Nowian del nobile ceppo dei Barlas, emir ul-umera, cioè gran principe Vezir di Giagatai, figlio di Gengizkhan, ne presagiva appunto la conquista ».3 Il rigoroso atteggiamento di von Hammer, enunciato qui brevemente in questo esordio etimologico, non riusciva a sfuggire in questo caso e nelle pagine successive alle inevitabili suggestioni del personaggio trattato. Non mancavano i parallelismi con Alessandro Magno, Attila e infine lo stesso Chinggis Khān. Tuttavia, per von Hammer lo scopo principale di questo capitolo era inserire Timur nella storia ottomana, ma lo studioso faceva riferimento all’opera di Sharaf al-Dīn e a una serie di altri testi del tempo, talvolta sottostimando le fonti ottomane, tal atra quelle greche. Von Hammer conferiva uno strano primato alle cronache persiane considerate come le piú attendibili, cosa quanto mai discutibile a posteriori. Il capitolo della storia ottomana dedicato a Timur e Bāyazīd occupa nell’opera di von Hammer piú di 150 pagine colme di precisazioni sulle « fantasie » precedenti. L’Alexandrescu-Dersca menzionava anche un’altra opera fondamentale, a quel tempo, per ricavare una descrizione degli eventi storici riguardanti Timur in Anatolia: il trattato di Herbert Adams Gibbons sulla fondazione dell’Impero ottomano, che partiva dal 1300 per chiudere proprio con il 1403, anno della fine della campagna anatolica di Timur. Il volume, 292

xvi · la guerra ottomana

apparso per la prima volta nel 1916 a Oxford, aveva un’interessante introduzione nella quale Gibbons, dopo aver accennato alla sua esperienza personale nell’Impero ottomano, « in uno dei suoi piú disastrosi momenti di declino », si sentiva in dovere di illustrare proprio con la storia di queste epoche remote quanto il passato avrebbe potuto aiutare dei giovani storici a capire il presente.4 Come il suo predecessore austriaco, anche Gibbons si perdeva in una lunga disquisizione sul termine timur, ricordando che era stato comune a molti comandanti “tatari”, che pur primitivi avevano anche altre qualità oltre la forza, ma nessuno di loro era mai riuscito a lasciare un segno nella storia. Per altro, aggiungeva, il grande Timur aveva il braccio e la gamba destri parzialmente paralizzati.5 Seguiva la solita trafila genealogica e il resto della descrizione delle imprese anatoliche di Timur. Gibbons correggeva e introduceva dati, ma l’irrinunciabile desiderio di dare un commento moraleggiante sul concetto di barbarie gli impediva in fondo di cogliere a pieno quell’episodio. Restava comunque ancora agli inizi del XX secolo una reminiscenza della visione umanistico rinascimentale, pur mascherata in termini di una nuova interpretazione “scientifica” degli eventi. Ci torneremo. L’Alexandrescu-Dersca cambiava decisamente registro rispetto a questo modo di percepire le cose, anche se l’evoluzione introdotta da Hammer era stata notevole rispetto al passato. Correttamente la studiosa rumena elencava i protagonisti delle vicende del tempo e anticipava i temi principali di un grande affresco storiografico: Francia e Inghilterra alle prese con la Guerra dei cent’anni; i Paleologhi ridotti al controllo della città di Costantinopoli, con qualche legame col despotato di Mistra e poco altro, costretti a sottostare a un tragico assedio da parte di Bāyazīd; i rischi per i Balcani e per l’Europa intera che la crescita ottomana generava; gli intrighi del Gran visir ‘Alī Pāşā che alimentava le fazioni contrapposte nei giochi dinastici bizantini.6 Insomma, produceva sulle orme del ‘venerato’ maestro Iorga un vero e proprio affresco storiografico che rimane uno degli spunti principali per lo studio della campagna d’Anatolia sino ai giorni nostri.7 2. Le peregrinazioni di Manuele II in Europa Molte cose erano cambiate da quando Bāyazīd aveva costretto Manuele II a un’alleanza forzata e a partecipare alla battaglia di Çorumlu contro Burhān al-Dīn di Sivas (1391).8 Ora era ridotto a governare su un regno 293

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dissestato, subendo l’assedio dello stesso Bāyazīd. I cronachisti ottomani e alcuni storici persiani lo chiamano talvolta malik (‘re’, ‘regolo locale’), e piú spesso tekfur (takvūr, ‘coronato’), secondo una titolatura d’origine armena (takavor) invalsa in Anatolia, mentre attribuivano a Bāyazīd il titolo di qayṣar-i Rūm (‘cesare dei Romani’, ‘imperatore’) con l’idea precisa di un trasferimento di poteri già acquisito prima ancora di aver preso la capitale dell’Impero d’Oriente.9 In questo clima prossimo alla rassegnazione per il fato ineluttabile di Bisanzio, Bāyazīd si era progressivamente avvicinato a Costantinopoli, fino a intraprendere l’accerchiamento della città già nel 1394, cominciando a costruire un castello sulle sponde asiatiche del Bosforo nel 1396 (l’Anadolu hisarı) dal quale poteva coordinare l’assedio con un blocco navale.10 I suoi intrighi lo portarono a riconoscere come sovrano Giovanni VII Paleologo a discapito dello zio Manuele II, cosa che otteneva anche un certo consenso da parte di quanti non apprezzavano le eccessive delicatezze di quest’ultimo. L’ipotesi di una volontà di resa di Giovanni VII è stata spesso delineata soprattutto per un momento successivo, quando Manuele II gli lasciò la reggenza di Costantinopoli alla fine del 1399. Di questo almeno verrà sospettato dai Veneziani. Come vedremo, tuttavia, Manuele si troverà di fronte a una scelta obbligata col genuino intento di salvare la città andando a chiedere aiuto in Europa.11 Già dopo la costruzione dell’Anadolu hisarı, la città si era ritrovata a fare i conti con numerose privazioni ed erano iniziati a mancare anche i generi alimentari, con un aumento spropositato dei prezzi. La peste dilagava. Diversi individui abbandonavano la città e passavano dalla parte degli Ottomani che offrivano loro ospitalità.12 Ciò contribuí a un considerevole decremento del numero degli abitanti e a un restringimento anche all’interno delle mura cittadine delle aree abitate.13 Manuele si adoperò a spingere perché Sigismondo di Ungheria intervenisse con una crociata, e vuoi per suoi interessi, vuoi per un autentico desiderio di sostenere l’imperatore bizantino, Sigismondo finí con l’intervenire nel 1396 a Nicopoli, ma con gli esiti tragici di cui abbiamo già parlato.14 Andrà anche notato che la politica estera di Bāyazīd aveva messo quest’ultimo in contatto con alcuni rivali di Sigismondo per il possesso della corona d’Ungheria. È certamente il caso di Ladislao D’Angiò Durazzo, che a Napoli aveva persino progettato di sposare la figlia del sultano. Ladislao, dal canto suo, favorí in ogni modo il fallimento dell’impresa di Sigismondo a Nicopoli, rivelandosi uno dei peggiori nemici della coalizione anti-ottomana.15 294

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Anche se il fallimento di un primo attacco alle mura di Costantinopoli nel 1397, grazie agli sforzi di Manuele II, terminava con un allentamento dell’assedio, risultò fondamentale per l’imperatore bizantino rivolgersi all’Occidente, cosa che portò all’invio di delegazioni bizantine dal Papa, dai re di Francia, di Inghilterra, d’Aragona, nonché dal duca di Mosca.16 Una di queste ambascerie era guidata dal domenicano Sandron, che era stato inviato da Timur stesso a Costantinopoli: costui aveva forse fatto parte del contingente francese a Nicopoli e rimase poi per vari anni alla corte di Timur.17 Se Sigismondo non ne volle piú saperne di crociate, altri sembrarono piú ricettivi, come Bonifacio IX che, già sostenitore di Ladislao Durazzo, finí nel marzo del 1398 col cedere alle sollecitazioni di Ilario Doria per il soccorso a Costantinopoli assediata. Bonifacio IX tentò di raccogliere denaro e di promuovere lo spirito della crociata persino tra i Norvegesi, i Danesi e i Tedeschi, ma l’accusa di simonia rivolta a questo papa non scaldava molto i cuori. E anche la volontà di imporre una risoluzione dello scisma, per liberarsi degli antipapi residenti ad Avignone, costituiva piú un ostacolo che un vantaggio in una guerra contro i Turchi. I conflitti intestini dei regni europei, e in particolare nelle politiche italiane, fecero sí che gli inviti del papa incontrassero un riscontro ridotto.18 Solo la Francia e il maresciallo Boucicaut, che abbiamo visto esser diventato governatore di Genova, giocarono la propria parte sconfiggendo la flotta di Bāyazīd che teneva sotto scacco Costantinopoli alla fine del 1399. Quando arrivò al cospetto di Manuele II, Boucicaut non incontrò grandi difficoltà a convincerlo a recarsi con lui in Europa. Donald Nicol afferma che potrebbe essere ingeneroso pensare che Manuele abbia colto l’occasione per abbandonare la città che era divenuta per lui una prigione.19 Resta il fatto che non esitò a consegnare Costantinopoli al nipote Giovanni VII, che gli era stato in precedenza spesso ostile e aveva avuto legami ambigui con Bāyazīd, anche se questa cessione della reggenza della città avvenne anche grazie alla mediazione di Boucicaut.20 Accompagnato da Boucicaut forse sino in Morea,21 Manuele II raggiunse Venezia, dove ebbe un lungo confronto col Senato di cui non si conoscono gli esatti contenuti, di lí attraversò il Veneto e la Lombardia per arrivare a Milano, dove era atteso dal Duca Gian Galeazzo Visconti e da un suo vecchio amico, l’erudito umanista Manuele Crisolora. Al Duca di Milano Manuele donò una preziosa icona realizzata a Salonicco, ma attribuita ancora una volta alla mano dell’evangelista Luca (la c.d. « Icona di 295

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Frisinga », oggi nel Museo diocesano di questa città), che riportava ai lati dell’aureola l’epigrafe indicante « la speranza dei disperati » (Ἡ Ἐλπίς τῶν Ἀπελπισμένων), come a voler enfatizzare la propria richiesta d’aiuto.22 Gian Galeazzo Visconti fu forse piú un conforto per Manuele che un aiuto sostanziale, anche se probabilmente Manuele si rivolse a lui come potente e rispettabile uomo di potere e protettore della cultura. Improbabile è una deviazione che Manuele avrebbe compiuto a Roma per visitare Bonifacio IX, il quale comunque sembrava promuovere anche lui lo spirito della crociata.23 Nel giugno del 1400 finalmente Manuele II raggiunse Parigi, dove fu accolto con tutti gli onori da Carlo VI, un sovrano instabile di mente che tuttavia si sentí molto orgoglioso di ricevere questo ospite. In Francia, dove restò per piú di un anno, Manuele cercò di mettere in piedi una coalizione internazionale che riunisse i re di Portogallo e Aragona, cosí come gli antipapi di Avignone, ma soprattutto condivise molto del suo tempo col maresciallo Boucicaut che aveva ricevuto da Carlo VI l’ingiunzione di comandare un contingente di mille e duecento uomini da inviare a Costantinopoli.24 Ma si trattò di promesse che non vennero mantenute. Un viaggio in Inghilterra alla corte di Enrico IV si rivelò ancora piú inutile del resto delle sue missioni diplomatiche. Solo il conflitto tra Timur e Bāyazīd e la cattura di quest’ultimo avrebbero cambiato radicalmente le cose nel luglio del 1402. Non è chiaro quanto Timur fosse argomento di questi scambi politico-diplomatici: forse ancora in questa fase solo Boucicaut pensava seriamente a quell’alleanza, lo stesso che aveva intavolato relazioni già da alcuni anni con Timur e che lo ricorderà poi nel suo Livre des fais, come « flagello di Dio » ma anche modello per i cavalieri francesi.25 Il dono dell’Icona della Vergine a Giangaleazzo Visconti suona come un contrappasso curioso rispetto a quanto era avvenuto a Mosca, dove l’Icona di Vladimir avrebbe salvato la cittadinanza da Timur.26 Andrà per altro notato che numerose lamentazioni bizantine riporteranno il tema del miracolo della Madonna che avrebbe salvato Costantinopoli, pur provocando altrove carneficine di cristiani. In una di esse Bāyazīd è considerato un discendente di Agar e pronuncia un discorso in cui dichiara che dopo aver preso Costantinopoli ne distruggerà le mura e trasformerà le chiese in moschee, inclusa Santa Sofia, infine massacrerà l’intera popolazione. Ma la stessa lamentazione narra come, dopo che Dio aveva mandato Temyris a sconfiggere Bāyazīd, Temyris si sarebbe dedicato a compiere massacri presumibilmente in Anatolia, principalmente di monaci greci 296

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che avrebbe impalato e bruciato, o sarebbero stati costretti a ingoiare carboni ardenti e olio bollente. La truculenta descrizione riporta anche delle violenze sulle monache, sui vecchi e sulle donne gravide.27 Un altro testo attribuito a Demetrio Crisolora, redatto tra il 1403 e il 1411, esalta il ruolo della Vergine nella sconfitta di Bāyazīd e il gran giubilo che ne seguí a Costantinopoli,28 mentre in un’altra operetta leggermente piú tarda lo scita Timur dichiara ai Bizantini che si sarebbe comportato meglio dell’agareno Bāyazīd. Sempre grazie all’aiuto divino, anche Timur sarebbe morto e dunque finito in pasto ai vermi, non riuscendo cosí a raggiungere il resto del mondo per devastarlo.29 In realtà si potrebbe affermare che uno dei migliori successi di Manuele II fu proprio quello di impedire a Timur di dedicarsi a Costantinopoli. In tal senso molto efficaci devono essere state le ambascerie di Sandron e soprattutto quella riportata dal mercante genovese Giacomo de Orado, che descrive due ambasciatori timuridi a Pera il 19 agosto del 1401, accompagnati da « Frate Francesco » in una nave genovese. Scopo della missione distogliere i Greci dallo stringere legami con Bāyazīd.30 Lo stesso Clavijo sembra confermare questa ambasceria, aggiungendo che i Genovesi avevano offerto i propri servigi al Grande Emiro.31 3. I Tatari neri Ma come percepivano il conflitto Timur e il suo esercito? E soprattutto come vedevano i nemici? Jürgen Paul, uno dei massimi studiosi del nomadismo turco-mongolo, ha cercato di individuare un qualche tipo di forma lessicale distintiva per definire i nomadi, arrivando alla conclusione che pochi e rari sono i termini specifici per indicare popolazioni non sedentarie (ṣaḥrā-nishīn, ‘abitante del deserto’; ḥasham, ‘tribú attendata’), e che ancor meno esplicativi sembrano termini quali Turcomanni, Tatari, Turchi e Mongoli nella definizione di una qualche entità nomadica nelle fonti islamiche che abbia un carattere distintivo. Mai questo risulta avere connotazioni negative.32 Si potrà notare che gli Ottomani rifiutavano di autodefinirsi Turcomanni, preferendo usare il termine turk quasi a volersi distinguere dalle proprie oramai remote origini centroasiatiche. È il caso dello storico ’Āşıḳpāşāzāde, che definisce « Turcomanni » i primi ottomani, per poi passare a « Turchi » per i successori di ‘Osmān.33 Lo stesso autore non esiterà a fare largo uso del termine « Turcomanni » per gli Aq Qoyunlu e i 297

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Qara Qoyunlu.34 ‘Azīz Astarābādī, dal canto suo, sembra molto attento a queste definizioni e permette di distinguere « la gente piú civilizzata » dai Mongoli e dai Turcomanni: questi ultimi sarebbero i protagonisti di atti di sobillazione e di razzia; ‘Azīz precisa che per lui è come se degli ignoranti sottomettessero delle persone istruite e i servi prendessero il sopravvento sui loro signori.35 Dunque, piú che una distinzione antropologica, quella tra Turcomanni e Turchi era una distinzione sociologica, che permetteva di stabilire il livello di civiltà acquisita, contro una specie di innatismo barbarico. Vi era dietro questo aspetto anche una storia di schiavitú antiche per le quali i gruppi turcomanni d’Asia centrale avevano svolto il ruolo di schiavi militari/pretoriani/mamelucchi (mamlūk/ghulām) al servizio degli Abbasidi, dei Samanidi e dei Ghaznavidi, finendo col produrre dinastie servili, in India come in Egitto o in Afghanistan. Almeno questa era la percezione corrente e, come abbiamo già visto, Timur non esitava a dare del barcaiolo turcomanno a Bāyazīd, ricordando che i Turcomanni erano corti di intelletto (hast az khirad Turkmān bī-naṣīb).36 Sono dunque le basse origini a fare la differenza, ed è evidente che su questo tasto Timur batteva sempre piú spesso mentre avanzava in Anatolia, ma analoghi argomenti venivano usati da Bāyazīd, come lo erano stati da Burhān al-Dīn di Sivas, che non a caso aveva introdotto anche i concetti di muruwwa e futuwwa, come distintivi del grado di civiltà.37 Gli argomenti di Timur erano ovviamente pretestuosi, tuttavia, avanzando in Anatolia, li amplificava un po’ come in certe campagne elettorali moderne in cui “i toni si alzano”. Gli altri non erano da meno e rispolveravano il repertorio già usato per le grandi invasioni mongole, chiamando i Timuridi ‘ifrīt, ovvero ‘demoni’. C’era però anche un’eccezione notevole che contraddice in parte quanto detto. Nel suo avanzare dal Qarabagh verso l’Anatolia, Timur fece un grande sforzo per reclutare quelli che Ibn ‘Arabshāh chiamava « Tatari neri » (Qara Tatar),38 mentre Schiltberger e Clavijo li definivano « Tatari bianchi » (weißen Tataren, Tartaros Blancos).39 Ibn ‘Arabshāh intitola il capitolo dedicato a loro in modo piuttosto colorito: Cosa fece e disse questo astuto ingannatore (Timur) per accattivarsi le truppe tatare al servizio di Ibn ‘Uthmān (Bāyazīd). Poi prosegue sullo stesso registro: Timur temporeggiò nel prendere decisioni, poi accese l’acciarino delle sue idee e diede fuoco al proprio intento di separare i Tatari da Ibn ‘Uthmān. Per lo scopo scrisse ai loro signori, agli emiri, ai comandanti e al loro emiro in capo che si chia-

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xvi · la guerra ottomana mava al-Fāḍil [fāżil, ‘l’Eccellente’], che era davvero eccellente nelle sue virtú, ma non era pratico dei tempi e non era a conoscenza degli imbrogli piú abbietti. Scrisse perciò Timur: « La vostra nobiltà è anche la mia; la vostra razza è legata alla mia; i nostri paesi sono i vostri paesi; i nostri antenati sono comuni ai vostri; siamo rami dello stesso albero; I nostri padri sin dal piú remoto passato e dai tempi antichi sono cresciuti nello stesso nido, occupandone poi numerosi altri. Voi siete realmente germogli del mio stesso stelo, un ramo dei miei rami; un membro tra le mie membra; mia essenza e intimi miei. Voi siete per me abiti personali, gli altri son solo soprabiti esteriori. Gli altri possono aver acquisito rango di re ma voi lo possedete sin dagli inizi, i vostri antenati piú remoti erano sovrani del regno del Turan. Alcuni tra loro furono trasferiti a malincuore in questa regione che finirono con l’abitare. È per questa ragione che hanno l’attitudine al governo e il senso del comando, nonché il vigore e la forza che mantengono con zelo finché non passano a miglior vita per la misericordia dell’Altissimo. Il vostro ultimo re fu il defunto Aratna [Eretna] che aveva il piú grande tra i regni di Rūm ed era al vostro servizio. Mai – sia lode a Dio! – la vostra spina dorsale fu spezzata né vi riduceste di numero. Perché dunque vi siete piegati a questa abiezione e vi siete fatti sottomettere? Come foste stregati? E perché da piú grandi dei grandi che eravate siete diventati gli infimi tra i piccoli? Non risiedete nella dimora del disonore e della perdizione – la terra di Dio è estesa! –: perché siete schiavi di un uomo che è figlio di schiavi messi in libertà da ‘Alī il selgiuchide?40 Non mi è dato sapere il perché di tutto ciò! Né da cosa nasce questa fratellanza e alleanza, priva di dissensi e disordini, ma sono certo, in ogni caso, di essere il piú forte e il piú potente per regolare i vostri affari e badare ai vostri interessi […] ».41

Ibn ‘Arabshāh inserisce a questo punto l’invito di Timur a tradire Bāyazīd nel momento della battaglia, passando con il suo esercito, e aggiunge l’autore arabo che il rovello si insinuò nelle menti dei Tatari come Satana e cominciò a far vedere loro le cose in un modo diverso dal passato. Come vedremo la strategia di Timur avrà un peso notevole nella battaglia successiva. Il testo offre molti spunti interessanti, a cominciare da quel riferimento ai Selgiuchidi che avrebbero assegnato agli Ottomani le prime concessioni territoriali ai membri della famiglia. Questo dato è oggetto di interesse da parte delle fonti timuridi: lo storico timuride tardo Khwāndamīr (inizi sec. XVI) narra che al tempo di ‘Alā’ al-Dīn Key Ḳubād III (ovvero ‘Alī il selgiuchide, nella versione di Ibn ‘Arabshāh), che fu l’ultimo effettivo sovrano selgiuchide di Rūm, sarebbero stati deportati dalle steppe dei Qipchaq numerosi elementi, che valutati in termini di diecimila famiglie (khānavār) transitarono da Caffa per arrivare in territorio anatolico.42 299

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Ancor piú interessante forse è l’indicazione strumentale di Eretna come sovrano dei Tatari: istruttive sono le parole di Sharaf al-Dīn, poi piú volte ripreso da altri, che descrivono la strategia di Timur, l’autore definisce i Qara Tatar come un popolo di origini turche che durante il regno del khān mongolo Möngke furono inviati in Persia da Hülagü. Facevano parte del suo esercito, ma quando Hülagü si stabilí a Tabriz, i Qara Tatar vennero rimossi dalle frontiere siro-anatoliche a causa della loro debolezza. Dopo l’ultimo Ilkhanide, Abū Sa‘īd, iniziarono a ribellarsi e finirono col costituire 52 diversi clan (firqa), ognuno composto da un centinaio di uomini che formavano il proprio yurt (‘accampamento’). Il fatto che avessero servito gli Eretna si deduce dal fatto che, una volta morto Burhān al-Dīn, i Tatari neri passarono al servizio di Bāyazīd. Spesso non pagavano il tributo e divennero una vera e propria potenza. Quando Timur fu a conoscenza dei loro spostamenti forzati, gli attribuí dei territori nell’ulus dei Jete, ovvero il Moghulistan, garantí loro la sicurezza e li incluse tra coloro che erano ammessi nei suoi accampamenti.43 Le fonti turche si soffermano anche sul loro rapporto con Eretna sottolineando il doppio rapporto con Mongoli e Turchi.44 I nomi degli interlocutori di Timur, invece, secondo Sharaf al-Dīn, sono diversi rispetto al misterioso al-Fāḍil: qui ritroviamo due personaggi, definiti akhī (‘confratelli’), utilizzando un titolo del tutto anatolico, che si chiamano Tabarruk e Muruvvat.45 Piú tardi, come vedremo, saranno le fonti ottomane a descrivere il loro tradimento di Bāyazīd al momento della battaglia. 4. Verso Ankara Dopo aver conquistato la fortezza di Kemah Timur raggiunse la piana di Sivas, dove si occupò del suo esercito e di alcune iniziative diplomatiche (vd. cartina n. 6). Timur si dedicò in particolare al morale delle sue truppe che si schierarono innanzi a lui e dichiararono la propria fedeltà insieme alla ferma volontà di rovesciare il potere ottomano, saccheggiando le terre d’Anatolia.46 Bāyazīd, venuto a conoscenza dei movimenti del suo rivale, si affrettò a levare l’assedio da Costantinopoli e a dirigersi verso Bursa. Se­ condo la Alexandrescu-Dersca, Bāyazīd temeva un ribaltamento di fronte da parte di Genovesi e Veneziani con i quali aveva intavolato trattative sin dal 1401. Una loro azione congiunta sarebbe stata letale per lui e avrebbe impedito che la parte europea del suo esercito intervenisse in territorio 300

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anatolico. Per questo motivo delle galere ottomane erano rimaste ad Altoluogo (Ayasoluk) e Palatia (Balat), agli ordini di un rinnegato di Chio, tal Atessy.47 In seguito, Bāyazīd si prodigò a riunire gli eserciti che si trovavano nelle regioni occidentali dell’Anatolia, a Nicea (Iznik), a Nicomedia (Izmit) e ancora a Bursa. Lo raggiunsero le truppe di Aydın e Saruhan, quelle provenienti dal beilikato di Karası, che passarono agli ordini del figlio Süleymān, e ancora quelle di Hamid e Tekke alle dipendenze del figlio Muṣṭafā. Le truppe di Amasya furono invece affidate al principe Me­ ḥemmed. L’intera armata fu poi affiancata dai Tatari di cui s’è parlato.48 Bāyazīd richiamò anche le truppe di Rumelia che assediavano Costantinopoli e quelle insediate a Gallipoli, con loro giunsero anche i Serbi che costituivano la guardia del sultano e l’elemento d’élite dell’esercito. Tutti avrebbero dovuto dirigersi verso Angora (in pers. Anguriya, ovvero quella che oggi si chiama Ankara), dove due armate principali si sarebbero riunite per predisporsi allo scontro.49 Durante questi preparativi Timur fu informato del fatto che Bāyazīd si spostava verso la regione ricca di foreste di Tokat (nelle fonti persiane Tūqāt).50 Qui sarebbe stato molto difficile scontrarsi con lui e da Ankara, dove oramai si trovava, Bāyazīd ordinò che tutte le strade che portavano a Tokat venissero presidiate e rese inaccessibili.51 Comincia qui una rincorsa tra i due contendenti che Beltramo Mignanelli ha definito come il « rincorrersi di un cane e di un gatto », con spostamenti tattici che durarono per due mesi interi.52 Una delle questioni piú rilevanti era quella del reperimento dell’acqua, nonché dell’approvvigionamento di cibo. La stagione si avviava a essere torrida e questo aspetto si rivelò di primaria importanza. Bāyazīd abbandonò Ankara, lasciandoci un piccolo contingente armato, per bloccare Timur sulla via di Tokat. Timur, tuttavia, conosceva le insidie di una guerra con piccoli scontri diffusi e dopo essersi informato dai suoi esploratori, evitò di recarsi in una regione dove avrebbe subito rischi anche peggiori, visto che Bāyazīd controllava i passi dello Yıldız Dağ, tra Sivas e Tokat, e l’Ak Dağ nella stessa regione,53 prendendo invece la via meridionale della Cappadocia e raggiungendo Kayseri (l’antica Cesarea), dove arrivò a tappe forzate in sei giorni. La città fu presa senza sforzi e siccome era la stagione dei raccolti, Timur ne approfittò per rifornirsi di frumento, grano e legumi. Da qui inviò in avanscoperta ad Ankara lo Shaykh Nūr al-Dīn e il principe Abū Bakr, figlio di Mīrānshāh, dietro i quali partí anche lui. Seguendo un fiume che le fonti 301

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persiane chiamano Yolghun Su (presumibilmente il Kızılırmak, antico Halys), l’esercito timuride andò a settentrione. Dopo quattro giorni, aveva raggiunto Kırşehir (l’antica Moukissos, o Giustinianopoli).54 I due eserciti si avvicinavano: un’avanguardia timuride guidata dall’emiro Malikshāh rischiò di essere annientata da un reparto leggero ottomano. Tornati a Kırşehir da Timur, lo avvisarono che l’esercito di Bāyazīd si stava avvicinando pericolosamente e si tenne un consiglio in cui vennero definite due diverse posizioni, tra le quali bisognava scegliere: [Timur disse]: In questa situazione ci sono due punti vista: secondo il primo dovremmo fermarci qui, per aspettare gli avversari e far riposare uomini e cavalcature dalle fatiche sostenute. L’altra posizione è di penetrare in territorio nemico, di saccheggiarlo e di inviare spedizioni in ogni direzione, affinché lui [Bāyazīd] sia costretto a inseguirci e il suo esercito che è formato da molti fanti venga distrutto.55

Definito questo quadro fu scelta la seconda opzione, quella decisamente piú complessa e insidiosa da attuare. Sulṭān Ḥusayn rimase a presidiare Kırşehir, mentre altri procedevano a un sistematico saccheggio della regione, seguiti dalla fanteria e dal genio che operarono sulla strada d’accesso alla regione di Ankara, scavando dei pozzi per avere sufficienti risorse idriche. Catturarono anche due fanti nemici, a uno fu tagliata la testa, l’altro fu presumibilmente costretto a rivelare le posizioni ottomane. Dopo tre giorni di marcia e aver attraversato il Kızılırmak, Timur arrivò nella periferia di Ankara, sul lato meridionale della città, e si accampò nel sito del fiume Dere (lett. ‘fiume’, oggi Demirli Bahçe).56 Bāyazīd, dal canto suo, si avvicinò rapidamente alla città per cercare a sua volta di appropriarsene. Il suo intento era quello di spezzare in due le linee timuridi prendendo quell’esercito tra due fuochi. Ma la cosa non funzionò anche perché nel consiglio ottomano emersero alcuni dissensi: il ministro ‘Alī Pāşā sconsigliava di attaccare, cosciente della superiorità avversaria, il ministro Fīrūzbeg, di parere contrario, avrebbe preferito lo scontro diretto e immediato. Come afferma la Alexandrescu-Dersca, Bāyazīd non adottò nessuna delle due scelte.57 Il suo esercito era stremato, Pasqualino Veniero e lo storico greco Ducas riportano della morte di molti soldati ottomani e dei loro cavalli.58 Cosí, finí col disporsi non distante da Timur rimandando lo scontro al giorno successivo, con un minimo di riposo per i suoi. Timur, dal canto suo, aveva tolto l’assedio ad Ankara e si era disposto nella piana del fiume Çibuk (oggi Çubuk Ova) fortificando le proprie posizioni con un fossato protetto dagli scudi e delle palizzate59. Timur fu particolarmen302

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te abile nelle scelte logistiche, a individuare fonti di approvvigionamento, vuoi di cibo, vuoi d’acqua, privilegiando i vantaggi che in una simile circostanza avrebbe giocato un alto morale da parte dei suoi. 5. La composizione degli eserciti La disposizione dei due eserciti seguí il rituale consueto. Questa volta però la posta in gioco era altissima, non si trattava piú di avventurose battaglie nella steppa, né di scontri con eserciti esotici, come era avvenuto in India. Ora lo scontro era tra le due principali potenze militari dell’Islam del tempo, che avevano entrambe conseguito successi fuori dall’ordinario, ed entrambe ambivano al ruolo di campione assoluto della fede. Perdere significava smentire tutta la propaganda religiosa precedente e per Timur, soprattutto, vedere smentito quel “sostegno divino” che sbandierava e faceva sbandierare ai suoi panegiristi. Molti attendevano la battaglia, nell’Europa cristiana come nel mondo musulmano, e molti desideravano la distruzione degli Ottomani, già forse coscienti del fatto che pur drammatica, l’invasione timuride sarebbe stata effimera e sarebbe terminata con il ritorno in patria del signore centroasiatico. Ma gli Ottomani non erano nemici da prendere alla leggera, la disciplina del loro esercito, cosí come la novità delle tattiche impiegate e la presenza dei Serbi, costituivano un’insidia notevole. Gli eserciti erano abbastanza diversi e a posteriori andrà detto che Bāyazīd partiva svantaggiato nei numeri e per il tipo di elementi reclutati: se Timur contava su un insieme omogeneo, Bāyazīd doveva fare affidamento, oltre che sulle sue truppe, su quelle sottratte ai beylikati di piú incerta fedeltà, e lo stesso valeva per i numerosi Tatari neri ai quali attribuiva particolare rilievo. I numeri prodotti dagli studiosi sono controversi, prenderemo in esame quelli piú realistici: stando alla cronaca ottomana di ’Orūç Beğ, l’esercito di Timur sarebbe stato composto di 200.000 uomini, una cifra che corrisponde grossomodo all’esercito che aveva combattuto in Siria. Lo stesso autore riferisce che nell’esercito di Bāyazīd c’erano 20.000 ‘azab (‘cavalieri d’élite’), 5000 giannizzeri e altri 100.000 soldati d’altra origine. I Tatari erano 40.000.60 Schiltberger fa riferimento a 160.000 uomini nell’esercito di Timur e a 140.000 in quello di Bāyazīd.61 Altre stime sono decisamente fantastiche e spesso squilibrate ed è lecito pensare che il conflitto vedesse opporsi eserciti grosso modo della stessa entità.62 Nella composizione dell’esercito timuride, alcuni eroi di imprese re303

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centi, come la campagna indiana o la battaglia di Aleppo, erano disposti coi propri tuman ed eserciti in posizioni di prestigio rispetto al qul (‘centro’), dove torreggiava Timur.63 Innanzi a lui si trovavano 32 elefanti che erano stati catturati durante la campagna indiana.64 La “magnanimità” di Timur prevedeva la riabilitazione di tutti i membri ribelli della famiglia reale. Al centro dell’avanguardia e davanti a lui (nel harāval-i qul) venne collocato l’erede oramai designato al trono, Muḥammad Sulṭān, dietro al quale si schieravano due principi di vaglia, come Pīr Muḥammad e Iskandar, ambedue figli di ‘Umar Shaykh. Altri principi erano sulle ali destra e sinistra dell’avanguardia, come Sulṭān Ḥusayn a destra e Abū Bakr a sinistra. Quanto alle ali e ai fianchi destro e sinistro, Timur era protetto dagli eserciti maggiori dei suoi figli: Shāhrukh comandava il javāngar (‘fianco sinistro’), Mīrānshāh il barāngar (‘fianco destro’). Se le due ali erano composte da personaggi solo apparentemente minori, esse includevano però il khān Maḥmūd b. Suyurghatmish. Nei fianchi si potevano individuare numerosi membri della nobiltà timuride e alcuni vassalli; è il caso, sul fianco destro, di Muṭahhartan e del signore dello Shirvan Ibrāhīm. Le ali accoglievano altri sovrani vassalli come lo Shāhinshāh del Sistan. Per il ruolo svolto in precedenza Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu aveva una posizione di rilievo insieme al fratello Pīr ‘Alī nell’avanguardia di destra. Curiosamente non risultano menzionati nelle fonti persiane i signori dei beylikati, forse perché sprovvisti dei propri eserciti. La loro presenza è variamente attestata nelle fonti ottomane, che segnalano Ya‘qūb Beg II, signore di Germiyan, nell’esercito timuride e altri signori delle vilāyat (‘province’), ovvero dei beylikati. Probabilmente la presenza di un personaggio denominato Qaraman, attestato invece dalle fonti timuridi, fa pensare a un rappresentante di quel beylikato, che era il piú rispettato da Timur; come vedremo, gli altri saranno invece sottoposti a dure umiliazioni dopo la battaglia.65 La presenza invece nell’esercito timuride di Ḥājjī Bābāyī Savjī, evocata da Beltramo Mignanelli, probabilmente un cugino di Bāyazīd, artefice di una rivolta contro Murad I, poi accecato per questa ragione, era stata voluta da Timur per incoraggiare la defezione di elementi militari ottomani sul fronte opposto.66 Quanto all’esercito ottomano, si caratterizzava anch’esso per un centro nel quale era disposto Bāyazīd. Privo apparentemente di un’avanguardia, l’esercito ottomano aveva sul fianco destro l’armata di Rumelia, guidata dal principe Süleymān Çelebī, che includeva diversi sanjaḳ (‘sangiacchi’), ovvero i nuovi governatori provinciali a capo delle truppe dei beylikati 304

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sottomessi, come quelle di Aydın, Saruhan, Karası. Affiancati all’ala sinistra stavano i Qara Tatar (i Tatari neri) che vengono variamente stimati tra 18.000 e 40.000. Dietro il sultano erano disposti tre altri principi, Mūsā Çelebī, ‘İsā Çelebī e Muṣṭafā Çelebī, nonché le armate dei sanjaḳ di Tekke e di Hamid. Sul fianco destro, invece, l’armata anatolica era guidata da Stefano Lazarević, signore di Serbia, che era a capo di un poderoso esercito nel quale, oltre a numerosi membri della sua famiglia, si ritrovavano anche i componenti della famiglia Branković, Giorgio e Gregorio, nonché degli albanesi. Una poderosa retroguardia era guidata dal principe Meḥemmed Çelebī e includeva numerosi membri dell’aristocrazia ottomana.67 Molto ha fatto discutere l’ipotesi di una partecipazione alla battaglia del principe valacco Mircea il Grande. L’identificazione della presenza di Valacchi nell’esercito ottomano è tuttavia probabilmente il risultato di un’elucubrazione posteriore sulle fonti ottomane.68 Composizione dell’esercito timuride nella battaglia di Ankara Avanguardia di Sinistra

Avanguardia centrale (harāval-e qul)

Avanguardia di – Porta-ṭūgh (comandante) Muḥammad destra (qanbal [ong qol]) Sulṭān b. Jahāngīr b. Tīmūr (qanbal [sol qol]) – Pīr Muḥammad b. ‘Umar Shaykh – Sulṭān Ḥusayn b. – Abū Bakr b. Aka Begī bt. Timur, – Iskandar b. ‘Umar Shaykh Mīrānshāh – Shams al-Dīn ‘Abbās Tuvāchī Bahādur – Chaku Jahānšāh – Shāh Malik – ‘Alī Sulṭān, – Qara ‘Uthmān – Ilyās Khwāja Tuvāchī Turkmān (Aq – Mūsā Tūy Bughā – Khwāja Shaykh ‘Alī Bahādur Qoyunlu) Rīgmāl – Tūkel Barlas Centro – Pīr ‘Alī Suldūz (qul ) – Timur (Comandante in capo) [40 qoshun] Ala sinistra del centro (dast-e čap) – Jalāl al-Islām – Shāhrukh b. – Tūkel b. Hindūyī Timur Qarqarā – Khalīl Sulṭān b. Mīrānshāh – Khwāja ‘Alī – Sulaymānshāh b. – Maḥmūd b. Suyurġatmısh Dāvud Dughlat – Yādgār Andkhūyī – Shāh-Valī Bīsūt Fianco sinistro (javānġār; maysara)

Ala destra del centro (dast-e rāst)

Fianco destro (barānġār; maymana)

– Tashtimur [Bāshtemūr oghlān] – Aḥmad b. ‘Umar Shaykh – Shāhsuvār [Shāh Suvār – Ṭāptūq

– Mīrānšāh [b. Tīmūr] – Muḥammad Sulṭān – Pīr Muḥammad – Shayḫ Nūraddīn [b. Sarıboghā Jalāyir]

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tamerlano – Rustam b. Tughāy Bughā Barlas – Sevinjek Bahādur – Dawlat-Timur – Shāh Malik Bahādur – Burunduq b. Jahanshāh Barlas – Bastarī b. Ṭā’īfa

– Luqmān Zard Tuvājī [Luqmān b. Tughaytimur] – Jānī-Beg Gurjī – Yādgār Barlās – Tangrī Bīrmish [Āq Qoyunlu?] – Muḥammad Khalīl [Suldūs] Tuvājī – Shaykh Ḥusayn – Mīrak b. Īlchī Khuttalānī – Malik Pāyanda [Pāyanda Sulṭān Barlas] – Sulṭān Barlas – ‘Abd al-Karīm Ḥājjī Sayf al-Dīn [Nukūz] – ‘Ādil Akhtachī – Quṭb al-Dīn Salīm – Jandidāyān (Juneyd) – Jahān Mulk b. Malikat – Tublaq Qawchīn – ‘Abd al-Ṣamad-i Ḥājjī Sayf al-Dīn Nukūz – Pāshā [Pādshāh-i Būrān?] – Pīr Muḥammad Šānkūm – Shaykh Aṣlān b. Kebek Khān yarghūjī – Dawlat Khwāja [b. Murād] Barlas – Ilyās [b.] Kepek Khān Yasa’wurī, – Yūsuf Chūra Barlas – Pīr ‘Alī, Āq Qoyunlu

– Jalāl al-Dīn bavurchī] – Yūsuf Moghul Barlas – Ḥājjī Bābāyī Savjī – Iskandar Hindū Bugha – Yūsuf Abharī – Khwāja ‘Alī b. Khwāja Yūsuf Apardī – Ḥasan Berāt Khwāja – Muḥammad Bahādur Qawchīn – Sarāy Khwāja – Idrīs Qawchīn – Shams al-Dīn alMālighī – Aḥmad, Amīrzā­ da [‘Umar Shayḫ] – Harī Malik Tuvājī – Arghun Malik [Sangharī-Turkmān] – Pīr Muḥammad [b. Fūlād Khazānjī] – Bahā’ al-Dīn [Šāh-e Badakhšānī] – Qarā Aḥmad Aḥmad Beg Āq Qoyunlu?, – Bīk Valī Īlchīkade – Chaqmāq – Dawlat Khwāja Īlčī Būghā [Belkūt] – ‘Abdallāh [muhrdār] – Ṣūfī Khalīl – Muḥammad Tuvājī

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– Burundūq [Bahādur] – ‘Alī Sulṭān [Naymān] – ‘Alī Qawčīn – Mubashshar [Kart] – Muṭahhartan (Ṭahartan) – Ḥājjī ‘Abdullāh ‘Abbās – Shayḫ Ibrāhīm Shirvānī

xvi · la guerra ottomana – ‘Abbās – Seyyid Khwāja Chakana-Barlas – Shaykh ‘Alī Bahādur – ‘Uthmān b. ‘Abbās “Zīrak” Tuvājī) – Iskandar Shaykhī [Māzanderānī] – Shāhshahān-i Sīstānī – Ibrāhīm Qumī – Shāh-Tūrān-i Sīstānī – Shīrāval

– Esen Timur – Sheyḫ Muḥammad b. Eyeku Timur – Qaraman – Sanjar – Ḥusayn [Malik Qawchīn] – Ḥasan – ‘Umar Bēg b. Nīkrūz-e Jawn-e Qorbānī – Jahānshāh [b. Chakū Barlās] – Birdibeg Qawčīn b. Sarıbugh – Aḥmadī – ‘Ajab-Shīr – Maḥmūd – Buhlūl – Zīrak [b.] Chākū [Barlas]

Altri Aḥmad Mīrak Bahādur?

Composizione dell’esercito ottomano Fianco sinistro [qanbal-i] maysara

qul (Y) Centro

Fianco destro [qanbal-i] maymana

– Esercito di Rumelia – Süleymān Çelebī (Comandante in capo) Esercito del Sanjaḳ di Aydın Esercito del Sanjaḳ di Saruhan Esercito del Sanjaḳ di Karesi Lāla Şāhīn Ṣarūjca Pāşā ‘Aynī Beg Evrenos Beg

– Yıldırım Bāyazīd (Comandante in capo) – Mūsā Çelebī – ‘Īsā Çelebī ( – Muṣṭafā Çelebī Esercito del Sanjaḳ di Hamid Esercito del Sanjaḳ di Tekke

– Esercito d’Anatolia – Stefano Lazarević – Tīmūrtāş Pāşā – Fīrūzbeg – Ḥajjī Īl-Beg – Ḳuvvetlū Beg – Ṭoyce Bālābān – Ilyās – Bāzārlū Toghan Forze serbe Vuk Lazarević

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tamerlano Gregorio Branković Giorgio Branković Forze albanesi

Tatari (Tatari neri/Tatari bianchi) Akhī Tabarrok Akhī Morovvat

Retroguardia – Meḥemmed Çelebī Kırışcı armata del sanjaḳ diAmasya – Mālkoç Pāşā – ‘Alī Pāşā – ‘Abd Beg – ‘Īsā Beg – Ḥasan Pāşā – Halīl Murād Pāşā – Ya‘ḳūb Beg – Yūsuf – Īlteriyān – Tengrī Barmīş – Balābān Beg – Dāvūd Bālī – Murād Pāşā – Alagöz Beg – Aḥmad Beg – [pesar-e] Ṭāher – Meḥemmed Beg – Müḳbil – Pāşācūḳ – Beşīr Beg

6. La battaglia del Çubuk Ova La data della battaglia è stata spesso oggetto di diatribe: è assodato che lo scontro avvenne nel mese di luglio. Fu forse il 19 di dhu’l-Ḥijja 804/20 luglio 1402, o piú probabilmente otto giorni dopo, il 27 di dhu’l-Ḥijja 804/28 luglio 1402.69 Quest’ultima data sembrerebbe la piú corretta, trattandosi di un venerdí: Timur avrebbe dato infatti inizio allo scontro dopo la preghiera collettiva. Gli eserciti si schierarono uno di fronte all’altro e i Tatari neri incitati da Muṭahhartan, che lanciò il segnale qualificandosi ambiguamente come « membro del casato eretnide », disertarono le truppe di Bāyazīd e passarono in quelle timuridi.70 Lo stesso fecero in un secondo momento le truppe beylikali, probabilmente anch’esse sollecitate dai loro sovrani che 308

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stavano sul fronte timuride.71 Lo sconcertante tradimento produsse un forte scoraggiamento in Süleymān Çelebī, che vide il fianco sinistro del proprio esercito svuotarsi dei suoi componenti e fu costretto ad arretrare con l’esiguo gruppo di armati che gli erano rimasti.72 È probabile che risalga a questo momento l’attacco di Abū Bakr, insieme a Jahānshāh e Qara ‘Uthmān, al fianco sinistro ottomano comandato da Süleymān Çelebī, che fu bersagliato da una pioggia di frecce per essere poi ingaggiato in un combattimento impari dal quale si sottrasse solo con l’abbandono e la fuga verso Bursa.73 Nel frattempo, l’ala sinistra timuride, guidata da Shāhrukh, cominciava un attacco alle truppe serbe che si rivelarono un nemico molto coriaceo. Dotati di armature « fermate da lucchetti », come ci ricordano le fonti timuridi, e particolarmente combattivi, i Serbi difesero inizialmente la posizione con successo, tanto che Shāhrukh impose ai suoi di indietreggiare, cosa che fece avanzare i Serbi, i quali si separarono però dal resto del loro esercito, subito richiamati indietro da Bāyazīd, intimorito dalla frammentazione delle sue forze. Se inizialmente Stefano Lazarević non si curò dell’ordine di Bāyazīd, in un secondo tempo ripiegò e questo portò Shāhrukh a compiere un attacco deciso che causò diverse perdite nelle fila ottomane travolte dalla cavalleria timuride.74 Il valore dei Serbi è stato ribadito da diverse cronache,75 ancora una volta però i personalismi in battaglia favorivano l’esercito timuride. In quest’ultimo, Timur sembra aver frenato inizialmente la smania di combattere di Muḥammad Sulṭān, che poté intervenire solo dopo questo episodio, quando anche Meḥemmed Çelebī era entrato in battaglia per contrastare le due ali dell’avanguardia timuride.76 Muḥammad Sulṭān allora si gettò contro il centro, dove ancora una volta i Serbi ingaggiarono uno scontro violentissimo. I Serbi riuscirono a resistere alle cariche ma ulteriori defezioni nell’esercito ottomano disorientano i soldati che ancora combattevano. I principi Pīr Muḥammad b. ‘Umar Shaykh e Iskandar, cosí come gli altri emiri timuridi, iniziarono a occupare le colline che circondavano il campo di battaglia sbaragliando la fanteria che incontravano. I principi e i comandanti ottomani cominciarono a fuggire, lasciando i loro eserciti allo sbando. Süleymān Çelebī era diretto verso i Dardanelli con l’intenzione di passare gli stretti in direzione della Rumelia.77 Meḥemmed Çelebī fuggí invece in direzione di Amasya, mentre Muṣṭafā Çelebī e Mūsā Çelebī furono catturati in battaglia dai Timuridi. Quanto a ‘İsā Çelebī, fuggí verso la Karamania. Un ulteriore figlio di Bāyazīd Yūsuf 309

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sarebbe fuggito a Costantinopoli, dove si sarebbe convertito al cristianesimo prendendo il nome di Demetrios.78 Non sembra tuttavia che costui abbia partecipato alla battaglia. Cosí come estraneo alla battaglia fu il giovanissimo principe Ḳāsım, consegnato da Süleymān Çelebī come ostaggio insieme alla sorella Faṭma all’Imperatore bizantino, al fine di ottenere sostegno per poter passare gli stretti.79 Torneremo sul destino dei figli di Bāyazīd. Una volta rimasto solo, il sultano non poté piú contare neanche sul sostegno del coraggioso Stefano Lazarević, che oppose una strenua resistenza agli attacchi dei Timuridi ma dovette infine cedere. Quando Timur dispose l’attacco generale, con l’impiego dei due eserciti maggiori di Mīrānshāh e Shāhrukh, Stefano si rivolse a Bāyazīd implorandolo di prendere con lui la fuga, non ricevendo una risposta positiva si dileguò anche lui insieme al contingente di Süleymān verso Bursa.80 Senza poter piú contare sulle ali, oramai completamente disgregate, avendo perso il prezioso ausilio dei Serbi, Bāyazīd fu umiliato dal nā’ib di Bursa, il solaḳ81 Karaca, che gli rinfacciò l’ingratitudine dei figli: « O Bāyazīd khān! Dove sono finiti i tuoi figli di cui ti fidavi tanto? Dove stanno i signori dei sanjaḳ e i tuoi eccelsi ministri? Che bei compagni di strada sono stati! ».82 Ma Bāyazīd, perduta dunque la battaglia, decise una estrema resistenza: con pochi giannizzeri rimastigli e altri elementi fuggitivi riuniti attorno a sé, si piazzò sulla collina di Çatal dove dispose la propria bandiera quasi in gesto di sfida.83 Timur se ne avvide e fece attaccare la collina che resistette in condizioni disperate, senza acqua e in un calore soffocante che provava gli uomini in maniera particolare. In queste condizioni resse fino alla notte quando pensò a una fuga disperata a cavallo ma venne presto raggiunto da Maḥmūd b. Soyurghatmish, il sovrano ciagataico inviato appositamente da Timur per catturare il qayṣar di Rūm, che lo portò innanzi al Grande Emiro con le mani legate.84 7. Bāyazīd prigioniero regio: versione edificante L’arresto di Bāyazīd da parte del khān Maḥmūd e la sua consegna a Timur sono descritti con toni solenni dalle fonti timuridi, che tutte si concentrano su un certo protocollo che Timur avrebbe mantenuto nei confronti del nemico vinto. Shāmī – la fonte piú antica – riserva poco spazio alla battaglia ma si dilunga invece sull’incontro tra il Qayṣar di Rūm e il Signore della Congiunzione Astrale, nonché « sovrano di Iran e Turan ». 310

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L’esordio è il motto coranico naṣr min Allāh wa fatḥ qarīb, « Aiuto possente di Dio e pronto trionfo! » (61 13), che sarebbe giunto alle orecchie di Timur, seguito da altre numerose citazioni del genere.85 Shāmī non fa menzione di Maḥmūd b. Soyurghatmish, il che fa pensare che l’arresto di Bāyazīd da parte di questa figura sia stato aggiunto in seguito per conferire solennità alla scena. Shāmī ricorda che una volta al cospetto di Timur quest’ultimo ordinò subito di slegare il prigioniero e gli perdonò tutti i suoi errori in segno di magnanimità e lo fece sedere accanto a sé, ricordandogli tutte le volte che lo aveva cercato per concepire insieme una guerra contro gli infedeli, ma lui si era rivoltato rifiutandosi di cedere la fortezza di Kemah, di consegnare la famiglia di Muṭahhartan, di cacciare via dalle sue terre Qara Yūsuf, signore dei Qara Qoyunlu, e infine di inviare qualcuno di fiducia per stipulare un accordo di pace. Sempre seguendo questo registro semi-fiabesco, Bāyazīd avrebbe risposto pentito degli errori e dei peccati commessi (gunāh) e Timur poté finalmente concedere il proprio perdono, mostrando al sultano anche il figlio Mūsā Çelebī, che gli veniva portato innanzi in quel momento. Entrambi sarebbero stati omaggiati con delle vesti di gala e sarebbe stato loro concesso uno statuto non di prigionieri ma di “ospiti” nella corte timuride. Shāmī chiude con un riferimento al Profeta Muḥammad e alla sua magnanimità dopo la conquista di Mecca nell’ottavo anno dell’Egira (A.D. 629).86 Questa versione viene riprodotta in seguito con qualche aggiunta. Naṭanzī la riassume con pennellate di colore, nel suo stile piú schietto,87 Ḥāfiẓ-i Abrū riprende integralmente il testo di Shāmī, inserendolo nel suo Zubdat al-tawārikh.88 Come si è verificato in altri casi, è Sharaf al-Dīn che amplia la ricostruzione, introducendo particolari come la presenza di Maḥmūd b. Suyurghatmish che cattura il sultano. Sharaf al-Dīn narra dell’inseguimento dei fuggitivi e della cattura di Bāyazīd dopo che era caduto da cavallo, con il suo successivo invio da Timur che ordinò subito di slegarlo. Pur molto simile a quello Shāmī, il racconto di Sharaf al-Dīn introduce dettagli come la convocazione durante l’udienza di Timur e Bāyazīd non solo del figlio Mūsā, ma anche di Muṣṭafā Çelebī, anche lui catturato in battaglia.89 Questa versione solenne degli eventi fu molto apprezzata dal barone von Hammer-Purgstall, che nella sua Storia dell’Impero osmano la esaltò, indignandosi invece contro quelle interpretazioni denigratorie che vole311

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vano Bāyazīd rinchiuso da Timur in una gabbia oppure usato come sgabello, la sua moglie serba – la principessa Olivera – che serviva nuda del vino al signore centroasiatico e altre amenità. Scriveva von Hammer, dopo aver fatto riferimento a episodi del passato, della cattura di Valeriano da parte di Shāpūr I, di Romano Diogene prigioniero del selgiuchide Alparslan o ancora di Sanjar catturato dai Ghuzz: Oltre di che il gran genio che Timur possedeva come regnante, non avea bisogno di questi fatti offerti dalla storia, della quale egli stesso, gran sovrano per usurpazione, serví poi di un sí famoso esempio. Troppo sapeva egli stimare in sé la real dignità, per non volerla violare col commetter cosa sconcia, se anche fosse contro un nemico. Qualor nella persona di Bajezid, dimenticar si volesse quella del sultano, non riuscirebbe punto incredibile che il tiranno abbia rinserrato il nemico in una gabbia di ferro, quando fece gettare i prigionieri legati insieme come mignatte, vivi nelle loro fosse; quando fece erigere piramidi di teste per trofei d’una strage generale. Ma sapendosi quanto ei possedesse la scienza del real despotismo, che si palesa nello spirito delle sue leggi e delle sue azioni, si potrà comprendere facilmente, che ben poteva far sterminare migliaja di schiavi per servirsi delle loro teste a uso di pietre onde costruire una piramide di trionfo; ma non mai spregievole nella persona del vinto sultano, col rinserrarlo in una gabbia quale animale feroce, la maestà in lui stesso temuta dal mondo conquistato. Che se avesse potuto tanto dimenticare sé stesso, difficilmente avrebbe il politico istoriografo Scerefeddin (come pensa Seadeddino) fatto pompa di questo fallo inconseguente del suo eroe, e lo avrebbe forse saggiamente taciuto. Del resto, la favola della gabbia di ferro, siccome anche quella che Timur montasse sul dorso di Bajezid ogni qualvolta saliva a cavallo, non sono che una rancida invenzione ripetuta dai bizantini e dagli orientali; imperciocché si vuole cha Arpaslan ponesse il piede sul collo del suo prigioniero Romano imperator greco, e che il suo nipote Sultano Sangiar fosse serrato dagli Uzi in una gabbia di ferro. Né migliori dell’aneddoto della gabbia sono i varii discorsi, istoricamente garantiti, e che si vogliono tenuti, secondo la testimonianza di storici greci, arabi, persiani e turchi, tra Timur e Bajezid al primo ricevimento di questo, nel corso della sua prigionia, e alla fine di essa, poco prima della sua morte.90

Questo passaggio del barone von Hammer-Purgstall è cruciale per comprendere molti aspetti storiografici. Al di là della gabbia di ferro che ha fatto scorrere e tuttora fa scorrere fiumi di inchiostro, la scelta di accettare una fonte storica piuttosto che un’altra dipenderebbe dalla considerazione di un innato senso della regalità da parte di Timur, che lo avrebbe tenuto al riparo di azioni riprovevoli come quella di rinchiudere il sultano 312

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avversario in una gabbia di ferro. Inoltre, si valuta il pregio delle narrazioni in base alla loro pretesa ufficialità e alle caratteristiche anche sociali degli autori, primi tra tutti quelli persiani, ai quali von Hammer attribuiva particolare valore. Le altre fonti pretendono di affermare « una rancida invenzione », di cui, come spiegherà von Hammer, sono tra i principali responsabili il « calligrafo contumelioso » Ibn ‘Arabshāh e lo storico greco Sfranze (lo Pseudo-Sfranze).91 8. Bāyazīd in gabbia: versione infamante Riprendiamo dunque la descrizione degli eventi secondo lo storico bizantino Ducas: poco dopo la cattura di Bāyazīd, il figlio Meḥemmed Çelebī avrebbe tentato di farlo fuggire facendo scavare una galleria sotto l’accampamento timuride. Le cose però andarono storte perché lo scavo venne scoperto per i detriti che erano stati portati all’esterno e per l’individuazione di una galleria, e sebbene i minatori riuscissero a fuggire, Bāyazīd fu fermato e venne incatenato alle gambe e alle braccia in modo da impedirgli ulteriori evasioni. Il suo « arcieunuco » (ἀρχιευνοῦχον) personale, Khwāja Fīrūz (il ministro Fīrūzbeg), invece verrà poi decapitato da Timur.92 Questo episodio narrato da Ducas è isolato, e unico è anche quello narrato da Chalkokandiles, secondo il quale Timur e Bāyazīd avrebbero avuto un violento diverbio nell’accampamento: il primo avrebbe accusato il secondo di aver voluto sfidare la volontà divina: « Se non fossi stato cosí arrogante e non ti fossi dato troppe arie, non credo che avresti raggiunto simili livelli di sfortuna! Dio è abituato a ridimensionare quelli che si considerano troppo in alto e sono tronfi! ». Tra le accuse di Timur vi è quella di amare troppo i cani e i falchi e di sembrare perciò un cacciatore professionista piuttosto che un condottiero militare. Ma l’altro risponde a muso duro: « Per te Scita (Σκύθης), che sei un bandito e pratichi queste arti, la caccia con i falchi e con il falcone non sarebbero appropriate. La passione per i cani e per i falchi appartiene a me, figlio di Murād, nipote di Orkhān, figlio di sultani dai quali sono nato e sono cresciuto ». Timur infuriato lo avrebbe fatto girare per l’accampamento sul dorso di un mulo mentre i soldati lo schernivano e lo deridevano. Dopodiché sarebbe stato imprigionato da Timur (Μετά δὲ ταῦτα ϕυλακῆ εποιήσατο).93 Quanto alle fonti turche, ‘Āşıḳpāşāzāde descrive la testimonianza di un nā’ib di Bāyazīd che avrebbe narrato il fatto che Timur aveva fatto predisporre un trono da inserire entro una gabbia (qafes) mobile collocata tra 313

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due cavalli, e quando il Grande Emiro si muoveva si portava appresso quel palanchino (tahtrivān) con dentro Bāyazīd, mentre quando stavano fermi lui alloggiava in una tenda.94 Aggiunge Neşrī la storiella secondo la quale Timur e Bāyazīd nella città di Toñuzlu (Denizli) sarebbero andati insieme alle terme e Timur avrebbe chiesto a Bāyazīd: « Se io fossi finito nella situazione in cui sei tu, cosa mi avresti fatto? ». E quello gli rispose che se le situazioni fossero state invertite lui lo avrebbe chiuso in « una gabbia di ferro » (demür bir kafes). Cosí Timur lo avrebbe rinchiuso in una gabbia.95 A proposito di queste versioni, bisogna riconoscere che von Hammer usò argomenti assai poco convincenti, secondo i quali il termine qafes indicava qui una lettiga piuttosto che una gabbia, oppure forse un graticcio.96 Ma, come vedremo, il problema merita una disamina approfondita ed è fondamentale addentrarsi in due opere che per molti sono state la pietra di uno scandalo. In primo luogo, il colorito Ibn ‘Arabshāh, che in realtà – come fanno notare in un articolo Marcus Milwright ed Evanthia Baboula – non è stato letto con cautela: usò probabilmente una metafora quando affermava che Ibn ‘Uthmān, ovvero Bāyazīd, fu catturato quale « un uccello in gabbia » (ka’l-ṭayr fī’l-qafaṣ).97 In effetti questa sembra una immagine piuttosto lontana anche da quella degli autori turchi che riferivano del trasporto del sultano in una gabbia/lettiga. Piú esplicito è certamente lo Pseudo-Sfranze che invece fa riferimento a una vera e propria gabbia di ferro. Costui aggiunge anche che Timur avrebbe ucciso poi il sultano.98 Insomma, sicuramente esistono due versioni della storia e francamente non resta che l’imbarazzo della scelta. Quello che sorprende, e ne riparleremo anche alla luce di ricerche recentissime, è che il tema suscitò sin da tempi remoti una fortissima eccitazione. Umanisti come Poggio Bracciolini (1380-1459) non esitarono ad affermare molto presto che Timur si trascinava per l’Asia Bāyazīd rinchiuso in una gabbia, come se fosse un trofeo.99 Compiendo un vero e proprio plagio dell’opera di Beltramo Mignanelli, Bracciolini fu forse uno dei primi a gettare le solide fondamenta di un modello storico cristallizzato sul tema della gabbia. Mignanelli per altro aveva riferito l’altra leggenda negativa, quella che voleva Bāyazīd legato a una catena, come un cane obbligato a seguire Timur nelle sue campagne, ma non aveva fatto cenno della gabbia.100 Potremmo affermare che “la gabbia” si sia intrufolata come tema tra quelli preferiti dagli studiosi, ma nulla impedisce di pensare che la storia non sia andata veramente cosí. 314

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Si potrebbe scrivere un libro solo sulle infinite varianti testuali che circondano questa cattura. Basterà qui ricordare le reazioni piú o meno veementi di molti studiosi che in congressi internazionali e in summe di dottrina storica tentavano di mettere il punto finale sulla questione. Gibbon, nel suo Decline and Fall of the Roman Empire, si mostrò di fondo saggiamente indeciso e, come è stato notato, prese una posizione intermedia tra i sostenitori delle fonti persiane e quelli del partito della gabbia.101 Di von Hammer abbiamo parlato, di molti altri parleremo in seguito, soprattutto perché condizionarono la pittura, la musica e il teatro. Nella pletora degli interventi accademici, alcuni spiccano per le informazioni che aggiungono: Fuad Köprülü, per esempio, forse il massimo storico della Turchia repubblicana, scrisse due lucidi articoli che dimostravano la veridicità della storia della gabbia e che si soffermarono anche sul suicidio di Bāyazīd.102 Il primo di questi articoli era nel primo numero della nascente rivista « Belleten », pubblicata dall’Istituto di Storia Turca nel 1937, e svolgeva in qualche modo un ruolo fondativo della nuova storiografia turca. L’anno successivo al XX Congresso di Orientalistica, a Lovanio – altro luogo deputato della solennità accademica –, Sir Edward Dennison Ross ritornava sulle parole di Köprülü con un compromesso: inizialmente Bāyazīd era stato trattato bene, ma in seguito fu legato e portato in giro con una lettiga chiusa. Timur voleva infatti portarlo come trofeo a Samarcanda.103 Io stesso non ho saputo trattenermi in anni recenti dall’esprimere alcune incertezze sul tema,104 e non senza sorpresa mi sono accorto che un nuovo intervento è uscito in Inghilterra a distanza di una ventina d’anni dal mio per tornare ancora sul fatidico evento.105

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XVII D OP O AN KARA 1. Süleymān Çelebī fugge in Europa Dopo la battaglia, Timur e il suo esercito riposarono per otto giorni nell’accampamento non lontano da Ankara, il castellano (kutvāl) della città, Ya‘ḳūb Beg, figlio dello sfortunato Fīrūzbeg, si affrettò a cedere la fortezza mentre gli abitanti pagavano il māl-i amān (‘diritto di salvezza’).1 C’era un fermento particolare dovuto al successo straordinario dell’impresa ma anche a diversi problemi irrisolti: Süleymān Çelebī, tra i primi a fuggire, stava tentando di trattare con i Bizantini a Costantinopoli per riu­scire a passare gli stretti ed essere sicuro di raggiungere la Rumelia. Tuttavia, la situazione non era semplice. Nella concitazione generale le potenze latine si rallegravano della sconfitta del sultano. Lo storico genovese Giorgio Stella riporta che immediatamente dopo la battaglia vennero issate con entusiasmo « le bandiere di Timur », dopo che una delegazione timuride era arrivata a Pera per invitare i Genovesi a non collaborare con gli Ottomani in fuga.2 Molti avevano già comunicato a Genova e Venezia l’accaduto. Marin Sanudo riporta alcune testimonianze: un sopracomito (il comandante di una galea), Giovanni Cornaro, cosí scriveva il 4 settembre del 1402: A dí 6. d’agosto venne la nuova della rotta del Turco, come a dí 26 di luglio s’affrontò l’oste di Temir con quella del Turco in Angonin [Angora/Ankara], per tal che Bajazette è stato rotto, e la sua gente s’è dispersa, e quanto era valente, tanto gli è venuto opposto, che 800 Tartari con 4 frecce per uno, e con tristi archi, e tal di loro senza spade cacciaron forse diecimila Turchi.3

Un’ulteriore relazione è riportata da Pietro Lungo Candiotto che, stando a Gerardo Sagredo, si trovava con l’esercito di Bajazette ed era fuggito a Bursa già il 3 d’agosto.4 Non mancano alcuni, come Pasqualino Veniero, che riportano di maltrattamenti subiti da Bāyazīd: « il tartaro vinse il campo e prese Baisetto e i suoi figliuoli, e per il suo trionfo si mena Bajazette a piedi dietro, il quale tira [come] un cane a mano ».5 Dal canto suo Timur fece redigere un Fatḥnāma (‘editto di vittoria’) al munshī (‘segretario’/‘scriba’) Mawlānā Shams al-Dīn perché fosse recapi316

xvii · dopo ankara

tato in tutti i suoi domini e ai principali sovrani del tempo.6 In questo documento Timur ripercorreva tutte le fasi che avevano preceduto la battaglia, aggiungendo alcuni dettagli di rilievo, per esempio il fatto che dopo la presa di Kemah furono conquistate altre due fortezze di difficile identificazione, quella di Hamdi (Hamid?) e quella di Taḳvin (Tekke?). Riportava la data del 28 zhu’l-Ḥijja/29 luglio (804/1402) per la fine della battaglia e si soffermava anche sugli effettivi ottomani: 70.000 cavalieri piú un numero indeterminato di fanti. Il principe Muḥammad Sulṭān costituiva l’oggetto di particolare celebrazione per il suo ruolo nella campagna, ma anche tutti i membri della famiglia che avevano partecipato, elencati meticolosamente. Infine, si accennava a Bāyazīd, senza dettagli se non che fu legato al momento della sua cattura. Insieme a lui il testo riferisce della cattura di Muṣṭafā Çelebī.7 Al momento della partenza dell’esercito di Timur, questa volta in direzione della città di Kütahya, a ovest di Ankara, Timur impartí ordini precisi ai suoi sottoposti perché « sciamassero » in tutta l’Anatolia. Innanzitutto, Muḥammad Sulṭān aveva il compito di raggiungere rapidamente Bursa – allora capitale ottomana – per catturare Süleymān Çelebī. Con lui dovevano partire il principe Abū Bakr e l’emiro Jahānshāh.8 Sharaf al-Dīn aggiunge al racconto di Shāmī che Shaykh Nūr al-Dīn e Sevinjek dovevano appropriarsi a Bursa del tesoro imperiale ottomano.9 Il principe Khalīl Sulṭān fu invece inviato a Samarcanda per comunicare l’esito della vittoria militare. Gli altri principi ed emiri dovevano raggiungere le principali città anatoliche sino al Bosforo, detto da Sharaf al-Dīn Bughāz-i Iskandar (‘Golfo di Alessandro’) e ai Dardanelli, Yasra aqa (‘gli Stretti’). Altri ancora furono inviati in direzione di Konya, Ak Şehir, Kara Hisar, Alaniya e Adaliya (l’odierna Antalya) con la disposizione di catturare queste città. Timur prese Sivrihisar, da cui fece partire una spedizione comandata da Shāhrukh verso Güzelcehisar, İstanoz e Katir (?), prima di arrivare a Kütahya. Sharaf al-Dīn non perde l’occasione per descrivere le meraviglie di questa città dotata di aria fresca, deliziose pianure, e ogni genere di frutta abbondante e squisita. La gente del luogo si affrettò a portare doni e a chiedere di pagare il riscatto ai contabili del dīvān. A Sivrihisar i Timuridi si appropriarono dei beni accumulati dal visir Timurtash che era stato a lungo a capo della città. Da lí partirono altre spedizioni verso Gerede, Kocaeli e il Menteşe.10 Il piano era quello di affermare il dominio timuride su tutta la regione. Come vedremo, Timur di fatto restituirà agli antichi beg locali i loro regni, ciò non gli impedí tuttavia di imperversare nelle 317

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loro città e regioni e Ibn ‘Arabshāh non manca di sottolineare le mostruosità commesse con le sue solite tinte forti.11 La spedizione a Bursa di Muḥammad Sulṭān si rivelò poco fruttuosa: arrivato nella capitale ottomana, vi trovò il tesoro svuotato da Süleymān Çelebī che si era dileguato per evitare di affrontare i Timuridi. Anche gli abitanti della città erano fuggiti, alcuni sul Keşiş Dağ (il Monte Olimpo di Misia), altri invece sulle rive del mare.12 Shaykh Nūr al-Dīn occupò subito la cittadella di Bursa, dove riuscí a raccogliere un certo bottino includente residui del tesoro che Süleymān Çelebī non era riuscito a portare via. Mentre la città veniva data alle fiamme e Muḥammad Sulṭān continuava il suo inseguimento, intanto venivano catturate diverse eminenti personalità: il mawlānā Shaykh Muḥammad b. Yūsuf al-Jazarī, uno dei maggiori interpreti del Corano di tutti i tempi, che fu inviato a Kütahya all’accampamento di Timur per prendere poi la strada di Samarcanda. Insieme a lui Shams al-Dīn Muḥammad al-Fanarī, meglio noto in turco come Molla Fenarī, logico e giurisperito di grande valore, nonché Shaykh Shams al-Dīn al-Bukhārī, uomo di grande dottrina religiosa e conoscitore dell’arte politica in Turchia, dove era noto come l’Emir Sultan.13 Insieme a loro fu catturata anche la despina Mileva Olivera, principessa serba e moglie di Bāyazīd, figlia di Lazar, che aveva sposato Bāyazīd dopo la battaglia del Kosovo nel 1389 e che fu presa probabilmente a Yenişehir dove si era rifugiata. Scriveva in proposito Giovanni Cornaro: « Temir ha preso Bajazette con sua moglie, la figliola di Lazaro ».14 Dal canto suo Abū Bakr, figlio di Mīrānshāh, raggiunse Iznik (Nicea) conquistandola.15 Il 20 muḥarram 805/20 agosto 1402 Süleymān Çelebī risultava già a Gallipoli sulla sponda europea dei Dardanelli. Da qui si adoperava nel tentativo di stabilire accordi con Bisanzio, Venezia, Genova, Rodi e altri regimi cristiani. Venezia premeva per un ritorno dell’imperatore Manuele II, che tuttavia arriverà solo nel giugno del 1403 a Costantinopoli, cosí facendo il principe ottomano trattò direttamente con Giovanni VII, molto legato ai Genovesi con grande sospetto dei loro eterni rivali veneziani. Ma le due potenze italiane, insieme agli altri protagonisti cristiani, avevano azzerato temporaneamente i conflitti reciproci.16 Süleymān Çelebī si sarebbe umiliato innanzi a Giovanni VII, concedendo ai Bizantini Gallipoli e un sostanziale allargamento dei confini, nonché – come si è detto – di tenere in ostaggio il fratello minore Ḳāsım e la sorella Faṭma. Scrive però Giovanni Cornaro: 318

xvii · dopo ankara Questi [Giovanni VII] non osa di far niente per tema di Temir. Non so quello che ne seguirà. Avvi mal governo in questa terra. Questo Imperatore [ovvero sempre Giovanni VII] sta sempre in letto; non fa alcuna provisione che sia al mondo. Finalmente vanno questi fatti come la fortuna li mena. S’egli fosse stato un uomo avrebbe conquistato fin mo’ tutta la Grecia, onde adesso è cosí ferrata questa terra come non fu mai.17

Clavijo ci informa del disappunto di Timur per l’aiuto fornito dai Genovesi e dagli altri cristiani a Süleymān Çelebī per passare gli stretti: L’imperatore di Costantinopoli e i Genovesi della città di Pera, invece di onorare gli accordi presi con Tamurbec, avevano permesso ai Turchi di passare dalla Grecia alla Turchia e appena fu sconfitto il Turco, offrirono ai Turchi che stavano fuggendo dalla Turchia in Grecia le loro fuste. E per questa ragione Tamurbec era maldisposto nei confronti dei cristiani ragion per cui i cristiani se la videro brutta nelle terre [conquistate] da Tamurbec.18

La posta in gioco era però molto grande e Timur contava, come vedremo, di continuare ad avere rapporti con i Genovesi e soprattutto di poter trarre vantaggi da una loro attività commerciale. Sempre a Kütahya, nell’autunno del 1402, una delegazione bizantina avrebbe raggiunto Timur. Shāmī riferisce del « re di Istanbul » (malik-i Istanbūl) che venuto a conoscenza dei successi del condottiero centroasiatico si sarebbe affrettato a inviare degli emissari per manifestare il proprio assoggettamento e il consenso a pagare il tributo. È abbastanza curiosa la percezione limitata dell’importanza di Costantinopoli, il cui « re » è descritto come un signore locale di second’ordine.19 Cosí risulta ancora in Sharaf al-Dīn, che non esita a utilizzare il termine tākvur, preso in prestito dalle fonti ottomane, ma aggiunge che il tributo era stato stipulato in fiorini ( flūrī).20 Forse l’ammontare del tributo era di 30.000 fiorini.21 2. I Timuridi sciamano in Anatolia Il principe Sulṭān Ḥusayn e Sulaymānshāh erano stati destinati spingersi verso meridione e il loro oggetto di conquista fu inizialmente il beylikato di Hamid. Dopo aver sconfitto un signore turcomanno locale, Köpek, si spinsero verso il beylikato conquistando Ak Şehir e Kara Hisar. Sharaf al-Dīn si affretta di ricordare che l’occupazione di questo beylikato e il conseguente pagamento di riscatto erano concepiti per proteggere la po319

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polazione locale. Di fatto il beg di Hamid aveva chiesto, al pari degli altri, protezione a Timur prima della battaglia di Ankara. Tuttavia, l’imposizione di un darugha timuride, Charkas Sūrachī, suonava come un atto di colonizzazione.22 Mentre il beylikato di Hamid veniva depredato di bestiame e di cibo, Sulaymānshāh raggiunse Konya dove impose il riscatto. All’epoca la città era stata sottratta ai Karamanidi dagli Ottomani. I Karamanidi si erano rivelati un alleato prezioso per Timur e sfugge il perché di questa richiesta di pagamento, anche perché in seguito proprio il beg karamanide, Amīr Muḥammad, sarà particolarmente onorato da Timur. Giunto ad Aydın, un contingente timuride non esitò a devastare la regione massacrandone la popolazione.23 Elizabeth Zachariadou ha notato che malgrado due rampolli del beylikato di Aydın, sottomessi da Bāyazīd, fossero fuggiti in occasione della battaglia di Ankara nell’esercito timuride, anche essi non furono subito reintegrati nel proprio emirato. La stessa studiosa evidenzia la premura di controllare accuratamente quest’area, con riferimento in particolare alla città di Teologo (Ayasoluk), vicino all’odierna Selçuk (Efeso), per sferrare un attacco contro Smirne.24 L’emiro Malikshāh depredò invece i domini dei Tekke e dei Menteşe nelle antiche Panfilia e Caria.25 Dopo un mese di sosta a Kütahya, dove Timur sostò nello yaylaq (l’accampamento destinato al passaggio dell’estate), il Grande Emiro riprese il cammino verso il sudovest dell’Anatolia. Per strada fu raggiunto da Muḥammad Sulṭān che aveva lasciato a Shahr-i Naw (Yenişehir) – non lontano da Bursa –, un presidio con tutti i bagagli e le ricchezze (żabṭ-i aghraq)26 sequestrate, sotto il controllo dell’emiro Shams al-Dīn ‘Abbās. Sharaf al-Dīn introduce a questo punto un processo misterioso contro due protagonisti di molte imprese del passato: accusati da Timur di aver compiuto dei crimini, l’emiro Ṣā’īn Timur e suo fratello Murād furono giustiziati sul posto mentre altri membri della loro famiglia venivano ricercati per essere anche loro uccisi. Altre esecuzioni vennero realizzate poco dopo in una prateria ad Altuntash, non distante da Toñuzlu (Denizli). Fu la volta del ministro Khwāja Fīrūz (Fīrūzbeg, ‘signore degli Stretti’),27 che già abbiamo conosciuto come assistente di Bāyazīd, quando tentò la fuga. Durante questo transito anatolico Timur ricevette anche la richiesta di perdono da parte del signore di Mardin Majd al-Dīn ‘Īsā, per intercessione di Shāhrukh. Il principe era accusato di aver avuto comportamenti ambi320

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gui al tempo dell’assedio di Mardin del 796/1394 e, come s’è detto, era stato arrestato e deportato a Samarcanda.28 L’episodio inserito qui dagli storici è forse destinato a bilanciare la durezza della sentenza espressa nei confronti dell’intero clan di Ṣā’īn Timur e di Khwāja Fīrūz, uccisi senza troppi complimenti in nome della yasaq.29 Si tennero anche molti festeggiamenti ai quali Bāyazīd fu obbligato a partecipare: è molto probabile che l’episodio del diverbio nelle terme di Denizli nasca da questa partecipazione coatta del sultano alle feste del suo carceriere e molto improbabile sembra il magnanimo trattamento concessogli da Timur. Di certo durante queste cerimonie furono anche stabilite diverse missioni diplomatiche, tra cui una minacciosa in Egitto che invitava il sultano mamelucco Faraj a recitare la khuṭba e a battere moneta col suo nome e con la richiesta di restituire immediatamente Atilmish alla corte timuride. La lettera, datata 1° rabī‘ i 805/29 settembre 1402, raggiunse il Cairo nel jumādā ii 805/fine dicembre 1402.30 Un ambasciatore portava con sé una bandiera dorata col nome di Timur, dimostrando cosí il suo dominio su Faraj.31 Fu in questa occasione che ripartí anche l’ambasceria per Costantinopoli di cui si è già parlato. Vennero eseguiti ulteriori saccheggi in diverse località anatoliche situate sul mare, come Antalya e i territori dei Menteşe e dei Tekke. A queste operazioni collaborò anche Maḥmūd Khān – il sovrano fantoccio ciagataico messo al potere da Timur nel 1388 –, il quale venne però colpito da una improvvisa malattia che gli tolse la vita. Non era il solo, altri furono colpiti da malattie derivanti da acque infette, probabilmente dal colera. Sharaf al-Dīn non manca di dare informazioni al riguardo: « da quelle parti c’era una fontana che quando diveniva stagnante la sua acqua si trasformava in veleno ».32 Inoltre, la regione non si mostrò accogliente per le guarnigioni che erano dislocate in varie aree ed evidentemente detestate dalla popolazione: Muḥammad Sulṭān era stato destinato a Manisa, nel territorio dei Saruhan, dove insediò il suo accampamento invernale (qishlāq), raggiunse questa città dopo aver saccheggiato Balıkesir ed essersi accampato nei suoi pressi. Fu attaccato durante la notte da Ilyās il sūbashī, accompagnato da un gruppo di chitāgh, termine che abbiamo già trovato piú volte a indicare degli sbandati, dei mercenari, o piú in generale della ‘plebaglia’.33 Questa rivolta, insieme piú in generale a tutta la situazione nell’Anatolia occidentale, è spiegata in modo vivido da Tommaso da Molino, un emissario inviato da Chio a Pietro Cornaro che narra di un certo Galeazzo di Levante, 321

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ambasciatore di Timur a Focea nuova (Foglianuova). Costui rimase alla corte di Timur per tre giorni e descrisse ciò che avveniva nella regione: Disse [Timur] come manda nella Dicchia [Mandachia, il territorio dei Menteşe] tutto il suo esercito per invernare. Di là suo nipote [Muḥammad Sulṭān] è andato col figliuolo di Sarcham [Saruhan] con 5000 uomini nelle parti di Bursa per scorrere e disfare quelle parti. Venne fino alle marine nelle parti di Pergamo a distruggere tutti i Turchi, e specialmente per la cagione di Acomatte Subassi [Ilyās il sūbashī] il qual era in quelle parti di Pergamo, e di poi debbe tornare per vernare in Muzalia [Musali]. E il figliuolo di Sarcam dee venire in Manisia [Manisa] e l’altro figliuolo del detto Tamir uno nel terreno di Nuja [Aniya], l’altro nella Paladra [Paladari], e l’altro in Taca [Tekke].34

La lettera di Tommaso da Molino lascia intravvedere uno scenario molto particolare, infatti, prosegue ricordando che Timur si era stabilito nella piana del Meandro e ora contava di eliminare qualsiasi elemento ottomano fosse rimasto nella regione. Gli « Zagatai », ovvero i Timuridi, saccheggiavano tutto il bestiame e Timur voleva raggiungere anche il Cairo per distruggerlo. Tommaso da Molino racconta anche della decapitazione di Cozafens, ovvero Khwāja Fīrūz.35 Intanto le truppe di Shāhrukh arrivavano nel territorio che era stato il beylikato dei Germiyan, mentre Timur attraversava il Menderes (Meandro) dove incontrò gli emiri Muḥammad e Isfandiyār del beylikato dei Menteşe, che lo riempirono di omaggi e accettarono di versare i propri tributi. Timur si fermò per vari giorni a Güzelcehisar, dove i suoi soldati vennero aggrediti da vari abitanti delle montagne circonvicine che vennero trucidati. Da lí passò ad Ayazlık (Ayasoluk)36 e da Tire (l’antica Theira), dove fece incidere un’iscrizione che ricorda quella già lasciata a Karsakpay, in cui però elenca i numerosi successi conseguiti in India, Iran e Turan, sino ai confini con la Cina, e quelli in Egitto. L’iscrizione riporta la data della battaglia di Ankara 26 dhu’l-Ḥijja 804/27 luglio 1402 e i nomi delle principali città sottomesse: Manisa (Magnesia), Balat (Palatia, non lontano da Mileto), Antalya, Alaiye (Alanya).37 Tutti gli eserciti timuridi oramai convergevano su Smirne, diventata un obbiettivo primario: prendere la sua cittadella circondata dal mare e battere gli invincibili Franchi era la priorità assoluta di un jihād che avrebbe reso assai piú credibile tutta la missione in Anatolia. Lí i Greci avevano combattuto strenuamente contro i musulmani e ora la città era nelle mani dei Cavalieri di Rodi. 322

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3. La presa di Smirne È probabilmente condivisibile l’opinione secondo la quale Izmir (ovvero Smirne) fosse una città “doppia”, ovvero caratterizzata da un lato da una parte musulmana, e dall’altro da una « Smirne dei Ghebri ».38 Cosí la descrive per esempio il poeta Enverī, che nel suo Düstūrnāme (1462-1465 ca.) racconta le vicende di un guerriero per la fede, ‘Umūr Paşa, signore del beylikato di Aydın, che tra il 1334 e il 1348 contrastò con una « guerra di religione » i cristiani, morendo « martire » in occasione di un attacco alla fortezza franca di Smirne:39 Aveva a quel tempo Izmir due fortezze: Muḥammad Beg ne aveva catturata una con la sorpresa.40 Nell’altra s’ammassavano dei Franchi che, giorno e notte, combattevano i musulmani. Quandi Ghāzī ‘Umūr Paşa vi arrivò fu stupito dal numero dei miscredenti. E come i Franchi seppero dell’arrivo del Paşa, vollero ingaggiarlo in combattimento.41

Questa memoria storica dal sapore epico, riportata poi in bello stile letterario turco da Enverī in epoca ottomana, doveva circolare, e sicuramente Timur era il tipo che apprezzava questo tipo di narrazioni rese leggendarie dai cantori popolari. Il che potrebbe spiegare la ragione della decisione di attaccare la fortezza di Izmir, ultimo baluardo cristiano in terra anatolica. Vanno però sottolineate le attenzioni che Timur aveva avuto per i “Franchi”, e non solo i Genovesi, ma anche quei Francesi ai quali si era rivolto tramite l’ambasceria di Giovanni di Sultaniyya. Un amico di quest’ultimo personaggio, Dietrich di Nieheim, storico e giurista tedesco che operò presso la curia di Roma in quegli anni, racconta che se i Cavalieri Ospedalieri di Rodi, avessero accettato di issare il vessillo di Timur accanto al loro nella cittadella, il Grande Emiro probabilmente avrebbe desistito dall’attaccare.42 Come vedremo oltre, Timur sarà molto indulgente nei confronti di alcune basi genovesi in Anatolia e sull’Egeo. È probabile, come afferma Peter Jackson, che in Occidente si riponessero43 segrete speranze su un’invasione di Gerusalemme da parte di Timur e su una sua eventuale conversione al cristianesimo. Non sembra invece del tutto condivisibile l’opinione dell’Alexandrescu-Dersca, secondo la quale sarebbe stata « l’eterna questione cinese » a spingere Timur in direzione di 323

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una guerra di religione, concepita con lo scopo di liberarsi dal vassallaggio che aveva caratterizzato i precedenti rapporti con la Cina, con un atto fortemente dimostrativo.44 In realtà, in linea con quanto affermava Dietrich di Nieheim, la scelta sarebbe derivata dalla poco elastica ostinazione dei Cavalieri di Rodi, che si sentivano forse sicuri per aver già resistito a ‘Umūr Paşa, Murād I e Bāyazīd. Da una parte, prevedendo questo scontro drammatico, il barlettano Buffilo Panizati, nominato il 5 giugno 1402 ammiraglio dal Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi, Philibert de Naillac, aveva provveduto all’erezione di palizzate disposte strategicamente per contenere l’assedio. All’interno la guarnigione contava su 200 cavalieri agli ordini del capitano aragonese Iñigo d’Afaro che aveva già comandato sull’isola di Kos negli anni immediatamente precedenti.45 Ma la cittadella doveva ospitare molti altri individui che si predisposero a difendere la posizione. Shāmī riporta, dal canto suo, che Izmir accoglieva un insieme di comandanti franchi (majma‘-i ṣanādīd-i ifranj) dotati di gran fama, e mai sconfitti. Erano numerosi e provenivano da diverse parti e mai avevano pagato né tributo né testatico ad alcuno e sempre s’erano dedicati a combattere i musulmani. Shāmī aggiunge che con la magnanimità cesarea (per l’esattezza dei Cosroi), Timur aveva inviato il principe Pīr Muḥammad e l’emiro Shaykh Nūr al-Dīn invitando gli assediati a una conversione all’Islam. Alle minacce alternavano le lusinghe, confidando in una loro resa e conversione all’Islam. Ma le cose non andarono cosí ed è lo stesso Shāmī a ricordare l’atteggiamento sprezzante del capitano del castello Iñigo d’Afaro, qui chiamato Māhnūs, che avrebbe fatto una chiamata alle armi con il conseguente arrivo di cavalieri da diverse località. Il tentativo di descrivere le loro provenienze da parte di Shāmī rivela il grande interesse per queste figure e, nel contempo, dimostra molte incertezze sulla conoscenza dell’Occidente: c’erano dei Rūmān, probabilmente Greci bizantini, cosí come i Ghalaṭā, forse Greci d’Asia minore (‘Galati’). A genti tedesche dovevano appartenere i Sāsūn (‘Sassoni’) e probabilmente i Sitir o Sitīr (da Stiria?). C’erano elementi di Tire (Tīrūs) o Cipro (Qubrūs)46 e altri di piú oscura origine provenienti da Ḥunḥik o Janjak (?), Birzīna (Bosnia?) o Birdīna (?), Davīrdīn o Dūmlī (Dalmati?). Coloro che provenivano da Simandrak coincidono probabilmente con gli abitanti di Semendere, ovvero l’odierna Smederevo sul Danubio. Imrūz e Aynarūz coincidono invece con Imbros (l’odierna isola di Gökçeada sull’Egeo) e la seconda con una città dei Balcani, infine 324

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Kulū fa riferimento a un centro in Anatolia in cui evidentemente risiedevano dei cristiani. Le fonti persiane parlano tutte di duemila persone poste a difesa della cittadella.47 Ḥāfiẓ-i Abrū offre una descrizione del luogo: « Questa fortezza è nel mezzo di un monte disposto per tre lati sul mare. Il lato del monte che dà sulla terra è protetto da grandi massi e le torri e le mura sono solidamente fortificate ».48 Richiamato dai suoi che erano venuti in avanscoperta, Timur raggiunse il luogo per questa impresa e il 6 jumādī i 805/2 dicembre 1402 proclamò il jihād, dando inizio all’assedio.49 I grandi massi che proteggevano gli ingressi, evidentemente facenti parte delle difese messe in piedi da Buffilo Panizati, furono rimossi, anche se ci vollero diversi giorni per completare l’impresa. Quell’unico tratto terrestre del muro fu dunque riempito di legna che doveva raggiungere la cima della cinta, probabilmente delle strutture protettive o delle scale.50 Nel contempo erano state disposte diverse macchine da guerra che gettavano pietre e fuoco greco, o forse colpi di armi da fuoco, all’interno, mentre dei minatori (chākhūrigān) scavavano gallerie sotto le torri. I nemici facevano anch’essi uso di fuoco per difendersi, Shāmī al riguardo fa riferimento a delle lingue di fuoco (zabāna-yi ātish), descritte separatamente dal fuoco greco, che potrebbero corrispondere a tiri di armi da fuoco.51 Sul lato marino Shāh Malik dispose dei tripodi alti e solidi nell’acqua, gli uni accanto agli altri, come a formare un’impalcatura alla cima della quale stavano delle tavole che permettevano ai soldati di combattere come se fossero stati sul terreno. Questo consentí loro di attaccare quel versante coperti dai propri scudi mentre si verificavano impressionanti scambi di frecce. Attaccando anche dal lato marino, gli assedianti impedirono l’arrivo di soccorsi dall’esterno. Quando arrivò da Manisa Muḥammad Sulṭān si scatenò l’assalto generale. Sotto un autentico diluvio, insolito anche per quelle regioni, cominciarono ad aprirsi delle brecce nelle mura e infine i resistenti, nettamente inferiori per numero, dovettero soccombere agli assedianti.52 Sharaf alDīn ci informa che i pochi che si salvarono fuggirono su delle barche che venivano chiamate kūka, da ‘cocca’, un tipo di nave molto impiegata nel Trecento, mentre delle grosse balestre scagliavano contro di loro le teste dei ghebri. Chi era venuto in soccorso, vedendo i capi mozzati dei propri correligionari, fu preso dal panico e fuggí, alcuni degli assediati riuscirono a prendere il largo vogando di gran lena.53 Tra i fuggitivi si trovava il capitano Iñigo d’Afaro che sopravvisse all’assedio.54 Una cronaca anoni325

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ma bizantina parla di 4000 morti e di due torri di teste erette innanzi alla città.55 Timur si dedicò anche alla strage degli abitanti di Smirne, molto probabilmente separando i cristiani dai musulmani e la cosa fu notata in Occidente. Piú in generale la distruzione di quell’ultimo avamposto cristiano in terra anatolica creò un senso di disillusione profondo: Peter Jackson ha sottolineato come Martino I di Aragona, scrivendo all’antipapa Benedetto XIII (l’aragonese Pedro de Luna) nel marzo 1403, descrivesse Timur (Tamurbeus) come il diavolo Belial, proprio basandosi sulle narrazioni dello scampato Iñigo d’Afaro.56 D’altronde anche lo stesso Boucicaut si dovrà ricredere sulle speranze che aveva riposto in lui, cosí nel Livre des fais (1409) la sua percezione di Timur57 sarà ben piú fatalistica. Già la poetessa Christine de Pisan (Cristina da Pizzano) aveva espresso nel 1403 un analogo scetticismo nel Chemin de long estude e probabilmente aveva ispirato anche lo spirito del Livre des fais di Boucicaut: Sotto il cielo tutti si fan la guerra, E non solo sulla terra Dove gli uomini si combattono Ma persino per aria, dove si affrontano gli uccelli. Quelli da preda cacciano gli altri, Li cacciano e si accaniscono, E quelli che subiscono per natura li temono. Li fuggono e rifuggono. Ma è sulla Terra che avvengono i misfatti: Tutti oppressi son Da guerre; e piú gli uomini son ricchi Tanto meno amano i propri simili E s’accaniscono a vicenda Armati e lance in resta, Oppure assaltano i vicini. Lo stesso fanno i Saraceni, Il Basac contro Tamburlan Che Dio li metta in cosí cattive condizioni Da distruggersi tra loro, Senza che intervenga un cristiano! Ma i cristiani purtroppo Per la loro sete di potere E per conquistare terre lontane Si uccidono tra loro in guerre mortali.58

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Quanto a Sharaf al-Dīn, dedicò personalmente dei versi all’impresa di Smirne giocando decorativamente sul termine Izmir (pers. Izmīr) e la locuzione az Mīr (« da parte dell’Emiro »): Izmīr è stata distrutta da parte dell’Emiro Timur, confermato conquistatore del Mondo. E quella fortezza che nessun re aveva abbattuto Fu preda del laccio attorno alla sua torre. In sette anni di guerra il Qayṣar Non gettò su di lei neppure la polvere della conquista. Per prenderla e sradicarla dalle fondamenta, Due settimane son bastate allo Shāh Benvoluto: Questo è il perfetto monarca assoluto, Braccio possente e buona risoluzione!59

Proprio queste pagine di Sharaf al-Dīn ispirarono un’altra delle miniature dello splendido manoscritto di Bihzād che noi già conosciamo perché illustra la costruzione della Grande Moschea di Samarcanda. In questa doppia pagina, conservata presso la John Work Garrett Library di Baltimora e presso il Topkapı Sarayı, l’artista ha riprodotto persino le fattezze gotiche del castello e gli strumenti utilizzati per l’assedio; come nel resto di questo straordinario codice, vi ritroviamo costumi e descrizioni delle armi impiegate e il sovrano nell’atto d’assistere all’assedio.60 4. Focea e Chio Se la distruzione della cittadella franca di Smirne era stato un gesto dimostrativo eclatante, ingenerando disillusione in Occidente, non si può nascondere il fatto che Timur intavolò subito dopo ottimi rapporti con le maone genovesi sulle coste egee dell’Anatolia. Infatti, nello stesso mese di jumādā ii 805/gennaio 1403, dopo aver espugnato la città Timur inviò il nipote Muḥammad Sulṭān a trattare il riscatto di Fūça (Focea, le fonti persiane non distinguono tra Focea Nuova e Focea Vecchia). In seguito, saranno i signori di Saqqiz (Chio) a rivolgersi al Grande Emiro.61 Scrive al riguardo Shāmī, poi ripreso dagli altri storici in modo abbastanza pedissequo: Dopo questa eclatante vittoria [su Smirne] e l’erezione del minareto della fede con l’estirpazione e l’annichilimento di quei corrotti infedeli e peccatori, fu emanato un sommo decreto affinché il principe di stirpe regale Muḥammad Sulṭān

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tamerlano si dirigesse verso la piazzaforte di Fūcha nella quale un gruppo consistente di Franchi aveva trovato rifugio. Quando quell’augusto rampollo si accampò nei dintorni della fortezza e piantò le bandiere del regno, i Franchi ebbero contezza della sua furia terrorizzante, della sua ira, del suo attacco gagliardo e del colpo della sua spada. Come apparve loro, imponente quale un leone, ed ebbero modo di rimirarne la possanza, nel loro cuore si fecero strada terrore e sgomento. Giunsero i loro maggiorenti con grande umiltà e spirito di sottomissione e, accettando il prezzo del testatico ( jizīya), riscattarono la propria vita e la propria patria. Il principe augusto concesse loro la grazia e dispose l’ammontare del tributo. Dopo averlo garantito il loro rinomato signore (navvāb-i nāmdār) ripartí. Muḥammad Sulṭān ritornò nella sede della gloria e del trionfo [l’accampamento di Manisa].62

La Alexandrescu-Dersca specifica che Focea Nuova si era già assoggettata a Timur e dunque in questo caso si trattava di Focea Vecchia.63 Ducas nel suo racconto dei fatti ricorda dell’incontro cordiale tra Muḥammad Sulṭān e « il signore di Militene »,64 quel Messer Galeazzo di Levante di cui parla Tommaso da Molino nella già citata lettera inviata a Chio a Pietro Cornaro.65 L’incontro descritto da Ducas mostra il principe timuride a cavallo mentre discute con il governatore genovese che sta a bordo della sua nave. Nel porto di Focea Nuova furono raggiunti da Francesco II Gattilusio, signore di Lesbo, che si presentò a Muḥammad Sulṭān per pagare anche lui tributo.66 Poi fu la volta del signore di Chio, che stando alle fonti persiane si chiamava S.T.H, o S.B.H., il quale fece consegnare a un emissario numerosi doni per i Timuridi e concesse di pagare il testatico ( jizīya) e il tributo (kharaj). Il nome di questo personaggio sembra essere stato deformato da erronee trascrizioni e trasmissioni di testimoni manoscritti. Probabilmente quel S.T.H. potrebbe essere la deformazione del nome Battista di cui è andata perduta la prima parte ([Batti]STH). In tal caso potrebbe trattarsi di Battista Adorno, castellano di Chio sino al 1404, discendente di Antonio Adorno, maonese a Chio dagli anni ’70 agli anni ’90 del Trecento, ma altre ipotesi sono plausibili.67 Andrà notato che Boucicaut, allora governatore di Genova e molto intraprendente nel restauro delle agenzie nel Mediterraneo, aveva inviato un dispaccio alla maona di Chio nel novembre del 1402. Non resta traccia di questo documento ma è probabile che mirasse anche a predisporre la comunità a un eventuale arrivo di Timur nell’area.68 Un altro aspetto ancora non del tutto chiaro va letto nella datazione di questi due episodi, 328

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collocabili tra il mese di gennaio e quello di marzo del 1403, quando Timur si trovava a Efeso per radunare tutti gli eserciti in vista del ritorno a Samarcanda. La natura pacifica e cordiale degli scambi in questa regione lascia pensare a una volontà di accordo di lunga durata con esiti commerciali significativi. Per altro si può segnalare qui l’attenzione di Sharaf alDīn al mastice (maṣṭakī) di Chio, uno dei prodotti principali dell’isola, al quale l’autore persiano accenna con una piccola nota personale nella sua cronaca probabilmente ricavata da una sua visita nella regione posteriore agli eventi.69 5. L’Anatolia smembrata Nella base di Ayasoluk (Ayazlık, Selçuk, Efeso), dove si trovava, Timur iniziò a ricevere varie ambascerie dei principi discendenti di Bāyazīd. Se due di loro erano suoi prigionieri, gli altri avevano già riaffermato il proprio potere, come Süleymān Çelebī, in Europa col grosso dell’esercito ottomano e le sue élite, inclusi i giannizzeri, e una buona parte dell’apparato amministrativo ottomano. Con lui in Rumelia doveva trovarsi anche ‘İsā Çelebī. Meḥemmed Çelebī invece si era sistemato ad Amasya. Essendo quest’ultimo colui che poi avrà la meglio su tutti i fratelli, è chiaro che le fonti storiche tendano a giustificare a posteriori i suoi diritti. Sicuramente però la maggiore età doveva favorire invece Süleymān Çelebī, il quale era apparentemente piú attrezzato e legittimato a salire su un trono ottomano unificato.70 Quanto a Mūsā e Muṣṭafā, erano stati fatti prigionieri da Timur, il primo verrà liberato nella primavera del 1403 con il compito di ristabilire uno stato ottomano vassallo dei Timuridi a Bursa, mentre il secondo rimarrà a Samarcanda sino al 1415.71 Un’ambasceria dello Shaykh Ramażān, gran qāḍī dell’emirato ottomano, che curava gli interessi di Süleymān Çelebī, aveva già raggiunto Timur a Balık;72 una seconda arrivò ad Ayasoluk e questa volta con un atto di completa sottomissione e una cospicua elargizione in fiorini ( flūrī firāvān), bestie da soma, cavalli e stoffe. Timur pertanto, dopo aver ascoltato il pronunciamento dello shaykh, concesse tutto il territorio oltre gli stretti (Asra yaqa), ovvero la Rumelia, al principe Süleymān.73 Un altro ambasciatore si presentò nello stesso luogo subito dopo, questa volta era Quṭb alDīn, in rappresentanza di ‘Īsā Çelebī che fu investito dei diritti sull’Anatolia, anche se in origine la città di Bursa sarebbe dovuta andare al figlio ribelle di Murād I, Savci, che era stato accecato per una rivolta contro il 329

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padre nel 1373. A causa del risentimento nei confronti di Bāyazīd, Sāvcī aveva finito col servire Timur in battaglia ad Ankara, ma è molto probabile che sia stato defenestrato dal cugino ‘Īsā Çelebī prima del dicembre 1402 e pertanto anche che quest’ultimo sia stato riconosciuto da Timur. Piú oscura è la situazione di Mūsā Çelebī, che doveva trovarsi ad Ankara verso la primavera del 1403 in aperta ostilità con Meḥemmed Çelebī.74 Quest’ultimo rappresentava il caso piú complesso di tutti: a differenza degli altri, non sembra essere stato investito con uno yarligh. Di certo egli operò come un vassallo del Grande Emiro e a lui si devono diversi conî in cui è riportato il nome di Timur.75 Non potremo qui occuparci della storia drammatica dei successivi dieci anni in Anatolia, il cosiddetto Fetret devri (‘Periodo della guerra civile’, 1402-1413) che si concluse con la vittoria di Meḥemmed Çelebī e la restaurazione dello stato ottomano.76 Si dovrà tuttavia tener conto anche della restaurazione dei beylikati nei loro antichi potentati regionali. I Karamanidi erano già stati considerati con particolare favore ed erano già stati reintegrati nei loro domini di Konya, Larende, Aksaray, Alanya e Ak Şehir. Meḥmed Beg Qarāmān si affrettò a raggiungere Timur da Konya, dove fungeva da governatore,77 e suo fratello ‘Alī Beg Bangī fu nominato emiro di Niğde. A dimostrazione del particolare favore che godevano da parte di Timur, si noterà che ad essi furono anche destinati territori già appartenuti agli Ottomani come Beypazarı, Sivrihisar, Kırşehir e Kayseri.78 Diverse sono le monete coniate con doppia autorità (Muḥammad Beg e Timur) in ambito karamanide tra l’805/1402-’3 e l’807/1404-’5.79 Mentre Timur era nei pressi di Toñuzlu (Denizli), sulla via del ritorno da Smirne, assegnò al germiyanide Ya‘qūb Beg, già artefice della rocambolesca fuga da İpsala nel 1399, le città di Kütahya, Denizli, Karaşehir, e come afferma Sharaf al-Dīn, l’ulus dei Germiyān. Perciò venne emanato anche uno yarligh, che andava ad aggiungersi agli altri già destinati agli Ottomani e presumibilmente ai Karamanidi.80 Anche in questo caso il nuovo vassallo si affrettò a battere moneta con doppia autorità (Ya‘qūb b. Sulaymān e Timur 808/1404-’5).81 Quanto ai Menteşe, la loro partecipazione alla battaglia di Ankara è documentata da varie fonti, come s’è detto. Timur ricevette in dono dal loro signore Muḥammad Beg mille cavalli dopo aver passato il Menderes nei pressi di Denizli.82 È probabile che una mediazione dei beg di Menteşe evitò la distruzione di città come Balat (Palatia), mentre altre città quali Manisa, Efeso, Tire e forse anche Focea nuova subirono dei saccheggi. Sembrerebbe che i Menteşe si siano ado330

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perati per riaprire i porti per i commerci con Creta in modo da favorire ancora i mercanti occidentali.83 Il beylikato di Aydın giocò un suo ruolo nella battaglia di Ankara, passando dalla parte di Timur. Elizabeth Zachariadou sostiene però che non furono subito reinsediati nel loro regno. Con un uso equivoco del termine tataro (per indicare evidentemente i Timuridi) la studiosa afferma che per un certo tempo il governo fu affidato a un certo Meḥemmed Çelebī, uomo di Timur insediato in mancanza di plausibili candidati di quella dinastia. Secondo lei potrebbe trattarsi di quello stesso Maometo Celabi (Mahometto Zalabi) menzionato da Pietro Bon, che sarebbe un componente della famiglia di Aydın. Pietro Bon, capitano delle galere di Creta, ricorda che « Temir-bey costituí, e sil fece signor di Altoluogo [Ayasoluk/Selcuk-Efeso] e delle sue Provincie ». Il rappresentante timuride avrebbe subito provveduto a stabilire relazioni con i vari stati cristiani, proponendo accordi con Chio in agosto e, in settembre 1402, con Creta. Fu dunque nel marzo del 1403, quando i Timuridi evacuarono l’Anatolia, che i due signori di Aydın, ‘İsā e ‘Umūr, riguadagnarono il potere nella loro regione.84 Non è chiaro se e come il beg di Saruhan, Khıżır Shāh, e il fratello Orkhān, che avevano combattuto a fianco di Timur ad Ankara,85 venissero investiti dell’antica posizione in Anatolia, il primo nell’antica Lidia, il secondo a Manisa.86 Quanto al ritorno sul trono del signore di Sinop (Sinope) Isfandiyār, ne esistono solo menzioni nelle fonti turche e nel racconto di Ibn ‘Arabshāh, il quale descrive la cessione a questo signore di Kastamonu e Samsun, oltre a Sinop.87 Ancora va ricordato ‘Uthmān Beg del beylikato degli Hamid di Tekke in Panfilia, che riprese temporaneamente il potere su Antalya.88 Venendo agli alleati storici di Timur, Muṭahhartan ritrovò la propria famiglia, “sequestrata” da Bāyazīd e in cattività a Bursa, e fu reintegrato nei suoi domini in modo trionfale quando Timur passò da Erzincan verso la metà del 1403. In seguito, la sua figura sembra “dissolversi” nello scenario storico, anche se taluni affermano abbia governato sino al 1410.89 Anche lo Shīrvānshāh Ibrāhīm tornò nel suo regno,90 e infine Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu ricavò piú degli altri un particolare vantaggio dall’investitura nel suo regno operata da Timur, come ha dimostrato in modo esemplare John E. Woods. Sulla scorta del Kitāb-i Diyārbakriyya, infatti, viene descritta l’abilità di questo signore turcomanno nel gestire un incidente che gli sarebbe potuto costare caro, ovvero una rapina da parte di due suoi nipoti 331

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di una carovana che portava i proventi ricavati dai saccheggi di Smirne ed Eğridir a Samarcanda.91 Riuscito a scagionarsi, Qara ‘Uthmān riconquistò e ampliò il proprio credito nella corte timuride tanto che Clavijo riferisce di aver incontrato a Samarcanda un suo emissario, ancora nel 1404.92 Nel contempo poté trionfare contro il rivale interno Aḥmad nella “guerra civile” che aveva funestato il regno degli Aq Qoyunlu.93 Dei Tatari neri, costretti a una migrazione forzata, parleremo in seguito. Qui preferisco soffermarmi sulla strategia di Timur, capace di rimettere in piedi la dinastia ottomana come vassalla, giocando abilmente sulle sue divisioni interne e sulla frammentazione anatolica, con il conseguente ristabilimento delle potenze emirali locali dei beylikati che Bāyazīd era riuscito a fagocitare. Fu forse una delle intuizioni strategiche migliori di Timur. L’impossibilità di presidiare il territorio – uno dei suoi maggiori problemi – imponeva di fatto di frammentare quanto piú possibile la regione nel suo antico assetto di mulūk al-ṭavā’if (‘regni delle fazioni’), ognuno autosufficiente e semi-indipendente, ora però sotto la protezione di Timur, ovvero di un sovrano universale che si attribuiva il sogno imperiale mongolo, sovrapponendolo a un impianto formale di tipo califfale. Questo modus operandi, insieme a un profondo intuito psicologico e politico, rendeva le sue strategie vincenti e fragili, allo stesso tempo, sulla lunga durata: la monetazione con doppia autorità finirà già nell’807/1404-’5, segno dell’indipendenza di fatto dei regni sottomessi dopo la battaglia di Ankara. 6. Altre tre conquiste in un giorno Avendo gettato le basi del suo potere in Anatolia, Timur pensò che poteva ripartire per Samarcanda. Nel suo itinerario catturò la città di Ulu Burligh (Ulu Borlu, oggi alle pendici del monte Tekke), nella provincia di Hamid, ovvero la regione che era appartenuta a quel beylikato e poi era stata sottomessa dagli Ottomani. Di lí giunse sulle sponde del lago di Eğridir, dove sorge l’omonima città (l’antica Akrotiri). Shāmī narra che la conquista di questa città fa parte di una serie di tre conquiste in un giorno, ricalcando cosí un modello narrativo impiegato per le campagne indiane. Anche se in questo caso si guarda bene dal chiamare queste conquiste ghazāvāt, essendo quei territori a prevalenza musulmana.94 Sharaf al-Dīn, dal canto suo, fornisce un panorama del luogo: il Lago di Eğridir è caratterizzato da acque dolci con molti fiumi che vi affluiscono all’interno e un’agricoltura florida attorno. La città di Eğridir è protetta da mura in pietra da 332

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taglio e sorge su una penisola, il suo nome nei libri di storia è di Falakabad. Nel mezzo del lago ci sono due isole, una delle quali è detta Gulistān, l’altra Nispīn o Naspīn (l’odierna Nis Adası).95 Queste descrizioni, non prive di imprecisioni,96 sono riportate anche da Ḥāfiẓ-i Abrū che tuttavia si sofferma sul fatto che nell’isola c’era una chiesa usata per i culti delle genti franche (kilīsā-yi ast ki ma‘bad-i ahl-i firang), alludendo alle comunità cristiane. Lo stesso chiama correttamente l’isola di Nīs col suo nome.97 Tutti concordano sul fatto che Timur volle possedere quel luogo, viste anche le ricchezze che doveva nascondere in quelle “isole” e penisole. La conquista però sembrava molto difficile e soprattutto richiedeva tempo. Fu cosí che, vista impraticabile la conquista per via di terra della penisola, si procedette alla conquista per il tramite di barche appositamente predisposte, ricoperte di pelli di bue.98 Ne vennero costruite una sessantina in grado ognuna di portare un centinaio di uomini. Il 17 rajab 805/10 feb­braio 1403 partí l’attacco generale alla città di Eğridir che si arrese immediatamente, non aspettandosi questo assalto dal lago. D’altronde la milizia che attaccò era davvero imponente, includeva le truppe di Shāhrukh, i principi Abū Bakr, Sulṭān Ḥusayn e numerosi altri e ricordava quasi una battuta di caccia di un esercito oramai collaudatissimo nei suoi movimenti. Fin da subito i Timuridi si adoperarono a massacrare gli abitanti del luogo in un modo che si rivelò molto efficace per convincere quanti restavano ancora nella città e nelle fantomatiche isole vicine, i quali, guidati dal proprio comandante Shaykh Bābā, chiesero di essere risparmiati e ottennero il perdono solo dopo che la città era stata depredata di tutte le sue ricchezze. 7. Morte di Bāyazīd e Muḥammad Sulṭān Durante la campagna di Eğridir, Timur che aveva chiesto alla carovana principale dell’esercito di procedere verso Ak Şehir, fu informato in un primo tempo della malattia contratta dal sultano Bāyazīd suo prigioniero. Le fonti timuridi si adoperano a spiegare che Timur si prodigò a fornire i migliori medici per curare quel sovrano. Poco dopo fu anche informato di una malattia contratta da Muḥammad Sulṭān. In questo caso la preoccupazione si trasformò in disperata costernazione. Il 14 sha‘bān 805/9 marzo 1403, Bāyazīd si spense ad Ak Şehir colpito da una crisi respiratoria (żīq al-nafs) cui seguí un colpo apoplettico (khināq). Cosí almeno la raccontano le fonti persiane che non lesinano necrologi, inclusivi della morale sulla caducità del mondo e sulla debolezza umana 333

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innanzi all’operato divino.99 Dopo alcuni decenni nacque un filone ottomano antagonista alle fonti persiane nel quale Bāyazīd non era morto di malattia ma si era suicidato avvelenandosi. ‘Āşıḳpāşāzāde, per esempio, affermò che Bāyazīd si sarebbe tolto la vita per evitare l’umiliazione di essere portato a Samarcanda da Timur.100 ‘Orūç b. ‘Ādil diede invece notizia del fatto che si sarebbe avvelenato,101 lo stesso affermò pur in modo allusivo il poeta Hadīdī.102 Altri esempi ancora vengono elencati dagli studiosi,103 che includono anche quanti invece affermarono che si uccise sbattendo la testa contro le sbarre della sua gabbia, ad esempio Pietro Perondino, autore cinquecentesco, sostenitore della teoria della gabbia, o addirittura che morí strozzandosi con una lisca di pesce.104 Mignanelli dichiarò che fu ucciso da Timur.105 Se è vero che anche in questo caso non si verrà mai a conoscenza di come siano andate realmente le cose, illuminante è la polemica fatta da Fuad Köprülü, che in un articolo apparso sulla rivista « Belleten » si accaní contro Mükrimin Halil Yinanç, autore dell’articolo Bayezid I nel quindicesimo volume dell’İslam Ansiklopedisi,106 il quale, dopo aver accettato la « verità storica » della gabbia, arrivava alla conclusione che l’ipotesi del suicidio fosse fondata. Non sarebbero state solo le fonti turche ma anche alcune greche, come Ducas, a riportare effettivamente la notizia dell’avvelenamento.107 Köprülü con spirito molto tagliente respingeva queste ipotesi in una di quelle molte dispute accademiche che hanno accompagnato gli studi sulle guerre reali di Timur e che ancora una volta si arenavano sulla verifica della veridicità dei testi. In realtà quella polemica era interessante perché introduceva un fattore psicologico che avrebbe condizionato gli storici turchi in diverse circostanze: Köprülü invitava il suo avversario accademico a non limitarsi in tal senso al rigore filologico nell’interpretazione delle fonti.108 Timur acconsentí a seppellire Bāyazīd I a Bursa dove è ancor oggi sepolto. A mio giudizio un aspetto molto significativo della descrizione degli eventi sta nell’accostamento della morte di Muḥammad Sulṭān con quella del sultano ottomano. Sharaf al-Dīn, per esempio, riunisce i due decessi in un unico capitolo e certamente anche questa seconda morte risulta un evento molto particolare e repentino.109 A differenza di Bāyazīd, Muḥam­mad Sulṭān era all’apice del successo, la sua improvvisa malattia sembra derivare dalle solite epidemie: peste? colera? Quest’ultimo decesso si verificò « molto rapidamente » il 18 sha‘bān 805/13 marzo 1403 a Kara Hisar, dopo una brevissima malattia. Se per la morte di Bāyazīd le 334

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fonti si dilungano sulla malattia e sul decesso, per quanto riguarda quella di Muḥammad Sulṭān non è dato sapere come morí. Non è una novità, essendo il riserbo sulle malattie della famiglia imperiale totale. Il lutto viene descritto per molte pagine dove troviamo un Timur, invecchiato e malato, sconvolto per la perdita del suo rampollo preferito e successore al trono.110 Ibn ‘Arabshāh descrive questa tragedia insieme a un altro decesso, quello di un compagno della prima ora di Timur, Sayf al-Dīn Nukuz.111 Quest’ultimo è descritto da Ibn ‘Arabshāh come qualcosa di imbarazzante per Timur, visto il potere enorme che il suo compagno aveva acquisito. La sua ricostruzione di Aspara ai confini con le terre del Khaṭā (la Cina) potrebbe corrispondere a quella città « abitata da soli persiani » già menzionata anche da Rubruk, come Equius e potrebbe essere anche una delle ragioni della campagna cinese di Timur.112 A giudicare dal destino del fratello di Sayf al-Dīn, Allāhdād, che già abbiamo conosciuto in diverse circostanze e subito dopo la morte di Sayf al-Dīn, costui fu bandito in regioni lontane in base ad accuse ingiustificate, si può davvero pensare a una camarilla di palazzo.113 Quanto alla morte di Muḥammad Sulṭān, si riaprirono le contese per la successione, eterno problema di Timur, che intanto consumava il suo profondissimo lutto. Il funerale di Muḥammad Sulṭān fu celebrato in gran pompa, cosí come la traslazione del suo corpo a Samarcanda. Il feretro con i suoi resti attraversò l’Azerbaigian, dove sarà seguito anche da un derviscio, Badr al-Dīn di Simavna, divenuto celebre in seguito per la sua rivolta anti-ottomana, che visitò lo stesso Timur nell’autunno del 1403.114 Clavijo, che assistette alla sua commemorazione il 30 di ottobre del 1404, descrive minutamente la prima costruzione del Gūr-i Mīr (la ‘Tomba dell’Emiro’), una struttura di cui Timur pretese poi la ricostruzione, che seguí personalmente imponendo che fosse realizzata in dieci giorni. In seguito, l’edificio verrà ulteriormente rimaneggiato e sarà anche la sepoltura di Timur stesso e del figlio Mīrānshāh.115 8. Un’ambasciata egiziana. Il destino dei Tatari neri Ad Ak Şehir, durante la cupa primavera dell’805/1403, Timur ricevette una delegazione diplomatica che proveniva dall’Egitto. La delegazione faceva seguito a quella spedita presso il sultano mamelucco dopo la battaglia di Ankara, con la richiesta esplicita della restituzione di Atilmish, 335

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oramai detenuto dagli Egiziani da circa dieci anni.116 Suggestionato dagli eventi di Ankara, il giovanissimo Faraj cedette su tutta la linea: non solo restituí il nobile timuride, ma lo colmò di denaro, abiti e doni, oltre a una veste di gala e un cavallo con le finiture d’oro.117 Anne Broadbridge ha notato che Faraj dimostrava con questo rilascio, e ancor piú con la lettera che lo accompagnava, di aver abbandonato tutti i fondamenti della regalità mamelucca. In effetti, stando alle fonti egiziane, Timur veniva omaggiato con titoli sino ad allora totalmente inediti, come al-maqām al-sharīf al-‘ālī (‘Sua Maestà, nobile e somma’), il titolo di Kūrkān (da Gūrkhān/ Küregen), e ancor peggio quello di Quṭb al-Islām wa’l-muslimīn (‘Polo dell’Islam e dei musulmani’), accreditando una fede islamica a Timur che in precedenza gli era stata sistematicamente negata dai suoi detrattori. Faraj alludeva pentito agli errori del padre Barqūq, chiedeva perdono per l’affaire Atilmish, facendo un atto di assoluta sottomissione e dichiarandosi pronto a pagare il tributo. Un atteggiamento, questo del sultano, che terminò solo con la morte di Timur nell’807/1405.118 Probabilmente il ritorno di Timur prevedeva un ulteriore passaggio nei territori mamelucchi, o comunque vicino ad essi, e questo ingenerava un’altra ragione di giustificato timore nel giovanissimo sultano. Alcune fonti timuridi affermano persino che Faraj avrebbe battuto moneta con il nome di Timur, anche se la cosa non sembra confermata nella realtà.119 Nel corso del suo itinerario di ritorno dall’Anatolia, Timur decise anche di sistemare definitivamente la questione dei Tatari neri. Shāmī narra: In quel momento [sha‘bān-ramaḍān 805/ca. marzo-aprile 1403] Sua Maestà, con la dignità di un Cosroe, decise che la regione e le tribú nomadi (īl va ḥasham), le truppe e gli eserciti (‘asākir va ajnād) dei Tatari neri dovevano essere condotti dalla terra di Rūm [l’Anatolia] verso oriente e una spedizione venisse inviata nelle steppe di Amāsya prossime ai territori di Qayṣariyya [Kayseri] con degli eserciti guidati dal principe sommo Shāhrukh, Sulṭān Ḥusayn e l’emiro Sulaymān Shāh, affinché i Tatari non riprendessero la propria strada e nessuna creatura tra di loro si allontanasse, nessuno di loro si ribellasse o subisse ingiuria ai propri averi e alle proprie vite. Gli uomini furono spediti e diedero l’ordine che individuate due persone intelligenti, esperte e sagge, fossero spedite di gran carriera presso Sua Maestà. Due maggiorenti tra loro, chiamati Tabarruk e Muruvvat, vennero per baciare il nobile tappeto. Sua Maestà mostrò di gradire la loro presenza con affermazioni suadenti e parole regie, manifestando comportamenti degni di un Cosroe. E disse: « Nei vostri confronti non proviamo altro che affetto e compassione e non sarà il regno precedente a trattenervi in questo luogo dove

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xvii · dopo ankara siete stati portati sradicandovi dai sultanati del passato, dai compatrioti dei vostri padri. Ora potete dirvi sotto l’ombra protettrice e la benevolenza nostra, che l’amore per la patria è un atto di fede! (ḥubb al-waṭan min al-īmān)120 e tornerete nella sede e nella patria dei vostri avi e trascorrerete il resto del tempo della vostra vita all’ombra della nostra benevolenza in sicurezza e tranquillità ». Queste parole vennero accettate e apprezzate e subito in segno di sottomissione dissero: « Obbediamo e ci sottomettiamo al servizio di Sua Maestà! Cosa è meglio per noi di questa grazia e di questo piacevole e rallegrante accudire i servitori? Sotto l’ombra protettiva di Sua Maestà e dopo un lungo periodo di allontanamento e di separazione, ritorniamo felici con le nostre donne, i figli, i famigliari, i seguaci, il bestiame e le proprietà, nel nostro regno ». Con generosità, Sua Maestà dispose e comandò che nessuna creatura subisse danni alle proprie terre, ai propri beni e tutti gli emiri si attenessero a questo importante proposito di condurli, avendo cura di custodire e rispettare il loro bestiame e i loro problemi, rimanendo a loro disposizione.121

La versione di Sharaf al-Dīn non diverge molto da quella di Shāmī: ci informa del luogo finale di questa grande deportazione, ovvero la terra dei Jete, dove Timur afferma di aver provveduto a predisporre un loro insediamento. Inoltre, Sharaf al-Dīn mostra una maggior precisione geografica, indicando varie dislocazioni anatoliche dei Tatari neri, come Tokat, Amasya e Kayseri, e parla di una popolazione di quarantamila tende, ovvero nuclei famigliari disposti su tutto il territorio.122 Ma la storia dei Tatari neri raccontata da Ibn ‘Arabshāh è invece il racconto di un tradimento subdolo da parte di Timur che, dopo averli circuiti con blandizie e con l’osservazione che facevano parte della sua stessa gente, cambiò d’improvviso registro trasformandoli in prigionieri dopo averli privati delle loro armi in una parata in cui loro gliele impilarono innanzi, proprio come aveva fatto con gli abitanti della città del Sijistan (Sistan). « Cosí, privati i leoni degli artigli e delle zanne, e strappato il becco e le grinfie alle coraggiose aquile, e fissate le lame virili del suo cervello nelle interiora delle loro menti, la stella del loro potere mutò da armata a disarmata e di nuovo apparve l’astro dell’Assassino »; Timur ordinò di legarli e portarli in cattività e fece levare i loro accampamenti costringendoli ad andarsene.123 Nel cammino verso l’Asia centrale i Tatari neri si ribelleranno e saranno massacrati dai Timuridi. Fino ad arrivare all’orrenda costruzione di quattro minareti di teste umane nella città di Damghan, cosí come racconta l’ambasciatore castigliano Clavijo e Sharaf al-Dīn confermerà poi: 337

tamerlano Giovedí, 17 luglio [1404], di notte si giunse alla città di Damogan (Damghan). Si trovava su una pianura che era circondata da una cinta di terra e a un’estremità c’era un castello. La città è già la provincia della terra dei Medi e qui finisce la Persia. Quel giorno ci fu un gran calore e il vento era cosí caldo e ardente che destò gran meraviglia e sembrava uscire dall’inferno. E quello stesso giorno ne morí soffocato un falcone. Fuori dalla città a distanza di un tiro di balestra c’erano due torri alte quanto una pietra lanciata per aria da un uomo, fatte di fango e di teste umane, e due altre torri che erano crollate. Queste torri fatte di teste umane appartenevano alle genti che vengono chiamate Tatari bianchi, nativi di una terra che si trova tra la Turchia e la Siria. Quando Tamurbeg lasciò Sabastria [Sivas], dopo la sua conquista, ed era diretto verso Damasco che poi distrusse, trovò per strada queste genti che lo ingaggiarono in battaglia e lui li sconfisse facendo molti prigionieri. E costoro furono inviati in questa terra di Damogan per popolarla perché era poco abitata. Coloro che vi giunsero si riunirono in un unico accampamento come era loro costume: ma quando furono tutti arrivati vollero fare ritorno alla propria terra e si misero a rubare e distruggere tutto ciò che gli si parava innanzi mentre si avvicinavano al loro paese. Trovandosi nei pressi di questa città, arrivò l’armata del Signore [Timur] e li sconfisse, uccidendoli tutti. Il Signore ordinò che con le loro teste si erigessero quelle quattro torri. Le innalzarono nel modo seguente: uno strato di teste, uno di fango. Ordinò inoltre il Signore che chiunque avesse trovato un Tataro bianco lo uccidesse. E cosí fu fatto e ovunque l’armata [di Timur] andasse aveva l’ordine di uccidere tutti i Tatari bianchi. Cosicché per le strade si trovavano da una parte dieci, da un’altra venti, in un’altra tre o quattro morti. In questo modo i Tatari uccisi furono piú di sessantamila. La gente di questa città diceva che di notte spesso vedeva lumi di candela in cima a queste torri.124

Insomma, con pur molte divergenze non sembra che i Tatari neri (o bianchi) abbiano lasciato molte tracce, il che non fa altro che confermare un massacro generale. Lo sguardo sulla loro civiltà è di tipo antropologico: vengono visti come figure che praticano un nomadismo integrale e perciò differiscono dai Timuridi, in definitiva semi-nomadi, legati alla costruzione di città e di complessi monumentali, praticanti oramai quasi un nomadismo “di maniera”. La menzione dei Tatari neri nelle fonti produce un vero e proprio corto circuito: da un lato, pur strumentalmente, Timur dichiara di essere come loro, di avere origini comuni, dall’altro si sbarazza della loro presenza dopo averli utilizzati e anzi dopo che loro sono stati determinanti per i suoi successi.125

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XVIII ULTI M E I M P RE S E 1. Sulla via del ritorno La fine della campagna dei “sette anni” – come viene chiamata in modo ridondante dalle fonti timuridi – e il lungo viaggio di ritorno verso Samarcanda furano accompagnati sicuramente da un misto di sensazioni contrastanti. Da un lato l’euforia per il carattere straordinario delle conquiste viene esaltata da tutte le fonti, che vedono nella rapidità delle azioni compiute un insieme di successi senza precedenti, forse neanche nella storia passata dei Mongoli. Dall’altro questi successi non corrispondevano a un progetto di Stato, cosí come a leggi rispondenti a nuovi ideali politici e tanto meno a una nuova dimensione esistenziale. E neppure si può dire che Timur fosse stato capace di predisporre un sistema di sfruttamento economico delle terre sottomesse, come avevano fatto invece i Mongoli prima di lui. In buona sostanza i vecchi detentori del potere politico furono reinsediati piú o meno nelle loro precedenti posizioni. Bāyazīd era morto, apparentemente non per volontà di Timur, eppure i figli del sultano ottomano si erano spartiti il regno con il benestare del nuovo conquistatore. Lo stesso era successo per i beylikati anatolici e per i Mamelucchi, e ancora prima per i resti del sultanato di Delhi che si era ricostituito dopo la partenza di Timur. Solo la Persia, la Transoxiana e parte di quello che oggi è l’Afghanistan potevano dirsi piú o meno saldamente in mano timuride, anche se in molte regioni i membri della famiglia reale avevano tentato di appropriarsi a piú riprese del potere del Grande Emiro, costringendolo a faticose reprimende che però culminavano con altrettanto indigeribili perdoni di veri e propri “alti tradimenti”. Piú di tutto gravava su quel viaggio di ritorno la morte del principe ereditario Muḥammad Sulṭān, improvvisa e soprattutto non avvenuta sul campo di battaglia, che doveva prostrare il Signore della Congiunzione Astrale, il quale vedeva svanire forse l’ultima chance per la costruzione di un vero Stato e presagiva il conflitto che poi si verificò dopo la sua morte. Muḥammad Sulṭān era una figura dinamica e brillante, la sua morte costituiva una grave impasse e sostituirlo in quella funzione di principe ereditario era davvero difficile se non impossibile. Gli altri si erano dimo339

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strati troppo avidi, poco fedeli e spesso sostanzialmente inadatti o addirittura inetti. Con poche eccezioni erano stati pessimi candidati alla successione. A sintetizzare questo senso di angoscia profonda andrà detto che il ritorno fu anche un funerale, e come si è visto molti si aggregarono alla carovana funebre. Sharaf al-Dīn descrive il fatto che Timur convocò tutte le mogli perché lo raggiungessero ad Avnik nella regione di Erzurum, inclusa la Khānzāda, madre di Muḥammad Sulṭān.1 Venivano per una straziante cerimonia funebre che una volta tanto sembrò intaccare persino il cinismo dei piú cerimoniosi cronachisti persiani, che oltre agli artifici retorici (lacrime intrise di sangue; la terra cosparsa sul capo; le unghie che scavano il volto e simili) offrirono una piccola antropologia del lutto, per altro già adottato da Timur ad Ak Şehir e ora perpetuato con modalità rituali abbastanza rigorose anche da mogli e concubine. Le donne si coprivano il volto con lembi di stoffa neri (qarṭahā-yi siyāh) e quando Timur si accampò, iniziarono a lanciare le grida del compianto funebre. Gli abiti erano nei colori del lutto: azzurri e blu (libās-i azraq va kabūd),2 e per lenire il dolore della madre di Muḥammad Sulṭān, la Khānzāda, il sarcofago le fu presentato vuoto, inchiodato e bloccato da una serratura. In versi Sharaf al-Dīn traspone il suo compianto funebre: Gli occhi ho piantati sul viale, forse Avrò notizie del mio figlio adorato, Non sospettavo una simile disgrazia dal cielo: Aver visto da lontano portare il tuo sarcofago. Non sospettavo tanto male dal destino, Che m’avrebbe fatto accompagnare la tua bara. Per te il trono d’Iran aveva acquisito valore, Ed ora, con la tua tomba, è caduto in disgrazia.3

Fu a questo punto che Timur – stando alle fonti persiane – avrebbe fatto ricorso alla visione profonda che lo aveva guidato in passato nei momenti peggiori: il lutto fu trasformato in elemosina rituale, con un banchetto mortuario destinato ai poveri, al quale parteciparono tutti con profondo cordoglio. Venne fatto in pezzi il timpano da battaglia (kūrka, dal mong. körgä), secondo un’usanza funeraria presumibilmente mongola,4 poi, come a voler sempre forzatamente esprimere un sincretismo rituale, giunsero le autorità religiose che provenivano dai principali centri persiani. Furono costoro che si adoperarono a lenire la disperazione delle princi340

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pesse reali. Timur decise di mettere fine al lutto generale cosciente delle insidie che una sua espressione eccessiva poteva rappresentare. Per altro in quel viaggio c’erano stati alcuni attentati, come quello al fido ‘Alī Sulṭān Tuvājī, colpito a morte da una freccia mentre perlustrava uno degli edifici rupestri in Cappadocia, con l’inevitabile strage successiva della popolazione locale.5 Presagi e segni di instabilità ulteriori si alternavano al successo ottenuto con la guerra. 2. Un’ambasceria di Giorgi VII Sulla via del ritorno, e col ritmo blando di un esercito nomade numeroso che necessitava di molte soste, soprattutto ora che il bottino era ingentissimo e le fatiche dell’impresa richiedevano per il sovrano come per tutti gli altri un periodo di requie, nell’animo di Timur maturò un nuovo progetto di guerra di religione. La decisione fu presa mentre il grande esercito si dirigeva verso le ridenti spianate di Mingöl nella regione di Kars (oggi Turchia orientale). Questa regione era allora posseduta da una vecchia conoscenza di Timur, l’atabeg Yīvanī (Ivane) del Samcxe-Saatbago, ed era connessa con Erzurum, centro vitale di transito tra il territorio anatolico e la Persia.6 Ivane si presentò a Timur insieme a Kūstandīl (K’onst’ant’ine), fratello di Giorgi, ostile a quest’ultimo. Ivane e K’on­ st’ant’ine diedero segni di sottomissione innanzi al signore centroasiatico7 e Ivane adottò persino l’Islam, come aveva già fatto il padre Aqbugha.8 Fu qui che Timur elaborò una valida motivazione per attaccare quello che in via teorica non era un suo nemico. Gli autori persiani lamentano il fatto che Giorgi non avrebbe pagato i tributi dovuti e che ora Timur pretendeva che lui si presentasse. D’altronde, in questa circostanza, Timur aveva mostrato particolare clemenza nei confronti del signore di Mardin, Malik ‘Īsā, il quale invece si era precipitato a portare i tributi non versati e a dichiarare il suo assoluto assoggettamento. Posto in questa parte della cronaca di Sharaf al-Dīn, l’episodio suona come un contraltare perfetto delle presunte negligenze di Giorgi.9 Sharaf al-Dīn, dunque, racconta mezze verità. Lo storico georgiano Ǯavaxišvili ricorda che K’onst’ant’ine era stato inviato da Giorgi presso Timur per concludere la pace con lui e ipotizza quindi che il suo voltafaccia e quello di Ivane derivassero dall’irritazione di K’onst’ant’ine di fronte all’inosservanza da parte di Giorgi delle condizioni di pace. K’arlo T’abat’aʒe, a sua, volta dimostrò l’inconsistenza di questa notizia.10 Lo 341

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studioso richiamò l’attenzione su quanto diceva Gorgiǯaniʒe, secondo il quale i funzionari di corte di Timur « si spartirono i doni e crearono scompiglio » tra i dignitari di Giorgi.11 K’onst’ant’ine probabilmente rimase in ostaggio presso la corte di Timur, insieme ad altri dignitari georgiani.12 Durante la prolungata sosta di Mingöl, vennero anche prese numerose decisioni in merito alle nomine dei principi a nuove posizioni di potere. La morte di Muḥammad Sulṭān imponeva delle scelte decise e senza far passare troppo tempo: il principe Pīr Muḥammad, figlio di ‘Umar Shaykh, già rimosso dalla sua funzione per le sue ambiguità politiche, venne perdonato e reinsediato a Shiraz come governatore con un prudente controllo dei ministri Luṭf Allāh, figlio di Buyan Timur, e Chulpānshāh Barlas.13 Veniva anche richiamato il principe Rustam da quella città e costui ricevette il governo di Isfahan.14 Timur volle anche premiare il principe Abū Bakr, inviandolo a ricostruire la città di Baghdad, con il titolo di governatore dell’Iraq arabo e del Diyar Bakr, del Kurdistan, di Mardin, fino alle città di Wasit e Bassora.15 Non era una nomina semplice. Il sovrano jalayiride Sulṭān Aḥmad aveva tentato di riappropriarsi della città ma si era trovato contro il figlio Sulṭān Ṭāhir, che già abbiamo conosciuto ad Alinjak come alleato dei Georgiani, il quale si era posto in aperta rivolta nei confronti del padre. Come ha notato Patrick Wing, che si rifà al racconto di Naṭanzī, questi turbolenti rapporti col padre erano iniziati dopo che Sulṭān Ṭāhir era stato imprigionato ad Alinjak per 11 anni, cosa che aveva reso la sua natura « ferina » (vaḥshī al-ṭab‘), per poi fuggire in Georgia e da lí attaccare Baghdad.16 Per contrastarlo Sulṭān Aḥmad aveva dovuto ancora una volta richiedere l’aiuto di Qara Yūsuf, signore dei Qara Qoyunlu. Nella battaglia che era seguita Sulṭān Ṭāhir era stato sconfitto dai Turcomanni ed era finito negli abissi del Tigri sotto il peso della propria corazza all’età di ventisette anni.17 Sharaf al-Dīn racconta il seguito della storia, secondo la quale dopo aver aiutato Sulṭān Aḥmad, Qara Yūsuf insidiò Baghdad costringendo il sovrano jalayiride a nascondersi nella città e, in seguito, a una rocambolesca fuga in groppa a un bue che lo portò a Tikrit, città dalla quale proseguí a cavallo fin nella Siria mamelucca, dove arrivò il 15 ṣafar 806/3 settembre 1403.18 Ora Abū Bakr doveva cacciare Qara Yūsuf da Baghdad. Era assistito dal principe Rustam e da vari altri principi accorsi per intervenire contro i Qara Qoyunlu. Qara Yūsuf fuggí di gran carriera, anche lui diretto al Cairo, ma i due cominciarono a costituire un problema per Faraj che si 342

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ritrovava in casa due dei peggiori nemici di Timur. Cosí anche il sultano mamelucco si trovò costretto a giustificare il fatto che aveva posto Qara Yūsuf e Sulṭān Aḥmad in stato di detenzione a Damasco, anche se poi i due non furono giustiziati come richiesto da Timur e presto anzi lasciarono quella prigione.19 Per la terza volta Baghdad tornava in mano timuride. Quanto a Giorgi VII, Timur levò l’accampamento dalla regione di Qars, e come afferma Sharaf al-Dīn si approssimò alla Georgia tra una battuta di caccia e un’altra. Il suo fedele servitore Ibrāhīm, governatore dello Shirvan (ḥākim-i shervānāt), lo precedeva appropriandosi dei territori di transito e dei passaggi. Fu a questo punto che Gurgīn, ovvero Giorgi VII, si affrettò a mandare incontro a Timur un’ambasciata con doni, « con l’uccello della sua anima che prese a palpitare nella gabbia del suo petto ».20 Nel suo messaggio Giorgi avrebbe dichiarato il proprio asservimento assoluto, anche se fu Timur a inviare un’ambasciata, probabilmente, e non il contrario.21 Giorgi chiedeva un ritardo (muhlat) nella consegna del pagamento del tributo. La risposta di Timur è abbastanza interessante: secondo lui Giorgi avrebbe dovuto convertirsi all’Islam, ma se cosí non avesse fatto, doveva sottoporsi al pagamento della jiziya (‘capitazione’) cosí come previsto dalla sharī‘a, e cosí come faceva già il signore (vālī) di Costantinopoli che apparteneva alla sua stessa religione (kīsh).22 L’ambasceria di Giorgi VII rivela una diversa considerazione da parte di Timur rispetto al passato: al di là delle minacce, la richiesta di conversione non sembra cosí perentoria come invece era avvenuto in precedenza e soprattutto il ricorso alla sharī‘a, che in linea di principio garantisce a cristiani ed ebrei la possibilità di sopravvivere e di praticare il proprio culto attraverso il pagamento di un tributo, appare come piuttosto inedito nelle parole di Timur. Dopo aver ricevuto anche notizie rassicuranti da Tabriz e dal Khorasan, da dove i governatori (darugha) si erano premurati di raggiungere Timur per informarlo dello stato dei territori a loro assegnati, il Grande Emiro decise che l’estate (del 1403) si avvicinava e con lei il tempo dei raccolti in Georgia e il grano sarebbe finito in mano dei Georgiani, i quali ne avrebbero ricavato un particolare vantaggio. Perciò venne emanato subito l’ordine a Shaykh Nūr al-Dīn di procedere all’occupazione di queste coltivazioni e di devastare quelle dove non era possibile compiere la mietitura. Fu cosí che lo Shaykh Nūr al-Dīn compí un’ampia incursione in cui avvennero varie stragi, ma venne anche raccolto molto grano e prodotta molta farina.23 343

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3. La cittadella di Birtvisi e la spedizione in Abkhazia Shāmī fornisce il nome piú corretto del primo obbiettivo di Timur in questa ennesima campagna georgiana: Birtis, ovvero Birtvisi, un incastellamento nella regione del Kvemo Kartli, nella Georgia sud-orientale, precisamente nella valle dell’Algeti. L’autore timuride aggiunge che la fortezza era disposta su un’impervia montagna, saldamente fortificata, tanto da rendere impossibile la sua visita da parte di viaggiatori anche in tempo di pace. Sempre stando a Shāmī, il nome del castellano era Tūrāl, un comandante georgiano che aveva alle sue dipendenze circa trenta aznavūr, « che sono tra i grandi georgiani ».24 T’abat’aʒe, analizzando il nome del castellano nelle fonti persiane e georgiane, giunge a identificarvi quello del casato dei Toreli, grandi feudatari georgiani.25 Gli assediati avevano ingenti scorte d’acqua e depositi di grano.26 Sharaf al-Dīn racconta che la fortezza era raggiungibile solo tramite scale e corde, anche se in cima a un dirupo si trovava una porta che dava su un abisso. Aggiunge poi che al suo interno erano custoditi maiali e montoni e le cantine erano piene di scorte di vino.27 L’assedio risultò ostico, l’esercito timuride aveva difficoltà di approvvigionamento e ridotte scorte idriche. Cosí, con la necessità di prendere rapidamente quel luogo, il Grande Emiro si presentò di fronte a Birtvisi il venerdí 14 di muḥarram 806/5 agosto 1403. Malgrado un tentativo di alcuni abitanti di cercare una soluzione pacifica con un atto di sottomissione, altri, evidentemente contrari, lanciarono una pioggia di frecce e di pietre. Vennero costruiti rapidamente dei fortini: uno sorgeva nella zona dove si trovava la porta; due in altre posizioni. Specifica Sharaf al-Dīn che quei fortini sarebbero serviti nel caso l’assedio si fosse protratto troppo a lungo e dunque il grosso dell’esercito poteva ripartire, lasciando però una guarnigione sul posto che continuava il blocco della cittadella. Gli onagri e i trabucchi iniziarono a scagliare pietre all’interno, con questi vennero impiegati dei qarābughrā, uno strumento bellico difficile da identificare con precisione, anche se si ritrova in alcune fonti italiane per altri assedi con il nome « carabaccano » (tur., lett. il ‘cammello nero’), probabilmente si trattava di gabbioni per contenere delle pietre che potevano a loro volta essere lanciati.28 Fu anche eretta in una settimana una piattaforma di pietra e legno (maljūr) molto elevata che permise a un montanaro merkit – di quelli spesso utilizzati da Timur – di nome Bikijik di 344

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arrivare segretamente in cima alle mura con un montone al quale mozzò la testa, lasciando questo sinistro avvertimento agli abitanti del castello per poi tornarsene indietro. Timur apprezzò molto quel gesto e fece altresí costruire delle funi fatte di seta cruda (abrīshim-i khām) e corda (rīsmān) con le quali vennero realizzate delle scale. Quattro merkit particolarmente attrezzati scalarono la sommità del monte e fissarono a un albero cresciuto in cima alla roccia queste scale sulle quali salirono « i migliori combattenti turchi del Khorasan ».29 Dopo un sanguinosissimo combattimento nel quale morirono numerosi soldati timuridi, un gruppo di questi khorasanici riuscí ad aprire la porta del castello. Il 23 muḥarram 806/12 agosto 1403 i Timuridi ebbero il sopravvento sui nemici:30 il capitano georgiano fu portato in catene davanti a Timur e con lui molti altri « ghebri sciagurati » e nessuno dei georgiani della fortezza rimase in libertà. Furono disposti i tūq del trionfo,31 venne urlata la chiamata alla preghiera dai tetti delle chiese e Timur fece platealmente decapitare il comandante Tūrāl e i combattenti georgiani, mentre le donne venivano prese prigioniere. La moglie di Tūrāl fu consegnata al fedele signore di Shīrvān Ibrāhīm e furono distrutte sul posto la piattaforma e le apparecchiature da guerra. Un certo Muḥammad Tūrān, che si era distinto nella conquista, fu investito del governo della fortezza con l’ordine preciso di non permettere ai Georgiani di accedervi mai piú.32 Sharaf al-Dīn descrive in un breve capitolo diversi accadimenti che si verificarono durante l’assedio. Una delegazione arrivò da Shiraz con doni sfarzosi dei maggiorenti della città qui rappresentata da Quṭb al-Dīn Quramī.33 Con lui Hājjī Musāfir recò dei doni da parte del principe Rustam, signore di Isfahan. Altri ancora giungevano dalle regioni meridionali della Persia, da Yazd e dal Khorasan. Sharaf al-Dīn menziona anche il figlio di un certo Shaykh Maḥmūd Zangī ‘Ajam (noto come ‘Ajam Kirmānī), autore di un libro intitolato Jūsh-u-Khurūsh (Furia e ruggito) dedicato interamente alle gesta di Timur. Zangī ‘Ajam era disgraziatamente caduto da un ponte non lontano da Tbilisi nel fiume Kura, annegandovi, e il figlio consegnò a Timur la sua fatica storiografica di cui purtroppo non sopravvive oggi alcuna traccia.34 Dopo la presa di Birtvisi, Timur decise di ripartire, questa volta per l’Abkhazia, per compiere, come ci informa Shāmī, una guerra di religione (ghazv) contro gli Armeni. Questa campagna ha contorni molto confusi: i confini geografici poco chiari non permettono di capire chi fossero questi 345

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Armeni in Abkhazia. Gli autori persiani descrivono questi ultimi come dei protetti del re di Georgia. Dopo la battaglia di Birtvisi, probabilmente le truppe di Timur si riposarono nella Kartli Superiore, ossia Georgia sudoccidentale, e qui venne decisa la campagna contro la Georgia occidentale.35 Ma ove si escluda la penetrazione in Abkhazia « nella frontiera settentrionale del regno di Georgia », dove l’esercito timuride arrivò dopo aver tagliato numerosi alberi, gli Armeni erano probabilmente in una zona piú a sud. In territorio georgiano Timur fece attaccare un numero notevole di villaggi – Sharaf al-Dīn parla di settecento – devastando le coltivazioni e distruggendo le chiese « in pietra da taglio ».36 Come già era avvenuto in precedenza, gli abitanti si rifugiarono all’interno di grotte sulle montagne che furono raggiunte in molti casi dai soldati con l’uso delle casse calate dall’alto, secondo una tattica adottata già nel 1395 e in altre circostanze.37 Le fonti persiane, però, non sono chiare né sulla localizzazione geografica né sull’entità di queste razzie che sarebbero terminate il 14 rabī‘ i 806/1 ottobre 1403, con il ritorno all’accampamento imperiale e una grande caccia forse a Kutaisi.38 Gli autori persiani introducono inoltre una leggenda che pretendeva che « dei rispettabili comandanti georgiani prigionieri dei servitori di Timur » (umarā-yi mu‘tabir-i gurj ki dar qayd-i asr-i bandigān-i ḥażrat) avrebbero informato Giorgi VII che se Timur si fosse appropriato dell’Abkhazia non sarebbe piú rimasto piú nulla degli Armeni. A complicare questo racconto si aggiunge la versione di Ḥāfiẓ-i Abrū, che inserisce la storia di Ivane (Īvanī) e K’onst’ant’ine (Kūstandīl), che si sarebbero assoggettati e avrebbero promesso di guidare Timur contro il loro rivale Giorgi. Timur li avrebbe invitati alla conversione all’Islam, e come s’è visto, solo Ivane avrebbe accettato.39 Il re di Georgia era disposto a pagare un tributo per evitare ulteriori sofferenze al suo popolo e disposto anche ad accogliere dei musulmani nella sua terra, ma evidentemente non disposto lui stesso a convertirsi, come sembra non fosse disposto K’onst’ant’ine. Ed è molto probabile che questa trattativa abbia infine convinto Timur a ritirarsi da una ghazā molto complessa, dopodiché se ne andò nel Qarabagh per riposarsi dalle estenuanti imprese belliche. Non ultimo, potrebbero averlo convinto le lamentele di alcuni suoi ufficiali non propensi a continuare ad avanzare soprattutto in una zona molto insidiosa e ostica per la resistenza degli avversari.40 Sembrerebbe proprio che in definitiva Timur sia tornato alle condizioni stabilite in precedenza, anche se poi fu lui il primo a infrange346

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re gli accordi quando, passando da Tbilisi sulla via del ritorno, fece compiere delle devastazioni.41 4. La ricostruzione di Baylaqan Sulla via del Qarabagh Timur si fermò nel ridente sito di Baylaqan (oggi Beylɘqan/Oranqala, in Azerbaigian) che sorgeva sulla strada che da Ardabil conduceva a Darband. La città era stata devastata dalle invasioni mongole (617/1220) con mostruose carneficine e saccheggi.42 Lentamente in seguito si era ripopolata, ma al tempo dell’arrivo di Timur sembra fosse semi-abitata e in rovina, come afferma Sharaf al-Dīn in una serie di versi. Siccome a Baylaqān non restavano abitanti Non v’abitavano altri che serpenti e scorpioni E tanti erano quei serpenti e quegli scorpioni Che vivere in quel luogo era impossibile.43

All’inizio dell’inverno Timur dispose di compiere una grande impresa ricostruttiva del complesso urbano, a iniziare da un vero e proprio progetto realizzato da architetti, che includeva delle mura, un fossato, quattro mercati, numerose abitazioni, delle terme, un caravanserraglio e degli orti. L’impresa venne affidata a ministri ed emiri che si adoperarono per la realizzazione di questa città insieme a tutti i soldati che la realizzarono interamente in mattoni cotti (khisht-i pukhta). Le cronache descrivono anche le misure: le mura erano di 2400 gaz (ca. 1,5 km.), mentre erano spesse undici gaz (6,5 m.) e alte ca. quindici gaz (10 m.) mentre il fossato era largo 30 gaz (ovvero 18 m.) e profondo circa 20 gaz (12 m.). Le mura possedevano quattro torri quadrangolari e si aprivano due grandi porte per accedere alla città.44 Il lavoro prese appena un mese, cosa che desta gran meraviglia nei nostri cronachisti, in effetti si trattava della realizzazione di un ulteriore sogno utopico, dopo il canale Barlas e altre costruzioni nel Caucaso di dimensioni non secondarie. La nuova città fu affidata a Khalīl Sulṭān, figlio di Mīrānshāh, che avrebbe ricevuto anche il governatorato dell’intera regione fino all’Armenia, la Georgia e Trebisonda. Ma di questa notizia parla solo Sharaf al-Dīn, a indicare che forse il riferimento è stato omesso dagli altri cronachisti, meno interessati a diffondere questa versione della storia.45 347

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Timur trascorse a Baylaqan una parte del periodo invernale, qui tenne in udienza dei consiglieri che accusò di essere troppo adulatori, con il sottinteso rimprovero di nascondere delle malversazioni e degli imbrogli nella sua amministrazione. Probabilmente terrorizzati, costoro furono cosí incaricati di occuparsi della povera gente e degli eventuali torti che avrebbe subito. In seguito, Timur chiese di poter ascoltare il popolo direttamente per poter riparare a ingiurie portate dai preposti ai governi locali. Giunsero a Baylaqan anche le notizie della campagna condotta da Abū Bakr e l’emiro Rustam a Hilla, nell’Iraq arabo, contro Qara Yūsuf; costui sarebbe fuggito dopo una violenta battaglia nei pressi di Hit, su un affluente dell’Eufrate chiamato al-Nahr al-Ghanam (‘il fiume del saccheggio’, forse l’Eufrate stesso), in cui aveva perso anche la vita suo fratello Yār ‘Alī, cui fu mozzata la testa dopo la cattura.46 L’intero esercito fu catturato, mentre Qara Yūsuf ritornava ancora in Siria per cercare rifugio. Furono anche prese le sue ricchezze e la regina madre; vennero sconfitti diversi capi arabi. La testa di Yār ‘Alī venne presentata a Timur. Abū Bakr avrebbe in seguito curato il restauro della città di Baghdad, ridotta pressoché in rovina.47 Tutte le fonti sono concordi sul fatto che durante il restauro di Baylaqan, il 1° jumādī i dell’806/16 novembre 1403, arrivò nella città il principe ‘Umar, figlio di Mīrānshāh, che fu incaricato del governo dell’Azerbaigian. Un nawkar circasso di Nihavand, figlio di un certo Tūmān, giunse con la testa mozzata del re Malik ‘Izz al-Dīn del Piccolo Lar, lo stesso assicurò di aver impagliato il corpo di quel signore e di aver esposto quel macabro fantoccio come esempio per i « sobillatori » (mutamarridān) e i « ribelli » (ṭāghiyān). Anche Timur volle compiere un gesto esemplare di giustizia e se la prese con quel Quṭb al-Dīn Quramī48 che aveva vessato a suo giudizio la popolazione del Fars insieme ad altri ufficiali del dīvān, depredando gli artigiani dell’importo di seicentomila dīnār kebeki, dicendo che erano donazioni e regalie per Timur. Dopo esser stato incatenato, fu esposto a una sorta di gogna (dushākha, il ‘doppio ramo’) insieme a tutti i suoi accompagnatori e venne interrogato da Timur che gli chiese di rispondere pubblicamente delle sue azioni. La condanna fu quella di tornare accompagnato da ufficiali dell’esercito con quei tremendi vincoli e con i presunti doni a Shiraz, per restituire questi ultimi a coloro ai quali erano stati sottratti. Un suo intendente di nome Arghun, particolarmente accanito con gli abitanti di Shiraz, doveva essere impiccato sul posto appena fossero giunti. L’altro doveva, con la gogna al collo, restituire quanto aveva 348

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rubato nella Grande Moschea dichiarando al popolo che non era stato Timur a volere quelle somme ma lui stesso.49 Questo episodio, narrato solo da Sharaf al-Dīn, sembra anche rivelatore del fatto che forse, anzi molto probabilmente, vi era chi si appropriava dei beni dei sudditi per arricchirsi. Evidentemente il sistema di spionaggio interno poteva arrivare anche a Timur, il quale amava questo tipo di purghe esemplari, non sempre, però, val la pena ripeterlo, riportate da tutti gli autori, che forse non condividevano simili strazi. Shāmī preferisce chiudere il capitolo sul soggiorno a Baylaqan raccontando che Timur fece scavare un canale che avrebbe permesso l’irrigazione della regione e la sua prosperità.50 5. Il qishlāq nel Qarabagh e imprese collaterali Baylaqān era ai margini del Qarabagh. Per Timur si trattava di una regione molto piacevole, per la sua prosperità e il clima particolarmente favorevole. Vennero costruite delle qūriyā (mong. per ‘capanna’),51 una delle quali particolare per Timur. Ibrāhīm di Shīrvān predispose un immenso banchetto per festeggiare l’intera aristocrazia timuride che intanto raggiungeva la regione da ognuna delle province della Persia e dell’Asia centrale. Per tutto l’inverno Timur rimase nella regione, dove ricevette uomini di fede e tenne processi e udienze. Gli venne condotto innanzi un figlio di Sulṭān Aḥmad il Jalayiride, verso il quale mostrò magnanimità. È dubbio però che costui (che si chiamava Nūr al-Ward) sia stato rilasciato libero.52 Fu anche un lungo periodo di cordoglio per la perdita del nipote, ma come s’è detto Timur cercava di limitare il lutto e discettava con i dotti di questioni teologiche. Ma erano soprattutto le purghe della corruzione tra coloro che amministravano il regno a preoccuparlo: a Kerman erano stati riscontrati ammanchi da parte di Edigü Barlas che si era attribuito « un ammontare eccessivo ». Costui fu « salvato » però dalla principessa reale Tuman Āqā, moglie di Edigü Barlas e figlia di uno zio di Timur, che si mostrò incinta e fu lei stessa a saldare l’ammanco di cento tūmān kepekī, sistemando la cosa all’interno del clan (uruq).53 Altra revisione della contabilità fu eseguita sui proventi dell’Azerbaigian e dell’Iran. In Gilan, regione che non aveva inviato nessuno per corrispondere il dovuto al trono, Timur inviò un esercito guidato da Shāhrukh in persona e diretto a Qizil Yaghach, e bastò questo perché le signorie del Gilan e 349

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del Daylam si rivolgessero rapidamente a Timur per fare atto di sottomissione, acconsentendo di pagare il kharaj.54 Questo consisteva in monete d’argento e in un’ingente quantità di pezze di seta, oltre a 7000 cavalli e 3000 vacche. Sembra che Timur abbia alla fine concesso una riduzione di un terzo del tributo ai due nobili locali che si presentarono innanzi a lui. Si trattava di due rappresentanti della dinastia sciita zaydita dei Kār-Kiyā, il sayyid Riżā Kiyā, signore del Daylam, e l’emiro sayyid Muḥammad Rashtī che era il sovrano del Biya-Pish, ovvero della parte orientale del Gilan. Il sayyid Riżā Kiyā ricevette anche in appannaggio il castello di Kemah sulla frontiera anatolica.55 Nel Qarabagh arrivò anche il sovrano di Mardin ‘Īsā e si tenne un grande banchetto funebre alla presenza di tutta la nobiltà, dopodiché la salma di Muḥammad Sulṭān prese finalmente la via dell’Azerbaigian, da dove sarebbe stata traslata sino a Samarcanda. Il 14 ramaḍān 806/26 marzo 1404, l’immenso convoglio timuride finalmente riprendeva la via del ritorno.56 In questo frangente Timur diede prima una grande festa nella quale conferí l’ulus di Hülagü, ovvero l’Azerbaigian, al principe ‘Umar, figlio di Mīrānshāh, con ai suoi ordini il fedele emiro Jahānshāh. Era un atto fortemente simbolico importante e ristabiliva in qualche modo la linea di discendenza di Mīrānshāh, figlio “sciagurato” del Grande Emiro, il quale a sua volta rimase escluso da qualsiasi diritto territoriale. Timur insomma non riusciva a evitare di pensare in continuazione alla sua successione, individuando il collocamento della famiglia piú stretta nelle posizioni piú importanti. Ma la morte dei migliori e l’esclusione di coloro che avevano compiuto gli atti piú efferati, come Mīrānshāh, lo obbligavano ad accontentarsi di ciò che restava: spesso elementi inesperti o molto irrequieti. Come ha sottolineato Beatrice Forbes Manz, la nomina di ‘Umar mostrò tutti i sui inconvenienti in seguito: dopo la morte di Timur, ‘Umar avrà un contenzioso con Jahānshāh, che tentò di assassinarlo per finire invece ucciso lui. ‘Umar morirà poco dopo, nell’809/1407.57 Nel percorso, Timur fu informato della rivolta di Iskandar Shaykhī, signore della regione di Amol, sempre a ridosso del Caspio, che dopo essere stato cacciato da quella città e aver servito Timur che lo aveva ripagato con la consegna nuovamente di Amol nelle sue mani, si era posto in aperta rivolta, asserragliandosi a Firuzkuh (Mazanderan, oggi nella provincia di Teheran), per poi abbandonarla lasciandovi dentro la sua famiglia e fuggire nelle foreste del Rustamdar. Gli emiri Rustam e Sulaymānshāh 350

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inviati per contrastarlo si fermarono per alcuni giorni in quella che allora era una media cittadina, Teheran, dove rimasero per venti giorni.58 All’epoca Teheran aveva cominciato a soppiantare l’antica città di Ray che i Mongoli avevano irrimediabilmente distrutto e in epoca timuride era in stato di abbandono. Proprio nello stesso 1404, Clavijo visitò Ray (Xahariprey, ‘Shahr-i Ray’) e rimase in convalescenza a Teheran per diverso tempo insieme a coloro che lo accompagnavano. Qui incontrò anche Zuleman Miraza (Sulaymānshāh) che si doveva dedicare a Iskandar Shaykhī.59 6. Presa di Firuzkuh e fuga di Iskandar Shaykhī Ci furono dei tentativi di accordo con Iskandar Shaykhī per evitare uno scontro con coloro che erano stati inviati nella regione. Il fallimento delle trattative cela molto probabilmente le difficoltà di Rustam e Sulaymānshāh ad avere la meglio in quel frangente e una certa abilità di Iskandar Shaykhī. Nel mese di shavvāl 806/aprile 1404, furono inviati gli emiri Shāh Malik e Pīr ‘Alī Suldūz con un esercito nella regione di Ray perché reclutassero soldati turchi khalaj60 e degli arabi dell’Iran centrale. E mentre Timur riceveva nel suo percorso tutti i governatori locali e i principi preposti al governo delle regioni, decise che Mīrānshāh doveva andare a Baghdad, città che sarebbe divenuta cosí la sua residenza con un dono di quattrocentomila dīnār kepekī corrisposto dal tesoro reale.61 Altri vennero inviati a compiere la caccia di Iskandar Shaykhī. Il 1° dhi’l-qa‘da 806/11 maggio 1404, Timur arrivò a Ray e si accampò nella pianura di Sari Qamish. Poi marciò deciso su Firuzkuh. Il 9 di dhi’lqa‘da/20 maggio 1404, con un esercito scelto, si trovò di fronte a questa ennesima fortezza. Per espugnarla vennero dispiegate tutte le tecniche che già conosciamo e soprattutto si operò su una torre ai piedi della quale scorreva un fiume che venne deviato e l’alveo venne inquinato per impedire che gli assediati ne potessero fare uso. Mentre i soldati si approssimavano alla cima della torre, gli assediati furono costretti a compiere una sortita che produsse una violentissima battaglia. Infine il figlio di Iskandar Shaykhī decise di arrendersi e Timur fece vuotare la cittadella per deportare l’intera popolazione e nominò un certo Zangī Tūnī come castellano. Iskandar Shaykhī era comunque sfuggito alla cattura e nuovamente ripartiva la caccia a lui. Timur mosse questa volta contro Chelāv nel Mazanderan, ma Iskandar Shaykhī fece in tempo a sottrarsi alla cattura approfittando del contesto ricco di foreste e di paludi. Il 351

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passaggio da un fiume costituí un grosso problema per Timur, tanto che infine dovette fermarsi mandando all’inseguimento del ribelle alcuni dei suoi. Questi raggiunsero Iskandar Shaykhī una prima volta in un bosco sulle rive del Caspio e solo dopo un forsennato combattimento costui riuscí di nuovo a fuggire. Neanche Sulṭān Ḥusayn con un contingente piú consistente riuscí a prenderlo e dopo un altro scontro si dileguò ulteriormente.62 Il Mazanderan continuava a essere incontrollabile per Timur. 7. Trasferimenti nei giardini di Samarcanda Dopo aver attraversato l’Azerbaigian, le regioni caspiche e il Khorasan, ed essersi fermato a Jam, dove visitò la tomba locale dello shaykh Aḥmad,63 Timur fu accolto a Nishapur da Shāhrukh, che risiedeva a Herat. Il Grande Emiro non mancò di verificare anche in questo frangente i conti del Khorasan grazie all’aiuto del suo tesoriere imperiale Khwāja Aḥmad Ṭūsī, che si affrettò a mostrare i 200 tumān kebeki che erano stati ricavati nell’arco degli ultimi 40 giorni. Cosí la carovana ripartí. Dopo aver superato le “Porte di ferro” a Qahalgha, arrivò a Kish dove alloggiò nell’Aq Sarāy e nel Bāgh-i Qaratupa (‘Giardino della collina nera’) e anche qui visitò la tomba del santo Shams al-Dīn Kulār, la tomba di suo padre e di suo figlio Jahāngīr. Man mano che si avvicinava a Samarcanda arrivavano tutti i maggiorenti e i famigliari ad accoglierlo con il dono dei “nove elementi” e la dispersione di gemme e oro sulla sua strada (nithār). Entrò nella città all’inizio del mese di muḥarram 807/luglio 1404 e quando fu innanzi al Bāgh-i Chinār (‘Giardino del platano’), rimase sorpreso e irritato del fatto di non trovare le mogli, in particolare la Sarāy Mulk Khānum, ad attenderlo. Quest’ultima era alle prese col grande bagaglio del convoglio ed era rimasta indietro rispetto all’esercito. Insieme alla Tuman Āqā, si affrettarono a rientrare in città; la Sarāy Mulk Khānum sarebbe andata al Bāgh-i Chinār, mentre la Tuman Āqā al Bāgh-i Bihisht (‘Giardino del Paradiso’).64 Timur si diresse al Bāgh-i Bihisht, dove era giunta la Tuman Āqā. Qui rimase per un certo tempo per curarsi di un malanno che lo aveva colto. Una volta guarito si recò al Bāgh-i Shimāl (‘Giardino settentrionale’) dove tenne un sontuoso banchetto e in seguito al Bāgh-i Buland (‘Giardino sommo’). Timur decise di visitare la madrasa intitolata al nipote Muḥammad Sulṭān e di dedicarsi al Gūr-i Mīr, attorno al quale fece costruire un giardino dopo aver fatto fare alcune demolizioni.65 Questi cambiamenti di residenze hanno fatto discutere vari studiosi 352

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che ne hanno ricavato un ragionamento antropologico sulle consuetudini nomadi o semi-nomadi di Timur: di fatto i giardini avevano una funzione di dimora, ma costituivano anche un vero e proprio teatro cerimoniale di Timur: un palazzo oggi andato distrutto, il Gök Sarāy, era un vero e proprio museo delle vittorie. Lí venne collocato il trono di Bāyazīd come un trofeo. Attorno ai giardini reali stanziavano gli ordu (gli ‘eserciti’, gli stessi accampamenti si chiamavano ordu) e dunque erano solitamente in aree periferiche agresti, dove c’erano ricchi pascoli per gli animali.66 All’interno, gli accampamenti prevedevano delle tende di vario formato, alcune catturate ai nemici e dunque esposte anch’esse come trofei. Si trattava delle tende mongole sorrette da un graticcio circolare e da vari pali all’interno che sostenevano una cupola caratterizzata da costoloni a raggera rispetto a un anello centrale. Questo tipo di struttura ancor oggi è visibile nel geer mongolo, ovvero la yurta turca, e doveva caratterizzare ogni accampamento timuride. Un dato sicuramente interessante è che molto probabilmente questo tipo di struttura condizionò il disegno della forma di molti edifici timuridi, con delle cupole costolonate, a “bulbo” o “cipolla”, sorrette da un tamburo cilindrico, che effettivamente evocano da molti punti di vista la struttura tipica della tenda turco-mongola.67 Quanto all’aspetto pubblico dei giardini, essi potevano anche essere luogo per grandi udienze, o per processi pubblici. Nel 1404 si svolse nelle praterie di Qān-i Gil il processo a Maḥmūd Dāvud, uno dei principali preposti al governo della città – Clavijo lo chiama alcalde – di cui si è già ampiamente parlato. Secondo Sharaf al-Dīn e Clavijo costui sarebbe stato impiccato nella stessa Qān-i Gil durante la festa (ṭūy) che si svolse in quel luogo per il matrimonio di Ulugh Beg. Il processo incluse anche delle sentenze contro alcuni macellai e calzolai che avevano venduto delle merci con prezzi esorbitanti. Costoro furono condannati a pagare ingenti multe.68 Qui Timur ricevette anche un ambasciatore di Edigü, signore « del Dasht », ovvero dell’Orda d’Oro, che gli portava un falcone (shūnqār) insieme ad altri doni.69 8. L’ambasceria di Clavijo e gli emissari cinesi Timur soggiornò ancora nel Bāgh-i Dilgushā (‘Giardino rallegrante’) dove rimase per diversi giorni, fu qui che ricevette per la prima volta Ruy González de Clavijo (8 settembre 1404), come racconta Sharaf al-Dīn: 353

tamerlano In quel mentre innanzi al sovrano giunse un ambasciatore d’uno dei regni dei Franchi che recava con sé doni rari e regali preziosi, nonché ogni tipo di reliquie (tabarrūkāt) e pregevoli rarità e si presentò in udienza. C’erano delle stoffe con dei disegni figurati intessuti sopra che se il pennello di Mani avesse realizzato simili pitture sull’Arzhang,70 quei ritratti sarebbero risultati a confronto inappropriati sotto cento punti di vista.71

Clavijo descrive cosí questo primo incontro: Lunedí 8 settembre gli ambasciatori [cioè Clavijo e i suoi] partirono da questo giardino e dalla dimora in cui risiedevano e si avviarono verso Samarcanda. Da quel luogo alla città si attraversava una pianura con giardini, case e spiazzi in cui si vendevano molte cose. Verso l’ora terza arrivarono a un gran giardino, dove c’era una residenza che si trovava fuori dalla città in cui abitava il Signore. Quando arrivarono li fecero entrare in alcuni edifici che erano all’esterno. Vennero da loro due cavalieri che gli chiesero di dar loro gli oggetti e i doni che avevano per il Signore affinché li dessero a loro volta a degli uomini per consegnarli al Signore in modo da rispettare le disposizioni dei mirasses [mīrzā, ‘emiri’] che erano in contatto personale con lui. Gli ambasciatori porsero le cose che portavano nelle mani degli uomini che li avrebbero portati al Signore nel modo corretto. Lo stesso chiesero di fare all’ambasciatore del sultano circa il dono che portava. Appena le cose furono consegnate presero gli ambasciatori sottobraccio e li portarono via. Li condussero al giardino. Il portale d’accesso era molto alto e decorato con azulejos in oro e azzurro. Su questa porta erano disposti dei guardiani che la sorvegliavano e avevano delle mazze in mano affinché nessuno, tra i molti presenti, osasse avvicinarsi a quella porta.72 Quando gli ambasciatori entrarono, videro sei elefanti che avevano sulla groppa un castelletto di legno, ognuno con due stendardi e con degli uomini alla sommità, che li usavano per far divertire la gente. Li fecero avanzare e videro gli uomini che tenevano in braccio compostamente le cose e i doni che erano stati loro consegnati. Fecero procedere gli ambasciatori e poi chiesero loro di fermarsi per un po’. In seguito, dissero loro di procedere in avanti e i due cavalieri che li accompagnavano li tenevano sottobraccio. Tra loro c’era l’ambasciatore che Tamurbec aveva inviato al re di Castiglia che tutti deridevano perché era vestito secondo l’uso castigliano. Li portarono da un vecchio cavaliere che era seduto su una piattaforma: era il figlio di una sorella di Tamurbec e loro gli fecero la riverenza. Dopodiché li portarono da alcuni giovani seduti su una pedana, ossia i nipoti del Signore, e fecero un’altra reverenza. Qui chiesero loro la lettera che il signor Re inviava a Tamurbec e loro gliela diedero; la prese uno dei giovani, che si diceva fosse figlio di Miaxa Mirassa [Mīrānshāh] primogenito del Signore. E questi tre giovani si alzarono immantinente e portarono la lettera al Signore, dicendo agli ambasciatori di andare avanti. Il Signore si trovava sotto un

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xviii · ultime imprese portale innanzi all’entrata di alcuni begli edifici che stavano lí. Era seduto su una pedana posta in terra e di fronte a lui c’era una fontana che sprizzava acqua verso l’alto, nella quale galleggiavano delle mele variopinte. Il Signore era seduto su alcuni cuscini di seta ricamata e poggiava il gomito su dei guanciali rotondi. Era vestito con una tunica di raso non lavorato e in testa aveva un copricapo bianco con un rubino circondato da gemme e perle. Appena gli ambasciatori videro il Signore gli fecero una riverenza ponendo il ginocchio destro al suolo e le mani incrociate sul petto, procedendo gli fecero un’altra riverenza e un’altra ancora, restando fermi con le ginocchia in terra. Il Signore li fece alzare e avvicinare; i cavalieri che li tenevano per le braccia li lasciarono non osando andare oltre. I tre mirassas piú intimi che si chiamavano Xamelac Mirassa [Shāh Malik Mīrzā], Borundo Mirassa [Burunduq Mīrzā] e Noradia Mirassa [Nūr al-Dīn Mīrzā] stavano in piedi davanti al Signore e andarono a prenderli sottobraccio e li portarono tutti insieme innanzi al Signore, facendo loro piegare le ginocchia. Il Signore li fece avvicinare ulteriormente e questo credo che lo facesse per vederli meglio, dato che non ci vedeva bene, essendo cosí vecchio che le palpebre gli ricadevano sugli occhi. Non diede loro la mano da baciare perché non è loro abitudine baciare la mano del signore, anche se talvolta lo fanno. Chiese del signor Re dicendo: « Come sta il Re mio figlio? E come se la passa? È in buona salute? ». E gli ambasciatori gli raccontarono la loro missione in modo esauriente e lui ascoltò con attenzione quanto dicevano. Su quanto detto, il Tamurbec si rivolse a uno dei cavalieri che stava seduto ai suoi piedi, che dicevano essere uno dei figli dell’imperatore Totamix (Toqtamish) già imperatore della Tartaria e a un altro che era della stirpe della terra di Samarcanda e ad altri grandi uomini del suo lignaggio, dicendo: « Guardate questi ambasciatori che mi invia mio figlio il Re di Spagna che è il maggior re che ci sia tra i Franchi che sono in capo al mondo. Sono persone di grande valore e io darò la mia benedizione a mio figlio il Re e sarebbe bastato che lui inviasse voialtri con una lettera senza regali per rendermi felice: informarmi della sua salute mi bastava come regalo ». E la lettera che il signor Re gli aveva inviato la teneva in mano un suo nipote davanti al Signore. Il maestro in Teologia [si tratta del frate Alonso Páez de Santa María] disse attraverso il suo dragomanno di dire al Signore che quella lettera che suo figlio il Re gli aveva inviato doveva leggergliela lui in persona e che quando fosse stato pronto gliela avrebbe letta. E il Signore prese allora la lettera dalla mano di suo nipote la aprí e gli disse di leggerla. Il maestro chiese se era disponibile e il Signore rispose di rimandare a dopo, quando avrebbero avuto piú tempo in privato, dove la avrebbe letta e gli avrebbe risposto quanto chiedevano. Si alzarono da lí e li portarono a sedere su una pedana che stava alla destra del Signore e i mirassas che li tenevano sottobraccio li fecero sedere sotto l’ambasciatore che l’imperatore Chayscan, signore del Catay, aveva inviato a Tamurbec per chiedergli il tributo che ogni anno era solito dargli. Appena il Signore vide che gli ambasciatori erano seduti al di

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tamerlano sotto dell’ambasciatore del Signore del Catai, ordinò che si accomodassero sopra di lui e l’altro scendesse di sotto. Dopo essersi seduti arrivò uno dei mirassas che disse all’ambasciatore del Catay che il Signore ordinava che gli ambasciatori del Re di Spagna, suo figlio e amico, stessero sopra di lui e che lui, che era ambasciatore di quel ladro scostumato e suo nemico, stesse sotto di loro. Inoltre, gli fece dire, a Dio piacendo, che intendeva farlo impiccare perché non osasse tornare un’altra volta con una simile ambasciata. Da quel momento in poi nelle feste e negli inviti fatti dal Signore rimasero sempre seduti in quella posizione e dissero al dragomanno di informarli su quanto il Signore faceva per loro. Questo imperatore del Catay si chiama Chuyscan che significa Signore dei Nove Imperi e i Chacatay lo chiamano tangus [tur. tonguz, ‘maiale’] che significa Imperatore porco: è signore di un vasto territorio e Tamurbec, che era solito pagargli tributo, ora non vuole piú darglielo.73

Clavijo non fu il solo a parlare dell’ambasceria cinese. Schiltberger parla di un inviato del « Gran Khān » del Catay che sarebbe arrivato con 400 cavalieri per chiedere il pagamento del tributo dovuto che Timur non aveva saldato. Timur lo avrebbe messo in stato di detenzione, impedendogli di tornare.74 L’ambasciata a cui fa riferimento il mercenario bavarese è probabilmente quella di Fu An, che era giunto alla corte di Timur nel 1396, e che era stato tenuto in custodia per impedirgli di tornare in Cina. Vi ritornerà undici anni dopo, con il permesso di Khalīl Sulṭān.75 Potrebbe essere dunque che Clavijo abbia incontrato Fu An, ma potrebbe anche trattarsi di Chen Dewen, un altro ambasciatore inviato alla corte timuride.76 C’è poi un’ipotesi molto interessante, formulata da Hidehiro Okada, che non identifica Chuyscan con l’imperatore Ming, ma con Toquz Khān, ovvero Toquz Temir Uqsal Khān, uno degli ultimi discendenti di Qubilai e dunque degli ultimi detentori del trono Yuan.77 L’ipotesi è avvalorata dal significato del termine toquz, qui confuso con tonguz (‘porco’), che indica invece, come già sappiamo, il numero nove: il che permette di giustificare anche il titolo di « Signore dei Nove Imperi », che traduce Chuyscan, termine, quest’ultimo, deformazione di Toquz Khān.78 Okada ritiene insensato il fatto che Timur dovesse corrispondere un tributo ai Ming; osserva poi che con il termine Catay si intendeva probabilmente l’antico territorio appartenuto a quelli che i Cinesi chiamano Liao (e i Turcomongoli Kitan, da cui Catai/Chitai e varianti), ovvero il Nord-Ovest della Cina, a nord del fiume Huai. Inoltre, lo studioso giapponese ricorda che Timur intendeva piuttosto riconquistare la Mongolia, uscita da una sanguinosa guerra civile tra tre contendenti79 e il Toquz Timur menzionato 356

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da Clavijo sarebbe stato dunque il nuovo Khān ögödeide che pretendeva il tributo da parte dei Timuridi. Ciò spiegherebbe anche la presenza del principe mongolo Tayzi Oghlan (alias Öljei Temür, anche lui del ramo ögödeide) presso la corte timuride, sul quale torneremo, che dopo la morte di Timur ritornerà in Mongolia per prendere il trono. Costui rivendicava questo trono per sé, dopo essere stato defenestrato da Toquz Timur.80 Non si dovrà dimenticare che i sovrani fantoccio timuridi erano stati scelti anch’essi nella linea ögödeide, evidentemente quella che era considerata la legittima discendenza di Chinggis Khān. Torneremo su queste questioni; basti solo aggiungere, per il momento, che forse Timur poteva avere intenzione di attaccare le due potenze in successione, confidando nel sostegno dei Mongoli dopo aver ristabilito sul trono Tayzi Oghlan. Ma gli eventi impedirono che ciò avvenisse. 9. La grande festa e l’ultimo kuriltai Arrivando al cospetto di Timur, Clavijo rimase colpito dal fasto della corte timuride: ci sarebbe da scrivere un trattato gastronomico sulle descrizioni dei bolliti, degli stufati e di tutti gli altri cibi sciorinati da Clavijo che rimase esterrefatto dalla quantità delle vivande offerte agli ambasciatori, ma ancor piú lo sarà in seguito nelle cerimonie e nei festeggiamenti dei due mesi circa di permanenza a Samarcanda. Clavijo descrive anche diverse vicende che avvennero nei giorni successivi al suo arrivo e i vari trasferimenti che fece Timur. Non mancano episodi particolari, come quando, per un ritardo, l’interprete rischiò di essere sottoposto a un atroce supplizio che prevedeva che gli perforassero il naso e lo trascinassero tirato da una corda infilata dentro quei fori per tutto l’accampamento. Infine, gli ambasciatori, dopo essere stati cosparsi di monete e vestiti con abiti di gala, furono testimoni di una grande festa che si tenne nelle praterie di Qān-i Gil.81 La festa di cui si parla è quella per il matrimonio di Ulugh Beg, figlio di Shāhrukh, e Aka Bigi, figlia del defunto principe Muḥammad Sulṭān di cui si è parlato. La festa prevedeva anche numerosi altri matrimoni in un rituale collettivo e, in parallelo, il grande kuriltai in cui doveva essere decisa la campagna del Khitay.82 Furono convocati tutti i maggiorenti timuridi, ovunque si trovassero, e tutti i sovrani vassalli. È in questo frangente che furono espressamente invitati i « discendenti di Chinggis Khān » Tayzi Oghlan e Tashtemür Oghlan83 e il principe Pīr Muḥammad, figlio di 357

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Jahāngīr, da Ghazni, mentre Shāhrukh dal Khorasan fu lasciato indietro perché vigilasse, in quel solenne frangente, sugli irrequieti territori di Iraq e Azerbaigian.84 Tāj al-Salmānī, un autore che descrive gli ultimi due anni della vita di Timur, parla anche dei principi del Kashmir, del Khotan, nonché di quelli del Turkestan, della prateria/steppa ( julkā) del Moghulistan e di quelli del Khata. Lo stesso autore ci informa del fatto che la durata della festa fu di due mesi: si sarebbe conclusa nel mese di jumāda i 807/5 dicembre 1404.85 A costoro si aggiunsero poi gli ambasciatori di Faraj, sultano d’Egitto, che portavano con sé, oltre a innumerevoli doni, una giraffa (zarāf ), « uno dei piú rari animali della terra », che fu poi raffigurata in una splendida miniatura oggi conservata presso il Worcester Art Museum del Massachusetts. Insieme ad essa furono presentati anche nove struzzi (shuturmurgh, ‘uccelli-cavallo’) innanzi al trono imperiale.86 La piana di Qān-i Gil che ospitava quell’immenso accampamento si presentava come una vera distesa di tende e padiglioni: Sharaf al-Dīn parla di quattro sarāparda (‘cortine di tessuto’) che convergevano verso il padiglione particolare di Timur, formando dei viali, e il suo khargāh (‘tenda residenziale’) era composto di duecento unità riccamente adorne di gemme e sete pregiate, nonché dotate di tappeti e colonne multicolori con decori dorati sulla superficie. Tale era la complessità di questa parte dell’accampamento che la sua costruzione durò un’intera settimana. I principi e gli emiri erano tutti dotati di un proprio accampamento con straordinari tappeti. C’erano visitatori che provenivano dalla Cina, dalla Slavonia (Saqlāb); dall’India e dal Rum (l’Anatolia); da Zabul; dal Mazanderan; dal Khorasan e dal Fars; dalla Siria a Baghdad; « dall’Iran e dal Turan ».87 Con riferimento al 29 di settembre 1404, quando fu invitato alla grande festa, Clavijo descrive molti ambasciatori anche lui: parla di emissari provenienti da una terra che confina con l’Impero del Catay. Costoro erano vestiti con pellicce apparentemente vecchie e lise e il loro capo aveva un berretto stretto dal quale pendeva un cordino che reggeva coi denti. Come doni portavano pelli di martora, zibellini, volpi e falchi. Clavijo afferma che erano cristiani « alla maniera del Catay », ovvero si direbbe nestoriani. Chiedevano di avere per governatore un nipote di Toqtamish, si tratta probabilmente degli emissari di Edigü di cui si è detto.88 Clavijo descrive anche i fiumi di bevande alcoliche che venivano offerti e riducevano molti in ubriachezza: anzi bere era obbligatorio prima di entrare nei 358

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luoghi di festa per mantenere l’allegria e, sebbene Clavijo fosse esentato dal bere, il maestro in teologia Alonso Páez de Santa María pare non disdegnasse le libagioni. Di notevole importanza è la descrizione delle mogli e degli ambienti in cui vivevano: la principale sposa di Timur, la Caño, ovvero la Sarāy Mulk Khānum, viveva entro una ampia recinzione detta calaparda (sarāparda) che faceva parte di un gruppo di undici, tutte diverse per colori e fattura. Un’altra apparteneva alla Quinchicano (Kichik Khanum, la Tuman Āqā?). La presentazione che viene fornita della Caño (Sarāy Mulk Khānum) durante uno dei banchetti tenutosi verso la metà di ottobre è molto approfondita: indossava un abito di seta broccata con dell’oro, molto ampio, con un lungo strascico. L’abito non aveva maniche e altre aperture se non per far passare le braccia e la testa. Quindici dame ne reggevano il lungo strascico. La Sarāy Mulk Khānum aveva il viso coperto di cerone bianco, tanto da sembrare di carta, e un leggerissimo velo davanti agli occhi. Aveva il capo avvolto da un panno colorato, come un cimiero dal quale pendevano dei lembi sulle spalle. Si trattava di un abito di estrema complessità con una ghirlanda d’oro tempestata di perle e sormontata da tre rubini splendenti. La Sarāy Mulk Khānum era accompagnata da un ampio corteo e aveva dei servitori che sostenevano un parasole per proteggerla dalla luce. E cosí entrò e si sedette accanto a Timur. Clavijo non manca di descrivere le altre donne, come la Quinchicano (Kichik Āghā, ovvero Tuman Āghā); la Dieloltagana (la Dawlat Tarkhān Āghā); la Cholpamalaga (Chulpān Āghā); la Mundasaga (Mūnduz Āghā); la Vengaraga (Burhān Āghā); la Ropa Arbaraga (Sulṭānārāy Āghā); la Yauguyaga (Dilshād Āghā, detta anche Reina del Corazón).89 Le donne bevevano insieme al sovrano durante la festa. Sarà la Sarāy Mulk Khānum che inviterà poco dopo Clavijo a un ricevimento che si tenne nelle sue tende. Qui l’ambasciatore di Castiglia poté osservare delle porte che erano state prese a Bursa con delle raffigurazioni cristiane di san Paolo e san Pietro.90 Clavijo ripartirà da Samarcanda nel novembre dell’1404. Il commiato da Timur fu sottotono anche perché Timur fece dire che non era in buone condizioni di salute. Lo stesso Clavijo aveva constatato che veniva trasportato su una lettiga perché impossibilitato a muoversi e persino a salire a cavallo e in quel frangente si convinse anche del fatto che Timur era moribondo. Timur in realtà stava tenendo il kuriltai coi suoi nobili per concertare la campagna cinese. Clavijo interrompe qui dunque la storia della sua presenza a Samarcanda e fornisce una descrizione della città 359

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soffermandosi in modo particolare sulle sue merci e i suoi mercati. In particolare, nota la presenza di molti cristiani, Armeni e Greci, cattolici, nestoriani e giacobiti, nonché dei cristiani che si battezzano con dei marchi a fuoco sulla fronte. Parla anche di Arabi e Turchi e di musulmani di altri paesi. Le merci che circolano per Samarcanda sono numerose, dal pellame russo alla seta cinese, e sono di ottima qualità. Dall’India arrivano numerosissime spezie e altre ancora dall’Egitto. In un incastellamento, alla periferia, Timur custodisce i prigionieri che usa come schiavi, principalmente armaioli e fabbri siriani che costruiscono per lui le armi.91 Nel grande kuriltai che si tenne a Samarcanda Timur lanciò la campagna contro il Khata: se è possibile avanzare un’ipotesi, verrebbe da pensare che Timur intendesse con questa campagna penetrare nei territori non musulmani a est del Moghulistan. Quella che oggi si chiama Mongolia probabilmente era la meta prioritaria, ma anche la Cina Ming, ove possibile, sarebbe stata un obbiettivo. Le argomentazioni erano molto generiche, da un lato si voleva garantire il commercio, con le solite motivazioni. Dall’altro era il jihād e l’abbattimento dell’idolatria a costituire l’argomento.92 Delle motivazioni piú propriamente politiche si è già parlato, c’erano poi altri aspetti umani che le fonti tacciono. Ibn ‘Arabshāh descrive Timur mentre decide di attaccare il Khata in stato di ubriachezza.93 E in effetti le grandi libagioni delle feste e quelle che compirà poi durante la campagna per contrastare il freddo sembra abbiano condizionato i suoi comportamenti e aver peggiorato il suo già precario stato di salute. Soprattutto la morte di Muḥammad Sulṭān aveva ingenerato profonde angosce che andavano a mescolarsi con la consapevolezza di una maggiore precarietà fisica. 10. La partenza per il Khata e la morte a Otrar Sharaf al-Dīn introduce un episodio molto curioso – e solo lui lo fa – relativo alla figura di Khalīl Sulṭān: si tratta di un controverso amore adultero di quest’ultimo con una concubina dell’emiro Sayf al-Dīn, la Shād-i Mulk, che Khalīl Sulṭān avrebbe voluto sposare a tutti i costi. Siccome aveva messo in cinta sua moglie Jahān Sulṭān, parente stretta di Timur, stando a Sharaf al-Dīn costei sarebbe stata presa da forte gelosia. Infuriato Timur decise che la Shād-i Mulk dovesse essere catturata e giustiziata. In questo frangente scabroso molti intercedettero per lei – inclusa la Sarāy Mulk Khānum – mentre la giovane era ricercata nell’accampamento. In360

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fine, siccome la concubina era incinta, Timur decise che venisse affidata alla Tuman Āghā e dopo il suo parto fosse privata del figlio e data a uno degli schiavi neri (yekī az ghulāmān-i siyāh).94 Questo bizzarro inserto “scandalistico” nel testo di Sharaf al-Dīn desta alcune perplessità e decisamente rivela una scelta di campo dell’autore, che non fu sostenuto da Khalīl Sulṭān, patrono della linea dei discendenti di Mīrānshāh,95 ma da Ibrāhīm Sulṭān, figlio di Shāhrukh.96 L’episodio si verificò mentre Timur era ad Aq Sulat (non lontano da Otrar, oggi in Kazakhstan), e Tāj al-Salmānī, autore che a differenza di Sharaf al-Dīn beneficiò del patrocinio di Khalīl Sulṭān, non ne fa alcuna menzione. Ci narra piuttosto del terribile freddo che incalzava e fornisce un oroscopo della morte di Timur che sarebbe arrivata poco piú di un mese dopo. Un cattivo presagio sarebbe stato espresso dagli astrologi di corte che constatarono l’infausto incontro di Giove e Saturno nella casa dell’Acquario verificatosi il 5 rajab 807/6 gennaio 1405.97 Timur continuava a impartire ordini ai principi e ai governatori locali: voleva essere certo della correttezza degli atti amministrativi e nel contempo inviava i suoi principi, tra i quali l’irrequieto Khalīl Sulṭān, nelle varie province per acquisire rifornimenti per l’esercito, vettovagliamento e armi.98 L’imponente armata ripartí da Aq Sulat, mentre le principesse reali, guidate dalla Sarāy Mulk Khānum, si recavano in visita al santuario di Aḥmad Yasavī fatto costruire da Timur tra il 1397 e il 1399.99 La temperatura era estremamente fredda e molti animali e soldati morirono nel tragitto.100 Tale era il rigore dell’inverno che Timur dispose di fermarsi a Otrar, tappa di transito fondamentale in direzione della Cina. Qui alloggiò nel palazzo del governatore, ma il freddo che aveva sino a quel momento fortemente patito – e che contrastava ingerendo notevoli quantità di alcolici – lo rese quasi paralizzato nella lettiga sulla quale si spostava, oramai impossibilitato a muoversi. Accettò di buon grado che si tenesse una festa per cercare di risollevare il morale dei suoi. Durante i tre giorni di festeggiamenti bevve in continuazione senza mangiare. Ricevette anche un ambasciatore di Toqtamish, sovrano che « da tempo vagava come un folle per i deserti e le steppe » (az muddatī bāz dar ṣaḥārī va dasht bad-ḥāl va sar gashta mīgasht).101 La benevolenza mostrata da Timur e il suo perdono espresso nel bel mezzo di un’assemblea pubblica risultano abbastanza poco credibili. D’un tratto fu preso da una violenta febbre e da disturbi intestinali, ma continuò a bere sino a perdere l’uso della parola. Quando si riebbe fu lui 361

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stesso a dire che la sua ora era oramai giunta.102 viste le condizioni in cui il Grande Emiro versava, venne avvicinato dai fedelissimi emiri Shāh Malik e Shaykh Nūr al-Dīn e fece loro giurare solennemente di rispettare la sua ultima volontà, ovvero che nominava come suo successore sul trono Pīr Muḥammad b. Jahāngīr: queste furono le ultime parole rivolte ai suoi fidi e alla nobiltà timuride. Il 17 sha‘bān 807/18 febbraio 1405, Timur morí nel cuore della notte.103 La spedizione nel Khata fu immediatamente abbandonata; alcuni avrebbero proceduto a un’operazione in scala minore nel Moghulistan. Khwāja Yūsuf ripartí immediatamente nottetempo per Samarcanda con le spoglie di Timur in segreto. La notizia però si sparse velocemente. Arrivato a Samarcanda dopo dieci giorni, seppellí il corpo di Timur accanto a quello di Muḥammad Sulṭān che si trovava all’epoca nel khāngāh (‘convento’) intitolato a quest’ultimo.104 Piú tardi la salma sarà trasferita nel complesso monumentale del Gūr-i Mīr.105

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XIX FORTUN E DEL M ITO DI TAM ERLANO I N AS IA 1. I Timuridi dopo Timur (1405-1507) Durante la sua vita Timur probabilmente meditò sulla quadripartizione del suo impero secondo il modello chinggiskhanide. A capo di questo sistema avrebbe dovuto esserci un discendente di Jahāngīr che avrebbe garantito la purezza della stirpe mongola. La morte però di Muḥammad Sulṭān scompigliò totalmente questo piano. La scelta del fratellastro Pīr Muḥammad era un ripiego, essendo quest’ultimo di origini decisamente meno nobili nel sistema matrilineare mongolo.1 Inoltre, Pīr Muḥammad aveva governato su Qandahar e Kabul, una provincia lontana, ed era malvisto dagli zii Mīrānshāh e Shāhrukh. Il primo, esautorato dal potere politico da Timur, avvertiva molto probabilmente una forte frustrazione personale; il secondo, dotato di un carattere mite e meno irruento di Mīrānshāh, dovette comunque anche lui sentirsi escluso dai giochi. Entrambi, figli di concubine reali, erano stati estromessi da ogni ragionamento sulla successione. Questa situazione è, come abbiamo già intravisto, riflessa nelle varie cronache timuridi che fioriranno dopo la morte di Timur. Lo Ẓafarnāma (Liber victoriæ) di Niẓām al-Dīn Shāmī può dirsi l’unica opera conclusa durante la vita del Grande Emiro (ramaḍān 806/marzo 1404). Fu realizzata in due redazioni, la prima dedicata a Timur, la seconda a ‘Umar b. Mīrānshāh, governatore dell’Azerbaigian. Di altre opere contemporanee al conquistatore non sappiamo piú nulla, se non che furono inglobate nelle varie redazioni che ampliarono ed emendarono il testo di Shāmī. Questo è il caso di diversi libri di futūḥāt (‘conquiste’) dedicati alle steppe centroasiatiche, all’India, alla Siria e all’Anatolia o ad altre imprese come quelle di Mīrānshāh che invece furono usate per altre versioni.2 Quanto agli autori posteriori, dipesero ampiamente dalla propria committenza, continuando cosí la tradizione di uso propagandistico della storiografia inaugurata da Timur stesso.3 In questo senso Tāj al-Salmānī produsse il suo lavoro per Shāhrukh; Naṭanzī per il principe Iskandar, figlio di ‘Umar Shaykh; Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī ebbe un committente piú oscuro; mentre Ḥāfiẓ-i Abrū, che di fatto completò l’opera di Shāmī, operò anche 363

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lui sotto Shāhrukh; e infine Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī, autore di una delle fonti piú utilizzate (anche inevitabilmente in questo volume), la realizzò per Ibrāhīm Sulṭān, figlio di Shāhrukh.4 Pur non essendo possibile qui ripercorrere tutta la vicenda della storiografia timuride, basterà dire però che essa mostrò i conflitti lasciati da Timur, piuttosto che riflettere in maniera univoca la sua eredità storica come molti vorrebbero. Il regno di Pīr Muḥammad b. Jahāngīr si rivelò molto effimero, il cugino Khalīl Sulṭān lo precedette a Samarcanda impedendogli di accedere al trono. Già nell’809/1407 Pīr Muḥammad veniva ucciso da un suo ministro, Pīr ‘Alī Tāz, del clan dei Suldus, dopo essersi scontrato in completa solitudine contro Khalīl Sulṭān.5 Anche il regno di Khalīl Sulṭān durò poco: nell’811/1409 sarà soppiantato da Shāhrukh che sposterà la capitale a Herat, mentre suo figlio Ulugh Beg sarà il governatore di Samarcanda fino all’850/1447, quando succederà per due anni al padre. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Timur l’immenso tesoro accumulato durante il suo lungo regno venne rapidamente dilapidato. Shāhrukh fu una personalità molto diversa da Timur, che vedeva probabilmente il figlio con rispetto ma anche senza il trasporto che aveva avuto per gli altri. Shāhrukh fu spesso un mediatore poco incline alla brutalità gratuita, salvando molte persone che venivano frettolosamente condannate a morte dal padre. Fu poi uno straordinario patrono delle arti e delle lettere, insieme alla moglie Gawhar Shād, oggi considerata un’eroina in Afghanistan e in Tajikistan e persino spesso definita una « Maria de’ Medici d’Asia centrale ». Il trasferimento della capitale da Samarcanda a Herat ha fatto parlare di una mutazione artistica e culturale da un livello monumentale (Samarcanda, città “trofeo”) a un livello metropolitano (Herat, città raffinata e intellettuale). In quest’ultima lo sviluppo delle lettere e delle arti andò di pari passo con la progressiva decadenza politica e militare. Pur rimanendo Shāhrukh un sovrano potente, il regno timuride non si espanse piú e rimase limitato a un territorio sostanzialmente circoscritto all’Afghanistan, all’Iran e alla Transoxiana. Quest’ultima regione cominciò già nell’808/1406 a subire gli attacchi di una dinastia di stirpe jöchide che si rivelerà nemica insidiosissima in seguito. Durante il regno di Shāhrukh i Qara Qoyunlu, responsabili della morte di Mīrānshāh nell’810/1408, accrebbero la propria potenza continuando a giocare il ruolo di nemico endemico dei Timuridi. Ulugh Beg morí nell’853/1449 e gli succedette al trono Abū Sa‘īd 364

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nell’854/1450. Durante il suo regno i Timuridi persero tutto l’Iran centrale e occidentale, che fu conquistato dai Qara Qoyunlu, e la dinastia finí col ritirarsi nella regione di Herat. Abū Sa‘īd cadrà nell’873/1469 quando comparirà l’ultimo rampollo di un certo rilievo della dinastia, Ḥusayn Bāyqarā,6 che rimarrà al potere fino al 911/1506, anno che precede quello della definitiva caduta dei Timuridi per mano degli Shaybanidi. Quest’ultimo periodo vede una straordinaria fioritura delle arti e della letteratura che portarono i Timuridi, oramai ridotti politicamente al controllo della sola regione di Herat, a essere i protagonisti principali della cultura islamica del tempo. Nel 936/1526, il timuride Ẓahīr al-Dīn Bābur fonderà in India lo stato Moghul. È molto difficile commentare questo secolo timuride senza cadere nei tranelli di una certa retorica. Maria Subtenly spiega con sapienza il passaggio da un’economia di razzia, quale era stata quella di Timur, a un’economia basata sull’agricoltura e sui grandi latifondi, insieme di fatto a un sostanziale rinnovamento sociale.7 Sicuramente il grande Khorasan già descritto da Ḥāfiẓ-i Abrū sarà il protagonista di questo “rinascimento” e personaggi come Shāhrukh e Ḥusayn Bāyqarā non mancarono di rendere splendide le proprie città e di favorire lo sviluppo intellettuale. Espressione di questa vitalità sono le opere di autori come Vāṣifī e quelle di numerosi altri letterati e artisti, non ultimi Jāmī e ‘Alī Shīr Navā’ī, ancor oggi considerati veri e propri fondatori di una tradizione letteraria turco-iranica. Numerosi gli artisti che lavoreranno in queste corti, basterà qui citare Bihzād, insieme a numerosi altri, miniaturisti, calligrafi, ceramisti e architetti fuori dall’ordinario. Il concetto di decadenza spesso associato al periodo, in fondo, gli sta molto stretto: Alessandro Bausani, studioso che detestava i luoghi comuni,8 per criticare questo tipo di osservazione fece riferimento ai grandi matematici timuridi che anticiparono di piú di un secolo i loro colleghi europei nell’uso moderno delle cifre decimali. Scienziati timuridi opereranno nella corte ottomana, come è il caso del celebre astronomo e matematico ‘Alī Qushjī che terminerà i suoi giorni alla corte di Maometto II.9 2. Dal mito di fondazione dei Safavidi all’emulo Nādir Shāh La tradizione storiografica in lingua persiana su Timur ha molti epigoni tardi: coltivata nelle corti dei sovrani timuridi,10 si perpetuò oltre nel periodo safavide. Due autori enciclopedisti della fine del XV secolo e 365

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degli inizi del XVI, Mīrkhwānd e Khwāndamīr, diedero grande risalto alla figura di Timur inserendolo nelle loro due cronache universali con alcuni dati inediti interessanti11. Queste due cronache funsero da cerniera con la tradizione storiografica successiva. Un letterato tardo timuride, ‘Abdallāh Hātifī, completò tra l’898 e il 904 dell’Egira (1492-1498) un mathnavī, ovvero un romanzo in versi, dedicato a Timur (il Tīmūrnāma, Libro di Tamerlano) che ebbe uno straordinario successo in tutta l’Asia, dall’India all’Impero ottomano, oltre alla Persia e all’Asia centrale, regioni dove l’opera fu copiata in centinaia di manoscritti. Il testo riprendeva l’antica tradizione epica dedicata ad Alessandro Magno per sostituire il Macedone con Timur nell’ambito delle pentalogie letterarie molto in voga da Niẓāmī in poi nella letteratura persiana. Di per sé il testo di Hātifī non introduceva pressoché alcuna novità rispetto alle fonti storiche, ma favoriva un processo mitopoietico piuttosto significativo. L’autore, sciita fervente, scriverà agli inizi del XVI secolo anche un altro testo analogo, dedicato questa volta al fondatore della dinastia safavide Shāh Ismā‘īl, che poi fu concluso dal suo discepolo Qāsimī Gunābādī.12 Spesso queste due epiche venivano copiate affiancate allo scopo di comparare le gesta dell’uno e dell’altro condottiero. Hātifī ha anche il merito di aver rilanciato un genere già esistente e molto in voga anche in India, dove erano state celebrate le gesta dei Tughluq, e nell’Impero ottomano, dove invece venivano esaltati i sultani di quella dinastia in lunghi poemi in versi. Definito come ḥamāsasarāyī (‘epica’), o anche shāhnāmanavīsī (‘scrittura di libri regi’), questo tipo di testi avrà ulteriori epigoni in ambito centroasiatico.13 Quanto alla dinastia safavide, si può certamente affermare che si ritenne “erede” dei Timuridi. I Safavidi, che avevano introdotto lo sciismo come religione di Stato, si insediarono prima a Tabriz, poi a Qazvin e infine a Isfahan, città che resero splendida grazie alle loro costruzioni tra la fine del XVI e il XVII secolo. Per loro la dinastia timuride si perpetuò in territorio indiano, senza interruzioni ma con lo spostamento della capitale a Delhi. Sul piano simbolico i Safavidi, guidati dal fondatore della dinastia Shāh Ismā‘īl, sconfissero i rivali della dinastia jöchide degli Shaybanidi, uccidendo il loro eponimo fondatore Muḥammad Shaybānī, che morí in battaglia a Marv nel 1510. Ciò facendo perpetuavano quanto fatto da Timur contro Toqtamish e vendicavano l’usurpazione di Herat che aveva messo fine alla dinastia timuride appena tre anni prima. D’altronde i Safavidi sostennero almeno inizialmente la dinastia timuride, per loro “legittimamente” al potere in India.14 366

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L’ammirazione per Timur finí col diventare idealizzazione profonda, con un rigonfiamento mitico attorno alla fine del XVI secolo. Shāh ‘Abbās I (r. 1588-1629) fece usare nelle sue cronache brani dello Ẓafarnāma di Yazdī, cosa che faranno molti altri, come vedremo, anche nel mondo ottomano, e non mancarono i parallelismi tra i sovrani safavidi, Alessandro, Chinggis Khān e Timur. Piú interessante è forse la leggenda piuttosto tarda che pretende che Timur abbia visitato attorno all’807/1404, ad Ardabil, lo shaykh Khwāja ‘Alī, artefice di un particolare impulso dato alla confraternita safavide ai suoi esordi politici. In realtà potrebbe essere stato lo stesso shaykh a chiedere a Timur un intervento a favore di alcuni prigionieri dopo la battaglia di Ankara nell’804/1402.15 Sta di fatto che la storia – forse inizialmente solo parte del patrimonio orale – crebbe nella fantasia collettiva e alla fine del XVI secolo divenne un vero e proprio atto di fondazione: Timur avrebbe concesso alla confraternita terreni dalla Turchia all’Asia centrale con un atto di waqf (‘beni di manomorta’).16 Un po’ come per la « donazione di Costantino », questo presunto evento venne acquisito senza troppe verifiche e fu alla base della rivendicazione di diritti soprattutto sul possesso territoriale, ma, come nel caso della donazione di Costantino, è stato scoperto che si trattava di un falso, realizzato in questo caso dalle autorità safavidi stesse attorno ai primi anni del Seicento.17 Un’altra leggenda segnalata da Maria Szuppe, in un suo studio molto esaustivo su queste manipolazioni, è quella della « sciabola di Timur »: secondo questa leggenda lo shāh safavide Sāfī (r. 1629-1642), successore di ‘Abbās I, anch’esso emulo di Timur, avrebbe ricevuto una sciabola dotata di poteri magici collegati all’idea di diventare in futuro il conquistatore del mondo, dal governatore della provincia suddita del Bahrain.18 Per rimanere ai Safavidi e ai loro immediati successori, non si può non ricordare il ruolo svolto dalla figura mitica di Timur nell’ascesa di Nādir Shāh, sovrano che tentò di restaurare il potere safavide dopo il drammatico crollo della dinastia causato dall’invasione afghana nel 1135/1722. Regnante dal 1148/1736 al 1160/1743, Nādir Shāh imitò Timur in tutti i modi possibili, non ultimo invadendo l’India esattamente come aveva fatto Timur, ma anche nel conflitto che lo oppose agli Ottomani. Si fece chiamare Ṣāḥibqirān e non esitò a far erigere dei minareti di teste umane come aveva fatto già il suo modello. Le fonti persiane che celebrano Nādir Shāh non mancano di esaltare il suo predecessore e anch’esse stabiliscono legami piú o meno esoterici con lui. Il Nāma-yi ‘Ālamārā-yi Nādirī di Muḥammad Kāẓim di Marv (ca. 1163/1750),19 costruisce questo mito con 367

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delle caratteristiche soprannaturali, in particolare quando fanno riferimento al testo che Timur avrebbe lasciato scritto su una pietra depositata in un antro nel sito di Kalat, non lontano da Abivard, che Nādir avrebbe trovato dopo essersi scontrato con un dragone. Il testo dice cosí: Chiunque entri in questo luogo diventerà la rarità dei tempi (nādir-i dawrān) e signore della congiunzione astrale (Ṣāḥibqirān). Ora, ascolta ciò che mi disse l’Amīr Tīmūr Gurkān: « Durante 36 anni ho regnato e ho conquistato i reami d’Iran, Turan, la Georgia, la terra degli Alani, il Dasht-i Qipchaq fino al limitare delle tenebre, le terre d’Egitto e di Siria, Costantinopoli, i regni di Rūm sino alle frontiere coi Franchi, e dopo le frontiere indiane, sino alle terre del Dekkan. In seguito, quando sono tornato nel Khorasan, la gente di Kalat non ha accettato di sottomettersi, preferendo subire l’assedio! ».20

In effetti la gente di Kalat si era opposta a Timur, ma alla fine lui riuscí a catturare la posizione. Secondo Kāẓim di Marv, dunque, se è grazie a Dio che la vittoria si realizza, l’episodio annuncia una « rarità » futura: il Nādir dei tempi, ovvero il nuovo Ṣāḥibqirān.21 3. In India e nell’Impero ottomano Potrebbe sembrare quasi scontato che Bābur (r. 1526-1530) si rifacesse a Timur per parlare dell’impero che andava fondando in India, quello Moghul. Eppure, nel suo Bāburnāma, pur con una profonda nostalgia dell’Asia centrale, Bābur fa pochi riferimenti a Timur di cui rivendica sí l’eredità, ma che dice anche di aver eguagliato se non superato da molti punti di vista: per esempio quando ne ripercorre le gesta durante la guerra con gli Uzbeki al Pul-i Sangin sul Surkhab, dove era già passato anche Timur.22 O ancor piú quando evoca le sue costruzioni, facendo un esplicito riferimento a Sharaf al-Dīn, che parlava di 200 marmorini azerbaigiani, indiani e persiani, e Bābur afferma di averne impiegati 680 ad Agra e in altri luoghi dell’India.23 La personalità di Bābur è molto complessa e qui non possiamo che accennare ad alcuni aspetti delle sue Memorie: di fatto fu costretto a migrare in India, paese nei confronti del quale nutriva sentimenti controversi. È vero però che i suoi discendenti, invece, diedero molto piú spazio a Timur nella costruzione del loro modello di potere. Al tempo del sovrano Akbar (r. 1556-1605), il cronachista di corte Abu’l-Fażl ‘Allāmī dedicò ampio spazio alla storia della dinastia timuride nel suo Akbarnāma, partendo 368

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dalle origini del lignaggio al tempo di Qarachar Noyan sino a Timur e a Mīrānshāh e ai discendenti di quest’ultimo, che godevano di una particolare attenzione nel testo.24 All’epoca di Shāh Jahān (r. 1628-1657) vi fu un particolare salto di qualità con la “comparsa” di un’opera attribuita a Timur stesso, che avrà un grandissimo peso negli studi successivi e ancor oggi gode di una certa notorietà soprattutto nell’Uzbekistan contemporaneo, ma anche in Francia, dove ha avuto una rinnovata fortuna recente. Si tratta in realtà di due opere connesse tra loro, la prima è denominata Malfūẓāt-i Tīmūrī (I detti di Timur) e la seconda Tuzūkāt-i Tīmūrī (Le istituzioni di Timur), scritte entrambe in lingua turca ciagataica. I due testi sarebbero stati scoperti dal dotto moghul Abū Ṭālib ‘Āriżī e si baserebbero su degli “originali” scritti in turco ciagataico che erano conservati nella biblioteca del signore dello Yemen Ja‘far Pāshā, anche se poi sono andati perduti. ‘Āriżī li avrebbe tradotti in persiano per Shāh Jahān nel 1047/1637-38 ed è interessante che già lo stesso imperatore, notando delle discrepanze col testo di Sharaf alDīn, avrebbe chiesto delle verifiche che, una volta eseguite, portarono a dei primi emendamenti testuali.25 Da quel momento in poi numerosi storici si sono dedicati a quei due lavori, sino ad arrivare alla conclusione che si trattava di un vero e proprio falso storico.26 Due inglesi, il maggiore William Davy e il maggiore Charles Stewart, nel 1783, e il francese LouisMathieu Langlès, nel 1787, contribuirono fortemente alla diffusione di quelle opere in Europa, con delle traduzioni abbastanza sommarie.27 Ancora, nel 1927, Lucien Bouvat traeva da questi presunti testi autobiografici un ritratto della dinastia timuride;28 piú tardi Lucien Kehren ne elaborerà una riduzione in francese in occasione della celebrazione dei 660 anni dalla nascita di Timour in Uzbekistan nel 1996.29 L’India moghul va anche ricordata per i numerosi ritratti dipinti di Timur che vennero realizzati nei tre secoli di vita della dinastia.30 Quanto invece alla presenza di Timur nella civiltà ottomana, si assiste nel XVI secolo a un passaggio dalla tradizione profondamente ostile degli storici della prima metà del secolo XV, come ‘Āşıḳpāşāzāde e Neşrī, a un diverso atteggiamento che, pur non benevolo, non può tacere le virtú dell’avversario. A fare da volano a questo nuovo comportamento fu forse Meḥemmed II, che nelle cronache a lui dedicate permetteva che fosse evocato come un modello. Questo avviene per esempio nell’opera di Tursun Beg, nel quale le imprese balcaniche di Meḥemmed II sono paragonate a quelle di Timur in India,31 e dove Sharaf al-Dīn è un exemplum abba369

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stanza ricorrente.32 Ma fu soprattutto un autore, Sa‘d al-Dīn Efendi, a dare particolare risalto a Timur. Vissuto tra il 1536 e il 1599, Sa‘d al-Dīn scrisse un’imponente opera storica, il Tāj üt-tavārikh, nella quale il modello timuride è pervasivo sul piano stilistico e contenutistico: Sharaf al-Dīn e Hātifī vi sono piú volte citati e riprodotti, e a Timur è dedicato ampio spazio. Se è vero che l’autore non risparmia invettive contro Timur, sembra però risentire della sua presenza come modello esemplare delle gesta ottomane. Sa‘d al-Dīn Efendi proveniva da una famiglia di origine persiana, per l’esattezza di Isfahan: suo padre e suo nonno erano stati catturati durante la battaglia di Chaldiran, dove nel 920/1514 il sultano Selim I inflisse una sonora sconfitta a Shāh Ismā‘īl, artefice della potenza safavide che vide interrotta la propria irresistibile ascesa. Con questo retroterra culturale, Sa‘d al-Dīn Efendi entrò a far parte della corte ottomana e fece subito carriera fino appunto ad arrivare alla stesura del Tāj üt-tavārikh. Nella sua cronaca l’arrivo di Timur è ovviamente visto come una « disgrazia » ( felaketli gelişi)33 e rappresenta una battuta d’arresto dei successi ottomani dopo la battaglia di Ankara. È interessante notare, però, come la lunga trasposizione delle vicende di Timur e Bāyazīd sia in gran parte ricavata da Sharaf al-Dīn, con la riproduzione anche di alcune di quelle divagazioni tipiche che caratterizzavano l’autore timuride. Non manca una descrizione integrale della battaglia di Ankara, molto nel dettaglio, evento che invece era stato escluso dalle fonti precedenti e, ancora, non manca neanche l’onorevole trattamento di Bāyazīd secondo la versione edificante delle cronache timuridi.34 Si può certo affermare che tramite Sa‘d al-Dīn la storia di Timur entrò a pieno titolo nel quadro storiografico ufficiale ottomano. La versione di Sa‘d al-Dīn Efendi è anche alla base di una delle prime traduzioni di un certo valore realizzate in Europa di una cronaca orientale: si tratta dell’interessantissima – e assai poco studiata – Chronica dell’origine, e progressi della Casa Ottomana, realizzata da un dragomanno raguseo, Vicko Bratutović (in italiano Vincenzo Bratutti) e pubblicata a Vienna nel 1649.35 Bratutti dedicò la sua opera a Ferdinando III d’Asburgo, impegnato nella Guerra dei trent’anni e molto attento alle vicende ottomane. Spesso criticata, questa cronaca ha indubbi pregi, non ultimo quello di traghettare per prima l’opera di Sharaf al-Dīn e con essa alcuni riferimenti a quella di Hātifī, pur nella versione ottomana di Sa‘d al-Dīn Efendi, nella cultura europea. Non ultima, la questione della gabbia che già l’autore ottomano rigettava e che qui restituiamo nella pittoresca versione italiana di Bratutti: 370

xix · fortune del mito di tamerlano in asia In alcune Historie Turche si trova scritto, che [Bāyazīd] sia stato serrato in una gabbia, il che quando fosse stato vero Scerefeddino senza dubbio havrebbe fatto menzione di ciò, con somma lode e vanto: Mà perché il Rè Fulmine abbhorriva la vista di quei sordidi Tartari, & era sollecito del suo honore, e riputazione, però si faceva portare in lettiga: E veramente convenivasi à quel suo stato di farsi portare in quella maniera: essendo stato impossibile al suo grand’animo di lasciarsi vedere ogni dí al suo nemico. Onde si scorge che quei ignoranti non hanno saputo discernere tra la gabbia, e la lettiga.36

Si potrà ancora notare che, sulla scia di quanto fatto già da Sa‘d al-Dīn Efendi (1549-1600), lo storico ottomano Muṣṭafā ‘Alī di Gallipoli, autore del Künhü’l-akhbār (1590 ca.), non senza una critica profonda della decadenza ottomana, riprese la figura di Timur come un esempio da seguire, incluso il suo codice delle steppe, la yasa, un vero e proprio modello idealizzato.37 4. Timur presenza epica nella storia dei khanati centroasiatici Nel 2011 un brillante studioso, Ron Sela, ha pubblicato un volume dedicato alle numerose leggende che descrivono biografie fantastiche di Timur in Asia centrale.38 Con alcune severità tipiche degli studiosi piú giovani, Sela esprimeva un certo disappunto per il fatto che queste opere non sono state mai prese sul serio in passato, a cominciare da quell’Ármin Vámbéry (o, alla tedesca, Hermann Bamberger) che nel 1897 aveva pubblicato per primo un gustoso articolo dedicato a una storia leggendaria su Timur divisa in tre parti. Il divertimento dello studioso, criticato da Sela, non era però ingiustificato: in effetti quelle storie introducevano per la prima volta delle tematiche talmente fantastiche da risultare anche molto surreali. Una di queste pretendeva che Timur, arrivato ad Azak, fosse venuto in possesso di un Vangelo scritto da Gesú in persona che alcuni mullā cristiani chiedevano di poter acquistare a peso d’oro. Un’altra storia narrava invece che Timur avesse catturato Mosca. Qui colpisce anche la presenza di cannoni che riflettono la piú tarda data di stesura del manoscritto, redatto a Khiva alla fine del Settecento.39 Il lavoro di Sela ha un posto importante nella storia degli studi, perché colloca in un corpus tutti questi materiali, invitando gli studiosi a dedicarsi a questo tipo di testi, che sono dei veri e propri crogioli di temi e motivi letterari. Nel contempo, lo studioso fa comprendere quanto queste stesu371

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re tarde di leggende legate a Timur fossero connesse alla storia centroasiatica. Sottolinea soprattutto il conflitto tra autorità religiose (gli ulamā) e le pratiche consuetudinarie di certo sufismo. Un processo che ebbe una forte incidenza nella storia politico-culturale dell’Asia centrale, soprattutto nel XVIII secolo, andando poi a forgiare quei modelli che, come vedremo, ancora oggi hanno un peso sul trionfo della figura di Timur come eroe fondatore nazionale.40 Nelle leggende centroasiatiche riapparvero amplificati diversi aspetti della vita di Timur, a cominciare dalla nascita e dall’infanzia. Si tratta di temi già trattati nelle fonti timuridi, come abbiamo visto nelle prime pagine di questo libro. In queste opere posteriori essi si impregnano di significati nuovi, di tipo iniziatico, soprattutto legati ai sogni e a coin­ cidenze straordinarie, come la tradizione che pretende che l’orosco­po di Timur coincidesse con quello di Alessandro e quello del Profeta Muḥam­mad. Questo tema si riproporrà poi in varie leggende, come in quella che vede protagonista l’Arca dell’Alleanza (tābūt-i sakina), giustamente giudicata come uno degli snodi piú complessi nelle biografie leggendarie di Timur: il sultano Yıldırım Bāyazīd spedí il proprio figlio, un anacronistico Sulṭān Shiblī, a consegnare a Timur un dono custodito in una cassa nella quale era conservata l’Arca dell’Alleanza, lasciata in eredità ad Alessandro da Adamo. Questa era stata aperta durante il regno di Alessandro e ancora al tempo del Comandante dei Credenti ‘Umar nella corte di Hirqal (Eraclio), che all’epoca era imperatore a Roma. Ora, erano passati ottocento anni e spettava a Timur riaprirla. I primi tentativi risultarono un fallimento e solo con l’aiuto di Sharaf al-Dīn si scoprí il segreto della cassa: sulle pareti di un lato era dipinto il sole e sul lato opposto una luna e una stella. Sharaf al-Dīn dispose perciò di portargli una calamita che venne posta innanzi alla stella. Da lí si spostò sulle altre pitture e dalla cassa emerse lentamente un pomello e una porticina si aprí. Apparve uno schiavo bambino con un testo scritto in mano. Sharaf al-Dīn fu l’unico capace di leggerlo: era un autografo di Iskandar Dhu’l-Qarnayn (‘Alessandro il Bicorne’) che giungeva in omaggio a Timur. Il Bicorne era stato informato del fatto che un discendente di Yāfith ibn Nūḥ sarebbe emerso nella storia mille e seicento anni dopo. Perciò mise nell’Arca il mantello di Adamo, il bastone di Mosè, la ciotola di Giuseppe, la veste di Abramo, la fascia di Seth, i sandali di Idrīs e l’ascia di Noè. L’arca includeva i ritratti dei sovrani d’ ‘Ajam (di Persia), e di quelli che sarebbero arrivati, inclusa una pittura 372

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che raffigurava Timur stesso. Timur poteva prendere le pitture: bastava che girasse il pomello verso destra e il giovane schiavo sarebbe sceso a prenderle. Se invece lo avesse girato verso sinistra lo schiavo avrebbe lasciato i dipinti all’interno. Dopo aver girato il pomello verso destra il giovane tornò con un rotolo di seta verde, che fu dispiegato, sul quale era dipinto un uomo alto col viso bianco, espressione radiosa, dei baffi radi e un neo a un lato di un sopracciglio. Sotto la seta era scritto che si trattava di Jamshīd Shāh e qui vengono introdotti tutti i personaggi della saga ferdowsiana del Libro dei re, in una galleria di ritratti molto interessante sotto molti punti di vista, anche perché esclude i Profeti coranici: questa catena di discendenze rivela dunque che Timur proseguiva una tradizione di re, non di profeti, e questi re erano emanazione diretta dell’operare divino. Persino le sue menomazioni fisiche sarebbero state di divina derivazione, dimostrando doti che solo Dio poteva conferire, in particolare quella di conquistare il mondo.41 Torneremo sulla fortuna di queste leggende in epoca moderna, ancora nel 1990 usciva una edizione popolare di un Temurnoma (uzb. Libro di Timur) che venne stampata in centinaia di migliaia di copie.42 Conteneva molti di questi aspetti fantastici, a dimostrazione del fatto che il fascino delle leggende ha una longue durée che si è perpetuata sino a oggi. 5. Il Temur Leng del principe moldavo Dimitrie Cantemir Una straordinaria figura di intermediario tra Oriente e Occidente è sicuramente anche quella del principe moldavo Dimitrie Cantemir, che rimase presso la corte ottomana tra il 1688 e il 1711, quando tradirà i suoi protettori turchi per transitare alla corte russa di Pietro il Grande. Cantemir proveniva da un casato locale fondato dal padre Costantino “il Vecchio” durante il XVII secolo. Alleato degli Ottomani contro gli Austriaci e i Polacchi, Costantino era salito sul trono nel 1685. Dopo la sua morte, nel 1693, Dimitrie suo figlio, che era rimasto ostaggio ottomano dal 1688, ebbe un breve regno di tre settimane per venire deposto dagli Ottomani stessi che gli preferirono Costantino Duca, imponendogli di tornare a Istanbul dove resterà per altri 17 anni. Nella capitale ottomana avrà modo di conoscere numerosi europei, soprattutto diplomatici, e di intavolare delle corrispondenze con alcune personalità di spicco in Europa, come Voltaire, su cui torneremo. Ebbe anche modo di formarsi sulla storia e la 373

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civiltà ottomana da cui ricavò una personalissima e significativa esperienza: visse nel pieno del « Periodo del Tulipano », ovvero l’epoca in cui l’Impero ottomano cominciava a impregnarsi di suggestioni occidentali, per esempio il Barocco e il Rococò nell’arte e nell’architettura. Le disfatte e i tumulti interni di quel periodo nello Stato ottomano lo illusero anche di poter ritornare a governare la sua terra quando, abbandonata Istanbul, raggiunse Pietro il Grande per dichiarare a Mosca guerra ai « nemici di Gesú ». Purtroppo, la catastrofica disfatta di Russi e Moldavi sul fiume Prut, per mano degli Ottomani alleati del re di Svezia Carlo XII (12 luglio 1711), ribaltava le aspirazioni maturate in precedenza a Poltava, finendo col costringere Dimitrie Cantemir a restare esiliato in Russia fino alla sua morte nel 1723.43 In quegli anni, scrisse una Storia dell’Impero ottomano che ebbe un considerevole successo, ispirando molti pensatori occidentali, come appunto lo stesso Voltaire che, insieme ad altri, la utilizzò per parlare di Impero ottomano e « Tartari ».44 La storia fu scritta in latino ma apparve in inglese (nel 1735) e in diverse altre lingue negli anni successivi.45 Cantemir aveva un vero e proprio culto di Timur. Anche se non è molto chiaro il perché. Il nome stesso Cantemir, farebbe riferimento a Timur, lo stesso Dimitrie lo dichiara formulando un’etimologia non priva di strafalcioni: « d’accordo con la tradizione i Cantemir derivano la propria stirpe da Temur Leng, il grande conquistatore dell’Asia, come conferma il loro nome, dato che Can Temur significa il sangue di Temur, ovvero di persone che discendono dal sangue di Temur ».46 Can in realtà potrebbe fare riferimento molto piú probabilmente al termine khān (‘sovrano’), piuttosto che al turco kan (‘sangue’). Bisogna però chiudere un occhio sulla totale imperizia filologica dell’autore se se ne vuole apprezzare la portata che è legata piuttosto alla diffusione di diverse leggende d’origine anatolica e persiana su Timur e sul suo tempo.47 Comunque, per restare al nome, questo produsse un gustoso scambio di idee con Voltaire che si meravigliò della discendenza proposta da Cantemir, affermando che per lui migliore sarebbe stato un pedigree che risaliva agli antichi Greci e lo informava della corretta etimologia del termine Can, aggiungendo che forse Cantemir doveva le sue fortune alla corte ottomana.48 A giudicare da una lettera successiva di Voltaire, Cantemir si dovette irritare molto per quel sarcasmo, tanto da far rispondere il filosofo illuminista con ulteriore ironia: « La molteplicità dei talenti del Signor Principe vostro padre e i vostri mi avevano fatto pensare che voi foste discendente degli antichi 374

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Greci e avevo pertanto supposto per voi che apparteneste alla razza di Pericle piuttosto che a quella di Tamerlano ».49 Secondo Cantemir, Timur sarebbe stato chiamato dall’Imperatore bizantino per soccorrere Costantinopoli assediata e il nostro autore non può sottrarsi dall’esclamare: « si tratta di una generosità senza pari per un barbaro! ». Aggiungendo in una nota: Paleologus [ovvero Manuele II] gli offrí la città e l’impero; Temur Leng prese entrambi sotto la sua protezione e rifiutò l’impero con questa risposta generosa: « Non è giusto scambiare un Impero cosí antico e porre una Famiglia cosí eminentemente illustre sotto il giogo di una influenza straniera ». È stata questa elevazione mentale che gli ha permesso di combattere tali sanguinose battaglie e di radunare una simile poderosa armata, comparabile a quelle di Dario o Serse, dei quali fu persino superiore.50

Cantemir non mancò di ritornare anche sulla storia della gabbia, riproducendola senza esitazioni e provocando ulteriore scandalo in von Hammer-Purgstall.51 Costellato di errori, il testo di Cantemir ci racconta però un episodio particolarmente interessante, ovvero quello dell’incontro, immaginario naturalmente, tra Timur e un mitico trickster del folklore ottomano, Naṣr al-Dīn Khwāja (in turco Nasrettin Hoca) che Cantemir chiama « l’Esopo turco ». Questi avrebbe deliziato Timur per tre giorni con le sue storie, dopo una vittoria contro Bāyazīd conseguita non ad Ankara ma a Bursa.52 È proprio in questo tipo di citazioni che Cantemir si rivela una fonte preziosissima sulla storia della trasmissione mitica della figura di Timur. Alcuni suoi contemporanei, come Antoine Galland (1646-1715), traduttore delle Mille e una notte, non esiteranno a riprendere analoghe leggende da fonti turche come le Facezie (Leṭā’if ) di Lāmi‘ī Çelebī, nelle quali il letterato Aḥmedī diventava anch’esso protagonista di una barzelletta che aveva per protagonista Timur: Insieme ad alcuni nobili e cortigiani Timur va alle terme pubbliche. Al fine di trascorrere il proprio tempo, chiede al poeta Aḥmedī di stabilire un valore monetario per lui e i suoi cortigiani. Aḥmedī valuta ognuno di loro e finalmente arriva a Timur stesso, fissando un ammontare molto basso. Quando Timur dice che il suo asciugamano vale quell’ammontare, Aḥmedī risponde: « È proprio per questo che ho fissato questo prezzo per voi, perché corrisponde al valore dell’asciugamano. Una volta tolto quello voi non valete assolutamente niente! ». Timur, divertito per l’osservazione coraggiosa, dà al poeta uno splendido regalo.53

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6. Nel mondo russo tra Ottocento e Novecento Nella Russia zarista l’interesse accademico per lo studio di Timur ebbe particolare impulso con la nascita nel 1817 della Scuola di Lingue Orientali di San Pietroburgo. Ci si rivolse per lo scopo alla Francia in cui insegnava Antoine-Isaac Silvestre de Sacy, che faceva parte dell’Académie des Inscriptions et Belles lettres e dell’École des Langues Orientales. Tra i suoi interessi Silvestre de Sacy annoverava anche alcuni studi su Timur e in particolare ricordiamo ulteriormente la pubblicazione nel 1822 della lettera inviata da Timur a Carlo VI di Francia, che ancor oggi è un lavoro molto impiegato dagli specialisti.54 Silvestre de Sacy inviò in Russia François Bernard Charmoy, allora un suo giovanissimo studente, che si rivelò particolarmente capace tanto da ricoprire vari ruoli come docente e accademico.55 A lui si deve il saggio stampato nel 1836 e dedicato alla campagna di Timur contro Toqtamish del 1391. È un lavoro ricchissimo di informazioni in cui Charmoy non solo fa ampio uso delle fonti persiane e arabe, ma si dedica anche ad alcuni aspetti antropologici, geografici e persino zoologici. Pur limitato a un solo episodio delle vicende di Timur, questo lavoro che apparve nelle « Memorie dell’Accademia imperiale delle Scienze di San Pietroburgo », ha un ruolo importante anche perché mostra da un lato il cosmopolitismo russo dell’epoca, attento all’acquisizione di nuovi saperi, dall’altro ci dà un’idea piú generale di un dibattito che collegava gli ambienti accademici francesi a quelli russi.56 Presto il tema di Timur andò a intrecciarsi con le attività coloniali che la Russia conduceva con molta energia in tutta l’Asia centrale. Non vi mancavano letterati, studiosi e artisti. Tra questi ultimi si potrà ricordare il pittore “orientalista” polacco Stanisław Chlebowski, nativo di Pokutyńce (oggi in Ucraina), che nel 1878 raffigurava in una tela Timur mentre osserva in piedi con sdegno un Bāyazīd molto anziano, sdraiato sotto un grosso portale a nicchia, apparentemente ottomano. Il quadro è la conseguenza di un attento studio: Bāyazīd vi compare non in gabbia, come era stato spesso rappresentato, ma solo incatenato e tenuto “umanamente”, forse emulando un’altra illustrazione che si trovava come pagina d’esordio del volume dedicato a Timur e a Bāyazīd di von Hammer-Purgstall sulla Storia dell’Impero osmano.57 Ma il quadro forniva altre indicazioni, oltre a qualche inevitabile licenza: Timur svettava in piedi, cosa molto improbabile viste le sue condizioni di salute nel periodo della battaglia; era singo376

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larmente giovane mentre Bāyazīd rispecchiava gli stereotipi di un uomo vecchio e canuto. Infine, curiosamente, lo scenario era quello di una moschea ottomana fortemente ispirata dal gusto timuride, cosa poco probabile al momento della battaglia di Ankara. Timur e i Timuridi avevano stimolato anche un altro pittore, questa volta russo, Vasilij Vasil’evič Vereščagin che si dedicò negli stessi anni a illustrare con verismo quasi fotografico le architetture timuridi e numerose suggestioni ricavate dal Turkestan. Lo stesso produceva nel 1871 un dipinto molto emblematico, intitolato L’apoteosi della guerra, oggi conservato nella Galleria Tret’jakov a Mosca, in cui dei teschi accatastati formano una piramide attorno alla quale volteggiano dei rapaci. L’Ottocento conobbe uno sviluppo progressivo degli interessi orientalistici, con la comparsa di uno degli studiosi piú importanti per la storia di questa disciplina: Vasilij Vladimirovič Bartol’d (al secolo Wilhelm Barthold). Bartol’d nacque nel 1869 in una famiglia tedesca russizzata. Si formò col barone Victor Rosen, insigne arabista, e frequentò giovanissimo la Facoltà di Lingue Orientali a San Pietroburgo tra il 1887 e il 1891, dove ricevette una formazione a tutto campo imparando perfettamente diverse lingue orientali, in particolare l’arabo, il persiano e il turco. Presto acquisí una padronanza totale delle fonti in quelle lingue, dalle quali estrapolò un affresco straordinario della storia dell’Asia centrale, dal periodo preislamico a quello moderno. Con incredibile modernità rivide il concetto di cultura, cosí come era concepito al suo tempo,58 contemplando una fenomenologia complessiva della storia, includente tutte le società in un processo mirante alla creazione di un’unica cultura universale. Il suo era un modo prossimo all’evoluzionismo di vedere le cose, ma per arrivare a questo disegno si doveva passare da un processo di altissima definizione dei dettagli ricavabili dai dati disponibili. In qualche modo, una vera rivoluzione rispetto a chi si era lanciato piuttosto in una filosofia della storia, di cui parleremo nel prossimo capitolo, contro gli “eruditi”. Bartol’d però riconnetteva la storia all’esperienza coloniale russa e vedeva nei ruolo dei Russi, ora padroni delle tecniche scientifiche europee, ma liberi nel contempo dalla presenza di Europei in Asia centrale, la possibilità di creare un’accademia libera da influenze nazionalistiche unilaterali e dal dogmatismo religioso.59 Di lui si può certamente dire che ebbe un atteggiamento molto laico nei confronti della storia e ancor oggi il suo lavoro ispira non solo una profonda fiducia, ma fornisce anche una metodologia modernissima perfettamente condivisibile. I numerosi saggi di Bartol’d che 377

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ritroviamo citati in questo stesso volume sono l’espressione di quanto Timur e i Timuridi ebbero spazio nei suoi studi. Bartol’d non ebbe un buon rapporto però con la Rivoluzione d’ottobre, dichiarandosi esplicitamente incapace di capire lo spirito riformatore che stava trasformando anche gli studi orientali nei quali decisamente lui aveva avuto un ruolo di padre fondatore con una nuova e solida metodologia. Dopo la sua morte il suo insegnamento fu persino oggetto di tentativi, a dire il vero molto maldestri, di revisione che culminarono in invettive che vedevano in lui un sostenitore del colonialismo celato da una “erudizione storica”, o di osservazioni ancora piú triviali negli anni ’40.60 Morto Stalin, la sua figura fu ampiamente riabilitata e la pubblicazione della sua opera completa (Sočinenija) tra il 1963 e il 1977, in dieci volumi, ha definitivamente restituito allo studioso il ruolo che gli spettava. L’indagine dei suoi lavori risulta decisamente imprescindibile per chiunque voglia affrontare la figura di Timur. Questo vale per l’introduzione della storia delle origini di Timur e del mondo in cui visse prima della presa del potere a Balkh nel 1370.61 In tal senso Bartol’d fu precursore della ricerca moderna contro quella del passato, che si era fino ad allora concentrata soprattutto sugli aspetti tardi della sua vicenda, ma anche sulle campagne centroasiatiche e sulla geografia dell’Asia centrale, spesso assolutamente oscura nel dettato delle fonti o comunque inesplorata.62 7. L’epoca sovietica Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, studiosi come Bartol’d poterono portare avanti le proprie ricerche. Si racconta che quando a Bartol’d chiedevano di esprimersi su come Marx avrebbe visto un determinato problema storico relativo all’Asia centrale, rispondeva: « Marx? Non conosco questo orientalista ». Ma due anni prima di morire le cose dovevano essere mutate e nel 1928 Bartol’d si rifiutò di sottoporre i propri studi al vaglio dell’ortodossia marxista.63 In realtà il rapporto con le nuove repubbliche che sorsero in Asia centrale segnò un’evoluzione anche nella considerazione di Timur, che divenne un oggetto di studio ben diverso rispetto al passato. Ciò vale in modo particolare per la Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan, nata nel 1924 dallo scioglimento delle Repubbliche popolari di Bukhara e di Corasmia, nonché della Repubblica federativa del Turkestan. Protagonista di questo smantellamento fu il commissario per le nazionalità Iosif 378

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Stalin. Nel nuovo spirito postrivoluzionario aveva inizialmente prevalso l’idea di una korenizacija (‘indigenizzazione’) che avrebbe permesso di rivalutare le culture nazionali e, nel contempo, integrare questo spirito con quello sovietico. Questo almeno sino al 1930. In seguito, l’indigenizzazione fu messa al bando con l’accusa di fomentare il nazionalismo e divenne un processo silenzioso e sotterraneo,64 per poi riesplodere, come vedremo, dopo la caduta del Muro di Berlino. Gli Uzbeki avevano sicuramente delle difficoltà a rifarsi al passato uzbeko dal quale pur ricavavano il proprio nome, mentre il mondo timuride sembrava piú confacente alle loro aspettative.65 Inoltre, in quel periodo, vi fu un iniziale slancio dato a nuove ricerche storiche promosse dal pensiero giadidista (‘modernista’). Fu il caso certamente di ‘Abdorauf Fitrat, il quale in realtà era un riformista e attivista kazako, ma che si dedicò anche lui alla figura di Timur, tanto da scrivere un dramma, Timurning saghanasi (Il mausoleo di Timur), che serví a rilanciare di alcune idee nazionaliste.66 Fitrat fu giustiziato nel 1938 dopo un processo della Suprema Corte dell’Unione Sovietica in cui fu accusato di essere uno dei fondatori del nazionalismo rivoluzionario giadidista, un panturchista e un antisovietico. La nascita di nuove figure accademiche, anzi di una nuova accademia in Asia centrale, permise di sviluppare le ricerche in cui però Timur non poteva piú giocare un ruolo da protagonista: in altre parole non era assolutamente possibile passarlo per un eroe nazionale e non vi fu la possibilità di riabilitarlo neanche dopo la morte di Stalin. Si aggiunga a ciò anche l’accusa di « spirito feudale » che finí con l’accomunare a Timur anche Ulugh Beg, amatissimo a livello popolare e grande scienziato, ma appartenente a un’aristocrazia che decisamente non poteva essere celebrata. Questi divieti durarono per lungo tempo: lo dimostra il destino di uno studioso uzbeko, Ibragim Muminov, che nel 1968 ancora vedeva censurato il suo volume sul “ruolo” giocato da Timur nella storia con lo stigma di voler fomentare un nazionalismo locale, ma anche con la sottile accusa di aver usato fonti non attendibili come le Istituzioni di Timur, scartate come non autentiche dal grande Bartol’d.67 Eppure, Muminov aveva giocato un ruolo importante nell’accademia dell’Uzbekistan sovietico, lo dimostrano i numerosi incarichi che aveva ricoperto negli anni piú difficili dello stesso stalinismo. Il volume sarebbe dovuto apparire in contemporanea con uno di quei giubilei che caratterizzavano (e caratterizzano) l’Asia centrale: ovvero per i 2500 anni di Samarcada, ma non uscirà neanche nel 379

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1973 e neppure l’anno seguente. Solo nel 1993 ne apparve un’edizione uzbeca, oramai entro una nuova cornice storica.68 Va anche detto che durante la Seconda guerra mondiale questo atteggiamento ebbe per un momento una battuta d’arresto e ciò non portò tanto a una riabilitazione, quanto piuttosto a una ripresa di alcuni studi su Timur. Se dell’apertura della sua tomba abbiamo già abbondantemente parlato, si potrà qui ricordare come in quel periodo matureranno le ricerche di A.Ju. Jakubovskij, che guarda caso andava a pubblicare un volume sull’Orda d’Oro insieme a Boris Grekov e si dedicava a una rivalutazione di alcuni aspetti funzionali al difficile momento storico: nella rivista « Voprosy istorii » (« Questioni di storia ») Timur riacquisiva un ruolo pur tra molte critiche severe: se ne esaltava la volontà, il carattere, l’ambizione.69 In epoca sovietica Timur fu anche oggetto di un’altra controversa vicenda: la realizzazione di un film di Sergej Eisenstein che non avvenne mai. Il titolo era Il grande canale del Ferghana e intendeva celebrare la costruzione di un canale di 240 km. in soli 45 giorni da parte di 160.000 lavoranti uzbeki e tajiki. La storia elaborata da Eisenstein si sviluppava in tre distinti episodi, tutti nella cornice della voce del cantore Tochtasin, che doveva garantire una certa continuità narrativa all’intero film. Nella prima parte, ambientata nel Medioevo, la città di Urganch veniva assalita da Timur a capo di un esercito mongolo. Nella seconda parte l’Uzbekistan era descritto sotto il dominio zarista con un’allusione al dominio feudale delle acque. La terza parte infine doveva mostrare in modo idealizzato i kolchoz decentralizzati e auto-organizzati in un lieto fine coincidente con l’apertura del canale. Eisenstein scrisse anche a Prokofiev, che doveva realizzare la colonna sonora, dicendogli che i temi del film erano l’acqua e la sabbia. Forse con un’allusione all’attualità, Timur avrebbe detto, secondo lui: « Chi controlla l’acqua ha il potere ». Inoltre, subito dopo gli accordi tra Molotov e Ribbentrop, Eisenstein iniziò a disegnare delle scene di cui ci sono rimasti i bozzetti, con la raffigurazione delle torri di corpi e teste umane, insieme ad altri disegni e ad alcune foto di scene già provate. Timur veniva descritto come un tremendo sanguinario e la ferocia domina la prima parte del film, incluse le torri di corpi umani che sarebbero state costruite a seguito dell’uso dei prigionieri dei mongoli da parte del signore di Urganch per consolidare le mura della città. La censura colse un’allusione, neanche troppo velata, a Stalin e venne interrotto immediatamente il film. Di esso oggi non restano che alcune 380

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scene e pochi splendidi disegni in cui si vedono numerose architetture timuridi, alcuni costumi che uniscono un gusto futurista a un’attenta ricerca antropologico-orientalistica e soprattutto le torri di corpi umani.70 8. Padre fondatore dell’Uzbekistan Durante l’era sovietica, soprattutto dopo la morte di Stalin, le Repubbliche Socialiste Sovietiche dell’Asia centrale e del Caucaso elessero vari eroi nazionali scelti cautamente tra i letterati, vista l’impossibilità di adottare i campioni del “feudalesimo medievale”. Come ha dimostrato Vincent Fourniau, le scelte non seguivano un metodo coerente: l’Azerbaigian adottò Niẓāmī, un poeta persofono (dunque che non parlava la lingua nazionale di ceppo turco), ma che era nativo di Ganja, città importante della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Al contrario l’Uzbekistan aveva scelto ‘Alī Shīr Navā’ī (Alisher Navoiy), campione della lingua turca ciagataica ma nato e vissuto in territorio afghano, ovvero a Herat. I Tagichi non se la sentirono di adottare Firdawsī, che nel 1934 era stato oggetto di grandi festeggiamenti in Iran, e cosí diedero lustro al poeta Rūdakī, nato non lontano da Bukhara, cioè in Uzbekistan. Cosí facendo in qualche modo rivendicarono il passato transoxiano che era stato loro negato da vere e proprie deportazioni verso il nuovo stato tagico. C’erano poi casi ancora piú complessi: i Turkmeni esaltarono un poeta piuttosto oscuro, Makhdūm Qulī (Mahtumkuli), vissuto tra il 1730 e il 1780, al quale non mancarono di attribuire virtú varie, e i Kirgizi elessero una figura mitica, Manas, divenuta modello per i cantori nazionali.71 I Kazaki si rifecero a eroi piú recenti, coscienti della maggioranza russa della loro popolazione, anche se ci fu chi come Ermuhan Bekmahanov, primo dottore di ricerca della Repubblica Socialista kazaka, aveva tentato di far emergere la figura di un sultano dell’Orda Media kazaka vissuto nel XIX secolo, Kenesary Kasimov, finendo processato a piú riprese a partire dal 1948 come cattivo marxista e cattivo kazako per poi essere riabilitato solo dopo molti anni.72 Tutti questi personaggi venivano celebrati con giubilei e pubblicazioni che infine avviavano di fatto il processo di indigenizzazione rimasto sopito, o piuttosto nell’ombra, fino ad allora. Le scelte adottate permettevano da un lato di considerare un profilo universalizzante nel quale si rispecchiava “l’amicizia dei popoli”; dall’altro permettevano però di puntellare il carattere nazionale delle scelte. Con l’ascesa dei nuovi regimi, dopo il 381

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crollo dell’Unione Sovietica, le cose subirono un salto di qualità: rigorosamente ispirati alla matrice etnica, i nuovi stati imposero l’adozione di modelli identitari sempre piú forti e decisi. Se prendiamo l’esempio dell’Uzbekistan, il processo ebbe una fase iniziale che potremmo definire di basso profilo: già nel 1992 i libri di storia, anzi il prontuario di storia dell’Uzbekistan (Istorija Narodov Uzbekistana), riprendendo e sunteggiando Jakubovskij, riabilitava Timur e con lui Muminov e le Tuzūkāt-i Tīmūrī.73 In questa fase poteva sembrare un gesto di riabilitazione del personaggio storico e di tutti coloro che avevano tentato di cantarne le lodi nel corso del periodo successivo a Stalin. Il grande cambiamento avvenne nel 1996, quando il presidente Islom Karimov, già membro del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, poi nominato presidente dell’Uzbekistan indipendente nel 1991, decise che Timur era diventato il padre del moderno Uzbekistan. Il salto di qualità era decisamente enorme: nelle città del paese furono innalzate un numero sorprendente di statue celebranti l’Amīr Timur, sorse a Tashkent un museo cupolato a pianta circolare nel quale vennero esposti alcuni reperti dell’arte timuride, ma soprattutto erano riportate frasi di Timur, in alcuni casi di assai difficile riscontro filologico, che comparivano sopra le pareti e in apposite vetrine. Fui personalmente testimone delle grandi celebrazioni per il giubileo dei 660 anni dalla nascita di Timur che fu messo in piedi grazie al sostegno dell’Unesco e della comunità internazionale nel 1996.74 Il già menzionato Lucien Kehren venne insignito dell’Ordine di Amīr Timur dal presidente della Repubblica che lo decorò per la sua biografia encomiastica del nuovo padre della patria.75 Lo stesso Kehren diffuse la riproduzione fotografica di una statuetta d’oro (oggi perduta), presumibilmente ottocentesca, che era stata premiata in un’esposizione parigina del 1900 come se si trattasse di un ritratto di Timur, senza esprimere alcun dubbio sulla sua autenticità e antichità.76 Rimasi molto colpito dal fatto che vidi in quel momento iniziare alcuni restauri invasivi, soprattutto a Samarcanda, che avrebbero poi portato alla distruzione parziale o allo stravolgimento di numerosi monumenti. Fu iniziato il ripristino dell’assetto urbanistico della città descritto da Clavijo, a suon di sventramenti che si basavano su ricostruzioni aleatorie adottate come totalmente veritiere. Inoltre mi colpirono moltissimo le scenografie messe in piedi per la celebrazione, nelle quali la figura di Timur poteva essere impersonata da un individuo che calava da un elicottero mentre un commento musicale ispirato al Boléro di Ravel riempiva la piazza del Ri382

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gistan di Samarcanda e una dama vestita come Bībī Khānum (la Sarāy Mulk Khānum) sfilava innanzi a lui come in una sfilata di alta moda. Anni dopo mi capitò di dover recensire un volume di Michael Shterenshis dedicato a Tamerlano e gli Ebrei, dove l’autore esaltava i buoni rapporti che Timur avrebbe avuto con gli Ebrei, affermazione smentita dalle stesse fonti ebraiche e in varie circostanze negata da varie testimonianze di eccidi.77 In particolare, l’autore si accaniva contro Beltramo Mignanelli, accusato di essere un millantatore per aver descritto la crudeltà di Timur contro gli Ebrei di Aleppo. Vedendo le fonti abbastanza improbabili adottate da questo studioso, mi domandai il perché di certe affermazioni, tra l’altro attribuite senza alcuna rispondenza a Walter Fischel, autore che invece aveva valorizzato proprio Mignanelli.78 La risposta arrivò nell’ultimo capitolo del volume, intitolato Conclusioni, dove si compiva un parallelismo tra Karimov e Timur: il presidente uzbeko avrebbe affermato in occasione della visita di Benjamin Netanyahu e di Natan Sharansky di adottare lo spirito di cooperazione inaugurato dall’Amīr Timur. Seguiva un panegirico di Karimov e della sua visita in Israele e le Conclusioni terminavano osservando che i due paesi avevano seri problemi comuni con il radicalismo islamico. Insomma, era evidente che il volume commissionato alla casa editrice britannica Routledge Curzon era stato finanziato o quanto meno sostenuto direttamente dal governo uzbeko.79 Ho citato questa strana pubblicazione perché sono convinto che Karimov abbia vissuto un’identificazione personale con Timur, che lo ha portato a una vera e propria hybris, con un’idea nazionale « trascendentale » – come è stato detto – che superava le leggi e soprattutto violava i diritti piú elementari.80 Lo stesso Karimov si ispirò probabilmente a Timur quando si rese responsabile di una carneficina ad Andijan, nell’Uzbekistan orientale, con centinaia di morti, nel maggio del 2005. Fu accusato di far bollire i propri avversari politici e di ricorrere all’uso sistematico della tortura. Si aggiunga a tutto ciò la conflittualità con gli stati vicini che ha infine portato al crollo del sistema da lui inaugurato. Morto nel 2016 per un’emorragia cerebrale, è stato sostituito da Shavkat Mirziyoyev, una sua emanazione, in origine, che tuttavia sta tentando di cambiare rotta con delle riforme che forse metteranno anche da parte il culto della personalità binario tra presidente dell’Uzbekistan e Timur.81

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XX TAM ERLANO EUROP EO 1. Da Mignanelli alle Pitture di Palazzo Orsini a Monte Giordano In Europa il nome di Tamerlano cominciò a circolare già durante la sua vita. Il veneziano Marin Sanudo riportò vari dispacci redatti dopo la battaglia di Ankara, mentre piú sintetiche furono le testimonianze dei mercanti genovesi. Quanto ai memoriali di chi tornò in patria dopo aver vissuto l’esperienza asiatica, oltre a Mignanelli, sul quale si tornerà a breve, c’erano le testimonianze diplomatiche di Ruy González de Clavijo, probabilmente deluso della frettolosa ripartenza da Samarcanda, che rientrò nel 1406 ad Alcalá de Henares ma il cui racconto venne pubblicato solo in seguito, e di Johannes Schiltberger che invece peregrinò per l’Asia centrale e il Caucaso lasciando una notevole, quanto a volte fantasiosa, testimonianza di terre allora incognite, raggiungendo infine la Baviera nel 1427.1 Il maresciallo Boucicaut, governatore di Genova, merita forse qualche parola di piú perché lasciò il suo Livre des fais, come abbiamo già visto, in cui descrisse a piú riprese la figura di Tamerlano e i suoi disegni politici. Boucicaut va anche ricordato per uno splendido manoscritto custodito a Parigi. A lui, infatti, era legato quel « Maestro di Boucicaut » cui fu commissionata la cura del manoscritto oggi conservato presso la Bibliothèque Nationale de France (Fr. 2810) contenente un’edizione lussuosissima del Livre des merveilles di Marco Polo (1410). Si è detto che questo manoscritto fosse uno specchio degli interessi politici di Giovanni senza Paura, liberato a caro prezzo dal padre, Filippo l’Ardito, dopo essere stato catturato a Nicopoli. Il Ms. Fr. 2810 è una testimonianza importante perché nelle sue miniature offre in realtà un ritratto abbastanza verosimile del mondo dei Timuridi piuttosto che di quello dei Mongoli descritti dal viaggiatore veneziano piú di un secolo prima.2 Un altro autore che portò una mole considerevole di informazioni in Europa fu Beltramo Mignanelli, forse il piú “preparato” tra le persone che ebbero a che fare con Timur nel corso delle proprie peregrinazioni asiatiche. Di lui abbiamo spesso parlato, ricordandone le doti come arabista e specialista di questioni economiche. C’è tuttavia un altro aspetto di grande importanza: quello della fortuna delle sue testimonianze nell’opera di 384

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vari umanisti del tempo. Si devono a due lavori recenti di Angelo Michele Piemontese e Nelly Mahmoud Helmy3 il rilancio e la scoperta definitiva di nuovi dati che erano rimasti nell’ombra. Cosí appare il ruolo di Mignanelli nel contesto senese: Le opere di Mignanelli e il contesto culturale in cui si iscrivono non costituiscono solo una significativa testimonianza della precocità con cui proprio a Siena, si affermò quell’interesse per l’Oriente che avrebbe caratterizzato una parte della produzione letteraria della seconda generazione di umanisti, nei decenni centrali e conclusivi del Quattrocento. Esse rappresentano anche una chiave di lettura e un punto di osservazione privilegiato per leggere, dall’interno, quel contesto troppe volte svalutato e considerato in maniera parziale.4

Una delle caratteristiche delle cronache di Mignanelli fu quella di essere utilizzate, a partire dal 1430, sia come fonti storiche attendibili che come descrizioni di vicende esemplari di uomini illustri.5 Tra gli autori che ne fecero uso va segnalato l’agostiniano Andrea Biglia, vissuto tra il 1395 e il 1435, che fu anche maestro di Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pio II – di cui parleremo oltre –, nella stessa città di Siena. Andrea incluse le biografie di Barqūq e Tamerlano nei suoi Commentarii historici de defectu fidei in Oriente, composti nel 1432 in onore di Sigismondo d’Ungheria.6 In particolare, Andrea Biglia rielaborava lo scritto di Beltramo nel libro vi, intitolato De Barcoco Soldano Aegypti, e nel vii la biografia di Tamerlano, citando esplicitamente Beltramo come suo ispiratore. Anzi, seppur con qualche emendamento stilistico, si direbbe che l’opera di Beltramo vi fosse integralmente riprodotta. In seguito, Sigismondo Tizio (1458-1528), sempre a Siena, riprenderà anche lui il De Ruina Damasci di Mignanelli per inserirlo nella sua Historia barbarica col titolo di De Tanberlano.7 Infine, forse, l’opera piú nota – anche perché venne pubblicata in numerose edizioni – è quella di Poggio Bracciolini, autore di un De Varietate fortunae, datato 1448, che faceva ampio uso del testo di Beltramo, ma senza fare mai menzione del suo nome. Come ha sostenuto Angelo Michele Piemontese: « Il silenzio di Poggio a proposito di Beltramo pare una censura, piuttosto che una lacuna », i due infatti si erano conosciuti bene anche se non si amavano, visti i rapporti turbolenti del tempo tra Siena e Firenze, città quest’ultima dalla quale proveniva Bracciolini.8 Al di là di questo “plagio” che ancor oggi si stenta a riconoscere,9 Bracciolini godeva di una grande reputazione. Ed è forse a lui che si deve l’ispirazione per una pittura che può essere a tutti gli effetti considerata il primo esempio di ritratto di Tamerlano in Occidente. 385

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Si tratta in effetti di un ciclo di affreschi realizzati nel 1432 che dovevano campeggiare nella cosiddetta sala-theatri del Palazzo del cardinal Giordano Orsini situato sul Monte Giordano a Roma. Qui erano stati raffigurati 309 personaggi, a partire da Adamo ed Eva per finire con Tamerlano, altri 83 erano elencati entro dei cartigli. Questi dipinti sono andati distrutti nella seconda metà del XV secolo, forse per una ritorsione della famiglia Colonna, rivale degli Orsini, ma sono ricordati in sei manoscritti illustrati dove gli affreschi erano stati riprodotti e in altre sedi. Ancora nel 1450

Tamberlanus, Ms. varia 102, Biblioteca Reale di Torino, f. 138v. Immagine fornita su gentile concessione di ©MiC - Ministero della Cultura-Musei Reali, Biblioteca Reale di Torino.

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Giovanni Ruccellai li menziona in occasione di una sua visita. Vasari li attribuí al Giottino e a Masolino da Panicale.10 Le scene raffiguravano le « Sei età della Storia », a cominciare da un primo ciclo che partiva da Adamo, un secondo da Noè, un terzo da Abramo, un quarto da Davide, un quinto da Cambise e l’ultimo da Gesú. Questa Sexta Etas terminava, come s’è detto, con Tamerlano.11 Delle iscrizioni indicavano i personaggi raffigurati. Val la pena di segnalare anche i manoscritti che riportano le figure di Tamerlano: la Cronaca Crespi, conservata nell’omonima collezione privata e opera di Leonardo de’ Molinari da Besozzo, raffigura Tamberlanus e la data è del 1395. La figura è senza barba, con un’armatura occidentale su tutto il corpo e una sciabola ricurva.12 La stessa data riappare in una carta conservata a Roma all’Istituto Nazionale per la Grafica (inv. 2824 [3473]) dove Tamberlanus è rappresentato questa volta inturbantato.13 In un’altra cronaca, datata sempre 1395 e conservata ad Amsterdam nella Bibliotheca Philosophica Hermetica, figura col turbante e ha dietro una torre.14 L’iconografia di Tamberlanus, qui barbato e inturbantato, ricompare come Sexta Etas anche nella cronaca conservata presso la Biblioteca Reale di Torino (Ms. varia 102), anch’essa con la data del 1395 (vd. figura supra).15 Questa è forse la piú chiara e piú bella tra tutte le riproduzioni degli affreschi originali. La data sembra proprio coincidere con quel primo incontro coi Latini che Tamerlano ebbe a Tana nel 1395, e dunque con le prime notizie che si diffusero su di lui, come compaiono nella cronaca di Andrea Redusio che si rifà a descrizioni precedenti del trevigiano Giovanni Miani e del genovese Giovanni Andrea, entrambi caduti prigionieri di Timur e in seguito liberati,16 piuttosto che a un riferimento ad altre cose, come è stato ipotizzato.17 Sicuramente a Poggio Bracciolini si deve il suo collocamento in quella posizione. Si potrà ancora notare che la figura di Tamerlano anzi, TAN[B]URLANA, come riporta un’iscrizione, è presente in una scena ancor oggi di difficile lettura, su un cassone nuziale attribuito ad Apollonio di Giovanni e Marco del Buono databile al 1460, oggi conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York. Il cassone presenta un pannello frontale con una vista molto accurata della Città di Costantinopoli e una seconda città riconoscibile come Trebisonda. In un carro da guerra è raffigurato appunto Tamerlano in trionfo, forse in una confusione voluta con Uzun Ḥasan, signore degli Aq Qoyunlu e « secondo Alessandro » perché ritenuto un possibile avversario di Maometto II.18 387

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2. Da Pio II Piccolomini a Machiavelli: il modello politico Enea Silvio Piccolomini, « il piú insigne umanista senese, poi papa Pio II (pontificato: 1458-1464) », seguí in gioventú i corsi di Andrea Biglia a Siena.19 Con Pio II si entra in pieno nella dimensione politica della percezione di Tamerlano, come “antidoto” ai Turchi allora dilaganti e pronti a minacciare Costantinopoli. L’autore di questa « provvisoria salvazione »20 è definito un parthiano, per distinguerlo dagli sciiti, già stigmatizzati da Erodoto che comincia in quest’epoca a essere ampiamente ristudiato. Il futuro papa scrive, in tal senso: […] Circa dieci anni innanzi al nascere nostro, il Tamberlano Parthiano soldato privato talmente fu tra i suoi e d’accortezza e d’ingegno, & di destrezza de’l corpo eccellente, che in breve egli divenne Capitano di molte genti, con le quali conseguí l’imperio de’ Parthi, si sottopose i Scythi, gl’Iberi, gl’Albani, i Persi & i Medi: assalí la Mesopotamia e l’Armenia e passato l’Eufrate, con quattrocento millia cavalli, & seicento millia pedoni, saccheggiò tutta l’Asia minore, prese vivo Pazaite, appresso gl’Armeni potentissimo di tutti li Re, padrone de’ Turchi, il quale era à la guardia de suoi duecento millia huomini, e portollo per tutta l’Asia chiuso in una gabbia à guisa di fiera, spettacolo de le cose humane egregio, e meraviglioso. Gli soi alloggiamenti erano ordinati in modo d’una citade: ogni parte haveva il suo luogo, & gli esercitij erano distribuiti in le sue parti: accioche ogni cosa fusse in pronto, sempre ci si trovava gran quantità di cose necessarie à l’uso della citade, non ci essendo luogho alcuno gli rubamenti, & ogni cosa era portata sicuramente fra li suoi soldati, non fu mai niuno motino, ne tumulto, ne mai provò la fortuna contraria.21

Il modello proposto è decisamente interessante: al di là delle imprese e della storia della gabbia che rifletteva gli autori greci e Mignanelli, colpisce la descrizione di questa città ideale di tende – come non ricordare quella fatta da Andrea Redusi nel Chronicum Tarvisinum –22 con informazioni sui mestieri, la prosperità e l’assenza di criminalità cittadina. Dopo aver enunciato le conquiste di Timur, cominciando proprio da una delle ultime, Smirne, per snocciolare poi le altre: Antiochia (?), Sebaste, Tripoli, Damasco che « saccheggiò & abbruggiolle », passa a parlare di Caffa, forse confondendo l’assedio di questa città con quella di Tana (Azak) sul Mare d’Azov (« La Caffa citade de Genovesi e Colonia nella Taurica Cherronesso non lontana dal Bosphoro Cimerico »): « havendo deliberato il Tamberlano d’assalirla mando inanzi certi scyti mercanti a vendere pretiosißime pelli de animali per migliore mercato de’ l consueto sapendo che l’oro facilmente si po’ ascondere, & le pelli non si possono sotterrare ».23 388

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Anche in questo caso sembra di vedere un riferimento a quella descrizione, pur forse con il fraintendimento di Tana e di Caffa, inclusa la visita preliminare di spie per conoscere le merci della città. Dopo la conquista Tamerlano si sarebbe preso pelli e oro. Pio II descrive le fasi degli assedi, con l’istallazione davanti alle mura di un « padiglione bianco », il primo giorno a indicare che gli assalitori « conseguivano la salute » del popolo della città; il secondo giorno il padiglione era rosso, e conseguentemente ci si doveva aspettare la « morte dei padri di famiglia »; il terzo giorno il colore era nero e indicava « la rovina della città; & ogni cosa havea da andare in polvere ». Qui Pio II accenna al tragico destino forse dei fanciulli di Isfahan che furono calpestati dai cavalli fino al loro sterminio. Ma soprattutto Pio II inserisce un personaggio nuovo, inedito nelle fonti precedenti, che avrà un considerevole successo in molte opere del Cinquecento e del Seicento: la figura di un genovese che lo seguiva nelle sue imprese. Domandato alcuna fiata da uno Genovese, molto suo famigliare per che usase tanta crudeltade, commosso, e con curioso viso, et con gli occhi che gettavano fuoco gli rispose. Tu ti pensi che io sia uno huomo, tutti inganni, io sono l’ira di Dio, e la rovina de’l mondo: guarda che dopo questo tu non mi venghi piú innanzi, se non vuoi patire le pene de la tua dimanda. Partisi il Genovese, ne piú mostrosi à gli occhi del Tyranno. Riferivano quelli che videro Tamberlano che fusse simile ad Annibale, secondo quello che di lui si scrive.24

Il Genovese, memoria forse del Giovanni Andrea suo prigioniero per un certo tempo, diventerà poi un tropo letterario diffuso, ma ne riparleremo in seguito. Quanto al parallelismo con Annibale, esso potrebbe avere anche un riflesso nell’affresco del Palazzo dei Conservatori a Roma di Jacopo Ripanda raffigurante Annibale che varca le Alpi su un elefante, databile tra 1508 e 1509.25 L’immagine in effetti somiglia abbastanza al Tamerlano inturbantato, ma con l’armatura delle pitture di Palazzo Orsini a Monte Giordano. Sulla circostanza che montasse un elefante: chi meglio di lui che ne aveva portati a decine dall’India? Al Tamberlanus di Poggio Bracciolini e al successivo di Pio II andrà accostato anche quello di Battista Fregoso (1542-1504), dotto genovese, che era stato coinvolto in diverse attività politiche della sua città e nella liberazione di Otranto nel 1481. I suoi Memorabilia, ispirati a Valerio Massimo, includono esplicitamente l’opera di Bracciolini e Pio II e integrano le gesta di Tamerlano in 89 categorie quali la Maestà, la Povertà, la Pietà, gli Stra389

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tagemmi militari, le Morti inusuali, dove si possono rinvenire passaggi dei due illustri predecessori esplicitamente menzionati dall’autore. In particolare Tamborlanus appare nel capitolo sulla Disciplina e in quello su Astinenza e Continenza, ma soprattutto in quello dedicato a coloro « che emersero da umili fortune per poter rivendicare nomi famosi ». Qui Fregoso si attarda sul passato come pastore e razziatore di Tamborlanus e poi sui suoi successi posteriori. Non manca una corretta disamina del nome che in origine sarebbe Temur Lang ma in Occidente fu deformato in Tamborlanus.26 Nel 1951, Eric Voegelin, storico e filosofo che incentrò diverse sue ricerche sulla concezione politica nell’Italia umanista, scrisse un articolo sulla formazione di Machiavelli, dedicando molte pagine al Tamerlano di Poggio Bracciolini e a quello di Pio II. L’articolo di Voegelin, dopo aver collocato Machiavelli nel contesto dell’Italia tra fine XV e inizi XVI secolo e aver invitato a non cadere nella trappola dei cliché moralistici contro lo storico fiorentino, che non aiutavano secondo lui alla comprensione dell’impianto teorico, si dedicava al concetto di monarchioptant, ovvero di coloro che pur preferendo una costituzione rappresentativa optavano per « l’inevitabilità » della storia diventando monarchici. Voegelin descriveva l’invasione “straniera” dei Francesi di Carlo VIII che avevano approfittato dell’invito di Ludovico Sforza (1494) iniziando una guerra italiana che sarà fortemente stigmatizzata da Machiavelli. Voegelin introduce il concetto platonico, rivisitato in chiave moderna, di pleonexia, ovvero la « smania di avere piú del giusto », o « smania insaziabile di avere ciò che di diritto spetta ad altri » che aveva caratterizzato gli atteggiamenti di molti italiani. Questo tipo di argomenti aveva portato a reazioni filosofico-politiche come quella del cardinale Egidio Albornoz (1310-1367) che tentò di circoscrivere le posizioni di potere in termini di durata e in termini di selezione di chi doveva governare, nelle sue Constitutiones Egidinae. Altro esempio preso da Voegelin è Coluccio Salutati (1332-1406), precettore di Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, autore di un De Tyranno, primo esempio di monarchioptant in Europa, nel quale l’autore contrastava in definitiva lo stigma della tirannia attraverso un’analisi politica “realistica”.27 Inevitabile sembrò a Voegelin il riferimento a Poggio Bracciolini e a Pio II, precursori del pensiero di Machiavelli proprio per quell’elemento asiatico che introduceva una novità significativa nelle teorie storico-filosofiche: Bracciolini con il concetto di Fortuna, articolato in numerosi distinguo si dedicò in primo luogo prima al successo di Bāyazīd a Nicopoli seguito 390

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alla sua sconfitta ad Ankara. Bracciolini piaceva a Machiavelli perché, pur ricordando il passato, non dimenticava il presente, per l’esattezza « l’uomo del suo tempo ». Costui non era in Europa e Bracciolini lamenta che se tutti si beano di parlare d’Alessandro e di Maratona, si dimenticano però di Tamberlanus. Quanto a Pio II, la sua versione apportava numerose novità rispetto alla stessa versione di Mignanelli poi ripresa da Bracciolini.28 Tali erano il fantomatico Genovese e tale era la comparazione con Annibale. Voegelin, che sicuramente vedeva elementi della Vita Tamerlani nel Principe di Machiavelli, vi fece un particolare riferimento a proposito della Vita di Castruccio Castracani, in cui ravvisava il pattern del mito dell’eroe, già impiegato nelle precedenti testimonianze storico-letterarie: un’infanzia con oscuri natali; l’abbandono a 14 anni dell’attività clericale per dedicarsi alla vita militare; la superiorità rispetto ai compagni di gioventú e l’abilità nel combattimento grazie alle arti impeccabilmente apprese. Castruccio era un autentico self-made man che riproduceva molte caratteristiche comuni a Temerlano. […] grato agli amici, agli nimici terribile, giusto con i sudditi, infedele con gli esterni, né mai potette vincere per fraude, che cercasse di vincere per forza; perché diceva, che la vittoria non il modo della vittoria ti arrecava gloria. Niuno fu mai piú audace ad entrare ne’ pericoli, né piú cauto a uscirne; e usava dire: Che gli uomini debbono tentare ogni cosa, né di alcuna sbigottirsi, e che Dio è amatore degli uomini forti, perché si vede che sempre gastiga gli impotenti coi potenti.29

Con quest’ultima frase veniva enunciata l’ira Dei già descritta nella Vita Tamberlani di Pio II, come a chiudere l’allusione a quei testi di riferimento.30 3. Gli Elogia di Giovio Nel corso del Cinquecento furono prodotte decine di versioni delle storie di Tamerlano. Forse tra le prime va ricordata la testimonianza di Antonio Coccio Sabellico (1436-1506) che, nella seconda parte delle sue Enneadi, spendeva due lunghe pagine su Tamerlano con molte riprese di opere precedenti e qualche elemento originale. Il padre aveva servito gli Orsini e Antonio Coccio assisté nel 1477 alla strage operata dai Turchi a Tarcento e alla sconfitta veneziana sull’Isonzo. Storico ufficiale veneziano, si dilunga su Tamberlane e soprattutto sui suoi rapporti con i Genovesi. Ma il fulcro del suo racconto è l’episodio di Paiazet (Bāyazīd).31 391

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Il piú delle volte il personaggio di Tamerlano era inserito in un repertorio di uomini illustri come era costume al tempo: è il caso di Marco Guazzo (1485-1556), mantovano, ripetutamente accusato di plagi per le sue opere, pratica che non esitò a esercitare anche nella sua Cronica, inserendo huomini illustri saccheggiati da fonti coeve. Qui Tamorlano, significativamente, appare nella storia nel 1395, ricorrendo ancora una volta questa data cruciale del primo contatto tra Europei e Timuridi. Non manca ovviamente l’episodio della gabbia, Bāyazīd con la catena al collo, tirato come un cane e usato come sgabello per montare a cavallo.32 Quanto ad Antonio Cambini (1483-1527), fiorentino, inserí la vicenda di Tamerlano entro la sua storia ottomana, apparsa postuma già nel 1529 e come commentario nel 1541. Sostenitore della prima ora di Savonarola, Cambini si scusa del fatto di inserire una digressione alla storia dinastica riprendendo la piú volte ricordata storia delle umili origini di Tanmerlane (cosí lo chiama Cambini), e descrivendo in maniera piuttosto vaga le vicende sino al 1390. Tanmerlane è come in quasi tutti gli autori del tempo un Parto e cattura Baiasith, con tutto il repertorio ben noto. Nella sua versione compare uno dei primi “allargamenti” della mappa territoriale di Tamerlano che per Cambini raggiunge il Nilo. Uomo ferocissimo che ricorda Annibale, è anche colui che annichilisce tiranni e re.33 Come si noterà, anche in questo caso gli autori ripetono gli stessi concetti senza novità particolari. Un vero cambiamento è quello che viene operato da Paolo Giovio, medico e umanista comasco che visse diversi anni presso le corti pontificie di Clemente VII de’ Medici (r. 1523-1534) e Paolo III Farnese (15341549), dove continuò a svolgere la propria attività di medico ma con una forte influenza sui papi, in particolare Clemente VII. Beneficiò anche del favore di Carlo V d’Asburgo, allora all’apice della sua potenza. Raffinato intellettuale, Giovio si distingue dai suoi predecessori umanisti, in gran parte toscani o comunque molto condizionati dalla loro formazione toscana e piú precisamente fiorentina. Se ne distacca per maggiore disinvoltura testuale e per un carattere arguto e meno rigido, allontanandosi cosí, almeno in parte, dal modello cristallizzato apparso nel Quattrocento e poi perpetuato in modo quasi ripetitivo per proporre un nuovo impianto descrittivo. La sua passione per i simboli e per il legame tra immagine e parola scritta34 lo portò all’elaborazione nei suoi Elogia, stampati nel 1551,35 a costruire dei ritratti estremamente eloquenti che dovevano corrispondere a una galleria di personaggi presente nel suo “Museo” a Como, purtroppo oggi andato perduto. 392

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Come s’è detto, negli Elogia alcuni dei tratti del Tamerlano quattrocentesco sopravvivono, ad esempio quello relativo all’animo ferino e all’aspetto truce, la forza sovrumana e l’assoluta ferocia. Tuttavia, a questi, si aggiungono osservazioni come quella relativa al suo nome Temir Cuthlus che significherebbe fortunatum ferrum, cosa che corrisponde al vero in senso lato, stando cuthlus per il turco qutlugh (‘felice’). Anche se poi il nome di Timur Qutlugh va riferito a un altro sovrano del tempo, signore dell’Orda d’Oro tra il 1395 e il 1401. Dunque il modo di procedere di Giovio è quello di inserire informazioni spesso non eccessivamente verificate (vedi la data di morte di Tamerlanis fissata nel 1402) ma portatrici di contenuti nuovi. Inoltre, non mancano le aggiunte di riferimenti alla classicità, alcuni per altro già fatti in precedenza. Assai piú corrette sono le notizie, inedite sino ad allora, della guerra contro Toqtamish, che pur non menzionato comanda un territorio che va dal Volga sino a Mosca, dove si trovano le “orde” che vivono entro tende portatili, fino al monte Imao che gli antichi chiamavano Amaxobii – quest’ultima, una citazione del Planisfero di fra’ Mauro (ca. 1450).36 Giovio fa riferimento anche a Cassania, Scaibania e Nogaia, che abitualmente trafficano coi Moscoviti. La descrizione del Volga e del suo complesso attraversamento risponde al vero e cosí tutti gli attraversamenti di fiumi, sempre molto problematici per Tamerlano. Alla fine, Tamerlanis arriva a Derbenthi (Darband) ripercorrendo gli itinerari dei Mongoli ilkhanidi (Hyelon e Abaga, ‘Hülagü e Abaqa’). Non manca la menzione della distruzione di Sultania (Sultaniyya), antica capitale persiana, e cosí la penetrazione in Anatolia dove Tamerlano incontra nella Casovasi (‘il campo delle oche’) Bāyazīd. Si tratta ovviamente di Çubuk Ova (la piana del fiume Çubuk). Timur è descritto come abile arciere, secondo una consolidata convinzione, e trafitto dalle frecce dei Timuridi il cavallo di Bāyazīd soccombe e il sultano viene catturato. Giovio riprende l’episodio del Genovese che invita alla clemenza Tamerlano ricordandogli il destino di Sapore e Valeriano, ma Tamerlanis esercitava un iustae saeveritatis exemplum. Ancora Giovio descrive l’irruzione in Mesopotamia, ovvero la presa di Baghdad, e cosí della Siria dove prese Damasco. Rinunciò ai possedimenti del sultano di « Memphis » (ovvero il sultano mammelucco Faraj), temendo la sete violenta che lo avrebbe preso nell’attraversare i deserti. Morí nel 1402 (sic) nello stesso anno di Gian Galeazzo Visconti, mentre nel cielo il presagio di quella scomparsa era segnato da una stella cometa.37 393

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L’Elogio fornito da Giovio, creato a corredo del ritratto presente nel Museo gioviano a Como, diventa anche il motivo per l’esecuzione di una serie di dipinti che riproducono, oltre ai ritratti dei sultani ottomani, quello di Tamerlanes. Il primo a realizzare queste copie fu Cristofano dell’Altissimo, a partire dal 1522, quando ancora Giovio era in vita. Allievo di Pontormo e Bronzino, Cristofano realizza un ritratto di Tamerlanes totalmente diverso dal modello proposto in Palazzo Orsini: ora non è piú dipinto con una corazza, un turbante, né ha piú la barba di quelle pitture. Si presenta piuttosto con dei baffi verso il basso e un copricapo conico, tipico nei dipinti raffiguranti i tatari e con singolare verismo, rispetto alla elaborazione fantastica precedente. Dopo alterne vicende il dipinto di Cristofano è oggi conservato a Firenze nel Museo degli Uffizi.38 Molti altri riprenderanno quel modello iconografico per riprodurre delle stampe da inserire in edizioni posteriori degli Elogia, come le splendide incisioni di Tobias Stimmer che vennero pubblicate nel 1575 e che sono molto conosciute. Chiaramente ripresa da Cristofano dell’Altissimo o da un comune modello, il ritratto di Tamerlanes di Stimmer: aggiunge sullo sfondo un paesaggio stepposo con una carrozza. Il dipinto di Cristofano dell’Altissimo ispirerà poi altre incisioni oltre a quella di Stimmer, è il caso di un ritratto riportato da Pompilio Totti nel 1535,39 al quale si ispirerà poi l’artista che fece un ritratto scolpito di Tamerlano sulla “facciata parlante” del castello di Corigliano d’Otranto in Puglia nel 1651. Quest’ultimo rappresenta « il Castigo » e riporta la seguente iscrizione: « Qui lo scellerato e spietato torturatore: state lontano voi che non avete nessuna colpa ».40 Va segnalato il già citato volume apparso nel 1553, Magni Tamerlanis Scytharum Imperatoris vita, opera del fiorentino Pietro Perondino (due anni dopo la prima edizione di Giovio).41 Con qualche elemento geografico nuovo, anche questo volumetto interamente dedicato a Tamerlano non porta particolari novità e anzi sembra fortemente ispirato da Giovio, di cui ripete interi passaggi. A lui si potrà accostare quella Vita del Tamburlano che Nicolao Granucci, lucchese, inserí nel suo L’eremita la carcere, e ’l diporto del 1569, che questo autore scrisse basandosi a sua volta su Perondino e Cambini.42 4. Da Pedro Mexía a Christopher Marlowe Cosa successe alla straordinaria testimonianza di Clavijo che, al pari di Mignanelli e Schiltberger, costituisce uno dei testi occidentali piú impor394

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tanti per la descrizione delle vicende di Tamerlano? In realtà per vario tempo quella testimonianza rimase sconosciuta. Una prima edizione della Historia del Gran Tamerlán e itinerario y enarración del viaje y relación de la embaxada que Ruy González de Clavijo le hizo apparve nel 1582 per mano di Gonzalo Argote de Molina,43 ma solo nel XVIII secolo furono stampate delle edizioni anche di maggior diffusione. Va ricordata invece per la Spagna la figura notevole di Pedro Mexía (1497-1551) autore vissuto quasi contemporaneamente a Giovio, che ha lasciato una testimonianza molto significativa soprattutto per la fortuna che ebbe in Europa, dove la sua Silva de varia lección (1540) fu piú volte tradotta in varie lingue europee44 e si può dire con certezza che sia stata ispirata da altre fonti, piuttosto che da Clajivo. Un fatto, quest’ultimo, che rende Mexía autore forse meno interessato agli eventi storici e dà un’idea di quanto le letture filosofiche potessero essere considerate piú attraenti in quest’epoca. Erasmista convinto e nemico del luteranesimo, Mexía dedicò molte opere storiche alla famiglia imperiale e in particolare a Carlo V. Ma la sua opera principale è la Silva, una raccolta miscellanea dalle tematiche eterogenee e, come s’è detto, dai « titoli variopinti ».45 Fu uno sfoggio straor­ dinario di erudizione che accompagnava le vicende storiche piú o meno già definite dalla tradizione umanistica italiana, e l’autore si concentrò a ricucire trame e riferimenti col mondo antico, facendo entrare trionfalmente Tamorlán « nel circolo esclusivo degli eroi guerrieri mediterranei ».46 Nel lungo capitolo dedicato a Tamorlán, naturalmente, sono descritti i miseri natali come « bovaro » (boyero) o, secondo altri, come un povero soldato, ma subito si enunciano anche i futuri successi: diventerà come Alessandro, grazie ai suoi sforzi e alla sua capacità a usare le armi. Mexía esplicita sin dall’inizio le sue fonti: da Battista Fregoso (Fulgoso) ricava la storia che per gioco sarebbe stato nominato re e cosí, un po’ per scherzo, un po’ per davvero, avrebbe convinto i suoi a venirgli dietro fino a compiere delle razzie ai danni delle carovane. La sua attività aumentò presto fino a farlo diventare signore di Persia. Qui inizia il solito elenco di conquiste con un altro inevitabile paragone a Dario e a Serse. E ancora, le guerre contro Bayazeto e naturalmente la storia della gabbia e l’uso del sultano come sgabello costituiscono un fulcro narrativo essenziale. Il resto riprende integralmente Pio II e Battista Fregoso, incluse le tre fasi degli assedi, il massacro dei bambini e naturalmente il Genovese, a cui Tamorlán ricorda che lui è l’ira di Dio. Concludendo, Mexía introduce la figura di Uzun Ḥasan (Usancasano), il celebre sovrano degli Aq Qoyunlu, 395

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al quale attribuisce erroneamente la fondazione dello stato safavide ma che subí poi la disfatta per mano di Maometto II.47 In Spagna la memoria di Tamerlano si ritrovò poi anche nei Commentari all’ambasciata di Don Garcia de Silva y Figueroa, inviato presso Shāh ‘Abbās nel 1618, che incluse una Vita di Tamerlano con notizie ricavate da fonti fino allora sconosciute in Europa, come le cronache di Mīrkhwānd e Khwāndamīr e una narrazione particolarmente dettagliata della storia di Timur, molto diversa da quelle contemporanee. Curiosamente anche in questo caso non v’è traccia di Clavijo. Si potrebbe parlare di una traduzione complessiva, un regesto delle opere degli storici persiani con un lungo dettaglio sulla presa di Smirne. Non manca comunque nel gusto dell’epoca l’inserimento di elementi della storia classica a sostegno delle fonti orientali.48 A una traduzione francese di Pedro Mexía fece riferimento Thomas Fortescue, nel 1571, quando offrí la sua versione dell’opera (The Foreste or Collection of Histories no lesse profitable then pleasant), che è degna di menzione49 piú che per il suo stile e i suoi fraintendimenti, soprattutto perché diede origine a una splendida tradizione teatrale inaugurata da Christopher Marlowe, autore di un suo Tamburlaine the Great che apparve sulle scene per la prima volta nel 1590,50 anche se la sua stesura risale al 1588. Il Tamburlaine the Great ha suscitato diverse discussioni di natura filologica per le quali si rimanda ai lavori degli specialisti.51 Quanto alla sua trama, si noterà la capacità di Marlowe di inserire i dati ricavati da Mexía, in fondo abbastanza ridotti, in uno scenario molto convincente, e questo sin dall’inizio. In una improbabile Persepoli, Tamburlaine è un bandito-pastore sciita con un grande esercito e ha catturato Zenocrate, figlia del sultano d’Egitto. Il re di Persia Mycete vuole sconfiggerlo, ma suo fratello Cosroe si rivolge a Tamburlaine e si allea con lui in cambio della promessa che Cosroe avrà poi il regno. Tamburlaine sconfigge Mycete e invece di mantenere la sua parola diventa lui sovrano di Persia. Questo gli permette una carriera militare nuova, e di attaccare Bajazeth, signore dei Turchi. Dopo averlo catturato insieme alla figlia Zebina, lo chiude in gabbia e lo usa come sgabello quando mangia. Bajazeth, infine, si suicida sbattendo la testa contro le sbarre della gabbia e sua figlia finisce con l’uccidersi anche lei. Si potrà notare che, come fido compagno, Tamburlaine ha in queste imprese Usumcasane, proprio quell’Usuncassano che era stato menzionato da Mexía come uno dei successori del signore centroasiatico. D’altronde Marlowe si dilunga abilmente anche sulle imprese dei successori di Baja396

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zeth, ovvero Callapine ([Meḥemmed] Çelebi), che fugge di prigione e finisce con lo scontrarsi con Tamburlaine. Nel finale il signore centroasiatico muore dopo aver bruciato il Corano, a indicare l’estremo tentativo di hybris di un uomo tormentato dalla sofferenza. Menzioniamo la scena nella bella traduzione di Rodolfo Wilcock: Tamerlano. Dov’è il Corano turco, Usumcassano, e quei mucchi di libri superstiziosi presi nei templi di quel Maometto che ritenevo un Dio? Voglio bruciarli. Usumcassano. Eccoli mio signore. Tamerlano. Bene. Accendete una pira (viene acceso un fuoco). Invano gli uomini adorano Maometto: ho spedito all’inferno Turchi a milioni, tutti i suoi preti, parenti e amici, eppure sono vivo, non mi ha toccato. C’è un Dio pieno di ira vendicatrice, che fa scoppiare il tuono e scaglia il fulmine: io sono il suo flagello, e l’obbedisco. Usumcassano, gettali nel fuoco (bruciano i libri). Ora, Maometto, se davvero hai potere, scendi tu stesso e opera un miracolo. Ma non sei degno di essere adorato se permetti che bruci gli scritti sui quali poggia la tua religione. Perché non mandi giú un fiero turbine che rapisca il Corano fino al trono dove tu siedi, dicono, accanto a Dio; o un fulmine sul capo di Tamerlano che alza la spada contro la tua maestà e oltraggia i codici delle tue leggi sciocche? Ecco: Maometto rimane nell’inferno; non gli arriva la voce di Tamerlano: cercatevi un altro dio da adorare. Il Dio ch’è nel cielo, se c’è un dio; perché lui solo è Dio, e nessun altro.52

La variante di Marlowe sembra recepire molti aspetti delle fonti umanistiche, ora traghettati da Pedro Mexía, imprimendo loro quella dimensione esistenziale che solo il teatro poteva conferire. Marlowe definisce anche una trama molto dinamica con personaggi immaginari (Zenocrate, ad es.) che inscenano questa ennesima riproposizione del personaggio. L’Inghilterra finirà col riprodurre la figura di Tamburlaine in altre opere posteriori, magari ispirate a Giovio, questa volta, ma sempre con un piglio interpretativo originale. È il caso di una storia di Tamburlaine, inserita all’interno di una Generall Historie of the Turks di Richard Knolles, un letterato che produsse una imponente descrizione dell’Impero ottomano, la cui prima edizione comparve nel 1603.53 Essa includeva molte fantasie già oramai diffuse, aggiungendo altri particolari sorprendenti: il Genovese, gran consigliere di Timur, ora acquisiva un nome, Axalla. Si tratta di un nome che Knolles ricavava probabilmente dal francese Jean Du Bec, autore anche lui di una fantasiosa Histoire du grand empereur Tamerlanes pubbli397

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cata a Rouen nel 1595, e forse vero inventore di questo Axalla. Naturalmente, insieme a un numero considerevole di fantasie che non escludono però un tono serio dell’opera, Du Bec e Knolles aiutano a capire anche come venivano affastellate le trame storico-letterarie. Du Bec fa riferimento a tal Alhacent, che poi ritroveremo ripreso in diverse opere posteriori. Questo testo sarebbe stato l’opera principale da lui studiata per il suo saggio storico, ma scatenò molte polemiche contro du Bec per il semplice fatto che Alhacent non era in realtà mai esistito.54 Quanto ad Axalla, è una figura pervasiva cui vengono attribuite improbabili invasioni dell’Africa, di Gerusalemme e di Mosca.55 Quello che ancor piú sorprende sono le illustrazioni che corredano la cronaca di Knolles. Se per i sultani ottomani si tratta evidentemente di riproduzioni degli esemplari prodotti dalle illustrazioni di Stimmer, il Tamerlano di Knolles diventa un gentiluomo vestito alla maniera inglese con un baffetto, una cappa e uno spadino sul fianco. Totalmente anomala rispetto ai sultani, questa figura tradisce il fatto di essere stata copiata dal modello gioviano di cui riprende l’erronea data del 1402 per la morte di Tamerlano e d’altronde anche il resto dell’iscrizione si rifà a quel testo. Quanto però all’aspetto del personaggio, è stato ipotizzato che possa trattarsi di un ritratto del famoso attore elisabettiano Edward Alleyn, che proprio con Marlowe aveva lavorato.56 Insomma, se la storia era subentrata tra i temi teatrali, si direbbe che anche il teatro finisse col condizionare le stesse trattazioni storiche. Andrà ricordata qui in tal senso la fortuna di Tamerlano accompagnato da Axalla nei paesi del nord-Europa, a cominciare dall’Olanda, dove appare un Den grooten Tamerlan di Johannes Serwouters del 1657, che riprendeva Knolles.57 Axalla si ritrova poi in altri autori come Charles Saunders, autore di un Tamerlan the Great nel 1681,58 Francis Fane, che scrive la tragedia The Sacrifice nel 1686,59 William Popple, autore di Tamerlan the Beneficent nel 1689,60 e infine nel Tamerlane di Nicholas Rowe (1702).61 5. Il Tamerlano teatrale nel Seicento francese e italiano Il Tamburlaine di Marlowe ebbe un gran successo e ispirò anche Luis Vélez de Guevara che, nel 1635 a Valencia, scriveva una tragedia, La nueva ira de Dios, y Gran Tamorlán de Persia.62 L’opera venne ripubblicata appena sette anni dopo a nome di Lope de Vega, probabilmente per aumentare le vendite del testo.63 La nueva ira de Dios riprendeva soprattutto il dialogo serrato tra Tamerlan e Bayacetto, modificando i nomi degli altri personaggi 398

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ed eliminando parte del tenore drammatico del Tamburlaine di Marlowe. Lo stesso fece il francese Jean Magnon, giudicato un tempo autore mediocre e oggi rivalutato.64 Ancora, il cuore dell’opera è caratterizzato dallo scontro verbale tra Tamerlan e Bajazet, che porta infine al suicidio per avvelenamento di Orcazie, moglie di Bajazet, e quello immediatamente successivo del sultano che si pianta un pugnale nel petto. Elemento di interesse nell’opera di Magnon è la presenza di figure ottomane piú o meno improbabili, come l’infido ministro Selim, traditore di Bajazet. Rispetto a Magnon, sicuramente ebbe maggior successo il Tamerlan ou la mort de Bajazet di Nicolas (Jacques) Pradon del 1679, opera che fu ampiamente imitata in Italia. Grande rivale di Racine e autore piuttosto maltrattato, Pradon proponeva ora una nuova versione della vicenda nella quale Tamerlan viene trasformato in una creatura di natura assai piú mite e lo stesso autore spiega di aver fatto di lui un onest’uomo contro quelli che pretendevano fosse un bruto.65 Questo passaggio muta la natura del personaggio radicalmente ed elimina la drammaticità dell’opera marlowiana per trasformarla in qualcosa di piú commovente e nel contempo assai meno affascinante: la scena è ambientata in Bitinia, a Bursa, in un momento immediatamente successivo alla vittoria di Tamerlan su Bajazet. Dopo aver imprigionato il sultano, però, Tamerlan si innamora della figlia Astérie che però era promessa in sposa ad Andronic, principe ereditario di Costantinopoli. Tamerlan vorrebbe convincere Bajazet a concedergli il suo consenso, ma quest’ultimo lo riempie di contumelie. L’intreccio si infittisce di amori tra personaggi che sembrano disvelare le fonti utilizzate, per esempio Irène, principessa di Trebisonda, promessa in sposa a Tamerlan. Infine, Bajazet si uccide e Tamerlan, commosso, rinuncia alla sua passione per Astérie cedendola ad Andronic e si sposa con Irène.66 Pradon dichiara di rifarsi a Chalkokandiles e a Du Bec, dal quale riprende “l’autore arabo” da lui menzionato (il già citato pseudo-Alhacent), il che gli attirò le ire di quanti negavano giustamente l’esistenza di questo personaggio.67 Ciò che qui colpisce è un Tamerlano ravveduto che risulta decisamente diverso dai ruvidi personaggi del passato. È questo il modello che trionfa in Italia, dove già nel 1689 il librettista parmense Giulio Cesare Corradi scrive un “dramma per musica” intitolato Il Gran Tamerlano che imita Pradon pur col solito cambiamento di alcuni personaggi.68 Non molto dissimile da quest’ultima opera sarà Il Gran Tamerlano di Antonio Salvi del 1706, che dichiarerà esplicitamente di rifarsi a Pradon,69 con l’aggiunta di un nuovo personaggio femminile, se399

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condo il “costume italiano” che prevedeva piú donne sulla scena. L’opera di Salvi fu messa in musica da Marco Antonio Ziani che già aveva musicato quella di Corradi. A riscuotere il maggior successo fu comunque la tragedia per musica Tamerlano di Agostino Piovene che fu rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1710 con le musiche di Francesco Gasparini.70 La grande novità nell’opera di Piovene è l’attenta ricerca delle fonti e la distinzione tra la finzione teatrale e la storia, scrive infatti a premessa del libretto: È cosí nota la storia di Tamerlano, e di Bajazete, che in vece di affaticarmi a istruirne il lettore, dovrei studiarmi à disimprimerlo da certe opinioni, che vengono accreditate per vere. Si crede comunemente che dopo la prigionia di Bajazete, Tamerlano si servisse di lui per isgabello nel salire a cavallo, che lo rinchiudesse in una gabbia di ferro, e che si facesse servire dalla di lui moglie ignuda alla mensa. Ciò non ostante io, che non imprendo scrivere una storia, ma di far rappresentare una tragedia ho preso dalle sopracitate favole ridotte al decoro del Teatro e alla possibile probabilità, il motivo per un’azione, la quale ha per fine la morte di Bajazet. Che lo stesso si avvelenasse di propria mano, che Tamerlano fosse confederato co’ i Greci, che il medesimo si placasse per la morte di Bajazet si legge nell’Istoria Bizantina Ducæ Michaelis Ducæ Nepotis, nella quale si descrive diffusamente il successo.71

Merita sicuramente di essere menzionata anche una gustosissima Farsa arciprotatragichissima di Antonio De Fiori, Il Bajazzette in gabbia ovvero Tamerlano in trionfo del 1744. Ancora una volta è lo scontro verbale tra Tamerlano e Bajazette a costituire il fulcro della vicenda, ma in questo caso con sapide battute di tipo gastronomico e ortofrutticolo. Bajazzette si lamenta con Andronico di essere « come a mazzo di broccoli attaccato, vilipeso da un pacchiano, da un villano refagliuto » e continua pateticamente piagnucolando « o stelle, potete far… che io… che voi… cotanto… ». Per rincuorarlo Andronico gli espone un’altra metafora botanica: “Fortezza o Bejazet, mira nel prato il picciol rafanello che benchè attorniato di lotame, esposto ai venti, all’acqua e al zappello, si mantien forte e piccantello”.72 Ma ancor piú esilarante è la scena dello scambio di contumelie tra Tamerlano e Bajazzette, il primo mangia e il secondo è rinchiuso nella gabbia: Tamerlano. Bajazette, mi sembri un babuino cosí rinchiuso in gabbia. Bajazette. E tu mi sembri un asino vicino alla mangiatoia, o nobil Tamerlano. Tamerlano. Qui ti feci portar acciò che mi vedi. Bajazette. Mangia pure crudel ti faccia foco.73

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6. Ai primi del Settecento: opere, dipinti e traduzioni Uno degli aspetti però piú importanti dei drammi italiani seicenteschi è l’introduzione di vere e proprie opere musicali. Già nel 1709, Alessandro Scarlatti componeva la musica per un Tamerlano, sul libretto di Silvio Stampiglia.74 Piú famoso è il caso della musica composta per il Tamerlano di Piovene dal già menzionato Francesco Gasparini, toscano di Camaiore che operò a Roma a partire dal 1680. L’opera viene rappresentata nel 1710, dando una forte impronta al genere, utilizzando per la prima volta un tenore nel ruolo di Bajazet. Questo mutamento da parte di Gasparini conferisce anche al personaggio una nuova dimensione piú solenne e drammatica e il tenore Francesco Borosini, che aveva interpretato il Tamerlano a Venezia e Reggio Emilia nel 1711 e nel 1719, finí con l’essere chiamato da Händel a Londra nel 1724, per il Tamerlano di quest’ultimo. Il libretto utilizzato in questo caso era un rimaneggiamento per mano di Nicola Francesco Haym sempre dell’opera di Piovene.75 È stato giustamente notato che le opere di Gasparini e Händel apparivano poco dopo la fine dell’assedio di Vienna (1683) e gli accordi di Karlowitz (1699), in un nuovo clima politico e soprattutto con una nuova percezione dell’Impero ottomano.76 Che il clima stesse mutando si era già potuto osservare nella rappresentazione del Tamerlano di Corradi del 1689, dove si era volutamente calcata la mano sulla disfatta di Bajazet, per esaltare il Gran Duca di Toscana Ferdinando, « novello Tamerlano ».77 Da quel momento si moltiplicano le rappresentazioni musicali con Tamerlano come protagonista.78 Quanto ad Antonio Vivaldi, che mise in scena un suo pasticcio nel 1735, si potrà osservare la pratica invalsa di mettere insieme materiali di ogni genere: il compositore veneziano non si tirò indietro dal mescolare arie di altri compositori moderni, come Hasse e Giacomelli, che adattò al proprio uso. Il resto dell’opera aveva molto in comune con quella precedente di Gasparini e quella di Händel.79 Il Tamerlano vivaldiano è comunque una delle piú esotiche composizioni dell’autore. Inoltre, l’opera sembrava adattarsi anche alle scenografie piú diverse, per essa si utilizzarono nel teatro veronese progettato da Francesco Bibiena per rappresentare la Fida Ninfa di Scipione Maffei con musiche dello stesso Vivaldi, nel 1732, delle scene impiegate anche per l’Arsace in Persepoli, l’Adelaide a Pavia o il Catone in Ustica.80 Questa proliferazione di opere musicali e teatrali portò anche alla realizzazione di alcuni dipinti che ad esse si ispiravano. Se da un lato la presenza di Tamerlano nell’illustrazione libraria aveva oramai una consolida401

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ta tradizione,81 agli inizi del Settecento Andrea Celesti realizzò un dipinto di grandi dimensioni, oggi conservato nel Neues Palais di Potsdam (Inv. GKI 5033), che restituisce con grande vivacità l’immagine di quella che doveva essere una scena oramai molto famigliare: Bajazet in gabbia agita un pugno contro Tamerlano che seduto in trono si fa servire da una figura semi-nuda che si presuppone sia la moglie di Bajazet, ovvero Asteria o Rosselana, secondo le varie versioni teatrali del momento. La scena si caratterizza per una certa confusione, dei personaggi incedono da dietro su degli elefanti; altri suonano dei tamburi avanzando verso Tamerlano. Si direbbe quasi uno spettacolo carnevalizio, e d’altronde a Celesti si attribuí il fatto di vestire un po’ tutti alla turchesca, come se si trattasse di travestimenti, anche nel caso di personaggi della storia sacra. Epigono della tradizione veronesiana, Celesti probabilmente aveva dipinto un gruppo di Storie di Tamerlano destinate al Palazzo Dondi dell’Orologio a Padova, di cui oggi non resta traccia. Altre pitture con un ciclo analogo si trovano nella Villa Bettoni di Bogliaco sul Lago di Garda, ma sono di mano della sua scuola.82 Il proliferare di rimandi a Tamerlano e al suo rivale ottomano induce a pensare anche al successo di Tamerlano nelle corti europee e dunque all’interesse per questa figura ora associata ad Alessandro Magno, quasi ne fosse una moderna riproposizione.83 Sicuramente il caso piú eclatante di questo successo è la straordinaria traduzione realizzata da François Pétis de la Croix (1653-1713) dello Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī che apparve nel 1722. Dedicata a Colbert, è un ottimo esempio dell’uso propagandistico di un tema orientale; era già stata portata a termine prima della morte di Jean-Baptiste Colbert, e offerta in seguito dal figlio Jean-Baptiste Antoine a Luigi XIV, ma sarà pubblicata dopo la morte del Re Sole: Quando il Signor Pétis de la Croix era nel Levante, si dedicò a conoscere a fondo le opere degli autori migliori e non passò molto tempo che venne a conoscenza del nostro autore tra le persone esperte che frequentava. Cosí ebbe modo di leggerlo lui stesso, provando un piacere particolare. Quando fu a Isfahan capitale di Persia, ne acquistò un bellissimo esemplare che poi portò a Parigi e di cui parlò estesamente al compianto Signor Colbert. Questo ministro concepí un’idea assai avvincente e riconosciuto il merito dell’opera per le descrizioni che il Signor de la Croix gli faceva, ordinò di tradurla in francese e cominciò fin da subito a lavorarci, anche se fu obbligato a interrompere questi studi a causa dei viaggi e dei negoziati ai quali era richiamato per ordine del Re e nei quali fu impegnato per vari anni. Non avendo potuto terminare la traduzione prima della morte del Si-

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xx · tamerlano europeo gnor Colbert, la presentò al Signor Marchese di Segnelay [Jean-Baptiste Antoine Colbert], ministro la cui intelligenza ed eccellenza del genio erano conosciuti nel mondo intero. Costui trovò la materia cosí bella, che giudicò questa storia degna dell’interesse del Re. Sua Maestà ne ascoltò i passaggi piú belli dal ministro che aveva trovato della conformità tra i fatti eclatanti dell’Eroe Francese e quelli del Conquistatore Tartaro, senza incontrare nel primo gli eccessi di rigore e la severità che non si può evitare di notare e biasimare nel secondo.84

La traduzione di Pétis de la Croix, oltre a essere un’autentica rarità – sono pochissime le traduzioni delle cronache timuridi –, è decisamente un capolavoro sul piano linguistico. Per l’epoca in cui fu redatta, non manca di espedienti molto moderni. Se da un lato sembra rispecchiare in parte lo spirito delle belles infidèles, dall’altro è di singolare rigore scientifico. La scelta di ridurre in prosa le parti versificate e quella talvolta di compiere delle perifrasi sono destinate a una migliore comprensione del testo. Eppure, pochi autori suscitarono tanto scandalo quanto Pétis de la Croix: ingiustamente criticato, come abbiamo visto, da von Hammer per le sue « imprecisioni », continuò a essere il bersaglio di osservazioni poco lusinghiere e altrettanto anacronistiche nel XX secolo. Nel corso del Seicento un’altra opera aveva suscitato interesse tra gli eruditi: la cronaca araba di Ibn ‘Arabshāh. Quest’opera fu tradotta prima in latino da Golius,85 che colmava il vuoto denunciato da Bergeron che accusò Jean du Bec di aver inventato il personaggio di Alhacent.86 In seguito Ibn ‘Arabshāh venne tradotto anche in francese da Vattier in un’ottima versione del testo.87 7. Eruditi e filosofi Nel 1994 Rolando Minuti ha pubblicato un volume di grande pregio sulle rappresentazioni dei Tatari nella cultura francese del XVIII secolo.88 Al centro di questa trattazione vi erano due opere molto importanti per ragioni molto diverse: l’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations di Voltaire89 e l’Histoire générale des Huns, des Turcs, des Mongols et des autres Tartares occidentaux di Joseph de Guignes.90 Naturalmente Minuti non parla solo di loro, ma queste due fonti fondamentali, la prima per una discussione storicofilosofica sul tema orientale e la seconda per la nascita stessa degli studi moderni orientalistici, risultano una scelta perfetta. Per cominciare da Voltaire, bisogna subito dire che il suo uso delle fon403

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ti era assai disinvolto, la scelta di Cantemir come suo principale modello di riferimento la dice lunga sul suo scarso interesse relativamente ai dati e in buona sostanza sul suo sovrano disprezzo per la storia erudita. Per Voltaire alcune informazioni fornite dagli studiosi risultavano plausibili: questo vale per la sua opposizione alla storia della gabbia,91 ma non per numerose leggende, che accoglie senza troppe esitazioni, a iniziare da quelle di Cantemir fino alle leggende di Galland imperniate sui racconti di Aḥmedī, o ancora quelle che vorrebbero Tamerlano non musulmano, adoratore di un solo Dio « come i letterati cinesi », privo di superstizioni, anche se aveva un debole per l’astrologia giudiziaria, un « errore comune a tutti gli uomini, dal quale siamo appena usciti ».92 In Voltaire, ossessivo è il parallelismo con Alessandro Magno, come dimostrano i continui riferimenti al personaggio, ad esempio nelle Lettere filosofiche (xii): « qual era l’uomo piú grande, Cesare, Alessandro, Tamerlano o Cromwell? », una questione “frivola” alla quale risponde dicendo che Newton era veramente un grand’uomo.93 Ma se altri esempi ripropongono il parallelo con Alessandro,94 la tesi di Voltaire è piú seria, essa coinvolge la storia della decadenza dell’Impero ottomano, e sceglie in quel vaste magasin degli eventi della storia umana ciò che merita di essere conosciuto, ovvero l’esprit des mœurs, gli usi e i costumi delle nazioni che non è permesso ignorare. Per Voltaire le qualità di Tamerlano non possono essere sottaciute: intelligenza, ambizione e abilità politica che sollecitano il richiamo del parallelismo tra la formazione dei grandi stati e la costruzione delle ingenti fortune private.95 Un’idea quest’ultima che ci riporta alla pleonexia di cui parlava Voegelin in relazione ai pensatori rinascimentali. Quanto al concetto di barbarie, esso si esprime in termini sociologici e culturali: è la presunta libertà dei nomadi con la loro vita frugale, l’economia fondata sul brigantaggio e la pirateria, « che erano loro necessari come la strage lo è per le bestie feroci ».96 Voltaire non esitava a lanciare frecciate agli eruditi che considerava aridi e pedanti nelle loro riflessioni e uno dei bersagli preferiti era Joseph de Guignes (1721-1800), siriacista che aveva tentato di dare nel suo lavoro « La storia di una nazione pressoché ignorata ».97 Se certo non è il caso qui di riscrivere la storia dell’orientalistica, de Guignes ha però un ruolo come fondatore di una vera e propria disciplina. Un serio dibattito animò il suo lavoro, questa volta dedicato a tutte le popolazioni turche-mongole e centroasiatiche. Le sue ricerche includevano i materiali cinesi, quelli arabi e persiani e questa apertura segnava un punto d’inizio per la riscoperta di un’ampia porzione di civiltà del mondo rimaste inesplorate proprio per la 404

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generica etichetta di barbare che si portavano appresso. Lo studio dei materiali cinesi caratterizzò quest’epoca, ora che la sinologia si svincolava progressivamente dal contesto gesuita per diventare in qualche modo una disciplina « laica ».98 Ad essa si associavano numerose altre competenze e questa apertura insieme a un certo spirito enciclopedico vide di fatto una volontà di comprendere quelle civiltà che Voltaire considerava barbare escludendole dalla sua ricostruzione dell’esprit des nations.99 De Guignes non era l’unico protagonista di questa stagione di nuovi interessi. Se da un lato si era già cominciato a coniugare la polemistica anti-islamica con uno spirito ermeneutico nuovo nella prima traduzione « scientifica » del Corano proposta da Ludovico Marracci nel 1698,100 dall’altra la Bibliothèque orientale di d’Herbelot nel 1697 dedicava voci a molti temi inediti orientali. In questo dizionario un’ampia voce dedicata a Tamerlano101 segnava decisamente un progresso ragguardevole nelle ricerche, attingendo a fonti semi-sconosciute all’epoca, come Khwāndamīr, con un’impressionante mole di dati nuovi – primo tra tutti lo studio degli esordi di Tamerlano – e l’adozione di un atteggiamento decisamente moderno, al quale possiamo dire di rifarci in gran parte ancor oggi. D’Herbelot seguiva nel proprio lavoro anche le datazioni dell’Egira e tentava di avere un rigore filologico particolare, curando attentamente ogni informazione di cui disponeva, a volte con intuizioni di particolare significato: Prima di parlare delle imprese di Tamerlano, val la pena di spiegare alcuni dei titoli che gli vengono attribuiti. Tamerlano si fece chiamare Soltan o Sultan piuttosto tardi, dato che questo titolo era riservato alla razza Ginghizkhanide che regnava ai suoi tempi in Transoxiana. Non portò agli inizi che quello di Emir, ovvero Comandante o Principe. Vi aggiunse poi quello di Kurkan che significa Genero e Alleato dei re e dei Principi sovrani; cosa che ci rende edotti del fatto, come dice Ahmed Ben Arabschah, che non era di alti natali visto che si gloriava di qualificarsi come parente o alleato del sangue reale.102

Rispetto a d’Herbelot, de Guignes introduceva a pieno titolo Tamerlano nella storia centroasiatica, partendo, nel iii volume dell’Histoire des Huns, dal contesto chinggiskhanide e non piú dal carattere sino ad allora impresso al personaggio di meteora storica nel quadro delle vicende ottomane. Lo ritroviamo dopo una dettagliata descrizione dell’impero di Zagatai (Chagatai) di ben 27 pagine, inclusivo dei conflitti tribali degli anni ’60 del Trecento, sino alla fondazione del suo emirato a Balkh nel 1370.103 La sua vicenda si intreccia con quella di Toqtamish, personaggio ancora molto 405

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oscuro nei testi occidentali a quest’epoca, che qui entra con impeto nei materiali storiografici orientalisti.104 Gli altri eventi piú noti e commentati sono destinati a una serie di capitoli del v volume, in cui comunque non mancano le novità, come il ruolo dei Turcomanni, il carattere dello Stato mamelucco e di quello ottomano.105 L’opera di de Guignes può essere considerata il primo studio moderno sull’Asia centrale e dunque su Tamerlano: rifuggendo da speculazioni filosofiche, lo studioso si dedicò alla considerazione dei dati desunti dalle fonti storiche che all’epoca cominciano a essere piú conosciute. Credo che si possa affermare che a distanza di due secoli, René Grousset, autore di un affresco storico molto importante dedicato ad Attila, Chinggis Khān e Tamerlano (1965),106 si sia ampiamente ispirato a de Guignes e alla sua incredibile disamina di fonti scritte. Senza nulla togliere a quest’ultima opera, il Tamerlano di de Guignes è alla base di quanto poi sarà oggetto di correzioni e precisazioni negli ambiti accademici. Con de Guignes si voltava pagina rispetto a una lettura interpretativa della storia, per proporre un modello di accuratezza che escludesse le fantasie speculative, cercando di offrire dati coerenti e contestualizzati. 8. Dal XIX secolo alla Seconda guerra mondiale Il XIX secolo si caratterizzò per una riduzione progressiva delle creazioni teatrali attorno alla figura di Tamerlano. Nel 1813 veniva messa in scena alla Scala di Milano l’ultima opera dedicata al Grande Emiro in Italia, scritta da Luigi Romanelli, nella quale si rappresentava un conflitto tra Tamerlano e i « musulmani » avvenuto dopo la morte di Bajazet, che non compare mai nella pièce. Questo melodramma si caratterizzava per un giovanissimo Solimano (presumibilmente Süleymān Çelebī), figlio sopravvissuto del sultano e oggetto delle mire del sovrano « tartaro ».107 Altrove ancora permaneva l’attenzione per il personaggio, magari in terre distanti come in America, a Boston, dove usciva nel 1827 la prima edizione del poema di un giovanissimo Edgar Allan Poe intitolato Tamerlane, opera probabilmente ispirata alla storia del Profeta velato del Khorasan di Thomas Moore. Forse il Tamerlane era stato anche scritto in ragione di un amore giovanile, dopo che Poe aveva assistito in un teatro di Richmond alla messa in scena di una pièce intitolata Timour the Tartar di Matthew G. Lewis.108 Quest’ultima opera, scritta in Inghilterra nel 1811, si separava dalla tradizione di Marlowe e Rowe, per far diventare Tamerlano 406

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un’immagine metaforica di Napoleone.109 Un accostamento che sarà riproposto da Goethe nel 1819 nel suo West-östlicher Divan, dove l’autore tedesco introduceva un Timur Nameh, di poche pagine, ispirato al lavoro di von Hammer sulla poesia di Ḥāfiẓ. Ora questo Timur/Napoleone era il campione della brama di potere in contrapposizione a una Sulaika/Marianne che invece stava a indicare l’amore.110 L’Ottocento vide l’avanzamento del livello di specializzazione degli studi orientali, che crescevano di pari passo alle istituzioni universitarie che li promuovevano. Del barone von Hammer si è ampiamente parlato. È indubbio che nel trattare di Tamerlano contraesse un debito di conoscenze notevole con l’opera di de Guignes. La sua Geschichte des osmanischen Reiches è di appena settant’anni posteriore al lavoro dell’erudito francese, ma di essa riprende numerosi aspetti, con l’aggiunta di nuove fonti, soprattutto laddove studia le vicende ottomane. Lo stesso si può dire di Gibbon, che continua il ragionamento voltairiano sulla barbarie.111 Di François Charmoy si è già parlato, ricordando il suo contributo all’orientalistica russa. In questo caso l’eredità è quella dell’École des Langues Orientales dove aveva insegnato il suo maestro Antoine-Isaac Silvestre de Sacy (1758-1838). Costui ebbe tra i suoi allievi anche Étienne Quatremère, al quale si devono alcune preziose, quanto impegnative, edizioni e traduzioni di opere persiane, tra cui anche alcune timuridi, apparse a piú riprese tra il 1839 e il 1843. Grazie a questo tipo di lavori si iniziò in qualche modo ad ampliare gli orizzonti rispetto all’esclusiva considerazione dello Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn e della cronaca di Ibn ‘Arabshāh, le cui traduzioni pur ancora utilizzatissime meritavano oramai alcuni supplementi di indagine comparativa.112 Altri studi piú specifici, come quelli di Julien Dumoret, portavano ancora una volta a rintracciare fonti inedite e a indagare aspetti specifici della storia di Tamerlano.113 La riscoperta di testi sulla storia dell’Asia centrale, già iniziata tra il XVII e il XVIII secolo, ebbe tra la fine del XIX e la metà del XX secolo un rilancio considerevole. Ciò portò alla traduzione di alcune opere molto importanti come il Tarīkh-i-Rashīdī di Mīrzā Muḥammad Ḥaydar Dugh­lat, che apparve a Londra nel 1895 o l’edizione delle memorie in lingua ciagataica di Bābur apparse nel 1905 e poi ristampate numerose volte con la straordinaria traduzione di Annette Beveridge.114 La riscoperta di opere sconosciute divenne una sorta di missione per gli studiosi: incoraggiato dall’opera di Bartol’d e Lev Zimin, che nel 1915 pubblicavano a Pietroburgo le Ghazavāt di Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī, con a fronte 407

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porzioni del testo dello Ẓafarnāma di Shāmī,115 nel 1935, Felix Tauer, appartenente alla prestigiosa scuola orientalistica di Praga, pubblicava un’edizione critica di quest’ultimo lavoro che ancor oggi rimane uno dei testi fondamentali degli studi moderni su Timur.116 All’opera seguí nel 1956 un secondo volume, con le aggiunte portate da Ḥāfiẓ-i Abrū e un preziosissimo indice/glossario, fondamentale per una piú corretta ricezione della toponomastica e piú in generale di molta terminologia turco-mongola presente nel testo persiano.117 Gli anni ’50 videro la comparsa di altre due edizioni di capitale importanza: quella moderna persiana di Sharaf al-Dīn apparsa nel 1958 a opera di Muḥammad ‘Abbāsī, cui seguirà un’altra nel 1972 di Urunbaev che pubblicò l’edizione anastatica del manoscritto num. 4472 dell’Accademia delle Scienze dell’Uzbekistan, includente l’Introduzione allo Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn esclusa da ‘Abbāsī.118 Negli anni ’50 uscí anche l’edizione del Muntakhab al-tavārīkh di Naṭanzī, pubblicata dallo storico francese Jean Aubin (1957) e una importante traduzione russa delle Ghazavāt di Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī a opera di Alexander A. Semenov (1958).119 A queste sensazionali novità non corrisposero monografie di pregio e in alcuni casi alcuni studi orientalistici sembrarono segnare addirittura un regresso. Questo è forse il caso di Lucien Bouvat, che nel 1926 si lanciò in un saggio generale sulla civiltà timuride di piú di cento pagine, apparso sul prestigioso « Journal Asiatique », che si basava ancora principalmente sulle Istituzioni di Timur che gli studiosi, Bartol’d in testa, avevano già rimesso ampiamente in discussione.120 Risulta dunque abbastanza interessante notare il contrasto tra l’intensa attività filologica tesa alla scoperta e la scarsa analisi conseguente dei materiali. Si potrà notare, tra l’altro, che durante il fascismo non vi fu alcun interesse in Italia per Tamerlano e i Timuridi e cosí avvenne per il nazismo, assai piú attratto dalla figura di Chinggis Khān di cui la propaganda proponeva un’inevitabile lettura esoterica.121 Forse fu questo addormentamento della speculazione scientifica che precedette la Seconda guerra mondiale a stimolare alcuni divulgatori, i quali furono attratti dai testi scoperti dagli studiosi piú che dagli studi stessi. È il caso forse del narratore americano Harold Lamb che, nel 1929, lanciò per la prima volta una biografia dal taglio del tutto nuovo che avrà molto successo in seguito. L’opera di Lamb, pur romanzata, era il prodotto di un attento studio di molti materiali e decisamente cambiava passo rispetto al passato.122 Essa diede il via a un filone che dopo la Seconda 408

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guerra mondiale ebbe una straordinaria fioritura in parallelo con la ricerca storica piú scientifica e attrezzata. 9. Sviluppi della ricerca nel dopoguerra e sopravvivenze mitiche Dopo la Seconda guerra mondiale, lo studio di Timur ricomparve tra i principali temi praticati dagli studiosi dell’Oriente turco, persiano e centro-asiatico. Ci limiteremo qui ad alcune tendenze e ad alcuni studiosi che nel caso di questo soggetto impressero uno spirito novatore al proprio lavoro, rifuggendo dalle facili suggestioni che la figura del Grande Emiro stimolava. Anzi i tre esempi che seguono sono di altissimo rigore e disciplina scientifica: si tratta di tre studiosi coi quali abbiamo avuto piú volte a che fare in questo volume e che abbiamo ricordato sin dall’introduzione. Sono i tre successori e continuatori del lavoro di Bartol’d. Il primo è Jean Aubin, che si è dedicato allo studio in profondità delle prime fasi della vita di Timur, in particolare del ruolo dei Qarawna e di quello della dinastia ciagataica, con due articoli fondamentali apparsi sul primo e sull’ottavo numero della prestigiosa rivista « Turcica », che ancor oggi sono delle pietre miliari.123 Aubin si era anche dedicato ad altri temi, in precedenza, come la presa delle città e in particolare quella di Baghdad, o ancora allo stato dei Sarbadār nel Khorasan.124 Il suo lavoro è stato indubbiamente una vera rivoluzione e la benemerita ripubblicazione di parte dei numerosi materiali di quel docente francese a opera di Denise Aigle permette oggi di avere non solo il quadro di uno specialismo intelligente, ma anche quello di un nuovo corso delle ricerche.125 È stato giustamente notato quanto Aubin sia stato capace di interpretare l’integrazione dell’elemento persiano e di quello turco-mongolo in una società caratterizzata dalle “dominazioni straniere”, con una revisione delle categorie nazionali (e nazionaliste) apparse negli stati nazionali moderni. Piú tardi, nel corso degli anni ’80 del XX secolo, un altro studioso riprese quello spirito, John E. Woods, il quale comprese subito che lo studio della natura stessa delle fonti storiche persiane era determinante: ovvero che l’indagine approfondita di quei materiali, sino ad allora oggetto di traduzioni spesso estemporanee e parziali, permetteva di comprendere l’interpretazione storica degli eventi e delle cause che avevano portato all’ascesa di Timur e ai suoi successi posteriori. Woods criticò chi si fermava innanzi allo stile ridondante delle fonti persiane per compiere invece un esame molto concreto dei contenuti.126 Non contestò le leggende per 409

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liquidarle con faciloneria e si dedicò piuttosto proprio a ciò che queste celavano, ad esempio la genealogia di Timur che nascondeva argomenti e motivazioni molto profondi del suo agire, con considerazioni che riprendevano temi cruciali, quali la necessità di una legittimazione efficace, nonché il ruolo di Timur e della sua famiglia.127 Uno degli aspetti forse piú impressionanti del lavoro di questo studioso sta nella sua capacità di affrontare tematiche complesse ancora una volta inerenti alla disgregazione del tessuto geografico e alla ridiscussione delle cronologie: la sua analisi della dinastia degli Aq Qoyunlu permise di fatto di penetrare anche in tutto ciò che ruotava attorno all’Anatolia, un groviglio complesso di personaggi ed eventi che avevano in passato costretto gli studiosi spesso a una semplificazione percettiva.128 Infine andrà ricordato il lavoro fondatore di Beatrice Forbes Manz che nel suo volume The Rise and Rule of Tamerlane, apparso nel 1989, insieme a numerosi articoli, ridefiniva l’ascesa di Timur in base alle connessioni tribali e a un’attenzione per il dato antropologico e sociale del mondo in cui Timur fondò il suo regno.129 Piú tardi in un suo volume apparso nel 2007, Beatrice Manz permise di comprendere anche la longue durée del fenomeno timuride grazie a una rigorosa ricostruzione storica della dinastia a lui posteriore.130 Non ultimo, questa studiosa ha permesso di ricostruire la propaganda già adottata da Timur, e poi ripresa da numerosi autori in seguito, in un prezioso articolo sul « Journal of World History ».131 Nel corso del XX secolo è nata anche una particolare attenzione per il dato archeologico e storico artistico. I primi furono i sovietici che scrissero numerosi lavori per i quali servirebbe uno studio molto ampio qui impossibile da realizzare. Basterà ricordare il lavoro della studiosa canadese Lisa Golombek, che è stata un’attenta interprete di quei materiali, arrivando a fornire un catalogo completo dei monumenti timuridi, realizzato nel 1988 insieme a Donald Wilber, e ancora oggi strumento fondamentale per ogni ricerca sugli edifici e le città timuridi.132 A questo lavoro si potrà accostare un catalogo curato da Thomas Lentz e Glenn Lowry, apparso nel 1989, nel quale veniva definitivamente consacrata la raffinatezza dell’arte timuride e la sua eccellenza.133 In America come in Europa e in Asia, l’arte timuride divenne uno degli argomenti principali nella discussione sull’arte islamica e veicolò molti temi della ricerca storica. Venendo invece alle opere piú romanzesche, andrà subito detto che dopo il volume di Harold Lamb molti hanno cercato di fornire un racconto sul personaggio, anzi si direbbe che Timur sia stato in alcuni momenti 410

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un vero e proprio esercizio di stile. Nel 1980 John Ure ripercorreva l’itinerario di Timur, subito dopo la rivoluzione in Iran, con un interessante parallelismo tra la storia passata e quella recente. Ure fondeva insieme molti ingredienti per finire con lo scrivere un diario di viaggio nelle terre nelle quali Timur era passato, chiamando magari il proprio cammello Zenocrate con riferimento al personaggio marlowiano.134 Piú rigoroso e metodico il volumetto in polacco di Marian Małowist, dedicato a Timur e al suo tempo, che offriva nel 1985 ai suoi connazionali una bella biografia sia sull’epoca che sul condottiero, con una mole significativa di informazioni e diverse opere di riferimento, non ultime le Istituzioni di Timur, particolarmente gradite a molti divulgatori che poco si sono curati della loro falsità.135 Queste costituiscono infatti l’ossatura anche di un’altra opera, il Tamerlano di Franco Adravanti (1991) che individuava in questo personaggio il capostipite della « Stirpe del Gran Mogol ».136 La tradizione divulgativa, spesso alimentata da un’editoria disattenta, si perpetua ancora oggi: cosí nel 2004 Justin Marozzi pubblicò un volume, Tamerlane Sword of Islam, Conqueror of the World, costellato di recensioni positive sul dorso e sulla copertina, che riprendeva integralmente il repertorio con immancabili citazioni di Marlowe e Amin Maalouf, anche lui autore di un volume su Samarcanda.137 Non è tuttavia mancata una tradizione divulgativa piú elevata: già nel 1963 Marcel Brion aveva radunato alcune traduzioni delle fonti (includendo purtroppo le solite Istituzioni) per dare ai lettori una chiave di lettura piú diretta e meno mediata dalle fantasie di estemporanei narratori. Autore di numerose biografie, Brion diede voce a diversi storici che il grande pubblico non poteva conoscere, limitandosi a curare con attenzione la resa delle traduzioni delle loro opere per renderle strumenti utili alla comprensione della storia.138 A questo sforzo mi piace accostare quelli compiuti da Franco Cardini in Italia, autore di un volume su Samarcanda139 e di un romanzo particolarmente apprezzabile, Il signore della paura. Tre cavalieri verso la Samarcanda di Tamerlano, nel quale lo storico toscano ha fatto confluire le sue conoscenze in una cornice storico-letteraria molto fitta e avvincente.140 Nel variegato panorama delle biografie, spicca lo sforzo dell’orientalista e turcologo francese Jean-Paul Roux, che nel 1991 si dedicò alla stesura di una splendida biografia nella quale, con chiarezza e correttezza terminologica e concettuale, offriva finalmente un ottimo ritratto del personaggio, ma si trattò di un caso molto isolato: gli orientalisti non sono purtroppo in generale inclini alla buona divulgazione.141 411

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10. Tentare una conclusione Si può certamente affermare che nel corso dei secoli Timur sia stato “interiorizzato” da molti, fino a diventare un vero e proprio paradigma psicologico. Mi piace chiudere questo libro con due esempi particolarmente significativi. Il primo è una poesia di Borges che fa parte della raccolta El oro de los tigres, pubblicata nel 1972. Esercizio di erudizione libresca, questi 61 versi racchiudono aspetti del Tamerlano teatrale e qualche informazione storica. Borges, da uomo colto, sapeva dove andare a pescare: è il caso dei libri del Corano dati alle fiamme ad Aleppo, puntuale citazione di Marlowe, cosí come del riferimento all’astrologia giudiziaria menzionata da Voltaire come una superstizione di Timur. Tutto il poema di Borges è pervaso da un senso di assolutezza e dalla rassegnazione che il funesto destino impone: « Cerco il mio volto nello specchio; è un altro. / Perciò l’ho rotto e mi hanno castigato ».142 Un altro autore francese, il poeta e drammaturgo surrealista René de Obaldia, ha usato nel 1955 Tamerlano per riprodurre quei bruit et fureur (‘rumore e furore’) che sovrastano una sequenza di storie del passato alternate alle vicende di un amore culminato in tragedia nel suo Tamerlan des cœurs.143 Le citazioni di Borges e de Obaldia forniscono ancora una volta un’idea dell’incertezza che il personaggio suscita tra una dimensione titanica, quasi trascendente, e il senso dell’effimera provvisorietà delle sue imprese. Ci fu chi in Occidente nel XV secolo vide in Tamerlano una rappresentazione degli arbitri del potere in contrapposizione ai modelli utopici di società. A ben vedere, però, anche il mondo orientale concepiva da tempo idee simili: ad esempio, nel corso del XIII secolo, il grande poligrafo musulmano Nāṣir al-Dīn Ṭūsī contrapponeva alla « ricerca della felicità » di alGhazālī , la nozione di « perfezione » raggiungibile solo attraverso lo strumento della ragione. Per lui la politica non era morale di per sé, era piuttosto una tecnica che serviva alla realizzazione di una moralità codificata dalle leggi che a loro volta riflettevano un principio divino. Lo stesso autore però indicava che la perfezione era irraggiungibile e che il principe si sarebbe dovuto adattare all’esercizio di una « saggezza pratica ».144 È forse in questo sommesso pessimismo che si riassume l’intera impresa di Tamerlano, innanzi all’inapplicabilità dell’utopia ci si adegua alla legge dettata in nome di Dio, cosí come Timur amava – secondo i suoi adulatori –, riferirsi a un’esoterica visione profonda per giustificare il proprio operato. Quegli stessi adulatori erano stati i testimoni di atrocità spaven412

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tose che non esitavano a descrivere senza mostrare alcuna emozione. Ma gli stessi non mancavano di utilizzare alcune malizie, pur molto celate, nel narrare le scelleratezze dei suoi figli e l’inconsistenza della sua famiglia che si disfece rapidamente dopo la sua morte, con un’unica eccezione: Shāhrukh, che era, all’opposto di Timur, un uomo ponderato e sentitamente pio, poco incline alla ferocia. Sarà lui a promuovere il culto di quel padre che lo aveva relegato a una posizione secondaria quando era in vita. Questo libro in fondo è dedicato a questa ambivalenza, celata da un personaggio piuttosto ingombrante da sembrare talvolta ingestibile. Per il resto in questo libro si è cercato di dare l’idea di un esercito perennemente in movimento in terre lontane e del tutto ignote per quei remoti invasori dell’Asia. Le cronache persiane si trasformano cosí in enciclopedie che descrivono territori e culture sconosciuti, narrano culti religiosi stranieri e si dedicano alla zoologia come alla botanica per raccontare il cibo che doveva nutrire quella massa di uomini. Pure, di fianco al personaggio titanico, si presentano figure meno maestose e decisamente piú realistiche, anche se nessuno degli autori riesce, in fondo, a dissimulare i molteplici malanni che affliggevano il Grande Emiro, confermati in seguito dalle sue spoglie mortali ritrovate nel Gūr-i Mīr, quando fu aperto il sarcofago di Timur mentre l’esercito tedesco penetrava nell’Unione Sovietica.

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NOTE G LOS SARIO BI BLIOG RAF IA

NOTE INTRODUZIONE 1. Trascrizione corretta del piú utilizzato Gengis. CAPITOLO I 1. Una ricostruzione dell’apertura della tomba è in McChesney, Timur’s Tomb. 2. Oltre a Qari-Niyazi (1897ca.-1970) la commissione era formata dal paleografo orientalista Aleksandr A. Semënov (1873-1958); dall’archeologo e storico dell’architettura Vasilij A. Šiškin (1894-1966); dal conservatore dell’Hermitage V.N. Kononov; dall’architetto e storico dell’arte B.N. Zasypkin (1891-1955); dallo storico dell’arte Yahya Guliamov; dall’antropologo Lev V. Ošanin (1884-1962); dall’antropologo forense Mikhail M. Gerasimov (1907-1970); dal “padre” della letteratura tagica, lo scrittore Sadr al-Din Aini (1878-1954); dal segretario scientifico del giubileo dedicato allo scrittore uzbeko Ališir Navoi, Hadi Zarypov; dal giornalista della « Pravda » M.I. Ševerdin, col fotografo I.P. Savalin, il cameramen Malik Kaiumov e tre ulteriori assistenti. Vd. McChesney, Timur’s Tomb, p. 26. 3. La descrizione riportata da Gerasimov è stata pubblicata in russo in un articolo: Gerasimov, Portret Tamerlana, e in una traduzione tedesca poi a sua volta tradotta in inglese nel volume Gerasimov, The Face Finder, pp. 131-38; quanto al lavoro di Ošanin, vd. Ošanin, Antropologičeskoe. A titolo di curiosità si può ricordare che Gerasimov ha ispirato anche un personaggio cinematografico (il prof. Andreev nel film Gorky Park). 4. Lo storico Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī riferisce, nelle sue Ghazavāt, di un’infiammazione e di un dolore insopportabile alla mano che costringe Timur a viaggiare in lettiga per un certo tempo di ritorno dall’India. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 179. 5. Le fonti turche lo chiamano anche Aksak Timur, usando un sinonimo turco per il persiano lang (‘zoppo’). Le poche volte che le fonti persiane lo citano direttamente col suo nome è chiamato Timur, Tīmūr e Timur-Beg, altrimenti è definito preferibilmente con degli epiteti quali Ḥażrat-i Ṣāḥib-qirān (‘Signore detentore delle congiunzioni astrali’) o Ḥażrat-i Amīr (sua ‘Eccellenza l’Emiro’, ovvero il ‘Grande Emiro’), o anche Jahānpenāh (il ‘Protettore del mondo’, ovvero dell’umanità), Jahāngushā (il ‘Conquistatore del mondo’) e altre numerose varianti del genere. Il nome Timur (Temür, molto usato in Asia centrale, come vedremo per diversi personaggi) significa ‘ferro’, riprendendo un’antica tradizione legata alla metallurgia: a Chinggis Khān, prima che acquisisse questo titolo, era stato attribuito il nome di Temüjin (‘fabbro’). 6. Lo studio piú esaustivo sulle fonti persiane su Timur è Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography. Una rassegna bibliografica generale è in Bernardini, The Historiography Concerning Timur-i Lang. Un repertorio sistematico è contenuto nel vol. i di Bregel, Bibliography, in partic. sugli storici timuridi. 7. La data dell’8 aprile 1336 fornita dalle fonti ufficiali solleva molte perplessità. Beatrice F. Manz la anticipa di almeno un decennio, Manz, Tamerlane and the Symbolism of Sovereignity, p. 113 n. 33. Secondo la studiosa, i cronachisti persiani posteriori avrebbero volutamente impiegato una vulgata forse messa in giro proprio da Timur, che prevedeva una coincidenza

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note tra la sua nascita e l’anno lunare di morte dell’ultimo Khān Ilkhanide di Persia Abū Sa‘īd, morto appunto nel 736/1335. Questa scelta indicava in altre parole un ulteriore passaggio di consegne del potere mongolo. Cfr. Bernardini, Mémoire et propagande, p. 53. Andrà anche ricordato che alcune fonti arabe, come il Durar al-‘uqūd al-farīda fī tarājim a‘yān al-mufīda di Maqrīzī, propongono datazioni diverse (728/1327-’28), cfr. Ito, Al-Maqrīzī’s Biography of Tīmūr, p. 311. 8. YẒN i p. 8. Ove non diversamente specificato, le traduzioni sono a cura dell’Autore. 9. L’episodio della nascita non compare nell’omonimo Ẓafarnāme di Niẓām al-Dīn Shāmī, storico contemporaneo di Timur che sembra sorvolare sulla nascita. 10. Ando, Timuridische Emire, p. 71. 11. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 165; Woods, Timur Genealogy, p. 97. 12. Jean de Soltaniye, p. 444. 13. Riferito soprattutto all’ultimogenito, l’ötchigin (cfr. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 38 pp. 155-59), esprimeva soprattutto un principio di discendenza per via matrilineare “di carne”, contrapposto al principio patrilineare espresso nella discendenza “d’osso”, cfr. l’introduzione di Altan Gokalp in Dede Korkut/Bazin, pp. 31-33. Per quanto riguarda i matrimoni per razzia e l’ottenimento di un nuovo statuto con l’acquisizione di mogli di alto lignaggio, vd. Bernardini, Circa i matrimoni reali, pp. 19-29. Vd. anche Id., La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr. 14. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 46; Ibn ‘Arabshāh/Sanders, p. 4. Sul termine küregen vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 340, pp. 475-76: « Schwiegersohn ». Sull’uso politico e storico di questo titolo da parte di Timur vd. Herrmann, Zur Intitulatio. Sulla successione matrilineare vd. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr. 15. Abd al-Razzāq/Navā’ī, i/1 pp. 133-34. Il titolo di Ṣāḥibqirān, letteralmente ‘detentore della [triplice] congiunzione’, era già stato impiegato in precedenza, soprattutto dai Ghaznavidi (cfr. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 54-57). Fu anche la ragione per la quale nelle monete di Timur apparivano tre sfere in asterismo rovesciato, poi divenute un vero e proprio stilema posteriore anche nella decorazione dei tessuti e in altre manifestazioni artistiche. Come spesso avveniva in alcuni temi iconografici, questa raffigurazione sintetica si sovrapponeva ad altre, come quella delle macchie della pelle di leopardo presenti nelle vesti dell’eroe mitico persiano Rustam, celebrato dallo Shāhnāme di Firdawsī (cfr. Bernardini, Lo pseudo ‘cintāmaṇī’). Sul fatto che la nonna di Timur avesse sognato l’ascesa di un Ṣāḥibqirān, vd. Woods, Timur Genealogy, p. 97. 16. Su questa istituzione è apparsa una discreta letteratura di recente, vd. Subtelny, Timurids in Transition, pp. 18-24. Sul Keshig mongolo in Iran vd. Melville, The ‘Keshig’ in Iran, pp. 135-64. 17. Ando, Timuridische Emire, pp. 68-69. Subtelny, Timurids in Transition, p. 19, riporta il passaggio come si legge nel manoscritto della Bibliothèque Nationale de France del Mu’izz al-ansāb, in cui compare l’attribuzione al noyon (‘nobile’) Qarachar di un ruolo di primo rilievo nell’ulus (‘dominio imperiale’) di Chagatai, secondogenito di Chinggis Khān. Ciò indicherebbe che, dopo la morte di Chinggis, costui avrebbe goduto di particolare fiducia da parte di Chagatai, dando cosí continuità all’impero. 18. Vd. a questo riguardo Grupper, A Barulas Family Narrative. 19. Woods, Timur Genealogy, p. 93. 20. Sulla tradizione ‘alide relativa a Timur vd. anche Scarcia Amoretti, Di ‘ansāb’ e d’altro. 21. Su Alan Qo’a (Alanquvā nelle fonti persiane), vd. Baldauf, Narrating Mythical Genealogy; Aigle, The Transformation of a Myth of Origins. « Fantastic when considered solely from the

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capitolo i point of view of its historicity », ma estremamente significativa sul piano delle strategie propagandistiche e legittimistiche dei Timuridi, questa origine mitica riconciliava le tradizioni semitiche con quelle mongole (Woods, Timur Genealogy, p. 88) e molto probabilmente sbarazzava il campo da eventuali dubbi sull’epoca reale della conversione dei Barlas. 22. Semenov, Nadpisi na nadgrobjach Tīmūra. L’iscrizione è riportata da Aigle, The Transformation of a Myth of Origins, p. 122; un’altra iscrizione analoga compare sul corpo del cenotafio, ivi, pp. 122-23. 23. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 45. 24. Il termine è abbastanza raro nell’onomastica turco-centroasiatica, vd. al riguardo Barbier de Meynard, Dictionnaire Turc-Français, p. 281: «  (var. ) taraghaï, 1° “allodola crestata, cappellaccia”; […] 2° daraghaï, “sparviero a piumaggio nero” ». 25. Alangīz, nel manoscritto dell’introduzione di Yazdi (YẒNU, p. 86b); Īlangīr, secondo il Mu‘izz al-ansāb (Ando, Timuridische Emire, p. 69). Sarebbe il bisnonno di Timur, vissuto al tempo di Du’a Khān (1283-1307) e insediatosi nella regione di Kish; vd. Woods, Timur Genealogy, p. 95. 26. Il riferimento a questa persona non è chiaro in YẒNU, p. 86b, vd. Woods, Timur Genealogy, p. 95. 27. YẒNU, p. 83a. 28. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 40, p. 277; Masson-Pugachenkova, Shakhri Syabz, xvi 1978, pp. 122-23. 29. Woods, Timur Genealogy, p. 96. 30. NSHẒ, i, pp. 10 e 14. 31. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 42. 32. Woods, Timur Genealogy, p. 97. 33. YẒN, i pp. 11-12. Vd. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 64-65. 34. Dawlatshāh, pp. 360-61. 35. Sulla funzione magica dei cavalli nel mondo mongolo vd. Veit, The Mongols and Their Magic Horses, pp. 99-107. 36. L’espressione coniata in epoca ottomana da Muṣṭafā ‘Alī Efendī, autore del Künhü’lAhbār, è stata ripresa da Mustafayev, Between Nomadism and Centralization, p. 143. 37. La frase è riportata nel Mihmānnāma-yi Bukhārā: Khunjī, pp. 54-55. 38. Vladimirstov, Le régime social des Mongols, p. 45: « Un’importanza capitale era attribuita ai cavalli, le cui mandrie costituivano una ricchezza fondamentale per gli antichi Mongoli: senza cavalli l’economia nomade diventava impraticabile. Servivano agli spostamenti, alla guerra, alle battute di caccia; i Mongoli si nutrivano della loro carne, del latte delle giumente e utilizzavano il loro pellame ». 39. Si vedano a proposito dell’aristocrazia nomadica le riflessioni di Di Cosmo, Aristocratic Elites in the Xiongnu Empire. 40. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 44; Ibn ‘Arabshāh/Sanders, pp. 2-3. La storia, che vede un giovane Timur, derelitto, aiutato da un misterioso Shaykh Shams al-Dīn al-Fakhūrī (non Fakhrī, come traduce Sanders) e introdotto a Balkh presso il signore dei Kart, Sulṭān Mu‘izz al-Dīn Ḥusayn, è qui romanzata ma ha un fondo di autenticità. Spostata nei primi anni della gioventú del futuro conquistatore descrive una delle prime alleanze di Timur. 41. Roemer, Tīmūr in Iran, p. 47; Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 48 e 52-54; Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 47. 42. Clavijo/Argote de Molina, pp. 167-68. 43. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 42; Ibn ‘Arabshāh/Sanders, p. 2.

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note 44. Il termine Tarmashirin deriva dal sanscrito dharmaśri, ‘devoto al dharma’ (sul canone buddhista vd. Bartol’d, Four Studies, i 1956, p. 134. 45. Ibn Baṭṭūṭa, pp. 408-14. 46. Bartol’d, Mogolistan. 47. Su Tarmashirin vd. Biran, The Chaghadaids and Islam. La conversione avvenne in circostanze controverse, probabilmente nel 1328-’29. 48. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 130. 49. Su di lui vd. Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, pp. 260-61. 50. Ivi, p. 267. 51. Molteplici sono le varianti del nome, il che ha indotto molti copisti a trascrivere male i nomi e a produrre alcune confusioni poi riprese nelle edizioni delle cronache storiche, vd. al riguardo Jackson, The Delhi Sultanate, p. 328. La variante Qarāghunās, Qarāwnās, si trova in particolare in Naṭanzī, passim, unico autore timuride che menziona i Qarawna in numerose circostanze. 52. Usiamo qui il termine impiegato da Aubin nel suo articolo fondamentale su questo gruppo intertribale (Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas). 53. Bernardini, Polo, Marco. 54. Marco Polo/Bertolucci Pizzorusso, 35 8-12, pp. 48-49. Il sito di Canosalmi è di difficile identificazione. 55. Marco Polo/Moule-Pelliot, i pp. 121-22. 56. Si vedano le posizioni contrapposte di Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, e di Shimo, The Qarāūnās, e piú di recente May, The Ilkhanate and Afghanistan, pp. 285-91: Neguderis and Qara’una. 57. Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, pp. 252-53. 58. Vaṣṣāf, i pp. 368, 370. 59. Rashīd al-Dīn, i pp. 86, 96, 103; ii pp. 370-72; iii pp. 541-601, 612, 616, 643. 60. Shimo, The Qarāūnās, p. 131; l’attribuzione di una frase di Vaṣṣāf da parte di Shimo, « I Qarāūnas sono i piú feroci tra i Mongoli e sono spiriti maligni piuttosto che esseri umani », non trova riscontro nell’edizione di Āyatī, che invece dà solo una menzione di sfuggita a queste entità militari. 61. Vd. le recenti riflessioni di May, The Ilkhanate and Afghanistan, pp. 285-91. 62. Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, pp. 270-71. Vd. le precisazioni di May, The Ilkhanate and Afghanistan, pp. 285-91. 63. Ulus (‘dominio’) era il termine col quale si designavano i quattro grandi stati sorti dalla spartizione successiva alla morte di Chinggis Khān. In seguito, esso passò anche a indicare piccoli stati e, come forse in questo caso, dei governatorati locali. 64. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 160. 65. Ivi, p. 277. Sulla controversa questione dell’origine dei Tughluq vd. la posizione di Jackson, The Delhi Sultanate, p. 328. Esistono due interpretazioni distinte sulle origini dei Tughluq, Jackson ricorda che il termine è noto nelle fonti indiane. Ibn Baṭṭūṭa riporta una testimonianza che esplicitamente indica Tughluqshāh come di origini Qarawna (Ibn Baṭṭūṭa, p. 482). 66. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 25. 67. Naṭanzī, passim. 68. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas. 69. Manca da questo punto di vista un quadro complessivo convincente delle devastazioni compiute dai Mongoli e spesso evocate nelle fonti storiche. Ai numeri talvolta spropor-

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capitolo ii zionati proposti dalle fonti orientali, si affianca un silenzio sul piano archeologico ed epigrafico. Possono essere d’aiuto le considerazioni di Petrushevsky, The Socio-Economic Condition in Iran under the Īl-Khāns, pp. 484-91, per quanto riguarda l’Iran vd. anche Lambton, Continuity and Change in Medieval Persia, pp. 19-20. 70. Bernardini, The Mongols towards the West, pp. 123-32. 71. McNeill, Plagues and Peoples, pp. 142-45. 72. Schamiloglu, Black Death and Its Consequences, p. 715; Thacker, A Nestorian Gravestone from Central Asia, pp. 94-107. 73. Dols, Ibn al-Wardī’s ‘Risālah al-naba’ ‘an al-waba’’; Ibn al-Wardī, p. 184; Dols, The Black Death in the Middle East, p. 38. 74. Antuna, Abenjatima de Almeria y su tratado de la peste, pp. 68-90; Ibn Khātima. 75. Faryūmadī, f. 281b. 76. Zayn al-Dīn, p. 86. 77. Faryūmadī, f. 281b, in Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 38. 78. Dols, The Black Death in the Middle East, pp. 143-234. 79. NSHẒ, ii p. 90. 80. Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran, pp. 46, 60, 99, 158, 164, 191, 215, 233, fa diversi riferimenti alla grande peste dell’838/1434-’35. 81. Sulla quale vd. Aubin, Émirs mongols et vizirs persans, pp. 59-60; Melville, Pādišāh-i islām, pp. 159-77. 82. Su di essa vd. DeWeese, Islamization and Native Religion in the Golden Horde. 83. Biran, The Chaghadaids and Islam. 84. Peacock, Metaphysics and Rulership, pp. 101-36. 85. Vd. Bernardini, Il pensiero politico nell’Asia musulmana. CAPITOLO II 1. Questa situazione è molto ben descritta da Naṭanzī nel suo Muntakhab al-tavā’rīkh, quando narra dell’apparizione di queste fazioni nel Ma’ wara’ al-nahr (la Transoxiana) ai tempi del sanguinario re Qazan (Naṭanzī, pp. 197-98). 2. Una delle posizioni piú forti in tal senso è quella di Sneath, The Headless State, che è il risultato di un dibattito ancora aperto, come dimostra l’ipotesi di Di Cosmo, State Formation. 3. Si veda in proposito Di Cosmo, Aristocratic Elites in the Xiongnu Empire; vd. anche Paul, Foreword. 4. Sono scarse le informazioni su Qazan. Il suo regno sembrerebbe coincidere con la bipartizione del khanato ciagataico in due parti distinte, una orientale, egemone (il Moghulistan), e l’altra vassalla, coincidente con la Transoxiana, ma anche su questo dato le informazioni e la cronologia presentano numerose incertezze; vd. in proposito Bartol’d, Dvenadcat’ lekcij, p. 165. Vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 24. 5. Munk è una città del Khuttalan spesso citata nelle fonti geografiche, a partire dall’anonimo Ḥudūd al-‘Ālam, pp. 71 e 120. Quanto a Saray, è un toponimo diffuso in questo caso da attribuire a un sito prossimo alla località afghana odierna di Ḥażrat-i Imām Ṣāḥib nel distretto di Kundūz (Ḥudūd al-‘Ālam, p. 360). Su Munk vd. Calasso, Constructing and Deconstructing, p. 25. 6. Kish è la città natale di Timur (odierna Šahrisabz) in Transoxiana, Nakhshab (l’odierna Qarshi), è un importante centro dell’Uzbekistan odierno.

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note 7. Andkhuy, città e distretto dell’Afghanistan occidentale; Shaburghan è capoluogo della provincia di Juzjan, sempre in Afghanistan. 8. Naṭanzī, p. 197. 9. NSHẒ, ii p. 7. Si confronti Samarqandī, i pp. 239-40, che riprende il passaggio di Ḥāfiz-i Abrū in maniera pedissequa. 10. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas, p. 170. 11. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 163 n. 129; Togan, Taḥqīq-i nasab-i Amīr Tīmūr, p. 108. 12. Circa il keshig ciagataico vd. Grupper, A Barulas Family Narrative in the Yuan Shih. Sul keshig in epoca yuan e ilkhanide vd. Melville, The ‘Keshig’ in Iran, e Subtelny, Timurids in Transition, pp. 19-20. 13. Rashīd al-Dīn/Tackston, i pp. 93-95. 14. Si veda il loro ruolo al tempo di Qaidu (1236-1301), cfr. Biran, Qaidu, p. 83. 15. Vd. sopra e Ando, Timuridische Emire, p. 115. 16. Wing, The Jalayirids, p. 40. 17. Rashīd al-Dīn/Tackston, i pp. 93-5. 18. Wing, The Jalayirids, p. 42. 19. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 158. 20. Manz (ivi, p. 156) riassume la discussione sorta tra gli studiosi a cominciare da Bartol’d, che nel suo saggio Ulugbek i ego vremja, pp. 38-39, ridimensionava soprattutto il peso di Taraghay, padre di Timur, nel quadro della società turco-mongola del suo tempo. 21. Ando, Timuridische Emire, pp. 75-76. 22. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 164. 23. Jackson, The Delhi Sultanate, p. 226. 24. Ivi, pp. 164-65. 25. Ivi, p. 154. 26. Vd. Bernardini, Les Qarawnas à Ghazni. 27. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 160. 28. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas. 29. Jackson, The Mongols and the Delhi Sultanate, p. 151. 30. Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, pp. 35-36. 31. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas, p. 171. Andrà rilevato un dato molto interessante sulla figura di Buyan Quli: egli avrebbe ricoperto un ruolo di maggiore peso nel destino dei Qarawna, probabilmente la sua presenza nell’esercito comportò la partecipazione soprattutto di gruppi mongoli al conflitto. Inoltre, pur essendosi difeso bene, Mu‘īzz al-Dīn Pīr Ḥusayn fu sconfitto, in quanto oggettivamente piú debole dell’avversario, e questo avrebbe portato alla sua deposizione e sostituzione con il fratello Malik Baqir, che rivolse una richiesta di sostegno allo stesso Qazaghan. L’entrata dei Kartidi nella sfera ciagataica spostava il baricentro della politica di questa dinastia dal mondo persiano verso quello centroasiatico con conseguenze molto ben descritte da Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 36. 32. L’episodio è descritto in modo diverso dalle fonti: Naṭanzī, p. 203, riferisce di una rivolta per prendere il potere da parte dei due capi militari; Shāmī, dal canto suo, usa toni piú asciutti (NSHẒ, i p. 15). 33. Bernardini, La prise du pouvoir par Tamerlan, p. 139. 34. YẒN, i p. 31. 35. YẒN, i p. 36.

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capitolo ii 36. Bernardini, À propos du ‘vaṭan’ timouride. 37. Ando, Timuridische Emire, pp. 75-76. 38. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 60. 39. YẒN, i p. 35. 40. Bernardini, La prise du pouvoir par Tamerlan, pp. 140-41. 41. L’episodio descritto da Ḥāfiẓ-i Abrū (NSHẒ, ii p. 16) contraddice abbastanza i toni di Yazdī. Vd. anche Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 44. 42. Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 44. 43. Si tratta di Kabulshāh Oghlan, vd. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas, pp. 172-73. 44. Vd. Aigle, Sarbedārs; Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan; e sopra, cap. iv par. 3. 45. Bartol’d, Narodnoe dviženie v Samarkande v 1365 g.; Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 44. 46. Bernardini, La prise du pouvoir par Tamerlan, p. 143. 47. Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 45. 48. Una pagina eloquente in tal senso è in Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 47. 49. Appartenente alla famiglia di Shirga, Chaku Barlas lasciò la sua famiglia in una posizione molto influente anche dopo la morte di Timur, vd. ivi, p. 43. 50. Ando, Timuridische Emire, pp. 78-81; Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 161. 51. Jamaluddin, The Growth of Timur’s Authority, p. 355. 52. Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 46. 53. In particolare si segnala quella con Mūsā Taychiut, quale arbitro e portavoce del potere ciagataico, vd. ivi, p. 44. 54. Si potranno segnalare Ḥusayn Bahādur del clan dei Barlas, e vari altri, si veda Bernardini, Il colpo di stato di Timur a Balḫ nel 1370, p. 315. 55. Su questo sito vd. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 53, e Bernardini, Note sur la “Porte de Fer”. 56. YẒN, i pp. 144-45. 57. NSHẒ, i pp. 57-9. 58. YẒN, i p. 158. 59. C’è un ampio dibattito sul contrasto tra questi due sistemi giuridici che è stato analizzato da Lambton, Continuity and Change in Medieval Persia, p. 149. Di recente Subtelny, Timurids in Transition, pp. 15-18, è tornata sul tema sottolineando la prevalenza del diritto mongolo al tempo di Timur sulla sharī‘a. Riprendendo dei versi di Ibn ‘Arabshāh (Ibn ‘Arabshāh/ Ḥimṣī, p. 395), la studiosa canadese sottolineava il fatto che per molti lui avrebbe « spento la Luce di Dio e la fede pura [dell’Islam] con la legge di Jengiz Khān (Chinggis) ». 60. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iii par. 1071 pp. 55-56. Bartol‘d, Four Studies, i 1956, p. 139. Il termine turco čätä ebbe particolare successo tra il XIV e il XV secolo, la sua trasformazione nell’arabizzato jata (jete) avvenne proprio per volontà di Timur che ne fece largo uso nella sua propaganda con un chiaro intento denigratorio nei confronti di coloro che regnavano nel Moghulistan. 61. È il caso ad esempio di una fonte araba del tempo Ibn al-Furāt, pp. 7, 9. Cfr. Woods, Timur Genealogy, p. 102; Bernardini, Mémoire et propagande, p. 52. 62. Vd. sopra, cap. i par. 2. Si noti che il titolo di khān (mong. qa’an) poteva essere attribui­ to solo a chi appartenesse al cosiddetto Altan uruq (‘il Clan d’Oro’) ovvero la famiglia ristretta di Chinggis Khān. 63. NSHẒ, i pp. 59-60; YẒN, i pp. 152-53. 64. Bernardini, Il colpo di stato di Timur a Balḫ nel 1370, pp. 320-21.

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note 65. Di questa regina si riparlerà spesso in seguito: la sua unione con lei permetteva a Timur di attribuirsi un grado di nobiltà ciagatica, essendo Qazan di quella stirpe. Non ebbe però da lei figli, cosa che ebbe conseguenze importanti sulla sua successione, cfr. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr. 66. YẒN, i p. 154. 67. Golombek, The Gardens of Timur, p. 143. 68. American Numismatic Society, 1973, 117 7. 69. Gronke, The Persian Court between Palace and Tent, p. 18. 70. YẒN, i p. 162. 71. YẒN, i p. 160. 72. Su di lui si veda Ando, Timuridische Emire, pp. 108-9. 73. YẒN, i pp. 161-62. CAPITOLO III 1. Vd., sulle varietà del turco in Asia centrale, Clauson, Turkish and Mongolian Studies. 2. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 455. Ringrazio l’amico John Woods che mi ha offerto numerose segnalazioni sulle fonti che riferiscono della lingua parlata da Timur e anche dell’uso dell’alfabeto uiguro (dulbarjīn) come lingua sia letteraria che protocollare nel suo entourage. Le fonti arabe sembrano essere le uniche che fanno riferimento alle sue conoscenze linguistiche, lasciando intendere, con qualche malizia, che la sua scarsa conoscenza dell’arabo, lingua veicolare dell’Islam, coincideva forse con la sua ignoranza in fatto di religione. 3. Vd. sulla storia dell’evoluzione di questa espressione Subtelny, The Symbiosis of Turk and Tajik. 4. Riprendo qui un brillante capitolo di Fragner, Die “Persophonie”, p. 42, nel quale l’autore fa riferimento a un famoso motto tratto dall’opera del lessicografo Maḥmūd di Kashgar. Fragner introduce un concetto a mio giudizio basilare per quest’epoca, quello di Geschichtsbewußtsein, ovvero ‘percezione storica di sé’ (essere persiani o turchi), contrapposto a quello di Identität, ovvero ‘appartenenza’ a un gruppo comunitario (per esempio l’Islam). 5. Bernardini, Il pensiero politico nell’Asia musulmana, p. 120. 6. Due studi storici hanno cercato di delineare in maniera decisa questa dicotomia: il primo studio scritto da Jean Aubin (Aubin, Émirs mongols et vizirs persans) definiva il ruolo decisivo dei ministri persiani nelle corti ilkhanidi, sottolineando il complesso rapporto di « acculturazione » esercitato dai persiani sui nomadi mongoli; lo stesso esercizio è stato tentato da David Durand-Guédy (Durand-Guédy, Iranian Elites and Turkish Rulers) per la storia dei Grandi Selgiuchidi. Quello del rapporto tra Turchi e Persiani costituisce un nodo cruciale indubbiamente nella storia della Persia islamizzata. Spesso non digerito dalla storiografia persiana e da quella turca, questo nodo rimane una questione aperta e certo non aiutano le visioni deterministiche moderne che vorrebbero due civiltà distinte in contrasto tra loro. 7. YẒNU, i pp. 168-69. 8. Vd. sopra, cap. i par. 5; Bartol’d, Mogolistan; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan. 9. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, p. 304. 10. Tārīkh-i Rashīdī, p. 38. 11. Vd. sopra, cap. ii par. 5. 12. Il termine ulus indica il concetto di ‘dominio’, tra i Mongoli le quattro ulus erano le quattro aree che Chinggis aveva attribuito alla sua discendenza diretta prima di morire. In

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capitolo iii epoca timuride questo termine subisce una trasformazione semantica con uno stravolgimento anche della concezione geografica originaria. Vd. a questo riguardo Fragner, The Concept of Regionalism, pp. 347-50. 13. YẒN, i p. 170. 14. NSHẒ, i pp. 24-25. 15. Tārīkh-i Rashīdī, p. 40. 16. NSHẒ, i p. 65; YẒN, i pp. 173-75. 17. Circa Naghdai e il Sayyid Ata vd. Bregel, Tribal Tradition and Dynastic History, pp. 36973; sulla conversione dell’Orda d’Oro all’Islam al tempo di Özbeg vd. anche DeWeese, Islamization and Native Religion in the Golden Horde, pp. 17-66. 18. YẒN, i pp. 173-74. 19. Lo yarghu era un genere di processo sommario molto praticato in epoca mongola, vd. Lambton, Continuity and Change in Medieval Persia, pp. 95-96. Nel corso della sua vita Timur ne fece ampio uso come strumento dimostrativo della propria forza. 20. YẒN, i p. 180. 21. NSHẒ, i p. 68; YẒN, i pp. 181-88. 22. YẒN, i pp. 186-88. 23. YẒN, i p. 184; YẒNU, p. 149b. Seguiamo qui la variante offerta da quest’ultima edizione. Il nome enigmatico del personaggio, forse Qaratqa o meglio Qaraqta, è stato traslitterato in molti modi impedendo una sua esatta dizione a posteriori. 24. YẒN, i p. 186. 25. Vd. Bernardini, L’esposizione di tappeti. 26. NSHẒ, i p. 69; a proposito della battaglia di Qaṭvān (1141), Biran, The Empire of the Qara Khitai, pp. 41-46. 27. NSHẒ, i p. 69 e ii p. 35; YẒN, i p. 189. Tārīkh-i Rashīdī, p. 41; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 65. 28. Su questo personaggio vd. Ando, Timuridische Emire, p. 111. 29. NSHẒ, i p. 69; YẒN, i p. 190. Sull’ipotesi della regione di Čaryn vd. Bartol’d, Mogolistan, p. 81 n. 12. 30. Bartol’d, Mogolistan, p. 81. 31. Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 66. 32. YẒN, i pp. 191-93. Dalla Dilshād Āghā avrà anche una figlia, Sulṭān. 33. YẒN, i pp. 194-97; Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 61; Ando, Timuridische Emire, p. 110. 34. NSHẒ, i pp. 71-74; YẒN, i pp. 194-99; Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 62. 35. Si tratta molto probabilmente di un uomo di religione vissuto al tempo del khān Özbeg, ovvero nella prima metà del Trecento, che aveva avuto un peso importante nella conversione di quest’ultimo. Una figura dunque celebrata in Asia centrale, morta da tempo, che riappariva nei sogni di Timur per ispirarlo. Su di lui vd. DeWeese, Islamization and Native Religion in the Golden Horde, pp. 118, 124, 129. 36. YẒN, i pp. 199-201; Tārīkh-i Rashīdī, p. 48. Jahāngīr fu sepolto a Kish, città natale di Timur, nel complesso del Dār al-Siyāda, Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 40 pp. 275-76. Sugli usi funebri vd. anche sopra, cap. xviii par. 1. 37. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr, pp. 111-13. 38. Manz, Temür and the Problem of a Conqueror’s Legacy, pp. 28-29. 39. YẒN, i p. 200. 40. Ando, Timuridische Emire, p. 111.

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note 41. YẒN, i pp. 201-2. 42. Sulle origini di questo personaggio vd. DeWeese, Toḳtamish, p. 560; Ando, Timuri­ dische Emire, pp. 24-27; Ötämiš Ḥājī, pp. 94-100; Naṭanzī, pp. 93-98. 43. Sull’Orda Blu e l’Orda Bianca si vedano Allsen, The Princes of the Left Hand, e Vásáry, The Beginnings of Coinage in the Blue Horde. 44. NSHẒ, i pp. 74-75; YẒN, i pp. 204-5. 45. Si tratta di un principe della linea di Jöchi, vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 27-29. 46. Odierna Özgen, nel Kirgizistan. 47. NSHẒ, i p. 74. 48. Costui apparteneva al ramo di Ḥājjī Beg. Vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 33-34. Sulla disfatta di Toqtamish si veda il vivido racconto di Yazdī (YẒN, i pp. 204-5). 49. NSHẒ, i p. 75. 50. YẒN, i p. 205. 51. YẒN, i pp. 206-7. 52. Ando, Timuridische Emire, pp. 101-2. 53. Se Sharaf al-Dīn e Shāmī non si soffermano sulla morte di Urus, Naṭanzī riferisce della sua uccisione da parte di Toqtamish stesso (Naṭanzī, p. 426); Ötämiš Ḥājī, pp. 98-99, conferma il dato con alcune differenze. Sulle discordanze tra le fonti vd. DeWeese, Toḳtamish, p. 561. 54. YẒN, i p. 209. 55. Ötämiš Ḥājī, p. 100. 56. Grekov-Iakubovski, La Horde d’Or, p. 228. 57. YẒN, i pp. 210-21. 58. NSHẒ, i pp. 78-79; YẒN, i pp. 214-15. 59. YẒN, i p. 215; Golombek, The Gardens of Timur, p. 137; Alimov, Yurta Asrlarda Movaronnahrda Boghchilik Khujaligi Tarikhi, pp. 12-13. 60. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i numm. 233-34 pp. 233-34; sul mausoleo vd. num. 21A, B pp. 246-50. La Tuman Āghā è sepolta a Kuhsan, non lontano da Herat in Afghanistan. 61. NSHẒ, i p. 79; YẒN, i p. 216. 62. Samarqandī, i/2. 63. Oggi esistono due città di Urganch, una in Uzbekistan, sulla riva destra dell’Amu Darya, l’altra in Turkmenistan (Köneürgench), sulla riva sinistra del fiume. All’epoca di Timur, il corso dell’Amu Darya era comunque spostato a nord e la città comunicava con esso tramite un canale. Vd. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, map x. Il termine persiano kohne (‘antico’, da cui Konya) è all’origine probabilmente del turco iski (Eski) con medesimo significato. Quanto a Ukuz (‘bue’) è di piú enigmatica interpretazione. 64. YẒN, i pp. 216-18. 65. NSHẒ, i p. 81; YẒN, i p. 220. CAPITOLO IV 1. Su Maḥmūd di Ghazna vd. Bosworth, The Ghaznavids. Ho già avuto modo di trattare il forte riferimento a Maḥmūd di Ghazna nelle fonti timuridi in Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 95-97. Circa l’ascesa di Sebüktegin vd. il cap. xxvii del Siyāsatnāme (Il libro della politica) di Niẓām al-Mulk (Niẓām al-Mulk, pp. 143-47; ed. it., pp. 170-88).

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capitolo iv 2. Bosworth, The Ghaznavids, pp. 39-40. 3. I Samanidi furono i primi promotori in Transoxiana (e nell’intero mondo iranico islamizzato) della tradizione letteraria persiana nel corso del X secolo. 4. Vd. al riguardo D’Erme, Il “Signore dell’anima e della sapienza”. 5. Si veda in proposito Bombaci, La letteratura turca, pp. 90-92, e Bazin, Qui était Alp Er Tonga. 6. Bernardini, The ‘Shahnama’ in Timurid Historiography. Vd. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, p. 85, e Anooshahr, The Ghazi Sultans, p. 39. 7. Ibn Khaldūn/Fischel, pp. 36-37. Si tratterà in seguito piú estesamente di questo incontro, vd. sopra, cap. xiv par. 6. 8. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 455; l’episodio è ripreso da Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, p. 82, e da Anooshahr, The Ghazi Sultans, p. 39. 9. Significativamente lo stesso titolo viene attribuito alla città di Urganch, appena conquistata, in Samarqandī, i/2 p. 516. 10. YẒN, i p. 221. L’autore fa un elenco di pensatori, soprattutto in campo religioso: Abū Muḥammad ‘Abd Allāh ben Ḥamīd ben Naṣr al-Kishī, un noto compilatore di ḥadīth (tradizioni attribuite al Profeta) del IX secolo; ‘Abd Allāh bin ‘Abd al-Raḥmān al-Dārimī alSamarqandī, teologo sunnita del IX secolo (m. 865); Abū ‘Abd Allāh Muḥammad bin Ismā‘īl al-Bukhārī (m. 870), forse il maggiore conoscitore in assoluto in fatto di ḥadīth e compilatore della principale raccolta in tal senso. A queste eminenze Sharaf al-Dīn aggiungeva il nome di Abū’l-Ḥusayn Muslim bin Ḥajjāj al-Qushayrī al-Nīshāpūrī (m. 875), altro grande compilatore e prosecutore dell’opera intrapresa dai sopracitati autori religiosi. Sulle lotte campanilistiche non mancano veri e propri trattatelli, come quello che vede antagoniste le città di Kish e Qarshi di Abū Ḥasan al-Ḥamduye al-Warthīnī (X sec.) menzionato in Masson-Pugachenkova, Shakhri Syabz, xvi 1978, p. 103. È molto probabile che Timur volesse fare della città di Kish la sua capitale, ma fallí, come narra suggestivamente Bābur nelle sue Memorie (Bābur/Beveridge, p. 83). 11. Bābur/Beveridge, p. 83. Riferirà piú tardi di questa intenzione che però non arrivò a compimento. 12. Masson-Pugachenkova, Shakhri Syabz, xvi 1978, p. 115. 13. Ivi, p. 118. 14. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 39 p. 271. 15. Masson-Pugachenkova, Shakhri Syabz, xvi 1978, p. 118. 16. Ivi, p. 122. 17. FaṣīḤī, iii p. 141. 18. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 39 p. 272. 19. Clavijo/Argote de Molina, p. 179. 20. Bernardini, Lo pseudo ‘cintāmaṇī’. 21. Si potrà qui ricordare tra i piú importanti Iqbāl, Tārīkh-i Moghūl; Roemer, The Jalayirids, Muzaffarids and Sarbadārs; Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan; Masson Smith, The History of the Sarbadār Dynasty; Wing, The Jalayirids. 22. Ancora molto istruttivo sulle regioni medievali è Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate. 23. Ḥāfiẓ-i Abrū/Khorāsān, i p. 11 e ii p. 17. 24. Ḥāfiẓ-i Abrū/Kart. Su Ḥāfiẓ-i Abrū vd. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, pp. 96-99. 25. Ḥāfiẓ-i Abrū/Kart, p. 180; Ḥāfiẓ-i Abrū/Panj Risāla, p. 38; Woods, The Aqquyunlu, p. 8.

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note 26. Aubin, Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān, p. 36; Bernardini, Les Qarawnas à Ghazni, pp. 263-64. 27. Ḥāfiẓ-i Abrū/Kart, pp. 194-95. 28. Sarakhs fu un’importante città nel Medioevo. Al momento della conquista da parte dei Mongoli della grande metropoli di Marv, gli abitanti di Sarakhs si prestarono per odio campanilistico a fungere da carnefici di quella popolazione acquisendo una funesta fama, cfr. Juvaynī, pp. 119-29. 29. La città era una delle quattro principali città del Khorasan classico (Nishapur, Mashhad, Herat e Marv, alle quali le fonti aggiungono spesso Bukhara che pur essendo in Transoxiana aveva forti legami con questi centri), una fonte locale, Isfizārī, ne descrive lo splendore durante il periodo kartide. 30. Ḥāfiẓ-i Abrū/Kart, p. 195. 31. Costui non va confuso con un altro Khwāja ‘Alī, che ebbe un ruolo importante nella storia dei Safavidi (vd. sopra, cap. xix par. 2). 32. Aigle, Sarbedārs; si veda anche Masson Smith, The History of the Sarbadār Dynasty, soprattutto la sezione numismatica. 33. L’hanafismo è una delle quattro scuole dottrinarie sunnite. Particolarmente adottata dalle popolazioni turche, era anche il motore di una difesa strenua dell’ortodossia musulmana. 34. Questi due atti, battere moneta e fare pronunciare il sermone (khuṭba) nella moschea sono atti distintivi nella legittimazione dei sovrani musulmani. 35. Ḥāfiẓ-i Abrū/Kart, p. 196. 36. Ḥāfiẓ-i Abrū/Panja Risāla, pp. 53-54; Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 100. 37. Si veda, per l’adesione allo sciismo duodecimano dei Sarbadār, Mazzaoui, The Origins of the Ṣafawids, pp. 66-67. 38. Petruševskij, Zemledelie i agrarnye otnošenija, pp. 440-48. 39. Roemer, The Jalayirids, Muzaffarids and Sarbadārs, p. 17. Sulle origini dei Sarbadār si veda Mahendrarajah, The Sarbadars of Sabzavar, p. 380. 40. Paul, Zerfall und Bestehen, p. 700. L’ipotesi di una loro origine oirata, ribadita da Reid, The Je‘ün-i Qurbān, era stata scartata, forse giustamente, da Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, p. 75. In realtà il loro stesso nome indica una milizia piuttosto che un etnonimo o un nome legato a una regione. 41. Paul, Zerfall und Bestehen, p. 713; YẒN, i 226. 42. Ḥāfiẓ-i Abrū/Panj Risāla, pp. 61-62; Isfizārī, i p. 217; Matériaux pour la biographie de Shâh Ni’matollah Walî Kermânî, p. 15; Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran, p. 196, Paul, Scheiche und Herrscher im Khanat Čaġatay, p. 308; Isnād, pp. 1-3. 43. Mahendrarajah, Tamerlane’s Conquest of Herat, p. 57. 44. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 68-69. 45. Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī elenca i loro nomi: Amīr Jahāngīr, fratello di Ḥājjī Barlas, Amīr Ḥājjī Sayf al-Dīn, Amīr Aqbugha, Amīr ‘Uthmān ‘Abbās, Muḥammad Sulṭānshāh, Amīr Khumārī, Tābān Bahādur, Urus Bugha, Pīr Ḥusayn Barlas, Ḥamza b. Mūsā, Muḥammad Qazaghan, e altri emiri (YẒN, i p. 225). 46. Naṭanzī, p. 308. 47. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 69. 48. YẒN, i pp. 236-37. 49. Roemer, Tīmūr in Iran, pp. 48-49. 50. Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 85.

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capitolo iv 51. NSHẒ, i p. 85. 52. NSHẒ, i p. 85; YẒN, i p. 238. L’episodio, piú succinto in Naṭanzī, p. 311, è anche descritto in Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 74-76, in una versione abbastanza inverosimile. 53. Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 106. Masson Smith, The History of the Sarbadār Dynasty, p. 155, mostra una visione piú convenzionale dell’incontro tra i due, che sarebbe derivato dall’esigenza di Khwāja ‘Alī di sopravvivere nell’agone politico, ma che avrebbe presto portato i Sarbadār alla propria scomparsa dalla scena politica nel Khorasan. Piú sfumata e vicina alle posizioni di Aubin è sicuramente la versione dei fatti elaborata da Roemer, Tīmūr in Iran, pp. 49-50. 54. YẒN, i p. 238. 55. Ivi. La descrizione di Shāmī della presa della città (NSHẒ, i p. 85) è piú succinta rispetto a quella di Yazdī. Naṭanzī, pp. 310-11, riporta invece: « La città fu presa in un batter d’occhio. Il Signore delle Congiunzioni Astrali, adirato per l’ignoranza degli abitanti, diede l’ordine di uccidere tutti i soldati ». 56. YẒN, i p. 239. 57. Ivi. Esistono due villaggi con questo nome nel Khorasan; per quello vicino a Ṭūs, vd. Ḥāfiẓ-i Abrū/Khorāsān, p. 58. 58. YẒN, i p. 244. 59. YẒN, i pp. 245-51. 60. Naṭanzī, pp. 312-13. 61. Timur passò da Khabushan e dal colle di Yasi Daban (YẒN, i p. 252); secondo Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 107, nessuna cronaca si sofferma sul passaggio, dando forse per scontata l’alleanza con i Sarbadār. Lo stesso suppone che a Turshiz partecipò solo un gruppo limitato di genieri e soldati, essendo rimasto a Khabushan il grosso dell’esercito. 62. YẒN, i p. 253. 63. YẒN, i p. 254. 64. Una sintesi efficace del periodo immediatamente precedente all’arrivo di Timur in Masson Smith, The History of the Sarbadār Dynasty, pp. 142-55. 65. NSHẒ, i pp. 89-91; YẒN, i pp. 254-58. 66. Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, pp. 107-8, riprendendo Mīrkhwānd, vi p. 130, afferma che Timur gli assegnò gli interi suoi possedimenti. Ciò in fondo è dimostrato anche dalla fedeltà posteriore di Khwāja ‘Alī, che si rivelò un alleato fedele e molto funzionale nella conquista della Persia. La monetazione Sarbadār sembra cedere il passo a quella timuride, proprio a quest’epoca come dimostrano le tabelle di Masson Smith, The History of the Sarbadār Dynasty, pp. 202-3. 67. YẒN, i pp. 258-59; Roemer, Tīmūr in Iran, p. 48; Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 110. 68. Vd. per es. Roemer, Tīmūr in Iran, p. 48. 69. Bosworth, The History of the Saffarids of Sistan and the Maliks of Nimruz. 70. YẒN, i p. 269. 71. Malik Shāh Ḥusayn, p. 104. 72. YẒN, i p. 261; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 69. 73. Petruševskij, Zemledenie i agrarnye otnašenija, p. 464. 74. Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, p. 108. 75. YẒN, i p. 263. 76. YẒN, i pp. 264-70; Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 72-74; NSHẒ, i pp. 91-94. Tra le fonti che riportano il massacro, vi è una importante fonte locale, l’unica che parla diffusamente dei

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note Mihrabanidi: è l’Iḥyā al-muluk, scritto in epoca safavide (sec. XVII), che narra di un massacro di bambini e di pile di cadaveri nella città (Malik Shāh Ḥusayn, p. 107). Vd. anche Aubin, Comment Tamerlan prenait les villes, pp. 98-99. 77. Bosworth, The History of the Saffarids of Sistan and the Maliks of Nimruz, p. 450. 78. Ivi, p. 451. 79. YẒN, i p. 271. 80. YẒN, i p. 272. CAPITOLO V 1. Manz, Administration and the Delegation. 2. Roemer, Tīmūr in Iran, p. 52. 3. Vd. Aubin, Comment Tamerlan prenait les villes. 4. Vd. il par. The Limits of the Booty Economy, in Subtelny, Timurids in Transition, pp. 14-15; Manz, Administration and the Delegation, pp. 206-7. 5. Va qui segnalata analisi di John E. Woods, proprio sul concetto del ta’yid-i ilāhī (Woods, The Aqquyunlu, p. 6). Circa l’uso del temine coranico baṣīra vd. Villano, Ascoltare per vedere, pp. 54-55. La dimensione politica nella costruzione di uno Stato incentrato sull’« Uomo perfetto/ombra di Dio » è stata analizzata da Lambton, Early Timurid Theories of State, pp. 5-6. Vd. anche Bernardini, Il pensiero politico nell’Asia musulmana. 6. Del jihād e della ghazā si parlerà oltre in questo capitolo (par. 5). 7. Vd. in particolare a questo riguardo Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, e Bernardini, Mémoire et propagande. 8. Fischel, Ibn Khaldūn in Egypt, p. 51 n. 31, rende il termine con « Truth is safety ». Bartol’d, 12 Vorlesungen über die Geschichte der Türken Mittelasiens, p. 232, traduce l’espressione in « Gerechtigkeit ist Staerke ». 9. NSHẒ, i p. 94; YẒN, i pp. 279-80. 10. NSHẒ, i p. 95; YẒN, i p. 277. Sharaf al-Dīn chiama Shāh Shujā‘ Jalāl al-Dīn, evitando cioè il suo laqab (‘soprannome’), e lo definisce vālī (‘reggente’) del Fars. La vita e le imprese di Jalāl al-Dīn sono ampiamente descritte in Kutubī, pp. 82-118. 11. Costui ricevette un grande soyurghal in premio in questa regione. NSHẒ, i p. 95; YẒN, i p. 278. 12. NSHẒ, i p. 96; YẒN, i pp. 281-82; Roemer, Tīmūr in Iran, p. 51. 13. Vd. Wing, The Jalayirids, pp. 114-15, 148-49, 151, 175. 14. Sulṭān Aḥmad, che era salito al trono nel 1382, divenne uno degli obbiettivi privilegiati di Timur. Su questo periodo cfr. ivi, pp. 150-51. 15. NSHẒ, i p. 97. La storia di questo episodio presenta divergenze e sviste da parte delle fonti timuridi, vd. le correzioni di Ḥāfiẓ-i Abrū al testo di Shāmī, NSHẒ, ii pp. 54-55, e il testo di Yazdī, YẒN, i pp. 284-85. 16. NSHẒ, ii p. 55. 17. Mar‘ashī, pp. 76-79. 18. YẒN, i p. 286. 19. Forcheri, Navi e navigazione a Genova nel Trecento; Bernardini, Genoa, p. 424. 20. Sul conflitto tra queste due figure vd. Wing, The Jalayirids, pp. 82-94. 21. Ivi, pp. 148-54. 22. Sul Soyurghal vd. Lambton, Continuity and Change in Medieval Persia, p. 129.

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capitolo v 23. NSHẒ, i p. 97; Wing, The Jalayirids, p. 152. 24. Wing, The Jalayirids, p. 152. 25. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 80-83. 26. Wing, The Jalayirids, pp. 173-75. 27. ‘Azīz b. Ardashīr, p. 20; Bernardini, Mémoire et propagande, p. 82. 28. DeWeese, Toḳtamish, p. 562. 29. Broadbridge, Kingship and Ideology, pp. 162-67. 30. Maqrīzī/Sulūk, iii/2 p. 444; Ibn Qāḍī Shuhbah, pp. 59-60. 31. Mīrkhwānd, v p. 589; Wing, The Jalayirids, pp. 153-54; Sümer, Kara Koyunlular, pp. 46-47. 32. DeWeese, Toḳtamish, p. 562. Va ricordato che nel corso del XIV secolo, dopo la caduta degli Ilkhanidi, l’Orda d’Oro aveva tentato a piú riprese di conquistare Tabriz; nel 1357 il khān Jānī Beg (r. 1341-1357) ci riuscí sottraendola a Malik Ashraf, signore dei Chobanidi. Può risultare interessante il fatto che la popolazione accolse gli invasori come dei liberatori, anche se le fonti del tempo videro in questa invasione uno sconfinamento indebito nei domini ilkhanidi. Wing, The Jalayirids, pp. 103-4. 33. NSHẒ, i pp. 97-8. 34. Vd. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, pp. 200-1. 35. NSHẒ, i p. 99; YẒN, i p. 288. 36. Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, pp. 112-13. 37. NSHẒ, i p. 99; YẒN, i p. 289. 38. YẒN, i p. 290. 39. ‘Azīz b. Ardashīr, p. 17. 40. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 82-83. 41. YẒN, i p. 290. 42. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 654; Zakrzewski, Lords of Tabriz, p. 128. 43. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zhayl, p. 242; YẒN, i p. 290; Zakrzewski, Lords of Tabriz, p. 128. 44. YẒN, i p. 290. 45. Ivi. 46. La città sorgeva sulla sponda del fiume Areza e faceva parte della regione armena di Amberd (a est dalla regione di Ani). A nord di questa località iniziava il confine politico della Georgia. 47. YẒN, i p. 291. 48. Oggi queste categorie sono oggetto di un interessante dibattito che le rimette in discussione a seconda delle epoche storiche e delle motivazioni con cui vennero espresse, vd. Calasso, Constructing and Deconstructing. 49. Per la questione della ghazā e i suoi aspetti mitici, nonché il ruolo fondamentale di Maḥmūd di Ghazna nella memoria collettiva, vd. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 77-122, e Anooshahr, The Ghazi Sultans, pp. 58-99. 50. Wittek, Les Ghazis dans l’histoire ottomane; Id., De la défaite d’Ankara à la prise de Constantinople; Id., The Rise of the Ottoman Empire. 51. Heywood, Paul Wittek (1894-1978) and the Early Ottoman Empire; Woods, The Aqquyunlu, p. 173. 52. Si vedano al riguardo le considerazioni di Imber, What Does Ghazi Actually Means, pp. 167-68; Paul, Herrscher, Gemeinwesen, Vermittler, pp. 105-17. Vd. anche Anooshahr, The Ghazi Sultans, pp. 58-99. 53. Kafadar, Between Two Worlds. 54. Woods, The Aqquyunlu, p. 173.

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note 55. Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol Worlds, pp. 171-72. 56. Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii pp. 183-85. 57. NSHẒ, i p. 100. 58. Sul personaggio si veda Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii pp. 180-82, 187-92. 59. Ivi, iii p. 186: « Il monte Kaitu è menzionato in una Storia anonima armena, dove si dice che il monte si trovava a confine della [città armena di] Ani. Entrando in Georgia, Abaqa vi aveva ucciso Jalal Toreli e Rat’i P’ap’una ». 60. YẒN, i p. 292; Peacock, Between Georgia and the Islamic World, p. 55. 61. La cronaca di Panaretos offre un’immagine molto interessante dell’esercito: « che copriva montagne e pianure » (Panaretos, pp. 108-11), confermando il dato fornito da Sharaf ad-Dīn, che descrive un esercito immenso. Vd. anche Kartlis cxovreba, ii p. 449. 62. Kartlis cxovreba, ii p. 328. 63. Ivi, iv p. 328. 64. Sakartvelos ist’oriis nark’vevebi rva t’omad, p. 328. 65. La questione delle armi da fuoco è di estremo interesse e non priva di una certa complessità. John E. Woods offriva in una breve quanto essenziale annotazione (in Tārīkh-i ‘ālamārā, pp. 98-99) un importante quadro della situazione: una prima menzione di questo tipo di armi nelle fonti timuridi fa riferimento all’uso del ra‘d (‘tuono’) al tempo della campagna corasmica del 781/1379 (Naṭanzī, p. 305). Dopodiché l’uso di questo tipo di armi è ripetuto spesso, e come vedremo nei prossimi capitoli ritorna in molte circostanze. Woods cita anche un lavoro di Belenickij (Belenickij, O pojavlenii i rasprostranenii ognestrel’nogo oružija) che non ho avuto modo di visionare. Si tenga anche in considerazione il pur datato lavoro di Ivanin, O voennom iskusstve v zavoevanijach mongolo-tatar i sredneaziatskich narodov. Woods fa un accenno a un’eventuale origine mongola, comunque molto oscura, di questo tipo di armi. 66. Panaretos, pp. 110-11. 67. YẒN, i p. 293. 68. YẒN, i pp. 295-96. 69. NSHẒ, i pp. 100-1. 70. Kartlis cxovreba, ii p. 328. 71. Ivi, ii p. 330; Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii pp. 188-90, espresse perplessità su questo passaggio, poi ribadite da T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, pp. 71-86. Tbilisi restò per molto tempo nella memoria persiana. Un autore piú tardo, Mīrkhwānd, parlando di Tiflīs, la definirà alla fine del XV secolo una città tra le ummahāt-i bilād-i īrān, « città madre delle terre d’Iran » (Mīrkhwānd, vi pp. 147-50). 72. Tovma Mecop‘ec‘i/Nève, pp. 37-38. 73. YẒN, i p. 297. 74. Le versioni di questo incontro sono abbastanza diverse: Sharaf al-Dīn (YẒN, i p. 298) fornisce una variante dell’evento menzionando una delegazione formata da piú “dissidenti” dell’Orda d’Oro, è lui che ci parla di ‘Alī Beg Qongirat; Shāmī (NSHẒ, i p. 101) è molto piú generico sulla sua figura. Sharaf al-Dīn inserisce anche altre personalità nella delegazione, come Uruk Timur e Aqbugha, che danno l’idea di un gruppo di dissidenti. 75. Bernardini, Note sur la “Porte de Fer”. 76. Frye, The Sasanian System of Wall for Defence. 77. A differenza dei Cinesi, con la loro muraglia, gli stati caucasici sfruttavano da secoli barriere naturali, catene montuose nelle quali era sufficiente avere controllo sulle gole che costituivano transiti da una parte all’altra, come per Dariali. Vd. Shurgaia, Vaxt’ang I Gorgasali, pp. 161-77.

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capitolo vi 78. Su di lui vd. Naṭanzī, pp. 94, 363, 422, e DeWeese, Islamization and Native Religion in the Golden Horde, p. 384 n. 128. 79. YẒN, i p. 299. 80. YẒN, i p. 300. 81. YẒN, i pp. 301-2. 82. Bellingeri, Motivi persiani, e azerí, p. 41. 83. Vd. Biran, The Empire of the Qara Khitai, p. 217, e Pritsak, Qara. 84. Millet Genel Kütüphanesi, Ms. Ali Emiri, 4189; la mappa è stata pubblicata da Herrmann, Die älteste türkische Weltkarte; vd. anche Kaplony, Comparing al-Kāshgharī’s Map to his Text. 85. Una digressione di Woods, The Aqquyunlu, p. 3, fornisce un’idea adeguata del contesto storico di formazione di queste confederazioni che, pur avendo origine in antichi clan centroasiatici, come affermato da Sümer, Kara Koyunlular, pp. 13-32, mutarono profondamente in epoca post-mongola. 86. YẒN, i p. 302. 87. Troviamo spesso questo riferimento nella cronaca di Sharaf al-Dīn. 88. NSHẒ, i p. 103. 89. Zachariadou, Trebizond and the Turks, p. 350. 90. Bryer, Greeks and Turkmens, n. 143. 91. Yücel, XIV-XV Yüzyıllar Türkiye tarihi hakkında Araştırmalar, pp. 718-19; Bernardini, Motahherten entre Timur et Bayezid, p. 203. 92. Pegolotti, p. 36; Fleet, European and Islamic Trade, p. 97. 93. Clavijo/Argote de Molina, pp. 121-22. YẒN, i p. 303: Sharaf al-Dīn riferisce del pagamento del kharaj, una tassa solitamente riservata ai non musulmani. 94. Bernardini, Motahherten entre Timur et Bayezid, p. 207. 95. YẒN, i p. 304. Su di lui vd. Ando, Timuridische Emire, p. 83. 96. NSHẒ, i p. 104. 97. L’episodio è anche narrato da Tommaso di Metsop con toni molto amari (Tovma Mecop‘ec‘i/Nève, p. 45): cosí tante erano le persone gettate dalle mura che gli ultimi a essere lanciati verso il basso non morirono subito per il numero di cadaveri impilati che lambivano l’estremità superiore della fortificazione. Tommaso parla di una popolazione mista di infedeli e di cristiani nella città di Van. 98. YẒN, i p. 307. CAPITOLO VI 1. YẒN, i p. 308. 2. Kutubī, p. 30. 3. Kutubī, pp. 30-31. 4. Ivi, p. 31; Wing, Mozaffarids. 5. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iv par. 1863 pp. 166-72. 6. Costoro si chiamavano Injü, dal termine che indica un tipo di latifondo statale mongolo che era stato loro attribuito alla fine dell’Ilkhanato. 7. Su questo periodo vd. Aigle, Le Fārs sous la domination mongole, pp. 185-97. 8. Paragonato a Voltaire e all’Aretino, ‘Ubayd-i Zākānī è stato anche autore di poemi di tenore aulico e mistico, vd. al riguardo Rypka, History of Iranian Literature, pp. 271-73; l’opera contiene riferimenti anche a diversi altri autori dell’epoca.

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note 9. Tradotta in italiano da Giovanni M. D’Erme (Zākānī). 10. Dawlatshāh, pp. 305-6. 11. Riprendo qui l’ottima traduzione italiana di Giovanni D’Erme, Ḥāfiẓ-i Shīrāzī/Canzoniere i pp. 26-27 (ghazal iii). Su questa poesia in particolare si veda Hillmann, Hafez’s “Turk of Shiraz” Again. 12. Su questo fenomeno vd. Bausani, Note sul “pazzo sacro” nell’Islam. 13. È il caso del poeta Nasīmī, che Timur incontrò durante la sua campagna anatolica nel 1402 e che rifiutò i suoi doni, Karamustafa, God’s Unruly Friends, p. 63. 14. Vd. sopra, cap. ix par. 7. 15. Un ottimo esempio di questa intensa attività intellettuale è la stesura del Maqālīd al‘ulūm, un trattato anonimo dedicato a Shāh Shujā‘ (Maqālīd al-‘ulūm). 16. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, i pp. 382-83. 17. Un ottimo quadro della storia della dinastia è in Wing, Mozaffarids. 18. NSHẒ, i pp. 89, 95. 19. Gli intenti di Shāh Shujā‘ sembrano confermati da Ibn ‘Arabshāh, che riporta di una sua discussione col jalayiride Sulṭān Aḥmad e con Amīr Valī (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 84-86). 20. Il titolo già impiegato dai Qara Khitai derivava dal mongolo Geerhan, Biran, The Empire of the Qara Khitai, pp. 1-3. L’equivoco grafico si basava sulla grafia dei due termini, che ), si veda nei testi del XIV-XV secolo non distingueva la lettera kāf dalla gāf ( la discussione su questi due termini in Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 340 pp. 475-57. 21. YẒN, i p. 310. 22. La prima sura del Corano. 23. YẒN, i pp. 310-11; Isnād, pp. 16-17; Kutubī, pp. 117-18. 24. Kutubī, p. 123. 25. YẒN, i p. 311; NSHẒ, i p. 104. 26. NSHẒ, i p. 105, e Kutubī, p. 123, non si dilungano su questi aspetti. Su Iṣṭakhr si veda Istakhr (Iran). Andrà notato comunque che il riferimento alla conquista dell’antica Persia è ripreso da vari autori come Ḥāfiẓ-i Abrū, che indica in una quartina l’importanza della conquista (« Un re che con la spada conquisti l’Iran; conquisterà Saturno con la luna della sua sapienza »; NSHẒ, ii p. 61). 27. Melikian-Chirvani, Le royaume de Salomon. 28. Minorsky, A Civil and Military Review in Fārs in 881/1476. 29. YẒN, i p. 313. 30. Interessante riferimento a una moneta in uso presso i Timuridi. Il dīnār kebeki era una moneta d’argento ciagataica. Cfr. Davidovič, Istorija Denežnovo obraščenija Srednevekovoi Sredni Azii. 31. YẒN, i pp. 313-14. 32. Kutubī, p. 123, parla di 200.000 morti. 33. NSHẒ, i p. 105. 34. YẒN, i p. 314 (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 98-102). 35. NSHẒ, i p. 105. 36. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 101. 37. L’episodio è riportato dalle fonti timuridi (YẒN, i p. 315; NSHẒ, i p. 105) e, con alcune varianti interessanti, da Kutubī, che indica una diversa intenzione di Zayn al-‘Ābidīn: il signore muzaffaride forse intendeva fuggire a Baghdad presso la corte jalayiride, piuttosto che da Shāh Manṣūr (Kutubī, p. 126).

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capitolo vi 38. YẒN, i p. 315; Kutubī, p. 126. 39. Kutubī, p. 126. 40. Sull’uso della violenza e sul retaggio mongolo, si veda Manz, Unacceptable Violence. 41. YẒN, i p. 316. 42. Su di lui si veda Bartol’d, Očerk istorii Semireč’ja, pp. 68-69. E il piú recente saggio di Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 307-14. 43. NSHẒ, i pp. 106-7; YẒN, i p. 317. 44. YẒN, i pp. 320-22. 45. Il nome compare sotto diverse grafie, utiliziamo quella utilizzata da Shāmī (NSHẒ, i p. 108); Naṭanzī, pp. 340-42, lo chiama Irighmish. 46. Vd. sopra, cap. iii par. 9. 47. YẒN, i p. 323. 48. YẒN, i pp. 324-30. 49. YẒN, i p. 330; cfr. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas, pp. 173-74. 50. Su questo giardino quadripartito, vd. Golombek, The Gardens of Timur, p. 137. 51. YẒN, i pp. 330-31. 52. Su questo termine vd. sopra, cap. vii par. 3. 53. YẒN, i p. 331. 54. Balard, La Romanie génoise, i pp. 458-59. 55. Heyd, Histoire du Levant au Moyen Âge, ii p. 371. 56. NSHẒ, i pp. 112-13; YẒN, i p. 332. 57. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads; e prima di lui Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, pp. 71-86. Quest’ultima faceva riferimento anche agli studi pionieristici di Bartol’d, Očerk istorii Semireč’ja, pp. 67-70, e Id., Mogolistan, pp. 82-83. 58. Tārīkh-i Rashīdī. 59. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 290-91. 60. Mostaert, Le matériel mongol du ‘Houa i i iu’, 華夷譯語; Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 292-93. 61. Naṭanzī, p. 131, Non risulta molto chiara l’affermazione di Kim Hodong secondo la quale la fonte indicherebbe una corrispondenza tra Khiżr Khwāja ed Engke Tura, e quella tra Yūsuf Shāh e Namun: Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, p. 296. Il testo persiano recita infatti: Khiżr Khwāja va Yūsuf Shāh ki gurgān-i ān julgah va palang-i ān bīsha būdand, hamisha mikhwāstand ki ulūs az balqāq banishinad va Ānka Tūra va Nāmūs nīz hamīn sabīl; « Khiżr Khwāja e Yūsuf Shāh, che erano lupi di quella steppa e pantere di quella selva, vollero sempre sottomettere le rivolte dell’ulus; sulla stessa linea erano Ānka Tūra [Engke Tura] e Nāmūs [Namun] ». 62. YẒN, i p. 354; Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 298-99, identifica il sito di Qaradel (delle fonti cinesi) con Qarā Tāl (nelle fonti persiane). 63. Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, pp. 53-56. 64. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 299-303. 65. Ivi, p. 309. 66. NSHẒ, i p. 114 e ii pp. 81-85, 90; YẒN, i pp. 336-37; Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, pp. 113-14. 67. Bartol’d, Mogolistan, p. 82; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 74; YẒN, i p. 337. 68. Bartol’d, Mogolistan, p. 82, traduce in russo il toponimo (Griba žerebca, ‘criniera di puledra’). 69. NSHẒ, i p. 114; YẒN, i p. 338. Anche di questo sito Bartol’d, Mogolistan, p. 82, fornisce la traduzione russa (Skačuščij žerebec, ‘puledro galoppante’).

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note 70. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, p. 310; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 76; YẒN, i pp. 339-41. 71. Su questi due termini si veda Doerfer, Türkische und mongolische, i par. 253 pp. 376-77; iii par. 1504 pp. 490-93. 72. YẒN, i pp. 242-43; NSHẒ, i pp. 115-16; Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 78. 73. Su questo sito vd. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 53. 74. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, pp. 310-11. CAPITOLO VII 1. Hodong, The Early History of the Moghul Nomads, p. 312; Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, p. 55. 2. Vd. Bernardini-Guida, I Mongoli, pp. 302-9. 3. von Verschuer, Die Beziehungen zwischen den ersten Ming-Kaisern und Timur, p. 67, corretto poi da Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, p. 53 n. 186. 4. Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, pp. 53-57. 5. Un personaggio interessante, quest’ultimo, trattato con disprezzo da Ibn ‘Arabshāh che la considerava una donna dall’aspetto virile e dai comportamenti corrotti (Ibn ‘Arabshāh/ Ḥimṣī, p. 466). 6. YẒN, i pp. 352-53. 7. Piščulina, Jugo-vostočnyj Kazachstan, p. 80. 8. YẒN, i p. 355. 9. Vásáry, Cumans and Tatars, pp. 6-8. 10. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 163. 11. Vernadsky, The Mongols and Russia, p. 263. 12. Spuler, Die Goldene Horde, pp. 130-31. 13. Vernadsky, The Mongols and Russia, p. 266. 14. Canard, La relation du voyage d’Ibn Fadlan chez les Bulgares de la Volga. 15. Golden, The Peoples of the Russian Forest Belt, pp. 234-42. 16. YẒN, i p. 355. Questa data è scelta da Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, p. 97, autore di un appassionato e lungo studio sulla missione che, pur datato (1835-1836), rimane un lavoro di primo peso su questa campagna di Timur (vd. sopra, cap. xx par. 9). 17. NSHẒ, i p. 117. 18. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 354, ricordano il fatto che prima di partire alla fine del 1390 Timur si era ritirato a Parsīn e Jinās, non lontano da Samarcanda. Poi si era spostato a Khojand, dove aveva visitato la tomba dello shaykh Maṣlaḥat, facendo una donazione di 10.000 dīnār al santuario. In realtà YẒN, i p. 356, parla solo di duemila dīnār. Lo stesso autore conferma l’idea della malattia. 19. Si tratta di una delle principesse di stirpe reale, anche se non è chiara la sua discendenza, cfr. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr, pp. 109, 113. Menzionata da Clavijo/Argote de Molina, p. 201, come Cholpamalaga, è probabilmente colei alla quale è destinato il Naqsh-i Jahān o forse il Bāgh-i Buland (due giardini, rispettivamente ‘Pittura del mondo’ e ‘Giardino lungo’) come ipotizzato da Golombek, The Gardens of Timur, p. 143. 20. YẒN, i p. 358. 21. YẒN, i pp. 359-60; versione libera in Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, pp. 102-3.

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capitolo vii 22. YẒN, i p. 360; NSHẒ, i p. 118. 23. NSHẒ, i p. 118; Bernardini, The ‘Shahnama’ in Timurid Historiography, pp. 162-63. 24. Circa la stele e le discussioni degli studiosi al riguardo, vd. Poppe, Karasakpajskaja nadpis’ Timura; Ponomarev, Popravki k čteniju “Nadpisi Timura”; Grigorev-Telicii-Frolova, Nadpis’ Timura 1391 g.; Kramarovskij, “Kamen” Timura kak fenomenon čingizidskoj istorii i kul’tury. 25. Riprendiamo qui Ponomarev, Popravki k čteniju “Nadpisi Timura”, pp. 222-23. 26. Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, pp. 104-5, parla di una seconda iscrizione fatta erigere dal khān uzbeko ’Abd Allāh Khān due secoli dopo di fronte a quella di Timur, di cui apparentemente non sopravvive traccia. 27. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 370 pp. 502-5. 28. YẒN, i p. 361. 29. Si potrà qui ricordare che proprio le marmotte, insieme ad altri roditori della steppa, vengono spesso additate come gli agenti principali della zoonosi che portò nel XIV secolo alla diffusione della peste. 30. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 357. 31. Sulla costruzione dell’esercito vd. sopra, cap. x par. 3. 32. YẒN, i pp. 366-68; Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, p. 108; Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 359. 33. YẒN, i pp. 377-78; NSHẒ, i p. 122. Sulla figura di Eyegü Timur vd. The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 75, 124; Ando, Timuridische Emire, pp. 105-6. 34. Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, pp. 115-16. Sui tarkhān vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 879 pp. 460-74; Favereau, Tarkhan. 35. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 360. 36. YẒN, i pp. 381-98. 37. Ibn’Ar, pp. 142-43, riferisce dell’emiro Aqtaq, che in seguito sarebbe fuggito a Edirne presso gli Ottomani. 38. YẒN, i p. 390. 39. I kutarme, vd. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 361; Tizengauzen, Sbornik materialov, ii 1941, pp. 168-69. 40. YẒN, i p. 395. 41. YẒN, i p. 394. 42. Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche, Khân des Stèpes, p. 122. 43. L’eccellente sintesi di Çağman, Glimpses into the Fourteenth-Century Turkic World of Central Asia, ricapitola tutte le principali questioni relative a questi due album abbandonando la maggior parte delle posizioni di un celebre saggio del passato di İpşiroğlu, Siyah Qalem, che pure ebbe il merito di far scoprire questa serie importante. 44. Si rimanda a Çağman, Glimpses into the Fourteenth-Century Turkic World of Central Asia, pp. 153-54, per lo studio di questi elementi e sull’etimologia del termine turco körünc per indicare delle pitture e parallelamente una folla che osserva delle pitture. 45. Questa nomina importante è riportata solo in alcune fonti: Sharaf al-Dīn la descrive in un capitolo apposito (YẒN, i pp. 401-3; vd. sopra, cap. xi par. 3) in cui sono riferite anche diverse attribuzioni di incarichi ad altri membri della famiglia. Shāmī invece non vi allude, cosí come essa non sembra comparire in Naṭanzī. La ritroviamo però, con molta enfasi, nell’opera di Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī, quasi a indicare l’incipit delle campagne indiane. In quelle regioni il giovane rampollo sembra essere partito molto presto per iniziare il programma espansivo verso l’India, Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 57-58.

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note 46. Vd. sopra, capp. xi-xii. 47. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 91-93; Anooshahr, The Ghazi Sultans, pp. 58-73. 48. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr. 49. O’Kane, From Tents to Pavilions, p. 255; Golombek, The Gardens of Timur, p. 141. 50. YẒN, i p. 402. CAPITOLO VIII 1. Vd. l’ottima sintesi proposta da Hans R. Roemer nella Cambridge History of Iran, con qualche aggiunta e commento (Roemer, Tīmūr in Iran, pp. 60-61). 2. È il caso di Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī, che lo serví per poi passare alla corte di Timur: vd. l’introduzione di M. Bernardini a Ghiyāth al-Dīn/Bernardini, p. xxvii; Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, pp. 94-95. 3. Samarqandī, ii p. 610. 4. YẒN, i pp. 424, 426. 5. YẒN, i pp. 424-25; Kutubī, p. 129; Samarqandī, ii pp. 612-14. 6. Kutubī, p. 132. 7. YẒN, i p. 405. 8. YẒN, i pp. 406-7. 9. YẒN, i p. 409. 10. Un classico su questo soggetto è Rabino di Borgomale, Mazándarán and Astarábád. 11. YẒN, i p. 410. 12. YẒN, i p. 411; su Ḥubbī Khwāja Ando, Timuridische Emire, p. 137. 13. YẒN, i p. 412; vd. sopra, cap. vi par. 6. 14. YẒN, i p. 413. L’episodio è raccontato in modo piú succinto e con alcune divergenze da Shāmī (NSHẒ, i pp. 127-28) e Ḥāfiẓ-i Abrū (NSHẒ, ii pp. 100-2). 15. Il termine è stato usato in precedenza per gli Isma‘iliti, che non sembra però esistessero piú in questo periodo nella regione; si tratterebbe piuttosto di un’accusa riferita a degli sciiti estremisti presenti nella regione (YẒN, i p. 414). 16. Il palazzo è menzionato da Yazdī (YẒN, i p. 414); Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i p. 451 (Supplementary Catalogue Number 504), gli attribuiscono il nome di Takht-i Qaracheh. 17. Yazdī (YẒN, i p. 416) aggiunge che il principe Shāhrukh, allora quattordicenne, sollecitato insieme agli altri a lasciare i bagagli per affrettarsi a recarsi da Timur, avrebbe contratto un forte dolore agli occhi, e che per non costringere questa « delizia dell’occhio del regno » (qurrat ul-‘ayn-i dawlat; ovvero l’erede al trono) il corteo avrebbe rallentato l’andatura. La menzione di questo episodio è chiaramente un’aggiunta di Yazdī, che scrisse dopo la morte di Timur proprio sotto la protezione di un figlio di Shāhrukh. 18. NSHẒ, i p. 129; Wing, The Jalayirids, p. 157, menziona il ruolo di questo Aqchakī, « uno tra i vari emiri locali e a‘yān che erano stati lasciati soli a ordire trame in quest’epoca ». Ma Zayn al-Dīn b. Ḥamd Allāh Mustawfī riprende i suoi cinque anni di governo (Zayn al-Dīn Qazvīnī, pp. 141-49) raccontando che Aqchakī avrebbe ripreso i rapporti con Sulṭān Aḥmad, allora rifugiato a Baghdad, seconda capitale del suo regno, combattendo contro vari signori locali, talvolta per conto del suo antico sovrano, talaltra per accrescere il proprio potere personale. Conquistò per un certo periodo anche Qazvīn. 19. NSHẒ, i p. 130; YẒN, i p. 419.

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capitolo viii 20. Ando, Timuridische Emire, pp. 84-85. 21. Band-i Qayṣar (il ‘Ponte di Cesare’); Kleiss, Brückenkonstruktionen in Iran, p. 106. 22. YẒN, i p. 422. 23. YẒN, i pp. 428-43; sulle fonti antiche relative a Qal‘a-yi safīd, si veda Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, pp. 264-65; Bāstānī-Pārīzī, Shāh Manṣūr, pp. 168-69. 24. NSHẒ, i p. 132; YẒN, i p. 432. 25. Costui faceva parte del gruppo tribale mongolo dei Nayman e ricoprirà diversi incarichi in seguito; Ando, Timuridische Emire, p. 96. 26. NSHẒ, i p. 133; YẒN, i p. 434. 27. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 47-49. 28. Bāstānī-Pārīzī, Shāh ManṢūr, pp. 179-80; Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 92-93. 29. Altri autori si dedicarono alla ferocia e alla ignominia di Timur. Tommaso di Metsop, nella sua cronaca armena, racconta che Timur si sarebbe accordato con Shāh Manṣūr e che lo shāh, sapendo che si stava avvicinando ai suoi domini, gli avrebbe inviato un ambasciatore. Innanzi a lui Timur si finse malato e, dopo aver sgozzato un agnello e averne bevuto il sangue di nascosto, lo avrebbe vomitato davanti all’emissario durante una pubblica udienza. Costui convinto del fatto che Timur fosse in fin di vita, riferí a Shāh Manṣūr che avrebbe ordinato grandi festeggiamenti. Timur invece predisponeva il suo esercito per attaccare. Tommaso di Metzop aggiunge, anche lui, la notizia che Shāh Manṣūr arrivò in battaglia davanti a Timur sferrando dei fendenti su di lui e che la sua guardia lo avrebbe protetto dai colpi (Tovma Mecop‘ec‘i/Nève, pp. 28-29, 33). 30. NSHẒ, i p. 134; YẒN, i p. 438. 31. YẒN, i p. 442. 32. NSHẒ, i p. 135; YẒN, i pp. 442-43. 33. Roemer, Tīmūr in Iran, pp. 63-64. 34. Strotmann, Majd al-Dīn Fīrūzābādī, pp. 88, 96. 35. NSHẒ, i pp. 134-35. Vd. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, pp. 103-4. 36. YẒN, i pp. 445-46. 37. Aigle, Le Fārs sous la domination mongole. 38. YẒN, i p. 448. In questa pagina Yazdī riferisce ulteriormente di una Darband che, al pari di quelle del Daghestan e della Transoxiana, bloccava gli accessi al Kurdistan. 39. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 123. 40. ‘Azīz b. Ardashīr, p. 20. 41. Wing, The Jalayirids, 159. 42. NSHẒ, i p. 138. 43. Wing, The Jalayirids, p. 160; Id., Between Iraq and a Hard Place, p. 364. 44. YẒN, i p. 448. 45. Su questa pratica e sul toquz, vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 976 pp. 624-29. Il riferimento alle nove tribú turche del Grande Impero turco celeste (toquzoghuz), appare improbabile. Semmai è l’attenzione da parte dei Turchi alla numerologia e alle combinazioni numeriche a costituire un elemento di interesse. 46. YẒN, i p. 449. 47. La datazione diverge di dieci giorni da quella proposta da Yazdī. 48. ‘Azīz b. Ardashīr, pp. 19-20. Vd. anche Aubin, Tamerlan à Baġdād, pp. 304-5; Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 84-85. 49. NSHẒ, i p. 139. 50. NSHẒ, i pp. 108-9; Aubin, Tamerlan à Baġdād, p. 305.

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note 51. YẒN, i p. 456. 52. Aubin, Tamerlan à Baġdād, p. 306. 53. NSHẒ, i p. 144. 54. YẒN, i p. 456; circa la figura di ‘Abd al-Qādir Marāghī e il suo commento agli Adwār, opera di un altro autore (Ṣafī al-Dīn al-Urmawī, m. 1294), si tratterebbe di uno dei piú importanti trattati di musicologia del Medioevo. Vd. Wright, ‘Abd al-Qādir al-Marāghī. La fuga di Sulṭān Aḥmad è descritta in diverse fonti mamelucche, per le quali vd. Wing, Between Iraq and a Hard Place, p. 365; Id., The Jalayirids, p. 160. 55. Sulla scuola di Baghdad vd. Fontana, La miniatura islamica, pp. 74-76. 56. Farmer, ‘Abd al-Ḳādir al-Ghaybī. 57. Wing, Between Iraq and a Hard Place, pp. 365-67. Tra le fonti mamelucche vd. Maqrīzī/ Sulūk, iii/2 pp. 788-89, e Ibn Ṭaghrībirdī/Manhal, i pp. 249-53. 58. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, pp. 190-207, per l’edizione dell’Ascensus Barcoch, ivi, pp. 341-78. 59. Piemontese, La lingua araba comparata da Beltramo Mignanelli, p. 157. 60. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, pp. 371-73; Fischel, ‘Ascensus Barcoch’, pp. 166-68. 61. YẒN, i pp. 457-58; Wing, The Jalayirids, pp. 161-62; Isnād, pp. 74-79. 62. Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol Worlds, p. 174. 63. Wing, Between Iraq and a Hard Place, pp. 366-67; Id., The Jalayirids, pp. 160-63. 64. YẒN, i pp. 458-59. 65. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 125. 66. YẒN, i p. 459; su Buhlūl vd. Marzolph, Der weise Narr Buhlūl; Id. Timur’s Humorous Antagonist, p. 496. 67. Cfr. Bausani, Note sul “pazzo sacro” nell’Islam. 68. Marzolph, Timur’s Humorous Antagonist. Vd. sopra, cap. xix par. 5. 69. YẒN, i p. 460. 70. YẒN, i p. 466. 71. YẒN, i pp. 428-29; NSHẒ, i pp. 146-47. 72. NSHẒ, i p. 145, Aubin, La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan, pp. 114 e 117. CAPITOLO IX 1. Sulle vicende piú antiche degli Aq Qoyunlu, come sul resto della storia della dinastia, è fondamentale il saggio di Woods, The Aqquyunlu. 2. Panaretos, pp. 86-87. 3. Bryer, Greeks and Turkmens. Sui rapporti tra Turcomanni e Stato Comneno di Trebisonda vd. Šukurov, Velikie Komniny i Vostok. Un importante saggio di Speros Vryonis del 1971, che farà scuola per molto tempo, aveva tracciato una storia dell’invasione turca dell’Anatolia ponendo fortemente l’accento sulla sua natura brutale e la conversione forzata delle sue popolazioni con grave danno della « sua ellenicità » (Vryonis, The Decline of Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization). Studi piú recenti hanno ridimensionato molto questa visione. Un’ottima riflessione sul tema è in Peacock, Islam, Literature and Society in Mongol Anatolia, p. 18. 4. Ṭihrānī, i p. 90. 5. Dede Korkut/Bazin, pp. 155-71; Dede Korkut/Rossi, pp. 185-92.

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capitolo ix 6. Woods, The Aqquyunlu, p. 37. 7. Sulle diverse etimologie del termine vd. ivi, p. 39. 8. Quest’ultima città storica di grande importanza è oggi scomparsa dalle carte geografiche par la drammatica quanto devastante inondazione del sito prodotta per aumentare l’invaso di una grande diga (İlisu) sul Tigri nel giugno del 2020. 9. Cahen, Artuḳids, p. 666. 10. Su Suli (Sevli Bey) vd. Yinanç, Dulkadir Beyliği, p. 32. 11. Sulla dinastia eretnide vd. Göde, Eratnalılar. Per l’inizio della carriera di Burhān al-Dīn vd. Yücel, Kadı Burhaneddin Ahmed ve Devleti, pp. 34-58. 12. Burhaneddin/Dīvān. 13. Per l’Iksīr al-Sa‘ādāt vd. Peacock, Metaphysics and Rulership. 14. ‘Azīz b. Ardashīr, pp. 21-24. 15. Il beilikato di Karaman era un regno importante del meridione anatolico, sarà uno degli avversari piú ostici all’ascesa ottomana e avrà un ruolo privilegiato nelle alleanze di Timur contro Bāyazīd I al momento della campagna anatolica del 1402. Quanto a Maḥmūd Çelebī, comandava la fortezza di Berukut e i signori di Taşan erano dei turcomanni stabiliti vicino ad Amasya (Yücel, Kadı Burhaneddin, pp. 111, 122, 143-44). 16. Una pregiata stoffa di origine cinese, vd. Bernardini, Circa il cammoccà. 17. Tessuto di lana in doppia altezza, tinto di rosso scarlatto, colore dal quale prende il nome. 18. ‘Azīz b. Ardashīr, p. 449. 19. Ivi, p. 450. 20. Ivi, p. 451. Vd. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 85-89. 21. Sulla futuwwa in Anatolia vd. Peacock, Islam, Literature and Society in Mongol Anatolia, pp. 117-44. 22. NSHẒ, ii p. 182. 23. Questa descrizione è stata ripresa da Fuad Köprülü nella sua introduzione all’edizione critica di Kilisli Rifat del 1928, ‘Azīz b. Ardashīr, pp. 7-13. 24. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 179-85. 25. Si trattava di una concessione ereditaria che avrà un peso molto significativo nei secoli a venire. Vd. Lambton, Landlord and Peasant in Persia, pp. 101-3. 26. L’edificio dedicato a Yūnus è oggi andato distrutto per mano dell’Isis il 24 luglio 2014, quello dedicato al Nabī Jirjīs, il successivo 27 di luglio. 27. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, p. 373. Mignanelli integra un episodio posteriore con la presa di Urfa. Si veda anche Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 125. 28. YẒN, i p. 471. 29. YẒN, i p. 472. 30. Da non confondersi con Arzinjan (Erzincan). Vd. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, pp. 112-13 (Arzan). 31. YẒN, i pp. 472-73. 32. Aubin, Deux sayyids de Bam au XVe siècle, pp. 391-93. 33. NSHẒ, i p. 147; YẒN, i pp. 473-74. 34. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 40 p. 276. 35. Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr, pp. 109-13. 36. Aggiunge laconicamente un verso Shāmī quando descrive la morte di ‘Umar Shaykh: « Contro una freccia venuta dal caso a nulla valgono gli scudi » (NSHẒ, i p. 147). 37. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 126-27.

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note 38. YẒN, i p. 477. 39. Fiey, Sources syriaques sur Tamerlan, p. 18. Vari cadaveri di cristiani uccisi da Timur furono trovati in delle grotte della regione nel 1991. 40. Sinclair, Eastern Turkey, iii p. 207. 41. YẒN, i p. 481. 42. NSHẒ, i p. 150. 43. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 129. Sulle devastazioni nel Tur ‘Abdin tra le popolazioni cristiane vd. Tovma Mecop‘ec‘i/Nève, pp. 62-63, che descrive massacri dei cristiani che si erano rifugiati nelle montagne e furono uccisi mentre erano in delle grotte, soffocandoli col fumo. 44. YẒN, i pp. 482-83; sulle Zīj vd. Ulugh Beg/Zīj. 45. YẒN, i pp. 503-11. 46. Su questo grande emiro, vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 80-84. 47. Naṭanzī, p. 361. Cfr. Yücel, Timur’un Ortadoğu-Anadolu Seferi, pp. 12-14. 48. Unità di misura timuride corrispondente al cubito (sei mani affiancate aperte). 49. Un comandante arabo (m. 642) spesso preso ad esempio come guerriero formidabile. 50. YẒN, i p. 484. Le fortificazioni che Sharaf al-Dīn vide sono quelle artuqidi, di cui ancor oggi sopravvivono due imponenti torri che corrispondono alle sue descrizioni, il Yedi Kardeş e l’Ulu Beden. Il giardino con la fontana è molto probabilmente il cosiddetto Firdevs Köşkü, nel palazzo artuqide, vd. Altun, Anadolu’da Artuklu Devri Türk Mimarisi’nin Gelişmesi, pp. 215-41. 51. YẒN, i p. 485. 52. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 102. 53. Sinclair, Eastern Turkey, i p. 273. 54. YẒN, i p. 486. 55. Paul, Mongol Aristocrats and Beyliks in Anatolia; Id., A Landscape of Fortresses. 56. Vd. Sinclair, Eastern Turkey, i p. 333. 57. Tovma Mecop‘ec‘i/Nève, pp. 41-42. 58. YẒN, i p. 486; NSHẒ, i p. 152. 59. YẒN, i p. 487. 60. Del ramo dei discendenti di Yesünte Möngke , vd. Ando, Timuridische Emire, p. 76. 61. YẒN, i p. 487. 62. NSHẒ, i p. 152 e ii p. 116; YẒN, i p. 488. Il nome di questo personaggio è trascritto in vari modi dai copisti, cosa che ne rende complessa l’interpretazione, anche se la lettura di Shāmī, come riportata da Tauer, ci risulta la piú probabile. 63. Si tratta di un sito alle pendici dell’Ala Tagh, da non confondersi ovviamente con la città omonima sulle rive dell’Egeo. 64. Sinclair, Eastern Turkey, ii pp. 226-34. 65. NSHẒ, i p. 154; YẒN, i pp. 491-92. 66. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 129; Tommaso di Metsop/Nève, pp. 59-60. 67. Sull’attacco timuride ai Qara Qoyunlu, vd. Sümer, Kara Koyunlular, pp. 57-58. 68. Circa la sua condanna a morte riportata da Ibn Ḥajar al-Asqalānī, poi ripresa da altri autori contemporanei e numerosi studiosi moderni, vd. Browne, A Literary History of Persia, iii p. 367; Ritter, Studien zur Geschichte der islamischen Frömmigkeit, pp. 7-8; Gölpinarli, Hurûfîlik Metinleri Kataloğu, pp. 8-11; Bashir, Enshrining Divinity, p. 292; Algar, Astarābādī, Fażlallāh. 69. Ritter, Studien zur Geschichte der islamischen Frömmigkeit, p. 23.

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capitolo x 70. Bausani, Ḥurūfiyya, p. 600. 71. Ritter, Studien zur Geschichte der islamischen Frömmigkeit, p. 24. 72. Binbaş, Intellectual Networks in Timurid Iran, p. 17; Id., The Anatomy of a Regicide Attempt. 73. Bashir, Enshrining Divinity, pp. 293-302. 74. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 192-93. 75. Burhān Ughlan era un Oirato; Sayf al-Dīn apparteneneva ai Nukuz; Jahānshāh era Barlās e ‘Uthmān Bahādur era Qipchaq. Vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 66-67. 76. K’. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, p. 90. 77. YẒN, i pp. 500-1. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 192-93. 78. Sui confini politici della Meskheti vd. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 140-41. 79. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, p. 89. 80. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 194-95. 81. Ivi. A queste motivazioni, invalse per molti studiosi (ad es. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, p. 92), si può aggiungere un’altra ragione proposta dallo storiografo Vaxushti Batonišvili (XVIII sec.): « il re Giorgi riceveva da lí i soccorsi che anche stavolta credette di trovarvi » (Kartlis cxovreba, iv p. 271). Quanto alla strada per raggiungere la valle dell’Aragvi, le fonti persiane indicano in maniera sfumata delle alture, ma la Vita della Kartli precisa che l’esercito avrebbe attraversato la Trialeti devastandola (Kartlis cxovreba, ii p. 449). 82. Kartlis cxovreba, iv p. 271. 83. Era un membro della famiglia Jalayiride, figlio di Sarbughā, vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 111-12. 84. Sulla quale vd. Shurgaia, Vaxt’ang I Gorgasali, pp. 253-54. Sharaf al-Dīn compie un’ibridazione del termine Kūhistān (‘Zona montuosa’) con il nome Kuxeti. 85. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 155. 86. YẒN, i p. 520. CAPITOLO X 1. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iii par. 1849 pp. 153-58. 2. Yarligh/Toqtamish. Sul documento vd. Grigorev, Jarlyk Edigeja; anche Özyetgin, Altın Ordu, pp. 105-6. 3. DeWeese, Toḳtamish, p. 562. 4. Kołodziejczyk, The Crimean Khanate and Poland-Lithuania, pp. 6-7; Spuler, Die Goldene Horde, pp. 131-32. 5. Broadbridge, Kingship and Ideology, p. 177. L’ambasceria è descritta da Ibn al-Furāt, p. 338; Maqrīzī/Sulūk, iii/2 785. Vd. anche Spuler, Die Goldene Horde, pp. 132-33. 6. Favereau, The Golden Horde and the Mamluks, p. 107. Ancora utile per comprendere le relazioni diplomatiche tra Toqtamish e i Mamelucchi Tizengauzen, Sbornik materialov, i 1884, pp. 356-57, 363, 499-531; Spuler, Die Goldene Horde, p. 133. 7. Tizengauzen, Sbornik materialov, i 1884, pp. 428 e 442, 445 e 448. 8. Cfr. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1360. Su Edigü e la sua carriera nonché il mito epico che ingenerò vd. DeWeese, Islamization and Native Religion in the Golden Horde, pp. 33652. 9. Decei, Établissement de Aktav, p. 81. 10. Togan, Timur’s Campaign of 1395, pp. 1360-61. 11. Ivi, p. 1361.

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note 12. Togan, Timurs Osteuropapolitik. Vd. sopra, cap. xi par. 1. 13. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 23 pp. 140-41. 14. YẒN, i p. 523. 15. YẒN, i pp. 524-26. 16. Non è chiaro chi fosse costui: il suo nome compare in vari modi (al-Mālighī/alMāliqī), non è Shams al-Dīn Mālikī, vassallo ghuride di Timur; NSHẒ, i p. 158; YẒN, i p. 526. 17. Darband non è il solo sito con questo nome. Sulla Darband caucasica si veda Cuneo, Le mura di Derbent, in partic. n. 2. Un’interessante descrizione delle mura al tempo di Timur dell’ambasciatore spagnolo Ruy González de Clavijo: « Tamerlano deteneva altre Porte di ferro che si trovano accanto a Darbante, all’estremità della Tartaria fino a Cafa; ed è lo stesso un passaggio tra montagne altissime [il monte Tabasaran sull’Elburs] che si trovano tra la terra di Tartalia e la città di Darbante per giungere fino al mare di Bacu (Caspio) e fino alla Persia. Non esiste altro passaggio per coloro che vogliono andare in Persia o fino alla terra di Samarcanda » (Clavijo/Argote de Molina, p. 117). 18. NSHẒ, i p. 158; YẒN, i p. 528; Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 364. 19. Naṭanzī, p. 363. 20. Nome controverso, quest’ultimo, e trascritto in modi diversi (da Kalāt, ‘fortezza’? Non sembrerebbe): NSHẒ, i p. 159; YẒN, i p. 530. 21. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 133 pp. 260-64. 22. YẒN, i p. 530. Sulla tecnica del trinceramento vd. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, p. 365. 23. Si dispone a tutt’oggi di un numero limitato di armature timuridi. Le piú rappresentative sono quelle presumibilmente parte del bottino ricavato dopo la battaglia di Nakhchevan da parte del safavide Ismā‘īl I nel 1501, poi finite nel tesoro ottomano dopo la battaglia di Chaldırān nel 1516. Oggi queste armature sono conservate al Museo Militare di Istanbul e nel Museo del Topkapı Sarayı. Altri esemplari si trovano nella Torre di Londra e all’Hermitage oltre che in collezioni private, vd. in proposito Kalus, Les armures des Timourides. Tra le armature sopravvissute si noteranno delle cotte di maglia con placche metalliche rettangolari annesse tra loro e legate alle cotte di ferro nel petto e nel dorso. Gli elmi sono caratterizzati da una forma appuntita e potevano avere anche dei paraorecchi, altri elementi conosciuti sono i parastinchi le ginocchiere e i gambali. Si veda anche Gorelik, Oriental armour of the Near and Middle East, per uno studio delle armature come compaiono nelle miniature del tempo. 24. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1361. 25. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 983 pp. 632-42. 26. Circa l’esercito timuride vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iv num. 1791 pp. 90-91. 27. La battaglia è ampiamente descritta in molte fonti: NSHẒ, i pp. 159-60 e ii pp. 117-18; YẒN, i pp. 531-38; Naṭanzī, pp. 365-36. 28. Con questo termine si fa riferimento ai discendenti di Özbeg, forse il piú importante khān dell’Orda d’Oro che regnò tra il 1312 e il 1341, il termine è anche impiegato per i Corasmici, in particolare gli appartenenti alla dinastia Ṣūfī che, come abbiamo visto, avevano legami e parentele con l’Orda d’Oro. L’attribuzione del nome agli abitanti dell’odierno Uzbekistan, pur richiamandosi in qualche modo a questo passato, è oggi rimessa in discussione spesso con ricostruzioni storiche meno credibili ed etimologie meno convincenti. Circa il termine si veda Golden, An Introduction, pp. 330-38. 29. YẒN, i p. 538. « Transito di Tūrātūr » (guzargāh-i Tūrātūr) in NSHẒ, i p. 160.

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capitolo x 30. YẒN, i p. 539. 31. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1361. 32. DeWeese, Toḳtamish, pp. 562-63. Naṭanzī, p. 98. 33. YẒN, i p. 539. 34. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1361. 35. YẒN, i p. 540. 36. YẒN, i p. 541; Togan, Timur’s Campaign of 1395, pp. 1361-62. 37. YẒN, i p. 541; Togan informa che Aktav sarebbe fuggito con centomila uomini nello Hurmuday (che dovrebbe essere l’odierna Zaporož’e, dove, avendo incontrato l’ostilità della signoria locale, sarebbe ulteriormente fuggito per arrivare infine nella Tracia ottomana, dove lui e i suoi vennero ospitati dagli Ottomani): Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1362; Decei, Établissement de Aktav. 38. NSHẒ, i p. 161; YẒN, i p. 542. 39. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, pp. 368-69. Oggi va segnalata un’ampia revisione di questo tipo di storiografia, cfr. Halperin, Russia and the Golden Horde, e Ostrowsky, Muscovy and the Mongols. 40. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1363. 41. Vernadsky, The Mongols and Russia, p. 277. Vd. Browne, A Literary History of Persia, iii p. 192; Bouvat, L’empire mongol, p. 50. 42. Basti in tal senso la menzione di Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography. 43. Annali di Nikonov, pp. 158-59; Vernadsky, The Mongols and Russia, pp. 275-76. 44. YẒN, i p. 542. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tawārikh, ii p. 803. 45. NSHẒ, i p. 161 e ii p. 119; YẒN, i p. 453; Togan, Timur’s Campaign of 1395, pp. 1363-64, cita la Cronaca di Hustinskij che fa riferimento a queste genti già relativamente al 1362. 46. La leggenda è riportata da Vernadsky, The Mongols and Russia, pp. 275-76. 47. Miller, Legends of the Icon of Our Lady of Vladimir, pp. 660-63; Id., How the Mother of God Saved Moscow From Timur the Lame’s Invasion in 1395. 48. NSHẒ, i p. 162; YẒN, i pp. 543-54. 49. Redusi da Quero. 50. Per altre descrizioni dell’accampamento di Timur vd. Clavijo/Argote de Molina, pp. 202-6: vd. anche Wilber, The Timurid Court. 51. Redusi da Quero, pp. 802-803; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 396. 52. Rubruk, pp. 210-13. 53. Clavijo/Argote de Molina, p. 224: « innanzi a questa piana c’era un albero d’oro, simile a una quercia, che aveva alla base uno spessore tale da sembrare il piede di un uomo. Con molti rami che salivano dal tronco su ogni lato con foglie simili a quelle di una quercia. Era alto come un uomo e si abbarbicava a un albero che gli era vicino, come frutta aveva gemme, smeraldi, turchesi e zaffiri, rubini e gioielli molto grandi ». 54. Redusi da Quero, coll. 802-4; sull’episodio cfr. Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, pp. 395-98; Id., Tīmūr and the ‘Frankish’ Powers, pp. 109-10. 55. Bernardini, Jacques du Fay, un français à la cour de Tamerlan. Circa la testimonianza di Froissart: « C’era un cavaliere di Piccardia, che si chiamava Jacques de Helly, il quale era stato a lungo a suo tempo in Turchia e aveva servito in armi l’Amourath (Murad I), padre di questo re Basaach (Beyazid), di cui narro qui […]. [Jacques de Helly aveva] uno scudiero del Tournesis chiamato Jacque du Fey che aveva servito il re di Tartaria (il re si chiamava Tamburin) e quando Jacques seppe che i Francesi venivano in Turchia [per combattere gli Ottomani],

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note prese congedo dal re di Tartaria che glielo concesse senza problemi » (Froissart/Chroniques, p. 616). Vd. anche Delaville Le Roulx, La France en Orient au XIVe siècle, i pp. 228-29. 56. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 804. 57. YẒN, i p. 544; Ando, Timuridische Emire, p. 100; sull’ufficio del dīvān, si veda Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 109-13. 58. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 804; Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1366. 59. NSHẒ, i p. 162; YẒN, i p. 545. 60. Vd. sopra, cap. xviii par. 8. 61. YẒN, i p. 546. Clavijo/Argote de Molina, pp. 207-8. 62. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 805-6. 63. YẒN, i pp. 547-48; si veda Minorsky, Transcaucasica, p. 100. 64. Kartlis cxovreba, i p. 12; Gvasalia, Aragvis k’ari (Darialani), p. 148. 65. Come spiega Vaxushti Batonishvili (XVIII sec.), in Kartlis cxovreba, iv p. 642. 66. YẒN, i p. 548. 67. Ivi; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 806. 68. Minorsky, Transcaucasica, p. 100. 69. Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1367. 70. Le antiche fonti georgiane distinguono gli Abcasi dagli Apswas, predecessori degli Abaza, ma dal VII secolo iniziano a identificare gli Abaza coi locali Abcasi, vd. anche Apxazetis (Sakartvelo), t’ragedia, pp. 42, 46. 71. YẒN, i pp. 458-59. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 808-9. 72. I tentativi di ricostruire queste popolazioni sono molto ipotetici, vd. tra i piú attendibili Togan, Timur’s Campaign of 1395, p. 1368. 73. Berindei-Veinstein, La Tana-Azaq de la présence italienne à l’empire ottoman. 74. Favereau, Tarkhan. 75. Ibn Baṭṭūṭa, p. 376. 76. Ivi, p. 376. 77. Balard, La Romanie génoise, i pp. 739-40. Su Astrakhan, vd. Bartol’d, Astrachan’. 78. Ibn Baṭṭūṭa, pp. 390-93. 79. Balard, La Romanie génoise, i pp. 739-40. Su Sarāy si veda Bartol’d, Saraj. 80. YẒN, i, p. 551. 81. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 809. 82. YẒN, i p. 551. 83. YẒN, i p. 555; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 810. 84. Bahari, Bihzad, pp. 76-77 numm. 34-35. 85. YẒN, i p. 557. 86. Su questo personaggio Asurbəyli, Şirvanşahlar Dövləti. 87. L’eventualità che a Mīrānshāh si sottoponessero vari signori locali, incluso lo Shaykh Ibrāhīm di Shirvān (e Darband) e K’onst’ant’ine, fratello di Giorgio VII che aveva occupato l’Imereti approfittando dell’incursione di Timur e Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu, merita attenzione per il contributo delle fonti georgiane. K’onst’ant’ine, in sostanza avrebbe ottenuto il potere con l’aiuto di Timur secondo K’acit’aʒe, Sakartvelo, pp. 131-2, 141. Cfr. anche Kartlis cxovreba, iv p. 270. Vd. sopra, cap. xviii par. 2. 88. YẒN, i pp. 558-59. Cfr. Minorsky, Transcaucasica, pp. 94-95. 89. La narrazione degli eventi è controversa, una ricostruzione molto attendibile è quella di Aubin, Deux sayyids de Bam au XVe siècle, p. 393, che descrive il ruolo di un fantomatico pseudo-Shāh Manṣūr di cui Gūdarz avrebbe appoggiato la rivolta.

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capitolo xi 90. Ci sono molte varianti secondarie di questa storia con versioni piú o meno succinte: NSHẒ, i p. 166; YẒN, i pp. 559-60; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 811. 91. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 811. 92. YẒN, i p. 560. 93. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 812. Sulla figura di Ḥājjī Ābdār si veda quanto riportato dal Tārīkh-i Jadīd di Yazd (Ja‘farī/Tārīkh-i Jadīd, pp. 89-91), che lo indica come un khorasanico autore delle torri di teste umane. Vd. Manz, Local Histories of Southern Iran, p. 274. 94. YẒN, i p. 562; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 813. CAPITOLO XI 1. La lettera conservata nelle Münşe’āt (‘epistolari’) di Sarī Efendi (Biblioteca Süleynamiye, 3333, ff. 6a-10a) è stata pubblicata da Togan, Timurs Osteuropapolitik. 2. YẒN, ii pp. 186-91. Cfr. Bernardini, The Army of Timur during the Battle of Ankara, p. 213. 3. Sulle conquiste di Murād vd. Imber, The Ottoman Empire, pp. 28-36. 4. Su Sigismondo e Nicopolis, vd. Housley, The Later Crusades, pp. 75-79. 5. Pálosfalvi, From Nicopolis to Mohács, p. 61. 6. Gardette, Jacques de Helly. 7. Sulla Battaglia di Nicopolis e le sue conseguenze, vd. Atya, The Crusade of Nicopolis; Paviot - Chauney-Bouillot, Nicopolis 1396-1996; Pálosfalvi, From Nicopolis to Mohács, pp. 55-65; Paviot, Les ducs de Bourgogne la Croisade et l’Orient, pp. 37-50. 8. Froissart/Chroniques, pp. 607-44. 9. Schiltberger, pp. 46-49; Manz, Johannes Schiltberger, p. 52. 10. Housley, The Later Crusades, pp. 77-79; Imber, The Ottoman Empire 1300-1481, p. 47; Paviot, Les ducs de Bourgogne la Croisade et l’Orient, p. 43; Froissart/Chroniques, iv pp. 607-50. 11. Frenkel, Embassies and Ambassadors in Mamluk Cairo, p. 252. 12. Su questa scelta vd. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 90-115. 13. YẒN, i pp. 565-71. 14. YẒN, i pp. 571-73; Golombek, The Gardens of Timur, p. 138. 15. Alimov, Yurta Asrlarda Movaronnahrda Boghchilik Khujaligi Tarikhi, pp. 31-37. 16. YẒN, ii pp. 13-15; Golombek, The Gardens of Timur, p. 138. 17. YẒN, i pp. 573-76; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 817. 18. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, pp. 96-105. 19. YẒN, ii pp. 6-13. 20. Il turco donguz sta a significare ‘maiale’, Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 945 pp. 585-87. 21. Kautz, Politik und Handel, pp. 66-67; Bartol’d, Four Studies, ii 1958, pp. 48-49. Sulla testimonianza di Clavijo e sui rapporti con la Cina vd. anche sopra, cap. xviii par. 8. 22. YẒN, ii p. 17. 23. Su Aḥmad Yasavī si veda Sartori, From the Demotic to the Literary, pp. 227-30. 24. Sull’aspetto sacro del sito si veda l’interessante testimonianza di un erudito del XVI secolo che considerò il luogo come curativo, in Bernardini, À propos de Fazlallah b. Ruzbehan Khonji Esfahani et du mausolée d’Ahmad Yasavi, p. 282. 25. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 53 pp. 284-88.

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note 26. Vd. sopra, cap. i par. 5. 27. YẒN, ii pp. 18-21; Jackson, The Delhi Sultanate, pp. 310-13. 28. Ghiyāth al-Dīn/Zimin, pp. 44-46. Esistono diverse varianti di questo testo, vd. NSHẒ, i pp. 170-71; YẒN, ii pp. 22-23. In Ghiyāth al-Dīn/Afshār, la variante è assente. 29. Ghiyāth al-Dīn/Zimin, p. 60; su questi passaggi vd. Bernardini, Mémoire et propagande, p. 60. 30. Jackson, The Delhi Sultanate, p. 178. 31. Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas, p. 277. 32. Sirhindī/Hidāyat, p. 147; Jackson, The Delhi Sultanate, p. 308. 33. Jackson, The Delhi Sultanate, pp. 312-13; Bihāhamadkhānī, p. 32. 34. Habib, Timur in Political Tradition and Historiography of Mughal India, pp. 297-99. 35. Sirhindī/Hidāyat, pp. 162-66. 36. Vd. in proposito Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, pp. 93-96. 37. YẒN, ii p. 22. Si confronti la versione in Sirhindī/Hidāyat, i p. 172, che riferisce solo dei kāfir, ma non parla di Siyāhpūshān. 38. Questa popolazione ha goduto di particolare celebrità grazie al romanzo di Rudyard Kipling, The Man Who Would Be King. Sopravvissuti fino a oggi, vivono in territorio pakistano dove sono chiamati Kalash. Vi fuggirono per le persecuzioni dei musulmani. Il mito di una loro discendenza da Alessandro Magno deriva anche dal loro aspetto e dalle loro credenze religiose di derivazione forse ellenistica. 39. Bosworth, Kāfiristān; Robertson, The Káfirs of the Hindu-Kush. 40. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 826. Sui Nasnās vd. Tornesello, From Reality to Legend, pp. 174-75. 41. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 827; YẒN, ii p. 24. 42. YẒN, ii pp. 24-26; NSHẒ, i p. 173. 43. Ando, Timuridische Emire, p. 67. 44. YẒN, ii pp. 27-28. 45. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 66-8. 46. Ivi, p. 68; Kautz, Politik und Handel, p. 76. 47. NSHẒ, i p. 172; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 830; YẒN, ii pp. 33-34. 48. Vd. Bartol’d, Four Studies, ii, p. 50; Okada, Dayan Khan as a Yüan Emperor, p. 55; sopra, cap. xviii par. 8. 49. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 69. 50. NSHẒ, i p. 175. 51. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 831. 52. YẒN, ii pp. 24-25. 53. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 72-74; YẒN, ii pp. 38-40. 54. Su Sikandar come distruttore di idoli pagani vd. Slaje, Brahma’s Curse, pp. 32-38. 55. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 75; YẒN, ii p. 41. 56. Bartol’d, Turkestan Down to the Mongol Invasion, pp. 445-46; Lal, Twilight, p. 16. 57. Siddiquī, Politics and Conditions in the Territories under the Occupation of Central Asian Rulers, pp. 305-6. 58. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 77-79; NSHẒ, i p. 178; YẒN, ii pp. 44-45. 59. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 80; NSHẒ, i p. 179; YẒN, ii p. 46. 60. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 18. 61. Lal, Jasrat Khokar, pp. 274-75. Circa la confusione tra Khōkar e Ghakhkhar, vd. Firishta, p. 2.

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capitolo xi 62. Figura di cui non si conosce il lignaggio, vd. Ando, Timuridische Emire, p. 197. Per il titolo mongolo di tuvāchī (‘ispettore delle truppe’), vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 133 pp. 260-64. 63. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 82-83. 64. Lal, Jasrat Khokar, p. 275. 65. Sirhindī/Basu, p. 171. 66. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 85 n. 9. 67. YẒN, ii, p. 53. 68. YẒN, ii, pp. 49-50. Il passaggio è controverso e ha degli scarti cronologici, non ultimo a proposito di Sārang Khān che, come abbiamo visto, ha un destino controverso. Quanto al monsone, oltre a essere uno sfoggio di erudizione di Sharaf al-Dīn, doveva trattarsi di un evento raro ma possibile, come dimostra Lal, Twilight of the Sultanate, pp. 18-19. L’editore di Ghiyāth al-Dīn nota un uso ambiguo del termine. 69. YẒN, ii p. 50. 70. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 87. 71. YẒN, ii p. 55. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 20; Eaton, Reconsidering ‘Conversion to Islam’ in Indian History, p. 384. 72. YẒN, ii p. 55. 73. Eaton, Reconsidering ‘Conversion to Islam’ in Indian History, pp. 384-85. 74. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 21; Sirhindī/Basu, p. 171; Badāoni, p. 355. 75. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 91. 76. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 95-96; YẒN, ii pp. 59-61. NSHẒ, i pp. 182-83; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tawārikh, ii pp. 841-45. Si noterà la concordanza quasi integrale delle cronache, che fanno tutte riferimento a Ghiyāth al-Dīn nella sostanza. 77. Hanifi, Jāt. 78. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 97-101. 79. Vd., per esempio, Manz, Unacceptable Violence, pp. 79-104. 80. Vd. Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 95-112, e Anooshahr, The Ghazi Sultans, pp. 118-20. 81. Welch, Architectural Patronage and Past, pp. 316-20. 82. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 102-3. 83. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 28 pp. 258-59. Vd. sopra, cap. xii par. 7. 84. ‘Afīf, pp. 314-15. 85. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 105-9. 86. Sirhindī/Hidāyat, i pp. 165-67. Vd. in proposito le acute riflessioni di Habib, Timur in Political Tradition and Historiography of Mughal India, p. 298. 87. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 109. 88. Ivi, pp. 110-11. 89. Come spesso accade nelle fonti timuridi, c’è una certa difformità nella descrizione della posizione dei principali emiri, in questo caso adottiamo quella proposta da Sharaf alDīn che ci pare piú coerente rispetto a Ghiyāth al-Dīn (YẒN, ii p. 77). 90. Forse dei lanciatori di razzi, come suggerisce Lal, Twilight of the Sultanate, p. 40, riprendendo il termine usato da Sharaf al-Dīn (rakhshafgan, ‘lancialampi’/‘lanciarazzi’). 91. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 112. 92. YẒN, ii pp. 79-81. 93. NSHẒ, i pp. 190-91; Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 114.

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note 94. Sulle armi da fuoco vd. sopra, cap. v par. 6. 95. Jackson, The Delhi Sultanate, p. 314. CAPITOLO XII 1. Ibn Baṭṭūṭa, pp. 456-57. Le quattro città citate da Ibn Baṭṭūṭa erano la città vecchia precedente all’occupazione musulmana e la città di Sīrī, la città di Tughluqabad e il Jahanpanah (‘Custodia del mondo’). Queste ultime tre costruite tra il periodo Khalji (1290-1320) e il periodo Tughluq (1320-1399 e 1400-1414). 2. Jackson, The Delhi Sultanate, p. 315; Digby, Before Timur Came, p. 301. 3. Meloy, “Aggression in the Best of Lands”, pp. 626-27. Sulla Delhi tughluq vd. Welch, Crane, The Tughluqs. 4. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 118; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 852; YẒN, ii p. 90. 5. Riportiamo la testimonianza di Ḥāfiẓ-i Abrū, insieme a quelle di Ghiyāth al-Dīn e Sharaf al-Dīn che inseriscono alcune informazioni aggiuntive. 6. Sirhindī/Hidāyat, pp. 166-67. 7. YẒN, ii pp. 92-95. 8. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 121-24. 9. Sirhindī/Hidāyat, p. 167. 10. Jackson, The Delhi Sultanate, p. 322. 11. Vd. Jackson, The Mongols and the Delhi Sultanate, pp. 119-26. 12. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 127. 13. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 32. 14. NSHẒ, ii pp. 194-95; Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 128; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 855-56; YẒN, ii pp. 99-102. 15. Su questo principe e il suo ruolo vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 80-81. 16. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 132. 17. Su questo principe e il suo ruolo vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 80-81. 18. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 33 n. 127. 19. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 133-34; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 857-58. 20. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 34. 21. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 140; YẒN, ii pp. 108-9. 22. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 33. 23. Sirhindī/Basu, p. 173. 24. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 170; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 869. 25. Bosworth Sīstān under the Arabs, pp. 120-22. 26. Bosworth, The Ghaznavids, pp. 53, 76; Id., The Imperial Policy of the Early Ghaznawids, p. 63; Id., Mahmud of Ghazna in Contemporary Eyes. 27. In Shāmī la descrizione è molto succinta: NSHẒ, i pp. 198-99. 28. YẒN, ii p. 111. 29. Lal, Twilight of the Sultanate, p. 34. 30. Anooshahr, The Ghazi Sultans, pp. 70-71. 31. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 145. 32. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 861. 33. YẒN, ii pp. 110-11.

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capitolo xii 34. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 147. 35. Per esempio Fakhr al-Dīn Rāzī (XI secolo), vd. Algieri, Il libro delle credenze. 36. Cosí almeno afferma Lal, sulla scorta di Sharaf al-Dīn (YẒN, ii p. 115), e in effetti la deviazione verso meridione e in particolare le valli a ridosso della catena montuosa sub-himalyana dello Shiwalik sembrano dimostrarlo, permangono tuttavia molte difficoltà nell’interpretazione dei dati geografici non del tutto precisi e a volte contraddittori: Lal, Twilight of the Sultanate, p. 35. 37. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 151; NSHẒ, i p. 200; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 862. 38. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 150. Il testo usa quest’enigmatica espressione: « Nella valle del monte Siwālik che viene chiamata Yek lak-u-dangī ». 39. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 151. 40. Ivi, p. 155; NSHẒ, i p. 200; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 862-63. 41. YẒN, ii p. 117. Stando a Lal, Twilight of the Sultanate, p. 37 n. 149, si tratterebbe della regione di Dehradun, a sud del distretto di Sirmaur. 42. Bosworth, The Ghaznavids, p. 78. 43. Cosí sostiene a ragione Lal, Twilight of the Sultanate, p. 37, che ricorda come quel luogo sia stato uno dei principali obbiettivi del jihād indiano per molti sovrani prima e dopo di Timur. 44. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 159. 45. Jonarāja, pp. 80-81; cfr. la versione in Hasan, Kashmīr Under the Sulṭāns, p. 60 n. 3. 46. YẒN, ii p. 123. 47. Hasan, Kashmīr Under the Sulṭāns, p. 60. 48. YẒN, ii pp. 132-34. 49. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 166. 50. Ivi, pp. 167-72; Lal, Twilight of the Sultanate, p. 40. Ḥāfiẓ-i Abrū afferma che Shaykhā Khōkhar fu « torturato ed esposto al pubblico ludibrio » (mustaḤāq va ta‘dhīb shud): Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 870. 51. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 173. 52. Badāoni, pp. 357-58. Forse lo stesso personaggio è citato da Ghiyāth al-Dīn/Afshār, p. 177, come Shaykh AḤmad “l’Afghano”. 53. Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 179-80. 54. NSHẒ, i p. 211; Ghiyāth al-Dīn/Afshār, pp. 184-85; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 871-76; YẒN, ii pp. 140-43. 55. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 28 pp. 255-60. 56. Ivi, i num. 27 pp. 254-55. 57. Ovvero nel complesso dello Shāh-i Zinda, vd. ivi, i num. 21a-b pp. 246-50. 58. La descrizione qui riportata è in gran parte tratta da YẒN, ii pp. 144-47; vd. anche NSHẒ, i pp. 211-12 e ii pp. 146-47; ‘Abd al-Razzāq/Navā’ī, i/2 pp. 809-10. L’intero testo di Sharaf al-Dīn è riportato in Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 28 pp. 258-59. 59. O’Kane, Bībī Khanom Mosque; Mankovskaja, Bibi Chanym. 60. Clavijo/Argote de Molina, pp. 214-15. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 14 p. 239. 61. Si tratta verosimilmente di Allāhdād Nukuz, un importante ufficiale timuride, a capo di un qushūn, e fedelissimo di Timur, vd. Ando, Timuridische Emire, p. 94. 62. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 382-83. Sharaf al-Dīn descrive anche lui il processo all’architetto col quale collaborava un’altra figura, Maḥmūd Dāvud, che fu sottoposto a un proces-

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note so per l’edificazione del portale e condannato all’impiccagione insieme a Muḥammad Jild nel sito di Qān-i Gil, dove Timur faceva eseguire le condanne a morte: YẒN, ii pp. 430-31. Una variante della vicenda è descritta da Faṣīḥī, che narra della messa a morte dei due personaggi che avevano anche progettato la madrasa della Sarāy Mulk Khanum: Faṣīḥī, iii p. 151. Si veda anche Clavijo, che chiama questo personaggio Dina: Clavijo/Argote de Molina, p. 193. 63. Ẓafarnāme, ff. 359b-361a, Garrett Collection, Milton S. Eisenhower Library of the John Hopkins University, Baltimora, vd. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, ii tav. 481. 64. British Library, Ms. Or. 6810, f. 154v, vd. Bahari, Bihzad, p. 148 tav. 84. 65. Vd. Bernardini, Aspects littéraires et idéologiques, pp. 36-37. 66. Ratija, Mečet’ Bibi Chanym, fig. 6. 67. Clavijo/Argote de Molina, pp. 213-14. 68. Bernardini, The Ceremonial Function of Markets in the Timurid City. 69. Bricteux, Pasquinade sur la ville de Tébriz par maitre Lissàni de Chiraz. 70. Bernardini, The ‘masnavī-shahrāshūb’ as Town Panegyrics. CAPITOLO XIII 1. Woods, Turco-Iranica ii, pp. 332-33; l’autore riprende una lettura imprecisa di Fekete, Einführung in die persische Paläographie, pp. 63-65. 2. Herrmann, Zur Intitulatio timuridischer Herrscherurkunde, p. 504; Matsui-Watabi-Ono, A Turkic-Persian Decree of Timurid Mīrān Šāh, p. 55. 3. Clavijo/Argote de Molina, pp. 132-34. 4. Woods, Turco-Iranica ii, p. 334. 5. YẒN, ii, pp. 147-8. 6. Kartlis cxovreba, iv p. 270. 7. YẒN, ii, pp. 148-149. 8. Aznaur è termine di origine persiana, nella società georgiana tardoantica e medievale indicava sia l’aristocrazia feudale, notabili, possessori delle terre, che prestavano servizio militare al re, sia le persone libere. In georgiano antico esiste anche il termine anza, con il significato di ‘notabile’, ‘nobile’. Di qui si forma l’aggettivo sostantivato: azna-ur-i, ossia quello che ha qualità di azna (Bogveraʒe, Kartlis p’olit’ik’uri, pp. 168-70). 9. Circa queste figure vd. Minorsky, Transcaucasica, p. 95. 10. Kartuli samartlis ʒeglebi, p. 114. 11. Su questo funzionario della corte di Mīrānshāh, vd. Woods, Turco-Iranica ii, p. 337. 12. YẒN, ii pp. 147-51. 13. Stando a Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 884, fece restituire i beni che aveva depredato al tesoro. 14. YẒN, ii pp. 155-57; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 884-85. 15. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 173-79. 16. NSHẒ, i pp. 212-13. 17. YẒN, ii pp. 152-53. 18. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 883. 19. NSHẒ, i p. 213; YẒN, ii p. 158. 20. Grekov-Jakubovskij, Zolotaja Orda i ee padenie, pp. 382-83; Stone, The Polish-Lithuanian State, pp. 10-11; Spuler, Die Goldene Horde, pp. 139-40. 21. Clavijo/Argote de Molina, p. 228.

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capitolo xiii 22. YẒN, ii p. 158. 23. NSHẒ, i p. 213. 24. YẒN, ii p. 160. 25. YẒN, ii p. 161. Vd., su Iskandar b. ‘Umar Shaykh, sopra, cap. xv par. 4. 26. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 197, ipotizza che il suo avvicinamento a Timur fosse stato preparato in precedenza da agenti timuridi. 27. NSHẒ, i p. 213 e ii p. 162. 28. Minorsky, Transcaucasica, p. 97. 29. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 119-20. 30. La lettura di Minorsky coincide solo in parte con quanto dicono gli studiosi georgiani. Il nome Ximšia è presente anche nel cognome Ximšiašvili. Inoltre, nella sua opera storiografica, Parsadan Gorgiǯaniʒe tratta il brano di Sharaf al-Dīn; anche Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 198200, e K’acit’aʒe, Sakartvelo XIV-XV sauk’uneta miǯnaze, p. 143, lo considerano un personaggio, mentre l’orientalista K’arlo T’abat’aʒe individuò nel nome Xamšā non un antroponimo, bensí un toponimo. Esaminando il percorso dell’esercito di Timur, Gorgiǯaniʒe riteneva che l’invasione avesse interessato le province estreme orientali della K’axeti, mentre Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 199, aveva spostato lo scenario ancora piú a est, ritenendo Ximšia governatore della Hereti (oggi in Azerbaigian). Come testimoniato dalle fonti persiane, questa valle distava dieci giorni di cammino dalla valle del fiume Aqsu (Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 199). 31. Minorsky, Transcaucasica, pp. 105-6. 32. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 198; 33. NSHẒ, i p. 213; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 886. 34. YẒN, ii p. 162; Minorsky, Transcaucasica, pp. 102-3; T’abat’aʒe, Kartveli xalxis, p. 110. 35. YẒN, ii p. 163. 36. K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 301. 37. YẒN, ii pp. 163-64. 38. NSHẒ, i p. 214. 39. Un ufficiale di Mīrānshāh, vd. Ando, Timuridische Emire, p. 101. 40. YẒN, ii p. 166. 41. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, pp. 264-66. 42. YẒN, ii, pp. 166-7. 43. YẒN, ii p. 166-69. 44. Maqrīzī/Sulūk, iii/3 p. 1020; Wing, The Jalayirids, p. 164. 45. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 110. 46. YẒN, ii p. 172; NSHẒ, i pp. 214-15. 47. K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 302. Nella Nuova vita della Kartli Giorgi avrebbe risposto al messo di Timur: « Non sono da meno del tuo re che non è in grado di distruggere il mio paese, e se non facesse quanto promesso, sarebbe una donna e non un uomo » (Kartlis cxovreba, ii p. 331). 48. Interessante l’annotazione che queste distruzioni « agricole », avrebbero avuto anche un risvolto economico: Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 201. 49. YẒN, ii p. 174. 50. Cosí riferiscono alcune fonti georgiane: Kartlis cxovreba, ii pp. 332, 461; iv p. 270. 51. Le cose sono descritte anche altrimenti in Kartuli samartlis ʒeglebi, p. 114. 52. Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii p. 203; K’acit’aʒe, Sakartvelo XIV-XV sauk’uneta miǯnaze, p. 145. Questi dati smentiscono abbastanza quanto detto in Minorsky, Transcaucasica, p. 91; Brousset, Histoire de la Géorgie, pp. 391-93.

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note 53. YẒN, ii p. 175. 54. Ando, Timuridische Emire, pp. 133-35. 55. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, pp. 141-42, e K’acit’aʒe, Sakartvelo XIV-XV sauk’uneta miǯnaze, p. 147. 56. YẒN, ii p. 180. 57. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, p. 144. 58. Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii p. 204. 59. Sugli Scudi neri vd. S. Ǯikia, XVIII sauk’unis ori turkuli dok’ument’i, p. 161; l’autore provò che gli abitanti della valle dell’Aragvi, ossia i tuši, gli pšavi e i xevsuri, portavano realmente degli scudi neri. 60. YẒN, ii p. 181-82; Minorsky, Transcaucasica, p. 106. 61. NSHẒ, i p. 217; YẒN, ii p. 182; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 891. 62. Sul clima internazionale vd. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 18-19; sulle corrispondenze con la Francia, Sylvestre de Sacy, Mémoire sur une correspondance inédite de Tamerlan avec Charles VI; Bernardini, Tīmūr and the ‘Frankish’ Powers, p. 111. 63. Iorga, Notices et extraits pour servir à l’histoire des Croisades au XVe siècle, p. 238; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 106; Lopez, Storia delle colonie genovesi, p. 305; Bernardini, Tīmūr and the ‘Frankish’ Powers, p. 112. 64. Vd. Imber, The Ottoman Empire 1300-1481, pp. 37-52. 65. Zachariadou, Manuel II Palaeologos; lo scontro di Çorumlu è descritto anche in ‘Azīz b. Ardashīr, pp. 404-6. Cfr. Yücel, Kadı Burhaneddin, pp. 114-16. 66. Schiltberger, p. 57. 67. Yücel, Kadı Burhaneddin, pp. 158-60; Woods, The Aqquyunlu, p. 41. 68. Woods, The Aqquyunlu, pp. 41-42. CAPITOLO XIV 1. Woods, Turco-Iranica ii, p. 331. 2. Togan, Timurs Osteuropapolitik. 3. Ferīdūn Bey, pp. 118-19, 123-33; queste lettere sono riprodotte in Isnād, pp. 51-63. 4. Non ultima la manipolazione di documenti piú antichi, come nell’interessante esempio in Morton, The Letters of Rashīd al-Dīn. 5. YẒN, ii pp. 186-91; una variante sintetica della lettera si trova in Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 898-900. 6. Ferīdūn Bey, p. 131. 7. Ivi, p. 128. 8. Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol Worlds, pp. 188-89. 9. Āşıkpāşāzāde, pp. 137-39. 10. Ivi, pp. 127-28; Neşrī, i p. 343. La resa dei signori dei beylikati è confermata da Ibn ‘Arabshāh che aggiunge altri beg, come quello di Saruhan e il signore di Kastamonu (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 311, 341-43). 11. Una curiosa versione ottomana della fuga dei beg è nel poema di Hadidi, pp. 126-32. 12. Woods, The Aqquyunlu, pp. 41-42; Bernardini, The Army of Timur, pp. 214-15. 13. YẒN, ii p. 191. 14. Woods, The Timurid Dynasty, p. 20; Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran, pp. 155-59.

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capitolo xiv 15. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 900; vd. Ibn Bībī, p. 254; cfr. Crane, Notes on Saldjūq Architectural Patronage in Thirteenth Century Anatolia, p. 10. 16. NSHẒ, i p. 219. 17. YẒN, ii p. 193, e ‘Abd al-Razzāq/Navā’ī, i/2 p. 836; circa il termine Kirishjī, vd. İnalcik, Meḥemmed I, p. 973. 18. Clavijo/Argote de Molina, p. 109. 19. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 193. 20. Le fonti timuridi parlano di diciotto giorni e Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 193, conferma la dichiarazione di Timur: « prenderò la città in diciotto giorni », indicando la cattura il 5 muḥarram 803/26 agosto 1400. 21. NSHẒ, i p. 219; YẒN, ii p. 195; Schiltberger, pp. 77-78. Sharaf al-Dīn parla di diciotto giorni d’assedio; Schiltberger di ventuno. 22. NSHẒ, i p. 219; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 901; YẒN, ii p. 196. 23. Schiltberger, p. 78. 24. Clavijo/Argote de Molina, pp. 109-10. Circa i massacri di Sivas vd. anche Colophon armeni/Sanjian, p. 121/Anno 1401, e Colophon armeni/Grigor Xlat‘eci. 25. Vd. sopra, cap. ix par. 1. 26. Venzke, The Case of a Dulgadir-Mamluk Iqṭā‘, p. 420. 27. Sui Dhulqadiridi vd. Yinanç, Dulkadir Beyliği. 28. YẒN, ii pp. 196-97. 29. NSHẒ, i p. 220; YẒN, ii p. 198. 30. Su Malatya vd. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 316. 31. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 902; YẒN, ii p. 198. 32. YẒN, ii p. 198; su Qara ‘Uthmān vd. Woods, The Aqquyunlu, p. 41. 33. Su questo termine vd. Bernardini, Niẓām al-Dīn Shāmī, p. 384. 34. Mignanelli, De Ruina Damasci. 35. NSHẒ, ii pp. 221-22. 36. YẒN, ii pp. 200-1. 37. Ibn Ḥajar, Inbā’, ii pp. 108-9 e 133; Ibn Qāḍī Shuhbah, Ta’rīkh, iv p. 148; vd., per una seconda ambasciata, Maqrīzī/Sulūk, iii/3 p. 1031. 38. Broadbridge, Kingship and Ideology, pp. 189-90. 39. Morton, The Letters of Rashīd al-Dīn, pp. 194-95. 40. NSHẒ, i p. 223. 41. YẒN, ii pp. 205-6. 42. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 195-96. Si potrà ricordare che Ibn ‘Arabshāh, da buon letterato, fu anche autore di una di quelle opere di adab, ovvero uno ‘specchio per principi’ nel quale, seguendo una tradizione consolidata, paragonava gli animali agli uomini, non senza ricorrere a riferimenti alle fiere con allusioni a Timur e a Chinggis Khān, il Fākihat al-khulafā’ (Ibn ‘Arabshāh/Fākihat al-khulafā’); vd. a questo riguardo Ghersetti, La letteratura d’ ‘adab’, pp. 143-45. 43. Maqrīzī/Sulūk, iii/3 p. 1029. 44. NSHẒ, i pp. 223-24. Sulle conquiste di Bahasnā e ‘Ayntāb vd. Aubin, Comment Tamerlan prenait les villes, p. 96, e Bernardini, Niẓām al-Dīn, pp. 388-89. 45. YẒN, ii p. 207. 46. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 316; Fischel, A New Latin Source, p. 210. 47. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 204. 48. NSHẒ, i p. 225.

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note 49. YẒN, ii p. 209. 50. Su questo passaggio in NSHẒ, i p. 225, vd. Bernardini, Aspects littéraires et idéologiques, p. 38. 51. NSHẒ, i p. 225. 52. NSHẒ, i p. 229. 53. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 211-12; vd. anche McChesney, A Note, p. 210. 54. YẒN, ii pp. 212-13. 55. Ṭihrānī, i p. 48, vd. Woods, The Aqquyunlu, p. 41 n. 86. 56. NSHẒ, ii p. 304. 57. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 316. 58. Bernardini, Niẓām al-Dīn Shāmī, p. 394. 59. NSHẒ, i p. 226. 60. Unica menzione di questo personaggio, vd. Bernardini, Niẓām al-Dīn Shāmī, p. 395. 61. YẒN, ii p. 221. 62. NSHẒ, ii p. 161. Jalāl al-Islām era un membro del dīvān; morí piú tardi durante la campagna natolica. Su di lui vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 111. 63. NSHẒ, i p. 229. 64. Ibn Khaldūn/Fischel, p. 30; Ibn Khaldūn/Cheddadi, pp. 228-29. 65. YẒN, ii p. 225. 66. YẒN, ii p. 227; NSHẒ, i p. 230. 67. Ibn Khaldūn/Fischel, p. 30; Ibn Khaldūn/Cheddadi, p. 229. 68. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 322. 69. Ando, Timuridische Emire, p. 83. 70. Sull’uso di questo termine vd. Darling, Social Cohesion. 71. Riferimento, quest’ultimo, generalmente usato per l’Impero romano (d’Oriente), ovvero Bisanzio, qui però inteso includendovi Alessandro e l’Impero romano. 72. Il riferimento è a Soyurghatmish, sovrano ciagataico fantoccio insediato sul trono da Timur nel 1370. Cfr. Bernardini, The Mongol Puppet Lords and the Qarawnas, pp. 173-74. 73. Re celebrato nel Libro dei Re di Firdūsī e nella tradizione avestica. 74. Uno dei principali storici musulmani del periodo abbaside (839-923). 75. Ibn Khaldūn/Fischel, pp. 31-38; Ibn Khaldūn/Cheddadi, p. 235. 76. Sul ruolo dei califfi abbasidi nell’Impero mamelucco dopo la caduta di Baghdad, vd. Hassan, Longing for the Lost Caliphate. 77. Ibn Khaldūn/Fischel, pp. 39-41; Ibn Khaldūn/Cheddadi, pp. 237-39. 78. Ibn Khaldūn/Fischel, pp. 46-47; Ibn Khaldūn/Cheddadi, pp. 246-47. Sull’incontro di Timur e Ibn Khaldūn, vd. anche Bernardini, Mémoire et propagande, pp. 71-72. Si potrà qui ricordare quanto scrisse Giorgio Levi Della Vida, che paragonò l’incontro tra Ibn Khaldūn e Timur a quello tra Goethe e Napoleone, ricordando: « Milizia e filosofia, politica e poesia si conciliano malamente: messe a fronte l’una dell’altra, si guardano senza comprendersi, si scambiano parole che non penetrano in profondità. È meglio, in conclusione, che i potenti della terra e i principi dell’intelletto non s’incontrino mai; quando ciò accade, ci scapitano gli uni e gli altri » (Levi Della Vida, Visita a Tamerlano, p. 50). 79. NSHẒ, i p. 233. La data è fornita solo in YẒN, ii p. 234. 80. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 321. 81. YẒN, ii p. 235. 82. YẒN, i p. 228, Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 114. 83. NSHẒ, i pp. 230-31; Naṭanzī, p. 376; YẒN, ii p. 228.

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capitolo xiv 84. Ṣayrafī, iii p. 82; Maqrīzī/Sulūk, iii/3 p. 1042. 85. L’episodio è narrato nel dettaglio in Broadbridge, Spy or Rebel?, pp. 30-31. 86. NSHẒ, i p. 233. Su Tublaq Qawchin vd. Ando, Timuridische Emire, p. 160. 87. YẒN, ii p. 234. 88. Broadbridge, Spy or Rebel?. 89. NSHẒ, i p. 231. L’ambasceria fu ricevuta al Cairo con tutti gli onori con uno spettacolo al quale parteciparono dei “moschettieri” (ra‘dandāzān), degli arcieri e dei balestrieri. A questa ambasceria ne seguí una mamelucca presso Timur, anch’essa accolta con tutti gli onori, in cui Faraj garantiva l’invio di Atilmish entro cinque giorni. Vd. anche Bernardini, Niẓām al-Dīn Shāmī, pp. 398-99. 90. NSHẒ, i p. 234. Circa il Qaṣr al-Ablaq, è probabilmente il palazzo di al-Ẓāhir Baybars (menzionato in YẒN, ii p. 238, dove l’edificio è descritto di fronte alla cittadella). 91. Aubin, Comment Tamerlan prenait les villes, p. 97. 92. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 323. 93. YẒN, ii pp. 238-39; sull’episodio si veda Heidemann, Tīmūr’s Campmint, p. 182. 94. Su di loro vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 110-11. 95. Ṣayrafī, iii p. 93; Heidemann, Tīmūr’s Campmint, p. 183. 96. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 327. 97. YẒN, ii p. 243. 98. Heidemann, Tīmūr’s Campmint, pp. 192-96. 99. Ibn Khaldūn/Fischel, p. 63 n. 30; YẒN, ii p. 239; Bernardini, Niẓām al-Dīn Shāmī, p. 402. 100. Su questo tipo di oggetti vd. Fontana, An Islamic Sphero-conical Object. 101. Le fonti sono abbastanza controverse al riguardo: Shāmī indica la presenza di tutti i principi reali (figli e nipoti, fatta esclusione per Muḥammad Sulṭān), Mīrānshāh e Shāhrukh, Sulṭān Ḥusayn, Pīr Muḥammad e Khalīl Sulṭān. A dedicarsi alla supervisione degli scavi delle gallerie sotto le mura, furono dei grandi emiri, Shaykh Nūr al-Dīn, Shāh Malik, Bu­ runduq e ‘Alī Sulṭān (NSHẒ, i p. 235). Yazdī esclude dalla sua opera Sulṭān Ḥusayn, Pīr Muḥammad e Khalīl Sulṭān (YẒN, ii p. 241). 102. Ando, Timuridische Emire, p. 72. 103. YẒN, ii p. 242. 104. NSHẒ, i p. 235. 105. Jean de Solṭāniye, pp. 455-56; Schiltberger, pp. 83-84. Vd. sull’incendio anche Vigouroux, La Mosquée des Omeyyades de Damas après Tamerlan, p. 125. 106. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 285. 107. Ibn Ṭaghrībirdī/Nujūm, p. 68. 108. YẒN, ii p. 246. 109. YẒN, ii pp. 250-51; Yinanç, Dulkadir Beyliği, p. 35. 110. « In quel tempo, quando Timur devastò Dimaxši [Damasco] e la casa della Croce [ovvero il monastero della Santa Croce di Gerusalemme dei Georgiani, fondato nella prima metà dell’XI sec.] fu totalmente devastata, qui giunse P’imen Mac’q’vereli [vescovo di Ac’q’uri, città in Samcxe], e donò l’olio e la cera al [cenobio] in difficoltà […] » (Cod. H-1661 [Sinassario, a. 1156], in Sakartvelos saxelmc’ipo muzeumis, p. 84). Devo questa notizia all’amico Gaga Shurgaia. Per quanto riguarda il colophon, è il caso dell’armeno T‘awak‘al, autore di un colophon in un Vangelo del 1400 che scriveva: « Il re barbaro dei Persiani T‘amur Łan, che possiede un aspetto e un volto diverso da quello degli altri, un’ampia fronte e occhi stretti, che è k‘awsa e pestilenziale, procede verso oriente con forze ingenti e con un gran numero di

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note truppe ha attaccato la Siria e va verso Gerusalemme » (Colofoni armeni/Sanjian, p. 120/ Anno 1400). Come vedremo, questo tipo di idee ingenererà una tradizione ingiustificata che fino a epoche recenti ha avuto i sostenitori di una vera e propria conquista di Gerusalemme. 111. NSHẒ, i p. 237. 112. YẒN, ii pp. 253-55. 113. Vd. sopra, cap. ix par. 3. 114. YẒN, ii p. 255. 115. Woods, The Aqquyunlu, p. 45. CAPITOLO XV 1. Ibn ‘Arabshāh si dilunga sul fallimento dell’assedio di Mardin di cui realizza una lunga descrizione della qal‘a, ovvero la cittadella che era imprendibile e aveva riserve idriche per vari giorni: Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 299-300. 2. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, i pp. 893-94; Wing, The Jalayirids, p. 164. 3. Wing, The Jalayirids, p. 165; Seif, Der Abschnitt über die Osmanen, p. 96. 4. NSHẒ, i pp. 242-43. 5. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, pp. 151-52. 6. Ivi, pp. 153-54. 7. YẒN, ii p. 256; Minorsky, Transcaucasica, p. 96. 8. NSHẒ, ii p. 163. Su Giorgi VII vd. sopra, cap. xii par. 2. 9. YẒN, ii p. 257. Sull’atteggiamento di Giorgi VII vd. anche Kartlis cxovreba: « quando il re Giorgi lo seppe, inviò i messi, chiedendo la pace e di potersi riconciliare con il loro padre, mentre i figli di Timur Lang li ascoltarono e fecero conoscere a Timur Lang la supplica di Giorgi. Timur Lang ascoltò, fece pace, lo comunicò ai suoi figli e li richiamò da sé » (Kartlis cxovreba, pp. 335). 10. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 931. 11. Ibn ‘Arabshāh diverge dal resoconto di Sharaf al-Dīn (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 300) e descrive la devastazione delle città di Nusaybin e Mossul. 12. NSHẒ, i p. 239; YẒN, ii pp. 259-60; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 929; Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 302-6. 13. Il termine è trascritto in vari modi; anche se questo sembra essere quello corretto (si veda la variante in YẒN, ii p. 260, al-‘Aqāb, anche se lo stesso autore in YẒN, ii p. 261 usa la forma Alqāb), non compare in altre fonti. 14. NSHẒ, i p. 240. 15. YẒN, ii p. 261, utilizza qui il termine maljūr (deformazione del mongolo boljär) per indicare una specifica struttura sopraelevata per assedi, vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 107 pp. 229-32. La figura di Mas‘ūd Simnānī è ricordata nel Mu‘izz al-ansāb tra quelle dei segretari persiani (navīsandagān-i tazīk) di Timur e ancora nelle fonti timuridi come un importante segretario del dīvān-i a‘lā, ovvero la struttura principale del governo timuride, vd. Ando, Timuridische Emire, p. 237. 16. YẒN, ii p. 262. 17. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 933. 18. Il tugh è una coda di cavallo disposta in cima a una lancia e rappresentava l’emblema di molti signori turco-mongoli. 19. NSHẒ, i p. 241; il dettaglio della fuga di Faraj è in YẒN, ii pp. 263-64.

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capitolo xv 20. YẒN, ii, p. 264. 21. Aubin, Comment Tamerlan prenait les villes, p. 95. 22. Schiltberger, pp. 85-86. 23. YẒN, ii p. 266. 24. Wing, The Jalayirids, p. 165. 25. YẒN, ii p. 266. 26. YẒN, ii p. 267. 27. Vd. sopra, cap. iii par. 8. 28. Azzāwī, Tā’rīkh al-‘Irāq; Wing, The Jalayirids, p. 110. 29. Salmān-e Savājī, p. 552. L’editore legge per errore la data del 785 invece di 775, che corrisponde effettivamente all’inondazione della città (si vedano anche i frammenti poetici in Salmān-e Savājī, pp. 580 e 589). 30. Bernardini, Genoa, p. 423; Wing, The Jalayirids, pp. 118-20. 31. Clavijo/Argote de Molina, pp. 124-25. 32. Lopez, European Merchants in the Medieval Indies, p. 183. 33. YẒN, ii p. 196; Wing, Between Iraq and a Hard Place, p. 370. 34. YẒN, ii p. 268. 35. YẒN, ii pp. 268-69; Minorsky, Transcaucasica, p. 106. 36. Vd. su questo termine sopra, cap. xvi par. 2. 37. Ferīdūn Bey, pp. 118-19. 38. Ivi, pp. 123-26; Isnād, pp. 97-103. 39. Vd. sopra, cap. xiv par. 1. 40. Ferīdūn Bey, pp. 126-31; Isnād, pp. 104-20. Circa l’ultima lettera menzionata, è probabilmente copia di un esemplare inedito conservato presso gli archivi del Topkapı Sarayı (evrak, num. 10750); vd. anche Woods, Turco-Iranica ii, p. 331. 41. YẒN, ii pp. 271-72. 42. Kartlis cxovreba, ii p. 366. 43. Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii p. 213. 44. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brʒola, p. 157, riassume le condizioni di pace basandosi principalmente su fonti persiane: 1) la Georgia avrebbe versato il tributo annuale; 2) alla prima richiesta avrebbe fornito dei soldati; 3) non avrebbe chiuso le vie di transito, il che significava probabilmente che non avrebbe reso impossibile lo spostamento degli ambasciatori e dei commercianti; 4) sul proprio territorio non avrebbe perseguitato i musulmani; 5) i Georgiani non avrebbero celebrato pubblicamente il culto cristiano in terra d’Islam; 6) Timur garantiva l’inviolabilità al « gregge cristiano » di Georgia (settembre 1401). Si deve anche segnalare, però, quanto scrive nel monastero armeno di Ewstat‘e il copista Sargis: « T‘amar Lank che per tre volte aveva in precedenza devastato l’Armenia, arrivò di nuovo con forze ingenti e numerose e occupò la Georgia [Vrac‘ašxarh] con la connivenza e l’assistenza dei principi e degli azat georgiani, deboli e maledetti. Compí un massacro generale di prigionieri consistente in 100.000 vittime e demolí le chiese. Non è possibile ripetere a parole né entrare nel merito di questa immane tragedia » (Colophon armeni/Sanjian, p. 122/Anno 1401). 45. YẒN, ii p. 275, Su Iskandar vd. sopra, cap. xiii par. 3. 46. YẒN, ii p. 276. 47. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, p. 193. Il sito potrebbe avere un’altra collocazione in territorio curdo-iracheno, come si può evincere da un toponimo analogo in quella regione (Darband Zanjī); cfr. Rahmati, The Frontiers, passim. 48. NSHẒ, i p. 246.

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note 49. YẒN, ii pp. 277-78. 50. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 950; YẒN, ii p. 279; NSHẒ, i p. 248. 51. ‘Āşıkpāşāzāde, pp. 141-42. 52. YẒN, ii pp. 280-81. 53. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 953. 54. YẒN, ii pp. 283-84. 55. Subtelny, Timurids in Transition, p. 124. 56. YẒN, ii pp. 282-83. 57. NSHẒ, i p. 250. 58. Berʒenišvili, Panask’et’elta peodaluri sagvareulos ist’oriidan, i p. 104. 59. YẒN, ii p. 288. 60. NSHẒ, i p. 250. 61. Clavijo/Argote de Molina, p. 253. 62. Di Nūr al-Dīn si è spesso parlato. Quanto a Burunduq, si tratta di un figlio di Jahānshāh Barlas, discendente del celebre Chākū, che già aveva avuto un ruolo significativo a Damasco: vd. Ando, Timuridische Emire, pp. 81-82. 63. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iii par. 1154 p. 130, con una spiegazione del termine usato da Shāmī. Vd. anche Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 958. 64. C’è una discordanza nelle fonti timuridi circa la sequenza delle conquiste anatoliche, si è qui seguito un criterio logico nelle tappe seguendo Sharaf al-Dīn (YẒN, ii p. 297); circa il ruolo di Muḥammad Sulṭān, Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 955. 65. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 957. 66. Froissart/Chroniques, p. 616; Bernardini, Jacques du Fay. 67. Thiriet, Régestes des délibérations du Sénat de Venise, i-ii numm. 860, 898, 927, 981. 68. Su questo travagliato periodo vd. Surdich, Genova e Venezia, pp. 239-40, e Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 27-28. 69. Vd. il saggio di Delaville Le Roulx, La France en Orient au XIVe siècle. 70. Luxardo de Franchi, La resistenza di Genova ai Francesi (1401-1409). 71. Su di lui vd. Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, pp. 400-7. 72. Lalande, Jean II Le Maingre, pp. 84-92. 73. Ivi, pp. 101-2. Sugli esiti dell’arrivo in Anatolia di Timur vd. anche Otten-Froux, Famagouste sous la domination génoise, pp. 102-3. 74. Abrate, Creta, pp. 259-60 (il riferimento è a Sen. Misti Reg., 46 f. 49v, 17 ottobre 1402). Si veda anche il ruolo di Pietro Zeno menzionato da Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 107, e Bernardini, Chio, Focea e Tamerlano, p. 58. 75. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 52; Lopez, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, p. 305; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 399. 76. Balard, La Romanie génoise, i p. 101 n. 353 (Peire Massaria 1402, ff. 56r e 72r); Dennis, Three Reports from Crete, pp. 253-54. 77. Vd. sopra, cap. xvi par. 2. 78. Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 399. 79. Silvestre de Sacy, Mémoire sur une correspondance, pp. 515-16. 80. Su Sandron vd. sopra, cap. xvi par. 2. 81. Vd. a questo riguardo le considerazioni di Tanase, « Jusqu’aux limites du Monde », pp. 664-65; Knobler, The Rise of Timur and Western Diplomatic Response, p. 342; Bernardini, Tīmūr and the ‘Frankish’ Powers, p. 111. Questa lettera è stata contestata da Soudavar, The Concept of ‘al-Aqdamo Aṣaḥḥ’ and ‘Yaqin-e Sābeq’. Non convince sino in fondo l’argomentazione se

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capitolo xvi si considera la figura stessa di Giovanni di Sultaniyya. L’assenza di altre lettere destinate a sovrani europei non permette di confermare quanto detto da Soudavar. AlexandrescuDersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 39, ritiene che Francesco fu inviato alla corte di Timur da parte dell’imperatore bizantino Manuele II. 82. Jackson, The Mongols and the West, p. 243; Ellis, Original Letters, i par. xxv pp. 54-88. CAPITOLO XVI 1. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie. 2. Iorga, Geschichte des osmanischen Reiches. Analogamente andranno ricordati anche tutti i corposi articoli pubblicati da Iorga nella « Revue de l’Orient latin » a proposito delle “Crociate” del XV secolo, in partic. Id., Notes et extraits, pp. 238-76). 3. Hammer-Purgstall, Storia dell’Impero osmano, iii p. 5. 4. Gibbons, The Foundation of the Ottoman Empire, p. 5. 5. Ivi, pp. 243-44. 6. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 8-9. 7. Nel mio lavoro The Army of Timur during the Battle of Ankara, in cui ho ripreso numerose idee della Alexandrescu-Dersca, ho avuto modo di proporre alcuni supplementi e rettifiche alla sua opera, dovuti principalmente a diversi studi e scoperte della seconda metà del secolo scorso. È il caso del ridimensionamento del peso delle Tuzūkāt-i Timurī, una fonte storica sprovvista di qualsiasi valore, essendo in realtà un “falso” di epoca moghul (vd. sopra, cap. xix par. 3). In quella sede riprendevo anche diverse fonti nuove che la studiosa rumena non poteva ancora conoscere. Ciò non di meno, rimane sorprendente la solidità del lavoro della studiosa rumena ancor oggi. 8. Vd. sopra, cap. xiii par. 7. 9. Bernardini, Un’ambasceria del Tākvur di Costantinopoli; Savvides, On the Origins and Connotation of the Term “Tekfur”. 10. Çelik, Manuel II Palaiologos, pp. 173-76. 11. Ivi, pp. 214-15. 12. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 16-17. 13. Nicol, The Last Centuries of Byzantium, p. 306. 14. Vd. sopra, cap. xi par. 1, e Çelik, Manuel II Palaiologos, pp. 179-80. 15. Cutolo, Re Ladislao d’Angiò Durazzo, pp. 124-26; Bernardini, Bāyazīd I negli affreschi del ciclo di San Ladislao, p. 14. 16. Nicol, The Last Centuries of Byzantium, p. 307. 17. Sylvestre de Sacy, Mémoire sur une correspondance inédite, p. 514; Knobler, The Rise of Timur and Western Diplomatic Response, p. 342. 18. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 11-14. 19. Nicol, The Last Centuries of Byzantium, p. 308. 20. Çelik, Manuel II Palaiologos, p. 214. 21. Lalande, Jean II Le Maingre, pp. 92-93. 22. Çelik, Manuel II Palaiologos, pp. 216-17. 23. Nicol, The Last Centuries of Byzantium, p. 309; Çelik, Manuel II Palaiologos, pp. 217-18. 24. Lalande, Jean II Le Maingre, p. 95. 25. Boucicaut/Livre des fais, pp. 157-58. 26. Vd. sopra, cap. x par. 5.

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note 27. Carmina Graeca/Θρὴνος Ταμυρλάγγου. 28. Gautier, Action de grâces de Démétrius Chrysoloras. 29. Gautier, Un récit inédit du siège de Constantinople. 30. Knobler, The Rise of Timur and Western Diplomatic Response, p. 343. 31. Clavijo/Argote de Molina, p. 111. 32. Paul, Terms for Nomads, p. 439. 33. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 54. 34. Ivi, p. 142. 35. ‘Azīz b. Ardashīr, pp. 79-80. Vd. anche Bernardini, The Army of Timur, p. 211. 36. YẒN, ii pp. 187, 190. Bernardini, Mémoire et propagande, p. 151. 37. Vd. sopra, cap. ix par. 2. 38. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 320-22. 39. Clavijo/Argote de Molina, p. 110; Schiltberger, p. 75. 40. Il riferimento è al selgiuchide ‘Alā’ al-Dīn Key Ḳubād (r. 1284-1305). 41. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 320-21. 42. Khwāndamīr/Ḥabīb al-Siyar, iii pp. 487-89. 43. YẒN, ii pp. 357-58. 44. Göde, Eratnalılar, pp. 24-25. 45. YẒN, ii pp. 358-59. Si veda anche Bernardini, The Army of Timur, p. 216. 46. YẒN, ii p. 293. 47. Iorga, Notices et extraits, p. 249. Le fasi concitate che precedono la battaglia di Ankara, sono descritte in Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 58-67. 48. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 143; Neşrī, i pp. 349-51. 49. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 59-60. 50. YẒN, ii p. 298. 51. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 60. 52. Mignanelli/De Ruina Damasci, par. 145 p. 337: « Erat Baysit […] bellis expertus et animosus et sic fere per duo meses steterunt ut canis et gactus ». 53. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 61. 54. YẒN, ii pp. 298-99. 55. YẒN, ii p. 299. 56. YẒN, ii p. 300. 57. Tavārīkh-i Āl-i ‘Osmān, p. 41; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 65-66. Sugli inviti a Bāyazīd a non combattere vd. Chalkokondyles, pp. 246-47. 58. La lettera di Pasqualino Veniero, castellano delle isole di Tinos e Myconos, è riportata dalla Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 135: « il Tataro prese tutte le marine, talché ogni giorno moriva gente e cavalli del Turco per gran sete ». Vd. anche Ducas, pp. 91-92. Chalkokandiles riferisce che Bāyazīd aveva proibito agli eserciti di Bursa di approvigionarsi di frumento per i cavalli e di grano per i soldati (Chalkokondyles, pp. 244-45). 59. YẒN, ii p. 301. 60. Oruç Beğ, p. 39. 61. Schiltberger, p. 79. 62. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 112-15, offre in due appendici un quadro delle varie ipotesi sul numero dei partecipanti alla battaglia. Al di là delle esagerazioni di alcune fonti, come lo storico greco Pseudo-Sfranze (Pseudo-Sfranze/ Bekker, p. 84) e Agostino Giustiniani (Giustiniani/Annali p. 225), che arrivano a parlare di

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capitolo xvi piú di 800.000 uomini nell’esercito di Timur, e addirittura quelle del rabbino Joseph ben Joshua (Joseph ha Cohen, p. 256), il quale riferisce di un milione di persone, altre congetture piú ragionevoli portano a cifre simili a quelle riferite anche dal generale turco Ömer Halis Bıyıktay (Bıyıktay, Yedi yıl harbi içinde Timur’un Anadolu seferi, p. 75) che stima come 150.000 gli effettivi di Timur. Meno attendibile è il riferimento a solo 85.000 uomini nell’esercito ottomano. Per un’errata trascrizione da Schiltberger (1.400.000 uomini invece di 140.000), Alexandrescu-Dersca non tiene conto del dato interessante proposto da quest’ultimo. 63. Circa la ridiscussione dei dati forniti da Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 71-73, vd. Bernardini, The Army of Timur, pp. 218-22. 64. Schiltberger, p. 79; YẒN, ii p. 305. 65. Circa la disposizione in battaglia vd. le varie descrizioni non sempre concordanti tra loro nel dettaglio: NSHẒ, i pp. 254-55; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 960; YẒN, ii pp. 302-5; ‘Abd al-Razzāq/Navā’ī, i/2 pp. 917-20; Khwāndamīr/Ḥabīb al-Siyar, iii p. 507; Mīrkhwānd, vi pp. 410-11. Sulla presenza di Qara ‘Uthmān Aq Qoyunlu, vd. Ṭihrānī, i p. 40, e Woods, The Aqquyunlu, p. 41. Si veda, anche per Muṭahhartan, Yücel, XIV-XV Yüzyıllar Türkiye tarihi hakkında Araştırmalar, e Bernardini, Motahherten entre Timur et Bayezid, pp. 202-3. Per il ruolo di Ya‘qūb Beg II e i signori dei beylikati vd. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 143; Neşrī, i p. 351. 66. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 70, e Bernardini, The Army of Timur, p. 220; Mignanelli/De Ruina Damasci, pp. 336-37. 67. Circa le fonti ottomane della battaglia vd. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 73-74, e Bernardini, The Army of Timur, pp. 228-29. Vd. in partic. ‘Āşıḳpāşāzāde, pp. 143-44; Neşrī, i pp. 351-53. Alcune fonti turche posteriori offrono dati ulteriori: ‘Alī/Künh ül-Akhbār, iv p. 89; Sa‘d al-Dīn, i pp. 261-63. Alcune fonti persiane forniscono altri dati ancora: NSHẒ, i pp. 254-55; YẒN, ii pp. 302-5. Vd. anche Uzunçarşılı, Osmanlı Tarihi, i pp. 311-12. 68. Decei, A participat Mircea cel Bătrân la lupta de la Ankara?, e Beldiceanu, Les Roumains ont-ils participé à la bataille d’Ankara?. Si veda la posizione scettica di Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 77 n. 4. 69. Andrà segnalato che né Shāmī, né Ḥāfiẓ-i Abrū forniscono una data della battaglia. Sharaf al-Dīn indica invece la data del 19 dhu’l-Ḥijja dell’804/20 luglio 1402 (YẒN, ii p. 314). Per Ibn ‘Arabshāh si trattò del 17 dhu’l-Ḥijja dell’804/18 luglio 1402 (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 230-31). Come ha affermato Alexandrescu-Dersca, queste date sembrano non coincidere con il giorno di venerdí enunciato dalle fonti, inoltre la studiosa riporta altre motivazioni non sempre del tutto convincenti per posticipare al 28 luglio la battaglia (AlexandrescuDersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 116-19). 70. Sull’appartenenza Muṭahhartan al lignaggio eretnide vd. Bernardini, Motahherten entre Timur et Bayezid, pp. 204-5. 71. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 143; Neşrī, i p. 351; Tavārīkh-i Āl-i ‘Osmān, p. 43; Oruç Beğ, p. 43. Tra i beylikati menzionati: i Menteşe, i Saruhan, i Germiyan, gli Aydın, gli Hamid. Ducas, pp. 96-97, parla di 500 soldati dotati di corazze, degli Aydın, i Menteşe, Saruhan e Germiyan. Wittek, Das Fürstentum Mentesche, ed. tur., p. 87. 72. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 328. 73. NSHẒ, i p. 256; YẒN, ii p. 308; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 962-63. Circa la fuga di Süleymān Çelebī, Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 328 e 331. 74. Chalkokondyles, pp. 254-57. 75. YẒN, ii p. 310. 76. YẒN, ii p. 308.

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note 77. ‘Āşıḳpāşāzāde, pp. 145-47; Neşrī, i p. 351; Tavārīkh-i Āl-i ‘Osmān, p. 43; Oruç Beğ, p. 42. 78. Zachariadou, Süleyman Çelebi in Rumili and the Ottoman Chronicles, p. 269. 79. Kastritsis, The Sons of Bayezid, p. 41; Zachariadou, Süleyman Çelebi, p. 270 n. 6. 80. Ducas, p. 96. 81. Elemento di fanteria, guardia del corpo del sultano: il nome solaḳ (‘mancino’) deriva dal fatto che questi soldati portavano l’arco con la mano sinistra. 82. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 144. 83. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 328. 84. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 78-79. Sulla battaglia vd. anche Bernardini, The Army of Timur, pp. 222-24. Chalkokandiles narra che il velocissimo cavallo di Bāyazīd era assetatissimo e che arrivati innanzi a un fiume non resistette dal fermarsi per bere. Bāyazīd, essendo podagroso, aveva le mani e i piedi impossibilitati a controllare il cavallo per un attacco di gotta e ciò permise la sua cattura da parte dei soldati timuridi (Chalkokondyles, pp. 258-59). 85. NSHẒ, i pp. 257-58. 86. NSHẒ, i pp. 289-60. 87. Naṭanzī, p. 389. 88. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 964-65. 89. YẒN, ii pp. 314-20. 90. Hammer-Purgstall, Storia dell’Impero osmano, iii pp. 118-20. 91. Ivi, iii p. 116. 92. Ducas, pp. 102-3. 93. Chalkokondyles, pp. 260-61. 94. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 145; la stessa versione in Neşrī, i pp. 354-55. 95. Neşrī, i pp. 354-57. La leggenda è presente anche in Oruç Beğ, p. 41, e in altre varianti, vd. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 120-22. 96. Hammer-Purgstall, Storia dell’Impero osmano, pp. 110-11. 97. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 329; Milwright-Baboula, Bayezid’s Cage, pp. 258-59. 98. Pseudo-Sfranze/Bekker, p. 85; Milwright-Baboula, Bayezid’s Cage, p. 258. 99. Bracciolini/De varietate fortunae, p. 36; Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », p. 731; Milwright-Baboula, Bayezid’s Cage, p. 242. 100. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 337. Sull’influenza di Poggio in Bracciolini vd. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese, pp. 222-24; Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, pp. 296-303. 101. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, pp. 60-65; Milwright-Baboula, Bayezid’s Cage, pp. 249-50. 102. Köprülü, Yıldırım Bayazid’in esareti; Id., Yıldırım Bayazid’in intiharı. 103. Denison Ross, Tamerlan et Bayazid en 1402, p. 324. A questo intervento se ne possono associare altri due: Martinovich, La cage du Sultan Bāyazīd, e Id., Another Turkish Iron Cage, che sembrano inaugurare una vera e propria disciplina storica dei nemici chiusi in gabbia. 104. Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia ». 105. Milwright-Baboula, Bayezid’s Cage. CAPITOLO XVII 1. YẒN, ii p. 320.

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capitolo xvii 2. Stella/Annali, col. 1194, ed. Petti Balbi, p. 260; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 399; Giustiniani/Annali, p. 225. 3. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, col. 794; e in addenda a Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 125, vd. anche Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », p. 732. 4. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, coll. 795-96; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 128-34; vd. anche Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », p. 732. Su questa relazione vd. Fleet, Turks, Italians and Intelligence, p. 106. 5. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, col. 798; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 135-36; Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », p. 732. 6. YẒN, ii p. 321. 7. Aka, Timur’un Ankara Savaşı, testo pers., pp. 5-9; trad. tur., pp. 10-15. Lo studioso ha compiuto una edizione basandosi su quattro manoscritti di Münşeat provenienti da varie biblioteche: 1) Es’ad Efendi Ktb, num. 3673, Hüsâmüddin Efendi Mecmuasi, 62r-63r; 2) Hafid Efendi Ktb, num. 326 182r-183v; 3) Es’ad Efendi Ktb, num. 3333, Sarı Abdullah Efendi Mecmuasi, 15r-17v; 4) Reisü’l-Küttâb Mustafa Efendi Ktb, num. 892, İnşâ-i Kebir, 58v-59r. 8. NSHẒ, i p. 261. 9. YẒN, ii p. 321. 10. YẒN, ii p. 322. 11. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 343-44; Zachariadou, Trade and Crusade, p. 82. 12. NSHẒ, i pp. 262-63; YẒN, ii p. 324. 13. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 81-82. 14. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, coll. 794-95. Insieme alla principessa Olivera fu anche catturata la figlia di Aḥmad Jalayir (YẒN, ii p. 324). 15. YẒN, ii p. 326. 16. Dennis, The Byzantine, pp. 72-73. 17. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, coll. 795-96; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 127. 18. Clavijo/Argote de Molina, p. 112. 19. NSHẒ, i pp. 264-65. 20. YẒN, ii pp. 330-31. Su questa ambasceria vd. Bernardini, Un’ambasceria del Tākvur di Costantinopoli. Sul titolo di takovor/tekfur e simili, vd. sopra, cap. xvi par. 2, e Savvides, On the Origins and Connotation of the Term “Tekfur”. 21. Ostrogorsky, Byzance état tributaire de l’empire turc. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 972, parla di un dono di un migliaio di cavalli da parte del « re » di Istanbul. 22. YẒN, ii p. 327. 23. YẒN, ii p. 328. 24. Zachariadou, Trade and Crusade, p. 84. 25. Wittek, Das Fürstentum Mentesche, pp. 87-90. 26. Sul termine aghraq (‘fardello’, ‘bagaglio’ e ‘convoglio’), vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 495 pp. 75-77. 27. Nel quadro delle trascrizioni dei nomi anatolici in persiano, questa compare come una delle piú complesse. Vd. varianti in YẒN, ii p. 329; ‘Abd al-Razzāq/Navā’ī, i/2 p. 935. 28. Vd. sopra, cap. ix par. 6. 29. NSHẒ, i pp. 265-66; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 974. 30. YẒN, ii pp. 330-31; Maqrīzī/Sulūk, iii/3 pp. 1098-99. 31. Broadbridge, Kingship and Ideology in the Islamic and Mongol Worlds, p. 193.

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note 32. YẒN, ii p. 333. 33. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iii par. 1154 pp. 129-30; l’episodio è descritto da YẒN, ii p. 333. 34. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, col. 799; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 138. 35. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, col. 800; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, pp. 138-39. 36. YẒN, ii pp. 335-36. 37. Aka, Timur’un Tire’ye Gelişi ile İlgili bir Kitâbe. 38. Günay, Emir Timur İzmir’de, p. 600. 39. Nicol, The Last Centuries of Byzantium, p. 203. 40. Muḥammad Beg era il primo rappresentante del casato di Aydın. 41. Enverī/Düstūrnāme, p. 50. 42. Dietrich von Nieheim, pp. 172-73; Jackson, The Mongols and the West, p. 245. 43. Jackson, The Mongols and the West, p. 245. 44. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 87. 45. Delaville Le Roulx, Les Hospitaliers à Rhodes, pp. 284-85. 46. Questa variante relativa a Cipro appare in Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 976. 47. NSHẒ, i p. 267. Vd. Günay, Emir Timur İzmir’de, p. 605. Si confrontino le varianti di Ḥāfiẓ-i Abrū, NSHẒ, ii p. 179; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 976; YẒN, ii pp. 336-37. L’assenza di manoscritti autografi delle cronache fa sí che le edizioni critiche riportino numerosi errori di copiatura successivi. 48. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 977. 49. YẒN, ii p. 337. 50. Chalkokandyles, pp. 264-65, parla di « piccole ruote » utilizzate per attaccare la fortificazione. 51. NSHẒ, i p. 268. 52. NSHẒ, ii pp. 267-68; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 977-78; YẒN, ii pp. 338-40. 53. YẒN, ii p. 340. 54. Delaville Le Roulx, Les Hospitaliers à Rhodes, pp. 286-87. 55. Schreiner, Die byzantinischen Kleinchroniken, i p. 112 e iii p. 38. 56. Jackson, The Mongols and the West, p. 243. Vd. Diplomatari de l’Orient Català, p. 965 (num. dclxxii, 5 marzo 1403). Cfr. anche Knobler, The Rise of Timur and Western Diplomatic Response, p. 346, che ricorda la richiesta da parte del re Martí di Aragona di una Crociata anti-timuride. 57. Boucicaut/Livre des fais, p. 159; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 403. 58. Christine de Pisan, pp. 14-15; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 404. L’atteggiamento morale di Christine de Pisan riflette un dibattito sulla guerra che può essere ricollegato anche alla Guerra dei cent’anni. La stessa Giovanna d’Arco aveva invitato il duca di Borgogna a combattere i “Saraceni” piuttosto che il re di Francia, vd. Schnerb, Armagnacs et Bourguignons, pp. 346-47. 59. YẒN, ii pp. 341-42. 60. Bahari, Bihzad, pp. 80-81 figg. 38-39. 61. Vd. Bernardini, Chio, Focea e Tamerlano. 62. NSHẒ, i pp. 268-69. 63. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 90. 64. Ducas, pp. 105-9.

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capitolo xvii 65. Sanuto/Vitae Ducum Venetorum, col. 799; Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 128. 66. Ducas, pp. 108-9. 67. Balard, La Romanie génoise, i p. 380; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, p. 62; altre ipotesi sono plausibili, come quella di Baldassarre Cibo, vd. Knobler, The Rise of Timur and Western Diplomatic Response, p. 348 n. 47. 68. Argenti, The Occupation of Chios, pp. 167-69. 69. YẒN, ii p. 344. 70. Sul suo emirato resta esemplare il saggio di Zachariadou, Süleyman Çelebi. 71. Kastritsis, The Sons of Bayezid, pp. 41-44. 72. YẒN, ii p. 331. 73. YẒN, ii p. 342. 74. Kastritsis, The Sons of Bayezid, p. 48. 75. Non è stato possibile verificare il dato fornito dall’Ahval che viene menzionato in Kastritsis, The Sons of Bayezid, p. 49. Questo pur pregevole studio manca in diversi casi di riferimenti alle fonti prese in esame, il che lo rende inspiegabilmente mutilo. Per la moneta di Meḥemmed Çelebī, vd. Ölcer, Yıldırım Bayezid’in Oğullarına Ait Akçe ve Mangırlar; si cfr. anche Damalı, Osmanlı Sikkeler Tarihi, pp. 182-83. 76. Su questo periodo vd. Imber, The Ottoman Empire, pp. 55-73, e Kastritsis, The Sons of Bayezid. Si veda anche Oruç Beğ, pp. 42-46. 77. NSHẒ, i p. 270; YẒN, ii p. 348. 78. Neşrī, i pp. 360-61; Uzunçarşılı, Anadolu Beylikleri, p. 17. 79. Tra queste quelle battute a Kayseri, Konya, Larende ed Eğridir, vd. Album, A Checklist of Islamic Coins, p. 139 num. 1270/1. 80. YẒN, ii p. 345. 81. Album, A Checklist of Islamic Coins, p. 138 num. 1264. Sulla restaurazione dei Germiyanidi vd. Uzunçarşılı, Anadolu Beylikleri, p. 43. 82. YẒN, ii p. 334; Wittek, Das Fürstentum Mentesche, ed. turca, p. 88. 83. Schreiner, Die byzantinischen Kleinchroniken, i pp. 111-13 e iii pp. 38-40; Zachariadou, Trade and Crusade, p. 82. 84. Nella Cronaca Dolfina del Museo Correr, T. II f. 479v, riportata in AlexandrescuDersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 130 n. 3, questo personaggio compare come Muḥammad Beg, signore dei Menteşe; ma vd. Zachariadou, Trade and Crusade, p. 84. 85. Ducas, pp. 96-97; Wittek, Das Fürstentum Mentesche, ed. turca, p. 87. 86. Uzunçarşılı, Anadolu Beylikleri, pp. 88-89; Wittek, Das Fürstentum Mentesche, ed. turca, p. 90. Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 91. 87. Wittek, Das Fürstentum Mentesche, ed. turca, p. 85 n. 287; Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 341-43. 88. Uzunçarşılı, Anadolu Beylikleri, p. 68. 89. YẒN, ii p. 361; Bernardini, Motahherten, p. 203. Sulla data del 1410 vd. Yücel, XIVXV Yüzyıllar Türkiye tarihi hakkında Araştırmalar, p. 718, ma anche Šukurov, Velikie Komniny i Vostok, p. 289. 90. Asurbəyli, Şirvanşahlar Dövləti, pp. 280-81. 91. Woods, The Aqquyunlu, pp. 41-42. Vd. Ṭihrānī, i p. 52; i nipoti si chiamavano Pīr ‘Alī e Pīltan Beg. 92. Clavijo/Argote de Molina, p. 216, definisce il personaggio Carvo Toman Ulglan; piú correttamente, Clavijo/López Estrada, pp. 232-33: Caraotoman Ulglan.

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note 93. Woods, The Aqquyunlu, p. 42. Cfr. anche YẒN, ii p. 361. 94. NSHẒ, i p. 270. 95. YẒN, ii pp. 345-48. 96. Probabilmente Sharaf al-Dīn fa confusione, non esistendo delle isole, mentre Gülistān oggi è un centro abitato e fortificato nell’entroterra. D’altronde anche Shāmī non fornisce nomi e indica il capitano della fortezza col nome di Pāshā. 97. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 980. 98. YẒN, ii p. 347. 99. NSHẒ, i p. 271; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 982; YẒN, ii p. 349. 100. ‘Āşıḳpāşāzāde, p. 146. 101. Oruç Beğ, p. 42. 102. Hadidi, pp. 131-32. 103. Un quadro complessivo è fornito da Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie, p. 94 n. 7. 104. Perondino/Magni Tamerlanis, pp. 30-31. Si veda la versione fantasiosa della Storia di Chio di Hieronimo Giustiniani, il quale scrive: « Et certo era tale [Bāyazīd], poscia che non si sacciava mai del sangue de’ poveri christiani, et sendo fratricida per la morte del fratello, ha patito la pena conforme et conveniente al suo delitto, restando condannato dui anni et mezzo dentro una cava [sic], et dippoi ucciso con un osso ben aguccio di un pesce, passatogli la gola per traverso, et cossí la vita e i giorni suoi miseramente havea finito » (Giustiniani/ Storia di Chio, p. 370). 105. Mignanelli/De Ruina Damasci, p. 338. 106. Yinanç, Bayezid I, pp. 388-89. 107. Ducas, pp. 108-9. 108. Köprülü, Yıldırım Bayazid’in intiharı. 109. YẒN, ii pp. 348-51. 110. NSHẒ, i pp. 272-74; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 984-86; YẒN, ii pp. 351-56. 111. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 348-49. Su Sayf al-Dīn vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 74-6 e 83-6; Ando, Timuridische Emire, pp. 94-95. 112. Rubruk, p. 115; Oliver, The Chaghatā’i Mughals, p. 83; Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, p. 348: Ashbara. 113. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 249-50. 114. Balivet, Islam mystique et révolution armée, pp. 50-51. 115. Clavijo/Argote de Molina, pp. 211-13; YẒN, ii pp. 419-20. Vd. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 28 pp. 259-63. 116. YẒN, ii pp. 330-31. 117. Ibn Qāḍī Shuhbah, iv pp. 301-2; Maqrīzī/Sulūk, iii/3 pp. 1098-99; Broadbridge, Kingship and Ideology, p. 193. 118. Broadbridge, Kingship and Ideology, pp. 194-97. 119. L’arrivo dell’ambasciata nelle fonti timuridi è ampiamente documentato: NSHẒ, i pp. 374-75; YẒN, ii pp. 356-57. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 986-97. 120. Su questo motto arabo vd. Bernardini, À propos du ‘vaṭan’ timouride, p. 66. 121. NSHẒ, i pp. 275-76. 122. YẒN, ii pp. 358-59; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 988-89. 123. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 352-57. 124. Clavijo/Argote de Molina, pp. 140-41. YẒN, ii pp. 407-9 e p. 417: Sharaf al-Dīn racconta per altro che i Qara Tatar, arrivati a Damghan, si ribellarono al darugha (governatore

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capitolo xviii locale) e che conseguentemente ne furono uccisi tremila, tanto che i loro cadaveri intasavano le strade. Inseguiti sulle rive del Caspio, altri mille Tatari neri perirono a causa dei loro aguzzini timuridi. Altri furono presi come schiavi, compresi i loro capi, ridotti in catene e deportati a Samarcanda. 125. Vd. anche Bernardini, The Army of Timur, pp. 215-17. CAPITOLO XVIII 1. YẒN, ii p. 360. La versione offerta da NSHẒ, i p. 276 è decisamente piú succinta. 2. La consuetudine di fare uso di abiti azzurri, blu e viola per cerimonie funebri è stata studiata in Bağcı, İslam Toplumlarında Matemi Simgeleyen Renkler Mavi, Mor ve Siyah. 3. YẒN, ii p. 363; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 991-93. 4. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 338 pp. 473-75. Elisabetta Ragagnin mi ricorda l’uso presso i Mongoli di impedire l’impiego del tamburo di uno sciamano dopo la sua morte e in alcuni casi di seppellirlo con lui. 5. YẒN, ii pp. 360-61. 6. Come s’è già detto, Minorsky ha identificato il sito di Mingöl con quello che i Georgiani chiamano K’ola e gli Armeni Kol (Minorsky, Transcaucasica, pp. 107-1). 7. YẒN, ii p. 366. Peacock, Between Georgia, p. 56. Su K’onst’ant’ine vd. sopra, cap. x par. 8. 8. Peacock, Between Georgia, p. 63. 9. YẒN, ii p. 365. 10. Ǯavaxišvili, Txzulebani tormet’ t’omad, iii p. 214; T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, p. 180. 11. K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 307. 12. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, p. 185. 13. Su questi due personaggi vd. Ando, Timuridische Emire, p. 161. 14. YẒN, ii p. 367. 15. NSHẒ, i p. 276; può risultare curiosa la concessione di Mardin che era stata appena confermata a Malik Majd al-Dīn ‘Īsā. Shāmī però fa riferimento a una macroregione, mentre ‘Īsā governava probabilmente solo la città di Mardin. In realtà ‘Īsā governava come sovrano artuqide sulla città, ma il dominio della regione era timuride. 16. Naṭanzī, p. 169; Wing, The Jalayirids, pp. 166-67. 17. YẒN, ii p. 370; Naṭanzī, p. 169; Wing, The Jalayirids, p. 167. 18. YẒN, ii p. 370; Wing, The Jalayirids, p. 167. Sull’arrivo ad Aleppo di Sulṭān Aḥmad vd. Ibn Ṭaghrībirdī/Manhal, i p. 255. 19. Broadbridge, Kingship and Ideology, p. 197; NSHẒ, i p. 293. 20. YẒN, ii p. 371. Vd. Kartlis cxovreba, ii pp. 336, 468. 21. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, p. 164. 22. YẒN, ii p. 372. 23. NSHẒ, i pp. 279-80; YẒN, ii p. 372. Notizie analoghe si trovano in Gorgiǯaniʒe: K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 307; Kartlis cxovreba, ii pp. 337, 469. 24. NSHẒ, i, p. 280. 25. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, pp. 166-69. 26. NSHẒ, i p. 280; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 996. 27. YẒN, ii p. 373; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 996. Le edizioni manoscritte dello Ẓafarnāma di Sharaf al-Dīn e quelle dello Zubdat al-tavārīkh di Ḥāfiẓ-i Abrū introducono un nome molto deformato di Birtvisi (Kirtīn, Kirtis, Birnis, Tirtis e varianti).

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note 28. NSHẒ, i p. 281; sui qarābughrā, vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, iii par. 1440 pp. 428-29. 29. NSHẒ, i pp. 283-84. 30. I Georgiani parlano di tre settimane di assedio vd. K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 309; Kartlis cxovreba, ii pp. 338, 471. 31. Si tratta dell’emblema militare principale, una lancia all’estremità della quale era appuntata una coda di yak o di cavallo, vd. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, ii par. 969 pp. 618-22. 32. NSHẒ, i pp. 282-83; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 999-1001; YẒN, ii pp. 37678. 33. Su questo personaggio vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 115-16. 34. YẒN, ii p. 379; Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, p. 83. 35. T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, pp. 201-2. 36. YẒN, ii p. 380. 37. Vd. sopra, cap. x par. 8. 38. NSHẒ, i p. 285, colloca questo episodio al 12 rabī‘ i 806/29 settembre 1403. L’ipotesi di Kutaisi è in T’abat’aʒe, Kartveli xalxis brdzola, p. 207. 39. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 1002-3. 40. K’ak’abaʒe, Parsadan Gorgiǯaniʒis ist’oria, p. 311. 41. Ivi; Ǯavaxišvili, Txzulebani, iii pp. 220-21. 42. Le Strange, The Lands of Eastern Caliphate, p. 178. 43. YẒN, ii p. 385. 44. NSHẒ, i p. 289; YẒN, ii p. 386. Il gaz timuride, spesso associato al cubito reale, corrispondeva a 60,6 cm. Vd. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 53 p. 285. 45. YẒN, ii p. 386. 46. YẒN, ii pp. 391-92. 47. La narrazione di questi eventi è particolarmente difforme nelle fonti: NSHẒ, i p. 290, coi suoi toni succinti, parla dei successi militari di Abū Bakr limitandosi a descrivere la fuga di Qara Yūsuf e il saccheggio del suo esercito; descrive poi di seguito il restauro di Baghdad. YẒN, ii pp. 391-93, offre invece piú dettagli e precisazioni. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, non vi fa alcun riferimento. 48. Sul quale vd. sopra, cap. xviii par. 3. 49. YẒN, ii p. 394. 50. NSHẒ, i p. 290. 51. Doerfer, Türkische und mongolische Elemente, i par. 303 pp. 432-34. 52. NSHẒ, i pp. 292-93; Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii pp. 1013-14. 53. YẒN, ii pp. 396-97. Cfr. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, p. 110. 54. YẒN, ii p. 398. 55. Rabino di Borgomale, Les provinces caspiennes de la Perse, p. 409; Goto, Kār-Kiā. 56. YẒN, ii p. 402. 57. Manz, Tamerlane and the Symbolism of Sovereignity, pp. 143-44. 58. YẒN, ii p. 404. 59. Clavijo/Argote de Molina, pp. 135-38. 60. Sull’uso di questi soldati vd. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 97, e 193 n. 59 sulla popolazione Khalaj in Iran. 61. YẒN, ii p. 406. 62. YẒN, ii pp. 414-16.

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capitolo xviii 63. YẒN, ii p. 418. Su questa tomba vd. Golombek, The Chronology of Turbat-i Shaikh Jām; Mahendrarajah, The Shrine of Shaykh Aḫmad-i Jām. 64. YẒN, ii p. 419. 65. YẒN, ii p. 420. Come si è detto, il Gūr-i Amīr prenderà questo nome in seguito, dopo aver ospitato anche le spoglie di Timur. 66. Il dibattito ha dato molto peso all’episodio e in particolare al grande Quriltay del 807/1404 di cui si parlerà oltre: Andrews, The Tents of Timur; O’Kane, From Tents to Pavilions, pp. 250-53; Golombek, The Gardens of Timur. 67. L’ipotesi suggestiva e verosimile di un’imitazione del modello della tenda è stata formulata da Emel Esin in un suo articolo che ebbe un certo seguito, ma richiederebbe ancor oggi un supplemento di indagine (Esin, « al-Qubbah al-Turkiyyah »). Per quanto riguarda la tenda di Timur vd. Wilber, The Timurid Court. 68. Vd. sopra, cap. xii par. 8; YẒN, ii p. 421. 69. YẒN, ii p. 421. Sulla festa vd. sopra, cap. xviii par. 9. 70. Il riferimento è al profeta Mani considerato in Iran il paradigma del pittore perfetto. L’Arzhang è uno dei libri sacri del manicheismo che si riteneva dipinto da Mani stesso. 71. YẒN, ii p. 422. 72. Clavijo/Argote de Molina, p. 172. 73. Ivi, pp. 172-75. Sull’episodio descritto da Clavijo vd. anche Rossabi, Cheng Ho and Timur, p. 133. 74. Schiltberger, pp. 96-97. 75. Enoki, Fu An’s Mission to Central Asia, p. 222. 76. Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, pp. 72-75. 77. Okada, Dayan Khan as a Yüan Emperor, p. 54. 78. Quest’ultima osservazione deriva anche da quanto affermato da Bartol’d, Four Studies, ii 1958, p. 49, dove lo studioso russo dimostra l’assurdità di donguz khān, mentre giustifica l’uso del termine toquz. 79. Clavijo/Argote de Molina, p. 222, parla di tre figli del signore del Catay, aggiungendo che quello dei tre che aveva preso il sopravvento avrebbe richiesto il tributo a Timur, il quale però reagí promettendo agli ambasciatori di impiccarli. 80. Okada, Dayan Khan as a Yüan Emperor, p. 55; Kautz, Politik und Handel zwischen Ming und Timuriden, p. 76, quest’ultimo chiama Tayzi Oghlan Schattenkhan, ovvero colui che sarebbe dovuto essere un ‘sovrano ombra’, nei piani di Timur, in Mongolia. Sul ritorno di Tayzi Oghlan in Mongolia vd. Bartol’d, Four Studies, ii 1958, p. 50. 81. Clavijo/Argote de Molina, pp. 177-83. 82. Tāj al-Salmānī, pp. 21-22, ff. 15a-16b; YẒN, ii pp. 422-23. 83. Su quest’ultimo personaggio vd. Bartol’d, Four Studies, ii 1958, p. 137. 84. YẒN, ii p. 423. 85. Tāj al-Salmānī, pp. 22-23, ff. 23a-25a. 86. YẒN, ii p. 425; la scena è riprodotta vividamente in uno Ẓafarnāme datato 839/1436, facente parte della Keir Collection oggi nel Worcester Art Museum. 87. YẒN, ii p. 425. 88. Clavijo/Argote de Molina, pp. 183-84. 89. Ivi, p. 201. Interessante notare che si tratta delle mogli e non delle concubine di Timur, che pur descritte in vari casi dalla letteratura specialistica, non appaiono qui. Cfr. Khwāndamīr/Ḥabīb al-Siyar, iii pp. 541-42. Vd. anche Bernardini, La descendance matrilinéaire à l’époque de Tīmūr, pp. 109, 110, 113.

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note 90. Clavijo/Argote de Molina, p. 207. 91. Ivi, pp. 215-22. 92. YẒN, ii pp. 446-47. 93. Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 284-85. 94. YẒN, ii p. 454. 95. Binbaş, Intellectual Networks in Timurid Iran, pp. 175-85. 96. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, p. 100. 97. Tāj al-Salmānī, pp. 23-24, ff. 25b-27a. 98. YẒN, ii pp. 454-57. 99. Tāj al-Salmānī, pp. 25-2, ff. 29a-29b. Sul santuario si veda Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 53 pp. 284-88. 100. Ḥāfiẓ-i Abrū/Zubdat al-tavārikh, ii p. 1031; Tāj al-Salmānī, p. 26, f. 30b. 101. YẒN, ii p. 459. 102. Sui drammatici momenti che precedono la morte di Timur vd. Roemer, Tīmūr in Iran, p. 82. Ibn ‘Arabshāh è l’unico a fare esplicito riferimento all’uso di alcolici e droghe da parte dei medici per curarlo, gli altri autori sorvolano su questo tema imbarazzante, preferendo parlare di una sua infermità crescente (Ibn ‘Arabshāh/Ḥimṣī, pp. 391-94). 103. Tāj al-Salmānī, p. 28, ff. 34a-34b; YẒN, ii pp. 466-70. 104. Roemer, Tīmūr in Iran, pp. 82-83. 105. Sul quale vd. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture, i num. 29c pp. 261-63; McChesney, Four Central Asian Shrines, cap. i, Gur-i Mir: The Timurid Shrine at Samarqand 1405-2016. CAPITOLO XIX 1. Per una sintesi di questo periodo vd. Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran, pp. 15-21. 2. Fondamentale rimane l’articolo di Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography, passim. 3. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, pp. 2-4; Bernardini, Mémoire et propagande. 4. Cfr. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography. Su Sharaf al-Dīn vd. anche Binbaş, Intellectual Networks in Timurid Iran. 5. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane, pp. 133-34. 6. Su quest’ultima parte della dinastia vd. Subtenly, Timurids in Transition. 7. Subtenly, Timurids in Transition, pp. 11-42. 8. Bausani, Problems of Periodization in Islamic Cultural History, p. 207. 9. Sayili, The Observatory in Islam, pp. 219-305. 10. Si veda la figura di ‘Abd al-Razzāq Samarqandī, che pur non introducendo particolari novità fece della sua narrazione una specie di anello di congiunzione con la storia successiva, vd. ‘Abd al-Razzāq/Navā’ī; Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran, pp. 56-63. 11. Su queste due fonti vd. Quinn, The Timurid Historiographical Legacy, pp. 20-31. 12. Su queste due opere vd. Bernardini, Il ‘Timurnāme’ di Hātefi e lo ‘Šāhnāme-ye Esmā’il’ di Qāsemi; e Id., Hātifī’s ‘Tīmūrnāmeh’ and Qāsimī’s ‘Shāhnāmeh-yi Ismā‘īl’. 13. Murtażavī, Masā’il-i ‘asr-i Īlkhānān, pp. 547-89. 14. Szuppe, L’évolution de l’image de Timour, pp. 316-19. 15. Horst, Tîmûr und Ḫoǧä ‘Alî. Ein Beitrag zur Geschichte der Safawiden; Mazzaoui, The Origins of the Ṣafawids, p. 54 e n. 4. 16. Szuppe, L’évolution de l’image de Timour, p. 320.

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capitolo xix 17. Horst, Tîmûr und Ḫoǧä ‘Alî, pp. 32-37; Szuppe, L’évolution de l’image de Timour, pp. 323-24. 18. Szuppe, L’évolution de l’image de Timour, pp. 324-25. 19. Su questa fonte si veda Noelle-Karimi, “I Was There Myself”, pp. 283-98. 20. ‘Ālamārā-yi Nādirī, i ff. 11b-12a. 21. Su questo passaggio vd. Bernardini, Alexandre-Tamerlan à l’époque de Karlowitz. 22. Bābur/Beveridge, ed. ingl., pp. 352-53. 23. Ivi, p. 520. 24. ‘Allāmi, pp. 72-86. 25. Habib, Timur in Political Tradition and Historiography of Mughal India, pp. 306-7. 26. von Kügelgen, Zur Authentizität des “Ich”. 27. Tuzūkāt/Davy e Tuzūkāt/Langlès. 28. Bouvat, L’empire mongol. 29. Temur Tuzuklari, p. 250. 30. Alfieri, I ritratti di Timur nella miniatura moghul. 31. Tursun Beg, pp. 167-68. 32. Ivi, p. 170. 33. Sa‘d al-Dīn, ii p. 101. 34. Ivi, i pp. 246-92. 35. Sa‘d al-Dīn/Bratutti. 36. Ivi, p. 230; cfr. Sa‘d al-Dīn, i p. 292. Si può qui segnalare il duro giudizio su Bratutti di Alessio Bombaci, il quale parlando dell’opera di Sa‘d al-Dīn afferma che « fu malamente tradotta da V. Bratutti da Ragusa » (Bombaci, La letteratura turca, p. 391). 37. Sela, The Legendary Biographies of Tamerlane, p. 12. 38. Ivi. 39. Vambéry, Eine legendäre Geschichte Timurs, pp. 222-32. 40. Sela, The Legendary Biographies of Tamerlane, pp. 5-7. 41. Ivi, pp. 98-103. 42. Temurnoma. 43. Un’ottima sintesi sulla storia della famiglia è in Lemny, Les Cantemir, pp. 29-103. 44. Minuti, Oriente barbarico e storiografia settecentesca, p. 103. 45. Cantemir/History (1734). Una versione francese apparve nel 1743; una tedesca nel 1748; una latina è stata pubblicata in Romania nel 2000. 46. Ivi, p. 333. 47. Si potrà qui segnalare lo sdegno di Hammer-Purgstall, Storia dell’Impero osmano, i pp. xxviii-xxix, quando affermava: « E chi crederebbe che Cantemiro, e Pétis de la Croix, che finora passano pei migliori autori europei di storia osmana, non abbiano considerato nelle loro opere che il solo Calcondila, per nulla servendosi degli altri storici bizantini contemporanei? Chi crederebbe che il primo nulla abbia saputo dell’assedio di Costantinopoli fatto da Murad II, e che all’ultimo sia ignota la conquista di Tessalonica per opera dello stesso sultano, quando Duca, Franza, Calcondila stesso ne parlano, quando i bizantini Giovanni Canano, e Anagnosta hanno lasciato delle opere particolari su quell’assedio, e su questa conquista? Chi crederebbe che Cantemiro e Pétis de la Croix, quantunque orientalisti ambedue, mozzino i veri nomi orientali in modo tale da non renderli piú riconoscibili, e che particolarmente il primo abbia accumulato tale informe e confuso ammasso di filologici errori, che chiaramente manifesta la piú grande mancanza di fondate cognizioni dell’arabo, del persiano e del turco? ». 48. Voltaire/Histoire de Charles XII, p. 195.

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note 49. Lemny, Les Cantemir, p. 33; cfr. anche Bernardini, Alexandre-Tamerlan à l’époque de Karlowitz. 50. Cantemir/History, p. 53 e n. 18. 51. Hammer-Purgstall, Sur l’histoire ottomane du Prince Cantemir, p. 38. 52. Cantemir/History, p. 54 e n. 22. 53. Traggo la citazione di Galland e di Lāmi‘ī Çelebī da Marzolph, Timur’s Humorous Antagonist, p. 486, che offre una disamina sistematica di tutto un ampio repertorio di storie legate a questi personaggi. La famiglia di Lāmi‘ī Çelebī risulta un interessante esempio di come la tradizione culturale timuride sia transitata in quella ottomana: il nonno Naqqāsh ‘Alī, “Alī il pittore”, era stato deportato al tempo di Timur a Samarcanda e in seguito ritornò a Bursa dove la sua famiglia giocò un ruolo importante nella nascita dell’arte ottomana. Cfr. Bernardini, Ottoman “Timuridism”, pp. 4-5. 54. Silvestre de Sacy, Mémoire sur une correspondance inédite. 55. Meaux, La Russie et la tentation de l’Orient, p. 110. 56. Charmoy, (Tamerlan) contre Toqtamiche. 57. Il dipinto di Chlebowski è oggi conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte di Lviv in Ucraina. Vd. anche Hammer-Purgstall, Storia dell’Impero osmano, e sopra, cap. xvi par. 1. 58. Vd. a questo riguardo Bregel, Barthold and Modern Oriental Studies, p. 387. 59. Ivi, p. 399 n. 26. 60. Ivi, pp. 395-96. 61. Vd. per es. Bartol’d, Narodnoe dviženie v Samarkande v 1365 g. 62. A titolo di es., Bartol’d, Očerk istorii Semireč’ja, che è stato usato per questo volume. 63. Bregel, Barthold and Modern Oriental Studies, p. 391. 64. Fourniau, Transformations soviétiques et mémoires en Asie centrale, p. 21. 65. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, p. 17. 66. Sela, The Legendary Biographies of Tamerlane, p. 13; Allworth, The Modern Uzbeks, pp. 242-48. 67. Muminov, Rol’ i mesto Amira Timura v istorii srednej Azii; vd. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, p. 19. 68. Muminov, Amir Temurning Orta Osyo tarixida tutgan orni va roli; Fourniau, Transformations soviétiques et mémoires en Asie centrale, p. 171. 69. Jakubovskij, Timur (Opyt kratkoi charakteristiki), pp. 53-62. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, pp. 18-19, segnala anche le critiche rivolte a Jakubovskij, che per altro era stato allievo di Bartol’d, in particolare da parte di Anatoli Petrovič Novosel’cev. Anche quest’ultimo riprese nel 1968, sulla rivista « Voprosy istorii » la questione, denigrando nuovamente Timur, ma con varie aperture soprattutto destinate agli aspetti culturali della civiltà timuride (Novosel’cev, Ob istoričeskoj ocenke Temura). 70. Gathmann-Vogman, The Great Fergana Canal; Kleiman, Fergana Canal and Tamburlaine’s Tower; Pavlenko-Eisenstein, The Great Fergana Canal. 71. Fourniau, Transformations soviétiques et mémoires en Asie centrale, pp. 222-67. 72. Ivi, pp. 193-200. 73. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses, p. 21. 74. Su queste celebrazioni e la loro preparazione vd. Pollock, Historiography, Ethnogenesis and Scholarly Origins of Uzbekistan’s National Hero. 75. Kehren, Tamerlan. L’empire du seigneur de fer. 76. Ivi, fig. 15. 77. Bernardini, Recent works on Timur, pp. 273-80.

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capitolo xx 78. Shterenshis, Tamerlane and the Jews, p. 48. 79. Ivi, pp. 114-16; vd. Bernardini, Recent works on Timur. 80. March, The Use and Abuse of History. 81. Il processo di trasformazione coinvolge diverse nazioni dell’Asia Centrale. Molti saggi sono dedicati in questi ultimi anni a questi mutamenti: segnalo qui Burghart - SabonisHelf, Central Asia in the Era of Sovereignty. CAPITOLO XX 1. Schiltberger/Ulm; cfr. Schiltberger/Halkuyt, p. x. 2. Polo/Livre des Merveilles, pp. 5-6. Il maresciallo Boucicaut morirà nel 1421, dopo aver subito l’ennesima sconfitta nella battaglia di Azincourt contro gli Inglesi (1415); Lalande, Jean II Le Maingre, pp. 169-70. 3. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese; Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia. 4. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, p. 279. 5. Ivi, p. 289. 6. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese, pp. 219-20; Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, pp. 291-94. 7. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese, pp. 220-22; Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, pp. 294-96. 8. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese, pp. 222-23. 9. Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la Curia, p. 299; il riferimento è a Bracciolini/ Merisalo. 10. Sugli affreschi e la loro storia vd. Amberger, Giordano Orsinis uomini famosi in Rom: per la storia degli affreschi e dei codici miniati, passim; su Poggio Bracciolini, p. 268. Vd. anche Piemontese, La Persia istoriata in Roma, pp. 140-43; Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », p. 730; Mode, The Orsini Sala Theatri at Monte Giordano. 11. Scrive Filarete a proposito di essa nell’affresco: « E la sesta età a simile modo le fe’ figurare, come l’altre di sopra erano; e appresso gli stava Cristo, incarnato della Vergine, cioè la sua natività; e per lo piú teneva il Tambrulano, il quale è l’ultimo di questa sesta età innella quale siamo noi al presente » (Filarete/Trattato, i p. 263). 12. Amberger, Giordano Orsinis uomini famosi in Rom, p. 311 fig. 39. 13. Ivi, p. 323 fig. 60. 14. Ivi, p. 330 fig. 146. 15. Ivi, p. 336 fig. 193. 16. Redusi da Quero, coll. 802-4; Bernardini, Tamerlano, i Genovesi e il favoloso Axalla, pp. 395-98. 17. Amberger, Giordano Orsinis uomini famosi in Rom, p. 278. 18. Paribeni, Una testimonianza iconografica della Battaglia di Ankara; Baskins, The Bride of Trebizond, pp. 83-86; Piemontese, La représentation de Uzun Hasan. 19. Piemontese, Beltramo Mignanelli senese, pp. 218-19. 20. Bellingeri, Motivi persiani, e azerí, pp. 29-30. 21. Pio II/Discrittione de l’Asia, ff. 53v-54r. 22. Redusi da Quero, pp. 802-4. Vd. sopra, cap. x par. 6. 23. Pio II/Discrittione de l’Asia, f. 54v. 24. Ivi, ff. 54v-55r.

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note 25. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento. 26. Fregoso/Memorabilia, ff. 71v, 104v, 137r. 27. Voegelin, Machiavelli’s ‘Prince’, pp. 148-50. 28. Ivi, pp. 159-61. 29. Machiavelli/Castruccio Castracani, pp. 280-81. 30. Voegelin, Machiavelli’s ‘Prince’, p. 168. 31. Coccio Sabellico/Enneades, pp. 630-32. Vd. Cerbo, Il Tamerlano negli ‘Elogia’ di Paolo Giovio, pp. 230-31 n. 10. 32. Guazzo/Huomini illustri, ff. 285v-286r. 33. Cambini/Origine de Turchi, ff. 4r-7r. 34. Una recente tesi dottorale offre numerosi spunti di riflessione sugli Elogia: Pittui, Ritratti di Turchi (1400-1500). 35. Giovio/Elogia, ii 15, Sub effigie Tamerlanis, Scytharum Imperatoris (1336-1402). 36. Bellingeri, Motivi persiani, e azerí, p. 33; Falchetta, Fra Mauro’s World Map, ad vocem. 37. Giovio/Elogi degli uomini illustri, pp. 574-79. 38. Su tutta la vicenda di Cristofano dell’Altissimo, e soprattutto delle sue pitture per Cosimo de’ Medici, vd. Pittui, Ritratti di Turchi (1400-1500), pp. 428-31. 39. Totti, p. 51. Ringrazio la dottoressa Irene Cazzato, che lavora attualmente sul ritratto di Tamerlano a Corigliano d’Otranto, per l’informazione fornitami. 40. D’Urso-Avantaggiato, Il castello di Corigliano d’Otranto, p. 173. 41. Perondino/Magni Tamerlanis. 42. Borrelli, ‘La Vita del Tamburlano’. 43. Clavijo/Argote de Molina. 44. Mexía/Silva. Circa le traduzioni della Silva de varia lección, si segnalano quella tedesca, pubblicata a Basilea del 1564; quella italiana del 1564 (di Francesco Sansovino); quella francese (di Claude Grujet) del 1570; quella inglese (di Thomas Fortescue), tratta dalla versione francese, del 1571. 45. Sánchez García, « Saber a Bulto lo que passó », p. 265. 46. Ivi, p. 268. 47. Mexía/Silva, i pp. 699-709. 48. Figueroa/Comentarios, pp. 394-417: Vida de Tamerlan. 49. Fortescue/The Foreste. 50. Marlowe/Tamburlaine. 51. Vd. Izard, The Principal Source for Marlowe’s ‘Tamburlaine’; e Antonio Castro nella sua edizione Mexía/Silva, p. 699 n. 1. 52. Questa traduzione italiana è tratta da Marlowe/Tamerlano, pp. 167-68. 53. Per la parte relativa a Tamburlaine vd. Knolles/Historie, pp. 218-28. 54. du Bec, p. 2 e passim. Le storie di du Bec e di un suo emulo piú tardo, il Sieur de Sainctyon, autore di un’altra Histoire du Gran Tamerlan pubblicata nel 1678, ebbero molto successo, ristampe e traduzioni. Ma vi furono critiche aspre, come quelle di Pierre Bergeron che dirà essere Alhacen inesistente, lamentando inoltre l’assenza di una traduzione di Ibn ‘Arabshāh (Bergeron, Traité des Tartares, i p. 83), e lo stesso farà il gesuita Margat de Tilly nel XVIII secolo (Margat de Tilly, Histoire de Tamerlan, pp. xi-xiii). Vd. in proposito Minuti, Oriente barbarico e storiografia settecentesca, p. 48 n. 60). 55. Sulla figura di Axalla vd. Bernardini, Tamerlano, i Genovesi, pp. 411-18. 56. Astington, The “Unrecorded Portrait” of Edward Alleyn. Circa un’illustrazione del Tamerlano di Marlowe, in un’edizione del 1593, e un’illustrazione tedesca con Tamerlano in

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capitolo xx armatura occidentale, apparsa in una xilografia del 1493, vd. Milwright, So Despicable a Vessel, pp. 321-22 figg. 1-2. 57. Serwouters/Den grooten Tamerlan; Degenhart, Tamerlan, pp. 260-61. 58. Saunders/Tamerlane the Great; Degenhart, Tamerlan, pp. 262-63. 59. Fane/The Sacrifice; Degenhart, Tamerlan, pp. 265-66. 60. Degenhart, Tamerlan, pp. 266-67. 61. Clark, The Source and Characterization of Nicholas Rowe’s ‘Tamerlane’. 62. Vélez de Guevara. 63. Vélez de Guevara [Lope de Vega]. 64. Vd. l’introduzione a Magnon/Tamerlan et Bajazet, pp. 11 e sgg. 65. Pradon/Tamerlan; Bussom, A Rival of Racine: Pradon, p. 112. 66. Bussom, A Rival of Racine: Pradon, pp. 110-11; Bernardini, Tamerlano, protagonista orientale del Settecento europeo, pp. 239-40. 67. Bussom, A rival of Racine: Pradon, pp. 113-18. 68. Corradi/Il Gran Tamerlano. 69. Salvi/Il Gran Tamerlano, Nota al lettore, ff. 146r-v; sulla trama di questi drammi per musica vd. Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », pp. 747-48. 70. Piovene/Tamerlano. 71. Ivi, ff. 3r-3v. Vd. Bernardini, « Tamerlano e Bāyazīd in gabbia », pp. 748-49. 72. De Fiori/Il Bajazette in gabbia, ff. 5r-5v. 73. Ivi, p. 21. 74. Scarlatti-Stampiglia. 75. Händel-Haym; Wolff, The Singing Turk, pp. 13-15. 76. Wolff, The Singing Turk, pp. 13-50. 77. Ivi, p. 21. Sulla percezione di Tamerlano in questo periodo vd. anche, Bernardini, Alexandre-Tamerlan à l’époque de Karlowitz. 78. Piemontese, Bibliografia italiana dell’Iran, ii numm. 6383-98; Wolff, The Singing Turk, p. 48. 79. Strohm, Vivaldi Career as an Opera Producer, pp. 57-58. 80. Muraro-Povoledo, Le scene della ‘Fida Ninfa’, pp. 244-51. 81. Oltre ai casi già menzionati vd. Milwright, So Despicable a Vessel. 82. Ivanoff, Celesti, Andrea, p. 386. 83. Briant, Alexandre des Lumières, vd. in partic. pp. 241, 273, 276 (Voltaire); 271 (Simon-Nicolas-Henri Linguet); p. 304 (Jean-François Melon). Cfr. Bernardini, Alexandre-Tamerlan à l’époque de Karlowitz. 84. Yazdī/Pétis de la Croix, pp. xviii-xx. 85. Ibn ‘Arabshāh/Golius. 86. Su Bergeron vd. Chochoy, De Tamerlan à Gengis Khan, passim. 87. Ibn ‘Arabshāh/Vattier, Préface, p. iv. Quest’ultima opera è stata oggetto di un’attenta riflessione da parte di Rolando Minuti che ne sottolineava la natura ambivalente con un’oscillazione nel giudizio sulla personalità di Tamerlano tra i tratti nobili delle sue imprese e quelli piú deprecabili (Minuti, Oriente barbarico, pp. 24-28). 88. Minuti, Oriente barbarico. La recentissima pubblicazione del lavoro di Chochoy, De Tamerlan à Gengis Khan, continua questo filone di ricerche; ho purtroppo ricevuto questo volume alla fine della stesura del mio e posso solo limitarmi a un accenno. 89. Voltaire/Esprit des mœurs. 90. de Guignes/Histoire des Huns.

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note 91. Voltaire/Esprit des mœurs 1785, i p. 421. 92. Ivi; Bernardini, Tamerlano, protagonista orientale del Settecento europeo, p. 243. 93. Briant, Alexandre des Lumières, p. 241. 94. Bernardini, Tamerlano, protagonista orientale del Settecento europeo, p. 243. 95. Minuti, Aspetti della presenza di Tamerlano, p. 310. 96. Minuti, Oriente barbarico, p. 102. 97. de Guignes/Histoire des Huns, i p. v. 98. Vd. Chochoy, De Tamerlan à Gengis Khan, pp. 178-202. 99. Minuti, Oriente barbarico e storiografia settecentesca, pp. 141-42. 100. Bevilacqua, La biblioteca orientale, pp. 44-73. 101. d’Herbelot/Bibliothèque, pp. 872-82. 102. Ivi, p. 872; Bevilacqua, La biblioteca orientale, p. 125. 103. de Guignes/Histoire des Huns, iii pp. 309-36. 104. Ivi, iii pp. 356-73. 105. Ivi, v p. 5-73. 106. Grousset, L’empire des steppes. 107. Romanelli/Tamerlano. 108. Poe/Tamerlane; Staples Shockley, ‘Timour the Tartar’; Niblack Baxter, Thomas Moore Influence. 109. Moody, Illegitimate Theatre, p. 99. 110. Goethe/West-östlicher Divan, pp. 123-27. 111. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, p. 42. 112. Quatremère, Notice de l’ouvrage; ‘Abd al-Razzāq/Quatremère. 113. J. Dumoret, Relation de la conduite de Tamerlan, pp. 391-96. 114. Bābur/Beveridge; una seconda edizione, realizzata da Eiji Mano e pubblicata in due volumi tra il 1995 e il 1996, ha di recente rimesso in discussione quel lavoro con una altrettanto monumentale ricerca (Bābur/Mano). 115. Ghiyāth al-Dīn/Zimin. Dell’opera di Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī è uscita nel 2000 una nuova edizione di Iraj Afshār, e nel 2009 una traduzione italiana da parte di M. Bernardini (Ghiyāth al-Dīn/Afshār; Ghiyāth al-Dīn/Bernardini). 116. NSHẒ, i. 117. NSHẒ, ii. 118. YẒN e YẒNU, L’opera di Sharaf al-Dīn è stata parzialmente tradotta in inglese da Thackston, A Century of Princes, pp. 63-100. 119. Ghiyāth al-Dīn/Semenov. 120. Bouvat, Essai sur la civilisation timouride. 121. Unica eccezione l’articolo di Roloff, Die Schlacht bei Angora (1402), che apparve contemporaneamente Alexandrescu-Dersca, La campagne de Timur en Anatolie. 122. Lamb, Tamerlane. 123. Aubin, L’ethnogenèse des Qaraunas; Id., Le Khanat Čaġatai et le Khorāsān. 124. Aubin, Tamerlan à Baġdād; Id., Comment Tamerlan prenait les villes; Id., La fin de l’état Sarbadâr du Khorassan. 125. Aubin, Études sur l’Iran médiéval. 126. Woods, The Rise of Tīmūrid Historiography. 127. Woods, Timur Genealogy; Id., Turco-Iranica ii. 128. Woods, The Aqquyunlu. 129. Manz, The Rise and Rule of Tamerlane.

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capitolo xx 130. Manz, Power, Politics and Religion in Timurid Iran. 131. Manz, Tamerlane’s Career and Its Uses. 132. Golombek-Wilber, The Timurid Architecture. 133. Lentz-Lowry, Timur and the Princely Vision. 134. Ure, The Trial of Tamerlane. 135. Małowist, Tamerlan i jego czasy. 136. Adravanti, Tamerlano. La stirpe del Gran Mogol. 137. Marozzi, Tamerlane. Sword of Islam. 138. Brion, Tamerlan. 139. Cardini, Samarcanda. 140. Cardini, Il signore della paura. 141. Roux, Tamerlan. Si vd. anche una recentissima pubblicazione di ampio respiro ma di buon tenore scientifico: Papas e Toutant, L’Asie centralre de Tamerlan. 142. Borges, L’oro delle tigri. 143. de Obaldia, Tamerlan des cœurs. 144. de Fouchécour, Moralia, pp. 445-47.

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G LOS SARIO Abjad: ar. ‘abbicí’, metodo di lettura dell’alfabeto arabo per il quale si attribuisce alle lettere un valore numerico. Altan uruq: tur. mong. ‘il clan d’oro’, la cerchia famigliare ristretta di Chinggis Khān. Amān: ar. ‘sicurezza’, termine col quale si indicava il riscatto (māl-i amān, ‘il prezzo del riscatto’). Amīr: ar. ‘emiro’, ‘comandante’, titolo nobiliare attribuito a regnanti indipendenti o di regioni di ridotta e media entità (fu uno dei titoli che Timur impiegò per sé stesso). Indica anche dei comandanti militari. ‘Arrāda: pers. ‘onagro’, balista, arma d’assedio. ‘Aṣabiyya: ar. ‘coesione sociale’, termine che indica, stando a Ibn Khaldūn, una forma fondamentale di coalescenza per la formazione di stati e strutture sociali. Atabeg: tur. ‘tutore’, titolo che veniva adottato dai capi turcomanni e che divenne un attributo nobiliare nel corso del Medioevo. A‘yān: ar. ‘notabile’, titolo arabo attribuito a notabili urbani in particolare a Baghdad. Aznaur: (georg. aznāvur), titolo nobiliare georgiano. Bāgh: pers. ‘giardino’, con questo termine vengono designati i numerosi parchi e giardini fatti costruire da Timur attorno a Samarcanda. Baranghar: mong. ‘ala destra’ dell’esercito. Baṣīra: ar. ‘Visione profonda’, termine coranico che indicava una percezione esoterica del dettato divino. Bāvurchī: mong. ‘cuoco’, importante carica nell’ambito della corte mongola e di quella timuride. Beg: tur. ‘Signore’ (anche bey), titolo molto diffuso nel mondo turco e centrasiatico. Beylik: tur. ‘Signoria’, nome attribuito agli emirati anatolici del XIV-XV secc. Bīdīnān: pers. ‘infedeli’. Bilan: tur. ‘antilope saiga’, tipo di antilope presente nelle steppe centroasiatiche. Bitikchi: tur. ‘scriba’ (vd. anche munshī, ar. ‘segretario’). Butparast (pl. butparstān): pers. ‘idolatra’, lett. adoratori degli idoli, termine profondamente dispregiativo nelle fonti persiane impiegato spesso contro i non monoteisti e talvolta anche contro i cristiani e gli sciiti. Çelebī: vd. kirishjī. Chaghdavul: mong. ‘retroguardia’ dell’esercito. Chākhūrig: tur. ‘minatore’.

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glossario Chītāgh: tur. ‘partigiano’, termine usato per indicare coloro che si ribellavano, per estensione ha il significato di ‘villano’, ‘uomo nascosto nelle montagne’. Dajjāl: ar., termine spesso tradotto come ‘Anticristo’, ha spesso un significato apocalittico molto simile all’equivalente occidentale. Darugha: mong. ‘governatore’, carica mongola impiegata largamente dai Timuridi per definire i funzionari preposti al controllo delle città conquistate. Dawla, dawla: ar. ‘regno’, ‘stato’. Dīnār: ar. ‘moneta aurea’, ‘denario’; al tempo di Timur era stato adottato il dīnār kebeki, ‘dīnār di Kebek’, sovrano ciagataico artefice di un’importante riforma monetaria. Dirham: ar. ‘dracma’, moneta argentea in uso in particolare in Persia e Mesopotamia. Dīvān: pers. ‘Cancelleria di corte’/‘Ufficio del governo’, questo termine indicava un direttorio politico (ma poteva anche coprire altri significati: ad es. in letteratura un ‘canzoniere’); dīvānkhāna, ‘sede del governo’. Dushākha: pers. ‘doppio ramo’, gogna costituita da due rami intrecciati nei quali venivano legate le mani. Fanā: ar. ‘annientamento’, pratica religiosa sufi che prevede l’assoluta sottomissione a Dio, fino appunto all’ ‘annientamento’. Fatḥnāma: ar.-pers.,‘editti di vittoria’, proclami spesso inviati ai sovrani del tempo. Fidā’ī: ar. ‘uno che rischia volontariamente’, soldato disposto a imprese particolarmente pericolose, fanatico, estremista. Fitna: ar. ‘sobillazione’, ‘sedizione’, termine usato per indicare delle rivolte (vd. anche yāghīgarī). Futuwwa: ar. ‘gioventú’, principio filosofico ed etico promosso dalla dottrina sufi della nobiltà d’animo (vd. anche Muruwwa). Gabr: pers. ‘ghebro’, ‘zoroastriano’, per estensione infedele, termine usato anche per altri “idolatri” all’epoca di Timur. Geer: mong. ‘tenda’, vd. Yurt. Gejighe: mong. ‘retrovie’. Ghajarji: mong. ‘guida’, nome delle guide locali adottate da Timur nelle campagne militari. Ghazā: ar. ‘razzia’, termine usato per indicare le campagne contro gli infedeli con le conseguenti devastazioni e razzie. Ghāzī: ar. ‘guerriero per la fede’, protagonista della ghazā. Ghulām: ar. ‘paggio’, ‘schiavo’, termine anche usato per indicare degli schiavi militari o vassalli. Gūrkān: tur. ‘Sovrano universale’, titolo dei Qara Khitai poi ripreso in epoca timuride. Ḥakīm (pl. Ḥukkām): ar. ‘Governatore’. Ḥamāsasarāyī: pers. ‘letteratura epica’.

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glossario Hazāra: pers. ‘migliaia’, ‘chiliarchia’ (tur. miñlik/biñlik), unità militare di 1000 elementi, ‘migliaia’. Hunarvar: pers. ‘artista’, figure citate spesso nelle fonti dato che venivano deportati a Samarcanda da Timur durante le sue conquiste. Hurufismo: da Ḥurūf (ar. ‘lettere’) dottrina di tipo cabalistico-esoterico predicata dalla fine del XIV secolo. ‘Ifrīt: ar. ‘genio maligno’, demone al quale venivano accostati i soldati timuridi (vd. anche jinn). Injü: mong. ‘latifondo’, ‘concessione territoriale’, termine col quale viene anche definita una dinastia sorta in Iran (Injüidi). Iqṭā‘: ar. ‘frazionamento’, termine impiegato per definire l’assegnazione di una porzione territoriale secondo un sistema ampiamente praticato in epoca califfale. Istikhāra: ar. ‘divinazione’ facendo uso del Corano. Īvān: pers. ‘arco monumentale’, portale dei principali edifici persiani e centroasiatici. Jarga: mong. ‘cerchio di caccia’, sistema col quale i soldati timuridi compivano grandi battute di caccia con accerchiamenti concentrici delle prede. Jarrāsūn: ar., termine di difficile etimologia che indica corpi speciali dell’esercito timuride. Javanghar: mong. ‘ala sinistra’ dell’esercito. Jete: mong. ‘predone’ (chätä), termine con il quale erano descritti i successori dei khān ciaghataici nel Moghulistan. Jihād: ar. ‘sforzo’, termine impiegato anche per definire l’attività bellica contro gli infedeli. Jinn: ar. ‘demone’, figura demoniaca che può cambiare fattezze, spesso i Timuridi vengono associati a dei jinn (vd. anche ‘ifrīt). Jjizīya: ar. ‘capitazione’, tassazione particolare destinata ai non musulmani per poter conservare il proprio culto ed esercitare le proprie professioni. Julkā: pers. mong. ‘piana’, ‘prateria’, distesa’ (mong. jölgä). Kāfir: ar. ‘infedele’, termine che indica i non musulmani e in alcuni casi definisce anche delle popolazioni (vd. Siyāhpūshān). Kalāntar: pers. ‘maggiorente’, titolo spesso utilizzato per indicare dei governatori locali. Keshig: mong. ‘guardia’, corpo di élite che costituiva la guardia personale di Chinggis Khān. Khān: tur. mong. ‘sovrano’ (Qa‘an), titolo molto in uso soprattutto tra i signori di stirpe mongola. Khandaq: ar. ‘fossato’, ‘trincea’. Khānqāh: pers. ‘ricovero per i sufi’. Khānzāda: tur. pers. ‘principe/principessa reale’ titolo reso celebre da una delle nuore di Timur.

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glossario Kharāj: ar. ‘imposta fondiaria’ sulle popolazioni sottomesse dai conquistatori musulmani. Khargāh: pers. ‘tenda residenziale’. Khuṭba: ar. ‘sermone’, momento della preghiera collettiva, aveva insieme al conio delle monete un’importanza particolare per la legittimazione dei sovrani. Khwāja: pers. ‘signorotto’, titolo attribuito a eminenze urbane, ricchi mercanti e signori locali. Kīmkhā: sino-persiano ‘cammocato’ (cin. Gimhua), tessuto pregiato di seta. Kirishjī: (ibrido greco-turco) ‘giovane uomo’ (gr. kyritzes o krytzes), titolo che venne attribuito al sultano ottomano Meḥemmed I. Il titolo corrisponde al turco çelebī. Küregen: mong. ‘genero’, titolo nobiliare che legittimava Timur al potere politico in virtú dei suoi matrimoni con principesse mongole. Kuriltai: mong. ‘assemblea generale’ timuride. Kutvāl: tur. ‘castellano’, titolo di signori minori di Persia e Anatolia. Lak: hind. ‘100.000 unità’, unità di misura indicata per le monete e i capi di bestiame. Majlis-i humāyūn: ar. pers. ‘consiglio imperiale’, assemblea dei principali membri della nobiltà timuride. Māl-i amān: vd. Amān. Maljūr: mong. ‘luogo di raccolta dell’esercito’ (anche boljär, baljūr e varianti), oppure una piattaforma disposta davanti alle fortificazioni per permettere un assalto durante gli assedi. Mamlūk (pl. mamālik): ar. ‘schiavo’, ‘pretoriano’, termine col quale erano indicati gli schiavi militari (vd. anche ghulām). Manjanīq: pers. ‘mangano’, ‘trabucco’, macchina da assedio simile alla catapulta; manjanīq-i gardān, ‘trabucco girevole’. Manqalai: mong. ‘avanguardia’, corpo in azione nella prima linea del fronte. Mashriq: ar. ‘Oriente’, termine con il quale si definisce l’Asia musulmana, in contrapposizione col Maghrib, l’ ‘Occidente’ (il Nord Africa). Ma’ wara’ al-nahr: ar. ‘Oltrefiume’, nome arabo della Transoxiana. Mawlānā: ar. ‘Nostro signore’, titolo attribuito a capi di confraternite e autorità religiose. Miḥrāb: ar. ‘segnacolo’, nicchia destinata a indicare la direzione della preghiera (qibla). Minbar: ar. ‘pulpito’, podio dal quale l’imam enuncia il suo sermone durante la preghiera. Miñlik/biñlik: vd. Hazāra. Mīr-i dīvān: pers. ministro dell’ufficio dell’esazione. Moghulistan: pers. ‘Terra dei Mongoli’, nome attribuito allo stato ciagataico orientale nel XIV secolo.

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glossario Muchlukā: mong. ‘provvedimento giuridico’, misura speciale adottata in circostanze particolari. Muftī: ar. ‘giurisperito’, autorità religiosa. Muhrdār: pers. ‘portasigilli’, titolo di un funzionario di rango. Mulūk al-ṭawā’if: ar. ‘regni delle fazioni’, espressione con la quale si definivano i regni frammentati in Asia centrale durante il XIV secolo. Munqala: vd. manqalai. Munsha’ āt/Münşe’āt: ar. tur. ‘epistolari’, raccolta di corrispondenze. Munshī: ar. ‘segretario’ (vd. anche bitikchi, tur. ‘Scriba’). Muruwwa: ar. ‘virilità’, principio filosofico ed etico promosso dalla dottrina sufi della nobiltà d’animo (vd. anche Futuwwa). Muta‘īn: ar. ‘osservatore’, titolo locale di piccoli signori anatolici. Nafṭandāzān: pers. ‘lanciatori di petrolio’, elementi militari adibiti al fuoco greco, o al lancio di bombe incendiarie. Naqabchī: ar. tur. ‘scavatori di gallerie’, elemento fondamentale del genio durante gli assedi. Navvāb: pers. ‘nababbo’, sovrano, signore locale. Nāyib: ar. ‘luogotenente’. Nithār: ar. ‘spargimento di preziosi’, forma di elargizione al popolo durante importanti cerimonie. Nowkar: mong. ‘suddito’, termine con cui si indicavano alcuni vassalli. Noyan/noyon: mong. ‘principe’, ‘comandante’, titolo aristocratico di largo uso. Orda/ordo: mong. ‘accampamento reale’, il termine passò a indicare l’intero esercito (vd. it. ‘orda’). Ötchigin: mong. ‘figlio minore’, pratica che prevedeva che l’ultimo nato era il legittimo discendente al trono. Pāshāzāda: pers. ‘principe regnante’. Pīshavar: pers. ‘artigiano’, individui spesso deportati dopo le conquiste da Tamerlano a Samarcanda. Qafes: ar. ‘gabbia’, termine oggetto di una grande discussione interpretativa a proposito della prigionia di Bāyazīd. Per alcuni fu una gabbia per altri una letti­ga. Qara: tur. ‘nero’, indicazione cromatica spesso impiegata anche per definire la collocazione geografica di alcune dinastie bipartite (si tratta degli “occidentali”) o anche la natura etnica (vd. Qarawna). Qarābughrā: tur. gabbioni per contenere delle pietre predisposti per il lancio nelle linee nemiche. Il termine significa letteralmente ‘cammello nero’. Qarawul: mong. tur. ‘avanguardia’. Qarawna: tur. ‘nerastri’, termine con il quale viene definita una popolazione che visse nel Khorasan e nel Sistan tra XIII e XIV secolo (in Marco Polo: Scherani, Carans/Charaunas/Caraonas).

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glossario Qawchin: mong. ‘anziano’, titolo onorifico attribuito ad alcuni comandanti militari o funzionari; anche ‘guarnigione’, ‘elementi del corpo della guardia’. Qawm: ar., ‘razza’, ‘popolo’, ‘stirpe’. Qishlāq: tur. ‘accampamento invernale’. Qul: tur. ‘centro’, ‘nucleo’, ‘cuore’ (mong. qol), centro dell’esercito. Qulavuz: tur. ‘guida’, nome delle guide locali adottate da Timur nelle campagne militari. Qumbul: mong. ‘ala’, ‘protezione laterale’, ala laterale dell’esercito. Qūriyā: mong. ‘capanna’, costruzione estemporanea, casupola. Qushun: mong. ‘truppa’, ‘corpo’ dell’esercito. Ra‘dandazān: pers. ‘artiglieri’, ‘moschettieri’, lett. ‘scagliatuoni’ (riferimento non chiarissimo all’uso di armi da fuoco). Raja: hind. (pers. rāy, rāyā, rāw), titolo adottato da sovrani locali indiani (ragià). Ribāṭ: ar. ‘convento fortificato’, ricovero di frontiera dei combattenti per la fede. Ṣada (pl. Ṣadajāḥt): pers. ‘centinaia’ (tur. yüzlük), gruppi di cento soldati. Ṣāḥibqirān: pers. ‘Signore della [triplice] Congiunzione Astrale’, titolo di Timur. Ṣaḥrānishīn: ar. pers. ‘abitanti del deserto’, termine delle fonti raramente utilizzato per definire dei ‘nomadi’. Sanjaḳ (sancak): tur. ‘sangiacco’, ‘governatore provinciale’, titolo in uso tra gli ottomani (vd. sanjaklik, ‘sangiaccato’). Saqirlāt: ar. pers. ‘tessuto di lana scarlatto’. Sarāparda: pers. ‘cortina di tende’, si tratta dell’uso di tendami per costruire dei viali interni negli accampamenti. Sardār: pers. ‘comandante’, titolo spesso adottato da piccoli nobili locali in Anatolia. Sarḥadd-i Firang: pers. ‘limes franco’, termine con il quale veniva definita la frontiera con le potenze cristiane. Sarḥadd-i Hindustān: pers. ‘limes indiano’, termine con il quale veniva definita la frontiera con i sultanati di Delhi in epoca timuride. Sayyid (pl. sādāt): ar. ‘Signore’, discendente del Profeta, titolo detenuto in ambito sciita da eminenze religiose. Shāh-i shāhān: pers. ‘Re dei re’, titolo attribuito ai re Sasanidi, al tempo di Timur era utilizzato dai sovrani del Sistan. Shaḥna: ar. ‘prefetto’, titolo usato in alternativa a darugha. Shahrāshūb: pers. ‘tumulto urbano’, genere letterario dedicato ai bei garzoni dei mercati cittadini. Shar‘īa: ar. ‘viatico’, ‘legge’, insieme dei precetti del diritto islamico, in epoca timuride conosce una controversa coesistenza con la yasaq (il diritto mongolo). Shaykh: ar. ‘sceicco’, ‘venerabile’, titolo adottato da numerose figure in Iran e nel mondo arabo. Solaḳ: tur. ‘mancino’, elemento di fanteria, guardia del corpo del sultano.

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glossario Soyurghal: mong. ‘latifondo’, concessione ereditaria che insieme al tuyul caratterizzò il sistema fondiario mongolo. Takbīr: ar., atto di gridare Allāhu Akbar, ‘Allāh è il piú grande!’, menzionato come grido di incitazione nelle campagne militari contro gli infedeli. Takfūr (takavor): arm. ‘coronato’, titolo attribuito dai Turchi a numerosi beg del Ponto e persino all’imperatore bizantino. Tawḥīd: ar. ‘unità divina’, cardine teologico della dottrina musulmana. Tamghā: tur. ‘sigillo’, ‘impronta’, termine che indica un sigillo o un emblema. Tamma: mong. ‘truppa di mille elementi’, contingenti di soldati locali guidati da un capo mongolo (tammachi). Tarkhān: tur., titolo nobiliare che indicava una figura esentata da obblighi e tassazioni per i meriti acquisiti. Ṭā’ūn: ar. ‘peste’. Ṭarīqa: ar. ‘via’, ‘confraternita religiosa’, nome attribuito alle confraternite sufi. Tarkhan: tur. ‘privilegiato’, titolo attribuito a persone particolarmente meritevoli che acquisivano vari diritti come quello di non subire punizioni nel caso di nove delitti commessi, o ancora delle esenzioni dalle tasse. Ta’yīd: ar. ‘assistenza’, termine molto impiegato nelle fonti timuridi per indicare il sostegno divino (ta’yīd-i ilāhī). Tekke: ar. ‘ricovero’, convento per dervisci. Timar: tur. ‘dotazione di ricavati fiscali’, sistema col quale venivano attribuiti nei domini ottomani un territorio e una rendita ai vassalli e a chi si era distinto militarmente. Toquz: tur. ‘nove’, doni a gruppi di nove oggetti che dovevano esser corrisposti immediatamente dopo la cattura di una città da parte di Timur. Tugh: tur. ‘segnacolo’, ‘stendardo’, si tratta di un’asta sormontata da una coda di cavallo o di yak. Tümen: mong. ‘diecimila’, ‘miriarchia’ (tur. tūmān), un’unità di 10.000 soldati nell’esercito mongolo. Tūra: mong., diritto consuetudinario mongolo. Tuvājī: mong. ‘ispettori delle truppe’, spesso questo titolo indica dei comandanti militari. Ṭūy: tur. ‘festa’, termine molto usato per cerimonie pubbliche e private. Ūkalkā: (mong. ögülgä), ‘donazione’ concessione in denaro per ottenere servizi particolarmente rischiosi. Ulamā: ar. ‘dotti’, conoscitori del diritto musulmano. Ulus: mong. ‘dominio’, nome dei regni dei quattro rami della discendenza di Chinggis Khān. Il termine ulus ha in seguito indicato dei domini particolari nei regni timuridi. Urugh/uruq: tur. ‘discendenza’, si intende con questo termine anche l’accampamento reale (luogo della progenie).

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glossario Vafādār: ar. pers. ‘fedelissimi’, elementi del corpo personale di Timur. Valī: ar. ‘vicino’, ‘favorito’, titolo attribuito a signori regionali vassalli. Vilāyat: ar. ‘dominio’, spesso utilizzato per indicari alcune province vassalle. Vaṭan: ar. ‘patria’, termine utilizzato con varie sfumature, per indicare la regione di nascita e di residenza. Yāghīgarī: pers. ‘ostilità’, ‘inimicizia’, termine usato per indicare delle rivolte (vd. anche fitna). Yarghu: mong. ‘corte di giustizia’, ‘procedimento giudiziario’. Yarligh: tur. ‘editto’, proclama o decreto. Yasaq/Yasa: mong. ‘legge’, grande canone giuridico mongolo, adottato da Timur insieme alla shar‘īa (il diritto musulmano). Yasavul: turc. ‘guardia del corpo’ termine usato per indicare le guardie del corpo di Chinggis Khān poi passato a indicare un emiro o un comandante. Yurt/Yurta: tur. ‘tenda’, termine molto impiegato per le dimore turco-mongole, spesso indicava il concetto di patria. Yüzlük: vd. Ṣada.

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527

CARTI N E*

* Cartine realizzate e gentilmente fornite da Luisa Sernicola.

531

1. La Transoxiana nella prima metà del XIV secolo.

2. Campagna di Timur contro Toqtamish, 1391.

cartine

532

3. Campagna di Timur contro Toqtamish, 1395.

cartine

533

4. La campagna indiana di Timur.

cartine

534

5. La campagna di Timur contro i Mamelucchi.

cartine

535

6. La campagna di Timur contro gli Ottomani.

cartine

536

I N DIC I

I N DIC E DEI NOM I

Abaqa Khān, sovrano ilkhanide: 393, 432. Abarquh, città della Persia: 130. Abaza: vd. Abcasi. ‘Abbās I ‘il Grande’, shāh safavide: 367, 396. ‘Abbās b. ‘Uthmān Qipchaq: 182, 306. ‘Abbāsī Muḥammad: 408. Abbasidi, dinastia califfale: 79, 266, 298. Abcasi-apswa, popolazione georgiana: 184. ‘Abd al-Jabbār, mawlanā, autorità religiosa timuride: 213. ‘Abbās Bahādur Qipchaq, ufficiale: 119. ‘Abd Allāh Khān, khān uzbeko: 67, 437. ‘Abd Allāh, muhrdār: 306. ‘Abd Allāh b. Qazaghan, emiro: 38. ‘Abd Allāh Lisān, astrologo timuride: 286. ‘Abd Allāh Oghul, ufficiale: 26. ‘Abd al-Razzāq Samarqandī, storico: 20, 472. ‘Abd al-Ṣamad-i Ḥājjī Sayf al-DīnNukūz: 306. ‘Abd Beg, emiro ottomano: 308. Abivard, città oggi del Turkmenistan: 132, 368. Abkhazia (Abasa/Abaza), regione della Georgia: 184, 249, 258, 344-45. Abramo (Ibrāhīm), profeta: 156, 372, 387. Abū Bakr Mīrzā b. Mīrānshāh, principe timuride: 237, 239, 243, 245, 262, 277, 285, 301, 304-5, 309, 317-18, 333, 342, 348. Abū Bakr Shāh, principe indiano: 198. Abu’l-Fatḥ, nobile timuride: 109. Abū’l-Fatḥ, Shāhshahān del Sistan: 263. Abū Ḥanīfa, giurista musulmano: 280. Abū Muslim, eroe della rivoluzione abbaside: 74. Abū Sa‘īd, khān ilkhanide: 300, 418. Abū Sa‘īd, ribelle persiano: 189. Abū Sa‘īd, sovrano timuride: 364-65. Acri (Akko): 275. Adaliya: 317. Adamo: 372, 386-87. ‘Ādil Akhtachī, emiro timuride: 306. ‘Ādil Āqā, emiro jalayiride: 86, 89. ‘Ādil Jawz Khāqān, emiro di Ahlat: 162. ‘Ādilshāh Jalayir, emiro: 53-58.

Adorno Antonio, maonese a Chio: 328. Adorno Battista, castellano di Chio: 328. Adravanti Franco: 411. Afaro Iñigo di: vd. Iñigo d’Afaro. Afghani (Avghān): 81, 201-2. Afghanistan: 25, 33-35, 37, 68, 202, 208, 226, 298, 339, 364. ‘Afīf, Shams-i Sirāj, storico: 210. Afrasyab, antico insediamento a Samarcanda: 61, 65, 229. Afrāsyāb, mitico re aniranico: 65, 69, 129, 265. Africa: 398. Afshār Īraj: 14. Agar: 296. Agra: 368. Ahangaran, città afghana: 196. Ahlat: 99. Aḥmad di Thanesar, sufi di Meerut: 218. Aḥmad al-Ḥākim, califfo abbaside: 267. Aḥmad Amīrzāda ‘Umar Shayḫ: 306. Aḥmad b. Ḥanbal, autorità religiosa del IX secolo: 144. Aḥmad b. ‘Umar Shaykh, emiro timuride: 305. Aḥmad Mīrak Bahādur: 307. Aḥmad Oghulshāhī, sayyid, comandante ad Alinjak: 239, 277, 279. Aḥmad Ṭūsī Khwāja, tesoriere reale: 352 Aḥmad Yasavī, fondatore di una confraternita sufi: 195, 361. Aḥmedī, poeta ottomano: 375, 404. Ahriman, entità malvagia del mazdeismo: 208. Ahruni, Ahirwan, città indiana: 208. Aigle Denise: 14, 409. Aini Sadr al-Din: 417. ‘Ajab-Shīr, emiro timuride: 307. Ajudan (Ajodhan): 205-7, 209. Aka Bigi, figlia di Timur: 262, 357. Akbar, imperatore moghul: 368. Ak Dağ, montagna turca: 301. Akhlat (Ahlat): 162. Aksaray: 276, 330. Ak Şehir: 317, 319, 330, 333, 335, 340.

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indice dei nomi Aktav, emiro dell’Orda d’Oro: 176, 445. Akuša-Dargo, comunica caucasica: 187. Al Qushun, villaggio nelle steppe Qipchaq: 113. ‘Alā’ al-Dawla b. Sulṭān Aḥmad, principe Jalayiride: 145. ‘Alā’ al-Dīn Kayqubād III, sultano selgiuchide: 255, 299. Alagöz Beg, emiro ottomano: 308. Ala Köl, lago e regione kirghizi: 114. Alānquwā: vd. Alan Qo’a. Alan Qo’a, antenata di Chinggis Khān: 20, 49, 418. Alani (Ālān): 110, 187, 368. Alanya: 317, 322, 330. ‘Alaqa Qawchin, ufficiale: 44. Albanesi: 308. Albani: 388. Albornoz Egidio, cardinale: 390. Alcalá de Henares: 384. Aleppo: 145, 165, 247, 259, 260-263, 268, 304, 383, 412. Alessandro Magno: 9, 103, 170, 176, 200, 221, 265, 292, 366-67, 372, 387, 391, 395, 402, 448. Alexandrescu Dersca Bulgaru Maria-Matilda: 291-93, 300, 302, 323, 328, 461, 463. Algeti, fiume georgiano: 344. ‘Allāmī Abu’l-Fażl, storico: 368. Alhacent, presunto autore arabo: 398-99, 403. Āl-i Afrāsyāb: vd. Qarakhanidi. Ala Tagh (Ala Dağ), catena montuosa turca: 161, 163, 166, 442. ‘Alī, qalāndar di Mandalī: 278, 285. ‘Alī Apardi: 306. ‘Alī b. Abū Ṭālib, genero di Muḥammad: 2021, 273. ‘Alī b. Mu‘ayyad: vd. Khwāja ‘Alī. ‘Alī Beg, ministro dell’Orda d’Oro: 122. ‘Alī Beg ‘Bangī’, emiro di Niğde: 330. ‘Alī Beg Jawn-i Qurban, emiro: 71, 74-78. ‘Alī Beg ‘Īsā, principe timuride: 246. ‘Alī Beg Qongirat: 95, 432. ‘Alī Efendī Muṣṭafā, storico: 419. ‘Alī Kutvāl, governatore muzaffaride: 136. ‘Alī Mawṣilī, signore di Tikrit: 155. ‘Alī Pāşā, gran visir ottomano: 293, 302, 308. ‘Alī Qalāndar, emiro jalayiride: 246, 278, 285.

‘Alī Qawchīn, emiro timuride: 306. ‘Alī Sadīdī, ufficiale: 77. ‘Alī Sulṭān Nayman, emiro timuride: 306, 341, 457. ‘Alī Tuvāchī, Sulṭān, comandante timuride: 204-205. ‘Ālim Shaykh, ufficiale: 44. Alinjak (Alinja, Alinjaq), cittadella fortificata caucasica: 97, 162, 239, 241, 243-45, 275-77, 279, 284, 342. Allāhdād Nukuz, emiro timuride: 204, 207, 232, 255, 270, 335, 451. Alleyn, Edward, attore elisabettiano: 398. Alparslan, sultano selgiuchide: 312. Altai, regione montuosa: 118. Altinshoky, sito non lontano da Karaganda: 123. Altoluogo: vd. Ayasoluk. Altūn, castellano di Alinjak: 243. Alṭūn Bakhshī, emiro timuride: 272, Altun Kupru: 155, 278. Altuntash: 320. Amaldi Daniela: 14. Amasya: 252, 301, 309, 336. Amberd, regione armena: 431. Amida (Amid): vd. Diyarbakır. Amīr Ḥājjī Sayf al-Dīn: vd. Sayf al-Dīn Nuquz. Amīr Ḥasan, castellano di Tikrit: 148. Amīr ‘Isā Bi, emiro dell’Orda d’Oro: 174. Amīr Jahāngīr Barlas, ufficiale: 186, 428. Amīr Khumārī, ufficiale: 428. Amīr Khusraw, poeta: 215. Amīr Muẓaffar, emiro muzaffaride: 101. Amīrānshāh: vd. Mīrānshāh b. Timur. Amīr Dāvud Dughlat, ufficiale: 44. Amīr Ḥusayn Qarawna, emiro: 39-44, 46, 4951. Amīr Malikshāh, emiro timuride: 320. Amīr Muḥammad, emiro karamanide: 320, 330. Amīr Mūsā Taychiut, emiro: 42, 48, 60. Amīr Sirāj al-Dīn, signore locale: 152. Amīr Valī, signore del Mazanderan: 75-78, 84-85, 89. Amīr Yasavur, emiro: 36. Amol, città del Mazanderan: 85, 132-133, 350. Amsterdam: 387.

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indice dei nomi Amu Darya (Oxus): 37, 40, 49, 68, 132-133, 193, 199, 228, 426. Amuya, od. Charzhou/Türkmenabat, in Turkmenistan: 132. Ana, moglie di Bagrat V: 94. Anaqarghuy, sito delle steppe Qipchaq: 124. Anatolia: 23, 25, 97, 100, 140, 147, 149, 151, 152, 154, 163, 176, 227, 247-48, 251, 283-84, 286, 289, 293-94, 296, 298, 332, 336, 358, 363, 393, 410. Andakan: vd. Andijan. Andarab, Afghanistan: 199. Andijan (Andakan): 55-56, 108, 115, 242, 260, 383. Andkhuy: 33, 36-37, 73, 422. Andrea Giovanni, genovese: 180, 387, 389 Andronico, personaggio letterario: 399-400. Ani: 431-32. Aniya, sito anatolico: 322. Ankara (Angora, Angūriya): 10, 192, 300-2, 316, 320, 322, 331-32, 335-36, 367, 370, 376, 390. Annibale: 389, 391-92. Annucci Arturo: 15. Anooshahr Hasan: 221. ‘Antab (‘Ayntāb) Gaziantep: 259-60, 274. Antakya (Antiochia sull’Oronte): 274, 388. Antalya: 317, 321-22, 331. Apardi, gruppo tribale: 36, 41. Apollonio di Giovanni, pittore fiorentino: 387. Appellaniz Francisco: 15. Aqar, piana nei pressi di Kish: 128. Aqbugha, atabeg georgiano: 341. Aqbugha Nayman, emiro timuride: 44, 13637, 428. Aq Bulaq, villaggio del Kurdistan: 142. Aqchakī, governatore persiano: 134, 438. Aq Qoyunlu, dinastia: 127, 150-51, 228, 252, 255, 282, 297, 387, 395, 410, 440. Aqsiqa (Axaltsixe), fortezza: 166. Aqsu (Aksu, Qurmukh, Kurmuxissc’q’ali), fiume: 242, 453. Aq Sulat, sito centroasiatico: 361. Aqtaq, emiro: 437. Aq Tam, sito caucasico: 286. Aq Yar, sito uzbeko: 118. Arabi: 89, 265-66, 360.

Arakawūn/Aragawūn (Aragv-el-i), abitanti della valle dell’Aragvi: 183. Aragona: 295-96. Aragvi, fiume: 166-67, 250, 454. Aral, Mare di: 49. Arbil (Erbil, Arbela): 155. Ardabil: 95, 176, 189, 347, 367. Ardashīr Qawchin, ufficiale: 44. Aretino Pietro: 433. Areza, fiume georgiano: 431. Arghun Malik Sangharī-Turkmān: 306. Arghun, intendente timuride: 348. Argote de Molina Gonzalo, storico spagnolo: 395. Arhang: 37. ‘Āriżī Abū Ṭālib, letterato moghul: 369. Armeni: 93, 256, 258, 345, 347, 360. Armenia: 88, 90, 257, 347, 388, 459. Aras (Arasse), fiume: 90, 163, 286-287. Artois Filippo di, conte di Eu, connestabile di Francia: 192. Artuqidi, dinastia: 151, 157. Arzin, città dell’Alto Eufrate: 156, 275, 285. Ās: vd. Osseti. Asadulloev Saadullo: 14. Ashma, città turca: 161. Ashoka, antico re dell’impero Maurya: 20910. ‘Āşıḳpāşāzāde, storico: 254, 285, 297, 313, 334, 369. ‘Askar Mukarram, sito in Persia: 260. Aspara: 335. Assa, fiume: 183. Astarabad: 77, 84, 89, 132, 135, 164. Astarābādī ‘Azīz: vd. ‘Azīz Astarābādī. Astérie (Asteria): 402. Astrakhan Hajji Tarkhan: 127, 184, 185-86. Astrakhanidi, dinastia: 12. Atbaši, distretto del Kirghizistan: 53. Atessy, rinnegato di Chio: 301. Atilmish (Atlamish), emiro: 163, 254, 263, 321, 335-36, 457. Attila: 292, 406. Aubin Jean: 13, 27, 74, 79, 88, 144, 269, 408-9, 420, 423, 429. Austriaci: 373. Ava, cittadina del Laristan: 135. Avaro-unni/Eftaliti (var-huna), popolo: 201.

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indice dei nomi Avignone: 295-96. Avnik, castello: 161, 163, 254-55, 340. Āyatī ‘Abd al-Muḥammad: 420. Aybak, sultano di Delhi: 209. Aydın, beilikato anatolico: 251, 255, 305, 307, 331. Aydın, città: 301, 320, 323, 463. Ayghar (Q’virila), fiume della Georgia: 249. Ayghir Yali (o Bali): 113. Ayle, fiume: vd. Ili. ‘Aynī Beg, emiro ottomano: 307. Axalc‘ixe, sito in Georgia: 93. Axalla, leggendario genovese: 11, 397-98. Ayasoluk Selçuk, (Teologo, Altoluogo): 301, 320, 322, 329, 331. Aylangīr Noyan (Alangīz, Īlangīr), antenato di Timur: 21, 419. Ayyubidi, dinastia: 151. Azak (Azov, Tana): 29, 110, 126, 180-82, 18485, 187, 251, 288-89, 371, 387-89. Azerbaigian: 30, 35, 65, 87-90, 97, 100, 140, 162, 167, 170, 176, 188, 227, 230, 237-38, 240-41, 243, 280-81, 335, 348-49, 352, 363, 381. Azincourt, città francese: 475. ‘Azīz Astarābādī, storico: 11, 86, 89, 142-44, 152, 154, 161, 178, 298. Aznaqshāh, governatore persiano: 134. Baalbek: 261, 263. Bābā Farīd (Farīd Shakar Ganj, Farīd Ganj-i Shakar): 206. Bābā Sankū, derviscio: 73. Babilonia: 266. Babinger Franz: 291. Baboula Evanthia: 314. Bābur Ẓahīr al-Dīn, sovrano: 365, 368, 407, 427. Badaōnī, storico: 228. Badakhshan: 42, 68, 76, 226, 260, 279. Badghis: 72. Badr al-Dīn di Simavna: 335. Bağcı Serpil: 14. Baghdad: 67, 85, 88-90, 141-45, 147-48, 152, 194, 216, 226, 238, 246-47, 275-77, 279-81, 283-85, 342, 348, 351, 358, 393, 409, 470. Baghlan, od. Afghanistan: 27, 109. Bagrat V, re georgiano: 93-95, 239. Bahā’ al-Dīn Shāh-i Badakhshānī: 306.

Bahali, collina a Delhi: 212-13. Bahasna (Besni), Turchia: 259, 276. Bahlūl, ribelle di Nihavand: 189. Bahrain: 367. Bahrām Gūr, sovrano sasanide: 233. Baitak (Kara Kasmak), od. Kirghizistran: 53. Bakri, regione indiana: 224. Bakhshī Khwāja, emiro dell’Orda d’Oro: 174. Baktut, ufficiale: 27. Baku: 188, 444. Balaban, sultano di Delhi: 206. Balābān Beg, emiro ottomano: 308. Balasaghun, antica città centroasiatica: 98. Balat (Palatia), vicino Mileto: 322. Balcani: 22, 119, 293. Balchimgen, Palude Meotide: 180, 187. Balık: 329. Balıkesir: 321. Balkaria: 184. Balkash (Atrak Kul), lago: 53, 118. Balkh: 25, 35, 37, 41-44, 49, 69, 72, 378, 405, 419. Balqan, sito caucasico: 184. Balqar (Balkar): 183-84. Balte Amīr, antenato di Timur: 21. Baluchistan: 81. Balur, fortezza sull’Elburs: 187. Bamiyan: 68. Band, sito indiano: 207. Baqilan: 228. Baraka sayyid, uomo di religione: 42, 46, 132. Barakzay: vd. Varakzāy. Baratašvili ‘Sa-Barat-ian-o’, famiglia georgiana: 167. Barda‘, città dell’Azerbaigian: 248, 284. Barlas (o Barulas), gruppo tribale: 20-21, 24, 27, 35-36, 39, 41, 162, 225, 264, 292. Barlas, canale: 287, 347. Barqūq, sultano mamelucco: 87, 145-46, 152, 168, 228, 242, 252, 254, 258-59, 265, 336, 385. Bartol’d Vasilij Vladimirovič (Barthold Wilhelm): 13, 377-79, 407-9. Bashkent, città del Caucaso: 184. Bashkiria: 187. Bassora: 144, 148, 278, 342. Bāstānī-Parīzī Muḥammad Ibrāhīm: 138. Bastarī b. Ṭā’īfa, emiro timuride: 306. Bathnair (Batnir) Hanumangarh: 205-9.

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indice dei nomi Batman, città dell’alta Mesopotamia: 156, 161. Bat’onišvili Vaxušt’i, storico: 94. Batu, khān dell’Orda d’Oro: 58. Bausani Alessandro: 365. Baviera: 384. Bavra (Bafra): 153. Bayan Timur, nobile ciagataico: Baybars al-Ẓāhir, sultano mamelucco: 266. Bāyazīd I Yıldırım, sultano ottomano: 10, 146, 154, 169, 191-93, 250-53, 255-57, 275-76, 282-86, 291-92, 294-98, 300-4, 307-9, 311-14, 317, 320, 329-34, 339, 353, 370-71, 375-76, 388, 390-93, 396, 399-402, 462, 464, 468. Bāyazīd Jalāyir, emiro: 33, 35. Bayla (Baila), Kashmir: 225. Baylaqan (Beylɘqan)/Oranqala, sito caucasico: 347-49. Bāyqarā Ḥusayn: vd. Ḥusayn Bāyqarā. Bayundur, gruppo tribale turcomanno: 150. Bāzārlū Toghan, emiro ottomano: 307. B’biyat, clan tribale: 37. Beirut: 264. Beg Fūlād Oghlan, castellano: 184. Begyarıq, emiro dell’Orda d’Oro: 169, 174, 176-77. Bekmahanov Ermuhan, storico kazako: 381. Bektaşi, confraternita religiosa: 165. Belial, diavolo: 326. Bellingeri Giampiero: 15. Bellino Francesca: 15. Benedetto XIII (Pedro de Luna), antipapa: 326. Bengala: 214. Berardi Luca: 15. Berat Khwāja Kukeltash, emiro timuride: 108. Bergeron Pierre, storico francese: 403, 476. Berke, khān dell’Orda d’Oro: 58. Berke Ghuriyan, sito nella Semireče: 53. Bertāz, principe georgiano: 167 Bertoldo, eroe popolare: 147. Beşīr Beg, emiro ottomano: 308. Beveridge Annette: 407. Beypazarı: 330. Bhao Minu: 227. Biah (Beas), fiume: 204. Bībī Khānum: vd. Sarāy Mulk Khānum.

Bibiena Francesco, scenografo e architetto: 401. Biglia Andrea, umanista senese: 385, 388. Bihbahan: 136. Bihrūz Raja, signore indiano: 223-24. Bihzād, pittore: 187, 233, 327, 365. Bīk Valī Īlchīkade, emiro timuride: 306. Bikijik, atabeg del principe Iskandar: 242. Bikijik, nobile ciagataico: 115. Bikijik, montanaro Merkit: 344. Bikichik Dagh, montagna del Kazakhstan: 123. Bil, forse Gori in Georgia: 249. Bimand, città del Kerman: 188. Biya, villaggio: 42. Bilāl al-Ḥabashī, compagno del profeta Muḥammad: 269. Bira (Birecik): 275. Biscaglia: 180. Bistam, città del Khorasan: 70. Bizantini: 93, 185, 316. Birdibeg Qawchīn b. Sarıbughā, emiro timuirde: 307. Birtvisi (Birtis): 344-45, 469. Bıyıktay Ömer Halis: 463. Bizhan, re epico persiano: 73. Brion Marcel: 411. Boccanegra Battista, capitano genovese: 288. Boghaz Qum, steppa caucasica: 184, 187. Bogliaco, località lombarda: 402. Bombaci Alessio: 473. Bon Pietro, capitano di galere a Creta: 331. Boni Guia M.: 15. Bonifacio IX (Pietro Tomacelli), papa: 251, 289, 295-96. Borges Jorge Luis: 411. Borgogna: 192. Borgognoni: 192. Boroldai, ufficiale: 27, 37. Borosini Francesco, tenore: 401. Bosforo (Bughāz-i Iskandar): 294. Boston: 406. Boucher Guillaume, orafo: 180. Boucicaut, pseud. di Jean Le Maingre II, maresciallo di Francia: 192, 250, 288, 295-96, 326, 328, 384, 475. Bosnia: 191, 324. Bouvat Lucien: 177, 369, 408.

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indice dei nomi Bracciolini Poggio, umanista fiorentino: 314, 385, 389-91. Brahe Tycho: 159. Branković Giorgio, despota serbo: 305, 308. Branković Gregorio (Grgur), nobile serbo: 305, 308. Bratutović Vicko: vd. Bratutti Vincenzo. Bratutti Vincenzo (Bratutović Vicko), dragomanno raguseo: 370, 473. Browne Edward G.: 177. Broadbridge Anne: 92, 259, 268, 336. Bronzino Agnolo, pittore fiorentino: 394. Bruni Leonardo: 390. Bryer Anthony: 150. Bucarest: 291. Buddha Maythreia: 128. Bukhara: 25, 28, 36, 50, 55, 60, 66, 76, 108, 129, 131, 378, 381. Buhlūl, eroe popolaresco: 147, 165, 307. al-Bukhārī Abū ‘Abd Allāh Muḥammad, Emir Sultan, uomo di religione: 318. al-Bukhārī Abū ‘Abd Allāh Muḥammad bin Ismā‘īl, uomo di religione: 427. Bular, sito di difficile interpretazione: 175. Bulgari del Volga (Saqāliba): 23, 110, 120, 123. Bulgari dei Balcani: 192. Bulgaria, europea: 191. Bulghachi, nome di tribù: 115. Burāqan (Burāghān), signore caucasico: 182. Burgul, antenato da Timur: 21. Burhān Āghā, moglie di Timur: 359. Burhān al-Dīn, qāḍī, sultano di Sivas: 11, 30, 146, 151-54, 228, 251-52, 293, 298, 300. Burhān al-Dīn Qilich, shaykh, uomo di religione: 55. Burhān Oghlan, principe ciagataico: 115, 166, 200. Buribashi, sito del Moghulistan: 113. Burībeg, signore caucasico: 182. Burīberdī (Böriberdi), signore caucasico: 182. Bursa (Prusa): 252, 254, 282, 300-1, 309, 310, 316-18, 320, 322, 329, 331, 334, 359, 375, 399, 462. Burunduq, emiro timuride: 285, 287, 306, 355, 457, 460. Bust, città del Sistan: 80. Buthan: 223. Buyān Quli Amīr, emiro: 35, 38, 422.

Buyan Suldus, emiro: 33, 38, 43. Buzunchar Amīr Dobun Mergen, antenato di Chinggis Khān: 20-21. Caffa (Kefe) Feodosia: 28, 85, 110, 119, 169, 185, 289, 299, 388-89, 444. Cairo: 145, 254, 258, 264, 267-68, 321-22, 342, 457. Calmucchi: 201. Cambini Antonio: 392, 394. Cambise, sovrano achemenide: 387. Cantemir Costantino, voivoda moldavo: 373. Cantemir Dimitrie, voivoda moldavo: 37375, 404, 473. Chapāchūr (Čapałǰur, Romanoupolis), od. Bingöl: 161. Cappadocia: 301, 341. Cardini Franco: 411. Caria: 320. Carlo V d’Asburgo: 392, 395. Carlo VI, re di Francia: 19, 251, 253, 289, 296, 376. Carlo VIII, re di Francia: 390. Carlo XII, re di Svezia: 374. Caspio, mare: 68, 77, 132, 134, 184, 241, 350. Castiglia: 234. Castracani Castruccio, condottiero toscano: 391. Çatal, collina vicino ad Ankara: 310. Catalani: 180. Caucaso: 92, 95, 140, 167, 170, 182, 185, 187, 244, 250. Cavaliere Stefania: 14. Cavalieri di Rodi: 322-24. Cazzato Irene: 476. Cecenia: 171. Celesti Andrea, pittore barocco: 402. Černigov (Qara Su): 177. Cesare (Giulio Cesare): 265, 404. Chagatai, figlio di Chinggis Khān: 25, 34-35, 50, 113, 292, 405, 417. Chaghataici: 405. Chaku Barlas, nobile timuride: 43-44, 47, 277, 305, 460. Chaldiran, città del Caucaso: 370, 444. Chalkokandiles Laonikos, storico bizantino: 313, 399, 462, 464, 473. Chapar Ayghir, sito del Moghulistan: 114.

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indice dei nomi Chaqmāq, emiro timuride: 306. Charkas Sūrachī, darugha timuride: 320. Charmoy François Bernard: 376, 407. Chelav, città del Mazanderan: 351. Chen Dewen, ambasciatore cinese: 356. Chenab Janava: 203-4, 227. Chinggis Khān (Gengis Khān): 9, 12, 20, 22, 25, 28, 35-37, 42, 49-50, 52, 54, 69, 146, 191, 258, 261, 292, 357, 367, 406, 408, 417, 420, 423, 455. Chio (Saqqiz), isola: 289, 301, 321, 327-29. Chishtiyya, confraternita religiosa: 206. Chlebowski Stanisław, pittore polacco: 376. Chobanidi, dinastia: 431. Christine de Pisan (Cristina da Pizzano), poetessa: 326, 466. Chūl-i Jalālī (Steppa di Jalāl): 203, 228. Chulak, sito vicino a Otrar: 108. Chulpān Āghā (Chulpān Malik), moglie di Timur: 121, 359. Chulpānshāh Barlas, nobile timuride: 342. Ciagataica, ulus: 25. Ciagataici: 26-27, 49, 58, 162. Cibo Baldassare: 467. Çibuk, od. Çubuk Ova: 302, 393. Cina: 28-29, 35, 85, 117-18, 195-97, 234, 242, 260, 322, 323-24, 335, 355-56, 358, 360-61. Cinesi: 96. Cipriano, metropolita di Mosca: 179. Cipro: 324. Circassi: 110, 182, 185, 258. Circassia: 182, 187. Ciro, sovrano achemenide: 105. Clavijo Rui González de, diplomatico castigliano: 11, 24, 67, 99, 181, 183, 195, 230, 233, 237-38, 242, 256, 282, 287, 297-98, 319, 332, 335, 337, 351, 353, 356-58, 382, 384, 394-95, 444, 468. Clemente VII (Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici), papa: 392. Coccio Sabellico Antonio, storico umanista: 391. Colard de Coleville, governatore di Genova: 288. Colbert Jean-Baptiste, ministro francese: 402-3. Colbert Jean-Baptiste Antoine Seignelay, ministro francese: 402-3.

Colonna, famiuglia nobiliare romana: 386. Comneni di Trebisonda: 98, 150. Como: 392, 394. Copernico Niccolò: 159. Corasmia (Khwarazm): 48, 54, 57, 60-62, 108110, 134, 160, 258, 260, 378. Corigliano d’Otranto: 394. Cornaro Giovanni, sopracomito di una galea: 316, 318. Cornaro Pietro, personaggio veneziano: 321. Çorumlu, città anatolica: 251, 293, 454. Corradi Giulio Cesare, librettista parmense: 399-401. Cosroe (Khusraw) I, shāh sasanide: 265, 396. Costantino, imperatore romano: 367. Costantinopoli (Istanbul, Qusṭanṭiniyya): 191, 251, 289, 291, 293-97, 300, 316, 318-19, 321, 343, 368, 374-75, 387-88, 399, 473. Coucy Enguerrand di, condottiero: 192. Creta: 289, 330-31. Crimea: 29, 60, 85, 119, 169, 187. Crimeani: 110. Crisolora Demetrio: 297. Crisolora Manuele, umanista bizantino: 295. Cristofano dell’Altissimo, pittore fiorentino: 394. Cromwell Oliver, condottiero politico inglese: 404. Çubuk Ova: vd. Çibuk. Curdi: 135, 141, 144, 275, 285. Daghestan: 95, 167, 170-71. Dalachandra: vd. Dūljīn, Davaljīn/Dulchand o Daljīt, Jaljin Juljayn. Dalmati: 324. Damasco: 65, 235, 261, 264, 266-67, 269, 271, 273-74, 338, 388, 457. Damghan: 84, 134, 337-38, 468. Danesi: 295. Darband (Bāb al-Abwāb), nel Daghestan: 87, 92, 95-96, 140, 167, 169, 187-88, 347, 393, 444. Darband (Qahalgha): vd. Qahgalgha. Darband Tashi Khatun (Darband Taj Khatun), sito del Kurdistan: 285. Dardanelli (Yasra aqa): 309, 318. Dargo, popolazione caucasica: 171, 184. al-Dārimī al-Samarqandī ‘Abd Allāh, uomo di religione: 427.

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indice dei nomi Dariali, sito georgiano: 92. Darialan: 183. Dario, sovrano achemenide: 375, 395. Darkalur (Dargalu), fortezza sull’Elburs: 187, 444. Dasht-i Kavir, deserto iraniano: 69. Dasht-i Khazar, steppa caspica: 187. Dasht-i Lut, deserto iraniano: 69. Dasht-i Qipchaq (Steppe dei Qipchaq): 110, 119, 129, 167, 176, 196, 198, 242, 249, 260, 299. Davit, figlio di Bagrat V: 94. Davide, profeta: 95, 387. Dāvūd Bālī, emiro ottomano: 308. Davy William, maggiore inglese: 369. Dawlatshāh, letterato: 102. Dawlatkhwāja b. Murād Barlas, emiro timuride: 306. Dawlatkhwāja Īnaq, ministro timuride: 240. Dawlat-Timur, emiro timuride: 306. Dawlat Tarkhān Āghā, moglie di Timur: 359. Dāvud Ṣūfī, principe corasmico: 174. Dāvud Sabzavārī, rivoltoso khorasanico: 79. Daylam, regione persiana: 350. Deccan: 198. Delhi: 27, 38, 91, 109, 196, 203, 206, 208-10, 214-17, 226, 229, 339, 366. Demirli Bahçe, Dere: 302. Denaro Roberta: 15. Denizli Toñuzlu: 314, 320-21, 330. Dennison Ross Sir Edward: 315. De Fiori Antonio, commediografo napoletano: 400. De Guignes Joseph, orientalista francese: 403-7. Dekkan: 367. D’Erme Giovanni M.: 434. Dhankot (Kalabagh), Pakistan: 203. Dhulqadiridi (Dhu’l-Qadr), dinastia: 152, 155, 257, 275. Dibalpur (Deobalpur): 202-5, 207, 209, 217. Dietrich di Nieheim, storico e giurista: 32324. Dilshād Āghā bt. Qamar al-Dīn, moglie di Timur: 53, 78, 359, 425. Dilshād: vd. Sulṭān Dilshād. Dīr (Vīr, Verinag o Vitastatra): 226. Dīv ragià (Deva Rai), signore indiano: 225.

Diyar Bakr, regione: 151, 153, 342. Diyarbakır Amida (Amid): 148, 159-60. Dizful: 246. Dniepr Uzi: 169, 176-77. Dniestr (Tura, Turba), fiume: 119. Döger, gruppo tribale: 151. Doğubeyazit Aydın: 98, 163. Dols Michael W.: 29. Don: 168, 176, 180-81. Doria Ilario: 295. Du‘a Khān, sovrano ciagataico: 196. Du Bec Jean, storico: 11, 397-99. Dubshin Andur, montagna del Turkistan: 115. Duca Costantino, voivoda moldavo: 373. Ducas Michele, storico bizantino: 302, 313, 328, 334, 400. Dughlat, gruppo tribale: 47. Dūljīn (Davaljīn, Dalachandra/Dulchand o Daljīt, Jaljin, Juljayn), signore di Bathnair: 206-7. Dumoret Julien, orientalista: 407. Dūqmāq, governatore di Ḥamā: 247. Durin, sito indiano: 200. Edigü, governatore del Kerman: 121, 123, 126, 169, 172-73, 188, 200, 242, 353, 358, 359. Edigü Barlas (Idiku), principe timuride: 58, 156, 349. Edigü, principe Manghit: 123, 126, 169-72, 175, 188, 242, 353, 358. Efeso: 329-330. Eftaliti: 66. Egeo, mare: 251. Egitto (Miṣr): 29-30, 146-47, 192, 216, 235, 254, 258, 260, 298, 321, 322, 358, 368. Egiziani: 185, 336. Eğridir (Akrotiri): 332. Eisenstein Sergej M., cineasta: 14, 380. Elbistan Ablasta: 257. Elburs, catena montuosa: 182-183. Elec: 178. Elene (Elena di Trebisonda), moglie di Bagrat V: 93, 239. Eliseni (Eli-Su), regione caucasica: 244. Emil, fiume: 114. Engke Tura, emiro ciagataico: 108, 111-14, 116. Enguri, fiume della Georgia: 249.

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indice dei nomi Enrico IV d’Inghilterra: 290, 296. Enverī, poeta: 323. Epiro: 191. Epso(?), emissario timuride: 289. Eraclio (Hirqal): 372. Eretna (Aratna), fondatore dell’omonima dinastia: 152, 299-300. Eretna, dinastia: 152, 299. Erciş, città turca: 99. Ercole: 79. Erodoto: 388. Erzincan: 98, 99, 151, 163, 216, 248, 252, 254-55, 282-83, 288. Erzurum: 87, 98, 287, 340. Esen Timur, emiro timuride: 307. Eufrate (Firat): 150, 155, 275, 348, 388. Ewstat‘e, sito armeno: 459. Eva: 386. Evrenos Beg, emiro timuride: 307. Eyegü, emiro timuride: 125. al-Fāḍil, comandante tataro: 299-300. Fakhrabad: 167. al-Fakhūrī Shaykh Shams al-Dīn, religioso: 419. Falakabad: 333. Famagosta: 289. Fane Francis, commediografo inglese: 398. Farab: vd. Otrar. Farah, città dell’od. Afghanistan: 80. Faraj, sultano mamelucco: 242, 247, 254, 25860, 263-64, 268, 321, 336, 342, 358, 393, 457. Faraj Farrukh, governatore jalayiride di Baghdad: 277, 279. Farasgird (Panask’ert’): 250. Farhadgird: 70. Farrukhshāh, comandante di Ḥilla: 278. Fars (Perside): 65, 84, 100-1, 104, 106-7, 122, 130-31, 136, 139-40, 143, 157, 186, 247, 260, 263, 358. Faryūmadī Ghiyāth al-Dīn, storico: 29. Fathabad, città indiana: 208. Fay Jacques du, cavaliere francese: 181, 288, 445. Faṣīḥī Khwāfī, storico: 67. Fāṭima, figlia del profeta Muḥammad: 273. Faṭma bnt. Bāyazīd, principessa ottomana: 310, 318.

Fażl Allāh di Astarābād, eresiarca: 164-166. Fażl Allāh Balkhī, notabile thughluq: 216. Ferdinando II, Gran Duca di Toscana: 401. Ferdinando III d’Asburgo: 370. Ferghana, regione storica dell’Uzbekistan: 14, 55-56, 108, 156, 242. Ferīdūn Bey Aḥmed, storico: 253, 283. Figueroa Don Garcia de Silva y, ambasciatore spagnolo: 396. Filarete Antonio Averlino, scultore fiorentino: 475. Fili, città iraqena: 285. Filippo II di Borgogna (Filippo l’Ardito): 384. Firdawsī, letterato: 64, 79, 266, 381. Firenze: 385, 394. Fīrūzābādī Majd al-Dīn, lessicografo: 140. Fīrūzbeg, visir ottomano: 307-8, 313, 316, 320, 322. Firuzkuh, città persiana: 241, 350-51. Firuzpur, città indiana: 219. Fīrūzshāh Tughluq, sovrano: 198, 209-10, 214, 216, 321. Fischel Walter: 383. Fitrat ‘Abdorauf, letterato kazako: 379. Focea nuova (Fūça, Foglianuova): 322, 327, 330. Focea Vecchia: vd. Focea nuova. Fortescue Thomas, drammaturgo inglese: 396. Fourniau Vincent: 381. Fra’ Mauro, cartografo: 393. Fragner Bert G.: 14, Francesca Ersilia: 15. Francesco II Gattilusio, signore di Lesbo: 328. Francesi: 182, 192, 323. Franchi (Ifrang, Latini): 185, 191, 253, 322, 328, 355, 368. Francia: 251, 293, 295. Fregoso (Fulgoso) Battista, doge genovese: 389, 395. Frisinga: 296. Fu An, funzionario Ming: 195, 356. Fresnel François, governatore di Genova: 288. Froissart Jean, storico: 181-182, 288, 445. Fushanj (Pushanj), città del Khorasan: 73.

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indice dei nomi Gakhkhar, gruppo tribale persiano: 204. Galeazzo di Levante, ambasciatore per conto di Timur: 321, 328. Galland Antoine, euridito francese: 375, 404. Gallipoli, in Turchia: 301, 318. Gange: 219, 222-23. Gangotri (Kuka), monti: 224. Ganja: 284, 381. Gasparini Francesco, musicista lucchese: 400-401. Gawhar Shād, regina timuride: 364. Gengis Khān: vd. Chinggis Khān. Genova: 251, 282, 289, 295, 316, 318, 328, 384. Genovesi: 85, 110, 119, 180, 182, 185, 191, 251, 288, 295, 300, 316, 319, 323, 327, 388. Georgia: 14, 82, 92, 96, 126, 164, 166-67, 182, 239, 241, 243, 248, 277, 282, 342-43, 346-47, 368, 459. Georgiani: 93-95, 170, 183, 193, 239, 243-45, 258, 276, 342, 431. Gerasimov Mikhail M.: 17-18, 22, 219, 417. Gerede: 317. Germiyanidi, beylikato anatolico: 255, 304, 322, 330, 463. Gerusalemme: 274, 323, 398, 457-58. Gesù Cristo: 95, 371, 387. al-Ghazālī, filosofo: 29, 412. Ghazan Khān, sovrano ilkhanide: 30, 89, 259. Ghazna, Ghaznin: 25-26, 33, 37, 68-69, 128, 220, 260, 358. Ghaznavidi, dinastia iranico-centroasiatica: 20, 64, 68, 298. Ghaza: 264. Ghiyāth al-Dīn Ḥājjī, nobile muzaffaride: 100. Ghiyāth al-Dīn II, Pīr ‘Alī, sovrano kartide: 69-74, 77-78. Ghiyāth al-Dīn ‘Alī Yazdī, storico: 11, 137, 197, 199, 201-2, 204-6, 208-9, 211-14, 217, 219, 221-28, 363, 408, 417. Ghur, regione afghana: 68-69, 260. Ghuridi: 77. Ghūṭa, oasi a Damasco: 274. Ghuzz, gruppo umano turco: 312. Giacomelli Geminiano, compositore italiano: 401. Gibbon Edward: 315, 407. Gibbons Herbert Adams: 292-93.

Gilan: 29, 95, 164, 260, 349. Giona (Yūnus), profeta: 155. Giorgio (Nabī Jirjīs), santo: 155. Giorgi VII (Gurgīn), sovrano georgiano: 239, 243-44, 248-49, 277, 284, 341-43, 453, 458. Giottino Maso di Stefano, pittore toscano: 387. Giovanna d’Arco: 466. Giovanni di Sultaniyya, diplomatico: 19, 181, 251, 273, 288-90, 323, 461. Giovanni VII Paleologo, reggente di Costantinopoli: 289, 294-95, 318-19. Giovanni Tommaso di Bā Sabrīnā: 158. Giovio Paolo, umanista comasco: 391-94, 397. Giunta Roberta: 15. Giuseppe, figura biblica: 372. Giustiniani Agostino, storico: 462. Giustiniani Geronimo, storico: 468. Giv, fortezza: 135. Goethe Wolfgang: 407, 456. Gog e Magog: 143, 176, 260. Golius Jacob, orientalista olandese: 403. Golombek Lisa: 14, 229, 410. Gökche Tengiz: vd. Sevan, lago. Golfo Persico: 78. Gönche Oghlan, principe dell’Orda d’Oro: 121, 126, 173-74. Gorgiǯaniʒe Parsadan, storico: 248, 342, 453. Granucci Nicolao, autore lucchese: 394. Greci: 256, 297, 319, 322, 324, 360, 374. Grekov Boris: 177, 380. Grousset René: 405. Grujet Claude, umanista francese: 476. Guazzo Marco, storico veneto: 392. Gujarat: 38, 196. Guo Chi, funzionario Ming: 151. Güchlüg, capo tribale Nayman: 37 Gūdarz, castellano di Sirjan: 188. Guida Donatella: 15. Guliamov Yahya, studioso: 417. Gulpayigan: 105. Gunashiri, nobile ciagataico: 112, 116. Gurgan, Jurjan: 77-78, 84, 131-32, 134, 260. Gurgīn Milād, eroe mitico iranico: 107. Gurjī Beg, castellano di Tartum: 287. ‘Güzel’, signore di Ruha: 155.

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indice dei nomi Güzelcehisar: 317, 322. Habashi, foirtezza: 141. Habib Irfan: 198. Ḥabīb ‘Ūdī, musicista: 240. Hadīdī, poeta ottomano: 334. Händel Georg Friederich, musicista: 401. Ḥāfiẓ-i Shīrāzī, poeta: 100-2, 140, 407. Ḥāfiẓ-i Abrū, storico: 11, 29, 33-34, 68, 69-70, 144, 154, 178, 184, 189, 194, 199, 201, 216, 221, 255, 263, 276-77, 286, 288, 311, 325, 333, 346, 363, 365, 408. Ḥājjī Ābdār, rivoltoso persiano: 189. Ḥājjī ‘Abdullāh ‘Abbās, emiro qipchaq: 245, 306. Ḥājjī Bābāyī Savjī, nobile ottomano: 304, 306. Ḥājjī Beg Barlas, emiro: 33, 36, 38, 53, 75, 428. Ḥājjī Beg b. Ölmes: 113. Ḥajjī Īl-Beg, emiro ottomano: 307. Hājjī Musāfir, emisarrio timuride: 345. Ḥājjī Ṣāliḥ, comandante a Alinjak: 239. Ḥājjī Sayf al-Dīn: vd. Sayf al-Dīn Nuquz. Ḥājjī Sharaf, governatore di Bitlis: 162. Ḥājjī Tarkhān, Astrakhan: 127. Hama: 247, 261, 263, 274. Hamadan: 89, 105, 141, 143, 260. Hami, città del Sinkiang: 116. Hamid, beilikato anatolico: 301, 307, 317, 31920, 331, 463. Ḥamīd Khwāja Nayman, emiro: 33 Hammer-Purgstall J. von: 292-93, 311-15, 37576, 403, 407. Ḥamza Apardi Yumn(?), emiro timuride: 245. Ḥamza b. Mūsā, ufficiale: 428. Haridwar: vd. Kupila (Kuvila). Harī Malik Tuvājī, emiro timuride: 306. Haruk (Hark o Havīk, arm. Apahunik’), fortezza anatolica: 287. Ḥasan Berāt Khwāja, emiro timuride: 306. Ḥasan-i Buzurg Shaykh Ḥasan, sovrano jalayiride: 86. Ḥasan-i Kuchak, sovrano chobanide: 86. Ḥasan Pāşā: 308. Hashtrud Sar Askand: 282. Hasse Johann Adolf, compositore tedesco: 401. Hātifī ‘Abdallāh, letterato timuride: 365, 370.

Haym Nicola Francesco, librettista italiano: 401. Heidemann Stefan: 270-71. Helly Jacques de, cavaliere francese: 192, 445. Helmand, fiume: 80. Herat: 24-25, 35, 41, 68-69, 71-74, 78, 113, 194, 228, 352, 364-66, 381, 428. d’Herbelot Barthélémy, orientalista francese: 495. Hilla: 148, 278, 280, 285, 348. Hilmand, fiume: 68. Himachal Pradesh: 224. Himalaya: 223. Hisar-i Chaghaniyan Denau: 35. Hisar-i Shadman Gissar: 35, 260. Hisn Kayfa Hasankeyf: 151, 156, 275. Hitler Adolf: 170. Hodong Kim: 435. Homs: 261, 263. Hormuz: 190. Huai, fiume cinese: 356. Ḥubbī Khwāja Barlas: 133. Hülagü, khān mongolo: 25, 30, 140, 191, 238, 266, 280-81, 300, 350, 393. Hurmuday, odierna Zaporož’e: 445. Ḥusayn Amīr: vd. Amīr Ḥusayn, emiro. Ḥusayn b. ‘Alī, imam sciita: 273. Ḥusayn Bahādur Barlas, ufficiale: 423. Ḥusayn Bāyqarā, sovrano timuride: 365. Ḥusayn Ṣūfī Qongirat, sovrano: 49-51. Huvayza: 135-36, 247, 285. Iberi: 388. Ibn ‘Arabī, filosofo: 30. Ibn ‘Arabshāh, storico: 11, 22-24, 46, 65, 72-73, 106, 138-39, 147, 154, 157, 231, 240-41, 243, 256, 260-62, 274, 298-99, 313-14, 331, 335, 337, 360, 403, 405, 407, 455, 472. Ibn Baṭṭūṭa, viaggiatore: 25, 185, 215, 420. Ibn Faḍlān, viaggiatore: 120. Ibn Khaldūn, storico: 11, 65, 263-67, 456. Ibn Khātima, scienziato: 29. Ibn Mufliḥ, giurista mamelucco: 270. Ibn Sarāyā Ṣafī al-Dīn b. Sarāyā al-Ḥillī, poeta: 159. Ibn Taymiyya, filosofo: 30. Ibn al-Wardī, viaggiatore: 29. Ibrāhīm Qumī, emiro timuride: 307.

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indice dei nomi Ibrāhīm Shāh, sovrano dello Shirvan: 95, 187, 243-44, 343, 349. Ibrāhīm Shāh, signore curdo: 135. Ibrāhīm Sulṭān b. Shāhrukh, principe timuride: 159, 182, 361, 364. Ibrahimlik, sito prossimo a Baghdad: 238. Ijal, clan dei Barlas: 36. Idiku Barlas: vd. Edigü Barlas. Idrīs: 372. Idrīs Qawchīn, emiro timuride: 306. Ilanjik (Ilek), fiume: 124. Ildiz, clan dei Barlas: 36. Ileghmish Oghlan, Irighmish, nobile dell’Orlda d’Oro: 109, 435. Ili (Ayle), fiume: 53. Iligh Köl, lago: 115. Ilker, nome di tribù: 115. Ilkhanidi, dinastia: 25-27, 30, 85-86, 140, 146, 150, 280, 283. Īlteriyān, emiro ottomano: 308. Ilyās, emiro ottomano: 307. Ilyās (o Almās) “l’Afghano”, resistente a Meerut: 218. Ilyās b. Kepek Khān Yasa’urī, emiro timuride: 306. Ilyās Khwāja, khān: 39, 47. Iliyās Khwāja, emiro timuride: 88, 305. Ilyās il sūbashī, Signore di Pergamo: 321-22. ‘Imād al-Dīn, mawlānā, maggiorente persiano: 133. Imbros, od. Gökçeada, isola dell’Egeo: 324. Imereti, popolo della Georgia: 239. Impero ottomano: 9, 366. India: 9, 12, 18, 128, 191, 193, 195-216, 222-23, 229-30, 234, 240-41, 245, 260, 262, 273, 298, 322, 358, 360, 363, 366-69. Indiani: 230. Indo: 202-3, 226, 228. Inghilterra: 289, 293, 295. Inguscezia: 183. Iñigo d’Afaro Māhnūs, capitano aragonese: 324-26. Inkajik, comandante ciagataico: 114. Iorga Nicolae: 291-93. İpsala, fortezza in Tracia: 254, 330. Iqbāl Khān, emiro tughluq: 216. Iran: vd. Persia. Īrānzamīn: vd. Persia.

Iraq: 35, 65, 89, 122, 130, 140, 144, 147-48, 155, 186, 233, 238, 276, 281, 285, 348, 358. Iraqeni: 185. Iryab: 201. Irbil: 148. Irène di Trebisonda, regina bizantina: 399. ‘Īsā Beg, beg di Aydın: 255, 331. ‘Īsā Çelebī, principe ottomano: 305, 307, 309, 329, 330. ‘Īsā al-Ẓāhir Majd al-Dīn, sovrano artuqide: 151, 155-58, 163, 275, 320, 350, 456, 469. Isfahan: 104-5, 108-9, 113, 131, 140, 143, 189, 214, 260, 342, 345, 366, 370, 389, 402. Isfandiyār, governatore muzaffaride: 136. Isfandiyār, emiro di Sinope: 255, 331. Isfandiyār, emiro di Menteşe: 322. Isfarayn, città del Khorasan: 75. Isfarāynī shaykh Nūr al-Dīn ‘Abd al-Raḥmān, uomo di religione: 142. Iskandar b. ‘Umar Shaykh, principe timuride: 242, 284, 304-5, 309. Iskandar Durbat, ufficiale: 44. Iskandar Hindū Bugha, emiro timuride: 306. Iskandar Shaykhī, emiro persiano: 73, 307, 350-52. Islām Āghā, sposa di Timur: 43. Ismā‘īl I, Shāh safavide: 366, 370. Ismā‘īl, emissario timuride: 250. Isma‘iliti: 438. Isonzo: 391. Issyk Kul (Issik Köl), lago: 29, 48, 56, 64, 79. Iṣṭakhr, città del Fars: 104. Istanbul: vd. Costantinopoli. İstanoz: 317. It Ichmas, deserto: 114. Italiani: 85, 288. Ivane Ǯaqeli-Tsixisǯvareli (Īvanī), atabeg georgiano: 250. ‘Izz al-Dīn Malik Hazārgarī, signore del Qumis: 263. ‘Izz al-Dīn, signore di Van: 99. Jackson Peter: 196, 214, 323, 326. Jadvar (Chatvar) Qazaq, gruppi tribali caucasici: 184. Ja‘far Pāshā, signore yemenita: 369. Jaghatu Zarrina Rud, fiume: 280. Jahān Sulṭān, principessa timuride:

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indice dei nomi Jahāngīr b. Timur, principe reale: 21, 29, 44, 51-53, 55-56, 84, 125, 128, 134, 157, 189, 236, 352, 358, 363, 425. Jahān Mulk b. Malikat, emiro timuride: 306. Jahānshāh b. Chaku Barlas Bahādur, emiro timuride: 115, 166-67, 176-77, 182, 186, 219, 224, 262, 274, 277, 285, 307, 309, 317, 350, 459, 460. Jakubovskij Aleksandr Ju.: 380, 382, 474. Jalāl al-Dīn, signore di Farah: 80. Jalāl al-Dīn bavurchī, emiro timuride: 306. Jalāl al-Ḥaqq wa’l-Dīn Kāshī, autorità religiosa: 50, 213. Jalāl al-Dīn Khuttalānī, emiro: 109. Jalāl al-Dīn Mangburni, sovrano corasmico: 203. Jalāl al-Dīn Muḥammad Mawlānā, medico mamelucco: 273. Jalāl Ḥamīd, emiro ciagataico: 115. Jalāl al-Islām, emiro timuride: 263, 270, 305. Jalal Toreli, patriota georgiano: 432. Jalayiridi, dinastia: 25, 33, 35-36 39, 53, 68, 85, 100, 141, 279, 281, 284. Jam: 72, 352. Jāmī, letterato timuride: 365. Jamival, città indiana: 205. Jammu: 225-27. Jamshīd, re mitico iranico: 105, 123, 373. Jān Aḥmad, qalāndar di Ya‘qūba: 278. Jani Beg, khān dell’Orda d’Oro: 28, 431. Jānī Beg Gurjī, Ǯanibeg Zedgniʒe, signore georgiano: 249, 306. Janjan: 205. Jandidāyān Junayd, emiro timuride: 306. Jarrāḥ, sayyid, notabile di Shiraz: 246. Jarunqa (Jārūn): 53. Jasrat Nuṣrat Khān, governatore di Lahore: 204, 218. Jāt Zuṭṭ, gruppo tribale indiano: 206, 208. Jawlat, sito caucasico: 171. Jawn (Jamna): vd. Yamuna. Jawn-i Qurbān, gruppo tribale: 37, 71, 75-78, 113. Jazira (Jazīrat) ibn ‘Umar Cizre: 158. Jhaban (Chibhan), od. Bhimber: 226. Jhelum Jamd: 203, 226. Jibal: 260. Jilawun, sito del Gurgan: 134.

Jöchi, figlio di Chinggis Khān: 57, 60, 119, 122, 126, 175, 177, 187. Jogaila (Jagiełło)/Vladislaus (Ladislao), sovrano di Polonia: 168-69. Jonāraja, paṇḍit del Kashmir: 225. Joseph ben Joshua, rabbino: 463. Jūdī, monti indiani: 203. Jundishapur: 260. Juvaynī ‘Alā’ al-Dīn ‘Aṭā Malik, storico ilkhanide: 281. Kabud Jame: 84. Kabul: 33, 68, 128, 220, 228, 363. Kāfiristān, regione dell’Afghanistan: 198. Kafiri: vd. Siyāhpushān. Kakhta (Kahta): 258. Kaiumov Malik: 417. Kakar: 204. Kalanduji, comandante ciagataico: 115. Kalat, Persia: 76-78. Kalat, Afghanistan: 202, 368. Kamakh, Kemah: 287-88, 300, 311, 317, 350. Kamāl al-Dīn, signore di Bathnair: 207. Kanbayat (Kambay, Khambat): 196. Kandircha (Kundurcha), fiume: 124, 126, 168. Kapil, santone indiano: 219. Kapila, fiume indiano: 221. Kara Hisar: 317, 319, 334. Karaca solaḳ, ufficiale ottomano: 310. Karachuk: 122. Karakorum: 181. Karaman: 153, 309. Karamanidi, dinastia: 152, 251, 320, 330. Karaşehir: 330. Karası, beilikato anatolico: 301, 305, 307. Karbala, città dell’Iraq: 144, 273. Karimov Islom, presidente dell’Uzbekistan: 382-383. Kār-Kiyā, dinastia del Daylam: 350. Karlowitza: 401. Kars: vd. Qars. Karsakpay, sito prossimo a Karaganda: 123, 322. Kartidi, dinastia: 25, 38, 40, 68-69, 70-71, 73, 77-78. Kartli, popolo e region della Georgia: 239, 344-46. Kary-Niyazov: vd. Qari-Niyazi.

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indice dei nomi Kashan: 135. Kashghar: 242. Kashmir: 202, 225-26, 358. Ḳāsım b. Bāyazīd, principe ottomano: 310, 318. Kasimov Kenesary, sultano kazako: 381. Kastamonu: 252, 331. Kat: 48-51, 109. Kathiawar, Gujarat: 220. Kathū: vd. Shaykh Aḥmad Kathū. Katir: 317. Katvar, città afghana: 199. Kavkuresh: 84. K’axeti, popolo della Georgia: 239. Kaykhusraw Khuttalānī, sovrano locale: 41, 43, 50-51. Kayseri (Qayṣariyya, Cesarea): 301, 330, 336. Kazakhstan: 47-48, 53, 119, 121, 123-24, 151, 361. Kazaki: 381. Kazirun: 107. Kebek, khān: 36. Kebek Timur, emiro: 48. Kehren Lucien: 369, 382. Kemah: vd. Kamakh. Kerman: 27, 101-2, 130, 139, 143, 188, 260, 349. Keşiş Dağ, il Monte Olimpo di Misia: 318. Khabushan, sito persiano: 429. Khalaj, popolazione turca: 470. Khālid b. Walīd, comandante arabo: 160. Khalīl Murād Pāşā, emiro ottomano: 308, 317. Khalīl Sulṭān b. Mīrānshāh, principe timuride: 97, 197, 225, 238, 274, 285, 305, 347, 356, 360-61, 364, 458. Khalji, dinastia: 197, 450. Khalkhal, città dell’Azerbaigian: 90. Khamshā (Ximšia), comandante georgiano: 243-44, 453. Khānzāda: vd. Sevin Beg. Khaṭāy Bahādur, ufficiale: 59. Khavarnaq, edificio sasanide: 233. Khiṭā’ī (Khaṭā): vd. Sinkiang. Khiva: 49-50, 371. Khiżr Khwāja, Signore del Moghulistan: 111-13, 115-19, 122, 194, 242, 435. Khiżr Khān Sayyid Muḥammad, sovrano indiano: 198, 217-18. Khiżr Yasavur, emiro: 33, 36, 43.

Khıżır Shāh, emiro di Saruhan: 331. Khōkar, gruppo tribale indiano: 204, 206. Khorasan: 25, 27, 30, 36, 65, 68, 70-73, 76-78, 82, 100, 111, 113, 132, 140, 188, 193-94, 226, 241, 260, 264, 274, 343, 345, 352, 358, 365, 409. Khotan (Hotan): 196-97, 242, 358. Khudāydād Ḥusaynī, emiro timuride: 115, 174, 189. Khudāydād, nobile ciagataico: 112-13. Khujand: 35, 54, 111, 260. Khulm: 228. Khumārī il yasavul, comandante della guardia del corpo di Timur: 138. Khurmatu (Duz Khurmatu), od. ‘Iraq: 15657. Khurramabad: 88, 135. Khusraw: vd. Cosroe. Khuttalan: 37, 109, 421. Khuy (Goysu, Sulak), fiume: 171. Khuzistan: 107, 134-35, 143, 247, 260, 285. Khwaf, città del Khorasan: 100. Khwāja ‘Abd al-Qādir Marāghī, musicista: 145. Khwāja ‘Alī, comandante timuride: 305, 367. Khwāja ‘Alī (‘Alī b. Mu‘ayyad), signore dei Sarbadār: 70-71, 74, 76-79, 82, 88, 113, 144, 429. Khwāja ‘Alī, shaykh safavide: 428. Khwāja Chakana-Barlas, emiro timuride: 307. Khwāja Fażl, mawlanā, autorità religiosa timuride: 213. Khwāja ‘Imad al-Dīn Mas‘ūd, signore dei Sarbadār: 88. Khwāja Mas‘ūd Sabzavārī, signore dei Sarbadār: 113, 148-49. Khwāja Yūsuf, notabile timuride: 362. Khwājū Kirmānī, poeta persiano: 281. Khwāndamīr, storico: 299, 365, 396, 405. Khwarazm: vd. Corasmia. Khwārazmshāh, dinastia: 203. Khworashah, villaggio del Khorasan: 75. Kiev (Minkirman): 176, 179, 242. Kikilashvili Vladimer: 14. Kipling Rudyard: 448. Kirghizi (Kirgis): 201, 382. Kirghizistan: 64. Kirkuk: 155.

552

indice dei nomi Kırşehir (Moukissos, Giustinianopoli): 302, 330. Kish (Shahr-i Sabz), città timuride: 21, 24, 28, 33, 36, 41, 44, 66-67, 73-74, 82, 118, 157, 193, 352, 421, 425, 427. al-Kishī Abū Muḥammad ‘Abd Allāh, uomo di religione: 427. Kitu: vd. Qars. Kızılırmak (Yolghun Su, Halys): 302. Knolles Richard, storico inglese: 397-98. Kocaeli: 317. Kök Tappa (Kok Tobe): 53. Kos, isola: 324. Kosovo Polje: 191-92, 253, 318. Kolomna, Russia: 178. Kolobovka, città russa: 185. Konya Urganch (Köneürgenç): vd. Urganch. Konya (Iconio): 317, 320, 330. Kononov V.N.: 417. Köpek, emiro anatolico: 319. Köprülü Fuad: 315, 334. K’onst’ant’ine (Kūstandīl, Kustandir), principe georgiano: 284, 341-42, 346. Korni, città del Caucaso: 90. Konya: 251. Köylühisar (Nicopoli d’Armenia): 152. Kravo, unione di: 119. Ksani, fiume georgiano: 249. Kuban’: 182, 187. Kuchapā, ribelle di Isfahan: 105. Kuh-i Sulayman, catena montuosa: 81. Kuhistan: 77. Kuhsan, villaggio vicino a Herat: 426. Kula (Kola, K’ola), sito in Georgia: 166-167, 183. Kulikovo Polje: 178. Kundurcha: vd. Kandircha. Kupila (Kuvila, Haridwar): 219. 221, 223-24. Kura (Kur, Mt’k’vari), fiume: 96, 244, 249, 287, 345. Kurbuqa, popolazione mongola: 179. Kuri: vd. Kura. Kurdistan: 99, 134, 140-142, 155-56, 162, 285, 342. Kütahya: 276, 317-20, 330. Kutaisi: città della Georgia: 346. Ḳuvvetlū Beg, emiro ottomano: 307.

Kuxeti, regione georgiana: 167. Kvabtaxevi, sito georgiano: 250. Ladislao d’Angiò Durazzo, re di Napoli: 294-95. Lahore: 204, 227. Lamb Harold: 408, 410. Langlès Louis-Mathieu, traduttore francese: 369. Lal Kishori Saran: 219, 221. Lala, clan dei Barlas: 36. Lāla Şāhīn, emiro ottomano: 307. Lāmi‘ī Çelebī, letterato ottomano: 375, 474. Lancioni Giuliano: 15. Larende: 330. Laristan, Piccolo e grande Lar: 87-88, 135-136, 260. Latini: vd. Franchi. Lazar Hrebeljanović, sovrano serbo: 192, 318. Lentz Thomas: 410. Leont’i Mroveli, vescovo georgiano: 183. Lesbo: 328. Levi Della Vida Giorgio: 456. Lewis Matthew G., drammaturgo inglese: 406. Liao (Kitan, Chitai), dinastia: 356. Libka (Libta): vd. Lituani. Lisānī, poeta: 235. Lituania: 119-20, 126, 168, 175, 242. Lituani (Libka, Libta): 175, 178, 191, 193. Liu Wei, eunuco Ming: 195. Lixi, monte georgiano: 249. Lo Jacono Claudio: 14. Lombardia: 295. Londra: 444. Lope de Vega Felix, drammaturgo spagnolo: 398. Lowry Glenn: 410. Luca, santo ed evangelista: 179, 295. Luigi XIV, Re Sole: 9, 402. Lungo Pietro, marinaio di Candia: 316. Luni, città indiana: 209-10. Luqmān Pāshā b. Tughaytimur, principe mongolo: 84-85, 132. Luqmān Zard Tuvājī: 306. Luristan: 285. Luristanak: 246. Luṭf Allāh b. Buyan Timur, funzionario timuride: 342

553

indice dei nomi Maalouf Amin: 411. Macedonia: 191. Machiavelli Niccolò, storico e politico: 39091. Maciocco (Maiocho) Giuliano, emissario genovese: 251, 289. Madā’in (Ctesifonte): 278. Maffei Scipione, drammaturgo veneto: 401. Maghrib: 265-66. Magnon Jean: 399. Mahādeva (Shiva): 220, 221. Mahanasar: 132. Maḥmūd Chelebī, signore di Tashan: 153. Maḥmūd Dāvud, funzionario timuride: 353, 451. Maḥmūd b. Soyurghatmish Khan, sovrano ciagataico: 110, 212, 236, 262, 304-5, 310-11, 321. Mahmoud Helmy Nelly: 385. Maḥmūd di Ghazna, sultano: 27, 64, 128-29, 191, 193, 196-197, 199, 220-21, 224, 426. Maḥmūd di Kashgar, letterato: 97, 423. Maḥmūd Sabzavarī Khwāja: 144. Maḥmūd Shāh Tughluq, sovrano tughluq: 196, 198, 212-14, 218. Maḥmūdī, governatore di Astrakhan: 186. Majd al-Dīn ‘Īsā al-Ẓāhir: vd. ‘Īsā al-Ẓāhir, Majd al-Dīn. Maju, sito in Russia: 187. Makas: 187. Makhan: 40, 132. Makhdūm Qulī, Mahtumkuli: 381. Makran: 80. Malatya, l’antica Melitene: 252, 254, 257-58, 283. Malik Ashraf, emiro chobanide: 431. Malik Bāqir, principe kartide: 422. Malik ‘Izz al-Dīn, signore del Piccolo Lar: 88, 348. Malik ‘Izz al-Dīn, signore di Jazīrat ibn ‘Umar: 158. Malik Muḥammad, shāh degli Afghani: 201. Malik Pāyanda Barlas, emiro timuride: 306. Malik Shāh Ḥusayn, sovrano: 79. Malikat Āka: vd. Tukal Khānum. Malikshāh, emiro timuride: 302. Mālkoç Pāşā, emiro ottomano: 308. Mall, capo afghano: 202.

Mallū Khān, emiro tughluq: 196, 211-14, 216. Malus, fortezza: 131. Mamai, khān dell’Orda d’Oro: 60. Mamelucchi, dinastia d’Egitto: 15, 87, 91, 119, 146, 151, 168, 215, 247, 257-62, 267-68, 275, 339. Mamqatū, ufficiale del Sistan: 81. Mamuqtu, sito caucasico: 184. Manas, eroe epico kirgiso: 381. Mandali: 246, 278, 285. Mani, profeta iranico: 354, 471. Manisa (Magnesia): 321-22, 325, 330. al-Manṣūr, califfo abbaside: 67. Mansura (Muzaffarnagar): 219. Manūchihr, sovrano epico iranico: 65, 266. Manuele II Paleologo, imperatore bizantino: 252, 289, 293-97, 310, 318, 375. Manz B. Forbes: 14, 350, 410, 417. Manzari Francesca: 15. Maometto II: vd. Meḥemmed II. Maqrīzī, storico: 418. Maragha: 100. Marāghī Khwāja ‘Abd al-Qādir: vd. Khwāja ‘Abd al-Qādir Marāghī. Maraleli, nobile Marali di Suram: 244. Marand, città dell’Azerbaigian: 97, 243. Maratona: 391. Marco del Buono, pittore fiorentino: 387. Mardin: 151, 155-58, 259, 275-76, 320, 341-42, 458. Margat de Tilly Jean-Baptiste, gesuita e missionario: 476. Maria Comnena, despina, principessa bizantina: 150. Maria de’ Medici: 364. Marlowe Christopher, drammaturgo inglese: 394, 396-97, 399, 407, 411. Małowist Marian: 411. Marozzi Justin: 411. Marracci Ludovico, arabista: 405. Martino I di Aragona: 326. Marv, città del Khorasan: 28, 40-41, 366, 428. Marx Karl, filosofo: 378. Mashhad, città del Khorasan: 71, 428. Masolino da Panicale, pittore fiorentino: 387. Mas‘ūd khwāja, funzionario timuride: 270. Mas‘ūd Simnānī, segretario persiano timuride: 278, 458.

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indice dei nomi Mayapur (Boghpur): 224. Mayyafariqin (Martyropolis), od. Silvan: 161. Mazanderan: 75, 77, 83-85, 131-34, 143, 224, 260, 350, 352, 358. Mazīd Barlās, governatore di Nihavand: 189. Meandro (Menderes): 322, 330. Mecca: 88, 195, 202, 222, 230, 262, 272, 285, 311. Medi: 388. Medina: 202, 272. Meerut (Mirat): 209, 218-19. Meḥemmed Beg, emiro ottomano: 308. Meḥemmed I Çelebī, sultano ottomano: 256, 301, 305, 308-9, 313, 329-31, 397. Meḥemmed II, sultano ottomano: 365, 369, 387, 396. Menteşe, beilikato anatolico: 252, 255, 317, 320-22, 330, 463. Merkit, gruppo tribale mongolo: 76, 183, 344-45. Mesopotamia: vd. ‘Iraq. Mesxeti, popolo della Georgia: 239. Mexía Pedro, erudito spagnolo: 394-97. Miani Giovanni, genovese presente ad Azak: 180, 387. Midyat: 158. Mignanelli Beltramo, mercante e diplomatico: 11, 14, 145, 155, 261, 264, 267, 269-71, 301, 304, 314, 334, 383-85, 388, 394. Mika, fortezza sull’Elburs: 187. Mikā’īl, comandante di Sib: 278. Milano: 295, 387. Milwright Marcus: 314. Minglī Khwāja, ufficiale timuride: 278. Minorsky Vladimir: 184, 243-44, 469. Mihrabanidi di Nīmrūz, dinastia: 430. Ming, dinastia: 112, 117-19. Mingöl (Minkūl), prateria nel Caucaso: 250, 282, 341-42, 469. Minkirman: vd. Kiev. Minuti Rolando: 403, 477. Mīrak b. Īlchī Khuttalānī, emiro: 306. Mīrānshāh (Amīrānshāh) b. Timur, principe reale: 56, 72, 74, 76-78, 84, 96, 100, 104, 109, 113, 118, 135, 140-41, 144-45, 148, 152, 15758, 162, 164-65, 175-77, 182, 186-88, 194, 197, 227, 236-41, 243, 245, 248, 254, 262, 269, 274, 277-79, 281, 289, 304-5, 310, 318, 335, 347, 35051, 354, 361, 363-64, 369, 446, 457.

Mircea il Grande, principe valacco: 145, 305. Mīrkhwānd, storico: 365, 396. Mirziyoyev Shavkat, presidente dell’Uzbekistan: 383. Miṣr Khwāja, principe Qara Qoyunlu: 163. Mistra, despotato: 293. Moghul, dinastia indiana: 365. Moghulistan, regione storica: 47-49, 52, 5455, 57-58, 79, 108, 111, 113, 116-18, 194-196, 198, 208, 230, 234, 242, 300, 358, 360, 362. Moldavi: 374. Moldavia: 169. Molinari da Besozzo Leonardo de’, pittore lombardo: 387. Molla Fenarī (Meḥemmed al-Fanarī), autorità religiosa: 318. Molotov Vjačeslav Michajlovič, ministro sovietico: 380. Möngke, Gran Khān: 25, 35, 300. Mongoli: 22, 82, 100, 121, 141, 146, 153, 185, 197, 203, 297-98, 300, 339, 384. Mongolia: 124, 356, 360. Moore Thomas: 406. Moravia: 169. Morea: 295. Mosca (Maskū, Maskav): 60, 119-20, 177-180, 295-96, 371, 374, 377, 398. Mosè: 372. Mossul: 98, 147-48, 155, 158, 277, 458. Mtskheta, sito della Georgia: 244. Mu‘āwiya, califfo omayyade: 273. Mubārak-Shāh, principe ciagataico: 26. Mubārak Khān, emiro locale indiano: 219. Mubāriz al-Dīn Muḥammad, sovrano muzaffaride: 101-2. Mubashshar, emiro kartide: 306. Mubashshir Bahādur Khwāja, emiro timuride: 84, 115, 187, 211. Muhadhdhab Khurāsānī, ufficiale persiano: 130. Muḥammad, mawlānā, uomo di religione: 240. Muḥammad (Maometto), profeta: 20, 70, 74, 93, 95, 234, 269, 273, 311, 371, 397. Muḥammad b. Abū Sa‘īd, governatore di Ṭabas: 189. Muḥammad b. Fīrūzshāh Tughluq, sovrano: 198.

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indice dei nomi Muḥammad b. Tughluq, sovrano: 198. Muḥammad b. al-Makkī, religioso sciita: 70. Muḥammad b. Shāh Yaḥyā, muzaffaride: 108. Muḥammad b. Yūsuf al-Jazarī mawlānā Shaykh, eminenza religiosa: 318. Muḥammad Beg, beg dei Menteşe: 255, 322, 323, 330. Muḥammad Darvīsh Barlas, emiro timuride: 162. Muḥammad Ḥaydar Dughlat Mīrzā, storico: 407. Muḥammad Jild, sovrintendente timuride: 231, 233. Muḥammad Juki b. Shāhrukh, principe timuride: 287. Muḥammad Kart, principe: 76. Muḥammad Kāẓim di Marv, storico: 367. Muḥammad Khalīfa, mawlanā, notabile di Shiraz: 246. Muḥammad Khalīl Tuvājī, emiro Suldus: 306. Muḥammad Madanī, Sayyid, uomo di religione: 202, 225. Muḥammad Miraka, nobile timuride: 109. Muḥammad Oglan b. Ghāyir Khān, signore abkhazo: 184. Muḥammad Qawchīn Bahādur, emiro: 306. Muḥammad Qazaghan, ufficiale: 245. Muḥammad Quhistānī, scienziato e letterato: 240. Muḥammad Rashtī, sayyid, emiro Kār-Kiyā: 350. Muḥammad, Shāh del Badakhshan: 42. Muhammad Shaybānī, khān: 23, 366. Muḥammad Suldus, emiro: 53-54. Muḩammad Sulṭān b. Jahāngīr, principe reale: 56, 125, 129, 135-36, 148, 157, 161-62, 174, 190, 201, 236, 241-42, 269, 287-88, 305, 317, 321, 325, 327-28, 333-35, 339-40, 342, 350, 352, 357, 362-63. Muḥammad Sulṭānshāh, ufficiale: 89, 134, 144, 173, 179, 186, 194, 196, 269, 279, 284, 304, 309, 317-318, 320, 322, 325, 428, 457. Muḥammad Tughluq, sultano: 38. Muḥammad Tūrān, comandante timuride: 345. Muḥammad Tuvājī, emiro timuride: 306.

Mu‘īn al-Dīn Naṭanzī: vd. Naṭanzī, Mu‘īn al-Dīn. Mu‘izz al-Dīn Pīr Ḥusayn, sovrano kartide: 24, 40-41, 69, 419-22. Mullā Ḥāfiẓ (Manla Hafeisi), ambasciatore timuride: 117. Mullā Naṣr al-Dīn: vd. Nasreddin Hoca. Multan: 196, 199, 203-5, 207, 217, 260. Mulūk Sabzavārī, signore dei Sarbadār: 113. Muminov Ibragim, storico uzbeko: 379, 382. Mūnduz Āghā, moglie di Timur: 359. Munk: 33, 37, 421. Muqālī, comandante: 35. Muqbil, castellano di Bahasna: 260, 308. Muqbil, luogotenente di Muṭahhartan: 282. Murād I, sultano ottomano: 146, 191, 250-51, 304, 313, 324, 329, 445. Murād II, sultano ottomano: 473. Murād b. Chugham Barlas, emiro: 44 Murād Pāşā, emiro ottomano: 308. Muruvvat, comandante tataro: 300, 336. Musali, sito anatolico: 322. Muş: 99, 162. Mūsā Avghānī, avventuriero afghano: 201. Mūsā Çelebī, principe ottomano: 305, 307, 309, 311, 329-30. Mūsa Taychiut: vd. Amīr Mūsa Taychiut. Mūsā Tūy Bughā Rīgmāl, emiro timuride: 41, 279, 305. Musāfir Kābulī, governatore di Dibalpur: 205, 207. Muṣṭafā, castellano ottomano: 256, 257 Muṣṭafā ‘Alī di Gallipoli, storico ottomano: 371. Muṣṭafā Çelebī, principe ottomano: 301, 305, 307, 309, 311, 317, 329. al-Musta‘ṣim, califfo abbaside: 30. Musṭawfī, Zayn al-Dīn b. Ḥamd Allāh, storico: 29, 438. Muṭahhartan (Ṭahhartan): 97-99, 151-54, 163, 193, 216, 248, 252-55, 258, 282-84, 288, 304, 306, 308, 311, 331. al-Mu‘tamid, califfo abbaside: 220. Muẓaffar: vd. Amīr Muẓaffar. Muẓaffar Kāshī, notabile muzaffaridi: 105. Muzaffaridi, dinastia: 68, 78, 85, 100-1, 139-41. Mycete, personaggio teatrale: 396. Mʒoreti, antico centro georgiano: 249.

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indice dei nomi Nabatei, popolo: 265. Nabucodonosor (Bukhtnaṣr): 265. Nādir Shāh Afshār, shāh di Persia: 9, 365, 36768. Nagar: vd. Nagz. Naghz (Nagar): 202, 225, 228. Nakhchevan: 87-88, 90, 284, 289, 444. Nakhshab (Qarshi), Uzbekistan: 33, 36, 421. Napoleone Bonaparte: 9, 407, 456. Nāṣir al-Dīn Ṭūsī, poligrafo persiano: 412. Nasīmī, poeta: 165. Navā’ī ‘Alīshīr: vd. Navoi Ališir. Nagarkot (Kangra): 224. Naghdai (Naghidai), nobile dell’Orda d’Oro: 49. Naillac Philibert de: vd. Philibert de Naillac. Najaf: 280. Namakzar: 88. Naqqāsh ‘Alī, pittore: 474. Nargis (Nerges, o Arkas), Daghestan: 187. Nāṣir al-Dīn ‘Umar, Mawlānā Qāżī, notabile timuride: 199, 206, 211, 216. Namun Batur (Namus Bahādur), nobile ciagataico: 112. Nāṣir al-Dīn Chirāghī, poeta sufi: 218. Nāṣir al-Dīn Muḥammad, emiro dhulqadiride: 257. Naṣr al-Dīn Khwāja: vd. Nasrettin Hoca. Nasreddin Hoca Naṣr al-Dīn Khwāja, eroe popolaresco: 147, 375. Naṭanzī Mu‘īn al-Dīn, storico: 11, 28, 33-34, 36, 73, 112, 159, 175, 178, 311, 342, 363, 408, 421. Navā’ī ‘Alī Shīr (Navoi Ališir), letterato: 365, 381, 417. Nawbanjan, sito in Persia: 246. Nayman, gruppo tribale: 36-37. Negüder, ufficiale: 26. Negüderi, seguaci di Negüder: vd. Qarawna. Nemrut Dağ, monte anatolico: 258. Nepal: 223. Nero, Mar: 169, 251. Neşrī, storico: 254, 314, 369. Netanyahu Benjamin, politico israeliano: 383. Nevers Giovanni di (Giovanni senza paura): 192, 384.

New York: 387. Newton Isaac: 404. Nicea Iznik: 301, 318. Nicol Donald: 295. Nicola, santo: 179. Nicomedia Izmit: 301. Nicopoli: 181, 192, 251, 288-89, 291, 294, 384, 390. Niğde: 330. Nihavand, città persiana: 189, 348. Nilo: 392. Nimrod: 156. Nimruz: 79. Nis Adası: 333. Nisa, Turkmenistan: 84. Nishapur: 28, 68, 70, 352, 428. al-Nīshāpūrī Abū’l-Ḥusayn Muslim, uomo di religione: 427. Niẓām al-Dīn Shāmī, storico: 11, 22, 49, 58, 60, 92, 103, 106, 123, 140, 142-44, 149, 177-78, 194, 199, 201, 221, 238, 242, 256, 258-60, 26263, 267, 273-74, 276, 287, 310, 311, 317, 319, 24325, 327, 332, 336, 344-45, 363, 408, 442. Niẓām al-Mulk, ministro selgiuchide: 46. Niẓāmī di Ganja, poeta: 233, 366, 381. Nižni Novgorod: 119. Noè (Nūḥ), profeta: 263, 372, 387. Nogai, popolazione mongola: 184. Nogai, steppa dei: 184. Norvegesi: 295. Novosel’cev A.P.: 474. Nu‘mān al-Dīn qāżī, autorità religiosa: 213. Nūr al-Ward b. Sulṭān Aḥmad, principe jalayiride: 349. Nusaybin (Nisibi): 278, 458. Nuṣrat Khān: vd. Jasrat Khān. Obaldia René de: 412. Obolenskij Michail Andreevič, principe russo: 168. Ögödei, gran khān: 42. Oka, fiume: 178-79. Okada Hidehiro: 356. Olanda: 398. Oleg, principe di Rjazan’: 60. Olivera Mileva, despina, regina serba: 312, 318. Ölmes, emiro dei Jawn-i Qurbān: 113.

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indice dei nomi Oman: 226. Omayyadi: 273-74. Orado Giacomo de, mercante genovese: 297. Orcazie, personaggio teatrale: 399. Orda Bianca: 55. Orda d’Oro: 26, 28-30, 48-49, 58, 60, 87, 95, 108, 109, 119, 126, 168, 170-71, 174, 176, 17779, 184, 191, 353. Orda Media kazaka: 381. Orenburg: 126. Orkhān, sovrano ottomano: 313. Orkhān, emiro di Saruhan: 331. Orkhon, fiume: 124. Orsini, famiglia nobiliare romana: 386, 391 Orsini Giordano, cardinale: 386. Ortak (Ornak): 113. ‘Orūç b. ‘Ādil, storico ottomano: 303, 334. Ošanin Lev V.: 17, 417. ‘Osmān I, sovrano ottomano: 297. Osseti (Ās): 182, 185. Ossezia: 171. Otranto: 389. Otrar (Fārāb), od. Kazakistan: 57, 59, 108, 121, 360-61. Ottomani: 127, 146, 169, 191-92, 250, 254, 257, 282, 288-89, 291, 297, 299, 303, 316, 330, 373. Oxford: 293. Oxus: vd. Amu Darya. Özbeg, khān dell’Orda d’Oro: 49, 58, 185, 425, 444. Padova: 402. Pādshāh-i Būrān, emiro timuride: 306. Páez de Santa María Alonso, teologo: 355, 359. Pahra, città indiana: 224. Pakistan: 81, 223, 227. Pakpattan, città del Punjab: 205. Paladari: 322. Palatia (Balat): 301, 330. Paleologhi, dinastia: 293. Palestina: 179. Palmira: vd. Tadmur. Panaretos Michele, storico: 150. Panfilia: 320. Panizati Buffilo, ammiraglio a Smirne: 32425.

Paolo, santo: 359. Paolo III, Alessandro Farnese, papa: 392. Panipat, città indiana: 208-9. Parigi: 289, 291, 295, 384, 402. Parniyani (Parniyan): 202. Parti: 388. Parvan: 202. Pāşācūḳ, emiro ottomano: 308. Pasargadae Mādar-i Sulaymān: 104-5. Pashtun, gruppo etnico: 201. Paul Jürgen: 161, 297. Pechino (Khānbaliq): 242. Pegolotti Francesco Balducci, mercante: 99. Pellò Stefano: 15. Pera, colonia genovese: 289, 297, 316, 319. Pericle: 375. Perondino Pietro, storico: 334, 394. Persepoli (Takht-i Jamshīd): 104-5, 396. Persia (Iran, Irān-zamin): 9, 12, 14, 27, 29, 6466, 68, 71-72, 78-79, 82-85, 90, 100, 104-5, 108, 110, 113, 122, 129-32, 140-41, 146-147, 167, 172, 181, 188, 193-94, 228, 266, 300, 322, 339, 349, 358, 366, 395. Persiani (Tajiki): 46, 66, 87, 96, 102, 179, 247, 261, 265-66, 268, 388. Pest: 292. Pétis de La Croix François il giovane, studioso della Persia: 402-3, 473. Petruševskij Il’ja Pavlovič: 79. Philibert de Naillac, Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi: 324. Piemontese Angelo Michele: 14, 385. Pietro, santo: 359. Pietro il Grande, zar di Russia: 373-74. Pīltan Beg Aq Qoyunlu: 467. P’imen Mac’q’vereli, vescovo di Ac’q’uri: 457. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa: 385, 388-91, 395. Piovene Agostino, librettista veneziano: 400-1. Pīr ‘Alī Aq Qoyunlu: 304, 306, 467. Pīr ‘Alī Suldūz, emiro: 305, 351. Pīr ‘Alī Tāz, visir timuride: 364. Pīr Aḥmad, atabeg di Ram Hurmuz: 136. Pīr Ḥasan, emiro Qara Qoyunlu: 162. Pīr Ḥusayn Barlas, ufficiale: 428. Pirlān, popolazione mongola: 179.

558

indice dei nomi Pīr Muḥammad b. Fūlād Khazānjī, emiro timuride: 306. Pīr Muḥammad b. Jahāngīr, principe reale timuride: 56, 84, 103, 128, 134, 136, 186, 189, 196, 199, 202-3, 205, 212, 216, 221, 224, 324, 334, 357, 362-64, 458. Pīr Muḥammad Šānkūm, emiro timuride: 306. Pīr Muḥammad b. ‘Umar Shaykh, principe reale timuride: 157, 176, 189, 228, 246-248, 255, 277, 284, 304-5, 309, 342. Pīrūzbakht, emiro turcomanno: 90. Pisani: 29. Poe Edgar Allan, scrittore americano: 406. Pokutyńce, città ucraina: 376. Polacchi: 120, 175, 178, 191, 373. Polo Marco: 26, 384. Polonia: 120, 168. Poltava, città dell’Ucraina: 374. Pontormo Jacopo Carucci, pittore toscano: 394. Portogallo: 296. Poppe Nikolaj: 123. Popple William, drammaturgo inglese: 398. Potsdam: 402. Pradon Nicolas Jacques, drammaturgo franese: 399. Praga: 408. Prestini Veronica: 15. Prokofiev Sergej: 380. Prut, fiume: 374. Pšavi, popolo georgiano: 167. Pul-i Sangin: 368. Punjab: 202, 206, 208-9. Qabuji Qarawul, capo mongolo: 179. Qahalgha (Darband, Porte di ferro), passo montano in Uzbekistan: 42, 96, 115, 352. Qaidu, sovrano ögödeide: 52. Qalaghi: 280. Qal‘at al-Rum, sito siriano: 261-84. Qal‘a-yi surkh, sito caucasico: 94. Qamar al-Dīn Dughlat, khān del Moghulistan: 47, 52-53, 55-56, 79, 83, 87, 111-12, 11618, 121. Qān-i Gil, prateria vicino a Samarcanda: 129, 353, 357-58. Qandahar: 81, 128, 363.

Qapchūrī Bahādur, membro dei Barlas: 19. Qarā Aḥmad Āq Qoyunlu, emiro Aq Qoyunlu: 306. Qara Art, sito del Moghulistan: 115. Qarabagh: 94-95, 242-43, 248, 252, 284, 28687, 346, 349-50. Qarabaghlan: 228, 298. Qarachar Barlas, antenato di Timur: 20, 22, 229, 292, 369. Qara Dere, sito tra Turchia e Iran: 176. Qarakhanidi, Āl-i Afrāsyāb, dinastia centroasiatica: 64-65, 97. Qara Khitai, dinastia: 52, 97. Qara Khwāja, Qocho, Gaochan: 242. Qaraman, emiro: 304, 307. Qaradel, sito del Moghulistan: 112. Qara Muḥammad Töremish, sovrano Qara Qoyunlu: 87, 97, 99, 150-51, 162-63. Qaraqalqanliq, popolo del caucaso: Qara Qoyunlu, dinastia: 86-87, 97-99, 150, 155, 159-63, 282, 297, 342, 364-65. Qara Qocho: 115. Qara Saman, città vicino Otrar: 121. Qara Tal, steppa nella Semireče: 112. Qaratqā (QRTQĀ) Khatūn, discendente di Ögödei: 52. Qara Tatar: vd. Tatari. Qara ‘Uthmān (Qara Yüllük), sovrano Aq Qoyunlu: 151, 154, 252, 255, 262, 275, 304-5, 309, 331-32. Qara Yūsuf, sovrano Qara Qoyunlu: 150, 159, 161-63, 165, 176, 188, 191, 247-48, 254, 276, 282-83, 285, 311, 342-43, 348, 470. Qarawna, gruppo tribale: 24, 26-29, 32-33, 3744, 69, 71, 80-81, 409, 420. Qari-Niyazi (Kary-Niyazov) Tašmukhamed N.: 17. Qarluq, gruppo tribale: 64. Qars (Kars): 90, 93, 166, 341, 343. Qartamin: 158, 249. Qāsimī Gunābādī, letterato safavide: 366. Qatvan, steppa in Uzbekistan: 52. Qaytāgh (Kaytag), gruppo tribale caucasico: 171. Qazaghan, emiro: 28, 33-35, 37-40, 69, 422, 428. Qazan b. Yasavur, khān: 32-33, 37, 43-44, 421. Qazanji Bahādur, comandante mongolo: 96, 171.

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indice dei nomi Qazi Qumaq (Kazi-Kumukh), Daghestan: 184, 187. Qazvin: 134, 366. Qipchaq (Cumani, Polovci), popolo: 22, 58, 110, 119-20, 184, 185, 299. Qiyat, gruppo tribale mongolo: 200. Qizil Yaghach: 349. Qonqirat (Ongirat, Qonghrat o Qunggrat), gruppo tribale: 49, 95. Qoyrichaq Oghlan b. Urus Khān, principe dell’Orda Blu: 175. Quatremère Étienne, orientalista: 407. Qulaghi, sito del Kurdistan: 141. Qumārī Īnāq, ufficiale: 44, 88, 90. Qumis: 263. Qumisha, località del Fars: 140. Qum Tupa: 284. Qunduz, Afghanistan: 27. Quratu, sito nella regione dell’Issyq Kul: 57. Quri (Kuri), fiume: 171-72. Qusam b. ‘Abbās, eroe dell’islamizzazione dell’Asia centrale: 61. Qushjī ‘Alī, astronomo e matematico timuride: 365. Quṭb al-Dīn Muḥammad, Shāhshahān del Sistan: 79-80, 263, 304, 307. Quṭb al-Dīn Nayī (Quṭb di Mossul), musicista: 240-41. Quṭb al-Dīn Quramī, notabile di Shiraz: 345, 348 Quṭb al-Dīn Salīm, emiro timuride: 306. Qutlu, signore turcomanno: 150-51. Qutlugh Bugha b. Urus Khān, principe dell’orda blu: 59. Qutlugh Oghlan b. Timur Malik Khan, principe dell’Orda d’Oro: 121. Qutlugh Turkan Agha, sorella di Timur: 78. Racine Jean, drammaturgo francese: 399. Rāfi‘, nobile jalayiride: 247. Ragagnin Elisabetta: 469. Raḥba, città siriana: 145. Rajastan: 206, 208-9. Rajput Bathi: 206. Ram Hurmuz: 136. Rashīd al-Dīn Fażl Allāh, storico e visir: 27, 34-36, 46. Rashīd al-Dīn Dughlat, storico: 111.

Ratan Singh, signore dei monti Gangotri: 224 Rat’i P’ap’una, patriota georgiano: 432. Ratija Š.E.: 233-34. Ravel Maurice, musicista: 382. Ravi, fiume: 203-4. Ray: 28, 84-85, 104, 131, 134, 140, 240, 260, 351. Redusi de Quero Andrea, umanista trevigiano: 180, 388. Reggio Emilia: 401. Ribbentrop Joachim, politico tedesco: 380. Richartinger Leinhart, cavaliere bavarese: 192. Rioni, fiume georgiano: 249. Ripanda Jacopo, pittore bolognese: 389. Riżā Kiyā, sayyid, signore del Daylam: 350. Rjazan’: 178. Rk’oni, sito georgiano: 250. Rodi: 318. Rollo Antonio: 14. Roma: 296, 386, 401. Romania: 291-92. Romanelli Luigi, librettista italiano: 406. Romano Diogene, imperatore bizantino: 312 Rosen Victor: 377. Rosselana, personaggio teatrale: 402. Rouen: 398. Roux Jean-Paul: 411. Rowe Nicholas, drammaturgo inglese: 398, 407. Rubruk Guglielmo di, viaggiatore medievale: 335. Ruccellai Giovanni, umanista fiorentino: 387. Rūdakī, poeta: 381. Rudbar, regione persiana: 26. Ruha (Urfa, Edessa): 155. Rūm: vd. Anatolia. Russi: 119, 178, 185, 191, 193, 374, 377. Russia: 119-20, 170, 176, 187, 193, 198, 376. Rustam, eroe leggendario iranico: 78-79, 138. Rustam Khurāsānī, notabile di Shiraz: 246. Rustam b. Tughāy Bughā Barlas, emiro timuride: 193, 200, 245, 246, 260, 278, 306, 342, 345, 348, 350-51. Rustam b. ‘Umar Shaykh, principe timuride: 174.

560

indice dei nomi Rustamdar: 84, 260, 350. Rutenia: 168. Sa‘ādat, comandante del Qal‘a-yi Safīd: 136. Saamilaxvro, feudo georgiano: 249. Sabzavar, città della Persia: 40, 70, 76-79. Ṣadaqa, emiro dhulqadiride: 257. Sa‘d al-Dīn Efendi, storico ottomano: 312, 370. Sa‘dī-i Shīrāzī, poeta: 101. Sadīdī, gruppo tribale ghuride: 77. Safad: 261. Safavidi: 365-67. Saffaridi, dinastia: 79. Sāfī, shāh safavide: 367. Ṣafī il ‘ghebro’, abitante di Meerut: 218. Ṣafī al-Dīn al-Urmawī, musicista: 440. Saghaniyan (Chaghāniyān), regione centroasiatica: 260. Sagredo Gherardo, storico veneziano: 316, Sahival: 205. Sa‘īd Barlas, ufficiale timuride: 246. Ṣā’īn Timur, emiro timuride: 320-21. Sainctyon Seigneur de, storico: 11. al-Sajur, sito siriano: 247. Saki: 285. Saladino: vd. Ṣalāḥ al-Dīn. Ṣalāḥ al-Dīn (Saladino): 147, 151. Salasil, fortezza: 107. Salghuridi, dinastia: 105, 141. Sali Noyan, ufficiale: 26. Sali Saray, od. Tajikistan: 37. Salomone: 103, 105, 263. Salonicco: 261, 295, 473. Saljan, personaggio letterario: 151. Salmān-i Savājī, poeta persiano: 281. Salur, gruppo tribale turcomanno: 152. Salutati Coluccio, politico e filoosofo fiorentino: 390. Salvi Antonio, librettista italiano: 399-400. Salwān (Sūlūn), popolazione indiana: 208. Samanidi, dinastia della Transoxiana: 64, 298. Samara: 126. Samarcanda: 17, 25, 28-29, 36, 44, 46, 48, 50, 52, 55-56, 60-61, 65-66, 76, 78-79, 82, 85, 89-90, 101, 107-11, 114-15, 118, 126, 129, 132, 134, 139, 141, 159, 164, 181, 183, 193-95, 204, 210, 215,

217, 223, 229-31, 233-35, 237, 240-41, 256, 272, 315, 317-18, 327, 329, 332, 334-35, 339, 350, 352, 354-55, 357, 360, 362, 379, 382, 384, 411. Samarqandī, ‘Abd al-Razzāq: vd. ‘Abd alRazzāq Samarqandī. Samava (Samtavisi), in Georgia: 249. Samcxe-Saatbago (Samtskhe-Saatbago), regione georgiana: 166, 250, 287, 341. Samsun: 331. Samur, fiume: 170. San Pietroburgo (Pietroburgo, Leningrado): 376-77, 408. Sandron Francesco, frate, emissario timuride: 289, 295, 297. Sanjar, sultano selgiuchide: 312. Sansovino Francesco, letterato italiano: 476. Sanudo Marin, storico veneto: 316, 384. Sarakhs, città del Khorasan: 69, 73, 76, 428. Sārang Khān, generale tughluq: 196, 205, 449. Saratov: 175, 187. Saray, od. Afghanistan: 33. Saray, od. Kazakistan: 58. Saray-i Berke, sul Volga: 185. Saray-i Jadid, sul Volga: 60, 184-86. Sarāy Khwāja, emiro timuride: 306. Sarāy Mulk Khānum (Bībī Khānum), sposa di Timur: 43-44, 48, 84, 97, 132, 134, 162, 189, 228, 230-33, 352, 359-61, 383. Saray Ordam, sito sul fiume Emil: 114. Sarbadār del Khorasan: 25, 40, 68, 70-71, 74, 76-78, 88, 132, 409, 429. Sarbughā: 443. Sargis, copista armeno: 459. Sari, città del Mazanderan: 85, 132. Sari Qamish, pianura: 351. Saribugha, jalayride: 57. Sarī Efendi, storico ottomano: 447. Sariq Uzen (Sary Su), fiume: 123. Sāriq Muḥammad, comandante turcomanno: 141. Sarsardaam: 278. Sarsava (Sarsawan): 224, 258. Sarsoti, città indiana: 208. Ṣarūca Pāşā, emiro ottomano: 307. Saruhan, emirato anatolico: 301, 305, 307, 322, 331, 463. Sasanidi, dinastia: 66.

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indice dei nomi Sassoni: 324. Satpayev Kanysh: 123. Saunders Charles, commediografo inglese: 398. Sāva’ī (Sāvajī) Shaykh, uomo di scienza e lettere: 146. Savalin I.P.: 417. Savanit Savanisubani, regione georgiana: 249. Savci b. Murād I, principe ottomano: 329. Savjī: vd. Ḥājjī Bābāyī Savjī. Savonarola Girolamo, predicatore fiorentino: 392. Sawran, od. Kazakistan: 111. Sayf al-Dīn Nuquz, ufficiale: 44, 50, 72, 80, 131-32, 166-67, 174, 176, 183, 186, 239, 306, 335, 360, 428. al-Ṣayrafī, storico mamelucco: 270. Sayram (Sawram), Kazakistan: 58, 108, 119, 122. Sayyid, dinastia indiana: 199. Sayyid Aḥmad: vd. Sayyid Ata. Sayyid Ata (Sayyid Aḥmad), uomo di religione: 49. Sayyid Baraka: vd. Baraka, sayyid. Sayyid Ghiyāth al-Dīn b. Kamāl al-Dīn: 13234. Sayyid Kamāl al-Dīn, autorità religiosa e politica: 132-33. Sayyid Khwāja b. Shaykh ‘Alī, emiro timuride: 249. Sayyid Riżā al-Dīn, autorità religiosa e politica: 132. Scarlatti Alessandro, compositore napoletano: 401. Schiltberger Johannes, soldato di ventura: 11, 192, 252, 256, 273-74, 280, 298, 303, 356, 384, 394, 463. Sciti, popolo dell’Asia centrale antica: 388. Sebüktegin, sovrano ghaznavide: 197. Sela Ron: 371. Selgiuchidi, dinastia: 66, 299, 424. Selim, personaggio teatrale: 399. Selīm I: 370. Semendere: 324. Semenov Alexander A.: 17, 408, 417. Semireče Yeti Su, regione: 53, 57, 79, 112, 11819.

Serbi: 253, 301, 303, 309, 310. Serbia: 191, 305. Sernicola Luisa: 14. Serse, sovrano achemenide: 375, 395. Serwouters Johannes, drammaturgo olandese: 398. Seth: 372. Sevan (Gökche Tengiz), lago: 284. Sevenj (Sunža), fiume: 171. Ševerdin M.I.: 417. Sevin Beg, Khānzāda; ‘principessa reale’: 51, 236, 238, 240, 340. Sevinjek Bahādur, emiro timuride: 211, 306, 317. Sevli: vd. Suli. Sferra Francesco: 14. Sforza Ludovico il Moro, duca di Milano: 390. Sfranze (Pseudo Sfranze), storico bizantino: 313-14, 462. Shaburghan: 33, 36-37, 47-48, 72, 422. Shād-i Mulk, concubina dell’emiro Sayf alDīn: 360. Shāh Jahān, imperatore Moghul: 369. Shah di Corasmia, dinastia: 52, 97. Shāh Maḥmūd, principe muzaffaride: 103. Shāh Malik Barlas, nobile timuride: 99, 224, 264, 270, 305-6, 325, 351, 355, 362, 457. Shāh Manṣūr, sovrano muzaffaride: 103, 1067, 113, 130-31, 135-40, 173, 439. Shahnavaz, città indiana: 204. Shahqab: 264. Shahrazur: 260, 280. Shahr-i Sabz: vd. Kish. Shahriyar, località del Lar: 135. Shāhrukh b. Timur, principe reale e sovrano: 29, 56, 60, 97, 137, 157, 159, 161, 165, 18894, 217, 241, 257, 259, 268, 277-78, 282, 287, 304-5, 309-10, 317, 320, 322-33, 336, 349, 352, 357-58, 363-65, 413, 438, 458. Shāh Shujā‘, sovrano muzaffaride: 78, 84, 100, 102-3, 106-8, 131, 139. Shāhsuvār, emiro timuride: 305. Shāh-Tūrān-i Sīstānī, emiro timuride: 307. Shāh-Valī Bīsūt, emiro timuride: 305. Shāh Yahyā, principe muzaffaride: 103, 1078, 130-31, 139. Shakki (Šak‘a, Shəki), od. Azerbaigian: 94, 167, 244.

562

indice dei nomi Shamakhi, capitale dello Shirvan: 164, 187. Shamkur (Šamkori, Şəmkir): 284, 287. Shāmī: vd. Niẓām al-Dīn Shāmī. Shams al-Dīn ‘Abbās, emiro timuride: 305, 320. Shams al-Dīn Kulār, religioso: 21, 352. Shams al-Dīn, mawlānā, segretario timuride: 316. Shams al-Dīn al-Māliqī (al-Mālighī), emissario timuride: 170, 286, 306. Shams al-Dīn Mālikī, vassallo ghuride di Timur: 444. Shanb-i Ghazan, borgo vicino a Tabriz: 89. Shansabanidi: vd. Kartidi. Shāpūr I (Shāpūr-i dhu’l-aktāf, Sapore), sovrano sasanide: 135, 312, 393. Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī, storico: 10, 19-21, 42, 44, 49-51, 60, 62, 76-77, 79, 103-4, 106-7, 10910, 112, 126, 129, 131, 133-35, 140-41, 146-48, 155, 158-62, 164-67, 170, 176-79, 182-87, 189, 193-94, 196, 198, 199-202, 205-6, 213, 216, 221-23, 238, 240-42, 244-45, 247, 250, 253-56, 258-60, 264, 271-72, 274, 277, 280, 283-87, 292, 300, 311, 312, 317, 319-21, 325-26, 329, 330, 332, 334, 336, 337, 340-44, 347, 349, 353, 358, 360-61, 364, 368-70, 372, 402, 407. Sharansky Natan, politico israeliano: 383. Sharyn, fiume: 53. Shasman, sito del Gurgan: 134. Shaṭṭ al-‘Arab: 148. Shawkil di Qazi Qumaq: 187. Shaybanidi, dinastia centroasiatica: 12, 36566. Shaykhā “il Ghebro”, comandante indiano: 220. Shaykhā Khōkar, comandante tribale indiano: 204, 220, 225, 227, 451. Shaykh Aṣlān b. Kebek Khān, yarġūjī: 306. Shaykh Aḥmad Kathū, derviscio: 228. Shaykh ‘Alī, nipote di Muṭahhartan: 283. Shaykh ‘Alī Bahādur, emiro timuride: 115, 134-35, 249, 305-7. Shaykh Bābā, signore di Eğridir: 333. Shaykh Dursūn Maraqānī, personalità timuride: 236. Shaykh Ḥusayn, comandante timuride: 306. Shaykh Ibrāhīm, sovrano dello Shirvan: 304, 306, 331, 345.

Shaykh Ibrāhīm, autorità religiosa timuride: 164-165. Shaykh Maḥmūd Zangī ‘Ajam (‘Ajam Kirmānī), storico: 345. Shaykh Maṣlaḥat, religioso: 436. Shaykh Muḥammad b. Eyeku Temūr, emiro timuride: 307. Shaykh Muḥammad Darugha, emiro timuride: 277. Shaykh Munawwar, personalità religiosa di Dibalpur: 205. Shaykh Nūr al-Dīn, emiro timuride: 167, 174, 203-4, 224, 227, 250, 270, 287, 301, 305, 317-18, 324, 343, 355, 362, 457, 460. Shaykh Ramażān, gran cadì ottomano: 329. Shaykh Sa‘d, personalità religiosa di Dibalpur: 204, 207. Shaykh Shāhsuvār, governatore persiano: 134. Shēr Khān, principe indiano: 206. Shiblī b. Shāh Shujā‘, principe muzaffaride: 139, 372. Shihāb al-Dīn Mubārak Tamīm, signore indiano: 202-3. Shihāb al-Dīn Yaḥyā Suhravardī, shaykh alIslām: 21, 154. Shiraz: 100-3, 106, 107-8, 113, 130-31, 136-37, 139-40, 235, 245, 246-47, 281, 342, 345, 348. Shushtar: 107, 149, 285. Sayram: 48. Shirga, clan Barlas: 36. Shirvan (Shirvanat), regione: 140, 164, 167, 187, 239, 304, 343. Shirvān, nobile jalayiride: 247-248. Shiva: vd. Mahadeva. Shterenshis M.: 383. Shurgaia Gaga: 14, 457. Shulistan, provincia del Fars: 246, 348. Shūrīda, principe mongolo: 96. Shurmalu (Surmalu, Surbmar): 90. Shustar (Tustar): 136. Sib, sito in Iraq: 278. Sīdī Aḥmad Shakkī, emiro caucasico: 243-44. Sīdī ‘Alī Shakkī, emiro caucasico: 167, 239, 243. Sidone: 264. Siena: 385, 388. Sighnaq, od. Kazakistan: 58-60, 108, 119.

563

indice dei nomi Sigismondo di Lussemburgo e Ungheria, imperatore del Sacro Romano Impero: 191-92, 294-95, 385. Sikandar Shāh (Sikandar Botkishān), sovrano del Kashmir: 202, 225-26, 228. Silvestre de Sacy A.I.: 376, 407. Simnan: 134. Simnār, architetto leggendario: 233. Sind: 260. Sinope (Sinop): 251, 331. Sinkiang (Turkestan orientale): 25, 47, 112, 115, 118, 196, 242, 260, 358. Sirāj al-Dīn Amīr; vd. Amīr Sirāj al-Dīn. Sir Darya (Iassarte, Seyhun), fiume: 35, 49, 53, 56, 58-59, 110-11, 195. Sirhindī Yaḥyā, storico: 198-99, 205, 210, 216, 220. Siria: 143, 145, 152-53, 155, 227, 247, 254, 257, 260, 269, 274, 303, 338, 342, 358, 363, 368, 393. Siriani: 185, 259. Sirjan, città delòl’Iran: 131, 139, 156, 188. Sirinian Anna: 14. Šiškin Vasilij A., archeologo: 417. Sistan: 24, 27, 40, 65, 68, 78, 79-80, 214, 220, 304, 337. Sivalik (Shiwalik), catena montuosa: 223, 451. Sivas (Sebaste), in Anatolia: 30, 146, 152, 154, 162, 228, 251-52, 254-255, 257, 283, 293, 300, 338, 388. Sivrihisar: 317, 330. Siyāhpūshān Kafiri: 199-200. Siyāh Qalam, nome attribuito a un pittore: 127. Slavonia (Saqlāb): 358. Smirne (Izmir): 320, 322-23, 326, 330, 332, 388, 396. Solghat, città della Crimea: 185. Somnath: 220-21. Sonqur, ufficiale ciagataico: 115. Sosna, fiume: 178. Soyurghatmish Khān: 42, 44, 49, 52, 110, 212. Spagna: 355. Srinagar (Nagar, Naghz): 202, 226. Stalin Iosif Vissarionovič Džugašvili: 9, 37882. Stampiglia Silvio, librettista italiano: 401. Stefano Lazarević, despota di Serbia: 192, 305, 307, 309-10.

Stefano I, hospodar di Moldavia: 169. Stella Giorgio, storico genovese: 316. Steppe Qipchaq: vd. Dasht-i Qipchaq. Stewart Charles, maggiore inglese: 369. Stimmer Tobias, pittore svizzero: 394, 398. Subtenly Maria: 365. Sūdūn malik al-‘umarā, governatore di Damasco: 261-63. Ṣūfī, nome di una dinastia della Corasmia: 49. Ṣūfī Khalīl, emiro timuride: 306. Sughulaghan, città del Moghulistan: 115. Sulaymān Mawlānā, medico mamelucco: 273. Sulaymānshāh, principe dughlat: 118, 207, 219, 241, 257, 274, 278, 285, 305, 319-20, 336, 350-51. Sulaymān Ṣūfī, sovrano di Corasmia: 109. Süleymān Çelebī, principe ottomano: 252, 256, 301, 304, 307, 309-10, 316-19, 329, 406. Suldus (Suldūz); gruppo tribale: 33-36, 41, 364. Suli (Sevli), signore dhulqadiride: 152, 155, 257. Sulṭān Abū Isḥāq, governatore muzaffaride di Sirjan: 139. Sulṭān Aḥmad, emiro muzaffaride del Kerman: 107-8, 138. Sulṭān Aḥmad, sovrano jalayiride: 85-89, 97, 100, 130-31, 141, 142-46, 191, 228, 238-39, 246-48, 275-76, 280, 282-85, 342-43, 349. Sulṭān ‘Alī, signore di Arzin: 156, 275. Sulṭānārāy Āghā, moglie di Timur: 259 Sulṭān Dilshād, principessa jalayiride: 282. Sulṭān Ḥusayn, sovrano jalayiride: 262, Sulṭān Bakht bt. Timur, principessa timuride: 109, 118. Sulṭān Barlas, emiro timuride: 306. Sulṭān Ghażanfar, principe muzaffaride: 139. Sulṭān Ḥusayn, sovrano jalayiride: 87. Sulṭān Ḥusayn, principe timuride: 189, 268, 274, 277, 285, 304-5, 319, 333, 336, 352, 457. Sulṭān Mahdī, principe muzaffaride: 139. Sulṭān Maḥmūd b. Kaykhusraw Khuttālānī, emiro: 51. Sulṭān Sanjar, principe timuride: 239, 307. Sultaniyya: 85-86, 89, 134, 142, 158, 162, 181, 193, 235, 237, 251, 275, 281, 393.

564

indice dei nomi Sulṭānshāh, principe curdo: 135. Sulṭān Uvays, sovrano jalayiride: 281-282. Suram, sito in Georgia: 244. Surbmar: vd. Shurmalu. Sutlej, fiume: 203. Svanezia: 183. Svani, popolo georgiano: 93. Svet’icxoveli, sito georgiano: 250. Szuppe Maria: 14, 367. Tabadar: 287. Tābān Bahādur, ufficiale: 428. Ṭabarī, storico: 266. Tabarruk, castello: 105. Tabarruk, comandante tataro: 300, 336. Tabas, città della Persia: 189. T’abat’aʒe K.: 277, 342, 344, 453. Tabriz: 29, 85-90, 92, 100, 141, 194, 235, 237-38, 241, 280-81, 342, 366, 431. Taddei Alessandro: 14. Tadmir (Tadmur, Palmira), Siria: 274. Ṭāhir b. Aḥmad Jalayir, principe jalayiride: 239, 243, 248-49, 285, 342. Tāj al-Dīn, signore del Sistan: 80. Tāj al-Dīn, ambasciatore timuride: 118. Tāj al-Salmānī, storico: 358, 361, 363. Tajiki: vd. Persiani. Tajikistan: 35, 111, 364, 381. Takine Khātūn, madre di Timur: 18-19, 36. Talas, città del Kirghizistan: 116. Taliqan: 260. Tamuk (Tamuka) Qawchin, darugha di Yazd: 188. Tana: vd. Azak (Azov). Tang, dinastia: 117. Tangrī Bīrmish, emiro Āq Qoyunlu: 306. Tankghut (Taghut o Ataqut), sito del Qarabagh: 94. Ta’qa Panask’et’eli, signore georgiano: 287. Taraghay, padre di Timur: 20-21, 36, 39, 267, 292, 422. Taratur, sito sul Volga: 175. Tarbaghatai, catena montuosa: 114. Tarcento, comune del Friuli-Venezia Giulia: 391. Tarmashirin Khān ‘Alā al-Dīn, sovrano: 25, 27-28, 30, 196, 203, 218, 420. Tartaria: vd. Moghulistan.

Tashtimur Bashtemur-oghlān, emiro timuride: 305, 358. Tatari (Tatari neri, Tatari bianchi): 153-54, 177, 297, 300-1, 303, 308, 332, 336-38, 468-69. Ṭāptūq, emiro timuride: 305. Tarqi (Darqi, Tarhu), od. Semender: 171. Tartum (Tortomi), sito anatolico: 287. Tashkent: 108, 121, 382. Tauer Felix: 201, 408, 442. Ta’us (Tauride): 183. T‘awak‘al, autore armeno: 457. Tawi, fiume indiano: 227. Tayzī Ughlan (Tayzi Oghlan/Öljei Temür), discendente ögödeide: 201, 357, 471. Tbilisi (Tiflīs): 93-95, 167, 243, 249, 276, 345, 347, 432. Tedeschi: 192, 295. Tekke, beilikato anatolico: 301, 305, 307, 317, 320-22, 331. Tendürek Dağ, montagna, Turchia: 161. Tengrī Barmīş, emiro ottomano: 308. Terek, fiume: 171, 176, 183-84. Teologo: vd. Ayasoluk. Teheran: 84, 350. Termez: 28, 42, 109, 115, 199, 228. Teʒma, fiume della Georgia: 250. Thatta: 214. Tibet (Tubbat): 226-27. Tien Shan, catena montuosa: 47, 114, 117. Tigri, fiume: 142, 144, 155, 226, 247, 278-80, 285, 342. Ṭihrānī Abū Bakr, storico: 150. Tikrit: 147-48, 342. Timur Qutlugh, emiro dell’Orda d’Oro: 121, 126, 169, 172, 200, 242. Timur Malik, emiro: 59-60, 121. Timurtash, chaghataide: 38. Timurtash, malik al-‘umarā, governatore di Aleppo: 247, 260, 262-63. Tīmūrtāş Pāşā, emiro ottomano: 307-8. Tire (Theira): 322, 324, 330. Tizio Sigismondo, umanista senese: 385. Tobol, fiume: 125. Tobra, città indiana: 209. Togan Zeki Velidi: 169, 176-77. Toghan Khān, dignitario Tughluq: 216. Toghay Timur, condottiero mongolo: 73, 77, 84. Toghluqpur, città indiana: 208.

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indice dei nomi Tokat (Tūqāt): 301, 337. Tokhātmish Khān: vd. Toqtamish Khān. Tokharistan: 68. Tublaq Qawchin: 268. Tulumba (Tolomba,Talmīna): 203-4. Tolui, figlio di Chinggis Khān: 25. Tommaso da Molino, emissario di Chio: 321-22, 328. Tommaso di Metsop: vd. Tovma Mecop‘ec‘i. Tonghūz Khān (o Toqūz Khān): 195, 355; vd. anche Zhu Yuanzhang. Toqta Kiya b. Urus Khān, principe dell’Orda Bianca: 59. Toqtamish Khān (Tokhātmish), khān del­ l’Orda d’Oro: 48, 57-58, 60, 83, 85-88, 92, 9596, 107-11, 119-21, 123, 125-26, 129, 146, 165, 167-72, 174-75, 178-79, 182, 184-87, 191, 193, 242, 253, 355, 358, 361, 366, 376, 393, 406, 426. Toquz Temir Uqsal Khān, discendente degli Yuan: 356. Torino: 387. Tornesello Natalia L.: 15. Totti Pompilio, incisore umbro: 394, 476. Tottoli Roberto: 15. Tovma Mecop‘ec‘i (Tommaso di Metsop): 95, 162, 433, 439. Ṭoyce Bālābān, emiro ottomano: 307. Tracia: 177, 191, 254. Transoxiana (Ma’wara’al-nahr): 21, 23, 27-29, 33-34, 41, 46-47, 58, 60, 64, 76, 108, 119, 127, 197, 228, 241, 260, 339. Trebisonda (Trabzon): 150, 251, 347, 387, 399. Trémoille Guglielmo di la, maresciallo di Borgogna: 192. Trevisani Tommaso: 14. Treviso: 180. Trialeti, regione della Georgia: 250. Tripoli di Siria (Trablūs): 261, 388. Tublaq Qawchin, muhrdār di Shāhrukh: 268, 306. Tupalik Qaraq, sito del Moghulistan: 114. Tughluq, dinastia: 27, 196-97, 199, 210, 213, 215, 366, 450. Tughluqabad: 450. Tughluqpur (Nurnagar): 219. Tughluqshāh, sovrano: 27, 420. Tughluq Timur, khān ciagataico: 35, 38, 40, 48, 112-13, 118.

Tuhana (Tohana), città indiana: 208. Tukel il bāvurchī: 138. Tukel Barlās, emiro timuride: 305. Tūkel b. Hindūyī Qarqarā, emiro timuride: 305. Tukal Khānum b. Khiżr Khwāja (Malikat Āka), moglie di Timur: 194. Tuman Āqā, moglie di Timur: 60-61, 132, 230, 280, 352, 359, 361. Tuman Āqā, moglie di Edigü Barlas: 349, 426. Tuman Garmsīrī, ufficiale: 40. Tuman Negüderī, ribelle del Makran: 80-81. Tuman Timur, ambasciatore timuride: 58. Tuman Turkmān, signore caucasico: 90. Tur ‘Abdin, regione anatolico orientale: 442. Tūrāl, Toreli, comandante georgiano: 344. Turalibeg, signore turcomanno: 150-51. Turan, regione mitica: 64-65, 68, 79, 105, 242, 260, 322, 358, 368. Turchi, Turcomanni: 23, 66, 86, 92, 98, 105, 140-41, 150, 153, 176, 195, 247, 253, 257, 265, 295, 297-298, 300, 360, 388, 391. Turchia: 90, 257, 287-288, 315. Turfan: 115. Türken Arlat, emiro: 53-54. Turkestan Orientale: vd. Sinkiang. Turkestan, Repubblica federativa: 378. Turkmeni: 381. Turkmenistan: 48, 68, 69. Turmish Āghā, moglie di Timur: 44, 56. Turshiz, città del Khorasan: 77, 429. Tursun Beg, storico ottomano: 369. Tus, città del Khorasan: 71, 75, 113. Tutuqliut, gruppo tribale: 26. Tver’: 119. Üç Kilise, sito turco: 163. Ucraina: 119. Ukak (Ükäk, Uvek): 175, 187. Ulan Bugha, comandante ciagataico: 114. Ulan Charliq, sito del Moghulistan: 114. Uljay Khatun, moglie di Timur: 44. Ulu Burligh (Ulu Borlu): 332. Ulu Dagh (Ulytau), Kazakhstan: 123-124. Ulugh Beg b. Shāhrukh, principe e sovrano timuride: 12, 159, 357, 364, 379. Ulus Āghā, Moglie di Timur: 43. ‘Umar, califfo arabo: 372.

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indice dei nomi ‘Umar Bēg b. Nīkrūz-i Jawn-i Qurbānī, vassallo timuride: 307. ‘Umar b. Mīrānshāh, principe timuride: 237, 348, 350, 363. ‘Umar Shaykh b. Timur, principe reale: 5556, 108-11, 113-15, 126, 135, 139-41, 156-57, 163, 174, 176, 228, 236, 242, 246, 255, 304. ‘Umar Tābān, governatore timuride: 186. Umm Ḥabība, moglie del profeta Muḥam­ mad: 269. Umm Salama, moglie del profeta Muḥam­ mad: 269. ‘Umūr Paşa, emiro di Aydın: 323-24, 331. Ungheresi: 192. Ungheria: 191, 294. Unione Sovietica: 382. Unni: vd. Xiongnu. Uqtā, emiro dell’Orda d’Oro: 174. Ural (Iayik, Zhajyk), fiume: 119, 121, 125. Ūrtāq (Ortaq), esploratore dell’Orda d’Oro: 171. Uruk Timur, nobili dell’Orda d’Oro: 432. Ure John: 411. Urfa: vd. Ruha. Urganch (Iski Ukuz), od. Köneürgenç, capitale della Corasmia, od. Turkmenistan: 48-49, 61, 66, 109, 380, 426. Urunbaev Asom: 408. Urung Yar, sito del Moghulistan: 114. Urus Bugha, ufficiale: 428. Urus Khān, sovrano: 55, 57-60, 96, 122, 175, 426. Urusjuq (‘Piccola Russia’): 177. Ushkuje (Aškujan, Aškuja, Akuša-Dargo): 187. ‘Utbī Abū Naṣr, storico: 197. ‘Uthmān ‘Abbās Bahādur, emiro timuride: 115, 166, 174, 176, 307, 428. ‘Uthmān Beg, emiro di Ḥamīd: 331. Uttar Pradesh: 218. Utukū (Uturkū), emiro dell’Orda d’Oro: 174, 184. Uvays, ghacharji curdo: 285. Uvays: vd. Sulṭān Uvays. Uvek: vd. Ukak. Uzbeki: 49, 368, 379. Uzbekistan: 9, 12, 17, 35, 48, 369, 378, 381-82, 444. Uzkand: 58.

Uzun Ḥasan, sovrano Aq Qoyunlu: 387, 39597. Vafā Khātun, regina jalayiride: 247. Valacchi: 192, 305. Valencia: 398. Valeriano, imperatore romano: 135, 312, 393. Valerio Massimo: 389. Vámbéry Ármin Bamberger Hermann, orientalista: 371. Van, Lago di: 99, 162. Van, città: 99. Varakzāy (Barakzay), gruppo tribale: 201. Varkūnī (Varkoni, Varkūyī), gruppo etnico: 201. Vasari Giorgio, pittore: 387. Vāṣifī, storico: 365. Vaṣṣāf, storico: 27, 420. Vasilij Dimitrevič, Gran Duca di Vladimir: 178-79. Vattier Pierre, orientalista francese: 403. Vélez de Guevara Luís, drammaturgo spagnolo: 398. Veneto: 295. Venezia: 282, 295, 316, 318, 400-1. Veneziani: 110, 180, 185, 294, 300. Veniero Pasqualino, castellano delle isole di Tinos e Myconos: 302, 316, 462. Vereščagin Vasilij V., pittore russo: 377. Vernadsky George: 177. Vienna: 370, 401. Visconti Gian Galeazzo, Duca di Milano: 295-96, 393. Vivaldi Antonio, musicista: 401. Vladimir, città: 179-80, 296. Vladimir di Serpuchov: 178. Vladimir e Suzdal’: 119. Voegelin Eric: 390-91, 404. Volga (Itil), fiume: 119, 120-21, 126, 175, 18486, 393. Voltaire (pseud. di François Marie Arouet): 373-74, 403-5, 433. Vorskla, fiume: 242. Voronež: 176. Vryonis Speros: 440. Vuk Lazarević, principe serbo: 307. Vurugird (Burugird): 135. Vytautas (Vitovt, Witold), granduca di Lituania: 119, 168-69, 242.

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indice dei nomi

Xevsuri, popolo georgiano: 167. Ximšia: vd. Khamshā. Xiongnu (Unni, Huna): 32.

Yesünte Möngke, clan dei Barlas: 36, 442. Yıldız Dağ, passo montano turco: 301. Yinanç Mükrimin Halil: 334. Yuan, dinastia: 117. Yulduz, sito nel Sinkiang: 115. Yulduz, sobborgo di Bukhara: 131. Yuqluq-Buzuglug, sito sul Don: 176. Yurqun, popolazione mongola: 179 Yūsuf, ufficiale ottomano: 308. Yūsuf Abharī, emiro timuride: 306. Yūsuf b. Bāyazīd Demetrios, principe ottomano: 309. Yūsuf Chūra Barlās, emiro timuride: 306. Yūsuf Moghul Barlas, emiro timuride: 306. Yūsuf Shāh, ciagataico: 112, 435. Yūsuf Ṣūfī Qonqirat, sovrano: 51, 60-63, 109.

Yādgār Andkhūyī, emiro timuride: 305-6. Yāfith ibn Nūḥ, figura biblica: 372. Yaghlī Bi, emiro dell’Orda d’Oro: 174. Yamuna (Jawn, Jamna, Jumna), fiume: 209, 211, 224. Yao Chen, funzionario Ming: 195. Ya‘ḳūb Beg, comandante ottomano: 308, 316. Ya‘qūb Beg Aq Qoyunlu, khān turcomanno: 127. Ya‘qūb Beg II, beg dei Germiyanidi: 255, 304, 330. Ya‘qūb b. Layth, sovrano saffaride: 220. Ya‘quba, sito in Iraq: 278. Yār ‘Alī, signore Qara Qotunlu di Mossul: 155, 348. Yasavur, gruppo tribale: 19, 33, 36, 39, 51. Yassi, Turkestan, città del Kazakhstan: 122, 195. Yassi Diyan: 132. Yayiq Ṣūfī, membro della famiglia Ṣūfī: 160, 162. Yazd: 100, 131, 139, 140, 188-189, 345 Yazdī Sharaf al-Dīn ‘Alī: vd. Sharaf al-Dīn ‘Alī Yazdī. Yazdī Ghiyāth al-Dīn: vd. Ghiyāth al-Dīn Yazdī. Yazīd, califfo omayyade: 273. Yazidi: 141. Yazzadār, castellano di Damasco: 272. Yemen: 369. Yenişehir: 318, 320.

Zabul: 358. Zachariadou Elizabeth: 320, 330. Zākānī Ubayd, poeta: 100-1, 281, 433. Zama, fiume georgiano: 249. Zangī Tūnī, castellano: 351. Ǯaqeli-Tsixisǯvareli Ivane, atabeg georgiano: 166, 341. Zanier Claudio: 15. Zanjir Saray, sito nei pressi di Samarcanda: 61. Zarang (Shahr-i Sistān): 80. Zarit (Ortubani), fortezza georgiana: 249. Zarypov Hadi: 417. Zasypkin Boris Nikolaevič: 417. Zayn al-Dīn Tayabādī, autorità religiosa: 72. Ǯavaxišvili Ivane: 92, 166. Zayn al-‘Ābidīn, sovrano muzaffaride: 100, 103-7, 131, 136. Zebina, personaggio teatrale: 396. Zeno Pietro, Signore di Andros: 460. Zenocrate, personaggio teatrale: 396-97, 411. Zhu Yuanzhang (Hongwu), imperatore cinese: 117, 195, 242, 356. Zhu Yunwen, imperatore cinese: 201. Ziani Marco Antonio, musicista veneziano: 400. Zimin Lev: 407. Zīrak b. Čākū,Barlās, emiro timuride: 307. Zirrihgaran, sito caucasico: 187. Zinda Hasham Arpardī, emiro: 41, 43, 47-48. Zuṭṭ: vd. Jāt.

Waleram de Luxembourg, governatore di Genova: 288. al-Warthīnī Abū Ḥasan al-Ḥamduye, letterato: 427. Wasit: 144, 148, 280, 285, 342. Wilber Donald: 229, 410. Wilcock Rodolfo: 376. Wing Patrick: 141-42, 146, 280, 342. Witold: vd. Vytautas Vitovt. Wittek Paul: 91. Woods John E.: 14, 20, 92, 178, 252, 331, 40910, 424, 432.

568

I N DIC E Introduzione

9

I. Esordi inconfessabili



1. 2. 3. 4. 5. 6.

La ricostruzione di un antropologo forense sovietico Una madre poco menzionata Taraghay della stirpe dei Barlas Uomini e cavalli L’ascesa dei Qarawna La Transoxiana agli inizi del XIV secolo

17 18 20 22 24 28

II. Emergere nella storia: l’ombra della tradizione mon gola 1. 2. 3. 4. 5. 6.

L’ulus ciagataica e la sua frammentazione dopo Qazan Geografia dell’ulus ciagataica: i principati transoxiani Gli emirati meridionali del Sarḥadd-i Hindustān Alleanze improvvisate e tradimenti repentini: il caos politico nell’ulus ciagataica Il colpo di stato a Balkh (771/1370) Timur getta le basi dello Stato

32 34 36 37 41 43

III. Difficili campagne in Asia centrale

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Il kuriltai di Samarcanda del 1370 Contro i Jete del Moghulistan La prima campagna corasmica Un matrimonio regio Le difficoltà del Moghulistan e altre sedizioni La morte di Jahāngīr Toqtamish Khān, un possibile alleato Una nascita importante, un matrimonio Morte di Yūsuf Ṣūfī

46 47 49 51 52 55 57 60 61

IV. Le guerre persiane di Timur 1. Il Turan contro l’Iran 2. Una prima realizzazione monumentale: l’Āq Sarāy di Kish

569

64 66

indice

3. 4. 5. 6. 7.

Kartidi e Sarbadār signori del Khorasan Herat porta della Persia Khwāja ‘Alī e Timur Attraverso il Khorasan Verso il Sistan, terra di Rustam

68 71 74 75 78

V. Dal Khorasan alla Georgia

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Primi bilanci Il Mazanderan: un problema irrisolto Il tradimento di Toqtamish Tabriz Timur campione del jihād La prima campagna georgiana Toqtamish attacca l’esercito timuride Qara Muḥammad e Muṭahhartan: Timur tra Anatolia e mondo iranico

82 83 85 87 90 92 95 97

VI. Timur entra nel regno muzaffaride

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

La terra di ‘Ubayd-i Zākānī e Ḥāfiẓ Shāh Shujā‘ La strage di Isfahan Shiraz si arrende senza combattere La Corasmia punita Un’altra guerra nel Dasht-i Qipchaq Fermenti nel Moghulistan Cinque eserciti contro il Moghulistan

100 102 104 106 108 110 111 113

VII. Il nemico nomade

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Proiezioni estremo orientali Le steppe dei Qipchaq Toqtamish cerca di nuovo un accordo La stele di Karsakpay La battaglia sul Kandırcha Una rara testimonianza figurativa della vita nella steppa Pīr Muḥammad viceré d’Afghanistan

570

117 119 120 123 124 127 128

indice VIII. Shāh Manṣūr e Sulṭān Aḥmad

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Una seconda invasione in Persia Le foreste del Mazanderan Le insidie del Kurdistan sulla via del Khuzistan La battaglia contro Shāh Manṣūr L’eliminazione dei Muzaffaridi Turcomanni e “pagani” nel Kurdistan Baghdad Sulṭān Aḥmad fugge presso il sultano mamelucco Barqūq Ulteriori conquiste nell’Iraq arabo

130 132 134 136 139 140 142 144 147

IX. Assestamenti anatolico caucasici 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

L’universo turcomanno dell’Anatolia orientale Il qāḍī Burhān al-Dīn. Uomo di lettere e oppositore morale di Timur Ruha (Urfa) città di antiche glorie biblico-coraniche Morte di ‘Umar Shaykh e assedio di Mardin La presa di Amida (Diyarbakır) Verso il castello di Avnik L’uccisione di Fażl Allāh Astarābādī Una campagna islamizzatrice di razzia in Georgia

150 152 155 156 159 161 164 166

X. La resa dei conti con Toqtamish



1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Toqtamish redivivo Timur passa Darband La battaglia sul Kuri (regione del Terek) Inseguimento di Toqtamish Mosca non fu mai presa da Timur! La presa di Azak (Tana) e l’incontro coi Genovesi Devastazioni caucasiche Verso il cuore dell’ulus di Jöchi: Sarāy e Ḥājjī Tarkhān Sulla via del ritorno. Yazd assediata

168 170 172 175 177 180 182 184 188

XI. L’India 1. Un conquistatore speculare: Bāyazīd 2. Alcuni mesi di riflessioni e festeggiamenti

571

191 193

indice 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Proclamazione della guerra indiana I “Nerovestiti” del Kafiristan Oltre l’Indo: il “signore dell’isola” Shihāb al-Dīn Mubārak Tamīm e il Punjab Bathnair Il Jahānnumā e la strage di Luni La battaglia alle porte di Delhi

196 198 202 206 209 211

XII. Delhi, le pendici del Himalaya e la Grande Moschea di Samarcanda

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Il presidio impossibile di Delhi Da Meerut al Gange Distruzione dell’idolo bovino Alle pendici dell’Himalaya Il Kashmir Verso Samarcanda: notizie, inquietudini, malesseri La costruzione della Grande Moschea di Samarcanda Altre vicende della Grande Moschea Samarcanda e le utopie monumentali di Timur

215 218 220 223 225 227 229 230 233

XIII. Mīrānshāh tenta di appropriarsi del potere e altre ir requietezze famigliari 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La ribellione di Mīrānshāh La versione delle cronache timuridi Il quadro geopolitico all’inizio di sette anni di campagne militari Timur a caccia di Khamshā (Ximšia) in Georgia Congiure persiane a Shiraz Contro re Giorgi VII, signore di Georgia L’espansionismo ottomano

236 238 241 243 245 248 251

XIV. Contro i Mamelucchi

1. 2. 3. 4. 5.

Corrispondenze diplomatiche di Timur Sivas Incursione nel regno dei Dhulqadiridi e presa di Malatya Bahasna e ‘Antab. Un’assemblea mamelucca ad Aleppo La battaglia di Aleppo

572

253 254 257 259 261

indice

6. 7. 8. 9.

Timur incontra Ibn Khaldūn di fronte a Damasco Un curioso tradimento. Timur scrupoloso esattore Le devastazioni damascene Il ritorno dalla Siria

263 268 272 274

XV. Dalla devastazione di Baghdad ai confini ottomani 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Alinjak cede ai Timuridi Baghdad obbiettivo prioritario Tabriz capitale “sorella” di Baghdad Meditando strategie: ozi caucasici Sulṭān Aḥmad torna a Baghdad Timur costruisce un canale e attacca Tartum, Haruk e Kamak Eco in Occidente delle imprese di Timur

276 277 280 282 284 287 288

XVI. La guerra ottomana

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Timur, nemesi degli Ottomani Le peregrinazioni di Manuele II in Europa I Tatari neri Verso Ankara La composizione degli eserciti La battaglia del Çubuk Ova Bāyazīd prigioniero regio: versione edificante Bāyazīd in gabbia: versione infamante

291 293 297 300 303 308 310 313

XVII. Dopo Ankara

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Süleymān Çelebī fugge in Europa I Timuridi sciamano in Anatolia La presa di Smirne Focea e Chio L’Anatolia smembrata Altre tre conquiste in un giorno Morte di Bāyazīd e Muḥammad Sulṭān Un’ambasciata egiziana. Il destino dei Tatari neri

316 319 323 327 329 332 333 335

XVIII. Ultime imprese 1. Sulla via del ritorno 2. Un’ambasceria di Giorgi VII

573

339 341

indice

3. La cittadella di Birtvisi e la spedizione in Abkhazia 4. La ricostruzione di Baylaqan 5. Il qishlāq nel Qarabagh e imprese collaterali 6. Presa di Firuzkuh e fuga di Iskandar Shaykhī 7. Trasferimenti nei giardini di Samarcanda 8. L’ambasceria di Clavijo e gli emissari cinesi 9. La grande festa e l’ultimo kuriltai 10. La partenza per il Khata e la morte a Otrar

344 347 349 351 352 353 357 360

XIX. Fortune del mito di Tamerlano in Asia

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

I Timuridi dopo Timur (1405-1507) Dal mito di fondazione dei Safavidi all’emulo Nādir Shāh In India e nell’Impero ottomano Timur presenza epica nella storia dei Khanati centroasiatici Il Temur Leng del principe moldavo Dimitrie Cantemir Nel mondo russo tra Ottocento e Novecento L’epoca sovietica Padre fondatore dell’Uzbekistan

363 365 368 371 373 376 378 381

XX. Tamerlano europeo 1. Da Mignanelli alle Pitture di Palazzo Orsini a Monte Gior dano 2. Da Pio II Piccolomini a Machiavelli: il modello politico 3. Gli Elogia di Giovio 4. Da Pedro Mexía a Christopher Marlowe 5. Il Tamerlano teatrale nel Seicento francese e italiano 6. Ai primi del Settecento: opere, dipinti e traduzioni 7. Eruditi e filosofi 8. Dal XIX secolo alla Seconda guerra mondiale 9. Sviluppi della ricerca nel dopoguerra e sopravvivenze mi tiche 10. Tentare una conclusione

409 412

Note

417

Glossario

480

574

384 388 391 394 398 401 403 406

indice Bibliografia

488

Cartine

531

Indici Indice dei nomi

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575