La diversità della vita. Per una nuova etica ecologica 9788817032766

Una storia della vita – dai fringuelli di Darwin ai “giardini pensili” delle foreste pluviali – dipinta in tutta la sua

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La diversità della vita. Per una nuova etica ecologica
 9788817032766

Table of contents :
Indice......Page 613
Indice Analitico......Page 563
Frontespizio......Page 5
Il Libro......Page 2
L'autore......Page 3
L’epopea della diversità: di Telmo Pievani......Page 7
Dedica......Page 19
Parte Prima: LA VIOLENZA DELLA NATURA,: LA RESILIENZA DELLA VITA......Page 20
1 Temporale in Amazzonia......Page 21
2 Krakatau......Page 37
3 Le grandi estinzioni......Page 48
Parte Seconda: L’ASCESA DELLA BIODIVERSITÀ......Page 60
4 L’unità fondamentale......Page 61
5 Specie nuove......Page 81
6 Le forze dell’evoluzione......Page 110
7 La radiazione adattativa......Page 133
8 La biosfera inesplorata......Page 183
9 La creazione degli ecosistemi......Page 221
10 La biodiversità raggiunge l’apice......Page 246
Parte Terza: L’IMPATTO DELL’UOMO......Page 287
11 Vita e morte delle specie......Page 288
12 La biodiversità in pericolo......Page 326
13 Ricchezze non sfruttate......Page 378
14 Decisioni......Page 418
15 L’etica ambientale......Page 462
Note Bibliografiche......Page 475
Glossario......Page 527
Ringraziamenti......Page 558
Gli Autori Delle Illustrazioni......Page 562

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Una storia della vita – dai fringuelli di Darwin ai “giardini pensili” delle foreste pluviali – dipinta in tutta la sua bellezza e molteplicità, in buona parte ancora sconosciuta. Un libro che è anche un manifesto per la salvaguardia dell’infinita varietà delle specie, sempre più a rischio a causa dell’uomo. Un classico della letteratura scientifica che ha imposto definitivamente all’attenzione del mondo il concetto di biodiversità, quella ricchezza rappresentata dal patrimonio genetico delle diverse forme di vita e dagli habitat in cui esse vivono, ridisegnando alla fine del secolo scorso le basi della biologia della conservazione. E che oggi si rivela di inquietante attualità.

Edward O. Wilson (Birmingham 1929), ricercatore e professore emerito di

Entomologia all’Università di Harvard, è uno dei più importanti biologi evoluzionisti viventi. Ha vinto il premio Pulitzer nel 1979 e nel 1991. Tra le sue principali pubblicazioni, sono disponibili in Italia: Introduzione alla biologia delle popolazioni (1974), Formiche (1997), Il futuro della vita (2004) e La creazione (2008).

La diversità della vita è uscito per la prima volta in Italia da Rizzoli nel 1993 ed è stato ripubblicato da Sansoni nel 1999 con il titolo Biodiversità.

Proprietà letteraria riservata

© 1992 by Edward O. Wilson

Published by arrangement with Harvard University Press © 1993 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano Digital ISBN 978-88-58-60193-8 Titolo originale dell’opera: The Diversity of Life

Traduzione di Diego Maria Rossi Prima edizione digitale 2010 da edizione BUR alta fedeltà agosto 2009 In copertina: foto © Frans Lanting/Corbis Progetto grafico di Mucca Design

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

L’epopea della diversità di Telmo Pievani

Se un classico è un’agenda di idee che non invecchia mai perché si presta, di epoca in epoca, a reinterpretazioni parziali e sorprendenti; se un classico è un’opera che bisogna rileggere a tornate ricorrenti per ritrovare la cornice di riferimento globale che dà senso ancora oggi a problemi locali in perenne ridefinizione; se un classico è sempre vivo perché – forse persino all’insaputa del suo autore – è costruito in modo tale da offrire chiavi di lettura feconde per questioni che quando è stato scritto nemmeno si conoscevano; se un classico è uno strumento sempre convertibile perché sfiora frammenti di conversazione universale, ancorché incompiuta: se un classico è tutto questo, state per leggere un classico della letteratura scientifica. Vi è qualcosa di particolare nello “stile dei naturalisti”, notava lo scrittore armeno Osip Mandel’?tam nel 1932 a proposito della prosa vittoriana di Charles Darwin. Vi è qualcosa di sontuoso e di cordiale al contempo, il respiro aperto e chiaro di una gazzetta naturalistica, il “bel tempo scientifico” e l’eleganza cortese ma discreta del gentiluomo di campagna che introduce a visitare il suo giardino. Nel caso di Edward O. Wilson – entomologo e mirmecologo di fama mondiale di Harvard e maestro per generazioni di evoluzionisti e di ecologi – il giardino delle meraviglie è il nostro stesso pianeta, un sasso vagante sulla terza orbita di un sistema solare periferico, al di sotto della cui sottile strisciolina di atmosfera è successo di tutto negli ultimi quattro miliardi di anni. Un pianeta nel quale la vita, nella sua diversità percolante di forme, si è incuneata in qualsiasi anfratto, sfidando l’ostilità di ghiacci, di deserti e di profondità oceaniche buie, di sorgenti idrotermali bollenti, di suoli acidissimi, senza ossigeno. Nulla sembra sufficientemente inospitale per la vita, nemmeno una caverna profonda e asfittica, nemmeno un bagno di sale o di zolfo.

«Meraviglia, stupore e sublime devozione pervadono e innalzano lo spirito», questi i sentimenti che provò un giovane Darwin al cospetto, per la prima volta, della foresta pluviale atlantica brasiliana. Sono gli stessi sentimenti che pervadono, più di un secolo e mezzo dopo, le pagine di questo libro. Lo stupore del particolare, tuttavia, non può bastare per lo scienziato. La sfida di Wilson qui è prima di tutto metodologica: può esistere una scienza della singolarità eccentrica, della moltitudine di alternative egualmente efficaci? Può esistere una scienza per questo caleidoscopio di storie naturali irreversibili e contingenti, una scienza indiziaria che ricostruisca scenari possibili e narrazioni credibili di eventi? Può esistere una scienza in grado di cogliere le ragioni dell’eterogeneità, dell’irripetibilità, del dissimile e del contrastante? Forse sì, purché si consideri che il meglio della scienza – scrive Wilson – non sta in prima battuta nei modelli matematici e neppure nella sperimentazione: sta innanzitutto nel processo creativo di chi escogita nuovi schemi di pensiero, nuove strutture di coerenze per impostare poi modelli ed esperimenti. Sta nel talento del «cacciatore che intesse idee ricavandole da esperienze antiche, da metafore nuove e dalle immagini, messe follemente alla rinfusa, di cose viste di recente». Occorre insomma «mettere ordine a fatti sparsi», scriveva Darwin nei suoi taccuini giovanili. Ne deriva un corpo a corpo – che attraversa interamente questa ineguagliata summa scientifica, filosofica ed etica sulla diversità della vita – fra le minuzie riottose di casi unici, difficili da imbrigliare in modelli, e il desiderio di salire verso generalizzazioni e schemi che almeno assomiglino a “leggi di natura”. Perché alcuni organismi hanno più successo di altri in termini di numero e di resistenza all’estinzione? Perché alcuni preferiscono specializzarsi in compiti ristretti mentre altri prediligono una maggiore flessibilità adattativa? Fino a scendere all’interrogativo curioso e puntuale che ogni bambino e ogni naturalista si pongono: perché gli uccellini cinguettano all’alba? Dove stanno le rane leptodattilidi della foresta durante il giorno? Possiamo trovare una formula che renda conto di questi fenomeni e delle loro differenti manifestazioni?

L’uomo che con questo libro del 1992 ha introdotto il termine “biodiversità” nel linguaggio comune, oltre che in quello della scienza, domina la sua materia recalcitrante fatta di relazioni ecosistemiche e di evoluzione, e così ci regala quelli che ancora oggi sono fondamenti dell’ecologia: l’effetto dell’area e della distanza sul numero di specie che abitano un’isola; le successioni fra specie e le loro capacità di dispersione e di espansione; le relazioni fra predatori e prede, fra specialisti e generalisti, tra flore e faune; le associazioni simbiotiche; il ruolo delle “specie chiave”; le radiazioni adattative e le convergenze evolutive; l’intreccio dei flussi di energia negli ecosistemi; il gradiente latitudinale della biodiversità; la relazione inversa fra diversità di specie e taglia; l’interazione tra energia disponibile, stabilità climatica e spazio biogeografico che spiega i picchi di diversità ai tropici. Sembra così delinearsi una vera scienza dell’organizzazione delle biocomunità, in grado di descrivere le regole di raggruppamento delle specie e di assemblaggio degli ecosistemi. Eppure, il dominio di pertinenza di ciascuno di questi pattern appare limitato da quelle che Wilson chiama «le divertenti intromissioni della storia naturale». Per ogni ambiziosa generalizzazione, egli prospetta giustamente un controesempio, un’eccezione che ne delimita l’applicazione senza con ciò confutarne la validità: «La fedele descrizione dei casi reali trasforma la scienza biologica in una storia della natura in cui i dettagli hanno la stessa importanza della teoria che li spiega». In queste pagine piene dunque di sintesi avanzate e di ipotesi, e al contempo trasudanti di spedizioni sul campo, zaino in spalla, retino e binocolo, notiamo come l’intreccio di storie naturali e di dipendenze che riempie la vita di studio di un naturalista non sempre garantisca che dietro una correlazione di fenomeni o di proprietà vi sia effettivamente un rapporto causale. La vita sembra sperimentarle tutte e scegliere all’occorrenza. Non resta dunque altro che descrivere, come osservatori partecipanti, lo spettacolo di sesso, morte, occasioni colte al volo, astuzia e resistenza della natura? Non proprio, poiché nell’indistinto brusio della diversità emerge qua e là qualche particolare in chiaro: la selezione naturale, per esempio, capace ogni

volta – grazie al suo lento e inarrestabile setaccio di varianti – di raggiungere complessità adattative ardite, anche in specie non strettamente imparentate fra loro, a partire dal materiale limitato che è a disposizione; oppure la deriva genetica, campionamento casuale di varianti di geni in piccole popolazioni che restano separate dal ceppo d’origine e producono effetti importanti sulle specie in virtù di meccanismi tipici come la colonizzazione di un nuovo habitat, la riduzione “a collo di bottiglia” di un gruppo su un’isola o in un ambiente ristretto, gli “effetti del fondatore”. Come Wilson e altri grandi evoluzionisti della seconda metà del Novecento hanno insegnato, il potere descrittivo, esplicativo e predittivo di questo insieme di fattori e di meccanismi è così forte da garantire oggi all’ecologia e alla biologia evoluzionistica uno statuto di scientificità assai confortante. E questo a dispetto dei pochi che ancora ingenuamente associano l’unico metodo scientifico accettabile con la capacità di produrre equazioni universali e magistralmente sintetiche (equazioni che pure, in discipline di impianto demografico come la genetica di popolazione e la stessa ecologia teorica, non mancano affatto). La biografia di Edward O. Wilson, da questo punto di vista, è una garanzia di solidità. Nato in Alabama nel 1929, ha attraversato la seconda metà del secolo scorso sapendo essere un pioniere in differenti settori: innanzitutto entomologo e autore di insuperati studi enciclopedici sulle formiche e sulle società degli insetti; fondatore della biogeografia insulare moderna e degli studi sulle comunicazioni chimiche fra organismi; padre nel 1975 della sociobiologia, disciplina ora da ripensare, a suo avviso, in virtù dell’importanza teorica crescente di meccanismi come la selezione di gruppo e di specie (di cui già scrive in questo libro); fautore di ipotesi epistemologiche forti circa l’unità di tutte le conoscenze o consilience; apologeta dell’etica ambientale e inquisitore della specie umana quale responsabile della peggiore estinzione di massa degli ultimi 65 milioni di anni. Lo scienziato che ha delineato alcuni capisaldi della biologia della conservazione non sembra invidiare i fisici per le capacità di previsione sperimentale e di ripetibilità dell’esperimento, poiché

«l’ecologia è una materia molto più complessa della fisica» e la sfida è riuscire a darne comunque una trattazione rigorosa. Certo in Wilson il singolare predomina spesso e il ritratto di una specie assume un carattere concluso, quasi contemplativo: non occorre aggiungere altro, quella creatura vale di per sé, nella sua nuda esistenza, nella sua unicità e diversità, vale per il mero fatto di essere qui adesso, di avercela fatta in mezzo a chissà quali sconvolgimenti ecologici ed ecatombi del passato. Lo sguardo del naturalista dà il meglio di sé quando transita fra livelli temporali diversi, inseguendo tanto la straordinaria velocità di evoluzione di un batterio in pochi minuti quanto l’oceano di tempo profondo sul quale galleggiano indisturbati i “fossili viventi” con decine di milioni di anni sulle spalle. Ma anche quando transita fra livelli dimensionali diversi, mostrando come le reti alimentari e le simbiosi si avvalgano della cooperazione di esseri viventi la cui taglia varia dal microscopico al gigantesco. Prevale allora la lucida ossessione del naturalista, l’arte della descrizione analitica di anatomie, morfologie, strutture e funzioni, il diletto per prontuari, bestiari e repertori delle specie – viventi, estinte o non ancora classificate che siano – in quanto unità fondamentali della biodiversità. Eppure, il tassonomista che vuol dare una carta di identità alle specie per farle esistere, per catalogarle, incasellarle, numerarle e magari mettere il proprio nome sull’etichetta, sembra condannato a non saper derivare una definizione universale di che cosa sia una specie. Sembra destinato persino – ma il realista Wilson fin qui si rifiuta di spingersi – a dubitare della loro esistenza effettiva in quanto entità discrete presenti in natura. Le specie esplorano una gamma di mondi locali che vanno dall’acaro aggrappato sulla zampa di una formica guerriera alla sequoia. Alcune compaiono e scompaiono dalla Terra come meteore nell’arco di poche decine o centinaia di anni, endemiche in un frammento di foresta o di vallata che potrebbe non essere mai stato calpestato da piede umano. La longevità di altre si misura invece in

milioni di anni. Nascono in molti modi diversi nello spazio e nel tempo – per il separarsi fisico di una popolazione, oppure nello stesso territorio per mutazioni sistemiche nei cromosomi, purché vi sia la formazione di un isolamento riproduttivo – e non sempre è possibile tracciarne confini netti e precisi. La biologia evoluzionistica, del resto, sconta da sempre questo paradosso: spiegare come sia possibile che un processo continuativo, senza salti né interruzioni, possa produrre entità chiaramente discrete quali sono un opossum e un armadillo. Comunque sia, per Wilson l’entità specie, benché elusiva, resta un’unità reale di organizzazione della natura e non soltanto un costrutto culturale. Comparandole poi l’una con l’altra, le specie esibiscono un arabesco di ingegnose sottigliezze adattative e di effetti collaterali, dove noi, maestri precipui di comunicazione audiovisiva, ci ritroviamo a mezza strada in un percorso evolutivo possibile fra milioni di soluzioni alternative – egualmente plausibili ed efficaci in contesti contingenti diversi – di comunicazioni chimiche, di combinazioni sensoriali e di strategie di accoppiamento. Certe volte – immedesimandosi grazie a Wilson nell’opulenza di una barriera corallina, o nei «lampi di corteggiamento emessi da coleotteri elateridi luminescenti», o nelle incredibili diversificazioni delle trecento e più specie (ma dal 1992 a oggi la perca del Nilo ha proseguito la sua strage) di pesci ciclidi del lago Vittoria, o nelle stupefacenti proprietà dei “superorganismi” formati da insetti eusociali – sembra quasi di abitare su un pianeta alieno, pieno di forme bizzarre che nemmeno pensavamo esistessero, di minuscole creature mostruose che vivono persino nei follicoli dei capelli e nei pori del nostro viso, contendendo il primato della stranezza a quei gasteropodi platiceridi che si erano adattati («con grande successo», precisa Wilson) a vivere in corrispondenza dell’orifizio anale degli echinodermi crinoidi. Nel libro apprezziamo così anche i limiti virtuosistici estremi della diversità, dell’intraprendenza e della tenacia adattativa di cui Wilson è rinomato cantore: le 69 specie di bachi da seta selvatici nordamericani, ciascuna con il proprio orario di accoppiamento (e guai ad arrivare in ritardo!); il picchio cubano asserragliato in un

fazzoletto di foresta; il ciprinodonte del “buco del diavolo” che resiste in una singola sorgente nel deserto del Nevada; le 163 specie di coleotteri che vivono esclusivamente sulle chiome della leguminosa Luehea seemannii; il parassita che vive sulla singola penna di un singolo tipo di uccello; il curculionide gigante di Papua che si porta sul dorso un ecosistema di muschi, licheni e alghe; l’isopode di Socorro che si è rifugiato, pur di non soccombere, in un bagno pubblico abbandonato in New Mexico. Ciascuna specie, anche la più strenuamente specializzata, è figlia di una sua saggezza conquistata a fatica, senza alcun disegno preordinato e alcun fine remoto: «Sono necessari un colpo di fortuna, un lungo periodo di tentativi, di sperimentazione, e di errori». Per estinguerla invece basta una gelata invernale o un imbecille con un fiammifero. Per Wilson, come per Darwin un secolo e mezzo fa, nessun fatto è di per sé insignificante: «la sistematica è soprattutto una scienza, ma ha qualcosa anche dell’arte». La diffusione di organismi sempre più complessi, la tendenza alla crescita continua di biodiversità, il lungo respiro della vita fra ondate di estinzione e periodi di rinascita diventano – nella prosa del due volte Premio Pulitzer – autentiche epopee, narrazioni di un incessante progresso evolutivo privo di finalità intrinseche. La microstoria del crollo solitario di un ramo nella foresta pluviale – il cui tonfo sordo nessun essere umano ha udito né mai udirà – ha per Wilson lo statuto di un romanzo eroico con centinaia di protagonisti, una trama prevedibile ma non scontata, un messaggio di incessante rigenerazione e trasformazione. Non si entra mai due volte nella stessa foresta. Nella terza parte dell’opera, sfogliando ora con inquietudine ora con autentico dolore il libro della natura in via di estinzione, Wilson ci mostra come la specie umana sia stata capace, perversamente, di far leva su tutti gli elementi di vulnerabilità degli ecosistemi e degli sciami intrecciati di specie che li abitano. Li abbiamo erosi, frammentati, depauperati in ogni modo. Ben prima dell’invenzione dell’agricoltura, abbiamo estinto centinaia di specie mentre colonizzavamo per la prima volta le isole del Pacifico, l’Australia, le

Americhe, talora forse con la complicità del clima. Oltre che sapiens, eravamo affamati. Oggi – a un ritmo di tre ogni ora secondo stime approssimate ma plausibili secondo Wilson – sotto il peso del “rullo compressore umano” le specie svaniscono una ad una, silenziosamente, come il vischio della Nuova Zelanda. Leggendo la storia dell’ara brasiliana di Spix, quasi si capisce che cosa si prova a essere l’ultimo rappresentante della propria specie, alla ricerca disperata e inutile di una femmina con cui accoppiarsi. L’ecologia di un organismo non è quasi mai un idillio di armonia, bensì uno scenario di equilibri dinamici e instabili, di espansioni e ritirate, di compromessi fra pressioni selettive, vincoli fisici, storia pregressa ed eventi contingenti. Più del 99% delle specie vissute in ogni periodo sono già scomparse per sempre. Tuttavia, la biodiversità è cresciuta ed è il combustibile attraverso il quale gli ecosistemi sono in grado di recuperare le forze dopo le perturbazioni, anche le più apocalittiche, e se la riduzione è troppo drastica e veloce i ritmi naturali di ripresa rischiano di essere di milioni di anni, una scala temporale decisamente poco “umana”. Questa volta il messaggero di catastrofe, anziché un meteorite o il vulcano Krakatau, siamo noi, ma non è detto che la vita si riprenda presto e bene come fece allora. Se anche tornasse più lussureggiante di prima, non è detto che la specie umana sia fra le sopravvissute. Da quando è stata scritta questa introduzione all’enciclopedia della vita sono passati ben 17 anni. A volte si vede, dove si parla ancora di 100.000 geni umani (oggi sappiamo che in realtà sono meno di un terzo di quelli), di “selezione di specie” (un meccanismo oggi ritenuto poco plausibile), o dove si discute di evoluzione umana e ancora troviamo l’idea di schemi lineari di sostituzione fra le specie più antiche e le più recenti. Molto più spesso, però, i segni dell’età sbiadiscono, in particolare ogni volta che ritroviamo qui ciò che allora era un’ipotesi speculativa e oggi è una spiegazione consolidata in letteratura. Le peggiori previsioni di distruzione degli habitat qui indicati ad alto rischio sono state tutte, purtroppo, confermate e sul “programma di lavoro” per uscirne, proposto alla fine del volume, siamo ancora molto in ritardo. Ma l’attualità dell’opera riguarda

soprattutto la metodologia di studio delle relazioni reciproche, troppo a lungo sottovalutate, fra l’evoluzione biologica (il dramma) e l’ecologia (il teatro). Per Wilson la storia naturale «altro non è se non un’ecologia espressa attraverso i dettagli della biologia delle singole specie». È ancora una volta lo sguardo decentrato del naturalista, che immerge Homo sapiens nella sua trama di parentele con il resto del vivente, che non sottovaluta la perdurante dipendenza di questo bipede implume dalla biodiversità terrestre e che provocatoriamente calcola il numero di specie che abbiamo sistematicamente estinto dall’invenzione dell’agricoltura in poi, arrivando a una conclusione piuttosto scomoda: in una dozzina di millenni abbiamo fatto danni equiparabili alle cinque grandi estinzioni di massa del passato, prodotte secondo gli studiosi – in una ridda di ipotesi contrastanti – da impatti di meteoriti, da eruzioni vulcaniche parossistiche, dalla deriva dei continenti, da cambiamenti climatici. Secondo lo schema concettuale di Wilson, che ha fatto scuola nella letteratura di riferimento, l’impatto umano è stato capace di generare la “sesta estinzione di massa” della storia perché frutto non di un singolo comportamento particolarmente catastrofico, bensì della silenziosa e micidiale convergenza di cinque fattori e delle loro interazioni non lineari: in primo luogo la riduzione e la frammentazione degli habitat, soprattutto a causa della deforestazione; poi la disseminazione, spesso inconsapevole, sempre incontrollata, di specie invasive con grandi capacità adattative, un autentico disastro per le specie endemiche; l’inquinamento chimico, agricolo e industriale; la crescita sproporzionata della popolazione umana, evidenza statisticamente inoppugnabile che gode nondimeno di scarsa popolarità al di fuori della scienza; lo sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche attraverso caccia e pesca intensive. A questo cocktail mortale possiamo ora aggiungere gli effetti a medio termine del riscaldamento globale. Siamo una specie cosmopolita invasiva e nessuna cattedrale verde è rimasta immune dalla nostra ingombrante presenza, d’accordo, ma

perché, in fondo, dovremmo preoccuparci dell’estinzione di una specie esotica di passeriforme o di salamandra con cui non abbiamo nulla a che fare? Per un elenco di ragioni che Wilson argomenta in modo assai convincente, esercitando quell’“umanesimo scientifico” pragmatico ma appassionato che ha contraddistinto i suoi scritti: innanzitutto per ragioni ecologiche, connesse ai cicli di regolazione della biosfera da cui dipende anche il nostro benessere (insetti e batteri possono sopravvivere benissimo senza di noi, mentre noi senza di loro non avremmo speranze: un’asimmetria che non ci piace rammentare); ma anche economiche, alimentari e mediche (non è forse nei “punti caldi” di massima biodiversità terrestre che andiamo a cercare varianti resistenti agli agenti patogeni o principi attivi sconosciuti, da far poi proliferare in laboratorio per creare nuovi farmaci?); scientifiche (l’estinzione di un ecosistema trascina con sé quella di chi ci vive, delle culture native, dei saperi indigeni); persino estetiche ed emotive, se è vero che permane in noi quel profondo, inconscio e rasserenante attaccamento alla natura che Wilson ha battezzato “biofilia”. Se anche non bastassero tutte queste ragioni di utilità un po’ antropocentriche, dovremmo pur sempre chiederci quale diritto abbiamo noi di distruggere ciò che non è nostro ma ci è stato lasciato in prestito da alcuni miliardi di anni di evoluzione. L’accusa di Wilson è rivolta contro la miopia di chi non si accorge che nascosto dentro la biodiversità vi è un intero scrigno di opportunità da sfruttare nel futuro: principi curativi, antitumorali, anestetici naturali, dolcificanti, i molti “servizi di ecosistema”, l’ecoturismo, ma anche piante e animali la cui domesticazione sarebbe più efficiente di quelle praticate finora. Questi potenziali tesori commerciali e agricoli della biodiversità rappresentano in Wilson altrettante strategie per comprendere quanto un ambiente degradato sia controproducente in sé e per vincere così la sfida più grande: quella di tenere insieme lo sviluppo economico e sociale, da una parte, e la conservazione degli ecosistemi (non soltanto delle specie), dall’altra. Nel “nuovo ambientalismo” che Wilson propone qui, nel 1992, non c’è spazio per un conflitto ideologico fra conservazione e ingegneria genetica: le specie sono anche biblioteche

preziosissime di geni propizi che grazie alle biotecnologie possono essere trasferiti e migliorare la qualità delle coltivazioni locali, a scapito delle monoculture che invece abbattono la diversità. Nella “saggezza scientifica” che Wilson ha voluto sempre contrapporre agli argomenti ideologici dei “postmoderni”, non c’è spazio nemmeno per un conflitto fra scienza occidentale e sapienze indigene: la diversità biologica si tutela soltanto se accompagnata dal riconoscimento dei diritti e delle culture dei nativi. La distruzione della diversità, biologica e culturale, è infatti ancor più dolorosa perché spesso annientiamo ecosistemi e specie insostituibili che ancora conosciamo solo in minima parte, condannando per sempre all’oblio creature che nemmeno abbiamo avuto il tempo di studiare, di catalogare e di provare a salvare, come la timida farfalla ninfalide del Costa Rica avvistata solo tre volte e mai più. Una sconfitta della conoscenza, una strage di militi ignoti della storia terrestre che avrebbero potuto offrire preziosi contributi alle scienze biomediche e agroalimentari. Alla fine ciò che più resta, in questa sincera devozione per i dettagli della diversità, è la mole impressionante di tutto quello che ancora non vediamo e non percepiamo nella natura selvatica là fuori, che sia durante un temporale notturno nella foresta vergine o nel sollevare una zolla di terra in giardino: «abitiamo un pianeta in larga misura ancora inesplorato», tanto che non sappiamo neppure quale sia l’ordine di grandezza del numero di specie che contiene. Wilson sceglie intanto di farci respirare gli odori forti della diversità e dei suoi mondi sconosciuti, descrivendoci quale pullulare inesausto di predatori in agguato e di prede designate, di insetti, di vegetali, di funghi, di batteri vi possa essere nel microcosmo sovraffollato di un pezzettino di corteccia putrescente o di una chiazza di humus. Ci mostra quale violenza, quale capacità di resistenza e quali fragilità improvvise vi possano essere nel mondo non umano. E quanto sarebbe presuntuoso e poco lungimirante pensare di esserci resi indipendenti dai suoi vincoli e dalle sue cure.

Milano, luglio 2009

LA DIVERSITÀ DELLA VITA

A mia madre Inez Linnette Huddlestone Con affetto e gratitudine

PARTE PRIMA

LA VIOLENZA DELLA NATURA, LA RESILIENZA DELLA VITA

1 Temporale in Amazzonia

Nel bacino del Rio delle Amazzoni, la forma più scatenata di violenza a volte si preannuncia con un barbaglio di luce all’orizzonte. Sotto la volta perfetta del cielo notturno, non violata da alcuna luce di origine umana, un temporale lancia il suo segnale di avvertimento e comincia una lenta marcia d’avvicinamento verso l’osservatore, il quale pensa: il mondo sta per cambiare. Ed è proprio quello che mi accadde una notte, al limitare della foresta pluviale a nord di Manaus, mentre me ne stavo seduto al buio, con il pensiero che vagava nei meandri della ricerca biologica sul campo e delle mie personali ambizioni, stanco, annoiato, e pronto a cogliere ogni pretesto di distrazione. Ogni sera, dopo cena, mi portavo una sedia fino a una radura vicina: lo facevo per sottrarmi al chiasso e alla puzza di Fazenda Dimona, un accampamento di forestali brasiliani che ospitava anche me. In direzione sud, gran parte della foresta era stata abbattuta e arsa per fare posto a terreni da pascolo. Di giorno, il bestiame vi brucava nella calura spietata calpestando il terreno argilloso color ocra, mentre di notte, dal folto, sgusciavano sui terreni devastati animali e spiriti. Verso nord, cominciava la foresta vergine, una delle poche grandi aree selvagge che ancora sopravvivono sulla faccia della Terra, una zona che si estende per 500 chilometri prima di fendersi e diradarsi in foreste a galleria tra le savane di Roraima. Avvolto in un buio talmente fitto da impedirmi di vedere più in là del braccio, fui costretto a riflettere sulla foresta pluviale come se fossi nella biblioteca di casa mia, con le luci basse. Trovarsi di notte in quella foresta, buia e silenziosa come il cuore di una caverna, il più delle volte equivale a vivere un’esperienza di deprivazione sensoriale. Lì la vita c’è, e intensa come ti aspetti che sia. La giungla ne pullula.

Ma tutto questo è in gran parte al di là della portata dei sensi umani. Il 99 per cento degli animali sa trovare la strada giusta grazie a tracce chimiche deposte sul terreno, zaffate di sostanze odorose emesse nell’aria e nell’acqua, effluvi diffusi sottovento da minuscole ghiandole nascoste. Gli animali sono maestri in questo tipo di comunicazione chimica, mentre noi siamo, in materia, assai scarsamente dotati. Viceversa, siamo dei genii in fatto di comunicazione audiovisiva, eguagliati in questo solo da pochi altri gruppi: balene, scimmie, uccelli. Ed ecco spiegato perché noi attendiamo che faccia giorno, mentre loro, gli animali della foresta, attendono invece il calare della notte. E, siccome la vista e l’udito sono i requisiti evolutivi necessari allo sviluppo dell’intelligenza, soltanto noi siamo arrivati a riflettere su fenomeni come le notti amazzoniche e le facoltà sensoriali. Stavo esplorando il terreno con la luce della torcia alla ricerca di segni di vita, ed ecco, all’improvviso, un luccichio di diamanti! Alcuni punti di vivida luce bianca, a intervalli regolari di alcuni metri, si accendevano e spegnevano al passare del fascio luminoso. Si trattava della luce riflessa dagli occhi delle licose, ragni della famiglia dei Lycosidae, in giro a caccia di insetti. Come venivano illuminati, i ragni si immobilizzavano, e così io potevo avvicinarmi a loro carponi, osservarli quasi dal loro stesso punto di vista, e distinguere le varie specie grazie alle dimensioni, al colore e alla pelosità. Colpito dal pensiero di quanto poco si sappia di quelle piccole creature della foresta pluviale, mi ritrovai a riflettere che sarebbe stata un’immensa soddisfazione poter trascorrere in quel luogo mesi, anni, o, se necessario, anche il resto della mia vita per poter chiamare ogni specie con il suo nome e conoscere ogni particolare della sua biologia. Grazie al ritrovamento di alcuni esemplari rimasti imprigionati nell’ambra, e che si sono quindi conservati perfettamente, oggi sappiamo che i licosidi esistono almeno dall’inizio dell’Oligocene, cioè da quaranta milioni di anni, e non è da escludere che essi siano molto più antichi. Oggi, il mondo pullula di un’infinità di forme diverse e quelle che mi stavano davanti ne erano soltanto un minuscolo campionario; tuttavia, quelle specie che si giravano per fissarmi dalla

nuda argilla gialla sarebbero bastate per dare senso alla vita di molti naturalisti. La luna era calata, e solo la luce delle stelle delineava il profilo delle cime degli alberi. Era agosto, e ci trovavamo nella stagione secca. L’aria si era rinfrescata quanto bastava per rendere piacevole, in termini tropicali, l’umidità: qualcosa tra lo stato d’animo e la sensazione fisica. A occhio e croce, il temporale era a circa un’ora di distanza. Mi venne in mente di addentrarmi nuovamente nella foresta, armato della mia torcia, a caccia di nuovi tesori, ma ero troppo stanco dopo quella giornata di lavoro. Sempre inchiodato alla sedia, costretto a starmene chiuso in me stesso, scorsi con piacere in cielo la scia di una stella cadente, e, in mezzo ai cespugli vicini ma invisibili, di quando in quando, i lampi di corteggiamento emessi da coleotteri elateridi luminescenti. Attesi con piacere perfino il passaggio di un jet di linea a 10.000 metri di quota, cosa che si ripeteva regolarmente ogni notte, verso le dieci. Una settimana trascorsa nella foresta pluviale aveva trasformato quel rombo lontano da voce fastidiosa della civiltà urbana in segno confortante della continuazione della mia specie. Ad ogni modo, ero contento di trovarmi solo. La disciplina imposta da quell’oscurità avvolgente evocava dalla foresta immagini inedite degli aspetti e dei comportamenti dei viventi. Mi bastava concentrarmi appena per un istante, ed eccoli apparirmi, quegli organismi, quasi come forme eidetiche, che appaiono a occhi chiusi, in movimento tra il fogliame caduto e l’humus marcescente. Mi misi a ricombinare i ricordi di quelle immagini in diversi modi, nella speranza di imbattermi in qualche schema nuovo, svincolato dalle teorie astratte dei manuali. Mi sarebbe andato bene qualunque schema. Contrariamente a quanto lasciano intendere i manuali, il meglio della scienza non sta nei modelli matematici e nella sperimentazione: queste cose vengono in un momento successivo. Il meglio scaturisce vergine da processi mentali più primitivi: quelli del cacciatore che intesse idee ricavandole da esperienze antiche, da metafore nuove e dalle immagini, messe follemente alla rinfusa, di cose viste di recente. Progredire significa escogitare nuovi schemi di

pensiero: schemi che, a loro volta, impongono una struttura ai modelli e agli esperimenti. Facile a dirsi, difficile a farsi. L’argomento che quella notte continuavo a rimuginare a intermittenza – il perché di quel mio viaggio di ricerca nella parte brasiliana dell’Amazzonia – in realtà era diventato un’ossessione, e come tutte le ossessioni molto probabilmente mi avrebbe portato in un vicolo cieco. Si trattava di quel genere di rompicapo che continua a perseguitarti proprio perché la sua difficoltà lo rende perversamente piacevole, un po’ come succede con quei notissimi motivi musicali che ti si insinuano nella mente quasi che ti si siano affezionati e non intendano lasciarti più. E io speravo che un’immagine nuova mi catapultasse oltre quel rompicapo ormai sfibrato, portandomi ad approdare a idee bizzarre e al tempo stesso prepotenti. Abbiate un attimo di pazienza e lasciate che vi chiarisca questo mio esoterismo. Mi sto avvicinando al nocciolo della questione. Esistono tipi di vegetali e di animali che sono dominanti in quanto generano di continuo nuove specie e si diffondono in ampie zone del mondo. Altri, invece, vengono risospinti indietro fino a diventare rari e a trovarsi in pericolo di estinzione. Ora, esiste una formula unica che renda conto, per tutti gli organismi, di questa differenza biogeografica? Se ben formulato, il processo si tradurrebbe in una legge o, quanto meno, in un principio di successione dinastica in campo evoluzionistico. La circostanza che gli insetti sociali – il gruppo al quale ho dedicato gran parte della mia vita – siano tra gli organismi più numerosi sul pianeta è cosa che ha sempre suscitato la mia curiosità. E, tra gli insetti sociali, le formiche sono senz’altro il sottogruppo dominante: basti pensare che contano oltre 80.000 specie distribuite dal Circolo Artico all’estremità meridionale del Sudamerica, e che nella foresta pluviale dell’Amazzonia costituiscono più del 10 per cento della biomassa animale. Ciò significa che, se si raccogliessero, disseccassero e pesassero tutti gli animali presenti in una certa zona della foresta – dalle scimmie e dagli uccelli giù fino agli acari e ai nematodi – almeno il 10 per cento del peso sarebbe dato dalle sole formiche. Le quali, poi, costituiscono quasi la metà della biomassa dei soli insetti in generale, e il 70 per cento di quelli che vivono in cima agli alberi;

la loro profusione, inoltre, è solo di poco inferiore nelle praterie, nei deserti e nelle foreste temperate di tutto il resto del pianeta. Quella notte mi parve – come già molte volte era parso ad altri, in modo più o meno convincente – che la prevalenza delle formiche dovesse aver a che fare in un modo o nell’altro con la loro evoluta organizzazione coloniale. La colonia è un superorganismo, un assembramento di operaie così strettamente intrecciato attorno alla regina madre da portarle ad agire come un’entità unica e ben coordinata. Quando una vespa, o un qualunque altro insetto solitario, incappa in una formica in prossimità del suo nido, non si trova di fronte a un singolo insetto qualsiasi; ha davanti a sé l’operaia e tutte le sue compagne, unite dall’istinto di proteggere la regina, di mantenere il controllo del territorio, di promuovere la crescita della colonia. Le operaie sono piccoli kamikaze pronti, anzi, ansiosi di morire quando vi sia da difendere il nido o da impadronirsi di una fonte di cibo. Dal punto di vista della colonia, la loro morte non conta più di una perdita di pelo o dello spuntarsi di un artiglio per un animale solitario. C’è anche un altro modo di considerare una colonia di formiche. Le operaie a caccia di cibo nei pressi del nido non sono puramente e semplicemente insetti in perlustrazione; sono una rete viva lanciata dal superorganismo, pronta a coagularsi rapidamente quando s’imbatta in una generosa fonte di nutrimento, o a ritirarsi velocemente quando si trovi davanti ai nemici più temibili. I superorganismi riescono agevolmente a controllare e dominare il terreno e la cima degli alberi quando entrano in competizione con comuni organismi solitari, e senz’altro è questa la ragione per cui le formiche vivono dappertutto in così gran numero. Intorno a me udii, simile a un coro greco, la voce della prudenza e dell’esperienza: Come puoi dimostrare che sia proprio quella la ragione del successo delle formiche? La spiegazione trovata non sarà un’altra di quelle conclusioni false secondo cui, quando due eventi accadono contemporaneamente, uno deve essere causa necessariamente dell’altro? Può darsi invece che qualcos’altro sia la causa di entrambi i fenomeni. Per

esempio, potrebbe essere stata una maggiore capacità individuale di combattimento, oppure un’acutezza sensoriale più spiccata, o qualche altra caratteristica ancora. Qui sta il dilemma della biologia evolutiva. Da una parte abbiamo una serie di problemi da risolvere, dall’altra una serie di risposte chiare… troppe risposte chiare. Il difficile sta nell’individuare la risposta esatta. La mente del ricercatore solitario gira e rigira attorno alle cose, ma raramente esce dal circolo vizioso. La solitudine serve meglio a sfrondare le idee che non a concepirle. Il colpo di genio è il prodotto sommatorio del pensiero di molti, e se porta il nome di pochi – vera ingiustizia per gli scienziati esclusi – è solo perché lo si possa ricordare con facilità. La mia mente andava alla deriva nella notte senza tempo; nessun approdo era ancora stato scelto. La massa temporalesca continuò ad accrescersi fin quando il cielo a occidente fu tutto invaso da lampi. Il fronte del temporale si erse adagio, come un mostro dalla testa greve, poi si piegò in avanti, cancellando le stelle. La foresta eruppe in una rappresentazione di vita violenta. I fulmini si scagliarono al suolo prima di fronte, e poi, fattisi più vicini, a sinistra e a destra: 10.000 volt che scendevano lungo un sentiero d’aria ionizzata a 800 chilometri l’ora, poi schizzavano in senso contrario verso il cielo a una velocità dieci volte maggiore, e così avanti e indietro in una frazione di secondo, il tutto percepito come un singolo lampo e un singolo tuono. Il vento rinfrescò, e la pioggia prese ad avanzare a grandi passi nella foresta. Nel bel mezzo di quel caos, qualcosa di fianco a me attrasse la mia attenzione. I lampi, comportandosi come un flash stroboscopico, illuminavano a intermittenza la muraglia della foresta, e io ne scorgevo a tratti la struttura a piani: la cima della volta, a 30 metri dal suolo; sotto, il livello degli alberi di media statura, sparsi disordinatamente; infine, le chiazze di arbusti e di pianticelle al suolo. Per alcuni istanti la foresta fu incorniciata da questo scenario teatrale. Il suo volto era surreale, proiettato com’era nel vortice sfrenato dell’immaginazione, lanciato a ritroso nel tempo di 10.000 anni. Da qualche parte, lì vicino – lo sapevo – c’erano pipistrelli fillostomidi

che volavano tra le chiome degli alberi in cerca di frutta, viperidi che si attorcigliavano in agguato tra le radici delle orchidee, e giaguari che camminavano lungo le rive del fiume. Intorno a quella fauna s’ergevano ottocento specie di piante, più di quante ne conti tutta l’America settentrionale; e un migliaio di specie di farfalle, pari al 6 per cento dell’intera fauna mondiale, attendeva l’alba. Delle orchidee di quel luogo si sapeva pochissimo; degli insetti, che fossero ditteri o coleotteri, quasi niente; dei funghi, nulla; e di quasi tutti gli altri organismi, ancora nulla. In un pizzico di suolo si potevano trovare cinquemila tipi diversi di batteri a noi ancora del tutto ignoti. Era un mondo selvatico quale si intendeva nel Cinquecento, quale dovevano esserselo figurato gli esploratori portoghesi, con l’entroterra ancora largamente inesplorato e pullulante di piante e di animali strani, fonti di leggende. Da un luogo siffatto, il naturalista timorato di Dio avrebbe senz’altro inviato ai suoi regali mecenati lunghe, ossequiose lettere per descriver loro le meraviglie del Nuovo Mondo a testimonianza della gloria di Dio. E mi venne fatto di pensare che l’uomo fosse ancora in tempo per vedere questa terra con gli occhi di allora. I misteri irrisolti della foresta pluviale sono vaghi e seducenti. Sono come isole senza nome celate negli spazi vuoti delle carte geografiche antiche, come forme oscure che si scorgono mentre sprofondano verso l’abisso lungo la parete remota di una barriera sottomarina. Ci attraggono e, nello stesso tempo, suscitano in noi strane paure. Per la fantasia dello scienziato, l’ignoto, il prodigioso sono droghe, suscitano al primo assaggio una fame insaziabile. Noi scienziati preghiamo che vi sia sempre un mondo come quello al cui limitare io me ne stavo seduto, quella notte, immerso nelle tenebre. Con tutti i suoi tesori, la foresta pluviale è, sulla Terra, uno degli ultimi sacrari del nostro sogno senza tempo. Ecco perché, a quarant’anni dall’inizio della mia carriera di ricercatore, ancora oggi mi reco nella foresta. Allora, studente ancora fresco di laurea, volai a Cuba, spinto dal desiderio di incontrare «i» tropici, libero finalmente di dedicarmi alla caccia di ciò che era

ancora nascosto, come se Kipling in persona fosse li a spingermi, al di là della catena di montagne, alla ricerca di ciò che era perduto. Le possibilità di trovare nel giro di pochi giorni dopo l’arrivo – o, se lavori sodo, nel giro di poche ore – una specie nuova, o un fenomeno nuovo, le possibilità, dicevo, sono tantissime, anzi, ne hai la certezza. La caccia, però, è aperta anche nei confronti di specie rare che, di fatto ancora sconosciute, peraltro furono scoperte ufficialmente già cinquanta o cento anni fa: specie rappresentate da un paio di esemplari riposti a quel tempo in un cassetto di museo e lì abbandonati senza altro che un cartellino indicante data e luogo del ritrovamento: «Santarem, Brasile, nido su fianco di albero in foresta paludosa». Apri il cartoncino irrigidito, ingiallito, ed ecco che ti parla un biologo morto da un pezzo: sono stato lì, ho trovato questo, ora lo sai, va’ avanti tu. Ma lo studio del patrimonio biologico non finisce qui. Si tratta di un microcosmo di indagini scientifiche, le quali proiettano le esperienze pratiche, concrete, su un piano superiore di astrazione. Noi scienziati studiamo un determinato soggetto dentro e fuori, alla ricerca di un concetto, di uno schema che imponga ordine. Quel che vogliamo trovare è un modo per poter parlare di una zona ancora brada, inesplorata; ci basta anche un solo nome o una frase, purché sappia richiamare l’attenzione sull’argomento di cui ci occupiamo. Naturalmente, speriamo sempre di arrivare per primi a stabilire un nesso. Il nostro scopo è di cogliere ed etichettare un determinato processo – una reazione chimica oppure un modello etologico promotori di un cambiamento ecologico – o un modo nuovo di classificare il flusso dell’energia, o un rapporto tra predatore e preda che preservi entrambi; insomma, ci va bene praticamente qualunque cosa. A patto, però, che ci si confronti con domande concrete, fosse anche una sola, ma di quelle buone, di quelle che spingono la gente a pensare e a chiedersi: Perché esistono tante specie? Perché i mammiferi si sono evoluti più in fretta dei rettili? Perché gli uccelli cinguettano all’alba? Di questi inquilini bisbiglianti avverti, sì, la presenza nel tuo cervello, ma in quanto a vederli, non ti riesce mai. Fanno frusciare il

fogliame, lasciano dietro di sé un’impronta che si riempie subito d’acqua e una traccia odorosa, ti eccitano per un breve istante e poi scompaiono. Quasi sempre, le idee sono sogni a occhi aperti che si affievoliscono fino a lasciare – unica traccia – solo un avanzo di emozione. Per quanto eccellente, uno scienziato può sperare di catturarne ed esprimerne non più di qualcuna in tutta la vita. Nessuno ha mai imparato il sistema per ricavare, con costante successo, le equazioni e gli enunciati della scienza: nessuno si è mai impadronito della metaformula della ricerca scientifica. Compiere queste trasformazioni è un’arte, cui occorre anche l’aiuto di un colpo di fortuna nei cervelli pronti a captare le idee nuove. La caccia è aperta sia verso l’esterno sia verso il nostro interno, e il valore delle prede che possiamo catturare al di qua di questa barriera mentale è commisurato al valore di quelle dell’altra parte. A proposito di tale duplice qualità, il grande chimico Berzelius scrisse nel 1818 parole che resteranno valide in eterno: Tutte le nostre teorie altro non sono che un mezzo per concettualizzare in modo coerente i processi interni dei fenomeni, e risultano probabili e adeguate quando se

ne possano dedurre tutti i fatti scientificamente noti; questo modo di concettualizzare, tuttavia, può benissimo rivelarsi falso, il che, purtroppo, si presume accada spesso. Ciò nonostante, a un certo punto dello sviluppo della

scienza, tale modo può rispondere allo scopo altrettanto bene di una teoria corretta.

L’esperienza poi si accresce, compaiono fatti che non concordano con la teoria, e allora si è costretti a cercare una nuova modalità di concettualizzazione che possa inglobare anche questi; in tal guisa, non v’è dubbio, i modi di concettualizzare

cambieranno da un’epoca all’altra con il dilatarsi dell’esperienza, e forse la verità ultima non verrà mai raggiunta.

Il temporale arrivò, avanzando a gran velocità dal limitare della foresta verso il suo centro e trasformandosi da pochi e sparsi goccioloni in spessi veli sospinti da raffiche di vento. Mi costrinse così a tornare, e a rifugiarmi sotto la tettoia di lamiera ondulata degli alloggi all’aria aperta, dove mi sedetti e mi misi ad aspettare in compagnia dei mateiros. Gli uomini si spogliarono, corsero sotto la pioggia torrenziale, e, tra canti e risa, presero a insaponarsi e a

lavarsi. A far loro da bizzarro contrappunto, alcune rane leptodattilidi, sparse qua e là sul suolo della foresta circostante, intonarono a tutto volume il loro monotono gracidio. Le avevamo intorno da tutte le parti, e mi domandai dove fossero durante il giorno. Quando mi ero trovato a esplorare al setaccio, in giornate piene di sole, la vegetazione e i suoi resti marcescenti, che sono considerati il loro habitat preferito, non ne avevo mai vista nemmeno una. Ancor più lontano, a un paio di chilometri di distanza, un gruppo di scimmie urlatrici rosse si unì al coro: un concerto, il loro, che è tra i più strani udibili in tutto il regno della natura, e ammaliante, a suo modo, come il canto delle megattere. Il maschio diede il la con una serie di grugniti profondi sempre più veloci, poi sfocianti in ruggiti prolungati, cui si aggiunsero alla fine i richiami più acuti delle femmine. A quella distanza, e attraverso il filtro del fitto fogliame, quel coro aveva un che di meccanico: profondo, ronzante, metallico. Lanciati durante la stagione delle piogge, questi versi fungono di solito da segnali territoriali; sono il mezzo mediante il quale gli animali stabiliscono le distanze tra sé e gli altri e si assicurano la fetta di territorio sufficiente a procacciarsi il cibo e riprodursi. Alle mie orecchie, suonavano come un inno alla vitalità della foresta: Gioite! Le forze della natura sono a nostra disposizione, il temporale fa parte della nostra vita!. Così, infatti, va il mondo non umano. Le forze più poderose dell’ambiente fisico urtano contro quelle duttili della vita, ma non accade granché. E sono proprio queste forme e questi gradi di violenza che le specie della foresta pluviale si sono abituate ad assorbire grazie a una lunghissima evoluzione durata ben 150 milioni di anni. Animali e piante hanno codificato, per esempio, il prevedibile evento delle tempeste naturali nelle lettere-chiave del loro patrimonio genetico, arrivando così a servirsi solitamente delle grandi piogge e dei temporali per scandire gli episodi che si verificano durante i loro cicli vitali. Minacciano i rivali, si accoppiano, vanno a caccia, depongono uova in pozzanghere formatesi da poco, e scavano tane

nel terreno reso cedevole dalla pioggia. Su scala più vasta, i temporali provocano mutamenti nell’intera struttura della foresta. La dinamica della natura amplia la biodiversità servendosi delle distruzioni e delle rigenerazioni locali. In un punto qualsiasi della foresta c’è un grosso ramo orizzontale, un ramo debole e vulnerabile, rivestito da una fitta aiuola di orchidee, bromeliacee, o da altre epifite. La pioggia riempie le cavità delimitate dalle guaine ascellari delle foglie delle epifite, impregnando l’humus e la polvere raggrumata intorno alle radici. Dopo anni di crescita, il peso si è fatto quasi insopportabile. Arriva la sferzata di un colpo di vento, oppure un fulmine colpisce il tronco, ed ecco che il ramo si spezza e precipita, aprendosi un varco fino al suolo. Da un’altra parte, la chioma di un albero gigantesco svettante su tutti gli altri viene investita dal vento, e l’albero oscilla sul terreno intriso d’acqua. Le radici poco profonde non reggono, e tutto l’albero si inclina. Tronco e chioma descrivono, simili a un’ascia non più affilata, un arco discendente, tranciando alberi più piccoli e seppellendo arbusti e piante erbacee del sottobosco. Le grosse liane abbarbicate ai suoi rami vengono trascinate dietro di essi. Quelle che si estendono ad altri alberi agiscono da cavi di traino facendo rovinare a terra altra vegetazione. Il massiccio insieme delle radici sbuca dal suolo creando all’istante un tumulo di terra nuda. E in un altro punto ancora, vicino alla riva del fiume, il livello dell’acqua montante erode un ciglio sporgente alla base finché questo, sotto il peso della gravità, frana, trascinando in acqua un tratto di terreno di 20 metri. Alle sue spalle, smotta anche una fascia di foresta, abbattendo alberi e seppellendo vegetazione bassa. Eventi di questo genere, di una violenza relativa, bastano ad aprire dei vuoti nella foresta. Quando il cielo torna a schiarirsi, la luce inonda il terreno, la temperatura al suolo aumenta e l’umidità diminuisce, allora il suolo e la materia morta che lo ricopre si asciugano, si scaldano ulteriormente, e creano così un nuovo ambiente favorevole ad animali, funghi e microrganismi di genere diverso da quelli che vivono nell’interno buio della foresta. Nei mesi

successivi, mettono radice le piante pioniere, organismi assai differenti dai giovani alberelli amanti dell’ombra e dagli arbusti che formano il sottobosco della foresta prevalente, stabilitasi molto tempo fa. Caratterizzate dalla rapidità della crescita, dalla piccola statura e dalla vita breve, le piante pioniere formano una cupola che si sviluppa a livello ben più basso delle chiome degli alberi più vecchi tutt’intorno. I loro tessuti, molto più teneri, sono assai vulnerabili ai morsi degli erbivori. Gli alberi a foglie palmate della Cecropia, un genere dell’America centrale e meridionale specializzatosi nella ricolonizzazione delle aree spoglie delle foreste, ospitano negli internodi cavi del fusto, alcune formiche. Questi insetti aggressivi denominati appropriatamente Azteca, vivono in simbiosi con la pianta ospite, proteggendola da tutti i predatori fuorché dai bradipi e da alcuni altri erbivori che di essa esclusivamente si nutrono. I simbionti, dunque, vivono all’interno di nuove associazioni di specie non reperibili nella foresta matura. Tutt’attorno a questa popolazione vegetale di seconda generazione, giacciono a marcire e a sgretolarsi gli alberi e i rami caduti a terra, diventati rifugio e fonte di cibo per tutta una schiera di funghi basidiomiceti, mixomiceti, formiche ponerine, coleotteri scolitidi, psocotteri, dermatteri, embiotteri, zoratteri, collemboli entomobriomorfi, dipluri iapigidi, aracnidi schizomidi, pseudoscorpioni, scorpioni, e altre forme viventi che dimorano in prevalenza o unicamente in quell’habitat: forme che arricchiscono di migliaia di specie la biodiversità della foresta originaria. Ci si muova nell’intrico della vegetazione abbattuta, si strappino pezzi di corteccia putrescente, si faccia rotolare un tronco giacente a terra, e si vedranno queste creature brulicare dappertutto. Via via che la vegetazione pioniera s’infittisce, l’ombra sempre più fonda e l’umidità sempre maggiore tornano a favorire le specie tipiche della vecchia foresta, le cui pianticelle tornano a germogliare e a crescere. In capo a un centinaio di anni, la lotta per la luce avrà eliminato tutte le piante specializzate nell’invasione degli spazi nudi della foresta, e gli alberi ad alto fusto avranno riacquistato completamente il loro dominio.

Nel corso di questa sorta di gara che è la successione, le specie pioniere giocano il ruolo dei velocisti, mentre le specie della foresta originaria quello dei fondisti. I mutamenti repentini come l’aprirsi di una radura pongono questi due gruppi dietro la stessa linea di partenza: al via, i velocisti scattano avanti, ma, sulla lunga distanza, saranno i fondisti a tagliare il traguardo. Nel loro complesso, i due gruppi fanno della foresta un complicato mosaico di specie vegetali che, per la caduta regolare degli alberi e l’azione degli smottamenti del terreno, è in continuo mutamento. Supponiamo di cartografare e ricartografare per decenni alcuni chilometri di foresta: ebbene, vedremmo il mosaico trasformarsi in un vorticoso caleidoscopio dai disegni in continua mutazione. Nella foresta, qua e là, c’è sempre una maratona sul punto di cominciare. Le percentuali dei vari tipi di vegetazione che prendono parte alla successione, quindi, si mantengono sempre più o meno costanti: in un dato momento, vi sono aree occupate esclusivamente dalle specie pioniere più precoci, altre da varie combinazioni di piante pioniere ed essenze forestali ad alto fusto, e altre ancora caratterizzate dalla fisionomia più matura. Un paio di chilometri di cammino attraverso la foresta sono sufficienti per incontrare zone caratterizzate dai vari stadi della successione delle specie vegetali e, quindi, per apprezzare la biodiversità indotta dal passaggio dei temporali e dalla caduta dei giganti della foresta. La biodiversità, ecco lo strumento di cui la vita si serve per fabbricare e saturare la foresta pluviale. Ma la biodiversità ha portato la vita ben oltre, sino agli ambienti più ostili del pianeta. Le baie poco profonde dell’Antartide, di certo gli ambienti marini più freddi che ci siano, pullulano di forme viventi. Proprio lì, in quelle acque, dove la temperatura è appena al di sopra del punto di congelamento, ma già sufficientemente fredda per trasformare in ghiaccio il sangue degli animali, nuotano i perciformi nototeniidi, pesci che resistono al gelo e che, là dove altri non possono avventurarsi, riescono invece a prosperare semplicemente perché capaci di produrre nei loro tessuti dei glicopeptidi che fungono da anticongelante. Tutt’attorno, poi, si trovano densi popolamenti di ofiure, di krill e di altri invertebrati, ciascuno dotato dei propri particolari sistemi protettivi.

Le caverne buie e profonde costituiscono un ambiente radicalmente diverso, dove collemboli bianchi e ciechi, acari e coleotteri si nutrono di funghi e batteri che, a loro volta, trovano sostentamento nel materiale vegetale marcescente trasportato dalle acque che percolano nel terreno. Essi finiscono in pasto a insetti e ragni altrettanto bianchi, altrettanto ciechi, altrettanto adattati alla vita nel buio perenne. Alcuni tra i deserti più inospitali sono dimora di collettività uniche di insetti, rettili e angiosperme. Nel Namib, la regione desertica dell’Africa sudoccidentale, certi scarabei hanno le estremità delle zampe allargate a mo’ di pala di remo, il che consente loro di «nuotare» sulle sabbie mobili delle dune alla ricerca di sostanza vegetale secca. Altri – e sono gli insetti corridori più veloci del mondo – sfrecciano sulla superficie arroventata dal sole con le loro zampe lunghe e sottili come trampoli. Gli archibatteri, microrganismi unicellulari talmente diversi dai batteri propriamente detti da essere candidati a formare un regno a sé, popolano le acque bollenti sia delle sorgenti idrotermali terrestri, sia di quelle presenti negli abissi marini. Per esempio, sul fondo del mar Mediterraneo, in anfratti con temperatura di 110°C, vive il Methanopyrus, un genere scoperto solo di recente. In luoghi siffatti, relegati in quelle zone di frontiera dell’involucro fisico dove la biochimica vacilla, la vita si è adattata così bene, e si è diversificata a tal punto, da non poter essere sconvolta da temporali o altri consueti capricci della natura. Ma proprio questa varietà, che è poi l’elemento su cui si basa la capacità di risposta flessibile della vita, può essere messa in pericolo da colpi ancora più violenti delle perturbazioni naturali; può essere erosa, pezzo per pezzo, fino a essere, nel caso l’elemento di disturbo perduri nel tempo, completamente consumata. Questa vulnerabilità è dovuta al fatto che la vita nel suo complesso è composta da tanti sciami di specie, ciascuno dei quali occupa un’area ristretta. I diversi habitat – dalla foresta pluviale brasiliana, alle baie dell’Antartide, alle sorgenti idrotermali – ospitano una peculiare combinazione di forme animali e

vegetali, ciascuna delle quali è legata, tramite la rete alimentare, solo ad alcune delle altre. Se si elimina una di queste specie, un’altra specie si farà più popolosa per prenderne il posto. Nel caso in cui se ne eliminano moltissime, comincerà un degrado progressivo dell’ecosistema locale, accompagnato da un calo della produttività via via che i cicli dei nutrienti si incepperanno. Infatti, una quantità sempre maggiore di biomassa verrà sequestrata sotto forma di vegetazione morta e metabolizzata lentamente in forma di fango poco ossigenato; oppure, più semplicemente, sarà spazzata via. A mano a mano che scompariranno gli specialisti dell’impollinazione – api, falene, uccelli, pipistrelli – a soppiantarli arriveranno impollinatori meno efficienti. I semi verranno sparsi in minore quantità, e, con effetto a cascata, si produrranno meno germogli, declinerà il numero degli erbivori e, di pari passo, quello dei predatori carnivori. Certo, anche in un ecosistema in fase di erosione la vita continua, tanto che, a uno sguardo superficiale, non si nota alcuna differenza. Esistono sempre specie in grado di ricolonizzare l’area impoverita e di sfruttare, seppure maldestramente, le poche risorse a disposizione. Trascorso un certo tempo, si costituisce una nuova combinazione di specie, una fauna e una flora rigenerate in grado di rendere più efficiente il trasporto di materia ed energia all’interno dell’habitat. La composizione dell’atmosfera ricreata da tali specie, come pure quella del suolo che esse arricchiscono, somiglia a quella di habitat simili, presenti in altre parti del globo, e ciò perché queste specie si sono adattate precisamente a svolgere il compito di penetrare e rinvigorire quegli ecosistemi degenerati. La ragione è che, così facendo, esse possono ricavare una quantità maggiore di energia e di materia e, quindi, lasciare più discendenza. Ma la capacità di recupero della fauna e della flora mondiali è legata all’esistenza di un numero sufficiente di specie che possano giocare tale ruolo strategico: specie che, si noti bene, possono anch’esse scivolare nel novero di quelle in pericolo d’estinzione. La varietà delle forme viventi – o «biodiversità», secondo un termine nuovo del gergo scientifico – è la chiave di volta per la conservazione del mondo così come lo conosciamo. In un determinato

luogo, la vita, assalita dalla furia di un temporale, è capace di riprendersi subito proprio grazie all’esistenza della biodiversità. Vi saranno specie opportuniste che, evolutesi per far fronte a questo genere di situazione, si precipiteranno a riempire gli spazi rimasti vuoti e daranno il via alla successione che riporterà l’ambiente in uno stato molto simile a quello originario. Questo è l’impianto vitale che ha richiesto un miliardo di anni per arrivare a essere quello che è. Un meccanismo che ha fagocitato, avviluppandola nei propri geni, la furia dei temporali e che ha creato il mondo di cui noi, a nostra volta, siamo creature. Non solo, ma che lo tiene saldo così com’è. Quando mi risvegliai all’alba del giorno dopo, a Fazenda Dimona apparentemente nulla era cambiato dal giorno prima. Gli alberi alti che si ergevano al limitare della foresta come una fortezza erano sempre quelli; e c’era la stessa profusione di uccelli e insetti che, seguendo ciascuno orari precisi, andavano in cerca di cibo sotto la volta degli alberi e nel sottobosco. Tutto ciò aveva il sapore dell’eterno, dell’immutabile. Una scena possente che, appunto perché tale, suggeriva una domanda: quanta forza occorre per mandare in frantumi il crogiolo dell’evoluzione?

2 Krakatau

La mattina di lunedì 27 agosto 1883 l’isola di Krakatau – un tempo erroneamente chiamata Krakatoa – vasta quanto Manhattan e situata al centro dello Stretto della Sonda, tra Sumatra e Giava, giunse alla fine dei suoi giorni, smembrata da una serie di immani eruzioni vulcaniche: la più violenta si scagliò verso il cielo come il fungo di una grossa bomba nucleare, alle 10:02 del mattino, con una forza valutata in 100-150 megatoni. L’onda d’urto conseguente girò intorno alla Terra alla velocità del suono, e, dopo diciannove ore, giunse vicino a Bogotà, in Colombia, nel punto diametralmente opposto a quello di partenza. Di li, tornò verso Krakatau, da cui, stando alle registrazioni, ripartì rimbalzando avanti e indietro sulla superficie del pianeta per almeno altre sette volte. Il frastuono prodotto, simile alla salva di cannone di una nave lontana in difficoltà, viaggiò in ogni direzione, giungendo, verso sud, attraverso l’Australia, fino a Perth, verso nord fino a Singapore, e verso ovest fino all’isola di Rodriguez, nell’Oceano Indiano, dopo un viaggio di 4600 km, la maggiore distanza coperta da un’onda sonora di cui si abbia notizia. Mentre la parte emersa dell’isola crollava all’interno della camera magmatica sotterranea, svuotata dall’esplosione, il mare si avventò a riempire la caldera appena formatasi. Si levò allora in aria una colonna di magma, roccia e cenere alta 5 km, che poi, ricadendo verso il suolo, generò all’impatto col mare uno tsunami, un’onda solitaria alta 40 metri. Il treno di onde che ne seguì – simile, da lontano, a una catena di colline nere – si riversò sulle coste di Giava e di Sumatra spazzando via intere cittadine e uccidendo 40.000 persone. I tratti d’onda che attraversarono gli stretti e che raggiunsero

il mare aperto si aprirono a ventaglio, continuando a procedere in ogni direzione. I cavalloni erano alti ancora un metro quando arrivarono alle spiagge di Ceylon – l’odierno Sri Lanka – dove fecero annegare una persona, la loro ultima vittima. Trentadue ore dopo l’esplosione doppiavano l’ingresso del porto di Le Havre, ridotte ormai a increspature di pochi centimetri. Le esplosioni avevano scagliato in aria più di 18 chilometri cubi di roccia e altri materiali. Gran parte della tefra. – come i geologi chiamano questa massa di frammenti di roccia – ricadde velocemente al suolo, ma un suo residuo, composto di acido solforico nebulizzato e di polvere, continuò a salire ribollendo nella stratosfera, a 50 km di quota, donde si diffuse in tutto il mondo, per restarvi parecchi anni creando tramonti di un rosso brillante e quelle corone opalescenti che circondano il Sole, note come «anelli di Bishop». A Krakatau, intanto, la scena si era fatta apocalittica. Agli occhi di chi si trovava abbastanza vicino da poter assistere alle esplosioni, le ore diurne parvero quelle del giorno del giudizio universale. Alle 10:02, cioè all’apice del cataclisma, il veliero americano W. H. Besse. navigava con rotta est-nordest a 84 km da Krakatau. Nel diario di bordo, il primo ufficiale annotò che si erano uditi «dei botti tremendi» e aggiunse: Una nuvola nera molto densa si solleva dall’isola di Krakatoa. Barometro precipitato

bruscamente di un pollice alla volta, risalendo e ricadendo sempre così. Tutti gli uomini alle manovre, ammainate tutte le vele appena in tempo prima che la nave

fosse investita dal fortunale; mollata ancora di babordo con tutta la catena, vento in

aumento a uragano; mollata ancora di tribordo. Dalle ore 9 del mattino ha preso a fare scuro e, quando il fortunale ci ha raggiunti, eravamo immersi nel buio più pesto che mi sia mai capitato di vedere; era mezzanotte a mezzogiorno, e, quando il fortunale ci ha raggiunti, siamo stati investiti da una fitta pioggia di ceneri,

talmente fitta da rendere difficile la respirazione. Abbiamo notato anche un odore penetrante di zolfo, e tutti temevamo di morire soffocati; dal vulcano arrivavano

boati spaventosi, il cielo era pieno di fulmini ramificati che rendevano il buio

ancora più buio. L’urlo del vento attraverso il sartiame rendeva la scena ancor più violenta e terrorizzante, e tutti eravamo convinti che fosse arrivata la fine del

mondo. L’acqua tutt’attorno a noi correva verso il vulcano alla velocità di 12 miglia l’ora. Alle 4 del pomeriggio il vento calò, le esplosioni erano quasi del tutto cessate

e la pioggia di cenere si fece meno intensa; allora sono stato in grado di dare uno sguardo alle condizioni della nave; il ponte era coperto da tonnellate di ceneri impalpabili, somiglianti a pietra pomice, che si erano appiccicate come colla anche alle vele, al sartiame e agli alberi.

Nelle settimane successive, lo Stretto della Sonda ritrovò una calma apparente. Ma, in realtà, la sua geografia non era più la stessa: al posto del centro di Krakatau si trovava ora un cratere subacqueo lungo 7 km e profondo 270 m; e dal mare affioravano solo i resti dell’estremità meridionale dell’isola. Coperti da uno strato di pomice misto a ossidiana spesso più di 40 m, e con una temperatura variabile fra 300 e 850°C – una temperatura più che sufficiente per far fondere il piombo – i resti erano ovviamente privi della benché minima traccia di vita. Tutto ciò che rimaneva di Krakatau era il monte Rakata, ammantato di cenere e senza vita, anche se ancora per poco. La vita, infatti, tornò presto ad avvilupparlo. In un certo senso, fu come se il fuso rotante della storia biologica si fosse prima fermato, e poi, quando gli organismi cominciarono a tornare a Rakata, avesse preso a girare al contrario, come accade quando si proietta a ritroso un film. I biologi colsero al volo l’occasione più unica che rara, offerta da Rakata, di poter assistere fin dalle primissime fasi alla formazione di un ecosistema tropicale. Si sarebbero insediati organismi diversi da quelli esistenti in precedenza? L’isola sarebbe stata nuovamente ammantata da una foresta pluviale? La prima ricerca di tracce di vita fu condotta da una spedizione francese nel maggio 1884, a nove mesi dall’eruzione. Il versante principale della montagna stava franando velocemente, tant’è che vi erano continuamente blocchi di pietra che ruzzolavano lungo i suoi fianchi sollevando nuvole di polvere ed emettendo un suono incessante, simile a «una lontana scarica di fucileria». Alcuni massi rimbalzavano in aria, poi di nuovo sulle rocce, e alla fine si tuffavano con uno schianto in mare. Quella che, da lontano, sembrava nebbia,

in realtà si rivelò essere polvere sollevata proprio da quelle frane. L’equipaggio e i membri della spedizione riuscirono a trovare un punto sicuro per lo sbarco, dopo di che si sparpagliarono per raccogliere quanti più dati fosse possibile. Il naturalista di bordo, concentratosi in particolare nella ricerca di organismi, scrisse: «Nonostante tutti i miei sforzi, non ho trovato alcuna traccia di vita animale, a eccezione di un solo, unico, microscopico ragno, intento a tessere la sua ragnatela, strano pioniere del rinnovamento». Come aveva potuto, un giovane, minuscolo ragno privo d’ali, raggiungere in così breve tempo l’isola desolata? Gli aracnologi sanno che quasi tutte le specie di aracnidi si dedicano, prima o poi nel corso della vita, a quello che potremmo chiamare un «volo in mongolfiera». Il ragno sosta sull’orlo di una foglia, o su un qualsiasi altro punto esposto all’aria, e da lì fa pendere un filamento di seta che emette dalle filiere situate all’estremità posteriore dell’addome. Man mano che cresce in lunghezza, il filo, investito dall’aria, si distende nella direzione del vento come lo spago di un aquilone. Il ragno continua a filare seta fino a quando non avverte che la trazione esercitata su di lui dal filo è molto forte: a quel punto, abbandona la presa e decolla. Non solo i ragni piccoli come capocchie di spillo, ma anche quelli di dimensioni maggiori riescono di tanto in tanto a salire a quote di migliaia di metri; poi, mancando di ogni controllo sulla fase di discesa, se sono fortunati giungono al suolo, dove cominciano una nuova vita, altrimenti finiscono in mare e annegano. I ragni «volatori» fanno parte di quello che gli ecologi hanno denominato «plancton eolico», termine felicemente coniato abbinando una parola di origine greca, plankton, con una di matrice latina, «eolico»: la prima designante, nel linguaggio comune, la congerie di piccoli organismi vegetali e animali trasportati passivamente dalle correnti d’acqua, l’altra riferentesi al vento; e dunque, per analogia, le creature che compongono il plancton eolico sono quelle che, in maggioranza, vengono disperse dal vento su lunghe distanze. È abbastanza facile, nei pomeriggi estivi, scorgere tra i cespugli e sulle siepi gli afidi spiccare il volo, grazie alle loro alucce, di quel tanto che basta per essere catturati dalle correnti aeree e farsi trasportare via.

Quasi tutta la superficie terrestre è quotidianamente investita da una pioggia incessante di batteri planctonici, di spore fungine, di piccoli semi, di insetti, di ragni e di tanti altri minuscoli organismi; una pioggia che, pur difficile da apprezzare istante per istante, sul lungo periodo – settimane e mesi – si rivela, invece, nelle sue reali, massicce dimensioni. Fu così che gran parte delle specie colonizzatrici raggiunsero il relitto di Krakatau, avvizzito e soffocato dalla polvere. Il potenziale rappresentato da quella vera e propria invasione planctonica è stato documentato da Ian Thornton e da un gruppo misto di biologi australiani e indonesiani, recatisi nell’area di Krakatau nel corso degli anni Ottanta di questo secolo. Assieme a Rakata, quegli scienziati hanno studiato anche Anak Krakatau («Figlio di Krakatau»), un’isoletta sorta dal mare nel 1930 in seguito all’attività vulcanica che interessò a quell’epoca il margine sommerso settentrionale della caldera del vecchio Krakatau. Gli scienziati hanno collocato alcune trappole, costituite da barattoli di plastica bianca riempiti d’acqua di mare, tra le colate laviche ricoperte delle ceneri formatesi tra il 1960 e il 1981; colate molto giovani, e quindi pressoché simili, nella loro sterilità, a quelle formatesi al tempo della grande esplosione. Nel giro di dieci giorni, le trappole catturarono un vasto campionario di artropodi trasportati dal vento, composto da un totale di 72 specie fra ragni, collemboli, grilli, dermatteri, psocotteri, emitteri, falene, mosche, coleotteri e vespe. Ma vi sono anche altri modi per attraversare gli stretti che separano Rakata dalle isole vicine e dalle coste di Giava e di Sumatra. Pare, ad esempio, che una specie di varano, un robusto lucertolone semiacquatico noto scientificamente come Varanus salvator, vi sia arrivato a nuoto: segnalato sull’isola già nel 1899, si ciba dei granchi che brulicano sulla riva. Altro resistente nuotatore è il pitone reticolato (Python reticulatus.), un serpente lungo fino a 8 metri. La totalità degli uccelli, invece, probabilmente ha raggiunto l’isola in volo. Quanto al numero di specie provenienti dalle foreste di Giava e di Sumatra, esso è notevolmente esiguo, ma la cosa si spiega col fatto, curioso a dirsi, che quelle specie sono difficilmente disposte ad attraversare i bracci di mare aperto, anche quando le isole più vicine

sono bene in vista. Rakata fu raggiunta anche da pipistrelli, finiti probabilmente fuori rotta, nonché da farfalle e libellule, insetti grossi, forti volatori, anch’essi arrivati lì grazie alle proprie forze. Negli Stati Uniti, alle Florida Keys, ho avuto modo di vedere questi insetti che, in modo analogo, si spostavano da un isolotto all’altro come se, invece del mare, stessero sorvolando dei prati.

La vecchia isola di Krakatau venne distrutta nel 1883 da un’eruzione vulcanica in seguito alla quale si salvò solo Rakata, sorta di relitto privo di vita corrispondente all’estremità

meridionale dell’isola originale. Anak Krakatau emerse dal mare come cono vulcanico nel 1930.

Il rafting, la navigazione su zattera, è un’altra tecnica di trasporto che, quantunque adottata meno spesso, si rivela ad ogni modo non meno importante. Accade ogni tanto che tronchi d’albero, o rami, a volte alberi interi, rovinino in un fiume o in un’insenatura, e poi finiscano in mare aperto con tutto un carico di microrganismi, di insetti, di serpenti, di rane e, in alcuni casi, anche di roditori e di altri piccoli mammiferi, che vi si trovavano al momento della partenza. A fare da zattera possono essere anche blocchi di pietra pomice, provenienti da vecchie isole vulcaniche, e galleggianti grazie alla loro porosità. Seppur di rado, vi sono casi in cui una tempesta violentissima trasforma in oggetti eolici persino lucertole e rane, strappandole ai loro appigli e trasportandole sino a rive lontane. In modo analogo, i pesci possono essere aviotrasportati in laghi e torrenti vicini dalle trombe marine. La migrazione assume dimensioni ancor più importanti in quanto tutti questi organismi ne portano a loro volta altri con sé. La maggior parte di essi sono simili ad arche in miniatura, affollate di parassiti. Trasportano anche ospiti involontari contenuti nei grumi di terra rimasti attaccati alla loro pelle, come batteri e protozoi di ogni genere, spore fungine, vermi nematodi, tardigradi, acari e pidocchi delle penne. L’elenco include anche semi di piante erbacee e di alberi che, passati indenni attraverso l’apparato digerente degli uccelli, vengono depositati assieme alle loro feci, che agiscono da fertilizzante istantaneo. Alcuni artropodi si fanno trasportare volutamente da animali più grandi di loro, comportamento che i biologi chiamano, con termine dotto, foresi. Per esempio, gli pseudoscorpioni, repliche in miniatura degli scorpioni, ma privi di aculeo, si servono delle loro chele, simili a quelle delle aragoste, per aggrapparsi ai peli delle libellule e di altri grossi insetti alati e farsi trasportare a grandi

distanze da questa sorta di magici tappeti volanti. Gli organismi colonizzatori giunsero incessantemente a Rakata da tutte le direzioni. Neanche una recinzione elettrificata alta 100 metri avrebbe potuto fermarli, poiché essi avrebbero comunque continuato a piovere dal cielo per dare vita a un ricco ecosistema. Ma la natura in gran parte fortuita del processo di colonizzazione ha fatto sì che flora e fauna non siano tornate a Rakata seguendo modalità semplici e lineari da manuale, secondo le quali, alle piante che si sviluppano fino a formare rigogliose foreste, segue il proliferare degli erbivori e, a catena, quello dei carnivori. No. Le indagini svolte prima a Rakata e, più tardi, anche ad Anak Krakatau hanno svelato un processo molto più caotico, durante il quale alcune specie si sono estinte senza una ragione apparente e altre si sono sviluppate rigogliose proprio nel momento in cui ci si sarebbe aspettato il contrario. Ragni e grilli carnivori inetti al volo sopravvissero quasi per miracolo, consumando una dieta ridotta all’essenziale, costituita di piccoli insetti che il vento trasportava fino alle desolate distese di pomice dell’isola. I lacertidi di grossa taglia e alcuni uccelli si nutrirono di granchi che, a loro volta, si sostentavano con vegetali marini e altri animali morti, portati sulle spiagge dalle onde. (Il nome originale di Krakatau era Karkata, termine sanscrito che significa «granchio»; nella vecchia lingua giavanese Rakata ha lo stesso significato.) La varietà delle forme animali, quindi, non era strettamente legata alla vegetazione, anch’essa in fase di sviluppo secondo una distribuzione a mosaico irregolare, in continua espansione e ritirata. Fauna e flora fecero il loro ritorno non solo caoticamente, ma anche assai velocemente. Nell’autunno del 1884, poco più di un anno dopo l’eruzione, i biologi rinvennero alcuni germogli di piante erbacee, probabilmente del genere Imperata. e Saccharum. Nel 1886, le specie erbacee e arbustive erano salite a quindici, a quarantanove nel 1897, e a quasi trecento nel 1928. La vegetazione, dominata dal genere Ipomoea, si diffuse lungo la linea costiera; contemporaneamente, i prati punteggiati di alberi del genere Casuarina. lasciarono spazio, qua e là, a più ricche estensioni di piante e arbusti pionieri. Nel 1919, W. M. Docters van Leeuwen, dell’orto

botanico di Buitenzorg, trovò aree a foresta circondate, senza soluzione di continuità, da vegetazione erbacea. Dieci anni più tardi la situazione si era invertita: la foresta oramai ammantava tutta l’isola e stava per inghiottire le ultime macchie di piante erbacee. Oggi, a uno sguardo superficiale, Rakata appare completamente ricoperta dalla tipica foresta pluviale tropicale asiatica, ma in realtà il processo di colonizzazione è lungi dall’essere completo. Infatti, non è ancora riuscita a tornarvi alcuna delle specie arboree che caratterizzano la fitta foresta primaria delle vicine isole di Giava e Sumatra; e, perché si riformi una foresta in tutto e per tutto comparabile a quella presente sulle isole indonesiane intatte di pari estensione, saranno forse necessari altri cento o più anni. Fatta eccezione per alcuni insetti, ragni e vertebrati, i primi coloni, appartenenti a moltissimi generi animali, morirono tutti poco dopo il loro arrivo. Ma, via via che la vegetazione si espandeva e che la foresta maturava, prese piede un numero sempre crescente di specie. Al tempo delle spedizioni di Thornton, nel 1984-85, la popolazione animale ammontava a trenta specie di uccelli terrestri, nove di pipistrelli, due specie di ratti, tra cui l’onnipresente ratto nero (Rattus rattus.), e nove specie di rettili, tra cui due geki e il Varanus salvator. Il pitone reticolato, ancora rinvenibile nel 1933, nel 1984-85 era scomparso. Sull’isola, inoltre, vi era una grande varietà di invertebrati: più di seicento specie, tra cui platelminti, nematodi, gasteropodi, scorpioni, ragni, pseudoscorpioni, centopiedi, scarafaggi, termiti, psocotteri, cicale, formiche, coleotteri, falene e farfalle. Erano anche presenti rotiferi microscopici, tardigradi, e un ricco pot-pourri. di batteri. Al primo sguardo, la flora e la fauna ricostituitesi su Rakata, vale a dire su ciò che resta di Krakatau a cent’anni dall’apocalisse, danno l’impressione della vita sulla tipica isola indonesiana di piccole dimensioni. In realtà, la comunità di specie si trova tuttora in uno stato molto fluido. Il numero di specie di uccelli insediatesi stabilmente si sta assestando solo ora attorno a trenta, e ciò da quando, a partire dal 1919, il suo aumento ha cominciato a subire una progressiva flessione. E trenta è proprio il numero di specie

reperibili sulle altre isole di pari dimensione. Allo stesso modo, anche la composizione. dell’avifauna è divenuta meno stabile; nuove specie arrivano, mentre quelle più vecchie vedono le loro fila ridursi fino all’estinzione. Per esempio, gli strigiformi e i pigliamosche sono arrivati dopo il 1919, mentre sono scomparse vecchie presenze come il bulbul (Pycnonotus aurigaster.) e l’averla, Lanius. schach. Anche i rettili sembrano essere prossimi a un tale equilibrio dinamico, e altrettanto può dirsi per gli scarafaggi, le farfalle ninfalidi e le libellule, mentre il contrario vale per i mammiferi inetti al volo, rappresentati da due sole specie di ratti, e per le piante, per le formiche e i gasteropodi. Quasi tutti gli altri invertebrati che occupano Rakata sono allo studio da troppo poco tempo per giudicare il loro stato, ma, in linea generale, sembra che anche il loro numero sia tuttora in crescita. È vero che a Rakata – così come a Panjang, a Sertung, e in tutte le altre isole dell’arcipelago di Krakatau investite dall’esplosione del 1883 e coperte da una coltre di pomice – la vita è riuscita a intrecciare, nel giro di un secolo, un tessuto di comunità con una biodiversità di livello pari a quello precedente; tuttavia, ci si continua a domandare se il cataclisma non abbia spazzato via eventuali specie endemiche: specie, cioè, esclusive dell’isola prima del 1883. Nessuno potrà mai dare una risposta definitiva poiché, prima di richiamare l’attenzione mondiale in seguito all’eruzione, quei lembi di terra erano stati scarsamente esplorati. Ad ogni buon conto, appare poco probabile che vi siano mai esistite specie endemiche; le isole, infatti, sono molto piccole e, quindi, anche escludendo l’intervento di episodi vulcanici, il naturale avvicendarsi delle specie dovrebbe essere stato troppo rapido per consentire all’evoluzione di esprimersi nella creazione di nuovi gruppi. Fatto sta che la fauna e la flora dell’arcipelago sono state più volte distrutte – o, quanto meno, gravemente danneggiate – a intervalli di qualche secolo. Secondo una leggenda giavanese, sul vulcano Kapi, nello Stretto della Sonda, si verificò un’eruzione nel 416 d.C.: «Ed ecco che alla fine il monte Kapi andò in pezzi tra rombi tremendi, e scomparve giù nel profondo del suolo. Le acque del mare si

sollevarono e inondarono la terra». Durante il 1680 e il 1681, vi fu una serie di altre piccole eruzioni che bruciarono almeno una parte della foresta. Chi, oggi, si trovasse a veleggiare nei pressi di quelle isole nulla potrebbe intuire del loro passato violento, a meno che, proprio in quel momento, Anak Krakatau non stesse covando qualche sorpresa. La foresta fitta e verde è testimonianza dell’ingegnosità e della resilienza della natura. Le normali esplosioni vulcaniche, in conclusione, non bastano a distruggere il crogiolo della vita.

3 Le grandi estinzioni

Qual è stato il colpo più tremendo che la vita abbia dovuto mai sopportare? Di certo, non l’esplosione del 1883 del Krakatau, che non fu neanche la più potente di cui si abbia notizia storica; nel 1815, infatti, l’eruzione del vulcano Tambora – sito sull’isola di Sumbawa, 1400 km a est di Krakatau – scagliò in aria una quantità di ceneri e di roccia cinque volte superiore, produsse molti più danni ambientali e uccise decine di migliaia di persone. Circa 75.000 anni fa, invece, all’interno del versante settentrionale dell’isola di Sumatra si verificò un’eruzione ancor più catastrofica: 1000 km cubi di materiale solido saltarono in aria, lasciando nel terreno una depressione ovale lunga 65 km, che fu riempita di acqua e che, battezzata lago Toba, è tutt’oggi esistente. Al tempo dell’eruzione, Sumatra era abitata da popolazioni paleolitiche; noi possiamo solo cercare di immaginare che cosa quegli uomini abbiano provato nell’assistere a quell’esplosione, mille volte più potente di Krakatau, e quali miti e apocalittiche leggende di dèi siano proliferati, da quel giorno in poi, nella loro cultura. È molto probabile che, nel corso delle ere geologiche, eruzioni di tale portata si siano verificate ripetutamente: conclusione, questa, alla quale possiamo giungere se non altro in base a un puro ragionamento statistico. Il grafico dell’intensità delle eruzioni vulcaniche presenta una distribuzione simile a quella di tanti altri fenomeni casuali: la curva delle frequenze presenta un massimo in corrispondenza degli eventi di debole intensità, mentre si smorza sempre più in corrispondenza di quelli di natura più catastrofica. In altri termini, gran parte delle eruzioni sono solo perturbazioni di piccola o media entità: per esempio colonne di vapore di fumarole o piccole emissioni di lava. Il gradino successivo è rappresentato dalle fontane laviche,

con la loro grande portata; un evento che, pur meno frequente, si verifica comunque con cadenza annua. Fenomeni di dimensioni pari a quello di Krakatau avvengono un paio di volte nell’arco di un secolo, mentre esplosioni come quella che generò il lago Toba, di sicuro più rare a breve e medio termine, paiono essere inevitabili nell’arco di qualche milione di anni. Si può applicare il medesimo ragionamento statistico alla caduta dei meteoriti. Gran parte di essi, di dimensioni che vanno in genere da quelle di un granello di polvere a quelle di un sassolino, precipita sulla superficie terrestre a velocità di 15-75 km al secondo. Un’altra parte, quantitativamente molto inferiore, è composta di meteoriti le cui dimensioni vanno da quelle di una palla da baseball a quelle di un pallone da calcio, ed è la parte cui vanno ascritti i circa trenta avvistamenti e recuperi annui. Pochissimi, invece, sono i meteoriti veramente grossi. Il più grande mai osservato negli Stati Uniti, avvistato il 18 febbraio 1948 nella contea di Norton, Kansas, pesava 5000 kg. Ma i veri giganti raggiungono la superficie terrestre solo rarissimamente, nell’arco di milioni di anni. Uno di questi, del diametro di 1250 metri, scavò in Arizona il Canyon Diablo. Un altro mostro, con diametro di 3200 metri, fu responsabile della creazione della Depressione di Chubb, a Ungava, nel Quebec. Da questi dati possiamo dedurre che solo ogni 10-100 milioni di anni possono verificarsi un’eruzione vulcanica o l’impatto con un meteorite di potenza tale da scuotere letteralmente la Terra alle fondamenta, da produrre un cambiamento radicale dell’atmosfera e, di conseguenza, da portare all’estinzione una parte notevole delle specie in quel momento viventi. Qualcosa del genere potrebbe essere accaduto 66 milioni di anni fa, alla fine del Mesozoico, quando alcuni dei gruppi animali prevalenti, fra cui i dinosauri, subirono un rovescio, o addirittura si estinsero. È questa la conclusione a cui sono approdati, nel 1979, Luis Alvarez e altri tre fisici di Berkeley dopo aver ritrovato una concentrazione insolitamente alta di iridio – elemento del gruppo del platino – in un sottile strato geologico depositatosi nella fase di transizione dall’era mesozoica, più antica, a quella cenozoica. Più precisamente, nello strato che separa le rocce

del Cretaceo, il più recente dei periodi del Mesozoico, da quelle del Terziario, il più antico dei periodi del Cenozoico. Via via che si procede verso l’alto attraverso questa sottile fascia di separazione, ribattezzata «strato di confine K-T» (dove le due lettere indicano, rispettivamente, i due periodi), i fossili passano da una prevalenza di dinosauri e di piccoli mammiferi alla totale assenza dei primi e al prevalere dei secondi. L’iridio ha una grande affinità per il ferro ed è per questo che, durante la formazione del nostro pianeta, venne intrappolato nel nucleo terrestre, cioè nella parte più interna del pianeta ricca, appunto, di ferro. La sua presenza in uno strato superficiale come il K-T costituiva quindi un vero e proprio mistero. Il gruppo di studio di Berkeley era a conoscenza del fatto che l’iridio abbonda anche in alcuni meteoriti; fatto curioso che, avvalorato da alcuni calcoli teorici, spinse il gruppo a ipotizzare il seguente scenario: 66 milioni di anni fa, un meteorite di 10 km di diametro si schiantò contro la superficie terrestre alla velocità di 72.000 km orari, sprigionando una forza più potente dell’esplosione di tutte le bombe atomiche di cui dispone l’umanità. Tutta la Terra fu come scossa da un sussulto: vi furono incendi, intere linee costiere furono spazzate da immani onde solitarie, e si levò un’immensa nube di polvere che, avviluppando il pianeta, bloccò i raggi solari e fece raffreddare l’atmosfera, o forse la riscaldò intrappolando il calore come in una serra. Via via che si ridepositava, la polvere impalpabile andava formando lo strato K-T, spesso mezzo centimetro circa e «corretto» all’iridio. In seguito, la Terra fu investita da una pioggia acida che durò per mesi o forse per anni. Fu l’insieme di tutte queste catastrofi a portare, secondo la teoria di Alvarez, all’estinzione dei dinosauri nonché di tutta una congerie di altre specie vegetali e animali. Qualcuno obiettò che, se vi fosse stato veramente un impatto di tale forza, avrebbe dovuto lasciare, in aggiunta allo strato arricchito di iridio, altri indizi rivelatori. I dibattiti accesi e le ricerche che seguirono all’ipotesi di Alvarez portarono alla luce nuovi elementi di prova. I geochimici sanno bene che quando un cristallo di quarzo è sottoposto a pressioni estremamente elevate – diciamo di intensità

equivalente a quella che si genera nel punto d’impatto del meteorite – esso subisce, per così dire, uno shock.: il reticolo cristallino viene deformato, cosicché all’interno di sezioni sottili del minerale si possono osservare, quando le si esaminino al microscopio polarizzatore, dei piani irregolari. Ebbene, tali anomalie erano state ritrovate anche in cristalli di quarzo presenti in alcuni punti dello strato K-T, e pertanto l’ipotesi del meteorite riacquistò notevole credibilità. Prima regola deducibile dalla storia della scienza: non appena qualcuno propone un’idea nuova, importante e convincente, ecco che una pletora di critici si coalizza e tenta di demolirla. Una reazione inevitabile, perché è proprio così, con tale aggressività, che si comportano gli scienziati, nonostante la loro fedeltà formale alle regole del civile contendere. Altrettanto vero è che i propositori, messi di fronte alle pecche delle loro teorie, si irrigidiscono e fanno di tutto per renderle ancor più convincenti. Da bravi umani, gli scienziati si attengono nella maggior parte dei casi al principio psicologico della certezza, secondo il quale, quando esistono prove sia a favore sia contro un certo credo, da entrambe le parti non si dà spazio alcuno al dubbio, ma, anzi, si tende a intestardirsi nelle proprie convinzioni. Nel corso degli anni Ottanta, centinaia di esperti hanno scritto, pro o contro l’ipotesi del meteorite, qualcosa come duemila articoli scientifici. Ai convegni scientifici la tensione saliva; sulle pagine della rivista «Science» era tutto un florilegio di argomentazioni e controargomentazioni; nei laboratori e nelle aule delle università fervevano le ricerche. Regola numero due: certe volte anche le teorie scientifiche nuove, un po’ come la nostra madre Terra, incassano dei gran colpi. Comunque, se sono buone sopravvivono, magari in forma modificata; altrimenti, finiscono col morire assieme al loro ultimo sostenitore o in occasione del suo pensionamento. Come una volta ebbe a dire Paul Samuelson a proposito delle scienze economiche: funerale dopo funerale, la teoria avanza. Nel caso in esame, i critici della teoria del meteorite ne

contrapponevano un’altra parimenti valida: secondo loro, a intervalli di alcune decine di milioni di anni sarebbero avvenute potenti eruzioni vulcaniche – forse come immani eventi singoli, o forse come raffiche sincronizzate di eventi di più normale entità del tipo di Krakatau – capaci di produrre gli effetti riscontrati nello strato K-T. Alcuni dei vulcani oggi in attività contengono effettivamente nelle loro ceneri quantità elevate di iridio. Non solo, ma, in teoria, potrebbero anche generare pressioni sufficienti a produrre uno shock nel quarzo; ipotesi, questa, che però non è stata ancora avvalorata mediante test sul campo nel momento in cui sto scrivendo. I vulcanologi, e con loro altri critici, sollevarono un’altra e più minacciosa obiezione alla teoria del meteorite: sì, era un dato di fatto che molte estinzioni si erano verificate alla fine del Cretaceo, ma non tutte contemporaneamente. Infatti, i periodi di estinzione di vari gruppi erano disseminati lungo archi di milioni di anni sia al di qua sia al di là dello strato di confine K-T. Per esempio, i dinosauri erano diminuiti notevolmente soprattutto durante i dieci milioni di anni precedenti la fine del Cretaceo. In quel periodo, nel Montana e nell’Alberta meridionale erano presenti circa trenta specie, ridottesi a tredici – numericamente dominate dal tricorne Triceratops. – proprio prima della sua fine. Analogo destino avevano avuto le ammoniti, molluschi dotati di conchiglie suddivise in camere in modo simile a quelle del perlaceo Nautilus. odierno, e anche i pelecipodi inoceramidi, molluschi bivalvi che annoveravano specie con valve lunghe fino a un metro, nonché le rudiste, esse pure dotate di due valve che, accumulandosi alla morte degli animali, avevano formato intere barriere. Un milione di anni era stato il tempo necessario per l’estinzione di molti gruppi di foraminiferi, protozoi marini simili ad amebe e in grado di secernere complessi scheletri silicei di bellissima fattura. Alcune specie erano scomparse prima della fine del Cretaceo, altre più tardi e in tempi diversi; ma tutte erano state sostituite da altre specie di foraminiferi, comparse nel corso di alcune centinaia di migliaia di anni. Gli insetti avevano attraversato la linea di confine KT senza subire perdite importanti, tant’è vero che erano sopravvissuti tutti i loro ordini, cioè tutti i gruppi di più alto livello tassonomico,

inclusi i Coleoptera. (scarabei), i Diptera. (mosche), gli Hymenoptera. (api, vespe e formiche) e i Lepidoptera. (farfalle e falene). Altrettanto si poteva dire di tutte – o quasi – le famiglie, cioè il livello tassonomico subordinato al precedente, e tra queste i Formicidae. (le formiche), i Curculionidae. (es. il punteruolo del grano Calandra granaria) e gli Stratiomydae. (straziomidi). La documentazione fossile contenuta nel versante cretaceo della linea di confine K-T è ancora troppo scarsa per consentire una valutazione delle estinzioni a livello di specie e per lo studio di specie particolari, tuttora esistenti, come la comunissima mosca (Musca domestica.) e la cavolaia (Pieris rapae.). Per dare una spiegazione logica alla sequenza delle estinzioni scaglionate a cavallo dello strato K-T, alcuni paleontologi fecero la seguente ipotesi: una serie di eruzioni violente, avvenute nell’arco di milioni di anni verso la fine del Cretaceo, avrebbe periodicamente attizzato incendi e avvolto l’atmosfera con strati di polvere, determinando così la caduta di piogge acide e un raffreddamento generalizzato del clima. Tali eventi nefasti agirono di concerto, riducendo di numero le popolazioni di tutti i tipi di organismi e restringendo la loro distribuzione geografica ad aree limitate del pianeta. Alcuni di questi animali – dinosauri, ammoniti e foraminiferi – subirono un colpo tremendo. Gli insetti e le piante, invece, sopravvissero più o meno intatti, forse grazie alla loro capacità di vivere per mesi e per anni a livelli fisiologici minimi. Alcuni degli scienziati in origine favorevoli all’ipotesi del meteorite, ma ora colpiti dalle nuove acquisizioni di dati relativi alle estinzioni, abbandonarono il modello fondato su un unico cataclisma in favore, questa volta, di una serie di impatti, distribuiti nell’arco del milione di anni del periodo di transizione. Poteva darsi, infatti, che la spiegazione dello sparpagliamento dei cicli di estinzione a cavallo della linea K-T stesse in un gran numero di tali accidenti. Ma non tutti i paleontologi erano così facilmente disposti ad abbandonare l’ipotesi dell’evento istantaneo, che si fosse trattato di un mega-Krakatau o di un singolo impatto con un meteorite. Anzi, alcuni raddoppiarono gli sforzi per rintracciare fossili prossimi allo

strato limite K-T e per individuare con maggior precisione il momento delle estinzioni di massa. E tanta fatica non è stata vana, visto che oggi la bilancia pende di nuovo a loro favore. Infatti, la maggior disponibilità di documentazione fossile ha reso più plausibile l’ipotesi di un crollo improvviso del numero di dinosauri e di cefalopodi ammonoidi in seguito a un cataclisma di tipo mega-Krakatau o all’urto di un meteorite. I dati ottenibili dai foraminiferi restano ambigui e controversi. I vegetali, invece, forniscono indizi più chiari circa una sola, istantanea catastrofe, poiché i loro fossili – e, in particolare, quelli del polline rimasto inglobato anno dopo anno nei sedimenti lacustri – sono più abbondanti e di più facile interpretazione. Per esempio, ora sappiamo che il versante occidentale degli Stati Uniti è stato teatro, durante il periodo di formazione dello strato K-T, di un brusco calo nel polline delle piante angiosperme, seguito da un’impennata altrettanto improvvisa nel numero di spore di felci – il cosiddetto fern spike. («picco delle felci») rilevabile nei fossili – a sua volta seguito da un nuovo avvento delle angiosperme, questa volta però rappresentate da un diverso raggruppamento di specie. Il declino temporaneo delle angiosperme e l’avanzata delle felci è compatibile con l’arrivo di una stagione invernale abnorme, con un periodo di riduzione dell’intensità luminosa e di raffreddamento del clima causato da nubi di polvere e di fumo durate per un paio di anni. Alcune specie vegetali, e tra queste alcune latifoglie sempreverdi del tipo delle magnolie e dei rododendri attuali, si estinsero. Altre, discendenti di sparuti sopravvissuti, si riaffacciarono sulla scena dopo qualche tempo, ma come parte della diversa combinazione di viventi dell’era postmesozoica. Gli effetti sulla vegetazione furono meno devastanti nell’emisfero meridionale. Gran parte dei paleontologi comincia a propendere con cautela per un finale catastrofico e improvviso dell’era mesozoica. Nel frattempo, prosegue senza sosta la ricerca di quel genere di prova tanto agognato nel corso di tutte le odissee scientifiche: una scoperta, cioè, che dimostri in modo lampante e definitivo l’intervento di un’unica causa fondamentale a detrimento di tutte le altre. Nel nostro caso, il

candidato più ambito è la traccia lasciata dall’impatto di un meteorite di enormi dimensioni, un cratere gigantesco databile precisamente al periodo di deposizione dello strato limite K-T. Dal momento che gli oceani occupano due terzi circa della superficie terrestre, è lecito supporre che l’impronta impressa dal meteorite giaccia su qualche punto del fondo oceanico a noi tuttora ignoto. Due sono i crateri che, nel 1990, sono stati proposti come candidati sulla base dei ritrovamenti di quarzo con tracce di shock e di caratteristiche formazioni geologiche, individuate negli strati sedimentari che è stato possibile raggiungere: il primo di questi crateri si trova a sudovest di Haiti, nel Mar dei Caraibi; l’altro a 1350 km dal sito precedente, a sud della parte occidentale di Cuba. Tuttavia, le tracce trovate non sono ancora del tutto convincenti, e la loro conformazione geologica è tuttora allo studio. Nel frattempo, le ricerche proseguono anche negli altri bacini oceanici. Può darsi che la soluzione stia in un compromesso che conglobi la spiegazione del vulcano con quella del meteorite: i due eventi potrebbero essersi verificati contemporaneamente. Per esempio, un meteorite di 10 km di diametro che avesse colpito la Terra a una velocità di migliaia di chilometri l’ora, non solo avrebbe potuto scuoterne la superficie e oscurarne l’atmosfera, ma anche innescare eruzioni vulcaniche su tutto il pianeta. Oppure, in alternativa, la chiave dell’enigma potrebbe essere in un’intensa attività vulcanica scatenatasi spontaneamente, cui si sia sommato l’urto di un meteorite che, nel periodo coincidente con la deposizione dello strato di separazione K-T, abbia inferto il colpo di grazia ai dinosauri e alle specie marine più fragili. E veniamo così a un altro fatto importante, cioè alla constatazione che l’estinzione del Cretaceo è stata solo una delle cinque catastrofi avvenute nel corso dell’ultimo mezzo miliardo di anni, e neppure la più tremenda. Inoltre, pare che gli spasmi precedenti non abbiano avuto nulla a che fare con impatti di meteoriti o con attività vulcaniche più intense del solito. Le cinque estinzioni di massa si sono verificate in quest’ordine: nell’Ordoviciano, 440 milioni di anni fa; nel Devoniano, 365 milioni di anni fa; nel Permiano, 245 milioni di anni

fa; nel Triassico, 210 milioni di anni fa; infine, nel Cretaceo, 66 milioni di anni fa. Tra le cinque catastrofi, vi sono stati anche tanti altri periodi di alti e bassi d’importanza minore, mentre i cinque spasmi spiccano in cima alla curva della violenza: in confronto agli altri episodi, stanno come una catastrofe rispetto a un infortunio, un violento uragano a una semplice burrasca estiva. I tassi di estinzione più facilmente leggibili sono quelli relativi agli organismi vissuti nei mari, dai molluschi agli artropodi e ai pesci; e ciò per il semplice fatto che i loro resti finirono velocemente sul fondo e lì furono coperti dai sedimenti e poi trasformati in fossili prima ancora che il loro processo di decomposizione si completasse. Altro dato di fatto è che, per misurare i tassi di estinzione, bisogna prendere in considerazione, come unità tassonomica, la famiglia e non la specie, e ciò perché, se vi erano specie appartenenti alla famiglia vive al tempo della deposizione degli strati sedimentari, oggi almeno qualcuna di esse potrebbe venire alla luce sotto forma fossile. Affidarsi, invece, alle singole specie – molte delle quali in un dato momento rare o, comunque, distribuite in modo non uniforme – significherebbe introdurre un grosso errore. Prendiamo in considerazione la vasta mole di dati sugli animali marini raccolta e analizzata da John Sepkoski e David Raup dell’Università di Chicago, assieme ad altri ricercatori. La diminuzione nel numero di famiglie, per le quali disponiamo di dati affidabili, si aggira attorno al 12 per cento in corrispondenza di tutti i periodi di crisi, eccettuato quello del Permiano, in cui raggiunse uno sbalorditivo 54 per cento. Grazie a particolari tecniche statistiche è possibile estrapolare da tali valori il numero totale di famiglie estintesi e, da questo, ricavare una ragionevole, ben fondata, ipotesi circa il numero di specie scomparse all’interno di ogni famiglia. È stato così calcolato che il grande crollo del Permiano abbia portato a una perdita di specie marine tra il 77 e il 96 per cento. Raup ha osservato che «se queste stime sono ragionevolmente accurate, possiamo dire che il mondo biologico – almeno, per quanto attiene agli organismi superiori – ha evitato proprio per un soffio l’estinzione totale». I trilobiti e i pesci placodermi – due gruppi estremamente

caratteristici e dominanti nei periodi più antichi – finirono infatti con l’estinguersi. Sulla terraferma, vi furono rettili, simili a mammiferi e lontani antenati dell’umanità, i quali furono quasi del tutto spazzati via, tranne pochi sopravvissuti salvatisi miracolosamente. Piante e insetti subirono invece meno perdite; chissà come, riuscirono ad acquistare quello scudo invisibile che li avrebbe protetti nel corso di tutti i successivi eventi negativi. Gli strati sedimentari depositatisi al tempo dei quattro primi cataclismi non mostrano alcuna traccia di iridio. Ciò significa, evidentemente, che non vi furono cadute di meteoriti abbastanza violente da produrre estinzioni di massa. Al centro della Siberia settentrionale, al tempo delle estinzioni del Permiano, si verificarono immani eruzioni vulcaniche, sufficienti, forse, ad alterare il clima mondiale; tuttavia, il legame tra quegli avvenimenti e il declino della vita è tutt’altro che dimostrato. Che cosa accadde, allora, in realtà? Secondo Steven Stanley e alcuni altri paleobiologi, la causa principale della distruzione andrebbe attribuita a mutamenti climatici a lungo termine. Le prove a disposizione sono solo indiziarie, ma convincenti. Tra queste, una ritirata generale degli organismi tropicali verso l’equatore, fenomeno che raggiunse il suo massimo proprio in corrispondenza dei periodi di crisi. Gli organismi costruttori di barriere coralline sottomarine, incluse le alghe e le spugne calcaree, erano tra i più vulnerabili, e infatti sparirono da molte aree del pianeta; le parti scheletriche di tali barriere finirono poi erose dall’azione del moto ondoso, o completamente ricoperte di sedimenti. (Una di queste barriere coralline fossili, formatasi nell’Australia occidentale 350 milioni di anni fa, è stata in grado di resistere, in un modo o nell’altro, all’erosione, e ancor oggi costituisce una delle caratteristiche salienti del paesaggio australiano.) Durante i periodi di crisi, le aree coperte dai ghiacci si ampliarono molto e la fascia occupata dagli organismi tropicali fu compressa verso l’equatore. Pertanto si direbbe che, durante le prime quattro crisi, la temperatura della Terra sia drammaticamente diminuita: molte specie furono eliminate, e altre costrette in zone molto più limitate, dove furono rese più vulnerabili all’azione di altri agenti dell’estinzione.

Ho finora eluso l’interrogativo riguardante la causa ultima: se il raffreddamento del pianeta fu l’evento uccisore, che cosa, a sua volta, provocò il calo della temperatura? La spiegazione più plausibile formulata dai geologi si basa sulla ricostruzione degli spostamenti delle masse terrestri e delle linee di costa durante la deriva dei continenti. Al tempo delle prime tre grandi estinzioni – l’Ordoviciano, il Devoniano e il Permiano – le terre erano tutte unite in un unico supercontinente, chiamato Pangea. Quando, durante il tardo Ordoviciano e il Devoniano, la sua parte meridionale, il Gondwana, si spinse verso il Polo Sud, si verificarono immani glaciazioni e, più o meno contemporaneamente, le crisi biologiche. Durante il Permiano, la Pangea si spostò ulteriormente verso nord e i ghiacciai si diffusero allora sia a settentrione sia a meridione. A mano a mano che si formava il ghiaccio, il livello del mare calava, riducendo drasticamente la superficie dei caldi mari interni, abitati da gran parte degli organismi marini. La deriva dei continenti non sembra, invece, essere stata la causa del raffreddamento generalizzato del clima verificatosi nel corso del Mesozoico, ed è quindi giustificato puntare l’attenzione sugli episodi vulcanici e sulla caduta dei meteoriti. Oggi, la distribuzione delle masse terrestri è tale da favorire alti livelli di biodiversità: i continenti, tra loro ampiamente distanziati, posseggono linee costiere lunghissime e ampie distese di mari tropicali poco profondi, punteggiati da nugoli di isole. Non vi è traccia alcuna, negli ultimi 66 milioni di anni, di piogge meteoritiche o di eruzioni vulcaniche di proporzioni tali da alterare l’equilibrio biologico del pianeta, o, quanto meno, da far crollare il castello di carte che noi chiamiamo biodiversità. Riassumendo: la vita fu drasticamente impoverita nel corso di cinque episodi principali e, in minor misura, anche durante altri innumerevoli accidenti. Ogni volta, però, riuscì a ristabilirsi sugli originali livelli di biodiversità. Quanto tempo c’è voluto, dopo ogni evento di portata primaria, perché l’evoluzione rimediasse alle perdite? I dati fossili disponibili fanno delle famiglie di organismi marini gli indicatori più attendibili di tale fenomeno di ripresa. In

generale, solo per un avvio deciso ci vollero ogni volta 5 milioni di anni. Il recupero completo richiese, invece, decine di milioni di anni. Più esattamente, dopo la flessione dell’Ordoviciano ci vollero 25 milioni di anni; dopo quella del Devoniano, 30 milioni di anni; dopo quelle del Permiano e del Triassico (combinate assieme perché molto vicine nel tempo), 100 milioni di anni; dopo quella del Cretaceo, infine, 20 milioni di anni. Dati, questi, che dovrebbero far riflettere chi sostiene che la Natura ricrea ciò che l’Homo sapiens. distrugge. Può darsi di sì, ma in un lasso di tempo talmente lungo da non avere alcun significato per l’uomo di oggi. Nei capitoli successivi descriverò il formarsi della biodiversità così come viene intesa, anche se non pacificamente, dalla maggior parte dei biologi. Fornirò le prove che mostrano come l’umanità abbia dato inizio alla sesta grande estinzione, sprofondando nell’eterno oblio, nel giro di una sola generazione, gran parte delle specie nostre compagne. Infine, sosterrò la tesi secondo cui ogni frammento di diversità biologica ha un valore inestimabile: frammento che dobbiamo imparare a conoscere, a conservare gelosamente, e comunque a non abbandonare mai senza lottare.

PARTE SECONDA

L’ASCESA DELLA BIODIVERSITÀ

4 L’unità fondamentale

Uno dei più affascinanti misteri della vita risiede nella creazione di una varietà straordinaria di forme viventi a partire da una quantità davvero esigua di materia. Infatti, l’insieme di tutti gli organismi, la cosiddetta biosfera, costituisce solo circa un decimiliardesimo di tutta la massa terrestre, e si trova sparsa, su una superficie totale di mezzo miliardo di chilometri quadrati, all’interno di un sottile strato di suolo spesso un chilometro, nonché nell’acqua e nell’aria. Se la Terra avesse le dimensioni di un mappamondo e potessimo osservarne la superficie dalla distanza di un braccio, a occhio nudo non potremmo scorgere traccia alcuna della biosfera. E invece la vita c’è, eccome, frammentata in milioni di specie che ne sono le unità fondamentali, ciascuna con un proprio ruolo. Per rendere visivamente in altro modo l’idea della sottigliezza della biosfera, immaginiamo di compiere un viaggio dal centro della Terra alla superficie procedendo senza fretta, a passo normale. Le prime dodici settimane trascorrerebbero nella traversata di rocce e di magmi a temperature da altoforno, e quindi privi di vita. A tre minuti dall’arrivo in superficie, cioè a cinquecento metri di profondità, incontreremmo i primi organismi, batteri intenti a nutrirsi di sostanze organiche filtrate attraverso gli strati delle falde acquifere. Giunti in superficie, avremmo solo dieci secondi per abbracciare con lo sguardo, in orizzontale, il brulichio di decine di migliaia di specie di microrganismi, piante e animali, che, però, sparirebbero quasi del tutto alla nostra vista nel giro di mezzo minuto. Due ore dopo, non rimarrebbero altro che tracce evanescenti di vita, costituite per la maggior parte da passeggeri pigiati all’interno di aerei di linea e a loro volta affollati da colibatteri intestinali.

La caratteristica che maggiormente contraddistingue la vita è la lotta che questa immensa varietà di organismi, dotati di peso quasi nullo, conduce per il possesso di un’infima quantità di energia. La vita, tramite la fotosintesi vegetale, è in grado di funzionare pur sfruttando solo il 10 per cento dell’energia solare che giunge al suolo. Via via che, attraverso le reti alimentari, tale energia fluisce da un organismo all’altro, essa si riduce sempre più: il 10 per cento circa passa ai bruchi e ad altri erbivori che si nutrono di piante e batteri; di questa parte, il 10 per cento (vale a dire, l’1 per cento della quantità originaria) va a ragni e ad altri carnivori primari, predatori degli erbivori; il 10 per cento di tale residuo passa agli uccelli e agli altri carnivori secondari che si nutrono di quelli primari; e così via, su su fino ai super-predatori, che finiscono in pasto solo ai parassiti e agli organismi decompositori. I super-predatori, inclusi l’aquila, la tigre, e il grande squalo bianco, sono destinati a essere di grossa taglia e poco numerosi proprio per il fatto di trovarsi in cima alla rete alimentare. La quantità di energia di cui vivono è talmente esigua rispetto al totale disponibile per la vita, da far sì che essi marcino costantemente sull’orlo dell’estinzione e siano sempre i primi a risentire anche di danneggiamenti minimi subiti dal loro ecosistema. Uno dei fatti più istruttivi e più facilmente rilevabili circa la diversità biologica è che le specie sono disposte, all’interno della rete alimentare, in due ordini gerarchici. Il primo, rappresentato dalla piramide dell’energia, è, come abbiamo già detto sopra, conseguenza diretta del flusso via via più esiguo dell’energia stessa: massima alla base, dove arriva alle piante sotto forma di raggi solari, essa giunge in cima, al livello dei super-predatori, ormai ridotta a un rivolo. Il secondo ordine è costituito dalla piramide della biomassa, cioè del peso degli organismi. La parte di gran lunga più consistente di tale massa fisica è rappresentata dai vegetali e, subito dopo, dagli organismi decompositori. Questi ultimi – batteri, funghi, e anche termiti – sono dediti a estrarre, dai tessuti degli organismi morti e dagli scarti della rete alimentare, rimasugli di energia, che poi rimettono parzialmente in circolo nell’ecosistema sotto forma di

composti chimici più semplici – i cosiddetti «nutrienti» – tanto utili alle piante. La biomassa, quindi, diminuisce a ogni gradino della piramide, ed ecco perché i super-predatori, situati in vetta, sono talmente rari che vederli in libertà nel loro ambiente è un’esperienza memorabile. E mi sia consentito ribadire questo punto. Uno scoiattolo o un passero li degnamo sì e no di uno sguardo; non parliamo poi di un dente di leone, che non riceve neppure quello. Invece, l’avvistamento di un falco pellegrino, o di un puma, ci manda in visibilio. E non per via delle loro dimensioni (si pensi a una mucca) o della ferocia (si pensi a un gatto domestico), ma per la loro rarità. Quanto alla biomassa marina, la sua piramide lascia di primo acchito perplessi: infatti si presenta invertita. Anche in questo caso, l’energia viene catturata quasi tutta al primo livello dagli organismi fotosintetici, e poi trasferita a quelli superiori seguendo la regola del 10 per cento a ogni passaggio; ma questa volta la massa degli organismi fotosintetici è inferiore a quella degli animali che di essa si nutrono. Com’è possibile tale inversione? La risposta sta nel fatto che gli organismi fotosintetici marini non sono piante nel senso più «terrestre» del termine. Si tratta, qui, di fitoplancton, cioè di microscopiche alghe unicellulari che vivono in balia delle correnti e che, nel complesso, sono capaci di fissare più energia solare e di produrre più protoplasma di quanto facciano le piante terrestri; non solo, ma le alghe crescono, si riproducono e muoiono a un ritmo molto più accelerato. Copepodi e altri crostacei, piccoli animali anch’essi trasportati dalle correnti e quindi battezzati collettivamente zooplancton, saccheggiano tale massa di alghe, senza però giungere mai a intaccarne la riserva strategica. Lo zooplancton, a sua volta, è cibo per gli invertebrati più grossi e per i pesci piccoli, che finiscono in bocca ai fratelli di più grosse dimensioni e ai mammiferi marini come le foche e le focene, a loro volta divorati dalle orche e dai grandi squali bianchi, cioè dai carnivori situati al livello dei superpredatori. L’inversione della piramide della biomassa è la ragione per cui le acque dell’oceano aperto sono così limpide, sicché vi si può guardare dentro e scorgervi magari un pesce isolato, e contemporaneamente la ragione per cui non vi si riescono a scorgere

quei piccoli vegetali – le alghe, appunto – dai quali, alla fin fine, dipendono tutti gli animali del mare. Ed eccoci giunti alla domanda fondamentale. Gli organismi terrestri più grandi, che occupano i gradini più facilmente percepibili delle piramidi dell’energia e della biomassa, devono la propria esistenza alla diversità biologica. Ma di che cosa è fatta questa biodiversità? Fin dall’antichità, gli studiosi di biologia hanno sentito il bisogno impellente di postulare una «unità elementare» mediante la quale scomporre la diversità, descriverla, misurarla e, infine, ricomporla in gruppi. Mi sia consentito di porre l’accento su questo tema importante con la dovuta forza. La scienza occidentale è costruita sulla ricerca ossessiva – e finora proficua – di unità elementari, di «atomi» sui quali postulare leggi e principi astratti. Il linguaggio del sapere scientifico è fatto di termini come atomo, particella subatomica, molecola, organismo, ecosistema, e di molte altre unità, tra cui la specie; unità, queste, tutte accomunate e legate tra loro dal metaconcetto di gerarchia, ossia di livelli di organizzazione. Gli atomi si aggregano in molecole; queste, a loro volta, si organizzano in nuclei, in mitocondri e in altri organuli che poi si aggregano in cellule, a loro volta associate in tessuti. Ai livelli gerarchici superiori si trovano gli organi, gli organismi, le società, le specie e gli ecosistemi. Il processo inverso sta, invece, nella scomposizione degli ecosistemi in specie, delle specie in società e in organismi, e così via scendendo ai livelli più bassi. In campo scientifico, sia la teoria sia l’analisi sperimentale sono basate per certuni sull’ipotesi, per altri sul credo, che i sistemi complessi possano essere scissi nei loro elementi più semplici. Ecco, quindi, la ricerca delle unità naturali procedere senza sosta fino a quando esse, come il Santo Graal, non vengano trovate, per la gioia di tutti. Successo e gloria attendono gli scopritori dei punti di complementarità e dei processi grazie ai quali le unità naturali minori possono essere unite per postulare quelle più ampie. È in questo senso che, nello studio della biodiversità, il concetto di specie risulta di vitale importanza. È il Santo Graal della biologia sistematica. Se non ci fosse, come unità fondamentale, tale concetto o

un’analoga entità, gran parte della biologia precipiterebbe in caduta libera dal livello degli ecosistemi giù fino a quello di organismo; significherebbe lasciare spazio all’ipotesi della variabilità amorfa e a quella di limiti arbitrari per entità intuitivamente ovvie come l’olmo americano (Ulmus americana.), la cavolaia (Pieris rapae.), e l’essere umano (Homo sapiens.). Senza il concetto di specie naturale, gli ecosistemi potrebbero essere studiati solo in termini generici, ricorrendo a descrizioni aride e soggettive degli organismi che li compongono. In tal modo, sarebbe molto difficile per i biologi confrontare i risultati dei rispettivi studi. Per esempio, che senso avrebbero le migliaia di lavori scientifici pubblicati sul moscerino della frutta – studi di importanza vitale per la fondazione della genetica moderna – se non fosse possibile discernere i vari tipi di quel moscerino? Vengo ora al cuore della questione introducendo il concetto di «specie biologica»: per specie si intende una popolazione i cui membri, in condizioni naturali, sono liberamente interfecondi. Tale definizione, così semplice da coniare, è tuttavia costellata di difficoltà e di eccezioni, tutte interessanti ed esemplificative della complessità incontrata dalla biologia evolutiva. Ad ogni modo, io ritengo che il Graal, per quanto ammaccato e ossidato, sia ormai nelle nostre mani: il sacro calice è ormai lì, sul vassoio. Va detto subito che non tutti i biologi concordano su questo modo di vedere le cose: secondo alcuni, il concetto di specie biologica non ha validità alcuna; secondo altri, l’unità sulla quale imperniare la descrizione della diversità biologica andrebbe piuttosto individuata nel gene o nell’ecosistema; altri ancora, infine, sono felicissimi di vivere nella più totale anarchia intellettuale. Secondo me, hanno torto tutti quanti; ciò nonostante, più avanti tornerò sulle difficoltà insite nel concetto di specie biologica per dare voce ai loro dubbi. Per il momento, mi sia consentito di ampliare la definizione così come essa viene accettata, almeno provvisoriamente, dalla maggior parte dei biologi evoluzionisti. «In condizioni naturali», si diceva. Si faccia attenzione a questa precisazione: sta a significare che, quando gli ibridi sono ottenuti dall’incrocio di due tipi diversi di animali

tenuti in cattività, così come da due tipi diversi di vegetali coltivati in giardino, non si può automaticamente affermare che i loro genitori appartengono alla stessa specie. Chiariamo il concetto con un esempio famoso: negli zoo, per anni e anni, le tigri sono state incrociate con i leoni. Il risultato era un tigone, quando il padre era una tigre e la madre una leonessa, oppure, nel caso contrario, una ligre. La nascita di tali creature non prova nulla, se non, forse, il fatto che leoni e tigri sono geneticamente vicini tra loro più di quanto non siano prossimi ad altre specie di grossi felini. Ma non si sa ancora se in natura, in condizioni normali, tigri e leoni si incrocino liberamente. Oggi, le due specie non possono più incontrarsi, poiché, a causa dell’espansione della popolazione umana, vivono separate ai due angoli del Vecchio Mondo. Infatti, i leoni si trovano nell’Africa subsahariana e nell’India nordoccidentale, dove, nella foresta di Gir, ne sopravvive un gruppo esiguo. Le tigri, invece, si trovano in gruppi sparuti, e in pericolo di estinzione, distribuite da sud verso nord a partire da Sumatra fino in India e in Siberia sudorientale. Poiché in India non vi sono tigri nei pressi della foresta di Gir, potremmo essere tentati di concludere che il test di sostegno al concetto di specie biologica – l’interfecondità naturale tra specie – in questo caso non può essere preso in considerazione. Ma non è così: infatti, in tempi storici le aree di distribuzione delle due specie si sovrapponevano su una vasta parte del Medio Oriente e dell’India. Per comprendere la situazione attuale bisogna quindi accertare che cosa succedesse a quei tempi. All’apice del fulgore dell’Impero Romano, quando il Nordafrica era coperto di fertili savane ed era possibile viaggiare da Cartagine ad Alessandria all’ombra degli alberi, spedizioni di soldati armati di reti e di lance vi catturavano i leoni per gli zoo e per gli spettacoli nelle arene. E, qualche secolo prima, quelle fiere si trovavano ancora anche nell’Europa sudorientale, nell’Attica, dove predavano anche esseri umani, così come nel Medio Oriente, dove erano a loro volta prede di caccia per i re assiri. Il loro areale si estendeva da tali propaggini verso est, in India, dove se ne trovavano fiorenti popolazioni ancora al tempo del dominio britannico, nel secolo scorso.

Dal canto loro, le tigri erano distribuite dall’Iran settentrionale all’India, e più oltre, sempre verso est, fino alla Corea, alla Siberia e giù, a sud, fino a Bali. Per quel che ne sappiamo, nell’area di sovrapposizione delle due specie non è mai stata registrata la presenza di un tigone o di una ligre. Tale assenza è soprattutto di rilievo nel caso dell’India, dove, al tempo del dominio britannico, e per più di un secolo, vennero registrate tutte le catture degli animali da trofeo. La ragione della mancanza in natura di ibridi delle due specie, nonostante la loro vicinanza, non è poi così difficile da spiegare. Innanzitutto, esse prediligevano habitat diversi: i leoni vivevano soprattutto nelle savane aperte e nelle zone di pascolo, le tigri nelle foreste, pur essendo comunque la segregazione tutt’altro che completa. In secondo luogo, il loro comportamento era, ed è tuttora, radicalmente diverso proprio in alcuni aspetti importanti ai fini della scelta del partner sessuale. I leoni sono gli unici felini sociali: vivono in branchi, il cui nucleo permanente è costituito da femmine strettamente legate tra loro e dai loro cuccioli. Quando raggiungono la maturità sessuale, i maschi abbandonano il branco originario e, solitamente in coppie di fratelli, entrano a far parte di altri gruppi. Gli adulti, maschi e femmine, cacciano assieme, guidati da queste ultime. Le tigri, così come tutte le restanti specie di felini, sono invece solitarie. Per marcare il territorio, i maschi emettono con le urine una sostanza diversa da quella dei leoni, ed entrano in contatto tra loro e con le femmine esclusivamente durante la stagione riproduttiva e comunque in modo fugace. In conclusione, sembra che gli adulti delle due specie abbiano scarsissime occasioni di incontrarsi e di legarsi abbastanza a lungo per dare origine a una discendenza. Ogni specie biologica rappresenta un pool. genico chiuso, un insieme di individui che non scambiano geni con altre specie. Così isolato, esso sviluppa tratti ereditari propri e occupa un territorio ben preciso. All’interno di ciascuna specie, gli individui che la compongono e i loro discendenti non possono differenziarsi tra loro più di tanto, e questo perché devono potersi riprodurre sessualmente e così rimescolare i loro geni. Nell’arco di molte generazioni, tutti i

gruppi familiari appartenenti alla medesima specie biologica sono, per definizione, legati vicendevolmente. Tenuti assieme in un sol gruppo dal concatenamento di antenati e di progenie, evolvono tutti quanti nella stessa direzione generale. Il concetto di specie biologica funziona al meglio quando è applicato a una singola località – per esempio, uno stato, una regione, un’isoletta – e in un breve arco di tempo. Consideriamo un caso pratico e prendiamo ad esempio i rapaci della Contea di Harris, nel Texas. Attraversando a piedi ciò che resta degli habitat naturali attorno alla città di Houston in cerca di accipitridi, poiane, albanelle, falchi pescatori e falconi, è possibile avvistare sedici specie. Alcune, come la poiana dalle spalle rosse (Buteo lineatus.) e il gheppio americano (Falco sparverius.), sono relativamente comuni. Altre, come la poiana di Harlan (Buteo harlani.) e il falco delle praterie (Falco mexicanus.), sono rare. Recandovi per un numero sufficiente di volte nei campi, nei boschi e negli acquitrini, arriverete a compilare una lista uguale a quella dei veterani del birdwatching, e le vostre descrizioni coincideranno con quelle della Field Guide to the Birds of Texas and Adjacent States. di Roger Tory Peterson. Ciascuna specie di rapaci è contraddistinta da una particolare combinazione di caratteristiche anatomiche, di richiami, di prede favorite, di tipo di volo e di distribuzione geografica. Alcuni di tali attributi – e, tra questi, il comportamento nelle fasi di corteggiamento – contribuiscono a mantenere le sedici specie isolate dal punto di vista riproduttivo. Si deve a tutta questa serie di meccanismi se, in natura, ci sono pochissimi ibridi. Si può certamente pensare che l’accordo raggiunto sulle specie di rapaci altro non sia che un artefatto culturale, una convenzione basata su tutte quelle definizioni anatomiche e quelle denominazioni tassonomiche scaturite – al pari dell’evoluzione dei principi giuridici e della terminologia legale – dall’intuizione umana e da casi fortuiti. Così, per esempio, tale convenzione potrebbe essere dipesa da chi, per primo, decise di utilizzare come carattere diagnostico il colore del piumaggio, o da chi applicò per primo un nome latino a questa piuttosto che a quella forma facilmente delineabile, e così via, fino al

punto di produrre una classificazione che, accettata all’origine da un numero sufficiente di persone, ha infine ricevuto l’imprimatur da Roger Tory Peterson. Ebbene, chiunque la pensasse così sarebbe in errore. Infatti, esiste un test con cui discernere le etichette culturali dalle unità naturali, basato sul confronto delle classificazioni prodotte da quelle società umane che non sono mai entrate in contatto reciproco. Quando, nel 1928, il famoso e allora giovanissimo ornitologo Ernst Mayr si recò sui remoti Monti Arfak, in Nuova Guinea, raccolse quella che doveva essere la prima collezione completa di uccelli del luogo, ivi compresi i rapaci. Prima di partire, aveva preso visione di tutte le principali collezioni ornitologiche presenti nei musei d’Europa e, studiando gli esemplari provenienti dal settore occidentale della Nuova Guinea, aveva stimato in poco più di un centinaio il numero di specie che avrebbe trovato su quei monti. Il concetto che Mayr aveva della specie era quello tipico dello scienziato europeo che, abituato all’osservazione di uccelli morti, suddivide gli esemplari in base alla loro anatomia, proprio come un cassiere di banca raggruppa le banconote in tagli da dieci, cento, mille, e così via. Stabilitosi in un accampamento, dopo una marcia lunga e irta di difficoltà, Mayr assoldò dei cacciatori del posto per farsi aiutare nella raccolta degli uccelli della zona. A mano a mano che i suoi collaboratori gli portavano degli esemplari, egli annotava i nomi che essi davano loro secondo i criteri di classificazione elaborati dalla cultura locale. Al termine del lavoro, constatò che gli Arfak erano in grado di riconoscere 136 specie di uccelli, e che le «loro» specie coincidevano quasi del tutto con quelle individuate dai biologi dei musei europei. Facevano eccezione soltanto un paio di specie, molto simili tra loro, che Mayr, scienziato dall’occhio allenato, riusciva a distinguere, ma di cui i cacciatori dei Monti Arfak, per quanto esperti, facevano invece un sol fascio. Molti anni più tardi, giunse il mio turno: all’età di venticinque anni, più o meno quella di Mayr al tempo della sua spedizione ai Monti Arfak, compii un lungo trek attraverso i Monti Saruwaget, nella Nuova Guinea nordorientale, per collezionare formiche. Lì, ebbi modo di ripetere il sondaggio interculturale e di constatare, questa volta,

che le popolazioni Saruwaget non sapevano distinguere una formica dall’altra. Per loro, una formica era una formica, punto e basta. La cosa non mi stupì: infatti quelle genti non avevano nessuna necessità pratica di classificare le formiche, al contrario dei cacciatori Arfak – e degli ornitologi europei – che si guadagnano da vivere grazie alla capacità di distinguere gli uccelli. Ai tempi di Mayr, gli uccelli selvatici costituivano infatti per gli Arfak la fonte primaria di carne. Anche le tribù amerindie del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco possiedono una conoscenza profonda dei vegetali della foresta pluviale. Alcuni sciamani e anziani delle tribù ne sanno riconoscere più di un migliaio. I botanici europei e nordamericani non solo sono generalmente in accordo con tali classificazioni di specie ma, addirittura, hanno appreso dai loro colleghi amerindi una gran quantità di informazioni circa le preferenze di habitat, i periodi di fioritura, e gli usi pratici di questi vegetali. Il noce del Queensland (Macadamia ternifolia.), pianta originaria dell’Australia, è il solo vegetale che, pur coltivato nei paesi sviluppati, non è ancora noto alle popolazioni autoctone. Purtroppo, molto del sapere indigeno viene perduto quanto più prende piede la cultura di origine europea e quanto più si affievoliscono, fino a svanire del tutto, le originarie culture preletterate tropicali. Insomma, stiamo perdendo irrimediabilmente un autentico patrimonio di cognizioni scientifiche. Presso tutte le culture, la classificazione tassonomica è sinonimo di sopravvivenza; la sapienza – come dicono i cinesi – nasce quando si comincia a chiamare le cose col loro giusto nome. Nel 1895, in seguito alla scoperta del fatto che la malaria è veicolata dalle zanzare del genere Anopheles, molti governi decisero di eliminare gli insetti vettori prosciugando le zone umide e irrorando le aree infestate con insetticidi. In Europa, la relazione tra l’agente della malaria, i protozoi parassiti del sangue del genere Plasmodium, e la zanzara vettore, l’Anopheles maculipennis, non fu subito chiarita, e quindi all’inizio gli sforzi per tenere sotto controllo il fenomeno non furono mirati. In alcune località, dove la zanzara abbondava, la malaria era rara o del tutto assente; in altre, invece, accadeva esattamente il contrario. Nel 1934, il problema fu finalmente risolto. Gli entomologi

scoprirono che l’A. maculipennis. non è una singola specie, bensì un intero gruppo comprendente almeno sette specie. L’aspetto esterno delle zanzare adulte è quasi del tutto identico ma, in realtà, le varie specie sono contraddistinte da una serie di attributi, alcuni dei quali impediscono loro di ibridarsi. Il primo «carattere» distintivo a essere identificato fu la dimensione e la forma delle uova deposte in grappoli dalle femmine sulla superficie dell’acqua: quelle di due specie non venivano abbandonate in grappoli, bensì separate l’una dall’altra. Tale fatto mise all’erta gli entomologi, e così, in breve tempo, altre tessere del mosaico trovarono la loro esatta collocazione. Furono in breve scoperti altri caratteri diagnostici: il colore delle uova, la forma dei cromosomi, l’ibernazione per alcune specie e il prolungarsi delle attività riproduttive per tutto l’inverno nel caso di altre, nonché, infine, la loro distribuzione geografica. La scoperta più clamorosa fu che alcune specie si nutrivano di sangue umano ed erano quindi i vettori dei parassiti della malaria. Una volta individuati, i membri pericolosi del gruppo A. maculipennis. furono presi di mira e totalmente eliminati. In tal modo, la malaria fu sradicata dall’Europa. Spesso accade che i sistematici riescano a risolvere i problemi di biologia in questo modo, cioè frammentando, mediante l’uso di particolari caratteri, le specie propriamente dette in specie sorelle; oppure, al contrario, aggregano forme, un tempo considerate come buone specie, in entità più ampie e variabili, dimostrando che quelle forme appartengono, in realtà, a una singola popolazione di individui naturalmente interfecondi. Quando viene compiuto in modo appropriato, e solo in tal caso, tale procedimento di aggregazione o di frammentazione apre il campo alla corretta comprensione degli organismi presi in esame. Ciò nonostante, la nozione di specie biologica, fin dalla sua prima chiara formulazione all’inizio del secolo, è stata cronicamente afflitta da problemi di difficile soluzione, minata com’è alle fondamenta da eccezioni e dall’ambiguità di taluni casi. La ragione principale di tale situazione sta nel fatto che ciascuna specie – definita come popolazione o gruppo di popolazioni riproduttivamente isolate – si

trova, in ogni momento, ad attraversare un certo stadio evolutivo, per cui essa è un’entità diversa da tutte le altre specie, è un’entità individuale realmente unica, e non semplicemente una qualunque unità in una classe di unità identiche, come potrebbero essere, per esempio, un atomo di idrogeno o una molecola di benzene. È questa caratteristica a fare la differenza tra il concetto di specie biologica e un qualunque altro concetto fisico o chimico, poiché questi ultimi non sono altro che termini riassuntivi di una serie di quantità misurabili. Per esempio, un elettrone è per definizione un’entità con 4,8 × 10−10 unità di carica negativa e 9,1 × 10−28 grammi di massa. Ovviamente, nessuno ha mai visto gli elettroni, ma i fisici credono nella loro esistenza poiché, grazie alle proprietà attribuite a queste particelle, si può giustificare con esattezza l’esistenza dei raggi catodici, degli elettromagneti, dell’effetto fotoelettrico, dell’elettricità e dei legami chimici. Gran parte della fisica e della chimica dipende dalla precisione con la quale viene rappresentato il modo in cui gli elettroni vengono sottratti agli atomi e alle molecole, formando così ioni positivi ed elettroni liberi. Nel linguaggio della fisica, essi sono definiti entità virtuali; la loro esistenza corporea è indubbia. All’Università di Cambridge, negli anni Trenta, Lord Rutherford era solito cantare, a una cena tenuta annualmente con il suo gruppo di ricerca, sulle note della famosa My Darling Clementine.:

Zanzara europea portatrice della malaria. Questa femmina, qui ritratta mentre è posata su

una parete, appartiene ad una delle specie sorelle del gruppo Anopheles maculipennis: forme separate, e ciò nonostante talmente simili, che perfino gli esperti hanno difficoltà a distinguerle.

There the atoms in their glory, Ionize and recombine.

Oh my darlings, oh my darlings,

Oh my darlings, ions mine. Là gli atomi gloriosi

Si ionizzano e ricompongono O miei cari, o miei cari, O miei cari ioni miei.

Ma tutti i membri di una data classe sono identici, e la classe è definita nella sua essenza in modo chiaro e completo una volta per tutte. Quindi, un elettrone sarà sempre un elettrone, uno ione uno ione, e tutti gli elementi di una data classe saranno intercambiabili. Una specie, al contrario, è sempre un’entità a sé stante che, in qualsiasi momento, potrà spartire con le altre entità della sua classe sì e no qualche caratteristica. Infatti, le specie sono in continua evoluzione, e quindi in continuo cambiamento una rispetto all’altra. In alcuni casi, si hanno le cosiddette specie sorelle; specie, cioè, talmente simili da poter essere distinte solo ricorrendo a lunghi test biochimici o di ibridazione, portando così alla disperazione i biologi che devono essere in grado di classificare rapidamente gli organismi. Negli Stati Uniti orientali, durante le lezioni di biologia tenute nei licei, si usano spesso i piccoli protozoi del genere Paramecium, animaletti a forma di ciabatta, comunemente suddivisi nelle tre «specie» P. aurelia, P. bursaria. e P. caudatum. in base a differenze anatomiche facilmente apprezzabili con un normale microscopio. Studi approfonditi hanno però mostrato che le specie sono, in realtà, almeno venti, ciascuna separata dalle altre almeno per quanto riguarda il comportamento riproduttivo, e che, quindi, ciascuna di esse costituisce una popolazione che si evolve in modo indipendente. La tentazione di ignorare tale complessità biologica e di accontentarsi delle tre vecchie specie, così facili da riconoscere, è molto forte; tuttavia, l’esempio della malaria ci suggerisce un comportamento diverso. I biologi sanno, nel loro intimo, che non può esservi compromesso su argomenti di tale importanza, e che devono tener duro fino a che tutti i pool genici realmente isolati non siano stati definiti: insomma, è imperativo che ogni unità atomica riceva il suo nome.

Le specie sorelle costituiscono un problema squisitamente tecnico, e pertanto non mettono in alcun modo in crisi la teoria biologica. Problemi concettualmente più seri vengono invece sollevati dalle «semispecie», cioè da quelle popolazioni che, pur parzialmente interfeconde, tanto da produrre in condizioni naturali molti ibridi, tuttavia non lo sono abbastanza da formare un solo grande pool genico, spontaneamente interfecondo. La questione si fa decisamente più seria nel caso di quei vegetali, e sono molti, impollinati dal vento: il polline è distribuito a caso, e spesso va a depositarsi sui fiori delle specie sbagliate. Circa un terzo delle specie di querce e di pini della costa pacifica del Nordamerica sono, in realtà, semispecie. Sta di fatto, comunque, che le semispecie costituiscono dei sistemi riproduttivi a sé stanti; anche quando scambiano geni grazie a ibridazioni fortuite, esse sono entità discrete, riconoscibili sul campo – in base all’anatomia di foglie e fiori e agli habitat da loro preferiti. Alla fine di uno studio sulle differenze nel Dna tra le querce bianche degli Stati Uniti orientali, Alan Whittemore e Barbara Schaal concludevano così: Il genere Quercus. (le querce) è notevole per lo scarsissimo sviluppo di meccanismi di isolamento riproduttivo fra le sue specie componenti. Varie specie, anche molto

diverse tra loro sia anatomicamente sia fisiologicamente, si fecondano a vicenda, in

varie combinazioni, producendo ibridi naturali. Alcune coppie di specie interfeconde presentano forti differenze da un punto di vista ecologico, ma molte altre sono caratterizzate, proprio in quel settore, da estese sovrapposizioni.

Ciò nonostante, la quercia bianca (Quercus alba.) resta una specie distinta. L’ibridazione tra più specie continua a essere pur sempre un fatto raro rispetto alla riproduzione all’interno della stessa specie, ed è grazie a ciò che i pool genici si mantengono parzialmente isolati. È altrettanto vero che l’abbondanza di ibridi, e con essa il perdurare delle semispecie in una sorta di stato di ambigua tensione, forse è un fatto poco diffuso tra le piante. A quanto pare, lo scambio di geni è meno comune tra le specie tropicali che tra quelle delle zone temperate; in altri termini, per quanto attiene al mantenimento di una stretta diversità specifica, esse hanno un «comportamento» simile a

quello delle specie animali. E, siccome la maggior parte delle specie arboree si trova ai tropici, può darsi che questa tendenza evoluzionisticamente conservatrice sia una caratteristica botanica più diffusa dell’intensa ibridazione mostrata dalle querce. Un’eccezione di rilievo è rappresentata dall’ampio genere vegetale Erythina, le cui specie producono comunemente ibridi. Ad ogni modo, lo studio dell’ibridazione genetica e della formazione delle specie tra le piante tropicali è appena agli inizi, e quindi la prudenza è d’obbligo. Nel corso della formazione di due specie A e B – il cui processo verrà illustrato nel capitolo successivo – alcuni membri appartenenti alla specie A possono, subito dopo la separazione, essere per qualche tempo simili più ad alcuni membri della specie B che ad altri della specie A, e viceversa. Gli individui imparentati di A e B hanno degli antenati in comune, ma presentano a questo punto una o più differenze che impediscono loro di scambiarsi geni. Sono come sorelle che vivono in paesi diversi e che non possono varcare i confini nazionali. Alcuni biologi sostengono che tali individui, a prescindere dalla loro coatta incapacità all’interfecondazione, andrebbero considerati come facenti parte di una medesima «specie filogenetica». Altri, fra i quali il sottoscritto, sono in totale disaccordo con quest’opinione. L’idea di specie filogenetica è senza dubbio interessante e utile, ma non può rappresentare una seria sfida per il concetto di specie biologica. La ricerca delle radici genealogiche che legano tra loro più individui di una popolazione, o più popolazioni, non esige che si abbandoni il criterio di isolamento riproduttivo quale processo base della diversificazione a livello di popolazione. Se la fratellanza è di sicuro un elemento importante, la nazionalità lo è ancor di più. Ma veniamo ora a esaminare un problema di tipo concettuale ancor più serio, e sempre relativo al concetto di specie biologica. L’idea di pool genico chiuso non ha alcun significato per quella minoranza di organismi che sono ermafroditi obbligati – e che pertanto, possedendo gonadi sia femminili sia maschili, si fecondano da soli – né per quelli partenogenetici, che si riproducono mediante uova non fecondate. Grazie all’uno o all’altro di questi stratagemmi, molti microrganismi,

funghi, piante, acari, tardigradi, crostacei, insetti e perfino alcuni lacertidi possono evitare l’incomodo, i pericoli e l’eccitamento di quel vero e proprio gioco d’azzardo che è la riproduzione sessuale. Come risolvere la questione? Le forme asessuate e quelle ad autofecondazione tendono a mantenere una notevole integrità. La maggior parte di esse, pur liberate dai condizionamenti evolutivi che la compatibilità sessuale impone, non prendono, come sarebbe lecito aspettarsi, a differenziarsi in tutte le direzioni, non si sparpagliano a ventaglio a produrre ampie variazioni continue e a creare grande confusione tassonomica. Le combinazioni geniche degli organismi tendono a sussistere in raggruppamenti, consentendo ai sistematici di precisare con facilità la posizione della maggior parte degli esemplari. È opinione diffusa che tale tendenza dipenda dalla più bassa percentuale di sopravvivenza e di riproduzione delle errabonde forme intermedie. Solo gli organismi con anatomia e comportamento vicini alla norma sono in grado di cavarsela. Inoltre, molte delle specie a riproduzione asessuata si sono evolute solo di recente, a partire da antenati a riproduzione sessuata, e quindi non hanno ancora avuto il tempo per differenziarsi ed espandersi. In ultima analisi, tuttavia, i confini tracciati dai biologi attorno a queste specie sono da considerarsi arbitrari. Il concetto di pool genico chiuso perde di significato anche nel caso delle cronospecie, vale a dire degli stadi evolutivi di una stessa specie attraverso il tempo. Prendiamo ad esempio la nostra specie, Homo sapiens, evolutasi in linea retta a partire dall’Homo erectus, una specie diffusa dall’Africa all’Eurasia un milione di anni fa. Per ovvie ragioni, non possiamo sapere se, messe a contatto in natura, queste due specie sarebbero state interfeconde. La domanda è vacua se posta fuori dal suo contesto; è come un kōan per scienziati, assurdo come la pretesa di descrivere il suono di un applauso a una mano sola. Eppure, mossi dai bisogni contingenti, i paleontologi, giustamente, continuano a differenziare le cronospecie e a denominarle. Sarebbe da irresponsabili ritenere che Homo sapiens. e Homo erectus. facciano parte della stessa specie, e altrettanto vale a maggior ragione per il loro antenato immediato H. abilis. nonché, andando ancora più

indietro nel tempo, per i primitivi australopitechi, autentici uominiscimmia. Alla caccia di un appiglio e desiderosi di raggiungere un compromesso che consenta di individuare un processo di cui sia partecipe gran parte degli organismi, i biologi non possono che tornare continuamente al concetto di specie biologica. Nonostante le difficoltà che esso solleva, e quantunque non si possa utilizzarlo in senso astratto allo stesso modo in cui si utilizzano entità come l’elettrone, le quali permettono precisi calcoli quantitativi, tale concetto tuttavia continuerà probabilmente a occupare una posizione centrale per il semplice fatto che quasi sempre funziona abbastanza bene, e in un numero sufficiente di casi che riguardano quasi tutti i tipi di organismi. La stragrande maggioranza delle specie è di fatto a riproduzione sessuata, e quindi esse costituiscono veramente dei pool genici isolati. Il concetto di specie biologica funziona egregiamente nel caso di faune e di flore locali: per esempio, nello studio dei rapaci del Texas, in quello delle zanzare europee e in quello dei primati del Vecchio Mondo, Homo sapiens. incluso; e l’efficacia massima è raggiunta nel caso di comunità molto ben delimitate, come quelle delle isole e degli habitat isolati, situazioni, insomma, comuni in quasi tutto il mondo. Le dispute da seminario o da corridoio sul concetto di specie biologica mi hanno fatto soffrire per anni. Ho passato al setaccio un’intera biblioteca di opinioni e ho visto il concetto rafforzarsi e declinare di volta in volta nel pensiero dei biologi evoluzionisti. Si potrebbe dire che il nocciolo del problema stia nella democraticità dei processi scientifici, nel senso che il concetto dispone di un elettorato debole, giacché, nella maggior parte dei casi, esso non è necessario. Nel compiere il loro lavoro di cernita, infatti, i sistematici si basano in ampia misura sulle differenze che riescono a riscontrare negli esemplari da museo. Alla domanda se le differenze sono mantenute grazie all’isolamento riproduttivo, essi in genere rispondono: probabilmente. Ma non si prendono mai la briga di andare in trincea.

A loro basta che i divari anatomici esistano, e lasciano ai biologi popolazionisti il compito di scoprirne le ragioni. Dal canto loro, questi ultimi sono affascinati dal dinamismo del processo di speciazione e dai molti problemi sollevati per mettere in crisi il concetto di specie biologica quando si ha a che fare con le prime fasi del processo di differenziazione delle specie. Che c’è di male, molti di loro si domandano, a stare un po’ nel disordine, o perfino in un vero e proprio caos? Perché non trastullarsi con più concetti di specie, ciascuno dei quali ritagliato ad hoc. su ogni caso? Paghi dell’emozione a loro procurata dalla gara che stanno disputando e degli applausi che di tanto in tanto ricevono lungo il percorso, non vedono perché mai dovrebbero scattare nello sprint finale. Contrariamente ai sistematici, i biologi popolazionisti non hanno da classificare milioni di specie, e dimenticano che l’isolamento riproduttivo tra popolazioni interfeconde costituisce il punto di non ritorno nella creazione della diversità biologica. All’inizio della fase divergente, le differenze esistenti tra le due nuove specie possono essere minori di quelle riscontrabili all’interno di ciascuna di esse. Non solo, ma a confondere ulteriormente il quadro può intervenire la comparsa di una marea di ibridi e, quindi, l’abbattimento della barriera di isolamento riproduttivo. In ogni modo, nella maggior parte dei casi, le due specie si imbarcano in un viaggio senza fine che le allontanerà sempre più. Col tempo, le differenze esistenti tra di loro diverranno di gran lunga superiori a quelle tra individui di popolazioni interfeconde. Nel mondo reale, l’ampio spettro della diversità biologica è stato prodotto dalla divergenza delle specie a loro volta create attraverso l’evento cruciale espresso nel concetto di specie biologica. Può darsi che un giorno i biologi riescano a formulare un concetto singolo che comprenda in sé le specie a riproduzione sessuata, quelle a riproduzione asessuata e le cronospecie, in una singola unità naturale di grande valore euristico. Dal canto mio, però, ne dubito. Il dinamismo del processo evolutivo e il particolarismo delle specie rendono poco probabile la formulazione di una definizione universale, onnicomprensiva, di specie. Sarà più facile che si

continuino ad accettare due o più concetti i quali, come la teoria fisica sulla natura dualistica (onda-particella) della luce, possano essere alternativamente utilizzati in modo ottimale, secondo i casi. E, tra tali concetti, quello della specie biologica probabilmente rimarrà a fare da fulcro alla spiegazione della diversità nel suo complesso. Comunque vada a finire, le imperfezioni implicite nel concetto – e, quindi, contenute anche nel nostro sistema classificatorio – riflettono l’eccentricità che è l’essenza della diversità biologica, fornendo ulteriori motivi per guardare con occhio benevolo a ciascuna specie come a un mondo a parte, al quale vale la pena di dedicare un’intera vita di studio.

5 Specie nuove

Ma da dove scaturisce la diversità biologica? Questo è un problema di somma importanza, e la soluzione sta nel riconoscere che l’evoluzione segue due tipi di traiettoria, una attraverso il tempo e l’altra attraverso lo spazio. Immaginiamo una specie di farfalle dalle ali blu che via via si evolva in un’altra specie con ali viola. Alla fine, resterà un solo tipo di farfalla. Pensiamo ora a un’altra specie di farfalla, sempre con le ali blu, che nel corso dell’evoluzione, si suddivida in tre specie, la prima con ali color viola, la seconda con ali rosse, e l’ultima con ali gialle. In questo caso, possiamo distinguere due percorsi evolutivi: da un lato, il puro e semplice mutamento verticale (o evoluzione filetica) all’interno della popolazione; dall’altro, la speciazione, vale a dire la somma del mutamento verticale della popolazione originale con il suo frazionamento in più razze o specie. La prima specie ad ali blu è andata incontro a un processo di puro e semplice mutamento verticale, senza che vi fosse speciazione. La seconda, invece, ha subito sia questa sia quello. La speciazione, quindi, implica l’evoluzione verticale, ma l’evoluzione verticale non implica la speciazione. In altre parole, la diversità biologica è un effetto collaterale dell’evoluzione. Quando, nel 1859, pubblicò il suo capolavoro, Darwin pensava soprattutto al mutamento verticale. Lo si può arguire dal titolo completo del libro: L’origine delle specie mediante selezione naturale, ovvero la sopravvivenza delle razze più favorite nella lotta per la vita. In sostanza, Darwin affermava che alcuni tipi ereditari presenti all’interno di una specie (le «razze più favorite») sopravvivono a spese di altri, sicché, nel corso delle generazioni, la composizione dell’intera specie si trasforma. E, aggiungeva, una specie può venire alterata dalla selezione naturale in modo così radicale da risultarne

trasformata in una specie diversa. Non importa quanto tempo debba passare, o quale sia l’entità del cambiamento, resta, comunque, solo e soltanto una singola specie. Quindi, perché vi possa essere diversità biologica, è necessario che – al di là della pura e semplice variabilità tra gli organismi in competizione – la specie si scinda in due o più nuove specie contemporaneamente alla sua evoluzione verticale. Se, da un lato, Darwin aveva saputo cogliere a grandi linee la differenza tra evoluzione verticale e speciazione, dall’altro gli mancava il concetto di specie biologica, fondato sull’isolamento riproduttivo. Fu per questo che non scoprì il processo di moltiplicazione delle specie, e che il suo pensiero sulla diversità rimase confuso. In questo senso, il titolo abbreviato, L’origine delle specie, è fuorviante. L’evoluzione della specie umana illustra in modo completo e particolareggiato la differenza tra le due modalità evolutive. L’ominide più antico di cui si sono trovati resti fossili è l’Australopithecus afarensis. Tanto per chiarire i termini tecnici, un ominide è un membro della famiglia Hominidae, la quale comprende il moderno Homo sapiens. nonché le più antiche specie umane e preumane. Stando ai resti finora ritrovati, A. afarensis, che abitava le savane e i boschi africani da cinque a tre milioni di anni fa, era l’unica specie del suo genere. I pochi resti mostrano che gli adulti avevano un’andatura bipede genericamente simile a quella di Homo sapiens, vale a dire una postura che fu, ed è tuttora, unica tra i mammiferi. Essa permise agli uomini-scimmia di stringere oggetti tra le braccia e con le mani, e, a essi, o forse ai loro discendenti, di trasportare per lunghe distanze i piccoli, gli attrezzi e il cibo. Forse quegli ominidi si insediarono in accampamenti (anche se, finora, non se ne è trovato alcun resto) e tale abitudine diede origine alla divisione del lavoro tra chi restava a badare all’accampamento e chi se ne allontanava per andare in cerca di cibo. In quanto a massa cerebrale, A. afarensis. non era particolarmente dotato: la sua capacità cranica – circa 400 centimetri cubi – non era superiore a quella di un odierno scimpanzé. Ciò nonostante, la scena era ormai pronta per assistere al progresso evolutivo verso la specie umana.

Col trascorrere del tempo, sino al limite di due milioni di anni fa, le primitive popolazioni di uomini-scimmia si ramificarono, evolvendo in almeno tre specie distinte. Due di esse – Australopithecus boisei. e Australopithecus robustus. – erano alte 1,5 metri e possedevano, analogamente al gorilla, una cresta ossea lungo la linea mediana del cranio che serviva da punto di ancoraggio per gli enormi muscoli mascellari. Probabilmente erano vegetariani che si nutrivano, più o meno come oggi fanno i gorilla, di semi e di arbusti grazie a molari di due centimetri di lunghezza. La terza specie, Homo abilis, era abbastanza vicina all’uomo come lo definiamo oggi da indurre gli antropologi a toglierla dal genere Australopithecus. e a collocarla nel genere Homo. La sua statura era inferiore a 1,5 metri e il peso si aggirava sui 45 chilogrammi. L’aspetto era essenzialmente quello del moderno Homo sapiens, a eccezione di un particolare di rilievo, cioè il volume del cervello che, con i suoi 600-800 centimetri cubi, per quanto molto più grosso di quello di uno scimpanzé, era ancora solo la metà di quello di Homo sapiens. Nel corso del successivo milione di anni, gli uomini-scimmia scomparvero dalla scena, e con essi gran parte della diversità riscontrabile tra gli ominidi. Homo abilis, invece, sopravvisse e continuò a evolversi, prima lentamente, e poi a velocità sempre più elevata, sia in dimensioni sia in capacità cranica. La metamorfosi lo portò alla forma intermedia Homo erectus, cui pervenne circa un milione e mezzo di anni fa. E fu proprio nelle prime fasi della sua storia che H. erectus. si diffuse dall’Africa verso l’Europa e l’Asia. I fossili ritrovati a Zhoukoudian, nei pressi di Pechino, in Cina, testimoniano l’ulteriore evoluzione durante i successivi 250.000 anni. Le dimensioni del cervello crebbero costantemente da 915 a 1140 centimetri cubi, e allo stesso tempo gli strumenti di pietra prodotti da questi «uomini di Pechino» divennero sempre più sofisticati. Tra le popolazioni di H. erectus. disseminate nel Vecchio Mondo, le dimensioni del cervello e dei denti progredirono fino a raggiungere, più o meno mezzo milione di anni fa, all’incirca il livello attuale. Si giunse così alla cronospecie H. sapiens, ossia alla specie moderna, derivata per evoluzione verticale da quella arcaica. L’insieme dei suoi

caratteri tassonomici è straordinario: cervello 3,2 volte più voluminoso di quello di una scimmia di taglia umana, e protetto da un cranio sferico snodato; mascelle e dentatura deboli; portamento eretto su zampe posteriori allungate; pelle priva di pelo salvo alcune chiazze che tengono calda la testa ed evidenziano i genitali; organi interni sostenuti da un bacino osseo a forma di catino; pollice insolitamente lungo per un primate, che trasforma la mano in un attrezzo specializzato nel maneggiare oggetti; mente modellata su un linguaggio simbolico e una memoria semantica con il concorso di complessi centri per il controllo della parola, situati nella corteccia parietale. Ricapitolando, l’evoluzione umana mostra i due cammini percorribili dall’evoluzione: durante la prima fase degli uominiscimmia, una modesta speciazione; poi, in seguito all’estinzione di tutte le altre linee, la rapida evoluzione di una singola specie di Homo. L’antico Australopithecus afarensis. probabilmente seguiva una dieta onnivora. Gli ominidi che vennero dopo di lui unirono all’evoluzione verticale la formazione di vere e proprie specie, in ciò costretti dall’isolamento riproduttivo. Queste specie andarono a occupare diverse nicchie ecologiche, esattamente come fanno i gruppi animali di successo quando sono in fase di espansione. Gli uominiscimmia A. boisei. e A. robustus. divennero sempre più vegetariani. Homo abilis, che si presentava già abbastanza diverso da essere collocato in un genere a sé stante, aggiunse invece alla sua dieta la carne, che si procurava cacciando e accontentandosi anche di carogne. È presumibile che, nel contempo, consumasse una quantità di vegetali sufficiente a garantirgli quella che oggi si definirebbe una dieta bilanciata. Poi, gli uomini-scimmia scomparvero, probabilmente spinti sull’orlo dell’estinzione dallo stesso H. abilis, o dal suo discendente, H. erectus. Ne conseguì l’evoluzione di una singola specie, svoltasi attraverso le fasi H. abilis, H. erectus, H. sapiens. La maggior parte delle specie vegetali e animali, ivi compreso H. sapiens, conservano la propria identità semplicemente non incrociandosi con le altre. Innanzitutto, come ha fatto a instaurarsi questa segregazione? Molto semplice: qualunque cambiamento

evolutivo che riduca le probabilità di produrre ibridi fertili può portare a una specie nuova, e ciò perché l’avvio di una linea di ibridi fertili è una procedura complicata e delicata, un po’ come il lancio in orbita di un veicolo spaziale. Vi è un gran numero di parti che devono funzionare a dovere, e il loro funzionamento sincronizzato deve rasentare la perfezione, pena il fallimento della missione. Prendiamo ad esempio un maschio della specie A e una femmina della specie B che cerchino di mettere al mondo un ibrido fertile. Siccome sono geneticamente diversi, potrebbero non farcela: per esempio, perché hanno preferenze diverse circa il luogo, o la stagione, o il momento del giorno in cui accoppiarsi. Oppure, perché non capiscono i reciproci segnali di corteggiamento. Ma, quand’anche riuscissero ad accoppiarsi, potrebbe accadere che i piccoli nati dalla loro unione non raggiungano la maturità sessuale, o comunque che siano sterili. Il fatto stupefacente non è che l’ibridazione fallisca, bensì che ogni tanto riesca. L’origine delle specie sta, quindi, semplicemente nell’evoluzione di una qualunque differenza che impedisca la produzione di ibridi fertili da parte di due popolazioni in condizioni naturali. I biologi parlano degli elementi che impediscono l’ibridazione definendoli «meccanismi intrinseci di isolamento». Per «intrinseci» essi intendono «ereditari», vale a dire differenze prescritte dai geni nelle opposte popolazioni. Meccanismi «estrinseci» sono invece costituiti, per esempio, da fiumi e catene montuose, che tengono separate le popolazioni A e B. Affinché due popolazioni continuino ad appartenere alla stessa specie, è necessario che, passo dopo passo durante il processo riproduttivo, non si inseriscano meccanismi intrinseci di isolamento. Basta, infatti, che uno solo vi si intrometta, e le popolazioni verranno scisse in due specie distinte. E intendiamoci: «distinte» secondo il concetto biologico di specie, che va accettato pena il caos nella discussione generale dell’evoluzione. Cerchiamo, quindi, di evitare a tutti i costi questo caos, e prendiamo in considerazione un qualsivoglia gruppo di specie a riproduzione sessuata presenti in una medesima regione geografica. Queste specie sono riproduttivamente separate l’una dall’altra, ciascuna in virtù di un proprio meccanismo di isolamento. In termini

meno formali, diremo che, esaminate a due a due, queste specie presentano tali differenze del patrimonio genetico da non poter produrre ibridi fertili in gran quantità. Esaminiamo, come esempio, il caso dei pigliamosche del genere Empidonax, uccellini che, appollaiati tra i rami degli alberi o sui cavi delle linee elettriche, di tanto in tanto si fiondano in aria per catturare insetti volanti. Nel nord degli Stati Uniti ve ne sono cinque specie che si mantengono distinte in parte grazie al fatto che prediligono habitat differenti. Per esempio: E. minimus, boscaglia rada e campi coltivati

E. alnorum, paludi a ontani e boschetti umidi

E. flaviventris, boschi a conifere e acquitrini freddi

In aggiunta a ciò, ogni specie usa, durante la stagione riproduttiva, un suo particolare richiamo di riconoscimento il quale, combinato con la scelta dell’habitat, lascia poco spazio agli sbagli e, quindi, alla creazione di ibridi. Gli errori possibili sono infiniti, e, quindi, infinita è anche la gamma dei meccanismi intrinseci di isolamento. Gli esempi di tali meccanismi scoperti dai ricercatori sul campo non sono mera materia di biologia accademica. Sono utili anche per spiegare molto delle meraviglie, altrimenti indecifrabili, della storia naturale. Eccone alcuni: • I giganteschi bachi da seta selvatici del Nordamerica (famiglia dei Saturnidae.) volano e si accoppiano in momenti diversi del pomeriggio e della notte. Le femmine attirano i maschi, anche a distanza di alcuni chilometri, grazie a una sostanza chimica dall’odore molto forte che emettono estroflettendo una struttura sacciforme normalmente ripiegata all’altezza delle estremità posteriori del corpo. Esposta all’aria, la sostanza chimica evapora e si disperde sottovento lasciando una scia. I maschi sono molto sensibili a quel richiamo sessuale. Non appena avvertono la presenza anche solo di qualche

molecola, volano controvento e si avvicinano alle femmine. Ciascuna specie di falena gigante è sessualmente attiva, nel corso della giornata, solo durante un breve arco di tempo, secondo l’orario seguente: Femmine di Callosamia promethea, dalle ore 16.00 alle 18.00

Femmine di Antheraea polyphemus, dalle ore 22.00 alle 04.00 Femmine di Hyalophora cecropia, dalle ore 03.00 alle 04.00

E così via per tutte le 69 specie di Saturnidi nordamericani, ciascuna delle quali, per quel che ne sappiamo, ha la propria heure d’amour. Lanciati in un volo frenetico, i maschi individuano le femmine della stessa specie non solo grazie all’orario di emissione del richiamo sessuale, ma anche in base alla sua composizione qualitativa. Mediante questa combinazione di tempismo e di chimica, gli errori – se avvengono – sono poco frequenti e quindi altrettanto scarsi – se non del tutto assenti – sono gli ibridi che vedono la luce. • I maschi dei ragni appartenenti alla famiglia Salticidae. riconoscono gli individui dell’altro sesso grazie alla vista. Il corteggiatore si pone di fronte alla femmina, dotata di vista acutissima, sfoggiando le vistose colorazioni del capo che, variabili da specie a specie, sono facilmente distinguibili anche da un osservatore umano. Nei boschi e nei campi del New England si trova una specie riconoscibile dalla colorazione della testa, rossa al di sopra degli occhi, bianca al di sotto, e con gli apici dei cheliceri neri. Un’altra, invece, ha regione sovraoculare grigia, regione sottooculare rossa e apici dei cheliceri bianchi; un’altra ancora, regione sovraoculare nera, regione sottooculare e ciuffi di peli bianco neve che ricoprono gli apici dei cheliceri come manicotti di ermellino; e un’altra ancora peli che si ergono da dietro il capo come ali di fata maculate di nero. I maschi si presentano al cospetto delle femmine e cominciano la parata. Quelli di una specie aggiungono, al giallo e al nero delle strisce verticali presenti sui cheliceri, le zampe anteriori gialle a estremità nere sollevate dietro il capo quasi in gesto di resa. Altri ancora si muovono su e giù, dondolandosi da un lato all’altro, incurvando l’addome sopra

il capo o piegandolo lateralmente; oppure sollevano le zampe anteriori e le agitano da una parte all’altra come bandiere da segnalazione. Quando i biologi offrono alle femmine l’occasione di scegliere tra vari maschi, per riconoscere quelli della propria specie esse ricorrono ai colori e ai movimenti. • Le heliconie (famiglia Heliconiaceae.) sono in gran parte piante dell’America tropicale impollinate dai colibrì, uccelli che esse attraggono grazie alle brattee, grosse strutture simili a fiori, e a un’abbondante offerta di nettare. I colibrì contraccambiano tanta prodigalità trasportando il polline delle heliconie con velocità ed efficienza: essi sono dei buoni servitori di queste piante, ma presentano un problema, perché amano far visita a più di una specie, con l’ovvio pericolo di ibridarle. Tuttavia, le heliconie hanno risolto il problema conferendo alle parti fiorali lunghezze diverse, stratagemma grazie al quale ogni specie deposita il proprio polline su una zona particolare del corpo del colibrì. A sua volta, questi deposita il polline solo sugli stigmi fiorali della giusta misura e, quindi, su fiori della medesima specie. Si potrebbe scorrere il catalogo dei meccanismi noti mediante i quali le specie evitano l’ibridazione, ma di rado se ne incontreranno due esattamente identici. Gran parte delle esibizioni della natura più belle ed elaborate – dai colori vivaci agli odori allettanti, ai canti melodiosi – fungono da meccanismi intrinseci di isolamento. Ma, un attimo: finora, ho parlato dell’origine delle specie in termini paradossali. Nel linguaggio tradizionale della biologia, i «meccanismi» hanno delle «funzioni». In realtà, però, rappresentano tutto ciò che può non funzionare, e non ciò che va bene. In altre parole, la bellezza deriva dall’errore. Come possono questi due modi di vedere le cose, apparentemente contraddittori, essere entrambi veridici? La risposta, basata sullo studio di molte popolazioni in natura, è questa: normalmente, le differenze tra specie sono in principio solo degli adattamenti all’ambiente, e non degli strumenti atti all’isolamento

riproduttivo. Il fatto che possano servire anche a questo secondo fine è del tutto incidentale. La speciazione, quindi, è soltanto un effetto collaterale dell’evoluzione verticale. Per comprendere come possa esistere tale strana relazione, bisogna prendere in esame il tanto diffuso processo di diversificazione noto come speciazione geografica. Si parta, idealmente, da una popolazione di uccelli – per esempio, di pigliamosche – che l’ultima avanzata dei ghiacciai nel Nordamerica divise in due. Nel corso di alcune migliaia d’anni, la popolazione presente in quello che oggi è il sudovest degli Stati Uniti si adattò alla vita nelle boscaglie aperte, mentre l’altra popolazione, negli Stati Uniti sudorientali, si adattò alla vita nelle foreste acquitrinose. Le differenze che ne derivarono, funzionali all’ambiente, furono acquisite indipendentemente. Esse consentirono agli uccelli di sopravvivere e di riprodursi più efficacemente negli habitat disponibili a sud del fronte glaciale. Dopo la ritirata dei ghiacciai, le due popolazioni si espansero fino a che i loro areali si sovrapposero attraverso gli stati settentrionali. Ancora oggi, una delle specie predilige la boscaglia rada, e l’altra le zone umide. La preferenza di habitat diversi, risultante da differenze ereditarie acquisite durante il periodo di isolamento geografico forzato, diminuisce la possibilità che le due nuove specie si associno durante la stagione riproduttiva e si ibridino. Il divario di adattamento ai due habitat ha dunque agito, fortuitamente, da meccanismo di isolamento.

Una specie può moltiplicarsi dando luogo a due o più specie figlie quando esistano barriere

geografiche che tengano separate le sue popolazioni per un tempo sufficientemente lungo. In questo esempio, basato su una combinazione di casi reali, la specie parentale è inizialmente

distribuita su un ampio areale costituito prevalentemente da una prateria (in alto). In seguito, il clima locale diviene sempre più umido, e un fiume separa la specie originale in due

popolazioni, una delle quali vive ancora nella prateria, mentre l’altra predilige ora un habitat di tipo forestale (in basso).

Con il tempo le due popolazioni si evolvono separatamente, fino a raggiungere il livello di nuove specie (in alto). Quando la barriera geografica rappresentata dal fiume scompare, le due forme possono condividere lo stesso areale senza incrociarsi più (in basso).

Può darsi che il processo di differenziazione abbia interessato anche altri tratti caratteristici delle due specie, come i canti emessi dai maschi per attrarre le femmine, o i luoghi della foresta prediletti per la costruzione dei nidi. Una qualunque di queste caratteristiche ereditarie può diminuire la probabilità che gli adulti dei boschi si accoppino con quelli delle paludi. Ma, se l’accoppiamento avesse comunque luogo, gli ibridi presenterebbero caratteri nuovi, intermedi a quelli dei genitori. Non sarebbero più adattati perfettamente né alla vita nei boschi né a quella nelle paludi, e quindi avrebbero una minor

capacità di sopravvivere. Purché sufficientemente forte, qualunque tipo di barriera – che si tratti di differenze negli habitat o della generazione di ibridi poco adatti all’ambiente – può fungere da barriera intrinseca. Le due popolazioni si sono trasformate in specie distinte perché, pur venendo a contatto in condizioni naturali, sono riproduttivamente isolate. La specie ancestrale antecedente il periodo glaciale si è spaccata in due quale risultato puramente incidentale dell’evoluzione verticale avvenuta nel periodo in cui le due popolazioni erano separate da una barriera geografica. La scissione della specie di pigliamosche non è che un esempio semplificato di ciò che accadde in fatto di speciazione in Nordamerica durante l’ultima avanzata dei ghiacci. Sorte analoga è toccata, nel corso di centinaia o migliaia d’anni, in numerosi altri luoghi del mondo, a molti altri tipi di vegetali e di animali. Il procedimento è avviato da barriere geografiche che s’innalzano per poi scomparire, favorendo così il formarsi di una serie casuale di meccanismi di isolamento ereditari atti a impedire alle specie neoformate di incrociarsi quando rientrino effettivamente in contatto. I biologi evoluzionisti hanno scoperto una grande varietà di tali barriere, come i seguenti esempi dimostrano: • Nel bacino del Rio delle Amazzoni vi sono momenti di siccità che frammentano la distesa continua della foresta in settori separati. Alcune delle popolazioni animali e vegetali, rimaste isolate, cominciano a diversificarsi. Altre popolazioni vengono frammentate da mutamenti del corso dei fiumi che aprono e chiudono continuamente corridoi nella foresta tropicale, creando collegamenti tra appezzamenti diversi. • Lungo le coste della Nuova Guinea, tratti della piattaforma continentale vengono parzialmente sommersi a causa dell’aumento del livello marino. I rilievi di queste terre affiorano dall’acqua sotto forma di isole, e le popolazioni che vi restano imprigionate cominciano a differenziarsi.

• Le isole Hawaii vengono colonizzate da uccelli, grilli, vespe, zigotteri, scarabei, gasteropodi, angiosperme e altri tipi di organismi che vi arrivano ogni tanto come profughi trasportati dal vento. A mano a mano che i nuovi coloni si moltiplicano e si espandono, essi si evolvono in risposta all’ambiente caratteristico delle isole, differenziandosi così dagli antenati lasciati alle spalle sulla terraferma dei continenti nordamericano e asiatico. Questi coloni si diffondono anche all’interno dell’arcipelago, di isola in isola, di valle in valle, da una cima all’altra delle catene montuose dell’interno, producendo, lungo il cammino, nuove popolazioni isolate in fase di diversificazione. Una sola specie, che abbia colonizzato le Hawaii 100.000 anni fa, può averne generato centinaia d’altre, ciascuna delle quali oggi può essere endemica in una particolare isola, valle, o catena montuosa. Ho già avuto modo di sottolineare i limiti che la specie ha in quanto unità naturale. I difetti che la affliggono sono conseguenza inevitabile delle particolarità della storia. Le popolazioni animali si trovano tutte in una condizione fortemente dinamica: se possono, si ingrandiscono, si spingono in nuove zone e, se ne hanno l’occasione, evolvono in nuove direzioni. Il caso puro e semplice è il fattore che domina la loro traiettoria evolutiva. Prendiamo in considerazione un ambiente biologicamente vario, come una valle ricoperta di foreste a Kauai, uno specchio d’acqua poco profondo lungo la riva del lago Vittoria, o una palude a cipressi della Florida settentrionale. Alcune delle specie che vivono in questi luoghi si sono specializzate nell’occupare nicchie ecologiche molto ristrette e aree geografiche altrettanto limitate. Hanno scarse potenzialità di diffusione, e sono del tutto o quasi prive di parenti stretti; la loro evoluzione verticale arranca, e la speciazione è bloccata. Non esistono razze locali e le prospettive di moltiplicarsi sono scarse. All’estremo opposto si trovano quelle specie che posseggono abitudini alimentari flessibili e una grande capacità di ampliare la propria distribuzione: esse formano velocemente nuove popolazioni che vanno a occupare rapidamente nuove nicchie,

specializzandosi in un tipo particolare di alimentazione, di habitat, di attività, o di stagione durante la quale essere attive. Tali specie hanno un altissimo potenziale di diversificazione, e accumulano nelle medesime località specie su specie mediante cicli ripetuti di dispersione e reinvasione. Se focalizziamo la nostra attenzione su quest’ultimo gruppo, quello delle popolazioni in fase attiva di evoluzione, possiamo assistere con grande probabilità a tutte le fasi del processo di speciazione geografica, così come oggi è inteso dalle teorie in auge. All’esordio, la popolazione è diffusa in modo continuo su tutto il suo areale, e tutti gli organismi che la compongono sono liberi di incrociarsi l’uno con l’altro. Le differenze tra i due estremi dell’areale, ammesso che ve ne siano, sono minime. Nella fase successiva, la popolazione è ancora distribuita in modo continuo, ma risulta divisa in sottospecie, le quali, quando s’incontrano, sono comunque in grado di incrociarsi liberamente. Si immagini una sottospecie di farfalle che in Texas presenti sulle ali grosse macchie, e un’altra che nel Mississippi ne sia priva. Le due sottospecie s’incontrano in Louisiana e si incrociano, producendo farfalle con macchie di dimensioni intermedie. Le macchie sono più grandi via via che ci si avvicina al Texas, e si fanno sempre più piccole, fino a scomparire, a mano a mano che ci si sposta verso il Mississippi. Il tempo trascorre, e le sottospecie hanno raggiunto una fase ancora più avanzata: sono sempre in grado di incrociarsi, ma ormai si sono differenziate in molte delle loro caratteristiche genetiche. Individui appartenenti a una stessa popolazione possono differire non solo in quanto a ornamento delle ali, ma anche per dimensioni, preferenze alimentari, velocità di crescita delle larve, e così via, attraverso una serie di centinaia di caratteri soggetti a variazione genetica. La divergenza tra le sottospecie si accelera se qualche barriera fisica – un ampio fiume, un corridoio di prateria arida – viene a interporsi tra le due popolazioni, limitando il flusso di geni dall’una all’altra. Le due popolazioni finiscono col divergere a un punto tale da non incrociarsi più quando s’incontrano. Si sono trasformate in due specie

biologiche distinte. A questo punto, in Louisiana le nostre due specie di farfalle coesistono, ma separate da differenze nei rispettivi periodi riproduttivi, nel corteggiamento, o in altri meccanismi intrinseci di isolamento, in azione singolarmente o in combinazione tra loro; una sorta di incapacità acquisita ereditariamente, insomma, che impedisce loro l’interscambio riproduttivo. Pertanto, nella zona in cui le due specie si sovrappongono, vi sono pochi ibridi a piccole macchie, o forse neanche uno. Il modello classico di speciazione geografica appena descritto fornisce un quadro chiaro e ha un nucleo di verità; ma l’evoluzione reale è cosa ben più caotica. Talmente caotica che la fedele descrizione dei casi reali trasforma la scienza biologica in una storia della natura in cui i dettagli hanno la stessa importanza della teoria che li spiega. Prendiamo in considerazione la sottospecie, categoria che sembra un indispensabile gradino intermedio nella progressione aristotelica che, partendo dalla assenza di sottospecie, passa alla loro esistenza, e poi a quella delle specie. Ma che cos’è esattamente una sottospecie? I manuali la definiscono come una razza geografica, cioè una popolazione dotata di tratti distintivi e abitante una zona circoscritta nell’areale complessivo di distribuzione della specie. Che cos’è, allora, una popolazione? Eccoci nei pasticci. Possiamo solo dire che una popolazione risulta definita chiaramente quando è subito riconoscibile da chiunque e quando è l’unica a occupare una certa zona dell’areale abitato da una specie. I genetisti amano aggiungere, per chiarezza matematica e non come prerequisito indispensabile, che una popolazione è un deme.: i suoi membri s’incrociano del tutto casualmente, e ciascuno di essi ha la stessa probabilità di incrociarsi con gli altri, indipendentemente da dove si trova. In natura esistono poche popolazioni definibili in modo così oggettivo; la maggior parte di quelle che somigliano effettivamente agli esempi dei manuali sono in pericolo d’estinzione: si tratta cioè di

specie composte da un numero talmente ridotto di individui da non lasciare dubbi circa i confini della popolazione che compongono. A questa categoria a rischio appartengono gli ultimi esemplari di picchio Campephilus principalis, che si trovano in una foresta di montagna nella parte orientale di Cuba, e il ciprinodonte di Devil’s Hole, che resiste in una piccola sorgente nel deserto del Nevada, ad Ash Meadows. Chi si fermi sul ciglio del Devil’s Hole e guardi giù, a quindici metri di distanza, lì dove l’acqua lambisce la sponda illuminata dal sole, potrà vedere l’intera specie nuotare come pesci rossi in una boccia di vetro.

La salamandra dal dorso rosso (Plethodon cinereux); diffusa nell’America nordorientale, è

caratterizzata da una variabilità intraspecifica talmente ambigua che la definizione delle sottospecie può avvenire solo in base a criteri soggettivi.

La maggior parte delle specie non vive confinata così strettamente, il che è una fortuna per la loro protezione, e una sfortuna per le teorie da manuale. Prendiamo, per esempio, la salamandra dal dorso rosso Plethodon cinereus, una delle specie più diffuse e abbondanti del Nordamerica. La si può trovare dalla Nova Scotia e dall’Ontario a nord, fino alla Georgia e alla Louisiana, a sud, e senza soluzione di continuità nei tre quarti settentrionali di questa sua area di

distribuzione. Si sarebbe quindi tentati di raggruppare questo vasto insieme di individui in un’unica popolazione. Ed è proprio quello che fanno i tassonomisti esperti di salamandre, chiamandola sottospecie Plethodon cinereus cinereus. (le regole formali di nomenclatura stabiliscono che le sottospecie si designino aggiungendo un terzo nome ai due della specie). La distribuzione di questa salamandra tuttavia non è affatto continua, trovandosi essa in buona parte confinata alle foreste umide dei bassipiani, ovvero in un habitat discontinuo, una sorta di filigrana, a tratti interrotta, distesa sul territorio. Ma anche all’interno delle aree forestate abitabili, la popolazione è suddivisa in aggregati circoscritti che, nel corso delle generazioni, si espandono lentamente e poi si ricontraggono, modificandosi di continuo. La percentuale di incroci tra i demi limitati alle valli forestate e alle foreste delle aree umide non è mai stata studiata, e quindi è sconosciuta. In altri termini, se i biologi avessero a loro disposizione una mole di dati maggiore, potrebbero riconoscere, all’interno della vasta area di distribuzione di P. cinereus cinereus, migliaia di popolazioni. Il tassonomista scrupoloso potrebbe a ragione frammentare l’unica sottospecie formalmente riconosciuta in un gran numero di sottospecie distribuite su aree più ridotte. A sud, tra le montagne della Georgia settentrionale e dell’Alabama, vive un’altra sottospecie, Plethodon cinereus polycentratus, che una fascia di territorio ampia 80 chilometri e priva di salamandre dal dorso rosso separa da P. cinereus cinereus. La terza sottospecie, P. cinereus serratus, si trova in alcune località, ampiamente separate, tra le colline dell’Arkansas, dell’Oklahoma e della Louisiana. Le ultime due sottospecie presentano le stesse difficoltà di quella principale settentrionale. La loro denominazione ternaria è un comodo ripiego stenografico, l’affermazione di una verità grossolana: una classificazione efficace solo a patto di ricordare che quando si spezzetta l’intera specie geograficamente si compie un atto arbitrario e impreciso. Infatti, a seconda del criterio utilizzato, le sottospecie di P. cinereus. potrebbero essere centinaia, oppure una sola. Ma le sottospecie presentano un altro e ben più grosso inconveniente: la discordanza tra i caratteri mediante i quali vengono

definite. Supponiamo, per il momento, di poter ignorare il problema della popolazione, e immaginiamo che esistano popolazioni facilmente riconoscibili, tutte appartenenti a una specie ideale (che, per chiarezza, continuerà a essere la salamandra dal dorso rosso). Tale specie comprende migliaia di popolazioni distribuite attraverso tutto il Nordamerica. Gli esemplari del settore meridionale. – dalla Georgia alla Virginia – hanno strisce su quasi tutto il corpo, che invece mancano su quelli della metà settentrionale, dal Maryland al Canada. In base a questo singolo carattere, riconosciamo due sottospecie, due razze geografiche: le salamandre meridionali, striate, e quelle settentrionali, senza strisce. Possiamo anche notare, però, come gli individui occidentali. siano più grossi. I due caratteri – la taglia e la striatura – sono palesemente discordanti, poiché dividono la specie lungo linee geografiche non coincidenti. Grazie a essi, perciò, possiamo riconoscere quattro sottospecie: la prima, a sudovest, striata e di grossa taglia; la seconda, a sudest, striata e di piccola taglia; la terza, a nordest, priva di bande e di piccola taglia; infine, la quarta, a nordovest, priva di bande e di grossa taglia. Poi, però, scopriamo che i piccoli di salamandra hanno gli occhi color ambra a sudovest di una linea che va dai Grandi Laghi alla Georgia, e gialli a nordest di tale linea. Si aggiungono così altre due sottospecie, per un totale di sei. Ma, osservando le salamandre con maggiore attenzione, notiamo inoltre che… Eccoci quindi al punto, in questa sorta di esercizio di geometria: quasi tutti i caratteri che presentano variabilità geografica sono anche discordanti. Cambiano secondo i luoghi e le diverse direzioni. Ne segue che le sottospecie vengono riconosciute a seconda dei caratteri che i tassonomisti decidono di studiare. E non solo: quanto più grande è il numero di caratteri analizzati, tanto maggiore è il numero di sottospecie che vengono individuate. L’incertezza dei limiti delle popolazioni, unita alla discordanza dei caratteri, indica che la sottospecie è un’unità tassonomica arbitraria. Tale incertezza si rispecchia nella confusione esistente a proposito delle razze umane. Negli anni passati, gli antropologi si sono affannati invano nel tentativo di definire le razze umane. Le stime circa il loro

numero espresse dai ricercatori negli anni Cinquanta andavano da sei a più di sessanta, numero oscillante proprio per il fatto che Homo sapiens. è una tipica specie in fase evolutiva. Gli antropologi, così come i biologi, hanno in gran parte abbandonato il vecchio concetto di sottospecie a favore di una più comoda descrizione breve, basata su uno o due caratteri, per descrivere una certa parte della popolazione. Per esempio, dicono che «gli uomini dell’Asia settentrionale tendono ad avere una plica palpebrale più pronunciata», sapendo perfettamente che la distribuzione geografica di questo carattere non coincide con quella dei gruppi sanguigni, i quali, a loro volta, non seguono la distribuzione della statura media, dell’intolleranza al lattosio, della sindrome di Tay-Sachs, del colore degli occhi, della struttura dei peli, e di tutta una serie di caratteri discordanti che vengono imposti – o, quanto meno, influenzati – dai circa 200.000 geni sparsi nei 46 cromosomi dell’uomo. Nella ricerca antropologica e biologica, l’enfasi si è spostata dalla descrizione delle sottospecie all’analisi della distribuzione geografica dei singoli caratteri e del loro contributo, da soli o in associazione ad altri, alla sopravvivenza e alla riproduzione. L’atteggiamento critico nei confronti della sottospecie dovrebbe essere accompagnato, per una questione di moderazione, da un invito alla cautela. Per quanto difficili da definire, le popolazioni sono una realtà di fatto. Inoltre, i caratteri genetici sono variabili. Può darsi che sia artificioso suddividere ed etichettare come sottospecie le salamandre dal dorso rosso degli Stati Uniti meridionali, ma ciò non toglie che effettivamente esse differiscano per molti caratteri e che formino un serbatoio di geni unici. Com’è altrettanto vero che alcune popolazioni animali e vegetali a larga diffusione sono isolate e geneticamente diverse quanto basta per comporre sottospecie che possono considerarsi oggettive perfino secondo l’accezione astratta dei manuali universitari. È utile, quindi, denominare formalmente queste popolazioni come sottospecie. A tale scopo, Stephen O’Brien e Ernst Mayr hanno suggerito alcune norme di condotta a uso dei biologi conservazionisti e dei politici. Le sottospecie dovrebbero essere delle unità che occupano un settore particolare dell’area di

distribuzione della specie, e che presentano una storia naturale e dei geni distinti da quelli delle altre sottospecie. Membri di sottospecie diverse possono incrociarsi liberamente. Le sottospecie possono sorgere sia sotto forma di popolazioni che si adattano alle condizioni locali, sia come ibridi tra sottospecie. La delimitazione delle sottospecie – atto burocratico ogni tanto necessario quando, negli Stati Uniti, viene invocato l’Endangered Species Act, o una disposizione equivalente – sarà un’operazione sempre difficile e perfino controversa. L’evoluzione, lo ripetiamo, è un processo disordinato. Il caso della pantera della Florida offre un esempio lampante. Un tempo, la pantera – nota anche come puma, o leone di montagna, o coguaro – si trovava in tutti gli Stati Uniti meridionali. Oggi è ridotta a circa cinquanta individui nel sud della Florida, appartenenti alla sottospecie Felis concolor coryi. Test biochimici hanno evidenziato che questa esigua popolazione deriva da due stirpi: gli ultimi sopravvissuti dei puma, originari del Nordamerica, che vagavano per la Florida, e sette esemplari di origine mista, nordamericana e sudamericana, tolti dalla cattività e liberati nelle Everglades tra il 1957 e il 1967. La popolazione attuale di puma ha, quindi, origini ibride, ma contiene un insieme di geni unico, seppure di origine solo parzialmente nordamericana, e perciò questi felini meritano la protezione riservata agli organismi autoctoni. La natura ambigua della sottospecie in quanto categoria tassonomica introduce nel ragionamento evoluzionistico un interessante dilemma. Dinanzi a noi si snoda una sequenza ideale che inizia con una popolazione isolata geograficamente e ancora identica alle altre appartenenti alla stessa specie. La popolazione evolve poi in una sottospecie, ancora in grado di incrociarsi con le altre popolazioni qualora fosse possibile infrangere la barriera geografica e incontrarsi ai confini dei rispettivi areali di distribuzione. La sottospecie finisce col trasformarsi in una specie vera e propria, al punto che il giorno che dovesse incontrare le altre popolazioni non potrebbe più incrociarsi liberamente con esse. Il dilemma, dunque, si pone nei seguenti termini: come può un’unità arbitraria come la sottospecie, di solito vaga e non definibile mediante un singolo criterio oggettivo,

dare origine alla specie, che è invece una categoria nettamente definita e oggettiva? La soluzione dell’enigma ci insegua moltissimo sull’origine della biodiversità. Per poter compiere un balzo in avanti come specie, alcuni organismi fecondi devono acquisire un’unica differenza interessante, un singolo carattere della loro biologia. Tale differenza, tale meccanismo innato di isolamento, impedirà loro di incrociarsi liberamente con gli altri gruppi. Non importa che il complesso delle popolazioni abbia limiti confusi, e neppure che tutti gli altri caratteri varino alla rinfusa tra le popolazioni che si stanno frammentando in nuove specie. Ciò che conta è che, in un modo o nell’altro, compaia un gruppo di individui i quali, occupando una parte qualunque dell’areale complessivo, producano una sostanza differente per attrarre l’altro sesso, sviluppino una nuova parata nuziale, si riproducano in stagioni diverse, o presentino comunque un qualunque altro carattere ereditario che impedisca loro di incrociarsi liberamente con le altre popolazioni. Quando le cose vanno così, nasce una nuova specie. L’unità realmente obiettiva, il pool genico delle future generazioni, è costituita dal gruppo di singoli organismi che acquistano il carattere responsabile dell’isolamento riproduttivo. Può darsi che questa nuova specie sia definita da un solo, unico carattere di questo tipo. Gli altri caratteri che variano geograficamente – pelosità, colore, capacità di resistenza al freddo, e quant’altro – possono mostrare modalità di variazione geografica diversissime: tanto che esse concordino con il carattere responsabile dell’isolamento, quanto che ne differiscano totalmente, il risultato finale non cambierà. Col passare del tempo, la specie così segregata si evolverà inevitabilmente, differenziandosi sempre di più dalle altre specie, in virtù di una serie di caratteri via via più estesa. Il cambiamento decisivo nel produrre l’isolamento può scaturire addirittura da un’alterazione minima dei geni o dei cromosomi. Alcune specie di lepidotteri della famiglia Tortricidae, per esempio, sono segregate a causa di modificazioni minime nella composizione chimica delle sostanze di richiamo sessuale, e le variazioni che si presentano tra una specie e l’altra sono del genere comunemente

dovuto alla mutazione di un singolo gene. Ma il meccanismo della segregazione può avvenire a un livello ancor più elementare. Alcune specie della famiglia dei Tortricidae. sono separate da un fattore la cui esiguità rasenta il minimo assoluto concepibile: la differenza non risiede tanto nella struttura organica dei componenti chimici (acetati) i quali, miscelati tra loro, formano la sostanza di richiamo, quanto nelle loro percentuali. Le femmine di ciascuna specie emettono un loro delicato e caratteristico profumo, che i maschi degustano prima di decidere, in base a questo solo segnale, se spingersi oltre o ritirarsi. È possibile, almeno in teoria, che un gran numero di specie di Tortricidae. compaia in breve tempo grazie a modificazioni geniche di minore entità che alterano o la composizione chimica o la composizione percentuale delle sostanze di richiamo sessuale. Alla speciazione geografica si aggiunge in natura un vasto assortimento di altri meccanismi. Quello documentato meglio è la poliploidia, cioè un aumento nel numero di cromosomi. Più precisamente, si definiscono poliploidi gli individui le cui cellule sono dotate, rispetto a quelle dell’individuo normale, di un numero doppio di cromosomi, o triplo, o quadruplo, o comunque multiplo intero. La poliploidia ha un effetto praticamente istantaneo, nel senso che può isolare nel giro di una generazione un gruppo di individui dai suoi antenati. Tale isolamento fulmineo è causato dall’incapacità degli ibridi, derivati dall’incrocio tra poliploidi e non poliploidi, di svilupparsi in maniera normale, oppure, quand’anche tale sviluppo avvenga, di riprodursi. La poliploidia sta all’origine di quasi la metà delle odierne specie di piante angiosperme ma anche di una schiera, sebbene più esigua, di specie animali. La premessa per il processo di speciazione poliploide consiste nel passaggio di tutte le specie che si riproducono per via sessuale attraverso un ciclo vitale a due stadi. Durante il primo, la fase aploide, all’interno di ogni cellula il corredo cromosomico è presente in un’unica copia. A questa fase segue quella diploide, con due serie di cromosomi all’interno di ogni cellula. La fase diploide ha termine con la riduzione dei cromosomi a una sola serie, vale a dire con il

ritorno alla fase aploide, e così via. La fase aploide comprende gli spermatozoi e gli ovuli, ciascuno dei quali è un minuscolo organismo dotato di un singolo corredo di cromosomi. Nelle piante superiori e negli animali, la fase aploide coincide esclusivamente con questo breve periodo. Quando uno spermatozoo e un ovulo si uniscono, il numero di cromosomi raddoppia e quindi comincia la fase diploide. I due minuscoli organismi si fondono in uno, capace di svilupparsi in un individuo di grosse dimensioni costituito da miliardi di cellule diploidi. Le cellule riproduttive umane possiedono un corredo aploide di 23 cromosomi; il numero diploide, ricostituito in seguito alla fecondazione e riscontrabile negli altri tessuti, è perciò di 46. Se, per una ragione qualunque, il numero normale di cromosomi si triplica, dando vita a un organismo triploide (nel qual caso un essere umano avrebbe 69 cromosomi), questi andrà necessariamente incontro a grandi difficoltà, che probabilmente cominceranno fin dalla fase embrionale e proseguiranno nella vita adulta. La sindrome di Down è solo uno dei molti difetti dovuti a triplette cromosomiche: nella fattispecie, a comparire in tre copie è il cromosoma 21 (così chiamato dai biologi che, per praticità, hanno assegnato un numero a ciascuna delle 23 coppie). Quando un individuo triploide comincia a produrre cellule germinali, incontra delle difficoltà. Invece, quando l’organismo vegetale o animale è normale, cioè diploide, i due cromosomi di ciascuna coppia possono effettuare con relativa facilità quel processo che, noto come meiosi, consiste appunto nella riduzione a un numero aploide di cromosomi. Durante la prima divisione cellulare meiotica, quando si verifica la riduzione, i due cromosomi omologhi si appaiano (negli esseri umani, per esempio, i cromosomi formano 23 coppie), e poi si riseparano finendo in cellule diverse, che vengono in tal modo a possedere un numero aploide di cromosomi. Negli individui triploidi, durante le fasi di accoppiamento e separazione, i tre cromosomi rimangono aggrovigliati (esagerando un po’, si potrebbe dire che c’è un affollamento), e accade allora che la meiosi non vada a buon fine, oppure che venga prodotto un gran numero di cellule germinali anormali.

I triploidi svolgono un ruolo cardine nell’isolamento delle specie per poliploidia semplicemente perché sono il risultato non modificabile che si ha quando gli organismi poliploidi tentano d’incrociarsi con i loro parenti diploidi. Ricapitolando, il processo di speciazione per poliploidia si svolge come segue: • Si parte da un individuo vegetale poliploide nato all’interno di una popolazione di individui diploidi. Generalmente, si tratta di un tetraploide, cioè un individuo in cui il normale numero diploide di cromosomi si è accidentalmente raddoppiato durante le fasi precoci dello sviluppo embrionale. Pertanto, nelle cellule normali di questo individuo ci saranno quattro copie di un dato cromosoma invece delle solite due, e, di conseguenza, la pianta tetraploide – cioè la specie nuova – avrà nelle cellule germinali due cromosomi per coppia anziché il solito cromosoma singolo. • Supponiamo che i vegetali della specie originaria abbiano 10 cromosomi nelle cellule normali, e 5 nelle cellule germinali. Le piante poliploidi ne avranno allora, rispettivamente, 20 e 10. Gli individui diploidi della specie originaria possono incrociarsi tra loro, mentre i triploidi e i tetraploidi possono incrociarsi con altri individui poliploidi. • Alcuni diploidi si incrociano con alcuni tetraploidi, e ne nascono degli ibridi. Quando una cellula riproduttiva normale (con 5 cromosomi) si fonde con una cellula poliploide (10 cromosomi), ne risulta un ibrido triploide (15 cromosomi), il quale, probabilmente, manifesterà dei problemi durante la crescita. E, anche se riuscirà a raggiungere la maturità sessuale, non potrà creare cellule riproduttive normali, cioè sarà sterile. Il progenitore diploide e la progenie poliploide sono isolati dal punto di vista riproduttivo, e pertanto quest’ultimo costituirà una nuova specie, creatasi nel giro di una generazione.

La poliploidia può portare a nuove specie anche grazie a un secondo e ancor più originale congegno, e cioè mediante la moltiplicazione di cromosomi nelle cellule di ibridi di due specie già esistenti. Di norma, gli ibridi di molte specie vegetali sono sterili, anche quando hanno lo stesso numero di cromosomi e la loro crescita non incontra ostacoli fino al periodo della fioritura. La causa della sterilità risiede nell’incompatibilità fra cromosomi parentali durante la formazione delle cellule germinali. Chiamiamo A e B le due specie che si ibridano. Quando un cromosoma della specie A cerca di allinearsi con la controparte della specie B – procedura consueta durante la produzione di cellule germinali per dare adito a uno scambio di gruppi di geni – i due cromosomi A e B sono troppo diversi fra loro perché possano portare a buon fine tale manovra. L’uscita dal vicolo cieco sta nel raddoppiare, nell’ibrido, il numero di cromosomi. Dopo di che, durante la produzione di cellule germinali, ciascun cromosoma A potrà appaiarsi con un identico cromosoma A, e ciascun B con un altro B. A questo punto, l’ibrido poliploide sarà diventato fertile: potrà incrociarsi con altri ibridi poliploidi dello stesso tipo, ma non con i genitori diploidi da cui è derivato. Di tanto in tanto, in natura si verificano spontaneamente ibridazioni, accompagnate da un raddoppiamento di questo genere. Anche in laboratorio o in giardino si possono creare nuove specie a partire dalle vecchie servendosi di questa tecnica alla Frankenstein. L’esempio più famoso è costituito dall’ibrido poliploide ottenuto dal rafano (Raphanus sativus.) e dal cavolo (Brassica oleracea.), due membri geneticamente simili ma riproduttivamente isolati della famiglia delle Brassicaceae. Entrambe le specie possiedono 9 cromosomi nelle cellule germinali e 18 in quelle diploidi somatiche. L’ibrido rafano-cavolo può essere facilmente prodotto mediante incrocio. Anch’esso possiede 18 cromosomi nelle cellule diploidi, avendone ricevuti 9 da ciascun genitore. Ma i due gruppi di 9 non possono completare la formazione di cellule germinali durante la divisione meiotica riduttiva; un difetto, questo, che rende sterili gli ibridi. Quando i cromosomi degli ibridi raddoppiano, portando il numero diploide a 36, le piante diventano fertili. Ora, infatti, ciascun

cromosoma del rafano e ogni cromosoma del cavolo possiedono un’esatta controparte con la quale appaiarsi, e quindi la produzione di cellule germinali può procedere normalmente. Il rafavolo o cavafano (Raphanobrassica.) – comunque lo si voglia chiamare – è in grado di autosostentarsi come specie, e non può essere più incrociato con alcuna delle specie genitrici. Nonostante la poliploidia abbia un ruolo evidente nel processo di diversificazione delle specie vegetali, essa, tra gli organismi viventi nel loro complesso, non costituisce necessariamente il metodo veloce più diffuso. Ne esiste un altro, forse ancor più comune e non basato sulla poliploidia, chiamato speciazione simpatrica. Il termine significa che una nuova specie sorge nello stesso luogo di residenza di quella genitrice (simpatrica letteralmente significa «dello stesso paese»). Si oppone, quindi, alla speciazione geografica, altrimenti detta allopatrica. (di «paesi diversi») basata sulla formazione della nuova specie in un altro luogo, separato da una barriera fisica. La speciazione mediante poliploidia è simpatrica perché la nuova forma poliploide scaturisce sotto forma di alcuni individui, nel corso di una singola generazione, a partire da individui diploidi. La speciazione simpatrica non-poliploide è, appunto, simpatrica in altro modo. Il più documentato e meglio teorizzato processo di speciazione di questa categoria è quello basato sulle cosiddette razze legate all’ospite, fasi intermedie costituite da insetti che si nutrono di piante. Qui di seguito elenco i momenti chiave così come sono stati suggeriti da Guy Bush e altri ricercatori che, in anni recenti, hanno messo a punto la teoria e l’hanno sottoposta a vaglio: • I membri della specie progenitrice vivono e si accoppiano solo su un certo tipo di pianta. Questo grado di specificità, diffuso tra gli insetti, potrebbe caratterizzare milioni di specie di insetti parassiti e fitofagi, e, come loro, tanti altri piccoli organismi che trascorrono tutta la vita, o gran parte di essa, su una sola pianta.

• A un certo punto, alcuni individui di una specie si trasferiscono su un altro tipo di pianta, sulla quale cominciano a nutrirsi e a riprodursi. La nuova specie vegetale ospite cresce nelle vicinanze di quella precedente, e la vicinanza è tale che singoli individui delle due specie possono addirittura mescolarsi. Allo spostamento degli insetti può accompagnarsi un mutamento genetico tale da far preferire loro la nuova specie vegetale, migliorando la loro possibilità di sopravvivere su di essa. In seguito, gli insetti così evolutisi cercheranno sempre di disperdersi, di pianta in pianta, sulla nuova specie ospite. • Quando l’evoluzione del nuovo ceppo d’insetti progredisce a sufficienza perché essi si stabiliscano saldamente sull’ospite di adozione, ma non abbastanza da isolarli riproduttivamente in modo completo dal vecchio ceppo, ci troviamo per definizione di fronte a una razza legata all’ospite. Qualora essa si differenzi ulteriormente, fino a impedire ogni possibilità di incrocio, diventerà allora una specie vera e propria. Le razze legate all’ospite si formano ed evolvono poi al rango di specie nel giro di poche generazioni. Per esempio, pare proprio che alcuni ditteri tripetidi del genere Rhagoletis. compiano la trasformazione con tale velocità. Nell’America settentrionale è accaduto che alcune specie infestanti del biancospino si siano a volte diffuse agli alberi da frutta. I moscerini colonizzatori tendono a dare origine a razze legate all’ospite poiché si riproducono solo quando i frutti dell’ospite sono disponibili, il che accade, a seconda della specie arborea, in periodi diversi della stagione della crescita. Nel 1864, Rhagoletis pomonella, che vive sui biancospini indigeni, invase le piantagioni di meli della valle del fiume Hudson e da lì si diffuse in gran parte delle regioni nordamericane coltivate a melo. Un’altra razza legata all’ospite, appartenente alla specie R. pomonella, durante gli anni Sessanta di questo secolo colonizzò i ciliegi della contea di Door, nel Wisconsin. Le tre razze sono parzialmente separate dalla stagione in cui maturano i frutti dei loro ospiti, dalla primavera

all’estate, nell’ordine seguente: ciliegi, meli, biancospini. In termini di tempo geologico, la speciazione di tipo simpatrico avviene in un batter d’occhio; a essa si può attribuire sia la creazione di molti insetti e invertebrati specializzatisi verso specie particolari di vegetali, sia la proliferazione di specie parassite che trascorrono tutta o quasi la loro vita su un tipo di ospite animale. La teoria sembra valida, ma la sua completa veridicità non è che una congettura, non solo in quanto è difficile osservare i primi stadi del fenomeno, ma anche perché finora sono stati avviati pochi studi sugli invertebrati interessati. Se i moscerini del genere Rhagoletis. ricevono un’attenzione particolare, ciò è dovuto al danno economico che infliggono all’agricoltura. Concludendo, le specie possono nascere molto in fretta e, quindi, la diversità può espandersi in modo esplosivo. Per quanto imperfetta, la nostra conoscenza del fenomeno evolutivo può se non altro spiegare perché la vita abbia tale potenziale. Se le condizioni sono favorevoli, una nuova specie può scaturire nel giro di poche generazioni, se non addirittura di una sola. Questa visione dell’origine della diversità solleva una questione problematica con implicazioni di carattere etico: se l’evoluzione può aver luogo con rapidità, e il numero di specie può essere ricostituito velocemente, perché mai dovremmo preoccuparci della loro estinzione? La risposta è che le specie nuove sono di solito specie di scarso valore, forse molto diverse esternamente, ma geneticamente simili alle forme genitrici e alle specie sorelle che le circondano. Qualora vadano a occupare una nuova nicchia, è probabile che vi arrivino con un certo grado di inefficienza poiché non sono ancora state messe a punto dal grande numero di mutazioni e dalla selezione naturale necessaria per inserirle stabilmente nella biocenosi, cioè nella comunità di organismi tra le quali sono nate. Spesso le coppie di specie sorelle di nuova creazione si assomigliano a tal punto nella dieta, nella preferenza per i luoghi di nidificazione, nella sensibilità verso certi agenti patogeni, e per tanti altri caratteri biologici da non poter coesistere. Anzi, accade addirittura che ciascuna delle due

cerchi di estromettere l’altra mediante la competizione. Esse andranno allora a occupare areali differenti e di conseguenza le biocenosi indigene finiranno col ritrovarsi impoverite della loro presenza. Perché la diversificazione biologica abbia ampio respiro, sono necessari lunghi periodi di tempo, su scala geologica, nonché l’accumulo di grandi riserve di geni unici. Gli ecosistemi più ricchi si sono costituiti con lentezza nel corso di milioni di anni. Inoltre, solo casualmente alcune specie sono in condizione di trasferirsi in zone nelle quali è necessario un adattamento a situazioni inusuali; un adattamento, tra l’altro, tale da produrre un fatto spettacolare e da ampliare i confini della diversità. I panda o le sequoie sono espressione di un’ampiezza evolutiva che si verifica solo di rado. Sono necessari un colpo di fortuna, un lungo periodo di tentativi, di sperimentazione, e di errori. Una simile creazione è parte della storia che fu. Al pianeta mancano i mezzi, e a noi difetta il tempo, per poterla vedere ripetuta.

6 Le forze dell’evoluzione

Che cosa dà impulso all’evoluzione? A questa domanda ha risposto dapprima Darwin, in via generale, e poi i biologi del nostro secolo, i quali, delineandola meglio, hanno elaborato quella sintesi – nota come neodarwinismo – con cui conviviamo pur senza un generale consenso. Rispondere in termini moderni alla domanda significa abbandonare il livello della specie e della sottospecie per scendere a quello dei geni e dei cromosomi, e di lì alle sorgenti estreme della diversità biologica. L’evento fondamentale dell’evoluzione sta nel cambiamento della frequenza dei geni e degli assetti cromosomici di una data popolazione. Quando in una popolazione di farfalle il colore blu delle ali è ereditario e la percentuale di individui blu varia, nel tempo, dal 40 al 60 per cento, siamo in presenza di un tipo di evoluzione semplice. Quando molti di questi mutamenti di tipo statistico si verificano in gran numero e si combinano tra loro, ne risultano trasformazioni più estese. I cambiamenti possono verificarsi soltanto a livello genico, senza effetto alcuno sul colore delle ali o su qualunque altro carattere esterno. Ma qualunque sia la natura o l’ordine di grandezza dei mutamenti in corso, essi sono sempre esprimibili in termini di percentuale di individui all’interno di una popolazione o tra popolazioni. L’evoluzione è un fenomeno strettamente connesso alle popolazioni, infatti, non sono i singoli individui e i loro discendenti più prossimi a evolvere, bensì le popolazioni, nel senso che in esse cambia, nel corso del tempo, la percentuale dei portatori di geni diversi. Questo concetto di evoluzione come fenomeno a livello di popolazione deriva ineluttabilmente dall’idea di selezione naturale, nocciolo del darwinismo. Le cause dell’evoluzione vanno ricercate anche altrove, ma la selezione naturale è di gran lunga la

più importante. L’evoluzione per selezione naturale, così come la concepiamo oggi, è un ciclo continuo che può essere interrotto solo dalla morte dell’intera popolazione. Il punto di partenza sta nell’origine della variazione mediante mutazione: mutazione casuale della struttura chimica dei geni, o della posizione dei geni all’interno dei cromosomi, o del numero dei cromosomi stessi. I geni sono segmenti di Dna che determinano sia caratteri esterni semplici, come il colore delle ali, sia caratteri complessi, come la capacità di volare. Ciascun gene è composto da coppie di nucleotidi – anche diverse migliaia – che sono una sorta di «lettere» genetiche. Tre coppie di nucleotidi in fila codificano un aminoacido. Gli aminoacidi, a loro volta, vengono assemblati a formare le molecole proteiche; le proteine sono i mattoni delle cellule, e le cellule quelli degli interi organismi. In un organismo di grandi dimensioni, qual è per esempio l’essere umano, il numero di geni è nell’ordine di 100.000. La variazione di caratteri quantitativi, quali ad esempio il periodo di fioritura delle piante, la dimensione dei frutti, il diametro degli occhi di un pesce, il colore della pelle degli esseri umani, è influenzata da almeno cinque geni localizzati in posizioni diverse sui cromosomi. Caratteri più complessi, come la struttura dell’orecchio o quella della pelle, richiedono il lavoro coordinato di almeno cento geni. La traduzione del codice nucleotidico nell’insieme delle caratteristiche di una specie si attua attraverso un gran numero di passaggi a livello molecolare. La sequenza precisa conduce dalle triplette nucleotidiche del Dna – le sue «lettere» – all’Rna messaggero, e da questo all’Rna di trasporto e poi agli aminoacidi; a loro volta, gli aminoacidi si legano assieme a formare proteine, alcune delle quali vanno a costituire le strutture cellulari, altre gli enzimi; questi, in parte catalizzano la costruzione stessa delle cellule, in parte ne accelerano il metabolismo; infine, l’intero insieme autorganizzato proietta verso il mondo quelle proprietà anatomiche, fisiologiche e comportamentali grazie alle quali l’organismo può vivere o perire, riprodursi o essere sterile.

Il tipo di mutazione più comune e più semplice è costituito da un’alterazione nella struttura chimica di un gene, e più precisamente dalla sostituzione casuale di una coppia di nucleotidi con un’altra. L’anemia falciforme, che colpisce gli esseri umani, è uno degli esempi più studiati di questo tipo di evoluzione a livello molecolare. Causata dall’alterazione di un singolo gene, questa condizione interessa una persona su 100.000 a ogni generazione. Quando è presente in duplice copia (e quindi non bilanciato in ogni cellula da una controparte normale), il gene mutante produce anemia conclamata. Si tenga presente che ogni cellula contiene due cromosomi di uno stesso tipo, e che, quindi, esistono due siti nei quali può essere localizzato o il gene normale, o il gene della falcemia. Il gene falcemico induce una modificazione chimica delle molecole di emoglobina le quali pertanto, in corrispondenza di un abbassamento del livello d’ossigeno nel sangue, cristallizzano in forma allungata. L’emoglobina è trasportata dai globuli rossi che, di solito, hanno una forma discoidale depressa al centro. Via via che le molecole di emoglobina si allungano, stirano i globuli rossi incurvandoli a forma di falce. Questa deformazione fa sì che le cellule ostruiscano i vasi sanguigni di minor calibro in ogni distretto corporeo, rallentando la circolazione a valle e quindi producendo un’ischemia, vale a dire un’anemia localizzata. Nonostante il suo effetto debilitante, in alcune popolazioni il gene mutante per la falcemia si è ampiamente diffuso. I biologi sono riusciti a mettere assieme, ricostruendola pezzo per pezzo, l’intera sequenza di questo breve tratto di evoluzione umana, passando dal livello della chimica dei geni a quello dell’ecologia. La mutazione che ha prodotto la falcemia fu dovuta alla sostituzione casuale di una coppia di nucleotidi con un’altra coppia in corrispondenza di una delle posizioni nucleotidiche sul miliardo di quelle possibili che si dipanano lungo i 46 cromosomi umani. La sostituzione di una lettera a livello genico si traduce nella sostituzione di un aminoacido con un altro (valina al posto dell’acido glutammico) in due punti della molecola di emoglobina su un totale di 574, tanti quanti sono gli aminoacidi che la costituiscono.

Dopo che l’emoglobina ha ceduto l’ossigeno ai tessuti circostanti, le sue molecole, a causa della sostituzione dell’acido glutammico con la valina, si allineano a formare lunghi fusi, e tale riallineamento induce una deformazione dei globuli rossi che da discoidali diventano falciformi. Se il gene è presente in doppia copia, la falcemia colpisce più di un terzo delle cellule, e si ha allora uno stato di grave anemia. Se invece il gene è in copia singola, le cellule falcemiche si riducono a meno dell’1 per cento e determinano solo una lieve manifestazione patologica. Comunque sia, e questo è il fatto degno di nota, il portatore di uno o due geni falcemici risulta protetto dalla malaria terzana maligna, malattia mortale causata da Plasmodium falciparum, un parassita dall’aspetto ameboide che invade i globuli rossi e li distrugge. Ebbene, l’emoglobina falciforme è meno vulnerabile all’invasione di Plasmodium. Grazie alla resistenza che conferisce al portatore, la presenza di una copia singola di geni per la falcemia – vale a dire un gene per cellula – costituisce in ultima analisi un vantaggio in quelle parti del mondo in cui la malaria terzana maligna è diffusa. Ancora in tempi storici recenti, l’area a rischio comprendeva l’Africa tropicale, il Mediterraneo orientale, la Penisola Arabica e l’India; in gran parte di tali zone, la selezione naturale aveva favorito il gene falcemico al punto che la sua frequenza, comunemente attorno al 5 per cento, saliva fino al 20 per cento in alcune regioni del Mozambico, della Tanzania e dell’Uganda. La selezione naturale è equilibrata: quando il gene falcemico diviene più diffuso, un numero maggiore di persone lo eredita in duplice copia, e quindi muore di anemia ereditaria. Viceversa, quanto più esso diventa raro, tante più persone muoiono di malaria, sorta di anemia indotta da parassiti. Nel corso dei secoli, le percentuali del gene riscontrate in Africa e altrove hanno fluttuato a seconda della frequenza con la quale esso si imbatteva nella malaria terzana maligna.

Ciclo vitale e pool genico. Gli organismi diploidi, costituiti di cellule nelle quali ogni gene è presente in duplice copia, producono le cellule germinali, che invece contengono un’unica

copia per ciascun gene. Le cellule germinali, e cioè gli spermatozoi e le uova, rappresentano la generazione aploide del ciclo. Gli spermatozoi si uniscono poi alle uova per formare la

successiva generazione di individui diploidi. In tal modo i geni di una popolazione – indicati collettivamente come pool genico – si separano e si ricombinano ripetutamente per creare

nuove configurazioni sulle quali possa agire la selezione naturale. (L’animale rappresentato

nel disegno è un roditore simile a un criceto appartenente ad una specie minacciata che vive

negli ambienti acquitrinosi salmastri della California.)

Della moltitudine di mutazioni genetiche e di ricombinazioni cromosomiche che si verificano in una popolazione a ogni generazione, una parte considerevole è di così scarsa entità da risultare neutra in quanto a efficacia, mancando sia di favorirne, sia di ostacolarne la sopravvivenza e la riproduzione. O, se anche qualche effetto lo produce, esso influenzerà caratteri quantitativi come la statura e la longevità, aumentandole o diminuendole attraverso vie difficili da scoprire. La stragrande maggioranza di quei cambiamenti genetici i cui effetti sono sufficientemente ampi da essere facilmente rilevabili è anche dannosa. Per definizione, la selezione naturale li ostacola, e quindi tali difetti si riscontrano di rado. Negli esseri umani, questi difetti genetici vengono definiti malattie genetiche. Esse comprendono il mongolismo o sindrome di Down, il morbo di TaySachs, la fibrosi cistica, l’emofilia, la falcemia, e migliaia di altre anomalie. Viceversa, quando emerge una nuova combinazione di alleli preesistenti rari (gli alleli sono forme diverse dello stesso gene), oppure quando compaiono alleli mutanti che comportano un vantaggio rispetto al comune allele «normale», essi tendono a diffondersi nella popolazione nel corso di molte generazioni, diventando, col tempo, la nuova norma genetica. Se la specie umana dovesse trasferirsi in un tipo d’ambiente nuovo che conferisse all’emoglobina falciforme un vantaggio darwiniano non più solo parziale ma totale, sull’emoglobina normale, allora, nel corso del tempo, il carattere falciforme diverrebbe predominante, tanto da assurgere a norma. La falcemia imprime al nostro ragionamento una svolta morale che merita un momento di riflessione. Essa ci ricorda che la selezione naturale è, da un punto di vista etico, neutrale. L’anemia dovuta alla malaria viene bilanciata dall’anemia ereditaria mediante l’azione inconsapevole della sopravvivenza differenziata: chi muore di malaria è vittima di un ambiente ostile; chi, invece, muore per la presenza dei geni falcemici in duplice copia è una specie di rottame darwiniano scartato in quanto sottoprodotto fortuito di una mutazione casuale. In

questo secondo caso, però, la tragedia di tale fatalità ereditaria si ripete senza sosta e con grande frequenza perché la selezione naturale non è orientata in una determinata direzione ma è, piuttosto, bilanciata. Non è imposta da alcun dio, e neppure ne deriva precetto morale alcuno. Semplicemente, in alcune aree del mondo, il gene per la falcemia è comune perché la molecola di emoglobina sconfigge – peraltro in modo inefficace – un parassita tramite una delle sue forme mutanti disponibili. Il processo evolutivo per selezione naturale può essere riassunto come segue: sostituzioni casuali di nucleotidi all’interno dei geni determinano mutazioni corrispondenti nell’anatomia, nella fisiologia, e nel comportamento. Questo processo dissemina nella popolazione le diverse forme del gene in tal modo prodotte. La mutazione genetica può anche essere avviata dal cambiamento di posizione dei geni all’interno dei cromosomi, oppure dall’aumento – o diminuzione – del numero di cromosomi e, di conseguenza, di geni. Nel linguaggio dei biologi, si dice che una di queste forme di mutazione ha alterato il genotipo, e che tale alterazione si manifesta poi in un nuovo fenotipo. I nuovi fenotipi, vale a dire i nuovi caratteri anatomici, fisiologici, o comportamentali, esercitano solitamente un certo influsso sulla capacità di sopravvivere e di riprodursi. Se l’influsso è favorevole, se i nuovi caratteri determinano tassi più alti di sopravvivenza e di riproduzione, i geni mutanti da cui essi dipendono cominciano a diffondersi in tutta la popolazione. Se il loro effetto è invece sfavorevole, i geni diventano meno frequenti, a volte scomparendo del tutto. È facile comprendere come mai il darwinismo sia l’idea più geniale e, contemporaneamente, la più semplice del diciannovesimo secolo. La sua forza deriva dal fatto che la selezione naturale è proteiforme: in alcuni casi è letale, mediata dalla predazione, dalle malattie, dall’inedia; in altri casi, cioè quando deriva da differenze nelle dimensioni della famiglia senza aumentarne minimamente la mortalità, è benigna. I prodotti della selezione variano, per importanza, dalla determinazione del numero di peli dell’ala di una mosca alla creazione del cervello umano. Come Proteo, l’antica

divinità, anche la selezione può assumere infinite forme, e pertanto trabocca di informazioni sulla Natura realizzata. La selezione naturale possiede queste proprietà quasi magiche perché, in un certo senso, è una creazione del nostro linguaggio. Essa non è altro che una metafora esplicita delle differenze nella capacità di sopravvivere e di riprodursi esistenti tra genotipi, differenze che derivano dagli effetti dei genotipi stessi sugli organismi. Ma ciò che essa rappresenta è una realtà concreta e anche molto potente. Come ebbe a dire una volta l’ecologo G. Evelyn Hutchinson, l’ambiente è il teatro, l’evoluzione il dramma che vi si rappresenta. Ma c’è di più, se la prescrizione genetica del processo di sviluppo è il linguaggio, allora la mutazione ne inventa le parole, benché lo faccia come un idiota che blateri discorsi sconclusionati. Infine, la selezione naturale è una sorta di curatrice del testo, nonché la sua principale forza creativa ispiratrice. Non guidata da alcuna visione, non diretta verso alcuno scopo remoto, l’evoluzione si compone da sé, parola dopo parola, per soddisfare solo le esigenze di una o due generazioni per volta. L’evoluzione è resa ancor più cieca dal fatto che la frequenza dei geni e dei cromosomi può essere modificata dal caso puro e semplice. Tale processo, chiamato deriva genetica, è un’alternativa alla selezione naturale che si verifica con grande rapidità nelle popolazioni molto piccole. La sua velocità è massima quando i geni hanno effetti neutri, vale a dire quando influenzano poco o nulla il livello di sopravvivenza e la riproduzione. La deriva genetica è come un gioco d’azzardo. Supponiamo che una data popolazione contenga, in una particolare posizione su un certo cromosoma, il 50 per cento di geni A e il 50 per cento di geni B, e che, a ogni generazione, essa si riproduca trasmettendo alla generazione successiva geni A e B a caso. Supponiamo, inoltre, che la popolazione consti di solo cinque individui, per un totale di 10 geni nel sito cromosomico in esame. Estraiamo ora 10 geni per costituire la generazione successiva: le coppie di adulti da cui tali 10 geni derivano potranno essere una sola, ma anche di più, ad esempio cinque. La nuova popolazione potrebbe quindi ritrovarsi esattamente con 5 geni A e 5 B, in conformità con la

popolazione genitrice; ma, in un campione così piccolo, sarà molto più probabile che il risultato sia invece 6 geni A e 4 B, o 3 A e 7 B, o un’altra combinazione ancora. Ciò significa che nelle popolazioni molto piccole le percentuali di alleli possono cambiare in modo significativo, nel corso di una generazione, ad opera del caso puro e semplice. Questa, in poche parole, è la deriva genetica, sulla quale i matematici hanno pubblicato interi volumi di calcoli sofisticati e di solito incomprensibili. Ma andiamo avanti. La dimensione della popolazione è un dato critico per la deriva genetica. Se la popolazione fosse costituita da 500.000 individui con 500.000 geni A e 500.000 geni B, il quadro potrebbe essere completamente diverso. Nell’ambito di numeri così grandi, e anche supponendo che si riproduca solo un’infima parte degli individui – diciamo, l’1 per cento – il campione di geni estratto dal totale resterebbe molto prossimo al 50 per cento di tipo A e al 50 per cento di tipo B a ogni generazione. All’interno di popolazioni così vaste, quindi, la deriva genetica non è che un fattore evolutivo d’importanza secondaria, nel senso che è debole rispetto alla selezione naturale. Infatti, quanto più quest’ultima è forte, tanto più velocemente verrà bilanciata la perturbazione causata dalla deriva. Qualora la deriva portasse ad un’elevata percentuale di geni B, ma gli A fossero di natura superiore, la selezione tenderebbe a ridurre la frequenza dei geni B. Una variante della deriva genetica degna di nota è rappresentata dal cosiddetto principio del fondatore, il quale, a detta di alcuni biologi dell’evoluzione, accelererebbe la formazione di nuove specie. Supponiamo di essere partiti con la stessa ampia popolazione contenente una miscela di alleli A e B, che supporremo per semplicità essere presenti in ragione del 50 per cento ciascuno. Immaginiamo che un gruppo ristretto di individui sia confinato su un’isola al largo dell’oceano, oppure in qualche altra località remota in precedenza non occupata dalla specie; poniamo che si tratti di una coppia di uccelli volata nella nuova località. Quattro, perciò, sono i geni da loro complessivamente posseduti in ciascun sito cromosomico, incluso quello che ospita gli alleli A e B. Per puro caso, la popolazione

fondatrice potrebbe contenere 2 A e 2 B, rispettando le percentuali della popolazione ancestrale; ma ci sono anche ottime probabilità che contengano 3 A e 1 B, oppure A e 3 B, o ancora solo A o solo B. In altri termini, poiché è molto probabile che le popolazioni fondatrici siano di dimensioni esigue, è altrettanto probabile che esse differiscano geneticamente dalla popolazione genitrice per puro effetto del caso. Tale differenza iniziale, unita all’isolamento geografico e alle esigenze dettate da un ambiente nuovo e diverso, può spingere le popolazioni verso nuovi modi di vita, nuovi spazi adattativi. Può anche condurle più velocemente alla formazione di barriere riproduttive e allo status di vere e proprie specie. Tre caratteristiche dell’evoluzione si sono alleate per conferirle un grande potenziale di creatività. La prima è data dall’ampia gamma di mutazioni, quali le sostituzioni di coppie di nucleotidi, il cambiamento di posizione dei geni sui cromosomi, il cambiamento nel numero di cromosomi e la traslocazione di loro pezzi. Le popolazioni sono tutte esposte a una pioggia continua di questi nuovi tipi genetici, che mettono alla prova i precedenti. La seconda fonte di creatività evolutiva risiede nella velocità con cui la selezione naturale può operare. Per trasformare una specie, alla selezione non occorrono ere geologiche della durata di migliaia di milioni di anni. Ciò si può comprendere meglio ricorrendo ad alcuni esempi espliciti tratti dalla teoria della genetica delle popolazioni. Prendiamo in considerazione un gene dominante, vale a dire un gene la cui espressione sovrasta quella dei geni recessivi presenti nello stesso sito cromosomico. Per esempio, il gene che codifica per la normale coagulazione del sangue è dominante su quello dell’emofilia; altrettanto vale per il gene che determina la capacità di arrotolare la lingua a forma di tubo, dominante rispetto a quello che determina invece la mancanza di tale capacità. Quando all’interno della stessa cellula sono presenti contemporaneamente un gene dominante e uno recessivo – combinazione definita condizione eterozigote. – nel fenotipo viene espresso il carattere dominante. Il gene recessivo, invece, viene espresso fenotipicamente solo quando è da solo, o, per essere più precisi, quando – nella cosiddetta condizione omozigote. – esso è

presente in duplice copia. Un gene dominante, il cui fenotipo goda di un vantaggio del 40 per cento, in termini riproduttivi o di sopravvivenza, sul corrispondente gene recessivo, può tranquillamente sostituire quest’ultimo all’interno della popolazione nel giro di venti generazioni, passando, nel frattempo, da una frequenza del 5 per cento a una dell’80 per cento. Nel caso degli esseri umani, venti generazioni corrispondono ad appena quattrocento, cinquecento anni, nel caso dei cani a quarant’anni e in quello dei moscerini della frutta a un anno. Invece, un gene recessivo in grado di conferire un vantaggio di pari livello ha bisogno di sessanta generazioni per compiere lo stesso cammino, ma anche in questo caso si tratta di un periodo molto breve, se misurato su scala geologica. Se la dominanza è incompleta (e cioè nel caso in cui, se presenti assieme, i geni vengano espressi entrambi), e qualora il vantaggio conferito dal gene vincente sia totale, allora – per lo meno in teoria e nelle popolazioni di laboratorio – il cambiamento può aver luogo nel giro di una sola generazione. La terza e ultima caratteristica creativa della selezione naturale sta nella sua capacità di assemblare strutture e processi fisiologici nuovi e complessi, compresi nuovi moduli comportamentali, senza che vi siano alle loro spalle progetti o forze se non quelle derivate dalla stessa selezione naturale operante sulle mutazioni casuali. Questo è un punto chiave che è sfuggito ai creazionisti e a tutti quei critici della teoria evoluzionista che amano controbattere sostenendo che la probabilità di formazione di un occhio, di una mano, o addirittura della vita stessa per mutazione genetica è infinitesima, per non dire nulla. Ma il seguente esperimento ideale dimostra che è vero il contrario. Supponiamo che dal verificarsi di due mutazioni C e D in siti cromosomici diversi emerga simultaneamente un nuovo carattere, e che la probabilità che si verifichi C sia, per ciascun organismo, una su un milione – e cioè 10−6, un tasso di mutazione tipico – e che lo stesso valga per D. La possibilità che C e D si verifichino nello stesso individuo è allora una su mille miliardi (10−6×10−6=10−12), il che significherebbe, come hanno fatto notare i detrattori, la quasi certa impossibilità dell’evento. Ma la selezione naturale può sovvertire il

processo. Se C, preso da solo, è in grado di garantire un pur minimo vantaggio, diverrà il gene più frequente in quel particolare sito cromosomico della popolazione. A questo punto, la probabilità della comparsa della combinazione CD diventa una su un milione. In popolazioni animali o vegetali di medie o grandi dimensioni, formate spesso da più di un milione di individui, la conversione a CD è di fatto una certezza.

Due maschi di cervo volante (Lucanus cervus) si accingono al combattimento. La differenza

del loro aspetto è dovuta all’allometria, e cioè alla crescita più rapida di certe parti del corpo rispetto ad altre. In questa specie la testa e le mandibole crescono più velocemente, e

pertanto il maschio più grosso è dotato di mezzi offensivi di gran lunga più efficaci rispetto a quelli del suo rivale più piccolo.

Il nuovo quadro dell’evoluzione a livello del gene ha alterato la nostra concezione sia della natura della vita, sia del posto occupato dagli esseri umani in natura. Prima di Darwin era costume servirsi della grande complessità degli organismi viventi come prova dell’esistenza di Dio. L’esposizione più famosa di questa «argomentazione fondata sull’intenzionalità» ci viene dal reverendo William Paley. Nella sua opera Natural Theology. del 1802, egli introdusse la metafora dell’orologiaio, secondo la quale l’esistenza degli orologi implica quella degli orologiai o, in altre parole, grandi effetti implicano grandi cause. Secondo la logica dettata dal buon senso, tale deduzione è vera; ma il buon senso non è a sua volta che intuizione senza convalida, e l’intuizione senza convalida non è che un ragionamento condotto in assenza di strumenti idonei e di una conoscenza scientificamente provata. Stando al buon senso, i grossi satelliti non possono restare sospesi a 36.000 chilometri di quota sulla verticale di un punto del pianeta, mentre in realtà lo fanno, mantenendosi su orbite equatoriali geosincrone. L’evoluzione fenotipica, basata sull’azione dei geni ed espressa nei caratteri esterni dell’organismo, può essere altrettanto rapida. Se è vero che un singolo gene può essere facilmente sostituito per effetto di una moderata pressione selettiva in meno di cento generazioni, è vero anche che il singolo nuovo gene, in tal modo introdotto, potrebbe avere effetti radicali sulla biologia di una certa specie. Un gene può mutare la forma di un cranio, può allungare la vita, ridisegnare la livrea di un’ala, creare una razza gigante. Tale fatto è illustrato in modo molto convincente dall’allometria, fenomeno per cui varie parti del corpo crescono a velocità diverse. È questo, per esempio, il caso a tutti noto della crescita del cranio dei bambini, più lenta rispetto a quella del corpo, e tale per cui negli adulti la testa, non molto più voluminosa che nei bambini, sta in cima a grossi corpi muscolosi. Qualora, presso una certa specie, l’allometria sia fenomeno rilevante, gli adulti di piccola taglia possono essere

notevolmente diversi, per certi caratteri, da quelli di grossa taglia, e ciò anche se essi fossero tutti geneticamente identici per quanto riguarda il carattere in considerazione. Tra gli animali, tale processo può rasentare la bizzarria. In alcune specie di cervi volanti, come l’europeo Lucanus cervus, i maschi di piccola taglia possiedono mandibole corte e semplici, mentre i maschi di grosse dimensioni hanno mandibole più massicce che, essendo lunghe circa quanto metà del resto del corpo, garantiscono loro la superiorità nel combattimento. Ciò che i maschi ereditano non è tanto uno fra i molti tipi possibili di corpo, e nemmeno una particolare taglia corporea, quanto, piuttosto, il tipo di crescita allometrica comune a tutti i maschi. I maschi che riescono a procacciarsi meno cibo o che completano più velocemente la loro fase di crescita restano di piccola taglia e acquistano caratteri femminili. Quelli che raggiungono invece una grossa taglia diventano dei supermaschi, veri pesi massimi grandi e grossi. L’allometria è in sé e per sé relativamente semplice, poiché dipende solo da differenze nei tassi di crescita delle varie parti di tessuto. È facile immaginare un rapido mutamento di un ordine di grandezza tale da essere spesso associato con l’origine di nuove specie, e ciò nondimeno basato sul tipo più semplice di modificazione ereditaria. L’allometria potrebbe essere alterata con facilità da mutazioni di entità minore a carico di uno o più geni: in tal modo, tutti i maschi finirebbero per assomigliare maggiormente alle femmine. Oppure, il mutamento potrebbe spingere l’allometria in senso opposto, cosicché i cervi volanti maschi svilupperebbero mandibole enormi. L’organizzazione sociale delle formiche costituisce una dimostrazione ancor più evidente dell’allometria. Ciascuna colonia si regge su un sistema di caste che comprende le regine, i soldati dalla testa grossa e le operaie dalla testa piccola, sistema che è basato su un singolo schema allometrico che accomuna tutti i membri femminili della colonia. Tali membri, a seconda del cibo e degli stimoli chimici che ricevono durante lo stadio larvale, si sviluppano appunto in regine, soldati o semplici operaie. Tutte, comunque, si inquadrano nel

medesimo contesto allometrico. I geni non hanno nulla a che fare nella determinazione della casta della singola femmina, ma determinano l’allometria della colonia e, quindi, le caratteristiche del sistema delle caste nel suo complesso. Qualora mutazioni genetiche apportino modifiche anche minime all’allometria, ecco emergere un sistema di caste differente. La fonte della diversità biologica risiede, quindi, nella selezione naturale. La variazione genetica è frutto delle differenze alleliche presenti tra individui della stessa specie – attraverso tutti i cromosomi e i geni di cui sono portatori – unitamente alle differenze di numero e di struttura dei cromosomi stessi. Inoltre, la variazione genetica costituisce la materia prima dalla quale hanno origine le nuove specie, infatti essa genera le barriere riproduttive ereditarie che finiscono per smembrare le vecchie specie. Quindi, la diversità della vita poggia su due livelli fondamentali: la variazione genetica all’interno della singola specie, e le differenze fra specie diverse. Ai due livelli di diversità biologica corrispondono, più o meno, la microevoluzione – i piccoli cambiamenti rintracciabili fino ai livelli più bassi del gene e del cromosoma – e la macroevoluzione – i cambiamenti che, più complessi e profondi, sono meno suscettibili di un’indagine genetica immediata. La comparsa del colore blu degli occhi è un esempio di microevoluzione; la visione cromatica è invece un caso di macroevoluzione. La comparsa e la diffusione della falcemia rientra nella microevoluzione; la formazione dell’apparato circolatorio nel quale essa si esprime, nella macroevoluzione. E ancora: la scissione di una specie di uccelli in due specie affini è un esempio di microevoluzione; d’altro canto, il frammentarsi di una singola specie di uccelli in una vasta gamma di specie, che vada da forme simili agli usignoli ad altre simili ai fringuelli, ebbene, questo è un esempio di macroevoluzione. Alcuni paleontologi, impressionati dai notevoli mutamenti evolutivi testimoniati dai fossili, di quando in quando hanno sostenuto che la macroevoluzione fosse un fenomeno troppo complesso e troppo

veloce – o talvolta troppo lento – per poter essere spiegato dalla teoria evoluzionista classica. La versione più recente di tale critica, la teoria degli equilibri punteggiati, è stata formulata da Niles Eldredge e Stephen Jay Gould nel 1972, e poi sviluppata assieme ad altri in pubblicazioni scientifiche successive. Secondo tale teoria, l’evoluzione non si limita a compiere periodicamente balzi in avanti, ma a volte, in altri periodi, tende anzi a rallentare fin quasi ad arrestarsi. Le specie emergono velocemente e completamente formate in seguito a un’esplosione del processo evolutivo, dopo di che si mantengono quasi immutate per milioni di anni. Per converso, l’evoluzione rapida si verifica soprattutto, o esclusivamente, durante la formazione delle specie. L’alternanza di balzi e di pause si traduce in un fenomeno sussultorio, in un equilibrio punteggiato di carattere così estremo da indicare l’esistenza di nuovi processi evolutivi oltre alla selezione naturale dei geni e dei cromosomi. Nella sua forma più radicale, tale ragionamento porta a concludere che la macroevoluzione è per qualche verso un fenomeno unico, differente dalla microevoluzione. La tesi degli equilibri punteggiati fu in principio oggetto di molte attenzioni in quanto era stata promossa come sfida alla teoria neodarwiniana dell’evoluzione, anzi, come una vera e propria nuova teoria evolutiva. Tale pretesa è stata poi abbandonata da molti dei suoi sostenitori. Le prove fossili della diffusione dell’andamento sussultorio dell’evoluzione si sono dimostrate deboli, tant’è che molti degli esempi dapprima portati a suo sostegno sono stati successivamente screditati. Per essere più precisi, la possibilità di un’evoluzione rapida costituiva già una pietra angolare della teoria evoluzionistica tradizionale, e quindi non poteva in alcun modo rappresentare per essa una sfida. I modelli di genetica delle popolazioni, fondamento della teoria quantitativa, prevedono che l’evoluzione per selezione naturale possa essere talmente rapida da apparire, in termini di tempi geologici, quasi istantanea. Inoltre, tali modelli contemplano periodi di stasi, cioè lunghi periodi durante i quali l’evoluzione rilevabile nei fossili è minima o addirittura assente. Queste previsioni tratte dalla genetica popolazionistica sono state convalidate da decenni di

meticolosi studi sul campo e in laboratorio su una vasta schiera di animali, di piante e di microrganismi. Sono state così evidenziate transizioni graduali tra specie strettamente imparentate, dagli eventi impercettibili nel corso della microevoluzione ai balzi più ampi in quello della macroevoluzione, dai primissimi passi della variazione geografica, all’origine di varie specie, fino alla loro espansione nel fenomeno della radiazione adattativa. Più in generale, si è convalidata la continuità fra microevoluzione e macroevoluzione. La teoria neodarwinista non è stata sfidata nella sua sostanza, bensì esclusivamente da un punto di vista semantico; più che di una sorta di reinvenzione della ruota, si è trattato, per così dire, di assegnarle un nuovo nome. Oggi si usa il termine equilibrio punteggiato soprattutto per descrivere l’andamento dell’evoluzione a tratti alterni, lenti e veloci, in particolar modo per quei momenti in cui la fase rapida è accompagnata dalla nascita di specie nuove. Il suo destino illustra il principio secondo cui nella scienza le idee fallimentari restano in vita come fantasmi nel linguaggio dei sopravvissuti. Il valore della sfida mossa dall’equilibrio punteggiato non risiede tanto nelle sue affermazioni, quanto piuttosto nell’aver stimolato le ricerche sulla velocità dell’evoluzione e nell’aver attratto l’attenzione generale sugli studi dell’evoluzione nel suo complesso. Affermare che la microevoluzione sfuma nella macroevoluzione in modo continuo, senza operare salti discreti, non significa comunque che tutto ciò che conosciamo dell’evoluzione sia scritto nella fitta grafia della genetica moderna. Significa solo che niente di ciò che è stato appreso finora è in contrasto con quel canone, nello stesso senso in cui nulla di quanto finora acquisito a proposito dei processi molecolari della cellula è in disaccordo con la fisica e la chimica contemporanee. L’evoluzione è ben più dei suoi meccanismi genetici. Un esempio calzante è quello della selezione delle specie, un processo che hanno cominciato a studiare con profitto sia i paleontologi, che si occupano dei fossili, sia i neontologi, che si dedicano agli organismi odierni. La predilezione da parte dei due gruppi di terminologie diverse ha generato un po’ di confusione, ma il

processo in sé resta facilmente spiegabile. Analogamente a un singolo organismo appena nato, una specie di nuova formazione viene al mondo già munita del suo proprio patrimonio di caratteri. A seconda dei caratteri posseduti, la specie può sopravvivere a lungo o per breve tempo prima di estinguersi, ed è più o meno predisposta a suddividersi in molte specie, piuttosto che a rimanere intatta come specie singola per tutta la sua esistenza. Tali caratteri ereditari fondamentali sono proprietà emergenti delle specie e non sono affatto avvolti nel mistero dei processi macroevolutivi. Essi sono le proprietà sviluppate dagli organismi che costituiscono la specie, sono frutto della microevoluzione, vale a dire di cambiamenti nella frequenza dei geni e nella disposizione dei cromosomi, che vengono trasferiti al livello superiore, quello di specie, grazie alle modalità evolutive che chiamiamo macroevoluzione. Tale traslazione è contraddistinta da due proprietà chiave. Essa è cieca, e si riverbera verso il basso andando ad accelerare o a rallentare l’evoluzione degli organismi, i quali, nel corso della loro lotta per garantirsi la sopravvivenza e la riproduzione, non sono interessati, in senso darwiniano, al persistere della specie nel suo complesso. Inoltre, il grado di moltiplicazione della specie non ha influenza su di essi in quanto organismi. Pertanto, i loro geni vengono inseriti nella generazione successiva, oppure periscono, per effetto delle loro azioni peculiari, indipendentemente dal fatto che la specie si stia espandendo e moltiplicando, o che si stia riducendo all’estinzione. Ciò nondimeno, i caratteri da loro posseduti fanno sì che la specie perduri a lungo o per breve tempo, e che rimanga una specie singola o che si moltiplichi. Tale influsso è stato identificato quale traslazione ascendente dalla microevoluzione alla macroevoluzione. Per converso – e in ciò sta l’essenza della selezione specifica – la longevità di una specie, accompagnata dalla sua tendenza a formarne delle nuove, condiziona la rapidità con la quale i caratteri di fondamentale importanza si diffondono nel complesso della fauna e della flora. In ciò consiste il riverbero discendente che fa della teoria della selezione delle specie qualcosa di più di una noiosa ovvietà.

Prendiamo in considerazione una serie di specie potenzialmente soggetta a selezione al livello più alto. Per serie. intendo un certo numero di specie originate da un antenato comune, come i pesci ciclidi del lago Vittoria o le farfalle licenidi dell’America tropicale. La selezione naturale tra specie può rafforzare quella a livello di organismo che si verifica a sua volta all’interno di ogni specie. Quindi, l’evoluzione dei caratteri procede più rapidamente all’interno del gruppo di specie nella sua totalità. Il carattere della fauna e della flora si modifica di conseguenza. Viceversa, la selezione a livello di specie può opporsi a quella a livello di organismo, rallentando, in tal caso, la velocità di diffusione. Qual è l’importanza della selezione? Se il gruppo selezionato viene definito in modo sufficientemente ampio – per esempio, se comprende tutte le piante vascolari, o tutti i vertebrati terrestri – allora la sua importanza è enorme. Durante il tardo Mesozoico, le cicadacee e le conifere cedettero il passo alle angiosperme (piante con fiori), che andavano diffondendosi verso i poli. Dopo la fine del Mesozoico, segnata da catastrofi immani, i mammiferi subentrarono ai dinosauri e ai coccodrilli. Tutto questo, però, lo sapevamo già, e non ci serve affatto per chiarire i processi biologici della selezione delle specie. Per collegare la selezione delle specie alla selezione naturale a livello degli individui e delle popolazioni, è necessario prendere in considerazione gruppi di specie più ristretti, e considerarli con più attenzione, per cogliere i dettagli fini dell’ecologia e dei processi di adattamento. Immaginare l’esistenza di tali gruppi è cosa facile; più difficile è reperirli in natura. Finora, ci siamo dovuti accontentare di pochi casi, tra i quali quelli che seguono sembrano i più promettenti. • Tra gli insetti, il passaggio dal comportamento di tipo predatorio o saprofago a quello vegetariano comporta un aumento nella velocità di formazione delle specie. La spiegazione risiede nel fatto che più specie possono specializzarsi in un’alimentazione basata su tipi di piante particolari o, addirittura, su parti diverse della stessa pianta. Inoltre, esse possono diffondersi ancor più rapidamente all’interno di

queste nicchie formando le cosiddette razze legate all’ospite, che si ritiene siano i precursori di specie vere e proprie. Per dirla nel modo più semplice possibile, tra tali insetti la selezione individuale e quella a livello di specie contribuiscono all’aumento della velocità del processo evolutivo. • Durante la seconda metà del Mesozoico, tra 100 e 66 milioni di anni fa, la capacità di dispersione, e quindi l’ampiezza degli areali geografici dei bivalvi e di altri molluschi, variava da un gruppo di specie a un altro. Inoltre, quelli con un raggio di distribuzione più ampio sopravvissero su archi di tempo geologico più lunghi. Lo studio delle specie di molluschi attuali mostra come la capacità di diffusione sia probabilmente dovuta alla selezione naturale a livello di organismo. Se ciò fosse vero, la selezione a livello individuale e quella a livello specifico avrebbero agito di conserva, andando ad aumentare l’ampiezza dell’areale geografico dei molluschi e la loro longevità di specie. • Formiche, coleotteri, lucertole e uccelli mostrano quello che è stato definito il ciclo del taxon. Alcune specie – o meglio, alcuni organismi loro membri – si adattano ad habitat dai quali si diffondono con facilità. Tali ambienti comprendono le coste marine, le ripe fluviali e le praterie spazzate dal vento. Luoghi che, per una coincidenza davvero strana, sono anche le migliori zone di attestamento per la dispersione a lungo raggio. Le specie ivi concentrate raggiungono il più alto grado di dispersione geografica e il più alto potenziale di speciazione. Alcune delle popolazioni spostatesi più lontano, quando si inseriscono in un habitat particolarmente protetto, finiscono col «sistemarsi», perdendo il loro potenziale di diffusione e diventando così più inclini alla formazione di specie nuove, per poi avviarsi al declino e all’estinzione. A questo punto, si pone la domanda: declinano verso l’estinzione più rapidamente, come avvenne nel caso dei molluschi del Mesozoico? Se così fosse, ciò significherebbe che gli organismi adattatisi a vivere in habitat molto particolari migliorano la propria fitness. darwiniana a spese della longevità della specie cui

appartengono. Insomma, i due livelli di selezione, quello individuale e quello specifico, sarebbero in tal caso contrapposti. • Per milioni di anni, un processo simile al ciclo del taxon ha interessato la ricca fauna di antilopi, bufali, e altri mammiferi bovidi africani. Le specie più eclettiche, dette «generaliste», cioè capaci di occupare più di un habitat – per esempio, di spostarsi dalla foresta alle praterie, e poi di ritornare alla foresta – sopravvivono per periodi più lunghi. Quelle, invece, specializzate per la vita in habitat particolari vi rimarranno probabilmente intrappolate, per scivolare verso l’estinzione in concomitanza dei mutamenti climatici e delle conseguenti alterne avanzate e ritirate della foresta. Vista la loro tendenza alla frammentazione, le popolazioni di bovidi «specialisti» hanno inoltre maggior probabilità di generare nuove specie, e pertanto ne acquistano e ne perdono più rapidamente dei bovidi «generalisti». La selezione naturale esercitata sui singoli animali dà luogo, nel complesso, alla selezione naturale delle specie aumentando o abbreviando, a seconda delle circostanze, la loro longevità. • Alcune piante desertiche, come la Dedeckera eurekensis. del deserto di Mojave, possono andare incontro a un altro tipo di selezione naturale a livello individuale che contrasta con quella a livello specifico. Durante i periodi di siccità, solo pochi semi hanno la possibilità di germogliare. In tali condizioni, la selezione naturale può portare facilmente a una strategia nella quale le singole piante interrompono la produzione di semi e concentrano tutte le proprie risorse nello sforzo di sopravvivere. (La strategia opposta, che non è quella seguita da Dedeckera, sta invece nella produzione di molti semi, i quali devono poi attendere l’arrivo delle piogge.) Se i tempi duri si protraggono a lungo, viene premiata la longevità a discapito della capacità riproduttiva. Le specie i cui membri sono spinti dalla selezione naturale ad adottare la strategia della longevità finiranno con l’essere ridotte a un esiguo numero di individui dalla vita lunga, ma pressoché sterili. Le piante che sopravvivono sono sì vincitrici nella partita per la selezione a livello di organismi, ma il loro successo

porta la specie sull’orlo dell’estinzione. Gli elementi di cui si compone il quadro della selezione naturale a livello individuale – sia essa corroborata o no da quella a livello specifico – sono l’esuberanza, la forza, e la potenziale velocità. Se, in primo luogo, esiste abbastanza materia prima genetica, e se le pressioni selettive (cioè le differenze nella capacità di sopravvivere e di riprodursi) sono forti, allora un certo tipo di gene o di cromosoma può essere sostituito da un altro in meno di cento generazioni. Esiste quindi la possibilità che si attui un rapido processo di microevoluzione e perfino che si avviino le prime fasi della macroevoluzione. Tale possibilità risulta ormai molto chiara a livello teorico, ed è stata verificata anche con esperimenti di laboratorio. In natura, essa è riscontrabile presso quelle specie che sottostanno a nuove pressioni selettive, quali la minaccia da parte di un nuovo parassita, o l’accesso a una nuova fonte di cibo. La selezione naturale da sola ha avuto tempo più che sufficiente per creare tipi di organismi radicalmente nuovi. Pensate: l’era dei rettili è durata 100 milioni di generazioni rettiliane, e la successiva era dei mammiferi ha visto passare più di 10 milioni di generazioni prima che comparisse la specie umana. Ci sono voluti centinaia di milioni di anni perché la Terra producesse i primi organismi unicellulari, costruiti a partire da un numero astronomico di molecole dalle enormi potenzialità. L’aspetto dell’evoluzione che siamo in grado di cogliere meglio è per lo più quello genetico; quello che invece comprendiamo di meno è in larga parte l’aspetto ecologico. Mi spingerò oltre, dicendo che i grandi interrogativi della biologia evoluzionistica ancora in attesa di una risposta sono di natura ecologica, e non genetica. Essi hanno a che fare con le pressioni selettive dell’ambiente rivelateci dalla storia di particolari linee evolutive, e non con i meccanismi genetici di tipo più generale. Può anche darsi che io mi sbagli di grosso. La biologia molecolare sta crescendo con tale vigore e tale velocità che non è da escludere la scoperta di nuovi meccanismi capaci di dare impulso, in

un modo o nell’altro, all’evoluzione. C’è ancora molto da imparare a proposito del modo in cui sono emersi i geni funzionali, gli esoni del Dna, e il modo in cui essi sono stati combinati ed elaborati, ponendo le basi per la rigogliosa fioritura della diversità biologica. È anche possibile che alcuni vincoli extragenetici imposti allo sviluppo embrionale, per esempio limiti fisici imposti alla dimensione delle cellule e all’organizzazione dei tessuti, svolgano un ruolo essenziale. La competizione e l’interferenza tra cellule e tessuti potrebbero implicare principi di nuovo tipo non ancora scoperti. Molte sorprese ci attendono nello studio dello sviluppo. Può darsi che presto nuove scoperte nel campo del codice genetico e dello sviluppo embrionale scuotano il neodarwinismo fino alle fondamenta. Ma io ne dubito. Piuttosto, ritengo che i più importanti passi avanti verranno compiuti nell’ambito dell’ecologia, e ci spiegheranno in modo più esauriente perché la diversità della vita è come noi la conosciamo.

7 La radiazione adattativa

L’evoluzione su larga scala, analogamente a gran parte della storia umana, si svolge sotto forma di una successione di dinastie. Organismi discendenti da una stirpe comune assurgono al ruolo di dominatori, espandono il loro areale geografico e si suddividono in un gran numero di specie, alcune delle quali acquistano nuovi cicli vitali e nuovi stili di vita. Competizione, malattie, mutamenti climatici, e ogni altro cambiamento ambientale utile ad aprire la strada alle nuove venute, riducono i gruppi che esse sostituiscono alla stregua di relitti distribuiti qua e là. Col tempo, lo stesso gruppo in ascesa giunge a una fase di stallo, e poi comincia la sua caduta. Le sue specie si spengono una per una, fino a quando non ne resta più alcuna. Qualche rara volta, in una minoranza dei gruppi, accade che una specie fortunata sviluppi casualmente un nuovo carattere ereditario grazie al quale riprende a ingrandirsi e a diffondersi, ridando vigore alla fase dominante del ciclo a favore della sua stirpe filogenetica. Le successioni dinastiche contemporaneamente presenti in una sezione della storia geologica disegnano sulla superficie terrestre un motivo complesso e di grande bellezza. Si potrebbe paragonarlo a un palinsesto, un’antica pergamena sulla quale i gruppi attualmente dominanti siano nitidamente impressi, mentre gli antichi dominatori, costretti in nicchie esigue, non siano che tracce sbiadite negli spazi tra le righe. I mammiferi, i grossi vertebrati che attualmente dominano la Terra, vivono in compagnia delle tartarughe e dei coccodrilli, che sono tra gli ultimi sopravvissuti dei rettili, i dominatori del passato. Le foreste di angiosperme – le piante con fiori – ospitano, sparse qua e là, felci e cicadacee, cioè i resti della vegetazione prevalente all’epoca dei rettili. Su scala minore, le mosche, le vespe, le falene e le farfalle che riempiono l’aria, in un

certo senso rappresentano l’evoluzione degli insetti, i nuovi arrivati. I quali sono preda delle libellule, relitti del Paleozoico che ancora oggi possiedono ali rigide, così come altri caratteri arcaici che risalgono all’alba del volo. Tra gli insetti in quel periodo in grado di volare, le libellule erano un po’ come i Fokker e i Sopwith Camel, i caccia della prima guerra mondiale. Radiazione adattativa. è il termine che designa il processo di diffusione in nicchie diverse da parte di specie che possiedono antenati comuni. Per convergenza evolutiva. si intende invece l’occupazione della stessa nicchia da parte di organismi risultanti da radiazioni adattative diverse, avvenute per lo più in parti diverse del mondo. Il lupo della Tasmania, un mammifero marsupiale, assomiglia esternamente al lupo «vero», quello dell’Eurasia e del Nordamerica, che è invece un mammifero placentato. Il primo è un prodotto della radiazione adattativa che ha avuto luogo in Australia, il secondo di quella avvenuta nell’emisfero settentrionale. In continenti diversi, due processi indipendenti di radiazione adattativa hanno spinto le due specie a convergere verso nicchie simili. Esempi lampanti dei fenomeni di radiazione adattativa e di convergenza evolutiva si possono osservare in arcipelaghi distanti tra loro, di varie parti del mondo, tra i quali quelli delle Galapagos, delle Hawaii e delle Mascarene, e in laghi antichi come il Baikal e i Grandi Laghi della Rift Valley dell’Africa orientale. Luoghi, tutti questi, così isolati che soltanto pochi tipi di piante e di animali sono stati capaci di raggiungerli. I fortunati colonizzatori provenivano da faune e flore grandi e affollate, oppresse dalla competizione, dai predatori, dalle malattie, costrette a limitazioni nell’habitat e nella dieta. I mondi nuovi e quasi vuoti in cui i colonizzatori arrivarono, presentavano invece, almeno in principio, un gran numero di occasioni favorevoli. Quegli arcipelaghi e quei laghi non solo sono isolati, ma anche sufficientemente piccoli e giovani – se confrontati con i continenti e gli oceani – da mantenere semplici e, quindi, decifrabili i loro schemi di radiazione adattativa e di convergenza evolutiva. Questa è la ragione per cui i biologi considerano le isole Hawaii come uno dei più

importanti laboratori dell’evoluzione. Si tratta di un arcipelago, e non di una singola isola, le condizioni sono quindi ideali perché le popolazioni si scindano in tante specie propriamente dette. Le Hawaii sono, da un punto di vista geografico, l’arcipelago più remoto, per cui relativamente pochi organismi colonizzatori hanno potuto raggiungere le sue coste. Vasto a sufficienza per garantire le nicchie ecologiche necessarie alla radiazione adattativa di un gran numero di specie, esso è tuttavia abbastanza piccolo per forzare da un lato, e per mostrare in tutta la loro evidenza dall’altro, gli schemi della speciazione e della radiazione adattativa. Infine, nonostante la sua giovane età rispetto a quella dei continenti, esso è tuttavia sufficientemente antico – circa 5 milioni di anni, nel caso dell’isola di Kauai – per consentire alla radiazione adattativa di raggiungere un grado di maturità davvero notevole. Si ritiene che le 10.000 specie endemiche di insetti delle Hawaii oggi conosciute si siano evolute da un gruppo originario di sole 400 specie immigrate, alcune delle quali subirono cambiamenti di habitat e di stile di vita davvero unici. Per esempio, nel mondo intero, le larve degli zigotteri (piccoli e delicati parenti delle libellule) sono quasi tutte acquatiche, e si nutrono di insetti che trovano nell’ambiente circostante, in stagni o altri bacini di acqua dolce. Alle Hawaii, però, le ninfe della specie Megalagrion oahuense. hanno completamente abbandonato l’acqua, per andare a cacciare le loro prede sul suolo delle umide foreste montane. I bruchi della falena del genere Eupithecia. mostrano un cambiamento ancor più radicale, avendo abbandonato la loro abitudine a nutrirsi di vegetali per divenire carnivori che cacciano tendendo imboscate alle loro prede. Simili a vermi, queste insolite larve giacciono immobili sulla vegetazione, in attesa del passaggio di insetti da catturare con un rapido movimento delle zampe anteriori. Un grillo del genere Caconemobius. è passato da una vita prettamente terrestre a un’esistenza parzialmente marina, vivendo tra i massi della battigia e nutrendosi dei detriti galleggianti portati a terra dalle onde. Un’altra specie di Caconemobius. vive sulle colate laviche spoglie, sulle quali bruca i detriti vegetali portati dal vento. Altri grilli ancora,

appartenenti allo stesso genere, tutti ciechi, vivono in caverne. I bruchi killer, ai quali abbiamo accennato prima, e questi grilli intraprendenti sono stati tutti scoperti nel giro degli ultimi vent’anni. Nonostante possano apparire familiari al visitatore distratto, per l’esploratore naturalista le isole Hawaii sono invece ancora oggi un paradiso pieno di sorprese. Negli arcipelaghi lontani, i processi di radiazione e di convergenza sono contrassegnati da una certa disarmonia che, in termini di biologia evoluzionistica, si manifesta sotto forma di una presenza eccessiva di alcuni gruppi da una parte, e dall’altra sotto forma di un’assenza totale di altri gruppi. Quando poche specie si scindono velocemente e numerose volte in presenza di eccezionali congiunture favorevoli, esse, così come le specie discendenti, si accaparrano gran parte dell’ambiente disponibile e se lo tengono ben stretto, finendo così col fare la parte del leone in quanto a diversità biologica. L’insieme della fauna e della flora degli arcipelaghi, quindi, risulta nel complesso sbilanciato rispetto a quello dei continenti, la cui grande diversità biologica è stata prodotta a partire da molti gruppi durante un lasso di tempo molto più lungo. Le Hawaii albergano l’avifauna più disarmonica che vi sia al mondo. Fino a tempi storici recenti, più di un centinaio delle specie note erano endemiche, vale a dire originarie ed esclusive dell’arcipelago. Di queste, sessanta specie vennero portate all’estinzione dai polinesiani e dai colonizzatori europei, tanto che oggi ne sopravvivono solo quaranta. Più della metà di esse erano o sono costituite da drepanidi, componenti una tribù a sé stante, quella dei drepanidini, la quale, nella classificazione formale, fa parte della sottofamiglia Carduelinae, a sua volta rientrante nella categoria sistematica più ampia, la famiglia dei Fringillidae. Tutti i drepanidi discendono da una singola coppia o da un piccolo stormo colonizzatore, probabilmente giunti alle isole migliaia di anni fa sospinti da una tempesta. Tale specie antenata doveva essere composta da Carduelinae. relativamente primitivi, probabilmente piccoli uccelli dalle forme slanciate e dotati di un becco simile a quello del cardellino. La dieta probabilmente era costituita da semi e

insetti. I Carduelinae. non hawaiiani comprendono il cardellino, il canarino e il crociere, specie reperibili in tutto l’emisfero settentrionale, e in special modo nelle regioni temperate dell’Europa e dell’Asia. È probabile, quindi, che i primi colonizzatori delle Hawaii vi siano giunti in volo, forse spinti da una tempesta, a partire o dall’America settentrionale, o dall’Asia orientale. Più tardi, con l’espandersi delle loro popolazioni, i Carduelinae. diedero il via a un processo esplosivo di radiazione adattativa. Penetrarono molte nuove nicchie adattando al tempo stesso la loro anatomia e il loro comportamento. Da conquistatori ecologici di primo rango quali sono, offrono un quadro esemplare della radiazione e della convergenza su una scala abbastanza ridotta da poter essere dissezionata e spiegata con un ragionevole livello di sicurezza. Tale visione ci è offerta da quello che potremmo chiamare il loro «ricordo». Prima dell’arrivo dei polinesiani, 2.000 anni fa, e prima di quello dei mercanti europei, avvenuto diciotto secoli più tardi, le foreste delle Hawaii erano invase da una folla di drepanidi delle dimensioni di un passero. Le molte specie erano distinguibili in base al piumaggio ora rosso, ora giallo, ora verde, screziato sulle ali da bande nere, grigie e con varie sfumature di bianco. Ancora oggi, in alcune località, l’arapane (Himatione sanguinea.) forma popolazioni di mille individui per chilometro quadrato. Camminarvi in mezzo, in un boschetto di alberi ohia lehua (Metrosideros. sp.), osservare il comparire a sprazzi dei loro colori vivaci, e prestare orecchio al fischio sottile dei loro canti, equivale a gettare un’occhiata sulle Hawaii di una volta, così come erano prima che le canoe tahitiane toccassero riva. Oggi, di drepanidi non ce ne sono quasi più, costretti alla ritirata e portati sull’orlo dell’estinzione dalla caccia eccessiva, dalla deforestazione, dai ratti, dalle formiche carnivore, dalla malaria e dalla idropisia importate da uccelli esotici introdotti dall’uomo per «arricchire» il paesaggio hawaiiano. Essi sparirono nel solito modo delle specie, non con un drammatico cataclisma, ma, senza dare troppo nell’occhio, al termine di un periodo di declino durante il quale chiunque li avesse conosciuti avrebbe confermato che, sì,

effettivamente era da un po’ che non se ne vedevano in giro, che forse ce n’era ancora qualcuno nella tale o talaltra valle, e cioè lì dove, in realtà, un predatore aveva già ghermito dal suo posatoio notturno l’ultimo esemplare vivente, forse un maschio solitario. Un tempo, in Polinesia diverse generazioni si sono succedute, si è sostituito, su un copricapo da cerimonia ormai da tempo messo da parte, l’ultimo ornamento di piume malandate, e la specie che – usando le parole della liturgia cattolica – era morta e sepolta è scivolata nell’oblio. Tuttavia, la portata della radiazione, perfino tra le specie di drepanidi sopravvissute, resta la maggiore al mondo tra quelle dei gruppi più strettamente imparentati. Pseudonestor xanthophrys. anatomicamente è in qualche modo simile a un pappagallo, ma, anziché di frutti e di semi, si nutre di insetti. Adopera il robusto becco per masticare e lacerare i rametti in modo da raggiungere le larve di coleotteri e di altri insetti rintanati nel legno. L’ou (Psittirostra psittacea.), l’equivalente del fringuello, possiede un becco robusto mediante il quale si nutre innanzitutto di semi, ma anche di insetti, mangiando un po’ di tutto proprio come un fringuello. L’akepa (Loxops coccinea.) ha una forma parzialmente simile ai crocieri dell’emisfero settentrionale: può scostare lateralmente le estremità del becco e in tal modo aprire, quando è alla ricerca di cibo, i germogli delle foglie e i baccelli dei legumi. Altre specie di Loxops. e di Himatione. ricordano piuttosto i Parulidae. del Nuovo Mondo e i Sylviidae. (e affini) del Vecchio, uccelli che, riconoscibili per il corpo piccolo e delicato e per il becco breve e sottile, abbondano in molti continenti, dove vivono cacciando insetti in volo o posati sulla vegetazione in posizione esposta. L’iiwi (Vestiaria coccinea.), e alcune specie di Hemignathus. convergono strettamente con i nettarinidi dell’Africa tropicale e dell’Asia. Si servono del becco – lungo, sottile e incurvato verso il basso – a mo’ di sifone, per estrarre il nettare dai fiori. Le specie del genere Hemignathus. hanno realizzato una seconda radiazione adattativa in miniatura all’interno di quella più ampia, una sorta di rischieramento avvenuto in seno alle nicchie principali. Esse infatti comprendono, oltre alle specie che si nutrono di nettare e che

possiedono un becco interamente incurvato, il nukupuu (Hemignathus lucidus.), nel quale il becco presenta la metà inferiore lunga poco più della metà di quella superiore. Questo strano tipo di Hemignathus. si è in parte evoluto verso lo status ecologico di un picchio; infatti, oltre a cibarsi di nettare, che può raggiungere grazie alla parte superiore del becco, con quella inferiore può picchiettare il tronco e i rami degli alberi, strappare pezzi di corteccia, sondare gli interstizi e scovare insetti che, con le sue manovre, riesce a cogliere di sorpresa. Ancor più degno di nota è l’akiapolaau (Hemignathus wilsoni.), un’altra specie che è andata a occupare quasi in tutto e per tutto la nicchia del picchio, e che si serve della metà inferiore del becco, breve e rettilinea, per martellare e scalpellare la corteccia e il legno. Questo comportamento da picchio altro non è che l’esasperazione del più moderato martellare del nukupuu. Walter Bock lo ha descritto così: La mascella superiore, ricurva, viene sollevata e allontanata da quella inferiore che,

in tal modo, può essere utilizzata per picchiettare i tronchi. Dopo aver aperto un

buco ed esposto l’insetto, l’uccello utilizza la mascella superiore, lunga e incurvata,

per la ricerca di ulteriori prede. Questa combinazione di una mandibola diritta, a scalpello, con una mascella lunga e ricurva, utilizzata a mo’ di sonda, è un esempio

raro, forse unico, dell’adattamento, in un singolo uccello, delle due mascelle a due

azioni completamente diverse, ma entrambe essenziali per il metodo di nutrizione di questa specie.

Le varie fasi di passaggio, nella convergenza con il picchio, che vanno dalle specie di Hemignathus. simili ai nettarinidi, al nukupuu, e poi all’akiapolaau, costituiscono un esempio istruttivo di un importante cambiamento evolutivo sviluppatosi all’interno del processo di formazione della specie. La loro coesistenza, nelle Hawaii di oggi, rappresenta una sorta di fermo immagine sulla microevoluzione nell’istante in cui essa passa alla scala di macroevoluzione. La quale, se osservata nei due gradini più distanti dal livello dell’Hemignathus, non è che un processo microevolutivo a più ampio respiro, arricchito dalla speciazione.

I sostituti hawaiiani del picchio meritano attenzione anche perché sono un esempio di convergenza evolutiva incompleta, in quanto prodotta da una radiazione adattativa impetuosa che ha avuto troppo poco tempo per maturare. Queste specie contrastano con alcuni uccelli della famiglia dei Picidae, che, per varie ragioni, siamo autorizzati a considerare come i veri picchi. I Picidae, un gruppo di specie molto legate tra di loro e con ascendenze molto lontane da quelle dei drepanidi hawaiiani, sono presenti in tutto il mondo con circa 200 specie. Le 19 specie degli Stati Uniti comprendono Colaptes auratus, Picoides pubescens, e i rappresentanti del genere Sphyrapicus. Esse includono anche due recenti vittime della deforestazione del Nordamerica: Campephilus principalis, che è il picide più grosso della regione neartica, e il più grande picchio del mondo, il messicano Campephilus imperialis, imparentato con la specie precedente. I picidi sono considerati i picchi autentici solo perché sono talmente diffusi e comuni da essere quelli a cui è stato originariamente assegnato il nome volgare. In realtà, essi hanno proprio la stoffa giusta per essere i titolari di quel nome in quanto, nella loro classe ecologica, sono i migliori specialisti. Infatti vi sono molte altre specie di uccelli che beccano e frantumano il legno dei tronchi in cerca di insetti, ma nessuna lo fa con lo slancio e la precisione dei picidi. La tecnica di «caccia a suon di colpi» è stata studiata nel Melanerpes formicivorus, un picchio della California, mediante riprese filmate a rallentatore. Il becco a forma di punteruolo colpisce il legno a una velocità di 20-25 km all’ora, con una decelerazione istantanea di 1000 G, dove per 1 G si intende l’accelerazione necessaria a controbilanciare la gravità terrestre, e 4 G è quella che un astronauta sperimenta durante il decollo. Un cervello normale che venga scosso centinaia di volte al giorno con urti alla testa di tale intensità verrebbe ridotto a una poltiglia. Il picchio, invece, sopravvive poiché possiede due particolari caratteristiche. La scatola cranica è fatta di ossa spugnose insolitamente spesse con gruppi di muscoli antagonisti che agiscono da ammortizzatori. Inoltre, il picchio muove la testa su e giù come un metronomo, cioè su un piano solo, evitando così di generare quelle forze di rotazione

che altrimenti scuoterebbero il cervello da un lato all’altro fino a strapparlo dai suoi punti di ancoraggio. La tecnica del «martello pneumatico» è solo uno degli adattamenti dei picchi appartenenti ai picidi. Molte specie possiedono una coda rigida, a forma di cuneo, con cui si puntellano ai tronchi degli alberi, e penne a ciuffo sulle narici per impedire l’ingresso dalla polvere di legno. Sono dotati di una lingua cilindrica e appiccicosa che possono estroflettere di venti centimetri e che infilano nelle gallerie degli insetti per catturare le loro prede, per poi ritrarla e tenerla avvolta in una cavità che circonda la superficie interna del cranio. D’altro canto, i picidi non sono bravi sorvolatori di tratti di mare aperto, ed è da questo particolare che deriva tutta la nostra storia. Infatti, nel corso dei milioni di anni durante i quali si evolse l’avifauna delle Hawaii, i picchi non hanno mai colonizzato queste isole. I drepanidi furono pertanto liberi di occupare la nicchia del picchio, cosa che fecero mediante l’ingegnosa innovazione dell’akiapolaau, specie che, confrontata con i sofisticati picidi polverizzatori del legno, fa la figura del prodotto scadente. Se, quando raggiunsero le rive delle Hawaii, i drepanidi avessero trovato in quelle isole picidi intenti a martellare le foreste, l’akiapolaau non sarebbe di certo potuto sopravvivere alla competizione, e nemmeno esservi generato. La vita del picchio, legata a doppio filo all’esistenza di alberi morti o moribondi quali territori di caccia, richiede spazio; per esempio, una coppia nidificante di Campephilus principalis. occupava circa 8 km quadrati di vecchia foresta palustre. All’epoca del taglio del legname nel sud degli Stati Uniti, il suo habitat venne drasticamente ridotto, e così la specie fu condannata all’estinzione. La sua popolazione non era mai stata molto numerosa, ed è perciò che, in un primo momento, si contrasse molto velocemente – tant’è vero che gli ultimi avvistamenti certi risalgono agli anni Settanta di questo secolo – per sopravvivere, oggi, soltanto con una popolazione residua nelle foreste di montagna della parte orientale di Cuba. In conclusione, il picchio è portato a lottare strenuamente per accaparrarsi le risorse relativamente poco disponibili di cui abbisogna, e quindi, quasi certamente, spazzerebbe via qualunque

akiapolaau incontrasse sulla sua strada.

Radiazione adattativa e convergenza evolutiva. Nel corso delle radiazioni adattative degli

uccelli verificatesi in diverse parti del mondo, linee filogeneticamente lontane si evolsero per

occupare la nicchia del picchio: l’akiapolaau (Hemignathus wilsoni), un drepanide hawaiano; il nordamericano Colaptes auratus, uno dei molti «veri» picchi; il fringuello-picchio (Cactospiza pallida) delle Galapagos; e la huia (Heteralocha acutirostris) della Nuova Zelanda (sopra, la femmina; sotto, il maschio).

I picidi sono assenti anche nelle isole Galapagos, un arcipelago di origine vulcanica che, sorto dagli abissi oceanici 800 km a ovest della

costa ecuadoriana, è luogo di radiazioni adattative di notevole portata a carico di svariati tipi di piante e di animali. La produzione di specie non è ricca come alle Hawaii, ma è stata comunque sufficiente per ispirare a Darwin la teoria dell’evoluzione. Tra quelle che lo scienziato trovò più interessanti, vi sono i cosiddetti fringuelli di Darwin, o, per dirla con termine tecnico classificatorio, i rappresentanti della sottofamiglia dei Geospizinae. Un solo antenato colonizzò le isole e diede origine a un totale di tredici specie, tuttora esistenti, che occupano alcune delle nicchie alimentari proprie, alle Hawaii, dei drepanidi. Queste tredici specie sono una prova lampante dell’evoluzione, e un naturalista del calibro di Darwin di certo non poteva mancare di notarle. Nel 1842, scrisse nel suo Journal of Researches. le parole che anticipavano la sua teoria: Il fatto più curioso è la gradualità perfetta con cui varia la dimensione del becco

delle varie specie di Geospiza. Osservando tale gradualità e diversità di struttura in un piccolo gruppo di uccelli molto affini, si potrebbe azzardare che, stante l’iniziale

esiguità di specie di questo arcipelago, una di esse sia stata presa e modificata a vari fini.

Alcuni dei fringuelli di Darwin assomigliano ai parulidi, e utilizzano il lungo becco per la cattura degli insetti e per suggere il nettare. Altre specie si comportano da «veri» fringuelli grazie al becco relativamente spesso con il quale si impossessano di frutta e sgusciano i semi. Alla crescita delle dimensioni dell’uccello e dello spessore del becco corrisponde un ampliamento della gamma dei cibi costituenti la dieta. In tempi di ristrettezze, le specie dotate di becco più spesso sono in grado di specializzarsi nei frutti e nei semi più grandi e più duri da aprire. La radiazione adattativa è un processo che, sia sugli arcipelaghi sia sui continenti, non giunge mai a pieno compimento. I fringuelli di Darwin non hanno occupato la nicchia dei nettarinidi – alle Hawaii invece invasa, e con quale maestria, dai drepanidi – poiché nessuno di loro possiede né il becco ricurvo né la lingua lunga con cui raccogliere il nettare contenuto nelle parti più recondite dei fiori. D’altro canto, la radiazione avvenuta alle Galapagos ha prodotto un

tipo adattativo unico tra gli uccelli di tutto il mondo, quello del vampiro. Su Darwin e su Wolf, due isole piccole e remote, fringuelli terricoli si posano sul dorso delle sule, beccandole alla radice delle penne delle ali e della coda per bere il sangue che ne scaturisce. Non soddisfatti di tale nefandezza, i fringuelli vampiri rompono le uova degli uccelli marini spingendole contro le rocce per berne poi il contenuto. Due Geospizinae, il fringuello-picchio (Cactospiza pallida.) e il fringuello delle mangrovie (Cactospiza heliobates.), hanno occupato la nicchia del picchio adottando anch’essi una tecnica del tutto nuova per gli uccelli. Entrambe le specie possiedono un becco del tutto simile a quello degli altri uccelli entomofagi, beccano la superficie dei tronchi e dei rami, strappano pezzi di corteccia, senza, però, inferire al legno colpi perfettamente verticali. A tale riguardo, si comportano come normali fringuelli di Darwin, simili, per aspetto, a poche altre specie. Per catturare gli insetti non si servono di un becco lungo e ricurvo – come fa invece l’akiapolaau delle Hawaii – né li «pescano» estroflettendo la lingua alla maniera del picchio. La loro è un’innovazione di tipo puramente comportamentale. Infatti, i fringuelli-picchio raccolgono una spina di cactus, o un rametto, o il picciolo di una foglia, tenendoli col becco a mo’ di lingua estroflessa; poi inseriscono questa sonda posticcia qua e là, nelle fessure, per stuzzicare gli insetti e snidarli. Questo stratagemma è uno dei pochi esempi di uso di un arnese da parte degli animali. Quando li si osserva in azione, non si può fare a meno di pensare che i fringuellipicchio siano dotati di intelligenza. Addirittura, sono stati colti nell’atto di correggere i propri errori nel corso delle loro battute di caccia. Per esempio, si è visto un individuo provare a rompere in due un bastoncino troppo lungo. Un altro, invece, aveva raccolto un fuscello biforcuto a un’estremità, con la quale aveva cercato invano di sondare un buco; ritentò allora – questa volta con successo – dopo averlo ruotato, con l’estremità normale. Come hanno fatto questi uccelli a escogitare un’innovazione di tale portata? Peter Grant, la persona che, di sicuro, ha trascorso più tempo a osservare i fringuelli di Darwin, sostiene che essi arrivarono a

servirsi di strumenti più per caso che per ragionamento, affidandosi poi al condizionamento operante. «Posso immaginarmi», scrisse, «un fringuello-picchio che, frustrato, non riesce a far cadere un pezzo di corteccia che ha tolto dall’orlo di una fessura praticata in un ramo; che per sbaglio spinge quel pezzo ancor più addentro, toccando involontariamente la preda, e in premio la vede muoversi verso l’uscita, alla portata del suo becco.» Successivamente, potrebbe verificarsi un’evoluzione per assimilazione genetica. Gli individui dotati di una più spiccata capacità di apprendimento per tentativi ed errori potrebbero imitare gli inventori della nuova tecnica, e quindi avere un tasso di sopravvivenza superiore. Col tempo, la popolazione giungerebbe a contenere non solo gli uccelli più smaliziati, ma anche quelli con l’istinto ormai addestrato a ricorrere innanzitutto alla raccolta e alla manipolazione di bastoncini. I biologi evoluzionisti ritengono che un’assimilazione genetica di questo tipo possa occasionalmente accelerare di molto il corso dell’evoluzione, processo nel quale la flessibilità comportamentale svolge un ruolo d’avanguardia. Se la necessità è la madre delle invenzioni, allora l’occasione ne è il latte materno. L’uso di strumenti da parte dei fringuelli di Darwin, così come il becco a doppio uso dell’akiapolaau delle Hawaii, è comparso in luoghi remoti in cui mancava la competizione dei picidi dominanti. Una svolta ancor più bizzarra, utile per illustrare questo principio, è quella rappresentata dalla hula (Heteralocha acutirostris.) della Nuova Zelanda. Non essendovi picidi autoctoni con i quali competere, questa specie strana, simile al corvo, sviluppò una suddivisione del lavoro tra maschio e femmina che permetteva ai due di lavorare assieme come se fossero un sorta di «picchio composto». Avvistati per l’ultima volta nel 1907, sull’Isola Settentrionale, oggi questi uccelli sono estinti, ma durante i loro ultimi giorni sono stati osservati quanto è bastato a darci un quadro della loro tecnica di procacciamento del cibo, anche in questo caso unica nel mondo dei pennuti. Il maschio era armato di un becco solido e diritto, di forma simile a quello di un picide, con il quale, dopo aver scalfito del legno morto o dei virgulti verdi, beccava le larve di coleotteri e di altri

insetti in tal modo scoperti. La compagna, in compenso, possedeva un becco lungo, sottile e incurvato, simile a quello di molti drepanidi delle Hawaii. Lavorando a stretto contatto con il maschio, sondava le fessure più profonde e catturava gli insetti fuori della portata del compagno. La casistica della storia naturale è fitta di episodi di vere e proprie esplosioni nella formazione di specie, avvenute in risposta a circostanze ecologiche favorevoli. Alle Galapagos, a Rarotonga, a Juan Fernandez, e su altre remote isole oceaniche, le piante della famiglia delle Compositae. hanno ripetutamente dato il via al fenomeno della radiazione, in modo da riempire gran parte delle nicchie disponibili per la vegetazione. L’insieme delle composite è, tra le angiosperme, uno dei più diffusi e con il più alto grado di diversità, annoverando tra le sue file piante molto note: l’aster, il girasole, il cardo, il tagete e la lattuga. I loro fiori sono, in realtà, infiorescenze a capolino, cioè gruppi di moltissimi fiorellini circondati da strutture simili a foglie, le brattee. Oltre ad abbellire i giardini e le distese di fiori selvatici, si incontrano un po’ dovunque sotto forma di graziose piante erbacee, quali il dente di leone e la verga d’oro, indomabili d’estate ma evanescenti all’arrivo del gelo invernale. Sulle più lontane isole coperte da foreste, molte specie di composite dominano anche sugli alberi e gli arbusti nativi grazie al fatto che si sono evolute da piccole piante erbacee, quali erano, in quelli che si potrebbero definire «alberi di aster» e «lattughe-albero». Sant’Elena è una delle isole più remote al mondo, situata nell’Atlantico meridionale a metà strada tra l’Africa e il Sudamerica. Prima di essere abitata in modo stabile – in principio dagli olandesi, e poi dagli inglesi – verso la fine del primo decennio del secolo scorso, i versanti vulcanici di Sant’Elena erano ammantati da foreste di composite legnose, inframezzate da altre composite e da altre forme di piante erbacee, che costituivano una flora comprendente un totale di trentasei specie endemiche di angiosperme. Le foreste erano popolate da 157 e più specie di coleotteri endemici evolutisi a partire da soli venti gruppi e che si sostentavano nutrendosi di vegetali, di fibre

lignee di piante morte, di funghi, e divorandosi l’un l’altro. Il settanta per cento di tali insetti era costituito da coleotteri rincofori, una percentuale per nulla in linea con quella dei coleotteri del resto del mondo ma, ciò nonostante, un insieme perfettamente funzionante. Sant’Elena era un ecosistema quasi del tutto chiuso, una biosfera funzionante in condizioni di isolamento spinto, non molto diversa da quella che potrebbe essere una colonia satellite nello spazio. La flora di ciascuna di queste isole, disseminate sul globo e invase dalle composite, contiene tutti i passaggi principali della transizione dalle specie erbacee a quelle arbustive a quelle arboree. È come se ogni isola fosse un moderno laboratorio della macroevoluzione, e la sua flora un esperimento evolutivo in atto, in attesa che i biologi evoluzionisti ne raccolgano gli indizi e ne raccontino la storia. Tali esperimenti sono resi ancor più convincenti dal fatto che sono stati ripetuti in altri gruppi di piante erbacee, soprattutto tra i membri della famiglia delle Lobeliaceae. Sherman Carlquist scrisse, a proposito della biologia delle isole, che: La metamorfosi di queste lattughe in arbusti e in alberi induce al confronto con

quanto è accaduto ad altre piante su altre isole. Le lobeliacee hawaiiane forniscono un esempio di parallelismo quasi perfetto. […] I vari tipi di crescita e di forma delle

foglie sono a grandi linee sovrapponibili, e dimostrano che le isole dotate di un clima particolare e di un particolare grado di isolamento tendono a promuovere tali forme e tali dimensioni.

Qual è la forza selettiva che spinge le piante erbacee ad assumere dimensioni maggiori, e che mette assieme le foreste delle isole? I dati provenienti da più parti la individuano nella particolare condizione ecologica rappresentata dall’assenza di alberi convenzionali. La quasi totalità delle specie arboree, sia delle regioni temperate sia di quelle tropicali, ha capacità di dispersione limitate. Le ghiande del faggio, i semi delle dipterocarpacee e i frutti degli agrumi non sono fatti per grandi spostamenti dall’albero genitore, o per sopravvivere all’immersione in acqua salata. Al contrario, le composite, piante erbacee tra le più comuni al mondo, sono maestre nell’arte della dispersione. Quando isole come Sant’Elena e Oahu emersero dal mare

sotto forma di vulcani, esse, assieme ad altre erbacee, furono evidentemente le prime a raggiungerle. E rientrarono anche nel novero dei pionieri di Krakatau, dopo l’eruzione esplosiva del 1883. Queste emigranti, capaci di spostarsi a grande distanza, giunsero in un ambiente in gran parte o del tutto privo di arbusti e di alberi. Ebbero quindi l’opportunità di evolversi verso queste forme e di occuparne il posto prima dell’arrivo delle piante tradizionalmente legnose, ammesso e non concesso che tale ultimo evento fosse possibile. In L’origine delle specie, Darwin, servendosi del nuovo linguaggio della teoria della selezione naturale, dimostrò di aver compreso correttamente tale processo: Gli alberi avrebbero poca probabilità di raggiungere isole oceaniche lontane; una pianta erbacea che sul continente non avrebbe possibilità di competere

vittoriosamente con i molti alberi pienamente sviluppati potrebbe, stabilitasi in un’isola, acquistare un vantaggio su altre piante erbacee, divenendo sempre più alta

e superandole in altezza. In tal caso la selezione naturale tenderebbe ad aumentare la statura della pianta, a qualunque ordine essa appartenga, e di conseguenza a tramutarla prima in arbusto e poi in albero.

Il portamento arboreo delle piante erbacee isolane solleva un interrogativo più ampio: perché sono solo certi gruppi di organismi a essere sottoposti al fenomeno della radiazione? L’esempio fornitoci dalle composite mostra che alcuni organismi sono a volte dotati di tale facoltà grazie a una maggior capacità di dispersione. È probabile che una specie in grado di invadere un’isola nuova, o un lago, o un altro tipo di ambiente disabitato, di occuparlo completamente e di suddividersi in più specie, ciascuna delle quali adatta a svolgere un particolare compito, possa controllare il territorio prevenendo l’invasione e la diversificazione di altre specie. Per esempio, sulle isole Galapagos convive con le tredici specie di fringuelli di Darwin un piccolo assembramento di pigliamosche, di mimi e di parulidi, nessuno dei quali ha però raggiunto un livello di radiazione adattativa pari a quello dei fringuelli. Forse che il loro antenato è giunto per primo, e ha sottratto ogni possibilità agli ultimi arrivati? Tale predominio potrebbe essere stato frutto nient’altro che di una

superiore capacità di dispersione. Ma, poiché non conosciamo il momento esatto dell’arrivo dei fringuelli, non possiamo dire nulla con certezza. D’altra parte, a prescindere dalla data d’arrivo, può darsi che il progenitore dei fringuelli di Darwin avesse caratteristiche tali da consentirgli di evolversi e di irradiarsi in modo più efficiente dei rivali. Può darsi che esso possedesse tratti anatomici e comportamentali più generalizzati, che gli consentirono di adattarsi velocemente a un ambiente parzialmente vuoto. Se è stato effettivamente così, è forse possibile, oggi, dedurre quale fosse, a tale riguardo, la natura della specie originaria? Con certezza assoluta no; ma con un certo grado di approssimazione sì, perché – fatto incredibile – tuttora esiste qualcosa che assomiglia molto alla specie ancestrale. C’è un’altra specie di fringuello di Darwin, la numero quattordici, che vive sull’isola di Coco, un fazzoletto di 47 km quadrati, sito 580 km a nordest delle Galapagos. Parte del Costa Rica, l’isola si presenta collinosa, disabitata, ed è coperta da una fitta foresta pluviale tropicale. Il fringuello di Coco, Pinaroloxias inornata, vive assieme ad altre tre specie di uccelli che si riproducono sul territorio dell’isola: un cuculo, un pigliamosche, e il parulide Dendroica petechia aureola. La mancanza di competizione ha consentito al fringuello di dedicarsi a quella che i biologi chiamano espansione ecologica, vale a dire l’espansione di una singola specie in più habitat. L’espansione ecologica è fenomeno comune sulle isole remote, dotate di una fauna e una flora esigue; personalmente, ho avuto modo di osservarlo molte volte tra le formiche, ma tra i fringuelli dell’isola di Coco raggiunge livelli davvero spettacolari. Tutti membri interfecondi di una singola specie, quei fringuelli occupano nicchie in genere spartite tra gruppi di specie, o di generi, o addirittura di intere famiglie di uccelli. Distribuitisi dalla costa alla sommità delle colline, ricercano il cibo all’interno delle foreste dal livello del suolo alla cima degli alberi, andando in cerca di insetti, ragni e altri artropodi, nonché di molluschi, piccole lucertole, semi, frutta e nettare. Sotto questo aspetto, il fringuello di Coco surclassa di gran lunga qualunque

specie di fringuello di Darwin delle Galapagos. Ma il fatto di maggior spicco è che ogni individuo si specializza verso un tipo particolare di cibo, e mantiene tale abitudine per alcune settimane, o magari per tutta la vita. Sembra che questa radiazione adattativa microcosmica si fondi sull’apprendimento per osservazione. Durante una permanenza di dieci mesi a Coco, Tracey Werner e Thomas Sherry – i biologi che hanno scoperto il fenomeno dell’espansione ecologica – hanno osservato alcuni giovani esemplari di fringuello avvicinarsi e imitare il tipico comportamento alimentare di Dendroica petechia aureola. e dei piro piro. Senza dubbio, poi, i giovani copiano il comportamento degli individui più vecchi della loro stessa specie. È un po’ quello che succedeva nel Medioevo, quando un giovane apprendista si sceglieva un maestro appartenente a una certa corporazione: alla stessa maniera, gli uccelli giovani prosperano grazie al fatto di ricevere un’istruzione di tipo personalizzato. I fringuelli di Coco hanno un becco che, per dimensioni e forma, è una via di mezzo tra quello dei parulidi e quello dei fringuelli classici. Vista la loro predisposizione a diversificarsi, a livello individuale, nel modo di nutrirsi, se le circostanze lo consentissero potrebbe verificarsi una rapida radiazione adattativa stile Galapagos. Ma, in questo caso, le circostanze sono sfavorevoli. Infatti, Coco è troppo piccola e troppo lontana da altre isole per consentire la formazione di nuove specie. Perciò, la radiazione dei fringuelli di Coco resta bloccata a uno stadio embrionale, e sull’isola continua a esserci una sola specie. In virtù delle caratteristiche biologiche peculiari che già possiedono, alcuni tipi di piante e di animali sembrano pronti a scattare per espandersi e accampare diritti di prelazione su molte delle nicchie presenti negli ambienti scarsamente popolati. Se la nuova dimora è sufficientemente complessa da consentire il crearsi di nuove specie e da stimolare la specializzazione ecologica, allora il processo di radiazione giunge a buon fine. Un altro esempio di propensione alla radiazione – esempio che, come quello dei fringuelli di Darwin, fornisce un’immagine chiarissima – è dato da alcuni Cichlidae. di acqua dolce, una famiglia di pesci che si trova, nel Nuovo

Mondo, dal Texas al Sudamerica, e dall’Egitto alla Provincia del Capo nel Vecchio Mondo. Inoltre, vi è un gruppo di loro specie, più primitive, che vive in Madagascar, e tre altre specie che sono endemiche dell’India meridionale e di Sri Lanka. Pullulanti di ciclidi sono i Grandi Laghi dell’Africa orientale, le cui acque si stendono come una collana lungo la Rift Valley, dall’Uganda al Mozambico. Questi pesci dominano la fauna acquatica essendosi irradiati sino a occupare quasi tutte le nicchie principali disponibili per i pesci d’acqua dolce. I ciclidi sono l’equivalente lacustre dei drepanidi delle Hawaii. Per esempio, le trecento e più specie presenti nel solo lago Vittoria comprendono anche le seguenti, che esemplificano i principali tipi di adattamento: Astatotilapia elegans, simile alla perca; si nutre di ciò che trova sul fondo, senza preferenze. Paralabidochromis chilotes, dalla bocca ampia con labbra ispessite; si nutre di insetti. Macropleurodus bicolor, dalla bocca piccola; ha denti faringei a forma di sasso per frantumare le conchiglie di gasteropodi e altri molluschi. Lipochromis obesus, possiede corpo più massiccio e bocca un po’ più ampia; si nutre dei piccoli di altri pesci. Prognathochromis macrognathus, assomiglia al luccio a causa del corpo slanciato, della testa spropositatamente grossa e delle forti mascelle dotate di denti aguzzi; si nutre di altri pesci. Pyxichromis parorthostoma, dal capo schiacciato, bocca all’insù e labbra ispessite; probabilmente ha abitudini alimentari specializzate, ancora sconosciute.

Haplochromis obliquidens, denti larghi e piatti in punta; bruca le alghe. La gamma di forme del lago Vittoria è la più ampia osservabile in un gruppo di pesci singolo, e limitato a un solo corpo idrico. Altrettanto degna di nota è la gradualità dei passaggi che collegano le specie facenti parte di ciascuna classe adattativa, a partire dai primi stadi dei cambiamenti anatomici per arrivare alle forme corporee più specializzate. Tra quelli che si nutrono di molluschi – tanto per fare un esempio – vi sono alcune specie dotate di denti faringei appena un poco più grossi del normale, che i pesci utilizzano per frantumare le conchiglie delle loro prede. Altre specie, in qualche modo di tipo più progredito, possiedono tali denti in numero maggiore – molti dei quali a forma di sassolino – con muscoli faringei più robusti per serrarli sulle conchiglie. Altre specie ancora, quelle dalla specializzazione più spinta verso un’alimentazione a base di molluschi, si servono sia delle ossa faringee sia di una vera selva di denti a sassolino, mossi da muscoli faringei ancor più potenti. I ciclidi che si nutrono di alghe, così come quelli che predano altri pesci, presentano morfoclini simili, vale a dire serie di specie che vanno dalle forme più generiche a quelle più specializzate. I ciclidi del lago Vittoria sembrano essere tutti discendenti di una singola specie progenitrice che ha colonizzato il lago provenendo da quelli vicini, più antichi. Le prove di tale fatto, presentate nel 1990 da Axel Meyer e dai suoi collaboratori, si basano sul grado di somiglianza del patrimonio genetico dei pesci. In particolare, quattordici specie, appartenenti a nove generi, mostrano una variazione minima nelle sequenze nucleotidiche del Dna mitocondriale, un livello di diversità inferiore a quello riscontrabile nel complesso della specie umana. Quasi tutti i ciclidi del lago Vittoria appartengono al più ampio gruppo degli aplocromini, termine informale utilizzato negli anni passati per suggerire la discendenza da un comune antenato, ipotesi, questa, ora confortata dall’analisi molecolare. Altri aplocromini abitano le acque del lago Malawi e del lago Tanganika. Simili alle

specie del lago Vittoria per quanto riguarda le sequenze del Dna mitocondriale, non lo sono tuttavia tanto quanto le specie del lago Vittoria tra loro. Un’altra caratteristica dei ciclidi del lago Vittoria degna di nota è il fatto che la loro radiazione è un evento recente. L’età del lago è stata valutata tra 250.000 e 750.000 anni. Utilizzando la sequenza del Dna del gene per il citocromo b, la cui velocità di evoluzione regolare funge, tra gli animali, da «orologio molecolare», Meyer e il suo gruppo di ricerca hanno calcolato che l’intera evoluzione dei ciclidi richiese non più di 200.000 anni.

I ciclidi del lago Vittoria rientrano in quella speciale categoria di radiazione adattativa, chiamata sciame di specie. (species flock.), che comprende un numero relativamente alto di specie tutte derivate da un antenato comune e tutte costrette in un luogo singolo e ben isolato quale un lago, un bacino fluviale, un’isola o una catena montuosa. Il principale rompicapo teorico prodotto dagli sciami di specie sta nella loro modalità di crescita. Come è possibile che le popolazioni si

frantumino ripetutamente, all’interno di un habitat chiuso ma privo di barriere geografiche interne, fino a formare tante specie? Se il caso degli aplocromini dovesse essere tipico dei pesci o di altri vertebrati, allora ci dovrebbero essere delle barriere geografiche – come istmi terrestri con fasi alterne di emersione e immersione – atte a spezzare le popolazioni e a dare tempo ai frammenti di differenziarsi fino al livello di specie. A una prima analisi pare, però, che il lago Vittoria sia andato soggetto, nel corso della sua storia, a un numero di cicli troppo esiguo per aver potuto generare trecento specie a partire da un solo antenato. Le prove esistenti ci spingono a concludere che i ciclidi generarono nuove specie grazie a mezzi simpatrici, cioè suddividendosi senza essere separate da alcuna barriera fisica. Ma potrebbe anche non essere così. Si ricordi che è sufficiente un singolo carattere – un cambiamento comportamentale nel corteggiamento, o uno spostamento nella stagione riproduttiva – per creare una nuova specie. Inoltre, si tenga in considerazione il fatto che il lago Vittoria è un corpo idrico molto esteso, di circa 70.000 km quadrati, più grande, quindi, dei vicini stati del Ruanda e del Burundi messi assieme, e che ospita milioni di pesci. È orlato da una linea costiera che si sviluppa per 24.000 km e che contiene numerosi habitat locali, ciascuno contraddistinto da caratteristiche ampiamente variabili, dalle calette lambite dalle onde ai profondi bacini del largo che non vedono mai la luce. Vi devono essere state molte occasioni, nel corso di centinaia di migliaia d’anni di storia biologica, durante le quali le popolazioni di ciclidi hanno visto contrarsi i loro areali distributivi, rimanendo così frammentate in popolazioni temporaneamente isolate. Può darsi, almeno in teoria, che nel corso di decine o centinaia di generazioni si siano introdotte delle differenze nel corteggiamento o nella preferenza di habitat, processo che può essere stato così veloce ed essersi verificato così ripetutamente da generare, nel corso della vita del lago Vittoria, ben trecento specie di ciclidi. L’esplosione evolutiva sarebbe potuta avvenire ancor più facilmente se i pesci ciclidi fossero predisposti a una rapida evoluzione come quella dimostrata dai fringuelli di Darwin. L’indizio da cercare consiste in una specie di ciclide che sia in qualche modo equivalente

al fringuello dell’isola Coco, vale a dire una specie che non sia contrastata, neppure da poche altre, e che sia molto variabile e, in quanto ad abitudini di vita, eclettica. Il bello è che un esempio del genere esiste, e pare quasi essere stato creato per il diletto degli scienziati e degli scrittori di manuali. Però, non si trova nelle acque affollate dei Grandi Laghi africani, dove, tra gli sciami di specie, la competizione e la specializzazione ha raggiunto livelli prossimi alla saturazione. Per trovare le condizioni adatte, dobbiamo trasferirci alle acque di Cuatro Ciénegas, nello stato di Coahuila, nel Messico settentrionale. Lì, all’interno di torrentelli, laghetti e canali, vive la specie che stiamo cercando, Cichlasoma minckleyi. Si tratta di un piccolo pesce macchiettato, simile a una perca, che vive assieme ad altri pesci di dimensioni analoghe, tra i quali vi è un’altra specie di ciclidi. Le sue popolazioni sono costituite di due tipi di individui, radicalmente differenti in quanto a preferenze alimentari: la forma dotata di papille, con mascelle e denti più esili; e la forma dotata di molari, con mascelle più spesse e denti a forma di sassolino. All’aspetto sembrano due specie completamente differenti, ma in realtà non lo sono. Le due forme si incrociano senza problemi, e quindi costituiscono una singola specie. Entrambe si nutrono negli stessi luoghi e delle stesse piccole prede, tra cui insetti, crostacei e vermi. Tuttavia, quando il cibo comincia a scarseggiare, i Cichlasoma. armati di molari, e solo loro, si concentrano sui molluschi dotati di conchiglia, che sono in grado di frantumare con le loro mascelle più forti e i denti appiattiti. Grazie a questo ampliamento dietetico, la competizione fra le due forme si riduce, ed entrambe riescono così a sopravvivere ai tempi duri. È facile immaginare una specie analoga a Cichlasoma minckleyi. che invada un nuovo corpo idrico del tipo del lago Vittoria e che lì si irradi, in breve tempo, andando a occupare molte nicchie ecologiche. La prima fase di tale processo sarebbe di certo costituita dalla divisione in due specie distinte, riproduttivamente isolate, una di Cichlasoma. dotata di papille, che si concentri sugli insetti e su altre prede dal corpo molle, e una di Cichlasoma. armata di molari, che predi invece chiocciole e altri molluschi.

I biologi hanno cominciato a dare una caccia più sistematica a specie che, come queste, si trovano sulla soglia della radiazione adattativa e, quindi, della macroevoluzione. Il caso forse più clamoroso finora scoperto, che va più in là perfino del fringuello di Coco e del Cichlasoma. messicano, è quello del salmerino, Salvelinus alpinus, un pesce salmoniforme che si trova nei laghi e nei fiumi della regione polare artica [e anche sulle nostre Alpi NdT]. In sua compagnia vivono poche altre specie, e pertanto il salmerino dispone di un buon numero di nicchie alimentari praticamente non sfruttate. Molte popolazioni locali comprendono forme anatomicamente diverse e con abitudini alimentari e tassi di crescita differenti. In Islanda, nel Thingvallavatn (vatn, lago), vi sono quattro forme: una si nutre sul fondo e ha grosse dimensioni; l’altra, più piccola, si nutre pure sul fondo; la terza dà la caccia ad altri pesci, mentre la quarta predilige le alghe. Skulì Skùlason e i suoi colleghi ricercatori dell’Università dell’Islanda, pur avendo riscontrato una differenza genetica tra queste quattro forme, hanno osservato che esse, tuttavia, si incrociano liberamente, formando quindi un’unica specie notevolmente plastica. Il salmerino, come il fringuello e il Cichlasoma, sembra in attesa di un’eventuale radiazione adattativa, o, meglio, di una radiazione che, avendo a disposizione il tempo necessario, avverrà di certo. I laghi artici nei quali vive il salmerino si sono formati solo qualche migliaio di anni fa in seguito al ritirarsi dei ghiacciai continentali. Quando si guarda alla storia naturale attraverso la lente della teoria evoluzionistica, essa si fa sempre più piacevole e interessante; ma quando ci si rende conto della repentinità con la quale le sue creazioni possono esser portate all’estinzione, allora essa si fa sempre più premonitrice. È da migliaia, o da milioni di anni che la maggior parte dei gruppi che hanno subito il fenomeno della radiazione adattativa restano prossimi al picco della diversità. Rispetto a questo standard, si può dire che i pesci ciclidi del lago Vittoria stanno sparendo quasi istantaneamente, estinti in massa dalla perca gigante del Nilo. Questo vorace predatore, introdotto dalle autorità ugandesi negli anni Venti a fini venatori, è un «elefante acquatico» che

raggiunge i 2 metri di lunghezza per un peso di 180 kg, e che, divorando i ciclidi, si sta voracemente aprendo la strada, da nord, dove è stato introdotto, verso sud. Nelle zone in cui domina la perca, le specie di ciclidi si sono ridotte della metà. Il confinamento di gruppi quali i ciclidi africani e i drepanidi hawaiiani all’interno di un singolo lago o di un solo arcipelago fa sì che tali gruppi siano estremamente vulnerabili ai mutamenti ambientali, tanto da poter essere spazzati via dall’uomo in un sol colpo. A far loro compagnia vi sono gruppi di livello tassonomico più alto e con distribuzione geografica più ampia, miseri resti di un passato glorioso: le cicadacee, i coccodrilli, i dipnoi, i rinoceronti, e gli altri cosiddetti fossili viventi. Anche questi organismi, dopo essere rimasti in auge per milioni di anni, sono spinti sull’orlo dell’estinzione dall’azione dell’uomo. All’estremo opposto vi sono pochi gruppi ristretti che, in un periodo di tempo equivalente, si sono mantenuti ai livelli massimi di radiazione. Queste specie ostentano una varietà di fogge e di cicli vitali davvero stupefacente, e sono ampiamente distribuite in tutto il mondo in grande quantità. Tra queste dinastie di vecchio stampo vi sono i protozoi ciliati, i ragni, i crostacei isopodi e i coleotteri, così come un gruppo che, a mio avviso, merita una particolare attenzione in una qualunque seria trattazione sulla diversità e la storia naturale: quello degli squali. Gli squali, pesci che compongono i tre superordini degli Squatinomorphii, Squalomorphii. e Galeomorphii. della classe dei Chondrichthyes, ombre nel mare dei nostri incubi, predatori solitari di spaventosa velocità che mettono in discussione l’importanza attribuita da Darwin al fattore intelligenza, abitano il nostro pianeta da 350 milioni di anni. Comparsi al termine del Devoniano sotto forma di cladodonti dal corpo rigido, si sono poi irradiati mantenendo in tutti gli oceani un alto livello di diversità fino all’inizio del Permiano. A quell’epoca, 290 milioni di anni fa, la loro diversità declinò a un livello basso, perdurando in tale condizione per 100 milioni di anni. Poi, i sopravvissuti si ripresero, si espansero per la seconda volta, e, non si sa come, attraversarono nel pieno del loro fulgore la grande estinzione della fine dell’era dei dinosauri. Oggi, la loro varietà è

almeno pari a quella del passato. Viste da lontano, le specie di squali si assomigliano tutte, tranne che per le dimensioni: un dorso con una pinna che, per un istante da cardiopalmo, fende la superficie, e poi una sagoma a siluro che scivola verso l’acqua profonda. In realtà, le 350 specie esistenti nel mondo sono estremamente variabili, al punto da ampliare il significato stretto della parola squalo. Perché esse possano essere considerate come facenti parte di un medesimo gruppo, la loro comune origine deve essere desunta da caratteristiche della loro anatomia interna. L’antica radiazione degli squali è contrassegnata da differenze tra le varie specie molto maggiori di quelle riscontrabili nella radiazione relativamente recente dei fringuelli di Darwin e dei ciclidi del lago Vittoria. Si è tentati di pensare che il tempo abbia messo a punto le loro specializzazioni, li abbia fatti misurare contro un maggior numero di competitori, ne abbia estinto un numero maggiore su archi temporali più lunghi, fino a produrre l’attuale gruppo di specie, più robusto e durevole.

La radiazione adattativa degli squali si è spinta ad un livello estremo, ben esemplificato dal grande squalo bianco (Carcharodon carcharias), micidiale predatore delle foche e di altri mammiferi marini. Un’altra specie, più bizzarra, è lo squalo «cookie-cutter» (Isistius

brasiliensis), un parassita che taglia pezzi circolari di carne dal corpo di mammiferi marini o di grossi pesci, senza peraltro ucciderli.

Altri tipi adattativi del gruppo degli squali spaziano da specie con una fisionomia familiare,

come Negaprion brevirostris, all’immenso Megachasma, allo squalo angelo (Squatina), simile a una razza.

Se c’è uno squalo che, nell’immaginario collettivo, fa da prototipo, questi è senza dubbio lo squalo tigre (Galeocerdo cuvier.), pesce di grosse dimensioni qualche volta definito la pattumiera del mare. Lungo fino a 6 metri e pesante fino a una tonnellata, lo squalo tigre è spesso attratto all’interno delle baie, dove si avventa su quasi tutto ciò

che può ingoiare e contenga anche minime tracce di proteine animali. All’interno dello stomaco di alcuni squali tigre sono stati trovati pesci, stivali, bottiglie di birra, sacchi di patate, carbone, cani e pezzi di corpi umani. Quello di un esemplare gigante conteneva tre soprabiti, un impermeabile, una patente di guida, uno zoccolo di mucca, le corna di un cervo, dodici aragoste non digerite, e una gabbia per galline ancora contenente penne e ossa. Gli squali tigre assalgono gli uomini in modo casuale, voglio dire non con premeditazione, ma casualmente, come parte della loro dieta estremamente varia. Diverso è il caso del grande squalo bianco, Carcharodon. carcharias, arcinota macchina della morte e, assieme al coccodrillo marino o degli estuari (Crocodylus porosus.) e alla tigre di Sundarbans, l’ultimo scaltro predatore di uomini ancora in libertà. Il grande squalo bianco è senza dubbio l’animale più terrificante del pianeta: rapido, instancabile, misterioso (non si sa da dove arrivi e dove vada) e imprevedibile. Lo ammetto: il mio è un giudizio dettato dall’emotività; ma questo squalo mi sembra quello dotato più di tutti dell’ da squalo, è addirittura la quintessenza dello squalo. Rispetto allo squalo tigre, il grande squalo bianco si comporta più da predatore che da divoratore di carogne, nutrendosi di una vasta schiera di pesci ossei, di altri squali, di tartarughe di mare, nonché – e questo è il tratto principale, almeno per quanto riguarda noi esseri umani – di mammiferi marini come focene, foche e leoni di mare. Il luogo migliore per incontrare Carcharodon. carcharias. sono le acque fredde ove stazionano i piccoli di foca e di leone marino, per esempio attorno alle isole Farallon, in California, o a Dangerous Reef, nell’Australia meridionale. Il grande squalo bianco è pericoloso solo perché non è capace di distinguere tra un mammifero marino e un essere umano che sta nuotando. I sommozzatori, avvolti nelle loro mute di gomma, e i surfisti, distesi sulle loro tavole con le braccia che penzolano in acqua, sono senz’altro imitazioni passabili delle foche e dei leoni marini. Lo squalo vede quella che gli sembra la silhouette di una preda familiare, la annusa, ci pensa su per un attimo, e poi si lancia verso il bagnante a una velocità superiore ai 40 km orari.

All’ultimo momento ruota gli occhi all’indietro per proteggerli dall’impatto. Spalanca le fauci ampie, reclina la testa per proiettare in avanti la chiostra di denti e poi morde con forza per un secondo. Quindi aspetta che la vittima muoia dissanguata. È durante questo intervallo, mentre il killer nuota in circolo nei pressi, che i soccorritori riescono spesso a portare le vittime al sicuro senza mettere a repentaglio la propria vita. Per anni, fin da quando la storia naturale del grande squalo bianco era ancora poco nota e prima che esso diventasse il mostro mitico della cultura popolare, io sono stato affascinato contemporaneamente dalla realtà e dall’immagine di questa creatura, dotata di molte caratteristiche davvero mirabili. Infatti, sono un po’ i campioni di decathlon dei mari, fatti per la velocità, dotati della forza necessaria per la caccia alle prede di grosse dimensioni, e della resistenza indispensabile durante i lunghi spostamenti in oceano aperto. Gli adulti crescono fino a raggiungere dimensioni immense, pari a sette metri di lunghezza e 3300 kg di peso. Gli occhi hanno dimensioni sproporzionate a causa dell’adattamento alle acque buie nelle quali trascorrono la maggior parte del tempo dedicato alla caccia. Il grande squalo bianco ricorda per certi versi il tonno, la cui sagoma è simile a quella di altri pesci pelagici: il corpo è fusiforme e rigidamente muscoloso; il naso a punta fende l’acqua come la prua di un sottomarino; nella parte posteriore del corpo, lungo i fianchi, corrono dei rilievi che servono a guidare in modo uniforme l’acqua che fluisce dietro al corpo. La coda potente ondeggia dolcemente da un lato all’altro. La bocca, munita di file parallele di denti triangolari seghettati, è tenuta parzialmente aperta in una sorta di ghigno da clown che pare voler confermare ai subacquei quanto lo squalo sia contento di averli incontrati. L’acqua scorre continuamente attraverso la bocca e, più indietro, sulle branchie, le quali fanno parte di una sorta di sistema a statoreattore che rifornisce di ossigeno in modo efficiente lo scattante corpo di grosse dimensioni. Il grande squalo bianco è un organismo a sangue caldo, il che gli consente di incrociare nelle acque più fredde di quasi tutti gli oceani e di pascolare dalla superficie fino a una profondità di almeno 1300 metri.

Nel 1976, il naturalista Hugh Edwards si trovava nell’Australia occidentale, al largo della stazione baleniera di Albany, all’interno di una gabbia antisqualo. Si guardava attorno, in cerca di squali, quand’ecco comparirne uno, un grosso maschio che si librava a due metri di distanza. Più tardi, Edwards ebbe a scrivere: Nella vita di tutti noi ci sono dei momenti, delle pietre miliari, che si fissano a

lungo nella nostra memoria. Questo fu uno di quelli. Nel corso della sua breve apparizione, divorai con gli occhi ogni minimo particolare dello squalo: gli occhi, scuri come la notte; il corpo magnifico; le lunghe fessure branchiali appena tremolanti; i denti bianchi, perfidi, pericolosi; le pinne pettorali simili alle ali di un

aereo; ma, soprattutto, la sensazione di compostezza, di equilibrio, di forza, di

potenza e di intelligenza che esso emanava. La visione di questo squalo, vivo, fu come una rivelazione. Non c’è esemplare morto, o racconto riferito, che possa trasmettere la stessa sensazione di vitalità e di presenza. Quel faccia a faccia di

pochi secondi valeva più di anni e anni di dicerie, di fotografie e di cadaveri dalle mascelle allentate.

Ma ora lasciamo da parte queste rappresentazioni classiche dello squalo. Desidero discutere del fatto che, data una quantità di tempo sufficiente, l’evoluzione può regolare in modo estremamente preciso le tipologie adattative e irrobustirle in modo da produrre radiazioni del tipo più estremo. Per esempio, uno squalo dall’anatomia e biologia molto differenti da quelle dello squalo tigre e del grande squalo bianco è lo squalo «cookie-cutter» (Isistius brasilensis.). Non è affatto un predatore, bensì un parassita che vive alle spalle di focene, balene, tonni, e perfino di altri squali. Lungo solo mezzo metro, corpo a forma di sigaro, il «cookie-cutter» possiede sulla mandibola una fila ricurva di denti di grosse dimensioni che affonda nel corpo delle vittime e che ruota fino ad asportare dei pezzi conici, ampi 5 centimetri, di pelle e carne. Per molti anni, le cicatrici circolari visibili sulle focene e sulle balene sono state un mistero, e la loro causa veniva attribuita ora a infezioni batteriche, ora a invertebrati parassiti sconosciuti, fino a quando, nel 1971, si scoprirono le reali abitudini del piccolo squalo. Il «cookie-cutter» aggredisce anche i sottomarini nucleari, dai quali strappa bocconi di scarso valore

nutritivo dal rivestimento in neoprene dei bulbi del sonar e della rete di idrofoni. Lo squalo «cookie-cutter» passa quello che mi piace definire il test della radiazione adattativa completa, dimostrando l’esistenza di una specie adattatasi a nutrirsi di altri membri del suo stesso gruppo, cioè di altri prodotti della medesima radiazione adattativa. Altrettanto specializzati, ma in una direzione completamente diversa, sono gli squali filtratori, pesci giganteschi che incrociano placidi subito sotto la superficie in oceano aperto, filtrando l’acqua, alla maniera dei cetacei misticeti, e ingoiando enormi quantità di crostacei copepodi e di altri piccoli organismi planctonici. Lo squalo balena (Rhincodon typus.), che arriva a 13 metri di lunghezza e a molte tonnellate di peso, è forse il pesce più grosso che sia mai esistito. All’estremo opposto c’è il verde squalo lanterna (Etmopterus virens.) che, con i suoi 23 centimetri – le dimensioni di un grosso pesce rosso – è il più piccolo che ci sia. Gli altri fondamentali tipi adattativi che ingrossano le fila degli squali sono: • Gli eterodontidi (per esempio, Heterodontus japonicus.), che frequentano i fondali prossimi alla costa e che usano i loro denti molariformi e robusti per nutrirsi di molluschi. • I clamidoselaci (per esempio, Chlamydoselachus anguineus.), che vagabondano negli abissi marini, hanno corpo e pinne allungati, e denti simili ad ami da pesca. • Gli squali angelo (per esempio, Squatina dumerili.) che se ne stanno acquattati sul fondo; assomigliano piuttosto alle razze, ma, anatomicamente parlando, sono squali. • I pesci volpe (per esempio, Alopias vulpinus.) che sono grossi pesci pelagici che a volte nuotano in coppia e che si servono della lunghissima coda, agitandola a mo’ di frusta, per tramortire i pesci più piccoli.

Di sicuro, nel mare nuotano specie di squali ancora sconosciute, e alcune di esse, probabilmente, sono di grosse dimensioni. La mia congettura si basa sul ritrovamento, avvenuto nel 1976, dello squalo Megachasma pelagios. Il primo esemplare fu ripescato da acque profonde al largo delle Hawaii da un battello della Marina militare degli USA dopo che l’animale si era impigliato in un paracadute utilizzato dalla nave come ancora flottante. Lungo quasi 5 metri e pesante 750 kg, si rivelò, con grande sorpresa sia della Marina sia dei consulenti ittiologi, diverso da tutti gli squali fino a quel momento conosciuti. Dopo quella volta, sono stati trovati altri quattro esemplari della stessa specie, due dei quali impigliati in reti da pesca al largo della California, e altri due trasportati a riva dalle onde, uno in Giappone, l’altro nell’Australia occidentale. Il Megachasma. è anatomicamente così diverso dagli altri squali da venire inserito in una famiglia tassonomica a sé stante, quella dei Megachasmidae. La caratteristica che più colpisce è data dalle fauci enormi, (da cui il nome volgare inglese di «megamouth») con le quali aspira l’acqua dalla quale filtra copepodi, gamberetti eufausiacei, e altri piccoli organismi planctonici. Il Megachasma. rientra quindi nella stessa corporazione (guild.) ecologica cui appartengono lo squalo balena e lo squalo elefante dei mari settentrionali. Il corpo è cilindrico e flaccido, gli occhi sono piccoli, i suoi movimenti goffi e lenti. A ogni minimo disturbo, si precipita verso le acque profonde. La mascella superiore e il palato sono coperti da uno strato argenteo, iridescente, forse dovuto a un deposito di guanina o di qualche altra sostanza riflettente. All’esemplare rimasto impigliato in una rete da pesca al largo di Los Angeles i ricercatori, indossata la muta da sub, riuscirono a impiantare nel corpo dei trasmettitori e a seguirne gli spostamenti per due giorni. Durante quel lasso di tempo, lo squalo continuò a nuotare a una profondità di 10-15 metri durante la notte, per portarsi a 200 metri durante il giorno. Tale migrazione verticale è tipica dei pesci che vivono in prossimità del cosiddetto strato riflettente profondo, quella spessa fascia dovuta a una forte concentrazione di organismi che, individuabile mediante il sonar, si sposta continuamente su e giù seguendo anch’essa un ciclo di

ventiquattro ore. Il fatto che Megachasma. di giorno si sposti a maggiori profondità, unito al generale comportamento timido e schivo, può forse spiegare la ragione per cui questa specie è rimasta così a lungo sconosciuta. La metafora della successione dinastica, scelta all’inizio di questo capitolo per descrivere il ricambio dei gruppi protagonisti della radiazione adattativa, implica un certo equilibrio della natura, secondo il quale una dinastia non ammette l’esistenza di un’altra a lei troppo simile. La diversità degli organismi ha un limite tale per cui, quando in una certa parte del mondo un gruppo va incontro a radiazione, ve ne deve essere un altro che si contrae. L’evoluzione è così sorprendentemente imprevedibile che non si può elevare questo equilibrio della natura a legge della biologia. Di certo, però, esso esprime una regola, una tendenza statistica: i gruppi dominanti e in fase di espansione tendono a sostituire quelli che si trovano negli stessi luoghi e sono ecologicamente molto simili. La sostituzione di un gruppo con un altro non avviene mai, o quasi, come un Blitzkrieg, una guerra lampo. Quasi sempre si tratta di un Sitzkrieg, una guerra di logoramento, durante la quale il gruppo più recente si spinge gradualmente nel territorio di quello più vecchio, circondando il rivale piano piano, e sostituendo le sue specie a una a una. Altrettanto spesso, tale sostituzione è favorita dalla decimazione della dinastia più vecchia, decimazione che avviene a causa di mutamenti climatici o della scomparsa delle fonti di nutrimento. Un caso da manuale è quello rappresentato dall’ascesa dei mammiferi in seguito alla scomparsa dei dinosauri; ma vi sono altri esempi anche tra i coralli, i molluschi, i rettili archeosauri, le felci, le conifere, e altri organismi ancora che si sono succeduti ai loro diretti rivali nel corso di periodi particolarmente critici che segnarono l’estinzione di molti gruppi. Questi vincitori temporanei approfittarono delle occasioni offerte loro dalle nicchie libere allo stesso modo dei drepanidi delle Hawaii e dei pesci aplocromini del lago Vittoria, con la differenza che il loro fu un successo di portata planetaria, e non limitato a un arcipelago o a un lago.

Veniamo ora a una domanda interessante, insita in quell’equilibrio della natura di cui stiamo parlando: cosa accade quando due dinastie, molto simili e nel pieno del loro fulgore, si incontrano faccia a faccia? Se potessimo metterci, per così dire, nei panni di Dio, e potessimo giocare col tempo su scala geologica tanto da poter aspettare e osservare gli eventi, potremmo eseguire il seguente esperimento ideale: si prendano due parti del pianeta isolate e le si lascino popolare da radiazioni adattative indipendenti di piante e animali, in modo tale che ciascuna delle specie principali abbia, nell’altro teatro, il suo equivalente ecologico; poi, si uniscano le due regioni con un ponte, e si osservi cosa succede. Forse che, quando gli organismi si mescolano, quelli provenienti da una delle due aree sostituiscono quelli dell’altra, cosicché, a occupare l’area totale, rimane un solo biota.? In realtà, questo esperimento è già stato eseguito una volta, in tempi geologicamente recenti; mediante studio comparato dei fossili e delle specie viventi, possiamo giungere a comprendere gran parte di ciò che successe a quei tempi. Due milioni e mezzo di anni fa l’istmo di Panama emerse dal mare, consentendo ai mammiferi del Sudamerica di mischiarsi con quelli del Nordamerica e del Centroamerica. Devo prima spiegare che gli odierni mammiferi di tutto il mondo sono innanzitutto il prodotto di tre – e solo tre – grandi radiazioni adattative, e ciò perché è necessario un intero continente per dare luogo a un singolo processo radiativo di mammiferi, là dove, per gli insetti, un’isola è sufficiente. Varie specie di coleotteri si sono sviluppate in modo rigoglioso sull’isola di Sant’Elena nell’Atlantico meridionale, sull’isola di Rapa nel Pacifico meridionale, e sull’isola di Mauritius nell’Oceano Indiano. Se i mammiferi inetti al volo avessero raggiunto questi stessi fazzoletti di terra – cosa che non fecero, e che forse non avrebbero potuto fare prima dell’arrivo dell’uomo – non è detto che queste specie si sarebbero poi moltiplicate. Il fatto è che i mammiferi, perfino i ratti e i topi, sono animali troppo grossi, troppo attivi, e a distribuzione troppo ampia: per effettuare una radiazione adattativa pari a quella dei drepanidi e dei ciclidi, le loro specie richiedono un intero

continente. Il primo continente sul quale la radiazione dei mammiferi poté esprimersi al massimo fu l’Australia, che, in termini biogeografici, è semplicemente un’isola estremamente grande, rimasta separata dal resto del mondo da più di 200 milioni di anni, epoca alla quale risale la frantumazione del supercontinente di Gondwana. La seconda massa terrestre che fu abbastanza spaziosa da accogliere la radiazione dei mammiferi fu il «Continente Mondo», un’estensione di terra che comprendeva l’Africa, l’Europa, l’Asia e il Nordamerica fino al margine meridionale della piattaforma messicana. Durante l’era dei mammiferi, nel corso degli ultimi 66 milioni di anni, il Continente Mondo deve essere rimasto più o meno sempre tutto d’un pezzo, tant’è che la stretta vicinanza delle sue parti ha permesso a piante e animali di migrare dall’una all’altra. Durante la prima fase dell’era dei mammiferi, il settore più isolato, quello nordamericano, era saldato all’Europa tramite l’attuale Groenlandia e Scandinavia. L’Alaska e la Siberia nordorientale venivano ciclicamente separate e riallacciate da ponti di terra, il più recente dei quali risale a 10.000 anni fa. Il terzo centro continentale dove ha avuto luogo l’evoluzione dei mammiferi è stato il Sudamerica, che rimase isolato al tempo della disgregazione di Gondwana per poi scivolare verso nord e, infine, saldarsi al Nordamerica circa 2,5 milioni di anni fa. È convinzione diffusa che i mammiferi «veri», i mammiferi «tipici», siano quelli del Continente Mondo semplicemente perché sono i più noti, perché è in loro compagnia che siamo nati e cresciuti. Tuttavia, in quanto a livello d’evoluzione, i mammiferi dell’Australia e del Sudamerica non sono da meno, seppure secondo modalità tutte loro. Oggigiorno, la fauna australiana pre-umana è composta da tre gruppi principali autoctoni. Il primo è quello dei monotremi, mammiferi che depongono uova e che rappresentano ciò che resta di un’antica radiazione oggi in gran parte estintasi, simili alle righe sbiadite dei palinsesti. I monotremi includono due creature: la prima è l’ornitorinco, un animale che vive in acqua e che sembra costruito mettendo assieme la testa di un’anatra con il corpo di un topo

muschiato dalle zampe palmate. La seconda è l’echidna, un animale terrestre rassomigliante a un’istrice, dotato però del muso cilindrico e affusolato del formichiere. Il secondo gruppo è quello dei mammiferi placentati, cosiddetti perché trasportano i loro embrioni collegati a una placenta, contenuta nell’utero. Nuovi arrivati in Australia rispetto alle altre specie, essi comunque compongono già un terzo della sua fauna, comprendendo un vasto assortimento di pipistrelli e di roditori. I loro antenati più prossimi attraversarono l’Indonesia saltando di isola in isola, e infine raggiunsero la parte settentrionale dell’Australia per diffondersi in varie parti del continente. Il terzo gruppo indigeno dell’Australia è quello dei marsupiali, mammiferi che partoriscono i piccoli ancora sotto forma di minuscoli feti e poi li portano a pieno sviluppo in una sacca ventrale detta, appunto, marsupio. Proprio questo terzo gruppo, relativamente antico e tuttora dominante, è quello andato incontro al processo di convergenza più stretta con la fauna placentata del Continente Mondo. Qui di seguito indico le analogie principali tra mammiferi delle due regioni e i ruoli adattativi che svolgono: MAMMIFERI

MARSUPIALI

AUSTRALIANI

MAMMIFERI

PLACENTATI DEL

CONTINENTE MONDO

Topi marsupiali (Parantechinus

Topi

apicalis ecc.) Jerbil marsupiale (Antechinomis spenceri) Peramelidi

TIPO ADATTATIVO

Jerbil, ratto canguro

Onnivori piccoli, portati a nascondersi «Topi saltatori» delle aree desertiche; insettivori in Australia Arti posteriori lunghi, adatti

(Bandicoot)

Conigli, lepri al salto; dieta vegetale, con

(Macrotis lagotis

erba; alcuni onnivori

ecc.) «Quoll» o dasiuridi Felidi di

Predatori di piccoli

(Dasyurus geoffroii piccole

mammiferi, di rettili e di

e D. viverrinus)

uccelli

dimensioni

Petauridi (Marsupiali arboricoli volanti) (Petaurus sciureus

Planano tra gli alberi Scoiattoli

mediante membrane

volanti

cutanee presenti sui fianchi; soprattutto erbivori

ecc.)

Si nutrono di termiti che

Mirmecobio (Myrmecobius

Formichieri

fasciatus) Wallabi arboricoli (Dendrolagus lumholtzi ecc.)

Scimmie

Arboricoli, prevalentemente

catarrine

erbivori

Talpe

typhlops) Vombatidi (Lasiorhinus krefftii Marmotta ecc.) Grandi canguri

lunga, flessibile e appiccicosa

Talpa marsupiale (Notoryctes

catturano con la lingua

Cavallo,

Vivono sottoterra, dove si nutrono di insetti e vermi Erbivori scavatori dal comportamento schivo Erbivori dotati di denti

(Macropus robustus antilope e ecc.)

anteriori a scalpello e di

altri ungulati grossi molari per triturare

Diavolo della Tasmania o diavolo orsino

Ghiottone

Predatori di piccoli animali

(Sarcophilus harrisi) Lupo della Tasmania, o

Lupo, grossi Predatori dei canguri, di

tilacino (Thylacinus felini

altri mammiferi e di uccelli

cynocephalus) Preparata la scena, è ora di procedere all’esperimento. La radiazione dei mammiferi che ebbe luogo in Sudamerica fu vasta tanto quanto quella australiana, e ancor più stretta fu la sua convergenza con quella del Continente Mondo. Tuttavia, le specie che più erano simili – i toxodonti, i gatti marsupiali, il macrauchenia, i gliptodonti – ci sono poco familiari, poiché poche sono sopravvissute fino ai tempi nostri, scomparse all’incirca in concomitanza con l’emersione dell’istmo di Panama e con l’avvento della fauna del Continente Mondo in Sudamerica. Altre specie sopravvissute non riuscirono tuttavia a diversificarsi alla stessa stregua degli invasori provenienti dal nord. In quello scambio, il contributo dell’America centrosettentrionale all’America meridionale fu molto più cospicuo di quello in senso inverso. Prima che si verificasse quell’avanti e indietro migratorio terrestre, noto come «grande scambio interamericano», l’insieme dei vecchi mammiferi endemici del Sudamerica si era formato grazie a due cicli di radiazione e di estinzione. Il primo ebbe inizio quasi al termine dell’era mesozoica, circa 70 milioni di anni fa, e raggiunse l’apice durante i successivi 40 milioni di anni. I primi gruppi di questi mammiferi arcaici si erano formati ancor prima, durante il

Mesozoico, in ciò che restava del Gondwana, quando l’America del Sud era ancora vicina all’Africa e all’Antartide, e i dinosauri dominavano incontrastati. Poi, non più oppressi dall’influenza incombente dei dinosauri, i mammiferi avevano potuto espandersi, andando a occupare le nicchie abbandonate. Nelle praterie vivevano i liptoterni, superficialmente simili ai cavalli propriamente detti del Continente Mondo, cioè ai membri della famiglia degli Equidae, a stretto contatto dei quali si è evoluta la specie umana. I liptoterni possedevano zoccoli pienamente sviluppati e un cranio di tipo adatto per il pascolo molto prima che tali specializzazioni comparissero negli equidi. Altri liptoterni, invece, somigliavano ai cammelli. I toxodonti erano simili ai rinoceronti e agli ippopotami, mentre gli astrapoteri e i piroteri si avvicinavano molto ai tapiri e agli elefanti. Gli argirolagidi erano buone imitazioni dei ratti canguro, ma possedevano occhi enormi situati sul cranio in posizione molto arretrata; si spostavano saltellando sulle gambe posteriori molto elastiche. I borienidi, le cui specie ricordavano il toporagno, la donnola, il gatto e il cane, erano tra i principali predatori degli altri mammiferi. Thylacosmilus, un gatto marsupiale dai denti a sciabola, era incredibilmente simile alle tigri dai denti a sciabola della fauna del Continente Mondo. In Sudamerica, tra gli erbivori prevalevano i placentati, tra i carnivori i marsupiali. I paleontologi non sanno darne una spiegazione precisa, né sanno dire come mai i mammiferi nel loro complesso fossero soprattutto marsupiali in Australia, e soprattutto placentati nel Continente Mondo. Può darsi si sia trattato di un caso puro e semplice: dei due gruppi, quello che penetrò per primo nelle aree adattative più importanti impedì all’altro di fare lo stesso. Probabilmente non arriveremo mai a una risposta, poiché il numero di continenti coi quali condurre l’esperimento si è arrestato a tre (la maledizione della biologia evoluzionistica è quella di essere limitata a un solo pianeta e a un piccolo numero di continenti e di arcipelaghi). Circa 30 milioni di anni fa, si aprì la strada in Sudamerica una seconda ondata, lunga e lenta, che proveniva da nord servendosi delle isole come di sassi in mezzo a un fiume, su cui avanzare a balzi. Infatti, il Nordamerica e il Sudamerica erano ancora separati da un

ampio braccio di mare che si stendeva nel Canale di Bolivar. L’attuale America centrale era formata di isole disseminate in questo canale, e comprendeva le attuali Indie Occidentali, allora di recente formazione e in fase di deriva verso est. Le specie di mammiferi in grado di espandersi verso sud, passando di isola in isola e, infine, sul continente sudamericano, erano poche. Tra questi «salta isole» vi era un’antica specie appartenente ai primati, simile alle scimmie, che si evolse differenziandosi nella scimmia urlatrice, nella scimmia ragno, nella callitrice, nel callicebo, nel leontocebo, nel cappuccino, nella pitecia e in altri abitanti della volta arborea della foresta. Molti erano dotati di coda prensile, il segno distintivo delle specie del Nuovo Mondo. Membri della seconda ondata che riscossero un successo ancor più grande furono gli antenati della cavia, della viscaccia simile a un coniglio, degli istrici, e dei capibara, animali acquatici dal muso di cavallo che sono i più grossi roditori esistenti. «Al guardo tuo, son mille epoche come palpito d’una notte» (Isaac Watts, Salmo 90. NdR). Se potessimo tornare indietro nel tempo, al Mesozoico medio, e potessimo recarci in una savana del Sudamerica, quando il continente era ancora circondato da stretti e oceani, potremmo pensare di essere nel bel mezzo di un safari in qualche parco nazionale dell’Africa di oggi. Tutto apparirebbe in qualche modo strano, distorto e sfocato come un’immagine attraverso una lente astigmatica, e tuttavia avrebbe sembianze quasi. normali. Supponiamo di essere al margine di un lago, all’alba di un mattino pieno di sole, e di volgere lentamente lo sguardo tutto attorno a noi. La vegetazione ci apparirebbe molto simile a quella delle savane di oggi. In acqua, vedremmo pascolare, immerso fino al ventre, un branco di animali simili a rinoceronti che sguazzano in un letto di piante acquatiche. A riva, ecco una bestia somigliante a una grossa donnola, che trascina una specie di topo dall’aria strana dietro a un cespuglio, per poi sparire in una buca. Dall’ombra di un boschetto vicino un animale vagamente assomigliante a un tapiro osserva immobile la scena. Tutt’a un tratto, dalla zona a erbe alte sbuca un animale simile a un grosso felino che si avventa su un branco di non si sa bene quale razza, simile, comunque, ai cavalli. Le fauci sono

aperte quasi a 180 gradi, e i canini, simili a pugnali, sono protesi in avanti. Gli pseudocavalli, colti dal panico, prendono a fuggire in tutte le direzioni, uno di essi inciampa, e… In quanto a livello d’imitazione del Continente Mondo, l’antico Sudamerica fu veramente notevole, dato che i mammiferi che lo popolavano, pur non avendo nulla da spartire con quelli del resto del pianeta – infatti si erano evoluti, durante questa sorta di megaesperimento, lungo linee differenti e provenivano da stirpi di animali diversi – raggiunsero comunque gli stessi risultati. Se si limita l’analisi a faune rimaste isolate per lungo tempo, e se ci si accontenta di standard molto elastici nel valutare i livelli di somiglianza riguardo all’anatomia e alla nicchia ecologica, allora l’evoluzione è di certo un fatto prevedibile. Ma, quando salta fuori qualche carta inattesa, allora la partita va a monte. Ritorniamo al Sudamerica, al tempo del Cenozoico. Ci voltiamo a un rumore di rami d’albero spezzati che cadono al suolo, strappati da un grosso mammifero che se ne nutre. Ci aspetteremmo degli elefanti, e invece troviamo dei bradipi terrestri, giganteschi animali goffi, rivestiti da una pelliccia spessa e rossastra, con il capo vagamente somigliante a quello dei cavalli, che radunano il fogliame con le mani artigliate per poi masticare foglie e ramoscelli. I bradipi occupano la nicchia degli elefanti, ma usano attrezzi diversi. Ma ecco arrivare una vera sorpresa: appare un Titanis, un uccello carnivoro inetto al volo, alto 3 metri, con il capo simile a quello di un’aquila e munito di un becco lungo 38 centimetri. Saltellando sulle zampe a trampoli come uno struzzo perverso, volta di scatto il capo a sinistra e a destra in cerca di prede, grandi anche quanto un cervo. Titanis fu soltanto la più grande delle molte specie di uccelli terricoli forusracidi, alcuni dei quali, al contrario, erano grandi quanto un’oca. I mammiferi non ebbero più a che fare né prima né dopo con alcun animale comparabile ai forusracidi, se non, forse, nelle prime fasi della loro evoluzione durante l’era dei dinosauri. Nell’America del Sud, Titanis e i suoi affini devono essere stati rivali pericolosi dei borienidi e di altri marsupiali carnivori. Poiché gli anatomisti ritengono che gli uccelli nel loro complesso siano discendenti diretti dei dinosauri, al punto da poter

essere essi stessi chiamati dinosauri (anche se la cosa è un po’ tirata per i capelli), i forusracidi dovrebbero essere considerati l’eco finale dei rettili dominatori. Forusracidi, felini marsupiali dai denti a sciabola, toxodonti simili a rinoceronti, questo splendido insieme faunistico è sparito per sempre. Non avremo mai il piacere, recandoci allo zoo, di cavalcare un litopterno o di dar da mangiare noccioline a un pirotero dalla lunga proboscide. Nonostante la storia biologica sia un flusso di eventi con cause ed effetti che, in via di principio, possono venire concatenati in modo razionale, tuttavia un evento estraneo può bastare a capovolgere la situazione. Meno di 3 milioni di anni fa, quando sparì il Canale di Bolivar e al suo centro emerse il ponte terrestre panamense, sul Sudamerica si avventò, veloce, l’ultima ondata di mammiferi, molti dei quali, provenienti dal Continente Mondo, erano rimasti bloccati per milioni di anni dal braccio di mare, mentre ora potevano giungere sul nuovo continente camminando tranquillamente. Molti si trasferirono lungo corridoi formati da praterie, a quel tempo distese, verso sud, lungo il versante orientale delle Ande fino all’Argentina.

Radiazioni adattative dei mammiferi

Radiazioni adattative dei mammiferi

L’incursione ebbe talmente successo che circa la metà degli attuali mammiferi sudamericani più noti hanno avuto origine di recente, in termini geologici, nel Continente Mondo: il giaguaro, l’ocelot, il margay, il pecari, il tapiro, il coati, il kinkajou, lo speoto, la lontra gigante, l’alpaca, la vigogna, il lama, e i mastodonti estintisi di recente. Quanto agli animali autoctoni del continente sudamericano, seguirono il percorso inverso. Per un breve periodo almeno, nel Nordamerica vi furono il bradipo gigante, l’armadillo, l’opossum, il

gliptodonte, l’istrice, il formichiere e il toxodonte. Addirittura, Titanis. giunse fino in Florida. Il grande scambio interamericano determinò in entrambi i continenti un deciso aumento, per un certo lasso di tempo, della diversità dei mammiferi. Prendiamo in considerazione per primo il livello tassonomico delle famiglie. Tra quelle dei mammiferi vi sono i Felidae, che comprendono i gatti; i Canidae, cioè i cani e i loro consimili; i Muridae, che comprendono topi e ratti; e, naturalmente, gli Ominidae, cioè gli esseri umani. Prima dello scambio, in Sudamerica il numero di famiglie di mammiferi era pari a trentadue. Poco dopo l’emersione dell’istmo centroamericano il numero salì a trentanove, per poi ridiscendere lentamente al livello attuale, pari a trentacinque famiglie. La storia della fauna nordamericana è molto simile: circa trenta famiglie prima dello scambio, che aumentarono a trentacinque, per poi ristabilizzarsi a trentatré. Il numero di famiglie che compirono la traversata dell’istmo fu quasi identico da ambo i lati. I biologi, ogni qualvolta vedono un certo valore crescere, in seguito all’intervento di un elemento di disturbo, per poi ridiscendere al livello originario – che si tratti della temperatura corporea, o della densità di batteri in una provetta, o della diversità biologica di un continente – sospettano che esista un equilibrio. Il ritorno del numero di famiglie nordamericane e sudamericane ai valori quo ante. indica l’esistenza di un tale genere di equilibrio naturale. In altri termini, sembra che esista un limite alla diversità, nel senso che due gruppi dalle dimensioni importanti e tra loro molto simili, non possono coesistere in condizione di massima radiazione. Tale conclusione è avvalorata da un esame più particolareggiato degli equivalenti ecologici di entrambi i continenti, organismi che occupano, cioè, le stesse ampie nicchie ecologiche. In Sudamerica, i grossi felini marsupiali e i predatori marsupiali di più piccole dimensioni furono sostituiti dai loro equivalenti placentati. I toxodonti cedettero il passo ai tapiri e ai cervidi. Ciò nonostante, alcune strane specie di specialisti – le carte imprevedibili della partita – furono capaci di tener duro. Formichieri, bradipi e scimmie sono sempre fiorenti in

Sudamerica, mentre gli armadilli non solo abbondano in America centrale, ma hanno ampliato il loro areale anche negli Stati Uniti meridionali, dove se ne trova una specie. Nelle aree in cui gli equivalenti ecologici si incontrarono durante l’interscambio, prevalsero in generale gli elementi nordamericani che, come ci è suggerito dal loro numero di generi, raggiunsero anche un grado di diversificazione più elevato. Le differenze tra specie componenti un genere sono meno marcate di quelle tra generi componenti una famiglia. Per esempio, il genere Canic. comprende il cane domestico, il lupo e il coyote; la famiglia Canidae. comprende generi quali Vulpes. (la volpe), Lycaon. (il licaone dell’Africa) e Speothos. (lo speoto del Sudamerica). Durante il periodo del grande scambio interamericano, il numero di generi aumentò rapidamente sia in Sudamerica che in Nordamerica, per rimanere alto anche in seguito. Il Sudamerica partì da 70 per giungere agli attuali 170 generi. Il gonfiarsi dei numeri derivò principalmente dal processo di speciazione e di radiazione dei mammiferi del Continente Mondo successivamente al loro arrivo in Sudamerica. Le specie presenti prima di questa invasione non furono capaci di diversificarsi in modo significativo sia nell’America settentrionale sia in quella meridionale. Ecco perché oggigiorno i mammiferi di tutto l’emisfero occidentale presentano una marcata fisionomia da Continente Mondo. Circa la metà delle famiglie e dei generi del Sudamerica appartengono a stirpi immigrate dal Nordamerica nel corso degli ultimi 2,5 milioni di anni. Come mai hanno prevalso i mammiferi del Continente Mondo? Nessuno lo sa esattamente. La risposta è celata tra i risvolti di eventi complessi le cui tracce si sono conservate nei fossili in modo confuso, quasi che una sorta di cortina fumogena fosse stata stesa a danno dei paleontologi. La domanda resta li, di fronte a noi, parte del più ampio problema irrisolto sul quale si appunta il nostro sforzo di comprensione della successione dinastica. I biologi evoluzionisti non possono fare a meno di tornarci sopra, così come capitò a me mentre mi trovavo a Fazenda Dimona in attesa del temporale, circondato da mammiferi originatisi nel Continente Mondo. In che cosa consiste il successo e la dominanza?

Prima di tornare per un’ultima volta al grande scambio interamericano, mi sia consentito di tradurre questi termini così importanti in concetti più utili. In biologia, il concetto di «successo» appartiene alla branca evoluzionistica. La sua definizione più appropriata coincide con la longevità della specie e di tutti i suoi discendenti. Per esempio, la longevità del drepanide hawaiiano finirà con l’essere misurata dal momento in cui gli antenati della specie, simili al fringuello, si separarono dalle altre, a quello in cui essa si diffuse tra le isole Hawaii, a quello, infine, in cui la sua ultima specie cesserà di esistere. Il concetto di dominanza, al contrario, è sia ecologico sia evoluzionistico, misurato dall’abbondanza di una specie rispetto a quella delle altre, e dall’impatto relativo che essa esercita sul mondo vivente che la circonda. Generalmente, i gruppi dominanti hanno maggiori probabilità di una vita più lunga. In qualsiasi località, le loro popolazioni, per il semplice fatto di essere più grandi, hanno meno probabilità di sprofondare fino all’estinzione. Sempre in virtù del numero, sono anche più adatte a colonizzare una maggiore varietà di luoghi, aumentando così il numero di popolazioni e riducendo la probabilità che esse possano tutte andare incontro a una simultanea estinzione. Poiché i gruppi dominanti si diffondono a più ampio raggio attraverso le terre emerse e il mare, le loro popolazioni tendono a dividersi in specie multiple che adottano abitudini di vita differenti, i gruppi dominanti sono inclini a sperimentare processi di radiazione adattativa. I gruppi dominanti differenziatisi in tale grado, come i drepanidi delle Hawaii e i mammiferi placentati, in media hanno maggior successo di quelli composti da una sola specie: casualmente, ciò fa sì che i gruppi diversificati abbiano bilanciato meglio i propri investimenti e perciò siano in grado di durare più a lungo. Se una specie, infatti, si estingue, la stirpe sarà continuata da un’altra specie che occupa una nicchia differente. I mammiferi originari del Nordamerica si sono dimostrati nel complesso dominanti su quelli del Sudamerica, e pertanto sono quelli

che hanno mantenuto il più alto grado di diversità. Durante il periodo del grande scambio interamericano, durato due milioni di anni, la loro dinastia ha prevalso. Per spiegare questo squilibrio, i paleontologi hanno formulato una teoria che gode di ampi sostegni; una teoria come molte nella biologia evoluzionistica, vale a dire un punto di vista dominante che viola il minor numero possibile di dati sperimentali. Essi hanno scritto che la fauna del Nordamerica non fu una fauna insulare, separata dalle altre come quella del Sudamerica. Essa fu, e tuttora è, parte della fauna del Continente Mondo, che si estende ben oltre il Nuovo Mondo, in Asia, Europa e perfino in Africa. Il Continente Mondo è di gran lunga la più vasta delle due masse terrestri. Ha sottoposto a test un numero maggiore di linee evolutive, ha prodotto concorrenti più agguerriti, e ha perfezionato un numero maggiore di difese contro i predatori e le malattie. Tali vantaggi hanno fatto sì che, al momento del confronto, le sue specie prevalessero. Esse hanno potuto vincere anche grazie a una maggiore capacità di infiltrazione: molte di esse sono state capaci di insinuarsi nelle nicchie scarsamente occupate con più decisione, riuscendo a irradiarsi e a riempirle più rapidamente. Grazie sia al confronto sia all’infiltrazione, i mammiferi del Continente Mondo l’hanno spuntata. La ricerca delle prove a sostegno di questa teoria è appena cominciata. Giusta o sbagliata, utile o meno che sia, il suo obiettivo resta comunque l’unico in grado di promettere il collegamento, secondo strade nuove e interessanti, tra paleontologia da una parte ed ecologia e genetica dall’altra. Il processo di sintesi procede senza sosta, alimentato dagli studi della diversità biologica che si espandono per cerchi concentrici andando ad abbracciare altre discipline, altri livelli di organizzazione biologica, e archi di tempo sempre più remoti.

8 La biosfera inesplorata

Nel 1983 si stabilì che Nanaloricus mysticus, un organismo mai visto prima, vagamente somigliante a un ananas ambulante, apparteneva non solo a una nuova specie, ma anche a un nuovo genere, a una nuova famiglia, a un nuovo ordine, perfino a un nuovo phylum animale. Aveva forma di botte, era lungo un quarto di millimetro, era rivestito da una guaina formata da una serie ordinata e regolare di piastre e di spine, frontalmente possedeva una sorta di proboscide e, allo stadio giovanile, un paio di pinne posteriori simili alle ali di un pinguino. Nanaloricus mysticus vive nella ghiaia e nella sabbia grossolana tra i 10 e i 500 metri di profondità sui fondali oceanici di tutto il mondo. Non si sa quasi nulla della sua ecologia e del suo comportamento, ma dalla forma del corpo e dalla corazza si può dedurre che si affossa come una talpa nel sedimento in cerca di prede microscopiche. Collocare una specie in un phylum a sé stante – decisione presa, nel caso in questione, dallo zoologo danese Reinhardt Kristensen – è sempre una mossa ardita. D’accordo con altri colleghi, lo zoologo ha sostenuto che Nanaloricus. presenta peculiarità anatomiche sufficienti per porlo allo stesso livello dei gruppi tassonomici principali, come il phylum dei Mollusca, che comprendono i gasteropodi e gli altri molluschi, o quello dei Chordata, che consiste di tutti i vertebrati e dei loro parenti più stretti. È un po’ come porre sullo stesso piano il Liechtenstein con la Germania, o il Bhutan con la Cina. Kristensen ha battezzato il nuovo phylum Loricifera. dal latino lorica. (corsetto) e ferre. (portare). Nel caso specifico, il corsetto è costituito dalla cuticola che riveste gran parte dell’organismo. I loriciferi, nel frattempo divenuti un gruppo più ampio a causa

delle circa trenta specie scoperte negli scorsi dieci anni, vivono assieme a una schiera di altri animali bizzarri che popolano gli spazi esistenti tra i granelli di sabbia e di ghiaia sul fondo degli oceani: gli gnatostomulidi (assurti al rango di phylum nel 1969), i rotiferi, i chinorinchi e i crostacei cefalocaridi. Sappiamo talmente poco di questa fauna lillipuziana, che molte specie mancano ancora di un nome scientifico, pur essendo, tuttavia, cosmopolite ed estremamente abbondanti. Non solo, ma quasi certamente si tratta di organismi di importanza vitale per un buon funzionamento dell’ambiente oceanico. L’esistenza dei loriciferi e dei loro soci microscopici è emblematica di quanto poco sappiamo del mondo vivente, perfino di quella parte che è indispensabile per la nostra stessa esistenza. Noi abitiamo un pianeta in larga misura ancora inesplorato. Bisogna tener presente che la Terra è un pianeta che ha precise dimensioni, con mari e continenti distribuiti in un certo modo, e con forme viventi tutte costruite a partire da un unico codice, basato sugli acidi nucleici esattamente come tutti i testi scritti in lingua inglese si basano sulle ventisei lettere dell’alfabeto. Nell’universo ci deve essere una folta schiera di pianeti, di dimensioni diverse e di varia geografia, anch’essi abitati da forme viventi, e forse dotati di codici diversi, ciascuno dei quali con una particolare combinazione in grado di fissare livelli differenti di biodiversità. Alcune serie di fatti, inclusa la storia della radiazione adattativa, suggeriscono che la Terra sia vicina, o forse abbia già raggiunto la sua capacità massima. Ma in che consiste esattamente tale capacità? Nessuno ne ha la più pallida idea; è questo uno dei grandi problemi irrisolti della scienza. In quanto a misurazioni fisiche, la biologia evoluzionistica è molto arretrata rispetto alle altre scienze naturali. Vi sono valori numerici che sono indispensabili alla normale comprensione dell’universo. Quant’è lungo il diametro terrestre principale? È lungo 12.742 km. Quante stelle ci sono nella Via Lattea, che è soltanto una galassia di normali dimensioni? Circa 1011, vale a dire 100 miliardi. Quanti geni vi sono in un piccolo virus? Nel fago ΦX174, 10 in tutto. A quanto ammonta la massa di un elettrone? A 9,1×10−28 grammi. E quante specie di organismi viventi ci sono? Non lo sappiamo: non sappiamo

indicare questo numero nemmeno con l’approssimazione di un ordine di grandezza. Potrebbero essere circa 10 milioni, così come 100 milioni. Ogni anno si scoprono nuove specie in grande quantità. E del 99 per cento di quelle già scoperte conosciamo solo il nome scientifico, una manciata di esemplari conservati in un museo, e qualche frammento di descrizione anatomica rintracciabile nelle riviste scientifiche. Non è affatto vero che gli scienziati brindino a champagne quando viene scoperta una specie nuova. I musei sono intasati di specie nuove, e il tempo che noi abbiamo a disposizione basta appena a descrivere una minima parte di quelle che vi affluiscono ogni anno. Con l’aiuto di altri sistematici, di recente ho calcolato che il numero di specie note di organismi, incluse le piante, gli animali e i microrganismi, dovrebbe aggirarsi attorno a 1,4 milioni. Il margine di errore si dovrebbe aggirare attorno alle centomila specie, tanto è approssimativa la delimitazione delle specie di alcuni gruppi di organismi e tale è il caos generale che regna nella letteratura scientifica relativa alla biodiversità. Ancor più precisamente, secondo i biologi evoluzionisti tale stima rappresenta meno di un decimo del numero di specie che realmente vive sul pianeta. Per comprendere come mai la valutazione della diversità sia tanto inferiore alla realtà, basta prendere in esame il phylum degli Arthropoda, che comprende gli insetti, i ragni, i crostacei, i centopiedi, e tutti quegli organismi simili, muniti di esoscheletri chitinosi articolati. Per questo solo gruppo sono state descritte 875.000 specie, cioè poco più della metà del numero totale presunto per gli esseri viventi. In particolare, gli insetti, con 750.000 specie, costituiscono sulla terraferma la dinastia incontrastata nella fascia dimensionale piccola e medio-piccola, e ciò fin dai tempi del Carbonifero, 300 milioni di anni fa. Tra i vegetali, gli elementi terrestri codominanti sono le angiosperme che, presenti a partire dagli ultimi 150 milioni di anni, con le loro 250.000 specie costituiscono il 18 per cento degli organismi noti.

La varietà degli organismi viventi attualmente conosciuti è dominata dagli insetti e dalle

piante superiori; esistono tuttavia fitte schiere di batteri, funghi e altri gruppi poco studiati

che attendono di essere scoperti. Il totale complessivo di tutte le specie viventi si colloca fra i 10 e i 100 milioni di specie.

La diversità del mondo vegetale è costituita principalmente dalle angiosperme (piante con

fiore), a loro volta comprendenti erbe e altre monocotiledoni, nonché una vasta gamma di dicotiledoni: dalle magnolie, agli aster, alle rose. La maggior parte delle angiosperme vive sulla terraferma; nei mari dominano invece le alghe, con le loro 26.900 specie conosciute.

Tra gli animali noti gli insetti sono di gran lunga i più numerosi. A causa di questo squilibrio, la maggior parte degli animali vive sulla terraferma, sebbene i phyla conosciuti (le unità tassonomiche gerarchicamente superiori) siano in gran parte marini.

La varietà immensa prodotta dalla combinazione degli insetti e delle angiosperme non è di certo casuale. I due imperi sono legati tra di loro da intricate relazioni simbiontiche. Non v’è parte delle piante

di cui gli insetti non si nutrano, e nella quale non possano abitare. Una vasta percentuale delle specie vegetali dipende dagli insetti per l’impollinazione e la riproduzione, al punto che esse devono loro la propria stessa vita: gli insetti, infatti, smuovono la terra attorno alle radici e decompongono i tessuti morti in sali minerali indispensabili per una crescita continua. Gli insetti e gli altri artropodi terrestri sono talmente importanti che, se dovessero scomparire tutti quanti assieme, l’umanità non sopravviverebbe che per pochi mesi. All’estinzione giungerebbero con la stessa velocità gli anfibi, i rettili, gli uccelli e i mammiferi. Poi se ne andrebbe il grosso delle angiosperme, e con loro la maggior parte delle foreste e degli altri habitat delle terre emerse. La superficie terrestre finirebbe letteralmente col marcire. Con l’accumularsi e il disseccarsi della vegetazione morta, e con l’incepparsi dei cicli dei nutrienti, morirebbero anche le altre forme vegetali complesse, e con loro quasi tutti i restanti vertebrati terrestri. I funghi, dopo aver attraversato un periodo di esplosione demografica di incredibili proporzioni, diminuirebbero vertiginosamente, per sopravvivere solo con poche specie. La terraferma si ritroverebbe, così, più o meno nelle stesse condizioni in cui era nel Paleozoico, ricoperta da tappeti di vegetazione prostrata, impollinata dal vento, frammista a macchie di alberelli e cespugli sparsi qua e là, quasi del tutto priva di vita animale. Gli artropodi, quindi, ci circondano, e ci danno la vita, ma noi non ci siamo mai curati di loro. Ve ne sono assai più delle 875.000 specie cui finora è stato assegnato un nome scientifico. Nel 1952, Curtis Sabrosky, lavorando per il dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, avanzò l’ipotesi, basata sul flusso continuo di nuove specie che arrivavano ai musei, secondo cui, sparse nella varietà a noi ignota degli artropodi, ci devono essere 10 milioni di specie d’insetti. Nel 1982, Terry Erwin, del National Museum of Natural History, moltiplicò quel valore per tre, stimando che nelle sole foreste tropicali esistano 30 milioni di specie di artropodi, gran parte delle quali vivono concentrate sulle chiome degli alberi delle foreste pluviali, e molte delle quali sono costituite da insetti. Già si sapeva che questo

strato di foglie e di rami, deputato allo svolgimento di gran parte del lavoro fotosintetico della foresta, è ricco di biodiversità. Tuttavia, esso è rimasto inaccessibile a causa dell’altezza degli alberi, 30-40 metri, della superficie scivolosa dei tronchi, e degli sciami di formiche e di vespe che, scaglionate ad altezze diverse, non aspettano che di pungere gli eventuali scalatori.

Panoramica delle specie. Le dimensioni dell’organismo rappresentativo di ciascun gruppo

sono all’incirca proporzionali al numero di specie attualmente note presenti in quel gruppo. Qui sotto, per ogni gruppo viene riportato il numero di specie. Sono stati omessi i virus e alcuni gruppi minori di invertebrati.

1. Monera (batteri, cianobatteri), 4800 2. Funghi, 69.000 3. Alghe, 26.900 4. Piante superiori, 248.400 5. Protozoi, 30.800 6. Poriferi (spugne), 5000 7. Cnidari o Celenterati (coralli e meduse) e Ctenofori, 9000 8. Platelminti (vermi piatti), 12.200 9. Nematodi, 12.000

10. Anellidi (lombrichi, sanguisughe e affini), 12.000 11. Molluschi (lumache, polpi e mitili), 50.000 12. Echinodermi (stelle di mare, ricci di mare e affini), 6100 13. Insetti, 751.000 14. Artropodi diversi dagli insetti (crostacei, aracnidi ecc.), 123.400 15. Pesci e Cordati inferiori, 18.800 16. Anfibi, 4.200 17. Rettili, 6300 18. Uccelli, 9000 19. Mammiferi, 4000 Per superare questi problemi, gli entomologi hanno inventato la «bomba anti-insetto», vale a dire un apparato per nebulizzare un insetticida ad azione rapida erogandolo sotto forma di fumogeno, dal suolo fino alla chioma degli alberi; il veleno avvolge gli artropodi e, mentre li uccide, li induce a uscire dai loro rifugi. Gli esemplari vengono raccolti mentre cadono dagli alberi al suolo. La particolare procedura utilizzata da Erwin e dal suo gruppo di ricerca nell’America centromeridionale viene solitamente messa in pratica di notte. Verso sera, i ricercatori entrano nella foresta e scelgono per il campionamento un albero, alla base del quale stendono una rete di imbuti ampi un metro. Il collo degli imbuti finisce in bottiglie parzialmente riempite di alcool al 70 per cento, il conservante più utilizzato a tale scopo. Nelle ore precedenti l’alba del mattino successivo, quando il vento tra le chiome scema alla velocità minima, i ricercatori pompano l’insetticida verso l’alto per alcuni minuti mediante una sorta di «cannone» azionato a motore. Poi attendono per cinque ore che gli artropodi moribondi e morti cadano a migliaia, e finiscano in gran numero negli imbuti. Infine, gli esemplari raccolti vengono suddivisi, classificati grossolanamente secondo gruppi tassonomici più ampi (formiche, coleotteri Chrysomelidae, ragni Salticidae) e inviati agli specialisti per studi ulteriori. Erwin stesso ha studiato personalmente i coleotteri della volta della

foresta. Partito da alcuni censimenti su un piccolo campione della foresta pluviale panamense, è poi andato avanti con progressione aritmetica per arrivare a un valore stimato del numero totale di specie di artropodi abitanti nelle foreste tropicali di tutto il mondo. Erwin ha innanzitutto riscontrato la presenza di 163 specie di coleotteri che vivono esclusivamente tra le chiome di una singola specie vegetale, la leguminosa Luehea seemannii. Di specie arboree tropicali ve ne sono in tutto circa 50.000; pertanto, se Luehea seemannii ne è un rappresentante tipico, il numero totale di coleotteri tropicali che abitano il tetto della foresta sarebbe pari a 8.150.000 specie. I coleotteri rappresentano circa il 40 per cento delle specie di insetti, ragni, e artropodi in generale. Se questa è la proporzione esistente anche a livello della volta della foresta tropicale, il numero di specie di artropodi di tale habitat salirebbe a 20 milioni. Tra gli alberi tropicali, il numero di specie di artropodi è circa doppio di quello rintracciabile sul suolo, sicché il numero totale di specie tropicali dovrebbe aggirarsi attorno ai 30 milioni. I calcoli di Erwin hanno rappresentato un grande passo avanti nello studio della biodiversità. Tuttavia, il calcolo esplicito al quale pervenne inizialmente somiglia a una piramide rovesciata, in equilibrio sul vertice. Ora, cambiando i presupposti di partenza a ciascun passaggio del calcolo che porta al totale di 30 milioni di artropodi, il numero di specie potrebbe aumentare o diminuire drasticamente. E se il numero risultasse maggiore o minore di «sole» 10 milioni di unità rispetto ai 30, si tratterebbe di un puro colpo di fortuna. Ma al mondo ci sono veramente così tante specie di coleotteri per ciascuna specie d’albero? I dati disponibili sono assai scarsi; sembra comunque che le leguminose come Luehea seemannii sostengano una varietà d’insetti maggiore di quella ospitata da altri tipi d’albero; il che potrebbe far diminuire di milioni il numero totale di specie. Gli artropodi reperibili su una determinata specie d’albero restano gli stessi dovunque si trovi l’albero? Molti dati indicano che spesso, da una località all’altra, il tipo di coleotteri reperibili su una stessa specie d’albero cambia, il che potrebbe far riaumentare il numero totale

delle specie. Forse che il 10 per cento delle specie di coleotteri presenti su un albero particolare sono limitate a quel solo albero? Una variazione in questo parametro – i cui dati, per quanto attiene ai tropici, sono veramente scarsi – potrebbe far salire o scendere il numero totale delle specie in maniera considerevole. Nigel Stork, riprendendo in considerazione le stime di Erwin e integrandole con altri dati provenienti dal Borneo, dall’Inghilterra e dal Sudafrica, ha concluso che il numero totale di specie di artropodi tropicali è senz’altro molto grande, ma in ogni modo inferiore a quello estrapolato da Erwin, aggirandosi tra i 5 e i 10 milioni. Kevin Gaston, che ha intervistato alcuni specialisti a proposito di svariati tipi di insetti, ha ricavato anche da loro risposte verosimili, oscillanti dai 5 ai 10 milioni di specie in tutto. Questi studi, così come altri, hanno fatto luce sul problema solo in modo parziale. In un certo senso, siamo di nuovo al punto di partenza: il numero di specie esistenti sulla Terra è immenso, ma il fatto è che non siamo in grado di stabilirne neppure l’ordine di grandezza. Nel 1917, il grande esploratore naturalista William Beebe disse parlando della volta della foresta pluviale: «C’è un altro continente traboccante di vita che deve essere scoperto, e che non sta al suolo, ma a 30 o 60 metri sopra di esso». I decenni successivi hanno svelato un secondo continente inesplorato, 1000 metri e più sotto la superficie degli oceani, sul pavimento degli abissi. Questa enorme distesa di 300 milioni di chilometri quadrati rappresenta, probabilmente con la sola eccezione delle valli antartiche, l’habitat più inospitale della Terra, avvolto in un freddo intenso, schiacciato dalla pressione della massa d’acqua sovrastante, e buio all’inverosimile, salvo che per le rare luci puntiformi prodotte dagli organismi luminescenti in movimento. All’inizio del diciannovesimo secolo, i biologi sostenevano che gli abissi marini fossero privi di vita. Ma furono smentiti dalle campagne di dragaggio condotte dalla spedizione della nave Challenger, durate dal 1872 al 1876, i cui campioni di fango svelarono una vasta gamma di organismi fino ad allora ignoti. Fu in tal modo che si scoprì il benthos abissale, vale a dire l’insieme di organismi viventi sul fondo marino o nelle sue

immediate vicinanze. Negli anni Sessanta di questo secolo si fecero grossi passi avanti grazie all’introduzione della draga bentonica, in grado di rastrellare lo strato superficiale del fondo con reti a maglia molto fitta, e di intrappolare il residuo grazie a uno sportello richiudibile che impedisce la spulatura e la perdita degli organismi più piccoli. I nuovi campioni raccolti svelarono una biodiversità che andava ben oltre quanto immaginato dai biologi. Da tali collezioni, e grazie a fotografie e campionamenti più recenti condotti con veicoli subacquei che consentono una selettività maggiore, oggi sappiamo che il benthos abissale contiene sciami di vermi policheti, di crostacei peracaridi, di molluschi, e di altri animali che non si trovano in alcun altro luogo del pianeta. Molti di questi invertebrati sono minuscoli, e hanno un metabolismo talmente lento da consentire loro di vivere forse per decenni. Vi sono poi batteri capaci di crescere e di riprodursi solo in quelle condizioni di bassa temperatura e di alta pressione. Il benthos abissale è un tranquillo mondo in miniatura. Al momento, non c’è modo di ipotizzare quante siano le specie ivi presenti, che comunque sono nell’ordine delle centinaia di migliaia, e forse anche più. J. Frederick Grassle, che ha studiato i dati relativi a tutti i campioni raccolti fino al 1991, ha ipotizzato che il numero di specie animali sia nell’ordine delle decine di milioni. Per quanto riguarda, poi, la biodiversità dei batteri e dei microrganismi, è impossibile fare ipotesi perfino sul suo ordine di grandezza. Ecologicamente parlando, gli animali della foresta pluviale e quelli del benthos abissale si situano agli estremi opposti; addirittura, si potrebbe dire che stanno su pianeti diversi. I due ambienti sono quanto mai diversi per caratteristiche fisiche, e i loro biota non hanno in comune neppure una singola specie vegetale o animale. Tuttavia, la loro biodiversità, per quanto considerevole, appare piccola cosa se confrontata con quella dei batteri, organismi che hanno letteralmente saturato quei due ambienti opposti, e, con essi, ogni altro luogo del pianeta. Sia i biologi che i non addetti ai lavori pensano erroneamente che i batteri siano una classe di organismi ben conosciuta per via della sua importanza in campo medico, ecologico,

e di genetica molecolare. In realtà, la maggior parte dei tipi di batteri ci è del tutto ignota; non vi sono né nomi né indicazioni sui metodi necessari per individuarli. Raccogliete un grammo di suolo, un pizzico di terra qualunque tenuto tra due dita, e ponetelo sul palmo della mano: state reggendo un grumo di granelli di quarzo mischiati con materiale organico in decomposizione, con nutrienti liberi, e con circa 10 miliardi di batteri. Quante specie di batteri contiene? Prendete un milionesimo di quel pizzico di suolo e stendetelo uniformemente sul terreno di coltura contenuto in una capsula standard per microbiologia. Se ciascun batterio di questo campione di suolo pressoché invisibile potesse moltiplicarsi, dovremmo aspettarci di vedere crescere più di 10.000 colonie, ciascuna derivata da un batterio capostipite. Ma ciò non accade affatto, e alla fine avremo ottenuto solo da 10 a 100 colonie batteriche. Alcune delle cellule batteriche che non hanno risposto all’esperimento erano già morte al momento dell’impianto sul terreno di coltura, ma la maggior parte di esse più semplicemente non vi ha trovato le condizioni idonee per la divisione cellulare e per la formazione della colonia. Tali specie sono come prigionieri segregati: si rifiutano di rispondere ai microbiologi che usino tecniche standard. Esse attendono che temperatura, acidità, pressione atmosferica, combinazione di zuccheri, grassi, proteine e minerali raggiungano i valori ottimali prescritti a livello genetico per i loro bisogni metabolici. Per di più, può darsi che ciascuna di queste specie silenti sia rappresentata nel pizzico di suolo da un solo individuo, o anche da pochi individui, per ogni milione del totale. Per individuarle, i microbiologi devono sperimentare una serie di combinazioni di terreni di coltura e di parametri ambientali fino a quando non azzeccano la combinazione giusta. Solo allora la colonia si moltiplicherà e così si renderà disponibile una quantità di batteri sufficiente per la cernita e l’analisi microscopica e biochimica. I microbiologi tentano di rado di individuare i batteri silenti. A loro interessano unicamente quei pochi gruppi di specie che si sono già rivelati utili ai fini scientifici e applicativi. Una delle specie più famose, il batterio intestinale Escherichia coli, è l’organismo chiave

negli esperimenti di biologia molecolare. Tutti i manuali introduttivi alla biologia inneggiano alla mole di conoscenze per le quali siamo debitori al breve ciclo vitale di questo batterio e alla facilità della sua coltura. Ma, dal punto di vista del biologo evoluzionista, E. coli non è che un simbionte dell’intestino crasso dei mammiferi, utile per convertire gli scarti del cibo in feci. Il proletariato batterico, quell’orda di specie che rappresenta tre miliardi di anni di radiazione adattativa, rimane trascurato dalla ricerca e lontano dal teatro della scienza. Quante specie di batteri esistono al mondo? Il Bergey’s Manual of Systematic Bacteriology, la guida ufficiale, aggiornata al 1989, ne elenca 4000. Ma i microbiologi hanno da sempre il sospetto che il numero reale, comprensivo delle specie non ancora riconosciute, sia molto più alto, benché nessuno possa azzardare di quanto. Dieci volte? Cento volte? Secondo ricerche recenti, si tratterebbe di un totale almeno un migliaio di volte maggiore, per un numero complessivo di specie nell’ordine di milioni. Jostein Goksøyr e Vigdis Torsvik hanno cercato di scovare i batteri silenti nell’ambiente naturale, decidendo così di tagliare, mediante la separazione e lo studio comparativo diretto del Dna dei batteri, il nodo gordiano delle tecniche di coltura selettiva. Servendosi di piccole quantità di suolo prelevate nella foresta di faggi attorno al loro laboratorio, e utilizzando un processo di estrazione e centrifugazione per tappe successive, hanno separato i batteri dal suolo e hanno purificato il Dna di questi organismi riunendolo in un singolo lotto. Applicando una pressione molto alta, hanno frammentato le molecole di Dna, costituite da un doppio filamento a elica, in segmenti di dimensioni uniformi. Poi, sottoponendo questi frammenti al calore, hanno separato l’uno dall’altro i due filamenti che costituivano ciascun segmento. Separare il Dna nelle sue due eliche significa aprire il legame fra le coppie di basi azotate che costituiscono le lettere del codice genetico. Nella maggior parte dei Dna queste coppie di basi sono adeninatimina e citosina-guanina, abbreviate AT e CG. Procedendo lungo la

doppia elica del Dna, ognuna delle quattro basi può trovarsi in ciascun nucleotide su uno o l’altro dei due filamenti: perciò, durante la lettura del codice genetico, sono possibili quattro combinazioni: AT, TA, CG, GC. Una sequenza tipica potrebbe essere TA-CG-CG-ATGC, e così via per migliaia o milioni di siffatte «lettere» per ogni cellula. Quando si separa in due la spirale del Dna, i due filamenti complementari del tratto sopra indicato verranno letti, rispettivamente, T-C-C-A-G, e A-G-G-T-C. Quando vengono raffreddati a una temperatura di 25°C inferiore a quella del loro punto di fusione, i filamenti tornano facilmente assieme ricomponendo la doppia elica; come dicono i biologi molecolari, le catene vengono «rinaturate». Quanto più è alta la concentrazione di filamenti complementari nella soluzione, tanto più veloce sarà il processo. Se si utilizzano miscele di specie differenti, e dunque di filamenti diversi, come quelli dei batteri del suolo norvegese, la concentrazione di filamenti complementari sarà più bassa di quando il Dna proviene da una sola specie, e il processo di ricostituzione delle doppie eliche, che in questo caso è un’ibridazione, risulterà rallentato in pari misura. La velocità di tale processo può essere misurata con precisione e confrontata con uno standard ricavato da filamenti singoli di Dna provenienti da un batterio contenente una quantità nota di Dna (il solito E. coli). In tal modo, è possibile stimare indirettamente la percentuale complessiva di ibridazione sul totale dei filamenti singoli di varia origine presenti nell’intera comunità batterica; presenti, cioè, in tutti i batteri di quel pizzico di suolo. La percentuale di ibridazione del Dna può essere utilizzata come metodo indiretto per calcolare il numero di specie di batteri. Nel fare questo, però, i microbiologi non possono avvalersi direttamente del concetto di specie biologica. Essi, infatti, non hanno la possibilità di sapere quali siano le cellule batteriche che si scambiano Dna, quasi che tali organismi fossero altrettanti uccelli e querce della foresta norvegese; perciò, sono costretti a fidarsi del fatto che il Dna dei vari batteri non cambi troppo da un individuo all’altro. Secondo lo standard arbitrario proposto dai sistematici esperti in batteri,

appartengono a una stessa specie individui tra loro identici, in quanto a nucleotidi, per più del 70 per cento, e pertanto diversi dalle altre specie almeno per un 30 per cento. Questo limite è, effettivamente, conservativo: molte specie di piante e animali superiori sono distinte da una differenza percentuale di gran lunga inferiore al 30 per cento. Se mi sono dilungato in tutti questi particolari tecnici, l’ho fatto per rendere l’idea delle difficoltà con cui sono alle prese i microbiologi, nonché per spiegare chiaramente come mai sia occorso tanto tempo per addentrarsi nei meandri della diversità batterica. Ed ecco i risultati delle ricerche del gruppo di studio norvegese: in un solo grammo di suolo, proveniente dalla faggeta, sono state trovate tra le 4000 e le 5000 specie di batteri. Un numero più o meno combaciante è quello che risulta dallo studio di un grammo di sedimento ottenuto in acque poco profonde al largo della costa norvegese. «È chiaro», ha scritto Jostein Goksøyr, «che almeno per un paio di secoli i microbiologi non correranno il rischio di rimanere disoccupati.» Se in due soli pizzichi di substrato, provenienti da due località diverse della Norvegia, si possono trovare 10.000 specie di batteri, quante ancora attendono di essere scoperte in ambienti radicalmente diversi? Di nuovo, nessuno ne ha la benché minima idea. Pare inevitabile che vi siano, in attesa di essere scoperti, gruppi interi di nuovi batteri sui fondi abissali degli oceani, nelle ascelle delle orchidee delle foreste pluviali, nelle fioriture algali dei laghi di montagna e così via, tutt’attorno al mondo, in migliaia di luoghi che sfuggono alla nostra attenzione. Di recente, durante lo scavo di pozzi profondi nella Carolina del Sud, sono stati scoperti strani batteri che vivono in gran numero fino ad almeno 500 metri di profondità sotto la superficie del suolo. Queste specie variavano a seconda degli strati. Nel corso dei primi carotaggi, sono state scoperte 3.000 forme, tutte nuove per la scienza. Un altro mondo di batteri e altri microrganismi, ancora tutto da scoprire, è quello esistente all’interno e sulla superficie degli esseri viventi di grosse dimensioni. Alcune specie sono ospiti neutrali che non arrecano né danno né vantaggio a chi li accoglie. Di altri, invece,

si sa che aiutano i loro ospiti nella digestione, nell’escrezione, e perfino nella emissione di luce grazie al verificarsi, all’interno dei loro minuscoli corpi, di reazioni chimiche luminescenti. Molti sono talmente utili – se non addirittura vitali – da venir trasportati in cellule e tessuti atti all’uopo e da indurre i loro ospiti a elaborare complicate tecniche fisiologiche e comportamentali per consentire il passaggio dei simbionti tra individui di sesso diverso e tra genitori e figli. Il fenomeno è molto evidente nella trasmissione di batteri e di lieviti da parte dell’insetto Rastrococcus iceryoides. I microrganismi vengono trasferiti alla prole con un pas de deux la cui elegante coreografia si dispiega all’interno delle uova in fase di sviluppo. Paul Buchner, grande autorità in fatto di simbiosi, l’ha descritta così: Entrambi i tipi di simbionti infettano lo stesso punto, producendo così una sferula

in corrispondenza del polo superiore dell’uovo maturo. Quando la banda germinale

gli si avvicina, i due partner, rimasti uniti fino a questo momento, si separano; è

interessante vedere come l’ospite si comporti in modo diverso nei loro confronti. All’inizio, mostra interesse solo per i lieviti. Mentre i nuclei di tuorlo migrano verso

i lieviti fino a penetrarli da tutti i lati, i batteri, che nel frattempo sono notevolmente aumentati di numero, planano verso la periferia dell’embrione

raggruppati irregolarmente, ma senza associarsi ai nuclei. Lieviti e batteri vengono separati presto. Nel momento in cui le estremità germinano, sono già stati formati, attorno ai lieviti, i confini cellulari, mentre i gruppi di batteri, immutati, sono situati qua e là nel plasma.

Alleanze di questo genere ne sono state scoperte a centinaia, ma nella letteratura scientifica vengono descritte solo in modo frammentario. Solo poche delle specie hanno un nome scientifico, e la loro descrizione non va molto al di là di espressioni come «a forma di bastoncino» o «a forma sferica». Per avere un’idea della nostra ignoranza, basta pensare che ci sono ancora milioni di specie di insetti da studiare, e che tutti, o quasi, ospitano batteri con speciali adattamenti. Vi sono poi milioni di altre specie di invertebrati, dai coralli ai crostacei alle stelle di mare, che si trovano in uno stato analogo. Si consideri che ogni tipo di batterio – dovremmo dire ogni specie, se usassimo la regola dell’ibridazione del

Dna – può utilizzare al massimo cento fonti di carbonio, quali, per esempio, vari tipi di zuccheri e di acidi grassi; ma, in realtà, la maggior parte può metabolizzare solo uno o pochi di questi composti. Si tenga presente, poi, che i batteri possono evolversi rapidamente per sfruttare tali risorse. Ceppi batterici differenti, e perfino specie diverse, possono scambiarsi dei geni, soprattutto durante i periodi di mancanza di cibo o di altro tipo di stress ambientale. La durata delle loro generazioni è brevissima, il che permette alla selezione naturale di agire sui nuovi assortimenti di geni nel giro di giorni o addirittura di ore, modificando il patrimonio ereditario in questo o quel modo, e creando forse nuove specie. Si immagini, infine, un francobollo di suolo di un centimetro di lato, grande quanto un’unghia, raccolto in un punto scelto a caso della foresta. Sulla sua superficie giace un frammento di legno marcescente che alberga un gruppo di batteri di vario tipo, a un millimetro di distanza granelli di sabbia dilavati che ospitano un’altra flora, e un altro centimetro più giù delle chiazze di humus ne ospitano un’altra ancora, per un totale di migliaia di specie. Ora, si mettano assieme tutte le microflore di questo tipo, rinvenibili in un’intera foresta, e poi quelle di tutte le foreste e di tutti gli altri habitat del mondo intero: dovremo aspettarci di trovare milioni e milioni di specie finora sconosciute. In biologia, i batteri sono un po’ il «buco nero» della tassonomia. Pochi scienziati soltanto hanno osato sognare in quale modo si potrebbe saggiare e utilizzare una tal mole di biodiversità.

Quando la si osserva da una prospettiva tipicamente umana, e cioè dall’alto, la vita

brulicante sul suolo di una foresta nordamericana di latifoglie decidue sembra svolgersi su un piano bidimensionale (a sinistra). In questa scena, il chilopode litobiomorfo rappresentato al centro è circondato, partendo dall’alto e procedendo in senso orario, 1) da una mosca

calliforide, 2) una vespa sociale, 3) un coleottero curculionide munito di un lungo rostro, 4) un coleottero passalide, 5) una termite, 6) una blatta del legno, 7) una formica lignicola, 8)

un esemplare dell’isopode terrestre Oniscus asellus, 9) un coleottero carabide, 10) una zecca,

11) un imenottero icneumonide, 12) un afide, 13) un dermattero e 14) un opilionide. Quando lo strato di detrito e il terreno vengono sezionati trasversalmente (destra), ecco schiudersi di fronte a noi un mondo tridimensionale molto diverso. In superficie, le foglie morte, che

cadono l’una sull’altra senza formare uno strato compatto, costituiscono un ambiente asciutto e arieggiato che nell’illustrazione è popolato di 1) piccoli collemboli, 2) acari oribatei, 3) un opilionide che sta divorando una chiocciola, 4) un ragno salticide, 5) un chilopode e 6) un coleottero carabide. Qualche centimetro più sotto, in un ambiente detritico più denso e

umido, in mezzo a mucchi di materia fecale di artropodi e lombrichi, troviamo un maggior numero di collemboli e di acari (1 e 2), 7) uno pseudoscorpione, dotato di chele ma non di aculeo e 8) due larve di ditteri tipulidi, il cui aspetto ricorda quello delle lumache. Se

scendiamo ancora più in profondità, nel terreno e nell’humus ora molto più compatti, possiamo osservare due lombrichi (9) nei loro cunicoli.

Via via che l’esplorazione scientifica della natura avanza, continuano a emergere nuove specie, anche di organismi di mole cospicua. In Colombia, nella regione di Chocó, che comprende le foreste pluviali di montagna a ovest di Medellin, metà delle specie vegetali non sono catalogate, e di queste, gran parte addirittura non ha denominazione scientifica. In media, nel mondo intero vengono scoperte ogni anno due specie di uccelli, di solito nascoste in remote valli di montagna o nei recessi delle foreste tropicali che ancora sopravvivono. Di tanto in tanto si scoprono anche nuove specie di mammiferi. Nel 1988, un’annata eccezionale, sono state annunciate le seguenti novità: il sifaka di Tattersall (Propithecus tattersalli), un nuovo lemure del Madagascar; il cercopiteco Cercopithecus solatus, una scimmia africana del Gabon; infine, un nuovo muntjak sulle montagne della Cina occidentale. Nel 1990, il tamarino Leontopithecus rosalia, un primate fino a quel momento ignoto, è stato scoperto sulla piccola isola costiera di Superaqui, a soli 65 km dalla città di San Paolo, in Brasile. Si è trattato, nelle parole di Russell Mittermeier, di «una delle scoperte sui primati più clamorose del secolo». E, aggiungo io, colta giusto in tempo, visto che di questa specie esistono solo poche dozzine di esemplari: un cacciatore potrebbe portare la specie a estinzione nel giro di qualche giorno. Perfino l’ordine Cetacea, che comprende gli animali più grandi del pianeta, non è ancora perfettamente conosciuto. Effettivamente le specie di maggiori dimensioni, e cioè i cetacei misticeti (dotati di fanoni), che comprendono le balenottere, le balene e le megattere, erano già tutte note in capo al 1878. Viceversa, i cetacei odontoceti (dotati di denti), che comprendono il capodoglio, l’orca e i loro parenti più piccoli, gli iperodontidi e le focene, hanno continuato a rivelare nuove specie a una media di una per ogni decennio di questo secolo. Qui di seguito, elenco le undici scoperte a partire dal 1908, e che costituiscono il 13 per cento o più dei cetacei attualmente viventi conosciuti: Mesoplodon bowdonini: scoperta da Andrews, 1908

Australophocaena dioptrica: Lahille, 1912 (focena dagli occhiali)

Mesoplodon mirus: True, 1913 (Mesoplodonte di True)

Lipotes vexillifer: Miller, 1918 (lipote vessillifero o delfino lacustre cinese) Mesoplodon pacificus: Longman, 1926

Tasmacetus shepherdi: Oliver, 1937 (balena di Shepherd) Lagenodelphis hosei: Fraser, 1956 (delfino del Borneo)

Phocaena sinus: Norris & McFarland, 1958 (focena del Pacifico) Mesoplodon ginkgodens: Nishiwaki & Kamiya, 1958 Mesoplodon carlhubbsi: Moore, 1963

Mesoplodon peruvianus: Reyes, Mead & Van Waerebeek, 1991

Molti dei cetacei più piccoli sono stati avvistati sotto forma di carcasse sparute o di pezzi di corpi sbattuti a riva in zone remote del mondo, e la loro biologia è tuttora avvolta nel mistero. Willem Mörzer Bruyns, esperto di cetacei, nel 1971 scrisse a proposito del tasmaceto quanto segue: «Sei individui sono stati gettati a riva dalle onde sulle spiagge di Stewart Island, della Penisola di Bank e dello Stretto di Cook, sulla costa orientale della Nuova Zelanda». E di Mesoplodon hectori, scoperto nel 1871: «Prima descrizione basata su tre crani provenienti da tre individui molto immaturi, probabilmente neonati, ritrovati nelle acque della Nuova Zelanda […] Nel 1967, in Tasmania, è stato ritrovato il cranio di una femmina». E, a proposito del mesoplodonte di Longman: «Descritto a partire da un cranio rinvenuto presso Mackay, nel Queensland, in Australia. Nel marzo del 1968 la dottoressa Marie Louise Azzaroli ha descritto un secondo cranio – trovato nel 1955 presso Mogadiscio, in Somalia – che dimostra l’esistenza di una specie distinta». La rarità e l’elusività di queste specie porta a credere che vi siano altri giganti dei mari in attesa di essere scoperti. Per esempio, più volte, nelle acque orientali del Pacifico tropicale si sono avvistati individui appartenenti a quella che è stata identificata come una nuova specie, ma non ne è stato ancora catturato alcuno. Sebbene buona parte della diversità delle specie sia di un’evidenza clamorosa, generalmente passa inosservata. Ho già parlato delle specie sorelle come di due o più popolazioni isolate dal punto di vista riproduttivo e tuttavia esteriormente così simili da essere confuse perfino dai tassonomi più esperti. Le differenze possono essere messe in luce solo mediante uno studio

attento di quei sottili dettagli anatomici, della struttura cellulare, della biochimica e del comportamento che consentono ai sistematici di delimitare con certezza le specie. Agli inizi della mia carriera, quando mi dedicai alla classificazione delle formiche, riunii in due sole specie tutte le formiche schiaviste del Nordamerica, pensando che le popolazioni riproduttive fossero, appunto, soltanto due. Mi sbagliavo. Un secondo entomologo, William Buren, le osservò più a fondo e suddivise le schiaviste in cinque specie, basandosi su minute differenze nella distribuzione dei peli, nella forma e nel colore del corpo, e sulle specie di altre formiche che esse rapivano per farne delle schiave. Ora v’è poco dubbio che, in realtà, esse siano tutte popolazioni riproduttivamente isolate e che ciascuna possieda una propria struttura genetica. Vi sono gruppi, come quello dei protozoi e dei funghi, traboccanti di specie considerate sorelle a causa di un problema squisitamente tecnico, cioè perché presentano poche caratteristiche esteriori che consentano, anche mediante l’uso di raffinate tecniche di microscopia, la separazione delle varie specie. È a causa dei limiti dell’apparato sensoriale umano, quindi, che tali specie sono ancora nascoste. Via via che si individuano le sequenze di Dna e le caratteristiche fisiologiche, grazie alle quali viene riconosciuto un numero sempre crescente di specie, è lecito aspettarsi che il livello di diversità dei gruppi cui quelle specie appartengono aumenti di pari passo. È altrettanto vero che, a un’analisi più attenta, molte sottospecie risulteranno essere, in realtà, specie vere e proprie. Quando si mappano i confini geografici esatti delle popolazioni, molte tra le specie che si riteneva avessero ampia distribuzione si rivelano invece essere composte da più specie, ciascuna delle quali con distribuzione più ristretta. Gran parte della diversità biologica attende comunque di essere scoperta secondo le tecniche dei vecchi tempi: a piedi, con le reti, con l’attrezzatura da immersione subacquea. Allo scopo di confrontare i vari livelli di diversità, i biologi continuano a uscire dai loro laboratori e a peregrinare per il mondo. Essi contano le specie in tre modi, a seconda dell’ampiezza dell’area geografica presa in esame. La

diversità alfa è il numero di specie che occupano un certo habitat in una certa località. Assieme a due colleghi, Stefan Cover e John Tobin, il sottoscritto ha raggiunto un nuovo record mondiale nella misura della diversità alfa delle formiche: 275 specie raccolte su otto ettari di foresta pluviale nei pressi di Puerto Maldonado, in Perù. La diversità beta corrisponde invece al tasso al quale aumenta il numero delle specie via via che si prendono in considerazione gli habitat circostanti. Se le ricerche di Puerto Maldonado fossero state estese alla foresta palustre, alle ripe fluviali e alle ristrette aree a prateria, la catalogazione sarebbe di certo arrivata a 350 unità. Infine, la diversità gamma consiste nel numero totale delle specie comprese in tutti gli habitat di un vastissimo comprensorio. Una ricerca condotta sistematicamente, valle dopo valle e lungo ogni affluente del Rio delle Amazzoni, su tutte le formiche del Perù, porterebbe a un totale approssimativo di 2000 specie. La diversità gamma, naturalmente, è quella che è stata misurata con minor precisione. Consapevoli di ciò, i biologi si stanno spingendo tra catene montuose inesplorate, nelle sorgenti fluviali e tra le barriere coralline. Per quanto riguarda la maggior parte dei Paesi del mondo, soprattutto quelli tropicali, stiamo ancora calando il filo a piombo, e non abbiamo la minima idea di dove andrà a finire. La soddisfazione che si trae dall’avventura fisica e l’eccitazione che si prova nel sudore e nel sudiciume che fanno da contorno alle esplorazioni continuano a essere un allettante richiamo verso la scienza. Ma supponiamo per un momento che alla fine si riesca a conoscere per intero la biodiversità di tutto il pianeta, sotto forma, diciamo, di una pagina per ogni specie. La «scheda» sarebbe composta dal nome scientifico, da una fotografia o un disegno, da una breve descrizione diagnostica, e da notizie sul luogo di ritrovamento della specie. Se venisse pubblicata in forma tradizionale, vale a dire su carta rilegata in libri da mille pagine di 17 centimetri di larghezza protetti da una copertina in tessuto, questa sorta di «Grande enciclopedia della vita» andrebbe a occupare 60 metri di scaffalature per ogni milione di specie. Supponendo che vi siano sulla Terra 100 milioni di specie, occorrerebbero librerie per un totale di 6 km, pari alla capacità di una

biblioteca di medie dimensioni. Ovviamente, gli studi sulla biodiversità non arriveranno mai a tanto. Molto prima che vengano scoperte tutte le specie, molto prima che noi si metta da parte retini per farfalle e presse per vegetali, la descrizione degli organismi verrà registrata elettronicamente; così, la Grande enciclopedia potrà stare tutta nei dischi contenuti in una scatola, sistemabile comodamente su una scrivania. Per ciascuna specie, si potranno aggiungere, via via che si renderanno disponibili, sempre più informazioni, vuoi sul codice genetico, vuoi sul ruolo ecologico della specie; e questi dati saranno prontamente disponibili grazie a reti irradiantisi dai centri regionali e internazionali per lo studio della biodiversità. La Grande enciclopedia della vita conterrà ulteriori metri con cui misurare la biodiversità, di cui i biologi si servono già ora. Uno di questi è la equipartizione, vale a dire il grado di omogeneità nell’abbondanza relativa delle diverse specie. Finora ho parlato della misura della biodiversità soltanto in termini di numero di specie: per esempio, tanti batteri in un pizzico di suolo, tante formiche in un certo tratto di foresta pluviale. Ma altrettanto importante è l’abbondanza relativa di ciascuna specie. Supponiamo di imbatterci in una fauna di farfalle di un milione di individui, suddivisi in 100 specie, e che una di queste sia abbondantissima in quanto composta di 990.000 individui, mentre le altre comprendano una media di 100 individui. Sono presenti 100 specie, ma, mentre camminiamo lungo i sentieri della foresta e mentre attraversiamo i campi, incontriamo quasi sempre il tipo di farfalla più abbondante, e solo di rado ciascuna delle altre specie. Tale fauna, perciò, è caratterizzata da un basso valore di equipartizione. In una località li vicino incontriamo un’altra fauna di farfalle che comprende le stesse 100 specie, ciascuna delle quali, però, questa volta contiene 10.000 individui ed è quindi abbondante in misura pari alle altre. Diremo allora che questa fauna presenta un alto valore di equipartizione; anzi, nella fattispecie, il massimo valore possibile. È facile capire che, poiché l’incontro con ogni specie è meno prevedibile, quest’ultima fauna è la più varia, e quindi in media ci dà una quantità di informazioni più grande, in modo analogo alle voci di un vocabolario ricco il quale, se utilizzato

fino in fondo, ci trasmette informazioni molto più abbondanti che non un vocabolario più modesto. Lo studio di una fauna estremamente variabile comporta un flusso continuo di nuove informazioni, il che rappresenta un piacere nel senso più strettamente estetico del termine. Una diversità di tali dimensioni ha notevole importanza pratica anche da un punto di vista ecologico. Le faune caratterizzate da alto valore di equipartizione possono avere su un certo ecosistema un impatto di tipo differente da quelle che presentano un valore basso di quel parametro, sostenendo una maggior varietà di piante e di altri animali che da essa dipendono. I biologi misurano la biodiversità non soltanto a livello di specie, ma anche di genere, di famiglia, e di tutte le altre categorie sistematiche fino al livello di phylum e di regno. Ciascuno dei livelli tassonomici superiori è costituito da un raggruppamento di specie tra loro simili, che si pensa abbiano un antenato comune. In particolare, il genere è un gruppo di specie radunate assieme perché simili tra loro e perché hanno, in maniera più o meno immediata, un antenato comune. Proseguendo, la famiglia è un insieme di generi imparentati e simili tra loro, insieme che comprende però specie la cui parentela è meno stretta di quella esistente fra le specie incluse in un singolo genere; l’ordine, ovviamente, è un raggruppamento di famiglie tra loro simili e imparentate, e così via, percorrendo tutta la gerarchia della classificazione fino al livello dei regni, che sono poi quello delle piante nel loro complesso, quello degli animali, e così via. Vediamo, per esempio, qual è la descrizione tassonomica completa del gatto domestico, Felis domestica: Specie: domestica Genere: Felis

Famiglia: Felidae

Ordine: Carnivora Classe: Mammalia

Phylum: Chordata Regno: Animalia

I criteri di base della classificazione seguono una logica elementare, riassumibile in poche parole. Primo principio: la specie è l’unità su cui fa perno tutto il sistema. Secondo principio: per costruire la classificazione gerarchica, vanno utilizzate due definizioni, come segue. Alle categorie summenzionate corrispondono livelli classificatori astratti, utili in tutti i casi. Le categorie sono, appunto, la specie, il genere, la famiglia, eccetera. Al contrario, il taxon è un raggruppamento di organismi reale, è una serie di popolazioni che si fanno rientrare in una certa categoria sistematica. Esempi di taxa sono la specie Felis domestica e la famiglia Felidae. Le categorie, quindi, sono un’astrazione, i taxa una realtà. Terzo principio: un taxon di rango più alto, quale, per esempio, il genere Felis, è un gruppo di specie tutte discese da una stessa specie antenata. Le specie appartenenti a un altro taxon di uguale grado, come, per esempio, i grossi felini del genere Panthera, sono tutte discendenti da un’altra specie antenata. Tuttavia si ritiene che, due generi riuniti in una stessa famiglia – in questo caso, quella dei Felidi – discendano entrambi da una comune e ancor più antica specie antenata; questo progenitore più lontano diede origine alle due specie antenate più recenti, le quali, a loro volta, hanno dato vita alle specie che compongono i due generi attuali. Quarto principio: come è facile dedurre dagli esempi di prima, le categorie superiori sono una costruzione dell’intelletto inventata per pura comodità. Si fondano sul presupposto che, nel corso del tempo, le specie si suddividano in nuove specie, e riflettano perciò la ramificazione prodotta dal succedersi delle suddivisioni. La costruzione delle ramificazioni per mappare i mutamenti evolutivi è stata battezzata cladistica, mentre la pianificazione dei livelli di classificazione più alti (dal genere in su), in modo che questi siano conformi con i risultati della cladistica, è stata battezzata sistematica filogenetica. Questa classificazione deve essere coerente con la filogenesi, vale a dire con gli alberi genealogici delle specie. Quinto e ultimo principio: i limiti precisi dei taxa superiori sono arbitrari. Solo le specie – le unità atomiche della sistematica – sono naturali (più o meno). Lo stesso vale per gli alberi filogenetici se sono

stati desunti in modo corretto. Ma i limiti dei generi, delle famiglie, e dei taxa più elevati, vale a dire le linee che demarcano i gruppi di specie, sono arbitrari. Tale affermazione potrebbe suonare paradossale visto che ho appena finito di dire che lo scopo della cladistica è proprio quello di creare una classificazione naturale a livello di genere e anche più su. Sì, tutto ciò è vero. La cladistica ci permette di giudicare quali specie condividono un antenato comune, giustificando, in tal modo, la loro collocazione in una stessa famiglia, o in uno stesso taxon di grado più elevato. L’arbitrarietà sta piuttosto nei limiti di ciascuno di questi taxa superiori. In altri termini, i generi Felis e Panthera devono essere mantenuti separati, o dovrebbero forse essere riuniti nel solo genere Felis? Secondo i metri della cladistica, entrambe le scelte sarebbero lecite. E ancora: i felini devono restare tutti conglobati nella sola famiglia dei Felidi, o dovrebbero piuttosto essere divisi in due famiglie, quella, appunto, dei Felidae, comprendente i felini strettamente intesi, e quella degli Acinonycidae, cui apparterrebbero i ghepardi? A tale riguardo, la cladistica tace. I sistematici prendono in esame questi alberi che ricostruiscono l’evoluzione, osservano quali specie discendono da quale comune antenato e possono quindi essere riunite in un taxon superiore, cioè in un grappolo di specie imparentate. Poi si avvalgono di alcuni criteri – soprattutto del buonsenso – per decidere come suddividere i raggruppamenti più grandi in altri più piccoli. Se tutte le specie si somigliano molto, è logico assegnarle a un singolo genere. Se, invece, una specie si discosta molto dalle altre, allora, quand’anche derivi dallo stesso antenato, la cosa migliore da farsi sta nell’istituire un nuovo genere, in modo tale da mettere in risalto le sue caratteristiche insolite. Saper distinguere un genere dall’altro quando si ha a che fare con un gran numero di casi-limite è davvero una questione di capacità di giudizio. La sistematica è soprattutto una scienza, ma ha qualcosa anche dell’arte. Questa decisione apparentemente confusa è, in realtà, il giusto compromesso da raggiungere. La soggettività delle categorie tassonomiche superiori riflette la natura caotica dell’evoluzione organica. Come stelle nell’universo in espansione, le specie

attraversano una fase continua di evoluzione che le allontana le une dalle altre, e ciò fino a quando si estinguono, oppure, in alcuni casi, fino a quando abbattono le barriere riproduttive che le separano e giungono a procreare degli ibridi. A sua volta, questo principio dell’evoluzione affonda le sue radici nell’immensa varietà resa possibile dalla sequenza delle «lettere» nucleotidiche del codice genetico. Nei batteri, l’informazione genetica è contenuta in un miliardo circa di coppie di nucleotidi, mentre nelle piante superiori e negli animali, essa è racchiusa in un numero di nucleotidi variabile tra 1 e 10 miliardi. Il processo evolutivo si esplica soprattutto grazie alla sostituzione accidentale di una o più di tali lettere, accompagnata dal vaglio di tali mutazione dal loro rimescolamento da parte della selezione naturale. Siccome le mutazioni sono casuali, e poiché la selezione naturale è influenzata da mutamenti imprevedibili dell’ambiente, differenti da luogo a luogo e da momento a momento, non esistono due specie in grado di seguire esattamente lo stesso cammino, se non, forse, solo per qualche passo. Ne deriva che il mondo reale è fatto di specie che vanno differenziandosi l’una dall’altra secondo direzioni e distanze infinitamente variabili. Per quanto ne sappiamo, non c’è verso di aggregarle o suddividerle in gruppi se non secondo quei modi che la mente umana trova pratici e al tempo stesso esteticamente piacevoli. Vi è ancora un’altra conseguenza dell’evoluzione intesa come universo in espansione capace di influenzare il rango tassonomico delle specie e il loro valore così come viene percepito dall’umanità. Se ha tempo sufficiente per evolversi e per generarne tante altre, ogni specie neonata è in potenza un genere, o addirittura una categoria tassonomica di livello superiore. Quanto più a lungo tale insieme di specie sopravvivrà e si evolverà, tanto più accentuate saranno le differenze che lo contraddistingueranno dalle altre forme viventi. Poiché l’estinzione è un fatto pressoché inevitabile, di solito accade che l’insieme vada scemando fino a che sopravvive solo qualche specie-relitto. E questi sopravvissuti, così antichi, così unici, sono ovviamente preziosissimi. Si pensi a una specie che vive da lunghissimo tempo: o le sue sorelle sono state spazzate via

dall’estinzione, o essa è la sola rappresentante di un’antica linea che non ha mai provveduto a ramificarsi in tante altre. Ora essa si erge sola, promossa al grado di genere, di famiglia, o di qualche categoria superiore. Merita una considerazione tutta particolare da parte della razza umana in quanto latrice di una storia. È questo, per esempio, il caso del panda gigante, unico membro del genere Ailuropoda; del pesce celacantide Latimeria chalumnae, il più famoso dei fossili viventi; e dello sfenodonte Sphenodon punctatus, un rettile dall’aspetto di lucertola che si trova solo su alcune piccole isole della Nuova Zelanda, e che è l’unico membro sopravvissuto, dai tempi del Mesozoico, delle due specie costituenti l’ordine dei Rhynchocephalia. La biodiversità a noi nota è andata ampliandosi a ogni livello della gerarchia tassonomica: tante specie per ogni genere, tanti generi per ogni famiglia, e così via verso l’alto. Alla sommità di tale scala, troviamo 89 phyla viventi, distribuiti tra i vari regni della vita. Secondo una classificazione molto in voga, ma anche molto soggettiva, questi regni assommano a cinque: Plantae: vegetali multicellulari, dalle alghe alle angiosperme Fungi: basidiomiceti, ascomiceti, muffe e altri funghi Animalia: animali multicellulari, dalle spugne e dalle meduse ai vertebrati Protista: organismi unicellulari eucarioti (protozoi e altri organismi unicellulari) Monera: organismi unicellulari procarioti (batteri e cianobatteri o alghe azzurre) La descrizione della diversità cui si è giunti organizzando le specie in raggruppamenti basati sul livello di somiglianza reciproca ha rappresentato un passo avanti fondamentale compiuto dai biologi del diciottesimo secolo. Un modo successivo per descrivere la biodiversità, che si affianca al precedente e che riveste pari

importanza, è quello basato sul livello di organizzazione gerarchica. In questo caso, i livelli sono: Ecosistema Biocenosi

Corporazione Specie

Organismo Gene

Questo concetto risulterà più chiaro con un esempio, tratto dalla realtà, che coinvolge l’intera serie di passaggi. Prendiamo il seguente brano: Un astore (Accipiter gentilis) va a caccia di passeracei nella Foresta Nera, in Germania, volando basso e veloce tra gli abeti, mutando spesso e bruscamente direzione. A un certo punto, avvista, posato su un ramo di pino, un luì verde (Phylloscopus sibilatrix). Pochi battiti d’ali, una planata lunga e silenziosa, e l’astore si avventa sulla preda. L’astore vive in un ecosistema particolare, le abetaie montane della Foresta Nera. Il terreno è coperto da un suolo granitico che deriva dalla disgregazione di basse colline tondeggianti merlettate da torrentelli che formano le sorgenti dei fiumi Danubio e Neckar. L’ecosistema è costituito da questa base fisica e da tutti quegli organismi che popolano i vari habitat della foresta: le selve, le radure, i piccoli corsi d’acqua. Gli elementi fisici e biotici combinati assieme, dalle rocce e i corsi d’acqua agli alberi, ai rapaci, ai silvidi, sono tutti strettamente legati tra loro. Attraverso le reti alimentari, l’energia è trasportata da una specie all’altra, con molte perdite. Le sostanze nutrienti fluiscono dagli organismi al suolo, dal suolo all’acqua, dall’acqua all’aria, e da qui, di nuovo, agli organismi, attraversando cicli biogeochimici che non hanno mai termine. Il tipo di copertura del suolo e di drenaggio dell’acqua è strettamente legato al tipo di organismi che vivono nella selva. La Foresta Nera, in particolare, è un

ecosistema unico per la sua peculiare combinazione di ambiente fisico e organismi ospitati. Ma alziamo lo sguardo attraverso la Germania meridionale fino ad abbracciare l’Europa intera, e infine tutto il mondo, in modo da misurare la biodiversità di tutti gli ecosistemi esistenti. Scopriamo così che il numero delle possibilità è astronomico, che le potenziali combinazioni dei milioni di specie che possono vivere nei vari ambienti fisici raggiungono una cifra praticamente impossibile da calcolare. Questa nostra incapacità è di sicuro meritevole di considerazione, ma non è poi così importante. Ciò che conta è il vero numero di ecosistemi esistenti, ciascuno dei quali ha un proprio valore intrinseco. Sarebbe bene che i paesi del mondo, così attenti a conservare il loro non infinito patrimonio storico, letterario e artistico, nonché tutto quanto serve a esaltare la grandezza nazionale, imparassero a far tesoro, con pari senso del tempo e dello spazio, di quella ricchezza unica e non eterna che sono gli ecosistemi. Nell’ecosistema della Foresta Nera, l’astore appartiene a un particolare insieme di organismi, composto da tutte quelle specie collegate tra loro dalla rete alimentare così come dalle attività che ne influenzano i cicli vitali. L’abete rientra nella rete alimentare dell’astore in quanto è un albero che serve da nutrimento alle larve delle falene, di cui a loro volta si nutrono i passeracei che infine vengono ghermiti dai rapaci. La poiana comune, un accipitride europeo, fa parte della stessa comunità in virtù della competizione e di una simbiosi accidentale. Infatti, di tanto in tanto essa uccide un uccellino, intaccando così le provviste dell’astore. Peraltro, il nido che abbandona e che rende disponibile per l’astore accresce le possibilità riproduttive di quest’ultimo, meno esigente rapace. La diversità dell’insieme di organismi andrebbe misurata all’interno del singolo ecosistema; di fatto, però, la sua quantificazione è soggettiva, poiché solo di rado si riescono a individuare con precisione i limiti della biocenosi di organismi. All’interno di tale comunità, l’astore è membro di una corporazione, ovvero di un gruppo di specie che vivono nello stesso luogo e che fanno incetta, con tecniche analoghe, di un identico tipo

di cibo. Nella Foresta Nera, l’astore spartisce la sua corporazione con una sola altra specie, lo sparviero (Accipiter nisus). Entrambi parte degli accipitridi, caratterizzati da ali brevi e arrotondate e da una coda lunga, essi danno la caccia a uccelli di piccola taglia spostandosi tra gli alberi della selva con un volo rapido e a scatti, e solo di rado salendo sopra le loro chiome. Altre corporazioni della Foresta Nera sono, per esempio, quelle formate dagli insetti che si nutrono delle infiorescenze dell’aster, dai silvidi, dai toporagni e dai topi. A causa del loro significato ecologico, le corporazioni rappresentano un metro valido per la misura della diversità di un ecosistema, al pari del numero di specie. Ora, però, avviciniamoci ulteriormente ai gradini più bassi della biodiversità. La specie «astore» è un’entità che rappresenta il nesso esistente fra popolazioni locali dai confini non ben definiti, distribuite dall’Europa continentale all’Asia, al Canada, fino agli Stati Uniti settentrionali e occidentali. Gli individui che compongono tale specie sono i depositari della variabilità genetica, cioè delle differenze esistenti all’interno dei cromosomi e dei geni, e della diversità di livello più basso di quello specifico. Questo livello è più facilmente afferrabile avvalendoci di qualche esempio familiare sull’ereditarietà umana. Un solo gene determina la presenza del lobo dell’orecchio, piuttosto che la sua assenza, nel qual caso l’orecchio è completamente saldato alla sua base. La presenza del lobo è codificata da un gene dominante; se entrambi i geni contenuti nelle cellule di un individuo sono dominanti, l’individuo acquista un lobo perfettamente sviluppato. Se, invece, entrambi i geni sono recessivi, e codificano quindi l’assenza del lobo, allora l’individuo ne è privo. I geni del lobo dell’orecchio, sia quelli recessivi sia quelli dominanti, si trovano in uno solo dei 200.000 e più siti che si sgranano lungo la fila dei 46 cromosomi. Altri esempi di variabilità connessa all’azione di un singolo gene sono i gruppi sanguigni, la capacità di piegare la lingua a U, l’attaccatura a punta dei capelli a livello della fronte, l’angolazione con la quale è possibile retroflettere il pollice (condizione nota come «dito dell’autostoppista»), e una miriade di malattie ereditarie quali la falcemia, l’albinismo, l’emofilia e la corea

di Huntington. Molti altri tratti, come la statura, il colore della pelle, la predisposizione al diabete, sono invece poligenici, ovvero regolati da combinazioni di geni che agiscono congiuntamente pur trovandosi in siti cromosomici diversi. Contando le possibili variazioni nei caratteri esterni derivanti da mutazioni dovute a singoli geni e a poligeni, è possibile stabilire il valore della diversità genetica complessiva. La stima, però, sarebbe approssimata per difetto di interi ordini di grandezza. Questo perché le differenze tra i diversi alleli, presenti in uno stesso sito cromosomico, determinano delle differenze spesso invisibili nella struttura delle proteine, differenze rilevabili solo grazie all’introduzione dell’analisi chimica. Negli anni Sessanta si è compiuto un passo avanti nel potere di risoluzione di tale analisi mediante l’introduzione dell’elettroforesi su gel, una tecnica che consente di portare a termine velocemente la purificazione e l’identificazione degli enzimi. Quando si pongono delle molecole su un materiale attraverso il quale esse si possono spostare – per esempio, un gel poroso – e si applica un campo elettrico, tali molecole migrano all’interno del gel con una velocità proporzionale alla loro carica elettrica. Ecco allora le molecole separarsi le une dalle altre come atleti dalle diverse capacità durante una corsa. Gli enzimi sono molecole proteiche la cui struttura e la cui carica elettrica sono determinate dai geni. Anche le più piccole differenze tra geni, dovute a mutazioni, si traducono in variazioni a livello enzimatico, variazioni che a loro volta – spesso ma non sempre – si traducono in modificazioni della loro carica elettrica; è per questo che gli enzimi, una volta disposti su lastre di gel e sottoposti a campo elettrico, vi si muovono a velocità diversa e, quindi, si separano. Per trarre vantaggio da questa catena di eventi, i genetisti seguono un metodo molto semplice. Frantumano i tessuti degli organismi da studiare, ne estraggono le sostanze che contengono enzimi e applicano gli estratti a un’estremità di una lastra di gel. Poi lasciano che gli enzimi si spostino sotto l’influsso del campo elettrico, e infine li evidenziano con coloranti che permettono di apprezzarne le reciproche posizioni. A questo punto, contano gli

enzimi separatisi sulla lastra, dopo di che sono in grado di accertare l’identità dei vari enzimi e da ciò dedurre numero e identità dei geni che li hanno determinati. Campionando molti individui di una certa specie e studiando un enzima dopo l’altro – e, quindi, un set di geni dopo l’altro – i genetisti riescono a valutare il grado di variabilità genetica complessiva della specie stessa. Gli studi condotti grazie all’elettroforesi hanno investito un’ampia gamma di organismi, dalle angiosperme agli insetti, ai pesci, agli uccelli, su fino ai mammiferi. Tra le scoperte fatte, ve n’è una che spicca sulle altre: la diversità genetica evidenziata è grandissima, di gran lunga maggiore di quanto ci si aspettasse prima dell’invenzione dell’elettroforesi, quando i ricercatori dovevano basarsi principalmente sui caratteri facilmente apprezzabili quali i lobi degli orecchi e il colore della pelle. Per poter esprimere tale diversità con un numero, i genetisti hanno introdotto il concetto di polimorfismo. Si dice che un gene è polimorfico quando esiste sotto forma di molte varianti, le quali, con termine tecnico, vengono chiamate alleli. Gli alleli più rari vengono presi in considerazione solo se sono presenti con una frequenza superiore a un certo valore scelto arbitrariamente, e in genere pari all’1 per cento del totale. In altri termini, nel caso del lobo dell’orecchio, gli alleli che ne codificano la presenza sarebbero stati inclusi nel conteggio solo se fossero stati presenti in più dell’1 per cento della popolazione umana (nella realtà, arrivano al 45 per cento); solo in tal caso, il gene sarebbe stato definito polimorfico (e, per il gene del lobo dell’orecchio, è proprio così). Gli studi elettroforetici hanno dimostrato che, in gran parte delle specie, dal 10 al 50 per cento dei geni sono polimorfici, con un valore tipico che si aggira attorno al 25 per cento. In una certa popolazione, a elevate percentuali di geni polimorfici corrispondono alte percentuali di polimorfismo in ciascun organismo. In media, e sempre secondo le specie, fra il 3 e il 20 per cento dei geni di un organismo sono polimorfici. Ciò significa che ogni organismo è eterozigote per quel numero di geni. Tra gli esseri umani, per esempio, l’eterozigosi equivale al possesso, all’interno di ogni cellula, sia del gene che codifica la presenza del lobo, sia di

quello che codifica la sua assenza; della presenza del gene per il gruppo sanguigno A, e di quello per il B; e così via per tutti gli altri 200.000 e più geni che costituiscono il patrimonio ereditario del genere umano. Tuttavia, anche le cifre inaspettatamente alte che si ricavano mediante l’elettroforesi non sono che stime minime, quasi certamente troppo basse. Alcune varianti enzimatiche, infatti, sono prive di una particolare carica elettrica o di una particolare disposizione delle molecole che consentano il processo di separazione, sicché, durante l’elettroforesi, restano mute all’interno del campo elettrico. Per eseguire una misurazione esatta e definitiva della diversità genetica, occorre oltrepassare il livello delle proteine per arrivare a conoscere direttamente la sequenza nucleotidica dei geni, ovvero l’ordine in cui sono disposte le lettere del codice genetico. La misura vera e propria della diversità genetica sta nella misura della diversità nucleotidica, che deve essere determinata, una coppia di basi dopo l’altra, su gran parte dei cromosomi di molti individui appartenenti alla stessa specie. Durante gli anni Ottanta sono stati fatti notevoli progressi nella «lettura» delle sequenze del Dna. In quel periodo è nato il progetto relativo al genoma umano, che ha l’ambizione di mappare niente meno che tutti i nucleotidi dell’uomo. Esiste un altro progetto analogo per la mappatura del genoma di un moscerino della frutta. Quando l’individuazione delle sequenze di Dna e la loro lettura sarà diventata una routine paragonabile all’attuale conteggio delle penne o dei denti molari, allora potremo dirci pronti, da un punto di vista tecnico, ad affrontare la fatidica domanda: quanta biodiversità esiste sulla Terra? Nel frattempo, vorrei tentare di indovinare quale sarà il risultato finale: con approssimazione al più vicino ordine di grandezza, o potenza di dieci, 108 specie (100 milioni), moltiplicato per 109 coppie nucleotidiche (1 miliardo), fa un totale di 1017 coppie nucleotidiche (100 quadrilioni), vale a dire la somma della diversità genetica di tutte le specie esistenti. La diversità nucleotidica, tra parentesi, è limitata dal valore massimo di quattro nucleotidi per sito, e quindi non è sufficiente ad aggiungere un ulteriore ordine di grandezza.

Quel valore numerico – 1017, appunto – in un certo senso racchiude in sé l’intera diversità della vita. E tuttavia, non tiene ancora conto delle differenze esistenti tra gli individui appartenenti a una stessa specie. Quando si consideri anche tale fattore, la biodiversità potenziale ne risulta ulteriormente accresciuta. Si tenga presente che, all’interno di una specie a tipica riproduzione sessuale, due nucleotidi posizionati in siti identici di cromosomi diversi possono produrre tre combinazioni: le lettere AT e CG, per esempio, possono produrre le combinazioni AT AT, AT CG e CG CG. Se anche un solo sito su mille ha, da qualche parte nella specie, due varianti di questo genere, allora, sul totale di 106 posizioni (cioè, un millesimo delle 109 posizioni dell’intero corredo genetico della specie) vi sarebbero 1018 possibili combinazioni per ogni specie. Ma, ancora una volta, questo valore non sarebbe che una stima per difetto. A ogni modo, qualunque sia la sua vera entità, esso rappresenta il potenziale della biodiversità a livello dell’organismo, il vasto campo delle possibili combinazioni genetiche attraverso il quale, per così dire, ogni specie si sposta con il suo bagaglio di materie prime, guidata dalla selezione naturale e ormai sempre più anche dalla mano ignorante dell’umanità.

9 La creazione degli ecosistemi

Siamo nella Foresta Nazionale di Chippewa, nel Minnesota. In cielo, al di sopra di una vegetazione composta da migliaia di specie, volteggia una sola specie di uccelli, un rapace, l’aquila di mare dalla testa bianca. A che è dovuta tale combinazione? Perché non vi sono, invece, mille specie di aquile e una sola pianta? Oppure, mille di aquile e mille di piante? Viene spontaneo domandarsi se i valori numerici riscontrabili in natura siano governati da leggi matematiche. Se tali leggi esistessero, ne seguirebbe che, un bel giorno, saremmo in grado di prevedere la diversità presente in altri luoghi o in altri gruppi di organismi. Raggiungere la completa padronanza della diversità grazie a strumenti economici di tale fatta rappresenterebbe per l’ecologia il massimo risultato. Purtroppo, però, non vi sono leggi che i biologi possano scoprire; leggi, quanto meno, intese come le intendono i fisici e i chimici. Tuttavia, analogamente a quanto accade negli altri settori di studio dell’evoluzione, esistono principi codificabili sotto forma di regole che esprimono una tendenza nel senso statistico del termine. La disciplina che formula queste regole di carattere più debole è la cosiddetta ecologia delle biocenosi (o biocomunità), una branca dell’ecologia che si è soliti definire eufemisticamente «ancora giovane ma in rapido sviluppo», intendendo con ciò che essa è ancora molto indietro rispetto alle scienze fisiche, ma che comunque è animata dal progresso e dall’ambizione. A questo punto, ci si para davanti un interrogativo di immane importanza: in quale modo la creazione degli ecosistemi costruisce la biodiversità? Potremmo rispondere riconoscendo l’esistenza di due possibilità antitetiche. In un primo caso, le biocenosi come quella che

occupa la Foresta Nazionale di Chippewa si troverebbero in uno stato di totale disordine. Le specie sorgerebbero e si spegnerebbero come fantasmi, e i loro processi di diffusione e di estinzione non sarebbero affatto determinati dalla presenza o dall’assenza di altre specie. Di conseguenza, secondo questo modello estremo, il tasso di biodiversità sarebbe determinato da un processo casuale, e gli habitat nei quali vivono le varie specie non coinciderebbero che in casi fortuiti. L’altra possibilità, davvero estrema, è rappresentata da un ordine perfetto. Le specie sarebbero così strettamente interdipendenti, le reti alimentari così rigide, le simbiosi saldate in maniera talmente forte da far sì che la biocenosi sia in realtà un unico grande organismo, un superorganismo. Ciò significa che basterebbe assegnare un nome a una sola specie della biocenosi – poniamo, a un pigliamosche, a una salamandra o a una felce particolare – perché le altre migliaia di specie venissero annoverate automaticamente nell’elenco senza necessità di ulteriori informazioni sulla biocenosi. Gli ecologi, però, respingono entrambe queste ipotesi, propendendo per una forma intermedia di organizzazione della biocenosi, più o meno del tipo seguente: la presenza di una data specie all’interno di un habitat adatto è del tutto casuale; ma, per la maggior parte degli organismi, tale casualità è fortemente condizionata, in una sorta di gioco a dadi truccati, dalle specie già presenti. Le biocenosi, organizzate in modo così permissivo, vedono in scena giocatori di secondo e di primo piano, e i giocatori più forti di tutti sono le specie-chiave. Come è facilmente intuibile da questo loro attributo, l’eliminazione di una specie-chiave induce un drastico cambiamento in una parte notevole della biocenosi. Molte altre specie si riducono notevolmente di numero, oppure si estinguono del tutto, o, viceversa, diventano più che mai abbondanti. A volte altre specie, prima escluse dalla biocenosi a causa della competizione o della mancanza di circostanze favorevoli, ora la invadono, alterandone ancor più la struttura. Però, se si reintroduce la specie-chiave, la biocenosi ritorna quasi sempre a uno stato simile a quello originale. La specie-chiave più potente che si conosca è forse la lontra marina

(Enhydra lutris). Questo animale meraviglioso, di corporatura agile e robusta, cugino della donnola, dotato di baffi come un gatto, e che ti fissa con uno sguardo a metà tra il languido e l’inespressivo, un tempo prosperava nelle «foreste» di alghe laminarie, lungo la costa occidentale del Nordamerica, dall’Alaska alla California meridionale. Poi, a causa della sua pelliccia, fu fatto oggetto di caccia da parte degli esploratori e dei coloni europei al punto che, in capo alla fine del diciannovesimo secolo, si era quasi estinto. Nei luoghi dove le lontre sparirono del tutto, si svolse una sequenza inaspettata di eventi. I ricci di mare, uno dei cibi prediletti dalle lontre, aumentarono di numero in maniera esplosiva e cominciarono a erodere vaste zone della foresta di laminarie e delle altre alghe che crescono lungo le coste. Al tempo delle lontre, la notevole crescita delle laminarie, alghe ancorate al fondo e tanto lunghe da raggiungere la superficie, aveva creato una vera e propria «foresta». Con la scomparsa delle lontre, però, la foresta sparì, letteralmente divorata dai ricci. Ampi tratti del basso fondale in prossimità della costa furono ridotti a deserti, coperti di ricci di mare. In seguito, grazie a cospicui sovvenzionamenti pubblici, i protezionisti riuscirono a reintrodurre la lontra marina e, con essa, l’habitat e la biodiversità originali. Ai due estremi dell’area di distribuzione – sulle isole Aleutine occidentali, a nord, e lungo la costa della California meridionale, a sud – era riuscito a sopravvivere un numero esiguo di individui. Alcuni vennero catturati e trasportati in località disseminate nella zona intermedia, tra gli Stati Uniti e il Canada, e si adottarono misure molto severe per proteggere la specie dovunque essa fosse presente. Fu così che il numero delle lontre salì, quello dei ricci discese, e la foresta di laminarie tornò a crescere lussureggiante come prima. Al loro seguito arrivò una moltitudine di alghe minori, assieme a crostacei, calamari, pesci e altri organismi. Le balene grigie si avvicinarono alle coste perché, mentre si nutrivano dello zooplancton altamente concentrato in quelle acque, potevano «parcheggiare» i piccoli nelle radure presenti al limitare delle foreste di laminarie. Gli ecologi, così come gli organismi che studiano, non possono

piegare la natura a loro piacimento; per poter comprendere l’organizzazione delle biocenosi di diversi tipi d’ambiente, devono cercare dei varchi e approfittare di ogni opportunità, sfruttando la scoperta occasionale di specie-chiave quali la lontra marina. A tale proposito, sono state fatte anche altre scoperte. Nelle foreste vergini del Centroamerica e del Sudamerica – o, per meglio dire, nel poco che resta di esse – giaguari e puma predano una grande varietà di animali di piccola taglia che trovano a livello del suolo. Questi due felini sono dei «cacciatori» che ghermiscono qualunque animale gli si pari innanzi, e in questo sono diversi dai «segugi», come il ghepardo e il licaone, che selezionano solo alcuni tipi di animali, cui poi danno la caccia. I grossi felini sono ghiotti soprattutto di coati, membri della famiglia del procione, dal corpo allungato e dal naso affusolato, e di aguti e paca, roditori fuori misura che assomigliano a lepri californiane dalla coda bianca e a cervi di piccole dimensioni. Quando i giaguari e i puma sono scomparsi dall’isola di Barro Colorado, a Panama, perché la foresta non era più sufficientemente estesa, le specie che ne erano preda si accrebbero di decine di volte, e ora sembra che gli effetti di questa variazione di equilibrio si stiano ripercuotendo verso il basso attraverso la catena alimentare. Il coati, l’aguti e il paca si nutrono di grossi semi che cadono al suolo dalla volta arborea della foresta pluviale. Quando quei mammiferi aumentano troppo in numero, riducono la capacità riproduttiva di quelle specie arboree che producono i semi di loro interesse. Della situazione di minor competizione che viene a determinarsi beneficiano altri vegetali, i cui semi sono troppo piccoli per attirare l’attenzione degli animali. Questi semi, dunque, riescono a germinare, e così un numero più grande di giovani alberelli raggiunge l’altezza massima e l’età riproduttiva. Nel corso degli anni, la composizione della foresta muta a loro favore. Con un meccanismo a cascata che pare inevitabile, cominciano a prosperare le specie animali che si nutrono dei nuovi vegetali, aumenta il numero dei predatori che attaccano questi animali, si diffondono i funghi e i batteri parassiti degli alberi e degli animali a essi legati, si accrescono le popolazioni di animali microscopici che si nutrono di questi funghi e batteri,

aumenta il numero di predatori di questi animali, e così via: in tal modo, attraverso la rete alimentare, prima in un senso e poi nel senso opposto, si riverberano attraverso l’ecosistema gli effetti della rimozione delle specie-chiave. Seppure con modalità diverse, nelle savane e nelle boscaglie aride dell’Africa sono gli elefanti, i rinoceronti, e altri grossi erbivori a rivestire il rango di specie-chiave. Quando hanno la possibilità di raggiungere in modo naturale densità elevate, sono in grado di tenere sotto controllo l’intera struttura fisica di quegli habitat. Norman Owen-Smith ha scritto: Gli elefanti africani moderni abbattono gli alberi a spintoni, oppure li spezzano, o li sradicano alterando la fisionomia della vegetazione, e quindi le condizioni dell’habitat cui dovranno sottostare altre specie animali. Gli alberi uccisi dagli

elefanti vengono sostituiti da arbusti ed erbe in accrescimento il cui fogliame è più

facilmente raggiungibile da parte degli erbivori di dimensioni minori. Le foglie

degli alberi a crescita rapida hanno difese chimiche meno efficaci di quelle degli alberi a crescita lenta che vanno a sostituire. Inoltre, la velocità dei cicli delle

sostanze nutrienti aumenta. La pressione esercitata dal pascolo dei rinoceronti e

degli ippopotami trasforma le praterie di altezza media in un mosaico di zone a vegetazione più bassa e altre a vegetazione più alta. Le erbe basse e striscianti sono di solito meno fibrose e più ricche di sostanze nutrienti delle erbe alte. Tale

cambiamento di vegetazione reca con sé un miglioramento della qualità del cibo a vantaggio degli erbivori più piccoli, che sono più selettivi. Le specie animali che, per sfuggire ai predatori, hanno bisogno di nascondersi sotto una densa copertura di vegetazione arborea o di erbe alte possono sopravvivere nelle aree a basso impatto.

Per milioni di anni i grandi erbivori dell’Africa sub-sahariana si diffusero liberamente attraverso vasti territori, creando un mosaico di habitat: una fascia di prateria qua, macchie d’acacia e residui di foreste fluviali là, il tutto disseminato di ciuffi di canne palustri cresciute in fosse piene di fango scavate dalla pressione delle zampe degli animali. Nel complesso, ne risultò un notevole arricchimento della biodiversità totale. Se scendiamo ora dalla scala dimensionale chilometrica, a portata degli elefanti, giù al livello delle radici dell’erba, ci troviamo di fronte a una classe di specie-chiave totalmente diversa. Là dove i grossi

mammiferi controllano la struttura della vegetazione, ai loro piedi una colonia di feroci formiche Dorylinae cattura ogni giorno milioni di vittime e altera la natura della comunità dei piccoli animali. Vista da qualche metro di distanza, una colonna di tali formiche sembra un organo vivente, un gigantesco pseudopodio proteso ad avviluppare la preda. Le vittime vengono intrappolate da mascelle a uncino, trafitte a morte e trasportate all’accampamento, un labirinto di gallerie e di camere sotterranee che ospitano la regina, le larve e le pupe. Ogni orda è composta da alcuni milioni di operaie che escono dal rifugio: legioni fameliche simili a una distesa che gradatamente si allunga e si dirama a forma d’albero. Il tronco cresce a partire dal nido, la corona si apre a ventaglio come uno schieramento in fase di avanzata, e tra le due parti si allungano e si ritirano numerosi rami. Lo sciame ha una sua struttura, ma non un capo. Al suo interno, le operaie corrono freneticamente avanti e indietro per tutta la sua estensione a una velocità media di un centimetro al secondo. Quelle in prima linea avanzano per un breve tratto, e poi si ritirano per cedere il passo ad altri rincalzi. Le colonne di procacciatori di provviste somigliano a grossi fili di spago neri, stesi al suolo, che serpeggiano lentamente da un lato all’altro. Avanzando di 20 metri all’ora, la schiera d’assalto ammanta al suo passaggio tutto il terreno e la vegetazione bassa. Su di esso, le colonne retrostanti si diramano come un fiume giunto al delta, dove le operaie prendono a correre avanti e indietro, invasate da una frenesia alimentare che le spinge a consumare la maggior parte degli insetti, dei ragni e degli altri invertebrati che incontrano sul loro cammino, e addirittura ad attaccare serpenti e altri grossi animali incapaci di scappare. Giorno dopo giorno, queste formiche mietono vittime tra gli animali che si trovano attorno al loro accampamento, riducendone la biomassa e sovvertendo le percentuali delle specie. Scampano gli insetti volanti più reattivi, e gli invertebrati troppo piccoli per essere notati: in particolare gli ascaridi, gli acari e i collemboli. Altri insetti e invertebrati, invece, vengono colpiti duramente. Una colonia di Dorylus – comprendente fino a 20 milioni di operaie, tutte figlie di una sola regina – è un pesante fardello che l’ecosistema sopporta a

fatica. Perfino gli uccelli insettivori devono andarsene altrove per trovare cibo a sufficienza.

Una specie-chiave a livello delle radici dell’erba: uno sciame di formiche Dorylinae avanza nella savana in Kenya. Il passaggio di questi eserciti di formiche altera drasticamente la comunità di insetti e di altri piccoli animali presenti nell’habitat.

Appare ora chiaro che esiste, tra le specie viventi, un’élite capace di influenzare la biodiversità in modo sproporzionato rispetto al numero dei suoi componenti. L’evidenza di questi casi cattura l’attenzione degli scienziati; il che avviene non solo nel settore dell’ecologia, ma anche in campi disparati come l’astrofisica e la neurobiologia, in quanto tali esempi particolari consentono di ricavare velocemente informazioni e di accedere a sistemi altrimenti inavvicinabili. Ricavarne generalizzazioni esasperate, però, è fuorviante. Presto o tardi, arriva il momento, per la scienza, in cui vale la pena di abbandonare le cose ovvie e chiare, il momento giusto per girarvi attorno e inventare strategie più raffinate ai fini della scoperta di fenomeni nascosti. Nello studio delle biocenosi, tali strategie richiedono che si presti una maggiore attenzione al contesto, alla storia e agli effetti del caso.

Uno dei più recenti casi coronati da successo è stato quello della deduzione delle regole di raggruppamento delle flore e delle faune. Sebbene il tentativo di identificare le specie-chiave prenda in considerazione la biocenosi così com’è e poi proceda immaginando che cosa accadrà dopo la rimozione delle specie candidate, le regole di raggruppamento servono a far ricostruire la sequenza secondo la quale le specie si sono sommate durante il processo di formazione della biocenosi stessa. Non solo, ma fa anche di più: stabilisce, cioè, quali siano le sequenze possibili, e quali no. Per maggior chiarezza, spiegherò il concetto con un esempio immaginario. Una certa specie vegetale si stabilisce su di un’isola montuosa. La sua presenza consente la colonizzazione da parte di un coleottero che si nutre esclusivamente di lei. A questa, si aggiunge una vespa parassita del coleottero. In un’altra dimensione – una dimensione che implica la competizione – si manifesta un’altra regola di raggruppamento. Arriva un picchio, appartenente, diciamo, a una specie A; questa si moltiplica in tale misura e si accaparra il controllo di una tale quantità di cibo che, quando arrivano altre due specie di picchio, la B e la C, solo una delle due può inserirsi nella biocenosi. Si forma così una fauna di picchi costituita vuoi dalla combinazione AB, vuoi dalla AC, secondo quale degli ultimi arrivati è giunto per primo. Ecco, alla fine, fare la sua comparsa anche la specie D, la quale, occupando una propria nicchia ecologica – per esempio, cercando il cibo sulle grosse conifere – può trovare spazio tra le altre specie nel caso che la combinazione preesistente sia AB, ma non può trovarlo se la combinazione è AC. Pertanto, nella biocenosi, la prima fauna stabile di picchi sarà composta o da ABD, oppure da AC.

Esistono regole di raggruppamento che determinano quali specie possano coesistere in una

comunità di organismi (ad esempio quali specie possano occupare una particolare area di una foresta). Tali regole determinano anche la sequenza con la quale le specie possono

colonizzare l’habitat. Nella figura che si riferisce ad un esempio ideale, queste regole sono rappresentate come le tessere di un puzzle, che possono combinarsi a formare solo le due sequenze ABD e AC.

Gli ecologi deducono le regole di raggruppamento dall’osservazione delle specie realmente conviventi in natura. Uno degli approcci al problema, cui è ricorso Jared Diamond durante il suo lavoro pionieristico sugli uccelli della Nuova Guinea, consiste nel comparare le biocenosi di molte località differenti per vedere quali raggruppamenti di specie si riscontrano sempre, e quali di rado, oppure mai. Le conclusioni preliminari cui si giunge in tal modo possono essere vagliate ulteriormente mediante studi dettagliati sulle preferenze di habitat delle singole specie. Supponiamo che, nell’esempio appena citato dei picchi, B e C non convivano quasi mai nelle stesse località poiché entrerebbero in competizione fino

all’estinzione di una delle due specie. Supponiamo, inoltre, che ulteriori studi definiscano meglio il tipo di interazione: B e C si possono trovare assieme su alcune montagne, ma quasi sempre ad altitudini diverse, tant’è vero che raramente sono membri di una stessa biocenosi. Sulle montagne dove si trovano entrambe, B va da 200 a 1000 metri sul livello del mare, C da 1000 a 2000 metri. Sulle montagne dove invece è presente una sola specie, questa è distribuita dai 200 ai 2000 metri. Tale espansione in assenza di competizione è un fenomeno che abbiamo già incontrato: l’espansione ecologica. La contrazione della nicchia in presenza di competizione è invece chiamata dislocamento ecologico. L’esistenza dei fenomeni di espansione e di dislocamento ecologico viene considerata un dato fortemente probante che, anche quando B e C occupano la stessa area distributiva, non possono tuttavia vivere a stretto contatto, nello stesso habitat e nella stessa biocenosi. Si ritirano ad altitudini alle quali, rispettivamente, ciascuna specie risulta essere quella dominante, vale a dire, in questo caso, la B a basse altitudini e la C più in alto. È interessante, ora, tornare a Krakatau e ricordare l’esempio che quest’isola offre riguardo al raggruppamento delle specie. Una biocenosi non può arrivare alle coste di un’isola del genere sotto forma di prodotto finito. Essa assomiglia piuttosto a un castello di carte, dove le specie, accatastate una sull’altra, seguono regole di raggruppamento piuttosto permissive. La maggior parte dei pionieri – che si tratti di semi vegetali o di stormi di uccelli vaganti – è condannata al fallimento: il suolo non è quello giusto, le radure nella foresta sono ancora troppo anguste, le specie da predare non sono ancora arrivate, oppure, sulla riva, ci sono ad attenderli rivali formidabili. Perfino molte delle specie stabilitesi prima non ce la fanno a reggere l’inevitabile cambiamento delle condizioni ambientali: la crescita della foresta elimina le paludi erbose, le malattie esplodono in tutta la loro virulenza, concorrenti più forti invadono il campo, fluttuazioni casuali nel numero di membri della popolazione la fanno crollare a zero. La biocenosi varia

continuamente, e, attraverso un processo inconsapevole di tentativi ed errori, di innumerevoli scatti involontari, la sua biodiversità cresce a poco a poco. Le specie escluse in un primo tempo finalmente trovano spazio, si formano combinazioni di due o tre organismi simbiontici, la foresta si fa sempre più profonda, più ricca, e vengono predisposte nuove nicchie ecologiche. La biocenosi, così, si avvicina a uno stadio di maturità, a quello che, in realtà, è un equilibrio dinamico all’interno del quale le specie vanno e vengono continuamente, sebbene il loro numero totale fluttui entro margini molto stretti. Durante tutto il processo di colonizzazione, avvengono degli accomodamenti. Le specie in rotta di collisione a volte trovano un compromesso grazie al dislocamento ecologico. Sopravvivono grazie al fatto che cedono parte del loro ambiente ai rivali. Le formiche del genere Solenopsis, per esempio, sono animali territoriali tra i più aggressivi, ed è difficile veder coesistere, all’interno di una stessa biocenosi, più di due o tre specie. Le loro colonie, costituite da una regina madre e da migliaia di operaie che pungono e mordono, si scontrano in combattimenti organizzati. Vanno a scovare e a distruggere le colonie più piccole, mentre, con quelle più grandi, stabiliscono i confini territoriali combattendo una continua guerra di logoramento in cui si respingono a vicenda fino a quando non viene raggiunto un equilibrio. A un certo punto degli anni Trenta la formica Solenopsis invicta, una specie sudamericana, fu importata nel porto di Mobile, in Alabama. La specie ebbe successo fin dall’inizio, tanto che le bastarono quarant’anni per diffondersi attraverso gli Stati Uniti meridionali, dalle due Caroline al Texas. Su tutto quel territorio, fu contrastata da una specie autoctona, la Solenopsis geminata, che, fino a quel momento, era stata la formica dominante sia nei boschi sia sui terreni aperti. Sebbene Solenopsis geminata sia oggi ancora diffusa, tuttavia è stata relegata in zone boschive sparse qua e là. Gli habitat in genere preferiti da queste formiche – i terreni da pascolo, i tappeti erbosi e le banchine stradali – sono ora in mano alle nuove arrivate. Se si potessero in qualche modo eliminare le formiche d’importazione (un evento molto desiderato dagli abitanti degli Stati del Sud, ma

assai poco probabile) quelle autoctone andrebbero di certo a rioccupare tutte le loro antiche zone di frequentazione. Il caso delle formiche Solenopsis illustra il principio, peraltro ben documentato, secondo cui specie molto simili possono coesistere quando le loro necessità siano molto flessibili. Questa elasticità è anche la caratteristica principale dei fringuelli di Darwin delle Galapagos per il semplice fatto che la loro sopravvivenza a lungo termine dipende appunto da essa. I fringuelli vivono su isole vulcaniche deserte, dotate di ambienti aspri, mutevoli, che di anno in anno, di mese in mese, offrono una sempre diversa qualità della vita. Durante la stagione delle piogge, quando ha luogo la fase vegetativa delle piante e il cibo è relativamente abbondante, gli uccelli possono godere di una dieta variata. Le specie che vivono su una medesima isola e che sono anatomicamente simili, si nutrono quasi completamente dello stesso tipo di cibo. Nella stagione secca, il cibo scarseggia e le specie cominciano a selezionare prede di tipo differente. Alcune si specializzano, altre ampliano il loro spettro alimentare. L’isoletta di Daphne Major è luogo di residenza di due specie, il fringuello terricolo Geospiza fortis e il fringuello del cactus Geospiza scandens. Entrambi vivono tra gli addensamenti di opunzia. Durante la stagione umida, quando i cactus sono in piena fioritura, le due specie consumano lo stesso tipo di cibo. Si nutrono di nettare e di polline dei fiori, e inoltre banchettano con vari tipi di semi e di insetti. Durante la stagione secca, quando le riserve di cibo si riducono, G. scandens limita la sua dieta per concentrarsi sulle parti commestibili delle opunzie. G. fortis, invece, amplia la sua dieta includendo una più vasta gamma di alimenti che ricerca in ogni luogo. Si immagini una situazione nella quale due specie di questo genere siano state costrette a stare assieme nelle stesse biocenosi abbastanza a lungo perché abbia avuto luogo un’evoluzione. Al primo contatto, le specie erano elastiche e potevano divergere nelle loro abitudini quanto bastava per allentare la competizione. Le differenze

interessavano solo il fenotipo, ed erano il risultato dell’azione dell’ambiente, e non dei geni. La compressione avvenne a carico di caratteri modificabili con facilità, soprattutto rinunciando ad alcune zone dell’habitat e ad alcuni elementi della dieta, da parte di una sola o di entrambe le specie. Col passare delle generazioni, emersero le differenze genetiche che consolidarono la distinzione tra le due specie. Alcuni uccelli hanno trovato vantaggiosa la capacità di eccellere in quelle porzioni della nicchia nelle quali erano stati costretti. Il successo arriso a quelli già predisposti geneticamente ad agire in tal modo ha fatto sì che tutta la popolazione arrivasse a specializzarsi: a consumare, cioè, un certo tipo di cibo, o a costruire i nidi in un particolare habitat, piuttosto che in un altro. Le differenze si estesero poi a livello anatomico e fisiologico, sicché le due specie cominciarono a competere meno, e ciò, probabilmente, a prezzo di parte della loro elasticità originaria. Sperimentarono quel cambiamento di tipo evolutivo chiamato dislocamento dei caratteri. Un esempio classico di dislocamento dei caratteri è quello fornito dal mutamento nella dimensione del becco e nelle abitudini alimentari dei fringuelli di Darwin. La radiazione adattativa che ha interessato le tredici specie delle Galapagos ha riguardato soprattutto lo spessore del becco, un carattere che è stato in parte influenzato dal dislocamento dei caratteri. La pressione selettiva che sta dietro all’evoluzione si traduce in una maggiore efficienza durante il processo di specializzazione. Quanto più il becco è spesso in corrispondenza del piano di inserzione sul capo, tanta più forza può esercitare lungo i margini taglienti e con la punta. I fringuelli muniti di becco spesso sono molto ben attrezzati per spappolare i frutti più coriacei e per frantumare i semi più grossi e più fragili. I fringuelli con becco più sottile, invece, si devono limitare a un vitto di consistenza più morbida, ma, in compenso, hanno una buona capacità di sondare le fessure strette e di manipolare piccoli oggetti. Un’analogia approssimativa ricavabile dalla tecnologia dell’uomo è quella che potremmo chiamare la radiazione adattativa della pinza. Quando è necessario stringere un bullone o torcere un cavo di grosso spessore con rapidità, ci vogliono o le pinze da elettricista o le pinze a

pappagallo. Per la manipolazione dei bulloni di piccole dimensioni e dei fili elettrici occorrono invece pinze più sottili e, in proporzione, più lunghe. La forma del becco, comunque, non è tutto, quando si tratta di dislocamento e radiazione a proposito dei fringuelli di Darwin. La specializzazione nella dieta ha comportato anche variazioni a carico dei muscoli mascellari, dei movimenti stereotipati che gli uccelli compiono durante il pasto, e forse perfino della chimica del canale digerente. La lunghezza del becco resta comunque il carattere più facile da rilevare e da misurare, una sorta di sintomo grazie al quale studiare la più ampia sindrome delle mutazioni che portano a una specializzazione. La prova più sicura del ruolo che il dislocamento dei caratteri svolge come propulsore della radiazione adattativa sta nella dimostrazione dell’esistenza di un tipo di distribuzione geografica bipartita: le specie che, nei luoghi in cui convivono, si sono evolutivamente allontanate tra loro non lo hanno fatto – o sono andate addirittura incontro a un fenomeno di convergenza evolutiva – lì dove vivono da sole. Nel caso particolare dei fringuelli di Darwin, Peter Grant si servì del fatto che alcune delle specie vivono su molte isole dell’arcipelago delle Galapagos. Il ricercatore studiò tredici casi di coppie di specie strettamente imparentate che, su alcune isole, sono presenti assieme. In undici casi, riscontrò differenze nella lunghezza del becco maggiori di quelle rilevabili quando le specie vivono da sole, ciascuna nella sua isola. Ciò nonostante, tale prova non era del tutto decisiva. Grant si avvide infatti dell’esistenza di un’altra possibilità purché si fosse in assenza di competizione. Il dislocamento dei caratteri può aver luogo mediante il rafforzamento, a livello riproduttivo, di quelle differenze che fanno sì che le specie restino isolate sotto forma di pool genici distinti. Se due specie che si incontrano si ibridano in una certa misura, e gli ibridi che ne risultano presentano una riduzione della fitness (l’insieme delle caratteristiche che rendono un organismo adatto a un determinato ambiente) o una maggior incidenza di

sterilità, sarà meglio per entrambe le specie evitare del tutto l’ibridazione. Un accorgimento potrebbe consistere nell’evoluzione di caratteri facilmente riconoscibili quali le forme del becco, che consentano agli individui di selezionare con maggior accuratezza i membri della propria specie. Utilizzando delle femmine impagliate, che, nonostante la loro immobilità, venivano corteggiate dai maschi ignari di tutto, Grant scoprì che quelli viventi sulle isole dove sono presenti forme tra loro simili preferiscono le femmine dotate di un becco con la forma «giusta» per la loro specie. Invece, quando quella stessa specie vive da sola, i maschi sono molto meno selettivi. In altre parole, la forma del becco viene veramente utilizzata dai fringuelli maschi come indizio per la scelta delle femmine della propria specie, e il rinforzo riproduttivo ha luogo come processo evolutivo. Grant, comunque, ha soppesato attentamente i vari fattori, e ha mostrato che il dislocamento dei caratteri si esplica soprattutto attraverso la competizione, e che il rinforzo a livello riproduttivo ne è un effetto secondario. Ciò significa che, quando i becchi si differenziano evolutivamente in conseguenza della competizione, le specie imparentate di fringuelli di Darwin utilizzano tali differenze anche per evitare l’ibridazione. Il dislocamento dei caratteri è stato documentato in modo convincente in alcuni altri gruppi di organismi, tra i quali rane, moscerini della frutta, formiche e chiocciole, però è ben lungi dall’essere un processo biologico universale. Esso permette che venga esercitata una certa compressione qua e là, e che qualche altra specie si inserisca nelle biocenosi locali. Entro certi limiti, rappresenta un processo mediante il quale le biocenosi possono organizzarsi; un processo che modula l’aumento della biodiversità a livello generale. Alle forze che fanno crescere la biodiversità bisogna aggiungere i predatori. Nel corso di un famoso esperimento condotto lungo la costa dello stato di Washington, Robert Paine scoprì che i carnivori, lungi dal distruggere le specie che predavano, potevano addirittura proteggerle dall’estinzione e, quindi, preservare la biodiversità. La stella marina Pisaster ochraceus è un predatore-chiave dei molluschi che vivono su quelle rocce, comprese nella zona intertidale (la zona

delle fasce costiere comprese tra i limiti di alta e di bassa marea), che ospitano mitili, patelle e chitoni. La stella aggredisce anche i cirripedi, che hanno l’aspetto di molluschi ma sono in realtà crostacei, protetti da un guscio fissato al substrato. Nell’area di studio di Paine, lì dove era presente la stella di mare, coesistevano anche quindici specie di molluschi e di cirripedi. Però, dove Paine toglieva le stelle marine, queste altre specie si riducevano a otto. Si verificava un fenomeno inatteso, ma che a posteriori appare logico. Non più soggetti alle depredazioni di Pisaster, molluschi e cirripedi aumentavano di numero in modo anomalo determinando l’esclusione di sette delle altre specie. In altre parole, in questo caso il predatore risultava essere meno pericoloso degli organismi competitori. Ecco, allora, qual è la regola di raggruppamento: si inserisca un certo predatore, e in seguito vi sarà un numero maggiore di specie animali stanziali che potrà invadere la biocenosi. La complessità acquista un’ulteriore dimensione a causa della simbiosi, che si può definire a grandi linee come associazione intima di due o più specie. I biologi hanno individuato tre tipi di simbiosi. Nel primo, il parassitismo, il simbionte dipende dall’ospite e, pur recandogli danno, non lo uccide. In altri termini, il parassitismo è un tipo di predazione nel corso della quale il predatore non divora mai la preda per intero. L’organismo ospitante, essendo mangiato un pezzo alla volta, può sopravvivere – a volte in buone condizioni – e può reggere così la presenza di un’intera popolazione appartenente a un’altra specie e, a volte, addirittura di più specie simultaneamente. Un solo essere umano, sicuramente sfortunato e trascurato dal suo medico, potrebbe, almeno in teoria, sopportare la presenza dei pidocchi della testa (Pediculus humanus capitis), dei pidocchi del corpo (Pediculus humanus humanus), dei pidocchi del pube (o piattole, Pthirus pubis), delle pulci (Pulex irritans), delle larve della dermatobia (Dermatobia hominis), nonché di tutta una congerie di ascaridi, di tenie, di trematodi, di protozoi, di funghi e di batteri, tutti adattatisi metabolicamente alla vita all’interno dell’organismo umano. Ciascuna specie di essere vivente, e soprattutto ogni tipo di animale o di vegetale di grosse dimensioni, ospita una fauna e una flora di

parassiti ritagliate su misura. Per esempio, il gorilla ha un pidocchio del pube «personalizzato», Pthirus gorillae, che assomiglia molto a quello di Homo sapiens. È stato trovato anche un acaro che vive sostentandosi esclusivamente con il sangue che succhia dal segmento terminale delle zampe posteriori dei «soldati» di una specie sudamericana di formiche guerriere. Si conoscono anche delle minuscole vespe le cui larve parassitano le larve di altri generi di vespe, le quali a loro volta vivono all’interno dei bruchi di alcune specie di falene, che si nutrono di certi tipi di piante che vivono su altre piante ancora. La biodiversità è ulteriormente incrementata dal commensalismo, fenomeno per il quale gli organismi simbionti che vivono sul corpo di altre specie, oppure nei loro nidi, non arrecano a questi né danno né vantaggio alcuno. Senza rendersene conto, gran parte degli esseri umani portano a spasso sulla fronte due tipi di acaro, organismi dal corpo esile e vermiforme, dotato di un capo simile a quello di un ragno, talmente piccolo da essere quasi invisibile a occhio nudo. Il primo (Demodex folliculorum) abita i follicoli dei capelli, mentre l’altro (Demodex brevis) le ghiandole sebacee. Se desiderate fare la conoscenza degli acari che albergano sul vostro capo, eseguite la seguente operazione: stirando bene la cute con una mano, con una spatolina, o con un coltello da burro, raschiatela in senso opposto a quello della trazione, in modo da far uscire dalle ghiandole sebacee un po’ della sostanza oleosa che contengono. (Non usate oggetti taglienti, come coltelli o il bordo di oggetti di vetro.) Poi, raschiate via la sostanza oleosa dalla spatolina mediante un vetrino coprioggetto da microscopio, che adagerete con la faccia su cui è raccolto il campione rivolta in giù, su una goccia di olio da immersione precedentemente depositata su un vetrino portaoggetto. A questo punto, potrete esaminare il materiale con un comune microscopio ottico. Vedrete creature che fanno letteralmente accapponare la pelle. In nessun altro modo potremmo accorgerci dei nostri acari, i quali, assieme ad altri commensali, inseriscono nella pelle il minuscolo cono boccale, sorseggiano piccole quantità di sostanze nutrienti e di

energia praticamente inutilizzate dai loro ospiti, e vivono tranquillamente una vita di irreprensibile austerità. La biomassa di questi organismi è minima, per non dire infima, ma la loro diversità è immensa. Sono presenti dovunque, ma ci vuole un occhio speciale per trovarli. Sulle foglie degli alberi della foresta pluviale tropicale crescono giardini in miniatura, ampi un centimetro, fatti di licheni, di muschi e di epatiche. Tra le cosiddette epifille (vegetali che vivono sulle foglie di altre specie) alligna una congerie di piccoli acari, di collemboli e di psocotteri. Alcuni animali pascolano sulle epifille, e altri gli danno la caccia. Così, una sola foglia d’albero, che spesso costituisce a stento un decimillesimo dell’intero organismo vegetale, ospita un’intera fauna e un’intera flora. In assoluto, il legame più stretto tra tutte le specie, il legame che conferisce al termine biocenosi un significato ben più che metaforico, è costituito dal mutualismo. Si tratta del terzo tipo di relazione tra organismi, il tipo che spesso si ritiene essere la vera simbiosi e che, quando ci si esprime con un linguaggio meno formale, di frequente viene utilizzato proprio in tal senso. Per mutualismo si intende la coesistenza stretta di due specie che ne traggono entrambe beneficio. Gran parte degli alberi morti del bosco viene decomposta dalle termiti, o meglio, non tanto dalle termiti, quanto, piuttosto, dai protozoi e dai batteri che vivono nel tratto posteriore del loro intestino. I quali, però, hanno bisogno che le termiti garantiscano loro un domicilio e un flusso costante di legno masticato ridotto a una poltiglia digeribile. Quindi, più correttamente, bisognerebbe dire che gran parte del legno viene decomposta dalla simbiosi termitimicrorganismi. Le prime raccolgono il legno, ma non possono digerirlo, e viceversa per i secondi. Potremmo dire che, nel corso di milioni di anni, le termiti hanno addomesticato i microrganismi in funzione delle loro esigenze particolari. Ma questo significherebbe fare dello sciovinismo a favore degli organismi di grosse dimensioni. Di fatto, è altrettanto corretto dire che sono le termiti a essere state imbrigliate dai microrganismi. La natura della simbiosi mutualistica sta proprio in questo: per raggiungere il livello più alto di intimità, i partner vengono fusi in un solo organismo.

Le simbiosi mutualistiche sono molto più che semplici curiosità per il diletto dei biologi. Gran parte della vita sulla terraferma dipende in ultima analisi da una relazione di tal genere, nota come micorriza (termine di derivazione greca che letteralmente significa fungoradice). Tale termine designa la coesistenza di mutua dipendenza tra funghi e apparati radicali delle piante. Gran parte di esse, dalle felci alle conifere, alle angiosperme, ospita funghi che si sono specializzati nell’assorbimento del fosforo e di altre sostanze nutrienti chimicamente semplici ricavate dal suolo. I funghi micorrizici forniscono parte di queste sostanze di vitale importanza alle piante che li ospitano, e queste li ricambiano garantendo loro un rifugio e una riserva di carboidrati. Private dei loro funghi, le piante crescono più lentamente, e molte, addirittura, muoiono. A seconda delle specie, i funghi possono penetrare nelle cellule radicali più esterne, oppure avviluppare le radici per formare intricate strutture a reticolo. Sradicando una qualsiasi pianta, si porta alla luce un intrico di esilissime fibre che imprigionano grumi di granelli di terra. Alcuni di quei filamenti sono probabilmente radichette della pianta, ma altre sono ife, simili a muffe, appartenenti ai funghi simbiotici. Durante l’evoluzione, presso molti tipi di piante, le ife fungine hanno completamente sostituito i peli radicali. Se non si fosse instaurata l’alleanza tra piante e funghi, la vera e propria colonizzazione delle terre emerse da parte delle piante e degli animali superiori, avvenuta da 450 a 400 milioni di anni fa, probabilmente non sarebbe stata possibile. Il terreno nudo, spazzato dalla pioggia, a quel tempo non poteva offrire ospitalità a organismi più complessi di un batterio, di una semplice alga, o dei muschi. Le prime piante vascolari non possedevano né foglie né semi, e superficialmente assomigliavano agli equiseti e alle isoete attuali. Alleandosi coi funghi, esse riuscirono, per così dire, a mettere piede a terra. Alcuni di questi pionieri si evolvettero nelle licofite arboree e nelle felci delle grandi foreste del Paleozoico, trasformatesi più tardi in giacimenti di carbon fossile. Altre diedero origine agli antenati delle moderne conifere e delle angiosperme, la cui vegetazione è divenuta, col trascorrere del tempo, dimora del più vasto

dispiegamento della vita animale che sia mai esistito. Oggi, le foreste pluviali tropicali, che probabilmente contengono più della metà delle specie di piante e di animali della Terra, crescono su un fitto intreccio di ife di funghi micorrizici. Le barriere coralline, che costituiscono l’equivalente marino delle foreste pluviali, sono state anch’esse edificate su una simbiosi di tipo mutualistico. La parte viva del corallo, quella di cui è rivestito lo scheletro di carbonati che forma la barriera, è costituita dai polipi, che sono parenti stretti delle meduse. Questi, similmente alle meduse e ad altri celenterati, si servono di sottili tentacoli per catturare crostacei e altri piccoli animali. Ma essi dipendono anche dall’energia procurata da alghe monocellulari che ospitano nei propri tessuti e alle quali cedono alcune delle sostanze nutrienti estratte dalle loro prede. Presso quasi tutti i coralli, ciascun polipo depone uno scheletro caliciforme di carbonato di calcio che ne circonda e protegge il corpo molle. Le colonie di coralli crescono grazie alla gemmazione dei singoli polipi, nel corso della quale vengono aggiunti nuovi calici di carbonati secondo uno schema geometrico tipico per ogni specie. Ne è risultata una stupefacente, bellissima gamma di scheletri che nel loro insieme costituiscono, appunto, la barriera: un intrico di coralli semplici e di madrepore cerebriformi, di coralli «a corna di cervo» e di tubipore a canne d’organo, di gorgonie a forma di ventaglio (Gorgonia flabellum) o di esili filamenti simili a fruste (Ellisella sp.). Via via che la colonia cresce, i polipi più vecchi muoiono, ma il loro calice calcareo resta intatto. Sopra di esso, i polipi ancora vivi continuano a costruire altri scheletri calcarei, determinando così la crescita progressiva della barriera. L’enorme massa di resti scheletrici – molti dei quali sono vecchi di migliaia d’anni – svolge un ruolo essenziale nella formazione delle isole tropicali, e in particolare delle scogliere coralline delle isole vulcaniche e degli atolli, i quali sono ciò che resta dei vulcani ormai consunti dall’erosione. I coralli forniscono il sostegno fisico e l’energia fotosintetica ad affollatissime comunità di migliaia di specie, che vanno dalle canocchie agli squali marmorizzati. Riassumendo quanto detto finora, che cosa sappiamo circa le

modalità di raggruppamento delle biocenosi? Ovviamente, sappiamo che i legami esistenti tra le specie hanno un livello elevato di organizzazione. Ma, ci si deve domandare, elevato fino a che punto? La risposta sfugge ancora quando si abbia a che fare con le biocenosi, cioè con tutti gli organismi viventi, per esempio, in un appezzamento di foresta di alberi dal legname pregiato, o in una barriera corallina, o in una sorgente in mezzo al deserto. Siamo a conoscenza di alcune specie-chiave, di alcune regole di composizione, di alcuni meccanismi di raggruppamento e di simbiosi che agiscono come forze gravitazionali deboli. Sappiamo come alcune specie si uniscano a gruppi di due o tre, ma non come si formi la biocenosi nel suo insieme. A mano a mano che la ricerca si fa più sofisticata, ecco emergere qualche indizio. Si pensi alla biocenosi in termini di rete alimentare, ovvero di connessioni tra specie che predano altre specie. Si consideri che cosa potrebbe accadere quando una specie si estingue e viene strappata dalla rete alimentare come, per esempio, è accaduto alle lontre marine. Che cosa accadrebbe? Grazie a studi sul campo e a modelli matematici, gli ecologi sono riusciti a individuare alcune delle proprietà più generali delle reti alimentari, proprietà che poggiano sui risultati di quegli esperimenti. Hanno appreso come le catene alimentari che costituiscono la rete siano molto brevi. Se, partendo da un punto qualsiasi della rete, si segue la linea ideale che unisce i predatori alle loro prede, i consumatori ai produttori, si vedrà che questa catena non ha più di cinque anelli. Per esempio, in un terreno paludoso negli Stati Uniti centrosettentrionali, l’erba calamagrostide viene divorata dalle locuste acrididi, queste dai ragni araneidi, che a loro volta sono preda degli uccelli parulidi, questi ultimi, infine, costituiranno il pasto delle albanelle. Siccome l’erba non è in grado di mangiare nessuno, e i falchi non sono preda di nessuno (eccetto che, dopo la loro morte, di batteri e altri organismi decompositori) queste due specie costituiscono le estremità della catena. La seconda regola stabilisce che il numero di anelli non aumenta al crescere delle dimensioni della biocenosi. Non importa quante specie riescano a stare all’interno della comunità: il numero medio di anelli non aumenta, da qualunque

pianta la catena cominci e con qualunque predatore essa si concluda. Ho citato queste due regole generali per illustrare quali siano i principi più solidi dell’ecologia delle biocenosi, ma, al tempo stesso, quanto essi siano incompleti e incerti. Immaginate di tagliare via dalla rete alimentare palustre i parulidi. La catena alimentare si spezzerebbe, ma l’ecosistema rimarrebbe più o meno intatto. Ciò è dovuto al fatto che, nella rete, ciascuna specie della catena è contemporaneamente legata anche ad altre catene. Nelle paludi ci saranno, quindi, altre specie di uccelli che mangeranno i ragni, mentre le albanelle si orienteranno, seppure in modo quasi impercettibile, verso un numero maggiore di uccelli, roditori, serpenti e altri organismi ancora. Acari delle penne e pidocchi degli uccelli, assieme ad altri simbionti esclusivi dei parulidi, anch’essi comunque facenti parte di più catene, scompariranno assieme agli organismi che li ospitano, ma la loro perdita non avrà che un minimo influsso sulla biocenosi. Si provi a immaginare di allargare l’esperimento a due specie di parulidi, e poi a tutte le loro specie, e infine a tutti i Passeriformi della biocenosi. Via via che la lama del coltello taglierà più in profondità, i suoi effetti si amplieranno con gravità crescente in una parte della biocenosi vasta ma imprecisata. Si sottraggano ora le formiche, che sono tra i principali predatori e saprofagi di insetti e altri piccoli animali, e gli effetti saranno ulteriormente intensificati. Tuttavia, i dettagli sono ancor meno prevedibili. Le specie di uccelli, di formiche e di altre piante e animali sono in maggior parte legate a molte catene della rete alimentare. È molto difficile stabilire quali delle specie sopravvissute andranno a sostituire quelle estintesi e con quale grado di efficienza. I fisici possono prevedere con precisione il comportamento di una particella, possono prevedere con certezza le interazioni tra due particelle, ma già a partire da tre cominciano a trovarsi in difficoltà. Ebbene, non bisogna scordare che l’ecologia è una materia molto più complessa della fisica. Il processo opposto all’estinzione è rappresentato dall’affollamento delle specie. Gli ecologi sono per lo più incapaci di prevedere quali

specie possano ancora invadere la biocenosi e accrescerne la biodiversità. Si scelga un habitat a caso. Quanto sono affollate le specie che lo abitano? Qual è il limite superiore della diversità che consente alla biocenosi di essere stabile, ovvero il numero massimo di specie che può essere mantenuto senza bisogno dell’intervento umano? È facile incrementare la diversità locale mediante l’introduzione di un numero crescente di specie – orchidee fissate ai tronchi degli alberi, tigri allevate negli zoo e poi liberate nella giungla – ma la maggior parte di esse finirebbe col perire. In mancanza di una manipolazione costante e invadente, la maggior parte delle biocenosi sovrappopolate tornerebbe a un livello di diversità inferiore, forse simile a quello originale, o forse no. La nebulosità della struttura della biocenosi cresce ulteriormente a causa di collegamenti tra specie che si situano al di fuori delle reti alimentari convenzionali, e per le quali esistono poche regole o leggi sicure. Difficilmente si può fare appello alla competizione, soprattutto a quella che determina l’esclusione di una specie da parte di un’altra; e altrettanto dicasi dell’eliminazione dei saprofagi e dei simbionti. Ma il fenomeno più difficile da valutare è l’impatto delle specie che alterano l’ambiente fisico nel corso di molti anni. Le specie arboree dominanti crescono a tal punto da cambiare il regime termico e il regime dell’umidità in presenza dei quali le altre piante e gli animali sono costretti a vivere. Le termiti costruttrici di termitai a tumulo rivoltano il suolo e lo arricchiscono, alterano la composizione chimica degli elementi in esso contenuti e determinano quali specie vegetali possano crescere vicino alle loro gallerie sotterranee. Ecco, allora, che le popolazioni di acari e di collemboli fioriscono rigogliose, mentre le spore fungine e l’humus vanno in declino in misura impossibile da stabilire a priori. L’imprevedibilità degli ecosistemi è dovuta alle peculiarità delle specie che li compongono. Ciascuna specie è un’entità caratterizzata da una storia evolutiva particolare e da un corredo genico tutto suo, per cui altrettanto esclusivo sarà il modo con il quale ogni specie risponderà al resto della biocenosi. Per concludere, citerò l’esempio che più mi piace per sottolineare l’eccentricità della natura e la sua

capacità di smentire ogni legge. Le cavità degli alberi spesso si riempiono d’acqua, creando dei piccoli habitat acquatici per animali e microrganismi. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti le larve vive di una zanzara, Aedes sierrensis, abitano in tali cavità. Queste larve si nutrono di un piccolo protozoo ciliato, Lambornella clarki, simile ai parameci che si usano nei corsi di biologia. A loro volta, i protozoi si nutrono di batteri e di altri microrganismi che si riproducono nell’acqua contenuta all’interno delle buche degli alberi. Dopo un periodo da uno a tre giorni di esposizione all’odore delle larve delle zanzare, i protozoi sono in grado di rovesciare le sorti a proprio favore. Infatti, alcuni di essi si trasformano in forme parassite che invadono le larve e prendono a nutrirsi dei loro tessuti e del loro sangue. Così, un tratto della catena alimentare viene invertito, creando un percorso ciclico del cibo all’interno del quale ciascuna specie è simultaneamente predatrice e preda. Il ciclo di predazione e contropredazione zanzara-protozoo è emblematico della direzione che l’ecologia delle biocenosi deve imboccare, ovvero quella dello studio particolareggiato degli ecosistemi, a partire dalle loro basi per salire ai livelli più alti. I biologi si stanno avvicinando alla storia naturale animati da un nuovo senso del dovere. Essi non possono aspettarsi di imparare molto di più mediante un approccio dall’alto, vale a dire partendo dalle proprietà degli ecosistemi nel loro complesso (flussi energetici, cicli biogeochimici dei nutrienti, biomasse) interpolandole per arrivare a quelle delle biocenosi e delle specie. Solo mediante la conoscenza particolareggiata dei cicli vitali e della biologia di un vasto numero di specie costituenti le biocenosi sarà possibile la formulazione di principi e metodi atti a disegnare con precisione il futuro di quegli ecosistemi che stanno fronteggiando l’assalto dell’uomo. Solo allora, forse, si darà risposta all’interrogativo che più di frequente mi viene rivolto a proposito della biodiversità: se porteremo all’estinzione un numero sufficiente di specie, gli ecosistemi collasseranno e, in breve tempo, ne seguirà l’estinzione di quasi tutte le altre specie? L’unica risposta possibile è: forse. Ma il giorno in cui avremo trovato la risposta definitiva, potrebbe essere già troppo tardi.

Abbiamo un solo pianeta, e non possiamo effettuare che un solo esperimento.

10 La biodiversità raggiunge l’apice

Tre miliardi di anni or sono la Terra non solo era praticamente priva di vita, ma era anche inabitabile. Infatti, nella stratosfera non esisteva strato di ozono alcuno, poiché le molecole sue progenitrici, quelle di ossigeno, erano presenti negli strati inferiori in quantità troppo scarsa. I raggi ultravioletti, di breve lunghezza d’onda, potevano quindi raggiungere il suolo senza ostacoli e colpire le rocce basaltiche asciutte, assalendo gli organismi che si avventuravano fuori dalle acque del mare, bloccando le loro sintesi enzimatiche, aprendo le loro membrane ai veleni dell’ambiente, e distruggendone le cellule. In acqua, però, protetti dagli effetti letali della radiazione, abbondavano microrganismi simili ai moderni cianobatteri (chiamati, a volte, alghe azzurre), e una gran varietà di specie batteriche, o simili ai batteri. Questi microrganismi erano per lo più unicellulari e procarioti, e solo pochi erano composti di cellule unite assieme a formare dei filamenti. Erano creature semplici, prive di membrane nucleari, di mitocondri, di cloroplasti e di tutti quegli organuli che conferiscono complessità strutturale alle cellule delle piante e degli animali superiori. Gran parte delle forme di vita primitive vivevano concentrate in sottili strati mucillaginosi, in larga misura formati dall’intreccio, a guisa di feltro, di sottili filamenti algali; al di sotto di tali intrecci si formarono, a opera dei microrganismi, tipiche formazioni rocciose note come stromatoliti. Tali rocce hanno l’aspetto di sottili materassi (stroma = stuoia, tappeto) impilati e disseminati sui bassi fondali marini come casse sul pavimento di un magazzino. Le versioni moderne di queste rocce sormontate da organismi crescono, oggi, in pochissime località disseminate qua e là, tra le quali la Baja California e l’Australia nordoccidentale. Alcune sono sufficientemente tenere da

poter essere tagliate con un coltello da caccia. Altre sono state infiltrate da una quantità di carbonato di calcio sufficiente a renderle dure come le stromatoliti fossili. Queste formazioni si accrescono per concrezione. Gli organismi viventi che si trovano sulla loro sommità vengono periodicamente coperti dal limo e dai detriti trasportati dalle maree e dalle tempeste. Essi si riproducono moltiplicandosi verso l’alto, facendosi strada attraverso questo velo soffocante; riescono così a raggiungere nuovamente l’acqua limpida e la luce del sole, e, così facendo, anno dopo anno, fanno crescere in altezza le fondamenta delle stromatoliti. Non bisogna pensare però che oggi tutti questi feltri microbici abbiano alla base colonne di grosso spessore. Molti, infatti, formano sottili veli, privi di supporto, in habitat marginali nei quali le condizioni fisiche sono molto dure, ma sono assenti predatori e altri tipi di organismi competitori: esempi di tali habitat sono le sorgenti idrotermali, le lagune salmastre, i laghi antartici, i sedimenti abissali, e, sulla terra, la superficie delle rocce umide. Tre miliardi di anni fa, però, tutto lo spazio disponibile nei mari poco profondi doveva essere coperto da una varietà davvero notevole di tali formazioni microbiche, ciascuna delle quali specializzata per una nicchia particolare di luce, temperatura, acidità. Fin dagli esordi della vita, gli abitanti di questi feltri microbici si sono raccolti a formare insiemi di notevole complessità. L’aspetto liscio dello strato esterno, percepibile a occhio nudo, è ingannevole. Se se ne esamina al microscopio una sezione verticale, si notano degli organismi fotosintetizzanti addensati nel primo millimetro. Nello spazio di tale esiguo spessore, pari alla metà di una lettera maiuscola di questa pagina, l’intensità della luce solare viene ridotta all’1 per cento del valore misurabile nell’acqua sovrastante. Una riduzione pari a quella incontrata dalla luce in una foresta fitta durante il percorso dalla sommità degli alberi fino al suolo. Ma l’analogia si spinge oltre: perfino l’organizzazione di questa biocenosi ricorda quella di una foresta. I cianobatteri, in grado di catturare l’energia solare, sono distribuiti dall’alto al basso secondo un ordine simile a quello dei diversi tipi di alberi, ordine che vede le specie meno amanti

dell’ombra presso la superficie e quelle che la prediligono verso il fondo. Esse utilizzano questa energia per combinare l’acqua e l’anidride carbonica in molecole organiche, e liberano, durante il processo chimico, ossigeno. Ancora più giù, nell’equivalente a scala ridotta dell’oscuro interno della foresta (o del mare profondo, al di sotto delle acque superficiali illuminate dal sole) vivono i batteri chemioautotrofi che ossidano lo zolfo. Questi organismi, arcaici e appartenenti a un genere che probabilmente ha preceduto nel corso dell’evoluzione i cianobatteri, non sono fotosintetizzanti. Infatti, invece di decomporre l’acqua in idrogeno e ossigeno mediante l’aiuto dell’energia solare, rompono i più deboli legami dei solfuri senza l’apporto energetico della luce. Quasi di certo, tutt’attorno a questi strati di microrganismi fittamente intrecciati, nuotavano e andavano alla deriva intere popolazioni di cianobatteri e di altre forme procariotiche, differenti da quelle che costituivano il feltro microbico. Alcune vivevano grazie alla fotosintesi, altre predando procarioti o nutrendosi delle loro cellule morte. Già a quello stadio microscopico, la vita doveva presentare un certo livello di diversità, e doveva impadronirsi di quantità di energia e di sostanze nutrienti relativamente grandi. Tuttavia, il loro grado di differenziazione non doveva essere poi così elevato; per lo meno, non tanto quanto lo sono le faune e le flore odierne. Le terre emerse non erano ricoperte da foreste e praterie a uso e consumo di milioni di specie animali; né vi erano «foreste» di laminarie ad avviluppare i bordi degli oceani; né, ancora, stormi di sterne a caccia di pesci in acque limpide. Se potessimo fare assieme un viaggio indietro nel tempo e passeggiare lungo la riva di un antico mare alla ricerca di piante e di animali, senza l’ausilio di alcuno strumento ottico, non troveremmo alcun essere definibile con certezza come vivente, ma soltanto pozzanghere di una schiuma ripugnante a macchie marroni e verdi, e rocce dalla superficie scivolosa e di incerta natura. Gli organismi visibili, e con essi l’elevato grado di biodiversità, arriverebbero molto più tardi. La varietà delle forme viventi aumentò di mille volte a partire da queste fasi primordiali, trascinando con sé il processo evolutivo, a sua

volta misurato da quattro tappe principali che contraddistinguono il passaggio da un’epoca all’altra: • L’origine stessa della vita, avvenuta spontaneamente da molecole organiche prebiotiche da 3,9 a 3,8 miliardi di anni fa. I primi organismi viventi erano monocellulari, e quindi microscopici. Gli ecosistemi a stromatoliti comparvero non più tardi di 3,5 miliardi di anni fa. • L’origine degli organismi eucarioti – gli «organismi superiori» – avvenuta 1,8 miliardi di anni fa. Il loro Dna era racchiuso in membrane, e la cellula conteneva anche mitocondri e altri organuli complessi. In un primo tempo gli eucarioti erano monocellulari, alla maniera dei moderni protozoi e delle alghe di tipo più semplice; ma presto diedero origine a organismi più complessi, composti di molte cellule eucariotiche organizzate in tessuti e in organi. • L’esplosione del Cambriano, avvenuta da 540 a 500 milioni di anni fa. Durante questo periodo comparvero in grande quantità nuovi tipi di animali macroscopici, e quindi visibili a occhio nudo, che si evolvettero a raggiera creando i tipi adattativi tuttora esistenti. • L’origine della mente umana, durante le fasi finali dell’evoluzione del genere Homo, avvenuta probabilmente tra un milione e 100.000 anni fa. Alcuni biologi non amano utilizzare la locuzione «progresso evolutivo». Certo, questa espressione è inesatta e carica di sfumature fuorvianti, ma io la uso lo stesso per identificare un paradosso indispensabile per la comprensione della diversità biologica. In senso stretto, il concetto di progresso implica il raggiungimento di un obiettivo, ma l’evoluzione non ha obiettivo alcuno. Il Dna e le forze impersonali della selezione naturale non implicano necessariamente l’esistenza di obiettivi. Questi, piuttosto, sono una forma particolare

di comportamento, sono parte del fenotipo esterno, comprendente anche le ossa, gli enzimi della digestione e l’inizio della pubertà. Costruiti dalla selezione naturale, gli esseri umani, assieme ad altri organismi senzienti, hanno, tra le loro strategie di sopravvivenza, anche quella di porsi degli obiettivi. Poiché tali obiettivi sono le risposte ex post facto degli organismi alle necessità dettate dall’ambiente, la vita è governata dal passato recente e dal presente, ma non dal futuro. In breve, l’evoluzione per selezione naturale non ha nulla a che vedere con gli obiettivi, e quindi si direbbe che non ha implicazioni col progresso.

Fra gli ecosistemi più primitivi ci sono i cosiddetti feltri microbici, delicate comunità di

organismi microscopici la cui comparsa può esser fatta risalire, nel tempo geologico, quasi agli albori della vita. Nel feltro microbico schematizzata nella figura – un campione dello

spessore di un millimetro proveniente da acque marine poco profonde – le varie specie sono

stratificate a livelli diversi in base alle loro esigenze e alla disponibilità di luce e di nutrienti.

A. B. C. D. E. F. G. H. I.

diatomee (alghe microscopiche) Spirulina (cianobatteri o alghe azzurre) Oscillatoria (cianobatteri) Microcoleus (cianobatteri) batteri non fotosintetici vari tipi di cianobatteri non coloniali mucillagini batteriche Chloroflexus (batteri fotosintetici verdi) Beggiatoa (batteri chemioautotrofi

E tuttavia, c’è un altro significato di «progresso» che ha una notevole importanza per l’evoluzione. La biodiversità abbraccia un gran numero di casi, dal più semplice al più complesso. I più semplici sono stati anche i primi a comparire nel corso dell’evoluzione, i più complessi gli ultimi. Strada facendo, si sono verificati molti capovolgimenti, ma la media generale, nel corso della storia della vita, si è spostata dal semplice e dal poco numeroso verso il complesso e il molteplice. Durante l’ultimo miliardo di anni, la totalità degli animali si è evoluta verso il raggiungimento di dimensioni maggiori, verso tecniche di difesa e di procacciamento del cibo più raffinate, verso una maggiore complessità cerebrale e comportamentale, verso un’organizzazione sociale più spinta e verso una maggiore precisione nel controllo dell’ambiente: in ogni caso, molto più lontano dalla condizione di non vivente di quanto abbiano fatto i loro predecessori più semplici. In particolare, a salire furono i valori medi generali di questi caratteri e i loro valori estremi. Il progresso, quindi, in base a quasi tutti gli standard intuitivi

concepibili, inclusa l’acquisizione di obiettivi e di intenzioni nel comportamento animale, è una proprietà dell’evoluzione della vita nel suo complesso. Non ha molto senso giudicarla irrilevante. Attenti alla solenne esortazione di C. S. Peirce: non possiamo pretendere di eliminare dalla nostra filosofia ciò che in cuor nostro sappiamo essere vero. Lo sviluppo della biodiversità attraverso una crescente padronanza, da parte dei viventi, dell’ambiente terrestre rappresenta una tendenza innegabile nel senso di un progresso evolutivo. I geochimici e i paleontologi hanno potuto mettere ulteriormente a fuoco questa storia grazie alla messa a punto di nuovi metodi per l’identificazione dei fossili microscopici presenti nelle rocce sedimentarie vecchie di miliardi di anni, alle analisi chimiche di ambienti antichi, nonché alle stime statistiche dell’abbondanza relativa delle specie estinte. Due miliardi di anni fa, gran parte degli organismi terrestri producevano ossigeno per via fotosintetica. Ma questo elemento, così importante per la vita come oggi la conosciamo, non si accumulò nell’acqua e nell’atmosfera. Fu catturato dal ferro che, sotto forma di ione ferroso disciolto nell’acqua, abbondava nei mari primordiali al punto da saturarne le acque. I due elementi si combinarono a produrre ossidi ferrici, sostanze insolubili in acqua che, quindi, precipitarono sul fondo del mare. Per dirla con le parole chiare e semplici di J. William Schopf, il mondo arrugginì. Privati dell’ossigeno a causa della precipitazione del ferro, gli organismi furono costretti a restare anaerobici. I processi metabolici aerobici, che sono vie molto efficienti per ottenere e sviluppare energia libera, si evolvettero tutt’al più come adattamenti ausiliari. Due miliardi e ottocento milioni di anni fa il processo di precipitazione del ferro era pressoché terminato, e qua e là, in habitat ristretti, l’ossigeno molecolare era presente in scarse tracce. Gli organismi aerobici, ancora procarioti unicellulari, fecero la loro comparsa più o meno in questo periodo. Nel successivo miliardo di anni, il livello di ossigeno aumentò in tutto il mondo fino a costituire

l’1 per cento circa dell’atmosfera. E 1,8 miliardi di anni fa fecero la loro comparsa i primi organismi eucarioti: si trattava di forme viventi simili alle alghe, predecessori degli organismi fotosintetici che oggi dominano i mari. Non più tardi di 600 milioni di anni fa, verso la fine dell’era proterozoica, si evolvettero i primi animali. Tra i membri della fauna di Ediacara – così chiamata dalle omonime colline dell’Australia del Sud dove furono trovati molti dei primi esemplari – gran parte aveva corpo molle e forma appiattita. Assomigliavano vagamente a meduse, a vermi anellidi e ad artropodi; anzi, alcuni erano forse membri proprio di quei gruppi che sono poi sopravvissuti fino a noi. Circa 540 milioni di anni fa, quasi all’inizio del periodo Cambriano, che è il primo dei segmenti temporali dell’epoca fanerozoica nella quale noi stessi viviamo, nella storia della vita si verificò un evento che portava in sé il germe di ulteriori sviluppi. Gli animali aumentarono di dimensioni e si differenziarono in maniera esplosiva. La quantità di ossigeno nell’atmosfera era ormai prossima all’attuale 21 per cento. I due andamenti sono probabilmente connessi tra loro per la semplice ragione che gli animali di grosse dimensioni che conducono una vita attiva necessitano della respirazione aerobica e di un’abbondante riserva d’ossigeno. Nell’arco di pochi milioni di anni, negli archivi fossili andarono raccogliendosi esemplari di quasi ogni moderno phylum di invertebrati con una lunghezza di almeno un millimetro, e dotati di una struttura scheletrica facilmente conservabile e individuabile in tempi successivi. Sulla ribalta avevano fatto la loro comparsa anche molte delle classi e degli ordini ancor oggi esistenti. Fu così che avvenne l’esplosione del Cambriano, definibile come il Big Bang dell’evoluzione animale. I batteri e gli organismi monocellulari avevano anch’essi raggiunto livelli analoghi di sofisticazione biochimica. E ora, nel corso di una nuova radiazione adattativa, estesero le loro nicchie, includendo fra i possibili habitat i corpi degli altri organismi e i loro materiali di scarto. Istituirono un nuovo tipo di dominio microscopico che comprendeva organismi patogeni, simbionti e decompositori. In linea di massima, la vita nei mari raggiunse un aspetto essenzialmente moderno non più tardi di

500 milioni di anni fa. A quel tempo si era ormai formato anche uno spesso strato di ozono, capace di filtrare le letali radiazioni a lunghezza d’onda breve. Le zone di marea e la terraferma erano quindi pronte ad accogliere la vita. Durante il tardo periodo Ordoviciano, 450 milioni di anni fa, la Terra fu invasa dalle prime piante, probabilmente derivate da alghe multicellulari. Il territorio si presentava generalmente pianeggiante, privo di rilievi, e il clima era mite. Presto giunsero anche gli animali, invertebrati di natura ancora ignota, in grado di affossarsi e di scavare gallerie nel terreno primordiale. Di fatto, i paleontologi hanno scoperto le loro tracce, ma non ancora i loro corpi. Da 50 a 60 milioni di anni fa, agli inizi del Devoniano, le piante pioniere avevano formato spessi feltri e una bassa vegetazione arbustiva, distribuiti sui continenti. In mezzo a questi vegetali si diffusero i primi ragni, i primi acari, i centopiedi, e gli insetti, vale a dire animali che, pur piccoli, erano progettati per la vita sulla terraferma. A essi fecero seguito gli anfibi, evolutisi da pesci a pinne lobate, e un’esplosione di vertebrati terrestri – veri giganti, se confrontati agli altri animali affrancatisi dall’ambiente acquatico – che inaugurarono l’era dei rettili. Più tardi arrivò l’era dei mammiferi e, infine, l’era dell’uomo; e tutto questo tra continui, tumultuosi cambiamenti a livello delle classi e degli ordini. Trecentoquaranta milioni di anni fa, la vegetazione pioniera aveva fatto strada alle foreste che avrebbero poi costituito i giacimenti di carbone, e che erano dominate da svettanti licofite arboree, da cicadofite, da equiseti arborei, e da una grande varietà di felci. La vita stava per raggiungere il suo valore massimo di biomassa. Negli organismi fu investita una quantità di materia organica senza precedenti. Le foreste pullulavano di insetti, tra i quali vi erano libellule, coleotteri e scarafaggi. A cavallo tra la fine del Paleozoico e l’inizio del Mesozoico, più o meno 240 milioni di anni fa, quasi tutta quella vegetazione morì, tranne le felci. I dinosauri si svilupparono circondati da una vegetazione di recente formazione, di tipo prevalentemente tropicale, costituita da felci, conifere, cicadali e cicadeoida. A partire da 100 milioni di anni fa, però, il dominio delle

terre emerse fu assunto dalle piante angiosperme, che ricostituirono le foreste e le praterie di tutto il mondo. I dinosauri si estinsero proprio durante il periodo di egemonia di questo tipo di vegetazione, essenzialmente moderno: in un periodo, cioè, durante il quale le foreste pluviali tropicali stavano mettendo assieme la più grande concentrazione di biodiversità di tutti i tempi.

La storia geologica della vita cominciò più di tre miliardi e mezzo di anni fa, quando

comparvero i primi organismi unicellulari. Gli episodi chiave dell’evoluzione vengono collocati nelle divisioni del tempo geologico: gli eoni comprendono le ere, le ere

comprendono i periodi, e i periodi le epoche. La biodiversità subì drastiche riduzioni in

corrispondenza delle grandi estinzioni di massa, che nella figura sono indicate con il simbolo del fulmine.

Negli ultimi 600 milioni di anni, la spinta propulsiva della biodiversità è sempre stata indirizzata verso la crescita, nonostante gli episodi delle estinzioni di massa. In mare, durante il Cambriano e l’Ordoviciano, la quantità di ordini animali superò di poco il centinaio, valore sul quale essi si mantennero durante i successivi 450 milioni di anni. Famiglie, generi e specie seguirono fedelmente lo stesso andamento fino alla fine del Paleozoico, 245 milioni di anni fa. Fu allora che, a causa della concomitante estinzione catastrofica, subirono un vero e proprio tracollo, seguito, a soli 50 milioni di anni di distanza, durante il Triassico, da una crisi di minore entità. Da quel momento in poi ripresero ad aumentare, con un solo altro inciampo alla fine del Mesozoico, per raggiungere livelli di biodiversità sconosciuti durante i precedenti milioni di anni. La varietà delle piante e degli animali terrestri, con un ritardo di 100 milioni di anni durante i quali ebbe luogo la colonizzazione delle terre emerse, seguì la stessa traiettoria fino ai giorni nostri.

La diversità biologica è andata lentamente crescendo nel tempo geologico, incorrendo in

alcune battute d’arresto in occasione delle estinzioni di massa. Finora si sono verificati cinque periodi critici di questo tipo, indicati nella figura con il simbolo del fulmine. I dati qui

riportati si riferiscono alle famiglie di organismi marini. Un sesto episodio di estinzione di massa è oggi in corso, quale conseguenza delle attività umane.

Ciascuno dei periodi delle grandi estinzioni ridusse soprattutto il numero di specie, e molto meno il numero di classi e di phyla. Quanto più basso era il livello tassonomico della categoria, tanto più questa veniva intaccata. Alla fine del Paleozoico scomparve qualcosa come il 96 per cento delle specie di animali marini e dei foraminiferi, contro il 78-84 per cento dei generi e il 54 per cento delle famiglie. A quanto pare nessun phylum si estinse. La vulnerabilità, che diminuisce col salire della gerarchia tassonomica, è un artefatto, una conseguenza diretta del modo adottato dai biologi di classificare gli organismi secondo una scala gerarchica. Tuttavia, esso si è rivelato interessante e tecnicamente utile in virtù di quello che è stato appropriatamente ribattezzato «Scenario del campo di battaglia». Immaginate dei fanti in fase di avanzata alla maniera del diciottesimo secolo, a ranghi stretti e con le armi spianate. Ogni uomo della fila rappresenta una specie e appartiene a un plotone (un genere), che è un’unità di una compagnia (una famiglia), a sua volta facente parte di un battaglione (un ordine), e così via fino ai corpi d’armata (i phyla). Ogni uomo ha, in un certo momento, la stessa probabilità di essere colpito da un proiettile. Quando uno di essi cade, la specie che egli rappresenta si estingue; ma altri membri del plotone-genere continuano ad avanzare, cosicché, seppur rimpicciolito, il genere sopravvive. Col tempo, potrebbero morire anche tutti i membri di questo genere, ma i sopravvissuti degli altri generi saranno ancora in piedi, lungo la fila, e in tal modo la compagnia-famiglia potrà proseguire la sua marcia. Alla fine del lungo e letale percorso, può darsi che saranno state eliminate quasi tutte le specie, i generi, le famiglie, gli ordini, e perfino le classi; ma basterà che una sola specie sia rimasta in piedi, e si potrà affermare che il phylum non è scomparso. Nel corso di 600 milioni di anni di evoluzione, durante il Fanerozoico, il ricambio di specie è stato quasi totale. Più del 99 per cento delle specie vissute in ogni periodo scomparvero, sostituite da un numero ancor più grande di specie originate dai discendenti dei sopravvissuti. Tale è la natura delle successioni dinastiche che hanno caratterizzato la storia della vita, spesso cominciate con episodi di

estinzioni in massa che hanno abbattuto orde di compagnie-famiglie e interi battaglioni-ordini. Quello del 99 per cento non è un valore sorprendente. Immaginate, infatti, un gruppo quale gli anfibi arcaici del Paleozoico. Ne muoiono mille specie, e ne resta una sola, dalla quale derivano i rettili primitivi. Di questi ne muoiono mille specie, ma se ne salva una che sopravvive fino a diventare la progenitrice dei dinosauri del Mesozoico. Il tasso di sopravvivenza delle specie di questa sequenza è pari a 1 su 2000. In altri termini, su 2000 linee create, ne sopravvive solo una; e tuttavia la vita fiorisce più che mai diversificata. Da ciò deriva la possibilità, davvero degna di nota, che nessun phylum si sia mai estinto. Posta in termini strettamente operativi, la congettura suonerebbe così: il rango tassonomico di phylum non può essere assegnato con certezza a nessuno dei grandi gruppi che si sono estinti. Molti battaglioni e reggimenti sono scomparsi del tutto, ma non possiamo essere sicuri che questi costituissero un intero corpo d’armata. Se davvero è scomparso un intero phylum, esso, quasi sicuramente, si era formato durante la fase esplosiva attraversata dalla biodiversità nel Cambriano. Infatti, a quell’epoca si verificò un evento ambientale – probabilmente, un’accresciuta disponibilità di ossigeno – che dischiuse i mari agli animali di grosse dimensioni. Le acque del mondo divennero un nuovo continente nel quale gli organismi lunghi più di un centimetro poterono evolversi e irradiarsi in senso adattativo. È ciò che fecero, creando molti, forse tutti i restanti phyla oggi noti. Da più parti si è creduto che l’esplosione del Cambriano sia stata un periodo di sperimentazione selvaggia durante il quale furono inventati, e anche scartati, schemi anatomici generali mai visti né prima né dopo. Se questa interpretazione fosse esatta, alcune delle specie rapidamente scomparse devono essere considerate dei phyla. che si sono estinti. Ne seguirebbe anche che, al livello di phylum, la biodiversità raggiunse il suo massimo durante l’esplosione del Cambriano, per diminuire, poco dopo, fino a raggiungere il livello odierno. Tale interpretazione è confortata dall’esistenza di fossili ben conservati, ritrovati negli scisti di Burgess, nella Columbia Britannica,

datati dall’inizio al Cambriano medio; fossili che sembrano non appartenere ad alcun phylum. riconosciuto. Altri ritrovamenti, del tipo di quelli di Burgess, sono stati effettuati in Europa, in Cina e in Australia. Presi tutti assieme, essi ci danno quasi la certezza che, durante il Cambriano, molti tipi insoliti di animali abbiano tenuto banco per breve tempo. In termini tassonomici, ciò equivale a dire che vi furono ordini e classi che durarono solo pochi milioni di anni. Tuttavia, i fossili non sono sufficienti ad affermare con certezza che vi furono nuove tipologie anatomiche – innovazioni di tale portata da conferire il rango di phylum. – create e poi scartate. Nel 1989 Simon Conway Morris, una vera autorità a proposito delle faune degli scisti di Burgess, riconobbe, sparsi all’interno di quegli antichi insiemi, undici phyla. moderni, assieme a «19 tipi di piani corporei che in massima parte differivano gli uni dagli altri come uno qualunque degli altri phyla animali». Il rapido processo di differenziazione, continuava Conway Morris, si riflette negli Arthropoda – organismi, come ben sappiamo, tuttora esistenti – per i quali, negli scisti di Burgess: [la] processione di forme sembra quasi inesauribile. L’impressione generale che se ne ricava è quella di un enorme mosaico dove le singole specie siano montate

secondo uno schema basato su differenze nel numero e nel tipo di appendici

articolate, nel numero di segmenti, nel grado di fusione dei tergiti, e nelle proporzioni complessive del corpo.

Tuttavia, la diversità degli artropodi finora ritrovati tra i fossili del Cambriano non supera quella riscontrabile negli artropodi odierni, anzi, probabilmente è di molto inferiore. In mare, il dispiegamento di classi e di ordini resta elevato. Gli insetti non si sono ancora moltiplicati per invadere la terraferma e le acque dolci con organismi capaci di scavare e nuotare, e l’aria con macchine volanti dal fantastico design. Il quadro non cambierebbe anche se, per ipotesi, prendessimo quattro specie viventi appartenenti alla sola classe degli insetti – ad esempio, un Simulium allo stadio larvale, l’omottero Lanternaria phosphorea, una femmina di cocciniglia e un coleottero psefenide – e le conservassimo con la stessa fedeltà dei fossili di

Burgess; infatti, i resti verrebbero classificati erroneamente in quattro phyla. diversi, poiché l’impianto generale del loro organismo appare, in superficie, completamente diverso. I paleontologi che hanno lavorato alla fauna di Burgess si sono accostati all’oggetto dei loro studi con cautela davvero degna di nota. Infatti, quando hanno avuto a che fare con fossili non avvicinabili per anatomia ai phyla. moderni, li fanno rientrare nella categoria dei problematica. Quando, però, si sono rinvenuti fossili meglio conservati, come nel caso dei depositi di Cheng-jiang, nella Cina meridionale, e una volta messi a punto metodi migliori per studiare i vecchi campioni, le file dei problematica. si sono assottigliate. Gli organismi corazzati dei generi Halluligenia, Microdictyon e Xenusion sono stati di recente inseriti tra gli Onychophora, l’attuale phylum. di animali dall’aspetto simile a bruchi che si ritiene siano una via di mezzo tra i vermi anellidi e gli artropodi. È stato dimostrato che gli esemplari classificati come Wiwaxia corrugata, la quintessenza della bizzarria, forse simile a una lumaca ricoperta di scaglie e con lunghe spine che spuntavano dal dorso, in realtà non erano che frammenti di un verme polichete membro di un phylum. tuttora esistente, quello degli Anellida. Ricapitoliamo la grande parata fin qui passata in rassegna. Il numero di phyla. animali viventi, tutti con rappresentanti marini, ammonta a trentatré. Di questi, circa venti comprendono animali sufficientemente grossi e abbondanti da lasciare fossili del tipo conservato nei depositi di scisti quali quelli di Burgess. Il numero di phyla. animali del Cambriano identificati con sicurezza è pari a undici. Per quanto ci è dato sapere, nessun phylum. si è ancora estinto. In mare, il livello di diversità è andato progredendo passo dopo passo in seguito all’esplosione del Cambriano, e lo stesso è accaduto sulla terraferma dopo la formazione delle foreste, che costituiranno poi i giacimenti di carbone, e dopo la colonizzazione da parte delle popolazioni di insetti e di anfibi. Ma l’aumento di più vasta portata si è verificato durante gli ultimi 100 milioni di anni.

Potremmo ora domandarci come mai, nonostante le fasi di declino più o meno pronunciate verificatesi strada facendo, e nonostante il ricambio quasi completo delle specie, dei generi e delle famiglie che ha avuto luogo più volte, la biodiversità abbia sempre mostrato una tendenza all’aumento. La risposta sta in parte nel fatto che le masse terrestri continentali subirono modificazioni che favorirono il processo di formazione delle specie. Durante il tardo Paleozoico, la superficie delle terre emerse era composta da un unico supercontinente, Pangea. Agli inizi del Mesozoico, Pangea si era suddivisa in due grandi frammenti, Laurasia al nord, e Gondwana al sud; l’India si era anch’essa separata, formando un frammento più piccolo che andava alla deriva verso nord, verso l’appuntamento con l’arco himalayano. Circa 100 milioni di anni fa, già esistevano gli attuali continenti, e i bacini d’acqua che li separavano andarono allargandosi. Le grandi faune e flore si evolvettero in condizioni di isolamento sempre più spinto. La lunghezza delle coste aumentò dovunque, e così aumentò anche l’estensione degli habitat disponibili per gli organismi bentonici che vivevano in prossimità delle coste. Mari poco profondi invasero più volte la terraferma, prima creando e poi facendo scomparire nuovi habitat e nuovi insiemi di organismi ad essi adattatisi. Questi mondi abitati, chiamati «province faunistiche e floristiche», hanno conosciuto alterne vicende; ciò nonostante, oggi noi viviamo in corrispondenza del culmine della ricchezza della biodiversità.

Il numero medio di specie vegetali rinvenute nelle flore locali è aumentato costantemente a partire da 400 milioni di anni fa, quando le piante invasero la terraferma. Questo aumento riflette la crescente complessità degli ecosistemi terrestri.

La biodiversità totale è giunta al suo culmine durante il Cenozoico innanzitutto grazie alla creazione di un ambiente aerobico, e poi in seguito alla frammentazione delle masse continentali. Ma questo, di certo, non è tutto. Il numero di specie che vivevano assieme all’interno di un certo habitat, per esempio le baie con fondali marini poco profondi e le foreste tropicali, è cresciuto a fasi alterne. Negli ultimi 100 milioni di anni, il numero di organismi marini è almeno raddoppiato, e quello delle piante terrestri è almeno triplicato. Tali tendenze significano che le attuali biocenosi locali accolgono un numero maggiore di specie: specie o che si formano più velocemente o muoiono più lentamente. Per comprendere le ragioni dell’accrescersi, nel corso del tempo su scala geologica, della ricchezza in biodiversità delle biocenosi locali, bisogna di nuovo rivolgersi alle faune e alle flore viventi, poiché è lì che si può studiare la biologia delle singole specie nei minimi dettagli. Innanzitutto, è possibile confrontare le biocenosi viventi, dotate di poche specie, con quelle che invece ne sono ricche. L’elemento che più di tutti balza all’occhio è costituito dal gradiente

latitudinale della biodiversità, vale a dire l’aumento nel numero di specie (o di qualsiasi altra categoria tassonomica) rilevabile quando ci si muova dai poli all’equatore. Qui di seguito è riportato un saggio del gradiente dell’emisfero settentrionale relativo al numero di specie di uccelli nidificanti, basato su aree aventi all’incirca la stessa estensione: Groenlandia

56

Labrador

81

Terranova

118

Stato di New York 195 Guatemala

469

Colombia

1525

Il 30 per cento circa delle 9040 specie di uccelli del mondo si trovano nel bacino del Rio delle Amazzoni, e un altro 16 per cento in Indonesia. La maggior parte di queste faune sono limitate alle foreste pluviali e agli habitat a esse strettamente legati, come, per esempio, le foreste fluviali e palustri. Di fatto, gran parte di tale gradiente va ascritto alla ricchezza straordinaria delle foreste pluviali tropicali, termine con il quale si designa un tipo di habitat esteso – un bioma, come lo chiamano gli ecologi – bagnato da almeno 200 centimetri di pioggia che precipita uniformemente durante tutto l’anno, garantendo la crescita rigogliosa delle latifoglie sempreverdi. La foresta è suddivisa in più strati: dalla volta, su, a 30 metri d’altezza, perforata da alberi isolati che arrivano fino a 40 metri, si passa ai livelli intermedi, caratterizzati da una vegetazione fitta e irregolare, per giungere, infine, agli arbusti del sottobosco, alti poco più di un metro. I tronchi degli alberi sono avviluppati da liane e da rampicanti e ornati da vegetali che pendono dai rami più alti giù fino al suolo. I rami più spessi sono addobbati da festoni di epifite e da giardini di orchidee. Nello strato medio e in

quello inferiore di molte foreste pluviali sono comuni le palme, che con la loro rigogliosa bellezza trasmettono al visitatore appiedato un’ingannevole impressione di benevolenza. La volta della foresta a strati sfalsati cattura i raggi solari in modo talmente efficace che la sottostante vegetazione, affamata di energia, è rada come in un ginepraio. La foresta può essere attraversata con facilità a piedi, scostando l’intreccio di fronde e rami, aggirando i tronchi degli alberi più grossi e piegandosi per passare sotto le liane e i rami più bassi degli alberi. Quasi mai c’è bisogno di un machete per aprirsi la strada attraverso l’intrico della vegetazione, come invece vorrebbe lo stereotipo letterario della giungla. Il machete è necessario solo nelle aree di ricrescita secondaria e ai margini della foresta, le vere giungle. Le foreste pluviali sono cattedrali verdi, simili alle tranquille foreste temperate così familiari a molti, eccetto che per l’altezza a cui svettano e per il loro essere rimaste selvagge e misteriose. Nel profondo della foresta pluviale la luce del sole screzia il terreno, coperto a tratti da un sottile strato di foglie e di humus. Lontano dalle zone illuminate dal sole, il terreno è talmente in ombra che è necessaria una torcia per osservarlo da vicino; solo così si possono vedere gli insetti, i ragni, gli isopodi, i millepiedi e gli opilionidi che, nel complesso, compongono squadre cimiteriali di decompositori seguiti a ruota dai predatori che danno loro la caccia. Si pensa che le foreste pluviali tropicali, pur occupando solo il 6 per cento della superficie terrestre emersa, contengano più della metà delle specie viventi del pianeta. Ho detto «si pensa» poiché non sono mai state fatte stime precise di tale varietà di forme sia a livello planetario sia per le foreste pluviali prese singolarmente. Quel valore, più del 50 per cento, è semplicemente emerso come opinione generale dai rapporti tecnici e dalle conversazioni tra esperti, opinione corroborata da supposizioni ben fondate e da estrapolazioni logiche dei teorici della diversità biologica. Ma esso è anche largamente basato, lo devo ammettere, su aneddoti e su analisi frammentarie. Tuttavia, nel complesso, queste prove circostanziali, col tempo, si stanno facendo sempre più convincenti.

Qui di seguito, indico gli elementi a supporto di quel «più del 50 per cento» di cui si parlava prima. Il gradiente latitudinale della biodiversità, cui ho accennato a proposito degli uccelli, è un principio biologico davvero generale: il numero più alto di specie si trova nelle regioni equatoriali sudamericane, africane e asiatiche. Un altro esempio lampante è fornito dalle piante vascolari – che includono le angiosperme, le felci, e una combinazione di gruppi minori tra i quali vi sono i licopodi, gli equiseti e le isoete. L’insieme di questi gruppi costituisce più del 99 per cento della vegetazione terrestre. Delle circa 250.000 specie note, 170.000 (il 68 per cento) si trovano nelle regioni tropicali e subtropicali, soprattutto nelle foreste pluviali. Tra le piante, il livello massimo di diversità è riscontrabile nell’insieme delle flore di tre paesi andini: Colombia, Ecuador e Perù. In quell’area, pari solo al 2 per cento della superficie delle terre emerse, vi sono più di 40.000 specie. Il record mondiale di biodiversità vegetale è stato registrato da Alwyn Gentry nella foresta pluviale vicino a Iquito, in Perù, dove il ricercatore ha rinvenuto 300 specie all’interno di ciascuna di due aree di un ettaro d’estensione. Peter Ashton ha scoperto più di 1000 specie nel corso di un censimento effettuato su dieci aree campione, di un ettaro ciascuna, del Borneo. Tali valori devono essere confrontati con le 700 specie autoctone che costituiscono il totale degli Stati Uniti e del Canada, comprendente gli habitat più importanti, dalle paludi a mangrovie della Florida alle foreste di conifere del Labrador. La sproporzione si fa ancora più acuta qualora si considerino le farfalle delle foreste pluviali. Le più grandi faune documentate al mondo sono quelle presenti nel bacino idrografico del Rio Madre de Dios, nel Perù sudorientale. Fino a oggi, Gerardo Lamas e i suoi colleghi hanno registrato la presenza di 1209 specie di farfalle all’interno di 55 chilometri quadrati della riserva di Tambopata. In una sorta di gara gomito a gomito, Thomas Emmel e George Austin hanno identificato 800 specie in un fazzoletto di foresta di qualche chilometro quadrato nella zona di Fazenda Rancho Grande, vicino al centro dello stato di Rondonia, nel Brasile occidentale. Aggiungendovi il numero di specie probabilmente esistenti, valore che possiamo

estrapolare dai gruppi ancora poco studiati, l’inventario totale sale a 1500-1600 specie. Il 5 ottobre 1975, nella vicina località di Jaru, un entomologo avvistò la bellezza di 429 specie nell’arco di dodici ore (il luogo è stato in seguito adibito a uso agricolo, e così quasi tutte le specie di farfalla sono scomparse). Per converso, in tutto il Nordamerica vi sono solo 440 specie di farfalle, che scendono a 380 nell’insieme costituito dall’area europea e mediterranea, Nordafrica compreso. Il gradiente latitudinale di biodiversità delle formiche rivaleggia, in quanto a pendenza, con quello delle farfalle. Alla riserva di Tambopata, Teny Erwin ha utilizzato la tecnica già descritta della nebulizzazione per raccogliere tutti gli insetti presenti su un solo esemplare di leguminosa della foresta pluviale. Io ho eseguito l’identificazione delle specie di formiche del campione, e ne ho trovate 43 appartenenti a 26 generi, vale a dire più o meno la quantità dell’intera fauna della Gran Bretagna. Le formiche sono a loro volta surclassate numericamente dai coleotteri. Erwin ha stimato che in un ettaro di foresta pluviale di Panama vi siano 18.000 specie, di cui la maggior parte erano prima sconosciute alla scienza, vale a dire ancora prive di nome scientifico. Fino a oggi, negli Stati Uniti e in Canada sono state identificate 24.000 specie, nel mondo intero 290.000. È proprio così: la piramide della biodiversità ha la cima rivolta verso nord, e si allarga, gruppo dopo gruppo, verso sud fino all’equatore, per poi tornare a restringersi. Alcuni tipi di piante e di animali, tra cui le conifere, gli afidi e le salamandre, presentano una varietà di forme maggiore nelle zone temperate. Queste, comunque, sono eccezioni, e in tali regioni la diversità non raggiunge livelli notevoli. Per esempio, nel mondo intero vi sono meno di 400 specie di salamandre. Altri gruppi di piante e di animali sono soprattutto tropicali, ma si sono specializzati per la vita nei deserti, nelle praterie e nelle foreste monsoniche. Anch’essi presentano generalmente un grado di diversità inferiore a quello degli abitanti delle vicine foreste pluviali.

Gli organismi degli ambienti marini poco profondi seguono lo stesso andamento latitudinale: il plancton e il benthos aumentano la loro diversità via via che ci si avvicina ai tropici, dove, tra le barriere coralline – l’equivalente subacqueo delle foreste pluviali – si trovano le concentrazioni più dense. Le barriere abbondano di biodiversità assoluta, gran parte della quale è ancora inesplorata. Tra i coralli di una singola formazione, l’equivalente di un albero della foresta pluviale, si trovano centinaia di specie di crostacei, di vermi anellidi e di altri invertebrati. Riassumendo: i gradienti di diversità latitudinali, a livello planetario, crescono via via che ci si sposta verso i tropici, e costituiscono un’indiscutibile caratteristica generale della vita. Sulla terraferma, la biodiversità è fortemente concentrata nelle foreste pluviali tropicali. Poiché comprendono forse decine di milioni di specie – superando perfino l’opulenza delle barriere coralline – le faune d’insetti di queste foreste sono, da sole, talmente vaste che, solo per questo fatto, è ragionevole supporre che la metà di tutte le specie esistenti si trovino al loro interno. La ricerca della causa del prevalere dei tropici in quanto a ricchezza biologica costituisce uno dei grandi problemi teorici della biologia evoluzionistica. I ricercatori si sono concentrati, di volta in volta, sul clima, sulla quantità di energia solare, sulla disponibilità di terreno abitabile, sulla varietà degli habitat disponibili, sull’intensità e la frequenza delle variazioni ambientali, sul grado di isolamento delle faune e delle flore, e sulle più impercettibili stravaganze della storia. Molti sono giunti alla conclusione che il problema non può essere affrontato poiché ritengono che la sua soluzione sia andata perduta nel groviglio insolubile delle molte cause che hanno concorso a formarlo, oppure poiché dipende da avvenimenti verificatisi in remoti tempi geologici, tempi le cui tracce sono andate sfumando oltre ogni possibilità di interpretazione. Tuttavia, una speranza – sebbene molto debole – ancora esiste. Si è riusciti a mettere assieme una quantità sufficiente di analisi probanti e di formulazioni teoriche dalle quali ricavare una soluzione di tipo semplice; o, quanto meno, una

soluzione facilmente comprensibile: la cosiddetta teoria della biodiversità ESA (Energy-Stability-Area, ovvero Energia-Stabilità-Area). Ridotta all’osso, la teoria afferma che la diversità cresce al crescere della quantità di energia solare; al crescere della stabilità del clima sia nell’arco delle stagioni sia nell’arco degli anni; al crescere, infine, della superficie. Le prove a sostegno di questa teoria vengono da più parti e ci rivelano molte cose non solo circa la diversità biologica, ma anche sull’importanza dell’ambiente fisico nell’organizzazione degli ecosistemi. David Currie, per esempio, ha studiato gli effetti della variazione di una vasta gamma di parametri ambientali sul numero di alberi e di vertebrati in varie zone del Nordamerica. Questo continente, infatti, costituisce un eccellente laboratorio per analisi multifattoriali di questo tipo. Si trova completamente all’interno della fascia a clima temperato, e quindi è caratterizzato in ogni suo punto da stagioni molto marcate, pur essendo molto vario da est a ovest per topografia e regime pluviometrico. In presenza di simili condizioni i fattori preponderanti sono la quantità di energia solare e l’umidità di cui gli organismi possono disporre durante l’anno. Il parametro che tiene conto contemporaneamente di entrambi i fattori è la cosiddetta evapotraspirazione, vale a dire la quantità d’acqua che evapora da una superficie satura. Tale quantità dipende a sua volta dall’energia disponibile per fare evaporare l’acqua; energia che proviene contemporaneamente dal calore dei raggi solari, dalla temperatura dell’aria e dalla velocità delle correnti d’aria secca. Seppure in minor misura, dipende anche dall’umidità. Gli ambienti caldi e umidi – almeno, quelli del Nordamerica – ospitano una maggior quantità di alberi. La quantità di vertebrati terrestri, vale a dire di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi, cresce al crescere dell’energia solare, mentre dipende in minor misura dall’umidità. Detto con altre, e più concise, parole, i luoghi asciutti promettono male per gli alberi, molto meno per gli animali. Comunque, per entrambi i tipi di organismi, una maggiore disponibilità di energia solare significa una maggiore biodiversità. Le zone del mondo che ricevono la maggior quantità di energia

solare durante tutto l’anno sono quelle comprese fra i tropici, dove gli habitat caratterizzati dalla combinazione di temperatura e umidità più alte sono le foreste pluviali tropicali. A parità di quantità di nutrienti, i posti più caldi e più umidi sono anche quelli più produttivi in termini di crescita annua dei tessuti animali e vegetali. Un’apparente conseguenza sarebbe che, quanto più aumenta la produzione di materia organica, tanto maggiore è il numero di specie coesistenti nella stessa biocenosi. Detto in altri termini, quanto più grossa è la torta, tanto più numerose sono le fette sufficientemente grandi per far fronte alle necessità delle singole specie. Ma l’energia e la produzione di biomassa da sole non possono spiegare il predominio, in quanto a biodiversità, delle regioni tropicali. Che cosa impedisce che sia una singola specie di ogni grande gruppo – una angiosperma, una rana, un coleottero cerambicide – perfettamente adattatasi al suo habitat, a occuparlo per intero? In realtà, qualcosa del genere è accaduto nelle paludi a mangrovie rosse e negli acquitrini a Spartina, che sono tra gli ambienti umidi più produttivi del mondo. In ciascuno di questi habitat una sola specie vegetale rappresenta più del 90 per cento della vegetazione. Tuttavia, gli ecosistemi semplici costituiscono un’eccezione, essendo quelli complessi la regola. Per spiegare in maniera più esauriente l’esistenza dei gradienti latitudinali, bisogna focalizzare l’attenzione sul ruolo giocato dalle stagioni. Nelle regioni polari e in quelle temperate, gli organismi sono sottoposti durante l’anno a notevoli oscillazioni termiche, e si devono adattare, durante i loro cicli vitali, a una vasta gamma di ambienti fisici e biologici. Durante l’inverno, vanno in ibernazione, o muoiono dopo aver prodotto semi, perdono le foglie, si spostano sulla parte bassa dei versanti montuosi, scendono al suolo dall’alto degli alberi, si affossano nel terreno a maggior profondità, riorientano la loro dieta basandola su prede resistenti al freddo, spostano il periodo di massima attività dalla notte al giorno, o, nel caso degli uccelli migratori e delle farfalle monarca, abbandonano la regione. Durante la primavera, gli animali possono godere del rigoglio della nuova vegetazione che poi però, a causa della siccità estiva, scema

costringendo gli organismi a spostarsi su altre fonti di nutrimento e verso altri habitat. Siccome le specie animali e vegetali dei climi freddi si sono adattate a una maggior varietà di ambienti locali, esse sono distribuite su un arco latitudinale più ampio. Una farfalla che riesce a sopravvivere nella primavera fresca e umida del New England potrà farcela anche a superare l’inverno della Florida. Tale fenomeno è stato battezzato «regola di Rapoport» in onore dell’ecologo argentino Eduardo Rapoport che la formulò per primo nel 1975. La regola implica che, via via che ci si sposta verso sud nel continente nordamericano e verso nord in quello temperato sudamericano, cioè quanto più ci si avvicina all’equatore, tanto più l’area di distribuzione della singola specie si restringe; allo stesso modo, poi, si contrae anche la distribuzione latitudinale. Quindi, a parità di superficie, ai tropici sta pigiato un numero maggiore di specie che nelle zone temperate. Energia più alta, produzione di biomassa maggiore, assottigliamento della distribuzione geografica in un ambiente meno variabile: tutte queste caratteristiche fanno sì che, nell’arco di lunghi periodi evolutivi, la biodiversità vada aumentando ai tropici. Ma il motore di tale esuberanza tropicale sta anche altrove. I climi stabili, privi di variazioni stagionali, consentono che un maggior numero di organismi si specializzi in settori dell’ambiente più ristretti e che vinca la competizione con gli organismi capaci di adattamento a più generiche condizioni ambientali. In tal modo, i primi riescono a durare più a lungo. Le specie vi sono maggiormente pressate, e, apparentemente, non c’è nicchia che non sia occupata. La specializzazione è spinta a livelli estremi di bizzarria e di bellezza. Nelle radure illuminate dal sole della foresta pluviale centroamericana si trovano alcune specie di zigotteri giganti che, simili a elicotteri, ondeggiano avanti e indietro nell’aria ferma, agitando le ali trasparenti, dotate di bande che, a causa del movimento, paiono ruotare attorno al corpo dell’insetto. Le loro ninfe, contrariamente al solito, non sono reperibili in laghetti e ruscelli, bensì all’interno delle ascelle fogliari ricolme d’acqua delle

epifite, su nella volta della foresta. Gli adulti si nutrono di ragni che ghermiscono dalle loro ragnatele. Lì vicino, sulle zampe anteriori dei soldati di un gruppo di formiche guerriere si trovano acari parassiti, altrove irreperibili, i quali, se da un lato succhiano il sangue alle formiche, dall’altro si fanno usare da queste a mo’ di piedi artificiali. Le formiche, infatti, camminano sui corpi degli acari senza che nessuno dei due manifesti alcun segno di fastidio. Gli acari coprono coi loro corpi, rendendole inutilizzabili, le estremità artigliate delle formiche mediante le quali queste si tengono ferme durante la costruzione del nido. Ma non c’è problema: gli acari hanno zampe anteriori incurvate e aventi proprio la dimensione degli artigli delle formiche, le quali, pertanto, possono servirsene in loro vece. Sulla vegetazione delle foreste pluviali montane della Papua Nuova Guinea vivono dei curculionidi grandi la metà di un pollice umano; lenti e longevi, hanno il dorso ricoperto di alghe, licheni e muschi. In questo giardino semovente in miniatura abitano specie particolari di piccoli acari e di nematodi. Potrei proseguire con questo bestiario, spostandomi da una località all’altra; la letteratura sulla biologia tropicale non finisce mai di sorprendere. Pare quasi che, lì dove le nicchie di tipo convenzionale sono già state occupate, le specie più intraprendenti ne inventino di nuove. Provate a camminare sul suolo di una foresta pluviale tropicale alla ricerca di esemplari appartenenti a qualsiasi gruppo – orchidee, rane, farfalle, e quant’altro ancora – e vi accorgerete che le specie cambiano impercettibilmente nel giro di poche centinaia o migliaia di metri. Un certo tipo, comune in un punto, svanisce a poco a poco per essere sostituito da una specie molto simile, mancante nel luogo esplorato poco prima. Poi, un colpo di fortuna: compare un solo individuo di una specie mai incontrata prima nell’intera area. Raccoglietelo, oppure fotografatelo, perché non lo rivedrete mai più. La farfalla ninfalide Dynamine hoppi è una specie graziosa delle foreste pluviali centroamericane, riconoscibile dalle grosse macchie bianche sulle ali anteriori e per gli orli blu metallico delle fasce delle ali posteriori. Ebbene, questa specie è stata avvistata solo tre volte in tutto. Una femmina fu raccolta nel mese di luglio dallo specialista di

lepidotteri Philip DeVries in una radura di Finca La Selva, in Costa Rica. Fu questo l’unico esemplare da lui trovato nel corso di uno studio sulle farfalle di questa foresta, durato sei mesi. L’anno seguente, sempre nella stessa località e nello stesso mese, fu raccolta una seconda femmina. Poi, più nulla. Se tornate nella foresta giorno dopo giorno e anno dopo anno, andando in perlustrazione a piedi, armati di retino e di binocoli, il vostro elenco di orchidee, di rane e di farfalle continuerà a crescere senza fine. Di primo acchito, la diversità biologica della foresta pare confusa e caotica senza via di scampo, ma, col tempo, ecco delinearsi un quadro: vi sono poche specie comuni, molte delle quali distribuite su aree sparse, e tante, tantissime specie rare, incluse alcune come Dynamine hoppi, che sono addirittura rarissime. Come si è potuta formare questa distribuzione statistica così asimmetrica? Alcune specie rare sono in via d’estinzione, soprattutto nelle località dove la foresta è stata perturbata o dove la sua estensione è andata contraendosi; ma c’è anche una risposta più probabile. Gran parte delle specie sono specializzate per un insieme particolare di condizioni. Gli alberi di un certo tipo crescono meglio quando sono investiti direttamente dalla luce solare per un maggiore (o minore) numero di ore giornaliere, quando il pendio nel quale hanno radici ha un buon (o cattivo) drenaggio, e quando sono (o non sono) disponibili i necessari funghi simbionti delle radici. Se cambia una di queste tre condizioni, questi alberi cedono il passo ad altre specie. Vi sono particolari raggruppamenti di specie di insetti che crescono abbondanti quando sono disponibili ceppi di legno che hanno raggiunto un particolare grado di decomposizione (per esempio, quando il legno è ancora solido, ma, contemporaneamente, già marcito al punto da poter essere frantumato con le mani, e quando è ancora ricoperto dalla corteccia), raggruppamenti che, tuttavia, scompaiono quando i ceppi marciscono ulteriormente (il legno si sbriciola e la corteccia si distacca sotto il suo stesso peso). Il grado di marcescenza varia da luogo a luogo. Vista dal finestrino di un aeroplano, la foresta può apparire

uniforme, ma osservata da terra rivela la sua eterogeneità senza fine; è un labirinto scoraggiante di mutevoli situazioni fisiche puntiformi e di distribuzioni sovrapposte di specie. Ogni specie è più abbondante li dove trova le condizioni ottimali. Allora, le popolazioni che la costituiscono si riproducono in gran quantità, crescono di dimensioni e inviano colonizzatori in tutte le direzioni. Tali località sono chiamate aree di formazione (source areas) delle specie favorite. Gli individui colonizzatori spesso approdano a luoghi meno favorevoli alla specie, dove forse riescono a sopravvivere e inizialmente a riprodursi, ma non ad autosostenersi. Tali località sono chiamate aree di esaurimento (sink areas). Nel modello ecologico basato sul binomio aree di formazione-aree di esaurimento, le popolazioni che hanno successo sostituiscono quelle che falliscono. Se delimitate a caso un’area campione (vasta un ettaro, un centinaio di ettari, o quanto più vi piace) potrete osservare come essa rappresenti l’area di formazione per alcune specie, che saranno abbastanza comuni, e l’area di esaurimento per altre, che saranno abbastanza rare. Aree di formazione e aree di esaurimento esistono in tutti i tipi di habitat, ma nelle foreste tropicali, dove le esigenze delle specie nei confronti dell’ambiente sono state rigidamente stabilite nel corso dell’evoluzione, esse danno un contributo importantissimo alla biodiversità. L’equilibrio tra aree di formazione e di esaurimento è stato una delle caratteristiche fondamentali messe in luce da Stephen Hubbell e Robin Foster durante lo studio da essi superbamente condotto sulla diversità arborea di un sito di 50 ettari sull’isola di Barro Colorado, a Panama. I ricercatori, assieme ai loro diligenti assistenti, hanno individuato, per anni e anni, la posizione di più di 238.000 alberi e arbusti, appartenenti a 303 specie. Dai dati raccolti, Hubbell e Foster hanno concluso quanto segue: Molte (almeno un terzo) delle specie rare (meno di 50 individui in tutto) non

sembrano avere nel sito popolazioni che si autosostentano. La loro presenza sembra

essere frutto di immigrazioni da centri esterni al sito, e il loro numero è probabilmente tenuto basso da una combinazione di condizioni sfavorevoli alla

rigenerazione, dalla mancanza di un habitat appropriato, o da entrambi i fattori.

Esiste, tuttavia, un altro modo attraverso il quale l’energia solare e la costanza del clima hanno contribuito all’ascesa della biodiversità: il trasporto delle specie da parte di altre. Gli ambienti più propizi, quelli che presentano una variabilità meno pronunciata, consentono l’esistenza delle forme più grandi che, negli ambienti più ostili, non riescono a sopravvivere. Altre specie di minori dimensioni spesso vivono su questi grossi organismi, mostrando una notevole varietà di forme. Le liane abbondano nelle foreste tropicali, mentre sono assenti nelle foreste temperate decidue e nelle foreste di conifere. Germogliano a livello del suolo come erba, ma poi si arrampicano su per i tronchi degli alberi vicini e di qualsiasi altro tipo di vegetazione alla loro portata. Raggiunta la maturità, non v’è più traccia della loro origine erbacea. Assomigliano ora a corde saldamente ancorate che, a partire dalle radici, sollevano le diramazioni e le foglie su fino a quelle degli alberi che le sorreggono e con i quali formano un groviglio. Le liane costituiscono un tipo di vegetazione aggiuntiva, una fonte di cibo e un luogo di rifugio per animali che altrimenti non potrebbero sopravvivere. Di fianco a loro cresce un’altra classe di rampicanti che si avvolgono e si fissano al tronco degli alberi mediante radici simili a ventose. Uno dei gruppi più importanti è quello delle Araceae, comprendenti i generi Philodendron e Monstera. Possiedono grosse foglie a forma di cuore e sopportano bene l’ombra, tutte qualità che ne fanno delle ottime piante da appartamento. Nelle foreste tropicali i rampicanti si accalcano in densi raggruppamenti sulla superficie dei tronchi degli alberi. Tra i loro fusti e le loro radici si depositano terra e materiale organico in decomposizione che, a loro volta, sono dimora per un insieme unico di piante, insetti, scorpioni, isopodi e altri invertebrati meno comuni. Questa serie di forme si è adattata a uno stile di vita praticamente assente nelle zone a clima temperato. I fattori di moltiplicazione della biodiversità tropicale più importanti sono comunque le epifite, piante che crescono sugli alberi ma che non ricavano da questi né acqua né sostanze nutrienti. La

maggior parte delle specie epifite sono orchidee, le quali sono accompagnate da una nutrita serie di felci, cactacee, gesneriacee, aracee, piperacee e altre ancora, per un totale di 28.000 specie e 84 famiglie, vale a dire poco meno del 10 per cento di tutte le piante superiori. Queste piante arboricole trasformano i rami degli alberi in giardini pensili di stile babilonese. Ciascun albero è un piccolo habitat a sé stante, dotato di terriccio giunto li sotto forma di polvere trasportata dal vento, e di una fauna che va dagli acari e dai vermi nematodi ai serpenti e ai piccoli mammiferi. Le bromeliacee dei tropici americani possono raccogliere fino a un litro d’acqua tra le loro spesse foglie disposte a rosetta. All’interno di queste riserve idriche vivono animali acquatici che non si trovano altrove, e che comprendono girini di rane arboricole e larve specializzate di zanzare e zigotteri. In Costa Rica, nella riserva della foresta temperata pluviale di Monteverde, Nalini Nadkarni, assieme ad altri botanici, si è imbattuto forse in un caso estremo di trasporto da parte di altra specie e nell’ecosistema arboreo fisicamente più complesso del mondo. I giardini di epifite presenti su alcuni dei rami orizzontali più grossi sono così abbondanti e aggrovigliati da assomigliare a un boschetto in miniatura. Dai fitti ammassi di vegetazione sbucano fuori persino alberelli che di solito si trovano solo sul terreno. Si tratta di un vero e proprio castello di carte ecologico, emblematico della prodigiosità della vita del nostro pianeta: gli alberi di grosse dimensioni fungono da supporto per orchidee e altre epifite; le epifite sostengono gli alberi più piccoli, completi dei loro apparati radicali, nonché licheni e altri vegetali di piccole dimensioni che crescono sulle foglie degli alberi più piccoli, acari e altri piccoli insetti che pascolano tra di esse e infine i protozoi e i batteri che vivono nei tessuti degli insetti. Il fattore area ha anch’esso la sua importanza nella costruzione della biodiversità: quanto più sono ampi la foresta, o il deserto, o l’oceano, o qualunque altro tipo di habitat, tanto maggiore è il numero delle specie ospitate. Secondo una regola empirica, il numero di specie raddoppia al decuplicarsi della superficie occupata. Se un’isola di

1000 chilometri quadrati, ricoperta da foresta, ospita 50 specie di farfalle, un’isola vicina, anch’essa forestata, di 10.000 chilometri quadrati, dovrebbe albergarne un numero doppio, circa 100. Le ragioni di questa crescita logaritmica sono complesse, ma tra di esse spiccano due fattori: l’isola più grande può ospitare una fauna di dimensioni maggiori – diciamo, una fauna di farfalle – e quindi lì si può addensare un maggior numero di specie rare. Inoltre, è più probabile che l’isola più estesa presenti degli habitat in più, nei quali le specie possono trovare rifugio. Potrebbe esserci una montagna centrale che, quindi, già presenta le caratteristiche di una zona circoscritta: per esempio, una maggiore quantità di precipitazioni e temperature più basse, condizioni, queste, favorevoli a farfalle adattatesi a vivere in quel tipo di clima. I tropici contengono aree vaste, sia terrestri sia marine di basso fondale, che fungono da teatro per l’evoluzione delle forme più estreme di biodiversità. Anche il tempo ha la sua importanza, il tempo inteso in senso evolutivo; un tempo sufficiente perché gli organismi possano evolversi, perché si possa addivenire a un accordo di tipo simbiotico, perché si possa attenuare la competizione, perché diminuisca il tasso delle estinzioni, e perché le specie possano raggrupparsi in numero considerevole. Eccoci quindi tornati alla stabilità climatica come uno dei fattori moderatori della biodiversità, ma questa volta su scala maggiore. Le foreste pluviali tropicali, contrariamente a vaste parti delle foreste temperate e delle praterie, non sono state cancellate dai ghiacciai continentali delle ere glaciali. Infatti, non vennero mai ricoperte dalle calotte di ghiaccio, né furono sospinte su terreni siti a centinaia di chilometri dalle loro aree originarie. Durante i lunghi periodi di siccità che hanno accompagnato i cicli glaciali alle latitudini maggiori, le foreste pluviali delle regioni pianeggianti si dovettero ritirare e vennero sostituite da praterie e, in alcuni luoghi, lasciarono posto a regioni semidesertiche. Il cambiamento fu drastico soprattutto nell’Africa equatoriale. Tuttavia, vi furono rifugi in abbondanza nei quali assembramenti di specie poterono sopravvivere più o meno intatti: ad esempio lungo corsi d’acqua, in sacche territoriali dove continuò a piovere, seppure in quantità ridotta, e

nelle restanti zone a mezza costa sui fianchi delle montagne immerse tra le nuvole. Ogni volta che le piogge tornavano a bagnare i bacini fluviali equatoriali durante tutto il corso dell’anno, le foreste pluviali tropicali tornavano ad allargarsi a tappeto. Il fatto storico interessante è che le foreste sono sopravvissute su vaste aree dei continenti fin dalle loro origini, 150 milioni di anni fa, come capisaldi delle piante angiosperme. Appena prima dell’arrivo dell’uomo, esse occupavano più del 10 per cento della superficie delle terre emerse, pari a circa 20 milioni di chilometri quadrati. Non solo, ma in tempi più antichi, la percentuale era ancora maggiore. Durante l’Eocene, da 60 a 50 milioni d’anni fa, le isole britanniche – oggi site ai margini di un continente – erano coperte da foreste grosso modo simili a quelle dell’attuale Vietnam. Verifichiamo infine il concetto dell’importanza della stabilità climatica. Se, attraverso le epoche evolutive, la stabilità climatica di un’area di vasta estensione costituisce un prerequisito perché si abbia una notevole biodiversità, dovremmo aspettarci di trovare, nel mondo, gran parte di questa biodiversità lì dove sono prevalenti condizioni di stabilità, e non soltanto nelle foreste tropicali. Il terreno ideale per questo test dovrebbe essere un ambiente molto stabile nel quale siano coinvolte piccole quantità di energia. In tal modo, si può fare a meno di tener conto dell’energia e quindi si può valutare con maggior precisione il ruolo della stabilità. Il fondale dei mari profondi è dotato degli attributi geografici e storici che fanno al caso. Il fondo degli oceani occupa un’area di 200 milioni di chilometri quadrati, e in molti punti è rimasto pressoché indisturbato per milioni di anni (senza inverni e stagioni secche) ed è privo di fonti di energia, con la sola eccezione delle sorgenti idrotermali di origine vulcanica, largamente diffuse, e della pioggia minuta di particelle organiche di detrito che cade dalla sovrastante zona illuminata. Gli animali presenti sono soprattutto piccoli vermi anellidi, stelle di mare e altri echinodermi, e molluschi bivalvi. Confrontati con le forme analoghe che vivono sui fondali poco profondi e illuminati, gli animali abissali sono presenti in numero minore, sono meno attivi e più longevi. Ma, in accordo con l’ipotesi dell’ambiente stabile, sono estremamente vari.

Il numero delle loro specie è nell’ordine delle centinaia di migliaia, forse dei milioni. Il ruolo della stabilità all’interno della teoria generale della biodiversità è così confermato in modo sorprendente. Ma dove si trovano, sui fondali degli abissi, le nicchie nelle quali possono concentrarsi le specie? Laggiù, infatti, non ci sono né foreste né fiumi. Vi sono vaste distese di terreno piatto e desolato, come in un deserto. Eppure, da un punto di vista biologico, il pavimento degli oceani è tutt’altro che uniforme. Se lo si esamina millimetro per millimetro, cioè su una scala dell’ordine di grandezza degli animali di piccole dimensioni e dei microrganismi, allora ci si accorge che esso offre nicchie finemente suddivise, all’interno delle quali la vita abissale può specializzarsi. I sedimenti si depositano in piccoli cumuli, mentre gli scavi praticati dai vermi e dai bivalvi che vi si affossano producono creste e depressioni. La concentrazione di cibo varia immensamente da luogo a luogo. Quasi tutta l’energia piove dall’alto sotto forma di animali morti e di particelle vegetali. Ogni pezzo – la testa di un pesce, un frammento di legno intriso d’acqua, un brandello d’alga – è un ben di dio attorno al quale gli animali si raccolgono per nutrirsi e sul quale pullulano batteri e altri organismi microscopici. Anche i loro predatori si radunano lì, e in tal modo, col tempo, si crea una piccola biocenosi, una comunità di organismi spesso diversa da altre, presenti a pochi metri di distanza. Le ricche fonti di cibo non variano solo su scala locale, ma anche su scala regionale, attraverso migliaia di chilometri quadrati di fondo oceanico. Le zone in prossimità delle foci dei grandi fiumi ricevono ceppi d’albero e rami, assieme ai sedimenti dilavati dalla pioggia, ricchi di sostanze nutrienti. In corrispondenza delle zone delle calme del Nord Atlantico, i fondi abissali sono il cimitero dei letti di sargasso, e ricevono vegetazione morta e animali direttamente da quell’ecosistema di acqua limpida, unico nel suo genere, che si trova molto più in alto. In ogni habitat, sia terrestre sia marino, sia ricco sia povero in biodiversità, le dimensioni di un organismo esercitano un influsso importante sul numero di specie facenti parte del gruppo. I vegetali e

gli animali di dimensioni minime presentano una varietà molto più ampia degli organismi molto grandi. Le erbe e le epifite superano gli alberi, così gli insetti superano i vertebrati. La regola vale anche all’interno di divisioni tassonomiche gerarchicamente inferiori: tra le 4000 specie di mammiferi che si trovano nel mondo, una diminuzione in peso di 1000 volte significa, con grande approssimazione, un aumento di dieci volte nel numero di specie. Ciò significa che le specie della dimensione di un topo sono dieci volte più numerose di quelle grandi quanto un cervo. La ragione dell’esistenza di questa piramide della diversità basata sulla taglia degli organismi sta nel fatto che, rispetto a quelli più grossi, gli organismi più piccoli possono suddividere l’ambiente in nicchie di minor dimensione. Nel 1959, G. Evelyn Hutchinson e Robert MacArthur, due ecologi, suggerirono l’ipotesi che il numero di specie aumenti in misura proporzionale al diminuire della superficie corporea degli animali, o proporzionale al quadrato della diminuzione del peso. Essi sostennero che la ragione di tale regola sta nel fatto che gli animali che vivono su una certa superficie occupano uno spazio che è in realtà pari al quadrato della lunghezza del loro corpo. In altre parole, gli animali non si spostano in linea retta, e neanche su e giù in uno spazio tridimensionale sospeso in aria, bensì su una superficie; pertanto, per ogni millimetro in più di lunghezza essi hanno bisogno di un millimetro quadrato in più per trovarsi nuovi ruoli, per aprire nuove nicchie e per suddividersi in nuove specie. Quindi, di quanti più millimetri è lungo un animale, tante meno specie vi saranno, in ragione del quadrato di quella lunghezza. Per quanto riesca a trarre in inganno, questo esercizio matematico non è, in realtà, particolarmente accurato. La natura è sempre troppo mutevole per obbedire a semplici formule; e quando lo fa, lo fa solo in maniera disordinata. Per capire come mai le cose stiano così, e per avvicinarvi di più alla verità, immaginate di vedere un grosso coleottero, lungo 50 millimetri, che vive di fianco a un albero. Camminando in tondo, e pascolando tra funghi e licheni, misura la circonferenza del tronco che supponiamo sia di 5 metri. Peraltro, il coleottero non può tenere conto del mondo di dimensioni più piccole

che si trova ai suoi piedi, dato che è a malapena consapevole delle fessure e delle cavità della corteccia di dimensioni millimetriche. Tra quelle irregolarità vivono altre specie di coleotteri che, essendo molto piccoli, possono utilizzarle come tane. La loro esistenza si svolge a una scala spaziale completamente diversa. Per loro, quelle irregolarità, all’interno delle quali salgono e scendono continuamente, sono tutt’altro che esigue e trascurabili; per converso, il tronco è, in proporzione, dieci volte più grande che per il coleottero gigante, del tutto ignaro delle piccole fessure. La superficie del tronco, poi, appare ai minuscoli coleotteri cento volte più vasta, vale a dire il quadrato della differenza fra la circonferenza percepita dagli organismi più piccoli e quella misurata dagli organismi più grossi. Questa disparità si traduce in un numero maggiore di nicchie. Infatti, ogni fessura presenta il suo particolare regime di umidità e di temperatura, e tutte assieme contengono una grande varietà di combinazioni di alghe e di funghi delle quali gli insetti possono nutrirsi. Pertanto, i coleotteri più piccoli hanno a disposizione un numero maggiore di luoghi dove andare e più cibo verso il quale specializzarsi, il che, in ultima analisi, rende possibile l’evolversi di un numero di specie più grande. Ma spingiamoci a un livello ancor più microscopico. Ai piedi dei coleotteri più piccoli vi sono altre fessure, ancor più piccole, assieme ad alghe e a funghi, troppo sottili perché essi vi possano entrare. Tuttavia, è proprio li che vivono gli insetti più piccoli in assoluto, assieme ad acari oribatei corazzati, di misura inferiore al millimetro. A uno sguardo più ravvicinato, la geometria della superficie mostra che le specie di questa fauna in miniatura vivono come se la superficie del tronco fosse cento volte più grande di quanto sia la superficie colta dai coleotteri della taglia successiva, e migliaia di volte più vasta che quella percepita dal coleottero titanico che incombe sull’intero insieme. Infine, i piccoli insetti e gli acari stanno su granelli di sabbia intrappolati su sottili strati di alghe e tra i rizoidi dei muschi. Un singolo granello di sabbia può ospitare colonie di dieci o più specie di batteri. Il viaggio appena fatto all’interno del microcosmo costruito sul tronco d’albero mi è utile per sottolineare un fatto: nel mondo reale,

dove le specie si moltiplicano fino a quando qualcosa non le arresta, lo spazio non si misura in termini di dimensioni euclidee, bensì in termini di dimensioni frattali. Le grandezze dipendono dalla lunghezza dello strumento con cui si prendono le misure, o, più precisamente, dalle dimensioni e dal ruolo coperto nell’ambito della rete alimentare dagli organismi che vagano sull’albero. Nell’ambito del mondo frattale, tra le piume di un uccello può esistere un intero ecosistema. All’interno di questo ecosistema, spiccano gli acari delle penne, organismi simili a ragni che a quanto pare traggono sostentamento dalle secrezioni oleose e dal detrito cellulare. Gli individui sono talmente piccoli e hanno una territorialità così spiccata che possono arrivare a trascorrere gran parte della loro vita su un solo lato di un’unica penna. Ciascuna specie si è adattata a vivere su un particolare tipo di penna e in una posizione ben precisa: per esempio, sul rachide di una penna remigante primaria, o sulle barbe di una penna di contorno, o all’interno di una piuma, e così via, tra quelle che, per gli acari delle penne, sono l’equivalente di una foresta di alberi e arbusti. Il conuro verde, un pappagallo messicano, ospita fino a trenta specie di questi acari. Ogni specie, poi, attraversa quattro stadi nel corso della sua vita, e quindi il totale di forme presenti sale a più di cento. Ciascuna di esse, a sua volta, mostra di preferire una certa posizione, ed esibisce un certo comportamento. Un singolo conuro ospita quindici o più specie di acari delle penne, sette delle quali occupano punti diversi della medesima penna. Tila Pérez, dell’Università Nazionale del Messico, di recente ha raccolto sei specie di acari dalle piume di esemplari museali di parrocchetto della Carolina (Conuropsis carolinensis), una specie estinta. Se, come sembra, questa fauna quasi microscopica era esclusiva del parrocchetto, allora, quando l’ultimo suo esemplare morì, verso la fine degli anni Trenta, nella palude di Santee nella Carolina del Sud, di certo con lui se ne andarono anche le specie di acari. Gli studi statistici hanno messo in luce che gli animali più variabili non sono solo di piccole dimensioni, ma anche molto mobili, il che costituisce la chiave d’accesso a una più ricca varietà di cibi e ad altre

risorse. L’applicazione pratica di questo principio è data dagli insetti, così diversi e abbondanti da essere ritenuti dai più quasi invincibili. (Tra le macerie di una guerra nucleare, uno scarafaggio rimira il paesaggio fumante dalla cima di una lattina di birra esplosa.) Spesso si domanda agli entomologi se, nel caso la specie umana si estingua, gli insetti diverranno i dominatori del pianeta. Ebbene, questo è un bell’esempio di una domanda malposta che vorrebbe suggerire una risposta irrilevante: infatti, gli insetti, in realtà, sono già i dominatori del pianeta. Essi hanno avuto origine sulla Terra 400 milioni di anni fa. Ai tempi del Carbonifero, 100 milioni di anni fa si erano diffusi in forme di una varietà prossima a quella attuale. Da allora, sono stati i dominatori degli habitat terrestri e di acqua dolce di tutto il mondo. Sono sopravvissuti senza sforzo alla grande estinzione della fine del Paleozoico, quando la vita dovette affrontare eventi ben peggiori di una guerra nucleare totale. Oggi, in ogni momento, ci sono al mondo qualcosa come un miliardo di miliardi di insetti. Ciò equivale, con l’approssimazione di un ordine di grandezza, a una massa di trilioni di chilogrammi di materia vivente, vale a dire più della massa totale dell’umanità. Le loro specie, alla maggior parte delle quali non è stato ancora attribuito un nome scientifico, si contano a milioni. La specie umana, vecchia di meno di due milioni di anni, non è che l’ultima arrivata tra una massa di organismi a sei zampe, priva di una salda presa sul pianeta. Gli insetti possono sopravvivere senza di noi, mentre noi, e altri organismi terrestri, moriremmo se non ci fossero loro.

Nell’evoluzione della biodiversità, il possedere piccole dimensioni comporta per un gruppo la

possibilità di una maggiore abbondanza di specie. All’interno di particolari gruppi di animali, quali ad esempio gli insetti, gli organismi più piccoli sono in grado di sfruttare più nicchie e pertanto le loro specie possono essere più numerose nelle comunità locali. Nelle foreste

pluviali montane della Papua Nuova Guinea, il grosso curculionide Gymnopholus lichenifer

trasporta sul dorso un intero giardino di licheni, microhabitat che a sua volta ospita diverse specie di acari e di collemboli. Ai suoi piedi, in un mondo appartenente ad un’altra

dimensione, il legno brulica di minuscoli coleotteri anobiidi appartenenti a una specie sconosciuta.

Richard Southwood ha riassunto la spiegazione della preponderanza e della diversità spiccata degli insetti in tre parole: dimensioni, metamorfosi, ali. Le dimensioni, perché consentono la creazione di nicchie ecologiche piccole, e quindi la generazione di un gran numero di specie. La metamorfosi, perché il passaggio da uno stadio vitale all’altro – per esempio, da quello di larva o di ninfa a quello adulto – consente la penetrazione di più di un habitat, e quindi la produzione di un numero ancor maggiore di nicchie. Le ali, infine, per la dispersione fin negli angoli più nascosti dell’ambiente terrestre, attraversando corridoi costituiti da laghi e deserti, fino alle estremità delle foglie più remote e ai luoghi incontaminati più lontani, portando gli insetti a breve distanza da ulteriori fonti di cibo e da luoghi in cui riprodursi e sfuggire ai nemici. A tutto ciò andrebbe aggiunta la prelazione, e cioè il fatto che gli insetti sono stati i primi a espandersi in tutte le nicchie terrestri, nonché in aria, e che quindi vi si sono ormai trincerati troppo bene per poter essere soppiantati dagli ultimi venuti. La specie umana ha visto la luce come prodotto tardivo di quella radiazione che, cominciata 550 milioni di anni fa nel Fanerozoico, ha fatto lievitare la biodiversità globale fino agli attuali livelli. In senso più che biblico, l’umanità è nata nel Giardino dell’Eden, e l’Africa è stata la sua culla. Questo continente, durante la maggior parte della sua storia geologica recente, e cioè dall’era mesozoica fino a 15 milioni di anni fa, era separato dall’Europa a nord e dall’Asia a est dal Mar di Tetide, un bacino poco profondo di acque tropicali che collegava l’Oceano Atlantico con l’Oceano Indiano. Quando questo mare fu ridotto ai suoi resti attuali, costituiti dal mar Mediterraneo, l’Africa si saldò a Europa e Asia entrando a far parte del Continente Mondo, un’area biogeografica debolmente unita attraverso la quale si diffusero i gruppi più importanti di vegetali e di animali. Prima di quel momento, l’Africa era un’isola-continente, simile per dimensioni e isolamento all’Australia e al Sudamerica. Così come quelle altre

masse terrestri separate, essa produsse una sua fauna caratteristica di mammiferi: elefanti, procavie, giraffe, bariteri, insettivori macroscelidi, e, ultimi – ma non per importanza – le scimmie antropomorfe e i primi esseri propriamente umani. Alcuni gruppi erano autoctoni; altri, tra i quali i grossi felini e i primati, si svilupparono in tutta l’Europa e in Asia, e invasero l’Africa periodicamente. Qui, più tardi, i gruppi occasionali si ramificarono in molte specie nel corso di una seconda fase evolutiva. Le scimmie antropomorfe e i primi uomini furono uno dei prodotti finali della radiazione secondaria dei primati post-Tetide. Entrarono in scena camminando eretti, portando con sé il fuoco di Prometeo – l’autocoscienza e il sapere ricevuto dagli dèi – e da allora tutto cambiò.

PARTE TERZA

L’IMPATTO DELL’UOMO

11 Vita e morte delle specie

Ogni specie vive una vita senza uguali, e muore in modo diverso dalle altre specie. Foglie glabre verde pallido, fiori tubulari rossi con sfumature verde giallastro, frutti ellissoidali rosso squillante: queste erano le caratteristiche di Trilepidea adamsii, il vischio della Nuova Zelanda, una pianta graziosa scomparsa nel 1954 dal suo ultimo caposaldo sull’Isola del Nord. Si trattava di un parassita degli arbusti e degli alberi più piccoli, facenti parte del sottobosco della foresta autoctona, ed era una pianta poco comune, tant’è che, al tempo delle esplorazioni dei primi botanici europei, era presente solo in poche località della penisola settentrionale nei dintorni di Auckland. Trilepidea adamsii vide la sua fine a causa di una combinazione di eventi che nessuno, cent’anni fa, avrebbe potuto immaginare. Il suo habitat cominciò a contrarsi a causa della deforestazione avviata dai Maori – primo popolo a insediarsi in Nuova Zelanda e, per un migliaio d’anni, unico occupante delle isole – e poi accelerata dai coloni britannici, che vi giunsero nel secolo scorso. Divenuta specie a rischio, Trilepidea adamsii vide la propria popolazione ulteriormente decurtata da collezionisti desiderosi di procurarsi qualche esemplare di quella che già si sapeva essere una pianta rara e ambita. La sua diffusione diminuì ancor più con il declino delle popolazioni di uccelli locali, declino dovuto all’abbattimento dei loro habitat forestali e alla predazione esercitata dalle specie di mammiferi d’importazione. La presenza di questi uccelli era necessaria per il trasporto dei semi da un alberello – o da un arbusto – all’altro. Pertanto, all’inizio degli anni Cinquanta Trilepidea adamsii era ormai prossima all’estinzione, e non ci è dato sapere come siano stati i suoi ultimi giorni. Forse, le poche piante rimaste finirono in pasto all’opossum Trichosurus vulpecula, un mammifero che pascola tra gli alberi e che fu importato

dall’Australia durante gli anni Sessanta del secolo scorso per impiantarne il commercio delle pelli. L’opossum non fu mai presente in numero tale da distruggere il vischio quando esso era abbondante, ma può avergli dato la spinta finale verso l’estinzione quando la pianta si trovava già in tale pericolo. Si prenda in considerazione il famoso paradosso della biodiversità, secondo il quale quasi tutte le specie vissute in passato sono estinte e, tuttavia, il numero di quelle oggi viventi è maggiore che in passato. La soluzione del paradosso è semplice. La vita e la morte delle specie si estendono su un arco di più di tre miliardi d’anni. Se ciascuna specie dura in media, diciamo, un milione d’anni, ne segue che nel corso delle ere geologiche gran parte di esse si è estinta. Allo stesso modo, constatiamo che si sono estinti tutti gli esseri umani vissuti durante gli ultimi 10.000 anni: eppure, sappiamo anche che la popolazione umana attuale è numerosa come non mai. Il ricambio sarebbe stato ancor maggiore se il fenomeno generale fosse stato di tipo dinastico, vale a dire se ciascuna specie ne avesse generate molte altre, e se tutte queste, o quasi, avessero a loro volta ceduto il passo a gruppi successivi. Ma l’evoluzione ha proprio questo carattere dinastico; e, pertanto, presso molte categorie di organismi, vi sono entità vecchie di un milione d’anni prossime al limite. Più precisamente, l’elemento di maggior interesse non è tanto la longevità della specie quanto quella del clado. Con questo termine si designa l’insieme composto dalla specie e da tutti i suoi discendenti, ovvero l’insieme degli individui presi dal momento in cui la specie antenata si separa dalle altre specie, fino al momento in cui l’ultimo esemplare di quella specie scompare, portando con sé tutti i suoi discendenti. L’estinzione delle cronospecie, o pseudoestinzione – come spesso viene chiamata – non ha importanza. Se una popolazione di organismi si evolve tanto da essere dichiarata dai biologi una nuova specie – una cronospecie, per l’appunto – ciò non significa che la specie si sia estinta, ma solo che si è notevolmente modificata. La vita del clado prosegue, e con esso persiste la sua linea genetica.

Il vischio della Nuova Zelanda (Trilepidea adamsii), oggi estinto

La longevità del clado sembra essere caratteristica di ciascuna delle principali categorie di organismi. Grazie alla relativa abbondanza di reperti fossili originatisi in sedimenti di mari poco profondi, è possibile determinare, spesso con una discreta approssimazione, la durata dei cladi dei pesci e degli invertebrati preservati in quei sedimenti. Durante il Paleozoico e il Mesozoico, la durata media oscilla da 1 a 10 milioni di anni; in particolare, la durata delle stelle di mare e di altri echinodermi si aggira sui 6 milioni di anni, quella

delle graptoliti (organismi coloniali lontani parenti dei vertebrati) attorno a 1,9 milioni di anni, quella delle ammoniti (molluschi dotati di conchiglia simili all’attuale nautilo) oscilla da 1,2 a 2 milioni di anni. Sulla terraferma, la longevità dei cladi di piante angiosperme del Cenozoico sembra anch’essa rientrare tra 1 e 10 milioni di anni. Quella dei cladi dei mammiferi, invece, varia da 0,5 a 5 milioni di anni, secondo l’epoca geologica. La probabilità di estinzione di una specie è, all’interno di ciascun clado, più o meno costante. Pertanto, la frequenza delle specie che, in un clado, sopravvivono per periodi sempre più lunghi diminuisce secondo una funzione decrescente in modo esponenziale. Esempio semplicissimo: se la metà delle specie è ancora in vita dopo un milione di anni, circa la metà di tale metà (vale a dire un quarto del numero iniziale) lo sarà allo scadere dei 2 milioni di anni, e la successiva metà (un ottavo dell’originale) 3 milioni di anni dopo, e così di seguito. Tale progressione viene spesso accelerata da mutamenti climatici che producono ondate di estinzioni, accompagnate da successivi periodi di rinascita; non mi riferisco, qui, alle sole grandi catastrofi che chiusero il Paleozoico e il Mesozoico, ma anche a eventi di minore entità, più frequenti e localizzati. Cladi di bufali e di antilopi sono sopravvissuti in Africa, a sud del Sahara, per periodi variabili da 100.000 anni ad alcuni milioni di anni. Ma, circa 2,5 milioni di anni fa, molti di essi si estinsero, mentre altri facevano la loro comparsa quasi simultaneamente. Tale evento fu probabilmente dovuto soprattutto a un periodo di raffreddamento e di ridotte precipitazioni che determinarono il diffondersi delle praterie su vasta parte del continente africano. E proprio l’instabilità climatica locale, assieme ad altre considerazioni, suggerisce come non si debbano formulare generalizzazioni precipitose, a partire dai fossili, circa la longevità delle specie. Le specie sorelle, talmente simili tra loro nei particolari anatomici da non poter essere distinte nei reperti fossili, avrebbero potuto comparire e poi estinguersi in rapida successione senza lasciare traccia. Probabilmente, anche le specie locali di piccole dimensioni hanno cicli di ricambio talmente rapidi, e in luoghi in cui

la sedimentazione si verifica così di rado – per esempio, nelle valli desertiche e nella zona più interna delle isole minori – da non lasciare traccia alcuna della loro esistenza. Oggi sappiamo che l’attuale formazione di specie nelle foreste pluviali delle Ande settentrionali è rigogliosa ma poco portata alla formazione di fossili. Negli habitat montani della Colombia, dell’Ecuador, del Perù vi sono popolazioni di piante e di animali inclini a un’evoluzione di tipo rapido e a un’estinzione precoce semplicemente a causa della loro posizione geografica. Le creste montuose sulle quali esse vivono sono isolate e differiscono tra loro per temperatura, piovosità, e per le specie che compongono le biocenosi locali. Le popolazioni sono piccole. Alwyn Gentry e Calaway Dodson stimano che in tali luoghi alcune specie di orchidee possano moltiplicarsi nel giro di soli quindici anni. Ciò significa che la longevità delle specie potrebbe essere altrettanto breve, misurabile nell’arco di decenni o, al massimo, di qualche secolo. Le orchidee sono di gran lunga il tipo di piante viventi più diversificato; comprendono, infatti, circa 17.000 specie, vale a dire l’8 per cento di tutte le angiosperme. Molte di esse sono rare, reperibili solo localmente, come nel caso degli endemismi andini, e pertanto potrebbero originarsi ed estinguersi velocemente senza lasciare traccia di sé. La biologia generale delle orchidee è anch’essa tale da cancellare la loro storia. Sono soprattutto organismi tropicali, e quindi lasciano pochi fossili. La maggior parte di esse è costituita da epifite che crescono tra le fronde degli alberi della foresta, un habitat poco favorevole al processo di fossilizzazione delle parti vegetali. Inoltre, contrariamente alla maggioranza delle altre angiosperme, non disperdono il polline sotto forma di semplici granellini lasciati cadere in laghi e corsi d’acqua, dove poi formerebbero microfossili facilmente studiabili. No: le orchidee amalgamano il polline in corpuscoli solidi, i pollinii, che vengono trasportati di fiore in fiore dagli insetti. Presi assieme, questi due caratteri – la speciazione rapida e la difficoltà di fossilizzazione – significano che le flore di orchidee praticamente non lasciano tracce mediante le quali si possa sperare di misurare la longevità delle loro specie.

Ma le orchidee non sono sole. Esse si limitano a renderci noto che, oltre alle specie i cui fossili indicano una longevità variabile da 1 a 10 milioni di anni, c’è, nascosto, un vasto gruppo di specie che appaiono e scompaiono a velocità molto più elevata. In media, le specie di nuova formazione occupano areali ristretti, e spesso partono con un basso numero di individui pionieri che approdano alle spiagge di qualche isola, oppure su lontane catene montuose. Qualora il tasso d’estinzione di tali popolazioni nuove e vulnerabili fosse alto – un po’ come lo è la mortalità infantile tra le popolazioni che vivono in ambienti ostili – ovviamente una grande percentuale delle specie morirebbe giovane, senza lasciar segno della propria esistenza. La vita e la morte delle specie, quindi, potrebbero giacere nascoste da un velo di artefatti, in quanto solo le popolazioni più diffuse nei pressi dei corpi d’acqua lasciano documenti fossili sufficienti per essere misurate direttamente. Dietro a quel velo giacciono numerosissime specie che una volta vissero in habitat ristretti e che, quindi, resteranno per sempre al di là di ogni possibilità di accesso diretto. Per sollevare questo velo, per rendere visibile il modo in cui queste specie vivono e muoiono, dobbiamo adottare un approccio meno diretto, cioè dobbiamo tornare ai principi dell’ecologia e di quella storia naturale che altro non è se non un’ecologia espressa attraverso i dettagli della biologia delle singole specie; specie ancora viventi, o che si sono estinte solo di recente. Prendiamo in considerazione, innanzitutto, le leggi dell’ecologia, che sono espresse nelle equazioni demografiche. Il numero di piante o di animali appartenenti a una certa specie è determinato esattamente dal tasso di natalità, dall’età alla quale i suoi membri si riproducono e dall’età alla quale essi muoiono. La distribuzione della popolazione in fasce d’età (tanti neonati, tante larve, tanti giovani, tanti adulti) è determinata dall’andamento delle nascite e delle morti. A loro volta, questi parametri sono influenzati dalla dimensione delle popolazioni o, più precisamente, dalla loro densità. Il numero di uccelli che affolla un boschetto, così come il numero di cellule algali che vivono sulla superficie umida di un sasso, incide sulle risorse alimentari, sulla forza con cui predatori e malattie colpiscono, sulla dilazione nel

tempo del periodo riproduttivo, sulla durata della vita degli individui, e su quali degli organismi in competizione possono entrare di prepotenza nella medesima biocenosi. Tutto ciò comporta una conseguenza importante: se l’ecologia è in ultima analisi una questione di natura demografica, allora la demografia deve alla fine avere a che fare con la storia naturale, con parametri espressi come funzione di un particolare luogo e tempo. Le equazioni della demografia sono specificate dal contesto. Questo per quanto riguarda la vita e la morte di specie particolari. Le leggi della biodiversità sono scritte nelle equazioni della speciazione e dell’estinzione. Gli ecologi e i paleontologi hanno cominciato a dare la caccia a tali leggi, consapevoli dell’importanza dei dati sui tassi di natalità delle specie e sulla longevità dei cladi che da esse originano. Ebbene, quelle equazioni si stanno facendo via via più simili a quelle dell’ecologia, e si stanno arricchendo anch’esse dei particolari della storia naturale. Si consideri un’isola appena emersa dal mare e pertanto priva di vita: diciamo, Krakatau nel 1883, o Surtsey, al largo dell’Islanda, nel 1963, o Kauai 5 milioni di anni fa. Presto vengono raggiunte da piante e animali che vi piovono in forma di plancton eolico, oppure spinti sulle loro coste da qualche tempesta. Ora, si accentri l’attenzione su un gruppo particolare, per esempio gli uccelli che vivono sulla terraferma, piuttosto che i rettili o le piante erbacee. In un primo tempo, all’interno di questo gruppo la quantità di arrivi di nuove specie è relativamente alta, ma poi cala inevitabilmente perché gli organismi con maggiori capacità di dispersione si stabiliscono per primi. Sulle isole e sui continenti vicini si trovano altre specie che, sebbene in grado di attraversare il mare, costituiscono tuttavia un insieme di potenziali colonizzatori dotati di minori capacità. Via via che l’isola si riempie di specie appartenenti al gruppo preso in esame – uccelli, rettili, piante erbacee – la velocità di arrivo delle specie non ancora stanziali continua a calare. Cominciata, per esempio, a un ritmo medio di una nuova specie l’anno, può declinare, nel secolo successivo, a una specie ogni dieci anni. Nello stesso tempo, cresce il

tasso di estinzione a mano a mano che specie sempre più numerose si contendono lo spazio e le risorse disponibili. Col tempo, si verrà a creare un equilibrio fra il tasso di estinzione delle specie già presenti sull’isola – misurato in numero di specie all’anno – e il tasso di immigrazione di nuove specie, anch’esso misurato su base annua. Il numero delle specie, quindi, è frutto di un equilibrio dinamico. Nuove specie arrivano, vecchie specie scompaiono: la composizione della fauna e della flora è in continua mutazione, ma il numero di specie presenti in ogni dato istante rimane stabile. Questo modello semplicissimo di equilibrio tra immigrazione ed estinzione costituisce la base della teoria della biogeografia insulare sviluppata nel 1963 da Robert MacArthur e dal sottoscritto. Notammo infatti che la fauna e la flora delle isole di tutto il mondo mostravano la presenza di una relazione costante tra l’area delle isole e il numero di specie che le abitavano. Quanto più vasta è la superficie, tanto maggiore è il numero di specie. Cuba possiede molti più tipi di uccelli, di rettili, di piante e di altri organismi che non la Giamaica, la quale a sua volta ha una fauna e una flora più ampie di Antigua. Tale relazione era evidente quasi dovunque, dalle Isole britanniche alle Indie Occidentali, dalle Galapagos alle Hawaii, agli arcipelaghi dell’Indonesia e del Pacifico occidentale, e seguiva una ben precisa regola aritmetica: il numero di specie (di uccelli, di rettili, di piante erbacee) all’incirca raddoppia al decuplicarsi dell’area. Facciamo un esempio pratico basato sugli uccelli che vivono sulla terraferma. Su un’isola di 1000 chilometri quadrati vi sono in media 50 specie, e circa il doppio – 100 specie – sulle isole di 10.000 chilometri quadrati. Con linguaggio più rigoroso, diremo che il numero di specie cresce secondo la seguente equazione: S = CAZ, dove A è l’area e S il numero di specie. C è una costante; z. è anch’essa una costante, biologicamente interessante, che dipende dal gruppo di organismi considerato (uccelli, rettili, piante erbacee). Il valore di z dipende anche dalla eventuale vicinanza dell’arcipelago alle aree di formazione, come nel caso delle isole indonesiane, o dalla sua lontananza, come nel caso delle Hawaii e di altri arcipelaghi del

Pacifico orientale. In breve, z è un parametro. Si mantiene costante per un dato gruppo di organismi e per un certo insieme di isole, come nel caso delle Indie Occidentali; ma può cambiare quando si passa ad altri organismi o ad altre isole, quali, per esempio, le piante erbacee dell’Indonesia. Il suo valore varia, tra i vegetali e gli animali di tutto il mondo, da 0,15 a 0,35. La regola empirica che prescrive un raddoppio nel numero di specie a fronte di una decuplicazione dell’area territoriale equivale a dire che z = 0,30 ovvero log10 2. È qui d’obbligo notare, anche ai fini delle problematiche conservazioniste, che la formula può essere letta al contrario: una diminuzione di dieci volte dell’area si traduce in un dimezzamento nel numero delle specie.

Il numero di specie che popolano le comunità insulari aumenta o diminuisce in funzione dell’area dell’isola. L’andamento della diversità dei rettili e degli anfibi delle Indie

Occidentali, qui illustrato, è tipico: una riduzione del 90 per cento dell’area si traduce in una perdita del 50 per cento delle specie da un’isola all’altra.

Il fenomeno di aumento della biodiversità all’ampliarsi della superficie delle isole è chiamato effetto area, e deriva in maniera diretta dal modello d’equilibrio. Si pensi a una fila di isole, quali più

ampie quali meno, appena emerse dal mare e che si estendano tutte alla stessa distanza dal margine continentale. A mano a mano che si popolano di specie, le isole presenteranno il medesimo tasso di immigrazione, essendo poste alla stessa distanza dal continente. Per converso, sulle più grandi il tasso d’estinzione crescerà più lentamente. La ragione di tale fatto è che un’area maggiore significa più spazio, più spazio significa, per ogni specie, popolazioni più numerose, e infine popolazioni più numerose significano un’attesa di vita più lunga per le specie. Se si è ricchi in partenza, è meno probabile correre il rischio di bancarotta, ed è possibile concentrare una quantità maggiore di individui su grandi territori prima che divengano poveri. Pertanto, sulle isole di grossa dimensione il tasso di estinzione complessivo arriva a eguagliare quello di immigrazione soltanto dopo che molte specie hanno colonizzato l’isola; non solo, ma le isole più grandi presentano, in condizioni di equilibrio, anche un numero maggiore di specie di quanto facciano le isole più piccole. L’effetto distanza consiste invece in questo: quanto più un’isola dista da un continente o da altre isole, tanto minore sarà il numero di specie che la abitano. Così come l’effetto area, anche questa tendenza della biogeografia può essere spiegata in modo lineare grazie al modello dell’equilibrio. Si capovolga ora la combinazione delle isole, in modo che siano tutte della stessa dimensione, ma situate a distanza variabile dal continente. Via via che le isole si popolano di specie di uccelli, di rettili e di piante erbacee, la velocità di estinzione aumenta in tutte all’incirca di pari passo (perché hanno uguale superficie). Ma le isole più lontane si popolano più lentamente: infatti, gli organismi devono percorrere distanze maggiori, e pertanto il tasso di immigrazione (vale a dire il numero di specie in entrata ogni anno) è inferiore. Il tasso di estinzione arriva a uguagliare quello di immigrazione quando sono presenti meno specie. Le isole lontane, perciò, raggiungono l’equilibrio con un numero di specie inferiore a quello delle isole più vicine. D’altra parte, una teoria, per quanto possa essere plausibile e abbia buone capacità di tenuta, non basta per apporre il sigillo definitivo a processi ecologici molto complessi, come è appunto quello della

crescita del numero delle specie. Bisogna eseguire esperimenti che confermino le previsioni teoriche, e, specialmente nel caso dell’ecologia, che le espongano a quelle che potremmo definire le divertenti intromissioni della storia naturale. Ma come è possibile condurre esperimenti che coinvolgano interi arcipelaghi, con la loro fauna e la loro flora? La soluzione sta nella miniaturizzazione. Durante i primi anni Sessanta, ho passato molto tempo a studiare le carte geografiche degli Stati Uniti, sognando a occhi aperti in cerca di qualche isoletta che potesse essere visitata spesso e che potesse venire in qualche modo manipolata per mettere alla prova i modelli teorici relativi alla biogeografia insulare. Pensai a lungo agli insetti, in quanto creature così piccole da poter costituire popolazioni vaste anche in luoghi ristretti. Al contrario, una fauna pienamente sviluppata di uccelli o di mammiferi avrebbe richiesto un’isola delle dimensioni di Guernsey o di Martha’s Vineyard. Ma gli afidi e gli scolitidi possono crescere in gran numero anche su un solo albero. Alla fine mi decisi per le Florida Keys, soprattutto per le isolette a mangrovie rosse che punteggiano le acque poco profonde di Florida Bay. Le macchie di mangrovie, piante resistenti al sale, vanno dall’esemplare singolo alle selve di centinaia di ettari. Sono presenti in gran numero, dal gruppo delle Ten Thousand Islands, site nella parte superiore della baia, ai molti arcipelaghi in miniatura disseminati lungo il margine settentrionale delle Lower Keys. Nel 1966, Daniel Simberloff, a quel tempo giovane laureando dell’Università di Harvard, e oggi noto professore di ecologia all’Università di Stato della Florida, si associò con me nel tentativo di trasformare le isolette di mangrovie in laboratorio a cielo aperto. Ci occorreva una serie di piccole Krakatau, isolette che si prestassero a essere ripulite completamente, in prima fase, dalla presenza di insetti, ragni, e altri artropodi, e poi a essere sorvegliate nei mesi successivi. Raggiungere quel risultato avrebbe significato assistere alla ricolonizzazione di quei territori a partire da zero, e quindi accertare in modo scevro da ambiguità se la biodiversità fosse in condizioni di equilibrio. Con il permesso del National Park Service, scegliemmo per

il nostro esperimento quattro minuscole isole, tutte dotate di macchie di mangrovie di quindici metri di ampiezza. Per verificare l’effettodistanza scegliemmo un’isoletta situata a soli due metri da un’isola più grande, un’altra sita a 533 metri di distanza, e due altre giacenti a mezza strada. Quella distanza di 2 metri, pari alla statura di un giocatore di basket, potrebbe sembrare ridicola, ma d’altro canto equivale a una fila di 1000 formiche operaie, cioè una lunghezza che, tradotta in termini umani, corrisponde a circa un chilometro e mezzo. Ci mettemmo al lavoro. Su ogni isola, avanzammo strisciando dal livello del fango su fino in cima agli alberi; esaminammo millimetro per millimetro le foglie, la superficie della corteccia, e ogni minima fessura; scattammo fotografie e raccogliemmo campioni; stilammo la lista più completa che ci fu possibile degli insetti e delle altre specie di artropodi presenti sulle quattro isole. A quel punto, l’effetto distanza si rese manifesto. L’isola più vicina conteneva il maggior numero di specie, quella più distante il minor numero, e le due isole di mezzo un numero intermedio. In seguito, ci affidammo a una ditta di disinfestazione di Miami per distruggere tutti gli artropodi presenti sulle isole mediante un metodo di fumigazione normalmente utilizzato per i grandi palazzi cittadini. Dapprima, gli operai ricoprirono le isolette con tendoni di nylon gommato; poi ne fumigarono l’interno con un gas a base di metil bromuro la cui concentrazione e la cui durata di esposizione era calcolata per uccidere gli artropodi, ma lasciare indenni le mangrovie. Quando i tendoni furono smontati, ci trovammo davanti a quattro isole vuote, quattro piccole Krakatau. La ricolonizzazione ebbe inizio qualche giorno dopo. In meno di un anno, la fauna delle varie isole aveva raggiunto nuovamente il livello originario. Le isole erano di nuovo schierate secondo il principio dell’effetto distanza: sull’isoletta più piccola si era tornati da 43 specie a 44; da 25 a 22 sull’isola più distante; e anche su quelle intermedie a un numero quasi identico a quello precedente l’esperimento. Quei numeri si mantennero costanti sino alla fine dell’anno successivo, quando si decise di interrompere l’esperimento. L’equilibrio che si era instaurato aveva anch’esso, come previsto, natura dinamica, per cui

molte delle specie di artropodi che colonizzavano un’isola, dopo uno o due mesi scomparivano, per ricomparire una seconda volta, o per cedere il passo a una o due specie simili. Seguendone l’evoluzione nel corso del tempo, la fauna appariva caleidoscopica: il numero totale delle specie rimaneva più o meno invariato, ma era la loro combinazione a cambiare continuamente, come i viaggiatori in transito in un aereoporto. A seconda delle isole, a metà esperimento solo una percentuale variabile dal 7 al 28 per cento delle specie dei nuovi arrivati coincideva con quelle presenti prima della fumigazione. L’esperimento delle Florida Keys fornì una messe di nuove informazioni circa la capacità di immigrazione e di resistenza dei vari gruppi di organismi. I ragni giunsero dal cielo; alcuni erano molto grossi, e di sicuro si servirono di «aerostati» intessuti con filamenti sericei da loro stessi prodotti. Ma molte specie si estinsero rapidamente. I loro lontani parenti, gli acari, arrivarono più lentamente, spinti dalle correnti d’aria come particelle di pulviscolo alla deriva – anzi, facenti letteralmente parte della polvere – ma le loro specie durarono più a lungo. Gli scarafaggi, i grilli, le falene e le formiche arrivarono presto e si stanziarono in modo stabile. I centopiedi e i millepiedi, nonostante fossero ben radicati sulle isole prima della fumigazione, durante i due anni dell’esperimento non riuscirono a fare ritorno. L’esperimento delle mangrovie era stato ispirato da Krakatau e dall’interesse scientifico per un territorio completamente ripulito dalla presenza di ogni traccia animale. Vi era però un altro metodo per valutare l’equilibrio della biodiversità, metodo consistente nel ridurre le dimensioni delle isole e nell’osservare il calo nel numero delle specie quando l’equilibrio si riassesta da un livello più alto a uno più basso. Sul finire degli anni Settanta, Thomas Lovejoy adottò questo tipo di approccio in quello che sarebbe stato l’esperimento più vasto nella storia della biologia. Lovejoy sfruttò una legge brasiliana che imponeva ai proprietari di terreni ricoperti da foresta pluviale della regione amazzonica di lasciare almeno il 50 per cento dei loro possedimenti ricoperti di foresta, mentre il resto poteva essere trasformato in terreni da pascolo e agricoli. Con il sostegno del World

Wildlife Fund e del governo brasiliano, il ricercatore si accinse a tenere sotto osservazione il destino della biodiversità all’interno delle aree rimaste intatte via via che la deforestazione procedeva. Egli convinse i proprietari di terreni lungo la strada per Boa Vista, a nord di Manaus, a risparmiare riquadri di foresta di superficie variabile da 1 a 1000 ettari. Per portare avanti l’immane progetto furono invitati sul posto, in veste di ricercatori ospiti, Richard Bierregaard, un ornitologo suo collega, che si unì a Lovejoy in qualità di direttore del campo, e altri studiosi ancora. I biologi si diedero a studiare la biodiversità presente negli appezzamenti, in un primo tempo mentre questi erano ancora nelle condizioni originarie, e, più tardi, quando erano ormai trasformati in «isole forestali». (Uno di questi luoghi era Fazenda Dimona, quello in cui, una notte, stetti seduto a osservare il temporale.) L’impresa fu in un primo tempo battezzata Minimum Critical Size of Ecosystems Project (Progetto sulle Dimensioni Critiche Minime degli Ecosistemi), abbreviato in MCS, poiché il suo scopo finale era di determinare quali fossero le dimensioni minime che una foresta pluviale deve avere per essere rifugio delle specie vegetali e animali originarie delle immediate vicinanze. Quanto terreno ci vuole per mantenere, diciamo, il 99 per cento di tutte le specie per un periodo di cent’anni? In seguito, lo studio divenne parte del Biological Dynamics of Forest Fragments Project (Progetto sulla Dinamica Biologica dei Frammenti Forestali), pensato con lo scopo ultimo di abbracciare tutti gli habitat brasiliani. I membri dello staff lo chiamano più brevemente Forest Fragments Project, ma per molti brasiliani è il Projeto Lovejoy. Nei pressi di Manaus lo studio iniziò appena prima che, negli ultimi anni Settanta, la terra venisse diboscata, e se ne prevede il proseguimento sino al prossimo secolo. L’esperimento di Manaus dovrà produrre una vera montagna di dati da passare al setaccio; ma già nel primo decennio – 1979-1989 – da quegli esperimenti sono emersi fatti nuovi e utili. Come ci si apettava, la biodiversità delle «isole» più piccole è quella che sta diminuendo più rapidamente. L’estinzione delle specie è stata accelerata da un fatto inatteso, cioè dall’accentuata penetrazione dei venti diurni, che

fanno seccare la foresta dal suo limitare verso l’interno e uccidono alberi e arbusti fino a una profondità di oltre cento metri. Molte specie animali e vegetali sono scomparse dagli appezzamenti più piccoli, ma ve ne sono alcune altre che stanno aumentando di numero. Le ragioni di tali cambiamenti sono a volte ovvie, ma altrettanto spesso sconcertanti. Le colonie delle formiche combattenti (Eciton sp.), che richiedono più di 10 ettari per il mantenimento della loro forza lavoro, scomparvero rapidamente dagli appezzamenti di dimensioni comprese fra 1 e 10 ettari. Con esse se ne andarono anche cinque specie di passeriformi della famiglia dei formicaridi, che si procacciano il cibo seguendo gli sciami di formiche e nutrendosi degli insetti spinti avanti dal fronte – ampio fino a dieci metri – delle formiche in fase di avanzamento. Le farfalle amanti dell’ombra della foresta profonda diminuirono in maniera drastica a causa dell’effetto disseccante del vento, ma altre forme si specializzarono a vivere ai margini della foresta, che venivano ricolonizzati da una vegetazione rigogliosa. Gli euglossini dalla colorazione verde metallico e blu, impollinatori di primaria importanza per le orchidee e altre piante, furono duramente colpiti negli appezzamenti di dimensioni fino a 100 ettari. I saki, scimmie che si nutrono di frutta, abbandonarono gli appezzamenti inferiori a 10 ettari. Viceversa, rimasero le scimmie urlatrici rosse che, nutrendosi di foglie, sono quindi in grado di raccogliere una maggiore quantità di cibo. I mammiferi terrestri di dimensioni maggiori, inclusi il margay, il giaguaro, il puma, il paca e il pecari, semplicemente abbandonarono gli appezzamenti più piccoli e scomparvero del tutto dalla fauna. In capo alla fine degli anni Ottanta si assisteva al diffondersi degli effetti di secondo ordine all’interno della rete alimentare. Scomparsi i pecari, non vi erano più, nel terreno, avvallamenti all’interno dei quali si potessero formare delle pozzanghere. In loro mancanza, cinque specie di rane del genere Phyllomedusa non riuscirono più a riprodursi e scomparvero. Col declino delle popolazioni di mammiferi e di uccelli, diminuì la quantità di sterco e di carogne. Gli scarabei che se ne nutrono calarono sia nel numero di specie sia in quello di individui per ogni specie. Inoltre, diminuì anche la dimensione media

dei sopravvissuti. Bert Klein, che documentò tali cambiamenti, predisse inoltre che vi sarebbero state ulteriori conseguenze a carico di una fetta maggiore della biocomunità, includendo nell’elenco gli acari carnivori che si fanno trasportare dai coleotteri e che aggrediscono le larve delle mosche, e, con effetti ancora più profondi, gli organismi patogeni dei mammiferi e degli uccelli: La riduzione, al primo ordine, dell’abbondanza di scarabei produrrà indubbiamente, al secondo ordine, effetti sulla dispersione degli acari, effetti che potrebbero innescare il terzo ordine di cambiamenti a carico delle popolazioni di mosche che

depongono le uova sullo sterco e sulle carogne. Per sapere quali potrebbero essere

gli effetti di quart’ordine, dovuti alla mutata abbondanza di mosche, occorrono studi ulteriori. Divorando e seppellendo lo sterco e le carogne, gli Scarabeinae

uccidono le larve di nematodi e altri parassiti gastrointestinali dei vertebrati. In tal modo, un cambiamento nelle comunità di scarabei stercorari potrebbe alterare l’incidenza di parassiti e di malattie in alcuni appezzamenti forestali isolati o nelle riserve biologiche.

A causa delle perturbazioni che si diffondono al terzo livello di interazione tra specie, e forse oltre ancora, la biodiversità degli appezzamenti forestali più piccoli sprofonda a livelli nuovi e ancora imprevedibili. Un dato, però, è certo: se la si tagliuzza in tanti piccoli lotti, la foresta amazzonica finirà col ridursi all’ombra di se stessa. La comprensione intuitiva dei fatti viene avallata dal seguente teorema, di derivazione teorica: quanto minore, nel tempo, è la dimensione media della popolazione di una data specie, tanto maggiore sarà la sua fluttuazione da una generazione all’altra, e tanto prima la popolazione scenderà a zero, cioè si estinguerà. Si pensi a un’isola che contenga mille passeri, tutti della stessa specie, e che questa popolazione sperimenti, una o due volte l’anno, fluttuazioni casuali di un centinaio d’individui in più o in meno. Si prenda poi una seconda isola, con una popolazione di cento passeri della stessa specie, e anche che subisca anch’essa fluttuazioni nell’ordine del centinaio di individui, ma su un arco di cento anni. Tale popolazione, molto meno numerosa e soggetta a fluttuazioni molto più ampie, avrà vita più breve. Per l’esattezza, molte di tali popolazioni si estinguono

prima di altre, più ampie ma altrimenti del tutto simili. La correttezza di tale previsione è stata dimostrata grazie a uno studio meticoloso, condotto da Stuart Pimm, Lee Jones e Jared Diamond, su un centinaio di specie di uccelli terrestri che abitano alcune isolette al largo delle coste inglesi e irlandesi. I ricercatori hanno riscontrato che la durata della vita dell’avifauna di tali isole effettivamente diminuisce col decrescere delle dimensioni delle sue popolazioni, e anche col crescere nel tempo dell’ampiezza delle fluttuazioni. Per collocare in una prospettiva più ampia l’importanza del parametro dimensionale della popolazione, possiamo cercare di immaginare che cosa accadrebbe se riuscissimo a proteggere una popolazione locale da un evento distruttivo catastrofico. Si preservi intatto l’habitat, si assicuri una fonte certa di cibo, e si impedisca a predatori e agenti patogeni di esercitare sull’area il loro influsso nefasto. Le fluttuazioni nel numero di individui della popolazione saranno allora condizionate solo dall’influsso del caso sull’andamento delle nascite e delle morti, vale a dire dal numero di femmine che si accoppiano ogni anno, da quello di giovani che superano le prime fasi della vita, e da altri ancora. Quanto al caso nella sua totalità, esso non è che il prodotto sommatorio di molti altri accidenti relativi alla pioggia, alla temperatura, alla disponibilità di cibo e alle aggressioni da parte dei nemici. I modelli matematici che descrivono la storia di questo tipo di popolazioni stazionarie evidenziano come le loro dimensioni e fluttuazioni possano influire enormemente sulla longevità. Quando il primo fattore aumenta di dieci volte, passando, per esempio, da dieci individui a cento, la longevità può aumentare anche di migliaia di volte. Detto in termini più pratici, ciò significa che esiste una soglia sotto la quale la popolazione si trova, di anno in anno, in netto pericolo d’estinzione. Fortunatamente le specie minacciate possono spesso essere tratte in salvo da questa zona ad alto rischio mediante un ampliamento, anche modesto, della superficie dell’habitat e, quindi, delle dimensioni della popolazione.

Le specie rare sono al centro della biologia conservazionista poiché l’estinzione è un evento irreversibile. Gli specialisti di questa giovane disciplina scientifica conducono i loro studi con lo stesso spirito d’urgenza che anima i medici di un pronto soccorso. Ricercano metodi diagnostici veloci e procedure in grado di prolungare la vita di quelle specie fino a quando non sia possibile applicare con maggior calma altri tipi di rimedi. Si rendono conto che le popolazioni di una certa specie possono essere di norma poco numerose e molto spesso evanescenti; ma se ve ne fossero altre che, attraverso la colonizzazione di altri luoghi, nascessero allo stesso ritmo, e se il loro numero fosse elevato, allora la specie nel suo complesso non correrebbe particolari pericoli. Per avere un reale controllo della rarità bisogna, quindi, essere in grado di formularne una definizione che tenga conto di più livelli. Il concetto di base può essere chiarito meglio riportando qui di seguito la diagnosi di tre fra le specie di uccelli più minacciate del Nordamerica. Vermivora bachmanii. Si dice che una specie corre pericolo di estinzione quando i suoi individui sono da una parte distribuiti su un’area molto ampia, ma dall’altra scarsi di numero. È appunto il caso di Vermivora bachmanii, in assoluto la specie più rarefatta del Nordamerica. Caratterizzato da taglia piccola, petto giallo, dorso verde oliva, gola nera nel caso del maschio, questo uccello un tempo nidificava nei boschetti delle paludi fluviali dall’Arkansas alla Carolina del Sud. Il suo attuale areale riproduttivo e la dimensione della sua popolazione sono ignoti, e pare che la specie sia prossima all’estinzione, se non addirittura già persa per sempre. Dendroica kirtlandii. Si dice che una specie è rara quando è fittamente concentrata, ma limitata a poche, piccole popolazioni presenti su territori di dimensioni ridotte. Rientra in questo caso il parulide Dendroica kirtlandii, caratterizzato da petto giallo limone, dorso grigio bluastro screziato di nero, e testa scura nel maschio. La specie forma colonie di individui non molto legati tra loro, e l’area di riproduzione è limitata ai boschi di Pinus banksiana, diffusi nella parte

centrosettentrionale della penisola più meridionale del Michigan. Tra il 1961 e il 1971, la popolazione scese da 1000 individui a 400. A quanto pare, tale diminuzione fu dovuta all’aumento del parassitismo nei nidi da parte dell’ittero del bestiame (Molothrus ater), un uccello che depone le uova nel nido dei parulidi. Le popolazioni di Dendroica kirtlandii vivono in condizioni di affollamento nelle località in cui stazionano, ma il graduale restringimento del loro areale distributivo le ha portate vicino all’estinzione. Picoides borealis. Una specie può essere dichiarata rara anche quando, pur essendo largamente distribuita e presente in gran numero in alcuni punti, tuttavia si è specializzata in una nicchia ecologica molto ristretta. Il picide Picoides borealis, caratterizzato da dorso zebrato, petto bianco a chiazze nere, e guance bianche con una macchiolina rossa, ne è un chiaro esempio. È presente in quasi tutti gli Stati Uniti sudorientali, ma predilige le pinete vecchie almeno di ottant’anni. Gli uccelli vivono in piccoli nuclei costituiti da una coppia di riproduttori e da alcuni dei loro figli, che hanno il compito di aiutare i genitori a proteggere e allevare i fratelli più giovani. Per raccogliere la quantità sufficiente di insetti preda, ciascun gruppo abbisogna, in media, di 86 ettari di foresta. Per nidificare, il picchio scava delle cavità in esemplari di Pinus palustris vivi e maturi, e che, vecchi da ottanta a centovent’anni, hanno il durame già distrutto dai funghi. Questo quadro così esigente di condizioni rigidamente prescritte non è più tanto facile da trovare nelle foreste di aghifoglie meridionali. Nel 1986, si stimò che la popolazione di riproduttori ammontasse a soli 6000 individui, e che nel Texas, ma probabilmente anche altrove con lo stesso ritmo, si stesse riducendo alla velocità costante del 10 per cento l’anno. Quindi, se non si arresta immediatamente il taglio delle foreste più vecchie, la specie è condannata all’estinzione. Il gruppo più ampio di specie in pericolo è costituito da quelle che si sono specializzate in modo eccessivo e da quelle soffocate dalla contrazione del loro habitat. Il depauperamento di Vermivora bachmanii in tutto il comprensorio meridionale degli Stati Uniti non è

un mistero per nessuno, nonostante vi sia abbondanza di ambienti adatti alla nidificazione, cioè di paludi fluviali. È una specie che sverna (o svernava) esclusivamente nelle foreste del settore occidentale di Cuba e nella vicina Isola dei Pini, località dove quasi tutti i boschi sono stati abbattuti per far posto alle coltivazioni di canna da zucchero. Nel caso di questi parulidi, il collo di bottiglia sta nella perdita dei territori di svernamento e nella conseguente mancanza di cibo che affligge perfino i pochi Vermivora nati nel più rigoglioso ambiente estivo degli Stati Uniti. John Terborgh ha lasciato un resoconto struggente dell’esperienza personale che visse a contatto con uno degli ultimi Vermivora bachmanii. Nel maggio del ’54, epoca in cui, a diciott’anni, era soltanto un appassionato d’uccelli (oggi, invece, è un insigne ornitologo), venne a sapere dell’avvistamento di un esemplare maschio nei pressi del Pohick Creek, in Virginia, non lontano da casa sua. Gli era stato detto che il canto dell’uccello somigliava a quello di un Dendroica virens, ma con una nota calante alla fine: si-si-si-si-siu. Mi recai nel luogo che mi era stato descritto e, con mia grande sorpresa, lo udii

davvero! Non ebbi difficoltà neppure a vederlo. Si trattava di un maschio dal piumaggio completo, poggiato su un ramo aperto a circa 6 metri d’altezza,

perfettamente visibile mentre cantava. Rimasi lì per due ore, e non smise quasi mai

di cantare. Alla fine, di malavoglia, me ne andai, domandandomi se mi sarebbe mai ricapitata un’esperienza del genere. No, non mi capitò mai più.

L’uccello canoro più raro è Vermivora bachmanii, un passeriforme degli Stati Uniti

sudorientali: se non è già scomparso del tutto, è comunque sull’orlo dell’estinzione. Questo disegno di un maschio ritratto mentre canta è stato ottenuto da una delle ultime fotografie scattate all’animale in libertà.

Come testimoniarono più avanti altri appassionati, quel maschio tornò nello stesso luogo per due primavere ancora, ma senza essere mai raggiunto da alcuna femmina. Gli sforzi straordinari che compiva erano sintomo della sua condizione ottimale per la riproduzione; purtroppo, però, era destino che non vi fosse alcuna femmina della sua stessa specie per scoprirlo. Immagino che ogni primavera una piccola quota di uccelli attraversasse il Golfo del

Messico e si distribuisse a ventaglio in un vasto comprensorio degli Stati sudorientali, trasformandosi in tal modo, per così dire, in una manciata d’aghi gettati in un pagliaio. Verso la fine, può darsi che gran parte dei maschi della

popolazione – analogamente a quello di Pobick Creek – non siano mai stati

individuati dalle femmine. E, una volta determinatasi questa situazione, non poteva

esserci più speranza per quella popolazione allo stato libero.

In modo analogo, Dendroica kirtlandii sverna nei boschi di aghifoglie di due isole settentrionali dell’arcipelago delle Bahamas: Grand Bahama e Abaco. Terborgh ha scritto che, per quanto ci si sforzi assiduamente di proteggere Dendroica kirtlandii e il suo habitat nel Michigan, forse il suo destino è alla mercé degli interessi economici delle Bahamas. Negli Stati Uniti, tutti gli uccelli migratori sono in declino a causa dello stesso problema che affligge Dendroica, cioè la demolizione degli habitat di svernamento causata dall’abbattimento degli alberi e dagli incendi. Il futuro, poi, si prospetta particolarmente grigio soprattutto per le specie legate alle foreste del Messico, del Centroamerica e delle Indie Occidentali, foreste che stanno soccombendo velocemente. Più sopra ho già parlato della specializzazione, che tende la trappola dell’opportunismo evolutivo, e di come essa sia condizionata dalla selezione naturale a livello di specie. Una specie si trova a un certo momento di fronte a una ricca fonte di risorse, e subito si adatta a sfruttarla e a difenderla da tutte le altre possibili concorrenti. Così, per conservare tale vantaggio, tutti i suoi individui si privano della capacità di competere per altre risorse. Spinta dalla selezione naturale, vale a dire dal vantaggio guadagnato dai suoi membri generazione dopo generazione, la specie si rinchiude in ambiti sempre più ristretti e diventa così più vulnerabile ai cambiamenti ambientali. I singoli organismi dotati di geni specialistici hanno, sì, vinto la battaglia; ma, alla fine, la specie nel suo complesso finirà col perdere la guerra e tutti gli individui che la compongono infine periranno. Durante il Paleozoico vi fu un’intera famiglia di gasteropodi, i platiceridi, che si adattò a vivere, con grande successo, in corrispondenza dell’orifizio anale dei crinoidi, un gruppo di echinodermi noti anche come gigli di mare. I platiceridi si nutrivano degli escrementi dei crinoidi, dei quali si impossessavano in modo diretto e senza un’eccessiva competizione con altri animali. Ma quando quei crinoidi si estinsero trascinarono con sé la moltitudine degli ingegnosi platiceridi.

Sui promontori scoscesi e friabili che sovrastano il fiume Apalachicola, nella Florida occidentale, vivono gli ultimi esemplari selvatici di torreya della Florida (Torreya taxifolia), una piccola conifera del sottobosco. Tra loro si trovano alcuni relitti di climi più freschi, risalenti al periodo in cui l’avanzata dell’ultima calotta glaciale sospinse elementi della flora boreale verso latitudini più meridionali, fino agli Stati Uniti sudorientali. Poi, quando i ghiacciai si ritirarono, 10.000 anni fa, gran parte delle specie animali e vegetali fecero marcia indietro, tornando gradatamente a coprire quasi tutto il loro precedente ampio areale. La torreya, però, non poté espandersi, in parte perché dipendeva da suoli di origine calcarea molto fertili e umidi. E arriviamo così alla fine degli anni Cinquanta, quando un fungo patogeno cominciò a infierire sulla piccola popolazione di Apalachicola e la portò sull’orlo dell’estinzione. Attorno agli sparuti esemplari moribondi di torreya si dipana una serie di corsi d’acqua che si gettano nell’Apalachicola e che sono abitati da piccole popolazioni di Graptemys barbouri, una specie di graziose tartarughe che presentano una serie di denti a sega lungo la linea mediana del carapace e una serie di volute a decorazione del margine ventrale del carapace stesso. Ma è la femmina a presentare la caratteristica più insolita: ha dimensioni molto maggiori di quelle del maschio, e il capo grottescamente ingrossato. Evolutasi soltanto in questo sistema fluviale, la specie non si è allontanata di lì, e, ora che gli ambienti d’acqua dolce della Florida sono sempre più disturbati, essa è vulnerabile e passibile di estinzione. Nascosta nel fondo melmoso delle polle sorgive della stessa regione, vive l’anfiuma monodattio, membro nano di un genere di salamandre giganti. Ho avuto occasione di visitare l’habitat di questa specie rara, e forse in pericolo, lo stesso giorno in cui ho esaminato gli ultimi esemplari di torreya. Stavo camminando in compagnia di un altro naturalista sotto il sole cocente e attraverso un querceto, in un ambiente tra i più poveri di tutti gli Stati Uniti, quando trovammo la sorgente che faceva al caso nostro in fondo a una gola stretta, profonda 20 metri. Cinta da pareti coperte da una densa vegetazione di latifoglie, e con temperatura per nostra fortuna fresca, pareva una

specie di oasi sul cui fondo fangoso zigzagava un rigagnolo d’acqua. Era l’ambiente d’elezione dello schivo anfiuma monodatti, animale che preda una stirpe di vermi acquatici altrettanto insoliti, ed esclusivi di quell’habitat. I vermi li trovammo, ma quanto all’anfiuma lasciammo perdere; perfino in pieno giorno, le zanzare erano talmente feroci che, a loro confronto, la distesa soleggiata di querce ci parve tutto sommato più sopportabile.

La tartaruga Graptemys barbouri è una specie minacciata limitata al sistema fluviale

dell’Apalachicola in Florida e in regioni adiacenti dell’Alabama e della Georgia. La femmina

di questa specie è molto più grossa del maschio, e ha una testa sproporzionatamente grande.

Una distribuzione geografica limitata come quella delle specie endemiche dell’Apalachicola comporta un rischio aggiuntivo: una sola ondata di epizoozia (termine col quale si designa l’equivalente animale delle epidemie umane), o un incendio forestale, o un’intensa gelata, o un giorno di lavoro con la sega a motore bastano a portarsi

via la specie intera. La specializzazione può essere pericolosa perfino per le specie ad ampia distribuzione, infatti, per quanto numerose ed estese, le loro popolazioni locali hanno individualmente più probabilità di avviarsi prima all’estinzione, e poi di finire con lo scomparire tutte quante. I resti fossili confermano questo principio generale. Di recente, ho studiato le formiche conservate in gocce d’ambra del primo Miocene (20 milioni di anni) provenienti dalla Repubblica Dominicana. La grande quantità di ambra, resina fossile degli alberi, è una delle ricchezze di questo paese caraibico. Colombo stesso ne acquistò una certa quantità durante i suoi commerci nel corso del secondo viaggio, dal 1493 al 1494, in una regione ricca di miniere e tuttora attiva nelle vicinanze dell’odierna Santiago. Tra gli insetti contenuti in grande abbondanza all’interno di quella sorta di matrice dorata vi sono, appunto, le formiche, molte delle quali conservate talmente bene da sembrare montate sotto vetro colorato da un gioielliere provetto. Io acquistai 1254 pezzi da alcuni intermediari. Poi li tagliai e li lucidai fino a che mi fu possibile esaminare le formiche al microscopio in modo da osservarle da più angolazioni. Riuscii così a studiarle e a ritrarle in ogni loro minimo dettaglio, riuscendo perfino a contare i peli quasi invisibili delle zampe, a misurare la larghezza del capo fino al centesimo di millimetro, e a prendere nota della struttura dei loro pezzi boccali, che consente di distinguere le specie, e perfino i singoli individui, in base alla forma e alla disposizione delle mandibole. Confrontando le specie incluse nell’ambra con quelle oggi viventi nell’America tropicale, giunsi a classificare alcune delle prime come accentuatamente specializzate e relativamente rare, in quanto i loro parenti viventi più prossimi o catturano solo certi tipi di preda, come millepiedi o uova di artropodi, oppure nidificano in luoghi insoliti. Ho scoperto, poi, che molte delle specie più specializzate, e con esse i loro discendenti, nella Repubblica Dominicana e nelle altre Indie Occidentali, si estinsero in misura maggiore rispetto a specie meno specializzate. Lo stesso fenomeno di sopravvivenza favorita dall’abbondanza è stato accertato, in altre ricerche indipendenti, da Steven Stanley, in

alcune specie di molluschi vissute durante il Pleistocene, circa 2 milioni d’anni fa, lungo il margine settentrionale del Pacifico. I suoi risultati sono tali da indurlo a pensare che l’abbondanza, o, per meglio dire, la dimensione della popolazione complessiva, è l’elemento principe per il controllo della sopravvivenza. Un modello riguarda lo stile di vita dei bivalvi, che vivono sepolti nei sedimenti del

fondo marino. Negli ultimi due milioni di anni, le specie munite di sifoni sono sopravvissute in numero assai maggiore rispetto a quelle che ne sono prive. I sifoni

sono strutture tubolari carnose che trasportano l’acqua sia in entrata sia in uscita

dall’animale sepolto nel substrato sabbioso. La profondità e la velocità con la quale

le specie dotate di sifoni riescono a seppellirsi le rendono, rispetto a quelle che ne sono prive, meno vulnerabili ai predatori. Risultato: molte delle specie presenti in grande abbondanza hanno i sifoni, e viceversa quelle rare. Addirittura, nelle regioni

del Pacifico la percentuale di sopravvivenza delle prime, pari all’84 per cento, è

doppia rispetto a quella delle altre, rimaste in misura del 42 per cento. È un modello che combacia perfettamente con l’idea secondo cui l’abbondanza sarebbe un elemento di primaria importanza nel determinare la probabilità d’estinzione.

Lo stesso principio vale in larga misura per tutto il regno animale: grosse dimensioni corporee, così come specializzazioni troppo spinte, significano popolazioni più ridotte e quindi estinzione precoce. I grandi mammiferi del Nordamerica e dell’Eurasia furono i primi a cedere quando comparvero in scena gli uomini cacciatori. Lupi, leoni, orsi, alci e stambecchi scomparvero in gran numero. Volpi, procioni, scoiattoli, conigli, topi e microti continuarono a prosperare. Stuart Pimm e i suoi colleghi, nella loro analisi degli uccelli terrestri delle isole lungo le coste britanniche, hanno constatato che le specie di dimensioni più grandi, come il falco e il corvo, si sono estinte localmente con frequenza maggiore di quelle più piccole, come lo scricciolo e il passero. La vulnerabilità più accentuata delle specie più grosse è in parte dovuta alla dimensione minore delle loro popolazioni, ma non solo. La vulnerabilità resta anche quando si elimina tale fattore dimensionale, cioè quando si considerano popolazioni di pari dimensione, ma di specie diverse. La debolezza ulteriore delle specie di più grosse dimensioni deriva dal loro tasso

riproduttivo più basso. I falchi e i corvi allevano meno piccoli degli scriccioli e dei passeri. Pertanto, quando i primi vengono colpiti da un episodio di alta mortalità, si riprendono più lentamente; e se poi interviene un secondo episodio, ecco che la loro probabilità di precipitare verso l’estinzione aumenta. La situazione di svantaggio si ribalta quando le popolazioni sia di uccelli grossi sia di uccelli minuti sono talmente esigue da trovarsi prossime all’estinzione, vale a dire, per essere più precisi, quando sono ridotte a sette coppie di riproduttori, o anche meno. In tal caso, la maggior longevità degli individui di grossa taglia diviene il fattore determinante. I falchi vivono più a lungo dei passeri, ed è quindi meno probabile che scompaiano completamente prima che una delle coppie riesca ad allevare i piccoli fino alla maturità. Quando si riducono a pochi individui, le popolazioni «scherzano» con l’estinzione incappando in quel fenomeno che i genetisti hanno battezzato depressione da inincrocio. Si consideri il caso limite di una popolazione di uccelli, diciamo una specie sfortunata di parulidi, ridotti a una singola coppia, un fratello e una sorella. Entrambi sono portatori eterozigoti di un gene recessivo letale. Ciò significa che ciascuno dei due è portatore di un gene letale in un certo sito di un certo cromosoma, e di un gene normale nello stesso sito del cromosoma omologo. Il gene normale domina su quello letale, e così i due individui sono più o meno in salute. Se, invece, fossero stati omozigoti per il gene letale, cioè se ne avessero posseduti due anziché uno nel loro patrimonio genetico, sarebbero morti o neppure mai nati. A questo punto, supponiamo che il fratello e la sorella si accoppino. Ogni spermatozoo del maschio (e ogni uovo della femmina) ha il 50 per cento di probabilità di portare il gene letale. Una probabilità, quindi, pari a quella che, al lancio della moneta, esca testa. Allora, la probabilità che un figlio possieda due geni letali e muoia è pari a quella di ottenere due volte testa con due lanci della moneta, cioè un mezzo (probabilità dello spermio portatore del gene letale) per un mezzo (probabilità dell’uovo portatore del gene letale), che fa un quarto (prole colpita). In conclusione, la popolazione perde

un quarto del suo potenziale riproduttivo per il solo fatto di essere così esigua. Ma perché l’accoppiamento fra consanguinei, in opposizione al normale accoppiamento casuale tra individui non strettamente imparentati, causa la crisi della vita e del processo riproduttivo? Fratelli, cugini di primo grado, genitori e figli sono tutti legati così strettamente tra di loro che è molto probabile che i geni recessivi letali da essi portati siano identici. Ogni essere umano, così come ogni moscerino – organismi tipici da questo punto di vista – porta in media da uno a diversi geni recessivi. Ma, in una popolazione considerata nel suo complesso, di geni recessivi ve ne sono in gran numero, solo che ciascuno di essi è presente unicamente in un individuo su cento, o addirittura su mille. Quindi, l’eventualità che due individui non imparentati siano entrambi portatori, non tanto di un qualunque gene difettoso quanto di quel medesimo gene, è davvero bassissima. Grazie al fatto che le probabilità d’incontro tra due geni identici sono così scarse, malattie ereditarie quali il morbo di Tay-Sachs e la fibrosi cistica sono fortunatamente rare. Ma se due genitori sono parenti stretti, allora il rischio che i loro figli manifestino una di tali malattie sarà molto più alto; condizione, questa, che si verifica più facilmente se la popolazione è costituita da pochi individui ed è chiusa. Questo, in sintesi, il concetto di depressione da inincrocio. Le popolazioni reali, però, vi sottostanno in modi balzani e sfuggenti. Infatti, solo una piccola parte dei geni deleteri risulta essere letale. La maggior parte sono invece «quasi letali», oppure «quasi vitali». Essi interferiscono in varia misura con lo sviluppo, riducono la forza degli organismi e ne diminuiscono la fertilità. È questo il tipo di geni che abbrevia la vita e causa la sterilità dei ghepardi e delle gazzelle custoditi negli zoo; sono questi geni che procurano difetti cardiaci congeniti ai cocker spaniel di razza troppo pura. I biologi conservazionisti hanno cercato di individuare le linee che demarcano le aree di pericolo, sorpassate le quali una specie va considerata molto più a rischio a causa della depressione da inincrocio. Parlando di salute genetica delle popolazioni, fanno

riferimento alla regola approssimativa del 50-500. Quando le dimensioni effettive di una popolazione sono inferiori a 50 individui e in essa sono presenti geni difettosi, la depressione da inincrocio diviene sufficientemente comune da determinare un rallentamento nella crescita della popolazione stessa. Gli allevatori di animal domestici solitamente non si preoccupano dell’entità di tale fenomeno nelle popolazioni composte da 50 o più individui. Ma se si scende al di sotto di quel valore, si ritengono nei pasticci. Quando, invece, la dimensione effettiva della popolazione è inferiore a 500 individui, allora è la deriva genetica (cioè la fluttuazione casuale delle percentuali dei vari geni) ad avere forza sufficiente per eliminare alcuni geni e ridurre la variabilità della popolazione nel suo complesso. E, contemporaneamente, la velocità alla quale avvengono le mutazioni non basta a compensare quella perdita di variabilità. Così, a poco a poco la specie perde la sua capacità di adattarsi ai mutamenti ambientali. La depressione da inincrocio, dando un giro di vite a ogni generazione, abbrevia la longevità della specie; e lo stesso risultato viene prodotto dalla riduzione del pool genico della popolazione che si verifica nel corso di molte generazioni. Quindi, potremmo concludere concisamente come segue: una popolazione di 50 individui è adeguata soltanto nel breve termine; mentre, per mantenere la specie viva e in salute anche in un futuro lontano, occorrono almeno 500 individui. Più sopra, per dare un senso preciso al deterioramento genetico, ho usato l’espressione «dimensioni effettive della popolazione», che è un parametro di grande importanza nella teoria della biologia conservazionista. Si prenda, per esempio, una popolazione davvero esistente, come quella della passera mattugia Passer montanus dell’Isola di May, in Scozia. Se la popolazione si componesse di soli maschi, le sue dimensioni effettive sarebbero pari a zero. Oppure, potrebbe essere costituita da mille adulti troppo vecchi per figliare, ai quali si aggiungono cinque maschi e altrettante femmine, tutti in salute e dediti all’accoppiamento casuale, ecco allora che la dimensione effettiva della popolazione sarebbe pari a dieci. In conclusione, quando si parla di dimensioni effettive della popolazione

ci si riferisce a una popolazione immaginaria i cui componenti si incrociano a caso e la cui deriva genetica è pari a quella della popolazione reale. Nel caso ipotetico illustrato prima, vi sono, sì, 1010 individui, ma, di questi, i mille non più in grado di riprodursi non vanno considerati. Infatti, dal punto di vista genetico, tutti quei passeri non valgono quanto quegli ultimi dieci individui presi da soli. Le dimensioni effettive, quindi, diminuiscono col crescere della sterilità, dovuta all’età o ad altre cause, ma diminuiscono anche con il rarefarsi degli accoppiamenti casuali, quando nella popolazione aumenta l’inincrocio. In conclusione, l’età, la salute e gli schemi di formazione delle coppie giocano un ruolo importante nella determinazione della traiettoria genetica della popolazione stessa e, in ultima analisi, della sua sopravvivenza. Un bosco o un campo può anche pullulare di piante e animali di una certa specie, ma ciò non esclude che quella specie possa essere condannata all’estinzione. I biologi conservazionisti e i genetisti sono pervenuti a una comprensione generale di questo tipo di problemi. Infatti si sono costruiti un’impalcatura teorica approssimativa, poi rivestita con un’infarinatura di studi condotti in laboratorio o presso gli zoo. Ora sanno che, quando si determina un calo della fitness a causa di uno stretto inincrocio e di una veloce giustapposizione di geni letali già presenti in grande numero, la popolazione corre rischi serissimi di estinzione. Invece, quando l’inincrocio è graduale, la specie ha maggiori probabilità di riuscire ad attraversare quella sorta di collo di bottiglia. Inoltre, col passare del tempo, gli effetti della depressione da inincrocio si moderano in quanto la selezione naturale elimina dalla popolazione i geni letali. Infatti, poiché è all’interno di singoli individui che i geni più pericolosi manifestano la condizione omozigote, questi vengono facilmente eliminati, e in tal modo si determina un brusco calo della loro frequenza nella popolazione. Comunque sia, quando si ha a che fare con la morte di una specie, nella maggior parte dei casi non è rilevante tanto la fetta di popolazione persa a causa dei geni difettosi, quanto invece la dimensione della popolazione e il modo con cui essa si suddivide e si

diffonde sul territorio. È pericoloso affermare: «Si porti la specie a una dimensione effettiva della popolazione di 500 individui, ed essa sarà salva». Infatti, se la specie si è ridotta a una sola popolazione che staziona in un solo rifugio, anche se conta 5000 individui, per distruggerla sarà sufficiente un singolo incendio, il singolo attacco di una malattia, una gelata mortale, l’estinzione delle fonti alimentari, la scomparsa di quel cruciale organismo che effettua l’impollinazione. Tutti questi sono casi di «incidenti demografici», di riduzioni drastiche e accidentali delle dimensioni della popolazione, riduzioni dovute a mutamenti ambientali, che hanno effetti mortali. Per le specie che devono attraversare quell’imbuto costituito dalla dimensione esigua della popolazione, gli incidenti demografici sono una Scilla ben più pericolosa della Cariddi rappresentata dalla depressione da inincrocio. Sono poche le specie costituite da una singola popolazione presente in un solo sito. Tra queste vi è il tenebrionide Polposipus herculeanus, un enorme coleottero dalle abitudini notturne e inetto al volo che si trova solo tra gli alberi morti dell’isola Frigade, alle Seychelles, e l’albero Hibiscadelphus distans, la cui specie consiste esattamente di dieci alberi di 6 metri d’altezza, radicati su un dirupo roccioso arido dell’isola di Kauai. Ma l’esempio più curioso di tutti è costituito forse dall’isopode di Socorro (Thermosphaeroma thermophilum), un crostaceo acquatico che ha perduto il suo habitat naturale e che ora sopravvive esclusivamente in un bagno pubblico abbandonato del New Mexico. In maggioranza, però, le specie non si comportano in tal modo. In alcuni casi, le popolazioni che le costituiscono sono talmente isolate l’una dall’altra da non potersi scambiare individui; più tipicamente, tuttavia, la specie è diffusa sotto forma di metapopolazione, vale a dire di una popolazione di popolazioni tra le quali di tanto in tanto si verificano migrazioni di organismi. Tenute in osservazione attraverso lunghi archi temporali, si possono immaginare le specie in forma di metapopolazioni come se fossero un mare di luci lampeggianti su un terreno immerso nell’oscurità. Ciascuna di quelle luci è una popolazione vivente, e la sua posizione rappresenta un habitat in grado di mantenere la specie.

Quando questa è presente nella località, la luce è accesa, e spenta quando ne è assente. Via via che si scruta il terreno nell’arco di molte generazioni, lì dove avviene un’estinzione, la luce scompare, per riaccendersi non appena l’area viene invasa di nuovo da organismi colonizzatori. Si può pertanto guardare alla vita e alla morte delle specie da un punto di vista che invita a un’analisi di tipo quantitativo. Se, col passare delle generazioni, la specie accende tante luci quante se ne spengono, allora essa può sopravvivere indefinitamente. Ma se le luci si spengono a ritmo più veloce di quello al quale vengono accese, ecco allora che la specie affonda nell’oblio.

A sud di San Francisco vive una metapopolazione di farfalle, sostentata da una prateria che

nel disegno è raffigurata in nero; le aree occupate nel 1987 sono indicate dalle frecce. Nelle metapopolazioni, l’occupazione di ambienti idonei cambia da un anno all’altro.

Il concetto di metapopolazione applicato alla specie è fonte sia di

ottimismo sia di sconforto. Infatti, quando una specie viene sradicata da una certa località, essa può ripresentarsi velocemente a patto che l’habitat vacante sia rimasto intatto. Ma se gli habitat disponibili vengono ridotti in misura sufficiente, l’intero sistema collassa, e tutte le luci si spengono nonostante vi sia ancora qualche habitat integro. Quindi, non è detto che qualche riserva, gelosamente custodita, sia sufficiente alla conservazione delle specie. Quando il numero di popolazioni in grado di colonizzare i luoghi liberi si riduce troppo, esse non riescono a occuparli in tempo per prevenire la propria stessa estinzione. Il sistema precipita in una spirale incontrollata, e l’intero mare di luci si tramuta in oscurità. Una metapopolazione sull’orlo del collasso è la farfalla Lycaeides melissa samuelis, specie che vive in un cosiddetto pine barren, chiamato Albany Pine Bush nella parte settentrionale dello Stato di New York. Col termine pine barren si designa un’area di suolo sabbioso e di dune relativamente sterili su cui crescono foreste e boschi di arbusti, area, nel caso in questione, dominata da Pinus rigida, da Quercus ilicifolia e dalla quercia castagnola nana. La vegetazione spesso brucia a causa di incendi appiccati da fulmini. Le farfalle L. melissa samuelis che abitano il barren sono raggruppate in una rete diffusa di piccole popolazioni locali, tutte legate al lupino selvatico (Lupinus perennis), vegetale che costituisce l’unica fonte alimentare per i loro bruchi. A sua volta, il lupino forma delle macchie di vegetazione sparse qua e là. Si tratta di una cosiddetta fire plant, pianta del fuoco, vale a dire di una specie che cresce nei punti in cui gli incendi hanno bruciato la vegetazione bassa ripulendo il terreno e permettendo a una quantità maggiore di luce solare di raggiungere le piante erbacee. Per la farfalla quegli incendi sono contemporaneamente una benedizione e una sciagura. Infatti, se da una parte distruggono le popolazioni locali, dall’altra preparano il terreno per la ricolonizzazione e la crescita ancor più rigogliosa delle generazioni successive. Via via che ogni sito viene bruciato e poi rioccupato dalle piante di lupino, farfalle adulte delle vicine popolazioni sopravvissute vanno a insediarvisi. In altre parole Lycaeides melissa samuelis costituisce quella che gli ecologi chiamano una «specie fuggitiva», cioè una specie sospinta da un posto all’altro a

causa del suo legame con una nicchia ecologica instabile.

La farfalla Lycaeides melissa samuelis e la sua pianta ospite, il lupino selvatico Lupinus perennis.

L’Albany Pine Bush un tempo occupava un’area di 10.000 ettari, quanto bastava alla metapopolazione di Lycaeides melissa samuelis per giocare all’infinito quella sorta di gioco d’azzardo. Lo sviluppo urbano del comprensorio delle città Albany-Schenectady ha ridotto l’area a 1000 ettari, non sufficienti come sostegno alla metapopolazione.

Probabilmente la farfalla si estinguerà, analogamente a quanto accaduto molto tempo fa a una popolazione simile presente sull’isola di Manhattan, a meno che la parte di habitat rimasta non venga mantenuta al livello attuale di conservazione e a meno che le popolazioni di lupino e di farfalle non vengano protette procurando che ne sopravviva un congruo numero di individui mediante incendi appiccati e controllati dalle autorità forestali. Lycaeides melissa samuelis è ormai al bivio verso il quale si stanno dirigendo migliaia di altre specie: o smettere di essere una razza completamente selvatica, oppure soccombere. All’umanità che l’ha trattata così male, ogni specie dà il suo addio particolare. Ho iniziato questa esposizione parlando di un vischio della Nuova Zelanda; sono passato poi a una delicata farfalla rovinata dallo sviluppo urbano di New York; e concluderò con un pappagallo brasiliano, l’ara di Spix. Si tratta dell’avispecie più fortemente minacciata di estinzione al mondo, e anche una delle più belle: il corpo è completamente blu, con il dorso più scuro, una sfumatura verdastra sul ventre e una maschera nera attorno all’occhio giallo limone. Questa specie, nota scientificamente come Cyanopsitta spixii, è così particolare da essere stata collocata in un genere a sé stante. Mai molto diffusa, si trovava solo nei palmeti e nei boschi lungo gli argini fluviali dal Parà meridionale fino a Bahia, in prossimità della costa centrale del Brasile. Fu decimata dagli appassionati di uccelli che, verso la metà degli anni Ottanta, arrivarono a pagare fino a 40.000 dollari per un singolo esemplare. I brasiliani che le davano la caccia sostengono che il declino è stato favorito dalle api africanizzate d’importazione, le cui colonie si stanziano proprio all’interno dei buchi degli alberi prediletti dall’ara di Spix. È un’asserzione che, sebbene interessata, può sembrare convincente perché suona bene, perché come storia naturale è plausibile, e quindi può ingannare il profano. Ma sta di fatto che gli sterminatori restano i collezionisti e i loro fornitori. In capo al 1987, allo stato libero sopravvivevano solo quattro esemplari, che si sono ridotti a un solo maschio nel 1990. Secondo Tony Juniper, dell’International Council for Bird Preservation, l’ultimo degli ara di Spix «sta cercando disperatamente

di accoppiarsi. Esplora ogni cavità degli alberi ed esibisce tutti i segnali di accoppiamento». Stando alle informazioni più recenti, quel maschio è riuscito ad accoppiarsi con una femmina di Ara maracana. Non si prevede la nascita di ibridi.

12 La biodiversità in pericolo

Nascosta tra le colline pedemontane delle Ande occidentali, in Ecuador, a pochi chilometri dal Rio Palenque, si stende una piccola cresta montuosa, la Centinela. Un nome, il suo, che potrebbe essere benissimo sinonimo dell’emorragia silenziosa della diversità biologica. Infatti, dieci anni fa la foresta che si stendeva sulla cresta fu abbattuta, e un gran numero di specie rare si estinsero. Sparirono in un batter d’occhio: nel giro di qualche mese, specie fino ad allora in pieno rigoglio scomparvero definitivamente. Tuttora, nel mondo intero, si stanno verificando nella più totale anonimità estinzioni di questo tipo, che potremmo chiamare «centineliane»; estinzioni che non sono palesi ferite aperte su cui precipitarsi per arrestare l’emorragia, bensì traumi interni asintomatici, piccole perdite da parte di tessuti vitali lontani dalla vista. Fu per pura combinazione che i fatti di Centinela ebbero dei testimoni oculari. Nella fattispecie, si trattò di Alwyn Gentry e Calaway Dodson, entrambi ricercatori dell’orto botanico del Missouri, con sede a St. Louis, nell’omonimo stato. Gentry e Dodson fecero la loro scoperta perché erano naturalisti nati. Con ciò voglio dire che fanno parte di un manipolo più unico che raro di biologi sul campo: quei biologi che non praticano la scienza per smania di successo, ma che ricercano il successo per poter fare scienza o, quanto meno, questo tipo di scienza. Anche se devono pagarsi il viaggio di tasca loro, scenderanno in campo per fare biologia, per fondere il sole e la pioggia con le scoperte sull’evoluzione, e per lasciare memoria di luoghi quali Centinela. Gentry e Dodson, che visitarono quella località nel 1978, furono i primi a esplorarla dal punto di vista botanico. Centinela è solo una

delle moltissime catene fatte di selle e salienti poco noti, sparsi su entrambi i lati dei 7200 chilometri delle Ande, da Panama alla Terra del Fuoco. Alle latitudini tropicali, a quote medie e alte, quei contrafforti sono coperti da foreste pluviali. Attraversandoli, ci si accorge che si tratta di vere e proprie isole ecologiche, sigillate superiormente da paramos privi di alberi, circondate in basso dalle foreste pluviali del bassopiano, e separate tra loro da profonde valli montane. Per questo, in modo analogo alle isole oceaniche, tendono a evolvere una flora e una fauna proprie ed endemiche, reperibili soltanto lì e, al massimo, nelle vicinanze. Sul Centinela, Gentry e Dodson hanno scoperto circa 90 di queste specie vegetali, soprattutto piante erbacee che crescono sotto la volta forestale, assieme a orchidee e ad altre epifite radicate sui tronchi e sui rami degli alberi. Alcune di tali specie avevano foglie nere, carattere davvero insolito che tuttora costituisce un mistero nel campo della fisiologia vegetale. Nel 1978 gli agricoltori della valle sottostante, seguendo una procedura operativa standard invalsa in Ecuador, cominciarono ad addentrarsi nella zona, lungo una strada privata di recente costruzione, e a tagliare la foresta della cresta montuosa. Per fare spazio all’agricoltura, a tutt’oggi è stato abbattuto ben il 96 per cento delle foreste del versante pacifico senza che i conservazionisti fuori dell’Ecuador vi abbiano fatto alcun caso, e senza la benché minima politica di controllo da parte delle autorità governative. In capo al 1986 le alture di Centinela erano completamente ripulite della vegetazione originaria, sostituita da piantagioni di cacao e di altro genere. Qualche pianta endemica è riuscita a sopravvivere tra quelle di cacao, e poche altre resistono ancora in quelle foreste delle vicine montagne che, a loro volta, corrono il rischio di essere abbattute. Se qualcuno dei vegetali a foglie nere sia sopravvissuto è cosa che non sono in grado di dire. Centinela, assieme alla lista sempre più lunga di località dello stesso tipo, ha svelato come l’estinzione delle specie sia stata ben più grave di quanto finora intuito perfino dai biologi che lavorano in natura, incluso il sottoscritto. Senza che nessuno se ne accorga, un’infinità di specie locali sta scomparendo, l’oblio si sta

impadronendo di loro come dei morti che il poeta Thomas Gray tratteggia nella sua Elegia scritta in un cimitero di campagna, lasciando al massimo, come unica traccia, un nome, un’eco svanente in un angolo recondito del mondo, il loro carattere distintivo inutilizzato. Anche tra gli organismi di grosse dimensioni, l’estinzione è stata più ampia di quanto generalmente si riconosca. Durante gli ultimi dieci anni, i ricercatori che si sono occupati di uccelli fossili, e in particolare Storrs Olson, Helen James e David Steadman, hanno scoperto le prove della distruzione massiccia di uccelli terrestri delle isole del Pacifico compiuta dai primi colonizzatori, giunti secoli prima degli europei. Gli scienziati hanno ricavato i dati estraendo ossa fossili e subfossili in tutti i luoghi in cui gli uccelli morti erano caduti o erano stati gettati: dalle dune alle doline calcaree scavate nell’arenaria, ai condotti lavici, al fondo dei laghi di origine vulcanica, ai tumuli archeologici. Tali depositi furono prodotti su ogni isola a partire da 8000 anni fa fin quasi ai nostri giorni, cioè in un periodo che racchiude anche l’arrivo dei polinesiani; e quei depositi lasciano pochi dubbi circa il fatto che, soprattutto in pieno Pacifico, dalle Tonga a ovest fino alle Hawaii a est, i polinesiani abbiano portato all’estinzione almeno la metà delle specie endemiche presenti al loro arrivo. Quel vasto gruppo di isole del Pacifico fu colonizzato dalle popolazioni Lapita, antenati della moderna razza polinesiana. Emigrarono dalla loro madrepatria – alcune imprecisate isole della Melanesia o dell’Asia sudorientale – e si diffusero costantemente verso est, di arcipelago in arcipelago. Con grande audacia, e forse a prezzo di molte vite, viaggiarono su canoe a un solo bilanciere o a doppio scafo compiendo traversate di centinaia di chilometri. Raggiunsero le Figi, le Tonga e Samoa circa 3000 anni fa. Passando di isola in isola, raggiunsero infine le Hawaii e, per ultima, circa nel 300 d.C., l’isola di Pasqua, la più remota delle isole abitabili del Pacifico. I colonizzatori si sostentavano grazie al raccolto agricolo e agli animali domestici trasportati con loro sulle canoe, ma anche, soprattutto nei primi tempi, grazie a qualunque animale commestibile

fossero in grado di trovare. Si nutrirono, dunque, di pesci, di tartarughe, nonché di una profusione di uccelli che, non avendo mai incontrato prima grossi predatori, si lasciavano catturare con gran facilità: colombi, piccioni, re di quaglie, rallidi, itteridi, e altri ancora, dei quali solo ora stanno tornando alla luce i resti. Molte specie erano endemiche, cioè si trovavano solo sulle isole scoperte dai Lapita. In un certo senso, si potrebbe dire che le popolazioni emigranti si aprirono la strada a morsi attraverso la fauna polinesiana. Sull’isola di Eua, nelle attuali Tonga, all’epoca dell’arrivo dei colonizzatori, circa nel 1000 a. C., nelle foreste vivevano venticinque specie; oggi ne sopravvivono solo otto. Prima dell’arrivo dei polinesiani, quasi ogni isola del Pacifico ospitava qualche specie di rallide inetta al volo. Oggi le popolazioni di tali specie sopravvivono solo in Nuova Zelanda e su Henderson, un’isola corallina disabitata sita 190 chilometri a nordest di Pitcairn. Fino a poco tempo fa si credeva che Henderson fosse una delle poche isole abitabili ancora vergini, cioè mai occupata da esseri umani; sennonché, di recente, sono stati scoperti manufatti che testimoniano la colonizzazione dell’isola da parte dei polinesiani, e il suo successivo abbandono forse a causa del consumo, da parte loro, di una quantità di uccelli superiore a quanto l’isola potesse sopportare. Lì, così come su altre isolette prive di terreni coltivabili, gli uccelli costituivano la fonte di proteine più facilmente accessibile. I colonizzatori ne fecero diminuire le popolazioni, ne cancellarono completamente qualcuna, finché si videro costretti o a morire di fame oppure ad abbandonare l’isola via mare. Le Hawaii, l’ultimo degli eden della Polinesia, in termini di perdita di prodotti evolutivi hanno subito i danni maggiori. Quando, successivamente alla visita effettuata dal capitano Cook nel 1778, vi giunsero i coloni europei, esse ospitavano all’incirca cinquanta specie autoctone di uccelli terrestri. Nei due secoli successivi, un terzo di queste specie scomparve. Grazie ai depositi di ossa, oggi sappiamo che altre trentacinque specie identificate con certezza e, forse, altre venti meno documentate, erano già state portate all’estinzione dagli hawaiiani. Tra quelle identificate, vi erano un rapace simile all’aquila dalla testa bianca nordamericana, un ibis inetto al volo e una strana

compagine di strigiformi con ali molto corte e zampe molto lunghe. Ma le forme più strane erano costituite da bizzarre specie inette al volo che, evolutesi dalle anatre, avevano però ali minute, zampe massicce e becchi simili a quelli delle tartarughe. Helen James e Storrs Olson hanno notato che: Sebbene questi uccelli fossero terrestri ed erbivori, come le oche, grazie alla presenza di una bulla siringea del tipo di quella dell’anatra, sappiamo che quegli strani uccelli erano derivati o dalla volpoca (Tadornini), o, più probabilmente, dalle

anatre acquatiche (Anatini), e in particolare dal genere Anas. Il loro ruolo ecologico potrebbe essere stato simile a quello delle tartarughe nelle Galapagos e in altre isole dell’oceano Indiano occidentale. Poiché oggi è possibile riconoscere tre generi e

quattro specie di questi uccelli, e poiché esse non sono né ascrivibili alle oche da un

punto di vista filetico, né alle anatre da un punto di vista funzionale, abbiamo deciso di coniare per loro un nuovo nome, moa-nalo, termine generale più comodo per designare tutto il gruppo di quelle anatre-oche inette al volo delle isole Hawaii.

Gli uccelli hawaiiani autoctoni sopravvissuti sono in gran parte specie relitte poco appariscenti, piccole, elusive, confinate alle foreste montane residue. Si tratta solo di un pallido fantasma delle aquile, degli ibis e dei moa-nalos. che accolsero i colonizzatori polinesiani lì giunti al tempo in cui nasceva l’impero bizantino e la civiltà Maya toccava l’apice. Le estinzioni centineliane si sono verificate anche in altri continenti e su altre isole a mano a mano che la popolazione umana andava diffondendosi a partire dall’Africa e dall’Eurasia. Il genere umano non impiegò molto tempo a sterminare tutto quanto fosse grosso, lento e saporito. Dodicimila anni fa, nel Nordamerica, subito prima che i paleoindiani cacciatori e raccoglitori giungessero dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering, il territorio era affollato di grossi mammiferi qualitativamente molto più vari di quelli che si trovavano in qualunque altra parte del mondo, Africa inclusa. «Dodicimila anni fa» può suonare come l’era dei dinosauri ma, in termini geologici, si tratta solo di ieri. A quel tempo, l’umanità, formata da circa otto milioni di individui, si stava appena svegliando, ed era alla ricerca di nuove terre. La manifattura di ami e di arpioni era diffusa, così come

la coltivazione di cereali selvatici e l’addomesticamento dei cani. La fondazione delle prime città mediorientali e mesopotamiche era a soli mille anni di distanza nel futuro. Nel settore occidentale del Nordamerica, subito alle spalle del fronte glaciale in ritirata, la prateria e la boscaglia costituivano una sorta di Serengeti americano. La vegetazione e gli insetti erano simili a quelli che ancora oggi si trovano negli stati occidentali, al punto che si sarebbe potuto cogliere gli stessi fiori e catturare col retino le stesse farfalle; ma i mammiferi di grosse dimensioni e gli uccelli erano vistosamente diversi. Stando ai margini di una foresta fluviale e davanti a un terreno aperto, si sarebbero potuti ammirare branchi di cavalli (del tipo estinto, precedente l’arrivo degli spagnoli), bisonti dalle lunghe corna, cammelli, vari tipi di antilopi e mammut; e ancora, avremmo assistito alle fugaci apparizioni di felini dai denti a sciabola che forse cacciavano in branco secondo l’usanza dei leoni, o a quelle di feroci lupi giganti e di tapiri. Radunati attorno alla carcassa di un cavallo si sarebbero potuti osservare i rappresentanti di una completa radiazione adattativa di uccelli divoratori di carogne: immani teratorni simili ai condor, ciconiidi saprofagi, aquile, condor, falchi e avvoltoi tutti intenti a scansarsi e a minacciarsi a vicenda (comportamento che ci è noto grazie alle specie sopravvissute), mentre gli uccelli di dimensioni minori erano occupati a carpire piccoli bocconi di carne o aspettavano che i concorrenti più grossi di loro abbandonassero la carcassa dopo averla spolpata a dovere. Il 73 per cento circa dei mammiferi di grosse dimensioni che vivevano nel Pleistocene si sono estinti (nel caso del Sudamerica, il valore sale all’80 per cento), assieme a un numero non molto dissimile di generi di grandi uccelli. Il collasso della biodiversità accadde da 12.000 a 11.000 anni fa, pressappoco nello stesso periodo in cui i primi cacciatori paleoindiani entrarono nel Nuovo Mondo e si diffusero poi verso sud a un ritmo medio di 16 chilometri all’anno. Non si trattò di un fenomeno casuale, di una serie di alti e di bassi. I mammut si erano sviluppati rigogliosamente da due milioni di anni a quella parte, tanto da essere presenti, alla fine, con tre specie: il mammut della Columbia, il mammut imperiale e il mammut lanoso.

Nel giro di un migliaio d’anni, le specie scomparvero tutte e tre. Simultaneamente, sparì anche un’altra antica stirpe, quella dei bradipi terricoli, la cui ultima popolazione, che si nutriva di vegetali all’esterno di caverne site all’estremità occidentale del Grand Canyon, scomparve circa 10.000 anni fa. Se fossimo giudici di un processo penale, potremmo tranquillamente condannare i paleoindiani anche solo in base alle prove indiziarie, tale è la coincidenza temporale tra i vari fatti. Ma, a loro carico, vi è anche un movente irresistibile: il cibo. Sono stati ritrovati resti di mammut, di bisonti e di altri grossi mammiferi frammisti a ossa umane, a carbonella residua di fuochi, e ad armi in pietra della cultura di Clovis. I protoamericani, quindi, erano abili predatori dediti alla caccia grossa, predatori che si imbattevano in un tipo di selvaggina del tutto impreparata, sulla base dell’esperienza evolutiva accumulata sino a quel momento, ad affrontarli. Altrettanto dicasi per gli uccelli, che comprendevano le aquile e un’anatra inetta al volo. Tra le vittime, vi furono anche degli innocenti spettatori: condor, teratorni e avvoltoi, tutte specie la cui alimentazione dipendeva proprio da quelle popolazioni di grossi mammiferi ora devastate dall’uomo. A discolpa dei paleoindiani, il loro avvocato difensore potrebbe accampare l’esistenza di un altro colpevole. La fine del Pleistocene non coincise solo con l’epoca dell’avvento dell’uomo nel Nuovo Mondo, ma anche con un riscaldamento del clima. A mano a mano che i ghiacciai continentali si ritiravano attraverso il Canada, le foreste e le praterie avanzavano verso nord. Mutamenti di questa portata devono aver influito profondamente sulla vita e la morte delle popolazioni locali. Per confronto, si pensi al caso dell’Islanda che, dal 1870 al 1970, ha subito un innalzamento di 2 °C della temperatura media invernale e di poco meno per quella primaverile ed estiva. Due specie di uccelli dell’Artico, la moretta codona (Clangula hyemalis) e un’alca, si sono estinte quasi del tutto. Contemporaneamente, alcune specie meridionali, tra le quali la pavoncella (Vanellus vanellus) e la moretta (Aythya fuligula), si sono stanziate sull’isola e hanno cominciato a riprodursi. Segni di ripercussioni di tale genere si hanno

anche per quel che riguarda la fase di declino del Pleistocene. I mastodonti, per esempio, a quanto pare erano specializzati per vivere tra le foreste di conifere. Quando questa fascia di vegetazione migrò verso nord, i proboscidati le tennero dietro. Trascorso un certo tempo, si concentrarono tutti a nordest, tra le foreste di abeti, e poi scomparvero. La loro estinzione forse fu conseguenza non solo del massacro venatorio, ma anche della frammentazione e riduzione delle popolazioni a seguito della progressiva riduzione del loro habitat. A questo punto, si consenta alla difesa di esprimersi con maggior enfasi: per decine di milioni di anni prima dell’avvento dell’uomo, nacque e morì un gran numero di generi di mammiferi, l’estinzione di alcuni dei quali fu accompagnata dall’origine di altri, tanto che, sul lungo periodo, venne a crearsi grosso modo un certo equilibrio. Tali mutamenti furono accompagnati da variazioni climatiche molto simili a quelle di 11.000 anni fa che abbiamo messo agli atti, e anzi, proprio da tali variazioni furono determinati. Come ha segnalato David Webb, durante gli ultimi 10 milioni di anni i mammiferi terrestri del Nordamerica sono stati sterminati da sei grandi estinzioni. Tra queste, l’evento che conclude il Pleistocene (evento battezzato Rancholabreano, dalla località di Rancho La Brea, in California) non è stato neanche il più catastrofico. Infatti, il più vasto, stando ai dati disponibili, fu quello del tardo Enfilliano (5 milioni di anni fa circa), quando scomparvero da

questo continente più di sessanta generi di mammiferi terrestri, trentacinque dei quali pesanti più di 5 kg. L’ultima ondata di estinzioni rancholabreana, risalente a

10.000 anni fa, fu la seconda in ordine di grandezza, dato che si estinsero più di quaranta generi, quasi tutti costituiti da mammiferi di grosse dimensioni […]. Vi

sono prove secondo cui queste estinzioni sarebbero coincise con la conclusione dei cicli glaciali, allorché gli estremi climatici e l’instabilità raggiunsero, a quanto si pensa, i massimi livelli.

In concomitanza con almeno due delle grandi ondate di estinzioni, i grossi mammiferi erbivori furono distrutti dal peggioramento climatico e dalla conseguente sostituzione delle savane continentali da parte della steppa. Alla fine dell’Enfilliano, anche mammiferi da

pascolo quali i cavalli, i rinoceronti e le antilocapre diminuirono bruscamente. Potrebbe sembrare che il contenzioso tra gli esperti che propendono per lo sterminio da parte umana e quelli che parteggiano per i mutamenti climatici sia la ripetizione, seppure in uno scenario diverso, del dibattito a proposito della fine dell’era dei dinosauri. Questa volta, però, in luogo del meteorite ci sono i paleoindiani. A dati probatori si oppongono altri dati probatori, e intanto le parti avverse si affannano nella ricerca della pistola ancora fumante. La diatriba in corso non è frutto né di ideologie né di personalità in urto reciproco: semplicemente, è il modo migliore per fare scienza. Detto ciò, lascio da parte l’imparzialità. Secondo me, i teorici dello sterminio eccessivo accampano le argomentazioni più convincenti circa quanto avvenne in America 10.000 anni fa. È probabile che effettivamente le popolazioni della cultura di Clovis si siano diffuse attraverso il Nuovo Mondo e abbiano annientato gran parte dei mammiferi di grossa taglia durante una sorta di Blitzkrieg venatorio durato parecchi secoli. Alcune delle specie condannate resistettero qua e là per almeno 2000 anni, ma l’effetto generale non mutò: si trattò di un processo distruttivo velocissimo sulla scala evolutiva che normalmente misura la vita dei generi e delle specie in termini di milioni di anni. A favore dell’accettazione, sia pure provvisoria, di questo verdetto, esiste un’altra argomentazione ancora. Paul Martin, che negli anni Sessanta ha risuscitato un’idea già in voga un secolo prima per i mammiferi europei del Pleistocene, ha richiamato l’attenzione su una prova importante: quando i colonizzatori umani arrivarono, non solo in America, ma anche in Nuova Zelanda, in Madagascar e in Australia, e a prescindere dal fatto che il clima fosse o meno in fase di cambiamento, poco dopo scomparve gran parte della macrofauna costituita da mammiferi di grosse dimensioni, uccelli e rettili. Questo elemento collaterale di prova, che favorisce l’ipotesi della pressione venatoria a scapito di quella del clima, è stato messo assieme nel corso di molti anni da ricercatori di varie correnti di pensiero.

Prima dell’arrivo dell’uomo, avvenuto attorno al 1000 d.C., la Nuova Zelanda ospitava il moa, un grosso uccello inetto al volo endemico dell’isola. Si trattava di un animale dal corpo ellittico di grosse dimensioni, con zampe massicce e un collo lungo che sorreggeva una testa minuscola. I primi maori, giunti dalla loro patria d’origine a nord, in Polinesia, si trovarono davanti a circa tredici specie di moa, di dimensioni varianti da quelle di grossi tacchini a quelle, enormi, di esseri pesanti anche più di 230 chili, questi ultimi da annoverare tra i più grossi uccelli mai esistiti. Il fatto si spiega con la radiazione adattativa dei moa, che giunsero così a occupare molte nicchie ecologiche. Una radiazione del tipo solitamente messo in atto dai mammiferi di medie e grosse dimensioni, solo che in Nuova Zelanda tali mammiferi erano allora del tutto assenti. I maori cominciarono a macellare un gran numero di uccelli, lasciando su tutto il territorio tracce cospicue di molti siti di tale loro attività. Sull’Isola del Sud, dove se ne trova la maggior parte, i resti sono costituiti da mucchi di ossa databili tra il 1100 e il 1300. Ne possiamo dedurre che, durante quel breve interludio, la dieta dei colonizzatori fosse in buona parte costituita da carne di moa cotta. Lo sterminio più intenso ebbe inizio all’estremo settentrionale dell’isola, punto d’ingresso dei maori, per poi diffondersi lentamente nei distretti meridionali. Ai primi dell’Ottocento, alcuni europei affermarono di aver visto i moa, ma non c’è modo di verificare tali dichiarazioni. L’opinione pubblica, così come quella degli archeologi, ritiene colpevoli i maori, e il fatto è comprovato da una celebre canzone neozelandese che suona così: No moa, no moa,

In old Ao-tea-roa. Can’t get ’em;

They’ve et ’em; They’ve gone and there aint no moa! Niente più moa, niente più moa, Nella vecchia Ao-tea-roa.

Non ne troverete neppure uno.

Se li sono mangiati uno per uno;

Così sono scomparsi e mai più ci saranno i moa!

L’estinzione dei moa fu solo una parte della carneficina perpetrata in Nuova Zelanda. Infatti, in breve tempo furono spazzate via altre venti specie di uccelli terrestri, incluse nove specie anch’esse inette al volo. Alla soglia dell’estinzione giunsero anche il tuatara o sfenodonte (Sphenodon punctatus), l’unico rettile sopravvissuto tra i membri dell’ordine Rhynchocephalia, e con esso alcune specie di rane uniche e insetti incapaci di volare. La loro eliminazione, dovuta in parte alla deforestazione e agli incendi di vaste distese di terra, fu accelerata dai ratti sbarcati con i maori e riprodottisi in gran quantità: nemici contro i quali gli organismi autoctoni avevano poche possibilità di difesa. Durante il secolo scorso, i coloni britannici misero piede, sì, su un arcipelago bellissimo, ma in realtà già notevolmente danneggiato. E, come avevano già fatto altrove, ridussero ancor più la biodiversità con un’ingegnosità perversa tutta loro.

L’estinzione dei grossi mammiferi e degli uccelli inetti al volo ha coinciso con l’arrivo degli esseri umani in Nordamerica, Madagascar e Nuova Zelanda, e in modo meno drastico in

Australia. In Africa, dove gli esseri umani e gli animali si evolsero insieme per milioni di anni, il danno apportato dall’uomo fu meno grave.

Il Madagascar, per dimensioni la quarta isola del mondo, in pratica è un piccolo continente a sé. Rimasto completamente isolato durante la deriva continentale verso nord, nell’oceano Indiano, durata 70

milioni di anni, fu teatro di una tragedia biologica simile a quella della Nuova Zelanda. Nonostante la vicinanza con l’Africa, i primi colonizzatori umani giunsero nel Madagascar non da quel continente, bensì dalla lontanissima Indonesia. Arrivarono verso il 500 d.C., e nei secoli immediatamente successivi la macrofauna dell’isola scomparve senza che tale evento fosse accompagnato da alcun cambiamento climatico degno di nota. Pare, quindi, che esso sia stato esclusivamente opera dei pionieri malgasci. Scomparvero da sei a dodici specie di epiornitiformi, anch’essi di grosse dimensioni e inetti al volo come i moa. Tra essi vi era la specie più pesante della storia geologica recente, vale a dire Aepyornis maximus, un pennuto gigante di almeno 3 metri d’altezza, fornito di zampe poderose. Le uova, grandi come un pallone da calcio, possono ancora essere ricostruite grazie ai frammenti rinvenibili nei siti archeologici. L’estinzione riguardò anche sette specie di lemuri su diciassette, primati che, fra i mammiferi viventi, sono strettamente imparentati alle scimmie e all’uomo. Prima dell’arrivo dei colonizzatori, in Madagascar i lemuridi erano andati incontro a una radiazione adattativa spettacolare. Le forme che scomparvero erano quelle di dimensioni maggiori, e le più interessanti. Una di queste correva a quattro zampe, come i cani, mentre un’altra aveva braccia molto lunghe grazie alle quali passava oscillando di albero in albero come un gibbone. Un’altra ancora, delle dimensioni di un gorilla, si arrampicava sugli alberi e somigliava a un koala di enormi dimensioni. Assieme a queste specie furono cancellati anche un tipo di oritteropo, un ippopotamo nano e due grosse testuggini. La medesima storia di distruzione si ripeté, essenzialmente immutata, allorché le popolazioni umane giunsero in Australia, circa 30.000 anni fa, provenendo sempre dall’Indonesia. Presto scomparve un gran numero di mammiferi, inclusi alcuni leoni marsupiali, canguri giganti di due metri e mezzo di statura, e altre specie ancora che ricordavano il bradipo terricolo, il rinoceronte, il tapiro, la marmotta, o, per essere più precisi, miscele di questi animali appartenenti alla fauna, a noi più familiare, del Continente Mondo. La tesi a sostegno dello sterminio venatorio, tuttavia, è inficiata dal fatto

che gli aborigeni approdarono sul Continente in epoca assai rémota, nonché dalla maggior lunghezza del lasso temporale nel corso del quale si verificarono le estinzioni, e infine dalla scarsezza di fossili e di luoghi di uccisione che documentino il ruolo avuto dalla caccia. È altrettanto vero, poi, che l’Australia andò soggetta a un periodo di estrema aridità da 15.000 a 26.000 anni fa, periodo durante il quale avvennero le estinzioni di maggiore entità. Sappiamo come gli aborigeni fossero abili cacciatori che bruciavano vasti appezzamenti di territorio arido in cerca delle loro prede. Fanno così ancora oggi. Se ne deve concludere, dunque, che anche l’uomo ebbe la sua parte di responsabilità riguardo alle grandi estinzioni. Però, le prove a nostra disposizione non ci consentono ancora di valutare la sua influenza rispetto al fenomeno di inaridimento delle zone interne del continente. Nel 1989, al processo per l’estinzione delle macrofaune, Jared Diamond ha indossato i panni del pubblico ministero e ha pronunciato la sua arringa. Il clima, ha affermato, non può essere il colpevole principale. E poi ha domandato: come mai i cambiamenti climatici e vegetazionali durante la ritirata dell’ultima calotta glaciale hanno portato all’estinzione di massa nel Nordamerica, ma non in Europa né in Asia? Il fatto è che le differenze tra questi continenti non erano tanto di tipo climatico, ma risiedevano piuttosto nel fatto che la macrofauna americana, priva di esperienza, si trovava per la prima volta di fronte all’uomo cacciatore. E come mai, nel Nordamerica, questa ecatombe è avvenuta alla fine dell’ultimo periodo glaciale, che ha chiuso il Quaternario, e mai alla fine dei ventidue cicli glaciali che lo precedettero? Di nuovo, l’elemento determinante è stato l’arrivo dei cacciatori paleoindiani. Perché mai, ha incalzato Diamond, i rettili australiani, e con loro i mammiferi più piccoli e gli uccelli, sono riusciti a sopravvivere meglio alle invasioni degli uomini preistorici? E infine, come mai forme di grosse dimensioni quali il lupo marsupiale e il canguro gigante sono scomparse quasi contemporaneamente dall’entroterra e dalle foreste pluviali d’Australia, così come dalle foreste pluviali montane della vicina Nuova Guinea?

Le estinzioni del Quaternario furono selettive nello spazio e nel tempo in quanto avvennero in luoghi e in momenti in cui animali sprovveduti si trovavano per la prima volta a faccia a faccia con l’uomo. Noi sosteniamo inoltre che le estinzioni ebbero un carattere selettivo nei confronti dei taxa e delle dimensioni delle vittime in quanto i cacciatori umani si concentrarono su alcune specie (per esempio, grossi mammiferi e uccelli incapaci di volare) ignorandone altre (ad esempio i piccoli roditori). Sosteniamo infine che le estinzioni del Quaternario si abbatterono sì sulle specie in tutti i tipi di habitat, ma per il semplice fatto che sono gli esseri umani a cacciare in tutti gli habitat, e che i cacciatori umani non aiutano alcuna specie, se non come conseguenza fortuita dei mutamenti di habitat che essi stessi provocano, o dell’eliminazione di altre specie da loro operata. «I cacciatori umani non aiutano alcuna specie.» È una verità generale, ed è la chiave che spiega tutta la malinconica situazione in cui ci troviamo. Via via che l’onda umana sommergeva le ultime isole vergini come un drappo soffocante – i paleoindiani attraverso l’America, i polinesiani nel Pacifico, gli indonesiani nel Madagascar, i marinai olandesi a Mauritius (dove incontrarono e sterminarono il dodo) – non v’era a frenarla alcuna consapevolezza dell’endemicità, né alcun senso etico di tipo conservazionista. Agli occhi di quegli uomini, il mondo doveva apparire come una distesa senza fine oltre l’orizzonte. Se i columbidi frugivori o le testuggini scomparivano da un’isola, be’… di sicuro ce ne sarebbero stati altri su quella dopo. Ciò che contava era la dose quotidiana di cibo, la salute della famiglia, il pagamento del tributo al capo, i festeggiamenti delle vittorie, i riti delle stagioni, le feste. Come ebbe a esclamare quel camionista messicano che aveva sparato a uno degli ultimi due esemplari di Campephilus imperialis, il picchio più grande del mondo, «Era un gran bel pezzo di carne!». Dai tempi preistorici fino alla nostra epoca, i cavalieri sconsiderati di quest’apocalisse ambientale sono stati la caccia eccessiva, la distruzione dell’habitat, l’introduzione di animali estranei quali ratti e

capre, e le malattie che questi forestieri hanno portato con sé. Durante la preistoria, gli agenti principali furono la caccia eccessiva e gli animali alloctoni, mentre nei secoli più recenti, e a velocità crescente durante la nostra generazione, la distruzione dell’habitat seguita a ruota dall’invasione da parte di animali estranei si sono rivelate le forze più micidiali. Tutti questi agenti non fanno che rafforzarsi a vicenda, e così la rete distruttiva si stringe sempre più. Si sa che negli Stati Uniti, in Canada e in Messico fino a tempi recenti vivevano 1033 specie di pesci esclusivamente di acqua dolce. Ventisette di queste, vale a dire il 3 per cento, si sono estinte negli ultimi cent’anni, e altre 265, pari al 26 per cento, sono passibili di estinzione. Rientrano tutte, dunque, in una delle categorie fissate dallo IUCN (International Union for Conservation of Nature), che pubblica i Red Data Books: Estinta, Minacciata, Vulnerabile, Rara. I mutamenti che ne hanno determinato il declino sono stati: Distruzione dell’habitat fisico: 73 per cento delle specie. Sostituzione da parte di specie introdotte: 68 per cento delle specie. Alterazione dell’habitat da parte di inquinanti chimici: 38 per cento delle specie. Ibridazione con altre specie e sottospecie: 38 per cento delle specie. Sfruttamento alimentare eccessivo da parte dell’uomo: 15 per cento delle specie. (La somma dei dati dà un risultato superiore al 100 per cento perché molte specie ittiche subiscono gli effetti di più di un agente.) Nel 90 per cento dei casi, il fattore determinante l’estinzione è costituito dall’effetto sinergico della distruzione dell’habitat con l’inquinamento chimico. Negli ultimi quarant’anni, il tasso di estinzione è cresciuto costantemente a causa della combinazione dei fattori prima citati.

Possiamo affermare che lo sterminio delle popolazioni ittiche e di quelle degli altri animali di cui abbiamo dati sufficienti è cominciato nella preistoria, e prosegue ancora oggi a pieno ritmo per mano delle generazioni odierne. Le popolazioni primitive sterminavano sul posto gran parte degli animali di grosse dimensioni. Esse decimarono anche piante e animali meno appariscenti da tutte quelle isole, quelle valli isolate, quei laghi e quei fiumi in cui le specie, quasi avessero le spalle al muro, vivevano in piccole popolazioni. Ora tocca a noi. Armati di seghe a motore e di dinamite, stiamo dando l’assalto agli ultimi capisaldi della biodiversità: i continenti e, in misura minore ma sempre più importante, i mari. Sarà mai possibile valutare la perdita di biodiversità attualmente in corso? Penso proprio che, in questo momento, per l’umanità non vi sia problema più grave. La difficoltà dei biologi nello stimare l’entità dell’emorragia è dovuta, tanto per cominciare, al fatto che la biodiversità è di per sé argomento scarsamente conosciuto. Di tutti i processi biologici, l’estinzione è il più oscuro e il più circoscritto. Noi non siamo in grado di assistere alla cattura in volo, da parte di un uccello, dell’ultima farfalla di una certa specie, né all’uccisione dell’ultimo esemplare di una certa orchidea a causa della caduta dell’albero che la sosteneva, lassù, in una sperduta foresta montana. Sentiamo dire da qualcuno che questa pianta o quell’animale sono sull’orlo dell’estinzione, se non addirittura già scomparsi per sempre. Allora ci rechiamo nella località dell’ultimo avvistamento e, se anno dopo anno non incontriamo più alcun individuo, alla fine proclamiamo che la specie è estinta. Ma la speranza non se ne va. Un uomo in volo con un aereo da turismo sulle paludi della Louisiana pensa di aver visto qualche esemplare del picchio Campephilus principalis lanciarsi in volo e subito tornare a nascondersi tra il fogliame planando. «Sono sicuro che si trattava di quella specie, e non di un’altra. Ho visto benissimo la doppia striscia bianca sul dorso e le bande sulle ali.» Qualcun altro crede di udire il canto di una Vermivora bachmanii, e un cacciatore giura che, nella selva di arbusti dell’Australia occidentale, ha avvistato dei lupi della Tasmania, ma

probabilmente sono tutte illusioni. Per affermare che una specie è veramente estinta, bisogna conoscerla bene, sapere con precisione qual è la sua distribuzione e quali i suoi habitat preferiti. Le osservazioni richiedono tempo e tenacia, e spesso non portano ad alcun frutto. Conosciamo poco la maggior parte degli organismi, il 90 per cento dei quali aspetta ancora di essere consacrato con un nome scientifico. Quindi, i biologi concordano che non è possibile dare la cifra esatta delle specie in via di estinzione; di solito ci limitiamo a dire che sono tantissime. Però, si può fare di meglio. Partirò da una generalizzazione: nell’esigua minoranza di gruppi di piante e animali a noi ben nota, l’estinzione sta procedendo a grande velocità, cioè più in fretta di quanto accadesse prima della comparsa dell’uomo. In molti casi, il tasso è addirittura catastrofico, e a essere minacciato è l’intero gruppo. Per illustrare meglio questo principio, elencherò nelle pagine seguenti alcuni casi tra i tanti che si potrebbero citare: mettere a fuoco certi particolari, certe vicende, infatti, aiuta molto ad avere una visione panoramica dell’estinzione in fase di avanzamento. Poi, passerò a un’analisi di tipo più teorico, basata sui modelli della biogeografia insulare, per arrivare infine a una stima dei tassi di estinzione nelle foreste pluviali tropicali che contengono la metà, e forse anche più, delle specie vegetali e animali del mondo. Ecco, di seguito, gli esempi: • Negli ultimi due millenni è stato eliminato un quinto delle specie di uccelli di tutto il mondo, soprattutto in seguito all’occupazione delle isole da parte dell’uomo. Ciò significa che, al posto delle 9040 specie oggi viventi, senza l’intervento umano ce ne sarebbero 11.000. Secondo un recente studio dell’International Council for Bird Preservation, l’11 per cento delle specie viventi sono minacciate. • Sulle isole Salomone, nel Pacifico sudoccidentale, sono state individuate 164 avispecie in tutto. Il Red Data Book ne indica solo una come estinta di recente. In realtà, però, di altre dodici non si sa più

nulla fin dal 1953, e molte di esse sono costituite da uccelli nidificanti al suolo, quindi facilmente aggredibili dai predatori. Gli isolani che meglio conoscono l’avifauna dell’isola hanno affermato che almeno alcune delle specie sono state sterminate dai gatti di importazione. • Dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, la densità di popolazione dei passeracei migratori nella regione centrale della costa atlantica degli Stati Uniti è calata del 50 per cento, e in alcune aree circoscritte molte specie si sono estinte. Una delle cause sembra risiedere nella distruzione sempre più rapida delle foreste delle Indie Occidentali, del Messico, del Centroamerica e del Sudamerica, aree che costituiscono i principali territori di svernamento delle specie migratorie. Se l’abbattimento delle foreste proseguirà, il destino di Vermivora bachmanii toccherà anche a molte specie che hanno eletto il Nordamerica a loro residenza estiva. • Circa il 20 per cento dei pesci d’acqua dolce del mondo sono in condizioni di declino pericoloso, o addirittura già estinti. In alcuni paesi tropicali la situazione sta raggiungendo un livello critico. Nella penisola malese, quando si è cercato di rintracciare le 266 specie note di pesci residenti nelle acque dolci di pianura, ne sono state ritrovate solo 122. Il lago Lanao, sull’isola filippina di Mindanao, è famoso tra i biologi evoluzionisti a causa della radiazione adattativa avvenuta esclusivamente qui. Infatti, esso contiene ben 18 specie endemiche note, facenti parte di tre generi; nel corso di una recente ricerca ne sono state ritrovate solo tre, ascrivibili a un solo genere. La perdita delle altre è stata attribuita alla pesca eccessiva e alla competizione da parte di specie ittiche di recente introduzione. • L’estinzione più catastrofica della storia recente è stata forse la distruzione dei ciclidi del lago Vittoria, che ho descritto in un capitolo precedente come esempio paradigmatico di radiazione adattativa. Da una singola specie antenata derivarono più di 300 specie che andarono a occupare quasi tutte le nicchie ecologiche principali

adatte ai pesci d’acqua dolce. Nel 1959, i coloni britannici introdussero nel lago la perca del Nilo (Lates niloticus). Questo grosso predatore, che può arrivare fino a 2 metri di lunghezza, ha decimato drasticamente la popolazione ittica originale, e ne ha portato all’estinzione alcune specie. Le proiezioni predicono addirittura la sparizione di più della metà di tutte le specie endemiche. La perca del Nilo esercita la sua influenza non soltanto sui pesci, ma anche sull’ecosistema lacustre nel suo complesso. Con la scomparsa dei ciclidi che si nutrono di alghe, queste si riproducono e muoiono in grande quantità, depauperando di ossigeno gli strati lacustri più profondi e accelerando così la scomparsa dei ciclidi, dei crostacei e delle altre forme di vita. Nel 1985, una task force di ittiologi si è così espressa: «Mai, prima d’ora, l’uomo ha messo a rischio, con una sola mossa scriteriata, tante specie di vertebrati, e mai, così facendo, ha messo in pericolo una fonte di cibo e tutto uno stile di vita: quello degli abitanti delle rive lacustri». • Gli Stati Uniti possiedono la fauna di molluschi dulcacquicoli più vasta del mondo, fauna ricca, soprattutto, di bivalvi e di gasteropodi. Queste specie si trovano da lungo tempo in rapido declino a causa della costruzione di dighe, dell’inquinamento, nonché dell’introduzione di molluschi e di altri animali acquatici estranei. Oggi, almeno 12 specie di molluschi sono estinte su tutto il loro areale, e il 20 per cento delle restanti sono in pericolo d’estinzione. Perfino lì dove non si è verificata nessuna estinzione, lo sradicamento delle popolazioni locali è dilagante. Il lago Erie e il sistema fluviale dell’Ohio una volta ospitavano dense popolazioni appartenenti a 78 forme diverse; di queste, 19 sono ora estinte, e 29 sono rare. Nell’Alabama, un tratto del fiume Tennessee, noto come Muscle Shoals (i Bassofondi dei Mitili), una volta ospitava 68 specie di molluschi le cui valve erano specializzate per la vita sulle secche e sui bassofondi, nonché per quei corsi d’acqua caratterizzati da sedimenti misti a ghiaia e sabbia e da rapide correnti. Nei primi anni Venti, allorché la costruzione della diga Wilson determinò un innalzamento del livello idrico, si estinsero 44 di quelle specie. Con analogo

processo, lo sbarramento e l’inquinamento hanno concorso a far estinguere due generi e 30 specie di gasteropodi dei fiumi Tennessee e Coosa. • I molluschi d’acqua dolce e quelli terrestri sono in genere vulnerabili fino all’estinzione poiché molti si specializzano per la vita in habitat ristretti e sono incapaci di spostarsi velocemente da un posto all’altro. Il destino di alcune specie di gasteropodi arboricoli di Tahiti e di Moorea illustra tale norma in modo agghiacciante. Infatti, tali molluschi – che, per una sorta di radiazione adattativa in miniatura in un luogo ristretto, erano arrivati a comprendere 11 specie appartenenti ai generi Partula e Samoana – sono stati di recente sterminati da una singola specie di chiocciola carnivora esotica. Si è trattato di una vera e propria follia, di un paio di sbagli disastrosi commessi dalle autorità competenti, che hanno avuto questo iter: in un primo tempo, è stata introdotta sulle isole, come cibo per animali, la chiocciola gigante africana Achatzina fulica; poi, quando questa si è moltiplicata al punto da diventare un flagello, è stata introdotta la chiocciola carnivora Euglandina rosea, nell’intento di riportare Achatina sotto controllo. Ma Euglandina, a sua volta, si è moltiplicata in modo prodigioso, tanto da arrivare ad avanzare lungo un fronte di 1,2 chilometri all’anno; e, lungo la strada, non ha eliminato solo Achatina fulica, ma anche ogni altra chiocciola arboricola autoctona, l’ultima delle quali è scomparsa dall’isola di Moorea nel 1987. Sulla vicina Tahiti si sta sviluppando la stessa sequenza di avvenimenti. Anche alle Hawaii, tutte le specie di Achatinella endemiche sono in pericolo d’estinzione a causa di Euglandina e della distruzione dell’habitat. Ventidue specie si sono già estinte, e le restanti 19 sono state dichiarate in pericolo. • Secondo un rilevamento effettuato di recente dal Center for Plant Conservation, negli Stati Uniti si sono estinte da 213 a 228 specie vegetali su un totale di 20.000. Altre 680, fra specie e sottospecie, rischiano di estinguersi entro il 2000, e circa tre quarti di esse sono concentrate in soli cinque luoghi: California, Florida, Hawaii, Puerto

Rico e Texas. La situazione di Banara vanderbiltii è emblematica della difficoltà in cui si trova gran parte delle specie minacciate. Nel 1986, questo alberello, tipico delle foreste a clima umido e suolo calcareo, era ridotto a due soli individui che crescevano in una fattoria vicino a Bayamon. All’ultimo momento, si fecero delle talee che, piantate al Fairchild Tropical Garden di Miami, stanno ora crescendo molto bene. • Nella Germania occidentale, l’ex Repubblica Federale, durante il 1987, il 34 per cento di 10.290 specie di insetti e di altri invertebrati sono state classificate come direttamente minacciate di estinzione, o quanto meno in pericolo. In Austria, il dato è del 22 per cento su 9694 specie di invertebrati, e in Inghilterra del 17 per cento di 13.741 specie di insetti. • Sembra che i funghi dell’Europa occidentale si trovino in pieno periodo di estinzione di massa, almeno su scala locale. Grazie a una raccolta intensa di campioni effettuata in località accuratamente selezionate in Germania, in Austria e in Olanda, è stato possibile evidenziare una perdita dal 40 al 50 per cento delle specie negli scorsi sessant’anni. La ragione principale di tale declino sembra risieda nell’inquinamento dell’aria. Molte delle specie scomparse fanno parte dei funghi micorrizici, organismi simbiotici che fanno aumentare l’assorbimento di sostanze nutrienti da parte degli apparati radicali delle piante. Da lungo tempo gli ecologi vanno domandandosi che cosa ne sarebbe degli ecosistemi terrestri se tali funghi venissero eliminati, ebbene, presto avremo la risposta. La fine delle specie sull’orlo dell’estinzione, che si tratti di uccelli o di funghi, può arrivare in due modi. Molte di esse, tra cui i gasteropodi arboricoli di Moorea, è come se venissero «colpite» da una fucilata, nel senso che la specie sparisce, ma l’ecosistema nel suo complesso rimane intatto. Altre, invece, vengono travolte da un olocausto che coinvolge l’intero ecosistema. La distinzione tra colpo di fucile e olocausto è particolarmente azzeccata nel caso dello strigide degli Stati Uniti Strix occidentalis, una

specie minacciata che, a partire dal 1988, è stata oggetto di accese polemiche a livello nazionale. A ogni coppia di questa specie occorrono da 3 a 8 chilometri quadrati di foresta di conifere con un’età di almeno 250 anni. È questo, infatti, l’unico habitat in grado di garantire loro sia alberi cavi sufficientemente grossi per la nidificazione, sia un’estensione del sottobosco ottimale per la caccia ai topi e ad altri piccoli mammiferi. L’areale di Strix occidentalis, compreso tra l’Oregon e lo Stato di Washington, è confinato in dodici parchi forestali nazionali. La controversia, scatenatasi all’inizio all’interno del Servizio Forestale degli Stati Uniti, si estese poi al grande pubblico. Da ultimo ha visto in campo da una parte i boscaioli, che volevano continuare ad abbattere l’antica foresta, e dall’altra gli ambientalisti, determinati a proteggere una specie in pericolo. Erano in gioco gli interessi dell’industria locale più importante, la posta finanziaria era altissima, e pertanto la diatriba ha assunto toni improntati all’emotività. I boscaioli: «Davvero ci si chiede di sacrificare migliaia di posti di lavoro per qualche uccello?». E gli ambientalisti, di rimando: «Davvero dobbiamo privare le generazioni future di una specie di uccelli in cambio di qualche anno in più di legname?». Nel subbuglio generale, si perse di vista il destino dell’habitat nel suo complesso, una foresta di conifere antiche comprendente migliaia di specie vegetali, di specie animali e di microrganismi, molte delle quali non ancora studiate e classificate. Tra esse ve ne sono tre, rare, di anfibi e cioè la rana Ascaphus truci, due salamandre, cioè Plethodon elongatus e Rhyacotriton olympicus, nonché una specie di conifere arboree, il tasso Taxus brevifolia, da cui si ricava il taxolo, una delle più potenti sostanze anticancerogene scoperte finora. Il dibattito, comunque, dovrebbe correre su altri binari: quali scoperte ci attendono ancora nelle antiche foreste del nordovest? Il taglio delle foreste primigenie e altri disastri ancora, alimentati dai bisogni di una popolazione umana in crescita continua, rappresentano una minaccia incombente sulla diversità biologica in tutto il pianeta. E i dati che ci portano a questa conclusione, derivanti soprattutto dai vertebrati e dalle piante, danno soltanto una pallida

immagine della gravità della situazione. Gli organismi di maggiori dimensioni sono i più esposti all’estinzione «da fucilata», e cioè all’estinzione causata da un’eccessiva pressione venatoria e dall’introduzione di organismi antagonisti. Queste specie sono di grande importanza immediata per l’uomo, che quindi riserva loro gran parte delle sue attenzioni malefiche. La gente va a caccia di cervi o di piccioni, e non di ragni o di isopodi; si fa strada nella foresta per impadronirsi di abeti di Douglas, e non di muschi e funghi. Nel mondo, sono pochi gli habitat che, pur occupando un solo chilometro quadrato, contengono meno di un migliaio di specie tra piante e animali. In un solo appezzamento di foresta pluviale o di barriera corallina, per quanto ridotto solo a una parvenza di ciò che era, si possono trovare decine di migliaia di specie. Ma quando a essere distrutto è l’intero habitat, con esso vengono colpite anche quasi tutte le specie. Non scompaiono solo le aquile o i panda, ma anche gli organismi più piccoli e non ancora censiti, come invertebrati, alghe e funghi, vale a dire gli attori invisibili che costituiscono le fondamenta degli ecosistemi. I conservazionisti ora in genere riconoscono la differenza tra una fucilata e un olocausto, e danno grande importanza alla conservazione degli interi habitat e non solo delle specie «carismatiche» in essi presenti. Sono scomodamente consapevoli che gli ultimi branchi di rinoceronti di Giava (Rhinoceros sondaicus) non possono essere salvati se quel poco che resta delle foreste in cui vivono verrà abbattuto, che le arpie (Harpia harpyja) hanno bisogno di ogni pezzettino di foresta pluviale che possa essere risparmiato dall’azione delle seghe a motore. La relazione è reciproca: quando specie carismatiche come il rinoceronte e le arpie sono protette, fungono da scudo per tutte le forme di vita che le circondano. Pertanto, alle specie minacciate e a quelle in pericolo bisogna aggiungere un elenco sempre più lungo di interi ecosistemi, che comprendono frotte intere di specie. Qui di seguito ne elenco alcuni che richiederebbero un interessamento immediato.

Foreste montane di Usambara, Tanzania. Site a varie quote e sottoposte a diversi regimi pluviali, le foreste di Usambara racchiudono una delle comunità biologiche più ricche dell’Africa orientale, garantendo protezione a un gran numero di piante e di animali altrove irreperibili. Ma la copertura forestale si sta deteriorando a vista d’occhio, tant’è che, dal 1954 al 1978, è stata ridotta a 450 chilometri quadrati, vale a dire alla metà della sua estensione originale. Lo sviluppo rapido delle popolazioni umane, il diboscamento più intenso e l’utilizzo della terra a scopo agricolo stanno spingendo verso l’estinzione le ultime riserve rimaste e con esse migliaia di specie. Montagna di San Bruno, California. Circondato dalla città di San Francisco, questo piccolo rifugio alberga un certo numero di specie ufficialmente protette di vertebrati, di piante e di insetti. Alcune specie sono endemiche della penisola di San Francisco, compresi la farfalla di San Bruno e il tamnofide, o serpente giarrettiera di San Francisco. La fauna e la flora autoctone sono minacciate dal traffico di veicoli fuoristrada, dall’ampliamento di una cava, e dall’invasione da parte di specie forestiere quali l’eucalipto, il ginestrone, e da altre specie estranee. Oasi della depressione del Mar Morto, Israele e Giordania. Si tratta dei ghors, rifugi umidi che, immersi in un’area spiccatamente desertica, sono sistemi tropicali isolati alimentati da sorgenti d’acqua dolce. Contengono sacche di antica fauna e flora africana, rimaste tagliate fuori dal territorio arido della Rift Valley del fiume Giordano. Specie che migliaia di chilometri più a sud si sviluppano in modo fiorente, qui trovano il loro corrispettivo, seppure limitatamente alle vicinanze dei ghors o perfino a sorgenti singole. Nel 1980, attraversai a piedi per gran parte della sua lunghezza Ein Gedi – uno di tali luoghi – camminando tra la rigogliosa vegetazione riparia, meravigliandomi della limpidezza dell’acqua del torrentello alimentato dalla sorgente, nonché della fauna di ciclidi endemici e della flora di alghe verde smeraldo. Ebbi modo di studiare le grosse formiche tessitrici che nidificano lungo le rive; uno spicchio d’Africa a un’ora di macchina

da Gerusalemme. Arrampicandomi per un centinaio di metri lontano dalla riva, mi ritrovai in pieno territorio desertico mediorientale. I ghors sono eccezionalmente interessanti da un punto di vista scientifico poiché pongono a stretto contatto una fauna di tipo africano con un altro gruppo di specie che, nel complesso, sono distribuite dall’Europa all’Asia temperata, attraverso il Medio Oriente. Su quelle oasi incombe la minaccia di un eccessivo sfruttamento da pascolo, minerario e commerciale. Alcune, addirittura, sono state trasformate, quasi a simbolo della situazione politica regionale, in campi minati. Se è vero che, quando si verifica il collasso di un habitat isolato, le specie subiscono un eccidio di massa, a maggior ragione queste muoiono in maniera ancor più catastrofica quando a venir cancellati sono interi ecosistemi. L’abbattimento del manto forestale di un rilievo montuoso delle Ande può portare a estinzione decine di specie; ma se vengono coinvolte tutte le catene montuose, allora il numero salirà a centinaia di migliaia. Nel 1988, Norman Myers ha battezzato queste aree di vasta estensione «hot spots», cioè zone ad altissimo rischio. Nel più ampio quadro del conservazionismo mondiale, tali luoghi costituiscono i casi che richiedono interventi d’emergenza, in quanto aree che contengono un gran numero di specie endemiche, e in quanto aree ad altissimo rischio; i loro habitat più vasti, infatti, sono stati ridotti al 10 per cento della loro estensione originale, o sono comunque destinati a subire tale tracollo nel giro di qualche decennio. Myers ha individuato diciotto aree di tale tipo. Benché, tutte assieme, occupino una piccolissima parte di spazio, appena lo 0,5 per cento della superficie terrestre, esse sono tuttavia dimora esclusiva di un quinto delle specie vegetali di tutto il mondo. Le zone ad altissimo rischio comprendono vaste distese di foreste e di arbusti di tipo mediterraneo, presenti su tutti i continenti tranne che in Antartide. Ciascuno di essi merita, qui, una speciale menzione. Provincia floristica della California. I botanici hanno individuato in questo territorio famoso, dal clima di tipo mediterraneo, che si

estende dall’Oregon meridionale alla Baja California, un centro evolutivo a sé stante e contenente un quarto delle specie vegetali di tutti gli Stati Uniti e del Canada messi assieme. Metà di queste, vale a dire 2140 specie, non si trovano in alcun altro luogo al mondo. Lo sviluppo agricolo e quello urbano stanno soffocando sempre più il loro ambiente, soprattutto lungo il tratto centrale e meridionale della costa californiana. Cile centrale. La vegetazione di tipo mediterraneo diffusa in Sudamerica – formata da 3000 specie, vale a dire poco più della metà della flora cilena – si trova concentrata in appena il 6 per cento del territorio nazionale. Le distese di vegetazione sopravvissute ammontano ad appena un terzo di quelle originarie, e purtroppo sono dislocate nella parte del paese più densamente popolata. Le pressioni maggiori sono quelle esercitate dai contadini, che sfruttano la vegetazione naturale come combustibile per uso domestico e come foraggio per gli animali. Chocò della Colombia. Le foreste delle pianure costiere e delle montagne più basse della Colombia si sviluppano lungo tutto il paese. La regione del Chocò, così chiamata dallo stato che ingloba, viene inzuppata ogni anno da una grande quantità di pioggia, ed è benedetta da una delle flore più ricche e meno esplorate del mondo. Attualmente, le specie note sono solo circa 3500, ma potrebbero esservene fino a un totale di 10.000, di cui un quarto endemiche, e una frazione minore, ma sostanziosa, di specie nuove per la scienza. Fin dai primi anni Settanta, il Chocò è stato occupato incessantemente dalle società commerciali per la lavorazione del legname e, in minor misura, dai colombiani poveri, avidi di terra. Oggi, le foreste sono ridotte a tre quarti della loro estensione originale e vengono distrutte a ritmo sempre più incalzante.

Le aree ad alto rischio sono habitat nei quali vivono specie endemiche in grave pericolo di

estinzione a causa dell’attività umana. Le diciotto aree ad alto rischio identificate in questa mappa sono foreste e macchie mediterranee abbastanza conosciute da poter essere incluse

con sicurezza. Tuttavia questa mappa, basata su uno studio preliminare, è lontana dall’essere completa. Esistono altri tipi di foresta, qui non illustrati, che sono ugualmente in pericolo,

come pure un gran numero di laghi, sistemi fluviali e barriere coralline. Le aree più vaste fra quelle disegnate sulla mappa, come ad esempio le foreste costiere del Brasile o delle

Filippine, sono in realtà costituite da molte aree ad alto rischio di minore estensione sparse su catene montuose, valli ed isole locali.

Ecuador occidentale. Le foreste umide delle pianure e delle aree pedemontane a ovest delle Ande, inclusa quella piccola parte che un tempo ammantava la cresta montuosa di Centinela, una volta

contenevano circa 10.000 specie vegetali. Di queste, un quarto erano endemiche, analogamente a quanto capita nella regione del Chocò, sita più a settentrione. Le foreste, davvero notevoli in quanto a ricchezza di orchidee e di altre epifite, sono state spazzate via quasi completamente. Esse costituiscono, come ha detto Myers, le zone da considerarsi in assoluto a più alto rischio. Ci si può fare un’idea dell’antica diversità biologica visitando il Centro Scientifico Rio Palenque, sito all’estremità meridionale dell’area, dove ancora sopravvive meno di un chilometro quadrato della foresta originaria. In questo frammento vi sono 1200 specie vegetali, il 25 per cento delle quali è endemico dell’Ecuador occidentale. Circa 100 di queste specie del Rio Palenque si sono rivelate nuove per la scienza; 43 sono presenti in un solo sito, e di alcune si conoscono solo pochi individui, se non addirittura un singolo esemplare. Nel parlare di queste e di altre specie, ridottesi a popolazioni troppo esigue per riprodursi, Daniel Janzen ha usato l’espressione «morti viventi». Altipiani dell’Amazzonia occidentale. L’estremità occidentale del bacino del Rio delle Amazzoni, che scende ad arco dalla Colombia alla Bolivia, racchiude quelle che alcuni biologi ritengono essere la fauna e la flora più vaste del mondo. Al suo interno, la zona a sua volta più ricca di endemismi è quella degli altipiani, formanti una fascia ampia 50 chilometri e oscillante tra i 500 e i 1500 metri di altitudine lungo i pendii delle Ande. In corrispondenza di singole creste montuose, poi, vi sono concentramenti di piante e animali unici, non ancora studiati. Gli altipiani amazzonici, così come il fianco occidentale delle Ande tra la Colombia e l’Ecuador, sono in fase di rapida occupazione da parte dell’uomo. Nel solo settore ecuadoriano, la popolazione è cresciuta negli ultimi quarant’anni da 45.000 a 300.000 unità. Circa il 65 per cento delle foreste degli altipiani sono già state spazzate via, oppure convertite in piantagioni di palma da olio. Le proiezioni prevedono che nel 2000 la perdita si avvicinerà al 90 per cento.

Più del 90 per cento delle foreste dell’Ecuador occidentale sono state distrutte nel corso degli ultimi cinquant’anni. Si stima che tale perdita abbia portato, o comunque condannato,

all’estinzione metà delle specie vegetali e animali presenti in origine nella regione. Nel mondo vengono sottoposte ad assalti simili molte altre aree ricche di biodiversità.

Costa atlantica del Brasile. Una volta, da Recife, a nord, giù fino a

Florianopolis, passando per Rio de Janeiro, si stendeva una foresta pluviale unica al mondo. Il giovane Charles Darwin ebbe a scriverne: «Rampicanti che si intrecciano a rampicanti – come chiome intrecciate – lepidotteri bellissimi – silenzio – osanna – un ottimo esempio di silenzio – alberi maestosi… Meraviglia, stupore e sublime devozione pervadono e innalzano lo spirito». Era il 1832, quando, naturalista di bordo del Beagle, Darwin mise piede per la prima volta in Sudamerica e annotò le sue impressioni in un taccuino. Le foreste atlantiche in origine si estendevano per circa un milione di chilometri quadrati. Isolate geograficamente dalle foreste amazzoniche settentrionali e occidentali, ospitano le comunità biologiche più tipiche e varie del mondo. Ma la costa sudatlantica del Brasile è anche la zona più produttiva dal punto di vista agricolo e la più densamente abitata. Le foreste sono state ridotte a meno del 5 per cento della copertura originale, e quella percentuale sopravvive soprattutto all’interno di regioni caratterizzate da impervie montagne. Buona parte di quelle vestigia è stata protetta grazie alla creazione di parchi e di riserve, quasi a voler garantire alle generazioni future la possibilità di dare un’ultima occhiata al paradiso terrestre. Costa d’Avorio sudoccidentale. La torreggiante foresta pluviale della Costa d’Avorio e delle zone adiacenti della Liberia costituisce una provincia botanica a sé stante dell’Africa occidentale, una volta estesa per 160.000 chilometri quadrati. L’abbattimento incontrollato degli alberi e l’agricoltura basata sulla tecnica dell’abbattimento forestale e dell’incendio l’hanno oggi ridotta a 16.000 chilometri quadrati. A loro volta, questi avanzi vengono abbattuti al ritmo di 2000 chilometri quadrati all’anno. L’unica area protetta è il Parco Nazionale di Taï, di 3300 chilometri quadrati, e perfino questa riserva solitaria soggiace alla pressione del diboscamento illegale e delle prospezioni aurifere. Foreste dell’arco orientale della Tanzania. La foresta di Usambara, precedentemente già descritta, è uno dei nove settori forestali montani che si dipanano attraverso la Tanzania orientale. Rimasti in qualche misura isolati fin dall’epoca precedente la comparsa della specie umana, si tratta di habitat nei quali ha luogo un intenso processo evolutivo. Sono il luogo d’origine, per esempio, di 18 delle

20 specie note di violette africane, e di 16 specie selvatiche di caffè. Le foreste sono state ridotte a meno della metà della loro superficie originaria, e sono in fase di ulteriore, rapida contrazione a causa delle incursioni da parte della popolazione tanzaniana, in fase di esplosione demografica. Provincia floristica del Capo, Sudafrica. All’estremo meridionale dell’Africa si trova una brughiera particolare, chiamata fynbos, illeggiadrita da una flora tra le più insolite e varie del mondo. Infatti, sulla superficie rimasta, pari a 89.000 chilometri quadrati, si trovano 8600 specie vegetali, il 73 per cento delle quali non esiste in alcun altro luogo al mondo. Un terzo del fynbos è stato perso a causa dell’agricoltura, dello sviluppo, e dell’immissione di specie vegetali estranee. Il resto sta subendo un processo veloce di frammentazione e di degrado. Gran parte delle specie autoctone si trovano solo in alcune zone di un chilometro quadrato, o anche meno, di superficie. Si sa per certo che 26 specie si sono già estinte, e che altre 1500 sono rare o minacciate, per un numero totale che supera l’intera flora delle isole britanniche. Se non si metterà mano rapidamente ai provvedimenti del caso, il Sudafrica perderà vasta parte del suo più grande patrimonio naturale. Madagascar. Il Madagascar, il territorio più isolato tra le grandi isole del mondo, possiede una fauna e una flora che si sono evolute indipendentemente e in pari misura: 30 primati, tutti appartenenti ai lemuri; rettili e anfibi endemici al 90 per cento, inclusi due terzi dei camaleonti di tutto il mondo; 10.000 specie vegetali, di cui l’80 per cento endemiche, e comprendenti un migliaio di specie di orchidee. La popolazione malgascia, molto povera ma in fase di sviluppo demografico, ha praticato in modo massiccio un’agricoltura basata sul taglio e l’incendio di foreste pluviali sorte su suoli poveri. In tal modo sono state aperte delle vie di penetrazione e si è distrutto uno degli ambienti di maggior valore del mondo intero. Nel 1985, la foresta ancora integra ammontava a un terzo di quella incontrata dai primi colonizzatori giunti sull’isola quindici secoli fa. La velocità delle distruzioni, che ha subito un’impennata a partire dagli anni Cinquanta, continua a crescere assieme alla popolazione.

Fascia inferiore delle pendici dell’Himalaya. Una corona di lussureggianti foreste montane circonda i margini meridionali e orientali himalayani, partendo dal Sikkim, nell’India settentrionale, e attraverso il Nepal e il Bhutan fino alle province occidentali della Cina. Contiene una complessa congerie di specie tropicali di origine meridionale e di specie dei climi temperati provenienti dal settentrione. Una serie apparentemente senza fine di valli e di creste montuose ripide e affilate come lame di coltello frantuma la fauna e la flora in tanti raggruppamenti locali che, tanto per fare un esempio, contengono 9000 specie vegetali, il 39 per cento delle quali si trova solo in questa regione. L’estensione originale della foresta assommava a circa 340.000 chilometri quadrati. Ma queste foreste, che si trovano nei pressi o all’interno di una delle regioni più popolate del mondo, si sono ridotte di due terzi, e stanno scomparendo rapidamente a causa dell’abbattimento incontrollato e della conversione del territorio a uso agricolo. Ghats occidentale, India. Lungo il versante del Ghats occidentale, la catena montuosa che si snoda per tutta la lunghezza della penisola indiana, rivolto verso il mare, si trova una zona di foreste tropicali che copre un’area di 17.000 chilometri quadrati e che alberga 4000 specie di piante, il 40 per cento delle quali endemiche. La pressione esercitata dalle popolazioni locali in fase di espansione è intensa, e l’abbattimento degli alberi per le forniture di legname e a favore dell’agricoltura è stato rapido. Circa un terzo della foresta è già andato distrutto, e la parte rimanente sta subendo la stessa sorte a un ritmo del 2-3 per cento l’anno. Sri Lanka. Le foreste pluviali di quest’isola sita al largo dell’estremità meridionale dell’India costituiscono il relitto di una provincia floristica antica e in gran parte scomparsa che una volta ricopriva tutta la penisola indiana. Gli stessi resti che oggi si trovano nello Sri Lanka comprendono un migliaio di specie delle quali la metà sono endemiche. A causa della densità di popolazione di 260 persone per chilometro quadrato e della forte richiesta di terra coltivabile e di legname, la copertura forestale è stata ridotta a poco meno del 10 per cento della sua estensione originaria. Gran parte della foresta

primigenia è limitata a un tratto di 56 chilometri quadrati della foresta di Sinharaja, sita vicino al settore sudoccidentale dell’isola. La situazione è resa ancor peggiore dal fatto che le popolazioni locali dipendono per la loro sopravvivenza da colture mobili e da prodotti della foresta. Malesia peninsulare. Questo territorio era un tempo ricoperto quasi completamente dalla foresta tropicale. Comprendeva almeno 8500 specie vegetali, circa un terzo delle quali erano endemiche. Verso la metà degli anni Ottanta, metà della foresta se ne era già andata, e quasi tutto il settore di pianura, che era il più ricco di forme viventi, si presentava già danneggiato in vario grado. Circa la metà delle specie arboree endemiche rientrano ora tra quelle in pericolo o estinte. Borneo nordoccidentale. Nei tempi andati, il Borneo era tradizionalmente il sinonimo perfetto di giungla vergine, un’immagine che, oggi, si è notevolmente appannata. La foresta sta subendo una devastazione veloce, e molte delle 11.000 specie arboree e delle innumerevoli specie animali ivi presenti sono sotto assedio. Il terzo settentrionale dell’isola – dove la biodiversità è maggiore e gli endemismi vegetali si aggirano attorno al 40 per cento – è stato estesamente diboscato per ricavarne legname. Nello Stato del Sarawak, facente parte della Malesia, la copertura forestale è stata ridotta circa della metà, e quasi tutta la parte rimanente è stata messa in mano all’industria del legname. Filippine. Nazione-arcipelago, le Filippine sono sull’orlo di un completo collasso della biodiversità. Separate dal continente asiatico, eppure abbastanza vicine all’Indonesia da poter accogliere piante e animali colonizzatori, frammentate in 7100 isole secondo uno schema che sembra fatto apposta per facilitare la formazione di specie, sulle Filippine si è evoluta una fauna molto vasta e una flora con alto livello di endemicità. Negli ultimi cinquant’anni sono stati abbattuti i due terzi delle foreste, e dell’originaria copertura arborea delle pianure sono stati risparmiati solo 8000 chilometri quadrati. Lo sfruttamento intensivo del legname è stato praticato di isola in isola

fino a quando non è diventato antieconomico, dopo di che è stato seguito a ruota da insediamenti agricoli. Ciò che resta delle foreste degli altipiani è in pericolo a causa della domanda crescente di terra da parte della popolazione in fase di crescita numerica. C’è in programma di costituire riserve per 6450 chilometri quadrati, pari al 2 per cento del territorio nazionale. Anche nel migliore dei casi, le perdite saranno pesantissime. Nel momento in cui scrivo, l’aquila delle scimmie (Pithecophaga jefferyi), maestoso simbolo della fauna nazionale, è ridotta a 200 esemplari, e forse anche meno. Nuova Caledonia. È la mia isola preferita: abbastanza lontana dalla costa orientale dell’Australia per avere una fauna e una flora proprie; vasta a sufficienza per ospitare un numero notevole di ammali e di piante; e vicina agli arcipelaghi settentrionali della Melanesia quanto basta per aver ricevuto elementi da quella diversa regione biogeografica. Per il naturalista, la Nuova Caledonia è un crogiolo e un luogo in cui aleggia il mistero. Ho trascorso uno dei più bei giorni della mia vita quando mi sono arrampicato sul monte Mou e ho poi camminato lungo il crinale, immerso in una foresta di araucaria circondata dalla nebbia, nella quale mi sono imbattuto in una comunità biologica locale pura, composta completamente di specie che non avevo mai visto prima. Le foreste della Nuova Caledonia contengono 1575 specie vegetali, l’89 per cento delle quali endemiche. Gli abitanti dell’isola, compresi i coloni francesi, hanno depauperato l’ambiente con l’incuria, l’abbattimento degli alberi, l’attività mineraria, e con incendi del sottobosco che spingono sempre più verso l’interno il limite delle boscaglie. Attualmente sopravvivono meno di 1500 chilometri quadrati di foresta vergine, pari a una copertura del 9 per cento dell’isola. Per vedere come era la Nuova Caledonia di una volta, bisogna arrampicarsi su fianchi di montagne troppo remote o troppo scoscese perché i boscaioli possano diboscarle. Australia sudoccidentale. La vasta brughiera che si stende a ovest della pianura di Nullarbor si è evoluta in un clima di tipo mediterraneo e in una situazione di isolamento simile a quella dei fynbos sudafricani. La somiglianza con questi è dovuta anche

all’aspetto fisico, nonché al livello di biodiversità, che in questa parte dell’Australia si traduce in 3630 specie vegetali, il 78 per cento delle quali sono endemiche. Nel 1955, all’epoca della mia visita in quei luoghi, l’ambiente era ancora quasi vergine. Vi erano numerosi luoghi dove, stando in piedi nel bel mezzo della macchia di arbusti alti fino alla vita, l’orizzonte appariva integro in tutte le direzioni. In primavera, la profusione di fiori sbocciati era uno splendore. Da allora, l’estensione del manto vegetale è stata dimezzata dalla conversione dei terreni a uso agricolo, ed è tuttora in via di riduzione a causa delle attività minerarie, dell’invasione da parte di arbusti esotici, e di frequenti incendi incontrollati. La situazione è a un punto tale che oggi un quarto delle specie rientra fra quelle rare o minacciate. Ho fin qui elencato le diciotto aree a più alto rischio, ma l’elenco non è terminato. Le regioni forestali hanno altri candidati, tra cui le foreste pluviali del Messico, del Centroamerica, delle Indie Occidentali, della Liberia, del Queensland e delle Hawaii. Non solo, ma anche tutta una schiera di habitat completamente diversi: i grandi laghi dell’Africa orientale e il loro corrispondente in Siberia, il lago Bajkal; poi, in pratica, tutte quelle reti idrografiche che, nel mondo, si sviluppano vicino a regioni popolose, dal Tennessee al Gange, per non parlare di alcuni immissari del Rio delle Amazzoni; e ancora, il mar Baltico e il lago d’Aral, quest’ultimo avviato a morire non solo come ecosistema, ma come corpo idrico tout court; infine, una miriade di tratti isolati, tutti ricchi di specie, di foreste tropicali caducifoglie, di praterie e di deserti. E poi ci sono le barriere coralline, vere fortezze di biodiversità, ospitate nei mari tropicali poco profondi, che stanno soccombendo agli assalti congiunti dell’uomo e della natura. A giudicarle dall’aspetto, le barriere sembrerebbero immutabili, ma in realtà la loro composizione è in continuo cambiamento. Vittime dei capricci del clima e del tempo atmosferico, sono sempre andate soggette a fasi di avanzamento e di regressione locali. Ciclicamente, gli uragani provvedono a ridurre in macerie tratti di barriere caribiche, i quali, però, poi si riformano. Il fenomeno noto come El Niño, prodotto dal

riscaldamento delle correnti d’acqua del settore orientale del Pacifico equatoriale, è fonte di una diffusa mortalità. Nel 1982-83 ha raggiunto i valori più alti di questi ultimi due secoli, portando a un vero sterminio le formazioni coralline del Costa Rica, di Panama, della Colombia e dell’Ecuador. In circostanze normali, le barriere si riformano nel giro di qualche decina d’anni. Ma, oggigiorno, le aggressioni naturali vengono amplificate dall’attività umana, col risultato che il degrado delle barriere avanza inesorabilmente, senza possibilità di rigenerazione. In tutto il mondo, vi sono venti barriere coralline che stanno subendo questo tipo di attacco, distribuite tra le Florida Keys e le Indie Occidentali, tra il Golfo di Panama e le isole Galapagos, tra il Kenya e le Maldive, per giungere, verso est e attraverso la fascia asiatica tropicale, fino alla Grande barriera corallina australiana. In alcuni luoghi, la riduzione dell’estensione della barriera sfiora il 10 per cento. A Key Largo, in Florida, dove gran parte dei danni è stata inflitta a partire dagli anni Settanta, quel valore sale al 30 per cento. Le cause principali sono, senza che vi sia un particolare ordine d’importanza: l’inquinamento (il versamento a mare di petrolio avvenuto durante la Guerra del Golfo ne è un ottimo esempio), l’arenamento accidentale dei mercantili, il dragaggio, lo sfruttamento delle formazioni coralline, la pesca delle specie più appariscenti a scopo ornamentale o per le collezioni degli appassionati. Il declino delle barriere è stato accompagnato dalla decolorazione dei coralli. Tale perdita di pigmento è dovuta alla compromissione delle zooxantelle, le alghe monocellulari che vivono nei tessuti dei polipi dei coralli e che cedono a questi buona parte dell’energia fissata mediante la fotosintesi. Le alghe o vanno incontro a morte oppure perdono gran parte del pigmento fotosintetico contenuto nelle cellule. Simili a piante eziolate e rimaste nane perché cresciute al buio, i coralli sono malati proprio come suggerisce il loro aspetto e, a meno che il processo patologico non venga arrestato, muoiono. Lo sbiancamento è una reazione allo stress molto comune, dovuta sia a caldo o a freddo eccessivi, sia all’inquinamento chimico, o ancora alla diluizione dell’acqua marina con acqua dolce, insomma a tutta una

serie di fattori riconducibili all’azione dell’uomo. Durante gli anni Ottanta, il fenomeno dello sbiancamento dei coralli ha interessato gran parte dei tropici, e i mutamenti più rapidi si sono verificati molto spesso nei luoghi in cui l’aumento netto della temperatura dell’acqua è stato rilevante. Secondo le stime compiute, se la temperatura delle acque tropicali poco profonde dovesse aumentare nel corso del prossimo secolo di uno o due gradi centigradi, si estinguerebbero molte specie coralline (durante il solo episodio di El Niño dell’82-83, nel Pacifico orientale ne sono andate perse tre) e addirittura potrebbero estinguersi intere barriere coralline. Può darsi, quindi, che lo sbiancamento verificatosi nel corso dell’ultimo decennio non sia che il primo passo verso la catastrofe – possibile, ma non ancora sicura – preannunciata dal tasso crescente di anidride carbonica nell’atmosfera. Lo sbiancamento dei coralli avvenuto negli anni Ottanta si è verificato in alcune località del mondo, e in altre no. In attesa di ulteriori sviluppi, i biologi marini sono propensi a credere che i pericoli maggiori e più immediati non vengano tanto dalla tendenza a un riscaldamento generale del clima mondiale, quanto dai danni di tipo fisico e dall’inquinamento. Per molti ecosistemi, il pericolo insito nel cambiamento del clima si profila nei decenni a venire, ed è pertanto di quelli a lungo termine. Qualora le proiezioni che puntano verso il rialzo termico del pianeta, anche le più prudenti, si dimostrassero fondate, la fauna e la flora mondiali si ritroverebbero chiuse in una morsa. Già da adesso, da un lato vengono ridotte velocemente di numero dalla deforestazione e da altre forme dirette di distruzione dell’habitat. Dall’altro, sono minacciate dal cosiddetto effetto serra. Se il fattore più distruttivo per i biota tropicali è costituito dalla perdita di habitat terrestri, il riscaldamento climatico costituirà invece l’elemento di maggior danno per i biota delle regioni temperato-fredde e polari. Addirittura, si ritiene possibile che la variazione climatica proceda verso i poli alla velocità di cento e più chilometri al secolo, vale a dire circa un metro al giorno. Di quel passo, le riserve naturali esistenti rimarrebbero intrappolate nelle fasce a clima più caldo, e molte specie animali e vegetali semplicemente non ce la farebbero ad abbandonarle e a

sopravvivere. I resti fossili avvalorano questa previsione di dispersione limitata. Novemila anni fa, quando l’ultima calotta glaciale si ritirò dal Nordamerica, l’abete riuscì ad avanzare a una velocità di 200 chilometri per secolo, ma le altre specie arboree si limitarono a più modesti 10-40 chilometri. Questo episodio del passato indica quindi che, se non si opereranno dei trapianti di interi ecosistemi, molte migliaia di specie autoctone un giorno si troveranno probabilmente allo sbaraglio. Quante di esse, non avendo potuto migrare tempestivamente verso nord, saranno in grado di adattarsi ai cambiamenti del clima, e quante si estingueranno? Nessuno può dirlo. Da quanto fin qui esposto, sembra che gli organismi della tundra e dei mari polari, anche in caso di aumento modesto della temperatura, non abbiano luogo alcuno dove rifugiarsi; il Polo Nord e il Polo Sud sono infatti i capolinea. Tutte le specie delle alte latitudini, in altri termini, dal lichene Cladonia rangiferina agli orsi polari, rischiano l’estinzione. In un altro teatro – quelle aree costiere che, estese a livello del mare, verranno inondate il giorno in cui tale livello crescerà in concomitanza con la fusione delle calotte polari – vive oggi, a tutte le latitudini, un gran numero di specie. Le stime fatte suggeriscono un innalzamento del livello compreso tra mezzo metro e due metri. Negli Stati Uniti, quindi, la Florida sarà la regione colpita più duramente dal punto di vista biologico. Infatti, è li che vive oltre la metà degli animali rari e delle piante specializzatesi nella vita sulle estreme propaggini della terraferma. Nel Pacifico occidentale vi sono molti atolli, e perfino due piccole isole-stato – Kiribati e Tuvalu –, che finiranno in gran parte sommersi dal mare. Responsabile della crisi mondiale della biodiversità è il successo demografico della specie umana. Gli uomini – mammiferi appartenenti alla classe ponderale dei 50 chilogrammi, e membri del gruppo dei primati, altrimenti noti per la loro rarità – sono divenuti cento volte più numerosi di tutti gli altri animali terrestri di pari dimensioni comparsi nel corso della storia della vita. L’umanità è

un’entità ecologicamente anomala da qualunque punto di vista la si voglia considerare. La nostra specie si appropria dell’energia solare fissata nella materia organica dai vegetali in misura variabile dal 20 al 40 per cento del totale, e va da sé che è impossibile sfruttare le risorse del pianeta in tale misura senza che ciò incida in modo drasticamente riduttivo sulle condizioni di vita di quasi tutte le altre specie. C’è un’altra terribile asimmetria, cioè quella che collega la crescita della popolazione umana con la caduta della biodiversità: le nazioni più ricche sovrintendono alle comunità naturali più piccole e meno interessanti, mentre le più povere, gravate da popolazioni in fase di esplosione demografica e dalla scarsezza di conoscenze scientifiche, sono quelle che oggi come oggi amministrano i biota più vasti. Nel 1950, le nazioni industrializzate contavano un terzo della popolazione mondiale. Tale valore è sceso a un quarto nel 1985, e si prevede che si ridurrà ulteriormente a un sesto in capo al 2025, anno in cui la popolazione mondiale sarà aumentata del 60 per cento, toccando gli 8 miliardi. Non si può fare a meno di essere colpiti dal fatto che, ironicamente, se la tecnologia del diciannovesimo secolo fosse nata tra le foreste pluviali tropicali anziché tra i pini e le querce delle fasce temperate, oggi ci sarebbe da salvare davvero ben poca biodiversità. Ma quali sono le dimensioni esatte della crisi? Quante specie stanno scomparendo? I biologi non possono dare una risposta in termini assoluti; tanto per cominciare, non conoscono neppure in modo approssimativo quale sia il numero delle specie esistenti sulla Terra. Infatti, probabilmente solo al 10 per cento è stato già attribuito un nome scientifico. Inoltre, non siamo in grado di valutare la percentuale di quelle che si estinguono ogni anno in tutto il mondo e in ciascun habitat, ivi inclusi i deserti, le barriere coralline, le praterie alpine, poiché non sono stati compiuti gli studi necessari. Viceversa, si può trovare almeno un appiglio quando si considerino le foreste pluviali tropicali, che sono gli ambienti più ricchi in assoluto, e fare una stima approssimativa del tasso di estinzione delle loro specie. La cosa è possibile perché, grazie agli sforzi della Fao

(Food and Agriculture Organization) – ente delle Nazioni Unite – e grazie ad alcuni pionieri di queste ricerche, come Norman Myers, si è potuto accertare il tasso di distruzione delle foreste pluviali. Dalla quantificazione della perdita di superficie forestale è possibile dedurre il tasso di estinzione, o comunque di riduzione, delle varie specie. E, siccome le foreste tropicali contengono oltre la metà delle specie vegetali e animali del pianeta, le stime che le riguardano ci consentono di fare grosso modo una valutazione qualitativa della gravità della crisi generale della biodiversità. Prima di tentare di compiere tale calcolo, però, bisogna dire qualcosa delle capacità di rigenerazione delle foreste pluviali. Nonostante la loro ricchezza straordinaria, e nonostante la fama di cui godono per le loro esuberanti capacità di crescita (la giungla si reimpadronì velocemente dell’insediamento come se esso non fosse mai esistito), queste foreste sono anche uno degli habitat più fragili che esistano. Molti di essi crescono su «deserti bagnati», vale a dire su un basamento di terreno che, continuamente dilavato dagli acquazzoni tropicali, non promette nulla di buono. Due terzi dei suoli forestali mondiali sono composti da terre rosse e ocre gialle, tipicamente acide e povere di nutrienti. Le alte percentuali di ferro e di alluminio formano col fosforo composti chimici non solubili, determinando così la scarsa disponibilità per le piante di quest’ultimo elemento. Il calcio e il potassio vengono persi dal suolo non appena i loro composti vengono disciolti nell’acqua piovana, e solo una piccola percentuale dei sali minerali filtra nel suolo della foresta a profondità superiori a 5 centimetri. Nei 150 milioni di anni della loro esistenza, gli alberi della foresta pluviale si sono tuttavia evoluti sino a raggiungere diametri e altezze notevoli. Quasi tutto il carbonio e gran parte dei nutrienti dell’ecosistema sono sempre, in ogni momento, imprigionati nei tessuti viventi e nel legname morto della vegetazione. Pertanto, gli strati di detriti e di humus sul terreno sono, in molti casi, sottili tanto quanto in tutte le altre foreste del mondo. Qua e là, si intravedono delle chiazze di terreno scoperto. Dovunque ci si volga, si scorgono i segni della rapida decomposizione operata dalle termiti e dai funghi.

Quando la foresta viene tagliata e bruciata, la cenere e la vegetazione in decomposizione garantiscono al suolo un apporto di nutrienti sufficiente a sostenere, per due o tre anni, la crescita rigogliosa di erbe e di arbusti. Poi, la quantità di nutrienti cala a livelli troppo bassi per sostenere le coltivazioni di cereali e di foraggio. Gli agricoltori sono allora costretti a ricorrere ai fertilizzanti artificiali, oppure a spostarsi su un altro appezzamento di foresta pluviale, continuando con la tecnica del taglio e dell’incendio. La rigenerazione delle foreste pluviali è anche ostacolata dalla fragilità dei semi dei suoi alberi. Quelli della maggior parte delle specie germinano nel giro di pochi giorni o settimane. Gli animali e il flusso delle acque hanno poco tempo a disposizione per trasportarli in luoghi favorevoli alla loro germinazione. Molti di essi, quindi, germogliano e muoiono negli appezzamenti che l’abbattimento delle foreste ha lasciato sterili ed esposti al calore rovente del sole. I controlli eseguiti nei siti in cui l’uomo ha già operato l’abbattimento forestale indicano che la rigenerazione completa del manto forestale potrebbe richiedere anche secoli. Per esempio, nonostante la foresta di Angkor risalga al 1431, epoca alla quale i Khmer abbandonarono la loro capitale, essa è tuttora strutturalmente diversa dalle altre foreste più vecchie, presenti nella medesima regione. Il processo di rigenerazione delle foreste pluviali è di norma così lento, soprattutto a partire dal periodo in cui è comparsa in scena l’agricoltura, che è stato quasi impossibile formulare proiezioni circa la sua velocità. In alcune zone, dove ai danni maggiori si aggiunge la scarsa fertilità del suolo, e non vi sono nelle vicinanze foreste autoctone che forniscano semi, può darsi che il riformarsi delle foreste non sia attuabile se non mediante l’intervento umano. L’ecologia delle foreste pluviali è in netto contrasto con quella delle foreste e delle praterie tipiche dei climi temperati settentrionali. Nel Nordamerica e nell’Eurasia, la materia organica non è immobilizzata in modo così completo nella vegetazione vivente. Gran parte di essa giace relativamente inutilizzata nello spesso strato di detriti e di humus del suolo. I semi sono più resistenti agli stress e sono in grado di rimanere quiescenti per lunghi periodi, fino a quando, cioè, non si

instaurino le condizioni di temperatura e di umidità più favorevoli. Ecco perché è possibile tagliare e bruciare grandi appezzamenti di foresta e di prateria, allevare bestiame, coltivare raccolti per anni e anni, e poi assistere, nel giro di un solo secolo da che quel territorio è stato abbandonato a se stesso, al ritorno quasi completo della vegetazione originaria. Insomma, l’Ohio non è l’Amazzonia. Si può dire che, su scala planetaria, il nord sia più fortunato del sud. Nel 1979, le foreste pluviali tropicali erano ridotte al 56 per cento della loro estensione preistorica. Rilevamenti eseguiti da satellite, come pure da bassa quota e sul campo, svelarono come la percentuale rimasta, assieme alle meno estese foreste monsoniche, venisse rimossa al ritmo di circa 75.000 chilometri quadrati all’anno, pari all’ 1 per cento del suo totale. Per rimozione si intende la distruzione totale della foresta, quella che lascia in piedi solo qualche albero sparuto, o comunque una condizione di degrado così grave da determinare la morte di quasi tutti gli alberi nel giro di poco tempo. Le cause principali della deforestazione continuano a essere l’agricoltura su piccola scala, e soprattutto la coltivazione che, basata sulla tecnica dell’abbattimento e dell’incendio, favorisce gli insediamenti stabili a scopo agricolo. Meno dannose, ma non di molto, sono le attività commerciali di sfruttamento del legname e di allevamento degli animali da pascolo. Nel corso degli anni Ottanta, il tasso di deforestazione è cresciuto dovunque, ma nell’Amazzonia brasiliana ha raggiunto proporzioni tragiche. Lì, tradizionalmente si distinguono tre stagioni: quella secca, quella delle piogge, e quella dei queimadas, degli incendi. Durante quest’ultimo breve periodo, eserciti di piccoli proprietari terrieri e di peones assoldati dai latifondisti hanno continuato ad appiccare il fuoco per ripulire il terreno dagli alberi morti e dagli arbusti. Nel 1987, nel giro di quattro mesi, da luglio a ottobre, sono stati incendiati 50.000 chilometri quadrati di territorio appartenente a quattro stati della regione amazzonica: l’Acre, il Mato Grosso, il Parà e quello di Rondonia. L’anno dopo è stata distrutta un’analoga quantità di foresta. La deforestazione era stata preceduta dalla costruzione di strade finanziata dal governo e dalla politica degli

insediamenti, anch’essa voluta dal governo. In tal modo, si sono raggiunte vette catastrofiche di distruzione, con effetti risentiti anche all’esterno di tali aree, in gran parte del Brasile. «Di notte, tra il rombo e i bagliori rossi delle fiamme», ha scritto la giornalista Marlise Simons, «sembra che nella foresta sia scoppiata una guerra.» Secondo il rapporto dell’Institute for Space Research «il denso fumo prodotto dagli incendi amazzonici all’apice della stagione è diffuso su milioni di chilometri quadrati, procurando problemi di salute alle popolazioni, determinando la chiusura degli aeroporti, ostacolando il traffico aereo, causando vari incidenti sulle vie fluviali e sulle strade, e determinando un inquinamento generalizzato dell’atmosfera». In effetti, quello che si determina è un inquinamento a livello planetario. Gli incendi brasiliani hanno generato anidride carbonica per un totale di 500 milioni di tonnellate di carbonio, 44 milioni di tonnellate di monossido di carbonio, più di 6 milioni di tonnellate di particelle sospese, e 1 milione di tonnellate tra ossidi d’azoto e altri inquinanti. Molto di quel materiale ha raggiunto gli strati superiori dell’atmosfera e si è trasferito verso est, in forma di pennacchio, attraverso l’Atlantico. Nel 1989, le foreste pluviali tropicali del mondo erano ridotte a circa 8 milioni di chilometri quadrati, vale a dire poco meno della metà della loro superficie nei tempi preistorici, e venivano distrutte a un ritmo di 142.000 chilometri quadrati all’anno, pari a una percentuale dell’1,8 per cento della copertura esistente, cioè il doppio di quella del 1979. In altri termini, ogni secondo scompare una superficie forestale vasta quanto un campo di calcio. Detto in altre parole, nel 1989, le foreste pluviali sopravvissute occupavano una superficie pari a quella dei quarantotto stati contigui degli USA, e ogni anno veniva distrutta una superficie forestale pari alla Florida. Che impatto ha, questo genere di distruzione, sulla biodiversità delle foreste tropicali? Per ipotizzare quale sia ragionevolmente il tasso minimo di specie passibili di estinzione, mi servirò di ciò che sappiamo circa il rapporto esistente fra area degli habitat e numero delle specie che li popolano. Modelli di questo tipo sono normalmente utilizzati in ambito scientifico quando non è possibile eseguire

misurazioni dirette: essi sono in grado di fornire, quanto meno, valori approssimati da migliorare poi in fasi successive, via via che aumenta la mole di dati a disposizione e che si formulano modelli sempre più particolareggiati. Il primo di tali modelli è basato sulla curva areaspecie di cui abbiamo già parlato, S = CAZ, dove S è il numero delle specie, A l’area all’interno della quale esse vivono, e C e z due costanti che variano da un gruppo di organismi all’altro, e da un luogo all’altro. Allo scopo di calcolare il tasso di estinzione delle specie, C può essere trascurato, poiché è z il coefficiente che conta. Nella maggioranza dei casi, il parametro z varia da 0,15 e 0,35, dipendendo il suo esatto valore dal tipo di organismo considerato e dall’habitat nel quale vive. In particolare, il suo valore sarà basso quando la specie ha buone capacità di dispersione, come nel caso degli uccelli. Sarà invece alto per organismi quali gasteropodi terrestri e orchidee. Quanto più alto è il valore di z, tanto più è probabile che il numero delle specie si riduca in concomitanza con il restringimento dell’area. «Probabile», ho detto: infatti, se è vero che, quando una foresta viene ridotta o quando un lago viene parzialmente prosciugato, alcune specie scompaiono, è altrettanto vero che altre specie declinano più lentamente e resistono per un po’, prima di estinguersi del tutto. Con linguaggio più appropriato diciamo che, quando si riduce l’area, il tasso d’estinzione aumenta e si mantiene al di sopra del livello originale fino a che il numero delle specie non diminuisce raggiungendo un nuovo equilibrio a un livello inferiore. La regola empirica, tanto per chiarire subito il risultato, dice che quando l’area viene ridotta a un decimo del suo valore originario, il numero delle specie si riduce a metà. Il che corrisponde a un valore di z pari a 0,30, molto vicino a quello spesso riscontrato in natura. Nel 1989, l’area totale delle foreste pluviali stava diminuendo in misura dell’1,8 per cento all’anno, tasso che, presumibilmente, si è mantenuto costante anche nei primi anni Novanta. Attribuendo a z. il valore più probabile, vale a dire appunto 0,30, la riduzione annuale di superficie forestale dovrebbe comportare un calo nel numero di specie pari allo 0,54 per cento. Proviamo ora a individuare

l’intervallo di valori del tasso di estinzione di molti organismi stimandone i valori massimi e minimi possibili. Quando z = 0,15 il tasso d’estinzione è pari a 0,27 per cento all’anno; quando z raggiunge il valore più alto, 0,35, il tasso di estinzione sale a 0,63. Quindi, in modo molto approssimativo: la riduzione dell’area delle foreste pluviali tropicali, al tasso attuale, implica l’estinzione annuale, o quanto meno la condanna all’estinzione, di circa lo 0,5 per cento delle specie della foresta. Più esattamente, i gruppi caratterizzati da un basso valore di z saranno colpiti in misura minore di quelli con un valore alto. Se la maggior parte dei gruppi hanno bassi valori di z, il tasso complessivo di estinzione sarà prossimo a 0,27; se, invece, avrà alti valori di z, allora il tasso tenderà a 0,63. Attualmente non disponiamo di dati sufficienti per azzardare a quale livello si situi il valore reale complessivo del parametro z. Se la distruzione delle foreste pluviali proseguirà al ritmo attuale, in capo al 2022 se ne andrà metà di quelle fin qui rimaste. L’estinzione totale delle specie che ne seguirà ammonterà a un valore compreso tra il 10 per cento (per un valore di z pari a 0,15) e il 22 per cento (per un valore di z pari a 0,35). Il «tipico» valore intermedio di z – 0,30 – comporterebbe in quello stesso arco di tempo un’estinzione del 19 per cento. Grosso modo, quindi, se la deforestazione proseguirà per altri trent’anni al ritmo attuale, scomparirà da un decimo a un quarto delle specie delle foreste pluviali. E se è vero che le foreste pluviali sono ricche di diversità biologica nella misura ritenuta dai biologi, allora, in quei trent’anni, verrà eliminato qualcosa come il 5-10 per cento – e forse anche più – di tutte le specie presenti sul nostro pianeta. Se a questo sommiamo gli altri habitat ricchi di specie e in fase di declino – praterie alpine, foreste monsoniche, laghi, fiumi, barriere coralline – il conto aumenta vertiginosamente. La relazione tra area e numero di specie spiega in gran parte, ma non completamente, l’estinzione. Quindi, c’è bisogno di un altro modello. Via via che vengono abbattuti gli ultimi alberi e che gli ultimi appezzamenti di foresta vengono trasformati in terreni da pascolo o da semina, la curva area-superficie si discosta dalla retta

estrapolata e precipita a zero. Fino a quando da qualche parte della terra sopravvivrà un fazzoletto di foresta, che so, su una cresta montuosa dell’Ecuador, vi sarà un certo numero di specie che seppur ridotte a piccole popolazioni terrà duro. Alcune di esse potrebbero essere portate sul ciglio dell’estinzione, salvo che non si facciano sforzi eroici per coltivarle e trapiantarle da qualche altra parte. Ma, almeno per il momento, terrebbero duro. Quando anche l’ultimo francobollo di foresta, o di qualunque altro tipo di habitat, viene ridotto dall’1 per cento a zero, un gran numero di specie perisce all’istante. È, questa, la situazione che affligge intere legioni di Centinela in tutto il mondo, le cui estinzioni silenziose si verificano nel momento stesso in cui cadono gli ultimi alberi. Quando Cebu, una delle isole dell’arcipelago delle Filippine, fu completamente diboscata, nove delle dieci specie endemiche di uccelli si estinsero, e la decima è in procinto di raggiungerle. Noi non siamo in grado di estrapolare, a partire da queste estinzioni in massa su piccola scala, quale potrebbe essere l’ammontare della perdita a livello mondiale. Ma una cosa è certa: siccome tali estinzioni avvengono, allora la stima dei tassi globali di estinzione – stima basata esclusivamente sulla curva areaspecie – deve considerarsi approssimata per difetto. Si consideri l’impatto derivante dalla cancellazione delle ultime centinaia di chilometri quadrati di foreste rimaste: in molti casi, sparirebbe più della metà delle specie originarie. E se dette foreste fossero rifugio di specie non esistenti altrove – caso, questo, valido per molti animali e piante delle foreste pluviali – la perdita in biodiversità sarebbe immensa. L’idea di un mondo disseminato di olocausti in miniatura può essere ampliata. Si consideri il caso estremo, affatto immaginario, nel quale tutte le specie abitanti le foreste pluviali abbiano distribuzione circoscritta e limitata a pochi chilometri quadrati, come è per le piante endemiche della foresta di Centinela. Via via che si abbatte la foresta, la perdita percentuale di specie si avvicina, senza mai raggiungerla, alla perdita percentuale di superficie forestale. Nei successivi trent’anni, il mondo non solo perderebbe metà della sua copertura forestale, ma anche circa la metà delle specie che la

abitano. Per fortuna, questa è un’ipotesi un po’ esagerata. Infatti, alcune delle specie animali e vegetali che abitano nelle foreste pluviali hanno ampia distribuzione geografica. Pertanto, il tasso di estinzione specifica è inferiore alla riduzione della superficie. Ne segue che la perdita di specie implicata dal dimezzamento della superficie forestale sarà superiore al 10 per cento e inferiore al 50 per cento. Ma si noti che tale intervallo di percentuali corrisponde alla perdita attesa in base al solo effetto area, e rappresenta quindi ancora una stima per difetto. Alcune specie che vivono negli appezzamenti forestali residui scompariranno anche a causa di quella che abbiamo definito «estinzione a fucilate», vale a dire l’estinzione causata, come nel caso dell’ara di Spix e del vischio della Nuova Zelanda, da un’eccessiva pressione venatoria nei confronti di animali e di vegetali rari. Altre specie verranno cancellate da nuove malattie, da vegetali alloctoni, e da animali come topi e maiali rinselvatichiti. Le perdite secondarie verranno ulteriormente intensificate via via che gli appezzamenti si restringeranno sempre più e saranno quindi sempre più aperti alle intrusioni umane. Nessuno ha idea di quale sia la potenza distruttiva derivante dalla combinazione di queste forze. L’unico valore che si può fornire con sicurezza, nel caso delle foreste pluviali, è quello minimo, pari al 10 per cento per un dimezzamento della superficie. Tuttavia, a causa del prevalere di valori di z generalmente più alti, e a causa di quei fattori capaci di portare le specie all’estinzione e che ancora non abbiamo misurato, il valore reale potrebbe raggiungere il 20 per cento in capo al 2022, e toccare in seguito, o superare, il 50 per cento. Se la distruzione dell’ambiente proseguirà al ritmo attuale, l’ipotesi di un’estinzione del 20 per cento della biodiversità globale, che comprendesse tutti gli habitat, è un’ipotesi molto realistica. A che velocità si sta riducendo la biodiversità? I dati più certi che ho finora fornito sono le stime delle estinzioni delle specie che alla fine si verificheranno, qualora l’abbattimento delle foreste pluviali continui. Ma, ci si potrebbe domandare, «alla fine» quando? Se si riduce una

foresta da 100 a 10 chilometri quadrati, alcune estinzioni si verificano immediatamente. Tuttavia, il nuovo equilibrio prescritto z dall’equazione S = CA non verrà raggiunto in un battibaleno. Alcune specie si attarderanno sotto forma di popolazioni pericolosamente rarefatte. Vi sono modelli matematici semplicissimi, secondo i quali il numero di specie dell’appezzamento di 10 chilometri quadrati diminuirà a una velocità che cala progressivamente: molto alta all’inizio, andrà scemando via via che ci si avvicinerà al nuovo equilibrio, posto a livelli più bassi. Il ragionamento è elementare: all’inizio vi sono molte specie destinate all’estinzione, che quindi spariscono a gran velocità; più avanti, ve ne saranno poche, e quindi il tasso d’estinzione diminuirà. Questo corso degli eventi, una forma idealizzata nella quale le specie si estinguono indipendentemente l’una dall’altra, è chiamato decadimento esponenziale. Servendosi di tale modello, Jared Diamond e John Terborgh hanno affrontato il problema nel modo seguente. Hanno sfruttato il fatto che l’aumento del livello marino verificatosi 10.000 anni fa, alla fine dell’era glaciale, separò l’una dall’altra molte masse terrestri un tempo collegate al Sudamerica, alla Nuova Guinea, e alle isole principali dell’Indonesia. Quando il mare le circondò, tali masse terrestri furono trasformate in «isole ponti-di-terra». Le isole di Tobago, Margarita, Coiba e Trinidad originariamente facevano parte del Centroamerica e del Sudamerica, masse continentali con le quali condividevano la stessa ricca avifauna. In modo analogo, alla Nuova Guinea erano saldate Yapen, Arti e Misool, che ne condividevano la fauna, prima di essere trasformate in isole che ne inghirlandano le coste. Diamond e Terborgh hanno studiato gli uccelli poiché, vistosi e facilmente identificabili, sono dei buoni indicatori dell’estinzione. Entrambi gli studiosi giunsero alle stesse conclusioni: dopo che i ponti-di-terra furono sommersi dalle acque, quanto più le isole erano piccole, tanto più veloce era la perdita di specie. La regolarità delle estinzioni era tale da giustificare l’utilizzo del modello di decadimento esponenziale. Estendendo l’analisi ai tropici americani, Terborgh rivolse le sue attenzioni all’isola di Barro Colorado, creatasi in seguito alla formazione del lago Gatun, a sua volta dovuto alla

costruzione del Canale di Panama. In questo caso, l’orologio non cominciò a ticchettare 10.000 anni fa, bensì cinquant’anni prima che fossero avviati questi studi. Applicando l’equazione di decadimento per i ponti-di-terra a un’isola di queste dimensioni, pari a 17 chilometri, Terborgh predisse un’estinzione di 17 specie sul periodo di 50 anni. Il numero di sparizioni accertato nella realtà ammonta a 13, ed è pari al 12 per cento delle 108 specie nidificanti in origine presenti. Vista la natura complessa del processo di declino della biodiversità, l’accordo dei dati sull’avifauna di Barro Colorado con l’equazione ricavata da isole molto più grandi e su tempi molto più lunghi sembrava troppo perfetto per essere vero. Ma il successivo studio di altre isole ha portato a risultati analoghi, consoni con i modelli di decadimento, e perciò molto deprimenti. Le isole sono paragonabili ad appezzamenti di foresta isolati in un mare di terreno agricolo. Quando le isole hanno dimensioni variabili tra 1 e 25 chilometri quadrati, il tasso di estinzione degli uccelli nei primi cent’anni varia dal 10 al 50 per cento. Inoltre, come prevede la teoria, il tasso di estinzione è più alto negli appezzamenti più piccoli, e aumenta vertiginosamente quando la superficie si riduce a meno di 1 chilometro quadrato. Tre appezzamenti di foresta subtropicale brasiliana, circondati da terreni agricoli per un periodo di circa cento anni, variavano da un minimo di 0,2 a un massimo di 14 chilometri quadrati: ebbene, le specie di uccelli diminuirono del 64 per cento nel primo caso, e del 14 nell’ultimo. Dall’altra parte del mondo vi era l’orto botanico di Bogor, appezzamento di foresta di 0,9 chilometri quadrati, anch’esso rimasto isolato per via dell’abbattimento degli alberi tutt’attorno. Nei primi cinquant’anni perse 20 delle originarie 62 specie nidificanti. Ma ecco un altro esempio, ricavato da un ambiente di tipo diverso: nell’Australia sudoccidentale, dove il 90 per cento dell’originaria foresta di eucalipti è stato abbattuto o frammentato per fare posto alle coltivazioni di grano, il tasso locale di estinzione delle avispecie ha raggiunto valori simili ai casi precedenti. Non c’è modo di misurare in valori assoluti, anziché in valori percentuali, la quantità di biodiversità che, anno dopo anno, svanisce

dalle foreste pluviali del mondo, nemmeno per i gruppi di uccelli più conosciuti. Ciò nonostante, per rendere l’idea della gravità dell’emorragia, esporrò la stima più ottimistica che si possa formulare in base alle attuali conoscenze sui processi estintivi. Prendiamo qui in considerazione solo le specie che vengono perse a causa della riduzione dell’area forestale, e teniamo per buono il valore di z. più basso (0,15). Tralasciamo, quindi, fattori quali la raccolta indiscriminata ed eccessiva di esemplari e l’invasione da parte di organismi estranei. Diciamo, ora, che il numero di specie viventi nelle foreste pluviali è di 10 milioni (un valore prudenziale), e che molte hanno un ampio areale distributivo. Ebbene, anche con tutta questa serie di precondizioni prudenziali, scelte intenzionalmente per poter trarre una conclusione il più possibile ottimistica, il numero di specie condannate a estinzione è pari a 27.000 all’anno. Il che significa 74 al giorno, ovvero 3 all’ora. Se è vero che, prima che l’uomo cominciasse a interferire nell’ambiente, le specie sopravvivevano per periodi nell’ordine del milione di anni – valore, questo, molto comune per alcuni gruppi che hanno lasciato documentazioni fossili – ciò significa che il normale tasso di estinzione «di fondo» è di una specie all’anno per ogni milione di specie esistenti. L’attività umana ha fatto sì che, nella foresta pluviale, come conseguenza della sola riduzione di superficie, l’estinzione superasse questo livello da 1000 a 10.000 volte. È chiaro, quindi, che ci troviamo nel bel mezzo di una delle più importanti ondate di estinzioni della storia geologica del pianeta.

13 Ricchezze non sfruttate

La biodiversità è la nostra risorsa più preziosa, ma anche quella che siamo soliti apprezzare di meno. Quale sia il suo potenziale è dimostrato in maniera clamorosa dalla specie Zea diploperennis, un parente selvatico del mais scoperto negli anni Settanta da uno studente universitario messicano nello stato centroccidentale di Jalisco, a sud di Guadalajara. Si tratta di una specie nuova, non solo resistente alle malattie, ma unica tra tutte le forme viventi di mais, in quanto perenne. Se trasferiti nel mais comune (Zea mays), i suoi geni potrebbero farne salire la produzione mondiale in misura pari a milioni di dollari. C’è da aggiungere, però, che questo mais di Jalisco fu scoperto appena in tempo: relegato su un territorio montuoso di dieci ettari scarsi, solo una settimana lo separava dal perire definitivamente, vittima del machete e del fuoco. Si può tranquillamente dare per scontato che esista una vastissima schiera di altre specie potenzialmente benefiche ma ancora ignote. In una remota valle andina, per esempio, potrebbe esservi, appollaiato su un’orchidea, uno scarabeo raro capace di secernere una sostanza utile nella terapia del cancro del pancreas. Ancora, in Somalia potrebbe esservi, ridotta ad appena venti esemplari, una pianta erbacea in grado di ammantare di verde e di fertilizzare tutti i deserti salati del mondo. Insomma, per valutare l’entità di questo tesoro nascosto nella natura l’unico modo è di riconoscere che è immenso, e che si trova di fronte a un futuro incerto. Come passo iniziale, occorre ridefinire i problemi ambientali in modo che rispecchino la realtà con maggiore precisione. Esistono due categorie principali di tali problemi, e non più di due. La prima consiste nell’alterazione dell’ambiente fisico a uno stato poco

congeniale per la vita: l’ormai arcinota sindrome da inquinamento tossico, la rarefazione dello strato di ozono, l’aumento della temperatura terrestre a causa dell’effetto serra, la riduzione dei terreni coltivabili e il prosciugamento delle falde acquifere, il tutto accelerato dall’aumento continuo della popolazione umana, sono, nel complesso, tendenze reversibili solo che lo si voglia. L’ambiente fisico può essere senz’altro ricondotto e saldamente mantenuto in una condizione ottimale per il benessere dell’umanità. La seconda categoria di problemi consiste nella perdita di biodiversità, la quale, pur affondando anch’essa le sue radici nel saccheggio dell’ambiente, è per altri versi di natura totalmente differente. Sebbene le perdite già avvenute siano senza rimedio, la velocità del processo attualmente in corso può essere diminuita sino a ricondurla al tasso, quasi impercettibile, caratteristico della preistoria. Sebbene ciò che resterà sarà un mondo biologicamente meno ricco di quello lasciatoci in eredità, quanto meno ci saremo riportati all’equilibrio tra nascite e morti a livello di specie. Vi è, poi, un altro aspetto positivo, cui l’inversione del deterioramento fisico è estranea: si tratta del fatto che il puro e semplice tentativo di risolvere la crisi della biodiversità ci offre grossi benefici mai goduti prima, giacché il salvataggio delle specie implica il loro studio approfondito, e arrivare a conoscerle bene significa poterne sfruttare le caratteristiche in modo nuovo. Negli ultimi vent’anni, vi è stata una rivoluzione nell’ambito del pensiero conservazionista: rivoluzione che, definita «nuovo ambientalismo», ha portato a rendersi conto del valore pratico di cui le specie selvatiche sono dotate. A parte alcune sacche di ignoranza e di mala fede, tra i fautori della conservazione e quelli dello sviluppo non sussiste più alcuna guerra ideologica: gli uni e gli altri sono ormai ben consapevoli di quanto il deterioramento di un ambiente porti con sé il declino della salute e della prosperità. Non solo, ma sanno bene come non sia possibile ricavare prodotti utili da specie estinte. Se gli ambienti naturali fossero sfruttati per la loro ricchezza genetica e si smettesse di annientarli solo per ricavarne qualche metro cubo in più di legname o qualche ettaro in più per l’agricoltura, col tempo la loro

resa economica sarebbe di gran lunga superiore. Le specie messe in salvo saranno in grado di dare nuova vitalità non solo alle industrie del legno, dei prodotti agricoli e dei farmaci, ma anche a tante altre di diverso carattere. Le terre allo stato naturale sono come un pozzo dei miracoli: quanto più sapere scientifico e vantaggi concreti ne attingiamo, tanti più ne forniscono. In passato, lo spirito con cui si affrontava il problema della conservazione della biodiversità era quello, per così dire, del bunker: da un lato delimitare le aree naturali più ricche in forma di parchi o di riserve, e mettervi tanto di sentinelle; dall’altro lasciare che le popolazioni umane pensassero da sole a risolvere i propri problemi nelle aree non protette, cosa che, tra l’altro, le avrebbe portate a tenere molto al patrimonio custodito nelle riserve, così come tenevano alle cattedrali e a tutto il patrimonio artistico nazionale. Certo, parchi e guardie forestali sono cosa necessaria. In qualche misura, in Europa e negli Stati Uniti il sistema si è dimostrato efficace, ma nei paesi in via di sviluppo sarebbe illusorio pensare che un sistema simile possa portare ai risultati sperati. La ragione è semplice: in quei paesi, le popolazioni indigenti e quanto mai prolifiche abitano in vicinanza dei giacimenti più ricchi di diversità biologica. Per fare un esempio, un contadino peruviano dedito al taglio della foresta pluviale per dar da mangiare alla famiglia, via via che il suolo rimane privo di sostanze nutrienti passerà da un appezzamento all’altro e taglierà più specie di piante di quante ne abbia, allo stato endemico, l’Europa intera. C’è poco da dire, se egli non avrà altro modo per guadagnarsi la sopravvivenza, gli alberi continueranno a cadere. Partendo da queste realtà, i fautori del nuovo ambientalismo sono consapevoli che solo attraverso nuovi sistemi per trarre profitto economico dai terreni già sfruttati, ma anche da quelli ancora allo stato naturale, si potrà salvare la biodiversità dalla macina della povertà umana. Così, è in corso una gara per escogitare nuove metodologie, per trovare gli accorgimenti con cui rendere i terreni allo stato naturale più produttivi senza ucciderli, e in tal modo aggiungere all’invisibile mano dell’economia di mercato un pollice

verde.

La pervinca rosea (Catharanthus roseus) del Madagascar, fonte di due alcaloidi dalla spiccata attività antitumorale.

In stretta connessione con la rivoluzione conservazionistica si è avuto un altro mutamento di pensiero a proposito della biodiversità, nel senso che l’attenzione primaria si è spostata dalle specie agli ecosistemi in cui esse vivono. Ciò non significa che le specie «carismatiche» – per esempio, i panda e le sequoie – siano tenute – in minor considerazione; no, è che ora sono considerate anche come

scudi protettivi degli ecosistemi cui appartengono. Dal canto loro, questi ultimi, ricettacolo come sono di migliaia di specie meno vistose, ricevono considerazione in egual misura; una misura, cioè, pari a quella occorrente per giustificare gli sforzi più strenui al fine di conservarli, che contengano o no specie carismatiche. Nel 1937, a Bali, quando fu uccisa l’ultima tigre, il resto della biodiversità dell’isola non perse nulla della sua importanza. In realtà, le vere specie carismatiche sono sovente proprio quelle più umili e neglette. Un esempio di specie sottratta all’oscurità e innalzata alla fama è quella della pervinca rosea (Catharanthus roseus) del Madagascar, pianta modesta, con fiore a cinque petali. Ebbene, da essa si ricavano due alcaloidi, la vinblastina e la vincristina, capaci di salvare la maggior parte delle vittime di due forme di cancro tra le più spietate: il linfogranuloma maligno o malattia di Hodgkin, che colpisce soprattutto i giovani adulti, e la leucemia linfocitica acuta, che un tempo costituiva per i bambini un’irrevocabile sentenza di morte. I proventi ricavati dalla produzione e dalla vendita di queste due sostanze superano i 180 milioni di dollari all’anno. Il che ci riporta al problema della gestione delle ricchezze biologiche del mondo da parte dei ceti poveri. Nel Madagascar sono presenti altre cinque specie di pervinca. Una, Catharanthus coriaceus, sta marciando verso l’estinzione mentre il suo ultimo habitat naturale, sito nella regione del Betsileo sugli altipiani centrali, viene eliminato per far posto all’agricoltura. Pochi si rendono conto sino a qual punto la medicina occidentale ormai dipenda dagli organismi selvatici. Si pensi all’aspirina, il farmaco di maggior consumo in tutto il mondo: è un derivato dell’acido salicilico, il quale fu scoperto nella olmaria (Filipendula ulmaria) e successivamente combinato con l’acido acetico per formare l’acido acetilsalicilico, un analgesico molto potente. Negli Stati Uniti, il 25 per cento delle preparazioni distribuite dalle farmacie contiene esclusivamente sostanze di origine vegetale. Un altro 13 per cento deriva dai microrganismi, e un 3 per cento ancora da sostanze animali. In totale, quindi, si tratta di oltre il 40 per cento di farmaci derivanti da esseri viventi. Una cifra, tuttavia, che rappresenta

appena una minuscola frazione della moltitudine di sostanze a nostra disposizione. Di tutte le angiosperme del mondo – cioè 220.000 specie – solo uno scarso 3 per cento, vale a dire 5.000 specie, è stato finora studiato, e neppure in maniera metodica e approfondita, per rilevare la presenza di alcaloidi. Le proprietà antitumorali della pervinca rosea sono state scoperte per puro caso, solo perché si trattava di una pianta ampiamente coltivata e fatta oggetto di ricerche in quanto si riteneva contenesse un antidiuretico molto efficace. La letteratura scientifica così come la tradizione popolare sono zeppe di riferimenti a piante e animali cui la medicina popolare attribuisce gran valore, ma delle quali la ricerca biomedica sino a oggi non si è mai occupata. Nell’Asia tropicale cresce una pianta endemica affine al mogano, l’Azadirachta indica, chiamata localmente nim. e da noi neem, che al mondo occidentale è praticamente ignota. Secondo una relazione recente del Consiglio Nazionale delle Ricerche americano, invece, le popolazioni dell’India ne fanno tesoro. Il documento afferma: Sono secoli che milioni di persone si puliscono i denti con rametti di neem, si curano disturbi cutanei spalmandosi succo di foglie di neem, bevono come tonico tè di neem, e mettono foglie di neem nei letti, tra le pagine dei libri, nei barattoli delle

granaglie, nelle credenze e negli armadi per scacciame insetti fastidiosi. La pianta è servita ad attenuare un tal numero di dolori, febbri, infezioni e altri malanni, da

essersi meritata il soprannome di “farmacia del villaggio”. Per milioni di indiani, il

neem possiede poteri miracolosi, e oggi scienziati di tutto il mondo cominciano a pensare che costoro potrebbero aver ragione.

Bisogna stare attenti a liquidare sbrigativamente tali facoltà come superstizioni e leggende. Gli organismi naturali sono dei chimici provetti. In un certo senso, presi nel loro insieme, nel sintetizzare molecole organiche a fini pratici si dimostrano molto più bravi di tutti i loro colleghi umani. Nel corso di milioni di generazioni, ogni tipo di pianta, di animale, di microrganismo ha sperimentato queste o quelle sostanze chimiche in funzione delle proprie necessità particolari. Ogni

specie ha subito numeri infiniti di mutazioni e di ricombinazioni genetiche a carico dei propri meccanismi biochimici. I prodotti sperimentali così ottenuti sono stati sottoposti al vaglio delle forze irremovibili della selezione naturale, una generazione dopo l’altra. Si può determinare con esattezza la classe particolare di sostanze chimiche di cui una certa specie è diventata maestra, conoscendo la nicchia che quella specie occupa. La sanguisuga, anellide in veste di vampiro, una volta forata la pelle della sua vittima deve far sì che il sangue continui a defluire senza sosta. Dalla sua saliva proviene l’anticoagulante denominato irudina, isolato dai ricercatori e impiegato per la cura di emorroidi, reumatismi, trombosi e contusioni, tutte condizioni patologiche in cui la coagulazione del sangue può essere fonte di dolore e di pericolo. L’irudina, per esempio, scioglie prontamente i grumi di sangue che possono compromettere l’esito dei trapianti cutanei. Si sta lavorando per mettere a punto come preventivo degli attacchi cardiaci una sostanza ricavata dalla saliva dei vampiri dell’America centrale e dell’America meridionale, sostanza che riesce a dilatare l’arteria colpita due volte più in fretta dei normali rimedi farmacologici, non solo, ma ad agire esclusivamente nell’area del trombo. Una terza sostanza, infine, è stata isolata dal veleno del crotalo della Malesia. La scoperta di queste sostanze presenti nelle specie selvatiche non rappresenta che una minima parte delle occasioni favorevoli che la natura ha in serbo per noi. Una volta che il principio attivo sia stato chimicamente identificato, si può sintetizzarlo in laboratorio, e spesso a costi inferiori rispetto a quelli dell’estrazione da tessuti naturali. Nella fase successiva, il composto chimico naturale fornisce il prototipo a partire dal quale si può ricavare e sperimentare un’intera classe di nuove sostanze chimiche di sintesi. Alcune di esse, per quanto innaturali, si rivelano sull’uomo più efficaci del loro prototipo, o capaci di curare malattie che non sono mai state affrontate prima con prodotti naturali della medesima classe strutturale. La cocaina, per esempio, è utilizzata come anestetico locale, ma è servita anche come punto di partenza per la sintesi in laboratorio di un vasto numero di anestetici specialistici, caratterizzati da maggior stabilità e

da minore tossicità nonché da una minore induzione di assuefazione rispetto al prodotto naturale. Ecco, qui di seguito, un breve elenco di alcune sostanze farmacologicamente attive estratte da vegetali e da funghi: FARMACO

Atropina Bromelaina Caffeina

FONTE VEGETALE

Belladonna (Atropa belladonna)

FUNZIONE

Anticolinergico

Ananas (Ananas

Attenuatore dei processi

comosus)

infiammatori

Tè (Camellia sinensis)

Stimolante del sistema nervoso centrale

Albero della canfora Canfora

(Cinnamomum

Revulsivo

camphora) Chinina Cocaina Codeina

China (Cinchona ledgeriana) Coca (Erythroxylon coca) Papavero dell’oppio (Papaver somniferum) Crocus autunnale

Colchicina

(Colchicum autumnale)

Digitossina

Digitale purpurea (Digitalis purpurea)

Antimalarico Anestetico locale Analgesico e antitussivo Coadiuvante nella terapia dei tumori Stimolante cardiaco

Diosgenina

Dioscorea (Dioscorea Base per contraccettivi sp.)

femminili

Segale cornuta

Antiemicranico e

(Claviceps purpurea)

antiemorragico

Glaziovina

Ocotea glaziovii

Antidepressivo

Gossipolo

Cotone (Gossypium)

Contraccettivo maschile

Levodopa

Mucuna deeringiana

Antiparkinsoniano

Ergonovina

Indicina Nossido Mentolo

Heliotropium indicum Antileucemico Menta (Menta sp.)

Monocrotalina Crotalaria sessiflora Morfina Papaina

Papavero dell’oppio (Papaver somniferum) Papaya (Carica papaya)

Revulsivo Antitumorale topico Analgesico narcotico Proteolitico e mucolitico

Funghi Penicillium Penicillina

(soprattutto Penicillium

Antibiotico

chrysogenum) Trattamento del Pilocarpina

Pilocarpus sp.

glaucoma e della secchezza delle fauci

Reserpina Scopolamina

Rauvolfia serpentina Noce metella(Datura

Antipertensivo Anticolinergico

metel) Stricnina

Taxolo

Timolo D-

Noce vomica

(Strychnos nuxvomica) nervoso centrale Tasso (Taxus brevifolia) Timo (Thymus vulgaris) Chondrodendron e

Tubocurarina Strychnos sp. Vinblastina, Vincristina

Stimolante del sistema Antitumorale, specialmente indicato nel cancro ovarico Disinfettante Miorilassante chirurgico nonché componente attivo del curaro

Pervinca rosea(Catharanthus

Antitumorali

roseus)

Le stesse prospettive rosee riguardano le piante selvatiche utilizzabili come fonte alimentare. Infatti, oggi sono pochissime le specie potenzialmente importanti dal punto di vista economico che arrivano sui mercati mondiali. Le piante dotate di parti commestibili sono forse 30.000, ma nel corso della storia umana ne sono stati coltivati o raccolti solo 7000 tipi. Di questi, 20 specie costituiscono da sole il 90 per cento del cibo consumato in tutto il mondo; e, tra queste, appena tre specie – grano, mais e riso – ne compongono più della metà. Questo sottile cuscino di biodiversità, che propende verso i climi più freschi, in molte parti del mondo è seminato in forma di monocolture sensibili agli attacchi di insetti e nematodi. Il quadro dello scarso sfruttamento a fini alimentari è esemplificato molto bene dalla frutta. Vi è una dozzina di specie dei climi temperati – mele, pesche, pere, fragole, e così via, sulla lista della spesa –

predominanti nei mercati settentrionali e di cui si fa largo uso anche ai tropici. Per converso, i tropici offrono almeno 3000 altre specie, ma di queste se ne vendono comunemente solo 200. Alcune, come l’annona, la papaya e il mango, si sono unite da poco tempo alla banana nel novero dei prodotti importanti per l’esportazione, e altri ancora, come la carambola, il tamarindo e i coquitos. promettono bene. Ma gran parte dei consumatori dell’emisfero settentrionale non hanno mai gustato il lulo, altrimenti noto come «frutto dorato delle Ande», le albicocche di Santo Domingo, i rambutan, e i quasi leggendari durii e i mangostani, considerati dagli aficionados come la più squisita frutta del mondo. Qui di seguito, ecco un elenco di altre piante da frutto che si potrebbero diffondere a scopo alimentare: SPECIE

LOCALITÀ

Arracachá (Arracacia

Ande

xanthorrhiza) Amaranti (3

America

specie di

tropicale e

Amaranthus)

andina

Cucurbita foetidissima

USO ALIMENTARE

Tubero dal sapore delicato e dall’aspetto di carota Piante con foglie e spighe; mangime per bestiame; crescono rapidamente e resistono alla siccità

Deserti del

Tuberi commestibili, forniscono

Messico e

un olio commestibile; crescita

degli Stati

rapida su terreni aridi

Uniti

inutilizzabili per le colture

sudoccidentali consuete Per gli amerindi «l’albero della

Maurizia flessuosa

Pianure

vita»; frutto ricco di vitamine; il midollo è utilizzato per fare

(Mauritia

amazzoniche pane; dai germogli si ricavano i

flessuosa) Annona (Annona muricata)

cuori di palma Frutto di sapore delizioso; si America

mangia crudo, oppure mescolato

tropicale

con bibite analcoliche, yogurt e gelati

Lulo (Solanum Colombia,

Frutto apprezzato per le bibite

quitoense)

Ecuador

analcoliche

Maca o

Regione

Radice resistente al freddo,

Lepidio

andina, a

simile ai rapanelli, dal sapore

(Lepidium

elevate

particolare; prossimo

meyenii)

altitudini

all’estinzione Cianobatterio che potreb be essere coltivato per produrre

Spirulina (Spirulina platensis)

Lago Ciad, Africa

sostanze nutrienti destinate all’alimentazione dell’uomo e degli animali; cresce rapidamente nelle acque salmastre

Albero del pomodoro

America del

(Cyphomandra Sud betacea) Regione

Frutto oblungo dal sapore dolce

Ullucus

andina, a

Tubero simile alla patata; pianta

tuberosus

elevate

con foglie molto nutrienti,

altitudini

adatta ai climi freddi

Pouroma

Amazzonia

cecropiaefolia occidentale Benincasa ispida (Benincasa hispida)

Il frutto si mangia crudo, o si pigia per farne vino; la pianta cresce velocemente ed è robusta Polpa simile a quella del melone, buona come verdura,

Asia tropicale come base per minestre e come dessert; cresce rapidamente e consente parecchi raccolti l’anno

Il fagiolo della Nuova Guinea (Psophocarpus tetragonolobus), leguminosa tropicale estremamente versatile.

Le nostre diete limitate sono frutto più del caso che della volontà. Dipendiamo ancora dalle specie vegetali scoperte e coltivate dai nostri antenati del Neolitico nelle numerose regioni che videro la nascita dell’agricoltura: il Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Asia centrale, il Corno d’Africa, la fascia del riso dell’Asia tropicale, gli altipiani del Messico e del Centroamerica, e la fascia altitudinale media e superiore delle Ande. Furono poche le piante da raccolto diffuse in tutto il mondo e inserite in quasi tutte le culture esistenti. Se i coloni europei stanziatisi nel Nordamerica avessero rinunciato

alle proprie consuetudini agricole, se avessero optato risolutamente per le colture originarie dei nuovi territori, oggi gli abitanti degli Stati Uniti e del Canada si nutrirebbero di semi di girasole, topinambur (Helianthus tuberosus), noci americane (Carya illinoensis), varie specie di mirtillo (Vaccinium myrtillus, Vaccinium oxycoccus, Vaccinium macrocarpon) e dell’uva prodotta dalla vite Vitis rotundifolia. Infatti, sul continente americano a nord del Messico crescevano originariamente solo queste piante commestibili, di importanza alimentare relativamente marginale. In ogni modo, quand’anche si tengano in considerazione perfino le coltivazioni neolitiche, l’agricoltura moderna non è che l’ombra di ciò che potrebbe essere. Dietro le quinte, stanno in attesa decine di migliaia di specie vegetali mai sfruttate, molte delle quali palesemente superiori a quelle attualmente in auge. Una specie che potenzialmente potrebbe emergere tra quelle migliaia per assumere un ruolo molto importante è il fagiolo della Nuova Guinea Psophocarpus tetragonolobus, che si potrebbe battezzare «speciesupermercato», infatti, ogni sua parte ha sapore gradevole: dalle foglie simili a spinaci ai giovani baccelli utilizzabili come fagiolini, ai semi giovani simili a piselli, e ai tuberi che, bolliti, fritti, cotti al forno o alla griglia, sono più ricchi di proteine delle patate. I semi maturi, somiglianti a quelli della soia, possono essere cucinati così come sono, oppure macinati per ricavarne una particolare farina, o ancora immersi in acqua bollente in modo da ricavarne una bevanda che, pur avendo lo stesso aroma del caffè, è tuttavia priva di caffeina. Per di più, questa pianta cresce a ritmi impressionanti, e raggiunge una lunghezza di 4 metri nel giro di poche settimane. Infine questo legume ospita tra le sue radici i noduli azoto-fissatori, e quindi ha scarso bisogno di fertilizzanti. È un vegetale, quindi, che si può impiegare non solo come pianta da raccolto, ma anche per accrescere la fertilità del suolo a vantaggio delle altre coltivazioni. Grazie a piccoli miglioramenti genetici ottenuti mediante incroci selettivi, il fagiolo della Nuova Guinea potrebbe sollevare il tenore di vita di milioni di persone nei paesi tropicali più poveri. Dai documenti – quasi tutti non scritti – delle popolazioni

autoctone ci è venuta una vera messe di informazioni sui generi vegetali selvatici o semicoltivati. È davvero straordinario che, con l’eccezione della noce di macadamia australiana, tutti i frutti e i semi di cui si fa uso nei paesi occidentali fossero coltivati in origine dai popoli indigeni. Gli Inca furono probabilmente i campioni assoluti nella creazione di un serbatoio di diverse varietà di piante da seminagione. Pur senza l’aiuto della ruota, del denaro, del ferro o della scrittura, le popolazioni andine seppero dar vita a un’agricoltura di livello avanzato basata su un numero di specie vegetali quasi pari a quello coltivato dagli agricoltori europei e asiatici messi assieme. I loro raccolti abbondanti, coltivati tra i pendii freddi e gli altipiani andini, si dimostrarono particolarmente adatti per i climi temperati. Dagli Inca sono giunti fino a noi i fagioli di Lima (Phaseolus limensis), i peperoni, le patate e i pomodori. Ma molte altre specie e sottospecie, tra cui un centinaio di varietà di patate, sono ancora confinate alle Ande. I conquistadores spagnoli impararono a utilizzare solo qualche tipo di patata, ma tralasciarono molti altri tipi di tuberi da coltivazione, compresi alcuni che danno una resa maggiore e che sono molto più saporiti di quelli cui siamo abituati. Molti, certamente, hanno nomi poco noti: achira, ahipa, arracachá, maca o lepidio, mashua, mauka, oca, ullucu e yacon. Uno di essi, il maca (Lepidium meyenii), è sull’orlo dell’estinzione poiché sopravvive solo in un terreno di 10 ettari su un altopiano compreso tra Perù e Bolivia. Le sue radici rigonfie, simili a rapanelli marroni e ricche di zucchero e di amido, hanno un sapore dolce e piccante, e sono considerate una leccornia da parte delle esigue popolazioni che godono ancora del privilegio di mangiarle.

Varietà di amaranto (Amaranthus sp.), uno dei vegetali più importanti coltivati a scopo

alimentare dagli amerindi; l’amaranto potrebbe rivelarsi in tutto il mondo una pianta dalle straordinarie potenzialità.

Un altro importante prodotto della terra originario delle Americhe è l’amaranto. Esso viene venduto sul mercato statunitense da poco, soprattutto in aggiunta ai cereali. In tempi precolombiani, le popolazioni indie stanziate dal Nuovo Messico al Sudamerica erano solite coltivare solo tre delle 60 specie selvatiche disponibili. I semi di

amaranto contengono dei grani nutrienti, mentre le foglie più giovani, cotte, sono una gustosa verdura simile agli spinaci. Queste piante crescono talmente bene nei climi aridi che, ai tempi della Conquista, erano apprezzate quanto il mais. In seguito all’occupazione spagnola, l’amaranto sarebbe potuto diventare in tutto il mondo uno dei prodotti agricoli di punta, se non ci fosse stata di mezzo una curiosa circostanza storica, così descritta da Jean Marx: Cinquecento anni fa, il grano amaranto era uno degli alimenti principali nella dieta

degli Aztechi, nonché parte integrante dei loro riti religiosi. Quel popolo modellava i suoi idoli utilizzando un impasto di terra e di grani d’amaranto tostati e mischiati

col sangue delle vittime dei sacrifici umani. Durante le feste religiose, gli idoli venivano spezzati e mangiati dai fedeli, rito che i conquistadores considerarono una parodia perversa dell’Eucarestia cattolica. Nel 1519, quando sottomisero gli

Aztechi, gli spagnoli bandirono la loro religione, e con essa anche la coltivazione dell’amaranto.

I pregiudizi e l’inerzia hanno sempre rallentato il progresso dell’agricoltura. Il mistero della mancata utilizzazione di tante specie selvatiche è bene illustrato, quasi fosse una parabola, dal caso dei dolcificanti naturali. Nell’Africa occidentale è stata trovata una pianta, il katemfe (Thaumatococcus daniellii) che produce proteine 1600 volte più dolci del saccarosio. Un’altra pianta dell’Africa occidentale, Dioscoreophyllum cumminsii, contiene una sostanza addirittura 3000 volte più dolce. La parabola, quindi, è questa: quale delle specie selvatiche costituisce il termine ultimo di questa progressione? Non si è mai sfruttato l’ingegno umano per trovare una risposta a questa domanda in questo o in qualunque altro campo di applicazione pratica. Prendiamo ora in esame un altro caso, altrettanto istruttivo. La palma babassu (Orbignya phalerata) dell’Amazzonia, che viene raccolta ancora allo stato selvatico e semiselvatico, fornisce la quantità di olio vegetale più alta che si conosca. Un boschetto di 500 alberi produce 125 barili all’anno, ricavabili da masse di frutti pesanti fino a 100 chilogrammi. Le popolazioni locali usano varie parti della pianta per ricavarne mangime, pasta di legno, paglia per i tetti e i cestini, e infine carbone

di legna. Il babassu non è mai stato coltivato per sfruttarlo completamente a fini commerciali, né è mai stato piantato intensivamente al di fuori dei suoli fertili degli altipiani e delle pianure alluvionali su cui in origine cresceva la pianta selvatica.

La tartaruga gigante amazzonica Podocnemis expansa, specie che può essere allevata

facilmente, rappresenta nelle pianure alluvionali fluviali una potenziale fonte di carne di gran lunga superiore al bestiame da pascolo.

Un’altra delle frontiere in attesa dell’investimento di capitali è l’agricoltura su terreni salini, basata su piante che sopportano il sale e che consentono, pertanto, di sfruttare territori prima non coltivabili. In Messico, in un’azienda agricola sperimentale, si è cominciato a utilizzare acqua di mare per irrigare i terreni coltivati a salicornia (Salicornia sp.), pianta che originariamente cresce sul fondo incrostato di sale di laghi prosciugati. La piccola pianta succulenta produce un olio simile a quello del cartamo. La resa è pari a due tonnellate di olio di semi l’anno per ettaro coltivato e, come prodotto di scarto, resta una sorta di paglia, impiegabile come foraggio per gli animali da allevamento. In Pakistan, sui suoli saturi di acqua salata, si coltiva l’erba kallar, destinata a mangime. Nel proibitivo deserto di Atacama, nel Cile settentrionale, dove possono passare anche sette anni prima che piova, il tamarugo, una leguminosa di aspetto simile all’acacia, affonda le radici attraverso uno strato salato di un metro per

raggiungere l’acqua salmastra raccolta negli strati profondi del suolo. Questo albero straordinario è in grado di formare boscaglie rade e vegetazioni basse all’interno di aree altrimenti sterili. Le pecore allevate tra le boscaglie di tamarugo crescono rapidamente quasi quanto quelle allevate nei pascoli pregiati di altre parti del mondo. La storia della zootecnia ha seguito un percorso non meno irrazionale di quello dell’agricoltura. Come le piante da coltivazione, così gli animali da cortile e da pascolo sono più o meno ancora quelli che furono addomesticati diecimila anni fa dai nostri antenati nelle zone temperate dell’Europa e dell’Asia. Ci siamo fermati a una compagine limitata di mammiferi ungulati – cavalli, bovini, asini, cammelli, maiali e capre – che mal si adattano alla maggior parte degli habitat, non solo, ma che spesso costituiscono un vero flagello per l’ambiente naturale. In molti casi, poi, si tratta di specie che in certe zone garantiscono una resa inferiore rispetto alle specie selvatiche trascurate dall’uomo. Un chiaro esempio della superiorità degli animali selvatici ci è fornito dalle tartarughe fluviali amazzoniche del genere Podocnemis. Le sette specie conosciute sono apprezzate moltissimo dalle popolazioni locali come fonte di proteine per l’alimentazione. La carne, di qualità eccellente, è alla base di piatti locali molto buoni. Da quando la popolazione stanziata lungo le rive fluviali è aumentata, la caccia alle tartarughe si è fatta troppo intensa, e alcune specie sono ora in pericolo. Tuttavia, si tratta di specie facili da allevare. Ogni femmina depone fino a 150 uova, e i piccoli crescono rapidamente. Una specie gigantesca, la Podocnemis expansa, raggiunge una lunghezza di quasi un metro e un peso di 50 chilogrammi. Può essere rinchiusa in vasche di cemento e negli stagni naturali disseminati lungo le ampie pianure alluvionali, e contemporaneamente essere nutrita con vegetazione acquatica e frutta, il tutto a costi minimi. In queste condizioni, la specie garantisce una produzione annua di 25 tonnellate di carne per ettaro, pari a 400 volte il prodotto derivante da allevamenti bovini impiantati sui vicini terreni dove la foresta è stata abbattuta. Dato che le pianure alluvionali compongono il 2 per cento del territorio amazzonico, il potenziale commerciale della

specie è enorme. Per l’ambiente rappresenta un costo molto più basso di quello inflitto dall’allevamento del bestiame e di altri animali esotici che si stanno introducendo a forza sul territorio con risultati disastrosi. Vantaggi simili sono offerti dall’iguana verde (Iguana iguana), battezzata «pollo degli alberi». Si tratta di un lucertolone dalla carne facilmente digeribile, saporita, e da secoli considerata una prelibatezza dagli agricoltori delle regioni umide del Centroamerica e del Sudamerica. Certo, l’iguana è un rettile, e qualcuno potrebbe storcere il naso all’idea di mangiarla. Ma è tutta questione di tradizione. Dal punto di vista filogenetico, le galline e gli uccelli in generale non sono che rettili dal sangue caldo e dotati di ali, e comunque non scordiamoci che le nostre cucine vedono da sempre creature molto più orripilanti: per esempio, aragoste e scorfani. Ma torniamo alle iguane, il cui numero è calato notevolmente in tutta la loro area distributiva, a causa della caccia eccessiva, al punto che ora, al mercato nero, un esemplare si vende a 25 dollari. Sebbene in alcuni paesi latinoamericani siano protette dalla legge, le iguane stanno diminuendo in seguito all’accelerazione del processo distruttivo del loro habitat forestale. Se gli agricoltori avessero risparmiato una maggiore superficie di foreste, ora avremmo più iguane da mettere in padella. Ma, come hanno fatto notare Chris Wille e Diane Jukofsky: Se sei un agricoltore, e devi dar da mangiare alla famiglia, anche se è una famiglia

ghiotta di carne di iguana, sarai comunque probabilmente molto più propenso ad abbattere e a bruciare gli alberi per fare spazio al bestiame o alle coltivazioni, a

qualcosa, cioè, che si possa anche vendere. In fin dei conti, è vero, sì, che le iguane sono ottime per cena, ma non puoi certo vestirci i tuoi bambini.

Nonostante il risultato di tutto ciò sia una spirale che precipita verso il basso sia per la foresta sia per gli agricoltori, tale processo può tuttavia essere invertito. Come ha dimostrato Dagmar Werner grazie a una serie impressionante di esperimenti sul campo, le iguane, se gestite in modo opportuno, consentono una produzione di carne dieci

volte superiore a quella del bestiame consueto, e in più lasciano gran parte della foresta intatta. Il trucco consiste nell’allevare una razza di riproduttori, nell’incubarne le uova, nel proteggere i piccoli appena nati durante le prime, delicatissime fasi della crescita, e poi nel liberarli nella foresta. Si lascia che le iguane si cibino di foglie della volta forestale, magari integrando la loro dieta con avanzi di cucina, fino a che raggiungono una taglia commerciabile. Sarà inoltre necessario proporre il prodotto su un mercato più ampio, allentando nel contempo le leggi a loro protezione nelle zone in cui esse venissero allevate. Nell’elenco qui di seguito, sono indicati alcuni animali selvatici che si potrebbero allevare a scopi alimentari: SPECIE

DISTRIBUZIONE

USI

Suino abitante nel folto della Babirussa

Indonesia:

foresta, si nutre di vegetazione

(Babyrousa

Molucche e

ad alto contenuto di cellulosa, e

babyrussa)

Sulawesi

pertanto dipende poco dalle granaglie È il roditore più grande del

Capibara (Hydrochoeris Sudamerica hydrochoeris)

mondo; carne pregiata; facilmente allevabile in habitat aperti in prossimità dell’acqua Sono uccelli, potenzialmente

Ciacialaca (genere Ortalis)

allevabili come galline tropicali, Centroamerica che formano grosse popolazioni. e Sudamerica Siadattano all’ambiente antropizzato e crescono velocemente Minacciato di estinzione, è

Gaur o bue

India, Penisola parente del bue domestico; si

delle giungle di Malacca

tratta di una specie di bovide

(Bos gaurus)

alternativa

Iguana (Iguana iguana) Guanaco (Lama guanicoe)

È il «pollo degli alberi»: per America

7000 anni è stato uno dei cibi

tropicale

tradizionali; cresce rapidamente, e ha bassi costi di allevamento Specie minacciata, parente del

Ande fino alla lama; fonte eccellente di carne, Patagonia

pelliccia e di pellame da concia; può essere allevato con successo

Spiagge dell’India e Lepidochelys olivacea

coste occidentali del Messico e dell’America

Tartarughe che escono dal mare per deporre uova la cui raccolta è commercialmente produttiva se le spiagge vengono protette

centrale Grossi roditori dalla carne Paca (Cuniculus paca)

pregiata; catturati di solito allo America tropicale

stato selvatico, possono comunque essere allevati in piccoli branchi all’interno di aree forestate

Cinghiale nano (Sus salvanius)

Si tratta di uno dei manimiferi a India

più alto rischio d’estinzione;

nordorientale potenzialmente è una fonte di nuovi geni per il maiale domestico

Pterocle (Pterocles sp.)

Deserti africani e asiatici

vicugna)

alla vita nei deserti più inospitali; è possibile ridurli allo stato domestico Specie minacciata parente del

Vigogna (Lama

Uccelli simili ai piccioni, adatti

Ande centrali

lama; fonte pregiata di carne, pelliccia e pellame da concia; può essere allevato con profitto

Scopo di tutte queste innovazioni è di aumentare la produttività e il benessere arrecando contemporaneamente un disturbo minimo e una altrettanto minima perdita di biodiversità agli ecosistemi naturali. Qualora sia scelto e gestito oculatamente, l’esotico finirà per divenire familiare e benaccetto, rimanendo innocuo per l’ambiente. Alla categoria delle potenziali élite – quella delle tartarughe fluviali e delle iguane – va aggiunto il babirussa, animale simile al maiale che abita le foreste pluviali di Sulawesi, nonché le isole Sula, Togian e Buru, tra le Celebes e la Nuova Guinea. Il babirussa è una creatura bizzarra del tipo che normalmente si incontra negli zoo: ha pelle liscia, di colore grigio e quasi completamente glabra; nel maschio, i denti canini superiori crescono come zanne verso l’alto, forando la parete carnosa del muso e curvando all’indietro, verso la fronte, senza che entrino mai nella bocca. I parenti più prossimi del babirussa ora sono tutti estinti, ma una volta popolavano le foreste dell’Europa. Gli esemplari adulti sono più grossi di un uomo e pesano fino a 100 chili.

Nonostante la sua somiglianza con le divinità demoniache indù, le popolazioni indonesiane della foresta non hanno esitato ad addomesticarlo, ed esso è un’importante fonte di carne. La sua caratteristica commerciale più promettente, tuttavia, risiede nel fatto che potrebbe essere un suino ruminante. Infatti, possiede uno stomaco grande e concamerato, simile a quello delle pecore; si tratta di una caratteristica unica che, si direbbe, gli consente di nutrirsi abbondantemente di foglie e di vegetazione ricca di cellulosa. Con un po’ di fortuna, il babirussa potrebbe ingrossare le file dei suini domestici nelle altre parti del mondo, grazie anche alle sue capacità di nutrirsi di foraggio poco costoso e disponibile ovunque. Gli obiettivi della crescita economica e della conservazione dell’ambiente potrebbero essere entrambi perseguiti allevando le varie specie nei loro ecosistemi naturali, proprio alla maniera delle tartarughe fluviali, delle iguane, dei babirussa, oppure mediante il trasferimento delle specie più resistenti all’interno di quei territori marginali che possiedono poche specie endemiche. Potenzialmente, l’aumento produttivo più forte sarebbe prerogativa dell’acquacoltura, vale a dire dell’allevamento di pesci, ostriche e molluschi vari, e altri organismi marini e d’acqua dolce, sia all’interno di bacini artificiali sia, come nel caso dei molluschi, su pali piantati nelle foci fluviali. Più del 90 per cento del pesce consumato in tutto il mondo è ricavato dalla pesca praticata in ambienti allo stato naturale. Si tratta di un tipo d’industria primitivo che prevale tuttora benché siano ormai disponibili sofisticate tecniche di acquacoltura e i pesci in particolare vengano allevati da almeno quattromila anni all’interno di stagni o comunque di strutture chiuse. Se si imprimesse una svolta decisa all’acquacoltura, la produzione di proteine animali potrebbe aumentare di molte volte nel giro di dieci o vent’anni. «Le ragioni di questo potenziale sono sostanzialmente due», ha scritto Norman Myers: Innanzitutto, le creature acquatiche sono notevolmente avvantaggiate rispetto ai

loro parenti terrestri dal fatto che la densità del loro corpo è quasi uguale a quella del liquido in cui abitano, e perciò non devono sprecare energia per reggerne il

peso; inoltre, ciò significa che questi organismi, rispetto a quelli terrestri, possono destinare alla crescita una maggior percentuale dell’energia complessiva ricavata

dal cibo. In secondo luogo, in quanto organismi a sangue freddo, essi non devono investire molta energia per mantenersi caldi. La carpa, per esempio, può convertire

in carne un’unità di cibo a una velocità pari a una volta e mezzo quella del maiale o

della gallina, e due volte più velocemente di un bue o di una pecora. La Daphnia, piccolo crostaceo simile a un gamberetto, quando viene allevata in un ambiente ricco di nutrimento, può produrre circa 20 tonnellate di carne per ettaro in poco meno di cinque settimane, il che equivale a un tasso di produzione dieci volte

superiore a quello dei semi di soia, e il tutto a un costo di un decimo per unità di proteine prodotta.

L’acquacoltura praticata attualmente ricorda un po’ l’allevamento del bestiame e l’agricoltura di tipo tradizionale, in quanto si serve solo di una piccola percentuale della biodiversità disponibile. Infatti, dipende in grande misura da quelle specie nelle quali i primi acquacoltori si imbatterono per caso. Nel mondo vi sono circa 300 tipi di pesci allevati a scopo alimentare. Ma l’85 per cento del prodotto deriva esclusivamente da alcune specie di carpa, mentre i ciclidi del genere Tilapia contribuiscono a quasi tutta la parte restante. Vi sono altre 18.000 specie già note alla scienza, e di certo migliaia e migliaia ancora da scoprire. Alla fine, soltanto una minoranza risulterà interessante dal punto di vista commerciale, ma quand’anche essa dovesse ammontare solo al 10 per cento del totale, rappresenterebbe comunque un aumento notevole nell’utilizzo della biodiversità. Tra le facoltà delle industrie vi è anche quella di aumentare la produttività proteggendo, contemporaneamente, la diversità biologica, e, anzi, di agire in modo che le due si incrementino a vicenda. Le foreste di tutto il mondo, per esempio, sono sotto pressione a causa della domanda crescente di pasta da carta. Foreste di migliaia di specie nel Borneo, e antiche foreste in Nordamerica, vengono oggi convertite in pasta da carta a un ritmo tale che, alla fine del secolo, la produzione annua dovrebbe raggiungere i 400 milioni di tonnellate. Esistono sistemi che consentono di ricavare

carta da giornale e scatole di cartone senza ricorrere alla conversione degli ambienti naturali. Il chenaf (Hibiscus cannabinus), una pianta dell’Africa orientale parente del cotone e del gombo, supera da ogni punto di vista le piante legnose tradizionali. Il fusto, simile a quello del bambù, ma con fiori bianchi che ricordano quelli dell’ibisco, raggiunge un’altezza finale di 5 metri nel giro di quattro o cinque mesi. Negli Stati Uniti meridionali, il chenaf rende da tre a quattro volte più pasta da carta degli alberi, e inoltre, per sbiancarne le fibre, occorre un trattamento chimico di minore entità. I giovani fusti si possono tagliare e raccogliere con una macchina simile alla mietitrice per la canna da zucchero. Le materie prime per l’industria della carta possono essere ricavate su larga scala da alberi giovani coltivati in modo particolare: mediante un procedimento tuttora in fase sperimentale, gli alberi vengono coltivati in densi appezzamenti e quindi falciati come fossero un prato («erba di legno») quando sono ancora giovani e flessibili. I loro tessuti vengono poi trasformati in pasta da carta, in combustibile, o in foraggio per gli animali da allevamento. Basta scegliere le specie arboree giuste, e i boschetti crescono velocemente germogliando dagli apparati radicali come fossero erba, senza bisogno alcuno di essere riseminate. Come se non bastasse, quando vi è una predominanza di leguminose – piante che arricchiscono il suolo di sostanze azotate – si riduce anche il bisogno di fertilizzanti. Le piantagioni di chenaf e di «erba di legno» rientrano fra le ultime scoperte avvenute nel corso di una saga risalente all’alba dell’agricoltura. L’innovazione cruciale, operata da cinque a diecimila anni or sono in vari luoghi, fu la coltivazione di certe specie commestibili che già venivano raccolte in natura, seguita dalla selezione, all’interno di quelle stesse specie, delle varietà migliori. I cacciatori-raccoglitori dovevano aver capito già da millenni che le piante producono semi, e che da questi si sviluppano le piante. Non ci volle molto, quindi, a prendere quei semi e a piantarli in luoghi adatti. Quegli uomini divennero veri e propri agricoltori quando appresero anche a coltivare le piante su suoli preparati all’uopo, e a

selezionare le varietà migliori da cui ricavare la generazione successiva. A quel punto, prese avvio una catena di eventi che – secondo l’immagine di Erich Hoyt – portò quelle piante e le loro discendenti in una cavalcata strana e meravigliosa fin dentro la storia moderna. Oggi, le località geografiche che un tempo ospitarono l’agricoltura neolitica albergano, oltre alle varietà addomesticate su terreni agricoli, anche quelle specie selvatiche originali che ancora sopravvivono nei vicini habitat naturali in declino. La commistione di varietà selvatiche e addomesticate fa di questi luoghi i quartieri generali della biodiversità. Essi sono stati battezzati «centri di Vavilov» per commemorare i lavori pionieristici svolti dal botanico russo Nikolaj Vavilov, il quale, negli anni Venti e Trenta, attraversò l’Afghanistan, l’Etiopia, il Messico, il Centroamerica e raggiunse gli angoli più sperduti dell’Unione Sovietica per raccogliere campioni di piante da destinare all’agricoltura. Nel corso degli ultimi decenni, grazie al lavoro di altri botanici, le nostre conoscenze circa l’ubicazione di altri centri di biodiversità sono andate crescendo. I centri di Vavilov non hanno nulla di misterioso. Per lo più, sono semplicemente i luoghi in cui è nata l’agricoltura, e quindi rientrano nelle aree distributive delle piante scelte dai primi agricoltori. Nell’Asia sudoccidentale, per esempio, si trovavano piante da cui sono derivati il grano e l’orzo. Nel Messico crescevano invece il mais selvatico, alcune cucurbitacee, i fagioli, mentre in Perù si trovavano gli antenati delle patate. L’agricoltura ebbe come conseguenza l’evoluzione, mediante la selezione artificiale, delle piante dotate del fogliame più nutriente, dei tuberi di dimensioni maggiori e dei frutti più teneri, cui vanno le preferenze dell’uomo. Questo tipo di specializzazione comporta una capacità ridotta di resistere nell’habitat originale senza ricevere cure; a riprova di ciò, vale la constatazione che – almeno, per quanto mi risulta – non esiste ceppo domestico ricomparso nell’ambiente d’origine per competere con le forme selvatiche. Inoltre, le varietà da coltivazione sono più vulnerabili alle malattie nonché agli assalti degli insetti fitofagi e degli altri parassiti vegetali. La selezione

artificiale è sempre stata un compromesso fra la creazione per via genetica dei caratteri preferiti dall’uomo e una debolezza genetica, non desiderata ma inevitabile, di fronte ai nemici naturali. Con l’avvento della Rivoluzione Verde prodotta dall’agrotecnologia, il compromesso si è accentuato. Durante gli ultimi quarant’anni sono state ottenute e coltivate in massa varietà vegetali altamente produttive, e le specie addomesticate hanno raggiunto un livello di specializzazione e di omogeneità ancor più spinto. Gli agricoltori indiani un tempo coltivavano circa 30.000 varietà di riso; ebbene, questa diversità sta scemando così in fretta che, in capo al 2005, tre quarti delle risaie forse non accoglieranno più di dieci varietà. In un mondo creato dalla selezione naturale, omogeneità è sinonimo di vulnerabilità. La purezza dei ceppi riduce la resistenza alle malattie allo stesso modo in cui le monocolture su vaste aree sono un invito per i nemici naturali fattisi nuovamente pericolosissimi. La reciproca vicinanza delle risaie asiatiche, rese ancor più vulnerabili dalla raccolta eseguita più volte all’anno, ha spalancato le porte a una rapida invasione da parte di malattie che possono minacciare il sostentamento di milioni di persone. Durante gli anni Settanta, il virus che causa il rachitismo delle piante erbacee devastò le risaie indiane e indonesiane. Per fortuna, esisteva un numero di varietà di riso sufficiente per risolvere il problema. L’Istituto Internazionale del Riso sperimentò la resistenza agli attacchi del virus su 6273 varietà diverse di riso. Tra questi, solo Oryza nivara (scoperta nel 1966), una specie indiana relativamente debole, dimostrò di possedere i geni con le qualità richieste. Essa fu quindi incrociata con le varietà più diffuse per creare un ibrido resistente alla malattia; ibrido che oggi è coltivato su 110.000 chilometri di risaie in tutta l’Asia. Gran parte delle piantagioni di caffè (Coffea arabica) del Brasile discende da un unico albero importato dall’Africa orientale. I primi trapianti furono effettuati nelle Indie Occidentali, dalle quali, più tardi, parte della progenie salpò per i lidi sudamericani. Nel 1970 arrivò in Brasile la cosiddetta «ruggine del caffè», una malattia

fungina causata da Hemileia vastatrix che già nello Sri Lanka aveva distrutto quasi tutte le piantagioni, e che si diffuse anche in Centroamerica, minacciando l’economia di parecchi paesi. Si dà il caso che alcune varietà di caffè selvatico crescano ancora nella regione di Kaffa, nell’Etiopia sudoccidentale, presunto luogo d’origine della pianta addomesticata. Lì furono rinvenuti geni resistenti alla ruggine che, incrociati con quelli delle piante addomesticate del Brasile e del Centroamerica, permisero di salvare le industrie locali appena in tempo. Le specie da raccolto devono all’incirca il 50 per cento del loro aumento di produttività all’incrocio selettivo e all’ibridazione, cioè a programmi agricoli che rimescolano intenzionalmente i geni di più specie e varietà. L’odierno pomodoro (Lycopersicon esculentum) è avvantaggiato dal fatto di possedere i geni di molte altre varietà e specie affini. Infatti, ce ne sono almeno nove, tutte originarie del Centroamerica e del Sudamerica, che hanno fornito a questo prodotto agricolo caratteri preziosi, o che comunque possiedono dei geni potenzialmente utilizzabili a tale scopo: Lycopersicon cheesmanii. Endemico delle isole Galapagos; si può irrigare con acqua di mare. Lycopersicon chilense. Resistente alla siccità. Lycopersicon chmielewskii. Migliora l’aspetto del prodotto aumentandone l’intensità del colore; ha contenuto di zuccheri superiore. Lycopersicon esculentum cerasiforme. Resistente alle alte temperature e all’umidità. Lycopersicon hirsutum. Varietà di montagna, resistente a molte malattie e parassiti.

Lycopersicon parvilorum. Migliora l’aspetto del prodotto aumentandone l’intensità del colore; quantità superiore di nutrienti solubili. Lycopersicon pennellii. Resistente alla siccità, maggior contenuto di vitamina C e di zucchero. Lycopersicon peruvianum. Resistente ai parassiti, ricco di vitamina C. Lycopersicon pimpinellifolium. Resistente a moltissime malattie, presenta un basso livello di acidità e un contenuto di vitamine superiore. La creazione dell’odierno pomodoro domestico fu il risultato di abili scelte nell’incrocio tra le specie, ma richiese anche il lavoro di molte generazioni. Una specie o una razza selvatica incrociata con i ceppi addomesticati porta con sé anche una serie di geni meno opportuni che riducono la quantità di raccolto e la sua qualità. Gli agricoltori che praticano le tecniche di selezione devono cancellare questi caratteri attraverso ripetuti reincroci, accoppiando cioè gli ibridi con le varietà domestiche, fino a quando nel ceppo riproduttore non restano che i geni desiderati provenienti dagli esemplari domestici e da quelli selvatici. Infine, si può ottenere l’ibridazione convenzionale solo tra specie e varietà sufficientemente simili tra loro da permettere l’incrocio, come nel caso dei molti «genitori» del Lycopersicon esculentum. Oggi, però, rispetto alle tecniche di incrocio tradizionali è possibile prendere una scorciatoia. Grazie alle nuove tecniche di ingegneria genetica, si possono trasferire i geni per via diretta, prelevandoli dai cromosomi di una specie e inserendoli in quelli di un’altra, senza, quindi, ricorrere all’ibridazione dei loro interi genomi. In altri termini, è stato eliminato l’aspetto sessuale del processo. Ma non è tutto: lo scambio può essere addirittura ottenuto anche tra specie di piante o di animali talmente diverse tra loro da rendere impossibile l’ibridazione normale. Thomas Eisner ha descritto con immagini

molto efficaci le possibilità che ora si presentano: Oggigiorno, la specie biologica va vista come qualcosa di più che un’irripetibile combinazione di geni. In conseguenza dei recenti progressi dell’ingegneria genetica,

va considerata come un magazzino di geni potenzialmente trasferibili ad altre specie. Una specie non è solo una sorta di libro rilegato della biblioteca della

natura. È anche, contemporaneamente, un libro a fogli mobili le cui pagine – i geni – possono essere trasferite selettivamente e modificate a vantaggio di altre specie.

Una delle specie facenti parte del genere del pomodoro, se trattata come un block notes a fogli mobili, potrebbe anche condividere alcuni geni con specie appartenenti ad altri generi, per esempio con piante della più ampia famiglia delle Solanacee, o perfino con angiosperme radicalmente diverse, donando o acquistando la resistenza ad alcune malattie, o garantendo dimensioni maggiori dei frutti, o resistenza al freddo, o la capacità di crescere durante tutto l’anno, e così via, attraverso l’intera gamma delle proprietà biologiche più appetibili. Sono, queste, tutte possibilità in grado di accrescere per l’umanità l’importanza potenziale di ogni specie e di ogni razza selvatica. Con questo, sia ben chiaro, non intendo proporre che adesso ogni ecosistema debba essere considerato come una fabbrica di prodotti utili. Gli ambienti naturali hanno valore in quanto tali e non hanno bisogno di trovare giustificazione al di fuori di se stessi. Ma tutti gli ecosistemi, compresi quelli appartenenti alle riserve naturali, possono essere fonti di specie da coltivare altrove a scopi pratici, o di geni da trasferire alle specie addomesticate. Le foreste pluviali rappresenteranno il banco di prova più importante per questo principio utilitaristico. Ora come ora, in molte regioni tropicali i profitti maggiori derivano dall’abbattimento totale di un tratto di foresta per volta. Il terreno costa talmente poco che la distruzione della foresta originaria costituisce senz’altro un affare, il che spinge all’acquisto di altra terra, e così via, in un ciclo che si chiude solo quando non ci sono più alberi da abbattere. L’alternativa consiste nell’uso delle foreste pluviali a mo’ di riserve estrattive, vale

a dire per la raccolta di prodotti «secondari» quali la frutta, gli oli, il lattice di gomma, le fibre e le sostanze medicinali. Dal punto di vista economico, la questione chiave sta nel vedere se i guadagni derivanti da tali prodotti bastino a giustificare la conservazione delle foreste pluviali per il loro utilizzo come riserve estrattive. La risposta, almeno per quanto riguarda alcune località, è positiva nonostante le scarse conoscenze di cui disponiamo. Nel 1989, Charles Peters, Alwyn Gentry e Robert Mendelsohn dimostrarono non solo che i prodotti secondari del Perù amazzonico sarebbero stati, a lungo termine, remunerativi, ma addirittura che lo sarebbero stati ben di più del precedente sistema dell’abbattimento degli alberi. Dei 275 tipi di alberi identificati all’interno di un appezzamento di 1 ettaro, nei pressi della città di Mishana, 72 (pari al 26 per cento) fornivano frutti, verdura, cacao selvatico e lattice, tutti prodotti che in Perù hanno un mercato. Il guadagno annuo, sempre per ettaro e al netto delle spese di raccolta e trasporto, fu stimato in 422 dollari. Il legno contenuto nell’appezzamento di Mishana, se tagliato secondo la solita prassi tutto in una volta e consegnato alla segheria, dà un introito netto di 1000 dollari. Ciò significa che la raccolta continua della frutta e del lattice può garantire in breve tempo guadagni maggiori dell’abbattimento degli alberi, col vantaggio ulteriore che la foresta viene lasciata intatta. Altrettanto vale per alberi pregiati che vengano segati a intervalli regolari, in modo da massimizzare la raccolta di legname; a lungo termine, il guadagno resterebbe comunque inferiore a un decimo di quello garantito dalla frutta e dal lattice. Riporto un elenco di ricchezze non ancora sfruttate, per ettaro di superficie, della foresta pluviale di Mishana. Il calcolo del raccolto di prodotti mostrato qui sotto è stato fatto su basi prudenziali, dato che si fonda sull’elenco dei prodotti già collaudati commercialmente, e su un mercato ancora poco sviluppato. Finora sono stati fatti pochi sforzi per condurre test bioeconomici sugli interi ecosistemi; test, cioè, in grado di identificare le specie che possano produrre cibo e medicinali, nonché agire da pesticidi e quali fattori per la ricostituzione e l’arricchimento del suolo. Quando si abbatte la foresta per utilizzarne il legname e il suolo a fini agricoli,

quasi tutte le specie in grado di svolgere queste funzioni vengono eliminate. Il vecchio modo di utilizzare la terra, legato indissolubilmente alle tradizioni mercantili dei conquistadores e ai capricci dei mercati esteri, consentono di ricavare dalla foresta solo parte della sua ricchezza, sprecandone il resto. Lo stesso vale, seppure in misura leggermente minore, per la valutazione e l’uso intensivo delle foreste delle zone temperate. Gli economisti stanno compiendo grandi sforzi nel tentativo di far rientrare nelle loro equazioni l’ambiente naturale e le specie viventi. A tale scopo, è stata creata una nuova branca, l’economia ecologica, dedita al calcolo della sostenibilità e della produttività dell’ambiente a lungo termine. Personalmente, ritengo che alla fine si riuscirà a calcolare in modo preciso quale sia la frazione di biodiversità che può essere sottoposta ad analisi di tipo economico, come già si è fatto per i prodotti vegetali commerciabili dell’appezzamento di Mishana. A questi andranno poi aggiunte le entrate derivanti dall’«ecoturismo». Infatti, ci sono sempre più persone, provenienti dai paesi sviluppati, disposte a pagare per assistere, sia pure brevemente, allo spettacolo della Terra prima dell’arrivo dell’uomo. Nel 1990, il turismo è arrivato a essere per il Costa Rica la seconda fonte di valuta straniera, superiore a quella delle banane e molto vicina a quella rappresentata dal caffè. Le foreste pluviali adibite all’ecoturismo si sono rivelate molto più redditizie, per ettaro impiegato, delle terre diboscate a scopo agricolo e di allevamento. L’ecoturismo è, per importanza, la terza fonte economica del Ruanda, subito a ridosso di voci quali il caffè e il tè, e questo perché quel piccolo paese sovrappopolato dell’Africa orientale ospita il gorilla di montagna. Il Ruanda protegge il gorilla, e il gorilla ricambierà contribuendo a salvare il Ruanda.

Gli economisti, comunque, non sanno andare oltre il calcolo dei valori di mercato. Quando si smette di ragionare in termini di prodotti e di dollari portati dai turisti, i loro metri divengono elastici e poco precisi. Infatti, non sono in grado di misurare con sicurezza i «servizi di ecosistema» che le specie sono in grado di erogare singolarmente o in combinazione: il suolo che ariamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che pompiamo dal sottosuolo. Gli ecosistemi naturali regolano i gas atmosferici, che a loro volta influenzano la temperatura, l’andamento dei venti e le precipitazioni. Le vaste foreste pluviali amazzoniche creano da se stesse più di metà della pioggia che le bagna. Perciò, quando vengono tagliate, l’apporto idrico si riduce in proporzione. I modelli matematici del ciclo di

precipitazione e di evaporazione dell’acqua indicano che esiste una soglia critica di copertura vegetale al di sotto della quale le foreste non possono più durare a lungo, con la conseguente trasformazione di gran parte del bacino fluviale in una prateria stentata. La morte, allora, potrebbe procedere verso sud, e determinare l’inaridimento delle ricche zone agricole dell’entroterra brasiliano. Quando si radono al suolo le foreste, gli elementi che ne componevano il legno e i tessuti vengono in parte convertiti in gas che determinano l’effetto serra. Poi, però, quando le foreste ricrescono, una quantità equivalente di quegli elementi si ritrasforma in sostanza solida. La perdita netta di copertura forestale mondiale durante il periodo 1850-1980 ha prodotto l’immissione nell’atmosfera di 90-120 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, poco meno dei 165 miliardi prodotti dalla combustione di carbone, petrolio e gas. Questi due processi, assieme, hanno portato la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera a un aumento di oltre il 25 per cento, creando le premesse per un innalzamento della temperatura a livello planetario, e quindi per un innalzamento del livello del mare. Nello stesso periodo, il contenuto atmosferico di metano, gas importante nella genesi dell’effetto serra, è raddoppiato e si ritiene che il 10-15 per cento di tale incremento sia dovuto alla deforestazione tropicale. Se si riforestassero 4 milioni di chilometri quadrati di regioni tropicali, vale a dire un’area pari a mezzo Brasile, si potrebbe azzerare tutto l’attuale incremento di anidride carbonica dovuto alle attività umane, e in aggiunta si rallenterebbe l’immissione nell’atmosfera del metano e di altri gas che producono l’effetto serra. Il suolo propriamente detto è creato dagli organismi. Le radici delle piante frantumano le rocce andando a formare la sabbia e la ghiaia che ne costituiscono il substrato. Ma i suoli sono molto più che roccia frantumata: sono ecosistemi complessi, dotati di vaste gamme di piante, animaletti, funghi e microrganismi tenuti assieme da un delicato equilibrio, e al cui interno circolano nutrienti sotto forma di soluzioni e sospensioni di particelle. Un suolo in buono stato di salute respira e si muove nel vero senso della parola. Il suo equilibrio microscopico dà sostentamento continuo agli ecosistemi naturali così

come ai terreni agricoli. La dizione «servizi di ecosistema» ha un che di burocratico, come «trattamento dei rifiuti», o «controllo della qualità dell’acqua». Ma se dovesse sparire anche solo una piccola parte di quegli organismi, di quegli «operai specializzati» che svolgono proprio queste mansioni, la popolazione umana diminuirebbe e la nostra vita sarebbe molto meno piacevole. L’ignoranza e il disprezzo che dimostriamo nei confronti di quegli organismi le cui vite sono di sostegno alla nostra rappresentano, per l’uomo in quanto specie, un grave errore. Ma, allora, quanto vale la biodiversità? L’approccio econometrico tradizionale, che tiene conto esclusivamente dei prezzi di mercato e dei dollari dei turisti, non può che sottostimare il valore reale delle specie selvatiche, nessuna delle quali è mai stata completamente sfruttata per ricavarne il massimo profitto commerciale, la massima conoscenza scientifica, e il massimo piacere di tipo estetico. Per di più, non ve n’è alcuna che viva in natura senza legami con le altre. Ogni specie fa parte di un ecosistema, ed è esperta in un particolare settore nel quale, via via che si amplia la sua influenza sulla rete alimentare, essa viene messa alla prova. Togliere questa specie dall’ecosistema significa, quindi, determinare dei cambiamenti a carico delle altre, alcune delle quali aumenteranno di dimensioni, altre ancora si ridurranno o si estingueranno del tutto, rischiando, nel complesso, di far precipitare in una spirale discendente l’ecosistema intero. Precipitare fino a che punto? La relazione tra la biodiversità e la stabilità degli ecosistemi è materia scientificamente ancora nebulosa. Alcuni studi paradigmatici condotti nelle foreste indicano che la biodiversità accresce la capacità degli ecosistemi di trattenere e conservare i nutrienti. Quando vi sono molte specie vegetali, l’area fogliare è distribuita in modo più uniforme. Col crescere del numero delle specie cresce la gamma di foglie e di radici specializzate, e quindi aumenta la quantità di nutrienti che la vegetazione nel complesso può estrarre da ogni recesso e in ogni ora del giorno e durante tutte le stagioni. Il livello estremo di biodiversità è forse

quello raggiunto dalle orchidee e da altre epifite delle foreste tropicali, che raccolgono particelle di suolo altrimenti destinate a disperdersi direttamente dalla nebbia e dalla polvere trasportata dal vento. In breve, un ecosistema mantenuto produttivo dalla presenza di molte specie è un ecosistema che ha meno probabilità di soccombere. Se le specie che compongono un particolare ecosistema cominciano a estinguersi, a che punto tutta la macchina comincerà a perder colpi e a destabilizzarsi? Non è dato di saperlo per certo, poiché non disponiamo di una storia naturale degli organismi che ci venga in aiuto per facilitarci la comprensione, né di esperimenti utili a capire gli inceppamenti degli ecosistemi. Tuttavia, possiamo cercare di immaginare come potrebbe svolgersi un esperimento del genere. Se dovessimo smantellare gradualmente un ecosistema, sottraendo una specie per volta, sarebbe impossibile prevedere le conseguenze di ogni singola mossa, ma il risultato finale appare già più che scontato: giunti a un certo punto, l’ecosistema subirebbe un collasso. La maggior parte delle biocomunità sono cementate da ridondanze di vario tipo. In molti casi, all’interno della stessa area vivono due o più specie ecologicamente simili, e, quindi, ciascuna può andare a occupare, in modo più o meno efficace, le nicchie di quelle estintesi. Inevitabilmente, però, si verificherebbe una diminuzione della flessibilità del sistema, l’efficienza della rete alimentare calerebbe, il flusso dei nutrienti si ridurrebbe, e, in ultimo, si potrebbe scoprire che uno degli elementi rimossi era proprio una delle specie chiave. La sua estinzione potrebbe trascinare con sé altre specie, forse in modo così drastico da alterare la stessa struttura fisica dell’habitat. Siccome l’ecologia è ancora una scienza agli albori, nessuno può dirsi sicuro del fatto che proprio certe specie siano gli elementi chiave dell’ecosistema. Siamo abituati a pensare che tali organismi siano di grosse dimensioni – le lontre marine, gli elefanti, gli abeti Douglas, i coralli – ma tra di essi potrebbero esservi anche piccoli invertebrati, alghe e microrganismi che si affollano nel substrato, che costituiscono gran parte del suo protoplasma e che mobilizzano grandi quantità di nutrienti.

Gli economisti parlano del valore opzionale di una specie quando tale valore non è ancora stato quantificato, e non vi è misura, nelle scienze economiche, che susciti maggiore curiosità e sia più elusiva. La difficoltà più grande che essa presenta sta nel fatto che si applica pariteticamente ai tre ambiti standard della valutazione: merci, servizi e moralità. Ha fatto notare Bryan Norton: Col trascorrere del tempo, la nostra conoscenza di tutti questi ambiti aumenta, e

potrà forse portare a nuovi usi merceologici di una certa specie, o a un nuovo livello di apprezzamento estetico; oppure, cambieranno i nostri valori etici e così

alcune specie potranno assurgere a un valore morale che ora non siamo in grado di

riconoscere. Se esprimere in dollari il valore opzionale può sembrare impresa difficile, in realtà lo è ancor più di quanto appaia a prima vista. Il calcolo del valore

opzionale può prendere l’avvio solo dopo che una specie sia stata riconosciuta come tale, che ne abbiamo intuito le possibili utilizzazioni, e stabilito il loro valore in dollari, e dopo aver fatto una stima della probabilità di ulteriori scoperte venture.

Il tentativo di stimare il valore economico delle specie ha dato origine, nel campo del conservazionismo, a due orientamenti in conflitto tra loro. Il primo sta nell’analisi della redditività, che isola una specie per volta, ne valuta i benefici visibili e quelli possibili nel futuro, li compara con i costi necessari per mantenerla in vita, e decide se investire la quantità di territorio e di tempo necessaria per mantenerla in vita. Il secondo orientamento è quello ispirato al cosiddetto safe minimum standard (SMS: standard minimo di sicurezza), che considera ogni specie come se fosse una risorsa insostituibile per l’umanità, e che deve quindi essere conservata per la posterità a meno che il costo non sia insopportabilmente alto. Di certo, la prudenza e la dovuta preoccupazione per i posteri impongono la scelta della linea ispirata allo standard minimo di sicurezza. Gli studi basati sulla redditività sottovalutano costantemente i benefici assoluti che le specie possono procurare, e ciò in quanto è molto più facile valutare, anche in termini puramente monetari, i costi della loro conservazione che non il guadagno finale che se ne ricaverà. Le ricchezze sono li, come terreni incolti in mezzo alla natura, in attesa di essere usati dalle nostre mani, dalla nostra

fantasia, dal nostro spirito. Sarebbe follia lasciar morire anche una sola specie in nome di un puro criterio economico, per quanto convincente esso possa essere; sarebbe follia per il semplice fatto che, da quel momento in poi, il nome di quella specie andrebbe elencato come perdita netta.

14 Decisioni

Ogni nazione ha tre patrimoni diversi: quello materiale, quello culturale e quello biologico. Se abbiamo le idee ben chiare circa i primi due poiché costituiscono il nocciolo della nostra vita quotidiana, quanto alla biodiversità, l’essenza del suo problema sta nel fatto che del patrimonio biologico ci curiamo infinitamente meno. Si tratta di un gravissimo errore strategico di cui, col passare del tempo, ci pentiremo sempre più amaramente. La diversità è, in potenza, una fonte immensa di quella ricchezza materiale che va dagli alimenti ai medicinali, alle comodità della vita moderna. La fauna e la flora fanno anch’esse parte del patrimonio di una nazione, in quanto rappresentano il risultato, localizzato nel tempo e nello spazio, di milioni di anni di evoluzione, e dovrebbero pertanto essere oggetto di pubblico interesse non meno di aspetti particolari quali la lingua e la cultura. Il patrimonio biologico di tutto il pianeta sta attraversando oggi un cosiddetto collo di bottiglia destinato a durare ancora un cinquantennio, se non di più. La popolazione umana ha superato i 5,4 miliardi d’individui, è avviata a raggiungere gli 8,5 miliardi in capo all’anno 2025, e può darsi che si stabilizzi tra i 10 e i 15 miliardi intorno alla metà del prossimo secolo. Di fronte a un aumento così esorbitante della biomassa umana, di fronte a una sempre più forte e più urgente richiesta di beni e di energie da parte dei paesi in via di sviluppo, tra breve resterà a disposizione delle specie vegetali e animali solo uno spazio assai esiguo. Il rullo compressore umano crea un problema di proporzioni epiche: il problema di come uscire dal collo di bottiglia e raggiungere la metà del prossimo secolo con la minor perdita possibile di

biodiversità al minor costo possibile per il genere umano. La riduzione al minimo dei tassi di estinzione e, contemporaneamente, l’abbassamento dei costi economici sono obiettivi compatibili: quanto più ci serviremo delle forme di vita diverse dalla nostra e le risparmieremo, tanto più la nostra specie acquisterà in produttività e sicurezza. Le generazioni future godranno dei benefici derivanti dalle decisioni oculate che noi oggi sapremo prendere in nome della diversità biologica. Sono due le cose che ci occorrono con urgenza: un sapere più vasto e un sistema morale fondato su una scala temporale più lunga di quella che siamo abituati a impiegare. Per sistema morale deve intendersi un codice normativo creato in funzione di problemi tanto complessi e proiettati talmente lontano nel futuro da collocarne la soluzione ben al di là della portata di un approccio consueto. I problemi ambientali sono intrinsecamente problemi etici, ed esigono un codice la cui visuale si estenda contemporaneamente a tempi vicini e a tempi lontani. Quel che per gli individui e le società di oggi risulta un bene, di qui a dieci anni potrebbe facilmente tramutarsi in un danno, e ciò che oggi a noi sembra uno sviluppo ideale, nei prossimi decenni potrebbe invece rivelarsi una rovina per le generazioni a venire. Decidere che cosa costituisca l’optimum sia per il futuro prossimo sia per quello remoto è compito arduo, un’operazione che spesso può apparire contraddittoria, un impegno che richiede una conoscenza dei codici etici in gran parte ancora da scrivere. Una volta riconosciuto che la biodiversità si trova gravemente minacciata, che cosa si deve fare? Già fin d’ora, momento in cui il problema comincia appena a delinearsi, non c’è da avere grandi dubbi in proposito. La soluzione richiederà il contributo di professioni per lungo tempo tenute distinte sia dalla tradizione accademica che dalla pratica. La biologia, l’antropologia, l’economia, l’agricoltura, la politica e la giurisprudenza dovranno arrivare a trovare un linguaggio comune. Il loro incontro ha già fatto nascere una nuova disciplina, quella degli studi sulla biodiversità, altrimenti definibile come lo studio sistematico di tutta la gamma della diversità organica esistente

e della sua origine, unitamente ai metodi praticati per conservarla e impiegarla a beneficio dell’umanità. Ne deriva che, in tali studi, l’impresa è di carattere duplice: scientifico, nel senso che è una branca della biologia pura, e applicato, in quanto branca della biotecnologia e delle scienze sociali. Essa attinge dalla biologia a livello degli organismi e delle popolazioni nello stesso modo in cui gli studi biomedici attingono dalla biologia a livello di cellula e di molecola. Mentre gli studi biomedici riguardano la salute del singolo individuo, quelli di biodiversità si appuntano sulla salute di tutti gli organismi viventi del pianeta e sulla loro utilità per il genere umano. Nelle pagine che seguono, dunque, traccerò un programma di lavoro che troverà, credo, il consenso della maggior parte di coloro i cui studi si sono concentrati sulla biodiversità. Tutte le attività che sto per elencare mirano a un unico scopo: salvare e trarre per sempre vantaggio dalla maggior quantità possibile di biodiversità terrestre. 1. Rilevamento della flora e della fauna terrestri. Accostarsi alla biodiversità è quasi, per i biologi, come viaggiare alla cieca. I biologi hanno solo un’idea pallidissima di quante specie esistono sulla Terra e dei luoghi in cui esse dimorano, giacché la biologia di oltre il 99 per cento di esse è del tutto ignota. I sistematici sono ben consapevoli dell’urgenza di risolvere questo problema, però si trovano assai lontani dall’essere d’accordo sul modo migliore per raggiungere l’obiettivo. Alcuni hanno proposto di dare avvio a un rilevamento su scala mondiale mirante alla scoperta e alla classificazione di tutte le specie. Altri, tenendo giustamente conto della penuria di addetti ai lavori, di finanziamenti e di tempo, ritengono che l’unica speranza realistica risieda nel provvedere a una ricognizione veloce di quegli habitat in cui dimora il maggior numero di specie endemiche minacciate: gli habitat, cioè, considerati ad altissimo rischio. Per promuovere la sistematica al ruolo di più vasta portata che le impone l’attuale ondata di estinzioni occorre innanzitutto che gli

addetti ai lavori esprimano concordemente e con chiarezza quale sia la missione da svolgere, con tanto di preventivi di tempi e di costi. La strategia che ha maggiore possibilità di successo è una strategia composita, mirante, sì, all’inventario completo delle specie terrestri, ma tramite un lavoro da svolgere nell’arco di un cinquantennio e a numerosi livelli, vale a dire su scala di tempo e di spazio – dall’identificazione dei luoghi ad altissimo rischio al rilevamento su scala mondiale – da verificare e adeguare ogni dieci anni. In altri termini, significa che, quando un decennio si avvicina alla fine, si potrà valutare il progresso compiuto fino a quel momento e stabilire eventuali correzioni di rotta. Fin dal principio bisognerebbe dare la massima importanza ai luoghi a più alto rischio dei quali si conosca, o magari soltanto si sospetti, l’esistenza. Si possono prevedere tre livelli d’indagine. Il primo consiste nel metodo Rap (Rapid assessment program), cioè nel Programma di valutazione rapida creato come prototipo dal Conservation International, un ente con sede centrale a Washington che si dedica esclusivamente alla salvaguardia della biodiversità su scala mondiale. Scopo di questo gruppo scientifico è di compiere indagini rapide, vale a dire nell’arco di alcuni anni, su ecosistemi poco noti ma che potrebbero rivelarsi ad alto rischio, al fine di formulare raccomandazioni di emergenza circa lo svolgimento di ulteriori studi e l’adozione di eventuali misure. Le aree prese in esame sono di estensione ridotta, per esempio una valle o una montagna isolata. Poiché la classificazione tassonomica della maggior parte degli organismi è ancora in gran parte ignota, e poiché disponiamo di pochissimi specialisti grazie ai quali condurre adeguati studi di approfondimento, risulta pressoché impossibile catalogare tutta la fauna e tutta la flora, fosse anche di un habitat in pericolo poco esteso. Invece, una squadra di ricercatori Rap si compone di esperti di ciò che potremmo definire i gruppi tassonomici focali, cioè organismi – dalle angiosperme ai rettili, ai mammiferi, agli uccelli, ai pesci, alle farfalle – già sufficientemente noti per prestarsi a un inventario immediato, e che quindi potrebbero fungere da «indicatori» di tutto il biota che li attornia.

Il secondo livello di classificazione consiste nel metodo Biotrop, sigla con cui si designa il Neotropical biological diversity program creato dall’Università del Kansas insieme a un consorzio di altri atenei nordamericani costituitosi verso la fine degli anni Ottanta. Anziché mirare, come fa il Rap, all’identificazione di focolai d’estinzione in determinate località prescelte, il Biotrop si dedica all’esplorazione più sistematica di vaste regioni considerate ad altissimo rischio o che si ritiene possano ospitare al loro interno aree di questo tipo. Tra tali aree rientrano, per esempio, i versanti orientali delle Ande, nonché le foreste sparse nel Guatemala e nel Messico meridionale. Ma, al di là dell’identificazione delle aree critiche, lo scopo più ampio di Biotrop è di stabilire tutta una serie di stazioni di ricerca disseminate in un territorio che si estende a più latitudini e si eleva a quote diverse. Come punto di partenza, il lavoro di ricerca si concentra su alcuni organismi-chiave. Poi, via via che si raccoglie un numero sufficiente di esemplari e si reclutano gli esperti specializzati per studiarli, l’operazione si estende a gruppi meno noti, quali le formiche, i coleotteri e i funghi. Infine, col passare del tempo, all’inventario delle specie si aggiunge l’osservazione accurata delle precipitazioni, delle temperature e di tutti gli altri elementi di quel determinato ambiente. È prevedibile che le stazioni più importanti e meglio attrezzate assurgano più avanti a centri di ricerca biologica a lungo termine, centri nei quali ruoli guida saranno coperti da scienziati delle nazioni ospitanti. Tali centri, infine, potranno essere adibiti all’addestramento di scienziati di tutto il mondo. Veniamo, ora, al terzo e più alto livello di rilevamento della biodiversità. Grazie agli inventari compilati in diverse parti del mondo con i sistemi Rap e Biotrop, integrati da studi monografici dei vari gruppi di organismi, la descrizione del mondo vivente prenderà corpo e forma a poco a poco fino a creare un’immagine ad alta risoluzione di tutta la biodiversità. Questo dilatarsi del sapere darà luogo a tutta una serie di specifiche economie di scala, le quali lo porteranno inevitabilmente ad ampliarsi sempre più in fretta. Infatti, via via che si escogitano nuove procedure per la raccolta e la distribuzione dei campioni, i costi unitari per ogni specie catalogata

diminuiscono. Quando si inseriscono nell’inventario gruppi di organismi non elitari, i costi non sono affatto aggiuntivi, anzi, decrescono proporzionalmente al numero di specie-unità aggiunte. Per esempio, i botanici impegnati nello studio di certe piante possono collezionare anche insetti che vi dimorano e identificarle così come piante ospitanti, a beneficio degli entomologi; i quali, a loro volta, possono ricambiare il favore cogliendo anche le piante ospitanti mentre campionano gli insetti di cui si occupano. Vi sono interi gruppi, quali quelli dei rettili, dei coleotteri e degli aracnidi, di cui si possono raccogliere esemplari in ogni punto di interi habitat, per poi scambiarseli tra specialisti. Man mano che i rilevamenti della biodiversità procedono ai diversi livelli, le cognizioni raccolte diventano come una calamita sempre più potente per altri campi scientifici. Le guide naturalistiche e i trattati illustrati dischiudono le porte alla fantasia, così come le reti di informazione tecnico-scientifica invogliano a partecipare all’impresa geologi, genetisti, biochimici, e così via. Sarà cosa logica radunare molte di queste attività in centri di studio della biodiversità in cui si provveda alla raccolta di tutti i dati e alla progettazione di nuove indagini. Prototipo di tal genere di enti è l’INBio, l’Instituto Nacional de Biodiversidad, fondato in Costa Rica nel 1989 e con sede alla periferia di San José, la capitale. Obiettivo dell’INBio è niente meno che dare conto di tutti i vegetali e gli animali esistenti in quella piccola nazione centroamericana, come a dire di oltre mezzo milione di specie, e di usare le informazioni raccolte in funzione del miglioramento ambientale ed economico del paese. Sarà strano che all’avanguardia di una tale impresa scientifica concentrata si sia posto un paese in via di sviluppo, ma altre nazioni ne seguiranno l’esempio. Per esempio in Inghilterra, in Svezia, in Germania e in altri paesi europei si sono già realizzate, con patrocinio sia statale sia privato, carte particolareggiate della distribuzione di svariate specie vegetali e animali. E, nel momento in cui scrivo, la Smithsonian Institution di Washington ha presentato un progetto per la creazione di un centro statunitense per la biodiversità, progetto che ha suscitato un ampio dibattito. Il disegno di legge per la sua costituzione, già presentato al

Congresso, è ancora in attesa di approvazione. Questo centro nazionale statunitense non dovrà partire da zero. Numerosi tipi di organismi sono già stati meticolosamente studiati e cartografati. Diversi stati, tra cui il Massachusetts e il Minnesota, hanno avviato programmi intesi alla localizzazione di specie vegetali e di invertebrati all’interno dei rispettivi confini. Sono già quindici anni che una delle principali fondazioni americane, la Nature Conservancy, svolge attività dello stesso genere in tutti gli stati, e l’operazione, cioè la creazione di banche dati denominate Natural Heritage Data Centers, è stata estesa di recente a quattordici paesi sudamericani e caraibici. Un altro fattore chiave nello studio della biodiversità a tutti i livelli sarà la microgeografia, cioè la realizzazione di carte che mostrino la struttura di un determinato ecosistema in dettaglio così preciso da permettere di valutare la consistenza delle popolazioni delle singole specie che vi dimorano, nonché le condizioni in cui vivono e si riproducono. In questa direzione è già operante la tecnologia definita dei Geographic Information Systems, consistente nell’insieme stratificato di dati, registrati elettronicamente in un sistema di coordinate comuni, relativi alla geomorfologia, alla vegetazione, ai suoli, all’idrologia e alla distribuzione delle specie. Quando lo si applichi alla biodiversità e alle specie in pericolo, questo tipo di cartografia prende il nome di gap analysis e, sebbene sia ancora da mettere definitivamente a punto, è già in grado di indicare l’efficacia dei parchi e delle riserve esistenti. Può essere impiegato, inoltre, come ausilio per dare risposta alle domande di calibro maggiore circa le attività di salvaguardia: le aree protette abbracciano effettivamente il numero più ampio possibile di specie endemiche? Le frazioni di habitat sopravviventi sono di ampiezza sufficiente a sostenere le popolazioni indefinitamente? E qual è il progetto economicamente più efficace per l’acquisizione di nuovi territori?

La tecnica dei Geographic Information Systems combina l’informazione sugli aspetti fisici e

biologici dell’ambiente integrando insiemi di dati stratificati. Questi possono essere usati per

la gestione del paesaggio in modo da proteggere le specie e gli ecosistemi in pericolo, nonché per l’individuazione di aree da adibire a riserve naturali.

Lo stesso genere di informazioni può servire alla zonazione di regioni vaste. Certe aree dovranno essere circoscritte come riserve inviolabili. Altre saranno riconosciute come riserve più consone ad attività estrattive, o come zone-cuscinetto da adibirsi a coltura temporanea o ad attività venatorie limitate, o come terreni totalmente convertibili alle utilizzazioni da parte dell’uomo. Nell’ambito di questa iniziativa ad ampio respiro, l’architettura del paesaggio sosterrà un ruolo di primo piano. Laddove gli ambienti hanno subito maggiormente l’antropizzazione, la diversità biologica potrà essere tuttavia mantenuta ancora ad alti livelli grazie alla sistemazione ingegnosa di lotti di bosco, di siepi, di bacini idrici, di stagni e laghi artificiali. Piani di vasta portata serviranno a conciliare l’efficacia economica non solo con la bellezza, ma anche con la salvezza di specie e razze intere. I dati stratificati possono contribuire ulteriormente alla definizione delle «bioregioni», di quelle aree, cioè – per esempio bacini idrici, foreste eccetera – che fanno di certi ecosistemi un insieme unico, ma che spesso appartengono a province, a regioni, o addirittura a Stati diversi. Adibire un fiume a linea di confine tra due entità politiche per scopi economici o militari può avere una sua logica, ma è del tutto illogico servirsi di tali delimitazioni ai fini della gestione del territorio. Negli Stati Uniti, il bioregionalismo ha già alle spalle una storia lunga quanto inconcludente: una storia che risale almeno al 1891, al tempo in cui John Muir si fece vittoriosamente paladino della creazione dei parchi nazionali e di tutto il sistema forestale nazionale. A partire dagli anni Trenta il bioregionalismo, poi, è stato sempre più oggetto di sanzioni governative accompagnate ogni volta da programmi specifici: dalla Tennessee Valley Authority, che da una parte gestiva territori e dall’altra produceva energia idroelettrica per una vasta estensione del settore sudorientale della nazione, alla creazione della Appalachian National Scenic Trail (percorso panoramico nazionale degli Appalachi), alla gestione mista federalestatale del sistema idrico della Florida meridionale e delle Everglades, sino alle attività normative e di sviluppo svolte durante il suo mandato, dal 1967 al 1981, dalla New England River Basins

Commission (Commissione per i bacini fluviali del New England). Esempi statunitensi di politica bioregionale se ne potrebbero citare molti altri, ma certo non si può affermare che il movimento si sia aggregato attorno a un’unica filosofia di gestione del territorio. Né la salvaguardia della biodiversità è mai assurta a qualcosa di più di un obiettivo sussidiario. La verità è che le gigantesche dighe costruite dalla Tennesse Valley Authority fornivano, sì, energia elettrica a basso prezzo a una parte povera della nazione, però distruggevano, sia pure inavvertitamente, una percentuale sostanziosa della fauna fluviale autoctona. L’aver assegnato al problema della biodiversità una priorità secondaria non è stato frutto di premeditazione, ma di scarsa conoscenza delle specie vegetali e animali dei territori interessati. Dimostratasi premessa indispensabile per una zonazione e un bioregionalismo efficaci e a lungo termine, la sistematica è un’impresa di tutto impegno. Gli scienziati che si occupano della classificazione di organismi particolari quali i millepiedi e le felci sono spesso, per difetto, le uniche autorità in fatto di biologia generale degli organismi medesimi. Tra gli Stati Uniti e il Canada, vi sono circa 4000 specialisti impegnati nel tentativo di classificare le migliaia e migliaia di specie di animali, di vegetali e di microrganismi viventi nel continente nordamericano. Ma non basta: dal momento che negli altri paesi il numero dei sistematici in attività è ancora minore, quei 4000 devono occuparsi anche, chi più chi meno, dei milioni di specie esistenti nelle altre parti del mondo. Vi saranno al massimo 1500 sistematici di professione, addestrati allo scopo, in grado di occuparsi con competenza degli organismi tropicali, vale a dire di oltre la metà della biodiversità terrestre. Caso esemplare, poi, è quello della penuria di esperti in materia di termiti, insetti che sono i primi agenti decompositori del legno, che rivaleggiano con i lombrichi come dissodatori del terreno, e annoverati tra le specie più distruttive. Ebbene, in tutto il mondo vi sono appena tre persone qualificate a occuparsi della loro classificazione. Ma altro caso sintomatico è quello riguardante gli acari oribatei, creature minuscole che, somiglianti a un bizzarro incrocio tra un ragno e una testuggine,

sono tra i più numerosi animali abitanti nel suolo, i più avidi consumatori di humus e di spore dei funghi, e dunque elementi chiave degli ecosistemi terrestri quasi dovunque. Ora, in America settentrionale c’è un solo esperto che si dedica a tempo pieno alla loro classificazione. Considerato il numero esiguo di persone in grado di metterlo in atto, può sembrare che il rilevamento completo dei vasti giacimenti terrestri di diversità biologica sia un obiettivo irraggiungibile. Tuttavia, se confrontiamo le dimensioni di questa sfida con quanto si è osato fare e raggiungere nel campo della fisica delle alte energie, della genetica molecolare e di altre branche della cosiddetta big science, vediamo che esse non sono poi così titaniche. Quand’anche ci si servisse dei sistemi meno efficienti e meno moderni, si potrebbe arrivare alla catalogazione di dieci milioni di specie nel giro di cinquant’anni. Supponendo che un unico sistematico procedesse al ritmo verosimile di dieci specie all’anno – periodo comprensivo dei viaggi in loco per la raccolta dei campioni, delle loro analisi in laboratorio, della pubblicazione dei risultati, del tempo libero dedicato alla famiglia e alle vacanze – occorrerebbe circa un milione di anni a persona per portare a compimento il lavoro. Invece, su una base di quarant’anni di vita lavorativa per scienziato, l’impresa assorbirebbe 25.000 vite professionali: un numero di sistematici equivalente pur sempre a meno del 10 per cento dell’attuale popolazione di scienziati operante nei soli Stati Uniti, un numero assai inferiore a quello degli effettivi delle forze armate della Mongolia, per non paragonarlo poi a quello degli addetti al commercio della contea di Hinds, nel Mississippi. Stampati e radunati in volumi, con una pagina per specie, i risultati della catalogazione occuperebbero il 12 per cento degli scaffali della biblioteca del Museo di zoologia comparata di Harvard, una delle istituzioni più vaste tra quelle dedicate alla sistematica. Ho calcolato le stime di cui sopra mediante la procedura meno efficiente che si possa immaginare, con l’intento di dimostrare che un inventario completo di tutta la biodiversità esistente non è cosa inverosimile. Il lavoro di sistematizzazione, poi, potrebbe essere

accelerato di parecchie volte grazie a nuove tecniche il cui impiego si sta generalizzando. Il Sistema di analisi statistica (Sas), cioè un complesso di programmi per computer già operante presso diverse migliaia di istituzioni in tutto il mondo, riesce a registrare, di ogni singolo campione, le caratteristiche tassonomiche e la località di raccolta, e a inserire poi automaticamente tali dati nei cataloghi e nelle mappe. Altre tecniche di elaborazione elettronica dei dati si basano sulla fenetica, una procedura che confronta le specie prendendo in considerazione un numero elevato di caratteri e rilevando, a partire da questi, misure obiettive di somiglianza. Altre ancora, basate sulla cladistica, sono di ausilio nel tracciare, per le varie specie, gli alberi genealogici più attendibili. Grazie ai microscopi elettronici a scansione, la rappresentazione iconografica di insetti e di altri piccoli organismi si realizza più rapidamente di una volta, e, col tempo, la tecnologia dei computer porterà a una scansione dell’immagine tale da riconoscere le specie all’istante, segnalando nel contempo gli esemplari appartenenti a specie nuove. I biologi si stanno anche impratichendo delle tecniche di trattamento elettronico dei testi, cosa che consentirà la consultazione della descrizione e dell’analisi di questo o quel particolare gruppo di organismi mediante i personal computer. Nelle banche dati si può immagazzinare a strati qualunque altro genere di informazioni biologiche relative alle specie: ecologia, fisiologia, impiego a fini economici, ruolo di vettori nei confronti di agenti patogeni, parassitismo, dannosità per l’agricoltura, e così via. A queste si possono aggiungere le sequenze di Dna e Rna, nonché le mappe geniche. La GenBank, banca delle sequenze geniche, è stata programmata in modo da poter fornire un database computerizzato per tutte le sequenze di Dna e Rna note, insieme con tutte le informazioni biologiche relative. In capo al 1990, questa banca aveva accumulato 35 milioni di sequenze distribuite su un complesso di 1200 specie di vegetali, di animali e di microrganismi. E oggi, con l’avvento di tecniche perfezionate di lettura delle sequenze geniche, la velocità di accesso ai dati sta aumentando rapidamente.

2. Creazione di patrimonio biologico. Con l’aumentare delle specie inventariate, si apre la strada all’analisi bioeconomica, cioè alla possibilità di valutare a grandi linee il potenziale economico di interi ecosistemi. Ogni comunità di organismi annovera specie virtualmente dotate di valore commerciale: per esempio, prodotti ricavati da legname e da piante selvatiche passibili di sfruttamento prolungato; semi e individui vegetali recisi da trapiantare altrove per dare vita a nuovi prodotti agricoli o a nuove piante ornamentali; funghi e microrganismi da coltivare come fonte di medicinali; organismi di ogni genere forieri di nuove cognizioni scientifiche che porteranno ad applicazioni pratiche ancor più numerose. Inoltre, gli habitat rimasti intatti hanno valore come mete di attività ricreative, valore che è destinato ad aumentare via via che cresce il numero dei turisti capaci di apprezzare le gioie della storia naturale. La decisione di fare dell’analisi bioeconomica una componente consueta della politica di gestione del territorio comporta l’assegnazione di valori futuri agli ecosistemi, e si traduce in tal modo in una protezione dei medesimi. Essa consente di guadagnare tempo contro la rimozione di intere comunità di organismi ritenute per ignoranza prive del suddetto valore. Solo quando si sia raggiunta una conoscenza migliore di questa o quella fauna o flora locale, infatti, si può stabilire quale sia il modo ottimale di trattarla: se proteggerla, oppure adibirla a fonte continua di prodotti estrattivi, oppure distruggerne l’habitat a favore dell’occupazione umana. Per i conservazionisti la distruzione è bestemmia, ma resta il fatto che, per ignoranza, la maggior parte della gente la considera del tutto accettabile. In un modo o nell’altro, dunque, bisogna che entrino in gioco consapevolezza e raziocinio. Sono pronto a scommettere che la conoscenza sempre più diffusa di questi problemi sarà un fattore di salvezza per gli ecosistemi; se è vero, infatti, che i valori bioeconomici ed estetici delle specie aumentano via via che ognuna di esse viene studiata, è altrettanto vero che aumenterà di pari passo l’interesse per la loro salvaguardia. A questo fine, il giusto modus operandi consiste nell’affidare alla legge il compito di dilazionare, alla scienza quello di valutare, e alla conoscenza diffusa quello di

conservare. V’è un principio insito nei comportamenti umani che per la conservazione ha grande importanza: quanto più un ecosistema è noto, tanto meno corre il rischio di finire distrutto. Come afferma il conservazionista senegalese Baba Dioum: «Alla lunga, conserveremo solo ciò che amiamo, ameremo solo ciò che comprendiamo, e comprenderemo solo ciò che ci insegnano». Un’attività di cardinale importanza nell’ambito dell’analisi bioeconomica sta in ciò che Thomas Eisner ha denominato prospezione chimica, vale a dire la ricerca, tra le specie selvatiche, di nuove sostanze medicinali e chimiche in genere. La logica di questo tipo di rilevamento trova sostegno in tutto quanto abbiamo appreso finora a proposito dell’evoluzione organica. Ogni specie si è evoluta sino a diventare una fabbrica chimica tutta particolare, dedita a produrre sostanze che le permettano di sopravvivere in un mondo spietato. Così, una specie di nematodi appena scoperta potrebbe essere produttrice di un antibiotico di efficacia straordinaria, o una falena ancora priva di denominazione tassonomica essere produttrice di una sostanza capace di bloccare i virus in un modo che i biologi molecolari non hanno mai neppure sognato. Un fungo simbiotico ricavato per coltura dalle radichette di un albero quasi estinto potrebbe dar vita a una nuova classe di fattori stimolanti la crescita delle piante così come un’erba ignota rivelarsi fonte – finalmente! – di un repellente infallibile contro i simulidi. Milioni d’anni di prove sperimentali a opera della selezione naturale hanno fatto degli organismi viventi altrettanti chimici d’una bravura sovrumana, dei veri campioni nel superare la maggior parte dei problemi biologici che minano la salute umana. Il rilevamento chimico dipende a tal punto dalla classificazione tassonomica che il modo migliore di effettuarlo è quello di appaiarlo col rilevamento della biodiversità. Inoltre, per riuscire nella loro impresa, i ricercatori devono essere in condizione di operare in laboratori dotati di apparecchiature d’avanguardia oggi reperibili solo nei paesi più industrializzati. La più importante casa farmaceutica del mondo, la Merck & Co., nel 1991 ha accettato di versare all’Instituto Nacional de Biodiversidad del Costa Rica la cifra di un milione di

dollari come contributo all’impegnativa attività di ricerca che sta svolgendo. A mano a mano che raccoglie e descrive i diversi organismi, l’Istituto invia campioni chimici ricavati dalle specie più promettenti alla Merck, i cui laboratori procedono a sottoporli a test di carattere medico. Qualora questa o quella sostanza chimica venga messa in commercio, la casa farmaceutica è tenuta a versare al governo costaricano una parte delle royalty, che vengono quindi assegnate a programmi di conservazione. In passato, la Merck ha già commercializzato quattro prodotti ricavati da organismi del suolo di altri paesi. Uno di questi, ricavato da un fungo, è il Mevacor, agente efficace nell’abbassamento della concentrazione ematica di colesterolo, che nel 1990 è stato venduto per un valore di 735 milioni di dollari. Ne consegue che nel Costa Rica basta una sola scoperta positiva – la possibilità di ricavare un prodotto commerciale da una specie qualsiasi tra i 12.000 vegetali e i 300.000 insetti che si stima vivano in quella nazione – perché l’investimento della Merck risulti altamente remunerativo. Vi sono poi ragioni storiche per cui la Merck e altre aziende sono sempre più propense a investire nel rilevamento chimico. La ricerca di farmaci e altre sostanze chimiche rinvenibili allo stato naturale ha evidenziato, col passar del tempo, un andamento ciclico. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti, le case farmaceutiche eliminarono gradualmente lo screening dei vegetali in quanto rivelatosi troppo complicato e costoso. Di fronte al risultato di scoprire, su diecimila, solo una specie capace di fornire, secondo i procedimenti allora in uso, una sostanza promettente, era chiaro che il gioco non valeva la candela. In seguito, le industrie si orientarono verso nuove tecnologie proprie della microbiologia e della chimica di sintesi, nella speranza di progettare i «proiettili magici» della nuova era medica ricorrendo semplicemente alle sostanze chimiche tradizionali. Affidarsi all’ingegno umano anziché a una chimica naturale formatasi per evoluzione in foreste e giungle lontane sembrava un atteggiamento molto più «scientifico», un procedimento molto più diretto e probabilmente più economico. Tuttavia, i prodotti di origine naturale continuavano a rappresentare, agli occhi di chi era disposto a

diventarne esperto, una potenziale scorciatoia, una sorta di viaggio di Colombo alla volta delle Indie. Oggi, il pendolo ha cominciato a oscillare in senso contrario, ancora una volta grazie ai progressi tecnologici, in quanto test biologici su larga scala e controllati dai robot consentono alle maggiori industrie di esaminare sino a 50.000 campioni l’anno, servendosi semplicemente di frammenti di tessuto o di estratti spediti per via aerea da tutte le parti del mondo. A volte, il percorso dall’organismo allo stato naturale al prodotto commerciale può accorciarsi ulteriormente quando si tenga conto di certi indizi forniti dagli insegnamenti tramandati oralmente e dalla medicina tradizionale delle popolazioni indigene. È fatto rilevante che, dei 119 farmaci allo stato puro attualmente in uso qua e là nel mondo, 88 siano stati scoperti grazie alla medicina tradizionale. Se si potessero raccogliere e classificare le conoscenze appartenenti a tutte le culture autoctone del mondo, si otterrebbe una biblioteca di proporzioni alessandrine. Per esempio, la Cina conta 30.000 specie vegetali e, di queste, circa 6000 sono sfruttate dai cinesi per ricavarne sostanze medicamentose; tra esse si colloca l’artemisinina, un terpene ricavato dall’assenzio annuale Artemisia annua, che sembra una promettente alternativa del chinino nella cura della malaria. Le strutture molecolari delle due sostanze sono totalmente diverse, e dunque la scoperta dell’artemisinina sarebbe arrivata molto più tardi se essa non fosse già stata nota alla medicina tradizionale. Quando si consideri che, per generazioni e generazioni, la vita della gente nonché il prestigio degli sciamani sono dipesi da essa, dobbiamo riconoscere che gran parte dei rimedi della farmacopea tradizionale è efficace. I procedimenti di estrazione e i dosaggi sono stati sottoposti, attraverso tentativi ed errori, a infiniti esperimenti e collaudi. Ma, similmente alle specie vegetali e animali cui si riferisce, quel sapere tramandato oralmente stava svanendo in fretta, di pari passo col trasferirsi delle varie tribù dai loro territori patri alle aziende agricole, ai villaggi e alle città. Via via che le popolazioni primitive apprendono nuovi mestieri, i loro linguaggi cadono in disuso e le loro antiche consuetudini vengono dimenticate. Nel corso degli anni Ottanta, con la sola esclusione di cinquecento individui,

tutti i diecimila componenti della comunità dei penan, nel Borneo, abbandonarono il seminomadismo che praticavano da secoli nelle foreste per insediarsi stabilmente nei villaggi. Oggi i loro ricordi stanno svanendo a gran velocità. Eugene Linden ha scritto: Gli emigrati nei villaggi sanno che i loro anziani avevano l’abitudine di stare attenti

al comparire di una certa farfalla, in quanto ritenevano che essa preannunziasse l’arrivo di un branco di cinghiali e dunque la possibilità di fare buona caccia. Oggi, però, la maggior parte dei Penan non ricorda più quale sia quella farfalla.

All’altro capo del mondo, in Brasile, dal 1900 a oggi novanta delle duecentosettanta tribù indie sono scomparse, e due terzi di quelle sopravvissute si compongono di meno di mille membri; molte, poi, non solo hanno perso le terre di loro proprietà, ma stanno dimenticando le rispettive culture. Piccole aziende agricole sparse in tutto il mondo stanno passando alle monocolture predicate dall’agrotecnologia. Le colture a terrazza degli Inca sono sparite quasi del tutto, mentre quelle assai varie del Mesoamerica e dell’Africa occidentale sono in pericolo. Ridare vita alle forme locali di agricoltura è un altro obiettivo degli studi di biodiversità, obiettivo che si prefigge di rendere l’agricoltura più economica, più pratica, e al tempo stesso di salvaguardare riserve geniche destinate a contribuire allo sviluppo delle colture del futuro. I centri di ricerca hanno la possibilità di introdurre, nelle regioni più adatte a farli prosperare, ceppi e specie ad alto rendimento economico, dal mais perenne all’amaranto, alle iguane. Prototipo riuscito di tali iniziative è il costaricano Catie, un centro di ricerca e addestramento agricolo tropicale, con sede a Turrialba. Fondato nel 1942 dall’Organizzazione degli Stati americani, il Catie si dedica al mantenimento di ingenti campionature di specie vegetali, comprendenti fra l’altro ceppi resistenti alle malattie di cacao e di altre piante coltivate ai tropici. Il personale dell’istituto sperimenta metodi di propagazione relativi a coltivazioni diverse e ad alberi da legname, formula programmi di conservazione degli ambienti naturali, ricerca nuove specie e varietà da coltivare, e addestra i suoi allievi alle nuove tecniche di agricoltura e conservazione. Quanto agli

istituti del futuro, si potrà organizzarli in funzione non solo di queste attività, ma anche del rilevamento chimico e delle tecniche molecolari di trasferimento genico dalle specie selvatiche a quelle domestiche. 3. Incentivazione dello sviluppo sostenibile. I diseredati rurali del Terzo Mondo sono prigionieri di una spirale discendente di povertà e della distruzione della biodiversità. Per uscirne, hanno bisogno di attività lavorative che garantiscano loro quel minimo di alimentazione, di alloggio e di assistenza sanitaria che per una stragrande maggioranza della popolazione dei paesi industrializzati sono ormai un fatto scontato. Senza tali attività, privi di accesso ai mercati, ripetutamente colpiti dalle esplosioni demografiche, questi poveri si buttano sempre più intensamente sulle ultime risorse biologiche naturali. Danno la caccia a tutti gli animali facilmente raggiungibili a piedi, abbattono foreste che non potranno ricrescere, fanno pascolare le loro greggi su ogni terreno dal quale sia impossibile allontanarli con la forza. Si dedicano per anni e anni a coltivazioni poco adatte all’ambiente in cui vivono, e lo fanno perché non conoscono le possibili alternative. Anche i loro governi, privi come sono di adeguate strutture fiscali, e carichi di enormi debiti con l’estero, partecipano alla devastazione ambientale. Ricorrendo a un espediente contabile, registrano come voce attiva nazionale la vendita di foreste e d’altre risorse naturali insostituibili, ma omettono di considerare quale voce passiva le perdite permanenti dei beni ambientali. Ai poveri è negata la necessaria istruzione. Non possono trasferirsi in massa nelle città; nella maggioranza dei paesi, soprattutto quelli tropicali, l’industrializzazione procede a passo troppo lento per poterne assorbire nella forza lavoro nazionale qualcosa di più di un’esigua percentuale. Così, almeno per tutto il secolo venturo, quei miliardi di esseri in lotta andranno sistemati in comprensori rurali. E il problema si riconduce a questo: come faranno le genti dei paesi in via di sviluppo a trarre dalla terra di che vivere decentemente senza devastarla?

Il banco di prova dello sviluppo sostenibile saranno le foreste pluviali dei tropici. Se si riuscirà a risparmiare le foreste, in modo che portino al tempo stesso al miglioramento delle economie locali, allora la crisi della biodiversità si allenterà vistosamente. Quel «se» nasconde certo difficoltà tecniche e sociali quanto mai spinose, però bisogna dire che molte strade per raggiungere lo scopo sono state già indicate, e che alcune sono state sperimentate con successo. Allo stato attuale, uno dei passi avanti più incoraggianti sta nella dimostrazione, di cui parlerò ancora nel capitolo finale, che l’estrazione di materiali non lignei dalla foresta pluviale peruviana può fruttare economicamente quanto il diboscamento e l’agricoltura, e questo nonostante il numero ridotto di sbocchi che offrono a tutt’oggi i mercati locali. In Brasile, tale pratica ha assunto carattere di regolarità, senza che sia intervenuto neppure un minimo di teoria o di analisi dei costi e dei benefici, grazie ai seringueiros, come vengono chiamati gli operai addetti all’estrazione della gomma: essi sono i discendenti di quegli emigrati che, provenienti dal Nord-Est del paese, verso la fine del secolo scorso colonizzarono alcune parti dell’Amazzonia e trovarono nella raccolta del lattice un sicuro mezzo di sussistenza. Mezzo milione in tutto, oggi questi lavoratori ricavano il loro guadagno principale non solo dalla gomma, ma anche dalla noce brasiliana, dai cuori di palma, dai fagioli tonka e da altre derrate selvatiche. Ogni famiglia ha la sua casa in mezzo a sentieri da raccolta disposti a forma di quadrifoglio. Oltre alla raccolta di prodotti naturali, i seringueiros praticano la caccia, la pesca e, nelle radure della foresta, un’agricoltura su scala ridotta. Considerata l’importanza vitale che per loro ha la diversità biologica, la conservazione delle foreste in quanto ecosistemi stabili e generosi è cosa a cui si dedicano attivamente. Anzi, si può dire che essi stessi siano parte integrante degli ecosistemi. Nel 1987 il governo brasiliano ha autorizzato la creazione di diverse riserve estrattive in terreni demaniali, riserve da assegnare mediante concessioni trentennali rinnovabili, e nelle quali è proibito il diboscamento. La creazione di tali riserve rappresenta certamente un progresso concettuale, però non serve a risparmiare altro che una piccola parte

della foresta pluviale. Nel 1980, i nuclei familiari dei seringueiros occupavano il 2,7 per cento della superficie della regione del nord, zona che comprende anche gli Stati di Amazonas e Acre, mentre le fattorie agricole e gli allevamenti di bestiame ne occupavano il 24 per cento. Oggi, solo una minima parte dell’ondata di immigrati che si sta riversando in quelle terre ha la possibilità di dedicarsi all’estrazione della gomma. Il resto dovrà cercare di arrangiarsi dove e come potrà, innanzitutto spingendo più avanti la frontiera agricola. Il problema chiave, per quanto riguarda sia l’Amazzonia sia le altre grandi foreste tropicali, sta nel vedere se questa nuova disponibilità di mano d’opera porterà a salvare o a distruggere l’ambiente. Scrive John Browder: La vera sfida non sta nel decidere dove aprire le riserve estrattive, bensì nel come

integrare l’estrazione sostenibile, e altre pratiche relative alla gestione delle foreste naturali, con le strategie produttive di quelle proprietà rurali già in essere – piccole

e grandi aziende agricole senza distinzione – cui va ascritta in gran parte la devastazione che si sta infliggendo alle foreste pluviali amazzoniche. In sostanza, il

problema di fondo non è quello di dove statalizzare le foreste, ma di come trasformare i lavoratori in migliori gestori del patrimonio forestale.

Le zone selvatiche dell’Amazzonia così come altre vaste foreste pluviali sopravvissute si prestano a raccolte di legname estese e remunerative senza che ciò comporti grosse perdite per la biodiversità. Il metodo scelto, proposto per primo da Gary Hartshorn nel 1979 e poi diffusamente adottato da altri forestali, è quello del taglio cosiddetto a strisce. Se, da una parte, i bacini forestali siti in pianura non poggiano su terreni accidentati, dall’altra, però, la maggioranza sorge su terreni alquanto ondulati, caratterizzati da declivi ben definiti e da fitti sistemi di ruscelli di scolo. A imitazione di quel tipo di caduta naturale degli alberi che apre nella foresta dei varchi lineari, il taglio a strisce dispone i varchi artificiali seguendo le curve di livello dell’altura. Carl Jordan ha così descritto la tecnica: Secondo questo sistema, si comincia a raccogliere il legname in una striscia di terreno che segue l’andamento della curva di livello ed è parallela al corso d’acqua

sottostante. Lungo il bordo superiore della striscia corre una stradina da utilizzare

per la rimozione e il trasporto dei tronchi. Terminato l’abbattimento, si lascia a riposo per qualche anno il terreno denudato in modo che vi spuntino i nuovi

alberelli. Poi, i boscaioli diboscano un’altra striscia, questa volta al di sopra della

stradina. I vantaggi offerti da questo sistema sono, in primo luogo, che le sostanze nutrienti localizzate nella seconda fascia appena diboscata cominciano a scivolare giù sino alla prima fascia, che si sta velocemente rigenerando e si avvale altrettanto

rapidamente dei nutrienti medesimi. E, poi, che semi provenienti dalla zona ancora intatta al di sopra della seconda striscia diboscata rotoleranno a loro volta verso

quest’ultima. Viceversa, nella fascia sottoposta a diboscamento non vi sono affatto alberelli dotati di radici ben sviluppate e capaci di trattenere nutrienti.

Sin qui, tutto bene. Però, che cosa si deve fare perché governi e popolazioni di interi paesi si convincano ad adottare tecniche innovative quali quelle delle riserve estrattive e del taglio a strisce? Per passare allo sviluppo sostenibile – ecco la risposta – si dovrà puntare non solo sulla scienza, ma anche sul diffondersi dell’istruzione e sul progresso sociale. In tutto il mondo si stanno portando avanti progetti di modesto respiro, ma accomunati da un risultato identico: quando si applichino procedure adatte ai diversi casi particolari, lo sviluppo economico e la conservazione si dimostrano entrambi obiettivi raggiungibili. Persuadere la gente è possibile, giacché la gente sa capire dove stia il proprio tornaconto a lunga scadenza, e sa adattarsi. Ecco, qui di seguito, tre programmi messi in atto da paesi sudamericani e coronati da successo. • Nella Repubblica di Panama vive un popolo indio, quello dei kuna, che detiene diritti di sovranità sulle isole San Blas e su 300.000 ettari di foreste dell’adiacente terraferma. I kuna hanno stabilito dei «santuari dello spirito», cioè zone di foresta primaria in cui è permesso tagliare solo certi tipi di alberi ed è proibito praticare l’agricoltura. Le comunità locali si procurano le proteine quasi esclusivamente dal mare e, quanto al legname, alla cacciagione e alle sostanze medicinali, la loro fonte è costituita da un numero limitato di appezzamenti diboscati e adibiti ad agricoltura domestica. Quando uno sperone dell’autostrada Panamericana minacciò di sconfinare nel

comprensorio di loro proprietà, essi dichiararono quella zona riserva forestale e provvidero a piantonarla. Pur consapevoli dell’esistenza del mondo esterno, nonché ospitali verso i turisti, le tribù kuna hanno tuttavia deciso di avversare l’immigrazione e di proteggere la propria cultura entro i confini di quell’ambiente naturale che da secoli le sostenta con generosità.

Il disboscamento a strisce consente di ottenere anche dalle foreste pluviali, che sono ambienti relativamente fragili, una buona resa di legname sostenibile nel tempo. La tecnica consiste nel disboscare, lungo la curva di livello, una striscia di foresta abbastanza sottile da

consentire la rigenerazione spontanea dell’ambiente nel giro di qualche anno. Un’altra

striscia viene tagliata poi al di sopra della prima, e così via, in un ciclo che si svolge nell’arco di molti decenni.

• A differenza delle terre dei kuna, l’America centrale è in vasta parte colpita dall’erosione del suolo e dalla perdita di sostanze nutrienti a causa di un’eccessiva coltivazione del mais e di altri prodotti agricoli; coltivazione che, fomentata a sua volta da un eccessivo aumento demografico, porta al diboscamento su pendii sempre più erti. Poi, via via che la produzione diminuisce, gli agricoltori, in cerca di nuovi terreni coltivabili, invadono altri territori ancora allo stato naturale. Questo modo di procedere è particolarmente esasperato nel Guinope, una regione dell’Honduras. Nel 1981, due fondazioni private – una

internazionale, l’altra honduregna – diedero avvio in alcuni villaggi della regione a un programma pilota patrocinato dal governo, programma destinato a incrementare la produttività e a bonificare i terreni degradati. Si introdussero novità quali i canali di drenaggio, i solchi lungo le curve di livello, le barriere di piante erbacee e la rotazione con legumi in grado di ristabilire normali livelli di azoto nel terreno. I salari dei braccianti e tutti gli altri costi furono interamente a carico degli imprenditori agricoli. Nel giro di alcuni anni, il rendimento triplicò, l’emigrazione cessò quasi completamente, e le nuove tecniche agricole cominciarono a diffondersi nei territori circostanti. • Quando la Carretera Marginal de la Selva fu aperta nella valle Palcazù, in Perù, l’85 per cento di quella zona era ancora ammantato dalla foresta pluviale. Similmente alla maggior parte del versante tropicale orientale delle Ande, dal punto di vista biologico la valle è superdotata, in quanto ospita, per esempio, più di un migliaio di specie arboree. Si tratta, inoltre, di un territorio che ha sempre mantenuto circa 3000 indios amuesha e, da cinquant’anni in qua, altrettanti immigrati che vi hanno impiantato piccole aziende coloniche. Non appena venga aperta alle attività commerciali esterne, una valle amazzonica occidentale subisce invariabilmente un certo tipo di destino: in una prima fase, viene disboscata a opera degli immigrati e delle aziende di legname, e poi è assegnata ad aziende zootecniche e a piccole fattorie agricole. Ben presto, lo strato sottile di suolo acido si impoverisce drasticamente dei fosfati liberi e dei nutrienti che gli sono propri, e così ha inizio la terza fase, quella dell’erosione, della povertà e del parziale abbandono. Per la valle Palcazù, tuttavia, è entrato in funzione un piano alternativo, proposto dall’Ente statunitense per lo sviluppo internazionale e approvato dal governo peruviano. Si tratta di ricavare legname dal taglio a strisce delle foreste, in modo tale da consentire la sua rigenerazione perpetua, grazie a una rotazione nell’arco di trenta-quaranta anni. E inoltre un piano che, entro certi limiti, consente anche la conversione permanente all’agricoltura e alla zoocultura di gran parte dei terreni

coltivabili; ma che impone altresì la creazione di bacini idrici di riserva nell’adiacente catena montuosa di San Matias nonché la trasformazione della vicina catena di Yanachaga in Parco Nazionale Yanachaga-Chemillén. Se tutto andrà bene, la valle Palcazù servirà a sostenere una sana popolazione umana e una buona fetta della biodiversità peruviana per tutto il secolo venturo. Dal punto di vista giuridico, le terre allo stato naturale e la diversità biologica sono proprietà delle varie nazioni, ma dal punto di vista etico fanno parte di quel patrimonio che è bene comune di tutti. Dovunque avvenga, l’estinzione di una specie è una perdita che si riverbera dappertutto. Oggi, i paesi più poveri stanno depauperando le loro ricchezze naturali, e, in questa corsa affannosa verso l’estinzione dei debiti con l’estero e l’innalzamento dei tenori di vita, stanno spazzando via, pur senza volerlo, una buona parte della loro biodiversità. La necessità li spinge a seguire politiche le quali producono sì, in breve tempo, i massimi profitti, ma che portano alla distruzione ambientale. Quanto alle nazioni creditrici, con l’incoraggiare l’avvento del mercato libero nei paesi poveri e concedendo sussidi agli agricoltori di casa propria, non fanno altro che peggiorare la situazione. Si pensi alla famigerata «hamburger connection» tra gli Stati Uniti e l’America centrale. In risposta alle condizioni eccellenti che offriva il mercato statunitense delle carni bovine, in capo al 1983 i proprietari fondiari del Costa Rica avevano accelerato a tal punto la creazione di terreni da pascolo che dell’originario patrimonio forestale del paese restava appena il 17 per cento. Per un certo periodo, il Costa Rica fu il principale fornitore di carni di manzo degli Stati Uniti. Ma poi, quando i gusti alimentari dei «settentrionali» diedero segni di cambiamento, il mercato ebbe un tracollo, e il Costa Rica si trovò a essere una terra spoglia, esposta a una diffusissima erosione del suolo. Aveva buttato al vento gran parte della sua diversità biologica. I paesi in via di sviluppo che devono competere sul mercato internazionale sono fortemente incentivati a investire capitali in

monocolture quali banane, canna da zucchero e cotone. A tale fine, i governi spesso sovvenzionano la bonifica dei terreni incolti e l’uso smodato di pesticidi e fertilizzanti. La corsa verso la massimizzazione delle entrate derivanti dalle esportazioni ha anche l’effetto di concentrare ulteriormente la terra nelle mani di pochi proprietari favoriti dal governo. I proprietari di piccoli appezzamenti sono allora costretti a cercare nuovi terreni, in genere di scarsa produttività, comprendenti anche gli habitat naturali. Messi di fronte alla prospettiva di tracollo economico, non hanno alternative se non quella di spingersi all’interno delle foreste tropicali povere di nutrienti, oppure sui ripidi crinali delle colline, o nelle aree umide costiere, e all’interno delle restanti aree-rifugio della biodiversità terrestre. Le politiche agricole dei paesi più abbienti servono solo ad accelerare questo viaggio verso il baratro. Oggi come oggi, la somma totale che va in forma di sussidi agli agricoltori dei paesi sviluppati ammonta a trecento miliardi di dollari l’anno, sei volte di più del valore ufficiale degli aiuti forniti al Terzo Mondo. Recentemente, quando hanno sottoscritto un ampio programma di allevamento di bestiame da recinto, i paesi della Cee hanno creato automaticamente e artificiosamente un mercato enorme per la manioca; tant’è vero che in Thailandia i proprietari fondiari si sono subito messi a disboscare altri tratti di foresta tropicale per adibirli alla coltivazione di quella pianta, costringendo via via vaste schiere di piccoli agricoltori a spostarsi nel folto delle foreste e sulle colline in via di erosione. Quando, per aiutare i propri coltivatori, gli Stati Uniti posero un freno alle importazioni di zucchero da canna, nel giro di dieci anni le esportazioni di tale prodotto da parte dei paesi caraibici calarono del 73 per cento, cosa che per i braccianti delle piantagioni significò la disoccupazione, e per i piccoli agricoltori la riduzione in aree marginali. Quegli stessi, eccessivi, contributi che il Giappone elargisce ai propri coltivatori di riso per tenere in vita un’antica tradizione agricola – in giapponese l’ideogramma che sta per «riso» significa «radice della vita» – sono causa di recessione per le popolazioni dell’Asia tropicale dedite alla medesima coltura. E, ancora una volta,

l’impatto negativo sugli ambienti naturali aumenta. Sono le nazioni più ricche a stabilire le regole del commercio internazionale. Sono esse a fornire il grosso dei prestiti e degli aiuti diretti, così come ad avere il controllo del trasferimento di tecnologie ai paesi poveri. Tocca a loro, quindi, usare avvedutamente il potere di cui dispongono in un modo che serva al tempo stesso a rafforzare questi loro partner commerciali e a proteggere l’ambiente in tutto il mondo. Altrimenti, se non metteranno nel conto degli accordi commerciali e degli aiuti all’estero anche la protezione della diversità biologica e degli ambienti naturali, gli stessi paesi ricchi finiranno per subire gravi perdite. Il mostro che imperversa nei continenti è l’aumento demografico incontrollato; un mostro davanti al quale il concetto dello sviluppo sostenibile non è che una fragile enunciazione teorica. L’affermazione, fatta da molti, secondo cui le difficoltà delle nazioni sono conseguenza non di sovrappopolazione ma di ideologie carenti o di gestione inadeguata del territorio è un sofisma. Basterebbe che il Bangladesh contasse dieci milioni di abitanti anziché gli attuali centoquindici, perché la sua massa di indigenti venisse sostituita da una popolazione agricola sistemata in aziende floride, lontane dalle pericolose pianure alluvionali in cui oggi si trovano e trasferite invece negli ambienti naturali e stabili delle terre alte. Pretestuoso è, anche, additare – come molti commentatori si ostinano incredibilmente a fare – l’Olanda e il Giappone quali modelli di società nazionali prospere nonostante la loro alta densità demografica. Esse sono entrambe nazioni ad alta specializzazione industriale, ma che dipendono fortemente dall’importazione di materie prime da tutto il resto del mondo. Se avessero il medesimo numero di abitanti per chilometro quadrato del Giappone e dell’Olanda, tutti gli altri paesi del pianeta si avvierebbero verso la qualità di vita del Bangladesh, e in breve le loro risorse naturali andrebbero ad aggiungersi alle sette meraviglie del mondo come vestigia del passato. Ogni nazione ha una sua politica economica e una sua politica estera. È tempo di parlare anche, e più apertamente, di una politica

demografica. Con questo termine mi riferisco non solo alla limitazione del suo aumento non appena una popolazione supera il livello di guardia, come è il caso della Cina e dell’India, ma anche a una politica mirata alla soluzione del seguente problema: qual è, a giudizio delle cittadinanze informate sul problema stesso, il numero ottimale di abitanti dei diversi paesi nel quadro della demografia di tutto il pianeta? La risposta non può venire che da un accertamento dell’immagine che ogni società ha di sé, da una valutazione delle proprie risorse naturali, della propria geografia, nonché del ruolo specializzato e a lungo termine che essa può svolgere meglio in seno alla comunità internazionale. Ne conseguirebbe una pianificazione da attuare, secondo i casi, tramite l’incentivazione o l’allentamento del controllo delle nascite, e tramite norme sull’immigrazione, il tutto in funzione del raggiungimento della prefissata distribuzione, per numero e per fasce di età, della popolazione. Per raggiungere l’obiettivo della popolazione ottimale sarà necessario occuparsi, per la prima volta, di tutta la gamma di iniziative che legano l’economia all’ambiente, gli interessi nazionali a quelli mondiali, il benessere della generazione odierna a quello delle generazioni venture. Questo problema non dovrebbe restare relegato a un ambito accademico, ma dovrebbe divenire oggetto di pubblico dibattito. Se poi l’umanità preferirà destinare se stessa e tutte le altre forme viventi al degrado, almeno l’avrà fatto a occhi aperti. 4. Salvataggio di quel che rimane. Certo, la biodiversità può essere salvata grazie a un ventaglio di programmi, però non è detto che tutti quelli sinora proposti diano garanzia di funzionare. Prendiamone uno che affiora spesso nelle discussioni tra futurologi. Immaginiamo che la gara per il salvataggio della biodiversità sia stata persa, che ci si sia rassegnati alla scomparsa di tutti gli ecosistemi esistenti. Quando gli ingegneri genetici avranno imparato ad assemblare la vita servendosi di composti organici grezzi, sarà dunque possibile creare nuove specie in laboratorio? C’è da dubitarne. Non abbiamo alcuna certezza d’essere in grado di generare organismi artificialmente: quanto meno, organismi complessi come i fiori, le farfalle… o le amebe, del resto.

Quand’anche, poi, possedessimo questa divina facoltà, non riusciremmo a risolvere altro che la metà del problema, e la metà più facile, si badi. I tecnici si troverebbero a lavorare senza sapere alcunché della storia della vita estinta che hanno la pretesa di simulare. Non si hanno nozioni di sorta circa il numero infinito di mutazioni e di episodi selettivi che portarono all’inserimento di miliardi di nucleotidi nei genomi ormai scomparsi, né abbiamo a disposizione altro che frammenti infinitesimali di organismi dai quali ricavare tali nozioni. Le neospecie non sarebbero quindi che un parto della mente umana: creature sintetiche, prive di storia e di capacità adattative, insomma inadatte a vivere in modo indipendente dall’uomo. Quanto agli ecosistemi fabbricati servendosi di esse – per esempio giardini zoologici e orti botanici – esigerebbero cure assidue ed estese. Ma non è il momento di abbandonarsi a sogni fantascientifici. Passiamo dunque al successivo rimedio tecnico che continua a emergere durante i congressi scientifici e nelle discussioni di corridoio. Si possono far risorgere le specie estinte dai Dna conservati nei campioni e nei fossili museali? Di nuovo, la risposta è no. Da una mummia egizia risalente a 2400 anni fa e da alcune foglie di magnolia fossilizzatesi 18 milioni di anni or sono si è potuto mettere in sequenza frammenti di codici genetici, ma si tratta, appunto, di frammenti, non dei genomi completi. E, per giunta, sono irrimediabilmente alla rinfusa. Clonare quegli organismi, o magari un mammut, oppure un dodo, equivarrebbe – per citare il paragone fatto recentemente dal biologo molecolare Russell Higuchi – a prendere una grossa enciclopedia scritta in una lingua sconosciuta e ridotta in brandelli con l’intento di ricostruirla senza nemmeno toccarla con un dito. Veniamo alla terza ipotesi, di cui si parla costantemente: perché non accantonare il problema e lasciare che provveda l’evoluzione naturale a creare i rimpiazzi delle specie in via di estinzione? Sì, se le generazioni future fossero disposte a un’attesa di milioni di anni, si potrebbe fare. Ma non si dimentichi che, dopo le cinque grandi estinzioni avvenute in tempi geologici, ci vollero dai dieci ai cento

milioni d’anni perché la biodiversità tornasse in pieno allo statu quo ante. E, ammesso pure che l’Homo sapiens sia destinato a durare così a lungo, il processo imporrebbe il ritorno di gran parte delle terre al loro stato naturale. Con la lottizzazione e altre forme di disturbo arrecate al 90 per cento delle terre emerse, l’umanità ha già chiuso la maggior parte dei teatri dell’evoluzione naturale. E poi, anche se adottassimo tale soluzione e ci disponessimo ad attendere per tutto quel tempo, il nuovo scenario faunistico e floristico che ne risulterebbe sarebbe assai diverso da quello distrutto. Stando così le cose, allora perché non raccogliere campioni di tessuti di tutte le specie e congelarli in un bagno di azoto liquido? Poi, più tardi, si potrebbe clonarli perché sviluppassero organismi completi. Applicato ad alcuni microrganismi – virus, batteri, lieviti e anche spore di funghi – il sistema ha già funzionato. A Rockville, nel Maryland, l’American Type Culture Collection conta oltre 50.000 specie sospese nel sonno profondo di una totale inattività biochimica, ma pronte all’occorrenza a essere riscaldate e riattivate. Sono colture destinate alla ricerca, in primo luogo nei campi della biologia molecolare e della medicina. Non è da escludere che si possano conservare nel sonno d’azoto anche molti altri organismi più grossi, se non altro in forma di uova fecondate, da far sviluppare poi fino allo stadio di individuo maturo. Si potrebbero stimolare verso una crescita e uno sviluppo normali anche brandelli di tessuti indifferenziati. Anzi, lo si è già fatto con organismi complessi come le carote e le rane. Supponiamo dunque, in linea teorica, che si possano salvare, con questi mezzi, tutti i tipi di vegetali e di animali, e che i biologi arrivino un giorno a perfezionare le tecniche di inattivazione totale e di totale recupero. La banca dei campioni congelati, questa nuova arca di Noè, dovrà essere in grado di dare alloggio a decine di milioni di specie. La conservazione del contenuto biologico di appena un habitat in pericolo – diciamo, una catena montuosa nella zona forestale dell’Ecuador – si tradurrebbe in una operazione gigantesca coinvolgente migliaia di specie, la maggioranza delle quali è ancora del tutto ignota alla scienza. E, quand’anche tale operazione fosse completa a livello delle specie, in pratica non potrebbe investire se

non una parte infinitesimale della variabilità genetica di ciascuna specie; e, a meno che il numero dei campioni fosse nell’ordine dei milioni, ciò significherebbe che una gamma enorme di ceppi generici naturali andrebbe perduta. Inoltre, venuto il momento di restituire le specie al loro ambiente selvatico, la base fisica dell’ecosistema – base che ne comprende il suolo, la composizione in nutrienti, unica dal punto di vista quali-quantitativo, nonché i regimi pluviali – risulterebbe talmente mutata da mettere in dubbio la riuscita di quella restituzione. Nel migliore dei casi, la crioconservazione è un’operazione di estrema retroguardia, forse capace di salvare poche specie e pochi ceppi selezionati altrimenti destinati a morte certa, ma non di più. In ogni modo, essa è lungi dall’essere l’accorgimento migliore per salvare gli ecosistemi, facile com’è che fallisca. La necessità di immergere intere comunità d’organismi nell’azoto liquido sarebbe una situazione tragica, e il cedere a tale necessità sarebbe, nel senso più forte della parola, una vera oscenità. Sinora ho parlato del mantenimento delle specie e dei ceppi genici lontano dai loro habitat naturali. Bisogna dire, però, che non tutti i sistemi del genere sono fantastici o ripugnanti. Per esempio, un sistema che con molti vegetali funziona è quello delle banche dei semi, sistema per cui i semi vengono prima disseccati, poi conservati per lunghi periodi in appositi locali a bassa temperatura, di solito −20°C, e non nell’animazione sospesa dell’azoto liquido. I botanici hanno accertato che tale tecnica è efficace per quanto riguarda la conservazione della gran parte di ceppi delle specie delle piante da coltivazione. Banche di semi ormai se ne trovano in un centinaio di nazioni, e le loro attività sono in continuo aumento grazie agli scambi reciproci e alle continue spedizioni scientifiche per la raccolta dei campioni. Sforzi, questi, cui va l’appoggio dell’International Board for Plant Genetic Resources (Ibpgr) – un’organizzazione scientifica autonoma che, con sede a Roma, fa parte della rete degli International Agricultural Research Centers (Centri internazionali di ricerca agricola). Nel 1990, nelle banche dei semi giacevano oltre 2 milioni di serie di semi, pari al 90 per cento delle varietà geografiche locali note – «landraces», come vengono chiamate – di molte delle

specie vegetali più importanti coltivate a fini alimentari. Specie e varietà particolarmente ben rappresentate sono quelle del grano, del mais, dell’avena, delle patate, del riso e del miglio. Si è avviato, inoltre, il tentativo di estendere l’operazione suddetta anche ad alcuni parenti selvatici delle specie coltivate, per esempio al mais perenne del Messico (Zea diploperennis), un cereale molto promettente; ma non è da escludere che questo sistema venga applicato anche a flore selvatiche, mai coltivate, di tutto il mondo. Le banche dei semi, però, presentano anche serie difficoltà. Per esempio, il 20 per cento delle specie vegetali – vale a dire un totale di 50.000 piante – è dotato di semi, per così dire, «recalcitranti», cioè non immagazzinabili con i mezzi consueti. Seppure si arrivasse a rendere l’immagazzinamento perfetto e applicabile a tutti i vegetali – prospettiva peraltro molto improbabile in tempi brevi – la raccolta e il sostentamento di migliaia di specie a rischio resterebbe comunque un compito immane. Il totale degli sforzi fin qui compiuti dalle banche dei semi ha investito a mala pena un centinaio di specie, consentendone per giunta, in molti casi, solo registrazioni lacunose e senza garantirne la sopravvivenza. Altra difficoltà è questa: se ci si affidasse in tutto e per tutto alle specie conservate nelle banche, e poi quelle specie scomparissero dai loro habitat naturali, quelle sopravvissute nelle banche si troverebbero a non disporre più dei loro insetti impollinatori, dei loro funghi micorrizici, e di tutti gli altri loro partner simbiotici, in quanto non è possibile sottoporre anche questi a crioconservazione. La maggior parte dei simbionti, in altri termini, finirebbe con l’estinguersi e, dunque, con l’impedire che le specie salvate possano essere ripristinate negli ambienti selvatici. Altri sistemi ex situ si basano, più realisticamente, su popolazioni tenute in cattività ma capaci, ciò nonostante, di crescere e di riprodursi. In tutto il mondo vi sono 1300 orti botanici e arboreti, molti dei quali ospitano specie vegetali che negli ambienti naturali sono ormai a rischio, o del tutto scomparse. Negli Stati Uniti, venti istituti che collaborano al registro della National Collection of Endangered Plants contavano, nel giugno 1991, – tra semi, piante intere e parti tagliate – un insieme di 372 specie indigene. Altri orti

botanici, sia negli Stati Uniti sia in Europa, operano in un campo più vasto a livello planetario. L’Arnold Arboretum di Harvard, tanto per citarne uno, è famoso per la sua collezione di alberi e di arbusti asiatici. Quanto agli stupendi Kew Gardens di Londra, sono alle prese con l’audace tentativo di salvare e coltivare gli ultimi residui della flora arborea, pressoché scomparsa, dell’isola di Sant’Elena. Prolungare ex situ l’esistenza degli animali è impresa di gran lunga più difficile della conservazione dei vegetali e dei microrganismi. Vi sono giardini zoologici e altri enti che hanno affrontato questo compito con spirito addirittura eroico. Per limitarci a quelli, in tutto il mondo, il cui patrimonio zoologico è noto, in capo alla fine degli anni Ottanta essi avevano radunato in popolazioni capaci di riprodursi la bella cifra di 540.000 individui, appartenenti a più di 3000 specie tra mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. Sono collezioni che comprendono all’incirca il 13 per cento di tutte le specie di vertebrati terrestri di cui si abbia conoscenza. I giardini zoologici meglio finanziati – tra i quali quelli di Londra, di Francoforte, di Chicago, di New York, di San Diego e di Washington – conducono ricerche di base nonché di carattere veterinario, i cui risultati vengono impiegati a favore sia delle popolazioni in cattività sia di quelle viventi negli ambienti naturali. I registri di 223 giardini zoologici, tra europei e nordamericani, vengono seguiti assiduamente dall’Isis (International species inventory system) che ne impiega i dati per il coordinamento delle attività di conservazione e di incrocio delle specie. Scopo dell’Isis, così come di altri enti di ricerca, non è solo quello di salvare gli animali minacciati di estinzione, ma anche di reintrodurre le specie nei loro habitat originari non appena vi siano aree disponibili allo scopo. Finora si sono registrati tre successi: per le specie dell’orice d’Arabia (Oryx leucoryx), del furetto dai piedi neri (Mustela nigripes), e del tamarino (Leontopithecus rosalia). Ma vi sono poi, già in corso o in fase di progettazione, programmi relativi ad almeno quattro specie ancora: il condor della California (Gymnogyps californianus), lo storno di Bali (Leucopsar rothschildi), il rallo di Guam (Rallus owstoni) e il cavallo di Przewalski (Equus caballus przewalskii), capostipite di tutti i cavalli domestici. Infine, l’Isis si sta attrezzando

per essere pronto a intervenire nel caso che scomparissero dai loro habitat naturali il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca), il rinoceronte di Sumatra (Didermocerus sumatrensis) e la tigre siberiana (Pantera tigris longipilis), specie, tutte e tre, già sull’orlo dell’abisso. Purtroppo, però, tutte queste iniziative, ivi comprese le meglio articolate, da parte dei giardini zoologici, dei parchi zoologici, degli acquari e delle organizzazioni di ricerca riescono a rallentare l’estinzione solo in misura appena percettibile. Non si riesce ad accudire adeguatamente nemmeno i gruppi di animali più noti e amati dal pubblico. Secondo i calcoli dei biologi conservazionisti, solo 2000 specie – tra mammiferi, uccelli e rettili – si potrebbero salvare mediante l’allevamento in cattività, ma, data la scarsità dei mezzi, anche questo compito è impossibile. William Conway, direttore del vasto zoo patrocinato dalla New York Zoological Society, è convinto che tutte le strutture zoofile del mondo, nel loro insieme, oggi come oggi non siano in grado di sostenere efficacemente popolazioni di più di 900 individui. Nel migliore dei casi, tali sopravvissuti sarebbero portatori di un’infima percentuale di geni originali delle rispettive specie; ma, assai peggio, non è stato fatto ancora nulla a favore di quelle migliaia e migliaia di specie di insetti e di invertebrati che si trovano anch’esse in pericolo. I sogni degli scienziati, dunque, cozzano contro questa situazione di fatto: che la conservazione ex situ non è, né sarà mai, sufficiente. Sì, alcuni sistemi costituiscono preziosissime reti di salvataggio per quella parte di specie minacciate di cui la biologia ha migliore nozione e che il pubblico dei profani è disposto a mantenere; ma, quand’anche le nazioni di ogni parte del mondo decidessero di finanziare banche di campioni crioconservati, banche dei semi, orti botanici e giardini zoologici di vaste dimensioni, la costruzione di tali strutture richiederebbe un tempo ben più lungo di quello necessario a salvare dalla pura e semplice distruzione degli habitat la maggioranza delle specie prossime all’estinzione. Quanto ai biologi, il loro ostacolo sta nel fatto di sapere poco o nulla su oltre il 90 per cento delle specie di funghi, di insetti e di microrganismi viventi sulla Terra. Né c’è modo di garantirsi nemmeno una congrua campionatura delle

variazioni genetiche relative alle specie salvate. I biologi hanno solo una vaghissima idea di come si possa procedere, partendo da tali specie, a ricostruire degli ecosistemi, ammesso e non concesso che sia un’impresa possibile. Per non parlare poi dei costi enormi che il tutto comporterebbe. Tutte queste considerazioni portano a un’unica conclusione: gli interventi di tipo ex situ serviranno, sì, a salvare alcune specie altrimenti senza speranza, ma la vera strada giusta per arrivare alla meta della biodiversità planetaria sta nella conservazione degli ecosistemi naturali. Una volta riconosciuto questo ci troviamo allora faccia a faccia con due realtà. La prima è che gli habitat stanno scomparendo sempre più in fretta, e con essi sta svanendo un quarto della biodiversità terrestre. La seconda è che gli habitat sono salvabili solo a patto che lo sforzo porti in fretta al miglioramento delle condizioni economiche dei poveri che in essi e attorno a essi vivono. Alla lunga, può darsi che nel mondo l’idealismo e la nobiltà degli scopi arrivino ad avere il sopravvento; può darsi che popolazioni quel giorno ormai economicamente tranquille comincino a far tesoro della biodiversità dei loro territori per puro e semplice amore della biodiversità stessa. In questo momento, però, tranquille non sono, e tutti quanti, noi e loro insieme, non abbiamo più tempo da perdere. Coniugare intelligentemente la scienza con l’investimento di capitali e con l’arte di governo, ecco il solo modo di arrivare al salvataggio della diversità biologica: la scienza, col compito di schiudere la strada alla ricerca e allo sviluppo; l’investimento di capitali, per creare mercati permanenti; e l’arte di governo, per favorire il connubio tra crescita economica e bioconservazione. Per quanto riguarda la bioconservazione, la tattica primaria sta nell’identificare tutte le regioni ad alto rischio del mondo e nel proteggere completamente l’ambiente che esse ospitano. La preferenza va data agli ecosistemi completi, in quanto anche le specie più carismatiche non sono niente più che dei rappresentanti di quelle altre migliaia di specie meno note e meno appariscenti che con esse vivono, e che sono altrettanto minacciate. Negli Stati Uniti, la legge

federale di più vasta portata è quel decreto del 1973, relativo alle specie in pericolo, che pone uno scudo a difesa di specie di «pesci, animali selvatici e piante» che siano «in pericolo o minacciate» dalle attività umane, e che, secondo l’emendamento del 1978, estende la protezione anche alle sottospecie. Si tratta di un provvedimento che, nonostante il coraggio e la lungimiranza di cui si fregia, è destinato a sollevare numerose controversie. Via via che si riduce la superficie di un qualsiasi ambiente naturale, si riduce al tempo stesso anche il numero di specie che possono viverci a tempo indeterminato. In altre parole, alcune specie sono condannate comunque all’estinzione nonostante che tutto l’habitat in cui vivono cominci a un certo momento a essere salvaguardato. Come ho già sottolineato, uno dei principi dell’ecologia è che alla lunga il numero delle specie comincia a ridursi in una misura grosso modo compresa fra la radice sesta e la radice cubica della superficie già andata perduta. Ora, considerata la scarsa conoscenza che si ha della gran maggioranza delle specie di microrganismi, funghi e insetti, ne consegue che queste sono sfuggite tra le maglie del decreto sopra citato. I dissidi tra imprenditori e conservazionisti a proposito degli uccelli, dei mammiferi e dei pesci sono ormai all’ordine del giorno. A mano a mano che migliorerà l’esplorazione degli ecosistemi, verranno alla luce specie in pericolo meno cospicue, e le diatribe si faranno sempre più numerose. Per uscire dal dilemma, vi è un’altra strada, che non impone la rinuncia di una completa protezione legale della fauna e della flora americana. Col migliorare dei rilevamenti, le zone a rischio saranno messe a fuoco sempre meglio. Esistono già esempi ben documentati in questo senso, tra i quali citerò quello della barriera corallina delle Florida Keys e quelli delle foreste pluviali delle Hawaii e di Puerto Rico. Via via che vengono scoperti, ad altri habitat si può assegnare la massima priorità nei programmi di conservazione ambientale; come a dire che, nella maggioranza dei casi, verranno dichiarati come riserve integrali. Quanto alle zone meno a rischio, cioè a zone meno minacciate e dotate di un minor numero di specie esclusive, esse potranno essere lottizzate in funzione di uno sviluppo parziale, istituendo al loro interno aree protette a favore delle specie e delle

razze endemiche, e circondandole di fasce-cuscinetto solo parzialmente mantenute allo stato selvatico. Quanto all’architettura del paesaggio agricolo e ai tratti di foreste diboscabili, se ne potrà migliorare la progettazione in vista di conservar loro il ruolo di rifugio di specie e razze rare. Se ben gestito, l’insieme di tutte queste attività darà buoni risultati. Ciò non toglie che occorrano anche leggi come il decreto statunitense a favore delle specie minacciate, o provvedimenti analoghi, intesi a proteggere tutte le specie in pericolo, che siano ospitate in riserve o meno. Da ultimo, in quei rari casi in cui i contribuenti giudicassero insopportabili i costi relativi, si potrà sempre arrivare a un compromesso attraverso la gestione delle popolazioni, cioè: trasferimento delle specie in opportuni habitat vicini, oppure ricostruzione dell’ambiente in luoghi in cui esso è andato distrutto ma che non sono oggetto di contese, o infine – quando non vi sia altra soluzione – esilio delle specie nei giardini zoologici, negli orti botanici, o in altre riserve ex situ. La relazione area-specie che governa la biodiversità mostra che la manutenzione dei parchi e delle riserve già esistenti non basterà a salvare tutte le specie che in quei luoghi dimorano. Attualmente, di tutta la superficie delle terre emerse del pianeta, solo il 4,3 per cento – tra parchi nazionali, stazioni scientifiche ed enti di altro genere – gode di protezione legale. Si tratta di frammenti terrestri che costituiscono isole-habitat ristrettesi di recente, le cui faune e flore continueranno a languire fino a quando non si raggiungerà un nuovo equilibrio spesso a un livello di biodiversità inferiore. Più del 90 per cento delle restanti terre emerse, ivi compresa gran parte dei sopravviventi habitat ad alta diversità, ha subito alterazioni. Se le perturbazioni continueranno fino a spazzare via la maggioranza delle riserve naturali esterne, un’altissima percentuale delle specie terrestri del mondo finirà per estinguersi o quanto meno si ridurrà in condizioni di rischio estremo. Ma c’è di più: anche le riserve oggi esistenti si trovano a repentaglio, vuoi a causa dei cacciatori e minatori di frodo che vi penetrano, vuoi per i ladri di legname che ne erodono i confini, vuoi infine per gli imprenditori che trovano i

sotterfugi utili a trasformarne alcune aree in zone da sfruttare. Nel corso delle recenti guerre civili in Etiopia, nel Sudan, in Angola, in Uganda e in altri paesi africani è accaduto che molti parchi nazionali siano stati lasciati andare in rovina. È necessario, dunque, adoperarsi per far aumentare il complesso delle riserve da quel 4,3 per cento di cui sopra al 10 per cento delle terre emerse, includendovi il maggior numero possibile di habitat ancora vergini e dando la precedenza alle aree ad alto rischio di tutto il pianeta. Uno dei meccanismi che maggiormente fanno sperare nel raggiungimento di questo scopo è quello di uno scambio debitonatura. Allo stato attuale delle cose, si tratta di questo: organizzazioni ecologiche quali Conservation International, Nature Conservancy e il World Wildlife Fund (US) raccolgono fondi con i quali acquistare da un paese creditore, a prezzo scontato, una parte del debito commerciale di un altro paese in difficoltà; oppure, si adoperano per convincere le banche a far loro donazione di una parte del credito di cui sono detentrici. Questa prima mossa riesce più facile di quel che si possa pensare in quanto molti paesi debitori sono sull’orlo del fallimento. Poi, i debiti vengono convertiti in valuta locale o in titoli a tassi allettanti, e i fondi così ampliati vengono investiti per promuovere la conservazione della natura, soprattutto attraverso l’acquisto di terre, l’insegnamento dell’ecologia e il miglioramento della gestione dei territori. In capo ai primi del 1992, erano già in essere venti accordi di questo genere, per un totale di 110 milioni di dollari e di 9 nazioni: Bolivia, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Ecuador, Messico, Madagascar, Zambia, Filippine e Polonia. Per fare un solo esempio, nel febbraio 1991 Conservation International fu autorizzata ad acquistare dai creditori una parte dei debiti del Messico pari a 4 milioni di dollari. Una volta effettuato il finanziamento presso il mercato secondario, si prevede che il costo effettivo scenda addirittura a 1,8 milioni di dollari. L’organizzazione ecologica ha concordato di condonare al governo messicano la cifra intera in cambio del suo impegno a stanziare 2,6 milioni di dollari in un ampio ventaglio di progetti di conservazione ambientale. L’iniziativa di maggior impegno sarà quella di conservare,

all’estremità meridionale del Messico, il comprensorio di Lacandona, la più vasta foresta pluviale di tutto il Nordamerica. A tutt’oggi, la percentuale del debito complessivo dei paesi del Terzo Mondo riscattata col sistema dello scambio debito-natura è appena dell’uno per diecimila. Né il meccanismo è scevro di rischi per le nazioni beneficiarie, soprattutto quando diventi incentivo alla spesa interna e scintilla di inflazione. Questi, però, sono effetti temporanei, ampiamente controbilanciati dall’immenso guadagno, un dollaro dopo l’altro, nella stabilità ambientale. Più proficui ancora sono i contributi non gravati da ipoteca alcuna, provenienti dalle nazioni più ricche, aiuti attentamente mirati e forniti dalle organizzazioni internazionali di assistenza. In questo ambito, l’impresa più importante è quella del Gef (Global environment facility) fondato nel 1990 dalla Banca Mondiale, dall’Unep (U.N. environmental program) e dall’Undp (U.N. development program). Nel momento in cui scrivo, 450 milioni di dollari sono già stati stanziati al fine di istituire parchi nazionali, di stimolare la forestazione permanente e di aprire fondi speciali per la conservazione della natura nei paesi in via di sviluppo; stanziamento a fronte del quale sono in esame o addirittura già approvati programmi presentati da Bhutan, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Filippine e Repubblica Centroafricana. Il piano operativo del Gef, tuttavia, presenta due grosse difficoltà da superare. La prima sta nella limitata capacità d’impiego dei fondi da parte dei paesi beneficiari: data la scarsezza di personale adeguatamente addestrato, i vari governi nazionali fanno fatica a identificare i progetti più consoni e ad avviarli in modo efficace. La seconda difficoltà, molto più pesante, è data dalla sostanziale esiguità dei finanziamenti singoli, cosa che lascia poche prospettive a una valida gestione protettiva delle riserve una volta finiti i soldi. Per paura di restare disoccupati, i professionisti più dotati tendono, per garantirsi il futuro, a cercare impiego in altre attività. Probabilmente, la soluzione di entrambi i problemi sta nella creazione di fondi nazionali che portino introiti da investire gradualmente, in un arco di molti anni, nei programmi di conservazione della natura. Un fondo del genere è stato istituito di

recente, con l’aiuto del Wwf, nel Bhutan. A questo punto, si viene al tema dell’assetto da dare alle riserve. Via via che i territori vengono risparmiati, la prima cosa da fare è di collocare le riserve nelle zone a più alto grado di biodiversità e di estenderne i confini il più possibile. Altro obiettivo da prefiggersi è quello di pianificarne la forma e la distribuzione in funzione della loro efficienza di conservazione. Nell’affrontare questo secondo discorso, negli ambienti degli addetti ai lavori si è scatenato un dibattito a proposito del cosiddetto problema Sloss, cioè se convenga adibire le terre vincolate a una singola, ampia riserva (Single Large reserve) o a numerose riserve più piccole (Or into Several Small reserves). Per dirla nella maniera più semplice, il dilemma sta in questo: da una parte, sì, una singola riserva ampia ospita, di ogni specie, popolazioni numerosissime, però, dall’altra, c’è il fatto che tali popolazioni si trovano, per così dire, pigiate in una sola cesta. Basta un incendio catastrofico, o un’alluvione, perché gran parte della biodiversità di quel territorio finisca estinta. Quanto al frammentare la riserva in tante piccole zone, certo significa ridurre il problema, però porta anche a un calo dimensionale delle popolazioni costituenti e, di conseguenza, equivale a metterle in pericolo d’estinzione. Basterebbe, infatti, che esse si trovassero di fronte a un vasto stress ambientale – un periodo di siccità o un’ondata di freddo fuori stagione – perché cominciassero con tutta probabilità a declinare. Alcuni biologi hanno proposto una soluzione di compromesso: creare un complesso di riserve piccole, collegate l’una all’altra mediante una rete di corridoi di habitat naturali. Si tratterebbe, per esempio, di stabilire un certo numero di foreste di superficie ridotta – diciamo, 10 chilometri quadrati ognuna – e di congiungerle mediante fasce arboree larghe un centinaio di metri. Se, a un certo punto, in una di tali riserve si verificasse la scomparsa di una data specie, questa potrà venire sostituita dall’arrivo di nuovi colonizzatori provenienti, lungo i corridoi, da un’altra riserva. I critici di quest’ipotesi non hanno tardato a metterne in rilievo gli aspetti negativi: i corridoi sarebbero a disposizione anche di malattie, di predatori, di competitori estranei all’ambiente naturale protetto, tutti

nemici pronti a diramarsi sull’intera rete. Insomma, dal momento che le popolazioni delle foreste piccole sono rade e vulnerabili, tutto il sistema potrebbe crollare a catena come una fila di pedine di domino. Quanto a me, io non credo che vi sia alcun principio generale di dinamica di popolazione in grado di dirimere la controversia Sloss, quanto meno nel modo pulito suggerito dalla sua apparente semplicità geometrica. Secondo me, la cosa giusta da fare è di studiare un ecosistema alla volta al fine di stabilire quale sia l’assetto migliore da dargli, assetto che dipenderà dalle specie che in esso dimorano e dalle fluttuazioni annue del suo ambiente fisico. Per il momento, i biologi conservazionisti vorranno convenire su una regola fondamentale: per salvare il massimo possibile di biodivesità occorre attribuire alle riserve il massimo possibile di superficie. 5. Ripristino degli ambienti naturali. Il tetro contrassegno della nostra epoca è stato finora un’eliminazione di habitat naturali che ha portato alla scomparsa, o quanto meno a un’ineluttabile, prematura estinzione, una frazione considerevole – certamente superiore al 10 per cento – di animali e piante. Non si è mai fatta una stima della decimazione delle varietà genetiche, ma non v’è dubbio che sia più intensa di quella toccata alla specie. Eppure, siamo ancora in tempo a salvare molti dei «morti viventi», di coloro che si trovano tanto vicini al ciglio dell’abisso, da essere destinati a precipitarvi presto anche senza la nostra spinta. L’opera di salvataggio potrà compiersi a patto di non limitarsi a proteggere gli habitat naturali, ma di impegnarsi a estenderne la superficie, facendo risalire il numero delle specie in grado di sopravvivere sulla curva logaritmica che mette in relazione la quantità di biodiversità con l’area disponibile. Qui sta il mezzo per stroncare la grande ondata di estinzioni. Il secolo venturo vedrà, io credo, l’era della ricostruzione ecologica. Anche se in modo disordinato, e in buona parte grazie all’abbandono progressivo delle piccole fattorie, resta il fatto che, nel corso di questi ultimi cento anni, l’area occupata negli Stati Uniti orientali da foreste di conifere e di alberi da legname si è notevolmente estesa. Nel 1935, poi, un’iniziativa d’avanguardia

lanciata dall’Università del Wisconsin ha portato alla forestazione di 24 ettari di prateria a erba alta, appartenenti all’arboreto di quell’ateneo, che ha funzionato anche da quartier generale per il Center for Restoration Ecology, ente di ricerca dedito anche alla raccolta delle informazioni confluenti da altre istituzioni, disseminate in tutta la nazione. E, sempre negli Stati Uniti, si contano a centinaia i progetti minori avviati nel settore del restauro ambientale. Sono tutte iniziative intese a far aumentare la superficie degli habitat naturali, a rimettere in piena salute gli ecosistemi degradati, e che si occupano di un’ampia gamma di ambienti: dai boschi di carpino dell’isola di Santa Catalina alle praterie Tobosa in Arizona, dal sottobosco dei querceti delle montagne di Santa Monica in California alle stupende foreste montane del Colorado, agli ultimi resti di savana dell’Illinois; ma altresì di appezzamenti di terre umide, ad acqua dolce o salata, sparsi dalla California alla Florida e al Massachusetts. In Costa Rica, un audace progetto concepito dall’ecologo americano Daniel Janzen, insieme con i massimi ecologisti locali, è sfociato nell’istituzione del Parco Nazionale di Guanacaste, una riserva di 50.000 ettari sita nell’estremo lembo nordoccidentale del paese. Il parco sarà creato, nel senso letterale della parola, grazie al rinascere di una foresta monsonica messa a dimora in una distesa di terreni da pascolo. Il sogno di Guanacaste è scaturito dalla consapevolezza che nell’America centrale le foreste monsoniche sono ancora più in pericolo di quelle pluviali, tanto da essere ridotte ad appena il 2 per cento della loro superficie originaria. Il progetto prevede il trapianto di parti di tali foreste originarie in zone da pascolo attualmente in continua estensione. La conversione sarà facilitata dalla bassa densità demografica del comprensorio; non solo, ma la rinascente distesa forestale servirà anche da bacino idrografico protetto, porterà un introito turistico previsto in oltre un milione di dollari all’anno, e farà decisamente aumentare il tasso di occupazione delle popolazioni locali. Soprattutto, però, nel lungo periodo servirà a salvare una parte significativa del patrimonio naturale del Costa Rica. Ho parlato sin qui del salvataggio e del ripristino degli ecosistemi esistenti. Ma verrà il giorno in cui, con l’aiuto del sapere scientifico, si

potrà fare anche di più. Non è detto che il ritorno all’Eden della biologia non possa comportare anche la creazione di faune e flore sintetiche, di insiemi di specie attentamente selezionate in tutte le parti del mondo e trapiantate negli habitat depauperati. L’idea mi è balenata un tardo pomeriggio in cui me ne stavo seduto in riva al lago artificiale al centro del campus dell’Università di Miami, luogo attorniato da quella comunità fortemente urbanizzata che si chiama Coral Gables. Nell’acqua salmastra e trasparente, a non più di due metri dalla riva, vidi muoversi almeno sei specie diverse di pesci, alcuni dei quali a caccia solitaria di cibo, altri in banchi. Il fatto è che si trattava di pesci quasi tutti esotici. E la loro bellezza, unitamente a quell’insolita varietà di specie, mi fece pensare a una barriera corallina appena formatasi. Quando il sole scomparve e l’acqua si rabbuiò, al centro del lago affiorò un grosso pesce predatore. Da un ciuffo di canne che avevo dinanzi sbucò silenziosamente un piccolo alligatore, che subito filò via verso il largo. A una buona distanza dalla riva opposta, un chiassoso gruppo di pappagalli andò ad appollaiarsi in cima alle palme su cui avrebbe passato la notte. Appartenevano a una delle oltre venti specie esotiche rinvenibili nel territorio di Miami, discendenti da individui arrivati lì un giorno, come fuggiaschi o come prigionieri rimessi in libertà. Eccoli, a distanza di appena qualche decennio dallo sterminio del parrocchetto della Carolina (Conuropsis carolinensis), ultima delle specie endemiche di Psittacidae dell’America settentrionale, eccoli di nuovo lì i pappagalli, tornati in Florida, a rendere con le loro ali baluginanti l’ultimo saluto alle specie scomparse. Devo, però, affrettarmi ad aggiungere una cosa, e cioè che è pericoloso contemplare alla leggera l’idea di introdurre specie esotiche dovunque si voglia. Non è detto che tutte attecchiscano, tant’è vero che, fra gli uccelli, si è registrato un 10-50 per cento di successi, a seconda dei luoghi del mondo e del numero di tentativi compiuti per introdurvele. Le specie esotiche, anzi, possono rivelarsi veri e propri flagelli economici, oppure possono allontanare quelle endemiche. Alcune, quali per esempio i conigli, le capre, i maiali e la famigerata perca del Nilo, arrivano non solo a eliminare singole

specie, ma addirittura a distruggere interi habitat. L’ecologia è una scienza ancora troppo giovane per poter predire a quali risultati porterebbe la sintesi di questo o quel biota. Chiunque sia dotato di senso della responsabilità non si arrischierebbe mai a scaricare agenti distruttivi nel bel mezzo di comunità già depauperate. Né ci si illuda che i biota sintetici servano ad aumentare la biodiversità globale. Servono solo ad aumentare quella locale mediante l’espansione dei territori e l’aumento quantitativo delle popolazioni di specie prescelte. Ciò non di meno, la ricerca delle norme sicure relative alla sintesi biotica è impresa di grande audacia intellettuale. Qualora fosse coronata da successo, significherebbe che territori ormai spogliati dei loro biota indigeni potrebbero essere ricondotti a condizioni di stabilità tanto dal punto di vista ambientale quanto da quello della biodiversità. Dalle terre derelitte è possibile far rinascere, quali che siano, degli habitat selvatici. E la massima priorità spetta a quelle specie che, scomparse dai loro ambienti naturali, ormai sopravvivono solo nei giardini zoologici e negli orti botanici; specie che, trapiantate in biota impoveriti o artificiali, sopravviveranno comunque come orfane affidate a ecosistemi tutori, riacquistando sicurezza e indipendenza nonostante l’accesso alle loro patrie d’origine sia a esse precluso; specie che ci ripagheranno realizzando almeno uno dei nostri concetti di mondo della natura: l’idea di poterci scaricare del peso della loro cura e di poterle visitare da soci paritetici. Alcune saranno, per così dire, specie artificiali. Le quali, essendo elementi chiave come può essere, per esempio, un albero capace di crescere rapidamente e di offrire riparo a molte altre specie vegetali e animali, svolgeranno un ruolo incommensurabile nel tenere aggregate le nuove comunità. Infine, la domanda di interesse centrale è questa: quanta biodiversità planetaria possiamo sperare di portare in salvo con noi fuori dal «collo di bottiglia», di qui a cinquanta o cent’anni? Azzardo una previsione. Se la crisi della biodiversità continuerà a essere ignorata dai più e se gli habitat naturali continueranno a declinare, finiremo col perdere a dir poco il 25 per cento delle specie della

Terra. Reagire mediante le cognizioni e le tecnologie di cui siamo già detentori potrebbe ridurre la perdita al 10 per cento. Differenza che, a prima vista, può sembrare accettabile, ma che in realtà non lo è affatto. Equivale, infatti, a milioni di specie. Per la conservazione del nostro patrimonio biologico, non ho alcuna esitazione a sollecitare che si abbandoni la politica degli incentivi fiscali e dell’elasticità delle norme anti-inquinamento negoziabili, e si ricorra invece al pugno di ferro delle leggi protettive e dei protocolli internazionali. Nelle società democratiche c’è forse l’idea che i governi, vincolati da una sorta di versione ecologica del giuramento ippocratico, non possano operare in alcun modo che crei consapevolmente dei rischi per la biodiversità. Anche se fosse così, non basterebbe. L’impegno deve essere ben più profondo e rivolto a non permettere consapevolmente che alcuna specie muoia, nonché ad adottare tutti i provvedimenti possibili intesi a proteggere ogni specie e ogni razza perpetuamente. Rispetto alla conservazione della biodiversità, la responsabilità morale dei governi non è diversa da quella nei confronti della sanità pubblica e della difesa militare. La conservazione delle specie attraverso le generazioni è impresa fuori dalla portata dei singoli individui e persino degli enti privati più potenti. Nella misura in cui la biodiversità è considerata un bene pubblico insostituibile, la sua protezione dovrebbe essere affidata alla legge dello Stato.

15 L’etica ambientale

Un’altra grande estinzione, la sesta, incombe su di noi innescata dal genere umano. La Terra ha ormai acquistato una forza capace di spezzare il crogiolo della biodiversità. L’ho avvertito in maniera lancinante quella notte di temporale, a Fazenda Dimona, quando i lampi mettevano in mostra la foresta pluviale, squarciata come un occhio di gatto dissezionato in laboratorio a scopi di ricerca. Capita di rado che una foresta indisturbata sveli la propria anatomia interna con tanta nitidezza. I suoi confini, infatti, sono schermati da una folta vegetazione di successione, oppure, lungo la riva del fiume, la sua volta scende come un sipario giù fino al suolo. Quella visione notturna fu come un reperto archeologico in via di disfacimento, un’ultima, fugace immagine di bellezza selvatica. Qualche giorno dopo, ero intento ai preparativi per la partenza: feci un fagotto di tutti i miei indumenti infangati; diedi al cuoco, come regalo d’addio, il mio finto coltello militare svizzero; stetti a guardare per una volta ancora uno stormo di verdi pappagalli amazzonici; etichettai le provette contenenti i campioni e le riposi in una serie di cassette rinforzate; e sistemai i miei quaderni di appunti accanto a una copia malandata di Ice, un romanzo giallo di Ed McBain che, avendo trascurato di portarmi altra roba da leggere, ormai sapevo a memoria. Il camion mandato per riportare me e altri due forestali a Manaus si annunciò con un fragore di ingranaggi. Sotto la luce brillante del sole, restammo a guardarlo attraversare il terreno da pascolo: una distesa disseminata di tronchi abbattuti e di ceppi anneriti dal fuoco, campo di battaglia in cui la foresta, alla fine, aveva subito la sconfitta. Durante il viaggio di ritorno, mi sforzai di non guardare i campi

denudati, ma poi, smettendo di parlare nel mio portoghese da turista, mi chiusi in me stesso e mi diedi a fantasticare. Mi vennero in mente quattro splendidi versi di Virgilio, gli unici che abbia mai imparato a memoria, quelli in cui la Sibilla Cumana avverte Enea dei rischi della discesa agli Inferi: […] scendere all’Ade

è facile: la nera porta di Dite è spalancata

di notte e di giorno: ma ritornare nel mondo, questa è ardua fatica.

(Eneide, VI, 126-129)

Giacché la giovane Terra preumana è il mistero che siamo stati prescelti a risolvere: una guida per risalire al luogo natio del nostro spirito, ma una guida che ci sta sfuggendo. E, di anno in anno, il cammino a ritroso sembra farsi più arduo. Se un pericolo c’è nella traiettoria umana, non risiede tanto nella sopravvivenza della nostra specie, quanto nel concludersi dell’estrema beffa dell’evoluzione organica: proprio nel momento in cui raggiunge la piena comprensione di sé attraverso il pensiero dell’uomo, la vita condanna a morte le sue creature più belle. E così l’umanità si chiude alle spalle la porta verso il proprio passato. La creazione di quella diversità è stata un processo lento e faticoso; tre miliardi di anni di evoluzione solo per dare l’avvio alle miriadi di animali che abitano nel mare, e poi 350 milioni di anni ancora per edificare le foreste pluviali in cui oggi dimora oltre la metà delle specie terrestri. Vi è stata, in pratica, una successione di dinastie: alcune specie genitrici si scissero in due o più specie figlie, e queste si ramificarono a loro volta dando origine a sciami di discendenti destinati a distribuirsi per ogni dove in forma di erbivori, di carnivori, di nuotatori liberi, di volatori, di corridori, di scavatori, in una congerie di innumerevoli combinazioni. Successivamente, questi raggruppamenti cedettero il posto, a causa dell’estinzione parziale o totale, a dinastie nuove, e così avanti, tracciando una dolce curva ascendente che ha portato la biodiversità al culmine, poco prima

dell’avvento degli esseri umani. Lungo quel pendio, ogni tanto la vita si è arrestata su alcuni tratti pianeggianti, e in cinque occasioni ha subito drammatiche estinzioni per rimediare a ciascuna delle quali sono occorsi dieci milioni di anni. Ma la spinta verso l’alto è stata inarrestabile, sicché oggi la diversità della vita è maggiore di quanto fosse cento milioni di anni or sono, e ben più molteplice che nei precedenti 500 milioni di anni. La maggior parte delle dinastie annovera alcune specie che si espansero in modo spropositato dando origine a satrapie di rango inferiore. Ogni specie e le sue discendenti – una scheggia rispetto al tutto – durarono in media da qualche centinaio di migliaia a qualche milione di anni, e questo perché la longevità variava secondo il gruppo tassonomico: le discendenze degli echinodermi, per esempio, resistettero più a lungo di quelle delle piante angiosperme, ed entrambe più a lungo di quelle dei mammiferi. Il 99 per cento di tutte le specie comparse fino a oggi si è estinto. La fauna e la flora odierne sono fatte di sopravvissuti, riusciti in un modo o nell’altro a schivare o a sgattaiolare tra tutti gli episodi di radiazione e di estinzione verificatisi nell’arco dei tempi geologici. Molti dei gruppi dominanti nel mondo contemporaneo – per esempio i ratti, i ranidi, le farfalle ninfalidi e le piante del genere Aster della famiglia delle composite – hanno raggiunto il loro rango non molto prima dell’età dell’uomo. Giovani o vecchie che siano, tutte le specie viventi discendono direttamente dagli organismi che esistevano 3,8 miliardi di anni or sono. Si tratta di archivi genetici viventi, composti di sequenze di nucleotidi – equivalenti di altrettante parole e frasi – che registrano gli eventi evolutivi lungo tutto l’immenso arco del tempo. Vi sono organismi più complessi dei batteri – protisti, funghi, piante, animali – che contengono da uno a dieci miliardi di «lettere» in forma nucleotidica, più che a sufficienza per costruire, in fatto di informazione pura, l’equivalente dell’Enciclopedia Britannica. Ogni specie è il risultato di mutazioni, di combinazioni e ricombinazioni troppo complesse per poterle afferrare grazie al puro e semplice intuito. Ogni specie è stata scolpita e perfezionata da un

numero astronomico di eventi selettivi naturali, i quali hanno soppresso, o comunque arrestato, la riproduzione della gran parte dei suoi organismi membri prima ancora che concludessero il loro ciclo vitale. Viste nella prospettiva del tempo evolutivo, tutte le specie sono parenti lontanissime della nostra, in quanto abbiamo in comune con esse un’antichissima ascendenza. Noi usiamo tuttora un vocabolario comune, il codice genetico, anche se è stato sceverato in linguaggi ereditari radicalmente diversi. Tale è l’estrema ed enigmatica verità di ogni genere d’organismo, grande o minuscolo che sia, di ogni insetto, di ogni pianticella. Il fiore che spunta dalla fessura di un muro, ebbene sì, è un miracolo; magari non nel senso in cui Tennyson, il romantico vittoriano, declamava il portento del sapere assoluto – secondo cui «Conoscere dovrei che cosa sono e l’uomo e Dio» –, ma certamente come conseguenza di tutto ciò che oggi comprendiamo alla luce della biologia moderna. Ogni tipo di organismo ha raggiunto questo momento nel tempo infilando un ago dopo l’altro, escogitando geniali artifizi grazie ai quali sopravvivere e riprodursi a dispetto di avversità quasi insuperabili. Gli organismi sono ancora più stupefacenti quando attuano una convivenza. Strappate il fiore dal suo ricettacolo nel muro, scuotete nel palmo della mano la terra abbarbicata alle sue radici, e ingranditela per analizzarla attentamente. Vedrete che quel terriccio scuro è tutto un brulichio di alghe, di funghi, di nematodi, di acari, di collemboli, di vermi enchitreidi, di migliaia di specie di batteri. È un campione della forza viva che governa la Terra, e che continuerà a governarla con o senza di noi. Si può pensare che ormai il mondo sia stato esplorato completamente. Sì, è vero, quasi tutte le montagne e quasi tutti i fiumi hanno ricevuto un nome, i rilevamenti costieri e geodetici sono stati portati a termine, i fondi oceanici sono stati cartografati fin nelle fosse più profonde, l’atmosfera è stata sezionata in fasce e analizzata nella sua composizione chimica. Oggi, il pianeta è tenuto ininterrottamente sotto osservazione da satelliti lanciati nello spazio; e, non ultima cosa, l’Antartide, l’ultimo continente vergine, è

diventato una stazione di ricerca scientifica, nonché una tappa turistica di lusso. La biosfera, tuttavia, resta misteriosa. Anche se abbiamo scoperto all’incirca 1.400.000 specie di organismi (scoperto nel senso, limitato, di averne collezionato i campioni e di aver loro attribuito formalmente un nome scientifico), il numero totale di quelle viventi sulla Terra si colloca tra i dieci e i cento milioni. E nessuno può dire con certezza quale delle due cifre sia la più vicina al vero. Delle specie etichettate con nome scientifico, nemmeno il 10 per cento è stato studiato a un livello maggiore di quello grossolanamente anatomico. La rivoluzione nel campo della biologia molecolare e della medicina si è basata su di una percentuale ancor inferiore: una frazione in cui rientrano i colibacilli, il granoturco, i moscerini della frutta, il ratto Rattus norvegicus, le scimmie Rhesus, nonché l’essere umano; una frazione che, in tutto, non supera il centinaio di specie. Incantati dall’avvento continuo di nuove tecnologie, sorretti dai generosi finanziamenti stanziati per la ricerca medica, finora i biologi hanno sondato a fondo solo un settore angusto di tutto il fronte. Ma ora è tempo di estendere l’opera orizzontalmente, di andare avanti nella grande impresa linneana, portando a compimento la mappa della biosfera. La ragione più impellente per questo ampliamento degli obiettivi è che, a differenza delle altre discipline scientifiche, lo studio della biodiversità ha un limite di tempo. Le specie stanno scomparendo a ritmo sempre più sostenuto, e ciò è dovuto al comportamento dell’uomo: in primo luogo, alla distruzione degli habitat che egli compie, ma anche all’inquinamento e all’introduzione di specie esotiche in quello che resta degli ambienti naturali. Ho già detto come oltre un quinto delle specie vegetali e animali potrebbe, entro l’anno 2020, essere scomparso o condannato a prematura estinzione, a meno che non si compiano maggiori e migliori sforzi per salvarlo. Questa stima si fonda sulla nota relazione di tipo quantitativo esistente tra la somma delle aree degli habitat e la biodiversità che esse possono sostenere. Sono curve superficiebiodiversità basate sul principio generale, ma non universale, secondo cui, quando si studiano approfonditamente certi gruppi di organismi – per esempio gasteropodi, pesci, piante angiosperme – se ne scopre

una vasta estinzione. Principio che ha il suo corollario: tra i resti vegetali e animali disseminati nei siti archeologici, di solito si rinvengono tracce di specie e di razze ormai estinte. E, via via che si abbattono le ultime foreste presenti nei capisaldi estremi, quali le Filippine e l’Ecuador, il declino delle specie accelera sempre più il passo. Sul pianeta nel suo insieme, il ritmo dell’estinzione è già centinaia, migliaia di volte superiore a quanto era prima della comparsa dell’uomo. La velocità è tale che nessuna evoluzione nuova, in nessun periodo futuro, potrà mai controbilanciarla in un lasso di tempo che abbia qualche significato per l’umanità. Perché preoccuparsene? Che differenza fa se alcune specie, magari anche la metà delle specie terrestri, si estinguono? Bene, ecco l’elenco dei perché. Si perderanno nuove fonti di informazione scientifica. Andrà distrutto un enorme patrimonio biologico potenziale. Non vedranno mai la luce medicinali ancora in fase di ricerca, così come non la vedranno nuovi raccolti, nuovi legnami, fibre, pasta per carta, piante adatte alla bonifica del suolo, sostituti del petrolio e tanti altri generi utili. È molto di moda, in alcuni ambienti, liquidare con un altezzoso gesto di mano tutto ciò che è minuscolo e oscuro, gli insetti e le pianticelle, dimenticando che è stata proprio un’oscura farfalla sudamericana a salvare i pascoli australiani dall’invasione delle cactacee, che si deve alla pervinca rosea il rimedio contro la malattia di Hodgkin e la leucemia linfocitica infantile, che la corteccia del tasso Taxus brevifolia offre speranza alle vittime del cancro alle ovaie e alla mammella, che una sostanza chimica derivata dalla saliva delle sanguisughe scioglie i coaguli di sangue durante le operazioni chirurgiche, e così via, lungo un albo d’onore già nutrito e illustre nonostante la scarsezza delle ricerche su tali argomenti. Persi in un sogno amnesico, è altresì facile ignorare i servigi che gli ecosistemi rendono all’umanità. A essi dobbiamo la fertilizzazione dei suoli e la stessa aria che respiriamo. Senza questi beni, il futuro della razza umana sarebbe cosa grama e breve. La matrice di sostentamento della vita è fatta di vegetali, unitamente a miriadi di microrganismi e di animali in maggioranza piccolissimi e quasi ignoti: insomma, di erbe e di insetti. Sono questi organismi a tenere in vita la Terra,

compito che svolgono con efficienza ed efficacia proprio grazie a quella diversità che consente loro di dividersi le mansioni e di espandersi in ogni metro quadrato del pianeta. Un pianeta che gestiscono esattamente come noi desidereremmo, giacché l’umanità si è evoluta all’interno di comunità vive e poiché tutti i nostri meccanismi corporei sono perfettamente sintonizzati con l’ambiente creatosi prima di noi. La Madre Terra, da qualche tempo denominata anche Gaia, altro non è che una comunione tra gli organismi e l’ambiente fisico che essi provvedono ogni istante a mantenere; un ambiente, tuttavia, che a forza di essere disturbato, potrebbe finire col perdere il proprio equilibrio e col diventare letale. Certo, niente ci impedisce di immaginare un’infinità di altri pianeti-madre, tutti dotati di una fauna e una flora proprie. Ma sarebbero dotati anche di ambienti fisici favorevoli alla vita umana? Non tener conto della biodiversità significa correre il rischio di catapultarci in ambienti a noi alieni, di trovarci costretti a diventare come quei globicefali (Globicephala melaena) che, inesplicabilmente, vanno ad arenarsi sulle spiagge del New England. L’umanità si è evoluta di pari passo col resto della vita su questo particolare pianeta e non c’è spazio per altri mondi nei suoi geni. Dal momento che i biologi devono ancora trovare il nome per la maggior parte degli organismi, e dal momento che non hanno ancora un’idea esatta di come gli ecosistemi funzionino, è avventato supporre di poter ridurre all’infinito la biodiversità senza mettere a repentaglio l’umanità intera. Vi sono studi condotti sul campo che dimostrano come, al ridursi della biodiversità, si accompagni un calo di qualità nei servizi forniti dagli ecosistemi. Inoltre, le documentazioni relative agli ecosistemi sottoposti a stress comprovano che il calo può essere imprevedibilmente rapido. Col diffondersi dell’estinzione, si scopre che talune forme di vita costituivano specie-chiave, specie la cui scomparsa ne trascina altre con sé e innesca un effetto a cascata su tutte le popolazioni sopravvissute. La perdita di una specie-chiave è come un trapano che trancia accidentalmente una conduttura elettrica, provocando un black-out totale. I servigi forniti dalla natura sono importanti ai fini del benessere

dell’umanità, però non possono costituire da soli tutta la base di un’etica ambientale durevole. Si può dare un prezzo a una certa cosa, ma poi si può svalutarla, venderla, buttarla via. Così, c’è chi può sognare che l’uomo riuscirà a continuare a vivere comodamente anche in un mondo biologicamente impoverito; che la tecnologia sarà in grado di fabbricare ambienti artificiali; che la vita umana continuerà a fiorire, nonostante tutto, in un mondo completamente antropizzato, un mondo in cui i farmaci da banco saranno tutti di sintesi, gli alimenti tutti derivati da poche decine di specie vegetali coltivabili, l’atmosfera e il clima regolati da energia atomica da fusione gestita mediante computer, e la Terra ristrutturata sino a diventare un’astronave nel senso letterale e non più metaforico della parola, con tanto di equipaggio intento a leggere schermi e a premere pulsanti sul ponte di comando. Eccolo, il capolinea della filosofia dell’esenzionalismo: non piangiamo per il passato, l’umanità è un nuovo ordine naturale, che le specie muoiano pure se costituiscono un ostacolo per il progresso; tanto, ci penserà il genio delle scienze e della tecnologia a trovare altre soluzioni. Guardate in alto e vedrete le stelle lì, ad attenderci. Ma si rifletta: l’avanzata del genere umano è determinata non soltanto dalla ragione, bensì anche da sentimenti che, caratteristici della nostra specie, la ragione assiste e modera. È il sentimento a fare di noi delle persone e non dei computer. Abbiamo scarsa cognizione della nostra vera natura, di che cosa significhi essere umano, e quindi della meta verso la quale, un giorno, i nostri discendenti potrebbero desiderare che avessimo diretto l’astronave Terra. Come dice Vercors, i nostri guai nascono dal fatto che non sappiamo che cosa siamo, né siamo d’accordo su quello che vogliamo essere. La causa prima di questo fallimento intellettuale è l’ignoranza sulle nostre origini. Non siamo alieni sbarcati un giorno su questo pianeta. Facciamo parte della natura, siamo una specie evolutasi in mezzo a tante altre. Quanto più strettamente ci identifichiamo col resto della natura, tanto più presto arriveremo a scoprire le radici della sensibilità umana, a raggiungere quel sapere su cui solo si può edificare un’etica durevole, la scelta di andare in una direzione piuttosto che in un’altra.

Il retaggio umano non risale affatto all’inizio di quegli ottomila anni circa di cui è fatta, per convenzione, la nostra storia; a dir poco, risale a due milioni di anni or sono, al tempo in cui comparvero i primi, «autentici» esseri umani, le specie primigenie costituenti il genere Homo. Lungo l’arco di migliaia di generazioni, lo sviluppo della cultura deve per forza aver subito l’influsso di eventi simultanei nell’evoluzione genetica, soprattutto di quelli riguardanti l’anatomia e la fisiologia del cervello. Per contro, a sua volta l’evoluzione genetica deve essere guidata imperiosamente dai fenomeni selettivi che si manifestano in seno alla cultura. Solo nel momento più recente della nostra storia è sorta l’illusione che la razza umana potesse fiorire separatamente dal resto della natura viva. Le società presso le quali non era ancora invalso l’uso della scrittura vivevano in rapporto strettissimo con una gamma sbalorditiva di forme di vita; una sfida cui le menti di allora riuscivano ad adattarsi solo in parte, ma che le spinse a sforzarsi di capire gli aspetti più importanti di quelle forme, nella consapevolezza che gli atteggiamenti giusti portassero alla vita e alla conquista, mentre quelli sbagliati alla malattia, alla fame, alla morte. Non è possibile che il segno, la traccia di quello sforzo sia scomparso nel giro di poche generazioni di civiltà urbana. Secondo me, esso è ancora reperibile tra le caratteristiche peculiari dell’indole umana, alcune delle quali sono le seguenti: • Vi sono persone che sviluppano in sé delle fobie, delle avversioni repentine e irrimediabili contro cose, esseri o situazioni che, nell’ambito naturale, possono presentare pericoli per l’uomo: vette, spazi chiusi, spazi aperti, acque in movimento, lupi, ragni, serpenti. È raro, viceversa, che tali fobie insorgano contro marchingegni di invenzione recente e ben più pericolosi come le armi da fuoco e da taglio, le automobili, le prese di corrente, e così via.

• Gli esseri umani provano al tempo stesso repulsione e fascino verso i serpenti, anche quando non ne hanno mai visto uno vero. Nell’ambito della simbologia mitica e religiosa di gran parte delle culture, il serpente è l’animale selvatico dominante. Gli abitanti delle metropoli occidentali lo sognano altrettanto spesso degli Zulu. È una reazione che si direbbe di matrice darwiniana. I serpenti velenosi sono stati una causa rilevante di mortalità quasi dappertutto, dalla Finlandia alla Tasmania, dal Canada alla Patagonia, e mettersi istintivamente in guardia al loro cospetto serve a salvare la vita. Una reazione affine è riscontrabile in molti primati, ivi comprese le scimmie e gli scimpanzé del Vecchio Mondo: l’animale arretra, avverte gli altri, fissa l’attenzione sul serpente e non la distoglie finché il rettile non si allontana. Quanto agli esseri umani, in un più ampio senso metaforico, per essi, il mitico, trasfigurato serpente ha finito con l’acquisire facoltà sia distruttive che costruttive: si pensi all’Astarte dei cananei, ai demoni Fu-Hsi e Nu-Rua della dinastia cinese Han, ai Mudanna e Manasa dell’India induista, al gigante a tre teste Nehebkau degli antichi egizi, al biblico serpente che nel libro della Genesi conferisce sapere e morte, e, tra gli Aztechi, a Cihuacoatl, dea del parto e madre della razza umana, al dio della pioggia Tlaloc, nonché a Quetzacoatl, il serpente piumato dalla testa umana che regna come signore della stella del mattino e della sera. I poteri ofidici si travasano anche nella vita moderna: due serpenti si attorcigliano al caduceo, in un primo tempo l’asta alata di Mercurio, messaggero degli dèi, poi salvacondotto di ambasciatori e araldi, e oggi, infine, emblema universale della professione medica. • I luoghi cui è sempre andata la preferenza della maggior parte dei popoli sono alture vicine al mare, dalle quali si goda la vista delle aree verdi circostanti. È lassù che si trovano le vestigia di morte dei ricchi e dei potenti, le tombe dei grandi, i templi, i parlamenti, e i monumenti commemorativi delle glorie tribali. Oggi tali luoghi sono oggetto di scelte estetiche e, quando vi sia la possibilità di stabilirvisi, diventano degli status symbol. In tempi antichi, quando prevaleva un senso pratico più spinto, la conformazione di un luogo forniva zone di

rifugio e punti panoramici dai quali avvistare in tempo l’avvicinarsi di temporali o di forze nemiche. Ogni specie animale sceglie l’habitat che assicuri a ogni suo membro un propizio connubio tra sicurezza e alimentazione. Per il tratto più lungo della loro preistoria, gli esseri umani sono vissuti nella savana tropicale e subtropicale dell’Africa orientale, in terre aperte, disseminate di corsi d’acqua e di laghi, di alberi e di cespugli. Oggi, gli uomini, appena possono, sfruttano conformazioni analoghe per stabilirvi abitazioni, parchi e giardini. E si guardano bene dal simularvi le folte giungle verso cui si sentono attratti i gibboni, o le praterie asciutte preferite dalle amadriadi (Papio hamadrias.). No, nei giardini sistemano piante somiglianti alle acacie, alle sterculiacee e a quant’altre specie native delle savane d’Africa. La cima arborea ideale, quella che immancabilmente è preferita, è del tipo ampio anziché alto; i rami più bassi devono essere il più possibile vicini al suolo, per poterli toccare e arrampicarvisi sopra senza fatica; e le foglie che li rivestono devono essere composte o aghiformi. • Non appena arriva ad avere i mezzi e il tempo libero necessari, una vasta schiera di persone si mette lo zaino in spalla, va a caccia, a pesca, a praticare il birdwatching, oppure si dà al giardinaggio. Negli Stati Uniti e nel Canada, il totale dei visitatori di zoo e di acquari supera quello dei tifosi di tutti gli sport professionistici messi insieme. Gente che affolla i parchi nazionali per dare un’occhiata ai diversi paesaggi naturali, per osservare fugacemente, dalla cima di un’altura e di là da una distesa di terreno impervio, una cascatella o qualche animale in libertà. Gente che fa chilometri e chilometri per passeggiare su una certa spiaggia, ma non ti sa spiegare chiaramente perché lo faccia. Sono, questi che ho fatto sopra, solo alcuni esempi di ciò che io chiamo biofilia, cioè rapporti che gli esseri umani cercano, inconsciamente, di stabilire col resto della vita. Nella biofilia si può far entrare anche il concetto di natura selvatica, cioè di tutto quel complesso di terre, di comunità vegetali e di comunità animali che

l’invasione umana non ha ancora contaminato. Nella natura selvatica la gente si reca in cerca di nuove forme di vita, di cose meravigliose, per poi tornare alle zone antropizzate fisicamente sicure. La natura selvatica dà pace all’anima perché si vede che non ha alcun bisogno di assistenza, che è al di là dei marchingegni dell’uomo. Essa è una metafora, che sta per «occasioni infinite», che scaturisce dalla memoria tribale del tempo in cui l’umanità si diffuse su tutta la Terra, di valle in valle, di isola in isola, folgorata, ferma nella convinzione che le terre vergini continuassero all’infinito oltre l’orizzonte. Cito queste diffuse preferenze di carattere psicologico non tanto come prova di una innata, particolare indole umana, ma piuttosto per indicare che dovremmo essere tutti più attenti nel rivolgere la filosofia ai problemi fondamentali sulle origini del genere umano in un ambiente naturale. L’uomo non è ancora riuscito a capire se stesso, e sarà ancora più confuso se dimenticherà quanto significhi per lui il mondo della natura. Sono moltissimi i segnali che indicano come la perdita di biodiversità metta a repentaglio non solo la sicurezza fisica dell’uomo, ma anche la sua stabilità spirituale. E se ciò è vero, i mutamenti in corso oggi non potranno portare altro che danni a tutte le generazioni venture. L’imperativo etico, dunque, dovrebbe essere, innanzitutto, prudenza. Ogni frammento di biodiversità, mentre impariamo a servircene e a capire che cosa significhi per l’umanità, andrebbe considerato un bene prezioso. Non dovremmo mai permettere, consapevolmente, che una qualunque specie o razza si estingua. Non ci si deve limitare più al mero salvataggio; si deve porre mano, invece, al restauro degli ambienti naturali, con l’obiettivo di ampliare le popolazioni naturali e di fermare l’emorragia del patrimonio biologico. Non v’è intento più esaltante del dare il via al tempo del restauro, del ritessere la meravigliosa diversità della vita che ancora ci attornia. L’evidenza della rapida mutazione ambientale in atto richiede la nascita di un’etica sganciata da ogni altra forma di fede. Chi, per religione, crede che la vita sia stata suscitata sulla Terra in un istante

da un gesto divino dovrà pur riconoscere che noi stiamo distruggendo il Creato, e coloro che avvertono la biodiversità come prodotto di un’evoluzione cieca, anch’essi lo ammetteranno. Di qua e di là da questo grande confine filosofico, non ha importanza stabilire se le specie abbiano diritti indipendenti l’una dall’altra, o se, per converso, ragionare in termini morali sia una faccenda esclusivamente umana. Tutto sta a indicare che, a proposito della conservazione dell’ambiente, i paladini di entrambe queste premesse sono destinati a convergere verso la medesima posizione. La gestione e la cura dell’ambiente costituiscono un ambito al di qua della metafisica, un terreno d’intesa in cui tutte le persone capaci di riflettere possono senz’altro ritrovarsi. Giacché, in ultima analisi, che cos’è il senso morale se non dettame della coscienza maturato grazie a un esame razionale delle conseguenze? Un’etica ambientale destinata a durare sarà un’etica mirata a preservare non solo la salute e la libertà della nostra specie, ma anche l’accesso a quel mondo in cui lo spirito umano vide la luce.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1. Temporale in Amazzonia Parti di questo capitolo sono adattamenti di miei articoli precedenti: Storm over the Amazon in Daniel Halpern (a cura di), On Nature: Nature, Landscape, and Natural History, North Point Press, San Francisco 1987, pp. 157-159; Rain Forest Canopy: The High Frontier, «National Geographic», 180, dicembre 1991, pp. 78-107. Ho trattato l’argomento sul quale ho riflettuto quella notte in una monografia tecnica, Success and Dominance in Ecosystems: The Case of The Social Insects, Ecological Institute, Oldendorf/Luhe 1990. Le riflessioni di Jöns J. Berzelius sono tratte dal suo Manual of Chemistry, vol. 3, 1818, citato da Carl G. Bernhard, Berzelius, Creator of the Chemical Language, tratto dallo «Saab-Scania Griffin» 1989/90 della Accademia Reale delle Scienze svedese. La tecnica anticongelante dei pesci nototeniidi è descritta in Joseph T. Eastman e A. L. DeVries, Antarctic Fishes, «Scientific American», 255, novembre 1986, pp. 106-114. Gli archeobatteri, alcuni dei quali vivono negli ambienti più ostili che ci siano, sono stati trattati in modo molto approfondito da Carl R. Woese e collaboratori. Si veda Robert Pool, Pushing the Envelope of Life, «Science», 247, 1990, pp. 158-247. Alcuni biologi, tra i quali lo stesso Woese, ritengono che questi organismi facciano parte di un regno a sé stante, distinto da quello dei batteri propriamente detti e degli altri organismi procarioti facenti parte del regno dei Monera. 2. Krakatau Il racconto più completo delle eruzioni di Krakatau del 1883,

comprese considerazioni personali e i bollettini delle ricerche del tempo, si trovano in T. Simkin e R. S. Fiske, Krakatau 1883: The Volcanic Eruption and Its Effects, Smithsonian Institution Press, Washington (D.C.) 1983. Ulteriori dettagli sulle onde di marea sono stati forniti da S. Van Rose e I. F. Mercer, Volcanoes, Harvard University Press, Cambridge 1991. Gli studi sulla ricolonizzazione di Rakata sono riassunti da R. H. MacArthur e E. O. Wilson in The Theory of Island Biogeografy, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1967 e 2001; Ian W. B. Thornton et al., Colonization of the Krakatau Islands by Vertebrates: Equilibrium, Succession, and Possible Delayed Extinction, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 85, 1988, pp. 515-518; I. W. B. Thornton e T. R. New, Krakatau Invertebrates: The 1980s Fauna in The Context of a Century of Recolonization, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 322 serie B, 1988, pp. 493-522; infine, P. A. Rawlinson, A. H. T. Widjoya, M. N. Hutchinson e G. W. Brown, The Terrestrial Vertebrate Fauna of The Krakatau Islands, Sunda Strait, 1883-1986, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 328 ser. B, 1980, pp. 3-28. La stima della temperatura delle pomici che hanno seguito l’esplosione è di Noboru Oba dell’Università di Kagoshima, e sono citate come comunicazione personale in Thornton e New, Krakatau Invertebrates. 3. Le grandi estinzioni Ho ricavato i dettagli relativi all’ondata di estinzioni del Cretaceo e al dibattito sull’ipotesi meteorite-vulcanismo da molte fonti, ma soprattutto da Matthew H. Nitecki (a cura di), Extinction, University of Chicago Press, Chicago (IL) 1984; Steven M. Stanley, Extinction, Scientific American Books, New York (N.Y.) 1987, e Periodic Mass Extinctions of the Earth’s Species, «Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences» 40(8), 1987, pp. 29-48; David M. Raup, Extinction: Bad Genes or Bad Luck?, Norton, New York 1991; Paul Whalley, Insects and Cretaceous Mass Extinction, «Nature», 327-562, 1987; Carl O. Moses, A Geochemical Perspective on the Causes and Periodicity of

Mass Extinctions, «Ecology», 70(4), 1989, pp. 812-823; William Glen, What Killed the Dinosaurs?, «American Scientist», 78(4), 1990, pp. 354-370. Stanley, per esempio, ha sottolineato in modo convincente il ruolo a lungo termine del raffreddamento climatico come fattore principale delle estinzioni di massa, inclusa quella del Cretaceo. Whalley tratta in dettaglio la sopravvivenza degli insetti. Il destino delle angiosperme è descritto da Andrew H. Knoll in Nitecki, cit., pp. 21-68, e in Robert A. Spicer, Plants and Cretaceous-Tertiary Boundary, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 325 ser. B, 1989, pp. 291-305. Le prove fossili più recenti dello strato K-T, riguardanti molti gruppi di organismi, sono riassunte in Evolution and Extinction, numero speciale delle «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 325 ser. B, 1989, pp. 239-488, a cura di W. G. Chaloner e A. Hallam. Altri dettagli, non pubblicati, sono citati da Richard A. Kerr in Dinosaurs and Friends Snuffed Out?, «Science», 251, 1991, pp. 160-162. Il principio della certezza delle opinioni è stato formulato da Robert H. Thouless in The Tendency to Certainty in Religious Belief, «British Journal of Psychology», 26(1), 1935, pp. 16-31. Sia nel pensiero religioso che in quello laico, ha scritto Thouless, «esiste una tendenza reale tra le persone ad avvicinarsi alla certezza mediante un certo grado di credenza. Il dubbio e lo scetticismo sono, per la maggior parte delle persone, non comuni, e, io penso, stati della mente generalmente poco duraturi». Le prove dell’impatto di un meteorite gigante nel mar dei Caraibi alla fine del Cretaceo sono fornite da J.-M. Florentin, R. Maurasse e G. Sen, Impacts, Tsunamis, and the Haitian Cretaceous-Tertiary Boundary Layer, «Science», 252, 1991, pp. 1690-93. Essi giungono alla conclusione che l’impatto di un meteorite immenso vicino alla formazione haitiana di Beloc abbia «prodotto microtectiti che si depositarono alla sua base formando uno strato omogeneo. I materiali vaporizzati che contenevano una percentuale insolitamente alta di componenti extraterrestri si depositarono per ultimi assieme ai sedimenti di carbonati. L’intero strato non si consolidò molto. Seguì un altro evento distruttivo, forse un gigantesco tsunami, che

rimaneggiò in parte i depositi iniziali… Tale processo può avere causato un ulteriore rimescolamento dei microfossili del Cretaceo e del Terziario, visibile a Beloc e altrove». I tassi d’estinzione delle famiglie e delle specie durante la crisi del Permiano, basati sull’analisi della loro rarefazione, sono forniti da David M. Raup, Size of the Permo-Triassic Bottleneck and Its Evolutionary Implications, «Science», 206, 1979, pp. 217-218. Le sue affermazioni sull’estinzione delle forme biologiche superiori sono fornite in una rassegna successiva, Diversity Crisies in the Geological Past, in E. O. Wilson e F. M. Peter (a cura di), Biodiversity, National Academy Press, Washington 1988, pp. 51-57. Un’analisi separata delle prove che tiene conto non solo del raffreddamento climatico ma anche di una fase di ritirata dei mari poco profondi, è fornita da Douglas H. Erwin in The End-Permian Mass Extinction: What Really Happened and Did It Matter?, «Trends in Ecology and Evolution», 4(8), 1989, pp. 225-229. Le prove delle immani eruzioni vulcaniche al tempo delle estinzioni del Permiano sono state presentate da P. R. Renne e A. R. Basu in Rapid Eruption of the Siberian Traps Flood Basalts at the Permo-Triassic Boundary, «Science», 253, 1991, pp. 176-179. Nel 1984, David M. Raup e Jack J. Sepkoski hanno avanzato l’ipotesi che le estinzioni in massa siano state periodiche, e si siano verificate a intervalli di 26 milioni di anni. La loro analisi era basata su dati provenienti dallo studio delle famiglie della fauna marina. L’ipotesi di Raup-Sepkoski ha scatenato una ridda di speculazioni su possibili cause extraterrestri, quali una pioggia di meteoriti o di comete indotta dall’avvicinamento periodico o dall’allineamento di corpi celesti ignoti. L’ipotesi più affascinante è quella che postula l’esistenza di una stella compagna del Sole, chiamata ora «Nemesi» ora «Stella della Morte». Ma tale ipotesi è stata messa in crisi da un insieme di critiche derivanti dalla datazione geologica, dall’analisi statistica e dall’interpretazione tassonomica. Un giudizio finale è ancora fuori discussione, comunque fin d’ora appare probabile che il verdetto sarà negativo. L’argomento è stato trattato da David M. Raup, The. Nemesis

Affair, Norton, New York 1986, e in Extinction: Bad Genes or Bad Luck?; Steven M. Stanley, Extinction, e in una serie di articoli a cura di alcuni paleobiologi in «Ecology», 70(4), 1989, pp. 801-834, a cura di Edward F. Connor. Nel 1991 Raup ha stimato che la metà dei paleontologi meglio informati sull’argomento propendeva per la periodicità. 4. L’unità fondamentale Una descrizione e un’analisi esauriente dei concetti di specie è stata operata da Douglas J. Futuyma in Evolutionary Biology, Sinauer, Sunderland (MA) 19983 (trad. it. Biologia evoluzionistica, Zanichelli, Bologna 1985); Alan R. Templeton, The Meaning of Species and Speciation: A Genetic Perspective in D. Otte e J. A. Endler (a cura di), Speciation and Its Consequences, Sinauer, Sunderland 1989, pp. 3-27; e E. Mayr e P. D. Ashlock, Principles of Systematic Zoology, McGrawHill, New York 19912. La situazione attuale delle popolazioni selvatiche di tigre è documentata da L. A. Maguire e R. C. Lacy in Allocating Scarce Resources for Conservation of Endangered Subspecies: Partitioning Zoo Spacefor Tigers, «Conservation Biology», 4(2), 1990, pp. 157-166. La storia del collegamento tra la malaria e le specie sorelle di Anopheles maculipennis è stata trattata da Ernst Mayr in Systematics and the origin of Species, Columbia University Press, New York 1942 e 1982. Una storia del concetto di specie biologica è fornita da Ernst Mayr, uno dei suoi principali artefici, in Evolution and Diversity of Life: Selected Essays, Harvard University Press, Cambridge 1976 (trad. it. Evoluzione e varietà dei viventi, Einaudi, Torino 1983). L’idea della specie come individuo è stata sostenuta con veemenza da Michael T. Ghiselin, in Categories, Life, and Thinking, «Behavioral and Brain Sciences», 4(2), 1981, pp. 269-313. II coro degli ioni del gruppo di Cavendish, cantato sulle note di My Darling Clementine, è descritto da Samuel Devons, allievo di Rutherford, in Rutherford and the Science of His Day, «Notes and

Records of the Royal Society of London», 45(2), 1991, pp. 221-242. L’ibridazione nelle querce e la natura delle semispecie sono discusse da A. T. Whittemore e da B. A. Schaal in Interspecific Gene Flow in Sympatric Oaks, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 88, 1991, pp. 2540-44. La maggior frequenza, fra le specie vegetali tropicali, di un isolamento riproduttivo completo è stata rilevata da Alwyn H. Gentry, Speciation in Tropical Forest, in L. B. Holm-Nielsen, I. C. Nielsen e H. Balslev (a cura di), Tropical Forests: Botanical Dynamics, Speciation, and Diversity, Academic Press, New York 1989, pp. 113-134. 5. Specie nuove Gli aspetti generali della formazione delle specie sono stati trattati molto bene da Douglas J. Futuyma, cit. Alcuni particolari argomenti sono trattati a un livello più specialistico da D. Otte e J. A. Endier (a cura di), cit. L’evoluzione graduale della specie umana intermedia Homo erectu. è descritta da W. Rukang e L. Shenglong in Peking Man, «Scientific American», 248, giugno 1983, pp. 86-94. I dati relativi ai tempi di accoppiamento dei saturnidi giganti sono forniti da Phil e Nellie Rau in The Sex Attraction and Rhythmic Periodicity in the Giant Saturniid Moths, «Transactions of the Academy of Science of St. Louis», 26, 1929, pp. 83-221. I dettagli sulle forme di corteggiamento dei ragni salticidi si trovano in Jocelyn Crane, Comparative Biology of Salticid Spiders at Rancho Grande, Venezuela. Part 4: An Analysis of Display, «Zoologica», 34(4), 1949, pp. 159-214. La definizione formale di sottospecie a uso e consumo delle amministrazioni pubbliche fu proposta da S. J. O’Brien e E. Mayr in Bureaucratic Mischief: Recognizing Endangered Species and Subspecies, «Science», 251, 1991, pp. 1187-88. Loro fu anche la revisione della posizione sistematica della pantera della Florida.

I semplicissimi meccanismi di isolamento delle falene tortricidi vengono descritti da W. L. Roelofs e R. L. Brown in Pheromones and Evolutionary Relationships of Tortricidae, «Annual Review of Ecology and Systematics», 13, 1982, pp. 395-422. Fondamentali rassegne sulle varie modalità di speciazione simpatrica sono quelle di Guy L. Bush, Modes of Animal speciation, «Annual Review of Ecology and Systematics», 6, 1975, pp. 339-364; S. R. Diehl e G. L. Bush, The Role of Habitat Preference in Adaptation and Speciation, in D. Otte e J. A. Endler (a cura di), cit., pp. 345-365; e Catherine A. e Maunce J. Tauber, Sympatric Speciation in Insects: Perception and Perspectives, in Otte e Endler, cit., pp. 307-344. La teoria della speciazione simpatrica con il meccanismo delle razze legate all’ospite fu sviluppata principalmente da Guy Bush. Un’analisi della questione, improntata a scetticismo, è quella illustrata da D. J. Futuyma e G. C. Mayer in Non-Allopatric Speciation in Animals, «Systematic Zoology», 29(3), 1980, pp. 254-271. Futuyma e Mayer concludono che «le condizioni in presenza delle quali potrebbe verificarsi la speciazione simpatrica grazie all’associazione con particolari ospiti sono talmente rigide da poter essere soddisfatte soltanto da poche specie». 6. Le forze dell’evoluzione I dati sul numero di geni responsabili della variazione dei caratteri semplici sono presentati da Russell Lande in The Minimum Number of Genes Contributing to Quantitative Variation Between and Within Populations, «Genetics», 99(3,4), 1981, pp. 541-553. I tassi evolutivi dovuti al mutamento di frequenze dei singoli geni sono forniti da D. L. Hartl e A. G. Clark in Principles of Population Genetics, Sinauer, Sunderland 20074 (trad. it. Genetica di popolazione, Zanichelli, Bologna 1993). La variazione allometrica della mandibola e delle corna dei maschi dei cervi volanti è descritta da J. T. Clark in Aspects of Variation in The Stag Beetle Lucanus cerous (L.) (Coleoptera: Lucanidae), «Systematic

Entomology», 2(1), 1977, pp. 9-16. L’allometria come base nella differenziazione delle caste è descritta in dettaglio da B. Hölldobler ed E. O. Wilson in The Ants, Harvard University Press, Cambridge 1990 (trad. it. Formiche: storia di un’esplorazione scientifica, Adelphi, Milano 1997). Per alcuni esempi dei legami stretti tra microevoluzione e macroevoluzione, si vedano: per la radiazione adattativa dei drepanidi hawaiiani, Walter J. Bock, Microevolutionary Sequences as a Fundamental Concept in Macroevolutionary Models, «Evolution», 24(4), 1970, pp. 704-722; l’argomento è trattato in questo libro nel cap. 7. Per quanto attiene all’origine di un nuovo tipo di mascella tra i serpenti di Round Island, vedi Thomas H. Frazzetta, Complex Adaptations in Evolving Populations, Sinauer, Sunderland 1975. A proposito dell’origine di nuove razze e nuovi tipi adattativi tra gli spalacidi del Medio Oriente, vedere Eviatar Nevo, Speciation in Action and Adaptation in Subterranean Mole Rats: Patterns and Theory, «Bolletino Zoologico», 52(1-2), 1985, pp. 65-95. La tesi degli equilibri punteggiati fu inizialmente presentata da N. Eldredge e S. J. Gould, Punctuated Equilibria: An Alternative to Phyletic Gradualism, in T. J. M. Schopf, (a cura di), Models In Paleobiology, Freeman Cooper & Co., San Francisco (CA), 1972, pp. 82-115; fu poi elaborata da Gould in Is a New and General Theory of Evolution Emerging?, «Paleobiology», 6(1), 1980, pp. 119-130, e da Eldredge, Time Frames: The Rethinking of Darwinian Evolution and the Theory of Punctuated Equilibria, Simon and Schuster, New York 1985 (trad. it. Strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze 1991). Tra i saggi critici più precisi ci sono Richard Dawkins, The Blind Watchmaker, Norton, New York 1986 (trad. it. L’orologiaio cieco, Rizzoli, Milano 1988); M. K. Hecht e A. Hoffman, Why Neo Darwinism? A Critique of Paleobiological Challenges, «Oxford Surveys in Evolutionary Biology», 3, 1986, pp. 1-47; e Jeffrey Levinton, Genetics, Paleontology, and Macroevolution, Cambridge University Press, New York 20012. Si è scoperto che le prove presentate in origine da Eldredge e Gould non erano in accordo con la teoria degli equilibri punteggiati; si consulti a

proposito William L. Brown Jr., Punctuated Equilibrium Excused: The Original Examples Fail to Support It, «Biological Journal of the Linnean Society», 31, 1987, pp. 383-404. L’idea di selezione specifica tra i resti fossili è stata inizialmente sviluppata da Steven M. Stanley in A Theory of Evolution above the Species Level, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 72, 1975, pp. 646-650. La teoria di base fu ampliata da E. S. Vrba e Stephen J. Gould in The Hierarchical Expansion of Sorting and Selection, «Paleobiology», 12(2), 1986, pp. 217-228. Comunque, la teoria genetica di base era già stata elaborata a livello della competizione tra più popolazioni della stessa specie, seguendo essenzialmente lo stesso modello della selezione specifica. I lavori più importanti a tale proposito sono: Richard Levins, Extinction, in M. Gerstenhaber (a cura di), Some Mathematical Questions in Biology, American Mathematical Society, Providence (R.I.) 1970, pp. 77-107; e S. A. Boorman e P. R. Levitt, Group Selection on the Boundary of a Stable Population, «Proceedings of the National academy of Sciences», 69(9), 1972, pp. 2711-13. L’aumento nella proliferazione delle specie di insetti attribuibile alla fitofagia è stato documentato da Charles Mitter, Brian Farell e Brian Wiegmann in The Phylogenetic Study of Adaptive Zones: Has Phytophagy Promoted Insect Diversfication?, «American Naturalist», 132, pp. 107-128. Il collegamento tra areali e tassi d’estinzione delle specie di molluschi è tratto da David Jablonski, Heritability at the Species Level: Analysis of Geographic Ranges of Cretaceous Mollusks, «Science», 288, 1987, pp. 360-363, e Estimates of Species Duration: Response, «Science», 240, 1988, p. 969. Il ciclo del taxon è stato introdotto da Edward O. Wilson, The Nature of the Taxon Cycle in the Melanesyan Ant Fauna, «American Naturalist», 95, 1961, pp. 169-193; e, più di recente, valutato da J. K. Liebherr e A. E. Hajek, A Cladistic Test of the Taxon Cycle an Taxon Pulse Hypotheses, «Cladistics», 6, 1990, pp. 39-59. Elisabeth Vrba ha documentato il tasso di turnover delle antilopi africane e di altri bovidi in African Bovidae: Evolutionary Events since the Miocene, «South African Journal of Science», 81, 1985, pp. 263-266, e Mammals as a Key to Evolutionary Theory, «Journal of Mammalogy», 73(1), 1992, pp. 1-28. Infine il bilanciamento tra la

selezione a livello di organismi e quella a livello di specie nelle piante desertiche è suggerito dai dati raccolti da Delbert C. Wiens et al. in Developmental Failure and Loss of Reproductive Capacity in the Rare Paleoendemic Shrub Dedeckera eurekensis, «Nature», 338, 1989, pp. 65-67; le ipotesi alternative per spiegare quei dati sono passate in rassegna da Deborah Charlesworth in Evolution of Low Female Fertility in Plants: Pollen Limitation, Resource Allocation and Genetic Load, «Trends in Ecology and Evolution», 4(10), 1989, pp. 289-292. 7. La radiazione adattativa La stima del numero di specie di insetti endemici hawaiiani è stata effettuata da F. G. Howarth, S. H. Sohmer, e W. D. Duckworth in Hawaiian Natural History and Conservation Efforts, «BioScience», 38(4), 1988, pp. 232-238. I drepanidi delle Hawaii sono trattati da Walter J. Bock in Microevolutionary Sequences as a Fundamental Concept in Macroevolutionary Model, «Evolution», 24(4), 1970, pp. 704-722, e da J. Michael Scott et al. in Conservation of Hawaii’s Vanishing Avifauna, «BioScience», 38(4), 1988, pp. 238-253. Ho incluso altre informazioni tratte da Storrs L. Olson (comunicazione personale), il quale, assieme a Helen F. James, ha promosso e cominciato lo studio delle specie subfossili portate all’estinzione dai primi colonizzatori polinesiani delle Hawaii. I particolari sulla forza dei colpi del picchio sono tratti da Philip R.A. May et al, Woodpeckers and Head Injury, «Lancet», 28 febbraio 1976, pp. 454-455; e Woodpecker Drilling Behavior: An Endorsement of the Rotational Theory of Impact Brain Injury, «Archives of Neurology», 36, 1979, pp. 370-373. L’opera decisiva sui fringuelli Geospizinae. è quella di Peter R. Grant, Ecology and Evolution of Darwin’s Finches, Princeton University Press, Princeton 1986. Un’altra opera di valore, molto famosa, è quella di Sherwin Carlquist, Island Life: A Natural History of the Island of The World, Natural History Press, Garden City (N.Y.) 1965.

Il miglior resoconto sull’evoluzione delle composite erbacee della flora insulare è fornito da Sherwin Carlquist in Island Life e Island Biology, Columbia University Press, New York 1974. Informazioni più recenti sulla flora di Sant’Elena si trovano in Mark Williamson, St. Helena Ebony Tree Saved, «Nature», 309, 1984 p. 581. I dati relativi ai coleotteri quasi del tutto estinti di Sant’Elena sono tratti dallo studio classico di Vernon Wollaston, Coleoptera Sanctae-Helenae, John Van Voorst, Londra 1887, aggiornati da P. Basilewski e J. Decelle nella loro introduzione a La faune terrestre de l’Ile de Sainte-Hélène, «Annales, Musée Royale de l’Afrique Centrale, Tervuren, Belgium, Sciences Zoologiques», 192, 1972, pp. 1-9. Le abitudini alimentari proteiformi del fringuello dell’isola di Cocos furono scoperte da T. K. Werner e T. W. Sherry che le descrissero in Behavioral Feeding Specialization in Pinaroloxias inornata, the Darwin’s Finch of the Cocos Island, Costa Rica, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 84, 1987, pp. 5506-10. Rassegne molto complete sull’evoluzione dei pesci ciclidi sono presenti in Evolution of Fish Species Flocks, a cura di A. A. Echelle e I. Kornfield, University of Maine Press, Orono (ME) 1984, in articoli di Wallace J. Dominey, P. Humphry Greenwood, Leslie S. Kaufman, Karel F. Liem, Kenneth R. McKaye, Richard E. Strauss e Frans Witte. Le prove molecolari sulle origini dei ciclidi del lago Vittoria sono illustrate da Axel Meyer et al, Monophyletic Origin of Lake Victoria Cichlid Fishes Suggested by Mitochondrial Dna Sequences, «Nature», 347, 1990, pp. 550-553. Un’analisi recente delle specie del lago Vittoria è fornita da F. Witte e M. J. P. van Oijen, Taxonomy, Ecology and Fishery of Lake Victoria Haplochromine Trophic Groups, «Zoologische Verhandelingen», 262, 1991, pp. 1-47. Le stime dei tassi di estinzione imputabili alla perca del Nilo sono state fatte da C. D. N. Barel et al, in The Haplochromine Cichlids in Lake Victoria: An Assessment of Biological and Fisheries Interests, in M. H. A. Keenleyside (a cura di), Cichlid Fishes: Behaviour, Ecology and Evolution, Chapman and Hall, London 1991, pp. 258-279. Il ruolo della plasticità anatomica e comportamentale nella

macroevoluzione è messo in evidenza da Mary Jane West-Eberhard in Phenotypic Plasticity and the Origins of Diversity, «Annual Review of Ecology and Systematics», 20, 1989, pp. 249-278. Vengono forniti molti esempi interessanti che mostrano come la formazione di specie possa progredire molto rapidamente durante brevi episodi di isolamento geografico. Un simile effetto viene postulato da Wallace J. Dominey in Effects of Sexual Selection and Fife History on Speciation: Species Flocks in African Cichlids and Hawaiian Drosophila, in Echelle e Kornfield, cit. Il caso della molteplicità di forme del salmerino è descritto da Skúli Skúlason, David L. G. Noakes e Sigurdur S. Snorrason in Ontogeny of Trophic Morphology in Four Sympatric Morphs of Arctic Charr Salvelinus alpinus in Thingvallavatn, Iceland, «Biological Journal of the Linnean Society» 38, 1989, pp. 281-301. Parti della descrizione della radiazione adattativa degli squali sono tratte da Edward O. Wilson, In Praise of Sharks, «Discover», 6(7), 1985, pp. 40-42, 48, 50-53. La descrizione del grande squalo bianco di Hugh Edwards si trova in Sharks, a cura di J. D. Stevens, Facts on File, New York 1987, p. 212. Una rassegna della storia naturale degli squali da parte di autorevoli ricercatori si trova nello stesso volume, come pure in V. G. Springer e J. P. Gold, Sharks in Question, Smithsonian Institution Press, Washington 1989. Un resoconto degli attacchi da parte dello squalo «cookie-cutter» (Isistius brasilensis) ai sottomarini nucleari è fornito da C. Scott Johnson in Sea Creatures and the Problem of Equipment Damage, «U.S. Naval Institute Proceedings», agosto 1978, pp. 106-107. La storia in continua evoluzione dello squalo «megamouth» (Megachasma pelagios.) è riassunta da Springer e Gold in cit. Le migrazioni verticali sono descritte nel numero di marzo del 1991 del «National Geographic». Io mi sono avvalso anche di informazioni generali fornitemi durante una conversazione da Robert J. Lavenberg, del Museo di storia naturale della Contea di Los Angeles, il quale ebbe modo di studiare il secondo esemplare californiano da vivo e nel suo

ambiente naturale. La quarta radiazione adattativa dei mammiferi si verificò sul vasto territorio insulare del Madagascar, dove produsse una vasta gamma di lemuri – primati primitivi simili a scimmie – e tenrec, insettivori che ricordano sia il toporagno, sia la talpa, sia il riccio. Tuttavia, la diffusione complessiva delle principali forme adattative animali rimase ben lontana dai livelli raggiunti in Australia, Sudamerica e nel Continente Mondo. Un classico sui mammiferi australiani è quello di Ellis Troughton, Furred Animals of Australia, Angus and Robertson, London 19576. Una monografia più recente e che tiene conto del problema conservazionistico è quella, meravigliosamente illustrata, di Tim Flannery, Australia’s Vanishing Mammals, RD Press, Surry Hills (New South Wales, Australia) 1990. Un’eccellente descrizione del Grande scambio interamericano è quella di George G. Simpson, Splendid Isolation: The Curious History of South American Mammals, Yale University Press, New Haven (CT) 1980. Le sintesi più recenti dei dati fossili e biogeografici, sulle quali si è basata la mia trattazione, sono le seguenti: Larry G. Marshall et al, Mammalian Evolution and the Great American Interchange, «Science», 215, 1982, pp. 1351-57; Larry G. Marshall, Land Mammals and The Great American Interchange, «American Scientist», 76, 1988, pp. 380388. Una descrizione dettagliata delle specie che si estinsero è fornita da Elaine Anderson in Who’s Who in the Pleistocene: A Mammalian Bestiary, contenuto in P. S. Martin e R. G. Klein (a cura di), Quaternary Extinctions, University of Arizona Press, Tucson (AZ) 1984, pp. 40-89. Ho discusso la relazione tra biodiversità, longevità e dominanza in modo più formale in Success and Dominance in Ecosystems: the Case of the Social Insects. La longevità viene definita come la durata, attraverso le ere geologiche, di una specie e di tutti i suoi discendenti. Desidero qui aggiungere che, più precisamente, la longevità viene definita dall’insieme di caratteri grazie ai quali la specie e i suoi discendenti sono riconosciuti come tali: per esempio, una ghiandola particolare, o una struttura ossea, o la forma delle corna. La fine del

gruppo di specie può sopraggiungere sia per totale estinzione, vale a dire la morte di tutte le popolazioni, sia per «estinzione del cronotaxon», nel corso della quale le popolazioni del gruppo di specie evolvono un nuovo insieme di caratteri, sufficientemente diversi perché esse vadano a formare un diverso genere, o addirittura un gruppo tassonomico superiore. 8. La biosfera inesplorata Una rassegna incisiva dei phyla. degli organismi è quella di L. Margulis e K. V. Schwartz, Five Kingdoms: An Illustrated Guide to the Phyla of Life on Earth, Freeman, San Francisco 1982. Non vi è inclusa – essendo stata pubblicata poco dopo – la descrizione dei loriciferi di Reinhart M. Kristensen, Loricifera, A New Phylum with Aschelminthes Characters from the Meiobenthos, «Zeitschrift für Zoologische Systematik und Evolutionsforschung», 21(3), 1983, p. 163. Il resoconto più recente sui loriciferi si trova in Richard C. e Gary J. Brusca, Invertebrates, Sinauer, Sunderland 20032 (trad. it. Invertebrati, Zanichelli, Bologna 1996) La stima del numero di specie descritte secondo i gruppi considerati è tratta dal mio The Current State of Biological Diversity, in E. O. Wilson e F. M. Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 3-18. Un resoconto dettagliato della diversità e del livello di approssimazione nella stima del numero di specie fornito, per molti gruppi individualmente, da Sybil P. Parker (a cura di), Synopsis and Classfication of Living Organisms, 2 voll., McGraw-Hill, New York 1982. Da quest’opera ho tratto molte delle stime grazie alle quali sono approdato al totale mondiale di 1,4 milioni. Nel 1978 T. R. E. Southwood giunse allo stesso valore escludendo i funghi, le alghe, i batteri e altre monere, secondo quanto riportato in L. A. Mound e N. Waloff (a cura di), Diversity of Insects faunas, Blackwell, London 1978, pp. 19-40. Se si aggiungono i gruppi mancanti, il totale mondiale di Southwood raggiunge 1,5 milioni. Nigel E. Stork, in Insect Diversity: Facts, Fiction and Speculation, «Biological Journal of the Linnean Society», 35, 1988, pp. 321-337,

cita una stima non pubblicata di N. M. Collins, pari a 1,8 milioni di sole specie di piante e animali; aggiungendo funghi e monere, il valore aumenterebbe a 1,9 milioni di specie. Sono propenso a credere che quest’ultimo valore sia troppo alto, mentre il mio potrebbe essere troppo basso. Il racconto ipotetico del destino di un mondo senza insetti è la versione modificata di una mia conferenza, The Little Things That Run the World, tenuta al National Zoological Park di Washington, il 7 maggio 1987, e poi pubblicata in «Conservation Biology», 1(4), 1987, pp. 344-346. La stima di Terry Erwin sulla biodiversità degli artropodi della foresta pluviale è stata proposta la prima volta in Tropical Forests: Their Richness in Coleoptera and Other Arthropod Species, «Coleopterists’ Bulletin», 36(1), 1982, pp. 74-75, e in Beetles and Other Insects of Tropical Forest Canopies at Manaus, Brazil, Sampled by Insecticidal Fogging, in S. L. Sutton, T. C. Whitmore, e A. C. Chadwick (a cura di), Tropical Rain Forest: Ecology and Management, Blackwell, London 1983, pp. 59-75. Valutazioni di tale stima, assieme a nuove analisi, sono riportate in Robert M. May, How Many Species Are there on Earth?, «Science», 241, 1988, pp. 1441-49, e How Many Species?, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 330 ser. B, 1990, pp. 293-304; Nigel Stork, cit., e nel corso di una comunicazione personale; Kevin J. Gaston, The Magnitude of Global Insect Richness, «Conservation Biology», 5(3), 1991, pp. 283-296. Il resoconto qui esposto è una versione modificata del mio articolo Rain Forest Canopy: The High Frontier, «National Geographic», 180, dicembre 1991, pp. 78-107. C. William Beebe scrisse della volta inesplorata della foresta tropicale in Tropical Wild Life in British Guiana, di Beebe, G. I. Hartley e P. G. Howes, New York Zoological Society, New York 1917. Le nostre conoscenze sulla diversità biologica del fondali abissali oceanici sono riassunte da J. Frederick Grassie in Deep-Sea Benthic Biodiversity, «BioScience», 41(7), 1991, pp. 464-469. La stima della diversità dei batteri del suolo mediante le tecniche di

ibridazione dei filamenti di Dna è descritta in due articoli di Jostein Goksøyr, Vigdis Torsvik e collaboratori in «Applied and Environmental Microbiology», 56(3), 1990, pp. 776-787. Lo stesso Goksøyr mi ha cortesemente fornito alcuni manoscritti non pubblicati che mi sono risultati molto utili. Il criterio dell’ibridazione del Dna al 70 per cento è stato proposto dal Ad Hoc Committee on Reconciliation of Approaches to Bacterial Systematics in «International Journal of Systematic Bacteriology», 37, 1987, pp. 463-464. Le nuove flore batteriche scoperte su campioni ottenuti con carotaggi dai perforamenti in profondità sono descritte da C. B. Fliermans e D. L. Balkwill in Microbial Life in Deep Terrestrial Subsurfaces, «BioScience», 39(6), 1989, pp. 370-377. La biodiversità dei funghi, un altro dei grandi argomenti sconosciuti, potrebbe raggiungere un’ampiezza pari a quella dei batteri. In una stima recente, David L. Hawksworth valuta in 69.000 il numero delle specie note, ma il numero di specie realmente esistenti dovrebbe aggirarsi sul milione e mezzo. Si veda Fungal Dimension of Biodiversity: Magnitude, Signficance and Conservation, «Mycological Research», 95(6), 1991, pp. 641-655. La simbiosi fra Rastrococcus iceryoides, lieviti e batteri è descritta da Paul Buchner in Endosymbiosis of animals with Plant Microorganisms, Interscience Publishers, New York 1965, pp. 271-272. Le informazioni circa la scoperta di nuove specie di balene e focene è stata tratta da W. F. J. Mörzer Bruyns, Field Guide of Whales and Dolphins, C. A. Mees, Amsterdam 1971, e K. Ralls e R. L. Brownell Jr., A Whale of a New Species, «Nature», 350, 1991, p. 560. Una descrizione tecnica, e al tempo stesso chiara, dell’equipartizione e delle altre misure della diversità delle faune e delle flore locali è fornita da Anne E. Magurran in Ecological Diversity and Its Measurement, Princeton University Press, Princeton 1988. Il conteggio dei regni e dei phyla. degli organismi viventi è basato sull’opera di L. Margulis e K. V. Schwartz, cit. Si potrebbe ipotizzare

l’esistenza di un sesto regno, contenente gli archeobatteri, ma a tale proposito i sistematici non hanno ancora raggiunto un accordo. La storia naturale degli accipitridi della Foresta Nera è stata tratta dall’opera di R. T. Peterson, G. Montfort e P. A. D. Hollom, A Field Guide to the Birds of Britain and Europe, Houghton Mifflin, Boston 19834. Secondo Hans Löhrl (comunicazione personale tramite Ernst Mayr), l’astore, avispecie minacciata d’estinzione in molte parti del Nordamerica, nella Foresta Nera non solo continua a vivere, ma è addirittura aumentata di numero al punto da costituire una minaccia per il gallo cedrone (Tetrao urogallus), un grosso uccello tetraonide tipico di quella regione, ambita preda dei cacciatori. Per quanto riguarda le misurazioni della diversità genetica: le stime sugli alloenzimi sono tratte da Robert K. Selander, Genic Variation in Natural Populations, presente in Francisco J. Ayala (a cura di), Molecular Evolution Sinauer, Sunderland 1976, pp. 21-45; e Genetic Variation in Natural Populations: Patterns and Theory, «Theoretical Population Biology», 13(1), 1978, pp. 121-177. Altri aspetti sulla ricerca riguardante gli alloenzimi e le ancor più recenti misurazioni della diversità a livello nucleotidico sono discussi da Wen-Hsiung Li e Dan Graur, Fundamentals of Molecular Evolution, Sinauer, Sunderland 1991, e da R. K. Selander, A. G. Clark e T. S. Whittam in Evolution at the Molecular Level, Sinauer, Sunderland 1991. Sono riconoscente a Russell Lande per le utili informazioni fornitemi circa la stima della diversità genetica totale basata su questa ricerca. 9. La creazione degli ecosistemi Il ruolo delle lontre marine come specie chiave è descritto in dettaglio da David O. Duggins in Kelp Beds and Sea Otters: An Experimental Approach, «Ecology», 61(3), 1980 pp. 447-453. Le prove a favore del ruolo chiave dei puma e dei giaguari sono esposte da John Terborgh in The Big Things that Run the World – A Sequel to E. O. Wilson, «Conservation Biology», 2(4), 1988, pp. 402403. La stima dell’incremento di dieci volte nel numero di coati e di

roditori in assenza dei giaguari e dei puma sull’isola di Barro Colorado è basata sul confronto con la fauna di Cocha Cashu, in Perù, dove i grossi felini sono ancora presenti. Il ruolo chiave dei grossi mammiferi africani è documentato da Norman Owen-Smith in Megafaunal Extinctions: The Conservation Message from 11.000 years B.P., in «Conservation Biology», 3(4), 1989, pp. 405-412. Il resoconto sulle formiche Dorylinae. africane è stato tratto dal mio Success and Dominance in Ecosystems. Le regole di raggruppamento nella formazione delle biocomunità sono state ricavate a partire dagli uccelli della Nuova Guinea da Jared M. Diamond, Assembly of Species Communities, in «Ecology and Evolution of Communities», a cura di M. L. Cody e J. M. Diamond, Harvard University Press, Cambridge 1975, pp. 342-444. L’approccio di Diamond è stato sottoposto a critica, in base a un’analisi statistica, da Daniel Simberloff, nel suo Using Island Biogeographic Distributions To Determine If Colonization Is Stochastic, «American Naturalist», 112, 1978, pp. 713-726; e in Competition Theory, Hypothesis Testing, and Other Community-Ecology Buzzwords, «American Naturalist», 122, 1983, pp. 626-635. Una rassegna generale di molti gruppi di microrganismi e di animali è stata realizzata di recente da James A. Drake in Communities as Assembled Structures: Do Rules Govern Pattern?, «Trends in Ecology and Evolution», 5(5), 1990, pp. 159-164. Drake, che giunge alla conclusione che esistano effettivamente regole di raggruppamento basate sulla competizione, usa anche l’analogia del puzzle per descrivere le sequenze di colonizzazione. Altri approcci generalmente favorevoli al ruolo della competizione sono quelli formulati dagli autori di Community Ecology, a cura di J. Diamond e T. J. Case, Harper and Row, New York 1986. La storia della competizione tra le formiche Solenopsis è raccontata da Hölldobler e Wilson in The ants. La compressione e l’espansione tra le specie in competizione di fringuelli di Darwin è descritta da Peter R. Grant in Ecology and Evolution of Darwin’s Finches, Princeton University Press, Princeton

1986. Il dislocamento dei caratteri nei fringuelli di Darwin è stato suggerito per la prima volta da David Lack nella sua opera classica Darwin’s Finches, Cambridge University Press, Cambridge 1947. È stato poi documentato in dettaglio e in modo convincente da Peter Grant nel citato Ecology and Evolution of Darwin’s Finches. L’analogia tra le pinze e la struttura del becco è stata proposta da Robert I. Bowman in un’analisi dettagliata pubblicata in Morphological Differentiation and Adaptation in the Galapagos Finches, «University of California Publications in Zoology», 58, 1961, pp. 1-302. Il nesso tra predazione e numero delle specie dei molluschi della fascia intertidale è descritto da Robert T. Paine in Food Web Complexity and Species Diversity, «American Naturalist», 100, 1966, pp. 65-75. Sono grato a Michael Huben per avermi mostrato come si estraggono e si esaminano gli acari Demodex folliculorum e Demodex brevis. Rassegne autorevoli sulle reti alimentari sono quelle di: Joel E. Cohen, Food Webs and Niche Space, Princeton University Press, Princeton 1978; J. E. Cohen, F. Briand e C. M. Newman (a cura di), Community Food Webs, Springer, New York 1990; S. L. Pimm, J. H. Lawton, e J. E. Cohen, Food Web Patterns and Their Consequences, «Nature», 350, 1991, pp. 669-674. La strana predazione reciproca tra larve di zanzara (Aedes sierrensis) e protozoi del genere Lambornella è stata segnalata da Jan O. Washburn et al, Predator-Induced Trophic Shft of a Free-Living Ciliate: Parasitism of Mosquito Larvae by Their Prey, «Science», 240, 1988, pp. 1193-95. 10. La biodiversità raggiunge l’apice I particolari sui feltri microbici delle stromatoliti sono forniti da David J. Des Marais in Microbial Mats and the Early Evolution of Life, «Trends in Ecology and Evolution», 5(5), 1990, pp. 140-144; informazioni tratte da conferenze sono fornite da J. William Schopf in

Steve Olson, Shaping the Future: Biology and Human Values, National Academy Press, Washington 1989. I particolari sulla storia della biodiversità sono stati tratti da molte fonti, e soprattutto da A. Knoll e J. Bauld, The Evolution of Ecological Tolerance in Prokaryotes, «Transactions of the Royal Society of Edinburgh, Earth Sciences», 80, 1989, pp. 209-223; appunti di conferenze di J. William Schopf, raccolti in Olson, cit.; Philip W. Signor, The Geologic History of Diversity, «Annual Review of Ecology and Systematics», 21, 1990, pp. 509-539; e Mark A. S. McMenamin, The Emergence of Animals, «Scientific American», 256, aprile 1987, pp. 94-102. Le notizie sulle spore delle prime piante terrestri e sui cunicoli scavati dagli invertebrati sono di G. J. Retallack e C. R. Feakes, Trace Fossil Evidence for Late Ordovician Animals on Land, «Science», 235, 1987, pp. 61-63. Mi sono avvalso anche di un manoscritto non pubblicato di A. H. Knoll e H. D. Holland, Oxygen and Proterozoic Evolution: An Update. Il concetto di progresso evolutivo qui fornito è stato presentato per la prima volta nel mio Success and Dominance in Ecosystems. L’idea di uno spostamento della media verso animali più grandi e complessi attraverso le ere geologiche è documentata da Geerat J. Vermeij, Evolution and Escalation: An Ecological History of Life, Princeton University Press, Princeton 1987; e da John Tyler Bonner, The Evolution of Complexity by Means of Natural Selection, Princeton University Press, Princeton 1988. Sulla durata del periodo Cambriano e dell’intero Fanerozoico, vale a dire 550 milioni di anni, tutti i geologi sono d’accordo, secondo Simon Conway Morris (comunicazione personale). Il nesso tra aumento di ossigeno atmosferico e origine degli animali macroscopici nel tardo Precambriano e all’inizio del Cambriano è stato inizialmente proposto da Preston Cloud come modello teorico. Le stime dei tassi d’estinzione degli organismi marini sono basate su molti studi di fossili del Permiano e del Triassico, commentati nella rassegna di Douglas H. Erwin, The End-Permian Mass Extinction, «Annual Review of Ecology and Systematics», 21, 1990, pp. 69-91.

Lo scenario del campo di battaglia è dipinto da David M. Raup in Extinction: Bad Genes or Bad Luck?, e deriva dalle sue tecniche per stimare i tassi d’estinzione secondo il rango tassonomico presentate in Taxonomic Diversity Estimation Using Rarefaction, «Paleobiology», 1(4), 1975, pp. 333-342. Io ho poi provveduto a dare allo scenario il taglio militaresco. Un’analisi autorevole dell’esplosione del Cambriano nell’evoluzione degli animali marini è offerta da S. Conway Morris in Burgess Shale Faunas and the Cambrian Explosion, «Science», 246, 1989, pp. 339-346. L’affinità di alcuni problematica, tra cui Hallucigenia, con il phylum. vivente degli Onychophora, è suggerita da L. Ramsköld e H. Xianguang, New Early Cambrian Animal and Onychophoran Affinities of Enigmatic Metazoans, «Nature», 351, 1991, pp. 225-228. La diagnosi della bizzarra Wiwaxia corrugata è stata fatta da Nicholas J. Butterfield in A Reassessment of the Enigmatic Burgess Shale Fossil Wiwaxia corrugata (Matthew) and Its Relationship to the Polychaete Canadia spinosa Walcott, «Paleobiology», 16(3), 1990, pp. 287-303. Per quanto attiene al riassunto di Signor della correlazione tra geografia continentale e biodiversità globale, consultare la sua Geologic History of Diversity. La tendenza verso un arricchimento delle faune e delle flore locali è documentata da John Sepkoski Jr. et al, Phanerozoic Marine Diversity and the Fossil Record, «Nature», 293, 1981, pp. 435-437; e Andrew H. Knoll, Patterns of Change in Plant Communities through Geological Time, in J. M. Diamond e T. J. Case (a cura di), Community Ecology, Harper and Row, New York 1986, pp. 126-141. Gradienti latitudinali delle specie. Il numero di specie di uccelli nidificanti è fornito da Adrian Forsyth in Portraits of the Rainforest, Camden House, Camden East (Ontario) 1990. Raymond A. Paynter mi ha fornito il numero delle specie colombiane. Un elenco delle pubblicazioni che documentano il gradiente latitudinale di diversità relativo a una vasta schiera di animali e di vegetali è riportato da George C. Stevens in The Latitudinal Gradient in Geographical Range: How So Many Species Coexist in the Tropics, «American Naturalist»,

133(2), 1989, pp. 240-256. Il raffronto tra le stime della biodiversità vegetale dei tropici rispetto a quella dei climi temperati è fornito da Peter H. Raven in The Scope of the Plant Conservation Problem Worl-Wide, in D. Bramwell, O. Hamann, V. H. Heywood e H. Synge (a cura di), Botanic Gardens and the World Conservation Strategy, Academic Press, New York 1987, pp. 19-29. Il conteggio effettuato da Alwyn H. Gentry sulle specie arboree del Perù, conteggio che ha stabilito un record mondiale, si trova in Tree Species Richness of Upper Amazonian Forests, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 85, 1988, pp. 156-159. Le stime non pubblicate di Peter S. Ashton sulla diversità delle specie arboree del Borneo mi sono state fornite a titolo di comunicazione personale. I dati sulla biodiversità delle farfalle del Perù e del Brasile sono citati da G. Lamas, R. K. Robbins e D. J. Harvey in A Preliminary Survey of the Butterfly Fauna of Pakitza, Parque Nacional del Manu, Peru, with an Estimate of Its Species Richness, «Publicaciones del Museo de Historia Natural, Universidad Nacional Mayor de San Marcos, serie A Zoologia», 40, 1991, pp. 1-19; e da T. C. Emmel e G. T. Austin, The Tropical Rain Forest Butterfly Fauna of Rondonia, Brazil: Species Diversity and Conservation, «Tropical Lepidoptera», 1(1), 1990, pp. 112. Le formiche di un solo albero della foresta pluviale peruviana sono state da me analizzate in The Arboreal Ant Fauna of Peruvian Amazon Forests: A First Assessment, «Biotropica», 19(3), 1987, pp. 245-251. Terry L. Erwin ha stimato il numero di specie di coleotteri di una foresta pluviale panamense in Tropical Forests: Their Richness in Coleoptera and Other Arthropod Species, «Coleopterist’s Bulletin», 36(1), 1982, pp. 74-75. Stime sulla diversità dei coleotteri del Nordamerica e del mondo si trovano in Ross H. Arnett Jr., American Insects: A Handbook of Insects of America North of Mexico, Van Nostrand Reinhold, New York 1985. La correlazione di David J. Currie tra ricchezza di specie di vertebrati e di alberi nel Nordamerica e variabili ambientali è presentata in Energy and Large-Scale Patterns of Animal- and Plant-Species Richness,

«American Naturalist», 137(1), 1991, pp. 27-49. La regola di Rapoport, come l’ha chiamata George Stevens, fu proposta dall’ecologo argentino Eduardo H. Rapoport in Aerography: Geographical Strategies of Species, Pergamon, New York 1982. Lo stesso Stevens, comunque, ha riunito dati che, provenienti da molte fonti, hanno confermato il punto di vista dell’ecologo argentino. Stevens ha anche collegato la regola di Rapoport (secondo la quale le specie di clima temperato hanno distribuzione latitudinale più ampia), con la necessità che tali specie hanno di occupare ambienti locali più variabili. L’assottigliamento degli areali distributivi altitudinali sui versanti delle montagne tropicali – assottigliamento che avrebbe la stessa spiegazione, e costituisce quindi un’idea essenzialmente simile alla regola di Rapoport – fu proposto nel 1967 da Daniel H. Janzen, Why Mountain Passes Are Higher in the Tropics, «American naturalist», 101, pp. 233-249. I curculionidi della Nuova Guinea, che ospitano «giardini» di alghe, licheni e muschi, sono stati scoperti da J. Linsley Gressitt, che li descrive in Epizoic Symbions, «Entomological News», 80(1), 1969, pp. 1-5. Dynamine hoppi e molte altre bellissime e rare specie di farfalle sono descritte da Philip J. De Vries in The Butterflies of Costa Rica and Their Natural History: Papilionidae, Pieridae, Nymphalidae, Princeton University Press Princeton, 1987. Il modello di «aree di formazione – aree di esaurimento» (source-sink model) è analizzato da H. Ronald Pulliam in Sources, Sinks, and Population Regulation, «American Naturalist», 132(5), 1988, pp. 652661. E stato documentato particolarmente bene nello studio approfondito sulla diversità degli alberi panamensi condotto da Stephen Hubbell e Robin Foster, e descritto in Commonness and Rarity in a Neotropical Forest: Implications for Tropical Tree Conservation, riportato in Michael E. Soulé (a cura di), Conservation Biology: The Science of Scarcity and Diversity, Sinauer, Sunderland 1986, pp. 205231. La descrizione delle epifite è stata tratta e modificata dal mio Rain

Forest Canopy. L’importanza degli animali abissali come base della stabilità ambientale è stata sottolineata per la prima volta da Howard L. Sanders in Marine Benthic Diversity: A Comparative Study, «American Naturalist», 102, 1968, pp. 243-282. Gli studi riguardanti l’effetto delle dimensioni degli organismi sulla diversità biologica sono quelli di D. R. Morse et al. in Fractal Dimension of Vegetation and the Distribution of Arthropod Body Lenghts, «Nature», 314, 1985, pp. 731-733; e Robert M. May in How Many Species Are There on Earth?, «Science», 241, 1988, pp. 1441-49. G. Evelyn Hutchinson e Robert H. MacArthur hanno proposto la regola dell’aumento logaritmico della biodiversità al decrescere delle dimensioni degli organismi in A Theoretical Ecological Model of Size Distributions among Species of Animals, «American Naturalist», 93, 1959, pp. 117-125. L’analisi frattale della dimensione delle nicchie come fattore determinante la biodiversità è stata introdotta da Morse et al., cit. Questi ecologi hanno misurato le superfici reali della vegetazione per cogliere le differenze percepite dagli organismi di taglia diversa. Il mondo dell’acaro delle penne, presente nel piumaggio dei pappagalli, è descritto da T. M. Pérez e W. T. Atyeo in Site Selection of the Feather and Quill Mites of Mexican Parrots, pubblicato in D. A. Griffiths e C.E. Bowman (a cura di), Acarology VI, Ellis Horwood, Chichester 1984, pp. 563-570. Ulteriori dettagli mi sono stati gentilmente forniti da Tila Pérez in forma di comunicazioni personali. Gli ultimi giorni di vita del parrocchetto della Carolina (Conuropsis carolinensis) sono descritti da Doreen Buscami, The Last American Parakeet, «Natural History», 87(4), 1978, pp. 10-12. Gli studi statistici più approfonditi sui fattori che influenzano il numero di specie animali sono stati condotti di recente da Kenneth P. Dial e John M. Marzluff in articoli quali: Are The Smallest Organisms the Most Diverse?, «Ecology», 69(5), 1988, pp. 1620-24; Nonrandom Diversfication within Taxonomic Assemblages, «Systematic Zoology»,

38(1), 1989, pp. 26-37; e Life History Correlates of Taxonomic Diversity, «Ecology», 72(2), 1990, pp. 428-439. La trattazione sulla diversità e la dominanza degli insetti è basata sul mio originale First Word, «Omni», 12, settembre 1990, p. 6. Le cause della grande varietà e dell’importanza ecologica degli insetti sono individuate da T. R. E. Southwood, The Components of Diversity, in L. A. Mound e N. Waloff (a cura di), cit., pp. 19-40. La descrizione della radiazione adattativa dei mammiferi africani è stata tratta e modificata da C. J. Lumsden e E. O. Wilson, Promethean Fire, Harvard University Press, Cambridge 1983 (trad. it. Il fuoco di Prometeo: le origini e lo sviluppo della mente umana, Mondadori, Milano 1984). 11. Vita e morte delle specie Il resoconto sull’estinzione del vischio della Nuova Zelanda è stato basato sul lavoro di David A. Norton, Trilepidea adamsii: An Obituary for a Species, «Conservation Biology», 5(1), 1991, pp. 52-57. I dati relativi ai tassi di estinzione degli organismi marini sono tratti da David M. Raup, Extinction: Bad Genes or Bad Luck?, «Acta geológica hispánica», 16 (1-2), 1981, pp. 25-33; e Evolutionary Radiations and Extinction, in H. D. Holland e A. F. Trandall (a cura di), Patterns of Change in Earth Evolution Spingh Verlog, Berlin 1984, pp. 5-14. L’estinzione a ritmo quasi costante all’interno di un clado – e di più cladi all’interno di un clado di maggiori dimensioni – è stata documentata da Leigh van Valen in A New Evolutionary Law, «Evolutionary Theory», 1, 1973, pp. 1-30. Una valutazione aggiornata della longevità, che conferma la costanza del ritmo di estinzione, seppur con moltissime precauzioni, è fornita da Jeffrey Levinton in cit. La storia recente dei bufali e delle antilopi africane, incluso un episodio di estinzione in massa risalente a 2,5 milioni di anni fa, è narrata in dettaglio da Elisabeth S. Vrba in African Bovidae:

Evolutionary Events since the Miocene, «South African Journal of Science», 81, 1985, pp. 263-266. La rapida formazione di specie tra le piante andine, e soprattutto tra le orchidee, è discussa da A. H. Gentry e C. H. Dodson in Diversity and Biogeografy of Neotropical Vascular Epiphytes, «Annals of the Missouri Botanical Garden», 74, 1987, pp. 205-233. La nascita dell’isola di Surtsey il 14 novembre 1963 fu seguita dalla colonizzazione da parte di piante e animali secondo modalità simili a quelle verificatesi su Krakatau (cap. 2), seppur con molte meno specie. La storia dell’isola è descritta in dettaglio da Sturla Fridriksson in Surtsey: Evolution of Life on a Volcanic Island, Halsted Press/Wiley, New York 1975. Gli islandesi sono stati molte volte testimoni di episodi di questo genere. In Völuspá, un poema del decimo secolo, le eruzioni vengono trasformate nella furia del gigante di fuoco Surtur il Nero: «Le stelle incandescenti giù / dai Cieli vengon strappate / Ardente si enfia e il vapore /e la fiamma apportatrice di vita / su, su, fino a che il fuoco / giunge a lambire i Cieli stessi». Il nome Surtsey significa isola di Surtur. La teoria della biogeografia insulare fu presentata nel 1963 da R. H. MacArthur ed E. O. Wilson in An Equilibrium Theory of Insular Zoogeography, «Evolution», 17(4), pp. 373-387, e da noi ulteriormente elaborata in The Theory of Island Biogeography. La teoria è stata oggetto di numerose discussioni e di miglioramenti, magistralmente riassunti da Mark Williamson in Island Populations, Oxford University Press, Oxford 1981; e in Natural Extinction on Islands, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 325 ser B, 1989, pp. 457-468. La regola secondo la quale a un aumento di dieci volte della superficie dell’isola raddoppia il numero delle specie fu suggerita la prima volta da Philip J. Darlington in Zoogeography: The Geographical Distribution of Animals, Wiley, New York 1957. L’esperimento di biogeografia alle Florida Keys è raccontato da D. S. Simberloff ed E. O. Wilson in Experimental Zoogeography of Islands: Defaunation and Monitoring Tecniques, «Ecology», 50(2), 1969, pp. 267-278; e in Experimental Zoogeography of Islands: A Two-Year Record

of Colonization, «Ecology», 51(5), 1970, pp. 934-937. La teoria della biogeografia insulare, e soprattutto la sua proposizione centrale, quella dell’equilibrio dinamico del numero delle specie, è stata messa alla prova da molti altri esperimenti facenti uso di sistemi miniaturizzati tra cui diatomee fissate a scivoli immersi in corsi d’acqua, e microrganismi contenuti in bottiglie. Sono stati d’aiuto anche gli studi sul ricambio in zone insulari di varia superficie, nonché gli sviluppi avutisi in seguito alle catastrofi di Krakatau e Surtsey. I primi risultati del Forest Fragments Project brasiliano sono descritti da Thomas E. Lovejoy et al. in Ecosystem Decay of Amazon Forest Remnants, in Matthew H. Nitecki (a cura di); cit., pp. 295-325; e Lovejoy et al, Edge and Other Effects of Isolation on Amazon Forest Fragments, in Michael E. Soulé (a cura di), Conservation Biology: The Science of Scarcity and Diversity, pp. 257-285. La perdita di diversità da parte dei coleotteri è stata dimostrata e descritta da Bert C. Klein in Effects of Forest Fragmentation on Dung and Carrion Beetle Communities in Central Amazonia, «Ecology», 70(6), 1989, pp. 171525. La teoria della probabilità di estinzione, assieme ai dati raccolti sulle Isole Britanniche per mettere alla prova la teoria stessa, sono esposti da S. L. Pimm, H. L. Jones e J. Diamond in On the Risk of Extinction, «American Naturalist», 132(6), 1988, pp. 757-785. In The Theory of Island Biogeography (1967), MacArthur e Wilson forniscono delle equazioni che evidenziano la notevole dipendenza della longevità delle popolazioni dalla loro dimensione e dai tassi di natalità e di mortalità. I particolari sulle avispecie nordamericane in pericolo d’estinzione sono stati tratti da John W. Terborgh, Preservation of Natural Diversity: The Problem of Extinction Prone Species, «BioScience», 24(12), 1974, pp. 715-722; e Where Have All the Birds Gone? Essays on the Biology and Conservation of Birth That Migrate to the American Tropics, Princeton University Press, Princeton 1989; D. S. Wilcove e J. W. Terborgh, Patterns of Population Decline in Birds, «American Birds»,

38(1), 1984, pp. 10-13; e Russell Lande, Genetics and Demography in Biological Conservation, «Science», 241, 1988, pp. 1455-60. I diversi aspetti della rarità degli organismi sono stati classificati da D. Rabinowitz, S. Cairns e T. Dillon in Seven Forms of Rarity and Their Frequency in the Flora of the British Isles, in Michael Soulé (a cura di), cit., pp. 182-204. Il resoconto sui gasteropodi paleolitici viventi in prossimità dell’ano dei gigli di mare è di Steven M. Stanley, Periodic Mass Extinctions of the Earth’s Species, «Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences», 40(8), 1987, pp. 29-48. Il mio studio sull’estinzione delle formiche delle Indie Occidentali è contenuto in Invasion and Extinction in the West Indian Ant Fauna: Evidence from the Dominican Amber, «Science», 229, 1985, pp. 265267. Steven Stanley ha scritto della maggior longevità dei molluschi contenuti in maggior quantità nei resti fossili in Periodic Mass Extinctions, cit., pp. 34-36. La regola del 50-500 della dimensione minima della popolazione è stata presentata da Ian Robert Franklin in Evolutionary Changes in Small Populations, in M. Soulé e B. A. Wilcox (a cura di), Conservation Biology: An Evolutionary-Ecological Perspective, Sinauer, Sunderland 1980, pp. 135-149. Gli alleli letali presenti nel corredo genetico degli animali in cattività sono analizzati da John W. Senner in Inbreeding Depression and the Survival of Zoo Populations, in Soulé e Wilcox (a cura di), cit., pp. 209-224; e da K. Ralls, J. D. Ballou e A. Templeton in Estimates of Lethal Equivalents and the Cost of Inbreeding in Mammals, «Conservation Biology», 2(2), 1988, pp. 185-193. La regola del 50500 è stata riesaminata da O. Frankel e M. E. Soulé in Conservation and Evolution, Cambridge University Press, Cambridge 1981, e con maggior spirito critico da Russell Lande, Genetics and Demography in Biological Conservation, «Science», 241, 1988, pp. 1455-60. Le piccole popolazioni di Polposipus herculeanus (coleottero tenebrionide dell’isola di Frigade) e di Thermosphaeroma thermophilum (isopode di Socorro) sono descritte in The IUCN Red Data Book, Unwin

Brothers, Old Woking (UK) 1983; e quelle dell’albero Hibiscadelphus distans di Kauai in «Plant conservation» del Center for Plant Conservation, 3(4), 1988, pp. 1-8. Il concetto di metapopolazione, formulato originariamente da Richard Levins nel 1970, è stato esplorato più recentemente da Isabelle Olivieri et al, The Genetics of Transient Populations: Research at the Metapopulation Level, «Trends in Ecology and Evolution», 5(7), 1990, pp. 207-210; e più dettagliatamente dagli autori di Metapopulation Dynamics: Empirical and Theoretical Investigations, a cura di M. Gilpin e I. Hanski, Academic Press, New York 1991, testo ristampato dal «Biological Journal of the Linnean Society», 42(1-2), 1991. Le informazioni sulla farfalla Lycaeides melissa samuelis sono tratte da Minimum Area Requirements for Long-Term Conservation of the Albany Pine Bush and Karner Blue Butterfly: An Assessment, il resoconto non pubblicato redatto per lo Stato di New York da Thomas J. Givnish, Eric S. Menges e Dale F. Schweitzer, datato 9 agosto 1988, è stato citato con il permesso degli autori. Lycaeides melissa samuelis è una delle poche metapopolazioni frammentate classificate come razze orientali di Lycaeides melissa. La sua descrizione formale è dovuta a Vladimir Nabokov, scrittore e illustre collezionista di farfalle. Gli ultimi giorni allo stato selvatico dell’ara di Spix sono stati raccontati da J. B. Thomsen e C. A. Munn in Cyanopsitta spixii: A Non Recovery Report, «Parrotletter», 1(1), 1987, pp. 6-7 e in un trafiletto intitolato Lone Macaw Makes a Vain Bid for Survival in «New Scientist», 18 agosto 1990. Sono debitore a Jorgen Thomsen di ulteriori particolari sulle condizioni dell’ultimo esemplare rimasto, un maschio. 12. La biodiversità in pericolo Sono riconoscente ad Alwyn H. Gentry per avermi raccontato la storia di Centinela. Alcune delle caratteristiche della flora sono descritte da Gentry in Endemism in Tropical versus Temperate Plant Communities, in Michael E. Soulé (a cura di), Conservation Biology: The Science of

Scarcity and Diversity, pp. 153-181. La storia della deforestazione dell’Ecuador è tracciata da Calaway Dodson e Gentry in Biological Extinction in Western Ecuador, «Annals of the Missouri Botanical Gardens», 78(2), 1991, pp. 273-295. Estinzione in massa degli uccelli polinesiani. L’estinzione degli uccelli terrestri delle Hawaii da parte dei colonizzatori polinesiani è descritta da S. L. Olson e da H. F. James in Descriptions of Thirty-Two New Species of Birds from the Hawaiian Islands, Part 1: Non-Passeriformes, «Ornithological Monographs», 46, 1991, pp. 1-88; e Descriptions of Thirty-Two New Species of Birds from the Hawaiian Islands, Part 2: Passeriformes, «Ornithological Monographs», 46, 1991, pp. 1-88. Le distruzioni della fauna in altre parti della Polinesia sono documentate da David W. Steadman in Extinction of Birds in Eastern Polynesia; A Review of the Record and Comparisons with Other Pacific Island Groups, «Journal of Archaeological Science», 16, 1989, pp. 177-205; e da T. Dye e D. W. Steadman in Polynesian Ancestors and Their Animal World, «American Scientist», 78, 1990, pp. 207-215. La storia dell’isola di Henderson è raccontata da Steadman e Olson in Bird Remains from an Archaeological Site on Henderson Island, South Pacific: Man-Caused Extinctions on an Uninhabited Island, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 82, 1985, pp. 6191-95. Estinzioni delle ere glaciali. Scritta a più mani, l’opera più completa sulle estinzioni verificatesi alla fine dell’ultima glaciazione, circa 11.000 anni fa, è citato Quaternary Extinctions, a cura di P. S. Martin e R. G. Klein. Gli autori qui consultati sono nell’ordine: David W. Steadman e Paul S. Martin (estinzioni del Pleistocene nordamericano e uccelli del tardo Pleistocene); Leslie F. Marcus e Rainer Berger (megafauna del tardo Pleistocene scoperta in località Rancho La Brea); Larry D. Agenbroad (mammut); Arthur M. Phillips III (bradipi terricoli); C. Vance Haynes (cultura di Clovis ed estinzioni della megafauna); Jared M. Diamond (avifauna islandese); James E. King e Jeffrey J. Saunders (mastodonti); S. David Webb (estinzioni di mammiferi nordamericani degli ultimi 10 milioni di anni); infine, Donald K. Grayson (storia delle teorie formulate durante il secolo scorso a riguardo delle estinzioni del Pleistocene).

L’estinzione dei moa e degli altri uccelli endemici della Nuova Zelanda è raccontata da Michael M. Trotter e Beverly McCulloch, Atholl Anderson e Richard Cassels in Martin e Klein, Quaternary Extinctions; e, più di recente, sempre da Anderson, in Prodigious Birds: Moas and Moahunting in Prehistoric New Zealand, Cambridge University Press, New York 1990. Le storie della fauna australiana e malgascia sono raccontate da Robert E. Dewar, Peter Murray, Duncan Merrilees e D. R. Horton in Martin e Klein, cit. L’individuazione dell’uomo preistorico quale distruttore della megafauna mondiale, proposta da Jared Diamond, rappresenta l’evoluzione della teoria proposta da Paul Martin e altri, con arricchimenti importanti frutto delle ricerche dello stesso Diamond sugli uccelli della regione del Pacifico. Il tutto si trova in Quaternary Megafaunal Extinctions: Variations on a Theme by Paganini, «Journal of Archaeological Science», 16, 1989, pp. 167-175. L’estinzione, avvenuta in Messico, del picchio imperiale (Campephilus imperialis) è descritta da George Plimpton in Un gran pedazo de carne, «Audubon Magazine», 79(6), 1977, pp. 10-25. L’origine e l’impatto delle specie esotiche sono discussi in H. A. Mooney e J. A. Drake (a cura di), Ecology of Biological Invasions of North America and Hawai, Springer, New York 1986. La situazione delle specie ittiche nordamericane estinte e di quelle vulnerabili è passata in rassegna da Jack E. Williams et al.; in Fishes of North America. Endangered, Threatened, or of Special Concern: 1989, «Fisheries» dell’American Fisheries Society, 14(6), 1989, pp. 2-20; R. R. Miller et al, Extinctions of North American Fishes During the Past Century, «Fisheries», 14(6), 1989, pp. 22-38; J. E. Williams e R. R. Miller, Conservation Status of the North American Fish Fauna in Fresh Water, «Journal of Fish Biology», 37(A), 1990, pp. 79-85. Sono riconoscente a Karsten E. Hartel per avermi messo a parte dell’analisi, non ancora pubblicata, dei dati sul declino delle specie. Gli aneddoti sull’estinzione degli uccelli si basano sull’opera di Jared M. Diamond, The Present, Past and Future of Human-Caused Extinction,

«Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 325 ser. B, 325, 1989, pp. 469-477; e di John Terborgh, Where Have All the Birth Gone?. Per quanto riguarda l’alto tasso di estinzione dei pesci d’acqua dolce, si consultino Diamond, e Walter R. Courtenay Jr. e Peter B. Moyle, Introduced Fishes, Aquaculture and the Biodiversity Crisis, estratto dal 71° congresso annuale dell’ American Society of Ichthyologists and Herpetologists, (1991); e I. Kornfield e K. E. Carpenter (a cura di), Cyprinids of Lake Lanao, Philippines: Taxonomic Validity, Evolutionary Rates and Speciation Scenarios, in A. A. Echelle e I. Kornfield (a cura di), cit. Il totale di 18 specie normalmente accettato nelle descrizioni classiche sugli sciami di specie dei ciprinidi del lago Lanao forse è eccessivo, anche se le popolazioni Maranao locali ne riconoscono altrettanti. Alcune di queste specie potrebbero essere più semplicemente forme diverse di una specie molto plastica, come quelle che ho descritto nel cap. 7 a proposito dei ciclidi messicani e del salmerino. Comunque si giudichi la questione dal punto di vista tassonomico, la radiazione adattativa dei ciprinidi del Lanao è, visto che si tratta di un solo lago, da considerarsi estrema, ed è stata quasi del tutto cancellata durante gli ultimi cinquant’anni. Il destino dei pesci del lago Vittoria è descritto da C. G. Barlow e A. Lisle in Biology of the Nile Perch Lates niloticus (Pisces: Centropomidae) with Reference to Its Proposed Role as a Sport Fish in Australia, «Biological Conservation», 39(4), 1987, pp. 269-289; Daniel J. Miller, Introductions and Extinction of Fish in the African Great Lakes, «Trends in Ecology and Evolution», 4(2), 1989, pp. 56-59; e C. D. N. Barel et al, The Haplochromine Ciclhids in Lake Victoria: An Assessment of Biological and Fisheries Interests, in M. H. A. Keenleyside (a cura di), cit., pp. 258-279. Il declino del molluschi d’acqua dolce è documentato in The IUCN Invertebrate Red Data Book, International Union for Conservation of Nature and Natural Resources, Gland 1983. I gasteropodi arboricoli di Moorea sono l’argomento di studi classici sulla microevoluzione da parte di Henry E. Crampton e Bryan C.

Clarke. La distruzione totale di queste chiocciole in natura è stata descritta da J. Murray, E. Murray, M. Johnson e B. Clarke in The Extinction of Partula on Moorea, «Pacific Science», 42(3,4), 1988, pp. 150-153; sono riconoscente a Clarke per avermi procurato ulteriori informazioni, non pubblicate, sull’episodio. La scomparsa delle chiocciole arboricole hawaiiane è documentata in The IUCN Invertebrate Red Data Book. Le specie vegetali minacciate degli Stati Uniti sono elencate da Linda R. McMahan in CPC Survey Reveals 680 Native U.S. Plants May Become Extinct within 10 Years, «Plant Conservation», 3(4), 1988, pp. 1-2. Le specie già estinte sono state catalogate nel 1992 da Michael O’Neal e da altri membri del CPC (comunicazione personale). Il resoconto sulla specie endemica portoricana Banara vanderbiltii è basato sul lavoro di John Popenoe One of the World’s Rarest Species, «Plant Conservation», 3(4), 1988, p. 6. Il numero di specie europee di invertebrati in pericolo e minacciati è stato segnalato da Eladio Fernandez-Galliano nell’«IUCN Special Report Bulletin» dell’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources, 18(7-9), 1987, p. 7. Nel 1989, 501 specie di insetti sono state catalogate tra quelle minacciate d’estinzione per disposizione dell’U.S. Endangered Species Act. Ciò rappresenta solo l’1 per cento della fauna conosciuta, e per di più è una stima grossolana per difetto a causa delle scarse conoscenze tassonomiche riguardanti quasi tutti i gruppi. Il declino dei funghi europei è trattato da John Jaenike in Mass Extinction of European Fungi, «Trends in Ecology and Evolution», 6(6), 1991, pp. 174-175. Nel Nordamerica studi analoghi non sono ancora stati intrapresi. Il caso di Strix occidentalis caurina è discusso da Russell Lande in Demographic Models of the Northern Spotted Owl (Strix occidentalis caurina), «Oecologia», 75(4), 1988, pp. 601-607, e Genetics and Demography in Biological Conservation, «Science», 241, 1988, pp. 145560. Le rane e le salamandre rare delle foreste della costa pacifica nord

occidentale sono descritte da Hartwell H. Welsh Jr. in Relictual Amphibians and Old-Growth Forests, «Conservation Biology», 4(3), 1990, pp. 308-319. Il catalogo degli habitat minacciati d’estinzione o in pericolo si trova in The IUCN Invertebrate Red Data Book. Le 18 aree ad alto rischio di Norman Myers furono indicate in due articoli, Threatened Biotas: ‘Hot spots’ in Tropical Forests, «Environmentalist», 8(3), 1988, pp. 187-208; e The Biodiversity Challenge: Expanded Hot Spots Analysis, «Environmentalist», 10(4), 1990, pp. 243-256. Le condizioni attuali della foresta atlantica brasiliana sono state descritte in dettaglio da Mark Collins (a cura di), The Last Rain Forests: A World Conservation Atlas, Oxford University Press, New York 1990. Questo libro, meravigliosamente illustrato, contiene delle mappe dell’estensione passata e presente delle foreste tropicali più importanti, e, nel suo genere, è il migliore disponibile. Tra le preoccupazioni degli ecologi, le foreste tropicali caducifoglie o foreste monsoniche sono rimaste un po’ in ombra rispetto a quelle pluviali, eppure corrono dei rischi ancor maggiori. Poiché occupano dei terreni potenzialmente di prima qualità ai fini dell’agricoltura e del pascolo, e potendo essere facilmente abbattute, le foreste caducifoglie sono uno degli ambienti terrestri più sfruttati. In Centroamerica, la loro superficie è stata ridotta a meno del 10 per cento di quella originale. Le foreste caducifoglie tropicali sono, per quantità di biodiversità, una via di mezzo tra le foreste pluviali tropicali e le foreste caducifoglie dei climi temperati. Per una rassegna di queste foreste vedere M. Lerdau, J. Whitbeck e N. M. Holbrook, Tropical Deciduous Forest: Death of a Biome, «Trends in Ecology and Evolution», 6(7), 1991, pp. 201-233. La riduzione dell’estensione delle barriere coralline indotta tanto da stress naturali quanto dall’impatto delle attività umane è discussa in Coral Reefs off 20 Countries Face Assaults from Man and Nature, «New York Times», 27 marzo 1990; Peter W. Glynn, Coral Reef Bleaching in the 1980s and Possible Connections with Global Warming, «Trends in

Ecology and Evolution», 6(6), 1991, pp. 175-179; e Leslie Roberts, Greenhouse Role in Reef Stress Unproven, «Science», 253, 1991, pp. 258-259. Gli effetti del riscaldamento climatico sulla biodiversità sono previsti da R. L. Peters e J. D. S. Darling in The Greenhouse Effect and Nature Reserves, «BioScience», 35(11), 1985, pp. 707-717; A. Dobson, A. Jolly e D. Rubenstein, The Greenhouse Effect and Biological Diversity, «Trends in Ecology and Evolution», 4(3), 1989, pp. 64-68; e R. L. Peters e T. E. Lovejoy (a cura di), Global Warming and Biological Diversity, Yale University Press, New Haven 1992. La trattazione di questo capitolo si basa sulle fonti sopra citate e sul mio articolo Threats to Biodiversity, «Scientific American», 260(9), 1989, pp. 108-116. L’impatto previsto dell’aumento del livello del mare sulla biodiversità è esaminato da W. V. Reid e M. C. Trexler in Drowning the National Heritage: Climate Change and U.S. Coastal Biodiversity, World Resources Institution, Washington 1991. La stima dell’energia confiscata dall’uomo sulla terraferma è opera di P. M. Vitousek, P. R. Erlich, A. H. Erlich e P. A. Matson, Human Appropriation of the Products of Photosynthesis, «BioScience», 36(6), 1986, pp. 368-373. La misura utilizzata da questi autori, cioè la produzione primaria netta, è la quantità di energia che rimane dopo aver sottratto dalla quantità di energia totale (soprattutto di origine solare) fissata dagli organismi quella dovuta alla respirazione dei produttori primari (soprattutto vegetali). La confisca di cui si parla comprende il consumo di cibo, di fibre e di legname; la produttività di tutte le terre riservate esclusivamente ai bisogni umani, quali, per esempio, l’agricoltura (oltre ai prodotti agricoli realmente consumati); il territorio dato alle fiamme per essere diboscato; il territorio edificabile, e quello ridotto da un uso eccessivo a terra incolta. La relazione tra dimensioni corporee delle specie animali, densità di popolazione e consumo d’energia è analizzata da J. H. Brown e B. A. Maurer in Macroecology: The Division of Food and Space among Species on Continents, «Science», 243, 1989, pp. 1145-50. Le tendenze della popolazione mondiale sono state tratte da The

Economist Book of Vital World Statistics, Times Books, New York 1990. La descrizione della fragilità delle foreste pluviali tropicali è tratta dal mio Current State of Biological Diversity, in E. O. Wilson e F.M. Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 3-18; da Christopher Uhi, Restoration of Degraded Lands in the Amazon Basin, ibid., pp. 326-332; e da T. C. Whitmore, Tropical Forest Nutrients: Where Do We Stand? A Tour de Horizon, in J. Proctor (a cura di), Mineral Nutrients in Tropical Forest and Savanna Ecosystems, Blackwell Scientific Publications, Boston 1990, pp. 1-13. I resoconti sulla distruzione record di foresta amazzonica del 1987 sono di Mac Margolis, Thousands of Amazon Acres Burning, «Washington Post», 8 settembre 1988; Marlise Simons, Vast Amazon Fires, Man-Made, Linked to Global Warming, «New York Times», 12 agosto 1988; e Amazon Holocaust: Forest Destruction in Brazil, 1987-88, «Briefing Paper» del Friends of the Earth, London 1988. Le stime dei tassi annui di deforestazione tropicale per il 1989 sono state tratte dal rapporto di Norman Myers, Deforestation Rates in Tropical Forests and Their Climatic Implications, Friends of the Earth, London 1989, e sono basate su dati raccolti paese per paese. Myers fornisce un sunto di tale lavoro in Tropical Deforestation: the Latest Situation, «BioScience», 41(5), 1991, p. 282. L’autore definisce le foreste umide tropicali, più o meno equiparate a quelle pluviali come «foreste sempreverdi o parzialmente sempreverdi, site in aree che ricevono almeno 100 mm di precipitazioni al mese, durante tutti i mesi e per due anni su tre, con una temperatura media annua di 24 o più gradi centigradi, e che non ghiacciano mai; queste foreste, nelle quali vi possono anche essere alberi caducifogli, si trovano di solito a un’altitudine inferiore ai 1300 metri (ma in Amazzonia spesso arrivano a 1800 metri, mentre nel Sudest asiatico arrivano solo fino a 750 metri); le foreste più mature sono caratterizzate da strati più o meno facilmente distinguibili». Alla fine del 1991 la Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite ha prodotto un rapporto preliminare (Second Interim Report on the State of Tropical Forests) che conferma le affermazioni di Myers. Gli autori stimano che nel periodo

1981-1990 le foreste tropicali siano state abbattute al ritmo di 170.000 chilometri quadrati all’anno. Tale dato supera del 20 per cento quello di Myers, ma le misurazioni della FAO comprendevano anche l’eliminazione di foreste più rade di quelle prese in considerazione da Myers, nonché i boschi di bamboo. Più precisamente, sono state definite foreste tutti quegli aggregati di alberi o di bamboo, con una copertura minima fogliare del 10 per cento, associati a flore e faune selvatiche e a un suolo relativamente indisturbato. L’estensione della copertura forestale preistorica è trattata da Peter H. Raven in The Scope of the Plant Conservation Problem World-Wide, in D. Bramwell, O. Hamann, V. H. Heywood e H. Synge (a cura di), Botanic Gardens and the World Conservation Strategy, Academic Press, New York 1987, pp. 20-29. La storia della stima dei tassi di deforestazione tropicale dagli anni Settanta fino al rapporto di Meyer del 1989 è valutata da J. A. Sayer e T. C. Whitmore in Tropical Moist Forests: Destruction and Species Extinction, «Biological Conservation», 55(2), 1991, pp. 199-213. Gli autori giungono alla conclusione che durante gli anni Ottanta la deforestazione è andata intensificandosi. Essi dubitano che l’estinzione sia aumentata di pari passo, ma non fanno cenno alcuno ai molti dati e modelli disponibili in letteratura. Una rassegna nutrita del gran numero di valori del parametro z, raccolti da faune e flore di tutto il mondo, è stata redatta da Mark Williamson in Island Populations. Estinzione delle specie a causa della riduzione delle foreste pluviali: proiezioni simili a quelle da me raggiunte a livello planetario sono state ottenute da Daniel S. Simberloff per le piante e gli uccelli tropicali americani, trattati in Are We on the Verge of a Mass Extinction in Tropical Rain Forests?, in David K. Elliot (a cura di), Dynamics of Extinction, Wiley, New York 1986, pp. 165-180. Secondo le proiezioni di Simberloff, con il dimezzamento delle foreste pluviali, atteso per la fine del secolo (che coincide più o meno, ma non esattamente, con il dimezzamento delle foreste attualmente esistenti), si estinguerà il 15 per cento delle specie vegetali, pari a 13.600 specie in tutto. Se si salveranno solo le foreste facenti parte di parchi e di riserve, il

numero di specie estinte salirà al 66 per cento. Per gli uccelli del bacino amazzonico i valori sono, rispettivamente, del 12 e del 70 per cento. L’estinzione degli uccelli di Cebu è citata da Jared Diamond in Playng Dice with Megadeath, «Discover», aprile 1990, pp. 55-59. L’uso delle isole ponti-di-terra per stimare i tassi d’estinzione è stato introdotto da Jared Diamond in Biogeographic Kinetics: Estimation of Relaxation Times for Avifaunas of Southwest Pacfic Islands, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 69, 1972, pp. 3199-203, e Normal Extinctions of Isolated Populations, in Matthew H. Nitecki (a cura di), Extinction, pp. 191-246; e da John Terborgh in Preservation of Natural Diversity: The Problem of Extinction-Prone Species, «BioScience», 24(12), 1974, pp. 715-722. La funzione di decadimento esponenziale nel declino delle specie è un assunto che non è ancora stato dimostrato in quanto i tassi d’estinzione sono difficili da seguire sulle isole singole: S. H. Faeth e E. F. Connor, Supersaturated and Relaxing Island Faunas: A critique of the Species-Age Relationship, «Journal of Biogeography», 6(4), 1979, pp. 311-316. L’estinzione degli uccelli all’interno di appezzamenti isolati di foresta subtropicale brasiliana è descritta da Edwin O. Willis in The Composition of Avian Communities in Remanescent Woodlots in Southern Brazil, «Papéis avulsos de Zoologia», 33(1), 1979, pp. 1-25. Lo studio condotto parallelamente all’orto botanico di Bogor è stato descritto da J. Diamond, K. D. Bishop e S. Van Balen in Bird Survival in an Isolated Javan Woodland: Island or Mirror?, «Conservation Biology», 1(2), 1987, pp. 132-142. II declino dell’avifauna nelle regioni dell’Australia sudoccidentale coltivate a grano è descritto da D. A. Saunders in Changes in the Avifauna of a Region, District and Remnant as a Result of Fragmentation of Native Vegetation: The Wheatbelt of Western Australia, «Biological Conservation», 50(14), 1989, pp. 99-135. 13. Ricchezze non sfruttate La scoperta di una nuova specie di mais perenne è riferita da H. H.

Iltis, J. F. Doebley, R. Guzmán e B. Pazy in Zea diploperennis (Gramineae): a New Teosinte from Mexico, «Science», 203, 1979, pp. 186-188. II governo messicano ha deciso di proteggere il sito della popolazione selvatica di mais perenne, insieme con il territorio circostante, per un totale di 139.000 ettari, con la creazione della Riserva della biosfera della Sierra de Manantlán, specificamente intesa per la protezione del mais e di altre specie selvatiche affini a quelle coltivate dall’uomo. Il parco contribuirà al salvataggio di molte altre specie vegetali e animali, tra cui il giaguaro e l’ocelot. La situazione della pervinca Catharanthus del Madagascar è descritta da Mark Plotkin et al, in Ethnobotany in Madagascar: Overview, Action Plan, Database, International Union for Conservation of Nature and Natural Resources and World Wide Fund for Nature, Gland (Svizzera) 1985. Altri dettagli, inclusa una discussione sulle prospettive degli alcaloidi dotati di attività farmacologica, sono forniti da Thomas Eisner in Prospecting for Nature’s Chemical Riches, «Issues in Science and Technology», 6(2), 1990, pp. 31-34. Gli alcaloidi estraibili dalla pervinca rosea hanno prodotto i seguenti risultati clinici: nei pazienti affetti da morbo di Hodgkin la vinblastina fa aumentare la percentuale di sopravvivenza, su un periodo di dieci anni, dal 2 al 58 per cento, mentre la vincristina aumenta il tasso di sopravvivenza, riferito allo stesso periodo, dal 20 all’80 per cento. I medicinali sono efficaci anche contro altri tipi di cancro, compreso il tumore di Wilms, i tumori cerebrali primari, il tumore del testicolo, quello della cervice uterina e quello della mammella. Vedere Margery L. Oldfield, The Value of Conserving Genetic Resources, Sinauer, Sunderland 1989. Informazioni sulle origini naturali dei farmaci usati negli Stati Uniti sono fornite da Chris Hails in The Importance of Biological Diversity, World Wide Fund for Nature, Gland 1989. Un resoconto autorevole dei farmaci ricavabili dalle piante, compresa una lista completa delle 119 sostanze usate pure, è quello di Norman R. Farnsworth in Screening Plants for New Medicines, in E. O Wilson e F. M. Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 83-97. Un ulteriore sguardo d’insieme sull’argomento è offerto da D. D. Soejarto e N. R.

Farnsworth in Tropical Rain Forests: Potential Source of New Drugs?, «Perspectives in Biology and Medicine», 32(2), 1989, pp. 244-256. Le proprietà dell’albero neem (Azadirachta indica) sono descritte in Noel Vietmeyer (a cura di), Neem: A Tree for Solving Global Problems, National Academy Press, Washington 1992. Un resoconto sulle sanguisughe e la sostanza anticoagulante da esse prodotta è fornito da Paul S. Wachtel in Return of the Bloodsucker, «International Wildlife», settembre 1987, pp. 44-46. Un trafiletto sui nuovi anticoagulanti prodotti dai pipistrelli vampiro e dai crotalidi è stato pubblicato sulla rivista «Science», 253, 1991, p. 621. L’elenco dei medicinali derivati dalle piante e dai funghi è tratto da Hails, cit., D. D. Soejarto e N. R. Farnsworth in Tropical Rain Forests: Potential source of New Drugs?, «Perspectives in Biology and Medicine», 32(2), 1989, pp. 244-256; e Margery L. Oldfield, cit. Un numero impressionante di prodotti naturali usati dagli indiani d’America, pochi dei quali sono stati finora studiati, sono descritti da Richard E. Schultes e Robert F. Raffauf in The Healing Forest: Medicinal and Toxic Plants of the Northwest Amazonia, Dioscorides Press, (OR) Portland 1990. Gli esempi di specie vegetali adatte per l’alimentazione umana e degli animali che si trovano ai primi stadi dello sviluppo economico sono tratti in parte dal tanto stimato «libro verde» Underexploited Tropical Plants with Promising Economic Value, pubblicato dalla National Academy Press nel 1975, opera facente parte di una collana finanziata dalla National Academy of Sciences degli Usa sotto la direzione della Commissione per le scienze e la tecnologia per lo sviluppo internazionale (Bostid). Altri studi della stessa serie sono Tropical Legumes; Resources for the Future (1979), The Winged Bean: A High Protein Crop for the Tropics (19812), Amaranth: Modern Prospects for an Ancient Crop (1983), e Lost Crops of the Incas (1989). Altrettanto utili sono le rassegne a carattere semitecnico reperibili in Margery L. Oldfield, cit., e Noel D. Vietmeyer, Lesser-Known Plants of Potential Use in Agriculture and Forestry, «Science», 232, 1986, pp. 1379-84. Le pubblicazioni più divulgative a carattere introduttivo all’argomento

sono: Norman Myers, A Wealth of Wild Species: Storehouse for Human Welfare, Westview Press, Boulder (CO) 1983, e il libricino, opera dello stesso Myers, The Wild Supermarket, World Wide Fund for Nature, Gland 1990. Il potenziale insito nelle specie vegetali e animali selvatiche è descritto in dettaglio negli studi già citati di Margely Oldfield, Norman Myers, e degli autori di Biodiversity, così come in Hails. L’agricoltura degli Inca è descritta da Hugh Popenoe, Noel D. Vietmeyer, e un gruppo di coautori, in Lost Crops of the Incas, National Academy Press, Washington 1989. La storia dell’amaranto quale pianta coltivata dagli amerindi è raccontata da Jean L. Marx in Amaranth: A Comeback for the Food of the Americas?, «Science», 198, 1977, p. 40. Le qualità principali della palma babassu sono descritte da A. B. Anderson, P. H. May e M. J. Balick in Subsidy from Nature: Palm Forests, Peasantry and Development on an Amazon Frontier, Columbia University Press, New York 1991. Le prospettive delle piante alofile sono esplorate in due pubblicazioni della National Academy Press, preparate sotto la direzione del Bostid: Underexploited Tropical Plants with Promising Economic Value (1975) e Saline Agriculture: Salt-tolerant Plants for Developing Countries (1990). La recensione di quest’ultima pubblicazione è stata fatta da Susan Turner-Lewis, «National Research Council News Report», maggio 1990, pp. 2-4. La situazione del potenziale economico delle tartarughe fluviali del genere Podocnemis è descritta da Russell A. Mittermeier in South American River Turtles: Saving Their Future, «Oryx», 14(3), 1978, pp. 222-230. Le descrizioni delle specie selvatiche di animali potenzialmente utilizzabili come fonti di cibo sono tratte da Little Known Asian Animals with a Promising Economic Future, a cura di Noel D. Vietmeyer, National Academy Press, Washington 1983; Oldfield, cit.; Neotropical Wildlife Use and Conservation, a cura di J. G. Robinson e K. H. Redford, University of Chicago Press, Chicago 1991; e Microlivestock,

a cura di Noel D. Vietmeyer, National Academy Press, Washington 1991. Chris Willie e Diane Jukofsky hanno scritto sull’iguana (Iguana iguana) in Savory ‘Chicken of the Trees’ Could Play a Role in Saving Forests, «Canopy» di Rainforest Alliance, estate 1991, p. 7. Dagmar Werner, che si autodefinisce scherzosamente «Iguana Mama», ha prodotto un rapporto tecnico sull’allevamento e la commercializzazione di questa specie dal titolo The Rational Use of Green Iguanas, inserito in J. G. Robinson e K. H. Redford (a cura di), Neotropical Wildlfe Use and Conservation, University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 181-201. La descrizione dell’acquacoltura è tratta da Myers, A Wealth of Wild Species. Le nuove fonti di pasta di legno sono descritte in Myers, A Wealth of Wild Species. La tecnica di coltivazione dell’«erba di legno» è descritta da Sinyan Shen in Biological Engineering for Sustainable Biomass Production in Wilson e Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 377-389. La storia dei parenti selvatici e della diversità genetica delle piante da semina è tratta soprattutto da Erich Hoyt, Conserving the Wild Relatives of Crops, International Board for Plant Genetic Resources, Roma 19922, con la collaborazione di: International Union for Conservation of Nature and Natural Resources e World Wide Fund for Nature; Hails, The Importance of Biological Diversity; Cary Fowler e Pat Mooney, Shattering.: Food, Politics, and the Loss of Genetic Diversity, University of Arizona Press, Tucson 1990; e Bad Seed, una recensione del libro di C. Fowler e P. Mooney da parte di Ann Misch in «WorldWatch», 4(4), 1991, pp. 39-40. La metafora della specie come libro a fogli mobili è stata utilizzata da Thomas Eisner in Chemical Ecology and Genetic Engineering: The Prospects for Plant Protection and the Need for Plant Habitat Conservation, Symposium on Tropical Biology and Agriculture, Monsanto Company, St. Louis (MO) 1985.

La potenziale resa economica delle foreste pluviali amazzoniche è calcolata da Charles M. Peters, Alwyn H. Gentry e Robert O. Mendelsohn in Valuation of an Amazonian Rainforest, «Nature», 339, 1989, pp. 655-656. Il registro dettagliato è di Charles M. Peters così come riportato sul «New York Times» del 4 luglio 1989. Tra i contributi essenziali al nuovo settore interdisciplinare dell’economia ecologica vi sono: Herman E. Daly, Steady-State Economics, Freeman, San Francisco 1977 (trad. it. Lo stato stazionerio, Sansoni, Firenze 1981) e, più di recente, Robert Constanza (a cura di), Ecological Economics: The Science and Management of Sustainability, Columbia University Press, New York 1991. La valutazione di questo nuovo settore dal punto di vista degli ambientalisti è fornita da David W. Orr, The Economics of Conservation, «Conservation Biology», 5(4), 1991, pp. 439-441. Una nuova rivista dedicata a quest’argomento, Ecological Economics, viene pubblicata da Elsevier (New York) dal 1989, e un altro giornale, sempre attinente all’argomento, Ecological Engineering, è stato inaugurato nel 1992 dalla stessa casa editrice. L’ecoturismo viene analizzato da Elizabeth Boo in Ecoturism: The Potentials and Pitfalls, World Wildlife Fund, Washington 1990. Sono riconoscente a Gary Hartshorn e James Hirsch per le informazioni fornitemi sulle entrate generate dall’ecoturismo in Costa Rica e a Elizabeth Boo per i dati più recenti relativi al Ruanda. Secondo Hirsch, nel 1990 l’ecoturismo ha portato nelle casse costaricane 20 milioni di dollari, vale a dire il 7 per cento sul totale di 275 milioni spesi dai turisti in quello stato. Le possibili conseguenze della deforestazione della foresta amazzonica sul clima di quella regione sono state prese in esame da J. Shukla, C. Nobre e P. Sellers in Amazon Deforestation and Climate Change, «Science», 247, 1990, pp. 1322-25. Il ruolo della deforestazione tropicale nell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è stato analizzato da molti autori; le fonti d’informazione qui utilizzate sono: Richard A. Houghton e George M. Woodwell, Global Climatic Change, «Scientific American», 260(4), aprile 1989, pp. 36-44, e R. A. Houghton, Emission

of Greenhouse Gases, in Myers, Deforestation Rates in Tropical Forests, pp. 53-62. La genesi dei suoli a opera degli organismi viventi è descritta da Paul R. e Anne H. Ehrlich in Healing the Planet: Strategies for Resolving the Environmental Crisis, Addison-Wesley, Reading (UK) 1991 (trad. it. Per salvare il pianeta, Muzzio, Padova 1992). Le prove del ruolo della biodiversità nella conservazione e circolazione dei nutrienti nelle foreste sono state passate in rassegna da Ariel E. Lugo in Diversity of Tropical Species: Questions That Elude Answers, «Biology International» dell’International Union of Biological Sciences di Parigi, numero speciale 19, 37, 1988. La valutazione di Bryan Norton del valore d’opzione delle specie è fornita in Commodity, Amenity, and Morality: the Limits of Quantification in Valuing Biodiversity, contenuto in Wilson e Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 200-205. Nello stesso volume vengono spiegati gli aspetti generali dell’analisi economica da altri autori, tra i quail Nyle C. Brady, J. William Burley, Robert J. A. Goodland e John Spears. Sono trattati inoltre da Harold J. Morowitz in Balancing Species Preservation and Economic Considerations, «Science», 253, 1991, pp. 752-754. Durante le mie meditazioni sui fondamenti economici e morali del conservazionismo, mi sono ispirato agli scritti di filosofi etici, tra i quali: David Ehrenfeld, The Arrogance of Humanism, Oxford University Press, New York 19812; Bryan Norton, Commodity…, e Why Preserve Natural Variety?, Princeton University Press, Princeton 1987; Peter Singer, The Expanding Circle; Ethics and Sociobiology, Farrar Straus e Giroux, New York 1981; Holmes Rolston III, Philosophy Gone Wild: Essays in Environmental Ethics, Prometheus Books, Buffalo (NY) 1986; e Environmental Ethics: Duties to and Values in the Natural World, Temple University Press, Philadelphia (PA) 1988; Alan Randall, The Value of Biodiversity, «Ambio», 20(2), 1991, pp. 64-68; e gli autori di The Preservation of Species: The Value of Biological Diversity, a cura di Bryan G. Norton, Princeton University Press, Princeton 1986.

14. Decisioni La discussione dell’etica conservazionista è basata in parte sul mio Biophilia, Harvard University Press, Cambridge 1984 (trad. it. Biofilia, Mondadori, Milano 1985). La definizione generale di etica è tratta da Aldo Leopold, A Sand Country Almanac and Sketches Here and There, Oxford University Press, New York 1987. La definizione degli studi di biodiversità qui fornita e la discussione sulle sue ramificazioni è stata illustrata da Paul R. Ehrlich e Edward O. Wilson in Biodiversity Studies: Science and Policy, «Science», 253, 1991, pp. 758-762. L’approccio a tre livelli al controllo della biodiversità planetaria è stato sviluppato assieme a Peter H. Raven. La ricerca Rap delle aree ad alto rischio è descritta da Sarah Pollock in Biological SWAT Team Ranks for Diversity, Endemism, «Pacific Discovery», 44(3), 1991, pp. 6-7. Un resoconto sull’INBio, vale a dire l’Istituto Nazionale di Biodiversità del Costa Rica, è opera di Laura Tangley, Cataloging Costa Rica’s Diversity, «BioScience», 40(9), 1990, pp. 633-636; e di Daniel H. Janzen, uno dei creatori dell’INBio, in How to save Tropical Biodiversity, «American Entomologist», 37(3), 1991, pp. 159-171. La proposta per un istituto analogo negli Stati Uniti è contenuta nel National Biological Diversity Conservation and Environmental Research Act, che a tutt’oggi, febbraio 1992, deve essere ancora sottoscritto dal Congresso. L’uso dei Geographic Information Systems per mappare gli ecosistemi è descritto da J. Michael Scott et al, in Species Richness: A Geographical Approach to Protecting Future Biological Diversity, «BioScience», 37(11), 1987, pp. 782-788. Su scala molto più ampia, è stato usato essenzialmente lo stesso metodo da Eric Dinerstein ed Eric D. Wikramanayake per esprimere un giudizio su riserve e parchi in Asia e nel Pacifico occidentale, in Beyond ‘Hotspots’: How to Prioritize Investments to conserve Biodiversity in Indopacific Region, «Conservation Biology», 7 (1), 1993, pp. 53-65. Le tecniche per la mappatura delle

specie in pericolo d’estinzione sono descritte da molti autori in Larry E. Morse e Mary Sue Henifin (a cura di), Rare Plant Conservation: Geographical Data Organization, New York Botanical Garden, New York 1981. L’uso dell’architettura del paesaggio per potenziare la biodiversità ha sollevato ampie discussioni. Sintesi degli argomenti chiave sono rinvenibili in capitoli separati redatti da Bryan H. Green, Larry D. Harris (con John F. Eisenberg) e David Western, in Western e M. C. Pearl (a cura di), Conservation for the Twenty-First Century, Oxford University Press, New York 1989. Il concetto di bioregione, risalente all’Ottocento e sviluppato nella sua forma moderna da Raymond F. Dasmann, Peter Berg, Charles H. W. Foster e altri, è illustrato da C. H. W. Foster in Experiments in Bioregionalism: The New England River Basin Story, University Press of New England, Hanover (NH) 1984, e in Bioregionalism, «Renewable Resources Journal», 4(3), 1986, pp. 12-14. La carenza di esperti in sistematica è citata nel mio The Biological Diversity Crisis: A Challenge to Science, «Issues in Science and Technology», 2(1), 1985, pp. 20-29, e in Time to Revive Systematics, «Science», 230, 1985, p. 1227. I progressi della GenBank nella registrazione delle sequenze di Dna e Rna sono descritti da Christian Burks et al, in Russell F. Doolittle (a cura di), Molecular Evolution: Computer Analysis of Protein and Nucleic Acid Sequences, Academic Press, New York 1990, pp. 3-22. Le citazioni di Baba Dioum a proposito della conoscenza e della conservazione sono state proposte da John Hopkins in Preserving Native Biodiversity, una pubblicazione speciale del Sierra Club, San Francisco 1991. Il concetto di prospezione chimica è stato sviluppato da Thomas Eisner durante gli ultimi anni Ottanta e presentato in Prospecting for Nature’s Chemical Riches, «Issues in Science and Technology», 6(2), 1990, pp. 31-34; e in Chemical Prospecting: A Proposal for Action, in F. H. Bormann e S. R. Kellert (a cura di), Ecology, Economics, Ethics: The Broken Circle, Yale University Press, New Haven 1991, pp. 196-202.

L’accordo del 1991 tra la Merck e l’Istituto Nazionale per la Biodiversità del Costa Rica è segnalato da William Booth in U.S. Drug Firm Signs Up to Farm Tropical Forests, «Washington Post», 21 settembre 1991. La natura ciclica degli investimenti in prodotti naturali è descritta da Deborah Hay in Pharmaceutical Industry’s Renewed Interest in Plants Could Sow Seeds of Rainforest Protection, «The Canopy» di Rainforest Alliance, primavera 1991, pp. 1-7. L’uso di specie selvatiche come fonti di sostanze farmacologicamente attive è trattato da Norman R. Farnsworth in Screening Plants for New Medicines, in E. O. Wilson e F. M. Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 83-97. I dati sui farmaci scoperti tra i medicinali naturali delle culture indigene sono riportati da Farnsworth in Screening Plants. Resoconti brevi ma ottimi sulle conoscenze tradizionali e la situazione di pericolo in cui versano le culture che le posseggono sono fornite da Mark J. Plotkin in The Outlook for New Agricultural and Industrial Products from the Tropics, in Wilson e Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 106-116, e da Eugene Linden in Lost Tribes, Lost Knowledge, «Time», 23 settembre 1991, pp. 46-56. La citazione della medicina cinese tradizionale deriva da Peter H. Raven (comunicazione personale) e, per quanto riguarda l’artemisinina, da Daniel L. Klayman in Qinghaosu (Artemisinin): An Antimalarial Drug from China, «Science», 228, 1985, pp. 1049-55, e da Xuan-De Luo e Chia-Chiang Shen, The Chemistry, Pharmacology e Clinical Applications of Qinghaosu (Artemisinin) and Its Derivatives, «Medicinal Research Reviews», 7(1), 1987, pp. 29-52. Le operazioni del Tropical Agricultural Research and Training Center del Costa Rica sono descritte da Laura Tangley in Fighting Central America’s Other War, «BioScience», 37(11), 1987, pp. 772-777. Il fatto che i governi, così come l’Ufficio di statistica delle Nazioni Unite e la Banca Mondiale non riescano a includere la deforestazione e l’uso di altre risorse naturali nel computo dell’esaurimento delle risorse nazionali è trattato da Malcolm Gillis in Economics, Ecology, and Ethics: Mending the Broken Circle for Tropical Forests, in Borman e

Kellert, cit., pp. 155-179. Le riserve estrattive della regione amazzonica sono descritte da Walter V. Reid, James N. Barnes e Brent Blacwelder in Bankrolling Successes: A Portfolio of Sustainable Development Projects, Enviromnental Policy Institute and National Wildlife Federation, Washington 1989, e Philip M. Fearnside, Extractive Reserves in Brazilian Amazonia, «BioScience», 39(6), 1989, pp. 387-393. Una critica alle riserve estrattive è mossa da John O. Browder in Extractive Reserves Will Not Save Tropics, «BioScience», 40(9), 1990, p. 626. Il movimento dei raccoglitori di gomma brasiliani degli anni Ottanta è stato duramente contrastato da alcuni dei facoltosi proprietari terrieri dell’Amazzonia occidentale. II 22 dicembre 1988 il leader dei primi, Chico Mendes, è stato assassinato da sicari. L’omicidio e la situazione di contorno alla lotta per il controllo dell’ambiente amazzonico sono state seguite nella cronaca da Andrew Revkin, in The Burning Season, Roughton Mifflin, Boston (MA) 1990 (trad. it. La stagione del fuoco, Mondadori, Milano 1990). L’abbattimento forestale a strisce come forma di industria sostenibile è descritto da Carl F. Jordan in Amazon Rain Forests, «American Scientist», 70, 1982, pp. 394-401, e da Gary S. Hartshorn, Natural Forest Management by the Yanesha Forestry Cooperative in Peruvian Amazonia, in Anthony B. Anderson (a cura di), Alternatives to Deforestation: Steps Toward Sustainable Use of the Amazon Rain Forest, Columbia University Press, New York 1990, pp. 128-137. Gli esempi di sviluppo locale sostenibile coronati da successo in America Latina sono tratti da Reid, Barnes e Blackwelder, cit. Un resoconto sulla pianificazione locale per uno sfruttamento sostenibile della foresta tropicale è riportato in dettaglio da Leonard Berry et al. in Technologies To Sustain Tropical Forest Resources, Office of Technology Assessment dell’U.S. Congress, Washington 1984. L’impatto del commercio e delle politiche degli aiuti delle nazioni ricche è descritto da Roger D. Stone e Eve Hamilton in Global Economics and the Environment: Toward Sustainable Rural Development in the Third World, Council on Foreign Relations, New York 1991.

Lo stato attuale delle ricerche sul Dna nei fossili e nei resti archeologici è passato in rassegna da Jeremy Cherfas in Ancient Dna: Still Busy after Death, «Science», 253, 1991, pp. 1354-56. Lo stato della conservazione dei microrganismi è descritto in American Type Culture Collection Seeks To Expand Research Effort, «Scientist», 4(16), 1990, pp. 1-7. Le banche dei semi sono passate in rassegna da Eric Hoyt, cit.; Jeffrey A. McNeely et al, Conserving the World’s Biological Diversity, International Union for Conservation of Nature and Natural Resources con la collaborazione di: World Resources Institute, Conservation International, World Wildlife Found U.S., World Bank, Gland/Washington 1990; Joel I. Cohen et al, Ex Situ Conservation of Plant Genetic Resources: Global Development and Environmental Concerns, «Science», 253, 1991, pp. 866-872. La Collezione nazionale delle specie vegetali in pericolo d’estinzione è il soggetto di un rapporto contenuto in «Plant Conservation», 6(1), 1991, pp. 6-7. La capacità degli zoo, e delle altre organizzazioni che tengono animali in cattività, di conservare la biodiversità è descritta da William Conway in Can Technology aid species Preservation?, in Wilson e Peter (a cura di), Biodiversity, pp. 263-268; e da Colin Tudge in Last Animals at the Zoo, Hutchinson Radius, London 1991. Il numero di specie di mammiferi minacciati d’estinzione e bisognosi di protezione è stato tratto da Michael E. Soulé et al., The Millenium Ark: How Long a Voyage, How Many Staterooms, How Many Passengers?, «Zoo Biology», 5, 1986, pp. 101-114. William Conway è citato a riguardo dei limiti degli zoo da Edward C. Wolf in On the Brink of Extinction: Conserving the Diversity of Life, Worldwatch Institute, Washington 1987. Una prima serie di consigli per salvare gli ecosistemi tropicali fu avanzata nel 1980 da Peter Raven et al. in Research Priorities in Tropical Biology, National Academy Press, Washington 1980. Una rassegna degli sforzi attualmente in corso è fornita dagli autori in Wilson e Peter (a cura di), Biodiversity.; da McNeeley et al, cit.; da

Janet N. Abramovitz in Investing in Biological Diversity: U.S. Research and Conservation Efforts in Developing Countries, World Resources Institute, Washington 1991; e da Kathleen Courrier (a cura di), Global Biodiversity Strategy, World Resources Istitute in collaborazione con: World Conservation Union, United Nation Environment Program, Fao, Unesco, Washington 1992. Le disposizioni dell’Endangered Species Act. degli Stati Uniti, così come quelle dei protocolli internazionali, sono descritte da Robert Boardman in International Organization and the Conservation of Nature, Indiana University Press, Bloomington (IN) 1981; da Michael J. Bean in The Evolution of National Wildlife Law, Praeger, New York 1983; e da Simon Lyster, International Wildlife Law, Grotius, Cambridge 1993. La condizione dei parchi naturali e di altre riserve è documentata da Walter V. Reid e Kenton R. Miller in Keeping Options Alive: The Scientific Basis for Conserving Biodiversity, World Resources Institute, Washington 1989, e da Michael E. Soulé, Conservation: Tactics for a Constant Crisis, «Science», 253, 1991, pp. 744-750. La percentuale di superficie terrestre sottoposta a protezione legale è tratta da 1990 United Nations List of National Parks and Protected Areas. Le modalità di permuta debito-natura sono state spiegate molto bene da José Marcio Ayres in Debt-for-Equity Swaps and the Conservation of Tropical Rain Forests, «Trends in Ecology and Evolution», 4(11), 1989, pp. 331-332; e da Roger D. Stone e Eve Hamilton in Global Economics and the Environment, Council on Foreign Relations, New York 1991. Mi sono avvalso anche di una tesi di master dell’University College di Londra, redatta da Victoria C. Drake, Debt-for-Nature Swaps: An Economic Appraisal. Le informazioni sulla permuta debito-natura in Messico sono tratte da Mark A. Uhlig in Mexican Debt Deal May Save Jungle, «New York Times», 26 febbraio 1991. L’idea dello scambio debito-natura è stato proposto la prima volta da Thomas Lovejoy della Smithsonian Institution. La controversia Sloss è esaminata, con conclusioni diverse, da James F. Quinn e Alan Hastings in Extinction in Subdivided Habitats, «Conservation Biology», 1(3), 1987, pp. 198-208; e da Michael E.

Gilpin in A Comment on Quinn and Hastings: Extinction in Subdivided Habitats, «Conservation Biology», 2(3), 1988, pp. 290-292. I vantaggi e gli svantaggi dei corridoi di connessione tra riserve di piccole dimensioni sono discussi da William Stolzenburg in The Fragment Connection, «Nature Conservancy», luglio-agosto 1991, pp. 18-25. I progressi nel restauro degli ecosistemi degli Stati Uniti possono essere seguiti sui numeri di Restoration and Management Notes, pubblicato dalla University of Wisconsin Press fin dal 1982. Un resoconto recente sul restauro della prateria e sulle speranze più generali, nonché sui dubbi dei fautori del restauro, è stato redatto da William K. Stevens in Green-Thumbed Ecologists Resurrect Vanished Habitats, «New York Times», 19 marzo 1991. La creazione di nuove foreste monsoniche nel Parco Nazionale di Guanacaste, in Costa Rica, è descritta da Reid et al. in Bankrolling Successes. La storia dell’introduzione di specie animali in nuovi ambienti è analizzata da Paul R. Ehrilich in Which Animal Will Invade?, in Harold A. Mooney e James A. Drake (a cura di), Ecology of Biological Invasions of North America and Hawaii, Springer, New York 1986, pp. 79-95. Ariel E. Lugo si è espresso a favore delle specie esotiche per l’espansione della biodiversità locale. Pur ammettendo i grossi rischi che le introduzioni comportano e il bisogno di eliminare quegli elementi che minacciano la fauna e la flora autoctone, tuttavia fa notare che la maggior parte delle specie viene naturalizzata senza creare problemi ecologici. «Le specie esotiche sembrano comportarsi meglio negli ambienti perturbati dall’uomo. Esse forniscono cibo e fibre senza provocare devastazioni ecologiche. Per esempio, quando vengono gestiti in modo appropriato, certi alberi esotici crescono molto bene sui terreni molto degradati, e pertanto contribuiscono alla riabilitazione del suolo e al ritorno delle specie autoctone.» Removal of Exotic Organisms, «Conservation Biology», 4(4), 1990, p. 345. 15. L’etica ambientale Il monito della Sibilla Cumana a Enea dall’Eneide di Virgilio è citato

nella traduzione di E. Cetrangolo, in Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1966. L’afflusso di persone agli zoo e agli acquari, maggiore di quello riscontrabile agli eventi sportivi (football, baseball, basketball, hockey su ghiaccio) è citato nella Directory of the American Association of Zoological Parks and Aquaria, a cura di Linda Boyd, Ogle Bay Park, Wheeling (WV) 1991. L’affiliazione innata degli esseri umani al mondo naturale è elaborata nel mio Biophilia. Le immagini sul serpente sono tratte dall’opera autorevole di Balaji Mundkur The Cult of the Serpent: An Interdisciplinary Survey of Its Manfestations and Origins, State University of New York Press, Albany (NY) 1983. Il concetto del luogo di abitazione idealizzato quale adattamento biologico è stato sviluppato da Cordon H. Orians, Habitat Selection: General Theory and Applications to Human Behavior, in Joan S. Lockard (a cura di), The Evolution of Human Social Behavior, Elsevier North Holland, New York 1980, pp. 46-66; e in An Ecological and Evolutionary Approach to Landscape Aesthetics, in Edmund C. Penning-Rowsell e David Lowenthal (a cura di), Landscape Meanings and Values, Allen and Unwin, London 1986, pp. 3-22. Alcuni ottimi esempi sul ruolo della natura nell’immaginazione umana, soprattutto in Europa e in America, sono stati presentati da Roderick Nash in Wilderness and the American Mind, Yale University Press, New Haven 1967; e da Max Oelschlaeger in The Idea of Wilderness: From Prehistory to The Age of Ecology, Yale University Press, New Haven 1991.

GLOSSARIO

Incluse in questo elenco di termini si trovano le note biografiche relative agli scienziati menzionati nel testo e a coloro che hanno maggiormente contribuito agli studi sulla biodiversità. Adattamento Un tratto anatomico (per esempio, il colore) o un processo fisiologico (per esempio, il tasso respiratorio), o uno schema comportamentale (per esempio, la parata nuziale) che aumenta la probabilità dell’organismo di sopravvivere e di riprodursi. Inoltre, l’evoluzione che determina quel particolare carattere. Agente evolutivo o Forza evolutiva Qualunque fattore dell’ambiente esterno, oppure interno all’organismo, capace di indurre degli spostamenti nelle frequenze dei geni di una popolazione, e pertanto in grado di determinarne l’evoluzione. Allele Una delle tante varianti di un gene particolare. La falcemia è il prodotto di una di queste possibili versioni di un certo gene; un’altra versione dello stesso gene determina la formazione di emoglobina normale. Allometria Condizione per la quale una parte del corpo cresce più velocemente delle altre; in tal modo, quanto più grande è l’organismo, tanto maggiore sarà la sproporzione fra le sue parti; i grossi maschi di molti tipi di coleotteri e di cervidi, per esempio, sviluppano corna enormi rispetto al resto del corpo. Allopatrico Che occupa un diverso areale geografico.

Alternanza delle generazioni Alternanza ciclica di una generazione aploide (durante la quale l’organismo possiede un solo esemplare di ciascun cromosoma per cellula) con la successiva generazione diploide (durante la quale ciascun cromosoma è in duplice copia). In moltissime specie la generazione aploide è circoscritta solo alle uova e agli spermi, i quali si fondono per creare la generazione diploide, che a sua volta produce altre uova e altri spermi, vale a dire la generazione aploide successiva. Alvarez, Luis W. (1911-1988). Fisico delle particelle dell’Università della California, a Berkeley. Fu a capo del gruppo che scoprì l’alto livello d’indio in corrispondenza dello strato di confine CretaceoTerziario e che lo interpretò come risultato dell’impatto di meteoriti enormi. Ambiente Ciò che sta attorno a un organismo, o a una specie: l’ecosistema nel quale vive, inteso sia come ambiente fisico sia come il complesso degli altri organismi con i quali esso entra in contatto. Analisi bioeconomica Valutazione del potenziale economico di tutti gli organismi di un certo ecosistema, dai loro prodotti naturali al loro utilizzo a fini turistici. Analogia In biologia, somiglianza per aspetto e funzione tra strutture reperibili in due organismi che non discendono da un comune antenato. Per esempio, le ali degli uccelli sono analoghe a quelle degli insetti, ma non si sono evolute a partire da uno stesso organo di un antenato comune. Confronta omologia. Anellide Verme del phylum degli Anellida. Per esempio, i lombrichi e le sanguisughe. Anfibio Vertebrato membro della classe degli Amphibia. Si tratta di animali quali rane e salamandre.

Angiosperma Membro del phylum delle piante attualmente dominanti la vegetazione terrestre caratterizzate dal possedere semi e frutti. Aploide Assetto cromosomico nel quale i cromosomi sono presenti in un’unica copia, tipico delle uova e degli spermi e caratterizzante la generazione aploide nel caso dell’alternanza delle generazioni. Confronta diploide. Area ad alto rischio Regione del mondo, per esempio il Madagascar, che è ricca di specie endemiche e il cui ambiente è minacciato di distruzione. Artropode Membro del phylum Arthropoda, cui appartengono gli insetti, i ragni, i crostacei. Hanno scheletro esterno articolato. Autoctono Specie che si è formata in un dato luogo – per esempio, la Nuova Zelanda o il lago Vittoria – e che si trova solo lì. Confronta endemico. Banca dei semi Ente centrale per la conservazione di campioni di semi delle specie e delle razze genetiche vegetali, soprattutto di quelle delle piante domestiche e delle specie selvatiche loro affini. Batteri Organismi microscopici monocellulari procarioti, vale a dire privi di membrana nucleare a protezione del materiale genetico. Benthos abissale La comunità di organismi che vivono sul fondo degli abissi marini o nei suoi pressi. Biodiversità La varietà degli organismi a tutti i livelli, da quello delle varianti genetiche appartenenti alla stessa specie fino alla gamma delle varie specie, dei generi, delle famiglie e ai livelli tassonomici più alti; comprende anche la varietà degli ecosistemi, ossia la varietà

delle comunità degli organismi presenti in un particolare habitat, e delle condizioni fisiche in presenza delle quali essi vivono. Biogeografia Studio scientifico della distribuzione geografica degli organismi. Biologia conservazionista Disciplina relativamente nuova che si occupa della biodiversità, dei processi naturali che ne stanno alla base, e delle tecniche utilizzabili per conservarla nonostante i disturbi arrecati all’ambiente dall’attività umana. Biologia evoluzionistica Termine onnicomprensivo che raccoglie una vasta schiera di discipline aventi in comune l’interesse per i processi evolutivi e quindi la creazione della biodiversità. La biologia evoluzionistica comprende lo studio dell’evoluzione molecolare, l’ecologia, la biologia delle popolazioni, la sistematica, la biogeografia, e gli aspetti comparativi dell’anatomia, della fisiologia e del comportamento animale. Bioma Fondamentale categoria di habitat di una particolare regione del mondo; per esempio, la tundra del Canada settentrionale, o la foresta pluviale del bacino amazzonico. Biomassa Peso totale (di solito, secco) di un gruppo prescelto di organismi presenti su un’area particolare; per esempio, tutti gli uccelli che vivono in un certo appezzamento di bosco, o le alghe di un laghetto, o gli organismi di tutto il mondo. Bioregione Area naturale continua; per esempio, un sistema fluviale o una catena di montagne, anche tanto grandi da superare i confini politici. Biota Insieme di flora, fauna e microrganismi di una data regione. I

microrganismi vengono di volta in volta ascritti alla fauna o alla flora a seconda del gruppo cui appartengono: per esempio, si parla di flora batterica. Biotico Biologico, che si riferisce soprattutto alle caratteristiche della fauna, della flora e degli ecosistemi. Bush, Guy L. (1929) Entomologo e biologo evoluzionista della Michigan State University; è il ricercatore più autorevole sulle cosiddette razze legate all’ospite e sul loro ruolo nella formazione delle specie. Cambriano Primo periodo dell’era paleozoica, estesosi da 550 a 500 milioni di anni fa, durante il quale gli animali marini di più grosse dimensioni accrebbero sia il loro numero sia la loro biodiversità, tant’è vero che si parla di esplosione cambriana dell’evoluzione animale. Carattere Caratteristica variabile degli organismi, che pertanto si rivela utile nella classificazione; per esempio, la parte di un fiore che varia da una specie di pianta all’altra, o la formula dentaria, variabile tra i vari mammiferi. Le differenze da una specie all’altra sono chiamate stati di carattere. Catena alimentare Parte della rete di una particolare comunità di organismi, formata dai predatori e dalle loro prede, dai predatori che si nutrono di altri predatori, e così via, a partire dai vegetali fotosintetici per arrivare fino ai superpredatori (come le aquile e i felini) e ai decompositori che si nutrono dei resti degli organismi morti. Centro di Vavilov Regione contenente piante da semina sia del tipo selvatico sia del tipo coltivato, e costituente quindi un centro di insolita diversità genetica delle specie. Il nome deriva dal botanico

russo Nikolaj Vavilov. Cianobatteri Un tempo chiamati alghe azzurre, questi organismi non sono in realtà alghe, bensì organismi unicellulari procariotici simili ai batteri. Erano elementi dominanti delle forme viventi all’inizio della storia della vita, e sono tuttora ecologicamente importanti. Ciclo vitale L’intera durata della vita di un organismo, da quando viene concepito (di solito al momento della fecondazione) a quando si riproduce. Clado Gruppo di specie discendenti da un comune antenato. Per esempio, i felini del genere Felis, vivi ed estinti, sono un clado discendente da un comune antenato vissuto nel lontano passato. Il clado comprende anche questo antenato. Classe Nella sistematica, un gruppo di specie aventi un comune antenato, situato gerarchicamente sotto il phylum e sopra l’ordine; quindi, insieme di più ordini. Coevoluzione Evoluzione di due o più specie dovuta a mutua influenza; per esempio, molte specie di angiosperme e di insetti impollinatori si sono evoluti di pari passo in modo tale che la loro collaborazione divenisse sempre più efficace. Cohen, Joel E. (1944) Professore di biologia delle popolazioni alla Rockefeller University; ha contribuito in modo fondamentale all’interpretazione delle reti alimentari degli ecosistemi. Commensalismo Forma di simbiosi nella quale una delle due specie trae profitto dall’associazione senza arrecare danno o vantaggio alcuno all’altra.

Comunità L’insieme degli organismi – piante, animali e microrganismi – che vivono in un habitat particolare e che si influenzano reciprocamente in quanto parti di una stessa rete alimentare, oppure attraverso le varie influenze che ciascuno di essi esercita sull’ambiente fisico. Convergenza evolutiva Nella biologia evoluzionistica, equivale a evoluzione convergente, e indica l’aumento di somiglianza durante l’evoluzione di due o più specie non affini. Per esempio, il lupo placentato dell’emisfero settentrionale e il lupo marsupiale australiano, incredibilmente simile al primo. Conway Morris, Simon (1951) Paleontologo dell’Università di Cambridge; autorità nel settore dell’esplosione cambriana degli invertebrati e nel settore dell’evoluzione degli artropodi. Coppia di basi Coppia di basi azotate costituenti una lettera del codice genetico; di solito si tratta dell’adenina (A) che si accoppia con la timina (T), o la citosina (C) che si accoppia con la guanina (G). Ciascuna base, situata in uno dei due filamenti formanti la doppia elica del Dna, sta di fronte all’altra base, posta nella medesima posizione ma sul filamento opposto. Il codice è formato dalla sequenza delle quattro lettere che si formano nella doppia elica, AT, TA, CG, GC. Le varie versioni di uno stesso gene differiscono tra loro proprio nelle sequenze di queste lettere. Corporazione Gruppo di specie presenti nello stesso luogo e che utilizzano le stesse fonti alimentari. Per esempio, i rapaci di una foresta pluviale boliviana che si nutrono di uccelli canori. Crioconservazione Conservazione di organismi interi e di pezzi di tessuto a temperature molto basse, di solito realizzata in azoto liquido.

Cromosoma Struttura a forma di bastoncino visibile al microscopio ottico e recante i geni. I cromosomi sono fatti di Dna, i cui segmenti formano i geni, e di una matrice proteica di supporto. Crono La più piccola suddivisione del tempo geologico, Inferiore all’età. Cronospecie Popolazione che si evolve nel tempo al punto da essere infine considerata come specie diversa da quella di partenza, nonostante essa non si sia suddivisa in più specie contemporanee; la suddivisione temporale delle due specie è puramente soggettiva. Curva area-specie Si tratta della relazione esistente fra area di un’isola, o comunque di un’altra regione geografica delimitata, e il numero delle specie che vi abitano. Viene approssimata dall’equazione S=CAz, dove A è l’area, S il numero di specie, C e z due costanti che dipendono dalla località e dal gruppo di organismi in esame (per esempio, uccelli, o alberi). E chiamata anche curva speciearea. Darwin, Charles Robert (1809-1882) Fondatore assieme ad Alfred Russell Wallace della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, autore di L’origine delle specie, e fondatore del pensiero evoluzionistico che pervade la biologia moderna. Darwinismo Teoria dell’evoluzione per selezione naturale, proposta in origine da Charles Darwin. L’interpretazione moderna di tale meccanismo è chiamata neo-darwinismo; essa incorpora tutte le conoscenze acquisite, a proposito dell’evoluzione, nei settori della genetica, dell’ecologia, e di altre discipline. Deme Popolazione di organismi all’interno della quale l’incrocio è del tutto casuale; si tratta di un importante concetto astratto utilizzato come standard rispetto al quale calcolare le percentuali di incrocio e

la deriva genetica. Demografia Studio dei tassi di nascita, di morte, della distribuzione in fasce d’età, del rapporto tra sessi, e della dimensione delle popolazioni. Si tratta di una disciplina fondamentale facente parte del più vasto settore dell’ecologia. Per «demografia di una popolazione» si intendono anche gli stessi caratteri demografici che la contraddistinguono. Deriva dei continenti Separazione graduale dei continenti che ha avuto luogo costantemente durante gli ultimi 200 milioni di anni. Deriva genetica Evoluzione della costituzione genetica di una popolazione determinata esclusivamente dal caso. De Vries, Philip J. (1952) Ricercatore sul campo, esperto in biologia tropicale e autore dell’apprezzatissima guida The Butterflies of Costa Rica (1987). Diamond, Jared M. (1937) Professore alla Scuola di Medicina dell’Università della California, Los Angeles; esploratore della avifauna della Nuova Guinea, inventore del concetto delle regole di raggruppamento nell’organizzazione delle biocomunità, importante studioso dei processi relativi all’estinzione. Diboscamento a strisce Taglio del legname all’interno di strette fasce di territorio, secondo una procedura che consente una rapida ricrescita, uno sfruttamento continuo, e la protezione della fauna e della flora. Dipendenza dalla densità Influenza via via più acuta che i fattori ambientali esercitano sul rallentamento della crescita di una popolazione a mano a mano che gli organismi si fanno più numerosi,

e quindi si concentrano sul territorio. I fattori dipendenti dalla densità comprendono la competizione, la mancanza di cibo, le malattie, la predazione e l’emigrazione. Diploide Che possiede in ciascuna cellula due copie dello stesso cromosoma. La condizione diploide di solito segue la fecondazione, durante la quale un assetto aploide di cromosomi di origine maschile si unisce a quello analogo di origine femminile. Confronto aploide. Disarmonia Negli studi sulla biodiversità, la presenza massiccia, eccessiva, di alcuni gruppi di organismi, e quella infima, o la totale assenza, di altri, su un’isola o su un continente, dovuta ai meccanismi fortuiti della dispersione animale. Per esempio, alle Hawaii non ci sono picidi o formiche autoctone, ma una grande varietà di drepanidi e di vespe. Dislocamento dei caratteri Processo mediante il quale due specie si evolvono allontanandosi una dall’altra, cioè differenziandosi sempre più, a causa della competizione o del rischio di una riduzione della sopravvivenza e della fertilità prodotta dall’ibridazione. Dna Acido desossiribonucleico. Materiale ereditario fondamentale per tutti gli organismi viventi; è il polimero che costituisce i geni. Dominanza In genetica, espressione di un gene a discapito di un altro entrambi presenti in uno stesso organismo e nello stesso locus su cromosomi omologhi; per esempio, il gene per la normale coagulazione del sangue è dominante su quello per l’emofilia (compromissione della coagulazione). In ecologia, invece, la dominanza indica l’abbondanza e l’influenza ecologica di una specie, o di un gruppo di specie, sulle altre; i pini e i coleotteri sono esempi di organismi dominanti. Nel comportamento animale, per dominanza s’intende il controllo esercitato da un individuo sugli altri facenti parte dello stesso gruppo sociale.

Echinoderma Membro del phylum degli Echinodermata; per esempio le stelle di mare o i ricci di mare. Ecologia restaurativa Studio della struttura e della rigenerazione delle comunità animali e vegetali, indirizzato all’ampliamento e al restauro degli ecosistemi minacciati d’estinzione. Ecologia Studio scientifico dell’interazione fra organismi e ambiente. Economia ecologica Nuovo campo interdisciplinario dedicato alla protezione dell’ambiente compatibilmente con il raggiungimento di una produzione economica elevata. Ecosistema Organismi che popolano un particolare ambiente – per esempio, un lago o una foresta (o, su scala maggiore, un oceano, o addirittura tutto il pianeta) – e la componente fisica dell’ambiente che li influenza. L’insieme dei soli organismi è denominato comunità, biocomunità, o biocenosi. Ecoturismo Turismo incentrato sulle caratteristiche più attraenti e interessanti dell’ambiente, fauna e flora comprese. Ehrlich, Paul R. (1932) Professore alla Stanford University; insigne studioso di dinamica delle popolazioni e dei processi relativi all’estinzione; la grande mole di libri e di articoli da lui pubblicati assieme a Anne H. Ehrlich ha portato i problemi ambientali all’attenzione del grande pubblico. Eisner, Thomas (1929) Professore alla Cornell University; insigne entomologo e fondatore dell’ecologia chimica; proponitore del concetto di prospezione chimica (cfr. infra). Eldredge, Niles (1943) Curatore della collezione di invertebrati

fossili del Museo Americano di Storia Naturale; è un luminare nel settore dei trilobiti ed è il padre, assieme a Stephen Jay Gould, della tesi degli equilibri punteggiati. Elettroforesi Metodo grazie al quale le sostanze, e soprattutto le proteine, vengono separate l’una dall’altra sfruttando le loro differenze di carica elettrica e peso molecolare. Utilizzata negli studi sulla biodiversità sia fra specie diverse sia all’interno di una stessa specie. Endemico Una specie o una razza reperibile solo e soltanto in un particolare luogo. Nel caso la specie si sia pure formata in quel luogo, allora si definisce autoctona. Eone La più ampia delle suddivisioni del tempo geologico. L’intera storia della terra è divisa in quattro eoni. Epifilla Pianta che cresce sulle foglie di altri vegetali; si tratta quindi di un tipo particolare di epifita. Epifita Pianta specializzata nella crescita su altri tipi di organismi vegetali, i quali traggono da tale fatto qualche vantaggio, o al massimo nessun danno, non venendo parassitati. Esempi di epifite sono molte specie di orchidee e di bromeliacee. Epoca Suddivisione del tempo geologico su scala più piccola del periodo. Noi viviamo nell’Olocene (o epoca recente), cominciata circa 10.000 anni fa, alla fine del Pleistocene. Equilibrio della specie Il numero di specie in condizioni di equilibrio dinamico (vale a dire la biodiversità di un’isola o di un appezzamento isolato di un certo habitat), dovuto al pareggio tra immigrazione di nuove specie ed estinzione di vecchie specie.

Confronta la teoria della biogeografia insulare. Era Una delle suddivisioni principali del tempo su scala geologica, inferiore all’eone. Il Fanerozoico, per esempio, è suddiviso in tre ere: paleozoica (la più antica), mesozoica e cenozoica (la più recente). Erwin, Terry L. (1940) Curatore di entomologia al Museo Nazionale degli Stati Uniti; grande esperto di coleotteri, e meglio noto per la sua stima della diversità degli insetti e degli altri artropodi delle foreste pluviali. Esclusione competitiva Estinzione, all’interno di un certo habitat, di una specie a opera di un’altra attraverso la competizione. Estinzione La scomparsa di un qualunque gruppo di organismi, dal livello della sottospecie a quelli più alti, compresi i phyla. L’estinzione può essere un fenomeno circoscritto nel corso del quale una o più popolazioni di una specie o di altre unità spariscono, ma altre sopravvivono in luoghi diversi, oppure un fenomeno su scala globale, nel quale periscono tutte le popolazioni. Quando i biologi parlano dell’estinzione di una specie particolare senza specificare altro, si riferiscono a un’estinzione di tipo globale. Estinzioni centinelane Espressione (proposta in questo libro) per designare le estinzioni delle specie ancora ignote, che quindi passano inosservate. Il nome deriva della montagna di Centinela, in Ecuador, la cui strepitosa biodiversità fu distrutta per farne terreno agricolo. Età Unità di suddivisione del tempo geologico inferiore all’epoca e superiore al crono. Eterozigote Che possiede geni di due tipi diversi (alleli) nello stesso locus cromosomico, sui due cromosomi omologhi. Una persona

recante un allele per l’anemia falciforme su uno dei due cromosomi, e un allele per l’emoglobina normale sull’altro cromosoma si dice eterozigote per quel carattere. Confronta omozigote. Etnobotanica Studio dell’approccio alla botanica e dell’uso di prodotti vegetali da parte delle altre culture, in particolare di quelle non alfabetizzate. Eucariote Organismo il cui Dna è racchiuso da una membrana nucleare. La maggior parte dei tipi di organismi sono eucarioti; infatti, solo i batteri e qualche altro tipo di microrganismo è privo di tale membrana. Evoluzione In biologia, qualunque cambiamento nella costituzione genetica di una popolazione di organismi. L’evoluzione può variare da piccoli scostamenti nelle frequenze di geni di minor importanza fino all’origine di interi insiemi di nuove specie. I mutamenti di minore entità sono chiamati microevoluzione, quelli di entità maggiore macroevoluzione. Falcemia Condizione ereditaria che determina la deformazione dei globuli rossi del sangue ed è dovuta a una mutazione in un singolo gene; quando il gene è presente in duplice copia, l’individuo portatore è anemico. Famiglia Nella classificazione gerarchica degli organismi, trattasi di un gruppo di specie, aventi un antenato comune, a livello più alto del genere e più basso dell’ordine, e quindi composto da un gruppo di generi. Per esempio, sono famiglie quelle dei Felidae (felini) e delle Fagaceae (faggi e querce). Fanerozoico Su scala geologica è l’arco temporale più ampio, durante il quale – a partire da 550 milioni di anni fa – si è evoluta gran parte della biodiversità.

Fauna del Continente Mondo La fauna dominante evolutasi in Africa, Europa, Asia e Nordamerica (il Continente Mondo, appunto) durante l’era cenozoica (gli ultimi 66 milioni di anni). Le masse terrestri che costituiscono il Continente Mondo sono rimaste saldate abbastanza a lungo da permettere periodici scambi di specie, facilmente apprezzabili tra i mammiferi. Fauna L’insieme degli animali reperibili in una determinata località. Feltro microbico Sottile strato di batteri e di cianobatteri (o alghe azzurre) che si forma su superfici spoglie, e che a volte secerne una base di carbonati chiamata stromatolite; si tratta di uno dei primi e dei più antichi ecosistemi, tuttora esistente in alcuni ambienti attuali quali le acque poco profonde intertidali. Fenotipo È l’insieme dei caratteri osservabili di un organismo, il prodotto dell’interazione fra il suo genotipo (cioè il suo materiale genetico) e l’ambiente nel quale esso si è sviluppato. Filogenesi La storia evolutiva di un particolare gruppo di organismi, quali le antilopi o le orchidee, con particolare riferimento agli alberi genealogici delle specie che compongono il gruppo. Fitoplancton Il plancton vegetale, contrapposto a quello animale, noto come zooplancton. Flora L’insieme dei vegetali reperibili in una determinata località. Foresta pluviale tropicale Nota anche con il termine più tecnico di foresta chiusa umida tropicale: si tratta di una foresta con precipitazioni annue di almeno 200 cm, ben distribuite nell’arco dell’anno e in grado di sostenere latifoglie sempreverdi. Tale vegetazione è tipicamente distribuita in modo da formare alcuni strati irregolari di

foglie, fitti a sufficienza per captare il 90 per cento dell’energia solare prima che essa giunga al suolo. Fossile Qualunque resto di un organismo: un’impronta, un osso mineralizzato, e così via, risalente ad almeno 10.000 anni fa. Frequenza genica Per la popolazione nel suo complesso, è la percentuale dei geni di un certo locus che si trovano in una forma (allele) piuttosto che in un’altra: per esempio, si parla di frequenza dell’allele falcemico rispetto a quello normale. Gene L’unità base dell’ereditarietà. Genere Gruppo di specie simili aventi un antenato in comune. Per esempio, il genere Canis, comprendente il lupo, il cane domestico, e specie affini, e il genere Quercus, comprendente le querce. Genoma Tutti i geni di un organismo o di una specie particolari. Genotipo La costituzione genetica di un organismo, sia relativa a un solo carattere (per esempio, il colore degli occhi) sia a una serie di caratteri (colore degli occhi, gruppo sanguigno, ecc.). Gentry, Alwyn H. (1945-1993) Studioso di botanica tropicale dell’orto botanico del Missouri; uno degli studiosi più apprezzati delle piante sudamericane. Goksøyr, Jostein (1922-2000) Professore di microbiologia all’Università di Bergen, Norvegia, è uno dei pionieri delle tecniche di stima della biodiversità batterica. Gould, Stephen Jay (1941-2002) Professore di geologia e curatore degli invertebrati fossili dell’Università di Harvard; fu il più

autorevole divulgatore e commentatore della biologia evoluzionista. Assieme a Niles Eldredge ha proposto la tesi degli equilibri punteggiati. Gradiente latitudinale della diversità La tendenza – molto diffusa tra le piante e gli animali, ma comunque non universale – verso una maggiore biodiversità via via che si passa dalle regioni polari verso l’equatore. Grande scambio interamericano Migrazione dei mammiferi nordamericani verso sud, e di quelli sudamericani verso nord in corrispondenza con la formazione del ponte di terra panamense, avvenuta 2,5 milioni di anni fa. Il processo continua tuttora. L’attenzione è stata focalizzata sui mammiferi per via delle eccellenti registrazioni fossili pervenuteci, tuttavia il fenomeno ha interessato anche altri tipi di animali e di vegetali. Grant, Peter R. (1936) Professore di zoologia all’Università di Princeton; ecologo dei vertebrati e leader nello studio dell’ecologia e della microevoluzione dei fringuelli di Darwin. Habitat isolato Tratto di habitat separato dagli altri: per esempio, un boschetto separato da una foresta, o un lago circondato da terreno arido. Gli habitat isolati sono soggetti agli stessi processi ecologici ed evolutivi incontrati dalle vere isole. Habitat Un ambiente di un certo tipo, per esempio le rive di un lago o una prateria di erbe alte; ma anche il particolare ambiente di un certo luogo, come le foreste montane di Tahiti. Hubbell, Stephen P. (1942) Professore di biologia dell’Università di Los Angeles; ecologo tropicale di spicco e promotore dello studio a lungo termine sulla diversità degli alberi dell’isola di Barro Colorado, a Panama.

Ibrido Figlio di genitori geneticamente diversi, e soprattutto appartenenti a due specie diverse. In pericolo d’estinzione Prossima all’estinzione. Si dice di una specie o di un ecosistema che, per dimensioni o fragilità, versano in pessimo stato. Invertebrato Qualunque animale mancante di colonna vertebrale costituita da segmenti ossei che racchiudono il midollo spinale. Gran parte degli animali – dagli anemoni di mare ai vermi, ai ragni, alle farfalle – sono invertebrati. Confronta vertebrato. Janzen, Daniel H. (1939) Professore all’Università della Pennsylvania; insigne studioso di biologia tropicale molto noto per il suo programma per la rigenerazione delle foreste monsoniche centroamericane. Knoll, Andrew H. (1951) Professore di paleobotanica all’Università di Harvard; autorità nel campo della storia della vita, a partire dai primi microrganismi del Cambriano fino alle moderne angiosperme. Lichene Organismo composto da un fungo che ospita cianobatteri, o alghe monocellulari. Da questa simbiosi traggono vantaggio entrambi gli organismi. Livello trofico Gruppo di organismi che ricava l’energia indispensabile alla vita a partire dallo stesso livello della rete alimentare di una biocenosi. Ne costituiscono un esempio i produttori primari, costituiti principalmente dai vegetali, e gli erbivori, vale a dire gli animali che mangiano i vegetali. Lovejoy, Thomas E. (1941) Assistente segretario per gli affari esterni della Smithsonian Institution; esperto di uccelli del Sudamerica, è

l’ideatore del titanico dell’Amazzonia brasiliana.

Progetto

sui

Frammenti

Forestali

MacArthur, Robert H. (1930-1972) Professore all’Università della Pennsylvania e all’Università di Princeton; brillante ecologo teorico e ideatore della teoria della biogeografia insulare. Macroevoluzione Evoluzione su larga scala, basata su alterazioni notevoli a livello anatomico o a carico di altri caratteri biologici, e a volte accompagnata da radiazione adattativa (cfr. infra). Confronta microevoluzione. Mammifero Animale della classe Mammalia, caratterizzato dalla produzione di latte da parte delle ghiandole mammarie della femmina e dall’avere il corpo ricoperto di pelo. Marsupiale Animale, quale l’opossum o il canguro, caratterizzato quasi sempre dal possesso di una sorta di borsa, il marsupio, contenente le ghiandole mammarie e utilizzato come ricettacolo per i piccoli. Martin, Paul S. (1928) Paleontologo e professore all’Università dell’Arizona; principale fautore dell’ipotesi delle estinzioni in massa della megafauna per mano degli uomini preistorici. May, Robert M. (1936) Professore di ecologia all’Università di Oxford; insigne teorico di biologia delle popolazioni e studioso dei processi naturali che stanno alla base della biodiversità. Mayr, Ernst (1904-2005) Professore emerito dell’Università di Harvard; decano di biologia evoluzionistica; fondatore del neodarwinismo e del concetto di specie biologica.

Meccanismo intrinseco di isolamento Qualunque differenza ereditaria che impedisca a due specie di incrociarsi liberamente in condizioni naturali. Per esempio, stagioni riproduttive diverse, differente comportamento nel corteggiamento, o diverso tipo di habitat locale. Megafauna Animali di grosse dimensioni e di peso superiore ai 10 kg; per esempio, il cervo, i felini di grosse dimensioni, l’elefante e lo struzzo. Meiosi Divisione cellulare che determina la riduzione del numero di cromosomi da diploide ad aploide e che, in molti tipi di organismi superiori, porta direttamente alla produzione dei gameti, o cellule riproduttive. Confronta mitosi. Mesozoico Era dei rettili o dei dinosauri, cominciata 245 milioni di anni fa e terminata 66 milioni di anni fa. Metamorfosi Cambiamento radicale nella forma del corpo, nella fisiologia e nel comportamento nel corso della crescita e dello sviluppo dell’organismo. Metapopolazione Gruppo di popolazioni parzialmente isolate appartenenti alla stessa specie. Le popolazioni sono in grado di scambiarsi individui e di ricolonizzare i luoghi nei quali la specie si sia da poco estinta. Micorriza Associazione simbiotica tra funghi e radici dei vegetali. Microbiologia Studio scientifico degli organismi microscopici, e soprattutto dei batteri. Microevoluzione Mutamento evolutivo di piccola entità, quale, per

esempio, l’aumento delle dimensioni di una parte del corpo, generalmente controllata da un numero ridotto di geni. Confronta macroevoluzione. Mitosi Divisione cellulare nel corso della quale i cromosomi vengono duplicati esattamente senza riduzioni. Confronta meiosi. Modello formazione-esaurimento Ipotesi secondo cui la diversità delle specie, soprattutto nelle foreste tropicali, aumenta quando località circoscritte, favorevoli ad alcune specie, consentono loro di produrre un surplus di emigranti, divenendo quindi aree di formazione di nuovi individui che si possono disperdere nei vicini ambienti meno favorevoli, vale a dire nelle aree di esaurimento. Mollusco Animale appartenente al phylum Mollusca; per esempio, la chiocciola e l’ostrica. Morfoclino Variabilità morfologica graduata e progressiva, all’interno di individui appartenenti allo stesso genere, determinata dall’evoluzione di caratteri legati per esempio alla forma del corpo o di parti del corpo in modo da aumentare l’adattamento morfologico all’ambiente. Mutazione È, in linea generale, qualunque tipo di cambiamento che interessi un organismo: un’alterazione del Dna che compone i singoli geni, ma anche la variazione nel numero o nella struttura dei cromosomi. Le mutazioni sono la base del processo evolutivo. Mutualismo Tipo di simbiosi fra due specie dalla quale entrambi i partner traggono beneficio. Myers, Norman (1934) Botanico inglese e biologo conservazionista; suo è il merito di aver individuato l’esistenza delle aree ad alto

rischio; insigne studioso della biodiversità. Neo-darwinismo Il moderno studio del processo evolutivo che assegna un ruolo centrale alla selezione naturale, vale a dire all’idea originariamente proposta da Darwin e ora avvalorata da nuove conoscenze acquisite grazie alla genetica, all’ecologia, e ad altre moderne discipline biologiche. Nicchia ecologica Termine dell’ecologia, vago ma utile, che designa il ruolo occupato da una specie all’interno di un certo ecosistema: dove vive, cosa mangia, quali sono le modalità con le quali si procaccia il cibo, in quale stagione è attiva, e così via. In senso più astratto, la nicchia è, all’interno di un certo ecosistema, il luogo o il ruolo potenziale nel quale una specie si sarebbe potuta o meno evolvere. Nucleo In biologia, corpo denso situato all’interno della cellula, circondato da una doppia membrana e contenente i cromosomi, vale a dire i geni. Olson, Storrs L. (1944) Curatore di paleontologia al Museo Nazionale degli Stati Uniti; autorità sugli uccelli fossili e pioniere nello studio dell’estinzione delle avifaune insulari, in particolare di quella delle Hawaii (condotto in collaborazione con Helen F. James). Omologia In biologia, indica una somiglianza a livello strutturale, fisiologico o comportamentale tra due specie, dovuta al fatto di discendere entrambe da un antenato comune, indipendentemente dal fatto che la funzione di tali strutture, processi o comportamenti sia o meno la stessa. Per esempio: le braccia dell’uomo e le ali dei pipistrelli. Si definiscono omologhi anche i due cromosomi di ciascuna coppia reperibili nelle cellule diploidi dello stesso individuo. Confronta analogia.

Omozigote Che possiede lo stesso tipo di gene (allele) su entrambi i cromosomi omologhi. Una persona che porta l’allele per l’anemia falciforme su entrambi i cromosomi è omozigote per quel gene. Confronta eterozigote. Paleontologia Studio scientifico dei fossili e di tutti gli aspetti delle forme di vita estinte. Periodo Suddivisione del tempo su scala geologica di livello inferiore all’era. L’era mesozoica, per esempio, è suddivisa in tre periodi: il Triassico, il Giurassico e il Cretaceo. Permiano Ultimo periodo dell’era paleozoica, iniziato 290 milioni di anni fa e terminato 245 milioni di anni fa, si concluse con la più grande estinzione di tutti i tempi. Phylum È, dopo il regno, la categoria sistematica più alta. Esempi di phyla sono quello dei Mollusca (chiocciole, ostriche, polpi) e delle Pterophyta (felci). Pimm, Stuart L. (1949) Teorico di biologia delle popolazioni ed ecologo dell’Università del Tennessee; grande conoscitore dei processi d’estinzione. Placentato Si dice di un animale appartenente a quel gruppo di mammiferi – e sono la maggior parte – che nutre l’embrione mediante la placenta. Confronta marsupiale. Plancton Organismi che vengono trasportati passivamente dall’acqua e dall’aria (in quest’ultimo caso si parla di plancton eolico); si tratta per lo più di microrganismi, piante e animali di piccole dimensioni. Pleistocene Epoca su scala geologica che ha preceduto l’Olocene

(periodo nel quale stiamo vivendo), e durante la quale i ghiacciai continentali sono avanzati e indietreggiati, e la specie umana si è evoluta. Il Pleistocene è cominciato 2,5 milioni di anni fa ed è terminato 10.000 anni fa, alla fine dell’era glaciale. Poliploidia Designa la presenza, nelle cellule di un organismo, di un numero di assetti cromosomici superiore a due. Soprattutto tra le piante, la poliploidia è una delle vie grazie alle quali le specie si moltiplicano. Pool genico L’insieme dei geni di tutti gli organismi appartenenti a una certa popolazione. Popolazione In biologia, un gruppo di organismi appartenenti, nello stesso momento e nello stesso luogo, alla medesima specie. Procariote Organismo con Dna non circondato da membrana nucleare; pertanto, le cellule dei procarioti non hanno nuclei ben definiti. Quasi tutti i procarioti sono batteri. Confronta eucariote. Prospezione chimica Ricerca sistematica, tra le specie selvatiche vegetali, animali e di microrganismi, di sostanze naturali per uso pratico, soprattutto in campo medico. Protista Membro del regno dei Protista, comprendente protozoi, alghe, e forme affini. Protozoo Membro di uno dei gruppi di organismi monocellulari, tra i quali le amebe e i ciliati. Vengono di solito inseriti nel regno dei Protista. Pseudopodio o pseudopodo Estroflessione mobile di citoplasma osservabile in alcuni organismi unicellulari e in cellule isolate di

organismi pluricellulari. Il suo scopo è quello di circondare e inglobare le prede, come fa ad esempio un’ameba per catturare una particella di cibo. Quaternario Secondo e ultimo periodo dell’era cenozoica, segue il periodo terziario e comprende il Pleistocene e l’Olocene, estendendosi, quindi, da 2,5 milioni di anni fa a oggi. Radiazione adattativa L’evoluzione di una singola specie in più specie che assumono modalità di vita diverse all’interno dello stesso areale geografico. Per esempio: l’origine, a partire da un antenato comune, del canguro, del koala e di altri mammiferi marsupiali australiani tutt’ora esistenti. Raup, David M. (1933) Professore di paleontologia all’Università di Chicago; ha fornito contributi essenziali all’analisi dei processi di diversificazione e di estinzione. Raven, Peter H. (1936) Direttore dell’Orto Botanico del Missouri, a St. Louis; autorità nel campo della botanica tropicale, ha il merito di avere avviato gli studi sulla biodiversità vegetale nel mondo. Razza legata all’ospite Popolazione geneticamente distinta di organismi che si nutre su un certo tipo di pianta e che vive frammista ad altre popolazioni della stessa specie che però si nutrono su altri tipi di piante; si ritiene che si tratti di uno stadio intermedio verso la formazione di nuove specie. Regno È la categoria sistematica più alta. In genere, si ammette l’esistenza di cinque regni: Plantae (vegetali), Animalia (animali), Fungi (funghi di vario tipo), Protista o Protoctista (alghe e «animali» unicellulari), e Monera (batteri e affini).

Regole di raggruppamento Possibili combinazioni delle specie che possono vivere assieme all’interno di una comunità di animali e di vegetali; inoltre, la sequenza con la quale queste specie possono introdursi e resistere all’interno della comunità. Rete alimentare La serie completa di relazioni trofiche esistenti in un certo habitat, rappresentate nei diagrammi dalla direzione nella quale l’energia e i nutrienti fluiscono da ciò che viene consumato a chi consuma. Riserva estrattiva Un habitat naturale dal quale si estraggono legno, lattice e altri prodotti naturali in modo continuo, ma arrecando al contempo il minor danno possibile all’ambiente e, idealmente, senza provocare l’estinzione di alcuna delle specie ivi presenti. Scambio debito-natura Annullamento di parte del debito delle nazioni più povere in cambio di progetti di conservazione ambientale locali, che si esplicano soprattutto nell’acquisto di terra in aree ad alto rischio. Selezione delle specie Moltiplicazione ed estinzione differenziata delle specie, a causa delle differenze a carico di certi caratteri da loro posseduti, che determinano la diffusione dei caratteri più favoriti nella fauna o nella flora nel loro complesso. Selezione naturale Contributo differenziato, in termini di prole, alla generazione successiva da parte di vari tipi genetici appartenenti alla stessa popolazione; è il meccanismo dell’evoluzione così come fu proposto da Charles Darwin. Si distingue dalla selezione artificiale che, pur essendo sostanzialmente lo stesso tipo di processo, è però condotta dall’uomo. Sepkoski, J. John, Jr (1948-1999) Professore di paleontologia dell’Università di Chicago, assieme al suo collega David Raup fu un

esperto nel settore della diversificazione e dell’estinzione. Servizi dell’ecosistema Ruolo svolto dagli organismi nella creazione di un ambiente salubre per gli esseri umani, dalla produzione di ossigeno alla generazione del suolo, alla depurazione dell’acqua. Simberloff, Daniel S. (1942) Professore di ecologia dell’Università Statale della Florida; pioniere della biogeografia insulare. Simbiosi Vita in comune di due o più specie che contraggono una relazione ecologica strettissima e continuativa, come nel caso dell’inglobamento delle alghe o dei cianobatteri da parte dei funghi, a formare i licheni. Simpatrico Che si trova nel medesimo luogo, come nel caso di due specie i cui areali si sovrappongono parzialmente. Sistematica Lo studio scientifico della biodiversità. A volte è usato come sinonimo di tassonomia per indicare le procedure puramente classificatorie e la ricostruzione della filogenesi (relazione tra le specie); in altri casi, è utilizzato in senso lato per indicare tutti gli aspetti relativi alle origini e al contenuto della biodiversità. Sottospecie Suddivisione di una specie. Di solito per sottospecie si intende una razza geografica: una popolazione o una serie di popolazioni che occupano un’area circoscritta e che differiscono geneticamente dalle altre razze geografiche della stessa specie. Confronta razza legata all’ospite. Soulé, Michael E. (1936) Professore di scienze ambientali dell’Università della California, a Santa Cruz; fondatore della biologia conservazionista.

Southwood, T. R. E. (1931-2005) Sir Richard Southwood, vice cancelliere dell’Università di Oxford, ha dato grandissimi contributi alla teoria e alla misura della biodiversità. Speciazione Processo di formazione delle specie: l’intera sequenza di eventi che conduce al frazionamento di una popolazione in due o più popolazioni tra loro riproduttivamente isolate. Speciazione allopatrica o speciazione geografica Divisione di una popolazione in due o più subpopolazioni a causa di una barriera geografica (un tratto di mare, uno valle fluviale, una catena montuosa), seguita da divergenza evolutiva delle subpopolazioni stesse fino al raggiungimento da parte loro della condizione di specie vere e proprie. Speciazione simpatrica Suddivisione di una specie antenata in due specie figlie senza l’intervento di barriere geografiche che giungano a separare la specie originaria in due popolazioni. Specie asessuate Popolazioni di organismi sufficientemente diverse tra loro da poter essere riconosciute come specie, nonostante non si riproducano sessualmente e quindi non possa venire loro applicato il criterio dell’isolamento riproduttivo. Specie chiave Una specie, come la lontra marina, che influisce sulla sopravvivenza e l’abbondanza di molte altre specie appartenenti alla sua stessa biocomunità. La sua eliminazione o la sua introduzione dà luogo a un cambiamento relativamente importante nella composizione della biocomunità e a volte anche della struttura fisica dell’ambiente. Specie sorelle Specie talmente simili tra loro da essere difficilmente distinguibili, almeno da parte degli osservatori umani.

Specie Unità fondamentale della classificazione; consiste in una popolazione, o in una serie di popolazioni, di organismi simili e strettamente imparentati. Tra gli organismi a riproduzione sessuata, la specie è definita in modo più preciso grazie al concetto di specie biologica: in tal caso, si tratta di una o più popolazioni che si incrociano liberamente in condizioni naturali, e che invece non si incrociano con i membri di altre specie. Stanley, Steven M. (1941) Professore di paleobiologia della Johns Hopkins University; autorità nello studio degli invertebrati fossili, egli ha sviluppato la teoria della selezione delle specie. Steadman, David W. (1951) Zoologo del Museo dello Stato di New York; assieme a Storrs Olson è uno dei principali ricercatori dediti allo studio tramite i fossili della storia biologica e dell’estinzione degli uccelli insulari, soprattutto di quelli della Polinesia. Studi sulla biodiversità Esame sistematico dell’intera gamma di tipi di organismi, accompagnato dall’analisi delle tecnologie necessarie per il mantenimento della biodiversità stessa e per il suo sfruttamento a beneficio dell’umanità. Sviluppo sostenibile L’uso del suolo e dell’acqua per sostenere indefinitamente la produzione senza però infliggere danni all’ambiente e, idealmente, senza che vi sia perdita di biodiversità. Tassonomia La scienza (e arte) della classificazione degli organismi. Confronta anche sistematica. Tefra Frammenti rocciosi frammisti a cenere emessi durante le eruzioni vulcaniche. Teoria della biogeografia insulare I concetti e i modelli matematici

che spiegano il numero di specie presenti sulle isole e negli habitat frammentati. Una delle idee centrali di questa teoria è il concetto di equilibrio nel numero delle specie, equilibrio che viene raggiunto quando il numero di nuove specie che arrivano nell’habitat è uguale a quello delle vecchie specie che si estinguono. Terborgh, John (1936) Professore di biologia alla Duke University; botanico e zoologo noto per gli studi a lungo termine sull’ecologia degli uccelli e dei mammiferi delle foreste pluviali. Terziario Primo periodo dell’era cenozoica, cominciato alla fine dell’era mesozoica (era dei rettili) 66 milioni di anni fa e conclusosi all’inizio del Pleistocene circa 2,5 milioni di anni fa; al Terziario ha fatto seguito il Quaternario (Pleistocene e Olocene). Thornton, Ian W. B. (1926-2002) Professore di zoologia all’Università La Tobe, in Australia, guidò le più recenti spedizioni a Krakatau. Triploide Cellula od organismo dotati di tre assetti completi di cromosomi. Vertebrato Animale dotato di una colonna vertebrale costituita da segmenti ossei che racchiudono il midollo spinale. I gruppi principali di vertebrati oggi esistenti sono cinque: pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi. Confronta invertebrato. Vrba, Elisabeth S. Professoressa di geologia all’Università di Yale; autorità nel campo della storia dei fossili dei mammiferi africani, ha contribuito in modo determinante alla teoria della selezione delle specie. Webb, S. David (1936) Curatore della zoologia dei vertebrati del

useo Statale della Florida; ricercatore e teorico dell’evoluzione dei mammiferi del Nuovo Mondo. Zona intertidale Parte del litorale interessata dal flusso di marea. È compresa tra il limite di alta e quello di bassa marea. Zooplancton Plancton animale, contrapposto al plancton vegetale.

RINGRAZIAMENTI

In un certo senso, la preparazione di questo libro cominciò quando ero studente all’Università dell’Alabama, verso la fine degli anni Quaranta, impegnato ad aprirmi la strada tra canalette di scolo d’argilla rossa e rigagnoli tossici in cerca dei resti dell’ambiente naturale. Nonostante venissi preso spesso dallo sconforto, speravo sempre che, altrove, il mondo fosse in condizioni migliori. II mio cammino intellettuale acquistò impulso nel 1953, durante un viaggio che mi portò a Cuba, sulla Sierra Trinidad; viaggio durante il quale arrancai su strade fangose in cerca della foresta pluviale, passando di fianco a camion per il trasporto degli alberi che si dirigevano verso Cienfuegos, carichi degli ultimi frammenti degli alberi abbattuti. Durante gli anni successivi, ripetei quell’esperienza molte altre volte in altri paesi. Mi resi allora conto che, altrove, il mondo in realtà non era in condizioni migliori. II libro comiciò ad assumere forma concreta nella mia mente nel 1986, durante il Forum Nazionale sulla Biodiversità, tenutosi a Washington (D.C.) sotto gli auspici della National Academy of Sciences e della Smithsonian Institution. Lì mi unii a sessanta convenuti – biologi, economisti, esperti di agricoltura, e professionisti di settori attigui – per consultarci, con la possibilità, finalmente, di prendere in considerazione (in modo completo ed esauriente e con un’attenzione da parte dei media alla quale non eravamo abituati) la biodiversità del pianeta in tutta la sua importanza quale, problema centrale dell’ambiente. Lo studio della diversità biologica, per quanto attiene alle attuali questioni umane, è una materia interdisciplinare che solo ora sta cominciando a comporsi in un quadro unitario. Nel tentare di redigere questa sintesi su tale argomento, ho tratto giovamento dal consiglio e dall’incoraggiamento di colleghi specialisti in moltissime discipline. È per me un piacere poterli qui menzionare, ritenendoli al

contempo esonerati da errori e omissioni che, a mo’ di trappole nascoste, eventualmente mi siano sfuggite anche ora che il libro sta per essere dato alle stampe (febbraio 1992). Larry D. Agenbroad (estinzioni della megafauna del Quaternario). Peter S. Ashton (flora tropicale). Richard O. Bierregaard Jr; (biodiversità delle foreste pluviali). Elizabeth Boo (ecoturismo). Kenneth J. Boss (molluschi). William H. Bossert (modelli area-specie). Bryan C. Clarke (molluschi). Rita R. Colwell (microbiologia). Simon Conway Morris (biodiversità del Cambriano). Jared M. Diamond (estinzioni). Eric Dinerstein (analisi delle riserve biologiche). Victoria C. Drake (scambio debito-natura). Donald A. Falk (vegetali U.S.A.). Richard T.T. Forman (paesaggio, analisi di politica). Charles H.W.Foster (bioregionalismo). David G. Furth (biodiversità dei Coleotteri). Douglas J. Futuyma (teorie evolutive). Alwyn H. Gentry (flora tropicale). Thomas J. Givnish (farfalle, metapopolazioni). Jostein Goksoyr (diversità batterica). Jerry Harrison (riserve naturali mondiali). Karsten E. Hartel (ittiologia). Gary S. Hartshorn (gestione foreste, gestione pubblica). Michael Huben (acari). Helen F. James (uccelli hawaiiani, estinzioni). David P. Janos (micorrize fungine). Robert E. Jenkins (inventari di biodiversità). Carl F. Jordan (gestione foreste tropicali). Laurent Keller (entomologia). Andrew H. Knoll (storia geologica della vita). Russell Lande (diversità genetica).

Robert J. Lavenberg (squali). Karel F. Liem (ittiologia). Hans Löhrl (uccelli europei). Jane Lubchenco (ecosistemi marini). Ariel E. Lugo (foreste tropicali, estinzione). Denis H. Lynn (diversità dei protozoi). David R. Maddison (genetica, sistematica). Michael Mares (estinzioni). Ernst Mayr (formazione delle specie). Kenton R. Miller (conservazionismo e gestione pubblica). Russell A. Mittermeier (biologia conservazionistica). Gary Morgan (mammiferi del Cenozoico). Norman Myers (deforestazione, estinzione). Storrs L. Olson (uccelli hawaiiani, estinzione). Michael O’Neal (estinzioni vegetali). Raymond A. Paynter Jr (ornitologia). Tua M. Pérez (acari). David Pilbeam (evoluzione umana). Mark J. Plotkin (botanica economica, etnobotanica). James F. Quinn (estinzioni di mammiferi). Katherine Rails (diversità dei cetacei). David M. Raup (paleontologia, estinzioni). Peter H. Raven (diversità vegetale, etnobotanica). Jamie Resor (economia, aiuto a paesi terzi). Michael H. Robinson (parchi zoologici). Gustavo A. Romero (orchidee). Jose P.O. Rosaldo (rettili). Cristián Samper K. (foreste del Sudamerica). G. Allan Samuelson (coleotteri). J. William Schopf (storia geologica della vita). Richard E. Schultes (etnobotanica). Raymond Siever (Cenozoico). Daniel S. Simberloff (estinzioni). Tom Simkin (Krakatau). Otto T. Solbrig (evoluzione vegetale).

Andrew Spielman (zanzare). Steven M. Stanley (storia geologica della vita, teoria evolutiva). David W. Steadman (uccelli del Pacifico, estinzione). Martin H. Steinberg (falcemia). Peter F. Stevens (diversità vegetale). Roger D. Stone (conservazionismo e analisi politica). Nigel E. Stork (diversità degli artropodi). Jorgen B. Thomsen (pappagalli). Ian W.B. Thornton (Krakatau). Barry D. Valentine (diversità dei coleotteri). Noel D. Vietmeyer (botanica economica). Elisabeth S. Vrba (teoria evolutiva, evoluzione dei mammiferi). S. David Webb (evoluzione dei mammiferi). T.C. Whitmore (gestione forestale tropicale, estinzioni). Delbert Wiens (evoluzione vegetale). Irene K. Wilson (processi editoriali). Come per tutti i miei libri e i miei articoli scritti a partire dal 1966, devo essere grato all’accurato e prezioso lavoro di Kathleen M. Horton per ciò che riguarda la ricerca bibliografica e la preparazione del manoscritto. Ho avuto anche il piacere di lavorare con George Ward e Amy Bartlett per la realizzazione delle illustrazioni.

GLI AUTORI DELLE ILLUSTRAZIONI

Amy Bartlett Wright ha studiato illustrazione scientifica presso la Smithsonian Institution e la Rhode Island School of Design. È autrice delle illustrazioni riprodotte alle pagine 77, 94-95,

82, 119, 126, 148, 160, 166-167, 182-183, 196-197, 208-209, 257, 290, 297, 316, 319, 330, 390, 398, 401, 403.

Katherine Brown-Wing è l’autrice dell’illustrazione riprodotta a p. 234. George Ward ha realizzato le carte geografiche e i grafici.

INDICE ANALITICO

Abeti [1], [2], [3], [4], [5] Acari [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] carnivori 311 delle penne 250, 288-289 oribatei 209, 288, 435 Acquacoltura [1] Adattamento [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Africa clima 284, 299 estinzioni 135, 284, 298, 337, 344-345, 353 evoluzione umana 81, 87, 292 flora e fauna 70, 71, 86, 145, 164, 175, 178, 180, 185, 187, 210, 232-233, 292, 357-358, 365, 402, 441, 462, 481 insetti 36, 358 malattie 118, 120 numero di specie 272-273 Si veda anche Africa orientale; Sud Africa Africa Orientale [1], [2], [3], [4], [5] Grandi Laghi [1], [2], [3] Agricoltura [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] aiuti al Terzo Mondo 450 su terreni salini 403-404 «taglia e brucia» 376-377

Akepa (Loxops coccinea) [1] Akiapolau (Hemignathus wilsoni) [1], [2] Albany Pine Bush [1], [2] Alberi biodiversità 33-36, 38, 198, 368-369, 379-383, 443, 445 capacità di dispersione 154-155 della foresta pluviale 245, 271, 282, 309, 375, 448 ibridi 79-80 in pericolo (Banara vanderbiltii) 354 licofite arboree 247, 261 pasta da carta e 410-411, 476 semi degli 46, 154, 231, 376-377, 445 Si veda anche deforestazione Alghe [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20] azzurre (cianobatteri) 220, 253, 257 nelle barriere coralline 59, 247, Alleli [1], [2], [3], [4], [5] Si veda anche gene Allometria [1], [2] Alternanza di generazioni. Si veda fase diploide; fase aploide Alvarez, Luis W. [1] Amaranto [1], [2] Amazzonia [1], [2], [3], [4], [5], 270. [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14] Si veda anche foresta pluviale amazzonica Ambiente aerobico 269 effetti sull’evoluzione 93, 97, 120, 137, 218, 242, 277

estinzione e 279, 295-296, 460 modello delle aree di formazione 280, 304 e di esaurimento 280 presenza dell’ossigeno nell’ 253, 255, 259-260, 265 specializzazione e 277 Si veda anche clima; curva area/specie; habitat America Centrale [1], [2], [3], [4], [5] «hamburger connection» 449 American Type Culture Collection [1] Amerindie, tribù [1], [2], [3] Aminoacidi [1], [2] Ammoniti [1], [2], [3] Anatre [1] Anellidi (vermi) [1], [2], [3], [4] Anemia falciforme (falcemia) [1], [2], [3], [4] Anfibi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Si veda anche rane; salamandre Angiosperme [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] composite 153-155 evoluzione delle 247, 263 ibridi 107 insetti e 139, 191, 195 numero di cromosomi nelle 107 numero di specie 392 strato K-T e 56 Anidride carbonica [1], [2], [3], [4] Animali

come produttori di composti farmacologicamente attivi 393 marini 67-68, 166, 168, 172 numero di cromosomi negli 107-110 numero di specie 200-201 phyla 194, 219, 264-268 zootecnia 404 Antartide [1], [2], [3], [4] Antilocapre [1] Antilopi [1], [2], [3] Api [1], [2] africanizzate 332 euglossine 310 Aplocromini [1], [2], 174. Si veda anche pesci, ciclidi Appalachian National Scenic Trail (Percorso panoramico nazionaledegli Appalachi) [1] Aquile [1], [2], [3] delle scimmie 368 Araceae [1] Arapane (Himatione sanguinea) [1] Arboreto Arnold (Harvard) [1] dell’Università del Wisconsin 466 Archibatteri [1] Area distribuzione 70, 101, 104, 230, 277 isolamento 90-93, 268 speciazione 93, 96, 98-99

Si veda anche ambiente; areali; habitat Areali [1], [2], [3], [4], [5], [6] Aree di esaurimento (sink areas) [1] Aree di formazione (Source areas) [1] Are Ara maracana 332 di Spix (Cyanopsitta spixii) 331-332, 382 Armadilli [1] Arpie [1] Artica, regione [1] Artropodi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Si veda anche insetti; ragni Ashton, Peter [1] Asia [1], [2] Assenzio, annuale (Artemisia annua) [1] Aster [1], [2], [3] Astore [1], [2] Atomiche, unità [1] Austin, George [1] Australia [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16] estinzione delle avispecie 385 flora 74, 350, 369-370, 385, 400 mammiferi 176, 182, 296, 350 marsupiali 140, 176-177, 179, 345 rettili 342, 346 Australopithecus Si veda uomini-scimmia Avvoltoi [1]

Azadirachta indica («neem») 392 Aztechi [1], 480 Babirussa [1], [2] Bali [1], [2], [3] Banca mondiale [1] Bangladesh [1] Barro Colorado, isola di (Panama) [1], [2], [3] Batteri [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17] chemioautotrofi 255, 257, 286, 288, 454, 473-474 del colon 66, 203, 246 delle grotte 205-207 Dna dei [1], [2] evoluzione dei 253-255, 257, 260 marini 43, 253 nelle reti alimentari 249 numero di specie 203 parassiti degli alberi 232 specie silenti 203 termiti e 246 Beebe, William [1] Benthos abissale [1], [2] Berzelius, Jons Jacob [1] Bhutan [1], [2], [3] Biocenosi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] biodiversità nelle 238, 243 dislocamento dei caratteri nelle 240-242

effetto dei predatori nelle 249 flessibilità 239 marine 243, 249 regole di raggruppamento 235 simbiosi nelle 245-246 Bioeconomia [1] Biofilia [1] Biogeografia insulare [1], [2], [3] modello di decadimento esponenziale 383-384 tassi di estinzione e 350 Biologia conservazionista [1], [2] Biologia delle popolazioni [1] Biologia evoluzionistica [1], [2], [3], [4], [5], [6] misurazioni e determinazioni fisiche 190 successione dinastica e 26, 139, 173, 186 Biological Dynamics of Forest [1] Fragments Project [1] Bioma Si veda habitat Bioregioni [1] Bisonte [1] Bivalvi [1], [2], [3], [4], [5] Bock, Walter [1] Bolivar, Canale di [1], [2] Bolivia [1], [2], [3] Borneo [1], [2], [3], [4], [5], [6] Bradipi [1], [2], [3], [4], [5] Brasile [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] avifauna 331

coltivazione del caffè 413-414 industria della gomma 443-444 Si veda anche foresta pluviale, Amazzonica Bromeliacee [1], [2] Browder, John [1] Bruchi [1], [2], [3], [4], [5] Bruyns, Willem Morzer [1] Buchner, Paul [1] Bufali [1], [2] Bulbul (Pycnonotus aurigaster) [1] Buren, William [1] Burgess, scisti di reperti fossili negli 266-268 Bush, Guy L. 111 Caffè [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] California [1], [2], [3], [4], Camaleonte [1] Cambriano, periodo [1], [2], [3] Cammelli [1], [2], [3] Canarino [1] Cancro [1], [2], [3], [4] Canguri [1], [2], [3] Canidi [1] Si veda anche licaone; lupi; coyote Capacità di dispersione [1] Capre [1], [2], [3] Caratteri

come fattori d’isolamento 104 delle popolazioni 98-99, 105 delle sottospecie 102-103 discordanza dei 103-104 dominanti/recessivi 124-125, 132-133, 223, 323 evoluzione dei 116, 121, 127-128, 240-243 genetici/ereditari 104, 132 geografici 105-106 selezione delle specie e 116, 120, 121 speciazione e 75-76, 78, 132 Carbon fossile, giacimenti di [1] Cardellini [1] Carlquist, Sherman [1] Carni bovine [1] Carnivori [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] Carpa [1] Catene alimentari [1], [2], [3], CATIE [1] Cavalli [1], [2], [3], [4], [5] di Przewalski (Equus caballus przewalskii) 457 Cavolo [1] Celacantidi Si veda pesci Cellula [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19] divisione della 108 germinale 108-110, 119 Cenozoica, era [1], [2], [3], [4] Center for Plant Conservation [1]

Center for Restoration Ecology [1] Centinela, catena di Si veda Ecuador Cervello, dimensioni del [1] Cervidi [1] Cetacei [1], [2], [3], [4] balene grigie 231 globicefali 477 misticeti 171, 210 orche 68, 210 Challenger, spedizione del [1] Chenaf [1] Cianobatteri [1], [2], [3], [4], [5], [6] Si veda anche alghe Ciclidi Si veda pesci Cile [1], [2] Cina [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Ciprinodonte di Devil’s Hole [1] Cirripedi [1] Cladistica [1], [2] Clado [1], [2] Classificazione tassonomica [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20] Clima [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16] Si veda anche ambiente; estinzioni in massa, teoria del clima Clonazione [1] Cocaina [1] Coccodrilli [1], [2], [3] Codice genetico [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]

Coleotteri [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18] adattamento all’ambiente 135 cervi volanti 128-129 Chrysomelidae 198 della foresta pluviale 25, 29, 198-199 di Sant’Elena 153 scarabei 36, 55, 97, 311, 387 Si veda anche curculionidi Colibrì [1] Colombia [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Coltivazioni [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] Si veda anche agricoltura Columbidi, frugivori [1] Commensalismo [1] Competizione [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22] Condor [1] della California (Gymnogyps californianus) 457 Conigli [1], [2], [3], [4], [5] Conservation International [1], [2] Conservazione [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] accordi e programmi 439, 442, 460, 462, 464 ex situ 456-459 orientamenti e strategie 388-389, 455-459, 469, 483 strategia dell’ampliamento dell’habitat 313 zone ad alto rischio 313, 360-362, 370, 407, 459, 462 Continente Mondo [1], [2], [3], [4], [5] fauna 176-179

Continenti [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17] Convergenza evolutiva [1], [2] degli uccelli 146, 148, Conway, William [1] Conway Morris, Simon [1] Corallo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] barriere 59, 60, 213, 247-248, 274, 336, 356, 361, 370, 371-372, 374, 381, 460, 467 decolorazione del 371 Corea [1] Corporazione [1], [2], [3], [4], Corvi [1], [2] Costa d’Avorio [1] Costa Rica [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Cover, Stefan [1] Coyote [1] Creazionismo [1] Cretaceo, periodo [1], [2], [3], [4] Si veda anche K-T, strato di confine Crioconservazione [1] Crociere [1] Cromosomi assetto cromosomico aploide 107-108, 119 assetto cromosomico diploide 107-111, 119 assetto cromosomico triploide 107-109 aumento/riduzione del numero 107-110 caratteri influenzati dai 116, 120, 127, 223 mutazioni 120-121, 124, 127, 129, 223-224

negli ibridi 110 speciazione e 107-108, 111 Cronospecie [1], [2], [3], [4] Crostacei [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17] Si veda anche cirripedi; granchi Socorro, isopode di [1] Crotalo, della Malesia [1] Cuba [1], [2], [3], [4], [5], [6] Cuculi [1] Curculionidi, coleotteri rincofori [1], [2] Currie, David [1] Curva area/specie [1], [2] biodiversità e 466 tassi di estinzione e 475-476 Darwin, Charles [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Darwinismo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Si veda anche selezione naturale De Vries, Philip J. [1] Decadimento esponenziale (modello dell’estinzione) [1] Decompositori [1], [2], [3], [4] Deforestazione (diboscamento) [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] della foresta pluviale 377-378, 410 tassi di 377 Si veda anche agricoltura, «taglia e brucia»; curva specie/area; habitat, distruzione dell’ Demi Si veda deriva genetica; inincrocio, depressione da Depressione del Mar Morto [1]

Deriva genetica [1], [2] Devoniano, periodo [1], [2], [3], [4] Diamond, Jared M. [1], [2], [3], [4] Diboscamento Si veda deforestazione Dinosauri [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] Dioscoreophyllum cumminsii 402 Dioum, Baba [1] Dislocamento dei caratteri [1] Dislocamento ecologico [1] Distanza, effetto della [1], [2] Distribuzione geografica [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Ditteri (mosche e moscerini) [1], [2], [3] tripetidi 112 Dna [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] coppie di basi 204 dei batteri 203-205, 207 dei pesci 159, 161 discriminazione di specie affini 130, 414 negli eucarioti 256 progetto Genoma Umano 226 Si veda anche cromosomi; geni Docters van Leeuwen, W.M. [1] Dodo [1], [2] Dodson, Calaway [1], [2] Dolcificanti, naturali [1] Dominanza [1], [2], [3] Si veda anche geni, dominanti/recessivi Down, sindrome di [1], [2]

Drepanidi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], 187 Echidna (mammifero) [1] Echinodermi [1], [2], [3], [4], [5], [6] Ecologia comunità 113, 228, 301 delle biocenosi 228, 249, 252 modello delle aree di formazione ed esaurimento 280-281 principi dell’300-301 raggruppamento di specie e 215-216, 235-238, 243, 248 Economia ecologica [1] Ecosistemi [1] Conservazione [1], [2] della Foresta Nera 220-221 estinzioni 252 in pericolo 37-38, 358, 372, 432 inceppamento degli 37 loro importanza per la biodiversità 46, 221-222, 228-229 loro potenziale economico 416-422, 437-438 Si veda anche biocenosi; conservazione; feltri microbici Ecoturismo [1] Ecuador [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] catena di Centinela 333-334, 362, 381-382 Edwards, Hugh [1] Eisner, Thomas [1], [2] El Niño [1], [2] Eldredge, Niles [1] Elettroforesi [1]

Elettroni [1], [2] Emmel, Thomas [1] Emofilia [1], [2], [3] Emoglobina [1], [2] Endangered Species Act (decreto U.S. 1973) [1] Energia solare [1], [2], [3], [4], [5] Enzimi [1], [2], [3], [4] Eocene, periodo [1] Epifille [1] Epifite [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Epiornitiformi [1] Equilibri punteggiati, teoria degli [1] Equilibrio della natura [1] tra immigrazione ed estinzione 302, 305 Erbacee, piante [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] rachitismo delle (malattia virale) 413 Si veda anche kallar, erba; praterie, ad erba alta Erbivori [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Erwin, Terry L. [1], [2] ESA, teoria della biodiversità [1] Espansione ecologica [1] Estinzione adattamento all’ambiente e 243, 302, 381 causata dall’uomo 61, 142-144, 164, 349 dimensioni della popolazione e 100, 187, 250, 322 effetto sugli ecosistemi 48, 58, 195, 229, 252, 379 probabilità dell’ 187, 298-301 radiazione adattativa e 345, 352

Scenario del Campo di Battaglia [1] tassi di 58, 350, 380, 426 Si veda anche specie estinte Estinzione enfilliana [1] Estinzioni in massa nei fossili dello strato 56-58 principali periodi critici 263 ripresa dopo le 61 teoria del clima 60-61 teoria del meteorite 53-54 teoria vulcanica 54-55 Eterozigosi, o condizione eterozigote [1], [2] Eucarioti [1], [2], [3] Evoluzione [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [37], [38], [39], [40], [41], [42], [43], [44], [45], [46], [47], [49], [50], [51], [52] dei caratteri 133 delle popolazioni 83, 89, 93-102, 115, 117, 122-127, 131, fenotipica 127 genetica 479 per selezione naturale 116-137 sottospecie e 98-105 tassi di 151 umana 86-88, 117 verticale 85-86, 88, 93, 96, 98 Si veda anche macroevoluzione; microevoluzione; speciazione

[12], [24], [36], [48],

Fagiolo della Nuova Guinea (Psophocarpus tetragonolobaus) [1] Falcemia Si veda anemia falciforme Falene/Farfalle notturne [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Antharaea polyphemus 91 bachi da seta giganti 90 Callosamia promethea 91 Hyalophora cecropia 91 Tortricidae 106 nello strato K-T 55 Fao (Food and Agriculture Organization) [1] Farfalle [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22] cavolaia (Pieris rapae) 55, 69 Lycaeides melissa samuelis 329-331 metapopolazioni 328 monarca 176 nello strato K-T 55 ninfalidi 48, 278, 473 numero di specie 29, 214-215, 273, 283 Farmaci, derivati da piante e animali [1], [2], [3] Fase aploide [1] Fase diploide [1] Felci [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Felini [1], [2], [3], [4] categorie tassonomiche 216-217 come predatori 177 dai denti a sciabola 179-180, 338 marsupiali 181, 185

Feltri, microbici [1], [2] Fenetica [1] Fibrosi cistica [1], [2] Filippine [1], [2], [3], [4], [5] Fitoplancton [1] Flessibilità (in contrapposizione alla competizione) [1] Florida: Keys [1], [2], [3], [4], [5] regione del fiume Apalachicola 318-320 Focene [1], [2], [3], [4] Fondatore, effetto del [1] Foraminiferi [1], [2] Foresta Nera, ecosistema della [1] Foresta pluviale amazzonica fauna 35-36 flora 309 speciazione geografica nella 23-38 Si veda anche deforestazione Foresta pluviale asiatica [1] Foresta pluviale biodiversità della 74, 199, 201-202, 272 piovosità 270 potere di rigenerazione della 376 progetto Mcs 309 sfruttamento della 376, 417, 443 sviluppo sostenibile della 389 tassi di estinzione 350 Si veda anche deforestazione; foresta pluviale amazzonica; foresta pluviale asiatica

Formazione/esaurimento, modello delle aree di [1], [2] Formiche [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18] adattamento all’habitat 135 Azteca 34 colonie e sistema delle caste 27, 129 diversità alfa 213 Dorylinae 233-234 espansione ecologica delle 156 guerriere 244, 278 nella foresta pluviale 26-27, 34 nelle reti alimentari 234-235 nello strato di confine 55 numero di specie 26 ponerine 34 schiaviste 212 Solenopsis 238-239 tessitrici 358 Formichieri [1], [2] Fossili [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] barriere coralline 60 del Cambriano 260, 266-267 marini 58, 61, 298 ominidi 86-87 piante 300, 453 prove dell’evoluzione nei 131 specie sorelle 299 uccelli 335

Foster, Robin [1] Fotosintesi [1] decolorazione del corallo e 371 negli ambienti marini 255 Fringuelli [1], [2], [3], [4] del cactus (Geospiza scandens) 149, 239 delle mangrovie (Cactospiza heliobates) 148, 150 dell’isola di Coco (Pinaroloxias inornata) 156 picchio (Cactospiza pallida) 148, 150 terricoli (Geospiza fortis) 239 vampiro 150 veri 150 Si veda anche cardellini Fringuelli, di Darwin [1], [2], [3], [4], [5] dislocamento dei caratteri nei 240-243 flessibilità nell’ecosistema 98 radiazione adattativa 149-150 Frutti [1] Funghi estinzione dei 195, 354-355 loro rapporti con gli alberi 34, 153, 246-247 micorrizici 246, 436 nelle grotte 36 specie di 34 Furetto 457 Galapagos flora 152

radiazioni adattative 149-150, 157 uccelli 149, 155, 239, 241-242 Gap analysis 431 Gas, implicati nell’effetto serra [1] Si veda anche clima; rialzo termico, del pianeta Gasteropodi africani (Achatina fulica) 353 arboricoli (Partula e Samoana) 353 carnivori (Euglandina rosea) 353 platiceridi 317-318 Gaston, Kevin [1] Gef (Global Environment Facility) [1] GenBank [1] Gene(i)/genetico(a) assimilazione 151-152 biodiversità e 129, 131, 223 caratteri e 104, 132 composizione e numero 103, 116, 121, 222, 225-226 depressione da inincrocio e 322-327 dominanti/recessivi 124-125, 223, 323 funzionali 137 letali/difettosi 323-326 omozigoti 125, 323, 326 poligeni 223 polimorfi 224-225 pool 72, 78-82, 105, 119, 242, 325 progetto genoma umano 226 raggruppamenti di 109-110

scambio di 80, 109 speciazione e 70, 80-81 trasferimento diretto di 72, 79, 122-123, 132-133 Si veda anche evoluzione, genetica; ibridazione; mutazione; popolazioni, genetica delle Gentry, Alwyn H. [1], [2], [3], [4], [5] Geografia Si veda area; biogeografia insulare Ghepardo [1], [2], [3] Ghiacciai [1], [2], [3] Giaguari [1], [2], [3], [4] Giappone [1], [2], [3] Giava [1], [2], [3], [4], [5] Giordania [1] GIS (Geographic Information System) [1], [2] Glaciale, era Si veda Pleistocene, epoca Goksøyr, Jostein [1], [2] Gomma, lattice di [1] Gondwana [1], [2], [3], [4], [5] Gorilla [1], [2], [3], [4] Gould, Stephen Jay [1] Gradiente latitudinale della biodiversità [1] Granchi [1] Grande Scambio Interamericano [1], [2] Si veda anche migrazioni Grano [1], [2], [3], [4] Grant, Peter R. [1], [2] Granturco Si veda Mais Graptoliti [1]

Grassle, J. Frederick [1] Grilli [1], [2], [3], [4], 308 Habitat adattamento all’ 37-38, 93, 135 ampliamento dell’ 153 conservazione ex situ dell’ 456-461 distruzione dell’ 149, 340, 347, 356, 358, 381, 459 esteso, o bioma 270-271 regole di raggruppamento e 135, 250, 379 scelta dell’ 90, 93 sviluppo sostenibile dell’ 437-438, 459-460 Si veda anche agricoltura, taglia e brucia; conservazione; curva area/specie; deforestazione Hartshorn, Gary [1] Hawaii flora 97 gasteropodi 97 insetti 141 speciazione 141, 142 uccelli 143, 150 uccelli estinti 186 Higuchi, Russell [1] Himalaya [1], [2] Homo abilis 87-88 Homo erectus 81-82, 87 Homo sapiens 61, 69, 81-82, 86-87, 103, 244, 453 Honduras [1] Hoyt, Erich [1]

Hubbell, Stephen P. [1] Hula (Heteralocha acutirostris) [1] Hutchinson, G. Evelyn [1], 286 Ibis [1] Ibridazione/ibridi fertili 79, 89, 90 fra tigri e leoni 70-73 impollinazione e 79 isolamento riproduttivo e meccanismi 71, 79, 82, 89, 96 per evitare l’ 75 numero di cromosomi negli 107-110 poliploidia e 107 semispecie 79 sterili 89, 109-110 Iguana [1] Iiwi (Vestiaria coccinea) [1] Immigrazione [1] Si veda anche migrazioni INBio, Instituto Nacional de Biodiversidad (Costa Rica) [1] Inca [1], [2] Incrocio fecondazione incrociata 70, 110 fra poliploidi 107-109 fra sottospecie 104-105 meccanismi per evitare l’ 242 Si veda anche gene; ibridazio-ne/ibridi; inincrocio, depressione da India

agricoltura 413 e il «neem» (Azadirachta indica) 392-393 leoni 70 malattie 118 popolazione 70-71 Indonesia [1], [2], [3], [4], [5], [6] Inincrocio, depressione da [1] Si veda anche incrocio Inquinamento [1], [2], [3], [4], [5], [6] Insetti «design» anatomico 267 evoluzione degli 111, 290-291 gruppi sociali 26-27 in pericolo 26, 458 numero di specie 47, 134, 141, 191, 279 piante e 34, 111, 195 radiazione adattativa degli 140-141 razze legate all’ospite 111-112 tassi d’estinzione 261-262 volatori 90, 234 International Agricultural Research Centers [1] International Board for Plant Genetic Resource (IBPGR) [1] International Council for Bird Preservation [1], [2] International Species Inventory System (ISIS) [1] International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN) [1] Invertebrati in pericolo 234, 458

marini 67-68, 207 nelle reti alimentari 422-423 speciazione 201 Ippopotamo nano [1] Indio [1] Isolamento geografico Isolamento riproduttivo [1], [2], [3], [4], [5], [6] adattamento e 105, 124 e speciazione 90, 96, 99 ibridazione e 89-90, 92-93 Israele [1] Ittero 314 James, Helen F. [1], [2] Janzen, Daniel H. [1], [2] Jones, Lee [1] Jordan, Carl [1] Jukofsky, Diane [1] Juniper, Tony 332 Kallar, erba [1] Katemfe (Thaumatococcus daniel-lii) [1] Kew Gardens [1] Klein, Bert [1] Krakatau eruzione esplosiva 39-41 flora e fauna 46-48 modalità di distruzione/ricolonizzazione 41-49 regole di raggruppamento 237-238

Kristensen, Reinhardt [1] Kuna, Indiani [1] K-T, strato di confine [1] Si veda anche estinzioni, in massa Lacertidi [1], [2] varano (Varanus salvator) 43 Lago Vittoria, ciclidi del. Si veda pesci, ciclidi Lamas, Gerardo [1] Laminarie [1], [2] Lanius schach (averla) 48 Latifoglie sempreverdi [1], [2] Laurasia [1] Legno, erba di [1] Lemuridi [1] Leoni [1] marsupiali 345-346 Leucemia [1], [2] Libellule [1], [2], [3], [4] Licaone [1], [2] Lieviti [1] Linden, Eugene [1] Liptoterni [1] Si veda anche cammelli; cavalli Lobeliacee [1] Longevità [1], [2], [3], [4], [5], [6] Lontre [1], [2], [3], [4] Loriciferi [1]

Lovejoy, Thomas E. [1] Lupi [1], [2], [3], [4], [5], [6] della Tasmania 140, 177, 182 grigi 182 marsupiali 347 Lupino selvatico (Lupinus perennis) [1] MacArthur, Robert H. [1], [2] Maca (Lepidium meyenii) [1], [2] Macadamia, noce di (Macadamia ternifolia) [1], [2] Macroevoluzione Madagascar sforzo conservazionista Maiali Si veda suini Mais [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Malaria [1], [2], [3], [4], [5] Malattie [1], [2], [3] delle piante 413, 424 ereditarie 118, 120, 223, 324 Malesia [1], [2] Mammiferi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18] bovidi 135, 404 come specie-chiave 229-235, 248, 477-478 estinzione dei 322, 340-342, 345-347 evoluzione dei 180 marsupiali 140, 179 migrazioni 184 monotremi 176

placentati 140, 187 radiazione adattativa dei 175, 178, 186 rapporto dimensioni/numero di 373 specie 210, 294 Si veda anche animali Mammut [1], [2] Manaus, esperimento di [1] Mangrovie [1], [2], [3], [4] Manioca [1] Maori [1], [2] Marsupiali [1], [2], [3] gatti e leoni 178, 179, 181, 185, 345 lupi 140, 347 Martin, Paul S. [1] Marx, Jean [1] Mastodonti [1], [2] Mauritius [1], [2] Mayr, Ernst [1], [2] MCS, Minimum Critical Size of Ecosystems Project [1] Mediterraneo, Mare [1], [2], [3], [4] Meduse [1], [2], [3] Mendelsohn, Robert [1] Merck & Co, casa farmaceutica [1] Mesozoica, era [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] Messico [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14] Metabolismo [1], [2] Metano [1]

Metapopolazioni [1], [2] Meteoriti Si veda estinzioni in massa, teoria del meteorite Meyer, Axel [1], [2] Microevoluzione [1], [2], [3] Microrganismi Si veda batteri; protozoi Migrazioni [1], [2] degli uccelli 317 dei mammiferi 184 delle farfalle 276 verticali, dei pesci 173 Si veda anche Grande scambio interamericano Mimi [1] Misure e determinazioni categorie di classificazione 219 delle specie 99, 105, 270 per i programmi di conservazione 100 per organizzazione gerarchica 142, 216 per raggruppamento 216, 218, 267, 296, 298, 348 in base al valore opzionale 423 Mitili [1], [2] Mittermeier, Russel [1] Moa [1], [2] Moa-nalos [1] Molluschi capacità di dispersione 134-135 come riserva alimentare per i pesci 159, 163, 172 tassi di estinzione 58, 135 Molothrus ater (ittero) 314

Moorea [1], [2] Mosche, si veda ditteri Muir, John [1] Muschi [1], [2], [3], [4], [5] Mustela nigripes (furetto) 457 Mutazione deriva genetica e 106, 117, 121, 125, 218 natura casuale della 116, 121 processo della 121 tipi di 117-121 Mutualismo [1] Myers, Norman [1], [2], [3], 409 Nadkarni, Nalini [1] Nascite, controllo delle [1] National Collection of Endangered Plants [1] Nature Conservancy [1], [2] Nazioni Unite [1] Neem (Azadirachta indica) [1] Neotropical Biological Diversity Program [1] Neodarwinismo [1], [2] Nettarinidi [1], [2] New England River Basins Commission [1] New Environmentalism Si veda Nuovo Ambientalismo New York Zoological Society [1] Nord America Mammiferi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] uccelli 93, 96

vita nelle foreste 146, 230, 338 Norton, Bryan [1], [2] Nukupuu (Hemignathus lucidus) [1] Nuova Caledonia [1] Nuova Guinea [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] estinzioni 347 Monti Arfak piante coltivate ai fini alimentari 74 speciazione geografica 74 uccelli 55 Nuova Zelanda fauna 148, 152, 211, 219, 336, 342-345 flora 295, 297, 313, 382 Nuovo Ambientalismo [1] O’Brien, Stephen J. [1] Odori sessuali [1] Olanda [1], [2] Olmaria (Filipendula ulmaria) [1] Olson, Storrs L [1], [2] Opossum [1], [2] Orchidee [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17] Ordoviciano, periodo [1], [2], [3], [4] Orice, d’Arabia, (Oryx leucoryx) [1] Oritteropo [1] Ornitorinco [1] Orti botanici [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]

Ossigeno [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Ou (Psittirostra psittacea) [1] Owen-Smith, Norman [1] Ozono, strato di [1], [2], 388 Paine, Robert [1] Pakistan [1] Paleoindiani [1], [2], [3] Paleozoica, era [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Paley, William [1] Palma babassu (Orbignya phalerata) [1] Panama [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Panda [1], [2], [3], [4], [5] Pangea [1], [2] Pantere [1] Pappagalli [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Parassiti degli esseri umani 45, 66, 111-112, 137, 232, 235, 243-244, 252, 278, 295, 311, 412, 414-415, 436 degli uccelli 314 del sangue 75, 118, 121 squali 166, 171 speciazione simpatrica dei 110-111 Parrocchetto, della Carolina (Conuropsis carolinensis) [1], [2] Parulidi [1], [2], [3], [4], [5] Dendroica kirtlandii 314 Dendroica petechia aureola 156 Vermivora bachmanii 315 Passeri [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]

passera mattugia (Passer montanus) 325 Pavoncella (Vanellus vanellus) [1] Pechino, uomo di [1] Pecore [1], [2], [3] Peirce, C.S. [1] Penisola Arabica [1] Perca [1], [2] del Nilo (Lates niloticus) 164, 352, 468 Pérez, Tila [1] Permiano, periodo [1], [2] Perù [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Mishana, appezzamento di [1], [2] Pervinca, rosea [1], [2], [3] Pesci [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] celacantidi 219 ciclidi 158-159, 162, 164 come risorsa alimentare 67, 168, 336 d’acqua dolce 161-162, 351-352 nelle reti alimentari 409-410 nototeniidi, perciformi 36 placodermi 59 radiazione adattativa dei 157 Peters, Charles [1] Peterson, Roger Tory [1], [2] Phyla, animali [1], [2], [3] Piani anatomici (dimensioni e forma corporee) [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] Piante/organismi vegetali [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21]

come risorsa alimentare 46, 111, 239, 244, 246, 250, 296, 396, 399-404, 411-412 composite 152-155, 473 energia solare e 66-67 epifite 282 erbacee 46-47, 153-155, 302, 304-305, 329, 334, 387, 413, 447 estinzione delle 296, 299, 326, 349-350, 356 evoluzione delle 299 funghi e 247, 438 insetti e 134, 195, 357, 430 legnose 410, 437 medicinali 416, 418, 437-438 numero di specie 191, 205, 249, 301, 356, 367 radiazione adattativa delle 152-153 rampicanti 281 vascolari 272 Picchi [1], [2], [3], [4] alimentazione 145 Campephilus imperialis 146, 348, 350 Campephilus principalis 100 Colaptes auratus 146, 148 Picoides borealis 314 veri (Picidae) 146-147 Pidocchi [1], [2], [3] Pigliamosche [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Pimm, Stuart L. [1], [2] Pine barren 329 Pini [1], [2], [3]

Pioggia acida [1], [2] Piovosità [1] Pipistrelli [1], [2], [3], [4] fillostomidi vampiri Pitone reticolato [1], [2] Plancton [1], [2], [3] Pleistocene, epoca [1], [2], [3], [4] Poiana comune [1] Polimorfismo [1] Polinesia [1], [2], [3] Poliploidia [1] Polline [1], [2], [3] ibridazione e 56, 79, 92 Polonia [1] Pomodori [1], [2], [3], [4], [5] Popolazione/i come sottospecie 79, 96, 99, 103, 105 demi 100-101 dimensioni 149, 280, 301, 305, 306, 312-315, 321-324, 464, 465 e principio del fondatore 124 evoluzione delle 78, 85, 87, 96-98, 105, 115 genetica delle 79, 89, 99, 120-125, 127, 131, 323-326 in cattività 456-457 locali 340, 352, 467 metapopolazioni 327, 329, 331 sviluppo demografico 163, 280, 365, 374 umane 70, 88, 225, 296, 337, 345, 425

Si veda anche curva area/specie Praterie, ad erba alta [1] Predatori [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28] Si veda anche parassiti Primati [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Procarioti [1], [2], [3], [4] Procioni [1], [2] Progetto genoma umano [1] Programma Biotrop [1] Prospezione chimica [1] Protozoi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] Pseudonestor xanthophrys 144 Pseudoscorpioni [1], [2], [3] Puerto Rico [1], [2] Puma [1], [2], [3], [4] Si veda anche pantera 104, 458 Quantitativa, teoria [1] Quarzo, shock del [1], [2], [3] Quaternario, periodo [1] Queensland, noce del (Macadamiaternifolia) [1] Si veda anche macadamia, noce di Querce [1], [2], [3], [4], 374 Rachitismo, delle piante erbacee (malattia virale) [1] Radiazione adattativa [1], [2], [3], [4], [5], [6]

degli animali marini 168, 172 degli uccelli 143-146, 149-150, 155, 157, 163, 165, 240-241, 338, 342 dei gruppi dominanti 173-187 dei pesci 161, 163-165, 351-352 delle piante 152-153 dislocamento dei caratteri nella 241 estinzione e 178 insetti e 140-141 mammiferi e 175-176, 178, 186-187, 241, 342, 345 sciami di specie 161-162 Si veda anche successione dinastica Rafano [1] Rafting [1] Raggruppamento, regole di [1], [2], [3], [4], [5] Ragni [1], [2], [3], [4], [5] licosidi 24 nelle reti alimentari 278 Salticidae 91, 198, 209 «volo in mongolfiera» dei 42 Rakata Si veda Krakatau Rallo, di Guam (Rallus owstoni) [1] Rane [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Rapaci diurni (falconiformi) albanelle 72, 249 astore 220-222 poiana comune 72, 222 sparviero 222

Rapid Assessment Program (RAP) [1] Rapoport, Eduardo [1] Ratti ratto canguro 177 ratto nero (Rattus rattus) 475 Raup, David M. [1] Razze umane 476-477, 479-480 legate all’ospite 111-112 Si veda anche estinzione causata dall’uomo; Homo sapiens; sottospecie; specie Red Data Books 348 Repubblica Dominicana [1], [2], [3] Reti alimentari biodiversità e 37, 66-67 catene alimentari nelle 249-250 specie estinte e 37 Rettili [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26] Si veda anche dinosauri; lacertidi; serpenti; tartarughe; testuggini Rialzo termico, del pianeta [1] Si veda anche clima Ricci, di mare [1] Rinoceronti di Giava (Rhinoceros sondaicus) 356-357 di Sumatra (Didermocerus sumatrensis) 458 Riproduzione [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Si veda anche incrocio; inincrocio, depressione da; isolamento,

riproduttivo; poliploidia. Riso [1], [2], [3], [4], [5] Roditori [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] Si veda anche ratti; topi Ruanda [1], 419 Sabrosky, Curtis [1] Saccarosio [1] Salamandre Anfiuma monodattila [1], [2] Plethodon cinereus 1400-101 Plethodon elongatus 356 Rhyacotriton olympicus 356 Salicornia [1] Salmerino [1] Salomone, isole [1] Samuelson, Paul [1] Sanguisughe [1], [2], [3] Sant’Elena, isola di [1], [2], [3] Scambio debito-natura [1] Schopf, J. William [1] Sciami, di specie (species flocks) [1], [2], [3] Scimmie [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Scriccioli [1] Selezione, artificiale [1] Selezione naturale a livello di organismo 120, 134 a livello di popolazione 122, 134

a livello di specie 113, 129, 133 contrapposta alla deriva genetica 123 evoluzione per 116, 131 mutazioni favorite dalla 118, 137 pressioni esercitate dalla 121 specializzazione e 85-86, 317 Semispecie [1] Semi banche dei 455-456, 458 di alberi 46, 136, 376 produzione dei 231, 400 trasportati e dispersi dagli uccelli 295 Scenario del campo di battaglia [1] Sepkoski, J. John Jr [1] Sequoie [1], [2] Serpenti crotalo della Malesia 393 viperidi 29 pitone reticolato 45, 47 Sherry, Thomas [1] Siberia [1], [2], [3], [4], [5], [6] Simberloff, Daniel S. [1] Simbiosi [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Sintesi biotica [1] Sistema di analisi statistica (SAS) [1] Sistematica [1], [2], [3], [4] Skùlason, Skùli [1] SLOSS, problema [1], [2]

Smithsonian Institution [1] SMS (Safe Minimum Standard) per la conservazione delle specie [1] Socorro, isopode di (Thermosphaeroma thermophilum) [1] Sostituzioni/sequenze, nucleotidiche [1], [2], [3], [4] Sottospecie [1], [2], [3] Si veda anche specie Southwood, Richard [1] Specializzazione estinzione e 162, 320 selezione artificiale e 451 Speciazione allopatrica 110 caratteri e 111, 135, 300 degli ominidi 87-89 dei mammiferi 186 evoluzione verticale e 85-86, 93, 98 geografica 93, 98-99, 110 poliploidia e 106-108, 111 simpatrica 110-111, 112 Si veda anche evoluzione, verticale Specie affollamento e concentramento delle 108, 250, 314 chiave 229-235, 248, 422 cronospecie 81-82, 84, 88, 296, 477, 478 dispersione delle, grazie ad altre specie 98, 134, 135, 154-155, 291 ermafrodite 80-81 filogenetiche 80, 139, 217 formazione delle 80, 88, 113, 123, 130, 134-135, 146, 152, 157,

268, 280, 368 fuggitive 331 longevità delle 133, 135-136, 186, 296, 299-301, 325 numero di 45-48 nuove scoperte 30, 190-191, 334 origine delle 85-86, 89, 93 partenogenetiche 80-81 rapporto habitat/specie 379 regole di raggruppamento 235-238, 243, 248 semispecie 79 serie di 133 sottospecie 98-105, 115, 212, 348, 354, 400, 460 specie sorelle 76, 77, 78, 79, 113, 211, 212, 299 trasferimento delle 409, 442, 461 Si veda anche biodiversità; curva area/specie; evoluzione, verticale; misure e dterminazioni delle specie; specie biologica, concetto di; specie minacciate e in pericolo Specie, estinte/estinzione dinosauri 51-58, 134, 165, 174, 178, 181, 261, 263, 265, 338, 341 Heterolocha acutirostris 148, 152 mammiferi 176, 184, 230, 339 molluschi 54, 58, 134-135, 156, 158-159, 163, 172, 174, 201, 243, 285, 298, 321, 352-353 pesci 164, 351 piante 354-366 rigenerazione delle 33, 371, 375, 376, 446, 448 uccelli 152, 322, 340 Specie biologica, concetto di determinazione dell’identità delle sequenze nucleotidiche e scissione e raggruppamento [1], [2], [3],

[4], [5], [6], [7] Squali [1], [2] Sri Lanka [1], [2], [3], [4] Stanley, Steven M. [1], [2] Stati Uniti, specie in pericolo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Steadman, David W. [1] Stelle di mare [1], [2], [3], [4], [5] Storia naturale [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11] Stork, Nigel [1] Storno, di Bali (Leucopser rothschildi) [1] Strigiformi [1], [2] Strix occidentalis 355 Stromatoliti [1], [2] Strumenti, loro uso nei fringuelli 151-152, 157, 241-242 nell’uomo di Pechino 87-88 Successione dinastica [1], [2], [3], [4], [5] Sud Africa [1], [2], [3], [4] Sud America felini 185, 231 formazione di specie 184 insetti 198 mammiferi 176, 178, 184-186 numero di specie 178-179 Suini domestici 408-409 maiali 382, 404, 408 rinselvatichiti 406

Sula, isole [1] Sule [1] Sumatra [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Lago Toba [1], [2] Sumbawa [1] Sviluppo embrionale [1], [2] Sviluppo sostenibile [1] Taglio a strisce [1], [2] Tahiti [1] Tamarino (Leontopithecus rosalia) [1], [2] Tambora [1] Tanzania [1], [2], [3] Tapiri [1], [2], [3], [4], [5], [6] Tartarughe [1], [2], [3], [4] di fiume (Podocnemis expansa) 404-405, 408-409 Graptemys barbouri 318-319 Tasso (Taxus brevifolia) [1] Tassonomia Si veda classificazione; sistematica Taxon, ciclo del [1], [2] Tay-Sachs, sindrome di [1], [2], [3] Temperatura Si veda clima Tennessee Valley Authority [1] Teratorni [1], [2] Terborgh, John [1], [2], [3], [4] Termiti [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] costruttrici di termitai a tumulo 251 Terzo Mondo/Paesi in via di sviluppo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]

Testuggini [1], [2], [3] Thornton, Ian W.B. [1], [2] Tigri [1] con i denti a sciabola 179 siberiane 458 Tobin, John [1] Topi [1], [2], [3], [4] Torreya (Torreya taxifolia) [1] Torsvik, Vigdis [1] Toxodonti [1], [2], [3], [4] Tratti Si veda caratteri Triassico, periodo [1], [2], [3] Trilobiti [1] Tripetidi Si veda ditteri Tropici Si veda foresta pluviale; foresta pluviale amazzonica; foresta pluviale asiatica Tuatara (Sphenodon punctatus) 343 Uccelli adattamento all’ambiente 93, 151 assimilazione genetica 151-152 come discendenti dei dinosauri 181 comportamenti diversi dei fringuelli 150-151, 155-157 convergenza evolutiva 146 divoratori di carogne 338 durata della vita, studio sulla 301, 312 esotici 144, 468 estinzione degli 152, 384-385 migratori 317

numero di specie 301-302, 381 parassiti degli 314 radiazione adattativa 150, 152

trasporto di semi da parte degli 295-296 Ultravioletta, radiazione [1] Unità, naturali [1], [2], [3], [4] Uomini-scimmia [1], [2] Vavilov, centri di [1] Vegetariana, dieta degli australopitechi [1] Vertebrati [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10] Vespe [1], [2] Violette africane [1] Viperidi [1] Vischio, della Nuova Zelanda (Trilepidea adamsii) [1], [2], [3] Volpi [1], [2] Vulcani/eruzioni vulcaniche 39-41, 49, 50-51, 59, 60 a livello dello strato K-T 54-58 Si veda anche estinzioni in massa, teoria vulcanica Webb, S. David [1] Werner, Dagmar [1] Werner, Tracey [1] Whittemore, Alan [1] Wille, Chris [1] WWF (World Wildlife Fund) 464 Zambia [1] Zanzare [1], [2], [3], [4], [5], [6] come vettori della malaria 75 Zigotteri [1], [2], [3], [4] Zone ad alto rischio [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]

Zoo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9] Zooplancton [1], [2] Zucchero di canna [1], [2]

INDICE GENERALE

L’epopea della diversità di Telmo Pievani PARTE PRIMA La violenza della natura, la resilienza della vita 1. Temporale in Amazzonia 2. Krakatau 3. Le grandi estinzioni PARTE SECONDA L’ascesa della biodiversità 4. L’unità fondamentale 5. Specie nuove 6. Le forze dell’evoluzione 7. La radiazione adattativa 8. La biosfera inesplorata 9. La creazione degli ecosistemi 10. La biodiversità raggiunge l’apice PARTE TERZA L’impatto dell’uomo 11. Vita e morte delle specie 12. La biodiversità in pericolo 13. Ricchezze non sfruttate 14. Decisioni 15. L’etica ambientale Note bibliografiche Glossario

Ringraziamenti Gli autori delle illustrazioni Indice analitico